Giamblico e la scena teurgica
di Aglae Pizzone
Teurgi e imbroglioni Qualche volta celebrava alcuni dei riti in onore della divinità da solo, per conto suo, lontano da compagni e seguaci […]. Ma questi, mai sazi del piacere della sua compagnia, non gli davano pace e dopo aver incaricato i più abili nel parlare, gli dissero: “Perché certi riti li pratichi in solitudine, per conto tuo, e non ci rendi partecipi della saggezza più perfetta? Eppure ci è giunta voce da parte di uno dei tuoi schiavi, che, a quanto pare, quando preghi ti innalzi da terra più di dieci cubiti; che il tuo corpo e le tue vesti assumono uno splendore d’oro, per poi tornare come prima, una volta cessata la preghiera, quando ritorni a terra per unirti a noi”. Giamblico, che pure non aveva la risata facile, a queste parole scoppiò a ridere, e rispose: “Quello che vi ha fatto credere queste cose – e vi ha ingannato – non deve essere privo di spirito. In futuro nessun rito sarà più compiuto in vostra assenza!” [trad. mia].
Verso la fine della vita, nell’ultimo decennio del terzo secolo d.C., Porfirio, il discepolo prediletto e l’editore di Plotino, indirizzò a un certo Anebone, altrimenti ignoto, una lettera intenzionata a riportareegiziano razionalisticamente il destinatario sulla strada della filosofia e allontanarlo dalle tentazioni delle pratiche teurgiche. La crociata di Porfirio non era di poco conto: scagliandosi contro la teurgia,1 il neoplatonico attaccava una delle 1
Il termine è inestricabilmente legato alla raccolta di Oracoli Caldaici risalente all’età antonina e attribuiti ai due Giuliani, padre e figlio, detti rispettivamente il teurgo e il filosofo. Si tratta di un “libro sacro” che proprio a partire da Giamblico ebbe un’influenza straordinaria sui sistemi speculativi dei filosofi
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componenti essenziali della spiritualità pagana al tramonto dell’ellenismo. Le ricadute andavano ben oltre l’ambito puramente religioso, e investivano in pieno anche il terreno della speculazione filosofica. Fondamentalmente, la teurgia consisteva in una serie di pratiche (erga) volte alla purificazione del fedele per mezzo dell’evocazione e gli oracoli di epifanie divine (secondo una gerarchia di enti che definiva il reale in modo rigidamente assiologico), ottenute in seguito all’applicazione di un rituale ben preciso. Purtroppo l’Epistola ad Anebone, con la risoluta opposizione porfiriana a qualsiasi tipo di rito teurgico, è andata perduta. Possediamo però la risposta, che, pur recando la firma fittizia del sacerdote egiziano Abammone, fu quasi certamente composta da Giamblico (a sua volta uno degli uditori di Plotino prima di diventare scolarca ad Apamea), entro i primissimi anni del quinto secolo.2 Si tratta dell’opera oggi nota, grazie a un’“invenzione” di Marsilio
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neoplatonici. La sua fortuna resistette anche alla fine del paganesimo, se si pensa all’attenzione che nell’XI secolo a Costantinopoli vi dedica Psello. Vedi C. van Liefferinge, La Théurgie des Oracles Chaldaiques à Proclus, Liège 1999. Gli Oracoli sono pubblicati oggi in E. des Places, Oracles Chaldaïques; avec un choix de commentaires anciens, Paris 1989, la cui numerazione si seguirà qui nel testo. Sull’attribuzione a Giamblico (che si deve a Psello, il quale mise insieme un’edizione congiunta delle due epistole) e la discussione sulla genesi dei Misteri, vedi l’introduzione di C. Moreschini in Giamblico, I Misteri degli egiziani, Milano 2003, pp. 5-51; E.C. Clarke, Iamblichus De Mysteriis. A Manifesto of the Miraculous , Aldershot 2001, pp. 4-19, con bibliografia.
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Ficino, come Misteri degli egiziani. Nella sua replica, Giamblico cerca di smontare una a una le argomentazioni porfiriane, seguendo lo schema delle lyseis, un prodotto tipicamente di scuola (si offrivano una serie di soluzioni a problemi posti precedentemente);3 così facendo dava l’avvio all’elaborazione di una “teurgia filosofica”. In altre parole il tentativo era quello di inserire a pieno titolo le pratiche teurgiche nell’alveo delle tradizioni filosofiche greche, di dare fondamento dottrinale a un insieme di ritualità mistico-religiose, che, anche a prescindere dalla reazione di un uomo di cultura come Porfirio, potevano essere fraintese, mal applicate, o scambiate con rozze manifestazioni magico-superstiziose. L’aneddoto raccontato da Eunapio nelle Vite dei filosofi (458) con cui abbiamo aperto questo contributo mostra che non si trattava di preoccupazioni infondate. Nella realtà quotidiana, al di fuori della ristretta cerchia di intellettuali che potevano frequentare le lezioni di Giamblico, il confine che divideva la spiritualità teurgica da grossolani riti magici o addirittura dalla volgare impostura era davvero sottile.
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H.D. Saffrey procede a un’utile rilettura dei Misteri, partendo proprio da questa struttura: Analyse de la réponse de Jamblique à Porphyre, connue sous le titre: De Mysteriis, in “Revue de sciences philosophiques et théologiques” 84 (2000), pp. 489-511.
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Lo schiavo chiacchierone, pur dotato di un’immaginazione piuttosto fervida, non era certo un visionario; il suo racconto riuniva, anzi, vari elementi di un diffuso immaginario popolare. L’unica bizzarria era semmai mettere al centro del quadro proprio Giamblico, che rifuggiva invece da qualsiasi manifes-tazione “illusionistica” della teurgia. La religiosità pagana tardo antica era in effetti piuttosto incline a manifestazioni scenografiche e fantasmagoriche, che, traboccanti di trucchi a effetto, andavano nella direzione di una marcata spettacolarizzazione dell’evento cultuale. Percorrendo le fonti, documentarie (i papiri magici, soprattutto)4 e non, è facile imbattersi nei diversi ingredienti che compongono il racconto del servo fantasioso. Lo storico ecclesiastico Rufino racconta, ad esempio, come nel Serapeo di Alessandria venissero allestite, grazie a un magnete calibrato ad arte e agganciato al soffitto, cerimonie in cui la statua del dio levitava miracolosamente, tra il visibilio degli astanti e la chiosa del sacerdote: “Helios si è sollevato, per congedarsi da Sarapis e ritornare alla propria dimora celeste” (Storia ecclesiastica XI 23).5 4 5
Vedi K. Preisendanz, Papyri Graecae Magicae: Die griechischen Zauberpapyri, 2 Bde., Leipzig 1928-31. Vedi R. Merkelbach, Isis regina-Zeus Sarapis. Die griechisch-ägyptische Religion nach den Quellen dargestellt, Stuttgart-Leipzig 1995, pp. 148-150. Il volo magico (finito in una mortale caduta grazie alle preghiere di San Pietro) aveva svolto un ruolo
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Un altro scrittore cristiano del terzo secolo d.C., Ippolito, fervente fino al martirio contro i nemici della fede, eretici o elleni che fossero, ci ha conservato in una sezione dei suoi monumentali Philosophoumena (IV 28-42) un notevole elenco degli espedienti di cui i pagani si servivano per far leva sulla credulità dei devoti, per lo più durante cerimonie private di divinazione. In questo caso poi Ippolito sembra attingere, per buona parte dei capitoli in questione, a una fonte “neutra”, scevra da intenti polemici antipagani, forse un manuale tecnico per la realizzazione di mirabilia sulla base di elementari nozioni chimico-fisiche o meccaniche:6 un impareggiabile squarcio sulla realizzazione pratica dei riti di divinazione nell’età di Giamblico. Così, fra i vari espedienti elencati dalla fonte di Ippolito, troviamo anche la spiegazione dell’inverosimile “splendore d’oro” che avrebbe illuminato le vesti e la capigliatura del filosofo durante la levitazione (Philosophoumena IV 31, 2):7 E anche quello che si fa con l’acqua di mare è interessante; vanno
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fondamentale anche nella vicenda di Simon Mago, considerato il “padre di tutte le eresie”. Vedi E. Spät, The ‘Teachers’ of Mani in the Acta Archelai and Simon Magus, in “Vigiliae Chistianae” 58 (2004), pp. 8-11. Vedi R. Ganschinietz, Hyppolytos’ Capitel gegen die Magier. Refut. Haer. IV 28-42, Leipzig 1913, pp. 12-30 (per quanto inesorabilmente invecchiata, rimane l’unica trattazione sistematica su questa sezione dei Philosophoumena). Il motivo del fuoco ritorna costantemente anche negli Oracoli Caldaici: vedi per esempio 34-38 e quanto detto infra.
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riuniti in un vaso di coccio schiuma marina e mosto; se gli avvicini una fiammella accesa mentre bollono, prende fuoco vivacemente; e versato sulla testa non brucia affatto. Se poi ci spargi sopra dell’incenso sbriciolato, mentre il composto bolle, prende molto meglio. Ma ancora meglio fai se ci aggiungi un po’ di zolfo [trad. mia].
