Capitolo 2 I Biosensori
2.1 Generalità
Il termine biosensore risale all’anno 1956, quando Leland Clark ne enunciò per primo il concetto. Agli inizi degli anni '60, Clark e Lyons, introdussero il principio di accoppiare la selettività data dall’elettrodo con la specificità caratteristica di un enzima, costruendo il primo elettrodo ad enzima per la misura del glucosio in soluzioni biologiche, utilizzando la glucosio ossidasi come elemento di riconoscimento biologico. Due anni più tardi, Guilbault e Montalvo, descrissero la realizzazione di un biosensore per la misura dell’urea. La storia dello sviluppo dei biosensori ha aperto la strada al campo dei termistori enzimatici, biosensori microbici, immunosensori e nanobiosensori, (sviluppati rispettivamente da Mosbach nel 1974, Divis nel 1975, Liedberg nel 1983, e Vo-Dinh nel 2000) e oggi grazie ai continui sviluppi è sempre più presente e applicata [5]. 2.2 Definizione e classificazione
I biosensori sono dei dispositivi analitici costituiti da tre componenti principali: componente biologica, trasduttore e componente elettronica. La componente biologica (o anche mediatore biologico, o, elemento di riconoscimento molecolare), ovviamente attiva, rende il bioelettrodo specifico, e può essere costituita da: enzimi, batteri, microrganismi, recettori cellulari, anticorpi, acidi nucleici, tessuti animali o vegetali e persino, organi intatti. Il trasduttore ha, invece, la funzione di convertire il segnale biochimico in un segnale analitico, rendendolo così utilizzabile per la determinazione quantitativa, mentre, la componente elettronica può essere costituita da: un sistema di condizionamento del segnale, un display, un data processor e un sistema di memorizzazione, in pratica, da tutto ciò che serve per l’acquisizione e la visualizzazione dei dati.
I biosensori vengono però classificati in base alle due parti essenziali: il mediatore biologico e il trasduttore di segnale. In base alla componente biologica si distinguono in: • biosensori biocatalitici; • biosensori di affinità (immunosensori; chemorecettori; sensori a DNA e RNA; sensori ad aptameri (gene chips). Nel primo caso, l’elemento biologico (enzima) promuove la trasformazione dell’analita: S P, quindi il trasduttore deve rivelare S o P; nel secondo caso, →
l’elemento biologico (recettore) lega specificamente l’analita in un addotto: A+B
AB, quindi il trasduttore dovrà rivelare l’addotto AB [6].
→
Dal punto di vista dei trasduttori di segnale, i biosensori si suddividono in: elettrochimici, ottici, acustici, calorimetrici o termici (guardare la fig.1 per maggiori dettagli). È fondamentale, immobilizzare in qualche modo, la componente attiva sulla superficie del sensore, affinché si possa rilevare la variazione di un parametro chimico, fisico o chimico-fisico. Il trasduttore dell’informazione/segnale può essere di tipo elettrochimico (elettrodo), di massa (cristallo piezometrico o analizzatore di onda acustica), ottico o termico, non importa, ciò che conta è che il segnale sia chiaro e affidabile. La scelta del mediatore biologico viene fatta, sia tenendo in considerazione il grado di selettività (è l’elemento di riconoscimento molecolare il principale responsabile della selettività delle risposte), sia il tipo di identificazione che si intende raggiungere, nonché la particolare applicazione cui è destinato. La scelta del trasduttore di segnale deve rispondere a requisiti come alta sensibilità, buona riproducibilità, e selettività. Le migliori garanzie sono offerte dai trasduttori di tipo elettrochimico [7]. Lo schema in fig. 2.1 mostra come dall’interazione analita-mediatore, fuoriesca un segnale biologico, convertito dal trasduttore in un segnale di natura diversa (corrente, variazione di potenziale, assorbanza, variazione di temperatura, etc.) che,
I biosensori vengono però classificati in base alle due parti essenziali: il mediatore biologico e il trasduttore di segnale. In base alla componente biologica si distinguono in: • biosensori biocatalitici; • biosensori di affinità (immunosensori; chemorecettori; sensori a DNA e RNA; sensori ad aptameri (gene chips). Nel primo caso, l’elemento biologico (enzima) promuove la trasformazione dell’analita: S P, quindi il trasduttore deve rivelare S o P; nel secondo caso, →
l’elemento biologico (recettore) lega specificamente l’analita in un addotto: A+B
AB, quindi il trasduttore dovrà rivelare l’addotto AB [6].
→
Dal punto di vista dei trasduttori di segnale, i biosensori si suddividono in: elettrochimici, ottici, acustici, calorimetrici o termici (guardare la fig.1 per maggiori dettagli). È fondamentale, immobilizzare in qualche modo, la componente attiva sulla superficie del sensore, affinché si possa rilevare la variazione di un parametro chimico, fisico o chimico-fisico. Il trasduttore dell’informazione/segnale può essere di tipo elettrochimico (elettrodo), di massa (cristallo piezometrico o analizzatore di onda acustica), ottico o termico, non importa, ciò che conta è che il segnale sia chiaro e affidabile. La scelta del mediatore biologico viene fatta, sia tenendo in considerazione il grado di selettività (è l’elemento di riconoscimento molecolare il principale responsabile della selettività delle risposte), sia il tipo di identificazione che si intende raggiungere, nonché la particolare applicazione cui è destinato. La scelta del trasduttore di segnale deve rispondere a requisiti come alta sensibilità, buona riproducibilità, e selettività. Le migliori garanzie sono offerte dai trasduttori di tipo elettrochimico [7]. Lo schema in fig. 2.1 mostra come dall’interazione analita-mediatore, fuoriesca un segnale biologico, convertito dal trasduttore in un segnale di natura diversa (corrente, variazione di potenziale, assorbanza, variazione di temperatura, etc.) che,
opportunamente trattato, può essere facilmente messo in relazione con la quantità di analita iniziale. Componente
Analita
Trasduttore
biologica
Conversione del segnale
Aamperometrico
Onde acustiche
elettrochimico
acustico
Conduttometrico
Superficie SAW
Aassorbimento UV‐visibile
ottico
termico
Termocoppie
Fibre ottiche
Termistori
Chemiluminescenza
Trattamento del segnale‐Rilevazione Figura 2.1: Schema di caratterizzazione del trasduttore di un biosensore
I biosensori elettrochimici si basano sulla biotrasformazione specifica di substrati che, attraverso reazioni di ossidoriduzione, determinano un flusso di elettroni rilevabile grazie al trasduttore elettrochimico. La risposta del trasduttore viene convertita in un segnale elettronico strettamente correlato alla concentrazione del substrato. Per far si che ciò possa avvenire, è necessaria la formazione del complesso fra la sostanza biologicamente attiva e l’analita (o substrato). Solo quando l’analita riesce a legarsi al mediatore biologico il trasduttore può espletare la propria funzione, trasformando l’effetto fisico e/o chimico causato dall’interazione, in un segnale elettrico, che poi verrà automaticamente elaborato, eventualmente amplificato e infine visualizzato (fig. 2.2).
Sostanze
Rilevazione
Trasduzione
Analita
Condizionamento del segnale
Trasduttore
(substrato)
uscita Interferenti
Segnale elettronico Mediatore biologico
Strato biologico
Figura 2.2: Schema di funzionamento di un biosensore
2.3 Il mediatore biologico
Come abbiamo già detto, esiste un’ampia gamma di sistemi biologici che possono essere integrati in un trasduttore di segnale per trasformarlo in un biosensore [8]. I componenti biologici più importanti per la costruzione dei biosensori sono gli enzimi (più di 2500 utilizzati attualmente), molecole proteiche che presentano attività catalitica [9]. La Commissione sugli Enzimi (EC) dell’Unione Internazionale di Biochimica (IUB) ha elaborato il sistema di nomenclatura e numerazione degli enzimi, che li suddivide in sei classi principali che ne definiscono la funzione: •
ossidoriduttasi (catalizzano reazioni di ossidoriduzione);
•
transferasi (catalizzano il trasferimento di interi gruppi di atomi);
•
idrolasi (catalizzano reazioni di idrolisi);
•
liasi
(catalizzano la rimozione o l’aggiunta di un gruppo di atomi ad un doppio
legame o altre scissioni con conseguenti riarrangiamenti elettronici); •
isomerasi (catalizzano
riarrangiamenti molecolari);
•
ligasi (catalizzano reazioni di fusione molecolare).
