Presentazione Dorothea Brande svela la diffusa tendenza all’autosabotaggio e ci spiega che potremmo cogliere risultati impensati se mettessimo lo stesso impegno e la stessa energia per far funzionare le cose, invece che per farle fallire. È certo che rinunciare a un obiettivo e accontentarsi della mediocrità è meno impegnativo che tenere duro e vincere, ma la Brande arriva a smascherare tutti i meccanismi improntati alla «volontà di fallire» e convince il lettore a scegliere la strada della consapevolezza, del coraggio e dell’azione . Svegliati e vivi ! ha avuto in America un successo inimmaginabile perché è una di quelle rare rar e opere ope re senza senza tempo tempo capaci ca paci di gettare gettare una luce profon pro fonda da sui s ui comportamen comportamenti ti umani. umani. Dorothea Brande
(1893-1948), nata e laureata a Chicago, inizia la carriera come giornalista per poi diventare editor della rivista «American Review». Nel 1934 pubblica il write r , ma la consacrazione di critica e pubblico suo primo libro di successo, Becoming a writer arriva con il best seller Wake up and live ! (che Vallardi pubblica con il titolo Svegliati e vivi!).
Presentazione Dorothea Brande svela la diffusa tendenza all’autosabotaggio e ci spiega che potremmo cogliere risultati impensati se mettessimo lo stesso impegno e la stessa energia per far funzionare le cose, invece che per farle fallire. È certo che rinunciare a un obiettivo e accontentarsi della mediocrità è meno impegnativo che tenere duro e vincere, ma la Brande arriva a smascherare tutti i meccanismi improntati alla «volontà di fallire» e convince il lettore a scegliere la strada della consapevolezza, del coraggio e dell’azione . Svegliati e vivi ! ha avuto in America un successo inimmaginabile perché è una di quelle rare rar e opere ope re senza senza tempo tempo capaci ca paci di gettare gettare una luce profon pro fonda da sui s ui comportamen comportamenti ti umani. umani. Dorothea Brande
(1893-1948), nata e laureata a Chicago, inizia la carriera come giornalista per poi diventare editor della rivista «American Review». Nel 1934 pubblica il write r , ma la consacrazione di critica e pubblico suo primo libro di successo, Becoming a writer arriva con il best seller Wake up and live ! (che Vallardi pubblica con il titolo Svegliati e vivi!).
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www.illibraio.it Antonio Vallardi Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Copyright © 2014 Antonio Vallardi Editore, Milano Titolo originale: Wake Up and Live ! Originally published by Simon & Schuster in 1936 First Tarcher/Penguin edition 2013 Copyright © 1936 by Dorothea Brande Copyright © 1963 by Gilbert I. Collins and Justin Brande All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form This edition published by arrangement with Jeremy P. Tarcher, a member of Penguin Group (USA) LLC, a Penguin Random House Company Grafica di copertina: MoskitoDesign Illustrazione di co pertina: Ganna Demchenko/shutterstock.com Traduzione di Ornella Ciarcià ISBN 978-88-6731-574-1 Prima edizione digitale 2014 Condiviso da mykon per TNTVillage, buona lettura
NOTA PERSONALE DELL’AUTRICE Qualsiasi libro che si riveli utile, con tutta probabilità viene letto più volte. Se, presto o tardi, rileggerete questo testo, è possibile che ne facciate un uso ancora migliore ogni volta che lo riprenderete in mano. Può darsi che qualche brano renda più chiara un’idea che avete in testa, o che vi sciolga un dubbio. O magari che scopriate un dettaglio che già conoscete, ma che tendete a dimenticare. Qua e là potreste trovare una frase che sembra quasi scritta apposta pensando al vostro caso. Non fatevi intimidire dalla carta stampata e non trattenetevi dal trasformare questo libro nel vostro libro. Leggete tenendo una matita a portata di mano: quando vi imbatterete in un punto su cui pensate di voler tornare spesso o che, in seguito, avrete bisogno di ricordare, tracciate una riga lungo il margine della pagina; sottolineate le parole e le frasi che vi toccano personalmente. Poi, all’inizio o alla fine del libro, riportate i numeri delle pagine su cui avete tracciato i segni, magari accompagnandoli con brevi annotazioni di riferimento. Potete anche segnare con una grande X le pagine che riportano concetti su cui non siete d’accordo o cancellare con una riga le frasi che non possono essere applicate a voi. Scrivete a margine qualsiasi commento o approfondimento personale. I manuali letti e rivisti in questo modo danno sempre molta più soddisfazione. Più sono utili al lettore e più rendono giustizia agli intenti dell’autore. Fate in modo che ciò che vi serve sia evidente a colpo d’occhio e risparmiatevi inutili perdite di tempo, eliminando le pagine per voi superflue. È così che potete aiutare l’autore di qualsiasi manuale a fare ciò che questi si auspica in particolar modo: scrivere un testo che sia utile, pratico e diretto a ogni singolo lettore.
INTRODUZIONE Due anni fa ho scoperto un metodo per avere successo, che mi ha rivoluzionato la vita. Era talmente semplice e ovvio (una volta individuato), che non riuscivo a credere che vi si dovessero i risultati eccezionali da me ottenuti una volta messo in pratica. Per prima cosa, devo confessare che due anni fa ero una frana. Naturalmente non lo sapeva nessuno, tranne me e chi mi conosceva abbastanza bene da capire che non stavo realizzando neanche un decimo di quello che ci si sarebbe potuto aspettare da me. Avevo una posizione interessante, la mia vita non era particolarmente noiosa, eppure non mi sentivo minimamente realizzata. Svolgevo un’attività che non era esattamente quella che mi ero prefissata e, nonostante tutte le giustificazioni razionali che adducevo a me stessa, sapevo perfettamente che avrei potuto fare di più, di meglio e soprattutto qualcosa che mi appartenesse interamente. Ero costantemente a caccia di una via d’uscita da quel vicolo cieco, ma, quando ho avuto il colpo di fortuna di trovarla, ho stentato a crederci. In un primo momento non ho nemmeno provato ad analizzarla o a cercare una spiegazione. Tanto per cominciare, l’uso di quel metodo produceva effetti tanto evidenti, da farmi diventare quasi superstiziosa: sembrava una magia ed è noto che porta male porsi troppe domande sul funzionamento di un incantesimo! Più realisticamente, allora ero piuttosto disincantata, perché avevo già cercato, tante volte, di superare le mie difficoltà, mi ero spesso illusa di esserci riuscita e poi mi ero dovuta irrimediabilmente ricredere. Ma la vera ragione per cui non avevo perso tempo ad analizzare il metodo e a spiegarne gli effetti – dopo aver iniziato a usarlo con costanza – era che ero troppo impegnata e che mi stavo divertendo un mondo. La facilità con cui svolgevo attività che fino ad allora mi erano sembrate impossibili costituiva un autentico godimento. Vedevo crollare barriere che mi erano apparse insuperabili, sentivo svanire le inibizioni e le paure che per anni mi avevano tenuta prigioniera. In effetti, erano anni che mi trovavo in quell’impasse. Sapevo benissimo che cosa volevo fare, mi ero preparata per svolgere quella professione, eppure non avevo concluso nulla. Avevo deciso molto presto che la mia strada era
scrivere e avevo iniziato piena di speranze. I lavori che avevo portato a termine erano stati accolti quasi tutti discretamente, ma, quando avevo provato a salire di un gradino e a passare a una fase più matura, mi ero completamente bloccata, mi sembrava di non riuscire nemmeno a cominciare. Non c’è bisogno di dire che ero infelice: non ero, tuttavia, disperata o depressa, ma semplicemente infastidita e insoddisfatta per via della mia inadeguatezza. Mi accontentavo di fare la redattrice e la curatrice editoriale, visto che l’aspetto più creativo della letteratura mi sembrava precluso, ma non smettevo mai di tormentarmi, di rivolgermi a insegnanti, esperti, psicologi e medici per chiedere consigli su come uscire da quella situazione. Leggevo, mi informavo, riflettevo, mi davo da fare, seguivo qualsiasi suggerimento, ma non c’era nulla che funzionasse se non per brevi periodi. Ogni tanto mi capitava di buttarmi in un’attività febbrile, ma mai per più di una settimana o due. Il momento creativo, però, all’improvviso cessava, lasciandomi più scoraggiata di prima e sempre più lontana dal mio obiettivo. Poi, da un momento all’altro, mi è venuta l’idea che mi avrebbe salvata. Non ero di proposito a caccia di una soluzione, ma ero impegnata in una ricerca in un ambito completamente diverso. Durante la lettura di un libro di F.W.H. Myers, intitolato La personalità umana e la sua sopravvivenza,1 mi sono imbattuta in una frase così illuminante, che ho messo da parte il testo per riflettere sulle idee scaturite da quell’unica, avvincente, ipotesi. Quando ho ripreso in mano il libro, ero un’altra persona. Ogni aspetto della mia vita, ogni mio atteggiamento nei suoi confronti, ogni mia relazione personale ne è uscito trasformato ma, come ho già detto, di primo acchito non me ne ero resa conto. Capivo soltanto, con sicurezza sempre maggiore, che avevo trovato un talismano che funzionava contro il mio immobilismo e il mio scoramento. Per me, era sufficiente! Le mie mani e le mie giornate erano diventate così piene, che non avevo tempo per riflettere su me stessa. Di tanto in tanto, dopo aver svolto in breve tempo un compito che prima mi sarebbe sembrato gigantesco, mi interrompevo per dormire un po’, pensando nel frattempo: «Questa non sono io!» Eppure, ero «io» che coglievo i frutti: i libri che avevo tanto desiderato scrivere, e che, fino ad allora, non ero riuscita a concludere, ora prendevano forma alla velocità con cui riuscivo a mettere le parole su carta. Invece di sentirmi esaurita da quell’attività, trovavo, di continuo, idee nuove che sembravano – e, in effetti, erano – nascoste nella mia mente, dietro tutto il lavoro che era rimasto bloccato e che aveva eretto una barriera.
Elenco, di seguito, tutti gli scritti che avevo prodotto nei vent’anni antecedenti la scoperta della formula magica: quel poco che ero riuscita a fare con grande fatica, fra mille difficoltà e con enorme frustrazione. Per essere generosa, ho addirittura sopravvalutato il numero di voci di ciascuna categoria: diciassette racconti, ventidue recensioni di libri, mezza dozzina di articoli di giornale, un abbozzo di romanzo, abbandonato dopo meno di un terzo della stesura. La media è meno di due lavori completi all’anno! Il risultato dei due anni successivi all’«illuminazione» è il seguente: tre libri (i primi due conclusi il primo anno con due settimane di anticipo rispetto ai tempi stabiliti ed entrambi di successo, seppure in campi diversi), ventiquattro articoli, quattro racconti, settantadue conferenze, l’impalcatura di altri tre libri e innumerevoli lettere di suggerimenti e consulenze professionali inviate in tutti gli Stati Uniti. Ma questi non sono gli unici risultati che ho ottenuto applicando il mio metodo. Non appena ho scoperto il meccanismo per sbloccare le mie energie di scrittrice, mi sono chiesta in quali altri ambiti, in cui incontravo difficoltà, il metodo avrebbe potuto essermi utile e ho provato a utilizzarlo. Le paure e le incertezze che, fino ad allora, mi avevano paralizzata in quasi tutti gli aspetti della mia vita si sono dissolte. Le interviste, le conferenze, gli impegni cui prima mi obbligavo a partecipare, lottando contro la mia volontà, sono diventati esperienze piacevoli. D’altro canto, ho cessato di accettare i mille piccoli soprusi che subivo – quasi come una penitenza –, mentre mi trovavo nel mio vicolo cieco. Ero finalmente in buoni termini con me stessa, avevo smesso di autopunirmi senza pietà e quindi non accettavo più di sentirmi stanca o annoiata senza motivo. Il mio metodo aveva effetti straordinari su di me, ma ne parlavo solo con pochissimi amici. Nell’ottuso egocentrismo che credo di condividere con il novantanove per cento dei miei simili, pensavo che il mio caso fosse unico, che nessuno si fosse mai ritrovato in un tale stato di inefficienza da poter applicare con successo il mio metodo per superare le proprie difficoltà. Di tanto in tanto, tuttavia, non trovandomi più così imprigionata da non vedere nulla di ciò che accadeva all’esterno, mi accorgevo che anche altri stavano sprecando le loro vite, più o meno come io avevo sprecato la mia fino ad allora, ma, visto che io avevo avuto la fortuna di salvarmi, pensavo che anche loro, prima o poi, l’avrebbero fatto. Di conseguenza, è stato solo per caso che ho deciso di esporre pubblicamente il semplice metodo che tanto mi stava aiutando. Tra l’altro, forse non mi sarei mai accorta che quasi tutte le persone
adulte, chi più chi meno, sono insoddisfatte della loro vita e per questo motivo sono frustrate. Ecco com’è andata. Alcuni mesi fa mi è stato chiesto di tenere una conferenza davanti a una platea di librai, il cui tema era: «Le difficoltà di diventare scrittore». Poiché nel mio primo libro avevo già esaminato in modo approfondito tali difficoltà, non avevo alcuna voglia di leggere un capitolo di un testo già pubblicato a persone che, con tutta probabilità, lo avevano già letto. Mentre iniziavo a preparare la conferenza, non mi veniva in mente nulla in più da aggiungere all’argomento, se non dire, con sincerità, che il compito più difficile per uno scrittore è imparare a superare la propria apatia e i propri timori. E così, con la paura che il mio discorso risultasse scontato, ho cominciato a prendere in esame l’argomento e a prepararmi. Le conclusioni che ho tratto sono illustrate in questo libro: a) siamo tutti vittime della «volontà di fallire»; b) se non ce ne accorgiamo in tempo e non prendiamo contromisure, moriremo senza realizzare le nostre ambizioni; c) per opporsi a questa volontà, c’è un sistema che dà risultati straordinari, quasi magici. Ho tenuto la conferenza e sono rimasta sbalordita dal modo in cui è stata recepita. Prima di iniziare a ricevere biglietti, lettere e telefonate, avevo creduto che il racconto di come avevo superato le mie difficoltà potesse rivestire un interesse modesto per la gran parte del pubblico ed essere d’aiuto a non più di due o tre spettatori che, in qualche modo, si trovavano sulla mia stessa barca. Sembrava, invece, che gli astanti, quasi all’unanimità, fossero tutti nella situazione che avevo descritto e che tutti cercassero aiuto per uscirne. Ho tenuto quella conferenza altre due volte e i risultati sono stati identici. Sono stata sommersa di messaggi, domande e richieste di interviste. Entusiasmanti sono stati tre racconti che mi sono pervenuti nel giro di due settimane. A quanto pare, tre partecipanti alla conferenza non solo non avevano aspettato la fine della spiegazione e nemmeno avevano dato per scontato che il mio sistema non fosse adatto a loro, ma si erano sentiti in dovere di metterlo subito in pratica. Una di loro aveva scritto e venduto un racconto che aveva cercato di scrivere per anni, ma che, fino ad allora, le era sembrato troppo «incredibile», perché si potesse vendere. Un altro era tornato a casa e, con tranquillità, aveva posto fine al suo asservimento da parte di una sorella lunatica, per poi decidere di riprendere a svolgere un’attività serale cui aveva rinunciato per volere della sorella. Con suo grande stupore, lei, una volta compreso che l’uomo non intendeva essere più sminuito, si era come
risvegliata da un periodo di stizzosa ipocondria e sembrava più felice che mai. Il terzo caso è troppo lungo e personale per esporlo in questa sede, ma, per molti versi, è il migliore di tutti. In pratica, almeno tre persone avevano trovato il mio metodo efficace e, come me, vedevano un che di miracoloso nei risultati raggiunti. Viviamo tutti così al di sotto delle nostre reali capacità che, quando ci liberiamo degli ostacoli che ci frenano e cominciamo a intravvedere le nostre potenzialità, ci sentiamo del tutto trasformati. Paragonando le vite incerte, timorose ed esitanti, che ci rassegniamo a vivere, con le normali esistenze alle quali potremmo legittimamente aspirare, abbiamo l’impressione che queste ultime abbiano un qualcosa di soprannaturale. Quando ce ne accorgiamo, comprendiamo che tutti gli uomini e le donne che vivono pienamente – statisti, filosofi, artisti o imprenditori – hanno adottato, a volte in modo del tutto inconscio, la stessa forma mentale che i loro simili meno affermati devono cercare di raggiungere, se non vogliono morire senza aver perseguito i loro obiettivi. Ogni tanto, come dimostra la lettura di numerose biografie e autobiografie, l’illuminazione perviene tramite la religione, la filosofia, o l’ammirazione sincera per il prossimo. L’individuo, anche se si sente spesso debole, se sorretto dalla devozione, è in grado di compiere prodezze dell’ingegno e di dar prova di una resistenza e di un’efficienza tali che destano meraviglia. Chi, tuttavia, non possiede la conoscenza innata del metodo che conduce alla realizzazione personale, o non lo apprende abbastanza presto da non ricordare quando lo ha scoperto, oppure, per qualsiasi motivo, non riesce a trovare nella religione o nella filosofia la forza di cui ha bisogno per combattere la propria inefficienza, può comunque imparare a ottenere il meglio dalla vita, mediante uno sforzo consapevole. E, mentre compie tale sforzo, molte altre situazioni che prima lo sconcertavano e lo disorientavano diventano chiare. Questo libro, però, non parla della nascita di un’idea, ma vuole essere un manuale pratico per chi desidera evadere dalla futilità e iniziare a vivere bene.
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PERCHÉ NON CE LA FACCIAMO? Il tempo e le energie che sprechiamo per fallire a tutti i costi sarebbero più che sufficienti per avere successo. Un paradosso assurdo? No, per fortuna si tratta di una verità pura e semplice, che racchiude un potenziale notevole. Supponiamo che un tizio abbia un appuntamento a 100 km di distanza da casa, in direzione nord e che, se vi si recasse con puntualità, avrebbe salute, felicità e anche un certo benessere garantiti per il resto della vita. Ha giusto il tempo per arrivare sul posto e benzina appena sufficiente. Parte, ma decide di fare una deviazione di 25 km verso sud prima di mettersi sulla buona strada. Una follia bella e buona, vero? Il tizio si perde un’opportunità irripetibile, non per colpa della benzina, né per mancanza di tempo e neanche a causa della strada, perché questa conduce sia a nord sia a sud. Se quell’individuo vi dicesse che, tutto sommato, si è goduto il giretto nella direzione sbagliata, che, per certi versi, gli è piaciuto di più vagare senza meta che presentarsi in tempo all’appuntamento, che andando verso sud ha rivissuto alcuni bei ricordi del suo passato, lo elogereste per il suo atteggiamento filosofico riguardo all’occasione perduta? Penso proprio di no: lo considerereste un autentico imbecille. Non lo giustifichereste neanche se si fosse perso l’appuntamento perché sognava a occhi aperti mentre guidava e quindi non aveva visto un paio di cartelli stradali. Se fosse arrivato troppo tardi perché aveva smarrito la strada non avendo avuto il buon senso di consultare una buona cartina prima di partire, forse sareste dispiaciuti per lui, ma lo giudichereste ugualmente uno sprovveduto. Eppure, quando si tratta di recarsi agli appuntamenti che prendiamo con noi stessi e che conducono alla nostra realizzazione personale, ci comportiamo tutti come il protagonista di quella storiella: andiamo nella direzione sbagliata. Pur impiegando lo stesso tempo e le stesse energie, invece di raggiungere l’obiettivo, lo manchiamo. Il fallimento indica che le nostre energie sono state sprecate, perché usate nel
modo sbagliato. Compiere azioni che portano al fallimento richiede energia. Questa è una cosa di cui ci rendiamo conto con difficoltà. Poiché siamo abituati a pensare che il fallimento sia l’esatto contrario del successo, continuiamo erroneamente a considerare antitetiche le qualità che caratterizzano rispettivamente, il successo e il fallimento. Per riuscire bisogna essere risoluti, attivi, svegli, quindi siamo convinti che chi non ce la fa debba essere indeciso, indolente e passivo. Per certi versi è vero, ma questo non significa che non ci sia un utilizzo di energia. Qualsiasi psicologo sarebbe in grado di dirvi che, per resistere ai cambiamenti, un individuo adulto deve investire una notevole quantità di energia. Bisogna intraprendere una dura lotta per mantenersi inerti di fronte alle forze della vita e del cambiamento, ma è una lotta così interiore e profonda, che non sempre ce ne rendiamo conto. Anche chi è inattivo consuma energie vitali. Anche i pigri impiegano energie per sognare. Tutti comprendiamo che quando si fallisce perché si è sprecato tempo prezioso in occupazioni futili, l’energia è stata indirizzata in una direzione sbagliata. Ci sono, però, attività che non sembrano affatto inutili, anzi hanno l’aspetto di compiti difficili, da svolgere con scrupolo, e che spesso suscitano elogi e ammirazione e provocano un senso di autocompiacimento in chi li svolge. È solo osservando con più attenzione che scopriamo che tali occupazioni sono inconcludenti, ci fanno stancare e ci lasciano insoddisfatti ed è solo a quel punto che ci accorgiamo di aver usato male le nostre energie. Ma qual è il motivo? Se, in ogni caso, dobbiamo impiegare le stesse energie sia per realizzarci sia per fallire, perché ci capita così di rado di vivere come vorremmo e di raggiungere i nostri obiettivi? Perché concludiamo così poco e ci buttiamo via in maniera insensata? Perché, quando partiamo in ritardo, oppure restiamo senza benzina per disattenzione, o non prestiamo attenzione ai cartelli stradali per distrazione, adduciamo una serie di pretesti che fanno acqua da tutte le parti e ci consideriamo addirittura filosofici? Nessuno si consola davvero pensando che è meglio un uovo oggi che una gallina domani, che l’importante non è vincere ma partecipare e che mezza pagnotta è meglio di niente. Questi proverbi possono essere frutto dell’esperienza, ma non vanno presi come esempio. Non inganniamo nessuno: solo chi è sulla nostra stessa barca può prendere per buoni i nostri compromessi e le nostre scuse. L’uomo o la donna realizzati reagiscono con incredulità e divertimento a queste magre consolazioni, pensando tra sé e sé che il mondo è pieno di ipocrisia. Costoro sono la prova vivente che le gratificazioni ottenute da un
lavoro ben fatto sono di gran lunga superiori a qualsiasi giustificazione di un insuccesso e che il raggiungimento di un obiettivo, anche minuscolo, vale più di una montagna di sogni. Neanche quando cogliamo gli eventuali aspetti positivi di un insuccesso siamo davvero soddisfatti. In realtà, noi non siamo convinti, anche se i proverbi sembrano affermare il contrario, che occorra scegliere tra successo e una vita tranquilla. Sappiamo benissimo che chi si realizza vive sotto lo stesso cielo, respira la stessa aria, ama ed è amato proprio come chi fallisce, ma ha qualcosa in più: la consapevolezza di aver deciso di percorrere la strada del successo e della crescita, invece di accontentarsi e rassegnarsi. Il filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson aveva ragione quando, nell’Ottocento, scriveva: «Il successo è in noi, dipende da un atteggiamento mentale e fisico positivo, dalle energie impiegate nel lavoro e dal coraggio». Perché, allora, falliamo? E, soprattutto, perché facciamo di tutto per non realizzarci? Il motivo è che, oltre a essere soggetti alla volontà di vivere e alla volontà di potenza, siamo influenzati da un’altra volontà: la volontà di fallire o volontà di morte. Per molti questo è un concetto nuovo. Sulla volontà di vivere e sulla volontà di potenza, si sente di tutto e psicologi e filosofi versano fiumi d’inchiostro. La «volontà di fallire», invece, è molto più complessa e difficile da osservare in azione, perché assume diverse forme. Ci sono tanti modi per fallire (e per farlo in modo rispettabile e «con successo»), quante sono le classificazioni dei tipi psicologici: è per questo che ci coglie alla sprovvista. Non ci siamo preparati a contrastarla, perché siamo abituati a considerare l’insuccesso come uno spettro o una minaccia, più che come una realtà da affrontare e da sconfiggere, eppure lo temiamo, più di ogni altra cosa, per tutta la vita. Renderci conto che esiste una volontà di fallire o una volontà di morte – il che è la stessa cosa –, che nella nostra vita agisce una forza che ci trattiene, ci debilita, ci frustra, ci rovina la salute e ostacola la nostra crescita è il primo passo per muoversi dall’insuccesso verso la realizzazione. Non possiamo decidere di ignorare questa volontà, perché poi essa lavorerà in maniera ancora più sotterranea e potente. Prima dobbiamo affrontarla e poi ce ne libereremo. È possibile infatti riappropriarsi dell’energia che impieghiamo per fallire e utilizzarla per fini più utili. Esistono determinati fatti – chiari, universali e
passibili di una spiegazione psicologica – che, una volta compresi, ci portano a precise conclusioni. A partire da queste, possiamo trovare un metodo con cui agire. C’è un procedimento semplice e pratico, che ci consente di fare dietro-front e di procedere nella direzione giusta. È il metodo – come abbiamo detto – applicato, consciamente o inconsciamente, da tutte le persone realizzate. Il procedimento è semplice e i primi passi per seguirlo sono talmente facili, che chi preferisce ingigantire le proprie difficoltà potrebbe rifiutarsi di credere che un metodo così poco complicato possa aiutarlo. D’altro canto, poiché richiede poco tempo e dimostra ben presto che le conseguenze del suo utilizzo, semplici o no, sono spesso incredibili, tanto vale sperimentarlo. Una vita più ricca, risultati migliori, la soddisfazione del successo e delle sue gratificazioni sono tutti fini per cui di sicuro vale la pena effettuare un esperimento. Gli unici strumenti necessari sono l’immaginazione, la disponibilità a modificare, per un certo periodo, le vecchie abitudini e ad agire in maniera nuova, per il tempo sufficiente per portare a termine un singolo compito. Quanto tempo sarà necessario dipende dal tipo di lavoro da svolgere e dal fatto di poter rendere conto solo a sé stessi, oppure di dover tenere in considerazione il carattere e la disposizione degli altri, elementi che, come ben sanno dirigenti e amministratori, richiedono maggiore impegno e attenzione. In ogni caso, alcuni risultati dell’esperimento si vedono subito. Spesso questi primi risultati sono così strabilianti, che potrebbero rendere scettici i lettori dalla mente più razionale. Per questo tipo di lettori sentir parlare di risultati prima di averli sperimentati sarebbe un po’ come sentir parlare di miracoli, per cui l’efficacia del metodo potrebbe essere in parte vanificata dall’insinuarsi di quegli stessi dubbi, che invece intendiamo fugare. Lo ripeto ancora una volta: per quanto i risultati siano notevoli, il metodo è semplice e facile. Provatelo, perché ha funzionato con centinaia di persone e può essere utile a chiunque sia più interessato alla propria realizzazione personale che all’insuccesso.
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LA VOLONTÀ DI FALLIRE Chiunque conosca Schopenhauer, Freud, Nietzsche e Adler ha dimestichezza con definizioni come «volontà di vivere» e «volontà di potenza». Tali espressioni che descrivono, talvolta ai limiti dell’esagerazione, gli impulsi dell’essere umano verso la realizzazione e la crescita personale, corrispondono a esperienze concrete, che tutti abbiamo vissuto. Vediamo bambini che fanno di tutto perché le altre persone si accorgano di loro e giovani che cercano in ogni occasione di dimostrare le proprie capacità. Abbiamo sperimentato come, dopo una lunga malattia, il nostro corpo recupera le forze. Sappiamo che qualunque persona normale, che si trovi in circostanze avverse, è in grado di sopportare povertà, afflizioni, umiliazioni e condizioni che alcuni considerano ben peggio della morte. Ed è solo il desiderio di continuare a vivere che spiega la tenacia con cui un individuo, in tali circostanze, si aggrappa al semplice diritto di respirare e di esistere. Non dimentichiamo, inoltre, che noi prima viviamo il processo della crescita e solo in seguito ci rendiamo conto di averlo vissuto. L’individuo procede dall’infanzia all’adolescenza e poi all’età adulta, e a ciascun passaggio scopre che le occupazioni e gli interessi che lo impegnavano nel periodo precedente sono cambiati e si sono evoluti. La natura prepara l’organismo a ciascun nuovo ruolo nel mondo e ci riconcilia con le nuove esigenze, mostrandoci i piaceri e le gratificazioni che caratterizzano la condizione che stiamo per assumere e che prenderanno il posto di quelli che dobbiamo abbandonare. L’idea di una volontà contrapposta alla volontà di vivere – la volontà di fallire o la volontà di morte – non è accettata con la stessa facilità. Per qualche tempo, per esempio, uno dei pilastri della psicanalisi è stato il concetto che nessun essere umano può effettivamente figurarsi la possibilità di cessare di esistere. Si pensava che persino i sogni di morte e le minacce di suicidio da parte di pazienti molto disturbati si basassero unicamente sul desiderio di vendetta. La spiegazione era che il paziente immaginava di continuare a vivere in un’altra dimensione, da cui era in grado di osservare il rimorso e il rimpianto provocati dalla propria morte in chi, secondo lui, gli aveva fatto un torto.
In realtà, Freud, dopo aver analizzato alcuni pazienti traumatizzati dalla guerra, pubblicò una monografia, in cui affermava di avere, in alcune occasioni, identificato sogni che rivelavano sinceri desideri di morte. La morte fa, in effetti, parte dell’esperienza umana, tanto quanto la nascita e la crescita e, se la natura ci prepara a ogni nuova fase della vita, spegnendo in noi gli antichi desideri e spalancandoci nuovi orizzonti, non sembra poi così difficile concepire che veniamo anche, in modo lento e graduale, messi in grado di accettare l’abbandono finale di tutto ciò che ci è stato caro in vita. La rinuncia a ogni lotta, a ogni sforzo, desiderio o ambizione dovrebbe risultare naturale in un essere che viene distolto, con gradualità, dagli impegni della vita. È per questo motivo che dobbiamo considerare la volontà di fallire come una realtà concreta. Se l’inerzia, la soggezione, le occupazioni di ripiego, la paura della fatica, l’accettazione e la rassegnazione si manifestassero solo al termine della vita, o quando siamo logorati da una malattia o dalla stanchezza, se non ci ostacolassero mai quando siamo nel pieno vigore delle nostre forze vitali, non ci sarebbe alcun motivo per affrontare questa volontà di fallire come se fosse – e in effetti è – il nemico supremo di tutto ciò che in noi è positivo e costruttivo. Ma tali atteggiamenti, se compaiono in gioventù o nella piena maturità, sono il sintomo di qualcosa che non va in noi e nel profondo del nostro essere, così come una sonnolenza fuori luogo può presagire una malattia fisica. Se questa volontà si potesse individuare con facilità quando si presenta prima del tempo, sarebbe semplice da combattere. Purtroppo, siamo quasi sempre già in preda al suo potere prima ancora di sospettare, anche solo in modo vago, che non tutto sta andando come dovrebbe. Siamo così abituati a parlare in termini negativi degli insuccessi, delle frustrazioni e delle paure, che è come se fossimo invitati a combattere contro i mulini a vento quando veniamo esortati a lottare contro le avvisaglie del fallimento. Da giovani, è raro riconoscere i sintomi della volontà di fallire. Spieghiamo la nostra riluttanza a metterci in gioco come la naturale esitazione del principiante. Però tale riluttanza perdura, gli anni passano e, a un certo punto, ci accorgiamo con sbigottimento che la timidezza giovanile di un tempo, che a tratti poteva essere graziosa, si è trasformata in qualcosa di molto diverso, morboso e ripugnante. Oppure ci adagiamo in una comoda situazione familiare, che ci permette di sopportare il peso di non aver mai avuto il
coraggio di lavorare con fervore. Diciamo, per esempio, che non avremmo potuto lasciare questo o quel parente da solo e indifeso. Poi la famiglia cresce, si disperde e noi ci ritroviamo soli: l’attività di ripiego che ci aveva tenuti tanto impegnati ci è sottratta senza pietà e noi siamo terrorizzati all’idea di voltare pagina e riprendere il progetto abbandonato da tempo. Ma potremmo anche avere tutte le ragioni del mondo per non aver dato il meglio di noi stessi. Molte persone sono costrette a lavorare per vivere, per cui l’occupazione trovata nel momento in cui era indispensabile cominciare a guadagnarsi il pane non era quella cui ambivano o per la quale erano portate per natura. Quando poi ci si sposa e si hanno figli, i bisogni sono ancora più pressanti. Se dovessimo pensare solo a noi stessi, potremmo anche essere disposti ad aspettare alcuni anni, ma costringere altri a farlo richiede un egoismo e un coraggio che solo pochissimi hanno. In Occidente, in particolare, dove i matrimoni per amore sono la regola, la maggior parte dei giovani inizia la vita coniugale possedendo poco più della propria salute, della giovinezza e dell’intelligenza come unico bagaglio. Ormai la pretesa di una dote, che dovrebbe essere fornita dalla famiglia della sposa, è considerata ignobile e antiquata. Eppure l’idea di avere a disposizione una piccola riserva finanziaria con cui far fronte alle esigenze di una nuova famiglia non è poi così disdicevole. Chissà, forse è a causa dell’abbandono di questa usanza, che si vedono così tanti uomini e donne di mezza età che si sprecano in lavori faticosi, ingrati e privi di soddisfazione, con l’unica prospettiva di un futuro monotono o, peggio ancora, l’incubo della disoccupazione e della povertà. La necessità di accettare il primo lavoro che capita può da sola spiegare perché siano così poche le persone che riescono a realizzare i loro progetti. Spesso accade che all’inizio abbiamo tutte le intenzioni di non perdere di vista il nostro vero obiettivo, anche se siamo obbligati a guadagnarci da vivere svolgendo un lavoro che non ci è congeniale. Ci prefiggiamo di non rinunciare alle nostre ambizioni e di procedere in quella direzione – costi quel che costi –, lavorando anche la sera, nel fine settimana e in vacanza. Ma il lavoro a tempo pieno è stancante e impegnativo e ci vuole una forza di volontà sovrumana per continuare a darsi da fare da soli, mentre tutti gli altri si svagano, senza avere alcuna garanzia di raggiungere, presto o tardi, l’obiettivo. E tutto ciò avviene senza che ci rendiamo conto di essere caduti in preda alla volontà di fallire. Continuiamo ad agitarci e non ci accorgiamo che stiamo andando a fondo.
Quasi tutti nascondono i loro insuccessi agli altri, ma soprattutto a sé stessi. Non è difficile far finta di non sapere che si sta facendo molto meno di quanto si potrebbe, di aver realizzato solo una minima parte di ciò che ci si era riproposti di fare entro una certa età e che tutto il resto, con grande probabilità, non arriverà mai. Uno dei motivi per cui è così facile autoingannarsi è che, a un certo punto, finiamo per stipulare una sorta di tacito patto con amici e famigliari. «Non accennare mai al mio fallimento», chiediamo implicitamente agli altri, «e io non mi lascerò mai sfuggire di bocca che neanche tu stai facendo tutto quanto saresti in grado di fare.» È raro che quel diplomatico silenzio sia violato in gioventù o negli anni della piena maturità. Fino ad allora, infatti, di solito ci illudiamo che, da un momento all’altro, potremmo decollare. Qualche anno dopo, iniziamo a infrangere il silenzio e, infine, arriva un momento in cui possiamo permetterci di sorridere mestamente, ammettendo che le ambizioni con cui avevamo fatto il nostro ingresso nel mondo adulto erano troppo alte e che le speranze che nutrivamo sulle nostre capacità erano troppo ottimistiche. Quando arriviamo intorno alla cinquantina – e talvolta anche prima – di solito ci concediamo un borbottio indulgente e quasi ironico; dopo tutto, ben pochi dei nostri coetanei si trovano nella posizione di dire: «Perché non cominci adesso?» Eppure, molte grandi opere dell’umanità, numerosi capolavori inestimabili sono stati eseguiti da uomini e donne che avevano superato da un pezzo quello che, con superficialità, chiamiamo «il fiore degli anni». E così ci lasciamo sfuggire la vita, senza aver dato il nostro contributo, senza aver mai attinto a tutto il nostro potenziale, senza aver sfruttato neanche la minima parte delle nostre abilità, naturali o acquisite che fossero. Se riusciamo a conquistare un certo benessere, a guadagnarci un minimo di rispetto e di ammirazione da parte del prossimo, se abbiamo un assaggio, anche piccolo, di potere e alcuni affetti, riteniamo di aver raggiunto un buon compromesso e ci lasciamo pervadere dalla volontà di fallire. Ci facciamo addirittura vanto della nostra sagacia, senza nemmeno sospettare di essere stati defraudati e di esserci accontentati delle consolazioni che seguono il fallimento, invece di aver raggiunto le gratificazioni del successo. Se il gioco complicato al quale tutti noi giochiamo con noi stessi e con gli altri non avesse mai fine – se non si fermasse mai nemmeno per un momento, in modo da rivelarsi all’improvviso per quello che è davvero –, la volontà di fallire potrebbe trascinarci, inesorabile, fino alla morte, e nessuno di noi si sognerebbe di protestare. Per fortuna, qualche volta il gioco si interrompe sul
più bello e di colpo ci chiediamo perché ci stiamo affannando in quel modo, perché giochiamo a nascondino come se fosse una questione di vita o di morte, che fine abbia fatto la vita che desideravamo mentre sprecavamo il nostro tempo a non fare niente, oppure a svolgere un lavoro che ci garantiva niente più della mera sopravvivenza. Il momento, talvolta, passa e nessuno se ne ricorda più, se non dopo molto tempo, oppure è dimenticato per sempre. Ma ci sono alcuni di noi che non lo dimenticano: allora il gioco si trasforma in un incubo e svegliarci e ritornare alla realtà diventerà la nostra unica preoccupazione. Qualche volta l’incubo peggiora: proviamo un espediente dopo l’altro per liberarci, ma solo per ritrovarci in un labirinto senza via d’uscita. Eppure possiamo scappare, ma solo se prima torniamo (apparentemente) indietro, ammettiamo l’esistenza della volontà di fallire e poi ci rendiamo consapevoli di essere sue vittime.
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LE VITTIME DELLA VOLONTÀ DI FALLIRE Se la volontà di fallire si manifestasse con sintomi chiari e inconfondibili, come quelli del morbillo o del raffreddore, probabilmente sarebbe già stata debellata da un bel pezzo, oppure esisterebbe una tecnica per contrastarla. I sintomi, però, sono molti e vari. Se provaste a strappare un viveur, edonista, modaiolo e nel pieno degli anni dalla sua sfrenata vita mondana e lo presentaste a un filosofo barbuto, mal vestito e meditabondo, e diceste ai due di fare conoscenza perché hanno un mucchio di cose in comune, probabilmente vi prenderebbero per matti, ma avrebbero torto. Il sognatore introverso e il bellimbusto estroverso sono agli antipodi quanto a stile di vita, eppure sono motivati dallo stesso impulso: entrambi cercano inconsciamente l’insuccesso. Le loro vite hanno un denominatore comune. In una sua massima Marco Aurelio1 ammonisce sé stesso con queste parole: «Non agire come se dovessi vivere mille anni». Chi è in preda alla volontà di fallire si comporta come se avesse dinnanzi a sé mille anni di vita. Che sogni o si diverta, spreca il suo tempo prezioso come se fosse inesauribile. Ma, poiché esistono tanti modi di sprecarsi quante sono le caratteristiche psicologiche che distinguono gli individui, spesso non siamo in grado di identificare la volontà di fallire né nel prossimo né in noi stessi. Di seguito, illustro alcuni degli innumerevoli modi di agire che adotta chi pensa di poter vivere mille anni. Ci sono, per esempio, persone che dormono da due a sei ore in più di quelle che basterebbero per mantenersi in perfetta salute fisica. Esaminando i singoli casi, a meno che le ore di sonno non superino di gran lunga la normale durata, è difficilissimo essere certi che non si sia in presenza di innocui dormiglioni. Quando, tuttavia, si colgono segni di paranoia, allora si è sicuramente di fronte a vere e proprie vittime della volontà di fallire. Gli individui che si mettono di cattivo umore o si trascinano mezzo addormentati se costretti ad andare a letto più tardi del solito, quelli che ogni mattina contano meticolosamente le ore di sonno della notte precedente, lamentandosi
per ogni interruzione, ogni ora d’insonnia, ogni visita importuna, sono persone per cui il sonno non ha una funzione unicamente ristoratrice. Quando poi un adulto prende l’abitudine di fare regolarmente un paio di sonnellini al giorno, allora la diagnosi diventa di una semplicità estrema. Poi, sempre nella categoria dei non realizzati che non si notano, troviamo gli «introversi», ossia quelli che dormono in piedi: persone che assistono da lontano alle attività altrui senza quasi mai prendervi parte, o che si dedicano a passatempi che richiedono una partecipazione scarsa e non costruttiva. Sono gli appassionati di solitari, cruciverba e puzzle, cui si aggiungono i topi di biblioteca patologici. Una volta capita la differenza, non è poi così difficile distinguere lo svago dall’ossessione. I più facili da riconoscere, fra chi persegue l’insuccesso, sono i forti bevitori. Su di loro si potrebbe scrivere un trattato, ma sono già stati versati fiumi d’inchiostro. La volontà di fallire è evidentissima, agli occhi di qualsiasi osservatore, in chi beve di frequente e senza misura, al punto da essere sempre stordito o, peggio ancora, una sorta di morto vivente. Ci sono, tuttavia, migliaia di casi in cui i sintomi sono così labili che passano quasi inosservati. Si tratta di chi beve sapendo che il giorno dopo sarà intontito e incapace di ragionare, se non in maniera annebbiata, finché i postumi della sbronza non si saranno esauriti, oppure di chi sa che l’alcol gli provocherà disturbi fisici, leggeri o acuti. Tutti quelli che hanno imparato a conoscere le conseguenze del bere, eppure continuano a sottoporvisi di propria volontà, sono veri e propri autolesionisti. Quale che sia la sostanza assunta fa poca differenza. Se il caffè vi fa diventare nervosi o se siete intolleranti al latte, eppure continuate a farne uso, pur non essendo considerati alla stregua degli alcolizzati, fate ugualmente parte della stessa categoria. Chiaramente, questo vale anche per un’alimentazione scorretta o troppo copiosa. Passando agli individui attivi, bisogna dire che gli estroversi che perseguono il fallimento come obiettivo principale lo fanno in così tanti modi diversi, che cercare di catalogarli è impossibile. Come esempio, posso portarvi i nottambuli infaticabili, quelli che non si possono perdere un solo spettacolo, una cena o una mostra, quelli che si disperano se passano un giorno senza essere stati a un cocktail o a una festa. Naturalmente, non abbiamo niente contro gli svaghi e il rilassamento quando si rendono necessari, dopo un periodo di attività costruttiva e finalizzata, ma è chiaro che, travisando questa regola non scritta, ossia esigendo di svagarsi a tutti i costi, si attribuisce al divertimento un valore anomalo.
Poi ci sono le vie di mezzo, difficili da classificare, come chi ricama e chi lavora a maglia e simili. Va precisato, tuttavia, che, talvolta, un compito che richiede solo abilità manuali può essere associato a un’intensa attività mentale, come la risoluzione di un problema concreto. Occorre, in ogni caso, essere del tutto sinceri con sé stessi, per capire il vero scopo di un’occupazione meccanica. Se si instaura una sorta di torpore o, al contrario, se il passatempo è sufficientemente complicato da richiedere un’attenzione consapevole e da non poter essere svolto in modo automatico, allora è raro che si possa collocare fra le attività veramente creative o complementari a queste ultime. Quanto ai chiacchieroni puri e semplici, è più facile pensare che lo siano gli altri, che accorgerci di esserlo noi stessi. Non vi è mai capitato di rendervi conto all’improvviso di aver ripetuto lo stesso aneddoto alle stesse persone e, di conseguenza, sentirvi in dovere di mantenere un silenzio imbarazzato per qualche giorno? Ma questa è un’inezia. Il peggio si verifica quando neanche i sorrisini forzati degli altri o le loro espressioni annoiate ci impediscono di continuare a blaterare sempre sugli stessi argomenti, di ripetere meccanicamente le medesime opinioni, di fare gli stessi commenti inutili nelle situazioni che si ripetono, di mostrarci automaticamente indignati per le consuete ingiustizie, di portare gli stessi esempi per illustrare le solite tesi, più qualche fiacca argomentazione per corroborare quelle che un tempo erano opinioni e ora sono solo frasi fatte. Talvolta adottiamo vezzi verbali che hanno il potere di irritare il prossimo (offrirò in seguito alcuni suggerimenti su come perdere questo vizio; per ora mi limito a illustrare come tradisca in noi la presenza della volontà di fallire). Ritengo che sia un vero e proprio colpo di fortuna riuscire a far innervosire un amico fino a quel punto. Se vi accorgete all’improvviso di non fare altro che ripetere: «Cioè…», «È chiaro che…», «Figuriamoci!», «Ma vi rendete conto?», «Non ho parole!», rischiate di ritrovarvi a parlare da soli e di scoprire che quelle espressioni ripetitive non solo infarciscono ogni vostra conversazione, ma non aggiungono nulla di nuovo o di interessante alle idee che vorreste sottolineare. Anche in questo caso, come per le altre categorie, quando ci si imbatte in esempi caricaturali di questa brutta abitudine, è facilissimo accorgersi che c’è qualche cosa che non quadra: un parolaio esaltato è di sicuro una persona con disturbi psicologici. Il difficile è rendersi conto che ci sono forme molto meno evidenti di questo vizio, che spesso passano inosservate per anni, perché chi ne è affetto ripete gli stessi concetti a un pubblico sempre diverso.
Ma si può cadere vittime della volontà di fallire in modi ancora più impercettibili, a cui introversi ed estroversi sono vulnerabili quasi in egual misura. Prendiamo come esempio il gran numero di persone che svolge, per scelta, mansioni per cui è necessaria solo una frazione delle proprie capacità e competenze e poi si affanna senza sosta ed esaurisce tutte le proprie energie su dettagli insignificanti. Fanno parte di questa categoria quelli che conseguono un master dopo l’altro, facendo il giro di tutte le università, anno dopo anno. Ma ne fanno parte anche i figli e le figlie che vivono all’ombra dei genitori, le madri e le mogli devote (i padri sono più rari, chissà perché, ma qualche marito c’è), che vivono senza mai attingere al loro potenziale personale e, perciò, senza arricchire in alcun modo gli oggetti della loro abnegazione, oppure offrendo loro un aiuto solo marginale. C’è chi, invece, si assume consapevolmente un compito che è al di sopra delle proprie forze, oppure si dedica a ricerche fini a sé stesse. Conosco una persona di New York, per esempio, che, fin dal secondo anno di università, non fa altro che collezionare dettagli biografici su un oscuro statista italiano. Quello pseudobiografo ormai è sulla quarantina avanzata e non ha ancora scritto una sola parola della iografia ufficiale di quell’uomo. Forse la categoria più folta di tutte le persone il cui obiettivo è fallire è quella degli «ammaliatori indefessi». Quando vi ritrovate in presenza di un’affabilità che non è adeguata alle circostanze, potete star certi che avete a che fare con una persona non realizzata. Badate bene che non sto criticando la cordialità sincera, l’amichevolezza, o l’amabilità di carattere: sto parlando degli «eterni bambinoni», di quegli adulti, uomini e donne, che devono essere per forza accettati dai loro coetanei come «pargoli» divertenti, accattivanti, deliziosi, magari anche irresponsabili, un po’ incoscienti, ma talmente adorabili, anche per gli estranei! Sono le donne civettuole e capricciose e le persone che si lamentano costantemente in modo spiritoso, le quali, se sono anche di aspetto gradevole, argute e divertenti, il più delle volte suscitano, sul momento, indulgenza e tenerezza. È solo in seguito che ci si rende conto che quelle emozioni non sono giustificate. Un adulto sano non ha certo bisogno della tenerezza o dell’indulgenza di tutte le persone con cui entra in contatto. A meno di non avere la coscienza sporca, nessuno si sognerebbe mai di inscenare una recita per suscitare quelle reazioni. Tali individui sono obbligati a esercitare il loro fascino come condannati ai lavori forzati e a essere sempre più simpatici e accattivanti man mano che le loro altre attrattive scemano,
oppure devono affrontare la verità, ammettendo di non aver adempiuto in modo adeguato ai loro doveri. Finché la loro inadeguatezza non è evidente, se non riflessa nello sguardo indulgente di chi le sopporta, tali persone possono andare avanti senza ammettere di essere dei falliti. E così sprecano la loro vita, a meno che, a un certo punto, non abbiano la fortuna di accorgersi che sono loro a rimetterci maggiormente. Ci sono, quindi, tutti questi modi, e molti altri, per tenersi occupati in attività apparentemente inutili o seguendo abitudini il cui significato è illusorio, e tutti derivano dall’assoggettamento alla volontà di fallire. Tenete presente che tali attività sono inutili solo in apparenza, perché in ciascun caso c’è un’intenzione interiore che può essere definita in molti modi diversi. Si potrebbe dire che la nostra intenzione più ovvia è far credere al mondo che sfruttiamo al massimo tutte le nostre capacità. Questo è particolarmente evidente se la nostra vita sociale è ricca di molti piccoli impegni, oppure se svolgiamo coscienziosamente un lavoro pesante e ingrato. È chiaro che nessuno potrebbe mai chiederci di fare di più! Non si vede che siamo tanto occupati, che non avremmo un solo minuto, né un briciolo di energia in più per fare altro? Non è forse nostro dovere portare a termine meticolosamente quel compito così insignificante, insoddisfacente e noioso? Queste sono domande cui ognuno di noi può rispondere con sincerità solo e unicamente per sé stesso, e di solito lo fa durante gli attacchi di insonnia o nei periodi di convalescenza, quando la mente, abitualmente così presa da questioni banali, ha il tempo per fermarsi a riflettere. Alla lunga, ha poca importanza quanto astutamente siamo riusciti a ingannare gli altri: se non facciamo ciò che ci è più congeniale, o se non svolgiamo bene il lavoro che abbiamo intrapreso e che consideriamo il nostro contributo personale al progresso del mondo, quantomeno seguendo con serietà quella che per noi è una vocazione sincera, nella nostra vita ci sarà sempre un fondo di insoddisfazione, che, con il passare degli anni, diventerà sempre più difficile da ignorare. Lo scopo principale di spendaccioni, edonisti e lavoratori indefessi è l’autoinganno: riempiendo di attività ogni loro singolo istante di veglia, cercano di fugare anche il più piccolo sospetto che la loro vita sia futile. La sera, poi, sono ancora intenti a divertirsi, oppure sono così esausti, che non sono in grado di riflettere sulla realtà. Eppure queste vittime costituiscono un triste spettacolo una volta smascherate e viste per ciò che sono: falliti
dissennati che accumulano invano un’infinità di sensazioni, esperienze, emozioni artificiali, capricci e manie assurde nel prezioso scrigno della loro unica e insostituibile esistenza. Qualunque sia lo scopo apparente, è chiaro che in tutti questi casi la motivazione è una sola: l’intenzione, spesso inconscia, di riempirsi la vita di occupazioni poco importanti o di attività di ripiego, in modo che non resti iù il tempo per svolgere il lavoro a sé più congeniale e per cui si è più adeguati.
In breve, l’intenzione è fallire.
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LE GRATIFICAZIONI DEL FALLIMENTO Per quanto, di primo acchito, possa sembrare assurdo che un individuo voglia davvero, seppure in modo inconsapevole, dedicarsi al fallimento, è un dato di fatto che esiste forse una sola persona su cento che non si danneggi deliberatamente in un modo o in un altro. Per comprendere questo fenomeno è necessario dedicare un intero capitolo a quelle che potremmo definire, senza paradossi, le gratificazioni dell’insuccesso. L’interesse recente e sempre più diffuso per tutti gli ambiti della psicologia ci ha insegnato ad accettare un’idea che, quando era stata avanzata per la prima volta, era sembrata ridicola: l’idea che tutti, chi più chi meno, ci perdiamo quasi sempre in fantasticherie. Sogniamo consapevolmente e inconsapevolmente, da svegli e da addormentati, una situazione che, secondo noi, dovrebbe darci più soddisfazioni della vita concreta. Di tanto in tanto, affiora in noi un’idea infantile di felicità o di successo che ci svia dalla nostra esistenza adulta o la intralcia. Talvolta il sogno è vivere una vita sfarzosa e inoperosa, in quanto l’«inconscio infantile» si rifiuta di abbandonare il sicuro rifugio materno, dove tutti i bisogni venivano soddisfatti non appena erano espressi, dove il nutrimento, il calore e l’affetto erano offerti generosamente e in modo incondizionato. Il già citato Emerson, molto prima che possedessimo un vocabolario specifico per definire quella fantasia retrospettiva e che fossimo a conoscenza di termini come «fissazione» o «narcisismo», scrisse: «Non vogliamo credere che esista una forza attuale che possa rivaleggiare con quel meraviglioso passato o ricrearlo. Ci attardiamo fra le rovine dell’antico nido che un tempo ci offriva cibo e riparo». Per certi versi, questo vale per tutti, ma in misura minore per gli adulti soddisfatti e realizzati. In altri casi, per quanto possa sembrare assurdo, la fantasia riguarda il successo: l’uomo timido vorrebbe essere un Napoleone della finanza o della politica, la donna insignificante una dea. Se la realtà non si intromettesse mai in queste fantasie, il sognatore potrebbe essere più contento quando è assorbito dalla muta narrazione della sua fiaba, che non se gli capitasse l’occasione di concretizzarla almeno in parte. Tali fantasie rendono accettabile una vita noiosa, o perfino monotona e priva di cambiamenti. Ma, poiché il
mondo è quel che è, il sognatore è costretto a vivere, almeno per parte del suo tempo, nella dura realtà dei fatti. Purtroppo non abitiamo nel paese della cuccagna, dove i maialini arrosto vanno in giro gridando: «Mangiami, mangiami!» e dove i frutti cadono direttamente in bocca dagli alberi. Per quanto il sogno sia piacevole, prima o poi dobbiamo svegliarci e affrontare le dure condizioni della vita reale. Il sognatore incallito si dà da fare solo lo stretto necessario e non di più. Si guadagna da vivere facendo tutto di malavoglia. Poi, una volta terminate le sue occupazioni quotidiane, si rifugia nuovamente nei suoi sogni, anche senza rendersene conto. Riesce a concludere una sola cosa: conquistare qualche ora di tempo libero ogni giorno per un unico scopo, ossia continuare a sprecare la propria vita. Per queste persone, sognare è un’autentica compensazione per tutti gli altri insuccessi e quindi vanno avanti così. Ma poiché, dopo tutto, il vero obiettivo è la felicità, in realtà i sognatori si autoingannano, perché non si rendono conto che anche il più piccolo successo arrecherebbe loro più soddisfazione di anni di fantasticherie. Ciò nonostante, è indispensabile ricordare che le gratificazioni degli insuccessi sono di per sé reali, altrimenti non dovremmo farci coraggio per combatterle come si conviene. Esistono, inoltre, altre gratificazioni oltre ai sogni. Se, per esempio, pensate di esservi sforzati abbastanza, da poter dire a voi stessi che ci avete provato, allora potete tranquillamente incrociare le braccia per il resto dei vostri giorni. Potete ammettere umilmente che vi siete dati da fare, ma avete scoperto che vi mancano gli strumenti per realizzarvi. Questa è un’osservazione che si sente pronunciare – in realtà abbastanza di rado – da persone anziane che, con un tono di ironica autodisapprovazione, riconoscono il loro fallimento. È un commento che suona molto sincero e toccante; inoltre, non c’è modo di dimostrarne la falsità, totale o parziale. Chi lo afferma si è comunque risparmiato una vita di sforzi. Se fate parte di questa categoria, potete osservare le fatiche degli altri con occhio semidivertito e con una punta d’invidia per i loro successi, ma forse godendovi ancora di più – considerata l’umana natura – lo spettacolo di chi non ce la fa e viene a ingrossare le file degli osservatori come voi. Come disse Benjamin Franklin:3 «L’umanità è superficiale e ignobile. Chi si cimenta in qualcosa, alla prima difficoltà rinuncia scoraggiato». E perché non dovrebbe, si chiede l’inconscio, visto che si può provare, arrendersi e consolarsi pensando per il resto della vita che, se avessimo provato ancora
una sola volta, ce l’avremmo fatta? Come risultato, potete diventare un dilettante difficilissimo da accontentare da parte di chi continua a faticare, il più severo di tutti i critici, il possessore di chissà quali conoscenze interiori e della potenzialità di raggiungere livelli di eccellenza impareggiabili dai comuni mortali; livelli così sublimi, così elevati che l’impossibilità di raggiungerli è più onorevole – potreste insinuare – del facile successo di chiunque altro. Pur non avendo concluso nulla, il plauso che avreste potuto ottenere, il colossale colpo finanziario che avreste potuto mettere a segno, il capolavoro che avreste potuto realizzare, potrebbero assumere, nelle vostre fantasticherie, e agli occhi di coloro che accettano la vostra versione dei fatti, forse più importanza del successo concreto che avreste potuto ottenere. Altrimenti potreste diventare i protettori e i sostenitori di lavoratori e artisti più perseveranti e forse questo è l’insuccesso più gratificante, il fallimento più riuscito di tutti. Tenete presente, però, che in tutti questi casi vi risparmiereste, come minimo, gli sforzi, il dolore e le umiliazioni che, inevitabilmente, si associano al lavoro materiale. Nessuno disprezzerebbe mai o fraintenderebbe un lavoro che vi è costato una fatica immensa. Non dovreste mai subire il rancore di chi avete necessariamente dovuto sorpassare. Non sareste costretti a sentire le critiche dei vostri eventuali detrattori. Non dovreste mai prendere atto della malignità di chi invidia il vostro successo, seppure di scarsa importanza. Non dovreste mai difendere le vostre opinioni quando siete stanchi e avreste voglia di riposarvi per prepararvi a una nuova impresa. Oppure, dolore ancora più profondo e intimo, non vedreste mai la discrepanza tra il lavoro che avete concluso e quello che avreste sperato di concludere. È questa discrepanza la fonte della modestia di chi lavora seriamente. La questione della fatica e delle delusioni evitate è di fondamentale importanza, quando si esaminano i motivi per cui spesso preferiamo il fallimento al successo, e si rivela molto illuminante. È perciò necessario capire che se non ce la facciamo, siamo premiati perché non rischiamo di affannarci, stancarci, scoraggiarci o infuriarci quando i nostri collaboratori sembrano più riottosi del solito o quando i nostri strumenti sembrano inadeguati. Se qualcun altro eccelle nella posizione che avevamo sognato di rivestire, possiamo sempre pensare che, se avessimo riprovato, avremmo potuto superarlo. E poi, restando nell’ombra, non vi capiterà mai di superare una persona che
amate. Questa è forse la gratificazione legata al fallimento più frequente per le donne, ma ne sanno qualcosa anche i figli di genitori illustri e i discepoli di maestri sorpassati. Eppure, è corretto affermare che molti di quelli che hanno paura di arrecare dolore ad altri non provano neanche ad agire e non tengono nella giusta considerazione la generosità dell’amore. Di conseguenza, il più delle volte questa è una scusa per non darsi da fare e non un reale compromesso con la nostra ambizione, che ha lo scopo di non rovinare una relazione di vitale importanza. L’individuo che non si realizza si risparmia un mucchio di pettegolezzi e di incomprensioni, oltre alle dicerie quasi scandalistiche che molto spesso fioriscono intorno alle persone di successo. Avere una paura eccessiva di queste conseguenze è da nevrotici, ma capita di frequente che questo timore funga da deterrente alla realizzazione personale. Tutte le persone dinamiche sono oggetto della curiosità di chi non è come loro, ma pochi, la cui opinione vi sta a cuore, conoscono la verità, mentre tutti gli altri non contano. Eppure molti rinunciano a un’esistenza attiva, non a favore di una vita interiore ancora più intensa, bensì per sfuggire al volgare interesse delle folle. Di solito, inoltre, se il vostro fallimento non è troppo eclatante, sarete più apprezzati in società rispetto a quanto lo sarebbe una persona che lavora con maggiore impegno. Chi ha davvero successo, il più delle volte, è un lavoratore assiduo e, persino nei momenti di svago, volge di frequente il pensiero a qualche aspetto della propria occupazione professionale. La persona di successo ha meno tempo libero e rispetta in modo puntiglioso le scadenze che si stabilisce, riducendo o rinunciando alla propria vita sociale. È raro che si possa contare su di lei per un evento mondano dell’ultimo minuto, visto che non è a caccia di qualsiasi pretesto per sfuggire a una vita insoddisfacente. E poiché non è vittima dei profondi sensi di colpa che tormentano chi sa di non essersi realizzato, non ha bisogno di ricevere ricompense e gratificazioni a tutti i costi. Chi ha successo condivide la propria arguzia, il proprio fascino, le proprie emozioni e il proprio appagamento con le persone cui si è legato per scelta. Di conseguenza, fuori dalla cerchia degli amici intimi, può avere la nomea di individuo burbero, scostante o freddo. Fino a che non riuscirete a tollerare l’idea che possa esistere anche un solo essere umano al mondo a cui siete indifferenti, ridicoli o antipatici, probabilmente farete di tutto pur di continuare sulla strada dell’insuccesso, usando tutto il vostro fascino. A questo punto, potrebbe essere utile esaminare le vite di tre vittime della
volontà di fallire. In ciascuno dei casi si nota un’esistenza molto attiva, così attiva che, di primo acchito, si potrebbe concordare con i protagonisti degli esempi, attribuendo i loro insuccessi a un destino perverso. Ma, osservando più attentamente, ci si accorgerà che nessuno dei fallimenti è stato causato da fattori estranei al carattere dell’individuo. Ognuna di quelle persone possedeva le capacità per condurre un’esistenza felice, piena e produttiva, ma ognuna ha sprecato le proprie energie per vanificare l’intenzione dichiarata. La prima si è accorta dell’errore e ha rimediato; la seconda è morta senza aver ammesso di aver sprecato i propri talenti; la terza è ancora alle prese con il proprio problema, ma è a mille miglia da un’eventuale soluzione. Il primo caso è quello di una donna rimasta vedova in giovanissima età. Proveniva da una famiglia molto istruita e aveva avuto una brillante carriera accademica. Con quel poco che le era rimasto per mantenere sé stessa e la propria figlioletta, si era nuovamente iscritta all’università per conseguire una laurea in lettere e un dottorato di ricerca al fine di dedicarsi all’insegnamento. In realtà (come scoprì lei stessa con stupore quando le sue difficoltà diventarono così gravi da obbligarla a chiedere aiuto), essere di nuovo una studentessa e rivivere la condizione dell’adolescente spensierata in un mondo adulto le piaceva immensamente. Di conseguenza, prolungò più che poté quel periodo di preparazione. Dopo il conseguimento del dottorato, compì seri sforzi – ai suoi occhi e anche a quelli degli amici – per trovarsi una posizione adeguata. Solo che finiva, invariabilmente, per mettersi in grave contrasto con i propri superiori e sempre a causa di certe sue originali idee economiche che non c’entravano nulla con la materia che doveva insegnare e la cui accettazione o il cui rifiuto da parte del resto del mondo non avrebbero cambiato di una virgola il lavoro che era chiamata a svolgere. Ogni volta che trovava un posto, tuttavia, la sua ostinazione nel pretendere che le sue idee assurde e utopistiche fossero prese in seria considerazione dai colleghi finivano per procurarle l’antipatia e l’ostilità delle persone da cui dipendeva la sua sopravvivenza. Passò da un posto all’altro senza mai restarci più di un anno, come stabilito per contratto. Era un’ottima docente, molto preparata, e aveva tanto da dare al prossimo, però faceva di tutto pur di non trovarsi nella situazione di dover sgobbare troppo a lungo. Le sue speranze di ottenere una cattedra svanirono e lei retrocesse gradualmente dagli atenei prestigiosi alle piccole scuole sconosciute. In quel periodo, elaborò una propria filosofia di vita che giustificava il suo costante declino. Era convinta che la vita di tutti fosse
caratterizzata da un lusso eccessivo, da un’importanza esagerata attribuita all’abbigliamento, alla buona cucina e alle comodità. Alla fine ottenne un posto che la portò a sistemarsi in un quartiere popolare di una grande città. Quando si trattava di invitare a casa gli amici, però, le sue sprezzanti giustificazioni crollavano. Divenne, così, sempre più solitaria ed eccentrica, pur non rinunciando al suo atteggiamento spavaldo. Per sua fortuna, la sua unica figlia era diventata una ragazza molto bella e intelligentissima, che non si faceva condizionare dalla pseudofilosofia della madre. Capiva perfettamente che il loro stravagante stile di vita la ostacolava in tutti i campi e, una volta diventata adolescente, cominciò a esigere una vita più ragionevole in un ambiente più adeguato. I contrasti si aggravarono al punto tale che la madre si trovò nella condizione di prendere atto delle rimostranze della figlia pur di non perderla. Tutti gli sforzi che compì per uscire dalla situazione in cui lei stessa si era cacciata risultarono, però, vani. Continuava a lanciarsi nelle solite polemiche tutte le volte che le capitava l’occasione e a lavorare nella posizione inadeguata in cui era scivolata solo perché la sopportavano e perché era arrivata ad accettare uno stipendio bassissimo, nonostante la sua formazione e le sue capacità. Quando finalmente decise di rivolgersi a uno psicologo, cadde dalle nuvole, rendendosi conto che aveva dedicato tutte le sue energie a un unico obiettivo: l’insuccesso. Inconsciamente la irritava doversi guadagnare da vivere e avrebbe preferito restare bambina, oppure tornare a essere una moglie amata e coccolata. Le sue polemiche erano state, come dicono gli analisti, «sovradeterminate»:4 da un lato avevano lo scopo di farle perdere il posto, in modo che per lei diventasse impossibile lavorare e, dall’altro, volevano attirare l’attenzione degli uomini. Poiché non era in grado di ammettere a sé stessa che era effettivamente «a caccia» di un marito, per attirare l’attenzione aveva adottato la tecnica – efficace tanto quanto la seduzione – di mettersi in contrasto con il mondo intero. Per rimettersi in carreggiata, dovette compiere un lungo e difficile lavoro su sé stessa, ma alla fine ce la fece. Il secondo caso è uno di quelli che si possono trovare quasi in ogni città e in ogni Paese. È la storia di uno di quei fallimenti che, non solo suscitano un’affettuosa simpatia, ma spesso sono, in qualche modo, considerati più dignitosi e più nobili di qualsiasi storia di successo. Si tratta del caso di un uomo dalla mente sveglia, noto per la sua integrità e dotato anche di una buona dose di ingegnosità. Costui visse e morì nella sua cittadina natale (un centro manifatturiero privo di attrattive), ma non perché la amasse e non
desiderasse nulla di meglio. Leggeva sempre libri di viaggi e avventure e parlava continuamente con rammarico di luoghi e Paesi che non aveva mai visitato. Non si può nemmeno dire che non ebbe mai la possibilità di viaggiare, anzi! L’opportunità gli si presentò senza che l’avesse cercata: gli sarebbe bastato coglierla. Lavorava come direttore di una filiale di una grossa impresa ed era così capace, che gli offrirono un posto analogo in una città più grande e con uno stipendio più adeguato. L’uomo accettò con entusiasmo, ma dopo soli due giorni scrisse una lettera in cui affermava di aver cambiato idea e che non pensava di essere all’altezza di quella promozione. Le sue paure si intensificarono: alcuni anni dopo contestò tutte le innovazioni che la sua azienda cercò di introdurre, pur di non cambiare metodo di lavoro. Qualche tempo dopo diventò un tale ostruzionista, che l’azienda lo mandò in pensione con una rendita bassissima ed egli divenne l’adorato filosofo del villaggio. Al suo funerale un senatore pronunciò un’orazione funebre commovente e i suoi concittadini si mostrarono inconsolabili… Forse è indelicato sottolineare che sua moglie l’aveva preceduto nella tomba di dieci anni, sfinita per l’eccesso di lavoro; che uno dei suoi figli non aveva ricevuto altra istruzione oltre a quella impartita nella scuola della cittadina, nonostante avesse un’intelligenza pari a quella del padre; che l’altro suo figlio dovette lavorare per pagarsi gli studi universitari, mettendoci più tempo e sprecando più energie (dato che studiare lavorando è, secondo una delle false credenze del sogno americano, il modo ideale per darsi un’istruzione); e che la figlia si era rifugiata in un matrimonio senza amore, pur di abbandonare un ambiente domestico privo delle comodità e dei piaceri più comuni. È meglio essere molto chiari su un punto: chi afferma che il successo raggiunto con onestà, come obiettivo di vita, sia, per certi versi, ignobile o si autoinganna o è ipocrita. Eppure è in corso una campagna massiccia per imporci questa falsa credenza, che forse deriva dalla confusione fra il termine «successo» e il concetto di ricchezza accumulata con mezzi leciti e non. Ma l’idea che sia ignobile fare bene ciò che ci si prefigge di realizzare e ottenere in cambio gratificazioni adeguate – talvolta sotto forma dell’approvazione dei propri pari, talaltra come tacita soddisfazione personale per aver arricchito il mondo con il proprio contributo, spesso come compenso economico ricevuto in cambio di un oggetto o di un servizio che, per l’acquirente, valgono il loro prezzo – è semplicemente assurda ed è l’esatto contrario di ciò che, solitamente, si considera «filosofico». Proprio su questo punto si è così espresso William Ernest Hocking:5 «Se il
possesso dei frutti della terra è il normale destino dell’uomo, perché mai chi acquisisce la possibilità di goderne, dimostrando di possedere grandi capacità, non dovrebbe ottenere i riconoscimenti che gli spettano per i suoi successi? È compito dell’uomo arricchirsi e, in circostanze normali, è una dimostrazione del suo talento». Il terzo caso è quello di uno scrittore, figlio d’arte, che, fin dagli esordi, è stato così favorito dalla sorte, da non aver vissuto quasi per nulla le difficoltà e i rifiuti che sono quasi sempre il preludio di una carriera letteraria. Ciò nonostante, questi vive nel terrore dell’insuccesso e in preda a un impulso che sembra condurlo in quella direzione. Non si mette all’opera se non quando è completamente al verde e, a quel punto, scrive forsennatamente e fino allo sfinimento fisico, dopo di che si atteggia a convalescente. Cercando, con l’aiuto di uno psicanalista, di perdere le sue brutte abitudini lavorative, ha provato, più di una volta, a mettersi all’opera quando non ha un urgente bisogno di denaro, ma in quelle circostanze produce sempre lavori inaccettabili e completamente da riscrivere. Per fortuna, il suo pubblico non è a conoscenza di tutta quella fatica sprecata, del tempo dedicato alle avvilenti revisioni che gli sono costantemente richieste. Ogni volta che si trova in quella situazione, si convince che il suo lavoro è per lui sempre più noioso e meno entusiasmante, e le sue speranze di scrivere un libro di cui andare davvero fiero si affievoliscono. Anche nel suo caso, la psicanalisi ha gettato un po’ di luce sui motivi inconsci di quel comportamento, rivelando che la tendenza a produrre lavori raffazzonati e insoddisfacenti è sovradeterminata: da un lato, c’è la paura di superare il proprio illustre padre nella sua stessa professione e, dall’altro, la consapevolezza, appena intuita, che se i racconti cui sembra dedicarsi con grande impegno fossero rifiutati, egli non sarebbe più costretto a lavorare e potrebbe essere libero di passare la vita sognando, a modo suo. L’inconscio si rifiuta sempre di tener conto della realtà e di ammettere che la regola, per la maggioranza della gente comune, è: «Lavorare o morire di fame». Eppure, quell’uomo tormentato vive spesso un’esperienza che, se fosse capita e analizzata, potrebbe farlo uscire da quel vicolo cieco. Quando è completamente sul lastrico, quando non ottiene più credito da nessuno, quando non può più contare né sull’indulgenza degli amici né sulla propria reputazione, quando, in poche parole, ha la «forza della disperazione», produce scritti che sono accettati all’istante. Invece di trarre una conclusione logica da quel fenomeno, preferisce farne oggetto di una superstizione,
dicendo a sé stesso che solo i lavori dell’ultimissimo momento gli portano fortuna! E così va avanti con quel tran tran. In ciascuno di questi casi, quindi, il fallimento, o il relativo insuccesso, hanno due gratificazioni: la fuga dalle responsabilità di una vita adulta e il tempo da perdere sognando a occhi aperti. Si assiste al tentativo di mettersi sulla buona strada solo nei casi in cui la frustrazione è più faticosa da sopportare del successo. Non pensate anche voi che chi spreca la vita in questo modo sia, come minimo, un po’ matto? A tutti capita di crearsi delle difficoltà, di evitare il lavoro, di perdere delle occasioni. Non avete mai ripensato al vostro passato, dicendovi: «Se cinque anni fa avessi fatto quella cosa, ora starei molto meglio?» Avrete anche voi avuto opportunità che non avete colto. Perché? Siete sicuri che, in questo preciso istante, non vi stiate lasciando scappare un’altra occasione che, più avanti, vi accorgerete di aver sprecato? Vi siete mai chiesti se non siate anche voi vittime della volontà di fallire? Eppure le gratificazioni del successo sono immensamente superiori. Ancora una volta, anche il compito più piccolo, svolto bene, il più minuto oggetto che non esisterebbe se voi non aveste lavorato, dà più soddisfazione di quanta possa portarne l’insuccesso in tutta una vita. La consapevolezza di mettersi concretamente alla prova, e non solo nel mondo delle fantasie, è come toccare terra dopo essere stati alla deriva in mare per giorni e giorni. Solo chi lavora facendo del proprio meglio non corre il rischio di cadere in preda al panico quando è costretto a prendere atto della realtà, o di svegliarsi, talvolta, troppo tardi per acquisire o riacquisire le abitudini e i comportamenti normali. Oltre alle innumerevoli gratificazioni soggettive, ci sono anche quelle pratiche. Un dipinto sognato non si vende, un libro immaginato non dà diritto a un riconoscimento economico, un investimento ipotizzato non produce dividendi. Per quanto possa sembrare venale in un mondo in cui si cerca a tutti i costi di convincere gli idealisti che hanno ragione loro, questa è una verità pura e semplice, che ne racchiude una ancora più grande. I sognatori possono disprezzare i beni materiali, ma chi li possiede, di sicuro, prova almeno una soddisfazione concreta.
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CORRERE AI RIPARI Il successo è il fine naturale dell’essere umano, a dispetto della volontà di fallire e delle gratificazioni dell’insuccesso. Impieghiamo correttamente le nostre energie non quando restiamo inoperosi e nemmeno quando ci dedichiamo ad attività improduttive e sterili, ma solo quando le mettiamo al servizio dell’ambizione più completa e più matura che nutriamo per noi stessi. La definizione di successo varia da individuo a individuo, si evolve con la crescita ed è strettamente personale: nessuno può imporre la propria visione a un altro. Spesso, ma non sempre, comprende l’approvazione e l’ammirazione del prossimo e soddisfazioni economiche. Numerosi ricercatori e scienziati si considerano realizzati (e a ragion veduta) per aver aggiunto una piccola scoperta alla mole di conoscenze che contribuiscono al progresso dell’umanità, o per aver dimostrato in maniera inconfutabile quella che fino ad allora era una semplice ipotesi. I loro nomi potrebbero restare per sempre sconosciuti al di fuori dell’ambito scientifico o addirittura al suo interno. Ma se hanno raggiunto lo scopo che si erano prefissati, quei ricercatori hanno realizzato il loro obiettivo di vita. L’attrice che ha raggiunto l’apice del successo è realizzata tanto quanto la madre che accudisce una famiglia numerosa. Il sacerdote che si prodiga per i propri parrocchiani conduce un’esistenza ricca di soddisfazioni, tanto quanto il genio famoso in tutto il mondo. L’idea di successo di un altro individuo può essere tanto diversa dalla nostra, che non riusciamo a capire che soddisfazioni costui tragga dall’occupazione che si è scelto. A patto di non essere del tutto privi di immaginazione, quando però vediamo che questi vive e lavora in maniera responsabile, efficiente, utile e con soddisfazione, sfruttando al massimo le sue doti e i suoi punti di forza, non possiamo non accorgerci che abbiamo di fronte una persona realizzata. Se proponessimo una definizione di successo troppo circoscritta, vanificheremmo lo scopo di questo libro. La nostra sfiducia nel mondo deriva, per buona parte, dal fatto che non ci rendiamo conto delle infinite possibilità di realizzazione che ci si possono presentare. Ciascuno di noi, di solito al termine dell’adolescenza, possiede un tale cumulo di conoscenze su
di sé, che – se prendesse in seria considerazione l’antica esortazione «Conosci te stesso» –, potrebbe analizzarsi e guardarsi dentro, fino a capire con chiarezza quale sia il suo ideale di una vita di successo. Dovrebbe essere compito dell’educazione mettere in grado ogni bambino di comprendere l’importanza di delineare il proprio futuro, mostrandogli anche il pericolo di farsi disorientare da falsi miti o dal concetto erroneo che gli elementi che concorrono al successo siano uguali per tutti. Nonostante possibili disorientamenti, eventuali false partenze o la presa in carico di ambizioni che appartengono, in realtà, a genitori e insegnanti, quasi tutti, in ogni caso, verso i vent’anni sanno per che cosa sono portati o che cosa potrebbero fare, se ne avessero l’opportunità o la preparazione. Tenete presente che, se non avete troppo sopravvalutato le vostre capacità, la vostra idea di realizzazione personale è di sicuro concretizzabile. Anzi, di solito, più che sopravvalutarci, non comprendiamo appieno la portata delle nostre potenzialità. Esamineremo più avanti il motivo di questa scarsa autostima; per ora mettiamoci in testa che ben pochi, a parte i malati mentali, si considerano destinati a imprese ben al di sopra delle loro abilità. Il punto successivo da sottolineare è che in questa sede non si parla di un successo marginale o metaforico. Non abbiamo alcuna intenzione di sostituire la vostra idea di realizzazione personale con un compromesso «nobile» o «idealistico». Non vogliamo nemmeno indurvi a ridimensionare le vostre ambizioni per dimostrarvi che potete accontentarvi di qualcosa di meno. Questi espedienti non fanno altro che posticipare il fallimento. Più, invece, delineate in modo chiaro e dettagliato l’obiettivo che un tempo speravate di raggiungere, maggiori saranno le probabilità di realizzarlo. Avendo, perciò, esaminato i motivi che ci inducono a rassegnarci all’insuccesso, avendo capito che, se li giustificassimo, sprecheremmo la nostra vita senza reagire, vediamo quali forze agiscono in questo momento in noi e ci impediscono di compiere gli sforzi necessari per realizzarci. A tal fine, dobbiamo affrontare un argomento che oggi è un po’ screditato: l’ipnosi. Per svariati motivi, alcuni validissimi ma altri piuttosto deboli, l’ipnosi è poco studiata di questi tempi. Se non avete mai avuto occasione di leggere un testo serio al riguardo, potreste pensare che alcune imprese attribuite a soggetti ipnotizzati non possano in alcun modo essere state compiute. È possibile, però, che abbiate letto qualcosa sull’autosuggestione, metodo di guarigione molto popolare qualche tempo fa, derivato dagli studi
ottocenteschi sull’ipnosi. Pochi lettori oggi conoscono, per esempio, gli esperimenti effettuati in India, a metà Ottocento, dal medico scozzese James Esdaile. Si tratta di interventi chirurgici eseguiti senza dolore (e con un recupero postoperatorio rapidissimo) su centinaia di pazienti. Persino Franz Anton Mesmer,6 che elaborò una teoria straordinaria sulla base di una notevole mole di esperimenti quasi sempre riusciti, oggi è considerato un mero ciarlatano. Senza dubbio, il discredito in cui oggi è caduta l’ipnosi è in parte da attribuire, da un lato, al fatto che i primi sperimentatori non poterono trattenersi dall’elaborare teorie tanto fantasiose quanto premature e, dall’altro, che agli occhi del pubblico l’ipnosi fu associata a individui come gli spiritisti e i medium, molti dei quali in seguito si rivelarono ciarlatani. Numerosi potenziali ricercatori si allontanarono da quel metodo, perché era accompagnato da ipotesi stravaganti e che non spiegavano nulla, come quelle sulla «forza odica»7 e sul «magnetismo animale». 8 Negli stessi anni, inoltre, erano in corso esperimenti sull’anestesia con l’uso di cloroformio ed etere. L’insensibilità al dolore ottenuta con l’ipnosi era incerta e presentava numerose difficoltà: non tutti erano ipnotizzabili, ma soprattutto non ogni medico era in grado di ipnotizzare i pazienti. Fu inevitabile che l’anestesia, dagli esiti più certi, tramite l’uso del cloroformio e dell’etere divenisse la prassi più accettata. Lo studio dell’ipnosi, che per molti attenti ricercatori di metà e fine Ottocento era il primo passo verso la liberazione dell’umanità dal dolore fisico e da molti disturbi psichici, oltre che una terapia contro svariate dipendenze, andò in declino. L’avvento della psicanalisi, infine, segnò la sconfitta, almeno temporanea, dell’ipnosi. Sottolineo che il metodo che sono in procinto di illustrarvi non ha nulla a che fare con l’autoipnosi, anche se analizzando quel procedimento caduto in disgrazia è possibile capire alcuni dei motivi che vanificano i nostri sforzi per realizzarci. Riflettete per un momento sui risultati raggiunti da un bravo ipnotizzatore con un soggetto recettivo: sembrano tanto inspiegabili, che ci rifiutiamo di apprendere tutto ciò che potrebbero rivelarci. Soggetti che abitualmente soffrono di vertigini anche da quote minime, se ipnotizzati sono in grado di percorrere un’asse strettissima, collocata a notevole altezza. Altri, di aspetto fragile e gracile, riescono a sollevare oggetti pesantissimi. Certi balbuzienti possono eseguire, su comando, una fervida orazione, senza mostrare la minima traccia del difetto di pronuncia che li affligge nel quotidiano. Forse uno dei casi più eclatanti è quello citato da F.W.H. Myers,
nel capitolo dedicato all’ipnosi dell’opera intitolata La personalità umana e la sua sopravvivenza. 9 Il soggetto in questione era una giovane attrice in preda ad ansia da palcoscenico, perché chiamata all’ultimo minuto a sostituire la star della sua compagnia teatrale. La giovane, sottoposta a ipnosi leggera, recitò brillantemente e suscitò grandi ovazioni, ma ci volle molto tempo prima che riuscisse a recitare senza l’aiuto dell’ipnotizzatore che stazionava in permanenza nel suo camerino. In seguito, si iniziò a osservare, in quello stesso soggetto, il fenomeno della «suggestione postipnotica»,10 che pose le fondamenta della scuola di ipnosi di Nancy, il cui esponente più famoso fu il farmacista e psicoterapeuta francese, vissuto fra Ottocento e Novecento, Émile Coué. Nello stesso capitolo in cui descrive il caso incredibile dell’attrice, Myers formula un’ipotesi che potrebbe avere un valore immenso per chi spera di liberarsi dalle catene della volontà di fallire. L’autore osserva che la normale timidezza e titubanza, che ognuno di noi prova quando affronta qualcosa di nuovo, nei soggetti ipnotizzati è del tutto assente, per cui questi agiscono con precisione e fiducia in sé stessi. «La rimozione della ritrosia operata dall’ipnosi sarebbe, in realtà, una cancellazione del ricordo degli insuccessi precedenti, cancellazione che permette al soggetto di sfruttare appieno le attitudini di cui ha bisogno in quel momento», scrive l’autore. La soluzione è racchiusa in questa affermazione, che ha implicazioni notevoli per chiunque voglia reindirizzare la propria esistenza sulla strada della realizzazione personale. È un luogo comune dire che «si impara dai propri errori». In realtà, si impara dalla scoperta che un tipo di comportamento non produce il risultato sperato; allora, proviamo ancora, anche molte volte, finché troviamo il modo di raggiungere l’obiettivo: adottiamo, quindi, l’ultima fra tutte le procedure sperimentate. Ecco che cosa intendiamo quando diciamo che «si impara dai propri errori». Quest’idea, più o meno corretta, non sottolinea in modo adeguato un elemento del processo su cui non ci si sofferma quasi mai, ma che l’inconscio ha ben presente: la sofferenza. Siamo convinti, o almeno così affermiamo, che il raggiungimento dell’obiettivo sia l’unica eredità della serie di tentativi messi in atto e che sia in grado di cancellare dalla nostra mente tutti gli insuccessi in precedenza sperimentati. Non consideriamo l’importante ruolo che i tentativi
non riusciti e sfociati in un fallimento giocheranno nel nostro comportamento futuro. Alla fine ce l’abbiamo fatta – è vero – ma, nel frattempo, abbiamo sperimentato il fallimento, che è stato, in alcuni casi, anche fonte di sofferenza o di pesanti umiliazioni. Nella nostra memoria conserviamo solo l’elemento del successo finale, ma l’inconscio non riesce a dimenticare i fallimenti e il dolore attraverso cui siamo passati. L’inconscio teme la sofferenza, le umiliazioni e la fatica: l’obiettivo di evitare il dolore è per esso più importante della spinta a procurarci piacere. Questo è uno dei motivi che spiegano perché a volte soccombiamo all’inattività e all’inerzia, quando invece sarebbe più vantaggioso agire: piuttosto che rischiare di soffrire, preferiamo non fare nulla . Pur di non rivivere il ricordo degli insuccessi precedenti, e pur di non rischiare di provare altro dolore, decidiamo inconsciamente di non agire, o di fare qualcosa di più facile di ciò che sarebbe nelle nostre possibilità, oppure ci stabiliamo un programma, lo seguiamo fino al punto in cui avevamo sperimentato la sofferenza e poi troviamo un pretesto per battere in ritirata, lasciando il lavoro a metà, senza mietere alcuna soddisfazione. L’inconscio infantile ha la meglio: perlomeno, non ci siamo di nuovo fatti male in un punto già dolorante. È del tutto illogico: pur di evitare un banale disagio, accumuliamo una lunga serie di insuccessi che in futuro ci ostacoleranno, sprechiamo un’occasione dopo l’altra e opportunità che magari non si ripresenteranno mai e ci esponiamo a sofferenze ben maggiori di quelle che riusciamo a scansare. Ma, almeno, il ricordo di quella prima umiliazione può essere sopito, oppure, quantomeno, reso confuso. Se ciò fosse vero – e solo tramite l’autoanalisi possiamo scoprirlo – sarebbe comodissimo avere un ipnotizzatore a portata di mano tutte le volte che dobbiamo metterci al lavoro! Chiaramente è impossibile, ma anche indesiderabile. Per fortuna, non è per nulla necessario sottoporsi all’influsso della volontà altrui per perseguire i propri obiettivi. La soluzione è molto più semplice. Si può sfuggire ai malefici influssi dell’inerzia e della frustrazione considerando questa formula: gisci come se fallire fosse impossibile.
Questo è un talismano, un ordine perentorio che ci indirizza verso la realizzazione personale.
Fate piazza pulita, nella vostra mente, di tutte le incertezze e diffidenze, della paura di apparire ridicoli, tutte sensazioni che finora hanno intralciato, senza che nemmeno lo sospettaste, la vostra realizzazione personale. Vi accorgerete che, entrando nello stato mentale che avreste naturalmente se camminaste in direzione di un successo prefissato e inevitabile, il primo risultato sarà uno straordinario slancio vitale, un’energia eccezionale. E poi vi sembrerà che la vostra mente si lasci andare, in un certo senso, a un sospiro di sollievo, di gratitudine per quella liberazione e che si apra al massimo delle possibilità. In quel momento, è quasi giustificato – e perdonabile – pensare che in tutto ciò ci possa essere un che di magico. Si verificherà, infatti, un ampliamento delle vostre capacità, in apparenza sovrannaturale. A quel punto, il flusso a lungo arginato scorrerà, diritto e inarrestabile, imboccando con naturalezza la giusta direzione, diventando sempre più impetuoso. Può darsi che in un primo momento abbiate il timore che l’incantesimo a un certo punto cessi di avere effetto. Sappiate che non accadrà, perché non è un incantesimo, ma un’autosollecitazione, un ricordare a voi stessi come si lavora con efficienza. Se lo terrete presente, non solo non smetterete di ottenere i risultati sperati, ma ogni ora di attività ben diretta sarà la premessa di molte altre. È anche possibile che, all’inizio o finché non avrete imparato a organizzare la vostra nuova vita, vi sentiate sopraffatti dalla valanga di opportunità che di colpo vi si presenteranno. Le paure, le ansie e le inquietudini di un tempo purtroppo non erano semplici emozioni negative: attribuendo loro un’importanza superiore al dovuto, le avevate trasformate in realtà concrete. Erano diventate escrescenze parassitiche che vi succhiavano energia vitale, vi prosciugavano e alimentavano i fantasmi della vostra mente e non i suoi straordinari elementi creativi. Perciò non si tratta di ricevere all’improvviso nuovi poteri straordinari, ma di smettere di essere in balia delle paure e quindi di riuscire a sfruttare le doti che già possedete, cui però non riuscivate ad attingere per mancanza di energie. Scoprirete di possedere capacità che non sospettavate di avere e vi sembrerà di averle appena acquisite, anche se invece erano già presenti in voi. E la rapidità con cui tali abilità si manifesteranno, nel momento in cui le condizioni saranno favorevoli, sarà stupefacente e fonte di ulteriori soddisfazioni. Poi si verificherà una nuova esperienza, in netto contrasto con quanto accadeva prima: vi sembrerà di essere diventati instancabili. I risultati concreti ottenuti lavorando con questo metodo metteranno a dura prova lo scetticismo
di chi non ha ancora vissuto tale esperienza. Questi periodi di lavoro intenso non saranno, inoltre, seguiti da momenti di depressione. Avrete sempre così tanti progetti da realizzare, e tutti così chiari e precisi, che non correrete il pericolo e non avrete il tempo di lasciarvi andare allo sconforto. Quando la mente è rivolta al passato, alle antiche tribolazioni e a tutti i possibili ostacoli che potrebbero presentarsi, è ovvio che non può incamminarsi in direzione di obiettivi futuri. Una volta sgravatasi da quel fardello inutile e ingrato, allora potrà prendere il volo, senza più inciampare e brancolare nel buio. Dovrete, tuttavia, imparare da soli a capire come passare da un obiettivo realizzato a quello successivo, a non perdere tempo e a non sprecare energie – per quanto sia gratificante –, esultando per la facilità con cui avete portato a termine un compito o ammirando troppo il notevole lavoro che avete appena svolto. In ogni caso, un periodo di allegria è giustificato, ma, poiché sarete impazienti di dedicarvi ad altre occupazioni, senza sentirvi per nulla affaticati e con tutte le vostre forze intatte, non c’è alcun rischio che il primo successo conseguito con il nuovo metodo sia anche l’ultimo. Se nutrite qualche dubbio su questo procedimento, se avete paura che finireste per autoingannarvi e deludervi, vi assicuro che vi sbagliate. Nella vita quotidiana, badiamo tutti ai fatti concreti e ci basiamo sull’esperienza: ciò che per noi «funziona» è anche vero e diventa il fondamento di tutte le nostre attività. Per dirla con le parole di William James:11 «I nostri pensieri diventano veri quando svolgono con efficacia la funzione di interpretare il mondo intorno a noi». Questo concetto, espresso in maniera ancora più completa e convincente, è alla base della teoria del «come se».12 Forse non tutti condividono fino in fondo questa filosofia, ma è evidente che, in molti ambiti della vita, è vantaggioso comportarsi «come se» un determinato fatto sia una realtà palese. Tanto per cominciare, se insistessimo a voler dimostrare l’efficacia, reale o presunta, della maggior parte delle concezioni sulle quali basiamo il nostro agire pratico, non ci avanzerebbe più il tempo per fare nulla. Quindi, in generale, diamo per buoni i presupposti che ci sono presentati da fonti sicure e ci basiamo su questi, a meno che la nostra esperienza non ci induca a dubitare della loro utilità. In tal caso, possiamo provare a riesaminarli e può capitare che ne traiamo conclusioni diverse da quelle che ci erano state proposte, ma, nella maggior parte dei casi, noi agiamo come se le nostre regole di condotta e i nostri principi fossero validi, sempre e ovunque, a patto che si dimostrino efficaci per noi. Nella vita di tutti i giorni, quindi, se siete inconcludenti nei vostri rapporti con
il prossimo e improduttivi sul lavoro, in pratica agite come se desideraste fallire. Capovolgete quell’atteggiamento, decidete consapevolmente che il vostro «come se» dev’essere sano, vitale e mirato alla vostra realizzazione personale, e il vostro successo sarà reale e concreto. «La legge della natura è: agisci e avrai il potere; chi non agisce non ha il potere.»13
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L’APPLICAZIONE DEL METODO Se possedete un’immaginazione molto vivace, con ogni probabilità siete già sulla buona strada dell’applicazione del metodo, pur conoscendo, per ora, solo l’indizio racchiuso nell’affermazione: «Agisci come se fallire fosse impossibile». Se invece non avete un’immaginazione particolarmente fervida, o se avete già sofferto molto per i vostri insuccessi, può darsi che facciate una certa fatica a iniziare ad agire nel concreto, ma non è detto. Perché possiate riuscirci con più facilità, vi do questo consiglio: invece di iniziare dal punto in cui siete – o, per essere più precisi, invece di provare a cominciare, o di giurare che comincerete o di ingannare voi stessi, dicendovi che inizierete domani o il giorno successivo –, afflitti dai soliti dubbi sul vostro rendimento e dal ricordo delle sofferenze passate, prima di tutto lavorate sulla vostra forma mentale, cioè sull’atteggiamento con cui intendete mettervi all’opera. Se avete un appuntamento importante, di solito non vi precipitate fuori in disordine, senza esservi lavati, oppure vestiti come capita, ma dedicate del tempo alla cura della vostra persona. Che siate un uomo o una donna, vi pettinate, vi lavate e mettete in ordine i vostri vestiti, cercate di valorizzare i vostri punti di forza e di nascondere o di migliorare le vostre imperfezioni. Poi, durante l’incontro, cercherete di comportarvi, per quanto possibile, come se quell’aspetto ricercato fosse il vostro stato abituale. Ora immaginate di dovervi «mentalmente» recare a un appuntamento con il vostro «io realizzato». Quale disposizione mentale dovreste avere, per far sì che l’appuntamento sia proficuo? Innanzitutto, datevi un esempio. Tutti abbiamo conseguito almeno un successo nella vita, anche se magari in un ambito ristrettissimo. Frugate nella vostra memoria, ritornate anche alla vostra infanzia o ai tempi della scuola. Non c’è assolutamente bisogno che sia la realizzazione della vita adulta cui ambite. Ciò che dovete ritrovare è lo stato mentale in cui eravate quando avete ottenuto quel particolare successo. Ma fate attenzione a non andare oltre il bersaglio, a non balzare subito all’euforia che avevate provato in seguito.
Limitatevi a rivivere la sensazione di sicurezza e di fiducia che vi aveva pervasi quando, giunti a conoscenza dell’obiettivo stabilito, vi siete resi conto che non solo eravate in grado di raggiungerlo, ma che era proprio alla vostra portata. Sforzatevi di ricordare, nel modo più chiaro possibile, tutte le circostanze di quel momento, poi applicate mentalmente quella felice sequenza di azioni, che allora vi ha portato al successo, al lavoro che dovete affrontare. Se foste certi che ogni elemento dell’attuale lavoro sarebbe di semplice esecuzione, così come lo è stato ogni elemento del compito che avete portato a termine con successo in passato, se sapeste in anticipo che ciò cui state per dare inizio si concluderà sicuramente bene, come vi sentireste dal momento in cui cominciate a lavorare, fino al momento in cui consegnerete la vostra opera? Come vi comportereste? In quale stato d’animo sareste nell’istante in cui vi metterete al lavoro? Fissate la vostra attenzione su ciò che avete evocato, perché d’ora in poi quello sarà il vostro atteggiamento mentale nell’ambito del lavoro. Rifiutatevi di passare all’azione prima di averlo identificato, ma insistete, invece, per raggiungerlo il più velocemente possibile. Quando l’avrete fatto vostro, tenetevelo ben stretto, come se foste in attesa di un segnale di via. Di colpo, vi sentirete carichi di energia: sarà il segnale e potrete partire. Vi accorgerete che non dovrete più spronarvi a lavorare, perché sarà la vostra stessa energia a mandare avanti, da sola, il lavoro. Era l’inutile fatica di dover mettere da parte la vostra stessa inerzia a farvi credere, prima, che ci fossero troppi ostacoli per cominciare, che brancolavate nel buio o che dovevate interrompervi di continuo per spazzare via dubbi o paure non ben identificati, o ricordi di insuccessi passati, che vi ronzavano intorno come uno sciame di moscerini. Sgombrate la mente da tutto ciò prima di iniziare a lavorare, semplicemente rifiutandovi di prendere in considerazione l’eventualità di un fallimento. Dopodiché lavorate finché non sentite in voi l’inconfondibile approssimarsi di una fatica autentica e concreta. Un eventuale affievolimento dell’attenzione sarà solo un tentativo, da parte del vostro precedente stato mentale, di insinuarsi di nuovo in voi quando vi distrarrete un attimo. Se ciò accade, fermatevi per un istante e pensate: «No! Questo è il modo in cui NON devo pensare!», allontanate quell’impulso e riprendete a lavorare. Quando il vostro corpo e la vostra mente protesteranno, con sincerità, perché hanno fatto tutto quel potevano fino a quel momento, allora concedetevi una pausa e rilassatevi. Se siete vincolati da orari d’ufficio, allontanatevi o isolatevi per
qualche minuto, soprattutto se avete paura di ricadere nello stato mentale di un tempo o se vi accorgete che dovrete perdere un po’ di tempo per modificare l’atteggiamento di un collega prima di poter applicare serenamente il nuovo metodo. Ritornate in mezzo agli altri solo dopo aver ritrovato la fiducia in voi stessi. Quando sarà il momento giusto per rilassarvi, vi renderete conto che lo farete con una soddisfazione ben meritata. Se una persona ha molto sofferto per i propri insuccessi, pur prestando grande attenzione a non eccedere con l’autocommiserazione, per lei potrebbe essere necessario iniziare esercitandosi ad applicare ogni giorno questo metodo solo per un breve periodo e per raggiungere un obiettivo di importanza secondaria. Numerosi pedagoghi sono concordi nell’affermare che il modo migliore per insegnare a un bambino ad agire con sicurezza e in maniera efficiente e per favorire il processo di apprendimento sia chiedergli di eseguire un piccolo compito che sia alla portata delle sue abilità non ancora affinate. Come afferma Dorothy Canfield Fisher 14 in un suo straordinario manualetto per genitori e insegnanti, «Il successo o il fallimento nella vita adulta dipende molto dall’energia, dal coraggio e dall’autostima con cui si affronta il problema della realizzazione dei propri sogni. La fiducia in se stessi con cui ci si accosta a qualsiasi iniziativa deriva, di norma, dal ricordo dei successi del passato». Secondo Hocking,15 inoltre: «Educare significa fornire alla mente che procede a tentoni un metodo di lavoro e alcuni esempi di successo. Ci sono pochi miracoli più belli del condurre un bambino dall’avvilimento al raggiungimento di un obiettivo anche piccolo. Sono poche, inoltre, le difficoltà la cui natura non può essere rappresentata in una forma tanto semplice, che la soluzione non risulti, al tempo stesso, facile e rivelatrice. Aumentando le difficoltà per gradi successivi, il bambino, sulla spinta dell’entusiasmo generato dai ripetuti successi e dal raggiungimento di traguardi sempre più difficili, può ritrovarsi ben oltre l’ostacolo che inizialmente lo intralciava». Nel nostro caso, qualora avessimo perso la fiducia in noi stessi, dovremmo identificare un piccolo desiderio che, per qualche motivo, non siamo riusciti a realizzare. La vita è piena di questo tipo di circostanze! Nel corso di questi esperimenti per conquistare il successo, è sufficiente raggiungere un obiettivo che era rimasto nel mondo dei sogni, oppure modificare il metodo che avevamo impiegato per cercare di perseguirlo, che non era, quindi, quello giusto.
La trama di Bunker Bun ker Bean 16 è illuminante ai fini del nostro discorso. Il protagonista r otagonista del film, f ilm, un timido timido impiegato, impiegato, si lascia convincere conv incere da d a un medium di essere l’incarnazione di un faraone, e quindi un vero leader. A quel punto, la sua vita cambia completamente e la sua rapidissima ascesa nel mondo del lavoro è costellata di successi. Quando, alla fine, si rende conto di essere stato imbrogliato, di non essere la reincarnazione di un faraone egizio, ormai si è talmente impadronito del metodo per avere successo che non potrebbe più tornare indietro. Di seguito, elenco alcuni esempi di come possono essere sviluppate abilità secondarie, al fine di acquisire sicurezza e fiducia in sé stessi nelle cose che contano. Un affermato psichiatra newyorkese ha imparato di recente a plasmare la creta e poi a dipingere e cuocere la terracotta. Si è dedicato a quell’attività con il preciso r eciso intento di riuscire in un passatempo, dato che la sua professio pr ofessione ne lo mette continuamente in contatto con «materiale refrattario». Ha pertanto trasferito la sicurezza acquisita nel nuovo campo al suo difficile lavoro quotidiano e, in aggiunta, si è creato un passatempo avvincente, che gli alleggerisce la mente e suscita ammirazione nei suoi confronti, perché le sue opere in creta si rivelano sempre gradite e spesso di notevole pregio. Potreste pensare ensar e che avesse un unaa do dote te nascosta. In effetti, qu quello ello psichiatra era consapevole di essere sempre stato attirato dall’idea di lavorare la creta, pur non avendo mai nemmeno toccato quel materiale prima della trentina. Così ha semplicemente individuato un desiderio che quasi tutti provano a un certo punto u nto della vita e l’ha trasformato trasfo rmato in un unoo svago e in un unaa fon f onte te di fiducia fidu cia in sé stesso. Prendiamo un altro esempio. All’Art Institute di Chicago esiste una sala dedicata a un famoso uomo d’affari, che imparò a dipingere dopo i cinquant’anni d’età. Le sue opere, presentate a un concorso con un nome che non poteva essere riconosciuto, vinsero il primo premio. Oggi, a Chicago, esiste un circolo di professionisti e imprenditori di mezza età che studiano arte e producono lavori di buon livello. Poi c’è la storia dell’impiegata trentenne di un ufficio commerciale che aveva sempre desiderato imparare a suonare il pianoforte. Un giorno, tornando a casa a piedi, appeso alla porta di un’abitazione, ha visto un cartello che pubb u bblici licizzzava lezioni lezioni di piano e, per fortun fo rtuna, a, no nonn ha resistito resistito all’impulso all’impulso di suonare il campanello. Naturalmente, il suo successo è solo relativo, sia
perché erch é non n on ha la possibilit po ssibilitàà di d i dedicarsi d edicarsi a tempo pieno alla musica, sia perché p erché non ha iniziato sufficientemente presto nella vita per acquisire le abilità di un vero pianista. Quell’impiegata è riuscita, però, a concretizzare il suo sogno e, grazie a quell’atto di coraggio, la sua vita ne è uscita trasformata. Al piacere che trae dalla comprensione della musica che solo un esecutore può avere, aggiunge la soddisfazione e la consapevolezza di aver agito in maniera adulta e questo, a sua volta, le dà maggior sicurezza in tutte le relazioni. La donna, un tempo oberata di lavoro e depressa dalla convivenza con i genitori, si è trovata un appartamentino indipendente, ha stabilito rapporti più sereni con i propri famigliari e si è creata un giro di amici che hanno i suoi stessi interessi. Questi tre casi dovrebbero fornirvi almeno un’idea del metodo corretto per trasformare finalmente i sogni in realtà. Ipotizziamo, per esempio, che abbiate il desiderio di viaggiare, ma non abbiate mai potuto farlo. Per realizzare quell’ambizione, dovreste fare un certo numero di cose. Se non le faceste, dimostrereste a voi stessi che permettete al vostro inconscio infantile di decidere come volete vivere, invece di affidarvi alla vostra mente razionale. Se voleste visitare un Paese straniero, per esempio, dovreste almeno imparare qualche parola o frase della lingua locale, per apprezzare al meglio il viaggio ed essere in grado di leggere un quotidiano locale, o conoscere la storia di quel Paese. Potreste cominciare acquistando una buona guida, un frasario, un vocabolarietto e una grammatica sintetica. Di che altro potreste aver bisogno? Di tempo e denaro. Provate a capovolgere la nota frase fatta e dite a voi stessi che «il denaro è tempo», cosa sicuramente vera: se avete abbastanza denaro per po poter ter viaggiare, viaggiare, ne avete anche il tempo. Allora Allora cominciate a mettere mettere da parte un unaa piccola p iccola somma som ma ogni o gni giorno gior no,, ma non n on fermatevi lì. Riflettete Riflettete su qu quale ale lavoro potreste svolgere nel vostro tempo libero per guadagnare denaro in più per il vo vostro stro viaggio. viaggio. Se il massimo che riuscite a fare è la bab baby-sitt y-sitter er serale, però decidete di dedicare il guadagno un unicamente icamente al viaggio viaggio che avete in mente, allora siete sicuramente in cammino verso v erso la realizz realizzazione azione del progetto. pr ogetto. Un giovane giovane redattore, redattore, insoddisfatt inso ddisfattoo del proprio pro prio lavoro e che voleva v oleva viaggiare viaggiare,, si è presentato negli uffici di un quotidiano italiano stampato a New York, dove ha chiesto aiuto per tradurre un’inserzione in cui offriva lezioni di inglese o di giornalismo in cambio di lezioni di italiano. Due anni dopo si è trasferito in Italia come istitutore di un ragazzo e oggi lavora come segretario presso r esso il servizio servizio diplomatic diplo matico, o, ob obiett iettivo ivo cui aveva aspirato per anni, ma che considerava irraggiungibile per scarsità di risorse finanziarie. Badate, però, a non trasformare i vostri primi progressi in un modo più
complicato per continuare a sognare a occhi aperti. Fate ogni giorno qualcosa per avanzare verso vers o il vostro vo stro ob obiett iettivo, ivo, per qu quanto anto ambizioso. ambizioso. Se vi v i piacerebbe piacerebb e fare lo scultore, domani entrate in un colorificio e comprate un po’ di plastilina; lastilina; se vo vorreste rreste viaggiare, viaggiare, cercate di scrivere articoli di viaggio; viaggio; se prop r oprio rio no nonn avete av ete soldi da d a spendere, spen dere, recatevi alla biblioteca rionale e prend p rendete ete in prestito i testi che vi servono per incamminarvi verso l’obiettivo. All’inizio, non fate parola con nessuno, o quasi, su quanto intendete fare, ma cercate prima di ottenere un risultato. Se parlaste troppo presto, potreste avere la sensazione che sia in atto un complotto per farvi desistere dal vostro prop r oposito osito e, in parte, avreste ragione. Chi è ancora ancor a schiavo dei sogni e della volontà di fallire prova invidia nei confronti di chi spezza quelle catene, perché erch é pensa che un modo mod o di agire inconsueto incon sueto implichi un unaa critica critica nei suoi suo i confronti. L’inconscio sa che la sua supremazia può essere contrastata da un momento all’altro e che può essere privato delle sue fantasticherie. E, quindi, si oppone. Una delle forme che questa battaglia assume più di frequente è quella delle massime, che sembrano sagge, ma il più delle volte sono solo consolatorie e pronunciate da chi rifiuta la realtà. «Più le cose cambiano e più restano le stesse», vi diranno saccentemente, ma travisando il vero significato della frase. «L’erba del vicino è sempre più verde», sentenzierà chi non ha voglia di guardare al di là del proprio naso. E così quelle persone continueranno a minare subdolamente il vostro entusiasmo e a rafforzare l’immagine che hanno di sé stessi. E, se i proverbi non avranno effetto, ricorreranno alle alle provo pr ovocaz cazioni. ioni. Voi, invece, se vi state finalmente liberando dall’inerzia, parteciperete a un altro tipo di complotto, questa volta con la realtà, un accordo per vedere quanto riuscirete a trarre dalla vita, se agite con un po’ più di coraggio e di chiarezza di quanto avete fatto finora. All’inizio, non offrite a nessuno l’opportunità di scoraggiarvi, di dissuadervi o di deridervi per la vostra decisione. Vedrete che, in breve tempo, i fatti parleranno da soli e vi giustificheranno ampiamente. La prima domanda che dovreste sempre porre a voi stessi è la seguente: «Come mi comporterei se per me fosse veramente impossibile non raggiungere l’obiettivo che mi sono dato?» Il vostro sogno può essere di qualunque tipo: viaggiare, scrivere, scolpire, fare giardinaggio o, ancora, ballare, cucire, studiare aritmetica aritmetica o un unaa lingua antica, perdere perd ere peso o imparare a suonare uno strumento. Qualunque sia l’obiettivo, potete scoprire con facilità, pensandoci un po’, quale dovrebbe essere il vostro primo passo
nella realtà e non nei sogni. Una volta preso atto della realtà, fate quel primo passo. Poi chiedetevi quale dovrebbe essere il secondo passo, e così via, finché non noterete che la vostra ambizione sta prendendo forma, cominciando a maturare autonomamente e iniziando a trascinarvi, invece di dover essere inseguita. Ecco che cosa succede: a un certo punto vi accorgerete di aver preso il volo, con velocità e leggerezza, sullo slancio della vostra spinta iniziale. «La vita è infinitamente flessibile» diceva un vecchio psicanalista ai propri pazienti e, anche se questo può sembrare un tantino eccessivo, è pur vero che la vita è molto più malleabile e plasmabile di quel che sembra, finché non siamo pronti a passare all’azione. Ma c’è anche un altro modo per iniziare ad agire in modo efficace. Di rado ci rendiamo conto della frustrazione di cui tutti i giorni siamo vittime solo perché ci aspettiamo di essere respinti o ignorati. Provate a rievocare un dialogo avuto oggi in ufficio, in un negozio o con il personale di servizio e sforzatevi di ricordare in che modo avete formulato una certa richiesta. Pur tenendo conto della normale cortesia, del rispetto dovuto ad anziani e superiori, nella vostra richiesta non c’era forse anche una nota d’incertezza? Non avete chiesto collaborazione con un tono che lasciava spazio a un rifiuto, o anche solo a una certa riluttanza? E ora chiedetevi quale sia il modo ideale per presentare quella richiesta o per impartire quell’ordine. Potete formularlo in maniera altrettanto cortese, ma in modo che l’interlocutore non possa rifiutarsi di eseguirlo senza mostrarsi di proposito scontroso e ostile. Questo è il tono del successo. Una volta identificatolo, non ne beneficerete soltanto voi, ma anche chi collabora con voi. Non sprecate il tempo e l’energia del prossimo e non mettete a dura prova la vostra pazienza, lasciando intendere, anche in modo indiretto, che possono esserci più linee d’azione, quando ce n’è una sola in grado di produrre il risultato auspicato. Il compito da svolgere richiede la metà del tempo se l’attenzione è totale e poi, in breve, sarete liberi di dedicarvi all’esigenza successiva. Vi è mai capitato di avere come collega una persona che si considera sprecata per la posizione che occupa? «Oh, signor Rossi», potrebbe dirvi, in tono cerimonioso, «se le avanzasse un minuto di tempo, le spiacerebbe dare un’occhiata alle pratiche che trova sulla sua scrivania, appena può? Mi secca dover incomodare una persona impegnata come lei, ma il capufficio ne ha bisogno.» Per quanto riprovevole, è più che umano e giustificato desiderare di non avere un solo momento libero da prestare all’altro, guardarsi intorno per cercare qualcos’altro da fare ed essere quindi nell’impossibilità di soddisfare
quella richiesta. Ma è probabile che quelle pratiche fossero in ogni caso nel vostro programma e se cedeste alla tentazione di metterle da parte per impartire una lezione alla sussiegosa collega, non solo rallentereste il lavoro di tutti, ma vi mettereste anche in cattiva luce con i vostri superiori. Non è forse vero, quindi, che il tono fastidioso con cui quella semplice richiesta vi è stata avanzata vi ha fatto sprecare tempo ed energie? Eppure scommetto che, per ripicca, rispondereste: «Signora Bianchi, le spiacerebbe portarmi il fascicolo XYZ, se non è troppo occupata?», pur sapendo che fa parte dei compiti della signora Bianchi portarvi i fascicoli di cui avete bisogno, che sia occupata o no. Perciò lei sarebbe costretta a dire: «Certamente», fingendo di essere libera di rifiutarsi, volendo. Sarebbe altrettanto semplice dire: «Signora Bianchi, mi occorre il fascicolo XYZ, per favore» e a quel punto riportereste subito la collega al suo compito, evitando di trattarla con un atteggiamento di eccessiva superiorità e senza aver bisogno di dare una risposta noncurante. Se il tono della semplice frase fosse attento e rispettoso, non solo evitereste di ferire l’orgoglio della collega, ma vi rivolgereste a lei come a una collaboratrice solerte e non le dareste motivo di sentirsi una subalterna suscettibile che va trattata con i guanti. Potrebbero sembrarvi inezie, eppure è la somma delle piccole cose portate felicemente a termine che libera la vita dalla schiavitù della monotonia. Le donne, in particolare, cadono spesso nell’errore di usare il tono sbagliato con i propri subalterni e con i colleghi, e spesso le discriminazioni di cui sono vittime sul luogo di lavoro nascono dal fatto che, inconsciamente, aggiungono una sfumatura del tutto fuori luogo alle loro faccende quotidiane. Le signore che ogni sera si lagnano dell’incompetenza o dell’insolenza delle donne di servizio o dei figli, le segretarie che di continuo deplorano la disparità di trattamento di cui sono oggetto sono, il più delle volte, le vere colpevoli. Rivolgendosi al prossimo con l’atteggiamento, il tono e le parole sbagliate, provocano attriti che non avrebbero motivo di esistere. Esaminando mentalmente la vostra giornata prima ancora di cominciarla, pensando a tutte le persone con cui probabilmente entrerete in contatto e a come vi conviene trattarle, ascoltando la vostra voce interiore e correggendola, fino a ottenere un tono che esprime un atteggiamento al contempo cortese e risoluto, potrete iniziare, fin da subito, ad agire in positivo. Vi accorgerete che la vostra giornata lavorativa risulterà meno faticosa e che, con le energie che avrete risparmiato, potrete finalmente puntare alla realizzazione di un piccolo desiderio che da tempo sognate in
segreto. A quel punto, basterà uno sforzo minimo per trovare il coraggio di intraprendere le imprese più ambiziose che avete sempre desiderato e sperato di compiere.
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AVVERTENZE E MODALITÀ D’USO Prima di proseguire, ritengo opportuno elencare ciò che è estraneo a questo metodo. Innanzitutto, il successo non si ottiene con l’ipnosi. Questo è un punto importante da comprendere, perché sono numerose le persone che, per i loro motivi, temono e rifiutano tutto ciò che si basa sull’ipnosi, anche nella forma dell’autosuggestione. I lavori della già citata scuola di Nancy, resi noti da Émile Coué, sono ricchi di spunti per imparare a dirigere le nostre attività verso il raggiungimento di alcuni obiettivi.17 Non è un caso, però, se la moda dell’ipnosi, un tempo molto diffusa, oggi è quasi scomparsa. Nonostante tutti gli avvertimenti, sono troppe le persone che, cercando di curarsi da sole, hanno finito per aggravare i problemi che intendevano risolvere. Perciò, anche se una frase tratta da un capitolo di un testo sull’ipnosi ha contribuito alla scoperta della nostra formula, il legame del nostro metodo con l’ipnosi finisce qui. Suggeriamo di far ricorso, in un primo momento, alla propria volontà, quel tanto che basta per decidere di sperimentare un sistema nuovo. Poi, come accade per la scuola di Nancy, l’immaginazione prenderà il sopravvento, liberando la mente dalla negatività, dalla confusione, dalle incertezze e dalle paure. La differenza consiste in questo: con l’autosuggestione si rischia di perdere il contatto con la realtà e di procedere come quando si sognava a occhi aperti o si era depressi, ma nella direzione opposta. C’è il pericolo di «esaltarsi», di cadere in preda a un’euforia eccessiva che comporta una sorta di «intossicazione» mentale, tanto dannosa quanto temporaneamente piacevole. Non si può vivere sempre in stato di eccitazione e, se si potesse, si ridiventerebbe incapaci di agire in maniera efficace nel mondo concreto. Quando non si agisce sulla realtà, si è ben lontani dalla realizzazione personale e ci si autoinganna profondamente, come sempre. Occorre, invece, agire con sicurezza, con fermezza e liberamente e solo allora ha inizio una gioia che non porta alcun rischio. La mente, sgombra dai dubbi, inizia ad ampliarsi e a trarre piacere e soddisfazione dalla propria attività.
Scaturisce, allora, in noi un’euforia che non ha nulla a che vedere con l’illusione o con l’ipnosi e che non sarà seguita da reazioni opposte che la neutralizzeranno. Il secondo consiglio è di non fare affermazioni come «Non posso fallire», oppure «Raggiungo sempre tutti i miei obiettivi» e simili. Questo metodo, che per molti è utile, ha troppo in comune con l’autoipnosi per chi non capisce appieno il principio su cui si troverà a lavorare una volta adottatolo. Molti di noi si discostano poco dal prosaico buon senso comune quando cercano di impiegare il «metodo assertivo»; per ogni persona che utilizza con efficacia il metodo, inoltre, ce ne sono cento che si sentono ridicole quando ci provano. Altre ancora ottengono ottimi risultati per qualche tempo, ma poi si ritrovano in una situazione peggiore della precedente. Non intendo, tuttavia, disapprovare tale metodo, quando è utilizzato da persone per cui è, per così dire, «caratterialmente» adatto. Per chi invece è scettico, anche solo in parte, è probabile che questo sistema si riveli più frustrante che altro. Il terzo consiglio è di non aver fretta di far colpo sul prossimo, inorgogliendosi, fingendo o addirittura mentendo a proposito dei risultati raggiunti. L’unica persona su cui dovete far colpo, almeno all’inizio, siete voi stessi, e solo al fine di mettervi in condizione di lavorare con efficacia. Anche in questo caso, il suggerimento è il solito: agite come se fallire fosse impossibile. Evitate soprattutto di continuare a immaginare il successo, di fantasticare in maniera ancora più dettagliata e circostanziata di prima, ricadendo nell’antico vizio di sognare a occhi aperti. In questo caso, l’uso dell’immaginazione è abbastanza diverso e sarà in seguito oggetto di un esame più approfondito. Molto prima che Freud desse il suo contributo al pensiero moderno, Pico della Mirandola, in un trattato del 1501, intitolato De imaginatione, operò una distinzione fra due tipi di fantasia: uno è retrospettivo, rivolto all’indietro, e ostacola l’uomo nel suo lavoro, prolungando lo stato di irresponsabilità infantile; l’altro, l’immaginazione autentica, è quello che si riscontra nella persona realizzata. La definizione più precisa di «immaginazione» è quella contenuta in un aforisma di Joseph Joubert:18 «Il sogno a occhi aperti è una facoltà istintiva», egli scrive, «ben diversa dall’immaginazione, che invece è intellettuale. Il primo è passivo, la seconda è attiva e creativa».
È, perciò, all’immaginazione creativa che occorre fare appello; se lo teniamo bene a mente, non corriamo il rischio di ricadere, per l’ennesima volta, nell’antica abitudine di sognare un mondo diverso mentre la vita ci sfugge via. Ricordate che il successo dipende da un atteggiamento mentale e fisico ositivo , dalle energie impiegate nel lavoro e dal coraggio. È questa l’idea da tenere bene a mente: si capisce che una persona non sta sognando, bensì immaginando correttamente, se il suo lavoro cerebrale è seguito da azioni concrete. Qualsiasi attività mentale che riesamini il passato più a lungo del necessario, per rimediare a un errore o per sostituire un vizio con un’abitudine sana, è negativa e va ripudiata, se si ambisce a vivere un’esistenza piena. Stabilite voi stessi in anticipo l’orario di lavoro. In quei momenti – e come parte integrante del lavoro stesso – sgombrate la mente da qualsiasi altro pensiero. Quando vi sentirete fiduciosi, sereni e tranquilli, allora potrete agire. Vorrei, a questo punto, ricordarvi che viviamo in un’epoca di alibi. Siamo forse un po’ troppo informati sull’azione delle ghiandole sul comportamento umano, sui disagi provocati dalle resistenze psicologiche e via discorrendo. Questo implica che finora non c’erano mai state così tante giustificazioni per essere pigri, a ragion veduta. È verissimo che spesso si può rimediare a livelli di energia al di sotto della norma con adeguate cure ormonali, ma quante, fra le persone che dichiarano di essere affette da ipotiroidismo,19 si prendono la briga di sottoporsi a una semplicissima analisi del metabolismo basale, per verificare se sia proprio quello il loro problema? Possono, di certo, sempre affermare che le loro condizioni sono così gravi, che non hanno nemmeno la forza di iniziare a curarsi. Per queste persone non esistono soluzioni. Ma se siete realmente apatici, potete compiere il vostro primo passo verso un cambiamento in positivo, rivolgendovi a un buon medico. Ma solo se necessario, badate bene, perché è risaputo che un sospetto di insufficienza tiroidea è, molto di frequente, uno di quegli alibi cui ho accennato sopra. Qualsiasi endocrinologo può confermare che la tiroide degli individui apatici che aumentano la loro attività reagisce accrescendo gradatamente la produzione ormonale. In pratica, quel disturbo fisico spesso si può curare con l’azione! Potete stare tranquilli che non andrete incontro a un esaurimento nervoso se seguirete questo consiglio, a meno che non passiate deliberatamente (e con l’intento di farvi del male) da uno stato pressoché comatoso a un’attività sfrenata. Quanto alle resistenze psicologiche, sono quasi un dogma dell’attuale
religione secolare. Persone che non si sognerebbero mai di investire tempo, denaro ed energie per sottoporsi a psicanalisi sarebbero capaci di dichiarare, con compiacimento, che sono «resistenti» a questo o a quello e che ritengono di aver fatto tutto ciò che era in loro potere, se non di più, quando hanno ammesso di avere quel «problema». Si osservano, tuttavia, casi eclatanti di guarigione in chi segue con scrupolo il consiglio di sostituire il termine «resistenza» con il suo sinonimo, un po’ démodé, di «pigrizia». Non è né divertente né lusinghiero essere insensatamente pigri, ma non lo è nemmeno essere vittime di un termine tecnico, eppure sono numerosi coloro che si fanno influenzare in negativo da una «parolona» e che non avrebbero alcun problema se vivessero in una società più semplice e meno edonistica. Chi è autenticamente e profondamente affetto da una nevrosi dovrebbe rivolgersi subito a uno psicoterapeuta competente. Parlare in termini tecnici di questi disturbi dovrebbe essere considerato riprovevole, se chi parla non è disposto a curarsi. Se gli alibi di quest’epoca fossero in qualche modo utili, se non fossero solo pretesti per restare inoperosi e se l’inattività fosse, in effetti, più soddisfacente del suo contrario, allora non ci sarebbe nulla di male ad abbandonarsi all’attuale tendenza, anche senza possedere le conoscenze mediche o psicologiche necessarie per usarne in modo corretto la terminologia. Ma prima di decidere che siete vittime di ghiandole reticenti o di una resistenza perversa, provate a mettere in pratica alcuni fra i consigli di autodisciplina che troverete in seguito. Potreste trovarli molto divertenti e accorgervi che ampliare le vostre capacità è molto più soddisfacente che essere pigri e scoprirete di non aver bisogno, tutto sommato, dell’aiuto di uno specialista.
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COME RISPARMIARE FIATO Nelle pagine precedenti abbiamo dato il consiglio di non parlare con gli altri dei vostri obiettivi prima di aver fatto i primi passi. Potreste, così, avere l’impressione che uno dei presupposti per raggiungere il successo sia rinchiudersi in un silenzio scostante. Nulla è più lontano dalla verità. Dialogare, parlare in modo persuasivo, stabilire e mantenere rapporti amichevoli con il prossimo è di fondamentale importanza per chi desidera realizzarsi. Ciò nonostante, è facile cadere nell’errore di parlare troppo, o in momenti sbagliati, o insensatamente. Una quantità di proverbi testimonia che, da sempre, la saggezza popolare considera pericoloso l’eccesso di chiacchiere. «La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro», «Tante parole, pochi fatti», «Can che abbaia non morde», «Ne uccide più la lingua che la spada» sono solo alcuni fra i detti più noti, ma si dice anche che i demagoghi siano «parolai», si elogiano le persone di poche parole e talvolta si resta molto colpiti dall’efficacia di una frase laconica. Senza dilungarmi troppo sull’argomento, vorrei esaminare alcuni motivi che inducono a consigliare il silenzio. Tutte le grandi religioni insistono sull’opportunità di controllare il proprio linguaggio. Numerose sette cristiane osservano periodi di silenzio e alcune fanno voto di silenzio perpetuo. Uno dei movimenti filosofico-religiosi più grandi e famosi, l’induismo, dedica una parte considerevole della preparazione, oltre che al controllo della parola, anche al controllo del respiro: si tratta del Pranayama. In latino, i termini «respiro» e «anima» sono la forma maschile e femminile della stessa radice, mentre in greco coincidono. Questo è un punto degno di attenzione. La respirazione è uno dei pochi atti involontari del corpo sui cui possiamo esercitare un controllo volontario. Ciò significa che il respiro è al confine fra consapevolezza e inconsapevolezza. Le persone in grado di parlare o di tacere consapevolmente danno prova di autocontrollo. Quando è l’inconscio a dominarci, non siamo in grado di parlare come parleremmo se comprendessimo tutte le conseguenze dei nostri discorsi, ma
apriamo bocca per sfogare una frustrazione. Così, con atteggiamento ironico, brontoliamo per i nostri problemi e ne diventiamo consapevoli, oppure accampiamo scuse in modo sprezzante, o ci lamentiamo per un’ingiustizia di poco conto; ed è sorprendente accorgersi di come talvolta chiediamo al prossimo un compatimento ben maggiore di quanto sarebbe necessario. Quando troviamo qualcuno che ci tratta con indulgenza e ci commisera, non siamo quasi mai sufficientemente maturi per non approfittarne, scegliendo di crogiolarci invece nel nostro infantilismo e frenando la nostra crescita personale. Una delle astuzie più efficaci della volontà di fallire è che obbliga le proprie vittime a chiedere consigli non necessari. Ancora una volta, il vero motivo per cui chiediamo un consiglio (non necessario, lo sottolineiamo) è per sentirci protetti e coccolati, anche se non siamo più bambini. Ma agire in tale modo significa procurarsi una nuova scusa per non avere successo. Se falliamo per aver seguito il suggerimento di qualcun altro, la colpa non è nostra, ma di chi ci ha mal consigliato. Semplicissimo, no? Possiamo, quindi, continuare a sognare a occhi aperti, raccontandoci che, se avessimo seguito il nostro primo impulso, avremmo raggiunto l’obiettivo. Poiché tali motivazioni esistono, conviene analizzare bene che cosa ci spinge a chiedere consiglio. Se l’origine del desiderio non è sospetta, allora basta porsi una sola domanda, prima di chiedere aiuto con la coscienza a posto: «Se risolvessi questo dubbio da solo, sarei l’unico a perdere tempo?» Se la risposta fosse «sì», allora fareste meglio a risolvere il problema in modo autonomo, a meno che la quantità di tempo che sprechereste non fosse del tutto sproporzionata rispetto al risultato. Se siete un creativo, ricordate che il tempo dedicato alla ricerca di un metodo di lavoro di rado è sprecato. Siamo abituati a considerare miracolose le imprese di uomini come Joseph Conrad, un autore polacco che scriveva in inglese, o del tedesco Charles Proteus Steinmetz, diventato un genio dell’elettrotecnica, nonostante soffrisse di nanismo, gobba e displasia a una spalla. Pensiamo, sbagliando, che aver superato i loro problemi da soli sia stata, per queste persone, un’impresa difficilissima. Al contrario, fu proprio l’esigenza di rendersi autonomi uno dei motivi del loro successo e, riconoscendolo, non sminuiamo per nulla il valore dei risultati. La maggior parte di noi lavora in collaborazione così stretta con gli altri, che risulta molto difficile offrire un proprio contributo individuale. I prodotti finali sono una sorta di accozzaglia di gusti, capacità e metodi e sono tutti quasi uguali fra
loro. Pensate, per esempio, ai mediocri romanzi commerciali, o agli slogan e alle immagini delle inserzioni pubblicitarie di qualsiasi rivista: vi sembrerebbe esagerato dire che, anche quando sono il frutto del lavoro di una sola persona o di un solo studio, sembrano provenire tutti da una specie di ufficio centrale? Eppure, anche se accettiamo senza protestare i prodotti del Ministero della Narrativa e della Commissione per le Campagne pubblicitarie, riserviamo il nostro sincero apprezzamento per i lavori che danno prova di originalità e di genialità. Perciò vale la pena dedicare del tempo all’elaborazione, anche faticosa e solitaria, di una tecnica originale o di un metodo innovativo. Detto questo, esaminiamo i casi in cui è bene chiedere consiglio. Ipotizziamo che abbiate un problema autentico: come primo passo, dovreste scriverlo o formularlo verbalmente con precisione, al fine di identificarlo con chiarezza. Se vi limitaste a rigirare il problema nella vostra mente, non solo lo ingigantireste, ma lo rendereste ancora più vago. Solo a quel punto potreste cercare un consigliere – un amico o un estraneo –, ma a patto che le sue opinioni siano affini alle vostre, perché di solito questo implica che i suoi processi mentali sono analoghi ai vostri. Consultarlo prima significherebbe far perdere tempo a entrambi, perché lo coinvolgereste inutilmente nel vostro autoesame. Una volta trovato l’esperto, spiegategli il problema in maniera il più possibile concisa, ma senza tralasciare nulla. Poi seguite i suggerimenti, finché non vedete risultati concreti. Se avete la tentazione di dire che un determinato consiglio non fa al caso vostro, allora dovreste sospettare delle vostre motivazioni. Un tale rifiuto indicherebbe che avevate già in mente un piano d’azione e che speravate in una conferma. Esaminare l’esempio – riportato qui di seguito – di un atteggiamento sbagliato nei confronti di un suggerimento o di un insegnamento ricevuto può essere più illuminante di qualsiasi esempio positivo. Avete mai visto un insegnante di disegno durante una lezione in aula? Se, come spesso accade, gli capita di trovare un errore tipico di una certa fase della preparazione nel lavoro di un allievo, quasi sicuramente chiamerà tutti gli altri a raccolta intorno alla tavolozza incriminata. Partendo da quest’ultima, si dilungherà in critiche, consigli, esortazioni e magari arriverà al punto di cancellare e correggere l’errore lui stesso. Se osservaste il gruppo di studenti in quel momento, vi accorgereste che, tristemente, tutti sembrano capire l’errore, tranne colui che l’ha commesso e che, più di tutti, avrebbe bisogno di aiuto. Quasi sempre, infatti, chi fa da esempio è agitato, nervoso, talvolta
pronto alle lacrime, spesso arrabbiato e dimostra di sentirsi umiliato e offeso e quindi reagisce in maniera infantile. Perciò, se chiedete aiuto, o se vi mettete nella posizione dell’allievo, imparate a trarre profitto dagli errori, invece di risentirvi, e mantenete un atteggiamento distaccato mentre il vostro «insegnante» vi mostra come correggervi. Se andate a scuola, o seguite un corso o delle lezioni private, non perdete occasione per porre domande pertinenti, per poi agire in base alle informazioni ricevute e, infine e soprattutto, informate l’insegnante sugli eventuali progressi compiuti seguendo i suoi consigli. Tutto ciò non va solo a vantaggio vostro, ma anche del docente e degli altri allievi, in quanto l’insegnante non può sapere quali metodi siano efficaci e quali no, a meno che non riceva un riscontro dagli allievi stessi. Se continuate a non compiere alcun progresso, i casi sono due: o non capite appieno le spiegazioni, oppure non state seguendo l’insegnante giusto. Dopo il periodo di apprendistato, evitate di dubitare delle vostre capacità, al punto di dover chiedere aiuto per qualsiasi piccolezza. I medici e gli psichiatri hanno le sale d’aspetto piene di pazienti che si presentano a ripetizione per porre quesiti banalissimi. Se queste persone hanno rapporti di dipendenza in tutte le loro relazioni, come mostrano di averle con i loro medici, difficilmente potranno crescere e maturare nella vita. Ciarlatani a parte, nessuno vede di buon occhio questo tipo di pazienti. Chi cerca sempre una scusa per attribuire ad altri la responsabilità dei propri insuccessi, o che, pur essendo in grado di farlo, non vuole crescere e imparare a risolvere i propri problemi da solo, continua a chiedere consigli, finché avrà fiato in corpo. Per questo motivo, si può perdonare il medico o lo specialista, anche espertissimo, che, di tanto in tanto, si spazientisce anche con chi fa domande valide. Un buon espediente per capire se facciate parte dell’esercito degli importuni è chiedervi ogni volta: «Porrei questa domanda se, per avere una risposta, dovessi pagare una parcella?» Tutte le persone impegnate e molto in vista per motivi professionali sono subissate da richieste di colloqui personali. Molti rispondono con garbo e pazienza e si impegnano, pur di non rischiare di scoraggiare un principiante dotato e ricettivo, ma spesso sono spietatamente sfruttati. Quelli che, invece, come talvolta accade, si rifiutano di rispondere a qualsiasi domanda, non lo fanno perché sono altezzosi e indisponibili, o perché non amano essere d’aiuto, ma perché non sono in grado di distinguere con sicurezza chi ha autenticamente bisogno di suggerimenti e chi è nevrotico. Perciò, avendo del lavoro prezioso da svolgere, preferiscono un riluttante
silenzio e, per giustificarsi, si dicono che chi è in grado di lavorare in modo autonomo non ha bisogno di umiliarsi, perché presto o tardi finisce per darsi da solo delle risposte soddisfacenti. Ne consegue che, durante il periodo di rieducazione, in cui imparerete ad adottare un atteggiamento nuovo, vi converrà astenervi dal parlare, dal lagnarvi, dal chiedere consigli e suggerimenti. In definitiva, il vostro traguardo è riuscire a lavorare in qualsiasi circostanza. Non potrete mai avere la certezza che il vostro consigliere preferito o il vostro amico più intimo saranno sempre disposti a prestarvi ascolto nel momento di maggior bisogno. Se prendete l’abitudine di rivolgervi sempre a qualcuno in una certa fase del vostro lavoro e, peggio ancora, vi convincete che è necessario farlo per ottenere un buon risultato, sappiate che vi state incamminando lungo la strada dell’insuccesso. Se, inoltre, dedicate tutto il vostro tempo a un’attività creativa, di qualunque genere, a un certo punto vi ritroverete con una notevole mole di esperienza personale su cui basarvi. Allora, vi renderete conto che molti problemi che in precedenza consideravate di difficile risoluzione erano dovuti solo all’inesperienza e alla scarsità di conoscenze di quel periodo ormai superato.
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IL RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE Abbiamo già par lato dell’importante contributo dell’immaginazione alla realizzazione personale: favorisce l’atteggiamento mentale necessario per avere una vita produttiva. L’immaginazione può, tuttavia, essere utile in tanti altri modi e molto diversi tra loro. Di solito, si pensa che questa facoltà possa essere utile, forse, a chi opera in campo artistico, ma che sia del tutto inutile, se non controproducente, nella pratica quotidiana. In genere, si ritiene che attingere all’immaginazione sia come concedersi una vacanza, come imparare a sognare a occhi aperti o come permettere alla mente di rilassarsi e di non fare nulla. Dopo esserci concessi questo lusso – poiché siamo portati a credere che l’esercizio dell’immaginazione sia, in qualche modo, un lusso – possiamo ritornare, con energia rinnovata, alle attività precedenti, oppure scoprire che abbiamo perso tempo, sprecato occasioni, o che siamo rimasti indietro rispetto a colleghi e collaboratori. In breve, ci sembra di pagare le conseguenze dell’aver dato libero sfogo a una parte della nostra mente. È per questo che consideriamo l’immaginazione con sospetto, che spesso cerchiamo di imbrigliarla oppure, in casi estremi, addirittura di soffocarla. Che l’immaginazione possa essere molto utile nelle questioni più pratiche è un’idea respinta dai più. L’immaginazione è, infatti, considerata una facoltà incontrollabile, che impone le proprie regole, che non si può gestire e mettere al servizio della ragione e della volontà. Eppure, se controllata e ben diretta, diventa quell’immaginazione matura e costruttiva, quella facoltà spirituale di cui parlava Joubert.20 Ma provate a esaminare solo alcuni dei molti modi in cui l’immaginazione ci può essere utile: può aiutarci a prendere le distanze da noi stessi e quindi a considerare in maniera più obiettiva le emozioni e i pregiudizi che spesso ci impediscono di vedere con chiarezza. Questo potrebbe farci scoprire che andiamo costantemente contro i nostri stessi interessi e che potremmo sostituire attività mentali deleterie con altre molto più proficue. Oppure potremmo usarla per studiare il carattere di un avversario o di un collaboratore renitente, così come uno scrittore studia un personaggio che
spera di collocare in un’opera letteraria. L’immaginazione può aiutarci a capire le motivazioni del nostro avversario o del nostro collaboratore e poi a vedere se le nostre supposizioni erano fondate. In questo modo eviteremmo di compiere errori come essere troppo bruschi con una persona sensibile, o troppo indulgenti con un’altra che pensa solo a sfruttarci. La lista dei modi in cui l’immaginazione può contribuire alla nostra realizzazione personale, invece di farci cadere nelle fantasticherie o nella rassegnazione, o invece di essere impiegata solo come mezzo di svago, è inesauribile. Se, nei limiti del possibile, è diretta dalla volontà e accompagnata, mano nella mano, dalla ragione, può aiutarci a trovare nuovi ambiti in cui esprimerci, o restituirci parte dell’entusiasmo che provavamo in principio per il nostro lavoro e che abbiamo perso per stanchezza e a causa dell’abitudine. Può addirittura rivestire una funzione del tutto pratica, come aiutarci a scoprire nuovi mercati per i nostri prodotti o altri modi per sfruttare le nostre doti. Vale la pena esaminare in modo un po’ più approfondito queste idee e, in seguito, proporre alcuni esercizi per imparare a impiegare meglio l’immaginazione. Non è necessario far parte del gruppo di chi, come si suol dire, «impara solo dall’esperienza». Avendo scoperto che il timore di intraprendere nuove attività proviene, in gran parte, dalla paura di essere feriti ancora, possiamo decidere di sperimentare mentalmente, e quindi senza dolore, le occupazioni cui vorremmo dedicarci. Possiamo perciò imparare a guardare avanti con l’immaginazione, per evitare di sbagliare, essere inefficienti e sprecare tempo ed energie. Innanzitutto, possiamo usare l’immaginazione per vedere noi stessi e il nostro lavoro con un certo distacco. Sappiamo tutti che i bambini si identificano totalmente in ciò che possiedono e in ciò che fanno e nelle persone che si prendono cura di loro. Si offendono se si chiede loro di condividere i propri oggetti: la rottura di un giocattolo amato è una tragedia e se piove il giorno in cui avevamo programmato una gita, pensano che il sole non splenderà mai più. Se la mamma o la tata si allontanano momentaneamente, i bambini si sentono traditi nel più sleale dei modi. In effetti, uno dei principali obiettivi educativi per la prima infanzia è insegnare a quei piccoli egocentrici che il mondo non ruota intorno a loro. Tutti noi abbiamo dovuto, a un certo punto, imparare questa lezione, anche se
quasi nessuno l’ha capita fino in fondo. Una traccia di quell’infantile egocentrismo permane anche nei nostri ultimi giorni, e talvolta è ben più di una traccia, tanto che certi adulti soffrono, protestano e reclamano proprio come marmocchi. Il successo, in qualsiasi campo, implica la presenza di relazioni interpersonali (l’idea dell’artista che lavora solo per sé stesso è una chimera, un animale mitico come l’ippogrifo). Proprio per tale motivo, ci sono occasioni in cui è importantissimo vedersi in modo obiettivo e in rapporto con il prossimo. Ciascuno di noi, presto o tardi, arriva a dirsi: «Questo sono io, questo è il lavoro che svolgo, queste sono le persone che spero di aiutare e di soddisfare con la mia attività». L’immaginazione può aiutarci a fare un passo indietro, a osservare quelle relazioni da lontano, ad analizzarle nei dettagli e a capire la portata di quanto abbiamo intrapreso. L’adulto infantile non è in grado di osservarsi dall’esterno e, meno ancora, di vedere il proprio lavoro o il proprio prodotto per quello che è, senza farsi influenzare dall’orgoglio personale o, al contrario, da eccessiva modestia o dalla paura. Di conseguenza, non potrà mai rendersi conto della portata del suo contributo e dipenderà sempre dalle opinioni di amici ed estranei, che non mancheranno di confonderlo. Quell’individuo non comprenderà appieno quei pareri, anche se espressi con parole semplici, perché non vi dedicherà un’attenzione totale e scevra da emozioni, ma si farà influenzare dal peso delle sue stesse speranze e desideri. Così, non solo non trarrà vantaggio da consigli o critiche costruttive, ma non riuscirà nemmeno a rendersi conto se tali consigli e critiche siano affidabili. Osservando, con l’immaginazione, prima sé stesso, poi il lavoro che intende svolgere, poi il pubblico cui vorrebbe rivolgersi e, infine, mettendo tutti quegli elementi in relazione tra loro, potrà impedire che qualcuno faccia vacillare il suo coraggio, confonda le sue idee con consigli contraddittori e influenzi il suo giudizio obiettivo sui suoi stessi risultati. Identificarsi troppo a lungo con il proprio lavoro è un errore grave, che può ostacolare i progressi ed essere fonte di delusione. Gli sviluppi degli ultimi anni ci hanno insegnato che è follia identificarsi con i figli, al punto tale da renderli incapaci di condurre una vita autonoma. La madre che si aggrappa al proprio figlio adulto (o anche adolescente), che soffre con lui, decide per lui, si fa carico delle sue umiliazioni, è incapace di vivere pienamente la propria vita se il figlio non conduce la vita che lei desidera per lui, interferendo nelle sue scelte e imponendogli interessi professionali e sociali, non è più
considerata come la summa dell’amore e del buon senso materni. Anche se non sempre pratichiamo ciò che predichiamo, oggi sono pochi gli uomini e le donne che ritengono auspicabile e lodevole identificarsi totalmente con i propri figli. Si può dire che oggi abbiamo imparato a essere più obiettivi su una delle relazioni fondamentali della vita. Sappiamo che il nostro compito di genitori è fare tutto ciò che è in nostro potere per preparare i figli a vivere una vita adulta sana e soddisfacente, evitando di porre veti non necessari alle loro attività, lasciandoli liberi di scegliere le amicizie e di formarsi opinioni proprie il più presto possibile. Sappiamo, inoltre, che è bene che qualsiasi adulto, genitore o figlio che sia, abbia interessi propri, perché solo così si asterrà dall’interferire in modo malsano nella vita altrui. Detto questo, nessuno si sogna, infine, di pensare, nemmeno per un istante, che questa nuova e più sana comprensione della funzione genitoriale, sostituitasi a quella precedente, dittatoriale e tirannica anche quando era motivata da profondo affetto, sminuisca l’amore dei genitori per i figli. L’analogia fra il risultato di un lavoro e un figlio è molto stretta: all’inizio è necessario concepirli, accudirli e nutrirli come se fossero una parte di noi. Ma, a crescita conclusa, arriva un momento in cui ciascuno deve possedere un’identità propria e indipendente. Se vogliamo sfruttare la vita al massimo, dobbiamo capire quando è il momento di passare da un compito a quello successivo. Anche la persona più produttiva potrebbe dare un contributo maggiore di quello che già offre. I nostri risultati sono pressoché dimezzati, finché non impariamo a staccarci da quanto abbiamo già compiuto e a dedicare le nostre energie al lavoro che ci aspetta, invece di voltarci a osservare il destino di ciò che fino a quel momento ci ha avvinto. Occorre precisare che, in certa misura, ciò è inevitabile: abbiamo bisogno di conoscere la storia e il destino del nostro lavoro finito, perché ci serve per apprendere elementi utili. E in questo la persona comune ha molto da imparare dal genio. L’abbondanza, come disse Edith Wharton,21 è segno di una vocazione autentica in qualsiasi ambito della vita. Il vero genio – che sia un Leonardo, un Dickens, un Napoleone o un Edison – lavora sempre. La versatilità e l’abbondanza non sono, come si dice talvolta, segni di mediocrità. Al contrario, quando questi due elementi sono presenti in una persona mediocre, la accomunano ai grandi della sua professione. Siamo tanto abituati a realizzare un’opera e poi a fermarci a osservarne il destino, che proviamo stupore nei confronti di chi non commette lo stesso errore. Siamo anche convinti, in modo erroneo, che queste persone non si
diano tregua pur di realizzare ciò che hanno in mente. Sappiate che non è per niente – o non è necessariamente – vero. In realtà, il tempo, le energie, le attenzioni che le persone comuni sprecano ad aspettare approvazioni, ad ascoltare commenti, a chiedersi se avrebbero potuto fare di meglio, i geni li impiegano per andare avanti e tentare nuove strade. Ciò non significa che gli uomini e le donne molto produttivi siano presuntuosi o indifferenti alle critiche costruttive, ma solo che essi sanno che se qualcosa di pertinente sarà detto su di loro, prima o poi lo verranno a sapere. L’esperienza ha insegnato loro che non siamo mai sordi a ciò che ci riguarda personalmente. Hanno quindi imparato a non fermarsi ad aspettare i commenti sul loro lavoro, ed è per questo che le loro vite sono doppiamente piene e soddisfacenti rispetto a quelle di chi non riesce a capire quando è il momento di tagliare il cordone ombelicale con il prodotto della propria mente o della propria fatica. L’immaginazione può farci capire come agiscono questi saggi lavoratori e aiutarci a imitarli.
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PARAMETRI E CRITERI A questo punto ipotizziamo che ci occorra ottenere approvazione e accettazione in una fase del nostro lavoro, prima di poter passare a quella successiva. Che cosa accadrebbe se il nostro lavoro contribuisse al raggiungimento di un obiettivo comune? Naturalmente, sarebbe più complicato, ma l’immaginazione potrebbe comunque assisterci, mostrandoci la nostra posizione nella catena di cause che concorrono a produrre un certo risultato e quindi insegnarci a essere pazienti mentre il nostro lavoro viene preso in esame, a restare in attesa fino all’emissione del verdetto. Se questo dovesse rivelarsi negativo – cosa che di tanto in tanto deve accadere –, i casi sono due: o si affronta lo stesso problema da un’angolazione diversa, sperando questa volta di trovare un metodo di lavoro in accordo con i propri collaboratori che sia più proficuo, oppure si espongono i motivi per cui si pensa che la propria idea sia valida, ma senza dare l’impressione che la si voglia difendere solo per un senso di orgoglio, che sarebbe fuori luogo. L’unico modo per riuscirci è definire, in anticipo, una serie di parametri ben studiati, applicabili a ciascun tipo di lavoro che svolgerete. Se elaboraste tali parametri solo a opera conclusa, potreste essere fuorviati dai risultati, o ritrovarvi a difenderli nonostante tutto, forse cercando anche di non vederne le pecche. Pure in questo caso possiamo appellarci all’immaginazione. Provate a chiedervi quale sia il miglior esempio possibile del risultato che intendete raggiungere. Cercate quale sia il lavoro simile al vostro più riuscito. Una volta individuato, chiedetevi quali caratteristiche abbia, quali di esse siano indispensabili e quali siano le caratteristiche specifiche aggiunte dall’autore di tale lavoro. Sulla base di questa analisi, definite una serie di criteri a vostro uso personale, indicando prima le qualità del tutto indispensabili perché quel risultato abbia successo; poi quelle auspicabili, ammesso che sia possibile includerle; infine, le caratteristiche che potrebbero esprimere il vostro contributo, che è l’elemento più importante per la vostra realizzazione personale. Un’ultima cosa: prima di mettervi all’opera, dimenticate la vostra opinione e
considerate il vostro futuro compito dal punto di vista del vostro pubblico, o del consumatore finale. Chi trarrà beneficio dalla vostra attività? Chi è il vostro pubblico, se siete un creativo? Chi è il vostro acquirente tipo, se intendete mettere in vendita un certo articolo? Se foste al suo posto, che cos’altro desiderereste dall’offerta? Se riuscite a comprendere lo stato mentale di chi potrebbe decretare il vostro successo o fallimento, è probabile che sarete in grado di aggiungere gli elementi che possono rendere irresistibile il vostro prodotto. Facciamo un esempio molto banale e che tutti conosciamo: quello del mobilio da cucina. Perché, secondo voi, per anni, fornelli, lavelli e vasche sono stati costruiti così bassi che le donne che dovevano usarli faticavano e si stancavano in fretta a causa della posizione innaturale che erano costrette ad assumere? Non c’era un motivo valido, ma nel momento in cui una persona sensata ha cominciato a pensare a quei mobili senza dare per scontato che dovessero essere come erano sempre stati costruiti fino a quel momento, riflettendo invece sulla comodità d’uso per gli acquirenti di tali oggetti, si è verificata una rivoluzione nel campo delle attrezzature da cucina. Spesso le migliorie di questo genere sono talmente ovvie, che non le vediamo. Un piccolo e quasi banale cambiamento è in grado di trasformare un articolo – magari insoddisfacente e che tutti comprano solo perché non esiste un’alternativa – in una grande novità, ma soprattutto in un oggetto più utile e agevole da usare. Tale trasformazione può essere realizzata soltanto da una persona che lavora in maniera creativa, che non si limita a seguire la forma con cui siamo abituati a vedere un oggetto, studiandone le parti essenziali, ma è in grado di immedesimarsi in chi, in seguito, dovrà usarlo. Stranamente, è proprio il creativo colui che, il più delle volte, non riesce a migliorare il livello qualitativo del proprio lavoro, perché non prende in considerazione le esigenze, non ancora del tutto formulate, della sua clientela. Il suo obiettivo dovrebbe essere, almeno in parte, quello di comunicare un’idea o un’emozione estetica ad altri e, se non ci riesce, va incontro a un insuccesso. Bisogna riconoscere che essere rosi dalla paura costante di non compiacere il proprio pubblico si ripercuote negativamente sul lavoro. Ed è anche vero che, se si cerca solo di compiacere gli altri, il proprio lavoro di rado è fonte di soddisfazione. Ma se la propria idea di successo comporta anche un riconoscimento da parte del prossimo, allora più si conosce a fondo la psicologia del proprio pubblico e meglio è. Se, conoscendo i gusti dei vostri utenti finali, siete in grado di offrire loro non solo ciò che desiderano,
ma qualcosa di molto meglio di quanto possano immaginare, allora mieterete un successo. Dopo aver preso in considerazione tutti questi elementi, dopo aver formulato nel modo più chiaro possibile l’idea verso cui dovrebbe tendere il vostro lavoro, prima di proporla al mondo, dovreste vagliarla tramite una serie di domande che nascono logicamente dai parametri ben precisi che dovreste aver definito. Ogni ambito professionale avrà i propri quesiti, ogni singolo lavoratore vi attribuirà un peso diverso o ne modificherà l’ordine sequenziale, ma, a grandi linee, il lavoro finito dovrebbe essere valutato in base a questi criteri: Ciò che ho realizzato è all’altezza di quanto di meglio esiste nel campo? Possiede tutto ciò che è necessario per il suo normale utilizzo? Vi ho aggiunto qualche caratteristica specifica e innovativa? L’ho reso il più possibile gradevole e adeguato agli utenti (pubblico o acquirenti) cui è destinato? Mi sono chiesto se esiste un’altra fascia di consumatori o di utenti cui potrebbe interessare? Che altro potrei fare prima di staccarmene e di lasciare che questo mio prodotto percorra la propria strada? Provate a leggere queste domande in due modi: applicandole a un articolo commerciale, ma anche all’atteggiamento con cui affrontate un compito quotidiano. L’artista si porrà una serie di domande diverse, ma pur sempre affini a quelle sopra riportate. Una poetessa, per esempio, si porrà le seguenti domande: Sono riuscita a trasmettere il mio pensiero? Sono riuscita a trasmettere le mie emozioni? Ho espresso i miei pensieri e le mie emozioni nel modo più chiaro possibile? Sono nobili o belli nei limiti consentiti dall’argomento? Anche in questo caso, se fate parte di un’équipe di lavoro, l’immaginazione potrà aiutarvi, mostrandovi la vostra posizione in relazione agli altri. Quando ne avrete preso atto, potrete elaborare una vostra serie di regole che eliminerà buona parte dei fastidi e delle frustrazioni derivanti dal lavoro quotidiano. Vi siete mai divertiti o meravigliati guardando un ambiente a voi noto dalla cima
di una scala, oppure vedendovi per un attimo come vi vedono gli altri, grazie al riflesso di uno specchio posto ad angolo con un altro? È questo l’effetto che dovreste cercare di ottenere con l’immaginazione. Se riusciste a vedere voi stessi e i vostri collaboratori come se foste le pedine di una scacchiera, con grande probabilità vi accorgereste di quanto non state facendo, o state facendo male, e agireste per correggervi. Molte persone che pensano di lavorare troppo, in realtà, fanno meno di ciò che dovrebbero e potrebbero fare con facilità, se si rendessero conto, non con ansia, ma in modo creativo, di quanto ci si aspetta da loro. Spesso il lavoro in più è qualcosa che queste persone intraprendono senza che nessuno abbia loro chiesto di farlo, molte volte per un reale senso del dovere. Un esempio di questo tipo di lavoratori indefessi non manca in nessun grande ufficio: nei casi estremi, si tratta di «accaparratori di lavoro» – o più spesso di «accaparratrici di lavoro» – che, per paura che i loro superiori pensino che non stiano facendo tutto ciò che dovrebbero, o per timore di essere considerati superflui, si occupano di una miriade di piccoli dettagli, sovraccaricandosi di lavoro, risultando meno proficui, perdendo tempo, mentre altri, che potrebbero benissimo darsi da fare, si permettono di oziare e di distrarsi. Se un lavoratore di questo genere potesse vedersi in modo obiettivo, potrebbe portare a termine un numero maggiore di compiti che gli competono, svolgerli meglio e con meno stress e fatica. I dirigenti e i responsabili che continuano a fare molto di più di ciò che è loro richiesto, esaurendosi fisicamente e mentalmente, spesso assecondano solo la loro presunzione e la loro vanità, anche se, di solito, respingono con stizza tale accusa. Di sicuro, sono vittime della volontà di fallire. Aumentare la propria normale attività fino al raggiungimento dei propri limiti è positivo – e di solito la si può aumentare molto di più di quanto si creda –, ma tutto ciò che va oltre è il primo passo verso l’insuccesso e verso il famigerato «esaurimento nervoso». Una volta definito il vostro ruolo, svolgete le vostre mansioni fino in fondo, ma non oltrepassate la misura, se non in caso di emergenza. Nella maggior parte delle grandi imprese e società esiste, o dovrebbe esistere, una persona che prende le decisioni definitive. Talvolta, ogni socio di un’impresa in compartecipazione ha il potere decisionale o di veto su un certo aspetto dell’attività. Spesso si prendono le decisioni dopo aver esaminato le opinioni e i suggerimenti di tutti. Da ciò deriva la necessità di seguire una regola: se una decisione è contraria al vostro parere o suggerimento, rinunciate alla
vostra idea e collaborate con entusiasmo con la maggioranza. Se avete l’impressione che si stia per compiere un errore grave, chiedete qualche ora per analizzare la situazione come la vedete voi, spiegate in che modo, secondo voi, la nuova decisione altererebbe le circostanze, perché ritenete che sia un errore o perché bisognerebbe elaborare un’alternativa. Sforzatevi di essere il più possibile obiettivi, in quanto spesso si pensa che un’alternativa sia valida solo perché è la propria e quindi si pecca di orgoglio. Molte volte, chi è convinto di aver rinunciato alle proprie idee e di seguire le direttive degli altri, inconsciamente ostacola, rallenta e critica il lavoro, cercando di vanificarne gli obiettivi. Il guaio è che, spesso, tale ostruzionismo è inconsapevole. Per non cadere in questo errore,è sufficiente rendersi conto del pericolo ed esaminare scrupolosamente sé stessi e il proprio atteggiamento, per essere certi di non creare problemi inutili, di non svolgere la propria parte del lavoro con troppa lentezza o senza entusiasmo, ponendo così le basi per un fallimento, per il solo motivo che il proprio piano è stato ignorato o modificato. Se, invece, sono le vostre decisioni a dover essere accettate da altri, vi risparmierete un mucchio di noie future, sorvegliando le fasi iniziali del lavoro, per controllare che non sia in atto un sabotaggio inconsapevole. Un breve ammonimento rivolto alla persona che potrebbe essersi risentita, talvolta, rimette in carreggiata un piano, che altrimenti potrebbe essere destinato all’insuccesso. Tale controllo vi permetterebbe anche di verificare che ognuno stia svolgendo il lavoro che gli è stato assegnato. Spesso basta seguire da vicino collaboratori e partner durante le prime fasi di ogni nuova attività, per riorganizzare un settore da tempo caotico. Ma può anche darsi che voi vi troviate nel posto sbagliato e che dareste il meglio di voi stessi, per esempio, come progettista piuttosto che come dirigente. In tal caso, vi converrebbe sottoporre il problema all’attenzione dei vostri superiori, creando il minor disagio e il minor scompiglio possibile. Prendete l’abitudine di scrivere relazioni chiare, concise ed esaurienti e di presentarle a chi di dovere, a meno che non siate del tutto certi che saranno ignorate. Solo in tal caso e in nessun’altra circostanza dovrete scavalcare il vostro superiore. Cercate anche di accettare che i vostri consigli e le vostre idee siano messi in pratica senza che vi sia attribuito alcun merito. Nelle grandi organizzazioni ciò accade di frequente, ma corrucciarsi e protestare, rivendicando la paternità delle proprie idee, è controproducente e ottiene
l’unico effetto di annullare gli eventuali progressi compiuti. Se i vostri preziosi suggerimenti non sono un fuoco di paglia, vedrete che, presto o tardi, il vostro valore sarà riconosciuto. In caso contrario, significherebbe che quell’organizzazione non fa per voi e quindi dovreste darvi da fare per trovare una collocazione migliore il più presto possibile. Le società, in particolare quella universale fra marito e moglie, sono quasi sempre casi unici e diversi gli uni dagli altri. Come regola generale, però, cercate di non assumervi mai gli usuali compiti dell’altro partner, finché non avete la prova quasi irrefutabile che, se non lo faceste, ne andrebbe distrutto un equilibrio vitale. Spesso, fare la propria parte bene e fino in fondo basta a incoraggiare l’altro a fare la sua. In qualsiasi società, se si è sicuri di svolgere il proprio dovere, di solito è possibile discutere di eventuali punti deboli, individuarne i motivi e porvi rimedio. È, però, talvolta impossibile e solo chi è membro della società o della coppia è in grado di capire che non si può parlare di un determinato argomento, perché l’altro è ipersensibile o miope. In tali casi, assumetevi le responsabilità trascurate di cui potete farvi carico, ma non una di più. C’è sempre la speranza che si verifichi un’illuminazione improvvisa o una maturazione tardiva, che sarebbero compromesse se voi vi sostituiste all’altro in tutto. Badate bene ad assumervi le responsabilità non vostre liberamente e non per imposizione. Ciò di cui vi farete carico con consapevolezza, di rado diventerà, in seguito, causa di sofferenza o motivo di astiosità. Quando avrete individuato, con l’immaginazione, il vostro campo d’azione, come individuo e come membro di un gruppo o di una società, sarete pronti per imparare, organizzarvi ed esercitarvi, fino a raggiungere il massimo della vostra efficienza.
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DODICI ESERCIZI I Esistono numerosi esercizi con cui possiamo rendere la nostra mente più sveglia e flessibile, due qualità indispensabili per chi intende realizzarsi nella vita. Tutti soccombiamo con troppa facilità alla tentazione di cercare un sistema per portare a termine le nostre occupazioni quotidiane sforzandoci il meno possibile e prestando scarsa attenzione. Questo tentativo non avrebbe alcuna ripercussione negativa su di noi, se impiegassimo il tempo risparmiato a fini più nobili. Purtroppo, la verità, nuda e cruda, è che non lo facciamo quasi mai. Ci limitiamo ad applicare l’abitudine a guardare ciò che ci accade intorno, senza reagire, a tutti gli aspetti della nostra esistenza, con il risultato di diventare ogni giorno più fiacchi, più timorosi, meno coraggiosi, sia mentalmente sia psicologicamente. Svolgiamo gran parte delle nostre attività quotidiane guidati dall’abitudine. Quando lavoriamo, usiamo solo quella parte dell’intelletto che ha imparato (spesso, con fatica e malvolentieri) a prendere in considerazione alcuni problemi specifici. Se dobbiamo affrontare una situazione o un’idea nuova, attingiamo a un esempio passato e agiamo in base ai preconcetti o alle emozioni che suscita in noi. Anche chi segue, pure con un certo impegno, programmi di automiglioramento, di rado sfrutta più di un’area del proprio cervello, limitandosi a collezionare nozioni su un determinato argomento e si considera «preparato» solo per aver imparato qualcosa sulle religioni dell’India, o sulle opere di Charles Dickens, o sugli uccelli della California meridionale. Ciò avrebbe poca importanza, se tale atteggiamento non fosse accompagnato da una forma di autocompiacimento. Accumulare nozioni è solo una delle facoltà dell’intelletto: se è accompagnata, o preceduta, dall’esercizio di un giudizio critico e indipendente, in modo da trarre in autonomia conclusioni corrette riguardo ai fatti, allora è una facoltà preziosa. Ma i programmi di automiglioramento, da soli, non bastano ad ampliare al massimo le
potenzialità della mente e a farne uno strumento di utilità immediata e non riescono a dare all’individuo il potere di attingere, a piacere, a tutte le proprie risorse. Nemmeno chi si considera un lavoratore infaticabile possiede quella forma di allenamento mentale che consente di ottenere il massimo dalla vita. Alexis Carrel, nel suo libro L’uomo, questo sconosciuto,22 definisce uno dei motivi principali che portano a questa situazione: i progressi della civiltà non sono privi di svantaggi. L’essere umano, per esempio, non è più costretto a patire i rigori del clima, né a essere schiavo delle carestie; l’illuminazione elettrica trasforma la notte in giorno; i mezzi di comunicazione ci intrattengono a sufficienza, da non obbligarci, se non di rado, a inventarci altri mezzi di svago. La persona sana possiede una grande capacità di adattamento e – come dice Carrel – «l’esercizio delle funzioni adattive è indispensabile per lo sviluppo ottimale dell’essere umano». Per sfuggire dalle responsabilità non appena possibile, ci siamo infiacchiti, abbiamo perso la nostra ingegnosità e siamo arrivati al punto di temere, o addirittura detestare, la parola «disciplina». Eppure, disciplinarsi significa porsi dei vincoli, al fine di sviluppare le abilità necessarie per condurre un’esistenza soddisfacente. La disciplina mentale dovrebbe essere l’equivalente, per la mente, del lavoro compiuto dall’atleta per migliorare l’efficienza fisica. Dovremmo, prima di tutto, esaminare con attenzione la nostra mente e poi metterci all’opera per rafforzarla in un ambito, renderla più flessibile in un altro, ampliarla, insegnarle a essere più precisa: in breve, dovremmo metterla alla prova per sfruttarla al massimo. A tal fine, dobbiamo imparare a essere rigorosi con noi stessi, che non è per nulla facile per una generazione, come la nostra, che non solo è stata indebolita dalle comodità materiali, ma che ha anche il discutibile beneficio di poter ricorrere alla «psicologia» quando le pare e piace. Certe persone temono e odiano il controllo, perfino se è autoimposto per un motivo valido, al punto che vivono assecondando vizi e impulsi, nella convinzione che solo così possono essere del tutto libere. Ma «la libertà», dice Aristotele, «è l’obbedienza alla legge che ci si è dati», una definizione ancora valida dopo più di duemila anni. Dobbiamo darci da fare per ritonificare e allenare tutti i nostri muscoli, anche quelli mentali, finché non ci sarà possibile interrompere un lavoro e iniziarne un altro, variando l’approccio e l’intensità dello sforzo, con la stessa agilità e
destrezza di un bravo tennista che si adatta alle mosse imprevedibili dell’avversario. Se potessimo conoscere, giorno per giorno, le difficoltà cui dovremo far fronte, potremmo prepararci in anticipo e la flessibilità e l’ingegnosità non sarebbero necessarie. Poiché non è così, dobbiamo allenarci per imparare a soddisfare le infinite richieste che ci saranno poste, invece di limitarci ad assolvere con facilità i due o tre compiti che ci sono congeniali per natura e poi affrontare gli altri problemi in modo maldestro e confuso. Gli esercizi proposti di seguito provengono da tutto il mondo. Chi si intende di filosofia e di religione troverà pratiche che già conosce e che sono consigliate dai saggi di numerosi Paesi (India, Spagna, Grecia, Cina…), ma anche da qualsiasi scuola per fanciulle di buona famiglia! Alcuni sono comuni a tutti i Paesi in cui si insegnano esercizi mentali o spirituali di qualsiasi genere, come, per esempio, l’osservazione di periodi di silenzio prestabiliti. Nessun esercizio è casuale, ma ognuno punta a sviluppare o a rafforzare una facoltà mentale che dev’essere mantenuta in esercizio da chi vuole avere il controllo della propria vita e realizzare i propri obiettivi. Non tutti questi esercizi sono utili allo stesso modo, in tutti i casi; ma, prima di respingerne uno, chiedetevi se non lo stiate scartando proprio perché vi richiede più autocontrollo di quanto vi sia congeniale. Quasi tutti gli esercizi presentano delle difficoltà in un punto o nell’altro e comportano l’equivalente mentale dell’indolenzimento e della rigidità provocati dall’uso di un muscolo non allenato. Poiché i muscoli si irrobustiscono solo se sottoposti a uno sforzo, per essere certi che l’esercizio sia efficace bisogna provare almeno un minimo di disagio. Di conseguenza, se eseguendo questi esercizi mentali riuscite a completarne uno senza provare un certo disagio, se non vi sentite infastiditi perché state abbandonando una certa abitudine e sperimentando nuove modalità di azione, può darsi che l’esercizio in questione non sia quello di cui avete veramente bisogno. In tal caso, vi conviene passare a un altro esercizio che richieda un certo sforzo e una certa resistenza da parte vostra.
II. I dodici esercizi 1. Il primo esercizio consiste nel trascorrere un’ora ogni giorno senza aprire
bocca, se non per rispondere a domande dirette. Non dovete farlo né isolandovi dagli altri, né dando l’impressione che siete imbronciati o afflitti da un mal di testa feroce. Comportatevi come al solito, ma senza parlare. Rispondete alle domande in maniera esauriente, ma concisa: non aggiungete commenti non richiesti e non cercate di indurre l’interlocutore a porvi altre domande. Per quanto possa sembrare strano, è un compito difficile anche per le persone di solito taciturne. Siamo tanto abituati a fare conversazione quando ci incontriamo, anche solo per dimostrarci affabili e disponibili, che parliamo quasi sempre ogni volta che ne abbiamo l’occasione. Questo esercizio viene proposto in quasi tutti i Paesi dove si pratica una religione di antica data. È di grandissima utilità e permette di ottenere una serie di risultati diversi. È quasi impossibile che persone differenti reagiscano in maniera identica a questo esercizio. Un elemento appare chiaro a molti fin dai primi tentativi, e cioè che di rado esprimiamo subito il nostro pensiero. Di solito, facciamo un discorso, vediamo dall’espressione del volto dell’interlocutore che non siamo stati abbastanza chiari o che abbiamo detto qualcosa di sbagliato e poi ricominciamo da capo. Se continuiamo a non farci capire, ritentiamo: facciamo una pausa per radunare i nostri pensieri e poi pronunciamo una frase più chiara. I precedenti tentativi andati a vuoto restano, però, impressi nella mente dell’ascoltatore, che si sente disorientato. Una persona che ha provato l’esperimento mi ha riferito che, all’inizio, gli era sembrato di non essere fisicamente presente. Poi, c’era stato un lasso di tempo in cui aveva avuto l’impressione di riempire, con il suo silenzio, tutto l’ambiente e di osservarsi dall’esterno. Quando parlava, ovunque fosse, si sentiva, in modo naturale, al centro della scena, invece se taceva si collocava in una posizione diversa rispetto ai presenti. Trascorsa l’ora di silenzio, si vedeva talvolta al centro, talvolta ai margini del gruppo, e ogni tanto del tutto estraneo a ciò che si svolgeva intorno a lui. Un altro ha raccontato che, una volta percepito il suo silenzio, i suoi amici avevano avuto reazioni molto interessanti. Due di loro, senza capire che cosa ci fosse d’insolito in quella situazione, si erano sentiti molto a disagio. Il primo era diventato, lì per lì, mellifluo, mentre il secondo torvo e poi apertamente ostile, arrivando al punto di accusare l’amico silenzioso, proprio al termine dell’ora, cioè quando poteva ricominciare a parlare, di essere superbo. Un terzo, che fino ad allora si era sempre dimostrato il più taciturno del gruppo di amici, era diventato molto loquace, quasi come per ristabilire un equilibrio, e si era di nuovo rinchiuso nel suo silenzio quando l’amico aveva
ripreso a parlare. Una donna ha riferito, con aria divertita, che non si era mai sentita così ammirata in vita sua, come durante l’ora in cui era rimasta seduta, sorridendo in silenzio a una festa. Il suo silenzio sembrava attirare e sedurre gli altri molto di più della sua abituale socievolezza. Tutte le persone che si sono sottoposte all’esperimento concordano su un aspetto: durante il periodo di silenzio è maturato in loro un senso di padronanza di sé. Quando hanno ripreso a parlare, lo hanno fatto in maniera molto più chiara e precisa e sempre con la consapevolezza di poter ricorrere al silenzio quando lo desideravano. Una donna ha concluso il suo racconto con un aforisma di George Meredith23 che fino ad allora non aveva capito appieno: «È il silenzio del dio quello che temiamo, non la sua ira; il silenzio è una replica insopportabile».
2. Abituatevi a pensare a un solo e unico argomento per mezz’ora al giorno. Per quanto possa sembrare facile, all’inizio è di una difficoltà assurda. Il principiante dovrebbe cominciare a meditare sul suo unico argomento, dapprima, per soli cinque minuti al giorno, per poi arrivare con gradualità a mezz’ora. Potete iniziare scegliendo un oggetto concreto: un fiore, una matita, una sciarpa. Non dovete però tenere l’oggetto sotto gli occhi, bensì dipingerlo nella vostra mente. Se, per esempio, scegliete il fiore, dipingete le impressioni che offre a ciascuno dei vostri sensi. Dopo di che, visualizzate la sua crescita e il suo ambiente; ditevi che cosa rappresenta (se è il simbolo di qualcosa) e per quali usi si può impiegare. Partendo da questo semplice inizio, proseguite meditando su un problema concreto e, infine, su un’astrazione. Provate prima con argomenti che vi interessano, poi, quando avrete insegnato alla mente a non distrarsi nemmeno per un istante, potrete scegliere un argomento a caso, puntando il dito sulla pagina di un giornale o di un libro e riflettendo sulla prima idea che vi verrà in mente leggendo la parola che avrete toccato. Troverete illuminante iniziare l’esercitazione con carta e penna, tracciando un segno sul foglio ogni volta che vi renderete conto di distrarvi. Se sarete veloci nell’accorgervene, i primi giorni il vostro foglio sarà pieno di segni. Per fortuna, si migliora in modo piuttosto rapido: nel giro di una settimana, nei casi migliori, e nel giro di un mese, nei casi più refrattari, al termine della mezz’ora il foglio è quasi vuoto. Questo esercizio è di grande utilità per chi ambisce a svolgere un lavoro creativo, o a inventare tecniche nuove. All’inizio
è meglio far pratica quando si è da soli, ma poi si dovrebbe imparare a farlo anche quando si è bombardati da distrazioni, come quando ci si reca al lavoro, per esempio. Tenete presente che non si tratta di fissare la mente su un oggetto, come in alcune discipline indiane o nella pratica cristiana chiamata «raccoglimento». Dovete solo pensare a un unico argomento, niente di più. L’altra pratica induce uno stato lievemente ipnotico e non è adatta ai nostri scopi. Si tratta, in effetti, del semplice «applicarsi» e «concentrarsi», che ci è stato insegnato sui banchi di scuola. Ciò non toglie che sia interessante accorgersi che non abbiamo mai imparato bene quella lezione, né allora né in seguito! Ma, una volta appresa, questa si rivela immensamente utile. Chi è in grado di applicarsi e concentrarsi può imparare una lingua straniera in brevissimo tempo. Magari con un accento tremendo, se non ha cominciato da bambino, ma in meno di un mese può acquisire un numero sufficiente di vocaboli per cavarsela all’estero e capire il senso di un testo. In caso di prestazione competitiva, chi si è allenato a pensare senza distrarsi raggiunge per primo il traguardo. Ma i benefici di questo esercizio sono tanto ovvi, che non ritengo necessario sottolinearli ancora.
3. Scrivete una lettera senza mai usare le parole seguenti: «io», «me», «mi», «mio», «mia». L’importante è che il testo sia scorrevole e interessante. Se il destinatario vi nota qualcosa di strano, significa che l’esercizio non ha raggiunto il suo scopo. Questa pratica, come altre analoghe, dovrebbe insegnarci a vedere noi stessi in modo più obiettivo. Per poter scrivere una lettera di quel genere, è indispensabile volgere la mente verso l’esterno, dimenticando per qualche momento le preoccupazioni e gli affanni. Vedrete che, dopo, vi sentirete molto più leggeri e riposati.
4. Parlate per un quarto d’ora al giorno senza mai usare le parole «io», «me», «mi», «mio», «mia».
5. Scrivete una lettera in tono positivo e tranquillo. Non sono ammesse falsità, bugie, menzogne, ostentazioni. Limitatevi a descrivere elementi o occupazioni
che potete, con onestà, raccontare in quel modo e non aggiungete altro, ma lasciate intuire, dal tono della lettera, che in quel particolare momento non siete per nulla demoralizzati. Lo scopo di questo esercizio è duplice. Il primo consiste nel trasformare un atteggiamento negativo e scoraggiato in uno stato d’animo positivo e ottimistico. Per quanto possa sembrare difficile trovare argomenti a sufficienza per scrivere una lettera di quel tipo, ben presto scoprirete che ci sono vari aspetti della vostra vita e del vostro lavoro che vanno bene e che non prendevate in considerazione perché, di solito, ci si concentra sulle delusioni e sulle frustrazioni. Il secondo e più importante obiettivo consiste nel rimuovere, mediante una missiva del genere inviata a tutti i propri corrispondenti epistolari o quasi, uno dei più grossi ostacoli alla propria realizzazione personale. La corrispondenza è un’attività che di solito releghiamo ai ritagli di tempo. Quando non abbiamo nulla da fare e ci sentiamo svogliati, annoiati, stanchi o depressi, prendiamo carta e penna e scriviamo ai nostri cari. Di conseguenza, inviamo messaggi tristi, pieni di brutte notizie e ne mietiamo le naturali conseguenze, sotto forma di risposte consolatorie e comprensive. Tali risposte arrivano talvolta quando ci sentiamo abbastanza bene o quando, addirittura, siamo euforici, ma resistere alla tentazione di autocommiserarsi è un’impresa eroica. Leggendo le risposte che abbiamo sollecitato, abbiamo due possibilità: ricadere nel tormento e nell’autocommiserazione, oppure sentirci proprio sciocchi. Poiché è molto più eccitante sentirsi tristi che sciocchi, proseguiamo nel nostro circolo vizioso e comunichiamo altre cattive notizie quando rispondiamo a nostra volta. Per riuscire nella vita, occorre rinunciare per sempre all’autocommiserazione e al vittimismo!
6. Questo esercizio proviene dalle migliori scuole per fanciulle di buona famiglia: se state per entrare in un ambiente affollato, fermatevi un istante sulla soglia della porta e chiedetevi quali siano i vostri rapporti con le persone presenti. Molte signore di una certa età sono riconoscenti per aver ricevuto, dalla propria scuola, questo piccolo insegnamento, grazie al quale hanno imparato a gestire con competenza situazioni che, altrimenti, avrebbero potuto essere imbarazzanti e impegnative per giovani così protette dal mondo. Per anni si è insegnato alle ragazze a sostare un attimo sulla soglia della porta che stavano per varcare, al fine di cercare con gli occhi prima la padrona di casa e
poi l’ospite d’onore (o, in mancanza, l’invitato di età più avanzata). Una volta entrata, la giovane doveva aspettare che la padrona di casa si liberasse e poi dirigersi verso di lei, per essere salutata e scambiare i convenevoli d’uso. Poi doveva attendere la prima occasione per scambiare due parole con l’ospite d’onore e, solo dopo aver adempiuto a quegli obblighi, era libera di fare conversazione con chi voleva. Le fanciulle che imparavano bene quella lezione acquisivano una capacità preziosissima per chiunque: farsi un’idea dei presenti con un solo colpo d’occhio, per capire a chi ci si debba accostare, prima per dovere sociale e poi per il proprio piacere personale. Oggigiorno si considera ipocrita o snob pianificare gli incontri in questa maniera ed è abbastanza diffuso il concetto per cui sarebbe più sano e naturale agire d’impulso in qualsiasi situazione, improvvisare, cogliere quello che capita o che fa comodo e lasciar perdere il resto. In realtà, concedersi un attimo di pausa per soppesare le varie possibilità o occasioni d’incontro che si possono presentare nel corso di un evento non significa comportarsi in maniera artefatta. Si evita, invece, di farsi prendere alla sprovvista o di essere coinvolti in una conversazione che non ci interessa, rischiando di perdere l’occasione per conversare con un amico o con qualcuno che ci attira molto di più. Anche pianificando con attenzione la propria vita, esiste sempre un margine sufficientemente ampio per gli imprevisti, che non si corre di certo il pericolo di perdere la propria spontaneità. L’ideale sarebbe avere il maggior controllo possibile sulla propria esistenza ma, talvolta, nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo in grado di prevederne tutti i possibili sviluppi. In quei casi, se avevamo soppesato tutte le possibili variabili, possiamo accontentarci di un’opzione secondaria, ma senza rinunciare a tutte le altre opportunità solo perché la prima ci è sfuggita.
7. Una volta fatto vostro l’esercizio di cui sopra, potrete seguire un antico consiglio in voga nella Francia secentesca. Incoraggiate qualsiasi nuova conoscenza a parlare di sé stessa, senza darle modo di indagare su di voi. All’inizio, ignorate le domande vicendevoli, ma con una cortesia tale che l’interlocutore non si senta disdegnato. Ben presto in voi crescerà l’interesse per quest’ultimo e, se sarete del tutto gentili e userete l’immaginazione per comprendere chi avete di fronte, potreste anche ritrovarvi avvinti dalla conversazione, al punto che non resterà in voi la benché minima traccia di imbarazzo o di ritrosia. Può darsi che non vi sia chiesto nulla di voi stessi, ma
non ha importanza perché, come minimo, avrete sentito opinioni diverse dalle vostre e allargato i vostri orizzonti. Se, invece, aveste occasione di parlare di voi stessi in risposta a domande successive, sapendo quali interessi avete in comune, sapreste destreggiarvi meglio e valutare se l’amicizia di quella persona sia auspicabile. Forse bisognerebbe precisare che comportarsi con consapevolezza non significa agire freddamente. Avere un saldo controllo di ogni situazione non significa sacrificare la propria spontaneità, bensì dimostrare un interesse per il prossimo. Invece di essere così presi da noi stessi, da non comprendere nulla degli stati d’animo o degli interessi altrui, a meno che non ci condizionino, possiamo sfuggire in maniera alquanto piacevole al nostro gretto egocentrismo. L’interlocutore, ben lungi dal sentirsi vittima di un complotto, per una volta si trova nella condizione di non dover subire il protagonismo altrui.
8. Questo esercizio è l’esatto contrario dei precedenti ed è molto più difficile da eseguire con intenzione. Si tratta di parlare solo di voi stessi e dei vostri interessi, senza lamentarvi, senza vantarvi e, possibilmente, senza annoiare l’interlocutore. Cercate di rendervi il più possibile interessanti per chi vi ascolta. È un ottimo esercizio per chi, di solito, parla troppo di sé stesso, perché l’esaltazione di questo suo difetto gli farà prendere coscienza della noia che infligge ai propri amici in ogni occasione. Quando si decide consapevolmente di centrare la conversazione sui propri interessi, si colgono in modo fin troppo chiaro tutti quei segni di indifferenza, noia, insofferenza, impazienza o desiderio di passare a un altro argomento, che purtroppo ci sfuggono quando siamo in preda al nostro narcisismo. Dopo un paio di esperimenti, rinuncerete volentieri sia all’esercizio sia alla vostra pessima abitudine. Ma ci possono essere anche altri vantaggi. Vi accorgerete ben presto che il racconto di situazioni banali, ordinarie e di episodi ricorrenti della vostra vita suscita una certa noia nei vostri ascoltatori. Se, d’altro canto, avete vissuto esperienze interessanti, se in una certa situazione vi siete dimostrati più creativi del solito, se state facendo qualcosa di nuovo, con ogni probabilità avvincerete il vostro pubblico. Ne trarrete, quindi, la conclusione che forse varrebbe la pena ampliare i vostri interessi, intraprendere nuove avventure o aggiungere un tocco di fantasia alla vostra vita quotidiana. Si impara presto a
non ascoltare le narrazioni altrui in merito ad acciacchi, agli ultimi exploit dei figli o, peggio ancora, del cane, o riguardo alle più recenti disavventure. Se vi trovate in compagnia di qualcuno che si ostina a sprecare il fiato in quel modo, quando tocca a voi parlare provate a introdurre un argomento di interesse più vasto. Se vi accorgete che l’altro ignora tutti i vostri incoraggiamenti a cambiare discorso, dovrete prendere una decisione. In un’amicizia con una persona dalle qualità modeste, nonostante tutte le possibili limitazioni, ci possono essere un calore, un affetto e una sincerità tali, che non ci verrebbe mai in mente di interrompere quella relazione. Per contro, può capitare di scoprire con sconforto che ci siamo affezionati a una persona per il solo motivo che in sua presenza possiamo blaterale a volontà delle frivolezze della nostra vita, anche se fra noi non esiste un legame profondo. È, di conseguenza, d’obbligo rinunciare a quel legame il prima possibile, pur senza offendere l’altro, per rifiutarsi di continuare a sprecare tempo ed energie e di farle sprecare anche all’amico. Se avete ceduto alla tentazione di stringere un legame di quel genere, una sorta di alleanza fra persone insignificanti (cosa che succede quasi a tutti), provate innanzitutto a vedere se potete trasformarlo in un’amicizia autentica e stimolante. Solo dopo aver perso ogni speranza in tal senso, potrete decidere di interrompere la frequentazione.
9. Per perdere il vizio di infarcire ogni discorso con «cioè», «diciamo che…» o altri modi di dire, ci vuole il sostegno di qualcuno. Se vi accorgete di avere quel vezzo verbale, ricorrete all’amico con cui vi esprimete nella maniera più libera e sincera. È abbastanza facile controllare quel vezzo in presenza di una persona che conosciamo a malapena, ma nella foga di un discorso le parole incriminate tendono a moltiplicarsi. Spiegate all’amico che avete il vizio di dire «e così via», per esempio, spesso e fuori luogo: chiedetegli di farci caso e di alzare una mano, senza interrompere la conversazione, ogni volta che lo sentirà dire. Il discorso che ne seguirà sarà, per forza di cose, frammentario e, almeno all’inizio, fonte di grandi risate, ma vedrete che l’espediente vi aiuterà a perdere quell’abitudine. Nel giro di due o tre sedute imparerete a non pronunciare involontariamente quelle parole.
10. Pianificate due ore di una delle vostre giornate e rispettate il programma.
Se lavorate in proprio, qualsiasi giorno va bene, altrimenti scegliete una domenica o un festivo. Fatevi un programma che segua le vostre abitudini, ma solo in parte. Per esempio: 7.30-8 Prima colazione e lettura del giornale. 8-8.20 Corrispondenza. 8.20-9.25 Suddividere i libri per argomento. 9.25-9.30 Fissare telefonicamente (se di settimana) un appuntamento che continuate a rimandare. Se è un giorno festivo, fare una passeggiata. Il grado di complessità o di diversità degli impegni non è rilevante ai fini dell’esercizio, il cui scopo è aiutarci a passare da un’attività all’altra in un momento preciso e non solo dopo aver terminato quella precedente. Se non avete finito di leggere il giornale, pazienza! Passate oltre e aprite la posta. Se quel giorno non ricevete niente, dedicate quei venti minuti alla scrittura di una lettera. Se vi avanza del tempo, spedite un paio di biglietti o prendete appunti per una lettera da scrivere un altro giorno. A qualunque punto siate con la corrispondenza, alle 8.20 fermatevi e mettetevi a sistemare i libri. Fate in modo che almeno una delle occupazioni programmate rivesta per voi un certo interesse. Se non avete libri da riordinare, allora riordinate le fotografie, oppure mettete in ordine un armadio o una stanza. Il duplice scopo di questo esercizio è, innanzitutto, imparare a seguire alcune istruzioni alla lettera e, secondo, rendersi conto che non si ha quasi mai la percezione esatta del tempo necessario per svolgere un compito prestabilito. Probabilmente capita a qualsiasi tipografo o impaginatore di brontolare con un redattore perché pretende di mettere troppi caratteri in una sola riga stampata o troppe parole in una sola pagina. Ebbene, molti di noi fanno la stessa cosa con le ore della giornata. Persino i pendolari che sanno, per esperienza, che ci vogliono 17 minuti esatti per andare dalla doccia alla banchina della stazione ferroviaria, spesso pensano disinvoltamente di poter smaltire il lavoro di mezza giornata in un paio d’ore dopo pranzo! Quante volte pretendiamo che il tempo si possa dilatare, pur sapendo benissimo che non accade così? È, tuttavia, possibile imparare a sfruttare il proprio tempo al meglio: all’inizio pianificheremo due ore di una giornata, poi tre, poi quattro, e così via, fino a riuscire a sfruttare con efficacia almeno otto ore della giornata. Non è sempre possibile – e nemmeno auspicabile – programmare un’intera giornata, ma rispettare, per un paio di giorni, gli orari che noi stessi abbiamo stabilito per certe occupazioni ci ricorderà il valore del tempo e ci
aiuterà a capire che cosa possiamo aspettarci da noi stessi quando non lo sprechiamo. L’autentico egocentrico si riconosce dal fatto che non calcola mai in modo corretto il tempo necessario per svolgere un determinato compito, in quanto è convinto, seppure inconsciamente, che il mondo giri intorno a lui e, sentendo di possedere il potere magico di fermare il sole e la luna, passa la vita a meravigliarsi che il tempo non si pieghi alle sue esigenze. Arriva in ritardo agli appuntamenti, è sempre indietro con il lavoro, si assume più impegni e accetta più inviti di quanti potrebbe smaltirne anche se avesse un gemello. Se queste persone non imparano dagli errori, fanno una brutta fine.
11. Questo è l’esercizio più difficile di tutti e vi sembrerà tanto arbitrario, che molti lettori non tenteranno nemmeno di eseguirlo. In effetti, è arbitrario; proprio in questo aspetto risiede la sua efficacia. Questo esercizio si rivela meno utile per chi vive in una grande famiglia rispetto a chi vive solo, o è quasi sempre solo. Ricordando le parole del succitato Alexis Carrel, 24 fate modo di mettervi in una situazione in cui dovete agire in maniera non abituale e quindi adattarvi. I soldati, i marinai, i religiosi e i membri di certe associazioni devono eseguire ordini di continuo, per cui possiedono una capacità di adattamento di cui sono prive le persone che non devono rendere conto a nessuno. Non è facile recuperare la capacità di adattamento, che però è troppo preziosa per essere persa. Se i consigli che seguono vi sembrano esagerati o addirittura ridicoli, state pur certi che i risultati vi mostreranno il valore della disciplina. Prendete alcuni pezzetti di carta – una dozzina, tanto per cominciare – e scrivetevi istruzioni di questo tipo: «Recarsi a 30 km da casa, usando i mezzi di trasporto pubblico.» In altre parole, non uscite in auto o in taxi, ma usate il treno, la metropolitana, l’autobus o quello che volete. «Non mangiare per dodici ore.» «Consumare un pasto in un luogo insolito.» Un ristorante in un quartiere del tutto sconosciuto può andare bene, ma chiedere del cibo in una fattoria sarebbe ancora meglio, a patto di avere abbastanza faccia tosta. «Non dire niente tutto il giorno, se non per rispondere alle domande.»
«Passare la notte a lavorare.» Quest’ultima, tra l’altro, è l’istruzione più importante di tutte. Dovete imporvi di lavorare con costanza e serietà, senza mai cedere alla tentazione di sdraiarvi per qualche minuto, ma solo concedendovi alcuni istanti di rilassamento ogni ora, appoggiandovi allo schienale della sedia e preparandovi a resistere ai momenti di stanchezza. Solo chi prova questo esperimento sa che la nostra mente possiede risorse cui di rado attingiamo, abituati come siamo a soccombere al primo segno di fatica, o a restare svegli solo se siamo stimolati dall’esterno. Infilate i pezzetti di carta in altrettante buste, mescolatele tra loro e poi mettetele in un cassetto. Rimescolatele tutte le volte che vi viene in mente. Ogni due settimane, o una volta al mese, prendete una busta, apritela ed eseguite l’istruzione che vi troverete. Può darsi che piova a catinelle il giorno in cui dovrete a percorrere 30 km con i mezzi pubblici, ma fatelo comunque, a meno che non siate impediti da gravi motivi di salute. Se il vostro lavoro vi impegna molto, un esercizio di questo genere al mese è più che sufficiente. Altrimenti, più vi obbligate a essere dispotici con voi stessi – senza trasformarvi in trottole ovviamente – e meglio sarà per la vostra forza di carattere. Non è indispensabile che le istruzioni siano tutte diverse. Se vi viene in mente un’occupazione che non vi è congeniale e che svolgete con grande difficoltà, e che sapete che sarebbe un ottimo allenamento per voi, insistete su quella. Ecco un esempio: un giovane di mia conoscenza, incredibilmente timido, si obbligava a conversare con almeno tre sconosciuti al giorno. I compiti che scegliete devono essere sia didattici sia insoliti, al punto da interrompere bruscamente la vostra normale routine.
12. Come alternativa, potete provare questo esercizio: di tanto in tanto stabilite un giorno in cui dite di sì a qualsiasi richiesta che sia un minimo ragionevole. Questo esercizio è preziosissimo per chi tende a isolarsi nel proprio tempo libero. Potrebbe capitarvi che vi invitino a fare una gita in slitta o addirittura a cambiare lavoro. La gita in slitta va di certo accettata, anche se detestate le pellicce, il freddo e la neve. Il cambio di lavoro dev’essere preso in esame con attenzione, perché si possono accettare su due piedi solo proposte «ragionevoli». Non abbiate paura che in quello specifico giorno non vi chiedano nulla: il numero di piccole richieste che ogni giorno respingiamo,
piuttosto che interrompere la nostra comoda routine, è incredibile. Le conseguenze possono essere notevoli, istruttive e spesso molto utili. Non balzate, però, alla conclusione che, se un giorno di quel genere è stato ricco di richieste interessanti, debbano esserlo anche gli altri. Per esempio, la prima volta che io stessa ho provato a eseguire questo esercizio, mi è stato chiesto di tenere un corso di scrittura narrativa. Tenete presente che avevo sempre detto a tutti che odio l’insegnamento, che non avrei mai insegnato finché avessi potuto mantenermi in un altro modo e che la maggior parte dei corsi di scrittura narrativa cui avevo assistito fino ad allora non mi erano sembrati di alcuna utilità per gli allievi. Per eseguire l’esercizio, tuttavia, ero obbligata ad accettare e, oltretutto, ero idonea, perché io stessa scrivevo, lavoravo come redattrice da dieci anni e avevo alcune idee su come avviare il flusso narrativo. Così ho accettato di tenere il corso, ho ascoltato le domande degli allievi, ho scoperto che, per quel che ne sapevo, non esistevano testi che vi rispondessero in modo esauriente e quindi mi è venuta voglia di scrivere un libro su quell’argomento. E il libro che state leggendo è il risultato di una giornata in cui mi ero riproposta di dire «sì» a ogni richiesta. Come se non bastasse, il corso cadeva in un periodo in cui ero impegnatissima, per cui, se non mi fossi data l’ordine perentorio di accettare qualsiasi richiesta, avrei fatto di tutto pur di sottrarmi. Non tutti i giorni di quel genere hanno avuto conseguenze di così ampia portata, ma si sono rivelati, se non altro, quasi sempre interessanti. Di conseguenza, ogni giorno, se possibile, dovrebbe essere vissuto con la mente aperta a qualsiasi opportunità. Per contro, rifiutare, di tanto in tanto, un invito è un’esperienza illuminante, in particolare per chi spreca troppo tempo in feste e svaghi. Queste persone dovrebbero iniziare a declinare diversi inviti, e a dedicare un po’ di tempo alla loro crescita interiore. Sulla base di questo esempio, individuate altri esercizi che facciano al caso vostro. Ci sono due modi per farlo. Innanzitutto dovete prendere atto di una vostra debolezza o mancanza e poi decidere, magari dopo aver fatto qualche prova, se potete rimediare facendo l’esatto contrario oppure – come nell’esercizio per perdere il vizio di parlare troppo di sé stessi – enfatizzando il difetto. Una volta capito il concetto, vi accorgerete che questi esercizi non sono soltanto utili, ma anche piacevoli da eseguire. In molti casi sostituiscono certi svaghi basati sull’enigmistica, che fanno appello alle stesse capacità. Mettendo alla prova la vostra arguzia contro voi stessi, affronterete l’avversario più
scaltro e ingegnoso che possiate trovare. Di conseguenza, uscire vittoriosi da quei duelli regala un senso di trionfo. Infine, quando ci si esercita, si possono sfruttare a piacere tutte le abilità mentali che sono state così rafforzate e scoprire che funzionano a meraviglia. Quando, tuttavia, cominciate a divertirvi eseguendo quegli esercizi, tenete a mente che sono mezzi e non fini. Assumendo il controllo della vostra mente, non avete ancora iniziato, per così dire, a usarla «ufficialmente», ma siete nel periodo di prova. Vi è mai capitato di conoscere uno di quei salutisti che mangiano con il bilancino, camminano per tot chilometri al giorno, giocano a tennis X volte alla settimana, prendono il sole o stanno sotto la lampada per X minuti e la cui compagnia è di una noia mortale? Tali persone conducono un’esistenza sanissima ed equilibratissima…. ma per che cosa? Voi allenate la mente per poterla poi sfruttare in attività concrete, quindi non procrastinate e passate ai fatti.
III Il percorso verso la realizzazione personale può essere agevolato sia da elementi esterni sia da strumenti di supporto da noi predisposti. Vale di certo la pena seguire il consiglio impartito da Benjamin Franklin nella sua utobiografia,25 e annotare ogni giorno i propri progressi su un apposito taccuino. Franklin stesso stilò un elenco di tredici «virtù» (o regole), ciascuna corredata da una massima che ne riepilogava il significato. Per esempio, per Temperanza, scrisse: «Non mangiare troppo e non bere fino a diventare euforico»; per Silenzio: «Non parlare, se non per recare beneficio a te stesso o ad altri. Evita i discorsi futili»; e così via, per Ordine, Determinazione, Moderazione e altre virtù. Sarebbe ben difficile inventare regole migliori ma, per i nostri attuali scopi, l’esame dei sei punti che ci costano più fatica è più che sufficiente. Ogni lettore che possa farlo dovrebbe, però, dare un’occhiata all’ Autobiografia di Franklin, ricca di ottimi suggerimenti. Ciascuno di noi ha i propri difetti, ma ipotizziamo, per esempio, che voi sappiate che potreste lavorare di più se solo voleste; oppure che siete timidi; che ci mettete troppo tempo a prendere qualsiasi decisione; che parlate troppo (la timidezza e la loquacità non si escludono a vicenda); che mangiate in modo scorretto o senza rispettare gli orari; che dormite troppo (o troppo poco). Le pagine del vostro
taccuino dovrebbero essere così strutturate: LAVORO CORAGGIO DETERMINAZIONE LOQUACITÀ ALIMENTAZIONE SONNO
LUN
MAR
MER
GIO
VEN
SAB
DOM √ √√ √√ √
Le spunte rappresentano il numero di volte in cui, secondo voi, avete resistito alla tentazione di agire in maniera non soddisfacente. Nel momento in cui vi accorgete che siete in grado di spuntare, ogni giorno, tutte le caselle – in altre parole, quando avrete eliminato il difetto che vi crea un problema –, potrete eliminare quella voce e inserirne un’altra. Prima potete fare a meno del taccuino e meglio è. In ogni caso, potete sempre conservarlo in un cassetto come promemoria. Poi c’è il problema di come iniziare la giornata. Chi di mattina è arzillo fatica a credere che molti altri ci mettono parecchio tempo prima di assumere il pieno controllo delle proprie facoltà. Se fate parte di quel gruppo, provate ad appendere sulla parete di fronte al letto un cartello con scritto: «Alzati subito dal letto» e, non appena aprite gli occhi, obbedite. Se, per giunta, sapete – come succede a tanti – che a mezzanotte vi vengono ispirazioni che il mattino dopo, a causa del malumore, tendete a ignorare, scrivetevi un appunto e siate severi e risoluti con voi stessi. Scrivetevi per esempio: «Saresti un idiota se non sottoponessi quest’idea almeno al tuo editore. Prendi appuntamento oggi stesso!» Spesso basta questo per superare l’inerzia mattutina e passare all’azione. Un personaggio piuttosto famoso ha l’abitudine di spedirsi di continuo messaggi e cartoline. Quel sistema gli permette di liberare la memoria dai dettagli non indispensabili, e quindi tiene sempre in tasca alcune buste con l’indirizzo del suo ufficio. Ero con lui al ristorante in un giorno di pioggia, quando guardò fuori, prese una cartolina dalla tasca, la scrisse e poi me la porse con un sorrisino. Era indirizzata al suo ufficio e diceva: «Metti l’impermeabile accanto al cappello». In ufficio, aveva altre buste con l’indirizzo di casa. Premiarsi per un lavoro ben fatto, al di là della soddisfazione personale per il successo conseguito, è un altro modo per incoraggiarsi ad agire in modo
adeguato. Se vi concedete un piccolo lusso quando, ma solo quando, il vostro taccuino vi dimostra che non avete mai vacillato in tutta una settimana, allora potete cominciare a sforzarvi un po’ di più per eliminare i vostri difetti. Prendete l’abitudine di essere, al contempo, severi e indulgenti con voi stessi: esigete un determinato livello qualitativo dal vostro lavoro, ma poi congratulatevi con voi stessi o addirittura premiatevi se lo raggiungete. Troppo spesso adottiamo tattiche sbagliate. Quando dovremmo agire, ci abbandoniamo all’inoperosità, magari giustificandoci; poi però ci rimproveriamo o ci puniamo in maniera spietata e inutile. I rimproveri sono futili se pensiamo che l’essere severi e aspri con noi stessi sia un’espiazione per la colpa di non aver agito bene. Ovviamente, non è così. Non abbiamo fatto ciò che avevamo programmato e, per giunta, ci siamo scoraggiati e avviliti.
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E ORA BUONA FORTUNA! Riepilogando, il principio su cui si basa la realizzazione personale è: «Agisci come se fallire fosse impossibile». Cominciando a metterlo in pratica, scoprirete che la prima cosa che dovete imporvi di fare è riappropriarvi, il più possibile, delle energie che sprecate sognando a occhi aperti, o dedicandovi a banali passatempi, e impiegarle in occupazioni e attività che abbiano un obiettivo preciso e concreto. Dovete agire ignorando il ricordo dei timori e degli insuccessi passati, rifiutandovi di attribuire importanza al disagio temporaneo o alle sofferenze vissute. Imparate a non soccombere alle frustrazioni, evitando atteggiamenti e toni che possano dare adito a rifiuti o opposizioni. Dovete esercitare la mente con simulazioni, al fine di averne il pieno controllo quando si presenterà l’occasione di usarla in maniera efficiente. Dovete esplorare con l’immaginazione, quindi senza correre il rischio di restare delusi, tutte le vostre potenzialità e individuare interessi sempre nuovi, al fine di non ricadere nelle fantasticherie. Dovete crearvi un’atmosfera mentale corroborante e in quell’atmosfera, sgombra da angosce e dubbi, agire. Negli ultimi capitoli abbiamo esaminato, uno per uno, gli aspetti del modo di agire che conducono al successo. Va però ricordato che quelle analisi dettagliate, per quanto corrette e didattiche, hanno una grave pecca: la velocità delle azioni è stata alterata, al fine di mostrarne lo svolgimento minuto per minuto. La visione al rallentatore dei movimenti di un calciatore, di un golfista o di un tennista è, talvolta, illuminante per i principianti. Lo sforzo muscolare alla base di un agile movimento corporeo, se visto alla sua normale velocità, non è percepito dall’occhio, ma in un filmato al rallentatore è osservabile in tutte le sue sottigliezze. Per appropriarci della tecnica, dobbiamo rinunciare, per un momento, anche a un altro aspetto. Avrete notato che, visto al rallentatore, un tennista sembra librarsi languidamente nell’aria, la palla sembra avvicinarsi lentamente alla racchetta, sembra colpirla morbidamente e rimbalzare con altrettanta dolcezza. Quelle immagini, per quanto eloquenti, sono anche
abbastanza comiche: il balzo del giocatore, lo schiocco della pallina e il ritmo del gioco si perdono completamente e sono sostituiti da una delicatezza irreale. Analogamente, per esaminare le tecniche che conducono alla realizzazione personale, in queste pagine abbiamo dovuto sacrificare il ritmo all’analisi. Il ritmo reale delle azioni che favoriscono il successo, pur non essendo incalzante e faticoso come quello dei movimenti di una competizione, è comunque più veloce, spedito e uniforme di quanto si possa mai descrivere in un manuale. L’azione ben fatta è piacevolmente concisa. «So che sto eseguendo un bel dipinto, se lavoro speditamente», ha detto di recente un artista a un gruppo di amici. E ha aggiunto: «Quando mi attardo, so che c’è qualcosa che non quadra; dipingere bene è quasi come giocare». L’azione finalizzata a un obiettivo, oltre ad avere di certo un che di giocoso, sembra più veloce, più precisa, più ovvia e gratificante di qualsiasi altra. Può darsi che, in realtà, lavoriate con più lentezza e con più cura del solito, ma il fatto che non abbiate perplessità, che non perdiate tempo a fantasticare mentre agite, conferisce un «tono» inconfondibile ai compiti che eseguite come si deve. È proprio quello il tono che dovete catturare con l’immaginazione quando vi sforzate di ricordare lo stato d’animo in cui eravate quando, in precedenza, avete ottenuto un successo. Una volta che l’avrete ritrovato, usato per l’azione che state compiendo e avrete osservato un’analogia nei risultati, sarete in grado di adottare il ritmo giusto, senza più dover ricorrere all’immaginazione. Quel ritmo si impone, talvolta, all’improvviso, nel bel mezzo di un’occupazione secondaria: è il segno che, se potete accantonare tutto il resto e mettervi all’opera, sarete colti dall’ispirazione. A un certo punto, imparerete a capirne le manifestazioni e a sfruttarle a vostro vantaggio. Tutte le sensazioni che riguardano il tono o il ritmo delle vostre azioni, che assumono forme diverse a seconda del carattere individuale, sono la prova che state procedendo nella giusta direzione. Con ciò non si vuole consigliare di accelerare i propri movimenti fisici durante il lavoro, il che può anche accadere. Il più delle volte i movimenti, in effetti, risultano accelerati ma, in certi casi, la fretta eccessiva è serva della volontà di fallire, in quanto imita soltanto la determinazione tipica dell’agire con un obiettivo preciso e fa sì che numerosi passaggi fondamentali siano ignorati o sottovalutati. In realtà, non stiamo parlando tanto della velocità di per sé, quanto del fatto
che il movimento continuo e sciolto, che procede in una direzione precisa, è piacevole e ritmico e conduce all’obiettivo senza tentennamenti. Analizziamo ora un altro stato, in apparenza paradossale, ma favorevole al successo, che quasi tutti hanno sperimentato di persona o comunque tramite il racconto di amici e conoscenti: lo stato definito «la forza della disperazione». Nei casi più estremi, quella forza si manifesta perché una catastrofe o una serie di ostacoli ha precluso qualsiasi alternativa. «Non ha più nulla da perdere» si dice, di solito, di una persona che si trova in una situazione del genere. Ebbene, in quello stato un individuo agisce con una determinazione e un’audacia che abitualmente non possiede. E spesso l’obiettivo viene raggiunto. Uno degli esempi delle vittime della volontà di fallire, riportato nei primi capitoli,26 illustrava il caso di chi fa della disperazione una condizione indispensabile – e quasi scaramantica – per realizzarsi. Interpretando male la propria condizione, tale persona si autoconvince che la prospettiva di una sconfitta totale costringa la cattiva sorte ad arrendersi. In realtà, quella persona non comprende che quando raggiunge il punto da non poter permettersi di non farcela, allora agisce come dovrebbe fare sempre: «come se fallire fosse impossibile». E in quello stato ha successo tutte le volte, senza eccezioni. Intrappolata com’è da pensieri ed emozioni negative, si augura il fallimento come unico modo per spronarsi ad agire. A chi la conosce può sembrare un pazzo, che si colpisce la testa con un martello solo perché quando smette prova un grande sollievo. È, in effetti, così, ma quelle persone non vedono i propri errori e si prendono sul serio. Senza arrivare a questi estremi, il senso è che la disperazione spazza via le alternative. La disperazione, però, non è l’unico mezzo per sventare l’eventualità di un fallimento. L’immaginazione è molto più efficace. Rimane da esaminare la condizione del «coraggio rivolto verso la giusta direzione». È, questa, la condizione sine qua non per riuscire. È per raggiungere tale stato mentale che ci siamo esercitati a usare flessibilità e controllo, che abbiamo imparato a non alimentare ansie e timori, incanalando, invece, la nostra immaginazione verso fini più utili; è per questo che abbiamo stabilito di agire in modo corretto in ambiti secondari, prima di prendere coraggio e affrontare le grandi questioni della nostra vita. Usiamo la nostra intelligenza, per sfruttare al massimo i nostri talenti e le nostre capacità, rifiutandoci di cedere alla tentazione di sognare, di evitare le responsabilità, di sforzarci il meno possibile, comportandoci in maniera infantile.
Avere successo, per qualsiasi adulto equilibrato, significa fare del proprio meglio. Quale sia il meglio, quali siano i risultati più importanti cui possiamo ambire, lo scopriremo solo liberandoci del tutto dalla volontà di fallire.
Questa riedizione di Wake Up and Live!27 comprende una biografia originale di Dorothea Brande (1893-1948), così com’era apparsa in una delle prime edizioni dell’opera. Pubblicato quando l’autrice era in vita, questo profilo, probabilmente redatto dell’autrice stessa, ricapitola i punti fondamentali e la filosofia della sua mitica carriera.
L’AUTRICE Dorothea Brande, fino a due anni prima della pubblicazione di Wake Up and ive!, aveva redatto una quarantina di testi brevi, nessuno dei quali portato a termine. termine. Poi, avendo avend o capito di possedere una riserva di energia che non aveva mai sfruttato, decise di affrontare il lavoro di scrittura seguendo la formula: «Agisci come se fallire fosse impossibile». Da quell’esperienza è nato Wake Up and Live!, che si è dimostrato un testo contagioso proprio per via di quell’entusiasmo, come dimostra il caso della stenogr afa incaricata di dattilografare il manoscritto del libro per il tipografo. La ragazza in questione rimase tanto colpita dal testo che diede le dimissioni, si mise in proprio e, nel giro di due mesi, aprì un’agenzia che dava lavoro ad altre tre giovani. Le centinaia di lettere che sommersero la casa editrice furono la prova che quello non era affatto un caso isolato: il libro è decisamente fuori dall’ordinario. Dorothea Brande nacque a Chicago e frequentò le università di Chicago e del Michigan. Subito dopo la laurea, l’odore della carta stampata la fece approdare negli ambienti dell’editoria di Chicago. Il settore dei quotidiani stava cominciando a crescere, ma in quella città stentava a decollare. La Brande lavorò come giornalista per numerosi quotidiani locali, ma la possibilit o ssibilitàà di diventare diven tare responsabile respo nsabile della tiratura dell’«America dell’«Americann Mercury»28 la portò a New York. Per una giornalista del Middle West fu un’esperienza illuminante e di crescita professionale. Negli anni seguenti Dorothea Brande lavorò come redattrice per altre riviste, imparando a scrivere testi intelligenti, che fossero anche vendibili v endibili.. Nel 1934 uscì Becoming a Writer 29 ed ebbe un successo immediato, anche in termini commerciali. Il manuale, basato su semplici regole per imparare a mettere su carta i propri pensieri in maniera chiara e logica, piuttosto che sui principi r incipi della composiz compo sizione ione letteraria letteraria «classica» «classica»,, nasceva da un unaa lunga esperienza redazionale e voleva dimostrare che chiunque è in grado di scrivere. Anche Most Beautiful Beaut iful Lady Lad y,30 uscito nel 1935, ebbe un grande successo di pubb u bblico. lico. In qu quel el periodo perio do la Brande rand e teneva un corso per corrispon corr ispondenza, denza, a livello nazionale, di scrittura narrativa e numerose conferenze in scuole e università. I suoi consigli erano sempre pratici, concreti e basati sul buon
senso. Wake Up and Live! uscì nel febbraio del 1936 e l’accoglienza fu strepitosa: basti pensare alla metamorfosi della stenografa. L’autrice non solo aveva capito come sfruttare con efficacia la propria vitalità, ma anche come insegnare agli altri a farlo, rinunciando ai sogni e alle illusioni e passando all’azione mentale. Forse, proprio perché lei stessa era stata a lungo frenata dall’incapacità di concentrarsi e di attingere a tutte le proprie energie, ora era in grado di d i mostrare al suo pub pubblic blicoo quali q uali erano erano gli gli ostacoli ostacoli da superare. Nel 1937 1937 il titolo titolo del d el libr libroo fu f u vendu v enduto to a una u na casa cinematografica e divenne diven ne un un musical interpretato da Ben Bernie e Walter Winchell e diretto da Sidney Lanfield. Il film fu presentato in numerose edizioni straniere (danese, svedese, tedesca, francese, italiana,31 spagnola, giapponese e olandese). Il suo libro successivo My Invincible Invincibl e Aun Aunt t ,32 fu pubblicato nel 1938.
Indice
NOTA PERSONA PE RSONALE LE DELL’AUTRICE ’AUTRIC E INTRODUZIONE PERCHÉ NON CE LA FACC FACCIAMO? IAMO? LA VOLONTÀ DI FALLIRE LE VITTIME DELLA VOLONT VO LONTÀ À DI FALLIRE FALLIRE LE GRATIFICAZIONI DEL FALLIMENTO ALLIME NTO CORRERE AI RIPARI L’A PPLICAZIONE PPLICAZIONE DEL METODO AVVERTENZE AVVERTENZE E MODALITÀ MODALITÀ D’USO D’USO COME RISPARMIARE FIATO FIATO IL RUOLO IL RUOLO DELL DEL L’IMM ’IM MAGINA AGINAZ ZIONE PARAMETRI ARAM ETRI E CRITERI DODICI ESERCIZI E ORA BUONA FORTUNA! L’AUTR ’AUTRIC ICE E Seguici Seguici su ilLibraio ilLibraio
Note 1. Frederic William Henry Myers (1843-1901) fu un parapsicologo britannico, la cui opera, La personalità umana e la sua sopravvivenza
2. Imperatore, filosofo e scrittore romano (121-180). 3. Giornalista, scrittore, diplomatico, attivista, inventore, scienziato e politico statunitense (1706-90). 4. Ossia determinate da una pluralità di fattori. 5. Filosofo statunitense (1873-1966). 6. Medico e filosofo austriaco (1734-1815), considerato il precursore dell’ipnosi. 7. Nome attribuito a metà Ottocento a un’ipotetica energia vitale irradiata da tutta la materia. 8. Ipotesi secondo cui il corpo di qualunque animale sarebbe dotato di un’energia di tipo magnetico. 9. Vedi nota 1. 10. Suggestione che viene data al soggetto in trance ma che ha effetto anche dopo il risveglio. 11. Psicologo e filosofo statunitense (1842-1910). 12. Concezione elaborata dal filosofo tedesco Hans Vaihinger (1852-1933). 13. Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense (1803-82). 14. Dorothy Canfield Fisher (1879-1958) è stata una riformatrice delle istituzioni scolastiche, un’attivista sociale e un’autrice di best-seller americana dei primi decenni del XX secolo. Oltre a portare il metodo Montessori per l’educazione dei bambini negli Stati Uniti, ha presieduto il primo programma di educazione degli adulti del Paese. 15. Vedi nota 5. 16. Bunker Bean è un film del 1936, diretto da William Hamilton e tratto dall’omonimo romanzo di Harry Leon Wilson. 17. Émile Coué, Il dominio di se stessi, Bis Edizioni, Diegaro di Cesena (FC) 2013. 18. Filosofo francese (1754-1824). 19. Insufficiente attività della tiroide. 20. Vedi cap. 7. 21. Scrittrice statunitense (1862-1937), autrice di L’età d ell’innocenza . 22. Alexis Carrel fu un fisiologo francese (1873-1944), premio Nobel per la medicina nel 1912, autore del volume L’uomo, que sto sconosciuto , Luni Editrice, Milano 2006. La prima edizione in lingua originale è del 1935. 23. Scrittore inglese di epoca vittoriana. 24. Vedi paragrafo I di questo capitolo. 25. Vedi nota 3. Benjamin Franklin, Autobiografia , Garzanti, Milano 1999. 26. Vedi cap. 4. 27. La presente è la prima traduzione in lingua italiana dell’opera. 28. Rivista satirica pubblicata dal 1924 al 1981. 29. Dorothea Brande, Diventare scrittori, Sperling & Kupfer, Milano 2008. 30. Non tradotto in italiano (La signora più bella). 31. Il fantasma cantante (1937). 32. Non tradotto in italiano (La mia invincibile zia).