Tecniche puramente umane dunque, piccola magia spiccia, che godeva di un vasto favore popolare. 8 Del resto passi come questi, in tempi più recenti, hanno ispirato a Burckhardt pagine cupamente pessimistiche sulla religiosità tardoantica, ammantata delle ombre di una superstizione che, facile alla truffa, si “sprigiona come un fumo malsano”: il giudizio impietoso non risparmiava neanche il “sistema insulso” della filosofia neoplatonica o il “triste libercolo” dei Misteri.9 Eppure, nonostante queste critiche ingenerose, il tentativo di Giamblico era stato proprio quello di distinguere accuratamente, nell’ambito della divinazione, aspetti filosofici, teologici e teurgici (I 2, 7, 6), spingendo il discorso razionale fin dove possibile e tracciando un 8
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Vedi A. Mastrocinque, Dinners with the Magus, in “Mene” 3 (2003), pp. 75-94. Sia gli gnostici sia i sacerdoti mitraici, che usavano esibirsi anche nelle case private, durante i banchetti, pur vantando nobili ascendenze, non disdegnavano gli espedienti da prestigiatore. Vedi J. Burckhardt, Costantino il grande e i suoi tempi [1853], Milano 1954, pp. 337355. Anche Dodds, in un suo fondamentale articolo del 1947, era piuttosto scettico (Theurgy and Its Relationship to Neoplatonism, in“Journal of Roman Studies” 37, 1947, pp. 55-69), mentre nel celebre The Greeks and the Irrational (BerkeleyLos Angeles 1951), avrebbe assegnato ai Misteri l’etichetta rimasta a lungo canonica di “ manifesto of the irrationalism” (p. 287).
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netto discrimine rispetto alla prassi grossolanamente “tecnica” di chi crea immagini divine artefatte (III 28, 170). Uno dei principali rimproveri rivolti a Porfirio è anzi quello di confondere i termini della questione, applicando metodi e ragionamenti filosofici a una materia teologica e teurgica.10 I Misteri sono qualcosa di più di uno sterile elenco di prescrizioni cultuali: rappresentano il tentativo di circoscrivere il più precisamente possibile, tenendo presente il dibattito culturale contemporaneo, la natura, i modi, le condizioni e i limiti di una visione “corretta”, priva di mediazioni materiali, che si offre “sostanzialmente” all’anima dell’epopte, cui è data la possibilità di trascendere la propria natura incarnata e mutare disposizione secondo il tipo di epifania. Ma, come detto, i Misteri, già solo in quanto “lettera aperta” a un interlocutore contemporaneo, si confrontano costantemente anche con l’attualità e gli usi del tempo.11
Vedi A. Smith, Iamblichus’ Views on the Relationship of Philosophy to Religion in De Mysteriis, in H.J. Blumenthal - E.G. Clark (ed. by), The Divine Iamblichus. Philosopher and Man of Gods, London 1993, pp. 74-86. 11 Illustra bene la tensione dialettica tra questi due estremi P. Athanassiadi, Dreams, Theurgy and Freelance Divination: The Testimony of Iamblichus, in “Journal of Roman Studies” 83 (1993), pp. 115-130. Il tema sarebbe rimasto attuale per tutto il IV secolo: basti pensare al processo intentato per divinazione a Massimo Efesio, uno degli uomini di fiducia di Giuliano, proprio ad Antiochia nel 371-372 (per le fonti e la frequente assimilazione teurgia-magia da parte dei cristiani, vedi J.10
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In quest’ottica, pur nell’aspirazione a un culto idealmente “immacolato” (e la divertita reazione all’ingenua credulità dei discepoli), Giamblico si mostra pienamente consapevole del forte potere psicagogico esercitato da una certa spettacolarizzazione delle cerimonie religiose. Così, proprio nel primo libro dei Misteri, a manifestazioni popolari come i rituali di fertilità sfacciatamente aiscrologici o le sacre rappresentazioni in cui gli dei obbediscono a passioni del tutto umane, viene riconosciuta un’indubbia forza simbolica ed evocativa (seppur ben diversa dalla teurgia). Davanti alle “brutture” di cerimonie del genere non bisogna scandalizzarsi, bisogna anzi leggerle come una sorta di presa di coscienza collettiva del disordine insito nella materia, prima dell’azione regolatrice degli dei (I 11, 38, 10-39, 13). Ed è precisamente nell’ambito di questa giustificazione di spettacoli all’apparenza piuttosto discutibili che il testo dei Misteri introduce, riprendendo tra l’altro la teoria aristotelica della catarsi, 12 un B. Clerc, Theurgia a legibus prohibita: à propos de l’interdiction de la théurgie , in “Revue des Études Augustiniennes” 42, 1996, pp. 57-64). 12 Vedi Aristotele, Poetica 1449b24-27; Politica 1341a4-16. Sebbene non esplicita, quella di Giamblico pare essere la prima ripresa in assoluto della celebre teoria aristotelica. La cosa del resto non deve sorprendere, data l’assidua frequentazione dell’opera dello stagirita da parte dei filosofi neoplatonici (vedi Clarke, Iamblichus’ De Mysteriis cit., p. 78). Argomentazioni simili si ritroveranno anche in Proclo (vedi A.R. Sodano in Giamblico, I misteri egiziani: Abammone, lettera a Porfirio, a c. di A.R. S., Milano 1984, pp. 254-255) e si inseriscono nella tendenza a un recupero “contestualizzato” – e non semplicemente una pacifica rivaluta-
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accenno all’uso delle sacre rappresentazioni, significativamente associate a commedia e tragedia (I misteri I 11, 39, 14-40, 8): Questi fatti hanno anche un’altra spiegazione, che è la seguente. Le forze delle passioni umane che sono in noi, quando sono impedite da ogni parte diventano più violente, mentre se sono brevi nella loro opera e sono condotte fino a un punto ben delimitato godono moderatamente e sono soddisfatte e, in seguito, purificate, cessano grazie alla persuasione la forza. Questoe ènella il motivo per cui, osservando le passionie non altruicon nella commedia tragedia, noi fermiamo le nostre e le rendiamo più misurate e le purifichiamo, e in certi spettacoli e audizioni sacre in cui hanno luogo delle turpitudini [tois theamasi tisi kai akousmasi ton aischron] ci liberiamo dei danni che da esse ci proverrebbero nella pratica [trad. Claudio Moreschini].
Giamblico risponde in queste righe a un’osservazione di Porfirio (I 11, 37,4-5) sulla suscettibilità divina alle passioni, che i riti sacri sembrerebbero presupporre: “In che modo, allora, molte sono le azioni della teurgia nei loro confronti, ed esse vengono compiute come se gli dei fossero sottoposti alla passione?”. L’ipotesi di una divinità influenzabile o manipolabile è però assolutamente da escludere: dio è impassibile, immutabile e autosufficiente (I 11, 3,16-38, 9). Quanto viene compiuto nei riti è simbolicamente consacrato agli esseri superiori, spesso da tradizioni antichissime
zione – della tradizione letteraria, epica e drammatica: per il primo aspetto vedi A.M.V. Pizzone, Sinesio e la sacra àncora di Omero , Milano 2006, pp. 73-76.
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(altre volte in virtù di un principio inesprimibile), per rendere loro onore, o per tentarne una rappresentazione; oppure, ancora, ed è appunto il caso di cerimonie come l’esposizione di falli o i drammi sacri, per un utile esclusivamente umano (I 11, 37, 6-16). Accanto all’accenno al tema catartico, nella risposta di Giamblico si fondono argomentazioni canoniche all’interno del platonismo. Se la necessità di considerare la divinità “impassibile” di fronte alle richieste e offerte dei mortali è più volte riproposta nelle Leggi (901c8; 905d3-e3; 908e4-5; 909b1), l’affermazione sull’impossibilità del dio di mutarsi ( metaballei) rimanda al celebre finale del secondo libro della Repubblica (381b8 ss.): qui viene ribadito il rifiuto per le rappresentazioni tradizionali, epiche e drammatiche, degli dei, che finiscono con il trasformarli in maghi (goetai) illusionisti, capaci di ingannare gli uomini con apparizioni (phantasiai), discorsi (logoi) e segni (semeia) fallaci (381e8-10): “Ma forse” dissi io “gli dei in sé stessi non possono mutare, ma potrebbero farci credere che essi si manifestino in svariati aspetti, per via di inganni e magie?” [trad. Mario Vegetti].
Un punto, questo, su cui Giamblico tornerà ancora, quando alla nuova domanda di Porfirio (II 10, 90, 10-11) sull’eventualità che gli dei, i demoni e i generi superiori cedano alla millanteria e facciano apparire rappresentazioni ingannevoli (phantasma phantazein), torna a insistere sulla perfetta autosufficienza divina
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rispetto ai logoi mortali. Se talvolta possono prodursi apparizioni ingannevoli, la ragione è da cercare in un errore nell’arte teurgica. Manifestazioni di questo tipo sono poi comuni nella volgare theagogia, una tecnica magica che non ha niente a che vedere con l’aspirazione a incontrare autopticamente la divinità (II 10, 93, 10 ss.): Altrettanto dunque noi diremo anche a proposito dei fantasmi. Se essi non sono la verità stessa, ma qualcos’altro che è come la realtà, essi non sono certamente negli spiriti che appaiono per conto proprio ma si presentano veri come quelli. Anch’essi partecipano alla menzogna e all’inganno, così come sono uguali le forme che si vedono negli specchi; così, essi inutilmente attirano il nostro pensiero [helkei ten dianoian] verso quello che non sarà nessuno dei generi superiori, ma saranno anch’essi delle deviazioni ingannevoli. L’imitazione della realtà, infatti, e l’essere rappresentato in modo oscuro e il diventare causa d’errore non si addicono a nessuno dei generi che sono chiari e veri, ma gli dei e i loro seguaci svelano le loro veredei immagini nonson propongono affatto deio fantasmi di sé, alla maniera riflessi eche prodotti dall’acqua dallo specchio [ en katoptrois mechanemata]. Del resto, a che scopo essi farebbero queste manifestazioni? […] Di conseguenza il dio non si trasformerà affatto in fantasma e non ne produrrà in altri esseri. […] E quello che tu stai dicendo ora, cioè che la creazione delle immagini [ eidolopoiia] è comune alla millanteria degli dei e dei demoni e degli altri, confonde tra loro tutti i generi degli esseri superiori e non lascia più sussistere nessuna differenza [trad. Claudio Moreschini].
Anche in questo caso assistiamo a una ripresa di temi forti
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appartenuti alla gnoseologia platonica dell’immagine.13 Innanzitutto, chiamando a paragone le figure riflesse nell’acqua o sugli specchi, Giamblico era consapevole di evocare immediatamente nel lettore la celebre metafora della linea spezzata del libro VI della Repubblica, che divide mondo sensibile e mondo noetico (509d6-510a3):14 Rappresentale allora come una linea divisa in due segmenti diseguali: dividi di nuovo secondo la stessa proporzione ognuno dei due segmenti, cioè quello del genere visibile e quello del genere pensabile: otterrai così, secondo il relativo grado di certezza e di incertezza, nel visibile, una prima sezione: le immagini. Per immagini intendo in primo luogo le ombre, poi i riflessi nell’acqua e sulla superficie dei corpi compatti, levigati e lucidi, e tutte le cose di tal genere, se mi capisci [trad. Mario Vegetti].
Chi guasta l’ordine corretto della ritualità teurgica si pone automaticamente (per sua responsabilità e non certo per millanteria divina) nella sezione delle immagini oscure, basando la propria ricerca su simulacri e allontanandosi dal principio autentico (Repubblica 510b4-8), ossia, in questo caso, dall’autentica epopsia. 13Sulla
radicale incompatibilità tra immagine e intelligibili in Giamblico vedi: C. Steel, L’Âme: Modèle et Image, in Blumenthal - Clark (ed. by), The Divine Iamblichus cit., pp. 16-18. 14 Anche nel Sofista c’è il riferimento alle immagini apparenti degli specchi (266c56), da confrontare con Timeo 46a1-4. E soprattutto con Repubblica 596d8-e3, in cui Socrate dice a Glaucone che per “rifare il mondo” basterebbe uno specchio rivolto verso il reale.
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Il richiamo all’eidolopoiia, inoltre, riporta alla lunga argomentazione del Sofista sull’arte imitativa, e in particolare su quella fantastica (236b3-c4): STRANIERO.
E come dobbiamo chiamare, d’altronde, ciò che appare somigliante a quanto è ben fatto perché lo si guarda da un punto di vista inappropriato, ma che, invece, a uno che fosse capace di guardarlo in modo adeguato nelle sue dimensioni proprie, neanche sembrerebbe una copia di ciò a cui si afferma sia simile? Non dobbiamo forse chiamarlo “apparenza” [ phantasma], visto che “appare” [phainetai], senza però essere simile a ciò di cui è apparenza? TEETETO. Senz’altro STRANIERO. Non è questa una parte molto vasta che abbraccia sia la pittura sia la tecnica imitativa nel suo insieme? TEETETO. Come no? STRANIERO. E allora, la tecnica che produce apparenze [ phantasmata], ma non copie, non faremo bene chiamarla “produttrice di apparenze” [phantastiken]? [trad. Francesco Fronterotta].
In sostanza alla theagogia , che lemolte ombre gettava sulla Giamblico legittimità applica delle pratiche teurgiche, accuse che Platone rivolgeva all’arte del suo tempo: produrre apparenze vane, attraenti, capaci di stregare il pubblico, allontanandolo però dalla conoscenza del vero e del bene. Al sofista prestigiatore platonico, creatore di immagini esteriori e mutevoli (Sofista 235b8c7, 264c12), si è sostituito il teurgo imbroglione. Alla poesia drammatica e alla sua mitologia popolare, le sacre rappresen-
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tazioni a carattere mistico e le cerimonie di divinazione. E i phantasmata, intesi in senso traslato come “ciò che appare”, come rappresentazioni fallaci, diventano a questo punto, con una risemantizzazione che si inserisce sulla scia di una lunga storia speculativa,15 “apparizioni” a pieno titolo, comandate a bella posta dai falsi teurgi, ma destinate a trascinare la ragione discorsiva (helkein dianoian) lontano dai generi superiori, ossia dalla verità: i phasmata infuocati che popolano l’immaginario dei papiri magici (PGM IV 2727) o degli Oracoli Caldaici (142).16 Anche l’apprezzamento per la funzione educativa svolta dal comico, motivo certo tradizionale,17 tema longevo che compare con Aristofane (Acarnesi 628; 656-58; Rane 686-87 e 1055), ancora riecheggia in Luciano (Anacarsi 22) e perdura fino al sesto secolo d.C. con Coricio (Apologia dei mimi 32, 2, 106), come vedremo ha una sua ragion d’essere nella realtà culturale tardoantica. Così 15La
risemantizzazione porta qui, paradossalmente, a recuperare in parte il significato srcinario pre-platonico, di apparizione dell’anima di un defunto, di cui in Platone rimane solo qualche traccia: Vedi A. Capra, La carne e il fantasma. Il Sofista di Platone e l’ombra del filosofo, in “Orbis Tertius” 1 (2008), in corso di stampa. 16 Vedi H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurgy, nouvelle éd. par M. Tardieu, Paris 1978, p. 241 n. 53. 17 Vedi P. Angeli Bernardini in Luciano, Anacarsi o Sull’Atletica, introd., trad. e commento a c. di P. A. B., Pordenone 1995, p. 78 n. 79; M.S. Celentano, Lo spazio comico e alcune figure retoriche, in Id. - P. Chiron - M.-P. Noel (éd. par), Skhema/Figura. Formes et figures chez les Anciens . Rhétorique, philosophie, litérature, Paris 2004, p. 253s.
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pure il riferimento al carattere osceno di certe rappresentazioni religiose nasconde forse qualcosa di più di una semplice allusione erudita a motivi diventati puramente letterari, connessi con manifestazioni cultuali “mimetiche” della Grecia arcaica e classica ormai estinte.18 In realtà, la testimonianza di Giamblico sembra combaciare con l’impressione di un interscambio tra scena teatrale e scena cerimoniale che si ricava dai documenti contemporanei. Certo, non si tratta di un’indagine facile, dato il carattere sfuggente, a partire dal terzo secolo d.C., dei documenti relativi all’organizzazione teatrale: eppure solo un esame più ravvicinato delle pratiche cultuali e sceniche diffuse in età imperiale nelle grandi metropoli dell’oriente greco potrà restituire all’affermazione di Giamblico quelle sfaccettature e quegli addentellati alla realtà oggi inesorabilmente sfocati, ma certo nitidi per un lettore dei primi anni del quarto secolo d.C.19 Tra tutti, i misteri eleusini, o anche le ierogamie, per cui possiamo ricordare a titolo d’esempio le ben note testimonianze di Aristotele ( Costituzione degli Ateniesi III 5) e Demostene ( A Neera 73) relative alle Antesterie, quando la moglie dell’Arconte Basileus si univa in nozze sacre con lo xoanon (un’effigie lignea arcaica, sovente aniconi ca) di Dioniso. L’esibizione dei falli era poi connessa con il culto di Osiride, che – lo vedremo – in età imperiale era andato assumendo un carattere misterico e “drammatico”: vedi le note di Sodano in Giamblico, I misteri egiziani cit., p. 253. 19 Su questa difficoltà insita nel tipo di fonti – e su un’ottica forse viziata dai sopravvissuti testi polemici cristiani – vedi F. Dugast, Spectacles et édifices de 18
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Mimi, pantomime e misteri Una delle principali novità introdotte verso la fine del secondo secolo d.C. nei programmi delle grandi feste dell’oriente greco – le ricorrenze religiose rimanevano infatti l’occasione principale, anche se non più l’unica, per allestire spettacoli teatrali – fu l’ammissione agli agoni sacri delle competizioni di danza pantomimica.20 Luciano, nel suo libello Sulla danza, composto probabilmente ad Antiochia attorno alla metà degli anni sessanta del secondo secolo,21 ne attesta ancora l’esclusione ufficiale (motivandola in modo iperbolicamente lusinghiero), e sottolinea lo scarto rispetto a quanto avveniva in Italia – per altro già dai primissimi anni dell’età cristiana (32): Se la pantomima non partecipa ai giochi pubblici, credo sia per questo: gli organizzatori dei giochi la considerano una pratica troppo spectacles dans l’antiquité tardive: la mémoire prise en défaut , in “Antiquité tardive” 15 (2007: Jeux et spectacles dans l’antiquité tardive), pp. 11-20. 20Faranno
eccezione le quattro grandi festività di Delfi, Olimpia, Corinto e Nemea. Per una sintetica ma efficace storia della pantomima, vedi Tedeschi, Lo spettacolo cit., pp. 115-129; per lo sviluppo in età tardoantica, O. Musso, Gli Spectacula Theatrica nel tardo impero, in 387 d.C. Ambrogio e Agostino. Le sorgenti dell’Europa, cat. della mostra, Milano 2003, p. 116s.; sempre ricca poi la voce “Pantomimus” curata da E. Wüst in Realencyclopädie der classischen Altertumwissenschaft (Pauly-Wissowa) vol. XVIII, tomo III (1949), coll. 833-869. Da ricordare che pressoché tutti i grandi santuari di età ellenistica possedevano una cavea annessa al complesso sacro destinata agli spettacoli: così nel Serapeo di Alessandria, nell’Asklepieion di Pergamo, nel santuario degli Dei Siriani a Delos. 21 Cfr. C.P. Jones, Culture and Society in Lucian, Cambridge (Mass.) 1986, p. 70 n.7.
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importante e seria per essere chiamata a un confronto. Ed evito di dire che la città italiana più nobile di srcine Calcidica [ scil. Napoli] ha introdotto la pantomima per abbellire i suoi giochi [trad. mia].22
La svolta avviene apparentemente verso l’ultimo ventennio del secolo, nell’alveo del culto imperiale, quando cioè molti dei grandi festival di Grecia o d’Asia Minore furono associati alla venerazione per il sovrano, come accadde per gli Asklepieia di Pergamo al tempo di Commodo.23 Se questa è la contingenza storica, dal punto di vista dei gusti del pubblico l’inserimento degli agoni pantomimici nel programma dei festival religiosi è una chiara testimonianza della predilezione per un “teatro dell’espressione corporea, della musica e della danza, cioè [per] quelle forme sceniche che allettavano la vista e l’udito a scapito del teatro della parola, apprezzato dagli intellettuali tradizionalisti”,24 un gusto tipico, a tutti i livelli, della produzione teatrale post-classica. Nel festival greco di Napoli le gare pantomimiche dovettero essere introdotte verso il 100 d.C. Per un commento sintetico di inquadramento del passo, vedi Luciano, La danza, a c. di S. Beta, trad. M. Nordera, Venezia 1992, ad locum. 23 Seguendo la vicenda biografica (ed epigrafica) del pantomimo Tiberio Giulio Apolausto, W.J. Slater ha documentato in modo chiaro ed esaustivo le tappe della trasformazione: vedi The Pantomime Tiberius Iulius Apolausts, in “Greek Roman and Byzantine Studies” 36 (1995), pp. 263-292; in particolare pp. 289291 che documentano i rapporti, non sempre di cooperazione, tra le corporazioni degli artisti di Dioniso e quella dei pantomimi. 24 G. Tedeschi, Lo spettacolo in età ellenistica e tardoantica , in “Papyrologica Lupiensia” 11 (2002), p. 112. 22
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La storia stessa della pantomima conferma i cambiamenti delle preferenze del pubblico. Evoluzione della danza greca, lo spettacolo pantomimico era già in nuce nella nota scena finale del Simposio (IX 43) di Senofonte, in cui una coppia di ballerini danzava le vicende di Dioniso e Arianna. Si va poi affermando decisamente attorno al primo secolo a.C., riscuotendo particolari consensi a Roma, dove artisti come Batillo e Pilade introducono l’accompagnamento corale e rafforzano la parte musicale, e dove il genere acquisisce, grazie al favore della casa imperiale, una dimensione spiccatamente pubblica, che si diffonderà poi anche nel resto del mondo greco-romano.25 A questo successo avrà contribuito anche il plurilinguismo dell’Impero: uno spettacolo principalmente basato sul corpo garantiva infatti una fruibilità pressoché universale. Un analogo processo di progressiva affermazione e “istituzionalizzazione” conosce l’altro genere teatrale di largo consumo, il mimo, già elevato al rango di letteratura da Sofrone nel quinto secolo e dottamente contaminato con il giambo da Eronda nel terzo secolo. Ebbene, questi spettacoli, amatissimi dal pubblico e vitali fino alla fine dell’antichità, ma il più delle volte di contenuto
25
Vedi E.J. Jory, The Literary Evidence for the Beginnings of Imperial Pantomime , in “Bulletin of the Institute of Classical Studies” 28 (1981), pp. 147-161.
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quotidiano e spesso francamente osceno, tanto da essere oggetto di continui attacchi e tentativi di censure da parte degli intellettuali pagani e cristiani, figurano, nella ricca documentazione epigrafica greca e latina superstite, tra i munera offerti dai sacerdoti in occasione delle feste imperiali sin dal tempo di Tiberio.26 La simultaneità di occasione festiva ed esecuzione pubblica di mimi e pantomime rappresenta quindi il primo tassello della cornice in cui inquadrare l’interscambio tra scena e liturgia: tenendo presente questa coesistenza, diventa più plausibile la progressiva contaminazione, in età tardoantica, tra movenze e soluzioni tecniche tipiche di quei generi teatrali e certe manifestazioni religiose, come appunto teurgia e misteri, già costruite in partenza su una coreografia rituale e quindi a maggior ragione suscettibili di innesti. Non si tratta solo di ipotesi, del resto. L’incrocio tra i due mondi è testimoniato dalle vive preoccupazioni dell’imperatore Giuliano, che, arrivato ad Antiochia a metà del quarto secolo, aveva coltivato l’utopia di riformare alla radice il teatro, restituendolo
26
Vedi Slater, The Pantomime cit., p. 290s. Per i dettagli sulla storia del genere vedi ancora Tedeschi, Lo spettacolo cit., pp. 129ss.; G.F. Gianotti, Letteratura e spettacoli in età imperiale, in M. Verzàr-Bass (a c. di), Il teatro romano di Trieste. Monumento, storia, funzione, Roma 1991, pp. 312-329.
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alla sua forma srcinaria legata al culto di Dioniso. Sogno ben presto sfumato davanti alla realtà dei fatti e alle granitiche preferenze dgli spettatori: anche solo un tentativo in quella direzione gli avrebbe alienato per sempre le simpatie del pubblico pagano a tutto vantaggio dei cristiani. E tuttavia Giuliano ha una raccomandazione (Ep. 89, 304b-d): Che nessun sacerdote frequenti categoricamente mai questi licenziosi spettacoli teatrali, né introduca in casa propria [attori]. È assolutamente sconveniente. Se fossi stato in grado di eliminare alla radice queste forme di spettacoli dai teatri, così da restituirli a Dioniso purificati, avrei tentato ogni cosa con tutto il mio entusiasmo per riuscirvi; ma rendendomi conto che non era possibile, e che, comunque, se anche fosse stato apparentemente possibile, l’operazione in sé avrebbe portato degli inconvenienti, ho rinunciato del tutto a quest’ambizione. Eppure, chiedo ai sacerdoti di evitare e abbandonare al popolo l’oscenità dei teatri. Nessun sacerdote si rechi in teatro, né abbia come amici attori o guidatori di carri, danzatori o mimi varchino sua non soglia. Se alle proprio vuole si rechi né esclusivamente ai sacri agoni, la a cui solo donne viene vietata la partecipazione attiva, ma anche quella come spettatrici [trad. mia].
Giuliano stesso si rende quindi conto dell’anacronismo delle proprie aspirazioni, anche perché in età imperiale la tanto esecrata danza pantomimica era diventata insostituibile mezzo di trasmissione precisamente per quel patrimonio di miti e storie pagane – dai racconti teogonici di Esiodo alle sventure di
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Cleopatra – che l’Apostata si sforzava di conservare. Al punto che Luciano nella sua opera Sulla danza, lavorando sui soggetti tradizionali delle pantomime (38-60), costruisce tutta un’impalcatura ideologica volta a dimostrare la superiorità culturale greca e tale da concorrere con il grandioso affresco mitografico di Apollodoro.27 E se Luciano insiste sulle doti di memoria e profonda conoscenza del passato (fino a farsi simile al Calcante omerico), insomma sulla dottrina necessaria al buon danzatore (36, “conoscere il necessario e interpretarlo”), Libanio, ancora ad Antiochia a metà del quarto secolo, ne riconosce più che esplicitamente la funzione educativa; e questo in un discorso che, pur presentandosi come risposta fittizia (con uno scarto di due secoli) alla perduta orazione di Elio Aristide contro i pantomimi, voleva probabilmente mettere in guardia Giuliano e i circoli colti della città da intenti troppo rigidamente restauratori (In difesa dei mimi, Or. 64, 112):28
27
28
Vedi M.H. Garelli-François, La pantomime antique ou les mythes revisités: le répertoire de Lucien (Danse 38-40), in “Dioniso” 3 (2004), pp. 108-119. Sul successo della pantomima, vedi ancora Cassiodoro, Varie IV 51 (lettera di Teodorico a Simmaco, 507-511 d. C.). Rimando alla ricostruzione di R. Anastasi, Libanio e il mimo, in La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, atti del convegno, Messina 1984, pp. 236-258. Esamina la posizione dell’orazione nell’ambito del dibattito della seconda sofistica M. Casella, Les spectacles à Antioche d’après Libanios, in “Antiquité tardive”, 15 (2007: Jeux et spectacles dans l’antiquité tardive), pp. 99-112 (qui 102s.).
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Così, finché fiorirono i tragici, essi furono in teatro i maestri comuni per il popolo tutto; dopo che la loro attività venne meno e solo le categorie più fortunate poterono fruire dell’educazione impartita nei Musei, mentre la folla ne restava priva, un dio, impietositosi per la mancanza di cultura della massa, introdusse, in cambio della tragedia, la danza, perché insegnasse alle folle le antiche gesta: e così ora il vasaio si trova nella possibilità di parlare sulla casa di Priamo e Laio con chi ha studiato nelle scuole [trad. Rosario Anastasi].
L’idea di una funzione paideutica del teatro, testimoniata, come abbiamo visto in principio, pure da Giamblico, permaneva dunque anche in età imperiale, e le preoccupazioni ideologicopropagandistiche di Giuliano dimostrano che non si trattava solo di un frigido cliché retorico. Il motivo si era trasformato evolutivamente, adeguandosi alle nuove forme sceniche che, nella fruizione concreta, avevano definitivamente sostituito tragedia e commedia. Ma non è tutto. Le testimonianze di Libanio e Luciano ci consentono di sistemare un’altra tessera del quadro “sincretico” tra messa in scena teatrale, cerimonie mistico-religiose e credenze magico-popolari. L’abitudine dei pantomimi a portare in scena in modo riconoscibile temi mitici e divinità pagane offriva infatti stereotipi universalmente validi e noti al pubblico più vasto; stilemi che facilmente potevano essere sfruttati con efficacia anche in contesti devozionali.
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Così, ancora la sezione “sui magi” nei Philosophoumena di Ippolito ci fornisce una significativa messe di informazioni sull’assimilazione tra determinate forme di mantica popolare e rappresentazione scenica del divino. A colpire è soprattutto l’analogia lessicale. Nella descrizione dei preparativi per quella che dovrebbe essere una cerimonia di “lecanomanzia” 29 si legge (IV 35, 1-2):
Ma non tacerò nemmeno del trucchetto in cui consiste la loro lecanomanzia. Dopo aver approntato una stanza chiusa e aver dipinto il soffitto d’azzurro tiran fuori e dispongono certi paramenti azzurri; al centro viene posto in terra un bacile pieno d’acqua, che mostra il riflesso dell’azzurro che vi si proietta dentro come fosse il cielo. Il pavimento poi ha un foro nascosto, sopra il quale viene posto il bacile che ha un fondo di vetro, per il resto invece è di pietra. Al di sotto c’è un piano segreto, nel quale si muovono le altre comparse [sympaiktai] assumendo e mostrando le posture [schemata] di quegli dei che il mago intende far comparire. Così, vedendoli, la vittima del raggiro rimane profondamente impressionata dal mago e finisce per credere a tutte le sue parole [trad. mia].
In questo breve testo due voci tecniche segnalano inequivocabilmente la parentela di tutta la messa in scena organizzata dal mago con il mondo del mimo e della pantomima: schemata e sympaiktes. 29
Ossia di lettura del futuro tramite l’esame dei movimenti di due liquidi diversi mescolati in un recipiente: normalmente acqua e olio.
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Il primo, schema – intrinsecamente polisemico, significativamente presente con valori diversi nella terminologia retorica, medica, filosofica – designava in ambito scenico la postura corporea utile a rendere immediatamente riconoscibili i personaggi mitici o divini che intervenivano nella pantomima. Già inserito nel lessico della danza a partire dall’età classica (e piuttosto importante anche 30
per la riflessione platonica sulla mimesi), lo schema rappresentava una sorta di didascalia non verbale rivolta al pubblico, capace di veicolare sentimenti e valori e dotata tra l’altro di una sua rilevante applicazione anche in ambito figurativo.31 Plutarco, nelle Questioni conviviali, spiega in modo abbastanza chiaro il ruolo dello schema nell’esecuzione della danza pantomimica, distinguendolo dagli altri due fattori costitutivi, il movimento, che suggerisce i sentimenti, e la deissi, che consiste nel mostrare concretamente un dato di realtà, come il cielo o la terra (747c2-747e4):32 [Sono chiamate] figure [schemata] le posture e pose a cui sono finalizzati i movimenti compiuti, quando i ballerini rifacendo la
Vedi M.L. Catoni, Schemata. Comunicazione non verbale nella Grecia antica, Pisa 2005, pp. 133-143. 31 Vedi M. Cadario, Schemata e denominazione degli opera nobilia nel lessico critico grecoromano, con una nota a proposito del Satiro periboetos di Prassitele, in preparazione. Ringrazio l’autore per avermi messo a disposizione il materiale ancora in fase di lavorazione e per aver risposto a tutte le mie domande “iconografiche”. 32 Su questo passo, in cui emerge anche l’analogia tra danza e pittura, vedi ancora Catoni, Schemata cit., pp. 211-13. 30
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figura di Apollo o Pan o di un Bacco, ne mantengono l’aspetto, come in un quadro […] Così nella danza la figura è un’imitazione dell’aspetto e dell’atteggiamento [trad. mia].
In sostanza i compari del mago si saranno comportati come esperti pantomimi, eseguendo con la chiarezza auspicata da Luciano (Sulla danza 37) quegli schemata che gli astanti erano abituati a vedere messi in scena a teatro e ad ammirare nelle rappresentazioni figurative degli dei pagani. Non per niente nel Corpus Hermeticum, che ci ha conservato una serie di “discorsi sacri” a sfondo iniziatico 33 testimonianza del sincretismo magicofilosofico tipico dell’Egitto greco-romano, si sottolinea che l’autentica visione della bellezza divina, in quanto svincolata da qualsiasi materialità e puramente noetica, è anche priva di “ schema, colore, corpo” (VI 3; VIII 2). Di nuovo troviamo tratti che appartenevano alla tradizione filosofica platonica: schema e chroma sono “nella lingua di Platone, sia i mezzi tecnici utilizzati per l’imitazione visuale da pittore e scultore, sia i tratti che, dell’srcinale, essi possono imitare”. 34 Se poi a queste due componenti si aggiunge o sostituisce la voce, ecco che al pittore subentra l’attore. Così ammettere lo schema in una visione che dovrebbe essere teofanica significa ricadere in quel mondo di 33 34
Nella tipica forma del dialogo di trasmissione sapienziale padre-figlio. Vedi Catoni, Schemata cit., p. 281s., con tutta una serie di passi di riferimento.
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immagini create e ingannevoli stigmatizzato da Giamblico, essere precipitati dall’epopsia divina alla messa in scena umana. A questo punto grazie alle fonti letterarie siamo arrivati a farci un’idea abbastanza precisa dei modi con cui i rituali di devozione privata potevano attingere all’universo rappresentativo degli spettacoli. Resta da vedere se lo stesso impianto scenico è ravvisabile anche nelle fonti documentarie e che conclusioni se ne possono trarre riguardo a una realizzazione tecnica mutuata dal teatro. Qualcosa di molto simile alla pantomima descritta da Ippolito si trova in effetti anche in due celebri cerimonie “di iniziazione” provenienti da Alessandria d’Egitto e conservate dai papiri magici: la “cosmopoiia di Leida” e la cosiddetta “liturgia di Mitra”.35 Si tratta di due riti di purificazione, in cui il miste, grazie all’autopsia, ottiene in sorte una nuova configurazione astrale (corrispondente al giorno dell’iniziazione) e consegue quindi una
35
I due testi, conservati rispettivamente a Leida e a Parigi, sono pubblicati, oltre che nella raccolta dei papiri magici (rubricati come PGM XIII 1-343 – 343-646 per la seconda redazione del testo – e IV 475-829), in V.R. Merkelbach, Abrasax. Ausgewählte Papyri religiösen und magischen Inhalts, vol. III, Zwei griechischägyptische Weihezeremonien (Die Leidener Weltschöpfung. Die Psichai-Aion-Liturgie), Opladen 1992, pp. 7-24; 170-212 (con traduzione tedesca). Il carattere mitraico della liturgia di Parigi è tutt’altro che sicuro, ma la denominazione è rimasta ormai convenzionale: si tratta di un testo stratificato in cui interagiscono motivi dei culti mitraici, della religione egiziana e della vulgata filosofica greca. Per una discussione (e una traduzione italiana del testo) vedi A. Mastrocinque, Studi sul mitraismo, Roma 1998, pp. 105-120.
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specie di rinascita nel segno della divinità che ha presieduto al rito. Nonostante il partecipante sia un singolo (o eventualmente una coppia, nel caso della liturgia “mitraica”), il rituale si svolge nel segno di una forte teatralizzazione, una vera e propria sacra rappresentazione.36 Sulla scena, a interagire con il miste, compaiono diversi personaggi: nella Cosmopoiia, l’iniziando, durante la prima delle due notti della celebrazione, riceve la visita di un messaggero divino, che prelude all’apparizione di Serapide la seconda notte. A sua volta, poi, l’epopte deve prepararsi al momento culminante della cerimonia ripetendo la creazione dell’universo (da qui il nome assegnato al rituale), prima in terza persona, poi impersonando e mimando le varie divinità via via coinvolte nell’atto creativo. Ancora più complessa, se possibile, la strutturazione della liturgia “mitraica”, una sorta di viaggio cosmico (ritorna il tema della levitazione), tra avvicendarsi di pianeti e porte infuocate che si schiudono sulla “realtà” divina, incontri con la divinità solare, visioni di vergini dalla testa di serpente e dei dalla testa di toro attorno al miste, fino al momento culminante dell’epopsia (PGM VI 695-700): “un dio grandissimo che scende, dall’aspetto di luce, alquanto giovane, dalla chioma d’oro, con una tunica bianca, una 36
Vedi Merkelbach, Abrasax cit., p. 5s.
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corona d’oro e brache, il quale tiene con la mano destra una spalla aurea di torello” (trad. Attilio Mastrocinque). Queste sacre rappresentazioni, nella loro complicata messa in scena, sembrano presupporre una conoscenza delle raffinate tecniche sceniche del teatro ellenistico. Così, se le movenze delle varie divinità astrali che popolano queste iniziazioni saranno state abbastanza simili a quelle dei sympaiktai che si sbirciavano dal fondo del bacile nella casa del mago, gli accorgimenti tecnici necessari all’allestimento della scenografia della liturgia mitraica (movimenti astrali, apertura e chiusura delle porte ecc.) rimandano alla contaminazione con un altro genere piuttosto fortunato in età ellenistico-romana: il teatro d’automi. Lo scrittore di meccanica Erone, nel primo secolo d.C., ne testimonia la popolarità, almeno ad Alessandria, e attesta anche l’altissimo livello di complessità e raffinatezza a cui erano arrivate le realizzazioni sceniche. Al pari di quanto accadeva per la pantomima, anche in questo caso si registra – sempre nel segno di una preferenza del pubblico per il dato scenografico e spettacolare, non verbale – una straordinaria commistione tra forme “alte” e forme “basse” di produzione teatrale: Erone (Sugli automi 22-28) testimonia la realizzazione, in forma di “dramma meccanico” semovente, di cinque scene che raccontavano la vicenda di Nauplio, un arrangiamento in cui un’ipotesi recente addirittura scorgerebbe lo
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scheletro dell’omonima perduta tragedia sofoclea.37 Se l’abilità tecnica degli artigiani alessandrini era arrivata a un livello tale da tradurre in movimenti d’automi, in modo godibile e riconoscibile per il pubblico della metropoli, miti ripresi anche dalla grande tragedia attica, a rendere per la meraviglia degli spettatori i sommovimenti del mare in tempesta, allora diventano meno inverosimili anche i pianeti in movimento e le porte infuocate della liturgia “mitraica”, che si aprono automaticamente davanti al miste. Il quadro si è fatto ora decisamente più nitido: da una parte gli aspetti “tecnici” dei rituali magico-religiosi paiono, almeno in parte, essere mutuati dalla meccanica teatrale elaborata dalla scena post-classica, particolarmente incline agli effetti spettacolari; dall’altra i contenuti visivi potevano venir presi in prestito dagli schemata pantomimici, veicolo del comune immaginario relativo alla divinità. C’è da chiedersi allora se anche i contemporanei fossero consapevoli di questo processo di appropriazione. Apparentemente sì. Ritornando alla lecanomanzia di Ippolito, un’altra voce, oltre a schema, ci era parsa significativa: sympaiktes. 37
Vedi C.W. Marshall, Sophocles Nauplius and Heron of Alexandria, in A.H. Sommerstein (ed. by), Shards from Kolonos: Studies in Sophoclean Fragments, Bari 2003, pp. 261-279.
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Piuttosto raro,38 il termine designa precisamente le comparse che nel mimo circondavano i due attori principali, maschio e femmina. Incontriamo così la definizione di mimo come paignion, secondo l’articolazione interna al genere illustrata ancora da Plutarco nelle Questioni conviviali (712e2-712f2): “Ebbene”, dissi, “tra i mimi, ve ne sono alcuni che vengono chiamati
paignia
favole, altri farse [per l’eccessiva ]. Nessuno dei due credo siae laadatto simposio, le favole lunghezza dell’azione difficileal messa in scena; le farse, piene di buffonate e di chiacchiere, non
38
Più diffuse le forme paistes, paister, sympaistor o sympaistes. Altra attestazione, con la stessa accezione di Ippolito, si trova nella Storia lausiaca 37, 2, in cui viene raccontato un episodio significativo (per l’astio dei cristiani verso il mondo dello spettacolo pagano, vedi L. Lugaresi, Regio aliena. L’atteggiamento della chiesa verso i luoghi di spettacolo nella città tardoantica, in “Antiquité tardive” 15, 2007: Jeux et spectacles dans l’antiquité tardive, pp. 21-34, con bibliografia) di conversione di una compagnia di mimi da parte di Serapione, detto, per il suo tipico abbigliamento, Sindonite. Serapione si vende, insieme a un sympaiktes, a un gruppo di mimi e rimane con loro finché, a forza di discutere le scritture, non li converte tutti al cristianesimo, a cominciare dalla coppia di capocomici. Tutto l’episodio è giocato sull’idea che Serapione metta in scena un “dramma della conversione”, in cui paradossalmente lui, l’unico veramente libero grazie alla fede, veste i panni dello schiavo. E difatti al momento di svelare ai due neoconvertiti la propria identità di asceta, si rivolge loro con queste parole: “Voglio svelarvi il segreto della mia invenzione teatrale [to mysterion tou dramatos]” (trad. M. Barchiesi). È il “sogno cristiano di annessione del teatro” tipico di molti testi agiografici (vedi Lugaresi, Regio aliena cit., p. 34, n. 85). Per un commento, anche relativo all’incompatibilità tra carriera di mimo e cristianesimo (problematica alla fine del paganesimo per gli allestimenti degli spettacoli: cfr. E. Soler, L’État
impérial romain face au baptême et aux pénuries d’acteurs et d’actrices dans l’antiquité tardive, in “Antiquité tardive” 15, 2007, pp. 47-58), vedi Palladio, La storia lausiaca, intr. di C. Mohrmann, testo critico e commento a cura di G.M.J. Bartelink, traduzione di M. Barchiesi, Milano 1974, pp. 368s.
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sono spettacolo degno nemmeno degli schiavi che vi portano i sandali, sempre che i padroni abbiano del buon senso; eppure in molti a fanno rappresentare, persino in presenza delle loro donne e dei fanciulli impuberi, imitazioni di fatti e discorsi che mettono l’anima in una condizione di turbamento peggiore dell’ebbrezza” [trad. mia].
In realtà nella sezione “contro i magi” dei Philosophoumena termini dell’ambito semantico del paignion compaiono diverse volte, e il fatto che questa ricorrenza sia peculiare esclusivamente dei paragrafi 28-42 del libro IV fa pensare a un tratto derivato dalla fonte di Ippolito. Quindi se sympaiktes indica quasi sempre il “complice” del mago, formule come houtos paizetai (“così viene messo in scena”) chiosano la spiegazione di diversi trucchi, come la riproduzione del tuono (IV 32, 2), i giochi di specchi e di luci tramite cui viene simulata la discesa della luna (IV 37, 2-4), o l’apparizione dell’immagine infuocata di Ecate. Un passo, quest’ultimo, che ci riporta direttamente a certe pratiche teurgiche. Il fuoco, l’invocazione di Ecate, l’immagine del destriero che cavalca l’etere: tutti elementi la cui somiglianza con una suite di tre Oracoli Caldaici (146-147), che descrivono i segni preliminari all’apparizione della dea (fuoco vorticoso, un destriero luminoso, un bimbo arciere a cavallo), è stata riconosciuta da tempo.39 39
Cfr. Dodds, Theurgy cit., p. 68s.; Lewy, Chaldaean Oracles cit., pp. 240-246.
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Dato tanto più significativo se si pensa che nell’epifania del fanciullo cavaliere descritta dal frammento 146, il lettore contemporaneo poteva trovare un riflesso sincretistico di diversi temi figurativi, di ascendenza isiaca, mitraica, ebraica e danubiana, tutti dotati di significato soteriologico.40 Finalizzata a ottenere un vaticinio dalla dea, la complessa messa in scena che porta all’“apparizione” di Ecate, per quanto inserita nel quadro di una devozione di tipo privato, conosceva una partecipazione collettiva e, una volta di più, richiedeva la condivisione di un patrimonio figurativo comune, in cui lo schema riconoscibile della divinità, esplicitamente menzionato, giocava un ruolo fondamentale (IV 35, 3-36, 2): Fa bruciare un essere divino, dopo averne riprodotto l’effigie, secondo la figura [schema] desiderata; poi, di nascosto, la spalma di un unguento preparato in questo modo, mescolando porpora laconica e bitume zacinzio alla parete, l’unguento, con. Poi, un come gran ispirato, bagliore,avvicina prendela lanterna fuoco. Con questoe stratagemma dà l’impressione che Ecate vaghi in aria tutta infuocata; dopo aver nascosto in un luogo a scelta una comparsa [ sympaiktes], mettendosi accanto agli astanti tratti in inganno, li convince dicendo che mostrerà loro la divinità infuocata che cavalca per aria. E prescrive loro in modo solenne di proteggere velocemente gli occhi non appena scorgano la fiamma per aria, e di coprire il volto, 40
Vedi S. Iles Johnston, Riders in the Sky: Cavalier Gods and Theurgic Salvation in the Second Century A.D., in “Classical Philology” 87 (1992), pp. 303-321.
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stendendosi a terra proni, finché non sentano il suo segnale. E dopo aver dato queste istruzioni, in una notte senza luna, si mette a cantare così [segue inno]. Dopo che ha pronunciato queste parole si scorge una fiamma che passa attraverso l’atmosfera, e gli astanti spaventati dall’aspetto soprannaturale della dea, coprendosi gli occhi, si buttano a terra muti. Il trucco centrale di tutto il meccanismo è questo: la comparsa [sympaiktes], a cui aveva comunicato di rimaner nascosta fino alla fine dell’inno, tiene in mano un nibbio o un rapace fatto su nella stoppa, e dopo avergli dato fuoco, lo lascia andare. Quello, scosso dalle fiamme, si slancia verso l’alto e rende il suo volo più vertiginoso; così quelli, sciocchi, alla sua vista, si nascondono, come se stessero assistendo a un fenomeno divino [trad. mia].
Procedure molto simili a quelle descritte da Ippolito figurano anche nell’armamentario di trucchi e sotterfugi dispiegato da Alessandro, fondatore ad Abonuteico attorno al 145 d.C. di un fortunato oracolo di Asclepio-Glicone, e satirizzato da Luciano nell’opuscolo Alessandro o il falso profeta.41 Le somiglianze sono così stringenti che per molto tempo, per tutto l’Ottocento, si è pensato che il destinatario dell’operetta, Celso, accreditato da Luciano come autore di un Contro i magi, fosse proprio l’anonima fonte dei Philosophoumena.42 Il falso profeta non risparmia i dettagli
Per un inquadramento storico-religioso dell’esperienza di Alessandro, vedi G. Sfameni Gasparro, Alessandro di Abonutico, lo “pseudo-profeta”, ovvero come costruirsi un’identità religiosa, in “Studi e materiali di storia delle religioni” 62 (1996), pp. 565-590 (con ampia bibliografia). 42 Vedi Ganschinietz, Hyppolytos’ Capitel gegen die Magier cit., pp. 12-24. 41
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sulle scenografie allestite da Alessandro, a cominciare dal travestimento indossato per pronunciare gli oracoli in forma di dio-serpente (12; 15-16).43 Luciano stesso usa immagini teatrali per descrivere gli artifici escogitati dall’impostore.44 Ma un un particolare soprattutto attira l’attenzione del lettore: l’idea di fondare un nuovo oracolo di Asclepio viene ad Alessandro quando entra, per così dire, in società con un certo Coccona, da Bisanzio, “uno di quegli scrittori di cori che concorrono negli agoni” (6). Purtroppo il termine con cui Luciano designa l’attività
Colpisce in particolare la complessa maschera serpentina (12): “Da molto tempo era stata creata e costruita a loro beneficio una testa di serpente in tela, dalle fattezze in certo modo antropomorfe, tutta dipinta e molto verisimile, in grado, grazie a certi fili di crine, di aprire e richiudere la bocca; inoltre ne spuntava una lingua nera e biforcuta di serpente, anch’essa manovrata da fili di crine” (trad. mia). 44 Il maestro e amante di Alessandro, un mago e incantatore, proveniente da Tiana, apparteneva “alla cerchia del famoso Apollonio e ne conosceva tutta quanta la messa in scena [ tragodian]” (5); il mago approda nella sua terra natale, Abonuteico, accompagnato da un “apparato tragico [meta toiautes tragodias]”, mentre nel pronunciare gli oracoli, il grande serpente di Pella era destinato a “recitare il dramma insieme a lui [syntragodeson], anzi a esserne il protagonista” (12); grazie agli epicurei, nelle città a un certo punto cominciano a sorgere dubbi sulla “stregoneria e l’allestimento teatrale [syskeue tou dramatos]” del mago (25). Su queste occorrenze vedi O. Karavas, Lucien et la tragédie, Berlin-New York 2005, pp. 192s.; 195; 203s. Del resto la vita stessa del falso profeta viene costruita da Luciano sulla falsariga di una tragedia, in cinque atti più un prologo, fino alla morte (beffardamente per una volgare cancrena al piede, che fa le veci del deus ex machina), “conclusione della tragica vicenda di Alessandro e catastrofe di tutto il dramma” (60). Su questa struttura vedi R.B. Branham, The Comic as Critic: Revenging Epicurus: a Study of Lucian’s Art of Comic Narrative , in “Classical Antiquity” 3 (1984), pp. 143-163. 43
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professionale di Coccona, chorographos, è un hapax assoluto e risulta quindi difficile stabilire con certezza in quale ramo del variegato mondo dello spettacolo di età imperiale si cimentasse il compare del mago.45 Di certo Coccona apparteneva a quella vasta categoria di artisti impegnati, ai quattro angoli dell’Impero, in performances di tipo agonale, in cui rientravano, come abbiamo visto, anche mimi e pantomimi (accompagnati questi ultimi, tra l’altro, proprio da esecuzioni corali). Il resoconto di Luciano, pur animato da intenti comicoparodistici, e forse per certi versi eccessivo, conferma comunque l’intreccio tra devozione di massa, rituali soteriologici e forme di spettacolo popolare. A questo punto c’è da chiedersi se, come e quanto questa contaminazione agisse nei confronti dei misteri, un genere di celebrazione organizzato da sempre come dramma cultuale, destinato a rendere partecipi i devoti dei pathemata della divinità? 46 L’interscambio registrato fino a ora tra organizzazione scenica e 45
Vedi le note di commento in Lukian von Samosata, Alexandros oder der Lügenprophet, Eingel., hrsg., übers. u. erklärt von U. Victor, Berlin-New York 1997, pp. 135-136; S. Pozzi, Sull’attendibilità del narratore nell’“Alexandros” di Luciano. I, in “Prometheus” 29 (2003), p. 143 n. 62.
46Il
discorso vale a partire dai misteri eleusini fino ai misteri degli gnostici Nasseni; vedi G. Rota, Alcune osservazioni sull’interpretazione dei mysteria nel salmo dei Nasseni sull’anima (Hipp. haer. 5, 10, 2), in “Vetera Christianorum” 41 (2004), pp. 107-119.
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allestimento di cerimonie magico-religiose di fatto non appare limitato a ritualità private (e quindi giuridicamente assai prossime al “profano”) o a esecuzioni individuali, per quanto strutturate secondo un copione complesso, come la “cosmopoiia” o la liturgia “mitraica”. La vicenda di Alessandro (inserita entro la costituzione di un santuario e segnata da vasta presenza di pubblico) mostra che fenomeni di innesto sono attivi, e a maggior ragione, anche su un territorio diverso, nell’ambito di manifestazioni che aspirano allo status di cerimonie liturgiche condivise da una comunità di partecipanti-spettatori. Quest’ultima caratteristica, che peraltro connota formalmente il “sacro”,47 si riscontra anche in una testimonianza nascosta tra le righe degli Atti di Archelao, composti probabilmente tra il 330 e il 345 d.C., sopravvissuti unicamente in versione latina e dedicati alla controversia tra l’eresiarca Mani e il vescovo della Mesopotamia romana Archelao.48 Gli Atti, che intrecciano abilmente e provocatoriamente motivi anti-eretici e anti-pagani, collegano in modo esplicito cerimonia misterica e rappresenta47Per
lo spostamento dei confini tra sacro e profano dal IV sec. d.C., vedi N. Beylache, Des lieux pour le “profane” dans l’empire tardo-antique? , in “Antiquité tardive” 15 (2007: Jeux et spectacles dans l’antiquité tardive), pp. 37-90 (qui 37s.). 48 Vedi Hegemonius, Acta Archelai (The Acts of Archelaus), transl. by M. Vermes, with intr. and comm. by S.N.C. Lieu, with the assistance of K. Katz, Turnhout 2001, che oltre alla traduzione inglese annotata offre un’ampia introduzione di inquadramento storico-religioso.
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zione mimica. Non solo Mani è allusivamente associato ai Caldei, in virtù delle srcini e della lingua siriana, ma viene anche tacciato di essere un cultore di Mitra e dei suoi misteri, riducibili in fin dei conti a una sorta di mimo, privato degli elementi più volgari. Tra l’altro, ricompare nel testo proprio il sinonimo latino – al paignion si è sostituito il lusus – di sympaiktes, ossia conlusor (40, 7): Tu, barbaro persiano, non sei stato in grado di imparare la lingua greca, o l’egiziana, o la latina, o qualsiasi altra, che non fosse quella dei Caldei, che non è diffusa tra molte genti; non riesci a capire la lingua di nessun altro […] Tu, sacerdote barbaro e compare [conlusor] di Mitra, tu onori il sole unicamente nelle fattezze di Mitra, che illumina i luoghi dei misteri, come pensi tu, ed è tutto compreso di sé; questo è quello che metterai in scena [ ludes] presso di loro e questi sono i misteri che celebri come fossero un mimo elegante [trad. mia].
La precisazione degli Atti – “elegante” – è ovviamente ironica e va letta sullo sfondo del carattere intrinsecamente triviale e licenzioso che, come abbiamo visto, rappresentava il marchio degli spettacoli mimici. Non c’è dubbio, comunque, che in questo passo i misteri mitraici, nelle loro modalità drammatiche, siano assimilati a una rappresentazione mimica. Certo, funzionale com’è alla demolizione dell’avversario, la testimonianza anti-manichea – Archelao si rivolge a Mani in un contraddittorio pubblico – potrebbe a ragione essere considerata parziale. Eppure, leggendo le parole che Plutarco spende
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sull’eziologia di un altro culto misterico, quello isiaco,49 subito saltano all’occhio sia le analogie con il brano di Libanio sulla funzione paideutica della danza pantomimica, sia la parentela con la descrizione che lo stesso Plutarco dava del mimo nelle Questioni Conviviali (Iside e Osiride 361d1-e4): Affine a questi e ad altrettali racconti è il leggendario che si tramanda su Tifone: egli perpetrò cose cosa spaventose, malevolenza, gettò il turbamento in ogni e riempìperdi invidia mali, aeun tempo, e lae terra tutta e il mare; ma di tutto in seguito pagò il fio. Vindice fu la sorella e moglie di Osiride, che, spenta e annientata del tutto la folle rabbia e il furore di Tifone, non si rassegnò a che le lotte e i travagli che aveva sopportati e il suo proprio vagabondaggio e le molte opere di sapienza e le tante gesta di valore andassero, per così dire, perdute, accettando che l’oblio e il silenzio le avvolgessero, ma, congiungendo a santissime cerimonie immagini e sensi nascosti e rappresentazioni di quelle vicende di un tempo trascorso [ mimemata ton tote pathematon], consacrò un insegnamento di pietà e un motivo di consolazione per uomini e donne oppressi da simili sventure [trad. Vincenzo Cilento].
Se questo non bastasse, ancora Luciano testimonia l’esistenza di pantomime di contenuto isiaco (la truce vicenda dell’uccisione e dello smembramento di Osiride da parte di Tifone era del resto 49
È a partire dall’età imperiale che la religione isiaca assume carattere misterico. Si vedano: S.K. Heyob, The Cult of Isis among Women in the Greco-Roman World , Leiden 1975, p. 40; J. Hani, La religion égyptienne dans la pensée de Plutarque, Paris 1976, pp. 344ss.; U. Bianchi, Iside dea misterica. Quando?, in Perennitas. Studi in onore di A. Brelich, Roma 1990, pp. 13-36; Merkelbach, Isis regina-Zeus Sarapis cit., pp. 161-174; R. Turcan, The Cults of the Roman Empire, Oxford 1997, pp. 104-121.
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particolarmente adatta), che a quanto pare giocavano sullo stesso registro “mistico” e “simbolico” delle sacre rappresentazioni (Sulla danza 59): E infatti ci saranno anche i soggetti egiziani, che hanno maggior valore mistico e quindi verranno rappresentati con più attenzione alla simbologia: sto parlando di Epafo e di Osiride e delle trasformazioni degli dei negli animali [trad. mia].
Infine, vale la pena ricordare, tra la ricca documentazione papiracea relativa all’allestimento di spettacoli e alla scrittura d’artisti nell’Egitto greco-romano, una lista di spesa proveniente da Ossirinco (PLond inv. 2853), compilata nel tardo terzo secolo d.C. e relativa all’organizzazione delle Amesysie, che si celebravano in onore del genetliaco di Iside: qui tra gli artisti ingaggiati compaiono, oltre a un attore comico e a due omeristi, anche un danzatore con il suo coreografo.50 È facile immaginare che in queste occasioni gli artisti approfittassero per mettere sulla scena pantomimica almeno un segmento del ciclo dei pathemata isiaci. Gli ambiti potevano quindi essere facilmente confusi, e così si capisce anche meglio – specie poi pensando alla funzione degli schemata nella figurazione pantomimica del divino – la precisazione del neoplatonico Ermia nel commentare il passo del Fedro
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Vedi Tedeschi, Lo spettacolo cit., p. 179s., con traduzione italiana.
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(259c6) in cui viene menzionata la musa della danza Tersicore, a cui le cicale annuncerebbero quali degli uomini l’hanno “onorata nei cori (en tois chorois)”. Il filososo, davanti ai lettori del quinto secolo d.C. – suoi e del Fedro – sente la necessità di sottolineare che i cori ricordati nel testo platonico sono ben diversi “dal balletto dei pantomimi; quello è ridicolo, mentre qui si tratta di danze divine”: danzano prima gli dei, successivamente le anime divine, e i pianeti e le stelle fisse, con la loro rivoluzione; “e del resto anche chi quaggiù è iniziato alle divinità esegue una danza nei misteri; e tutta la vita del filosofo è una danza” (trad. mia).51 D’altronde, pure Alessandro di Abonuteico, la cui avventura “religiosa” (cominciata appunto in compagnia di uno “scrittore di cori”) si colloca, come abbiamo visto, sotto il segno di un’estrema drammatizzazione, aveva pensato bene di affiancare all’oracolo dei “misteri di Glicone” (38-40), della durata di tre giorni: apparentemente un pastiche di elementi eleusini e pura invenzione, che si traduceva in un autentico one man show. Attore nel dramma sacro, daduco, ierofante, il falso profeta, novello Endimione, sceneggiava in uno dei momenti culminanti (e involontariamente comici) della cerimonia la propria unione con Semele (39):
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Vedi P. Couvreur, Hermiae Alexandrini in Platonis Phaedrum scholia, Paris 1901, rist. anast. Hildesheim 1971, p. 216, 21ss.
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Ed egli giaceva addormentato davanti al pubblico, e dal tetto, come fosse stato il cielo, scendeva verso di lui al posto di Semele, una Rutilia, parecchio bella, moglie di un intendente di Cesare, che era follemente innamorata, ricambiata, di Alessandro, e allora, sotto gli occhi di quel disgraziato del marito eran baci e abbracci, lì davanti a tutti [trad. mia].
Alessandro attira quindi i devoti con un’accorta combinazione di attese salvifiche, trovate sceniche, particolari pruriginosi, che toccavano gli stessi facili tasti delle volgari rappresentazioni mimiche a cui il pubblico era affezionato. Ora il quadro è completo. Proiettate sullo sfondo di questo interscambio tra mezzi teatrali e messa in scena magico-teurgica o misterica, le affermazioni con cui Giamblico apriva la sua risposta a Porfirio appaiono tutt’altro che convenzionali. L’analogia tra spettacolo dei misteri e spettacolo teatrale era radicata nella cultura contemporanea. Allo stesso modo le riprese platoniche che abbiamo ricordato all’inizio del nostro discorso, applicate a un’arte teurgica distorta, riattualizzano il tema del discutibile statuto ontologico dell’immagine umanamente creata (recitata, cantata, scolpita o dipinta): un nucleo problematico che anche srcinariamente si era andato definendo nel confronto con un universo visivo concreto, quello dell’Atene del quarto secolo. Se nel mondo cosmopolita dell’Impero la tragedia aveva ormai cessato da tempo di trasmettere di generazione in generazione il
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patrimonio di miti tradizionali, altri generi, come appunto la pantomima, si erano affacciati sulla scena, assumendosi lo stesso ruolo (e così alla quotidianità della commedia si era sostituito per molti versi il mimo). E i loro modi, i loro schemata, si erano via via infiltrati nelle forme più spettacolarizzate della spiritualità tardoantica. In una simile temperie culturale, Giamblico poteva trovare nella polemica anti-teatrale di Platone un’arma inaspettatamente attuale, a maggior ragione entro un dibattito tutto interno alla scuola neoplatonica e davanti a un avversario che pareva proprio accusare la teurgia e i suoi sostenitori “di fare come i poeti tragici che, quando si trovano in imbarazzo, ricorrono alle macchine, sollevando per aria un dio” ( Cratilo 425d5-6).
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