Gli enzimi sono proteine che, in alcuni casi, richiedono per il loro corretto funzionamento la presenza di gruppi non proteici, intimamente legati alla struttura enzimatica dotati di un’elevata specificità [9]. La parte proteica è detta apoenzima, mentre la frazione non proteica è conosciuta come gruppo prostetico. Il co-enzima (flavina-adenina dinucleotide, flavina mono-nucleotide, nicotinammide adenin dinucleotide, riboflavina, etc.) che partecipa insieme all’enzima nel processo di
catalisi ed in seguito si rigenera, insieme all’apoenzima forma l’oloenzima. Il cofattore
è un termine generico che di solito indica piccole molecole organiche
essenziali per il buon funzionamento enzimatico. Definiamo ora i principali parametri caratteristici di un enzima [11]: •
L’attività enzimatica, espressa in μmoli/min., è definita come la quantità di substrato convertito nell’unità di tempo (minuto) in condizioni standard di temperatura, pH e forza ionica. -1
•
-1
L’attività specifica enzimatica, espressa in μmoli·min ·mg di proteina, è l’attività enzimatica per unità di massa di 1 mg di proteina equivalente. -1
•
-1
La costante catalitica o il numero di turnover , espressa in μmoli·min ·mole , è l’attività enzimatica per mole di enzima.
•
La velocità di una reazione enzimatica che, in molti casi, è descritta dall’equazione:
v=V
[S] [S] + K M
dove: v: velocità di reazione, al minuto o al secondo, misurata sperimentalmente; V: velocità massima di reazione; [S]: concentrazione del substrato enzimatico, espressa in μmoli; K M: costante di Michaelis-Menten; è un altro parametro chiave. Quando la concentrazione del substrato è molto più grande della K M, la velocità di reazione v sarà uguale alla velocità massima di reazione. La velocità di reazione è indipendente dal tempo e dipende solamente dalla quantità di enzima che si trova nel sistema, nel momento della reazione tra il substrato specifico e l’enzima. La K M non è altro che la concentrazione del substrato corrispondente alla concentrazione del substrato enzimatico per cui la velocità di reazione è la metà del valore della velocità massima di reazione. 2.4 Enzimi immobilizzati
Per immobilizzazione si intende il legame fisico o chimico dell’enzima su un supporto costituito da matrici organiche od inorganiche, che limita artificialmente la sua mobilità nel mezzo di utilizzo [12]. L’interesse economico per lo studio di tecniche di immobilizzazione su supporti fisici deriva dalla capacità di separare l’enzima dal mezzo di reazione, con conseguente possibilità di riutilizzarne e sfruttarne tutta l’attività residua ed evitare la contaminazione dei prodotti [13]. Quindi questa tecnica rende possibile l’utilizzo di processi in continuo e consente di migliorare la stabilità e l’attività dell’enzima stesso, permettendone un utilizzo maggiore. 2.5 Tecniche di immobilizzazione
Le tecniche di immobilizzazione sono volte a simulare il naturale confinamento costituito generalmente dalla cellula vivente. I supporti su cui si può effettuare l’immobilizzazione sono materiali insolubili polimerici od inorganici inerti. In ambito industriale la scelta delle matrici volte all’immobilizzazione è determinante per il successo del processo enzimatico, infatti l’incidenza del costo dei supporti sul bilancio economico globale del processo risulta di notevole rilevanza. Naturalmente, oltre all’aspetto puramente economico sono da vagliare anche numerose caratteristiche fisiche del supporto, che possono incidere notevolmente sui processi come la capacità di legame, la porosità o l’area superficiale. La massima capacità di legame è determinata principalmente da due fattori: da un lato la densità superficiale dei siti di legame, per l’immobilizzazione covalente, o la semplice area superficiale disponibile, per l’adsorbimento fisico, e dall’altro il volume stericamente occupabile dall’enzima [14]. Questa capacità può essere influenzata dalle proprietà elettrostatiche e dal grado di polarità delle superfici esterne di enzima e matrice. Caratteristiche come la forma, la tipologia, la densità, la distribuzione e la dimensione dei pori o la distribuzione e la dimensione delle particelle della matrice possono influenzare la quantità di enzima caricato, il controllo diffusivo del processo e la configurazione del sistema in cui può essere utilizzato il biocatalizzatore
immobilizzato. Inoltre, la natura del supporto può incidere considerevolmente sulla reale attività e cinetica del biocatalizzatore. A conclusione di questa breve analisi, si può affermare che le caratteristiche richieste per un supporto ideale sono l’economicità, l’inerzia chimica, la stabilità, la capacità di incrementare la specificità dell’enzima riducendo l’inibizione verso il prodotto, la possibilità di variare il pH ottimale al valore adatto al processo e la capacità di bloccare la contaminazione microbica e l’adsorbimento non specifico. Chiaramente la maggioranza dei supporti forniscono solo alcune di queste caratteristiche, soltanto la consapevolezza dei pregi e difetti del supporto in uso permettono di ottenere le informazioni necessarie per l’ottimizzazione del sistema. Le procedure di immobilizzazione degli enzimi [15] che stabiliscono il contatto tra il mediatore biologico e il trasduttore possono essere raggruppate in due categorie: 1. Immobilizzazioni fisiche: in cui l’enzima è semplicemente trattenuto dal supporto; 2. Immobilizzazioni chimiche: in cui l’enzima è legato covalentemente al supporto. Per supporto si deve intendere il rivestimento dell’elettrodo. L’immobilizzazione fisica è operativamente più semplice; preserva con maggiore efficienza le caratteristiche dell’enzima, che però risulta più esposto agli agenti denaturanti (pH, forza ionica, tipo di substrato, temperatura). L’immobilizzazione chimica è sicuramente più complessa, ma i prodotti formati sono più stabili nel tempo e nei confronti degli agenti denaturanti. Una differenza sostanziale è rappresentata dal fatto che gli enzimi intrappolati fisicamente possono essere utilizzati per alcune centinaia di analisi, mentre con l’immobilizzazione chimica possono essere effettuate diverse migliaia di esami. Le tecniche di immobilizzazione di enzimi (fig. 2.3) più ampiamente utilizzate sono le seguenti: •
Immobilizzazioni fisiche a) Intrappolamento su gel e incapsulamento: le molecole di enzima si trovano all’interno di un gel di amido o poliacrilammide o di una membrana polimerica. Il polimero deve essere impermeabile all’enzima in modo da impedirne la fuoriuscita, ma allo stesso tempo deve permettere il passaggio dei
substrati (analiti). Il vantaggio è che si lavora a temperatura ambiente, alla quale molti enzimi sopravvivono; lo svantaggio è che può esserci una denaturazione dell’enzima a causa dei radicali liberi. b) Adsorbimento: l'enzima è trattenuto sul supporto da legami elettrostatici (ionici, dipolari) e da legami idrogeno. Il vantaggio di tale tecnica è che è poco distruttiva per l’enzima; lo svantaggio è che il linkage (ovvero il collegamento) dell’enzima è fortemente dipendente dal pH, dalla temperatura e dal solvente. Comunque, spesso gli enzimi adsorbiti sono insensibili e, tranne qualche caso, questa tecnica è raramente usata nel design dei biosensori. •
Immobilizzazioni chimiche a) Reticolazione tra l'enzima e macromolecole naturali o sintetiche tramite reagenti bifunzionali. È una procedura abbastanza semplice, ma c’è il problema della bassa attività enzimatica. b) Legame covalente tra l'enzima e il supporto insolubile direttamente o tramite
una molecola spaziatrice. Il legame covalente è l’ideale per la commercializzazione, rendendo stabile il complesso enzima-supporto, ma è complicato e richiede tempo. Bisogna anche stare attenti al fatto che alcuni legami possono essere così forti da inibire il movimento delle molecole. L’immobilizzazione chimica può essere realizzata con glutaraldeide (che si lega direttamente con l’enzima); poliazetidina (che reagisce con diversi gruppi funzionali); carbodiimide (che reagisce con gruppi carbossilici per immobilizzare e orientare gli anticorpi negli immunosensori); oppure con delle reti di nylon che servono solo ad immobilizzare l’enzima e, avendo una notevole permeabilità, non funzionano come barriera.
E
E
E
E
E
E
E
E
E
Intrappolamento su gel
Incapsulamento
Adsorbimento Matrice polimerica
E
E
E E
Supporto
E E
E
E
Legame covalente
Enzima
Reticolazione o Cross‐linking
Membrana semipermeabile Molecola spaziatrice
Figura 2.3: Tecniche di immobilizzazione di un enzima •
IMMOBILIZZAZIONI SU MONOLAYER AUTO-ASSEMBLATI ( SAM)
Un più alto grado di orientazione nell’immobilizzazione si ha in presenza di monolayer
auto-assemblati [8] (Self-Assembled Monolayer , SAM), ovvero
disposizioni di molecole ordinate (alcani-tioli, molecole contenenti tioli, glutaraldeide, carbodiimide, derivati del silano) su un singolo strato su un substrato. Tra le tecniche d’immobilizzazione su SAM, le più usate sono le seguenti: a) Intrappolamento su SAM: può essere realizzato, per esempio, usando alcanitioli o altre catene terminanti con tioli immobilizzati sulla superficie di un metallo nobile (Au; Pt; etc.). Si ricorre alle semplice deposizione fisica dentro il gel polimerico oppure alla tecnica dell’elettropolimerizzazione, in questa tecnica va controllata la porosità del gel, per evitare il rilascio dell’enzima, ma garantendo comunque il movimento del substrato e del prodotto. La parte sinistra della figura 2.4 mostra un monolayer di tio-lipidi formanti una struttura tipo-membrana, in cui le proteine sono immerse con diverse orientazioni. La parte destra della stessa figura, invece, mostra un SAM di catene di alcani-tioli di diversa lunghezza che consentono la formazione di avvallamenti sulla superficie che possono contenere le molecole proteiche. Pur trattandosi di un
metodo sicuro, che consente di evitare le contaminazioni dell’enzima da parte di composti nocivi e di limitarne le interferenze, vi sono forti ostacoli al trasporto di massa da e verso il supporto (e quindi il trasduttore). Questo svantaggio si traduce in tempi di risposta lenti e segnali non particolarmente stabili.
Figura 2.4: Intrappolamento su SAM; il punto nero
indica il centro di reazione.
b) Attachment non orientato o orientato su SAM: le catene terminanti con tioli sono legate covalentemente sulla superficie di un metallo nobile. Al lato, si vede che non c’è un’interazione
specifica tra l’estremità del gruppo tiolico e i siti sulla superficie proteica. In questo modo non si ha un controllo sull’orientazione. Al lato, si vede che c’è un’interazione
specifica tra il gruppo tiolico e un unico gruppo sulla superficie dell’enzima.
Per valutare la migliore immobilizzazione bisogna procedere sperimentalmente variando diversi parametri e verificando la risposta del sensore. In particolare, occorre controllare la sensibilità, il tempo di vita, il pH e la densità enzimatica. Variando la concentrazione dell’enzima varia la densità superficiale e la rivelazione all’elettrodo: più la densità enzimatica cresce più aumenta la sensibilità. Ma esiste un valore limite, infatti troppo enzima ostruisce il passaggio riducendo così, la sensibilità dell’elettrodo. Inoltre, è bene precisare che non esiste un materiale di supporto ideale su cui praticare l’immobilizzazione chimica, ma molte ricerche hanno dimostrato che l’idrofilicità è uno dei fattori principali da considerare per mantenere intatta la
funzionalità dell’enzima. I materiali polimerici contengono gruppi idrossilici, utili per l’attivazione chimica che porta alla formazione del legame covalente; anche vetro e silice a porosità controllata possono essere utilizzati. Le reazioni principali di tipo covalente fra enzima e supporto portano alla formazione di legami tipo isourea, diazocomposti o legami peptidici. Esistono tre principali tecniche di misura con i biosensori. Nella tecnica in batch il biosensore viene immerso in una soluzione tampone, il campione è aggiunto solo dopo che il segnale di corrente si è stabilizzato. Ad ogni aggiunta si ha un incremento del segnale [16]. La risposta che si ottiene è simile a quella che si ha con la tecnica di misura in flusso, in questo caso il biosensore è inserito in una cella a flusso in cui si fa scorrere soluzione tampone fino a quando il segnale di corrente diventa stabile; successivamente il tampone viene sostituito dal campione da misurare. La tecnica FIA (flow injection analysis) è, invece, una tecnica ad impulso [17]. Si mette nuovamente il biosensore in una cella a flusso in cui scorre il tampone ed il campione è aggiunto con diverse iniezioni nel flusso del tampone; in questo modo la risposta che si ottiene è a step. 2.6 Effetti dell’immobilizzazione enzimatica
La maggior parte degli studi cinetici delle reazioni catalizzate da enzimi sono condotti con l’enzima e il substrato in soluzione, quando l’enzima risulta immobilizzato si comporta, ovviamente, in maniera diversa dall’enzima libero in soluzione. In primo luogo, l’immobilizzazione può determinare un cambiamento della conformazione della molecola dell’enzima e quindi una differente cinetica della reazione catalizzata. In secondo luogo, il supporto utilizzato per l’immobilizzazione fornisce un microambiente differente che può avere un effetto significativo sulla cinetica della reazione; ciò comporta che la ripartizione del substrato tra reazione e supporto può determinare una concentrazione del substrato, in prossimità dell’enzima, significativamente differente da quella in soluzione. Inoltre, gli effetti
diffusivi giocano un ruolo importante quando si ha a che fare con gli enzimi immobilizzati a causa del considerevole grado di controllo diffusivo della reazione. Nel caso di enzima e substrato liberi in soluzione, generalmente, la velocità è data dalla tipica relazione di Michaelis-Menten, come visto sopra. Una volta stabilita la concentrazione di substrato [S] e la concentrazione totale di enzima [E], la velocità è presto determinata (Fig. 2.5 (a)). Se invece di essere liberi in soluzione, sia l’enzima che il substrato sono intrappolati in una matrice solida (ad esempio un gel) (Fig. 2.5 (b)), la situazione risulta diversa sotto vari aspetti. Poiché l’enzima ed il substrato possono esistere sotto diverse conformazioni, la costante di velocità può cambiare, inoltre, la reazione avviene in un ambiente differente. Risultato di questi due effetti sarà la diversità dei parametri della Michaelis-Menten rispetto a quelli in soluzione, ed è per questa ragione che si usano le costanti cinetiche vengono definite K’c e K’m.
Figura 2.5: Andamenti della velocità di
reazione nei diversi casi di immobilizzazione dell'enzima
Nella pratica reale, si ha che l’enzima è immobilizzato in un supporto solido, che potrebbe essere della forma di un disco, mentre il substrato è in soluzione, (Fig. 2.5(c)). Accadde perciò, che il substrato deve diffondere nel solido per raggiungere il sito attivo dell’enzima. La velocità di diffusione diventa importante, almeno come
quella cinetica, inoltre, c’è da tener in considerazione un altro fattore: la ripartizione del substrato tra soluzione e matrice solida (definito come partition factor, PF). Ad esempio il substrato può contenere gruppi non polari (idrofobici) come li contiene il supporto, in questo caso, il substrato sarà più solubile nel supporto che nella matrice acquosa. In altre parole, il coefficiente di ripartizione può essere PF>1 e questo avrà l’effetto di aumentare la velocità della reazione, mentre un PF<1 ed comporta che il substrato raggiunge l’enzima ma sarà minore rispetto al substrato presente nella fase acquosa con l’effetto di diminuire la velocità di reazione [9]. 2.7 Trasduzione del segnale elettrochimico
2.7.1 Trasduttori elettrochimici
Un biosensore elettrochimico è formato da un trasduttore di segnale elettrico, chiamato generalmente elettrodo, e da un sistema biologico, che quasi sempre è un enzima immobilizzato sulla sua superficie. Il principio di funzionamento di un biosensore così preparato è il seguente: una specie chimica, non elettroattiva, reagisce con l’enzima immobilizzato sulla superficie dell’elettrodo [18]. Il prodotto di questa reazione è un elemento, o composto elettroattivo, che diffonde sulla superficie elettrodica e genera un segnale elettrico che viene rilevato da uno strumento e messo in relazione alla concentrazione dell’analita in esame. Gli elettrodi che normalmente si utilizzano per assemblare biosensori elettrochimici si basano sulla: potenziometria, amperometria cronoamperometria e conduttometria [19]. ‐ Potenziometria
La potenziometria è una tecnica elettroanalitica in cui i trasduttori di segnale (elettrodi) misurano una differenza di potenziale che si viene a formare, in condizioni di flusso di corrente molto vicina a zero, tra l’elettrodo di riferimento e quello
indicatore. Essenziali per la misura potenziometrica sono l’accuratezza e la stabilità del potenziale dell’elettrodo di riferimento. La relazione tra la forza elettromotrice della cella e l’attività dello ione di interesse in soluzione deriva dall’equazione di Nernst: E = E 0' +
RT ln a i nF
dove: E: differenza di potenziale tra l’elettrodo di misura e quello di riferimento; Eo’: potenziale standard, V; R: la costante universale dei gas, 8.314 J mol -1 K -1; T: temperatura, K; n: carica elettrica dello ione i; F: costante di Faraday, 96485 C mol -1; ai: attività in soluzione dello ione i. In pratica, il coefficiente di attività (γ) dello ione, si assume uguale all’unità. Per soluzioni diluite l’attività è sostituita dalla concentrazione. Riscrivendo l’equazione di Nernst:
E = K + S log c si osserva che la forza elettromotrice E della cella varia linearmente con il logaritmo della concentrazione dello ione i, con una pendenza (S) ed una intercetta K, dove K è una costante numerica. A 25ºC si osserva una differenza di potenziale di 0.059 V per una variazione di concentrazione di una decade, nel caso di uno ione monovalente. Il sensore potenziometrico classico per eccellenza e nello stesso tempo il più diffuso è l’elettrodo a vetro per la misura del pH. Il suo funzionamento si basa su una membrana di vetro speciale, altamente selettiva allo ione H +. ‐ Amperometria
L’amperometria è una applicazione della voltammetria (o polarografia). Si mantiene un potenziale fisso tra due elettrodi, per poter seguire una variazione di corrente, in
condizioni di diffusione convettiva, in funzione della concentrazione di una data specie elettroattiva:
i l = nFA m 0 c 0 dove: il: corrente limite, A; n: numero di elettroni; F: costante di Faraday, 96485 C mol -1; A: area dell’elettrodo di lavoro, cm2; m0: coefficiente di trasporto di massa; c0: concentrazione della specie elettroattiva in soluzione, mol L -1. L’Equazione può essere riscritta in una forma ridotta:
il
=
K ⋅ c 0
dove k è una costante numerica.
Tale tecnica analitica richiede l’uso di un sistema a tre elettrodi, anche se a volte, se ne usano due per motivi pratici. La cella elettrochimica utilizzata nelle misure amperometriche è costituita da un elettrodo di lavoro (working electrode, WE), un elettrodo di riferimento (reference electrode, RE) e un elettrodo ausiliario, spesso chiamato anche controelettrodo (counter electrode, CE), tutti immersi in una soluzione elettrolitica. L’uso della configurazione a due elettrodi prevede solo l’impiego dell’elettrodo di riferimento e di lavoro, in questo modo il potenziale applicato ai due elettrodi tende a variare nel tempo, ma per brevi periodi operativi, questo inconveniente è trascurabile. La concentrazione della specie elettroattiva sotto investigazione è misurata rilevando la corrente che passa tra l’elettrodo di lavoro e ausiliario, mentre è applicata una differenza di potenziale costante tra l’elettrodo di lavoro e quello di riferimento. Il potenziale di lavoro è scelto in modo tale che l’analita di interesse possa essere ossidato o ridotto all’elettrodo di lavoro, in quanto ogni reazione di ossidoriduzione è caratterizzata da un diverso potenziale
elettrochimico ben definito. La scelta del potenziale di lavoro è condizionata dal materiale impiegato per la costruzione degli elettrodi di lavoro, dalle eventuali interferenze elettrochimiche e anche dalla sensibilità di misura che si desidera ottenere. Nel particolar caso dei biosensori, usando come rivelatore di segnale un normale amperometro, si misura la corrente generata indirettamente dall’interazione dell’analita con il componente biologico. Il prodotto di questa reazione costituisce la specie elettroattiva, che diffondendo sulla superficie elettrodica subisce una reazione redox.
‐ Cronoamperometria
Nelle misure cronoamperometriche si misura l’andamento della corrente nel tempo per un elettrodo di lavoro (W.E) il cui potenziale è costante o varia con legge nota. Il potenziale effettivo del W.E è dato dalla relazione: E W.E
=
E POT
−
E RE − iR
Dove EW.E e ERE sono rispettivamente i potenziali dell’elettrodo di lavoro e di riferimento, EPOT è il potenziale imposto e iR la caduta ohmica dovuta al passaggio di corrente. La dimensione ottimale dell’elettrodo di lavoro risulta dal bilancio di 2 contributi opposti, quello della superficie attiva, che determina l’entità del segnale, e il valore della corrente i passante, che aumenta la caduta ohmica, in quest’ultimo caso è importante anche la resistenza R dell’elettrodo di riferimento, che deve essere piccola. L’impiego di microelettrodi consente di mantenere il valore della corrente nell’ordine dei micro o nano Ampere, e permette l’utilizzo di una cella di elettrolisi a 2 elettrodi; se invece le dimensioni, e di conseguenza le correnti, sono più elevate, e l’elettrodo di riferimento possiede resistenza elevata, è conveniente usare allora, un
sistema a tre elettrodi, in cui il RE fornisce solo un potenziale costante e stabile, mentre la corrente circola tra il WE e il controelettrodo. In questo modo i=0 nel ramo del circuito e il termine iR non contribuisce più al potenziale E W.E. ‐ Conduttimetria
La conduttimetria si basa sulla misura della conducibilità elettrica di una soluzione elettrolitica e/o della sua variazione al variare del tipo o della concentrazione delle specie ioniche.
La conducibilità (o conduttanza, Λ) di una soluzione è l’inverso della sua resistenza elettrica (R): Λ
=
1 R
In base alla seconda legge di Ohm, la conducibilità diventa: Λ
=
1 l ρ S
=
1S S = χ ρ l l
dove: ρ: resistività ( Ώ cm);
l: lunghezza del conduttore (cm); S: area della sezione (cm2); χ : conduttività (S);
La conducibilità elettrica di una soluzione è misurata mediante un conduttimetro, collegato alla cella conduttimetrica, costituita da due elettrodi, in genere di Pt, immersi nella soluzione elettrolitica. I materiali (platino-platinato o platino palladiato) che costituiscono l’elettrodo, presentano una superficie effettiva maggiore di quella geometrica; per questo motivo, nelle misure, si indica come costante di cella K (cm), il rapporto S/l: Λ = χ ⋅ K
dove: Λ: conducibilità della soluzione (S); χ : conducibilità specifica (S/cm).
I fattori che agiscono sui meccanismi di conduzione sono: •
la concentrazione degli ioni in soluzione;
•
le cariche ioniche;
•
la velocità di migrazione degli ioni in soluzione;
•
la temperatura.
2.7.2 Trasduttori ottici
Consistono nella misura dell’assorbimento o dell’emissione di una radiazione in una regione dello spettro visivo (infrarossi, visibile, ultravioletti, raggi X). Bisogna notare che il segnale ottico è proporzionale al numero di molecole e non alla loro concentrazione, e che pertanto la geometria della regione sensibile risulta essere molto importante. La variazione di assorbanza può essere dovuta sia alla specie attiva che al reagente (metodo indiretto: complesso reagente-sostanza analizzata) [20]. 2.7.3 Trasduttori acustici
Consistono nel tradurre un segnale elettrico (di tensione o di corrente) in un segnale acustico. L’intensità di tale segnale acustico dipende chiaramente dal segnale che il trasduttore trova in ingresso [20]. 2.7.4 Trasduttori termici
I metodi di rivelazione termica consistono nella misura dell’entalpia di una determinata reazione, e si basano sul principio del calorimetro. Il grosso vantaggio connesso all’impiego dei metodi termici è l’avere una risposta lineare su un range di circa 5 ordini di grandezza [20]. 2.8 Criteri generali per definire la prestazione di un biosensore
È importante caratterizzare la risposta di un biosensore specie quando dai parametri operativi si riesce a capire come agire per migliorare le caratteristiche funzionali del biosensore stesso, nella determinazione analitica. Una misura molto importante è la valutazione dell’attività specifica del recettore biologico, cioè, il rapporto tra il numero delle molecole attive sul numero totale di quelle immobilizzate. Questa proprietà dipende dal metodo di immobilizzazione e, quindi, dall’orientazione molecolare, o anche dal numero dei punti di attacco. Questo è solo un esempio, nel campo biosensoristico sono stati definiti dei protocolli per la determinazione univoca e ripetibile dei parametri di performance dei biosensori, tenendo in considerazione sia i parametri analitici che quelli dinamici [21]. Parametri analitici •
Calibrazione:
si esegue per aggiunta di soluzioni standard di analita, misurando e
rappresentando graficamente la risposta allo stato stazionario (R SS), possibilmente eseguendo la sottrazione del segnale di fondo (R 0), in funzione della concentrazione (c) o del suo logaritmo (log c/c0: dove c0 si riferisce alla concentrazione 1M presa come riferimento). In determinate condizioni idrodinamiche il biosensore può essere utilizzato con un sistema di analisi ad iniezione in flusso [17] (FIA), in special modo per analisi sequenziali di campione, in questo caso, il segnale, non sarà riferito allo stato stazionario, ma all’altezza del picco. Un modo conveniente per effettuare la calibrazione del sistema è indicare la velocità massima della variazione del segnale (dR/dt) max. •
Sensibilità
(S): non è altro che la pendenza della curva di calibrazione nel tratto
lineare (R SS-R 0) in funzione della concentrazione o del log c/c0, per un segnale continuo e di (dR/dt)max/c vs. log c/c0 , per un segnale transiente: S=
R SS
−
c
R 0
=
ΔR
c
Esiste una concentrazione massima rilevabile. Per spostare questa rilevabilità verso valori di concentrazione maggiori bisogna necessariamente compromettere la sensibilità, cioè è possibile rilevare un quantitativo maggiore di analita, ma rinunciando alla possibilità di poterne rilevare piccoli quantitativi.
Abbiamo già visto che i due parametri che definiscono completamente la cinetica enzimatica tipica di Michaelis-Menten, Km e Vmax, rappresentano due costanti: la prima è la concentrazione che dà un segnale uguale alla metà del massimo, l’altra rappresenta la concentrazione analitica all’infinito, mentre i biosensori elettrochimici basati su sistemi enzimatici immobilizzati, possono essere caratterizzati dalle due costanti delle reazioni enzimatiche, opportunamente modificate: Km diventa una costante apparente Kmapp e la velocità diventa (R ss-R 0)max. •
Intervallo dinamico di concentrazione:
è l’intervallo di concentrazione in cui a
una variazione della concentrazione corrisponde ad una variazione del segnale del sensore. La dipendenza della concentrazione dal segnale segue l’Equazione:
R = S ⋅ c x l’intervallo dinamico di concentrazione è l’intervallo di concentrazione per il quale x≠1. •
Intervallo lineare dinamico di concentrazione:
è quella parte dell’intervallo
dinamico di concentrazione per cui x=1. L’intervallo lineare dinamico di concentrazione del sensore è limitato dalle proprietà biocatalitiche e biocomplessanti del recettore biologico. Esso può essere significativamente ampliato per mezzo di una barriera di diffusione esterna, con conseguente diminuzione della sensibilità. •
Il limite di rilevabilità ( Limit of Detection, LOD) ed il limite di quantificazione ( Limit of Quantification , LOQ) dipendono dal rumore di fondo ( background noise signal)
e dal bianco ( blank ) della misura. Il LOD, espresso come valore di
concentrazione (CLOD, mol/L) o di massa (qLOD, mol), deriva dal valore della più bassa corrente misurabile (R LOD):
R LOD
=
R 0 + K ⋅ s blank
dove R 0: corrente di fondo (A); K: costante numerica s blank : deviazione standard del segnale attribuibile al bianco della misura.
Il limite di rilevabilità ed il limite di quantificazione, espressi in termini di concentrazione, sono dati da:
C LOD, LOQ
=
K ⋅ s blank S
dove k=3 o 10, per C LOD o CLOQ, rispettivamente e S è la sensibilità. Al di sotto del valore di LOD, il segnale è indipendente dalla concentrazione dell’analita. •
Selettività:
è il parametro che quantifica il grado di interferenza, sulla misura
effettuata, di specie estranee che non siano l’analita in causa. Per un biosensore, essa dipende sia dal trasduttore che dal componente biologico. Alcuni enzimi utilizzati nella costruzione dei biosensori sono altamente selettivi, ma esistono anche enzimi con specificità di classe (alcol ossidasi, perossidasi, laccasi, tirosinasi, aminoacido ossidasi, etc.). La modalità più semplice per eliminare alcuni interferenti è rappresentata dall’utilizzo di membrane protettive, esterne o interne, (come per il biosensore a glucosio), ma si possono utilizzare anche sensori compensatori senza il recettore biologico (misura differenziata). Nella fattispecie per i biosensori amperometrici, costituiti da elettrodi di metalli, la selettività è sicuramente inficiata dalle numerose interferenze (gli elettrodi sono sensibili a numerose sostanze interferenti. Se si riescono a identificare correttamente gli interferenti, come nel caso degli ascorbati nel classico sensore al glucosio basato sulla rivelazione della H2O2, la loro influenza viene ristretta dall’uso di differenti soluzioni, oppure con un sensore senza lo specifico recettore biologico che andrà a costituire il segnale di bianco (cioè quello da sottrarre al vero segnale). Tra le varie metodiche per la determinazione della selettività, ve ne sono due raccomandate, a seconda dell’obiettivo della misura. La prima prevede la misura del segnale all’aggiunta della sostanza interferente; la curva di calibrazione relativa ad ogni interferente viene confrontata con quella analitica, nelle stesse condizioni operative e sperimentali. La selettività in questo caso sarà espressa come il rapporto fra il segnale risultante nel caso in cui è presente solo l’analita e
quello espresso solo con l’interferente alla stessa concentrazione. La seconda procedura prevede l’aggiunta dell’interferente direttamente alla cella di misura che già contiene l’analita, ad un valore di concentrazione intermedio dell’intervallo atteso: la selettività sarà espressa come variazione percentuale del segnale [19]. Quest’ultima è più facilmente quantificabile rispetto alla prima sebbene sia ristretta nella sua applicabilità e nel significato intrinseco, perché dipendente dalla concentrazione che si vuole determinare. •
Affidabilità
di un biosensore: dipende dalla sua selettività e riproducibilità. Per
essere affidabile, la sua risposta deve essere direttamente correlata con la concentrazione dell’analita d’interesse e non deve variare con le variazioni della concentrazione delle sostanze interferenti eventualmente presenti nel campione sottoposto all’analisi. L’affidabilità non è altro che l’accuratezza con cui viene definita la risposta globale del biosensore. •
La riproducibilità: è la misura della variazione all’interno di una serie di osservazioni o risultati ottenuti in un certo periodo di tempo, ed è generalmente valutata
entro
l’intervallo
lineare
dinamico
di
concentrazione
del
sensore/biosensore. Parametri dinamici •
Tempo di risposta: è il tempo
necessario al sensore/biosensore per arrivare al 90%
del nuovo stato stazionario, in corrispondenza della variazione di concentrazione.
•
Tempo di risposta transiente:
è il tempo necessario alla derivata prima del segnale
(dR/dt) in uscita per raggiungere il suo valore massimo, dopo l’aggiunta dell’analita. Entrambi i parametri dipendono da: -
geometria della cella;
-
condizioni di trasporto nella cella;
-
meccanismo di risposta dell’elettrodo;
-
attività del sistema di riconoscimento biologico.
Pertanto lo spessore e la permeabilità degli strati sensibili da attraversare sono parametri essenziali che andrebbero esaminati nella scelta del metodo di immobilizzazione del recettore. I tempi di risposta dipendono, in modo non trascurabile, anche dalla agitazione e dalle condizioni idrodinamiche del campione in celle di misura non in flusso (batch measurement); un modo semplice per definire queste condizioni in prossimità di biosensori è la tecnica FIA. Variando la concentrazione di volta in volta abbiamo un comportamento omologo a quello in soluzioni ferme, ma se introdotti nel fluido di circolazione si ottiene solamente un segnale di tipo transiente. •
Sample throughtput
(quantità di campione misurabile): è il numero di campioni
analizzati nell’unità di tempo, senza aver subito interferenze da parte dei campioni precedentemente analizzati. Questo parametro dipende dal tempo di recupero necessario al biosensore per ritornare allo stato stazionario iniziale, a sua volta dipendente dalla composizione del campione, dalla concentrazione dell’analita, o dalla storia del sensore. •
Tempo di residenza
è il tempo in cui l’analita si trova a contatto col
sensore/biosensore. •
Il tempo di vita (tL) di un biosensore è definito come il tempo (operazionale o di conservazione) necessario affinché la sensibilità diminuisca di un fattore 10 (t L10) o che raggiunga il 50% del valore iniziale (tL50). Dovrebbe essere specificata la modalità di valutazione del tempo di vita del sensore, in riferimento alla attività iniziale (che rappresenta il 100%). La definizione raccomandata è quella che il lifetime dipende dalla diminuzione percentuale di questa attività di partenza, all’interno del range di linearità delle concentrazioni.
•
Stabilità a lungo termine
(long-term stability): è caratterizzata dal drift
(variazione) della risposta del biosensore e dalla deviazione standard residua del segnale di risposta in una soluzione di composizione, temperatura e condizioni idrodinamiche costanti. La stabilità si può dividere in stabilità operazionale
(operational stability) e stabilità in condizione di conservazione (storage o shelfstability). -
La operational stability va valutata considerando: la concentrazione dell’analita c, il contatto continuo del sensore con la soluzione da misurare, la temperatura, il pH del tampone, la presenza di solventi organici eventuali, la composizione del tampone (e di eventuali sali) e della matrice.
-
Per la shelf-stability, parametri significativi sono la condizione di conservazione del biosensore, cioè in umido o al secco, la composizione dell’atmosfera (aria, azoto, gas nobili eventuali), il pH e la composizione del tampone, la presenza di additivi.
2.9 Pro e contro dell’utilizzo di biosensori
Come ogni modalità di analisi l’utilizzo dei biosensori presenta numerosi vantaggi, ma anche importanti limitazioni. Sicuramente la tecnica offre, tra le principali qualità un’elevata sensibilità e specificità, un basso costo della strumentazione, velocità di risposta, assenza totale o in ogni caso, un minore pretrattamento del campione, praticità e facilità di trasporto (grazie alle piccole dimensioni) che permettono l’utilizzazione diretta in sito e infine, ma non meno importante, una semplicità d’uso che non richiede personale altamente specializzato [22]. Industrialmente i requisiti a cui deve rispondere un biosensore per poter essere commercializzato sono molti di più e si aggiungono a quelli già menzionati sopra, in particolare, un biosensore commerciale deve avere: robustezza fisica, precisione, riproducibilità, stabilità del materiale biologico, indifferenza ai cambiamenti voluti o accidentali delle condizioni operative, ambientali o in presenza di interferenti. Inoltre, le procedure di immobilizzazione del mediatore biologico devono essere affidabili, il bio-recettore riproducibile, garantendo l’assenza di rilevazione di falsi positivi; la risposta deve essere attendibile, il peso e la dimensione appropriata, nonché deve
avere l’accettabilità da parte degli utilizzatori. Se è poi possibile essere anche completamente automatizzato, biocompatibile e avere una lunga vita [8].
2.10 Biosensori elettrochimici
I biosensori elettrochimici [7], [18] garantiscono migliori performance rispetto a tutti gli altri biosensori, non a caso sono utilizzati anche per scopi clinici. Si ottengono sovrapponendo, in un punto specifico dell’elettrodo, uno strato di materiale contenente il biomediatore, che il più delle volte è un enzima. I due tipi di elettrodi normalmente utilizzati per assemblare biosensori elettrochimici sono amperometrici e potenziometrici, a seconda se si andrà poi a misurare, la variazione di corrente elettrica o di potenziale. Lo strato enzimatico è l’elemento che conferisce specificità al biosensore: solo il substrato specifico di un determinato enzima viene trasformato secondo la reazione catalizzata dall’enzima stesso. Il risultato della specifica reazione enzimatica è, nella maggior parte dei casi, la produzione di una molecola inorganica (O2, H2O2, NH3) la quale, a specifiche differenze di potenziale, viene ossidata o ridotta generando una microcorrente (ovviamente se si lavora con un elettrodo amperometrico) che risulta essere direttamente proporzionale alla concentrazione dell’analita da rilevare. E’ poi, tramite la reazione stechiometrica, che collega la molecola inorganica generata (o consumata) direttamente all’analita, che si risale alla concentrazione dell’analita stesso [12]. L’applicazione di specifiche differenze di potenziale tra l’elettrodo di lavoro e di riferimento come la lettura delle correnti che si sviluppano a seguito delle reazioni enzimatiche avviene mediante l’impiego di potenziostati. Il potenziostato applica il potenziale stabilito all’elettrodo di lavoro e lo controlla rispetto a quello di un elettrodo di riferimento. Il modello di biosensore utilizzato in questo lavoro di tesi, per la rilevazione degli analiti tossici presenti nell’acqua prevede, l’utilizzo di un biosensore elettrochimico di tipo amperometrico, in particolare di elettrodi stampati mediante la tecnologia Screen Printed [22] su supporti in materiale polimerico, dove l’immobilizzazione
dell’enzima avviene su di un elettrodo sensibile al prodotto di reazione dell’enzima stesso che ovviamente reagisce solo in presenza dell’analita da rilevare. I biosensori enzimatici, in funzione del meccanismo di trasporto elettronico, si suddividono in biosensori di: •
I generazione: il componente biologico è mantenuto in contatto con la superficie elettrodica mediante l’ausilio di membrane, che lo immobilizzano fisicamente o chimicamente, e nello stesso tempo bloccano gli eventuali interferenti che potrebbero influire sulla misura elettrochimica; i tempi di risposta sono lunghi, in quanto, sia il substrato enzimatico, che il prodotto di reazione devono diffondere attraverso le membrana per arrivare all’enzima intrappolato oppure per ridursi/ossidarsi all’elettrodo, rispettivamente;
Figura 2.1: Meccanismo di trasporto elettronico per biosensori di
I generazione
Come possiamo vedere, una volta che il substrato S ha reagito per esempio, mediante un processo redox, con l’enzima E ox questo si riduce (forma E red dell’enzima) e, per poter tornare al suo stato originale, l’enzima deve reagire con l’ossigeno. Tipicamente si produce H2O2 che può essere rivelata per via amperometrica su un elettrodo metallico (Pt, glassy carbon).
Sred
Sox
Figura 2.7: Schematizzazione del meccanismo di trasporto elettronico per
•
biosensori di I generazione
II generazione: Una limitazione importante per i biosensori di prima generazione realizzati con enzimi come ad esempio la glucosiossidasi è la dipendenza dall’ossigeno, necessario per riossidare l’enzima. I biosensori di seconda generazione sono caratterizzati dall’utilizzo di
mediatori redox,
sistemi molecolari/complessi biologici/metalli nobili, che oltre a riportare l’enzima nella forma ossidata, fungono da sistema navetta per il trasporto degli elettroni tra l’enzima e l’elettrodo, diminuendo notevolmente il tempo di risposta del biosensore; Sred
Sox
Figura 2.8: Schematizzazione del meccanismo di trasporto elettronico per
biosensori di II generazione
•
III generazione: il trasferimento elettronico avviene senza intermediari, in quanto vi è un accoppiamento diretto tra la superficie elettrodica ed enzima; la risposta del biosensore è pressoché istantanea [23]. Sred
Sox
Figura 2.9: Schematizzazione del meccanismo di trasporto elettronico
per biosensori di III generazione
Ogni reazione che implica un trasferimento di elettroni è caratterizzata da un fissato potenziale standard (EPo), oltre il quale è energeticamente favorita: ΔG 0
=
- n ⋅ F ⋅ ΔE 0'
Gli enzimi abbassano il livello di energia libera richiesto per la reazione redox del substrato specifico. Una cinetica elettronica rapida dipende dall’accessibilità del sito attivo enzimatico da parte delle specie in soluzione, dalla distanza che lo separa dalla superficie enzimatica, dal tipo di gruppo prostetico, dalla stabilità intrinseca della proteina e anche dalla possibilità di essere immobilizzata su di un sensore [11]. Gli elettroni coinvolti nel processo di catalisi enzimatica possono essere sia immagazzinati dal gruppo prostetico integrato all’enzima, oppure scambiati con un opportuno co-enzima all’interno del sito attivo. I meccanismi con cui si effettua il trasferimento redox dal sito attivo enzimatico alla superficie del trasduttore sono: •
sistema navetta (electronic shuttle), caratteristico per i biosensori di I e II generazione;
•
diretto (tunnelling), specifico per i biosensori di III generazione;
•
diretto (wired ) mediante polimeri redox o conduttori. La comunicazione diretta avviene anche quando il sito attivo dell’enzima è collegato (cablato) alla superficie del trasduttore di segnale per mezzo di polimeri conduttori; infatti, la struttura flessibile del polimero avvolge l’intero enzima creando una rete tridimensionale
specifica elettron-conduttrice, efficiente nel condurre il
segnale elettronico, specifico sempre dei biosensori di III generazione [23]. 2.11 Tecnologie di produzione del biosensori Elettrodi a stampa serigrafica
La stampa serigrafica è di notevole importanza nel campo della produzione di elettrodi basati sulla tecnologia a film spesso (Thick Film Technology, TFT). Questa tecnica permette di assemblare sensori tramite la deposizione sequenziale dei vari substrati utilizzati nel processo di produzione. Elettrodi ottenuti mediante l’impiego di questa tecnologia vengono comunemente definiti come “ screen-printed ”, “monouso”, “usa e getta”, “elettrodi stampati” o più comunemente “elettrodini”, diminutivo che denota due delle loro tipiche caratteristiche: dimensioni e massa ridotte [24]. Gli elettrodi utilizzati per l’assemblaggio dei biosensori elettrochimici, nel nostro caso, di tipo amperometrico, sono stampati mediante la tecnologia Screen Printed su supporti in poliestere. L’elettrodo stampato (fig. 2.10) prevede una geometria concentrica a tre elettrodi (con piste e contatti in grafite): elettrodo di lavoro (che può essere in grafite o ricoperto con Pt, Au); controelettrodo (sempre in grafite) e elettrodo di riferimento (in Ag/AgCl). Questo elettrodo stampato prevede la deposizione di una superficie isolante, il dielettrico, che ha lo scopo di isolare l’elettrodo di lavoro dove avviene la misura.
Elettrodo di riferimento Elettrodo di lavoro Controelettrodo
Strato isolante
Piste e contatti in argento
Figura 2.10: Parti essenziali di un elettrodo
2.11.1 Tecnologia a film spesso (Thick film technology)
La tecnologia a film spesso (vedi fig. 2.11) viene utilizzata per la costruzione di sensori solidi, planari e meccanicamente robusti, supportati su una base isolante, costituita generalmente da materiale plastico (cloruro di polivinile, policarbonato, poliestere, etc.) oppure ceramico (allumina, magnesia, etc.). Il processo di fabbricazione si basa sulla stampa serigrafica, che permette la deposizione sequenziale del film spesso (thick-film) sul supporto o substrato solido isolante [24].
Figura 2.11: Illustrazione grafica del processo di screen-printing per la produzione di sensori con la
TFT
I supporti per lo screen printing forniscono oltre al sostegno meccanico anche l’isolamento elettrico per i circuiti a film spesso. Tali substrati devono presentare i seguenti requisiti: 1. devono essere compatibili con la pasta e con l’intero processo;
2. devono essere elettricamente non conduttori (isolanti). I materiali più comuni fra i substrati ceramici sono allumina, magnesia, zirconia, berillio; molto usato è l’ossido di alluminio, Al2O3, ad elevata purezza (generalmente 96%). I supporti che possono realmente permettere la produzione in larga scala a bassissimo costo, sono in realtà i supporti polimerici, come ad esempio il PVC o il poliestere, in tal caso le paste utilizzate differiscono da quelle tradizionali poiché contengono come legante un polimero in luogo del vetro, in modo da non richiedere necessariamente la sinterizzazione nella fase finale del processo: su fogli spessi appena 0.5 mm, infatti, si riesce a stampare decine o centinaia di elettrodi (a seconda del tipo di stampante serigrafica disponibile). La composizione chimica e le proprietà elettriche ed elettrochimiche del thick-film variano in funzione dei sensori desiderati che stanno alla base dello sviluppo e della costruzione degli elettrodi screen-printed [22]. Lo schema più comunemente applicato nella realizzazione degli elettrodi monouso, prevede per l’elettrodo di lavoro l’uso di inchiostri o paste, generalmente a base di grafite o vari tipi di carbone, ma anche a base di metalli nobili (Pt, Au, Ag, etc). Le paste contengono anche agenti leganti di vario genere (vetro in polvere, resine, solventi, vari additivi, etc.), che influiscono sulla viscosità, conducibilità, sul grado di idratazione e sulla resistenza alle variazioni termiche. I normali inchiostri da stampa sono costituiti da una parte liquida (mezzo di dispersione) e dal pigmento. Il mezzo di dispersione, spesso chiamato anche veicolo, può contenere idrocarburi alifatici o aromatici, vari esteri, chetoni e alcoli, ed anche un agente legante, di solito resine fenoliche, acriliche o viniliche. Il pigmento può essere la grafite, il carbone e/o il nerofumo [22]. Per la stampa dell’elettrodo di riferimento/pseudo-riferimento si usano paste speciali a base di argento oppure di argento-cloruro di argento. L’elettrodo ausiliario viene, di solito, stampato usando lo stesso materiale impiegato nella stampa dell’elettrodo di lavoro oppure dell’elettrodo di riferimento [25]. Una volta che è stata serigrafata la base elettrodica (nella configurazione a tre elettrodi, questa è rappresentata dagli elettrodi di lavoro, di riferimento/pseudo-riferimento e ausiliario/controelettrodo che nello
stesso tempo fungono anche da contatti elettrici) sul supporto solido, questa si ricopre sempre con un film spesso, di materiale dielettrico che funge da guaina protettrice. Il processo di fabbricazione prevede tre fasi: •
deposizione attraverso uno schermo (screen printing);
•
asciugatura (drying cycle);
•
sinterizzazione (firing cycle);
quest’ultima fase, non è necessaria e quindi non è praticata nel caso di elettrodi usa e getta, costituiti da supporto in poliestere o comunque in materiale plastico. La deposizione dei vari inchiostri e/o paste avviene meccanicamente, in uno o più passaggi, sul substrato solido, utilizzando una macchina adatta alla stampa serigrafica, munita di vari tipi e forme di telai che condizionano la configurazione e le dimensioni degli elettrodi stampati. Il processo di deposizione consiste nel far passare l’inchiostro attraverso le maglie di uno schermo, mediante l’ausilio di una spatola di silicone (racla). Lo stampo presenta un disegno aperto che definisce ciò che verrà deposto o stampato sul supporto. L’asciugatura permette l’evaporazione dei prodotti volatili presenti nei vari inchiostri/paste, e avviene di norma a temperature <100°C, a seconda del supporto isolante su cui si stampa. Dopo essersi accertati che il materiale attivo si sia asciugato, è possibile effettuare una serie di stampe successive sullo stesso supporto per ottenere dei disegni maggiormente complessi, progettati a seconda dell’obiettivo che si intende perseguire. Dopo questa fase blanda, a temperature comprese tra 100°C e 1200°C, in funzione delle caratteristiche dei materiali impiegati e dei requisiti che si desiderano, avviene la fase di stabilizzazione e la polimerizzazione delle paste/inchiostri (sinterizzazione). La stampa serigrafica permette di ottenere su larga scala elettrodi miniaturizzati, a un costo sostanzialmente basso (circa 1-2 €/elettrodo) e con una riproducibilità elevata. 2.11.2 Caratteristiche generali delle paste a film spesso
Le paste utilizzate con la tecnologia a film spesso, differiscono in composizione chimica e in conducibilità elettrica e si classificano come paste conduttrici, dielettriche (ovvero isolanti), resistive e saldabili. I principali costituenti sono: •
il materiale attivo;
•
il vetro poroso (legante inorganico);
•
il legante organico.
Le paste conduttrici contengono come materiale attivo un metallo nobile (Ag, Pt, Au, Pd), una dispersione di un metallo in grafite, oppure grafite pura; le paste resistive contengono invece, ossidi di metallo come biossido di rutenio (RuO 2); mentre le paste dielettriche: polveri ceramiche (allumina e zirconia). 2.11.3 Caratteristiche dello stampo
Lo schermo definisce il disegno del film stampato e determina la quantità di pasta che viene deposta sul substrato isolante. Solitamente, il tipo di stampo più usato è costituito da un telaio di alluminio sul quale è montata, in tensione, una rete finemente intrecciata che reca il disegno che si vuole stampare. La rete viene rivestita da un’emulsione sensibile all’ultravioletto, su cui può essere impressa fotograficamente l’immagine del circuito. Per la scelta della rete si tener conto del disegno richiesto e dei tipi di paste che devono essere utilizzate. Generalmente, una rete presenta una densità di circa 80 filamenti/cm: è facilmente intuibile che più piccolo è il diametro del filamento, più grandi sono le maglie della rete e quindi maggiore sarà il volume di pasta che verrà deposto sul substrato. Il materiale, con cui è fabbricata la rete, deve avere una certa flessibilità per permettere un buon contatto con il substrato, soprattutto se quest’ultimo non si presenta perfettamente planare; inoltre, deve essere resiliente (in modo tale che la rete riacquisti la sua conformazione originale dopo il processo di deposizione), chimicamente stabile e presentare, oltre ad un buon tempo di vita, un’elevata resistenza all’attacco di solventi e di altri agenti chimici impiegati nelle
paste e nelle altre soluzioni di lavaggio e, ancora, deve essere inerte ai solventi organici che vengono utilizzati per diluire le paste utilizzate per lo stampo. I materiali più usati nella fabbricazione della rete dello stampo sono il poliestere, il nylon e l’acciaio inox. 2.12 Analisi in flusso
Nelle tecniche elettroanalitiche in flusso, un campione liquido o una sua frazione, è trasportato dal flusso trasportatore (carrier ), dal punto di entrata del campione nel carrier,
al punto di uscita, oppure, quando si ricicla, ritornando al punto di entrata,
dopo esser passato attraverso tutte le fasi del processo di analisi. Le tecniche di analisi in flusso sono caratterizzate dalla dispersione e la rilevazione dell’analita/analiti che avviene sotto controllo idrodinamico del flusso trasportatore. Il sistema di rilevazione (trasduttore di segnale o biosensore) è inserito in una cella elettrochimica di geometria variabile. 2.12.1 Analisi in flusso–Flow Analysis (FA)
L’analisi in flusso è una tecnica analitica che si basa sulla misura di un campione liquido, il quale viene introdotto, processato e rilevato in un flusso trasportatore [26]. Il campione può essere sottoposto a processi di trasporto, di separazione in flusso, a reazioni chimiche, a trattamento termico, etc., mentre si trova in condizioni di dispersione controllata dalla diffusione e/o dalla convezione. Si distinguono due modi di analisi:
in flusso continuo;
in flusso segmentato.
In funzione della modalità di introduzione del campione nel flusso trasportatore, si ha un’analisi in flusso continua o intermittente. 2.12.2 Analisi in flusso segmentato (SFA)
Le caratteristiche della SFA sono:
il flusso trasportatore è segmentato per mezzo di bolle di aria o altro gas, avente la funzione di dividere e separare tra di loro i campioni introdotti nel flusso, minimizzando anche il processo di dispersione del campione. Le bolle d’aria mantengono un flusso stabile, limitano la contaminazione reciproca dei campioni e facilitando l’omogeneizzazione del campione con i reagenti;
il campione viene aspirato nel carrier .
2.12.3 Flow Injection Analysis-FIA
La FIA è una tecnica analitica in flusso, in cui, il campione liquido o il reagente è iniettato nel flusso del carrier, che può essere una soluzione tampone o una miscela di reattivi (inerte o attivo verso il campione/reagente) ed il campione (o il reagente o un prodotto di reazione) viene rilevato al detector. Nel caso dell’utilizzo dei biosensori, nel sistema FIA, il carrier è inerte, mentre l’analita da determinare, subisce la reazione di trasformazione chimica (ox-red) nella cella elettrochimica dove appunto si trova il biosensore. In questo caso a essere rilevato dal detector è un prodotto di reazione che provoca una variazione di corrente o potenziale. L’iniezione comporta la formazione di zone ben definite di campione o reagente nel flusso trasportatore, e dove esse si disperdono in maniera controllata. L’immissione di volumi ben definiti e altamente riproducibili del campione si esegue con l’aiuto delle valvole a iniezione, o servendosi di sistemi a iniezione in loop. In quest’ultimo caso, quando il sistema di iniezione è in posizione di carico (Load), al biosensore arriva solo il tampone che genererà sull’elettrodo una segnale di corrente costante nel tempo, in posizione di iniezione (Inject), i tubi del tampone e del campione si incontrano e vengono inviati al biosensore posizionato all’interno della cella elettrochimica. Il contatto del campione con la fase enzimatica darà origine, nel caso di biosensori amperometrici, a microcorrenti (rilevabili attraverso dei picchi figura 2.12) legate alle reazioni di ossidoriduzione catalizzate dall’enzima stesso. La FIA sfrutta il fenomeno della dispersione parziale e controllata del campione lungo questo il carrier: quando il campione è iniettato, forma inizialmente un
segmento ben definito di fluido ma, attraversando i tubi, va incontro a fenomeni dispersivi. L'entità e il tipo di dispersione dipendono dai parametri operativi applicati al sistema come: volume di campione, diametro e lunghezza dei tubi, velocità di flusso, che possono essere diversificati per modificare le caratteristiche stesse della dispersione e quindi per approntare differenti tipi di analisi. All’interno del sistema, il fenomeno della dispersione si verifica per convezione e/o per diffusione. L'importanza relativa di questi fenomeni dipende dalla portata del fluido, dal raggio dei tubi, dal tempo di analisi e dal coefficiente di diffusione (D f ). La figura 2.12 mostra la variazione dei profili di concentrazione del campione ad una specifica ed adatta distanza dal punto di iniezione, dovuti a fenomeni di diffusione e/o convezione.
Figura 2.12: Profili di concentrazione del campione ad una
distanza definita dal punto di iniezione
Se la dispersione è limitata (al limite nulla) l'integrità del campione è mantenuta a livelli elevati (fig. 2.12 (a) ) e si ha un profilo di tipo quadrato. Se la dispersione ha luogo esclusivamente per convezione, nel tubo il campione assume una forma paraboloide e il profilo di concentrazione è rappresentato da un picco codato (fig. 2.12 (b)). In condizioni in cui la dispersione ha luogo esclusivamente per diffusione la forma del campione è un ellissoide e il profilo di concentrazione assume la forma gaussiana (fig. 2.12 (d)). Il profilo di concentrazione in figura 2.12 (c) rappresenta le tipiche condizioni in cui si verificano entrambi i fenomeni [17]. Il profilo di concentrazione del campione che entra nella cella di misura, dipende dalla modalità di introduzione del campione, dai parametri del flusso, e dalla geometria del canale FIA situato tra il punto di campionamento ed il detector. La risposta tipica FIA è di tipo gaussiana, più o meno simmetrica, mentre la tipica risposta FA è un valore di plateau, a stato stazionario. Le parti essenziali di un sistema FIA sono: