Il Positivismo Positivismo giuridico Introduzione. (pag. 3 – 11) Diritto naturale e diritto diritto positivo nel pensiero pensiero classico
Il positivismo giuridico non ha niente a che vedere con il positivismo filosofico, tanto che il primo sorge in Germania e il secondo in Francia. L’espressione positivismo giuridico deriva dalla locuzione diritto positivo contrapposta a quella di diritto naturale. Si tratta di una distinzione che troviamo già in Aristotele in questi termini: Diritto positivo: ha efficacia solo nelle singole comunità politiche in cui è posto e stabilisce azioni che ciò che conta è che siano compiute nel modo prescritto dalla legge; Diritto naturale: ha ovunque la stessa efficacia e prescrive azioni il cui valore esiste a prescindere dal fatto che appaiano buone agli uni o cattive agli altri. Un’altra distinzione deriva dal Diritto romano, dove il ius civile si può far corrispondere al Diritto positivo e il ius gentium gentium al Diritto naturale. Il primo è limitato ad un dato popolo popolo ed è posto da esso, il secondo non ha confini ed è posto dalla naturalis ratio. Inoltre, mentre il primo muta per consuetudine o per via di una nuova legge, il secondo è immutabile. Una terza distinzione è riportata da Paolo nel Digesto, per cui: Diritto positivo: è un diritto particolare che stabilisce ciò che è utile; Diritto naturale: è un diritto universale che stabilisce ciò che è buono. Diritto naturale e Diritto positivo nel pensiero pensiero medievale
Il primo uso della forma ius positivum si trova in un filosofo medievale verso la fine dell’XI sec., Abelardo, il quale distingue il Diritto positivo, in quanto posto dagli uomini, dal Diritto Dir itto naturale, in quanto posto da qualcosa al di sopra come Dio o la natura. S. Tommaso prosegue nella distinzione individuando 4 tipi di legge: lex aeterna, lex naturalis, lex humana e lex divina, dove la naturalis e la humana corrispondono alla distinzione fra Diritto naturale e positivo. Per S. Tommaso la lex humana deriva da quella naturale o per conclusionem per conclusionem (se la legge deriva da un processo logico necessario) o per determinationem per determinationem ( se la legge naturale è generale e il diritto positivo determina come applicarla). Diritto naturale e Diritto positivo nel pensiero pensiero dei giusnaturalisti giusnaturalisti del Sei e Settecento Settecento
Un’altra distinzione importante è quella fatta da Grozio, il padre del Diritto internazionale, per il quale il Diritto civile è quello che deriva dal potere civile, ciò che sovraintende lo Stato. Tuttavia, possono produrre diritto altre due istituzioni, in ordine ordine quindi: Comunità internazionale: internazionale : pone lo ius gentium inteso come diritto che regola i rapporti tra i popoli o Stato; la Famiglia: Famiglia: che da luogo al Stati; Stato; al diritto familiare o paterno. Per Per fare un ultimo esempio esempio possiamo riferirci alla fine del del 700 al Glück che che nel suo “Commento “Commento alle pandette”, pandette”, distingue i due diritto a seconda di come i destinatari ne vengono a conoscenza: il Diritto naturale attraverso la ragione, quello positivo attraverso il legislatore. Infine possiamo dire che la sfera del Diritto naturale si limita a ciò che si dimostra a priori, quella del Diritto positivo invece dipende dalla volontà del legislatore. Capitolo I – I presupposti storici. (pag. 13 – 34) Rapporti fra diritto naturale naturale e diritto positivo positivo
Nell’epoca classica classica il diritto naturale non era era considerato superiore superiore al diritto positivo, il primo veniva concepito come diritto comune il secondo come diritto particolare o di una data civica; pertanto, in base al principio secondo secondo cui il diritto particolare prevale prevale su quello generale, generale, era il diritto positivo a prevalere su quello naturale. Nel medioevo invece, tale rapporto si capovolge a favore del diritto naturale visto ora come una norma fondata sulla stessa volontà di Dio. Tuttavia, entrambi erano ancora qualificati nella stessa accezione del termine; il positivismo giuridico nasce invece, quando viene considerato diritto in senso proprio solo il diritto positivo. Il positivo. Il positivismo giuridico è quella dottrina secondo cui non esiste altro diritto se non quello positivo. Lo sfondo storico storico del positivismo giuridico. giuridico. La posizione posizione del giudice in ordine ordine alla formazione formazione del diritto prima e dopo il sorgere dello Stato moderno.
L’origine di questa concezione (quella relativa al diritto positivo) è legata alla formazione dello Stato moderno che sorge sulla dissoluzione della società medievale, una società pluralistica in cui il diritto si presenta come fenomeno sociale prodotto dalla società civile. Con lo Stato moderno invece, la società assume una struttura monistica per cui lo Stato accentra in sé tutti i poteri, in primis quello di creare diritto. Lo Stato primitivo in generale generale non si preoccupa preoccupa di produrre norme norme giuridiche, lascia piuttosto tale formazione allo sviluppo della società e al giudice che fisserà di volta in volta la regola da applicare. Attraverso la figura del giudice, che segna il passaggio dal diritto non statuale al diritto statuale, statuale, giungiamo a definire il diritto come come un complesso complesso di regole obbligatorie, in quanto la loro violazione produrrà l’intervento di un terzo. Se tale intervento non è previsto, si dirà che che quella società vive vive secondo usanze, usanze, costumi costumi etc. Prima della formazione formazione dello Stato moderno, il giudice poteva risolvere le controversie scegliendo norme desunte da regole di costume o elaborate dai giuristi o in base a criteri equitativi, in quanto erano tutte alla stessa stregua fonti del diritto. Con la formazione dello Stato moderno moderno invece, il giudice diventa organo organo dello Stato e titolare del potere giudiziario che gli impone di risolvere le controversie in base alle regole emanate dall’organo legislativo. Di questo stato di cose troviamo un riflesso nella concezione concezione dei giusnaturalismi, che ritenevano l’intervento dello Stato unicamente diretto a rendere stabili i rapporti giuridici presenti già nel diritto naturale. Le vicende storiche storiche del diritto romano romano
Il diritto romano era un diritto di formazione sociale, costituitosi attraverso uno sviluppo secolare secolare sulla base dei mores, della giurisdizione pretoria e dell’elaborazione dei giurisprudenti. Tale complesso di norme venne raccolto da Giustiniano, nel corpus iuris civilis, civilis, in modo che esse trovassero fondamento nella volontà del principe secondo la formula del Codex. Il diritto romano si eclissò on Europa occidentale durante l’alto medioevo, sostituito dalle consuetudini locali e dal nuovo diritto proprio delle popolazioni germaniche. Risorse poi verso il Mille col sorgere della Scuola giuridica di Bologna e si diffuse sui territori che erano stati sotto il dominio dell’Impero Romano ma anche al di là di questi. Il vero fondamento della validità del diritto romano sta nel considerarlo come un complesso di regole razionalmente fondate, esprimenti l’essenza della ragione giuridica e idonee ad essere usate per risolvere tutte le possibili controversie. I giuristi medievali pensavano che che il diritto romano avesse avesse enunciato norme giuridiche fondate fondate su natura e religione, religione, e lo assumevano, pertanto, come una sorta di diritto naturale che nei confronti del diritto naturale aveva il grande vantaggio di essere scritto. Nel medioevo perciò lo ius commune (il diritto romano) si contrappone allo ius proprium (il diritto delle varie istituzioni sociali) decretando sempre la supremazia del primo sul secondo. Ma a poco a poco le civitates proclamarono la loro autonomia, dichiarandosi forniti del potere di porre diritto. Si viene a creare quindi un conflitto fra lo ius commune lo ius proprium in cui il secondo finirà per prevalere e il primo necessiterà dell’approvazione dell’approvazione del Sovrano. Il termine finale del contrasto fra diritto comune e diritto statuale è rappresentato dalle codificazioni attraverso le quali il primo viene totalmente assorbito nel secondo. Da qui inizia la storia del positivismo giuridico vero e proprio. Common law e Statute law in Inghilterra: Sir Edward Coke e Thomas Hobbes
Per chiarire le origini del positivismo giuridico è interessante analizzare analizzare anche lo sviluppo del diritto in Inghilterra. Anche in questo paese il diritto romano ebbe la sua piccola influenza, motivo per il quale troviamo anche anche in esso il conflitto conflitto fra ius commune commune e ius particolare e più più specificatamente fra common law e statute law. law. La common law è un diritto consuetudinario consuetudinario tipicamente anglosassone che sorge direttamente dai rapporti sociali ed è accolto dai giudici nominati dal re. Alla common law si contrappone il diritto statutario, posto dal potere sovrano. Differentemente dall’Europa continentale il Inghilterra permane il primato del diritto comune anche quando la monarchia si rafforza e si trasforma da medievale a moderna. Secondo una distinzione costituzionale dell’Inghilterra medievale, il potere sovrano si distingue infatti in gubernaculum in gubernaculum:: potere di governo e jurisdictio e jurisdictio:: potere di applicare le leggi, nell’esercitare quest’ultimo potere il Re è vincolato ad applicare la common law. I sovrani assolutisti come Giacomo I e Carlo I tentarono di far valere la preminenza assolta del diritto statutario, ma trovarono una ferma opposizione di cui
massimo portavoce fu Edward Coke. Sul piano dottrinale uno degli aspetti della polemica è la critica che Thomas Hobbes mosse a Coke. Nello stato di natura secondo Hobbes esistono delle leggi ma l’uomo è tenuto a rispettarle in coscienza di fronte all’altro solo se e nei limiti in cui l’altro le rispetta nei suoi confronti. Pertanto, nello stato di natura, in cui ognuno ha diritto di usare la forza necessaria a difendere i propri interessi, viene a mancare la certezza che la legge venga rispettata da tutti. Risulta quindi necessario creare lo Stato che costringerebbe a rispettare le leggi anche quelli che non volessero farlo spontaneamente. Tuttavia, va ora sottolineato che se da una parte lo Stato ha il potere di porre norme regolanti i rapporti sociali, dall’altra solo le norme poste dallo Stato sono norme giuridiche, ne segue dunque che cessa di avere valore il diritto naturale. Per Hobbes dunque, Diritto è ciò che colui o coloro che detengono il potere potere sovrano ordinano ai sudditi, proclamando proclamando quali cose essi possono e quali non possono fare. In questa definizione troviamo due caratteri tipici della concezione positivistica del diritto: il formalismo il formalismo,, in quanto la definizione di diritto è data solo in base all’autorità che pone le norme, e quindi in base ad un elemento puramente formale; e l’imperativismo l’imperativismo,, in quanto il diritto è definito come il complesso di norme con cui il sovrano ordina o vieta comportamenti ai suoi sudditi, per cui il diritto è un comando. La monopolizzazione monopolizzazione del diritto da parte parte del legislatore legislatore nella concezione concezione assolutistica e in quella liberale. Montesquieu e Beccaria
Oltre al pensiero di Hobbes che possiamo semplificare nel desiderio che non vi sia altro potere se non quello dello Stato riducendo la religione ad un servizio, riscontriamo una visione liberale che si basa sul concetto concetto di tolleranza religiosa. religiosa. Lo Stato liberale liberale lascia che il contrasto contrasto stesso si svolga svolga entro i limiti dell’ordinamento giuridico posto dallo Stato stesso. Il passaggio da concezione assolutistica a concezione liberale, non implica un contrasto così drastico. Infatti, la concezione liberale accoglie la soluzione data dalla concezione assolutistica al problema dei rapporti tra legislatore e giudici: cioè il cosiddetto dogma dell’onnipotenza del legislatore. Da una parte tale teoria elimina i potere intermedi e attribuisce un potere pieno, esclusivo e illimitato al legislatore, sottolineandone l’aspetto assolutistico, assolutistico, ma ne presenta anche uno liberale garantendo il cittadino dagli arbitrii di detti poteri. A questo scopo, il pensiero liberale, ha escogitato espedienti costituzionali: la separazione dei poteri: poteri: per cui il potere legislativo è attribuito ad un corpo collegiale che agisce accanto ad esso con la conseguenza che il governo è subordinato alla legge; la rappresentatività: rappresentatività: per cui il potere legislativo è espressione dell’intera nazione, nazione, mediante la tecnica della rappresentanza politica. Questo secondo espediente rappresenta il passaggio dalla concezione strettamente liberale a quella democratica. Lo stretto rapporto fra f ra concezione assolutistica e concezione liberale riguardo la teoria della monopolizzazione monopolizzazione del diritto da parte dello Stato, può essere dimostrato dal fatto che spesso gli antipositivisti moderni condussero la loro polemica nei confronti confronti dei pensatori liberali liberali più che assolutisti. assolutisti. Com’è noto Montesquieu Montesquieu è il teorico della separazione dei poteri e Beccaria il precursore di una concezione liberale del diritto. Questi due autori sono considerati responsabili della monopolizzazione del diritto da parte del legislatore. Secondo il primo la decisione del giudice doveva essere una riproduzione fedele della legge, in quanto la subordinazione subordinazione dei giudici alla legge meglio garantisce la sicurezza sicurezza del diritto permettendo al cittadino cittadino di sapere se il suo comportamento comportamento è conforme o meno meno alla legge. I medesimi concetti sono stati ripresi da Beccaria per il quale il giudice non solo non può irrogare irr ogare pene se non nei casi e limiti previsti dalla dalla legge, ma non può interpretare la norma norma giuridica in quanto darebbe alla legge un senso diverso da quello datole dal legislatore. Beccaria espone poi la “teoria del sillogismo”, secondo la quale il giudice nell’applicare le leggi deve fare come colui che trae la conclusione da un sillogismo rendendo esplicito ciò che è già implicito. La sopravvivenza sopravvivenza del diritto naturale naturale nella concezioni concezioni filosofico - giuridiche giuridiche del razionalismo razionalismo nel settecento. Le lacune del diritto.
E’ indispensabile non dimenticare che nel pensiero del 700 hanno ancora pieno valore i concetti base della filosofia giusnaturalistica, giusnaturalistica, quali quali lo stato di natura, la legge legge naturale, il contratto contratto sociale. Le conseguenze di questa concezione si manifestano in un caso che segna il limite dell’onnipotenza
del legislatore, il caso della lacuna della legge. Mentre i giuspositivisti, escludendo il ricorso al diritto naturale, negheranno l’esistenza di tali lacune, gli scrittori del 600 e del 700 affermano che il giudice debba applicare il diritto naturale. Questa soluzione è perfettamente logica per chi ammette che il diritto positivo si fondi sul diritto naturale. La funziona surrogatrice del diritto naturale nel caso di lacune del diritto positivo è una concezione tanto diffusa da poter essere considerata d’opinione comune. Ad esempio Hobbes vede un limite all’onnipotenza del legislatore umano nel fatto che questi, non essendo Dio, non può prevedere tutte le circostanze. Secondo un trattato scolastico di diritto naturale, questo ha vigore particolarmente in tre campi: si applica principaliter nei rapporti fra gli stati, principaliter nei rapporti fra principe e sudditi e subsidiarie nel caso di lacune del diritto positivo. Capitolo II – Le origini del positivismo giuridico in Germania. (pag. 35 – 54) La “Scuola storica del diritto” come preparatrice del positivismo giuridico. Gustavo Hugo
Poiché il diritto naturale venga meno del tutto è necessario che i miti giusnaturalistici scompaiano dalla coscienza dei dotti. Tali miti erano legati ad una concezione filosofica razionalistica, ma grazie alla polemica antirazionalistica condotta dallo storicismo nella prima metà dell’800, avvenne la sconsacrazione del diritto naturale. Nel campo filosofico – giuridico lo storicismo diede vita alla scuola storica del diritto, che preparò il positivismo giuridico attraverso la sua critica radicale del diritto naturale. La prima opera espressione della Scuola storica è Trattato del diritto naturale come filosofia del diritto positivo di Gustavo Hugo, il titolo stava a significare che il diritto naturale era ora concepito come un insieme di considerazioni filosofiche sullo stesso diritto positivo. L’autore risolve perciò il diritto naturale in un insieme di concetti giuridici generali elaborati sulla base del diritto positivo ed è per questo che possiamo dire che l’opera di Hugo segna il passaggio dalla filosofia giusnaturalistica a quella giuspositivistica. Hugo ritiene il diritto positivo come quello posto dallo Stato, (perciò il diritto internazionale come diritto tra gli Stati è più che altro una specie di norma morale) ciò non significa però che per “diritto posto dallo Stato” egli intenda esclusivamente quello posto dal legislatore. I caratteri dello storicismo. De Maistre, Burke, Möser
Ciò che caratterizza lo storicismo è il fatto che esso consideri l’uomo nella sua individualità e in tutte le varietà che essa comporta in contrapposizione col razionalismo che considera invece l’umanità astratta. I caratteri dello storicismo possono essere suddivisi in 5 punti: 1. Il senso della varietà della storia dovuta alla varietà dell’uomo stesso: esistono tanti uomini, diversi tra di loro a seconda della razza, del clima, del periodo storico, e non un unico uomo uguale e immutabile. De Maistre esprime meglio di tutti questo atteggiamento degli storicisti in polemica con i razionalisti; 2. Il senso dell’irrazionale nella storia: la molla della storia è la non – ragione, l’elemento passionale ed emotivo dell’uomo, l’impulso, la passione, il sentimento. Nei confronti di questa concezione storicistica, che fa protagonista della storia l’irrazionale, Lukacs ha parlato polemicamente di distruzione della ragione. 3. Strettamente connessa all’idea dell’irrazionalità della storia è quella della sua tragicità: mentre l’illuminista è ottimista perché crede che l’uomo possa migliorare la società, lo storicista è pessimista perché non condivide questa fiducia. (Questo atteggiamento è ben illustrato da Burke). 4. Un altro carattere dello storicismo è l’elogio e l’amore per il passato: non avendo fiducia nel futuro gli storicisti hanno grande ammirazione per il passato. Anche qui troviamo un forte contrasto fra razionalisti e storicisti soprattutto a proposito del medioevo, considerato di primi come un’età oscura e barbarica e dai secondi rivalutato come l’epoca in cui si realizza una civiltà profondamente umana che esprime lo spirito del popolo e la forza dei sentimenti più alti. (Questa tematica è particolarmente sviluppata da Möser). 5. Un ulteriore carattere dello storicismo è l’amore per la tradizione: quest’idea è espressa si da Herder sia da Burke, il quale elabora il concetto di prescrizione storica. La Scuola storica del diritto. C.F. Savigny
Se applichiamo i caratteri dello storicismo alo studio dei problemi giuridici possiamo avere un’idea abbastanza precisa della Scuola storica del diritto di cui massimo esponente è Carlo Federico Savigny. 1. Individualità e varietà dell’uomo: ne deriva che non esiste un diritto unico e uguale per ogni tempo e luogo ma che il diritto deriva dalla storia variando quindi nel tempo e nello spazio. 2. Irrazionalità delle forze storiche: ne deriva che il diritto scaturisce direttamente dal sentimento della giustizia. 3. Pessimismo antropologico: ne deriva la sfiducia nella possibilità del progresso umano ed induce ad affermare che bisogna conservare gli ordinamenti esistenti e diffidare delle nuove istituzioni. Ciò è supportato dal fatto che la scuola storica si oppose alla codificazione del diritto germanico che avvenne infatti un secolo dopo rispetto agli altri paesi. 4. Amore per il passato: ne derivò il tentativo di risalire oltre la recezione del diritto romano in Germania per far rivivere l’antico diritto germanico. 5. Senso della tradizione: ne deriva una rivalutazione della consuetudine, un diritto che nasce direttamente dal popolo e che esprime il sentimento o lo spirito dello stesso. Il movimento per la codificazione del diritto. Thibaut
La Scuola storica del diritto rappresenta, come abbiamo già detto, una critica radicale del diritto naturale al quale contrappone il diritto consuetudinario considerato come la forma genuina del diritto, in quanto espressione immediata della realtà storico sociale. Tuttavia bisogna rilevare che la Scuola storica risulta precorritrice più che del positivismo giuridico, di certi correnti filosofico – giuridiche che alla fine del XIX e all’inizio del XX sec. assunsero una posizione critica nei confronti del giuspositivismo. Il fatto storico che costituisce la causa prossima del positivismo giuridico deve invece essere ricercato nelle grandi codificazioni, risultato di una lunga battaglia condotta nella seconda metà del 600 da un movimento politico – culturale strettamente illuministico. Secondo questo movimento il diritto è espressione dell’autorità in quanto non è efficace se non è posto e fatto valere dallo Stato e al tempo stesso dalla ragione. Gli illuministi sottopongono il diritto consuetudinario ad una critica demolitrice, facendo del movimento per la codificazione il rappresentante dello sviluppo estremo del razionalismo alla base del pensiero giusnaturalistico. Queste idee trovarono accoglienza presso le monarchie assolute in quanto anch’esse espressione dell’assolutismo illuminato. Quando gli eserciti della Francia rivoluzionaria occuparono una parte della Germania, vi estesero anche il Codice Napoleone, che costituiva un’innovazione autenticamente rivoluzionaria in un paese ancora semi-feudale quale era la Germania di quei tempi, dove si conservava ancora la distinzione della popolazione in tre ceti o “stati”. Questi propositi suscitarono l’opposizione degli ambienti conservatori che difendevano i privilegi che una legislazione francese avrebbe minacciato. Di quest’opposizione si fece portavoce Rehberg nel suo scritto Sopra il Codice Napoleone e la sua introduzione in Germania, di cui fece recensione uno dei maggiori giuristi tedeschi dell’epoca, Thibaut, dal quale deriverà una scuola che potrebbe essere chiamata positivistica più che filosofica. Egli rifiuta l’idea che si possa ricavare un intero sistema giuridico da alcuni principi razionali “a priori”. Per “influsso della filosofia sull’interpretazione del diritto” intendeva mettere in luce l’incidenza del ragionamento logico – sistematico sull’interpretazione del diritto. Per interpretare una norma non basta conoscere come essa si è formata, ma bisogna metterla in rapporto anche con il contenuto delle altre norme. Egli cercava di assumere una posizione moderata di conciliazione tra storia e ragione, gli importava dunque di costituire un sistema di diritto positivo. Landsberg chiama il pensiero di questo autore positivismo scientifico. La polemica tra Thibaut e Savigny sulla codificazione del diritto in Germania
Thibaut tornò sull’argomento della codificazione con un saggio Sopra la necessità di un diritto civile generale per la Germania. Egli iniziava parlando della rinascita della nazione tedesca, facendo l’elogio del popolo tedesco e chiedendosi cosa dovessero fare i principi per agevolare questo processo di rinnovamento, giungendo alla conclusione di dover promuovere la codificazione del diritto. Prosegue illustrando i due requisiti fondamentali per una buona legislazione: la
perfezione formale (enunciare le norme giuridiche in modo chiaro e preciso), e la perfezione sostanziale (contenere norme che regolino tutti i rapporti sociali). Thibaut afferma la necessità di una legislazione generale e ne enuncia i vantaggi per gli studiosi di diritto, per i giudici e per i cittadini. Mentre per la Scuola storica la codificazione è qualcosa di artificiale e arbitrario, per Thibaut le diversità locali del diritto non hanno nulla di naturale ma sono dovute piuttosto all’arbitrio dei principi che le impongono. L’ispirazione illuministica del nostro autore si vede chiaramente nelle ultime pagine, dove entra in polemica con la tradizione affermando che l’uomo non deve essere succube di essa ma superarle e rinnovarla, conclude poi con il motto sapere aude. Prima di lui lo stesso motto era stato accolto da Kant il quale scrisse che “ l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”. Minorità è l’incapacità di avvalersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, imputabile a se stesso è questa minorità se la causa di essa dipende dalla mancanza del coraggio di far uso del proprio intelletto senza guide esterne. Sapere aude quindi, abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza. Tornando allo scritto di Thibaut, la sua apparizione suscitò una vasta discussione, determinando una presa di posizione in senso contrario da parte di Savigny, il quale riteneva che la Germania non fosse nel momento storico giusto per una codificazione del diritto, e per giustificare tale posizione si richiama ad ad un’affermazione di Bacone, secondo cui si deve procedere all’instaurazione di un nuovo sistema solo in un epoca in cui il livello civile e culturale sia di gran lunga superiore a quello delle epoche precedenti. Tuttavia, se analizziamo un po’ più a fondo il pensiero dell’autore, notiamo come la sua sia una posizione di principio in quanto secondo Savigny un’epoca favorevole non esiste mai. Per porre rimedio allo stato delle cose esistenti era invece necessario, secondo l’autore, promuovere vigorosamente la rinascita e lo sviluppo del diritto scientifico. Capitolo III – Il codice Napoleone e le origini del positivismo giuridico in Francia (pag.55 – 84) Il significato storico del Codice Napoleone. La codificazione giustinianea e quella napoleonica
Nel 1804 in Francia entrò in vigore il Codice Napoleone. Oggi siamo abituati a pensare al diritto in termine di codificazione, ma sono solo due secoli che il diritto è diventato diritto codificato, d’altra parte non si tratta di una condizione comune a tutto il mondo, basti pensare che la codificazione non esiste nei paesi anglosassoni. Possiamo dire che le codificazioni che hanno avuto un’influenza fondamentale sullo sviluppo della nostra civiltà giuridica sono due: quella giustinianea e quella napoleonica. Solo con la legislazione napoleonica abbiamo un codice vero e proprio, ovvero un corpo di norme sistematicamente organizzate ed elaborate. Il Corpus iuris civilis è invece una raccolta di leggi precedenti. Le concezioni filosofico – giuridiche dell’illuminismo ispiratrici della codificazione francese. Le dichiarazioni programmatiche delle Assemblee rivoluzionarie
In Francia come in Germania l’idea della codificazione ha radici nella cultura razionalista ma ha potuto qui svilupparsi in virtù della rivoluzione francese. La semplicità e l’unità del diritto è l’idea di fondo che guida gli uomini di legge che in questo periodo si battono per la codificazione: si tratta di un’esigenza che in Francia era particolarmente sentita a causa delle divisone a cui era soggetta, nella parte settentrionale vigevano le consuetudini locali, in quella meridionale il diritto comune romano. Era pertanto necessario che le vecchie leggi fossero sostituite da un diritto semplice e unitario. Questa concezione giuridica rappresenta un aspetto di quel ritorno alla natura tipico del pensiero illuministico e che trova espressione in Rousseau il quale considerò la civiltà e i suoi costumi come la causa della corruzione dell’uomo che è naturalmente buono. Ispirandosi alle concezioni di Rousseau i giuristi della rivoluzione francese si propongono di instaurare un diritto fondato sulla natura e adatto alle diverse esigenze umane. Il loro motto è poche leggi. I progetti di codificazione di ispirazione giusnaturalistica: Cambacérès
Nel realizzarsi il codice civile si allontanò progressivamente dall’ispirazione illuministica e giusnaturalistica per accostarsi invece alla tradizione francese del diritto romano comune. Il protagonista della prima fase della storia della codificazione francese fu Cambacérès, un uomo di legge e al tempo stesso un politico avveduto. Durante la Convenzione e il Direttorio Cambacérès presentò tre progetti di codice civile di ispirazione giusnaturalistica. Egli sostenne che inseguito alla
codificazione le questioni di diritto avrebbero perso ogni importanza. Cambacérès presentò il suo primo progetto nell’agosto del 1793, dichiarando che esso di ispirava a tre principi fondamentali: ravvicinamento alla natura, unità e semplicità. Questo progetto era ispirato alla concezione individualistico – liberale di cui voleva garantire due postulati essenziali: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e la libertà personale. Tale progetto non fece molta strada, sia perché vi erano questioni più scottanti da discutere, sia perché fu considerato dai deputati troppo poco filosofico e troppo giuridico. Il secondo progetto fu presentato nel settembre del 1794, risultò essere meno tecnico, più semplice e l’autore stesso lo qualificò come “codice di leggi fondamentali”. Il progetto si ispirava alle tre esigenze che l’uomo ha nella società: 1. Essere padrone della propria persona 2. Avere dei beni per poter soddisfare i propri bisogni 3. Poter disporre di questi beni nell’interesse proprio e della propria famiglia per cui il progetto era diviso in parti dedicate alle persone, ai diritti reali e alle obbligazioni, come il primo però ebbe poca fortuna. Il terzo progetto venne presentato nel giugno del 1796 al Consiglio dei Cinquecento. Cambacérès si era reso conto che l’opposizione dei giuristi tradizionalisti rendeva impossibile la realizzazione di un codice di natura semplice e unitario. Il progetto presentava pertanto da una lato una maggiore elaborazione tecnica e dall’altro una notevole attenuazione delle idee giusnaturalistiche. Anche questo non venne approvato ma fu il solo dei tre che esercitò una certa influenza nell’elaborazione del progetto definitivo del Codice civile. L’elaborazione e l’approvazione del progetto definitivo: Portails
Il progetto definitivo di Codice civile fu opera di una commissione insediata da Napoleone primo console nel 1800 e composta da quattro giuristi. Il ruolo più importante nella commissione fu svolto da Portails, uomo di legge e politico, che nella sua opera Dell’uso e dell’abuso dello spirito filosofico durante il secolo XVIII , fa riferimento allo spirito illuministico, ponendo l’accento su quello che secondo lui è stato l’abuso dello spirito filosofico, cioè la critica indiscriminata condotta dal razionalismo contro tutta la cultura passata. Quest’opera ha un certo significato nella storia delle idee in quanto rappresenta il punto di passaggio dalla filosofia illuministica della Rivoluzione a quella della Restaurazione. La Commissione per la redazione del progetto di Codice, ne elaborò uno che fu sottoposto al Consiglio di Stato, e discusso alla presenza dello stesso Napoleone. Via via che i vari titoli del progetto erano approvati, venivano promulgati come leggi separate, raccolte ed emanate con il nome di Code civil des Français, solo nella seconda edizione prese il nome di Code Napoléon. Il progetto definitivo abbandonò decisamente la concezione giusnaturalistica e venne elaborato sulla base del Trattato di diritto civile di Pothier. I rapporti fra il giudice e la legge secondo l’art.4 del Codice civile. Il discorso preliminare di Portails
Se il Codice Napoleone è stato considerato l’inizio assoluto di una nuova tradizione giuridica, ciò fu dovuto ai primi interpreti e non ai redattori del Codice stesso: è infatti a quelli che è dovuto l’accoglimento del principio dell’onnipotenza del legislatore, principio che costituisce uno dei dogmi fondamentali del positivismo giuridico. Ciò è dovuto alla diversa interpretazione dell’art.4 del Codice stesso il quale stabilisce che il giudice deve in ogni caso risolvere la controversia che gli è sottoposta, escludendo la possibilità di astenersi dal decidere. In particolare esplica in tre concetti i casi che potrebbero mettere il giudice in difficoltà: a) oscurità della legge: in questo caso il giudice deve rendere chiara, attraverso l’interpretazione, la disposizione legislativa che appare oscura; b) insufficienza della legge: in tal caso il giudice deve completare il disposto legislativo; c) silenzio della legge: in questo caso il giudice deve supplire alla legge, ricavando in qualche modo la regola per risolvere la controversia in esame. Nel caso del silenzio ci si è chiesti se il giudice debba ricercare tale regola all’interno del sistema normativo, o al di fuori ricavandola da un giudizio personale di equità. La soluzione accolta dal positivismo giuridico è la prima, il dogma dell’onnipotenza del legislatore infatti implica un altro dogma, quello della completezza dell’ordinamento giuridico. La soluzione a cui miravano invece i
redattori dell’art.4 era la seconda e ciò risulta chiaro dal tenore dell’art.9 del Libro preliminare del progetto che recita: “Nelle materie civili, il giudice, in mancanza di leggi precise, è un ministro di equità…”. La ratio dell’art.4 era quella di evitare che i giudici si astenessero dal decidere la causa rinviando gli atti al potere legislativo per ottenere disposizioni esasperando la divisione dei poteri. Eliminato l’art.9, il quarto venne inteso dai primi interpreti in modo completamente diverso, esso venne cioè interpretato nel senso che si dovesse sempre ricavare dalla legge stessa la norma per risolvere qualsiasi controversia. È su questo modo di intendere l’art.4 che si fondò la scuola degli interpreti del Codice civile, nota come Scuola delle esegesi, che fu accusata di feticismo della legge perché considerava il Codice Napoleone come se avesse sepolto tutto il diritto precedente e contenesse in sé le norme per tutti i possibili casi futuri. A questa scuola si contrappose la Scuola scientifica del diritto, la quale criticò quella precedente e le concezioni del positivismo giuridico. La Scuola delle esegesi: le cause storiche del suo avvento
L’art.4 diede vita dunque alla scuola dell’esegesi, il cui nome ci dice come essa si limitasse ad un’interpretazione passiva del codice, mentre quella che la succedette, la scuola scientifica, assunse questo nome per sottolineare che essa si proponeva un’autonoma elaborazione di dati e concetti giuridici la cui validità fosse indipendente dal Codice stesso. Le cause che determinarono la nascita della scuola dell’esegesi possono essere raggruppate in cinque: 1. Il fatto stesso della codificazione: essa serve infatti per risolvere almeno le principali controversie. È in dubbio però, che esistendo un codice, la via più semplice sia quella di ricercare la soluzione nel codice stesso, trascurando le altre fonti. 2. La mentalità dei giuristi dominata dal principio di autorità: cioè la volontà del legislatore che ha poso la norma giuridica. 3. La dottrina della separazione dei poteri: questa costituisce il fondamento ideologico della struttura dello Stato moderno. In base a questa teoria il giudice non poteva creare diritto, altrimenti avrebbe invaso la sfera di competenza del potere legislativo. 4. Il principio della certezza del diritto: la certezza è garantita solo quando si ha un corpo di leggi stabile, e coloro che devono risolvere le controversi si fondando sulle norme in esso contenute, in caso contrario la decisione diventa arbitraria e il cittadino non può più prevedere con sicurezza le conseguenze delle proprie azioni. L’influenza del principio della certezza del diritto risulta chiaramente dai concetti espressi da un filosofo del diritto del secolo scorso, Pescatore. Egli chiama logica del diritto la scienza giuridica perché ritiene che essa abbia solo un compito puramente esplicativo, e debba solo trarre delle conseguenze da presupposti che non sono posti dalla scienza stessa ma esclusivamente dal legislatore. 5. Un ultimo motivo di natura politico è rappresentato dalle pressioni esercitate dal regime napoleonico sui riorganizzati istituti di insegnamento superiore del diritto, affinché venisse insegnato solamente il diritto positivo, e si lasciassero da parte le teorie generali del diritto e le concezioni giusnaturalistiche. La scuola dell’esegesi: i suo maggiori esponenti e le sue caratteristiche fondamentali
La scuola dell’esegesi deve il suo nome alla tecnica adottata nello studio e nell’esposizione del Codice Napoleone, che si ridusse in un commento, articolo per articolo, del Codice stesso. La storia della scuola dell’esegesi, si può dividere in tre periodi: gli inizi (1804/1830), l’apogeo (1830/1880), il declino (1880 fino alla fine del sec. scorso). I caratteri fondamentali della scuola dell’esegesi, possono essere fissati in cinque punti: 1. Inversione dei rapporti tradizionali tra diritto naturale e diritto positivo: di fronte alla bi millenaria tradizione relativa al diritto naturale gli esponenti della scuola esegetica non osano negare tale diritto, ma ne svalutano l’importanza e il significato pratico, riducendolo ad una nozione priva di interesse per il giurista. Il motto di Aubry era infatti “Tutta le legge…. ma null’altro che la legge”. Demolombe opera un’inversione positivistica dei rapporti fra diritto naturale e positivo: anziché commisurare la validità del diritto positivo in base alla sua conformità con quello naturale, afferma che quest’ultimo intanto è rilevante in quanto sia consacrato al primo, ma non è necessariamente il diritto migliore.
Concezione rigidamente statalistica del diritto: secondo cui giuridiche sono solo le norme poste dallo Stato. Tale concezione implica il principio dell’onnipotenza del legislatore, che non coincide con al generica negazione del diritto naturale, in quanto importa anche la negazione di ogni diritto positivo diverso da quello posto dalla legge. secondo la scuola dell’esegesi il giudice deve sottomettersi completamente alla legge stessa. 3. Interpretazione della legge basata sull’intenzione del legislatore: essa è perfettamente coerente con i postulati della scuola dell’esegesi: se il solo diritto è quello contenuto nella legge, allora diventa naturale concepire l’interpretazione del diritto come la ricerca della volontà del legislatore in quei casi in cui non la si deduce chiaramente dal testo legislativo. La volontà del legislatore viene distinta in volontà reale e volontà presunta: la prima nel caso in cui la legge disciplini un dato rapporto, ma il tenore di tale disciplina non risulti chiaro dal testo legislativo; la seconda quando il legislatore ha omesso di regolare un dato rapporto. All’interpretazione sulla volontà del legislatore venne contrapposta quella sulla volontà della legge: mentre il primo metodo si fonda su una concezione soggettiva della volontà della legge e lega l’interpretazione al momento della sua emanazione giungendo ad un’interpretazione statica e conservatrice; il secondo si fonda su una concezione oggettiva e permette un’interpretazione progressiva o evolutiva. 4. Il culto del testo della legge: per cui l’interprete deve essere rigorosamente subordinato alle disposizioni degli articoli del Codice. 5. Il rispetto del principio del’autorità: nella scuola dell’esegesi il ricorso a tale principio è particolarmente pronunciato non solo per l’assoluto rispetto che i suoi esponenti hanno per la legge, ma anche per la grande autorità di cui godettero alcuni dei primi commentatori del Codice, le cui affermazioni venivano accolte dai giuristi successivi come se fossero altrettanti dogmi. 2.
Capitolo IV – Le origini del positivismo giuridico in Inghilterra. (pag.85 – 115) Bentham: cenni biografici. L’ispirazione illuministica della sua etica utilitaristica
Rimanendo nell’ambito della codificazione, dopo la Germania in cui non fu attuata perché i giuristi che vi erano contrari riuscirono a far prevalere il loro punto di vista; e dopo la Francia dove si ebbe la codificazione, senza che si avesse una teoria della codificazione, ci spostiamo in Inghilterra dove non vi fu la codificazione, ma fu elaborata la più ampia teoria della codificazione ad opera di Geremia Bentham il “Newton della legislazione”. Il pensiero di Bentham ebbe un’enorme influenza anche se non fortissima in Inghilterra. Il pensiero infatti si inserisce nella corrente dell’illuminismo. Subì senz’altro l’influenza di Beccaria, come dimostra il postulato fondamentale del suo utilitarismo che esprime con la formula: la maggiore felicità del maggior numero, che ripete quasi letteralmente quella di Beccaria. Questa ispirazione illuministica parrebbe messa in dubbio dalla sua opposizione al giusnaturalismo, in realtà egli era contrario a questa dottrina, solo perché fondata su un concetto non suscettibile di una conoscenza sperimentale. Ma ha in comune con i filosofi razionalisti la convinzione della possibilità di stabilire un’etica oggettiva fondata su un principio scientificamente verificato dal quale si possano ricavare tutte le regole per il comportamento umano. Tutta l’opera di Bentham è guidata dalla convinzione che sia possibile stabilire un’etica oggettiva, ciò giustifica la sua fede nel legislatore universale. La parentela spirituale di Bentham con il pensiero giuridico degli illuministi francesi è messa in evidenza dalle qualità essenziali della legge da lui fissate: chiarezza e brevità, e dal suo atteggiamento di fronte alla Rivoluzione francese, egli appartiene infatti al ristretto gruppo di intellettuali che simpatizzarono con la prima fase della Rivoluzione, quando sembrava che dovesse limitarsi ad introdurre in Francia il sistema costituzionale proprio della Gran Bretagna. Le concezioni di Bentham a proposito della codificazione giunsero a completa maturazione solo dopo un lungo periodo di gestazione che può dividersi in tre fasi. In un primo momento egli si propone una riforma e una riorganizzazione del diritto sistematico inglese nei suoi vari rami. Il diritto inglese era, ed è tutt’ora, un diritto non codificato e quindi radicalmente sistematico, in quanto presentava una pluralità di linee di sviluppo giudiziario. Questa situazione appariva intollerabilmente caotica alla mente di un pensatore razionalista come Bentham. Come Hobbes nel 600 aveva sostenuto le sue concezioni in favore della produzione legislativa del diritto contro un giurista difensore della common law, così Bentham
sviluppa la sua critica nei confronti di quest’ultima entrando in polemica contro il maggior studioso del suo tempo del diritto inglese, Blackstone, che aveva pubblicato un’opera in cui il sistema della common law veniva considerato con grande ottimismo. Nella seconda fase Bentham progetta una specie di Digesto del diritto inglese; infine nella terza progetta una radicale riforma del diritto mediante una codificazione completa che avrebbe dovuto sistemare tutta la materia giuridica in tre parti: diritto civile, diritto penale e diritto costituzionale. La codificazione progettata da Bentham avrebbe dovuto essere veramente universale, egli cercò infatti seppur senza fortuna, di attuare i suoi progetti di riforma entrando in contatto con governanti e uomini politici di vari Stati offrendo loro i suoi servigi di riformatore. Bentham: la critica alla Common Law e la teoria della codificazione
I progetti di codificazione di Bentham nascono dalla sua critica radicale al sistema della Common law. Cinque sono i difetti fondamentali che individua nella sua critica: 1. Incertezza della Common law: il diritto giudiziario non soddisfa l’esigenza fondamentale, cioè la certezza del diritto, che permette al cittadino di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Il diverso grado di certezza del diritto legislativo e del diritto giudiziario, dipende dal fatto che mentre è chiaramente stabilita la fonte e l’autore del primo, non è affatto possibile individuare la fonte e l’autore del secondo. Secondo Blackstone il giudice è vincolato dal precedente, purché questo sia rationabilis, ma osserva Bentham, questa razionalità è una valutazione personale del giudice la quale consente qualsiasi arbitrio. 2. Retroattività del diritto comune: quando il giudice crea un nuovo precedente, risolve cioè il caso con una norma ex novo, tale norma ha efficacia retroattiva, in quanto è applicata ad un comportamento che è stato tenuto quando essa stessa non esisteva ancora. In tal modo il diritto viola una fondamentale esigenza del pensiero giuridico liberale: l’irretroattività della legge, per cui una norma non deve applicarsi ad un fatto accaduto prima che esse fossa emanata. 3. Il diritto comune non è fondato sul principio di utilità: il giudice infatti, applica il diritto fondandosi su una regola preesistente, o sull’analogia fra il caso che egli deve risolvere e quello disciplinato da una precedente sentenza. La posizione di Bentham è qui analoga a quella della giurisprudenza degli interessi. Egli si distingue però da questa dottrina in quanto chiede che tale valutazione non fosse fatta di volta in volta dal giudice, ma una volta per sempre dal legislatore. 4. Il quarto difetto è rappresentato dal dovere che ha il giudice di risolvere qualsiasi controversia mentre manca di una competenza specifica in tutti i campi regolati dal diritto. 5. L’ultima critica è di carattere politico: il popolo non può controllare la produzione del diritto da parte dei giudici: mentre se il diritto venisse creato mediante leggi approvate dal Parlamento, la sua produzione potrebbe essere controllata dal popolo, per cui il diritto sarebbe espressione della volontà del popolo. Bentham aveva senz’altro delle idee tutte sue sul modo in cui si sarebbe dovuto procedere per la redazione di un Codice. Era nettamente contrario ad affidarne la redazione ad una commissione di giuristi perché riteneva che la redazione dovesse essere opera di uno solo, in modo da ottenere un Codice unitario, coerente, semplice che potesse valere come legge universale. Evidentemente egli pensava a se stesso. Secondo Bentham si sarebbe dovuto indire un concorso pubblico per la presentazione di progetti e la proposta di riforme; il governo avrebbe dovuto incaricare della redazione del Codice il vincitore del concorso, che non avrebbe dovuto ricevere alcuna remunerazione. Secondo la schematizzazione fatta da Dumont, sono 4 i requisiti fondamentali che Bentham richiede ad un codice: utilità, completezza, conoscibilità, giustificabilità. a) il codice deve ispirarsi al principio dell’utilitarismo: la maggiore felicità per il maggior numero. b) il codice deve essere completo: perché se contenesse delle lacune si riaprirebbe la porta al diritto giudiziario con tutti i suoi inconvenienti. c) il codice deve essere redatto in termini chiari e precisi. d) la legge deve essere accompagnata da una motivazione che indichi le finalità che si propone di raggiungere. Austin: il tentativo di mediazione tra la scuola storica tedesca e l’utilitarismo inglese
Austin rappresenta l’anello d’unione fra le varie correnti che concorsero a far sorgere il positivismo
giuridico, e particolarmente fra la scuola storica tedesca e l’utilitarismo inglese. Pubblicò una sola breve opera, che raccoglieva le prime sei lezioni del suo corso, solo dopo la morte la moglie pubblicò le altre lezioni e alcuni appunti. Quest’opera porta come sottotitolo l’espressione Filosofia del diritto positivo, perché così Austin designava il proprio pensiero. Egli distingueva infatti la giurisprudenza dalla scienza della legislazione: la prima studia il diritto vigente, la seconda il diritto così come dovrebbe essere in base a certi principi assunti come criteri di valutazione. Mentre Bentham si occupava della scienza della legislazione, Austin si interessava della giurisprudenza che suddivideva in generale (quella che studia i principi comuni a tutti gli ordinamenti giuridici) e quella particolare (che studia le caratteristiche proprio di un particolare ordinamento giuridico). L’influenza della scuola storica su Austin può riassumersi in pochissimi punti: - il rifiuto di considerare il diritto naturale come diritto vero e proprio; - il concepire l’effettività del diritto come il fondamento della sua validità; - l’individuare nel diritto l’oggetto della scienza giuridica. Per il resto vi è fra i due pensieri una divergenza profonda: la scuola storica tedesca vedeva nel diritto consuetudinario il prototipo del diritto positivo ed era decisamente ostile alla codificazione; Austin vedeva nella legge la forma tipica del diritto nonché il fondamento ultimo di ogni norma giuridica ed era fautore della riforma del diritto attraverso la legislazione. Per conciliare Bentham con la scuola storica, Austin è costretto a mettere in luce un suo solo carattere, trascurandone invece gli aspetti peculiari. In sostanza Austin concilia la scuola storica con Bentham facendo con una notevole forzatura, di Bentham uno storicista e di Savigny un utilitarista. Austin: la sua concezione del diritto positivo
Per definire il diritto positivo Austin lo distingue innanzi tutto dagli altri tipi di norme. Egli usa il termine inglese law che significa al tempo stesso legge e diritto. Austin definisce la legge come un comando generale e astratto escludendo cioè gli ordini incidentali o occasionali. Il comando è definito come l’espressione di un desiderio, ma non ogni espressione di desiderio è un comando. La nota caratteristica del comando è rappresentata dal fatto che la persona a cui viene rivolto è passibile di un qualche male ad opera di colui che esprime il comando se questo non viene adempiuto. Il comando implica quindi il concetto di sanzione e di dovere. Austin distingue poi le leggi in due categorie: leggi divine e leggi umane; le prime si distinguono a loro volta in divine relative e divine non relative; le seconde in leggi positive e moralità positiva. L’autore individua la differenza fra leggi positive e moralità positiva nel fatto che il dritto positivo è costituito dai comando emanati dal sovrano in una “società politica indipendente”. Con quest’espressione Austin intende lo Stato: questa società è detta politica perché è composta da un numero di persone soggette ad un comune superiore, e indipendente perché autonoma e sovrana. Perché si possa parlare di sovranità sono necessari però due requisiti: l’obbedienza abituale di una massa di individui ad un comune superiore e l’assenza di ogni rapporto di subordinazione e di obbedienza di questo superiore nei confronti di qualsiasi altro superiore umano. Passando alla moralità positiva, essa si distingue dal diritto positivo perché è posta da u soggetto umano che non ha la qualità di sovrano. Austin individua due tipi di norme: leggi propriamente dette e leggi impropriamente dette. Queste ultime sono quelle che oggi chiameremo norme del costume sociale. Le leggi in senso proprio vengo a loro volta distinte da Austin in tre categorie: - leggi che regolano la vita degli individui dello stato di natura - leggi che regolano i rapporti fra gli Stati (che Austin ritiene mancanti di natura giuridica in quanto rivolte alla comunità internazionale basata sulla coordinazione) - leggi della società minori (che non sono diritto perché il superiore che emana il comando non è sovrano). Austin: la distinzione fra diritto legislativo e diritto giudiziario; la critica la diritto giudiziario
La distinzione fra diritto legislativo e diritto giudiziario, significa una distinzione fra diritto posto immediatamente e diritto posto mediatamente dal sovrano della società politica indipendente. Tale differenza non consiste nelle fonti che producono tali diritti, ma nel modo in cui essi sono prodotti: il diritto legislativo è costituito da norme generali ed astratte, quello giudiziario da norme particolari
emanate allo scopo di regolare un singola e specifica controversia. Austin infine ritiene che il diritto legislativo sia inferiore a quello giudiziario, e per dimostrare tale superiorità elenca tutta una serie di difetti del diritto giudiziario. La prima obbiezione che respinge sosteneva che la produzione del diritto giudiziario non possa essere controllata dalla comunità politica, mentre quella del diritto legislativo permette tale controllo. Egli rileva che la possibilità del controllo popolare non dipende dalla natura giudiziaria o legislativa del diritto ma dal tipo di costituzione propria dell’organo produttore del diritto. La seconda obbiezione benthamiana riguarda la natura arbitraria del diritto giudiziario; in realtà osserva il nostro autore, il giudice non è affatto libero di agire come vuole ma è sottoposo a molteplici vincoli e controlli: è vincolato dal sistema dei precedenti ed è controllato dall’autorità sovrana. Le obbiezioni formulate da Austin possono essere esposte in sette punti: a) il diritto giudiziario è meno accessibile alla conoscenza di quello legislativo; b) il diritto giudiziario è prodotto con minore ponderazione di quello legislativo perché il secondo è formulato dopo matura deliberazione; c) il diritto giudiziario è sovente emesso ex post facto; d) il diritto giudiziario è più vago è incoerente del diritto legislativo per la difficoltà di estrarre dai vari casi decisi una generale regula decidendi; e) una quinta obbiezione riguarda la difficoltà di accertare la validità delle norme di diritto giudiziario, l’autore afferma che non c’è un unico criterio ma più criteri; 1. Il numero delle decisioni (si considera valida la norma che è stata applicata un maggior numero di volte); 2. L’elegantia regulae (si considera valida la norma che risolve la questione nel modo più soddisfacente dal punto di vista tecnico ed equitativo); 3. La coerenza della legge con l’intero sistema giuridico; 4. L’autorità del giudice che ha adottato la norma della propria decisione; f) la sesta critica riguarda la scarsa comprensività del diritto giudiziario; g) infine il diritto giudiziario non è mai autosufficiente. Austin: il problema della codificazione
La conclusione di questa critica al diritto giudiziario è che esse deve essere sostituito dalla codificazione. Per confermare questa tesi Austin descrive la legge storica individuando sei fasi: 1. La prima fase è rappresentata dalla moralità positiva, in cui esistono solo norma di costume. Successivamente abbiamo tre fasi di sviluppo del diritto giudiziario: 2. dapprima i giudici accolgono e fanno valere come diritto le stesse norme della moralità positiva; 3. in seguito integrano le norme del costume con altre norme elaborate da essi stessi; 4. infine creano il diritto in base ai loro criteri di valutazione. A questo punto appare il diritto legislativo, che si sviluppa attraverso due fasi: 5. dapprima è emanato occasionalmente per integrare quello giudiziario; 6. infine la legge diventa l’unica fonte di produzione del diritto e disciplina con norme generali e astratte tutti i rapporti sociali culminando nella codificazione. Riguardo alle concezioni sulle codificazioni Austin si dimostra sensibile ai problemi giuridici affrontando anche la polemica svoltasi in Germania e giungendo alla conclusione che il fatto che la codificazione non sia opportuna per quel paese non dice nulla contro il valore del diritto codificato i generale. Le altre critiche del Savigny riguardavano il modo in cui erano state realizzate le codificazioni del suo tempo, Austin accetta gran parte di queste critiche rivolgendo alcuni appunti al Codice Napoleone: a) in questo codice mancano definizioni tecniche dei termini giuridici usati; b) esso non tiene sufficientemente conto del diritto romano; c) il legislatore francese non ha concepito il Codice come completo; d) il Codice Napoleone è stato redatto troppo in fretta. Ma anche queste critiche riguardano solo il modo in cui sono state realizzate alcune codificazioni e non la validità del principio. Quanto ai requisiti del codice il nostro autore si riferisce ad una riformulazione ex novo di tutto il diritto, l’innovazione deve riguardare la forma ma non il
contenuto. Una concezione completamente differente da quella di Bentham per il quale la codificazione doveva essere un’innovazione integrale del diritto. Austin cercò di riassumere le sue idee sulla codificazione in uno scritto, nel quale sono esaminate e confutate ben quattordici obbiezioni di cui ne esamineremo solo 5: 1. Ogni codice è necessariamente incompleto e non può disporre per tutti i casi futuri . L’autore risponde che il codice è incompleto ma meno lacunoso del diritto giudiziario. 2. Ogni codice per avvicinarsi alla completezza deve consistere in una serie di norme numerose e minute. Austin risponde che la completezza del codice non consiste nel disciplinare tutti i casi individualmente considerati, ma nello stabilire delle norme applicabili a ciascuna categoria. 3. Ogni codice è inalterabile, le norme in esso contenute non si possono adattare ai mutamenti che avvengono nella società. Austin risponde osservando che il diritto giudiziario è molto più inalterabile di quello legislativo, perché fondato sul sistema dei precedenti. 4. Il diritto codificato è meno malleabile del diritto giudiziario. Austin risponde che è vero ma che l’eccessiva malleabilità determina l’incertezza del diritto in quanto può più facilmente essere alterato. 5. Il diritto codificato favorisce le controversie perché rende possibile più numerosi conflitti di opposte analogie. L’autore respinge questa critica, affermando che la codificazione elimina gli equivoci e rende impossibili le controversi fondate su meri cavilli d’interpretazione. I motivi per cui Austin caldeggia la codificazione possono essere sintetizzai in questa sua affermazione: È meglio avere un diritto espresso in termini generali, sistematico, conciso e accessibile a tutti, che un diritto disperso, sepolto in un cumulo di particolari, sterminato e inaccessibile. La difficoltà maggiore che Austin incontrava era l’elaborare un procedimento che ne garantisse un efficace realizzazione. Secondo Austin doveva essere redatto da una sola persona, ma poi sarà riseminato da una commissione che provvederà alla correzione e alle integrazioni che risulteranno necessarie. Un ultimo punto in cui diverge da Bentham riguarda l’ accessibilità: per Bentham deve essere accessibile a tutti i cittadini, per Austin solo ai giuristi. Questa divergenza mette in luce un atteggiamento speculativo diverso: Bentham è un filosofo e un radicale, Austin un giurista e un conservatore. Conclusione della parte storica. (pag.117 – 126) Il fatto storico della produzione legislativa del diritto sta alla base del positivismo giuridico; il significato della legislazione.
Cerchiamo di precisare il significato storico del positivismo giuridico: questa corrente dottrinale intende il termine “diritto positivo” come diritto posto dal potere sovrano dello Stato attraverso norme generali e astratte; nasce dalla spinta storica verso la legislazione, si realizza quando la legge diventa la fonte esclusiva e il suo risultato ultimo è rappresentato dalla codificazione. Gagner ha voluto individuare l’origine dell’idea della legislazione nella dottrina canonistica; secondo questo autore l’idea della legge è sorta per opera degli studiosi di diritto canonico e solo successivamente è entrata nel patrimonio concettuale dei giuristi. I principi ideologici alla base della codificazione della legislazione sono due ed entrambi di stampo razionalistico: 1. Il dare la prevalenza della legge come fonte del diritto esprime una specifica concezione di quest’ultimo che viene inteso come ordinamento razionale della società: un tale ordinamento può nascere solo da norme generali e coerenti poste dal potere sovrano della società. 2. Il dare la prevalenza della legge come fonte del diritto nasce dal proposito dell’uomo di modificare la società. L’uomo trasforma la società modificando le leggi che la reggono, ma perché ciò sia possibile è necessario che il diritto sia posto secondo una finalità razionale. In sintesi la spinta verso la legislazione nasce dalla duplice esigenza di mettere ordine nel caos del diritto positivo e di fornire allo Stato uno strumento efficace per intervenire nella vita sociale. La spinta verso la legislazione è dunque un movimento storico universale e irreversibile, tant’è vero che in tutti i paesi si è realizzata la supremazia della legge sulle altre fonti del diritto. La mancata codificazione in Germania: la funzione storica del diritto scientifico
Un altro fatto che mette in dubbio il carattere universale della spinta verso la legislazione, è che la
codificazione non si è attuata in Germania. Ciò vede la sua causa nella particolare situazione politica in cui si è trovata la Germania in quel periodo. Anche la scuola storica condivideva la critica benthamiana al diritto giudiziario: solo che ovviava ai difetti di tale diritti attraverso la scienza giuridica più efficacemente che con la codificazione, in quanto la prima con gli stessi requisiti della seconda, avrebbe assicurato una maggiore malleabilità, una più facile adattabilità del diritto. Nella Germania del sec. XIX, quindi, la funzione storica della legislazione fu assunta dal diritto scientifico poiché anch’esso si fonda su due postulati tipici del positivismo giuridico: la concezione del diritto come una realtà socialmente “data”, e come unità sistematica di norme generiche. Il diritto scientifico tedesco che nella prima metà dell’800 diede origine alla dottrina pandettistica, ebbe il suo culmine dando luogo alla giurisprudenza dei concetti, che deve la sua opera maggiore a Rudolf von Jhering che in seguito si dedicò alla giurisprudenza degli interessi. Jhering: il metodo della scienza giuridica
Agli inizi del sec. scorso in Germania il diritto scientifico costituì l’alternativa al diritto codificato. Si è forse esagerata l’importanza che avrebbe avuto nella scuola storica il diritto popolare o consuetudinario. Ciò cui mirava Savigny era una riforma del diritto scientifico. Il succo del pensiero era che se qualcosa doveva essere cambiato, il rimedio migliore era lo sviluppo della scienza giuridica. Anche i giuristi tedeschi ritenevano che il compito di mettere ordine nel caos spettasse a loro stessi e che a questo compito scientifico i tedeschi erano particolarmente adatti. Jhering afferma che la scienza giuridica universale e che i giuristi di tutti i paesi e di tutte le epoche parlano la medesima lingua. Questa universalità della lingua giuridica è possibile perché essa si serve di tecniche di ricerca valide per lo studio di qualsiasi ordinamento. L’operazione più importante cui deve dedicarsi il giurista, è secondo Jhering la semplificazione dei materiali giuridici. Egli distingue una semplificazione qualitativa e una quantitativa. La seconda tende a diminuire la massa dei materiali, senza recare pregiudizio ai risultati che si vogliono raggiungere. Le operazioni fondamentali della semplificazione quantitativa sono tre: 1. L’analisi giuridica, che consiste nello scomporre il materiale giuridico nei suoi elementi semplici. Il procedimento fondamentale è l’astrazione, che ci permette di staccare la nozione generale dal caso particolare da cui è sorta. 2. La concontrazione logica, che compie il cammino inverso in quanto consiste nel ricomporre quello che è stato scomposto. Se la prima operazione e l’analisi la seconda è la sintesi. Attraverso questa opera il giurista arriva alla formulazione del principio latente e quasi sempre inespresso delle leggi. 3. L’ordinamento sistematico, che permette al giurista di gettare uno sguardo complessivo sui dati dell’esperienza giuridica e di produrre nuove regole. La semplificazione qualitativa si risolve tutta in un’operazione fondamentale in cui si riassume il valore scientifico della giurisprudenza: la costruzione, che permette di distinguere una giurisprudenza superiore da una inferiore. Mentre quest’ultima si arresta all’interpretazione della legge, la prima arriva alla costruzione. Per Jhering la costruzione consiste nell’individuazione degli istituti giuridici che egli chiama corpi giuridici, e nella formulazione della teoria attraverso fasi quasi obbligate: definizione dell’istituto costituito da soggetto, oggetto, contenuto, effetto, azione, evoluzione dell’istituto; relazione di questo istituto con altri istituti; infine inserimento dell’istituto nell’intero sistema. La costruzione per essere adeguata allo scopo deve seguire alcune regole, fra queste: a) deve applicarsi esclusivamente al diritto positivo; b) deve mirare all’unità sistematica; c) deve mirare ad una costruzione semplice e chiara piuttosto che macchinosa e sgraziata. PARTE SECONDA – LA DOTTRINA DEL POSITIVISMO GIURIDICO Introduzione. (pag.129 – 132) I punti fondamentali della dottrina giuspositivistica
I caratteri fondamentali del positivismo giuridico possono essere sintetizzati in sette punti: 1. Il primo problema riguarda il modo di accostarsi allo studio de diritto: il positivismo giuridico
risolve tale problema considerando il diritto come un fatto e non come un valore. Una volta considerato come un complesso di fatti il giurista deve studiarlo astenendosi dal formulare giudizi di valore. Nel linguaggio giuspositivistico il termine diritto è quindi avalutativo, privo di qualsiasi connotazione valutativa o risonanza emotiva. Da questo atteggiamento deriva la teoria del formalismo giuridico, per cui la validità del diritto si fonda sulla struttura formale, a prescindere dal contenuto. 2. Il secondo problema riguarda la definizione del diritto: il giuspositivismo definisce il diritto in funzione dell’elemento della coazione da cui deriva la teoria della coattività del diritto. Il considerare il diritto come fatto porta a considerare come diritto ciò che vige come tale in una data società, cioè quelle norme che sono fatte valere con la forza. 3. Il terzo problema riguarda le fonti del diritto. Ciò comporta l’elaborazione di una complessa dottrina dei rapporti tra la legge e la consuetudine, tra legge e diritto giudiziario, e tra legge e diritto consuetudinario. 4. Il quarto problema riguarda la teoria della norma giuridica, che il positivismo giuridico considera come un comando co ncepito come positivo o come negativo, come autonomo o come eteronomo, come tecnico o come etico. 5. Il quinto punto riguarda la teoria dell’ordinamento giuridico. Il positivismo giuridico afferma la teoria della coerenza e della completezza dell’ordinamento giuridico: a) la caratteristica della coerenza esclude che in un medesimo ordinamento possano coesistere due norme antinomico; b) con il requisito della completezza il positivismo giuridico esclude che esistano delle lacune nel diritto. 6. Il sesto punto riguarda il problema dell’interpretazione. Il positivismo giuridico afferma la teoria dell’interpretazione meccanicistica che fa prevalere l’elemento dichiarativo su quello produttivo o creativo del diritto. 7. Il settimo punto riguarda la teoria dell’obbedienza. C’è un complesso di posizioni nel positivismo giuridico che fanno capo alla teoria dell’obbedienza assoluta alla legge che si sintetizza nell’aforisma “la legge è legge”. tuttavia, in questo caso si dovrebbe parlare di positivismo etico, in quanto si tratta di un’affermazione di ordine morale o ideologico. Capitolo I – Il positivismo giuridico come accostamento avalutativo al diritto. (pag.133 – 145) Il positivismo giuridico come atteggiamento scientifico di fronte al diritto: giudizio di validità e giudizio di valore
Il positivismo giuridico nasce dallo sforzo di trasformare lo studio del diritto in una vera e propria scienza. Il carattere fondamentale della scienza consiste nella sua avalutatività, cioè nella distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, e nell’esclusione di quest’ultimi dall’orizzonte dello scienziato. Il giudizio di fatto rappresenta una presa di conoscenza della realtà, in quanto ha il solo scopo di informare; il giudizio di valore rappresenta invece una presa di posizione di fronte alla realtà, in quanto la sua formulazione ha lo scopo di influire. Per il positivismo la scienza esclude i giudizi di valore perché soggettivi, lo scienziato moderno rinuncia a porsi di fronte alla realtà con un atteggiamento moralistico o metafisico, ed accetta la realtà così com’è. Il positivismo rappresenta dunque lo studio del diritto, come fatto, non come valore. Il diritto oggetto della scienza giuridica è quello che effettivamente si manifesta nella realtà storico-sociale: il giuspositivista studia tale diritto reale senza chiedesi se oltre ad esso esista anche un diritto ideale, e soprattutto senza far dipendere la validità del diritto reale dalla sua corrispondenza col diritto ideale. Quest’atteggiamento contrappone il positivismo giuridico al giusnaturalismo: quest’ultimo ritiene infatti che debba far parte dello studio del diritto reale anche la sua valutazione in base al diritto ideale. Per chiarire questi due diversi atteggiamenti del giuspositivismo e del giusnaturalismo è utile introdurre i due concetti di validità del diritto e di valore del diritto. La validità di una norma giuridica indica la qualità di tale norma, dire che una norma giuridica è valida significa dire che essa fa parte di un ordinamento giuridico reale.
Il valore di una norma giuridica indica la qualità di tale norma, dire che una norma giuridica è valevole o giusta, significa dire che essa corrisponde al diritto ideale. La posizione giusnaturalistica afferma che una norma perché si valida deve essere valevole. La posizione giuspositivistica estrema capovolge la posizione giusnaturalistica sostenendo che una norma giuridica è giusta per il solo fatto di essere valida. Ma non è questa la posizione tipica del positivismo giuridico, esso è solito distinguere e separare nettamente il concetto di validità da quello di valore. Scienza del diritto e filosofia del diritto: definizioni avalutative e definizioni valutative
La distinzione fra giudizio di validità e giudizio di valore è venuta ad assumere la funzione di delimitazione dei confini tra scienza e filosofia del diritto. Abbiamo così due categorie di definizioni del diritto che possiamo qualificare come definizioni scientifiche e definizioni filosofiche: le prime sono fattuali o avalutative o ontologiche: cioè definiscono il diritto quale esso è; le seconde sono ideologiche o valutative o deontologiche: cioè definiscono il diritto quale deve essere. Definizioni valutative. Esse sono caratterizzate dal fatto di avere una struttura teologica, di definire cioè il diritto come un ordinamento che serve a conseguire un certo fine. Una delle più tradizionali definizioni filosofiche è quella che definisce il diritto in funzione della giustizia. Un’altra famosa definizione del diritto è quella di Kant: “Il diritto è l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro secondo una legge universale della libertà”. Questa definizione riteniamo che sia chiaramente deontologica perché definisce il diritto così come vorrebbe che fosse Kant in base alle proprie concezioni politiche. Anche qui il diritto è definito in funzione di una valore che deve realizzare la libertà individuale. Definizioni avalutative. Il positivismo giuridico da una definizione del diritto strettamente fattuale. Un pensatore in cui si trova già una chiara distinzione fra la definizione ontologica del diritto e quella deontologica è Marsilio da Padova che distingue il significato così: se nel primo senso la legge indica ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, nel secondo senso la legge indica solo una realtà fattuale. Un comando dello Stato fatto valere coattivamente. Secondo Marsilio: a) ciò che è giusto non è di per se stesso diritto; b) il giusto non è un requisito essenziale della legge, in quanto l’assenza della giustizia non esclude la giuridicità della norma; c) il giusto serve a distinguere non già la legge dalla non-legge, ma la legge perfetta da quella imperfetta. “Positivismo giuridico” e “Realismo giuridico”: la definizione del diritto come norma valida o come norma efficace
Il positivismo giuridico, definendo il diritto come un insieme di comandi emanati dal sovrano, introduce il solo elemento della validità a discapito dell’efficacia. Una corrente giuridica contemporanea, ritiene che una norma che non sia applicata, cioè che non sia efficace, non è diritto. La dottrina di questa corrente è conosciuta come scuola realistica del diritto, che considera il diritto come il complesso di regole che sono effettivamente seguite in una determinata società. I giuspositivisti considerano il diritto come una realtà normativa; i realisti considerano il diritto come una realtà fattuale. Notiamo come sia inesatto considerare incompleta la definizione giuspositivistica basata sul requisito della validità. Il giurista infatti, prima di studiare il contenuto di una norma o di un istituto giuridico, si chiede se siano validi, non se siano efficaci. Parlando di efficacia i realisti si riferiscono al comportamento dei giudici; norme giuridiche sono pertanto quelle che i giudici applicano nell’esercizio delle loro funzioni. Per i realisti è vero diritto solo quello che è applicato dai giudici. Con queste premesse non stupisce che la scuola realistica si sia sviluppata soprattutto nei paesi anglosassoni. Il “formalismo” come caratteristica della definizione giuspositivistica del diritto
Sia la definizione del positivismo sia quella del realismo giuridico, sono anti-ideologiche, delle definizioni che non fanno riferimento a valori o fini che sarebbero propri del diritto. Da questo punto di vista ambedue possono essere qualificate come definizioni positivistiche. Un’altra caratteristica delle definizioni positivistiche è che stabiliscono che cos’è il diritto prescindendo dal
suo contenuto. Ciò perché il contenuto del diritto è infinitamente vario. A proposito del contenuto delle norme è possibile fare una sola affermazione: il diritto può disciplinare tutti i comportamenti umani possibili, tutti i comportamenti che non sono né necessari né impossibili. Questo modo di definire il diritto può essere chiamato formalismo giuridico; la concezione formale del diritto considera solo come il diritto si produce e non anche che cosa esso stabilisce. Il formalismo giuridico va nettamente distinto dal formalismo scientifico o etico: a) per formalismo scientifico si intende quella concezione della scienza giuridica che dà prevalente rilievo all’interpretazione logico-sistematica anziché a quella teologica; b) per formalismo etico si intende quella concezione propria del positivismo giuridico secondo cui l’azione giusta consiste nell’adempimento del dovere imposto alla legge. Capitolo II – La definizione del diritto in funzione della coazione. (pag.147 – 161) Le origini storiche della concezione coercitiva del diritto: Thomasius
Il positivismo giuridico è caratterizzato dal fatto che esso definisce costantemente il diritto in funzione della coazione. La concezione coercitiva del diritto fa implicitamente rinvio allo Stato. La definizione coercitiva si fonda pertanto su una concezione statalistica del diritto, coeva alla formazione dello Stato moderno. Nella tradizione precedente la distinzione fra regole che possono e regole che non possono essere fatte valere coercitivamente, veniva formulata in termini di jus perfectum e jus imperfectum. Già Grotius su tale distinzione aveva fondato due diversi tipi di giustizia: la giustizia attributrice e quella adempitrice. Un esempio del primo tipo è un atto di elemosina, fondato su un jus imperfectum in quanto non da al soggetto in favore del quale l’atto è posto, il potere di esigere il suo adempimento. Un esempio invece di giustizia adempitrice è il pagamento di un debito, fondato su un jus perfectum in quanto attribuisce al soggetto in favore del quale l’atto viene posto, il potere di ottenere con la forza il suo adempimento. L’uso della forza da parte del soggetto in favore del quale è stabilito un dovere nel caso di jus imperfectum è illecito, nel caso di jus perfectum è invece lecito ma di coercizione. I giusnaturalismi distinguevano far jus perfectum e jus imperfectum non solo i riferimento ai rapporti fra privati soggetti ma anche fra i sudditi e lo Stato; e la stessa distinzione veniva applicata anche ai rapporti fra gli Stati, perché serviva a individuare le norme del nascente diritto internazionale. Thomasius afferma che non è esatto qualificare come diritto il cosiddetto jus imperfectum, il quale designa le norme appartenenti a quella che possiamo chiamare la sfera etica, ciò è invece possibile per il jus perfectum, in quanto il diritto è costituito dalle norme che sono fatte valere coattivamente. Thomasius in realtà fa una tripartizione, distinguendo tutte le regole della condotta umana in tre categorie: l’ honestum, il justum e il decorum: il diritto coincide con le norme della sfera del justum, mentre l’honestum e il decorum comprendono tutte le azioni che l’uomo compie per adempiere a un dovere verso se stesso. La funzione del justum è di evitare la guerra e garantire l’ordine; la funzione dell’honestum è di evitare i vizi e di favorire la perfezione personale: per questo il justum evita il male maggiore ma persegue il bene minore, mentre l’honestum persegue il bene maggiore ma evita il male minore; quanto al decorum, esso è una categoria intermedia fra justum e honestum, evita un male e persegue un bene di media importanza. Thomasius per distinguere il diritto dalle altre forme etiche afferma che esso regola le azioni esterne e intersoggettive: a) l’esteriorità dell’azione distingue il diritto dalle norme dell’honestum; b) l’intersoggettività distingue le norme giuridiche dalle norme del decorum. Ciò che distingue il diritto dalle altre due categorie norme è che solo esso può essere fatto valere con la forza. La teoria di Thomasius definisce norme giuridiche solo quelle coercibili, e stabilisce a quali tipi di azione devono riferirsi le norme giuridiche, lasciando fuori gli aspetti riguardanti la vita interiore degli uomini. La teorizzazione della concezione coercitiva: Kant e Jhering. Obbiezioni a questa teoria
Thomasius trasformò dunque, la distinzione tra jus perfectum e jus imperfectum nella distinzione fra diritto e morale. Nell’elaborazione teoretica di questa concezione un posto di primo piano è occupato da Kant, il quale afferma che ciò che distingue il diritto dalla morale è il fatto che mentre il primo è coercibile, la seconda non lo è; questo rapporto deriva dalla diversa natura dell’atto
giuridico e dell’atto morale: l’atto giuridico consiste nella conformazione esteriore del soggetto alla norma, l’atto morale nell’adesione alla norma per rispetto della norma stessa. La coazione si concilia con la norma giuridica perché questa è eteronoma, ma non con la morale che è autonoma. Kant sottolinea due eccezioni al principio per cui il diritto accompagna sempre la sanzione: nel primo caso esiste un diritto senza coazione (ed è il caso del diritto fondato sull’equità), nel secondo caso esiste una coazione senza diritto (ed è il caso di chi compia un delitto agendo in stato di necessità). Secondo Jhering la categoria fondamentale per interpretare il mondo delle azioni umane è lo scopo così come la causa è la categoria fondamentale per interpretare il mondo della natura. L’autore individua quattro tipi fondamentali di scopi che definiscono le quattro categorie di azioni umane: a) il guadagno e la coazione che caratterizzano la sfera del’economico e del giuridico; b) il sentimento del dovere e l’amore che caratterizzano le sfere delle attività etiche. la coazione definisce dunque il mondo del diritto, ed essa è posta in essere dallo Stato: diritto, coazione e Stato sono dunque tre elementi indissolubilmente uniti. Jhering definisce la coazione come “la realizzazione di uno scopo mediante il soggiogamento di una volontà altrui”; definisce il diritto come “il complesso delle norme coattive vigenti in uno Stato”; e lo Stato come “l’organizzazione sociale detentrice del potere coattivo”. Dopo Jhering la teoria della coazione è diventata communis opinio della filosofia del diritto; non sono mancate però delle resistenze e delle critiche a questa dottrina che possono essere riassunte in tre obbiezioni: 1. La coazione è assente dalla consuetudine che rappresenta una spontanea adesione della coscienza sociale ad una norma giuridica. Questa obbiezione risulta di scarso valore in quanto dimostra solo che alcune regole giuridiche possono essere seguite spontaneamente, mentre per negare la dottrina della coazione bisognerebbe dimostrare la possibilità di un ordinamento giuridico da cui totalmente assente l’uso della forza. 2. La seconda obbiezione si riferisce al diritto pubblico e costituzionale. In realtà molte norme regolanti le attribuzioni e le attività dei supremi organi dello Stato non sono garantite dalla coazione, perché non esistono altri organi che possano applicarla. 3. Una terza obbiezione è mossa dal punto di vista del diritto internazionale, in cui non esistono mezzi per far valere coercitivamente le norme regolanti i rapporti fra gli Stati. La moderna formulazione della teoria della coazione: Kelsen e Ross
La dottrina della coazione che possiamo chiamare classica o tradizionale, da Jhering in poi ha subito uno sviluppo fino ad assumere un significato completamente diverso. Per la teoria classica la coercizione è il mezzo con cui si fanno valere le norme giuridiche; per la teoria moderna la coercizione è l’oggetto delle norme giuridiche. Quando Jhering dice che il diritto è “il complesso di norme coattive vigenti in uno Stato”, egli è chiaramente nell’ambito della teoria classica. Ma ci sono due punti in cui scivola nella teoria moderna. Il primo riguarda la sua concezione dello Stato: quando dice che il diritto è la disciplina del potere coattivo di cui è detentore lo Stato, egli sembra considerare la coazione come oggetto stesso di tali norme. Il secondo punto riguarda la teoria dei destinatari della norma giuridica: egli sostituisce infatti la teoria dei cittadini come destinatari delle norme giuridiche con la teoria degli organi giudiziari come destinatari di quelle norme. È difficile dire come e quando sia avvenuto il passaggio dalla concezione classica a quella moderna, tuttavia, la dottrina della coazione è ben enunciata da Kelsen che considera la sanzione come un elemento essenziale della struttura della norma. Contro la teoria tradizionale egli formula l’obbiezione del regresso all’infinito, secondo cui, se il diritto è una norma fatta valere coattivamente, anche la norma secondaria per diventare giuridica deve a sua volta essere garantita da una terza norma che stabilisca una sanzione per la sua inosservanza, per cui o si stipula un numero infinito di norme, o si ammette che le norme ultime su cui si poggia un ordinamento non sono fatte valere coattivamente. Kelsen risponde a quest’obbiezione sostenendo che: “Una regola è una regola giuridica non perché la sua efficacia è assicurata da un’altra regola che dispone una sanzione; una regola è una regola giuridica perché dispone una sanzione”. Ma l’autore che più chiaramente rileva il significato nuovo e diverso che la teoria della coazione è venuta ad assumere è Ross, che sottolinea che secondo la
moderna formulazione della teoria della coazione, il diritto è un complesso di regole che hanno per oggetto la regolamentazione dell’esercizio della forza di una società. a) il diritto stabilisce anzitutto chi deve usare la forza: il suo esercizio spetta ad un gruppo determinato di persone. Abbiamo così la formazione del monopolio dell’uso della forza; b) il diritto stabilisce in secondo luogo quando il gruppo monopolizzatore può usare la forza: quando si verificano determinate circostanze previste dalla legge; c) il diritto stabilisce in terzo luogo come la forza deve essere esercitata: cioè attraverso le norme processuali che ne regolano le modalità; d) infine il diritto regola la quantità della forza, stabilendo quali atti di coercizione possono essere esercitati. Capitolo III – La teoria delle fonti del diritto: la legge come unica fonte di qualificazione. (pag.163 – 183) Il significato tecnico dell’espressione: “fonti del diritto”
“Sono fonti del diritto quei fatti o quegli atti a cui un determinato ordinamento giuridico attribuisce l’idoneità o la capacità di produrre norme giuridiche”. L’importanza del problema delle fonti consiste nello stabilire l’appartenenza delle norme a un determinato ordinamento giuridico: tali norme vi appartengono o no, a seconda che derivino o no da fatti o atti da cui l’ordinamento giuridico fa dipendere la produzione delle sue norme. L’importanza di questo problema appare se osserviamo che i giuristi, prima di affrontare la trattazione di una data materia si preoccupano di stabilire quali siano le fonti da cui derivano le norme che la regolano. D’altronde gli ordinamenti giuridici che hanno una certa complessità e maturità, stabiliscono essi stessi quali sono le fonti del diritto. Questi ordinamenti contengono anche norme che regolano la produzione giuridica. La dottrina giuridica individua due categorie di norme qualificandole rispettivamente come regole di comportamento e come regole di struttura o di organizzazione. Condizioni necessarie perché in un ordinamento giuridico esista una fonte prevalente
La dottrina giuspositivistica delle fonti è imperniata sul principio della prevalenza di una determinata fonte del diritto su tutte le altre. Perché ciò sia possibile sono necessarie due condizioni: 1. La prima è che l’ordinamento giuridico sia un ordinamento complesso. Chiamiamo ordinamento giuridico semplice quello in cui vi è una sola fonte del diritto e complesso quello in cui vi sono più fonti. 2. Ma l’ordinamento può essere anche gerarchicamente strutturato. Chiamiamo paritario l’ordinamento in cui esistono più fonti poste sullo stesso piano, e gerarchico quello in cui vi sono più fonti poste su piani diversi. Un ordinamento integrale paritario è anch’esso, come un ordinamento semplice, un caso più ipotetico che storicamente verificabile. Esiste infatti un criterio per stabilire quale norma debba essere applicata anche nel caso di fonti paritarie: il criterio cronologico. Generalmente però gli ordinamenti giuridici sono gerarchizzati, in questo caso il conflitto di norme fra loro contrastanti è risolto in base al criterio gerarchico; nel caso di conflitto fra il criterio cronologico e quello gerarchico è quindi quest’ultimo a prevalere. Fonti di qualificazione giuridica; fonti di cognizione giuridica (fonti riconosciute e delegate)
La dottrina giuspositivistica delle fonti prende le mosse dall’esistenza di ordinamenti giuridici complessi e gerarchizzati, ed afferma che la fonte prevalente è la legge, e che gli altri fatti o atti produttivi di norme sono fonti subordinate. Questo rapporto si esplica o in base ad un rapporto di riconoscimento, o in base ad un processo di delegazione per cui si parla di fonti riconosciute e di fonti delegate. a) Si parla di riconoscimento o recezione quando esiste un fatto sociale precedente allo Stato, che produce delle regole di condotta a cui lo Stato riconosce il carattere della giuridicità. b) Si parla invece di delegazione quando lo Stato attribuisce ad un proprio organo diverso da quello portatore della sovranità, il potere di porre norme giuridiche per certe materie ed entro certi limiti stabiliti dallo Stato stesso. Un esempio di fonte riconosciuta è rappresentata dalla consuetudine, siamo di fronte a regole prodotte dalla vita sociale che l’ordinamento giuridico statuale ha accolto in
un secondo momento, anche se Bassolini sostiene che gli utenti sono dei veri e propri organi dello Stato e che i loro atti sono analoghi a quelli del Parlamento. Quello di Bassolini è un tentativo di spiegare la consuetudine come fonte delegata del diritto. Un caso molto più dibattuto è quello delle norme negoziali. Secondo alcuni siamo di fronte ad un caso analogo alla consuetudine: si tratta cioè di norme poste nell’ambito della loro autonomia privata che lo Stato si limita a convalidare; secondo altri si tratta di norme che i privati pongono in base al potere negoziale delegato loro dallo Stato. Un esempio sicuro di fonte delegata sono i regolamenti, ovvero le norme giuridiche emanate dal potere esecutivo per attuare le norme contenute in una legge. Se consideriamo l’ordinamento come una costruzione a gradi, si può vedere fra il potere costituente e il potere legislativo lo stesso rapporto di delegazione esistente fra potere legislativo e regolamentare: il potere legislativo ordinario appare come il potere delegato ad emanare norme secondo la costituzione; quello giudiziario può essere considerato delegato a disciplinare i casi concreti dando esecuzione alle direttive generali contenute nella legge. Le fonti del diritto che sono poste su un piano gerarchicamente subordinato producono delle regole che non hanno in se stesse la qualifica di norme giuridiche, ma ricevono tale qualifica da una fonte superiore a quella che le ha prodotte. Le fonti poste su un piano gerarchico supremo invece, non solo producono delle regole, ma attribuiscono ad esse la qualifica di norme giuridiche. Per questo le fonti subordinate sono dette fonti di cognizione giuridica e quelle sopraordinate fonti di qualificazione giuridica. Il positivismo giuridico afferma l’esistenza di una sola fonte di qualificazione e identifica quest’ultima nella legge: se quindi usiamo il termine “fonti del diritto” in senso stretto. L’ordinamento giuridico appare come un ordinamento semplice. La consuetudine come fonte di diritto nella storia del pensiero giuridico e nella storia delle istituzioni positive
Particolare importanza nel processo storico che porta al predominio della legge sulle altre fonti ha la posizione teorica e pratica della consuetudine. 1. Le dottrine dalla consuetudine come fonti di diritto. Tre sono le principali categorie elaborate per spiegare il fondamento della giuridicità delle norme consuetudinarie: la dottrina romanocanonistica, la dottrina moderna e la dottrina della scuola storica. La dottrina romano-canonistica riduce la consuetudine alla legge, in quanto individua il fondamento della giuridicità della consuetudine nella volontà del popolo. La differenza fra la consuetudine e la legge riguarda il modo con cui il popolo esprime la sua volontà. La dottrina moderna della consuetudine individua il fondamento della validità delle norme consuetudinarie nel potere del giudice che tali norme accoglie per risolvere una controversia., per cui la consuetudine diventa diritto solo quando ci sono tribunale che la fanno valere. La sola dottrina che individua il fondamento della validità delle norme consuetudinarie nelle stesse consuetudini è la dottrina della scuola storica, secondo la quale la consuetudine ha carattere giuridico indipendentemente dal legislatore, perché la sua validità si fonda sulla convinzione giuridica popolare. Tuttavia, è prevalsa la tendenza a negare alla consuetudine il carattere di fonte autonoma del diritto. 2. I rapporti storici fra legge e consuetudine. Possiamo considerare tre situazioni tipiche: a) la consuetudine è superiore alla legge; b) la consuetudine e la legge sono sullo stesso piano; c) la consuetudine è inferiore alla legge. Per quanto riguarda la prima situazione è difficile trovare degli esempi concreti del tutto soddisfacenti, si può forse citare il caso dell’ordinamento inglese prima del consolidarsi della monarchia parlamentare, nel quale la common law limitava il potere del re. In questo caso viene negata alla legge forza abrogativa nei confronti della consuetudine. Nel secondo caso, l’esempio di un ordinamento in cui legge e consuetudine sono sullo stesso piano è rappresentato dal diritto canonico. La dottrina canonistica risultava divisa, in quanto nella compilazione giustinianea, erano contenute due affermazioni che apparivano contraddittorie. La controversia venne risolta da Gregorio IX il quale stabilì che la consuetudine potesse abrogare la legge qualora questa fosse stata osservata per un determinato periodo di tempo. La terza situazione, in cui la legge prevale sulla
consuetudine, è quella che si è realizzata con la formazione dello Stato moderno ed è stata teorizzata dal positivismo giuridico. La decisione del giudice come fonte del diritto. L’equità
Nel processo di formazione dello Stato moderno il giudice perde la posizione di fonte principale di produzione del diritto. Il risultato di tale sviluppo può essere sintetizzato dicendo che il giudice non può con una propria sentenza abrogare la legge, così come non lo può la consuetudine. Ciò esclude che il giudice sia in qualche caso una fonte delegata, il che accade quando egli pronuncia un giudizio di equità, nel quale il giudice decide secondo coscienza o in base al proprio sentimento della giustizia. Nell’emanare il giudizio di equità il giudice si configura come fonte di diritto subordinata, perché può emettere un tale giudizio solo se e nella misura in cui è autorizzato dalla legge. Giudicando secondo equità il giudice agisce come un arbitro, ma in senso giuridico un arbitro non sempre può prescindere dal diritto. Il giudice e rispettivamente l’arbitro possono pronunciare un giudizio di equità quando sono autorizzati dalle parti interessate e la controversia riguarda diritti disponibili. La dottrina distingue tre tipi di equità: equità sostitutiva, integrativa e interpretativa: a) si parla di equità sostitutiva quando il giudice stabilisce una regola che supplisce alla mancanza di una norma legislativa; b) si parla di equità integrativa quando la norma legislativa esiste ma è troppo generica, in questo caso l’equità completa le parti mancanti; c) si parla di equità interpretativa quando il giudice definisce in base a criteri equitativi il contenuto di una norma legislativa che esiste ed è completa, equità non ammissibile nel nostro ordinamento giuridico in quanto può diventare un espediente per emanare una sentenza che deroghi alla legge. Siccome il giudizio di equità è emesso senza regole preesistenti, la fonte del diritto non è l’equità, ma il giudizio, in quanto attraverso esso si esplica il potere normativo del giudice. Il considerare l’equità come fonte del diritto nasce dall’attribuire alla locuzione “fonte del diritto” non più il significato tecnico-giuridico di fatti o atti a cui l’ordinamento giuridico riconosce il potere di produrre norme giuridiche, ma un significato definibile filosofico per indicare il fondamento, i principi che determinano il valore della norma. La c.d. “natura delle cose” come fonte di diritto
La dottrina giuspositivistica tratta del problema della natura delle cose nel capitolo dedicato alle fonti “apparenti”, “presunte” o “pseudofonti”. L’essenza del giusnaturalismo consiste nella convinzione di poter ricavare le regole fondamentali della condotta umana dalla natura stessa dell’uomo: è evidente la stretta parentela fra il concetto di natura dell’uomo e quello di natura delle cose; intendendo il termine “cose” in senso lato il primo concetto può essere ricompreso nel secondo. Dernburg tenta di definire la nozione di natura delle cose lontano dalle soluzioni giusnaturalistiche e lo fa basandosi su due punti: a) il limitare il ricorso a questo concetto per la sola integrazione del diritto da parte del giudice o dell’interprete; b) il contrapporre alla considerazione dell’uomo astratto propria del giusnaturalismo la considerazione empirica dell’uomo nelle sue varie manifestazioni storico-sociali. Ma la definizione di Dernburg conserva in comune col giusnaturalismo l’idea che tali norme valgano di per sé stesse senza che sia necessario un atto di statuazione da parte dell’uomo. Il concetto di equità e quello di natura delle cose sono paralleli e antitetici al tempo stesso: paralleli perché hanno la funzione di fornire una soluzione ad una controversia in mancanza di una preesistente norma legislativa; antitetici perché mentre l’equità fonda la decisione su una valutazione oggettiva del giudice, la natura delle cose la ricava dallo stesso fatto che si deve regolare. La nature delle cose è una nozione che nasce dunque dall’esigenza di garantire l’oggettività della regola giuridica. Tuttavia, è inficiata da quella che in filosofia morale viene detta la fallacia naturalistica, l’illusoria convinzione di poter ricavare dalla constatazione di una certa realtà una regola di condotta. In realtà non è il fatto in se che pone la regola, ma il fine che si vuole raggiungere, tuttavia, la natura delle cose non può da sola suggerire una regola perché non può suggerire un fine, al massimo può suggerire i mezzi per raggiungerlo. Consideriamo un qualsiasi rapporto di causa ed effetto, è possibile convertire un dato
rapporto in una regola di condotta. Dalla natura delle cose posso quindi ricavare una pluralità di regole di condotta a seconda di quale fine mi propongo. D’altra parte non è detto che la concordanza sul fine permetta di ricavare una regola di condotta, vi può infatti essere una divergenza sui mezzi da utilizzare per raggiungere tale fine. Si può considerare la natura delle cose come fonte solo se col termine fonte si indica l’origine del contenuto delle norme giuridiche, la materia da cui è tratta la regula decidendi. Capitolo IV – La teoria imperativistica della norma giuridica. (pag.185 – 201) La concezione della norma giuridica come comando. Distinzione tra comando e consiglio. Austin e Thon
Gli esponenti del positivismo giuridico sono concordi nel definire la norma giuridica come avente la struttura di un comando. Non si può configurare come comando la norma consuetudinaria, perché il comando è la manifestazione di una volontà determinata e personale, mentre la consuetudine è una manifestazione spontanea di convinzione giuridica. Questo schema cade quando viene considerato l’ordinamento internazionale, questo infatti si esprime mediante consuetudini e trattati che fondano rapporti bi o plurilaterali: ai trattati manca il rapporto di subordinazione dato che le relazioni internazionali sono su base paritaria. La dottrina della legge come comando è fondamentale nel pensiero medievale in cui si trova la distinzione fra comando e consiglio. Secondo S. Tommaso ciò che è proprio della legge è comandare. Il comando comporta per il suo destinatario una necessità, mentre il consiglio lascia libertà di scelta. Nel pensiero post-medievale la concezione imperativistica del diritto continua ad essere elaborata con riferimento alla distinzione fra comando e consiglio: tale concezione ha particolare rilievo in Hobbes e in Thomasius. Per Hobbes essa serve a distinguere le prescrizioni dello Stato da quelle della Chiesa: lo Stato dà dei comandi, la Chiesa dei consigli. Thomasius utilizza i due concetti per distinguere il diritto positivo da quello naturale: il primo consiste in comandi, il secondo in consigli. Questo autore inserisce una terza categoria di precetti che hanno natura mista come, l’ammonimento del padre al figlio; comandi veri e propri sono invece quelli rivolti dal superiore all’inferiore; le altre prescrizioni sono meri consigli. Possiamo raggruppare sotto sei diversi punti di vista le differenze che la tradizione ha individuato fra comando e consiglio: 1. Rispetto al soggetto attivo: colui che dà un comando deve essere investito da un’autorità, mentre chi dà un consiglio può essere sfornito di ogni potere. 2. Rispetto al soggetto passivo: nel comando il destinatario si trova in posizione di obbligo, nel consiglio invece in posizione di facoltà o liceità. 3. Rispetto alla ragione per cui si ubbidisce: al comando si ubbidisce per il suo valore formale, al consiglio per quello sostanziale. Una categoria intermedia fra consiglio e comando è la direttiva: la prescrizione data da un orango superiore ad uno inferiore, e alla quale quest’ultimo ubbidisce solo se d’accordo o eventualmente motivando il suo dissenso. 4. Rispetto al fine: secondo Hobbes il comando è dato nell’interesse di colui da cui promana, il consiglio nell’interesse di colui a cui è rivolto: possiamo avere delle norme giuridiche poste nell’interesse dei destinatari e altre poste nell’interesse comune di governati e governanti. 5. Rispetto alle conseguenza dell’adempimento: nel caso del comando, se questo causa delle conseguenze negative, è responsabile colui che ha imposto la prestazione; nel caso del consiglio invece colui che l’ha adempiuto. 6. Rispetto alle conseguenze dell’inadempimento: nel caso del comando la conseguenza spiacevole è una sanzione (una conseguenza istituzionale); nel caso del consiglio una conseguenza naturale. La costruzione imperativistica delle norme permissive
Le critiche mosse alla concezione del diritto come comando, derivano dalla necessità di chiarire il significato dell’affermazione per cui “il diritto è un complesso di imperativi”. Se significa che tutte le norme giuridiche sono degli imperativi, si obbietta che nel diritto si trovano anche norme permissive, divise in norme permissive in senso proprio che attribuiscono una facoltà, e norme attributive che conferiscono un potere. Le norme permissive in senso proprio non contrastano in realtà con la dottrina imperativistica per il fatto che esse non sono norme autonome, ma semplici
disposizioni normative che servono a limitare un imperativo precedentemente stabilito. Dato che vi sono due tipi di imperativi, quelli positivi e quelli negativi, vi saranno pure due categorie di norme permissive in senso stretto, quelle positive e quelle negative: per negare un imperativo positivo è necessaria una proposizione permissiva negativa; per negare un imperativo negativo, è necessaria una proposizione permissiva positiva. Ancora più semplice è la risposta circa le norme attributive, in cui troviamo il potere correlato al dovere. La norma attributiva conferisce ad un dato soggetto un potere, che comporta sempre un dovere in capo ad un altro soggetto. In sintesi: la norma attributiva non è altro che una norma imperativa in cui il legislatore si indirizza al destinatario del potere. La caratterizzazione dell’imperativo giuridico: tentativi insoddisfacenti
Per cercare di caratterizzare gli imperativi giuridici la dottrina è ricorsa a diverse distinzioni: 1. Imperativi positivi e negativi: Thomasius aveva sostenuto che il diritto impone solo obblighi negativi, Leibniz affermava invece contenere il diritto anche obblighi positivi. 2. Imperativi autonomi e eteronomi: qualche autore ha voluto usare questa distinzione affermando che gli imperativi giuridici sono eteronomi ma le norme giuridiche possono essere sia autonome che eteronome. 3. Imperativi personali e impersonali: alcuni studiosi sostengono che le norme giuridiche sono sempre imperativi impersonali, in quanto provengono sempre da una qualche collettività. Tuttavia, le norme di uno Stato assoluto e di uno Stato democratico, possono essere personali. 4. Imperativi generali e individuali: molto diffusa è l’affermazione che il diritto sia costituito da imperativi generali, ma oggi si tende ad ammettere l’esistenza anche di imperativi giuridici individuali. 5. Imperativi astratti e in concreti: la dottrina tradizionale considera le norme giuridiche come imperativi astratti, ma anche il diritto può prescrivere una singola azione. La caratterizzazione dell’imperativo giuridico: il diritto come imperativo ipotetico
Un’ultima distinzione è quella fra imperativo categorico e ipotetico: il primo ha questa formula: Devi fare A quello ipotetico ha invece quest’altra: Se vuoi B, devi fare A Questa distinzione è stata formulata da Kant che la usa per distinguere gli imperativi morali da tutti gli altri imperativi. L’imperativo categorico comanda un’azione che è buona in se stessa, quello ipotetico prescrive un’azione buone per raggiungere un dato fine. Mentre quindi l’imp. Categorica mi indica un fine che devo scegliere, quello ipotetico mi indica il mezzo da scegliere per raggiungere un dato fine. Kant chiama norme etiche gli imperativi categorici e norme tecniche quelli ipotetici in quanto propri delle attività umane che non incidono sulla sfera morale. La dottrina in generale considera le norme giuridiche come ipotetiche o tecniche, in quanto l’azione prescritta dalla legge è buona e si impone solo se si vuole evitare la sanzione, mentre quella normale è categorica proprio perché sfornita della sanzione. Il meccanismo della sanzione funziona in due modi diversi: a) nel primo caso la norma giuridica mi spinge a tenere il comportamento da essa voluto allo scopo di evitare di raggiungere un fine da me non voluto (sanzione). b) nel secondo caso, se io agisco senza rispettare il precetto, la sanzione mi impedisce di raggiungere il fine che volevo. La norma non ha una sua esistenza autonoma: se chiamiamo A l’illecito, e B la sanzione la norma giuridica presenta questa struttura: Se è A, deve essere B. E’ questa la formulazione della norma giuridica data dal Kelsen. La dottrina kelseniana rappresenta un certo modo di formulare l’imperativo giuridico, in quanto lo formula come imperativo ipotetico. Per dare un significato preciso alla formula “Se A, deve essere B”, bisogna convertirla in “Se è A, B deve essere raggiunto”, ma allora bisogna anche indicare chi deve eseguire B. la formula di Kelsen può essere formulata con maggiore chiarezza in questi termini: Se è A, il giudice deve compiere B.
La teoria del diritto come norma ipotetica ha avuto formulazioni diverse: nella prima si configura come norma tecnica rivolta ai sudditi, nella seconda come norma condizionata rivolta ai giudici. Concludendo, nella dottrina dell’imperativismo giuridico si è avuta un’evoluzione in cui si possono distinguere due fasi: a) imperativismo ingenuo, che considera il diritto come un complesso di comandi rivolti dal sovrano ai cittadini; b) imperativismo critico, che precisa i caratteri dell’imperativismo giuridico sotto sue aspetti: 1. La norma giuridica è un imperativo ipotetico; 2. La norma giuridica è un imperativo che si rivolge non ai cittadini, ma ai giudici. Capitolo V – La teoria dell’ordinamento giuridico. (pag.203 – 218)La teoria dell’ordinamento giuridico come contributo originale del positivismo giuridico alla teoria generale del diritto
La teoria dell’ordinamento giuridico è stata inventata ex novo dal positivismo giuridico. Prima del suo sviluppo infatti era mancato nel pensiero giuridico lo studio del diritto considerato come entità unitaria costituita dal complessi sistematico di tutte le norme. Nella lingua latina manca infatti un termine specifico che corrisponda a quello di ordinamento giuridico. Siamo dell’opinione che tale espressione sia la traduzione italiana del termine tedesco Rechtsordnung , e la volgarizzazione di tale espressione in Italia spetta a Santi Romano che pubblicò uno studio intitolato appunto l’ordinamento giuridico. Che l’origine del termine vada cercata nel filone tedesco e italiano è dimostrato dal fatto che esso non si trova né nella lingua inglese né in quella francese. La teoria dell’ordinamento giuridico trova la sua più coerente espressione nel pensiero del Kelsen. Caratteri fondamentale dell’ordinamento giuridico infine son: unità, coerenza e completezza. L’unità dell’ordinamento giuridico. La teoria kelseniana della norma fondamentale
La prima caratteristica dell’ordinamento giuridico è dunque l’unità; questa caratteristica, come anche l’impulso a realizzare l’unità del diritto attraverso l’unificazione, nasce da una concezione giusnaturalistica. Tuttavia, c’è modo e modo di concepire l’unità del diritto, e il modo in cui la intende il giusnaturalismo è profondamente diverso dal modo in cui l’intende il giuspositivismo: per il primo si tratta di un’unità sostanziale o materiale, riguardante il contenuto delle norme, per il secondo si tratta invece di un’unità formale, riguardante il modo in cui le norme sono poste. Secondo i giusnaturalismi il diritto costituisce un sistema unitario perché tutte le sue norme si possono dedurre con un procedimento logico l’una dall’altra, finché si arriva ad una qualche norma generalissima che è la base di tutto il sistema e che costituisce il postulato morale auto evidente. Secondo i giuspositivisti invece il diritto costituisce un’unità in un altro senso: perché le sue norme sono tutte poste dalla medesima autorità e possono tutte essere ricondotte alla medesima fonte originaria costituita dal potere legittimato a creare il diritto. La concezione giuspositivistica dell’unità dell’ordinamento giuridico ci riporta alle fonti del diritto: secondo il positivismo giuridico tali fonti sono gerarchicamente subordinate ed esiste una sola fonte di qualificazione che attribuisce direttamente o indirettamente carattere giuridico a tutto il complesso di norme. Ma il principio dell’unità formale dell’ordinamento crea un ulteriore problema. Se definiamo fonte del diritto il potere legittimato a porre le norme giuridiche, chi o cosa legittima tale potere a porre le norme? Per rispondere a tale domanda è stato necessario formulare la teoria della norma fondamentale, una norma che sta alla base dell’ordinamento e che garantisce l’unità formale dell’ordinamento. Essa non è la norma dal cui contenuto si deducono tutte le altre, ma la norma che legittima o autorizza il supremo potere esistente in un dato ordinamento a produrre norme giuridiche. Questa non è positivamente accertabile in quanto non è posta da un qualche altro potere superiore, ma è supposta dal giurista: è un’ipotesi, un postulato o un presupposto da cui parte nello studio del diritto. Il cittadino è obbligato a risarcire il danno per un atto illecito, in quanto così stabilisce il giudice con una sua norma perché vi è autorizzato dalla legge; la legge è stata posta dal Parlamento in base all’autorizzazione a questo attribuita dalla Costituzione; la cost. a sua volta è stata posta dal potere costituente. Infine consideriamo il potere costituente come autorizzato da una norma fondamentale. Questa teoria è stata sottoposta a molteplici critiche. E, in effetti, si può dubitare che essa riesca a chiudere il sistema normativo garantendo la perfetta unità. Infatti, se poniamo la domanda: su che
cosa si fonda la norma fondamentale?, o rispondiamo facendo rinvio ad un’altra norma, o rispondiamo che tale norma esiste giuridicamente in quanto di fatto è osservata, e allora ricadiamo nella soluzione che si voleva evitare con la teoria della norma fondamentale, cioè facciamo dipendere il diritto al fatto. Rapporti fra coerenza e completezza dell’ordinamento giuridico
Il carattere della coerenza e quello della completezza sono fra loro strettamente connessi, anche se non è sempre evidente. Il Carnelutti, esprime tale rapporto affermando che il diritto può presentare due vizi: uno per eccesso e uno per difetto. Nel primo caso l’opera del giurista consiste nella purgazione, nel secondo nell’integrazione. L’incoerenza del sistema è quella situazione in cui vi è una norma in più, nell’incompletezza vi è una norma in meno. La coerenza dell’ordinamento giuridico. I criteri per eliminare le antinomie
Il principio della coerenza dell’ordinamento giuridico, consiste nel negare che in esso vi possano essere delle antinomie (delle norme tra loro incompatibili). Innanzitutto occorre stabilire quando esiste un’antinomia, a questo scopo ricorriamo alla logica simbolica: Dato l’obbligo di fare a, a seconda di come dispongo il segno della negazione posso avere altre norme e cioè: l’obbligo di non fare a = al divieto di fare a; i non obbligo di fare a = il permesso di a; il non obbligo di non fare a = il permesso di fare a. se dispongo questi simboli sui vertici di un quadrato, e li unisco tra di loro secondo i lati e le diagonali, ottengo sei coppie di norme, tre rappresentano rapporti di incompatibilità, tre di compatibilità. Delle tre coppie di norme incompatibili la prima è costituita da due norme fra di loro contrarie, che non possono essere entrambe valide ma possono essere entrambe invalide, perché è possibile una terza norma. Le altre due coppie di norme incompatibili sono costituite da norme fra loro contraddittorie, che non possono essere né simultaneamente invalide né simultaneamente valide. Delle altre coppie fra loro compatibili due sono subalterne, l’altra è una coppia di norme subcontrarie. La difficoltà però consiste nello stabilire quale delle due norme incompatibili è quella valida. La dottrina ha formulato tre criteri: il criterio cronologico, quello gerarchico e quello di specialità. Date due norme incompatibili, a) secondo il criterio cronologico la norma successiva prevale su quella precedente di pari grado gerarchico; b) secondo il criterio gerarchico la norma di grado superiore prevale su quella di grado inferiore; c) secondo il criterio di specialità la norma speciale prevale su quella generale. Vi sono dei casi però in cui questi criteri non possono essere applicati: 1. Quando vi è un conflitto fra gli stessi criteri; 2. Quando non si può applicare nessuno dei tre criteri. a) esiste un conflitto fra il criterio gerarchico e quello cronologico quando una norma precedente e di grado superiore è antinomica rispetto ad una norma successiva e di grado inferiore, in tal caso prevale il criterio gerarchico; b) vi è un conflitto fra criterio di specialità e criterio cronologico quando una norma precedente e speciale è in antinomia con una norma successiva generale, in tal caso prevale il criterio di specialità. Il criterio gerarchico e quello di specialità sono dunque criteri forti, quello cronologico è un criterio debole. c) vi è un conflitto fra criterio gerarchico e di specialità quando una norma generale e di grado superiore è antinomica rispetto ad una norma speciale e di grado inferiore. In questo caso si può forse ricorrere al criterio debole, come criterio sussidiario per stabilire la prevalenza dell’uno o dell’altro: prevale il criterio gerarchico se la norma generale è successiva all’altra, prevale quello di specialità se è la speciale ad essere successiva. la seconda difficoltà si ha quando non è applicabile nessuno dei tre criteri, in quanto si hanno due norme antinomiche che sono contemporanee, paritarie e generali. In questo caso si è fatto ricorso ad un altro criterio: la prevalenza della “lex favorabilis” sulla “lex odiosa”. Si considera lex favorabilis quella che stabilisce un permesso e odiosa quella che stabilisce un imperativo, in quanto si parte dallo status libertatis e quindi la norma imperativa ha natura eccezionale, e deve cedere se
entra in conflitto con una norma permissiva. Questo criterio può forse servire fra due norme di diritto pubblico, ma non serve fra due norme di diritto privato. C’è inoltre un altro caso non risolvibile col criterio appena enunciato, ed è quello in cui ambedue le norme sono imperative, l’una comanda e l’altra proibisce lo stesso comportamento. In questo caso, sarà valida la norma che né comanda né proibisce, ma permette il comportamento in questione. La completezza dell’ordinamento giuridico. Il problema delle lacune della legge
Delle tre caratteristiche dell’ordinamento giuridico, quella della completezza è la più importante. Essa infatti è strettamente connessa con il principio della certezza del diritto, che è l’ideologia fondamentale di questo movimento giuridico. Tale connessione è messa in luce da Radbruch, dove osserva che il principio della completezza concilia due altri fondamentali assunti giuspositivistici, quello per cui il giudice non può creare i diritto e quello per cui il giudice non può mai rifiutarsi di risolvere una controversia. Radbruch suggerisce una questione preliminare: si deve parlare di “completezza della legge” o di “completezza del diritto”? Generalmente si usa la seconda espressione, se però vogliamo impostare il problema nel suo significato più pregnante, bisogna parlare di lacune della legge, con riferimento alle norme poste da una specifica fonte del diritto: il potere legislativo. Affermare che l’ordinamento giuridico è completo significa negare l’esistenza di queste lacune, e la dimostrazione della loro inesistenza fa capo a due teorie diverse: 1. La teoria dello spazio giuridico vuoto: ha il suo maggior esponente in Bergbohm, ed è stata sostenuta in Italia da Santi Romano. Questi autori affermano che non ha senso parlare di lacune del diritto perché il fatto non previsto da nessuna norma è un fatto situato fuori dei confini del diritto. Romano chiama la sfera extra-giuridica, sfera di ciò che non è né lecito né illecito. Tale formula è accettabile se viene intesa nel senso che gli atti non regolati da norme giuridiche non appartengono alla sfera delle azioni di cui si può predicare che sono lecite o illecite. Allo stesso modo posso dire degli atti non regolati dal diritto che essi non sono né leciti né illeciti, appartengono alla sfera delle azioni non suscettibili di ricevere una qualifica giuridica. 2. La teoria della norma generale esclusiva: ha il suo maggior esponente in Zitelmann, ed è stata ripresa in Italia da Donati. Secondo quest’ultimo autore non esistono dei fatti giuridicamente irrilevanti, e ciò nonostante, non esistono lacune, perché ogni norma giuridica generale è sempre accompagnata da una seconda norma implicitamente contenuta in essa. Se per esempio esiste una norma che dice: “E’ vietato importare sigarette”, tale norma contiene implicitamente in sé un’altra norma che dice:”E’ permesso importare tutte le altre cose che non sono sigarette”. L’ordinamento giuridico risulta l’insieme di tutte le norme particolari e generali esclusive. Queste ultime si possono esprimere in una sola norma che dice: “E’ permesso tutto ciò che non è né comandato né vietato”. Tale norma è detta norma di chiusura, in quanto assicura la completezza dell’ordinamento, garantendo l’attribuzione di una qualifica giuridica a tutti i fatti non previsti dalle altre norme. I fatti che nella storia dello spazio giuridico vuoto costituiscono la sfera del giuridicamente irrilevante, nella teoria della norma generale esclusiva costituiscono la sfera del giuridicamente lecito. È stato osservato che gli operatori del diritto parlano sovente di lacune del diritto; com’è possibile se il diritto è completo? È stato risposto che alcuni usano il termine in senso ideologico, intendendo cioè l’assenza di una certa norma che sia conforme ai loro ideali di giustizia. I giuristi parlano di lacune della legge anche per indicare norme giuridiche in cui si verifica una sfasatura fra la volontà espressa e la volontà presunta del legislatore. Il positivismo giuridico ammette l’esistenza di questi casi, ma osservano che essi non rappresentano vere e proprie lacune del diritto, in quanto le norme si possono completare dall’interno, e più precisamente integrare. Il dogma della completezza è dunque strettamente connesso con quella della completabilità del diritto stesso. Capitolo VI – La funzione interpretativa della giurisprudenza. (pag.219 – 231) Il compito della giurisprudenza. La nozione di “interpretazione”
Nelle attività riguardanti il diritto possiamo distinguere due momenti: uno attivo o creativo del diritto e uno teorico o conoscitivo del diritto; il primo momento trova la sua manifestazione nella legislazione, il secondo nella giurisprudenza. Il dissenso fra il giuspositivismo e i suoi avversari comincia quando si tratta di precisare la natura conoscitiva della giurisprudenza: per il primo essa
consiste in un’attività puramente dichiarativa o riproduttiva di un diritto preesistente; per i secondi consiste in un’attività che è anche creativa o produttiva di un nuovo diritto. Queste diverse concezioni possono corrispondere a due tipi di filosofia diversi: la concezione giuspositivistica ad una gnoseologia di tipo realistico, quella antipositivistica ad una tipo idealistico. In conclusione il positivismo giuridico considera compito della giurisprudenza non la creazione ma l’interpretazione del diritto. Interpretare significa comprendere il significato del segno individuando la cosa da esso indicata. Ora il linguaggio umano è un complesso di segni e come tale esige l’interpretazione: essa è richiesta dal fatto che il rapporto esistente fra il segno e la cosa significata è un rapporto convenzionale, tanto che la stessa idea può essere espressa in modi diversi. L’interpretazione si impernia sul rapporto fra due termini, il segno e il significato, e assume sfumature diversi a seconda che tenda a gravitare verso l’uno o l’altro di questi due poli. Si parla rispettivamente di interpretazione secondo la lettera o secondo lo spirito. Da un altro punto di vista si parla invece di interpretazione statica o dinamica. Uno dei campi in cui si è maggiormente sviluppata ed organizzata l’interpretazione è quello del diritto. Il positivismo giuridico è accusato di sostenere una concezione statica dell’interpretazione, che dovrebbe consistere solo nella ricostruzione puntuale della volontà soggettiva del legislatore che ha posto le norme, senza preoccuparsi di adattare queste ultime alle mutate condizioni ed esigenze storico sociali come fa invece l’interpretazione evolutiva sostenuta dalla corrente antipositivistica. I mezzi del positivismo giuridico: l’interpretazione dichiarativa; l’interpretazione integrativa (l’analogia)
L’interpretazione è generalmente testuale,in alcune circostanze extratestuale, ma mai antitestuale. Per ricostruire la volontà del legislatore il positivismo giuridico si serve di quattro espedienti: a) il mezzo lessicale consiste nella definizione del significato dei termini usati dal legislatore, mediante l’analisi dei contesti in cui tali termini vengono usati; b) il mezzo teologico, un mezzo interpretativo basato sul motivo o scopo per cui la norma è stata posta; c) il mezzo sistematico che implica non solo il presupposto della ragionevolezza del legislatore ma anche quello che la volontà del legislatore sia unitaria e coerente; d) il mezzo storico che consiste nell’utilizzare i documenti storici per ricostruire la volontà del legislatore. La giurisprudenza tradizionale aveva ritenuto suo compito anche l’integrare l’ordinamento giuridico nel caso in cui presentasse delle lacune. È necessario però mettere in rilievo che tale integrazione non è un’attività qualitativamente diversa dall’interpretazione, ma una species particolare del genus interpretazione. In questo senso si parla di interpretazione integrativa con cui si estende a casi non espressamente previsti una disciplina stabilita da una norma che prevede casi simili. Ciò significa che sono permessi tutti quei comportamenti che non sono obbligatori, salvo quelli che possono essere considerati simili a quelli obbligatori. Il che significa che ci sono due norme generali di chiusura: la norma generale esclusiva, che qualifica come leciti i rapporti non espressamente regolati, e quella che possiamo chiamare norma generale inclusiva, che sottopone i casi non espressamente regolati, alla disciplina di questi ultimi. L’integrazione del diritto avviene principalmente attraverso l’interpretazione analogica, fondata sul ragionamento per analogia. Tale analogia è uno strumento fondamentale della giurisprudenza. Non lo si ammette solo se è espressamente vietato dal diritto. Il ragionamento per analogia ha una struttura simile al sillogismo, solo che la sua preposizione minore, è costituita da un’affermazione di somiglianza. La forma del sillogismo è: M è P S è M S è P La forma del ragionamento per analogia è invece questa: M è P S è simile a M
S è P Nel ragionamento per analogia la somiglianza esistente fra il soggetto e il termine medio può essere rilevante o irrilevante, e solo quando la somiglianza è rilevante la conclusione è esatta. Noi diciamo che un’entità ha una somiglianza rilevante con un’altra quando ha in comune con questa quegli elementi che sono la condizione o ragione sufficiente per cui noi attribuiamo ad essa un certo predicato. Ciò che distingue il ragionamento per analogia dal sillogismo è il numero dei termini del ragionamento che sono 4 invece di 3, la vera forma del ragionamento per analogia è infatti questa: M è R R è P S è R S è P Nel caso dell’interpretazione analogica esiste una somiglianza rilevante quando i due casi presentano la medesima ratio legis. Nell’utilizzare il ragionamento per analogia nell’interpretazione giuridica il positivismo giuridico non fa altro che continuare una lunghissima tradizione precedente: ciò che esso introduce di nuovo è il concetto di volontà presunta del legislatore. Nell’estendere in via analoga una certa norma a un caso da essa non previsto, l’interprete applica ancora la volontà del legislatore, perché si presuppone che se lo avesse previsto lo avrebbe regolato in quel modo. Così l’interprete positivista imputa sempre le norme da lui formulate alla volontà del legislatore. Oltre all’analogia vera e propria vi sono altri due mezzi di interpretazione integrativa: l’interpretazione estensiva, la più affine all’analogia legis, e l’analogia juris. L’interpretazione estensiva è una forma minore di ragionamento per analogia nella quale si applica una norma ad un caso da essa non previsto, ma simile a quello espressamente regolato. L’analogia juris invece si basa su un duplice procedimento si astrazione e sussunzione di una species in un genus. Il processo di astrazione consiste nel ricavare i principi generali dell’ordinamento giuridico. Una volta formulata la norma generale, il giurista la applica a quei casi che, pur non essendo disciplinati, sono ricompresi nell’ambito dei casi previsti dalla stessa norma generale. La concezione giuspositivistica della scienza giuridica: il “formalismo scientifico”
Il giuspositivismo concepisce la scienza giuridica come una scienza costruttiva e deduttiva che prende di solito il nome di dogmatica del diritto e consiste nell’elaborazione di concetti giuridici fondamentali, ricavati sulla base dello stesso ordinamento giuridico, e non sottoponibili a revisione o discussione. Sul fondamento di tali concetti il giurista deve ricavare le norme che servono a risolvere tutti i possibili casi. Tale concezione è stata accusata di formalismo, in questo caso siamo di fronte a quello che abbiamo definito formalismo scientifico: in quanto il giuspositivismo nell’interpretazione da assoluta prevalenza alle forme a scapito della realtà sociale che sta dietro ad esse. Capitolo VII – Il positivismo giuridico come ideologia del diritto. (pag.233 – 244) “Teoria” e “Ideologia”. L’aspetto ideologico del positivismo giuridico. Critica alla teoria e critica all’ideologia giuspositivistiche
Per stabilire se il positivismo giuridico sia anche un’ideologia, dobbiamo chiarire i concetti di teoria e ideologia. La teoria è l’espressione dell’atteggiamento puramente conoscitivo che l’uomo ha assunto di fronte ad una certa realtà, ed è costituita da un complesso di giudizi di fatto che hanno il solo scopo di informare gli altri su tale realtà; l’ideologia invece è l’espressione dell’atteggiamento valutativo che l’uomo assume di fronte ad una realtà, e consiste in un complesso di giudizi di valore relativi ad essa. A proposito di una teoria noi diciamo che è vera o falsa, non ha senso invece predicare la verità o la falsità di un’ideologia. Diremo invece che un’ideologia è di tipo conservatore o di tipo progressista a seconda che valuti positivamente la realtà attuale e quindi si proponga di influire su di essa per conservarla, o che la valuti negativamente, e quindi si proponga di influire su di essa per cambiarla. L’ambizione del positivismo giuridico è di essere una teoria e non un ideologia, tuttavia esso appare non solo un certo modo di intendere il diritto ma anche un certo modo di volere il diritto, apparendo quindi anche un ideologia. L’aspetto ideologico è assolutamente prevalente nel pensiero di Bentham, in Austin invece, è più evidente l’aspetto
teorico. Un aspetto ideologico è riscontrabile anche nei giuristi francese della scuola delle esegesi, che non sono solo degli interpreti ma anche degli ammiratori del Codice Napoleone. Il momento ideologico ha infine una notevole importanza nei giuspositivisti tedeschi che subiscono l’influenza della concezione hegeliana dello Stato, secondo la quale lo Stato ha un valore etico, è la manifestazione suprema dello spirito nel suo divenire storico, e quindi è esso stesso il fine ultimo a cui gli individui sono subordinati. Questa distinzione ci aiuta a capire il significato della polemica antipositivistica, le critiche provengono infatti da una parte dalla corrente del realismo giuridico che critica i suoi aspetti teorici affermando che non rappresentano adeguatamente la realtà effettiva del diritto; dall’altra dalla corrente del giusnaturalismo, che critica gli aspetti ideologici mettendo in rilievo le funeste conseguenze pratiche che ne derivano. Bisogna dunque distinguere la critica degli errori dalla critica degli orrori. Quest’ultima ha assunto una grande rilevanza negli ultimi 15 anni, in quanto il positivismo giuridico è stato considerato uno delle cause dell’avvento dei regimi totalitari europei. Il contenuto e il significato della versione estremistica dell’ideologia giuspositivistica: le sue varie giustificazioni storico-filosofiche
Ta le ideologia consiste nell’affermare il dovere assoluto o incondizionato di ubbidire alla legge in quanto tale. È evidente che con una simile affermazione siamo di fronte ad una dottrina etica del diritto. Per questo riteniamo che sarebbe più corretto parlare di positivismo etico con riferimento all’ideologia giuspositivistica. L’affermazione del dovere assoluto di ubbidire alla legge tr ova la sua spiegazione storica nel fatto che, con la formazione dello Stato moderno, i diritto statual-legislativo è diventato l’unico ordinamento normativo, il criterio unico per la valutazione del comportamento sociale dell’uomo. Per criticare la valutazione dei comportamenti umani fatta da un ordinamento, è necessario che esista un altro criterio di valutazione in base al quale diventi possibile tale critica. Se invece esiste un unico ordinamento normativo, l’uomo non può fare altro che obbedire, o commettere un atto illecito. L’assolutezza dell’obbedienza alla legge, significa che l’obbligo non è solo giuridico, ma anche morale. Il che vuol dire che l’uomo deve obbedire non solo perché vo è costretto, ma perché è convinto che tale obbedienza è una cosa intrinsecamente buona: obbedienza non per costrizione ma per convinzione. Possiamo anche dire che tale dovere è sentito come un’obbligazione autonoma, della cui osservanza rispondo alla mia coscienza “ dovere di coscienza di obbedire alle leggi”. Tra la concezione giuspositivistica e quella tradizionale c’è una differenza radicale, il positivismo etico parla di obbedienza alle leggi in quanto tali; il pensiero tradizionale afferma il dovere di obbedire alle leggi in quanto giuste. Invece nella definizione della legge del positivismo giuridico non è compresa la giustizia, ma solo la validità. Mentre il giusnaturalismo deduce la validità di una legge dalla giustizia, il giuspositivismo estremistico deduce la giustizia dalla validità. Tenteremo di giustificare in quattro modi diversi la concezione dell’obbedienza assoluta alla legge: 1. Concezione realistica della giustizia: la giustizia è l’espressione della volontà del più forte che ricerca il proprio utile. Dal momento che la legge è l’espressione della volontà del sovrano, cioè del soggetto più potente, siamo costretti a dire che la legge è sempre giusta. Però, come osserva Rousseau, se essa è solo l’espressione della volontà del più forte, io le obbedisco solo perché non posso farne a meno e solo fino a che non posso farne a meno. 2. Concezione convenzionalistica della giustizia: la giustizia è ciò che gli uomini si sono accordati di considerare giustizia. Questa concezione trova la sua espressione più tipica in Hobbes secondo il quale non esiste un criterio oggettivo per distinguere il giusto dall’ingiusto, è giusto ciò che uno fa seguendo il proprio impulso o il proprio interesse. Quando tra due soggetti insorge una controversia, l’unico modo per risolverla senza la forza è di nominare un arbitro: l’atto con cui gli uomini escono dallo stato di natura consiste nell’accordo per attribuire a un solo soggetto il potere di stabilire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Con riferimento a questa concezione è lecito parlare di un obbligo morale di obbedire alle leggi, in quanto esse trovano il loro fondamento nel patto stipulato dai consociati. Il dovere di obbedire alle leggi trova però un limite nel caso in cui esse vadano contro il contenuto del contratto sociale, per Hobbes tale caso si verifica quando il comando del sovrano
mette in pericolo la vita del suddito. 3. Concezione sacrale dell’autorità: è quella concezione secondo cui il potere di comandare si fonda su un carisma. Interpretando la nota teoria di Max Weber, tre sono i modi in cui nelle varie società si giustifica il fondamento del potere: a) fondamento razionale del potere: il potere nasce da una valutazione razionale degli uomini, che riconoscono necessario attribuire a qualcuno il diritto di comandare perché possa esistere la società; b) fondamento tradizionale del potere: il potere si fonda sulla forza della consuetudine, si obbedisce al sovrano perché l’origine della sua signoria si perde nella notte dei tempi; c) fondamento carismatico del potere: il potere spetta ad un uomo che appare dotato di qualità sopra-umane. È quest’ultimo il caso della concezione sacrale dell’autorità: se si considera chi comanda investito di un potere soprannaturale, tutto ciò che egli ordina sarà sempre giusto, e dovrà quindi essere obbedito. 4. Concezione dello Stato etico: questa concezione può essere considerata come la laicizzazione della concezione sacrale dell’autorità. Lo Stato risulta qui portatore di una missione: quella di realizzare l’eticità non solo al diritto, ma anche alla morale. La versione moderata del positivismo etico: l’ordine come valore proprio del diritto
Esistono due versioni fondamentale del positivismo etico: una estremistica e una moderata. La prima è propria degli avversari del positivismo giuridico. Anche la versione moderata del positivismo etico afferma che il diritto ha un valore in quanto tale, indipendentemente dal suo contenuto, ma perché è il mezzo necessario per realizzare un certo valore, quello dell’ ordine. Per il positivismo etico il diritto ha sempre dunque un valore, ma mentre per la versione estremistica si tratta di un valore finale, per quella moderata si tratta di un valore strumentale. Anche questa seconda versione è un’ideologia in quanto preferisce il diritto all’anarchia a causa del valore che il primo permette di realizzare. È inoltre da notare che l’ordine viene concepito come il valore proprio ed immanente del diritto. L’ordine è il risultato della conformità di un complesso di accadimenti ad un sistema normativo. In altre parole è il risultato dell’attuazione di un sistema normativo. Si potrebbe obbiettare che il fine proprio del diritto non è l’ordine ma la giustizia, o in altri termini, l’ordine giusto. Nel senso tradizionale più comune la giustizia non significa altro che legalità, quindi ordine: azione giusta significa azione conforme alla legge. questa concezione della giustizia resta valida anche quando si parla non più di giustizia dell’azione ma di giustizia della legge: legge giusta è quella conforme alla legge superiore. Il positivismo etico moderato non si limita a considerare il diritto come mezzo necessario per realizzare l’ordine, ma ritiene che la legge sia la forma più perfetta del diritto. Questo dipende dal riconoscimento che la legge è un comando giuridico che ha caratteristiche peculiari: la generalità e l’astrattezza. a) generalità della legge: la legge è generale nel senso che disciplina il comportamento non di una singola persona ma di una classe di persone, in tal modo essa realizza l’eguaglianza formale: trattare in modo eguale le persone che appartengono alla stessa categoria; b) astrattezza della legge: la legge è astratta nel senso che non manda una singola azione ma una categoria di azioni, in tal modo realizza la possibilità di ciascuna persona di poter prevedere le conseguenze del proprio comportamento. Concludendo: la versione moderata del positivismo etico differisce da quella estremistica perché non dice che il diritto è un bene in se, ma solo che il diritto è un mezzo che serve per realizzare un determinato bene, l’ordine della società, con la conseguenza che se vogliamo questo bene, dobbiamo obbedire al diritto. Conclusione generale. (pag.245 – 250) I tre aspetti fondamentali del positivismo giuridico: la nostra valutazione nei suoi confronti
Possiamo distinguere tre aspetti del positivismo giuridico, a seconda che esso si configuri: a) come metodo per lo studio del diritto b) come teoria del diritto c) come ideologia del diritto L’assunzione del metodo positivistico non implica anche l’assunzione della teoria giuspositivistica: