VEDERE LA SOCIETÀ Una realtà difficile da vedere.
Sentiamo parlare continuamente di società e grosso modo afferriamo di che si tratta. Tuttavia non è facile vedere la società, né tanto meno analizzarla e capirla. Ci viviamo dentro tutti i giorni eppure ci sfugge. Vederla è difficile per tutti, per l’uomo comune intento a occuparsi della sua vita privata come per lo studioso teso a conoscere il mondo che ci circonda. Non per nulla ci sono voluti parecchi secoli prima che nella tradizione occidentale si arrivasse a individuare la società come oggetto di studio. Il ritardo nella scoperta della società.
Fin dall’antichità si è riflettuto sull’esperienza sociale umana, specie in filosofia e in storia. Tuttavia è prevalsa la tendenza a confondere la vita so ciale con la vita politica, la società con l’organizzazione politico amministrativa. Per Platone, Aristotele e gli altri filosofi greci la società e la polis, la città stato, coincidono e l’uomo è un essere sociale in quanto è un essere politico. L’indisso lubilità di vita politica e sociale è espressa lucidamente nel mito delle origini della civiltà che Platone fa esporre al sofista Protagora nel dialogo che da lui prende il nome, il Protagora. Inizialmente gli uomini, non essendo da soli autosufficienti, avevano tentato di unirsi in società, ma senza successo, perché mancava loro l’arte politica, finché Zeus non inviò Ermes, che distribuì a tutti il pudore e la giustizia, doti fondamentali per sviluppare la virtù politica. La confusione va avanti nel pensiero medievale e in gran parte del moderno. Ci si rendeva conto che ci sono norme sociali indipendenti dalle leggi, regole morali o di costume non sancite dall’autorità. Non si pensava però, come invece si fa oggi, che quelle politiche fossero istituzioni tra le altre all’interno della società e non si sentiva il bisogno di approfondire l’analisi della società e della vita sociale indipendentemente dall’interesse per la gestione letto umano (1690), accanto alle leggi politica della vita associata. Ad esempio, Locke, nel suo Saggio sull’intel letto civili, le norme formali sancite dall’autorità politica, considera le leggi della reputazione e del costume. Gli uomini non devono rispondere solo ai magistrati e allo Stato, ma sono soggetti a un’infinità di vincoli legati al semplice fatto di vivere assieme agli altri. Tuttavia poi Locke, mentre dedica due tratttati al governo, non pensò di scrivere opere in cui analizzare la società con la sua struttura e le sue regole. In storia è a lungo prevalsa la tendenza a dare più importanza agli individui che ai fenomeni sociali. Guerre, conquiste, successioni al potere, migrazioni, crisi economiche e altri eventi sono stati letti essenzialmente come dovuti a scelte di singoli o alla somma di scelte di singoli. È vero che fin dalle origini, fin dal padre della storiografia, Erodoto, c’è stata sensibilità per la vita dei popoli: le Storie di Erodoto sono caratterizzate dalle digressioni di taglio geografico ed etnografico, in cui il grande storico greco descrive i territori e le usanze dei diversi popoli di cui narra. È mancata però la chiara coscienza dell’esistenza di fenomeni sociali sovraindividuali, che trascendono i singoli, che passano sopra le loro teste, che sfuggono al loro controllo e che sono protagonisti della storia, come, ad esempio, le trasformazioni tecnologiche che a catena cambiano l’organizzazione del lavoro, la vita e la mentalità della gente. Solo nel XIX secolo è maturata la chiara consapevolezza che la società e la vita sociale sono cose che esistono, hanno consistenza propria, non vanno confuse con altre e possono essere studiate a parte. In questo secolo si è avuto un vero e proprio risveglio di coscienza sociale, che ha portato alla nascita della sociologia e delle altre scienze sociali. Perché è difficile vedere la società?
Per vedere la società bisogna essere capaci di attenzione all’invisibile. La società è fatta di entità immateriali che stanno dietro gli individui, le cose e i fatti concreti. In fin dei conti nessuno ha mai visto una norma sociale o un ruolo o un mutamento sociale allo stesso modo in cui si può vedere un oggetto fisico. La politica e le azioni individuali risultano più vicine all’esperienza concreta, dato che l’esperienza delle persone è tangibile e gli apparati statali di solito si identificano coi loro rappresentanti. Forse anche per questo per secoli la vita sociale è stata confusa con la politica o le azioni di grandi uomini. Un’altra ragione per cui è difficile vedere la società è che ci siamo immersi, ci viviamo dentro e tutto ci sembra ovvio. Come scrivono R. Collins e M. Makowsky (1972), probabilmente capita all’uomo come al pesce, «che pare non si accorga dell’acqua fino a quando non lo tirano fuori». Ad esempio, usciamo dal lavoro e andiamo a prendere la macchina per tornare a casa. Pensiamo alle nostre cose e ci sembra tutto scontato: siamo venuti al lavoro in macchina perché tornando vogliamo passare a fare acquisti in un ipermercato. Non inseriamo il nostro comportamento nel quadro più ampio dell’organizzazione del lavoro, dell’economia e dei trasporti. Per vedere la società occorre distacco: dobbiamo uscirne mentalmente e osservarla come dall’esterno. A volte ci aiuta a distaccarci imbatterci in effetti sociali che ci colpiscono. Se una coda interminabile ci blocca, tocchiamo con mano la realtà sociale: siamo
incappati nel flusso dei pendolari che dal centro cittadino tornano nelle località dell’area metropolitana. In questo momento siamo come pesci tirati fuori dall’acqua: abbiamo superato la difficoltà legata al f atto di essere immersi nella realtà sociale. C’è ancora un’altra difficoltà: non siamo capaci di sguardo d’insieme, ci manca la visione panoramica della società. Quando restiamo bloccati in coda, abitualmente tocchiamo con mano la realtà sociale, ma non la capiamo, perché non riusciamo a seguire tutti i fili che collegano quella coda a molti altri fenomeni sociali. Perché c’è il pendolarismo urbano? come mai va in quella direzione? come mai ha quegli orari? c’è ovunque? c’è sempre stato? Se provassimo a ris pondere a queste e ad altre domande, finiremmo per analizzare un pezzo di società e cominceremmo a capire la realtà sociale. L’immaginazione sociologica.
Per vedere la società abbiamo bisogno di sviluppare quella che C. Wright Mills, sociologo americano e fine saggista, in un libro famoso del 1959 ha chiamato «immaginazione sociologica», considerandola alla stregua di una vera e propria facoltà mentale. L’uomo del nostro tempo ha sovente la sensazione che la sua vita privata sia tutta una serie di trabocchetti e che i suoi problemi, le sue difficoltà, trascendano la ristretta cerchia in cui vive. Sensazione il più delle volte esatta: l’esperienza e l’azione dell’uomo ordinario sono circoscritte alla sua orbita personale; la sua visuale e i suoi p oteri non oltrepassano i limiti dell’impiego, della famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove male, rimane spettatore. E quanto più si fa strada in lui la coscienza, ancorché vaga, di ambizioni e di minacce che trascendono il suo mondo di ogni giorno, tanto più gli pare di essere in trappola. Alla base di questa sensazione vi sono i mutamenti di struttura delle grandi società continentali, in cui i singoli uomini sono immersi. Gli avvenimenti della storia contemporanea segnano anche il successo o l’insuccesso di singoli uomini e di singole donne. In una società che si industrializza il contadino diventa operaio, il signore feudale o scompare o si trasforma in uomo d’affari. A seconda che sale o scende questa o quella classe sociale, c’è chi trova l’impiego e chi lo perde; se il tasso di investimento cresce, l’uomo prende animo; se diminuisce si scoraggia. scoraggia. Viene la guerra e l’assicuratore va a lanciare razzi, il magazziniere a manovrare il radar; la moglie rimane sola e il figlio cresce senza padre. Non si può comprendere la vita dei singoli se non si comprende quella della società, e viceversa. Ma di solito l’uomo non vede i suoi problemi in termini di mutamenti storici o di conflitti istituzionali. Non attribuisce il benessere di cui gode o la miseria di cui soffre ai grandi alti e bassi della società in cui vive. Raramente consapevole degli intricati rapporti tra il suo modo di vita e il corso della storia universale, l’uomo ordinario ignora, di solito, co me questi rapporti incidano sul tipo di umanità che va formandosi, sugli eventi storici che maturano e ai quali dovrà forse partecipare. Non possiede la qualità mentale indispensabile per afferrare l’ interdipendenza tra uomo e società, biografia e storia, individuo e mondo. Non sa affrontare i suoi problemi personali in modo tale da giungere a controllare le trasformazioni strutturali che generalmente sono alla loro base […]. L’immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell’esperienza quotidiana, gli individui si formino un’idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne […]. L’immaginazione sociologica ci permette di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società. Questa è, ad un tempo, la sua funzione e la sua promessa. La distanza può aiutare.
È più facile vedere la realtà sociale se analizziamo una società distante dalla nostra. Non parliamo di distanza geografica, ma di distanza culturale, di diversità nel modo di pensare e di vivere. Messi di fronte a una società profondamente diversa, le realtà sociali si notano, perché non si tratta più del solito mondo cui siamo abituati e nel quale siamo coinvolti. Siamo estranei, arriviamo da lontano e, se solo siamo attenti, se non banalizziamo, se invece di giudicare osserviamo, cogliamo gli elementi della società. È ancora più facile vedere la realtà sociale se prendiamo in esame un popolo e ci sforziamo di abbracciarne la società il più possibile per intero, di collegare ogni elemento agli altri e di non perdere di vista il complesso. Nel caso di una società di piccole dimensioni e relativamente omogenea, come quelle tradizionalmente studiate dagli antropologi, la cosa è più fattibile. La vita in una società di cacciatori-raccoglitori: i !Kung.
Proviamo ad analizzare la vita in una piccola società di cacciatori-raccoglitori, cioè di gente che si procura da vivere prelevando beni dall’ambiente naturale con la racc olta (di vegetali, uova, animali facili da prendere) e
con la caccia o la pesca. Occupiamoci di come vivono i !Kung o, meglio, di come vivevano, dato che negli ultimi anni sempre più hanno abbandonato le loro abitudini per andare a lavorare come pastori o come salariati. Conosciamo bene la società tradizionale !Kung grazie a una serie di spedizioni antropologiche condotte quando ancora vivevano di caccia e raccolta, in particolare da Lee (1969). !KUNG I !Kung sono una tribù di Boscimani del Kalahari, vasto altipiano desertico dell’Africa australe, che si estende sul territorio di più Stati a un’altitudine tra gli 800 e i 1300 metri. I Boscimani sono stati chiamati così dai coloni olandesi che li hanno incontra ti alla fine del XVI secolo: l’olandese boschjesman vuol dire «uomo della boscaglia». Dal punto di vista somatico sono pigmoidi, cioè di bassa statura (tra 140 e 160 cm) ma non così piccoli come i pigmei, hanno un caratteristico accumulo di grasso sulle natiche (la steatopigia) sono longilinei, di pelle asciutta, carnagione rossastra e capelli neri che si arricciano «a grani di pepe». Probabilmente discesi dal nord in età preistorica, i Boscimani una volta occupavano tutta l’Africa meridionale e sono stat i costretti a rifugiarsi nel deserto del Kalahari per le pressioni di altri popoli, soprattutto gli allevatori-agricoltori Bantu e gli Ottentotti, cacciatori-raccoglitori che avevano adottato i sistemi di produzione dei Bantu. La popolazione boscimane è valutata attualmente intorno alle 90 mila persone. I !Kung sono alcune decine di migliaia. Il punto esclamativo sta a indicare un particolare schiocco metallico, un click iniziale nella pronuncia del nome. Come i vicini Ottentotti, i !Kung sono di lingua khoisanide, una famiglia linguistica caratterizzata proprio dai click che accompagnano il parlato. Si chiamano anche Ju/hoansi o San, nome dato loro dagli Ottentotti e che vuol dire aborigeni, gente del posto. Delle tribù Boscimani i !Kung sono ritenuti la più pura, la meno contaminata dai rapporti con popoli di altre culture. Questo almeno valeva fino a poco tempo fa.
Bande. I !Kung vivono in piccoli gruppi nomadi di 20-40 persone, che in antropologia si chiamano bande. Una banda è autosufficiente per quanto riguarda la produzione e ha un proprio territorio dal quale attingere risorse. Gli sconfinamenti peraltro sono tollerati, specie se dettati da situazioni di emergenza e di necessità. Gli accampamenti sono mobili, dato che i !Kung si spostano, soprattutto alla ricerca di acqua, risorsa vitale in un altipiano desertico. Nella stagione secca gli accampamenti si addensano attorno alle sorgenti perenni, mentre nella stagione delle piogge (nei mesi caldi, da giugno ad aprile), quando trovare acqua è più facile, si disperdono sul territorio e si spostano di frequente. Tribù. L’insieme delle bande forma la tribù. L’unione della tribù è basata sulla lingua, su tradizioni, riti e cerimonie comuni, sul fatto di chiamarsi con lo stesso nome e su un diffuso senso del «noi». Il vero cemento però sono i matrimoni: tra bande della stessa tribù ci si sposa e così si creano legami di parentela e si stabiliscono alleanze matrimoniali. Mentre le bande tendono a essere esogamiche (si sposano persone di un’altra banda), la tribù è un gruppo endogamico (ci si sposa tra persone della stessa tribù). A tenere insieme le bande non sono solo le parentele acquisite con i matrimoni, ma anche i legami di parentela informali che tra i !Kung si stabiliscono tra persone con lo stesso nome. Quando nasce un bambino, gli si dà il nome di un genitore o di un nonno o di uno zio, ma tutti quelli che si chiamano come lui, anche se non sono parenti, si ritengono parenti del nuovo nato: sono parenti onomastici. Anche la tribù ha un proprio territorio e gli sconfinamenti tra tribù sono meno tollerati di quelli tra bande. Capi. Ciascuna banda ha un capo, ma non si tratta di un capo come lo intendiamo noi. Non è un capo formale, con un’autorità riconosciuta e con un potere, con mezzi per impo rre la propria volontà. Il capobanda è semplicemente un individuo particolarmente stimato, di solito per la sua abilità nella caccia o in altre attività o per la saggezza, e che viene ascoltato più degli altri. Quando Lee spiegò ai !Kung che cos’è per noi un capo e chiese se avessero capi, si sentì rispondere: «Certo che ne abbiamo! In pratica siamo tutti capi […] ognuno è capo di se stesso». Le decisioni di interesse collettivo, ad esempio se spostare il campo o come fronteggiare una crisi, vengono prese in assemblee alle quali partecipano tutti gli adulti e dove spesso sono le donne e gli anziani ad avere l’ultima parola. La società !Kung è in effetti partecipativa: si regge sul contributo di tutti.
Famiglia e matrimonio. Una banda è formata da poche famiglie e da alcune persone senza famiglia. Quella dei !Kung è una famiglia nucleare: genitori e figli, con una media di 4-5 membri. Le famiglie !Kung non sono numerose, perché viene esercitato un controllo delle nascite allattando a lun go i bambini (l’allattamento inibisce l’ovulazione e riduce la probabilità di nuove gravidanze) e astenendosi dai rapporti sessuali durante l’allattamento. Il ridotto numero di figli facilita l’impegno delle donne, divise tra lavoro di raccolta e responsab ilità di madri e mogli. Serve anche a impedire una crescita demografica che potrebbe creare squilibri tra popolazione e ambiente e mettere a rischio la sopravvivenza della comunità: se l’ambiente viene sfruttato troppo per sfamare un alto numero di persone, le risorse alla lunga si esauriscono. Le coppie di genitori della generazione precedente vivono in capanne per conto proprio e le persone senza famiglia (i vedovi, gli scapoli) di solito dormono sotto gli alberi. I !Kung sono monogami, anche se in casi eccezionali un uomo riesce a vincere la gelosia della moglie e ad avere più donne. I matrimoni vengono decisi in anticipo dai genitori. Può accadere però che dinnanzi al rifiuto dei figli i genitori rinuncino alla loro scelta. L’accordo matrimoniale tra famiglie viene sancito con uno scambio di doni. È proibito sposarsi con parenti stretti (fino ai cugini di secondo grado) e anche con i parenti informali che hanno lo stesso nome. Il matrimonio è celebrato con un «rito di cattura»: il giovane porta la ragazza a forza nella nuova capanna matrimoniale, mentre questa si dispera e si ribella. Siccome le famiglie !Kung si spostano spesso da una banda all’altra, le nuove coppie hanno modo di vivere ora assieme ai genitori di lui, ora assieme ai genitori di lei. Se la coppia supera i primi anni, ritenuti i più critici, il matrimonio dura di solito tutta la vita. Inizialmente la frequenza delle separazioni si avvicina a quella dei paesi avanzati con alto tasso di divorzi (intorno al 40%), ma dopo un quinquennio scende a valori decisamente bassi. Le separazioni sono dovute in genere a tradimenti o più spesso alle incompatibilità che nascono nei primi anni. Per lo più è la donna a dare il via alla separazione. Decisa la rottura, tutto si svolge in maniera semplice e informale. I figli restano con la madre e i rapporti tra gli ex coniugi si mantengono buoni: come dice Lee, si tratta di divorzi cordiali. Allevamento e educazione dei figli. La gestione della vita domestica è essenzialmente compito delle donne. Il ruolo riproduttivo della donna gode di profonda considerazione tra i !Kung e le donne vivono la maternità con grande senso di responsabilità. Sono le madri ad allevare i figli, aiutate spesso dalle altre donne. I padri sono affettuosi con i figli, ma non interferiscono interferiscono con il lavoro delle madri. Le madri !Kung amano i figli e hanno un rapporto r apporto caldo e intenso con i piccoli. Dopo aver avuto un figlio lasciano passare almeno 4 anni prima di averne un altro, cosa che consente loro di dedicarsi a un piccolo per volta. Allattano per 4-5 anni e portano con sé il bambino quando escono assieme alle altre donne per la raccolta. Quando sono più grandi i bambini non vengono più portati nelle spedizioni di raccolta (fig. 1), ma lasciati all’accampamento, anche perché spesso le madri hanno i nuovi nati da portare con sé. Si tratta di un momento importante nella vita del piccolo !Kung, che passa da un rapporto privilegiato con la madre a un rapporto allargato col gruppo e comincia a imparare cose nuove da tutti. Essere lasciati al campo non è solo un parcheggio, un baby sitting, ma è un’occasione per acquisire le competenze necessarie per vivere nella società !Kung. I figli lasciati al campo hanno modo di stare con gli altri bambini. Formano un gruppo di età differenti, per cui i più grandi possono insegnare ai più piccoli, magari giocando. Ci sono poi gli adulti rimasti al campo, pronti, specie i più anziani, a intrattenersi con loro e a insegnare. Per i bambini lasciati al campo si configura una situazione di istruzione informale, di insegnamento senza che ci sia una vera e propria scuola. I più grandicelli conoscono anche momenti di istruzione più intenzionale e mirata, sotto la guida degli adulti. I ragazzi apprendono dai maschi adulti le tecniche di sopravvivenza e di caccia, compresa l’arte – i Boscimani vi eccellono – di seguire le orme degli animali e di analizzarle, ricavandone informazioni sulla taglia, la specie, il sesso, lo stato di salute. Le ragazze vengono istruite dalle donne sull’arte di raccogliere, che i mplica tra l’altro la capacità di riconoscere più di 100 specie vegetali. Gli adulti con i bambini e i ragazzi non sono mai autoritari, tendono a essere protettivi, ma lasciano anche che ognuno faccia le proprie esperienze e segua la propria strada. Economia, lavoro e tempo libero. Tra i !Kung c’è divisione del lavoro: la caccia è riservata agli uomini (le donne ne sono escluse), mentre la raccolta è prettamente femminile, anche se gli uomini in casi particolari (ad esempio se viene individuata una fonte di cibo molto ricca) possono collaborare. Le battute di caccia si effettuano in media una o due volte alla settimana. Non c’è però una regola fissa: ogni volta la decisione di uscire a caccia viene presa sul momento. Avvistata la preda, i cacciatori la colpiscono con le frecce. Di regola riescono solo a ferirla, per cui a questo punto inizia l’inseguimento, che può durare anche giorni. Lasciandosi Lasciandosi guidare dalle tracce, t racce, i cacciatori seguono
l’animale ferito fino a che, se nessun predatore l’ha divorato, lo ritrovano ormai morto o non più in grado di fuggire. Una volta catturata, la preda viene portata all’accampamento e qui ha luogo la spartizione della carne. Si tratta di un’attività cui viene data grande importanza e che segue una procedura formale, un protocollo con regole precise. A presiedere la spartizione è il proprietario della freccia che ha colpito l’animale. Non necessariamente è il cacciatore che l’ha lanciata, dato che i !Kung si passano l’un l’altro le frecce. Le carni vengono divise innanzitutto tra i cacciatori che hanno preso parte alla battuta, riservando la quota maggiore a chi ha colpito l’animale ed è «l’eroe del giorno». I cacciatori a loro volta provvedono a distribuirle ai famigliari, pensando prima ai genitori della moglie, poi alla moglie e ai figli e infine alla propria famiglia di origine. I famigliari dei cacciatori a loro volta provvedono a spartire ulteriormente la carne distribuendola a tutti quelli che si trovano nell’accampamento. La spartizione serve concretamente a far sì che tutti mangino regolarmente carne, ma ha anche un valore simbolico. È un momento in cui la solidarietà della banda si rafforza e in cui ognuno sente di essere al sicuro nel gruppo. Si tratta di una sicurezza essenziale. Nella caccia non sempre si ha fortuna e, se non si può contare gli uni sulla generosità degli altri, c’è il rischio di du ri periodi di magra. Come dice l’antropologo M. Harris (1989), «la reciprocità è la banca di ogni piccola società». Il valore simbolico della spartizione si capisce meglio se ci si rende conto di quanto sia preziosa per i !Kung la preda. Nella visione del mondo dei !Kung aggredire e uccidere cruentemente un animale è cosa che a rigore non andrebbe fatta, perché gli animali hanno un’anima e perché la terra e le forme di vita non sono state create per i comodi dell’uomo. Se si caccia è per effettiva necessità. La caccia ha senso ed è giustificata solo se la preda è sfruttata al meglio per soddisfare i bisogni di tutti. Per i !Kung non c’è caccia senza spartizione. A differenza della caccia, la raccolta è un lavoro quotidiano. Le donne ogni giorno escono in gruppo portando i figli e percorrono mediamente da 4 a 20 chilometri, stando fuori qualche ora. La raccolta viene portata avanti tranquillamente, chiacchierando, anche se il passo è spedito. Oltre alle noci di mongongo (l’alimento base dei !Kung), si raccolgono bacche, erbe, frutti vari, uova di struzzo, bruchi, insetti, miele, serpentelli, tartarughe e piccoli uccelli non in grado di volare. Anche i cibi raccolti vengono spartiti, ma in maniera più informale, senza che la cosa abbia il carattere istituzionale della spartizione della carne. L’impegno nella caccia e nella raccolta lascia ai !Kung parecchio tempo libero. La cosa è dovuta in parte alle condizioni ambientali e di insediamento relativamente favorevoli alla loro economia di caccia e raccolta, ma in parte si spiega perché i !Kung fanno quel tanto che serve a procurarsi da vivere sul momento e non si preoccupano di creare scorte alimentari. È stato calcolato che i !Kung mediamente sono impegnati nella caccia e nella raccolta per circa 65 ore mensili. Tanto per fare un confronto, oggi in Italia i dipendenti dell’industria e delle grandi imprese di servizi lavorano in media circa 97 ore al mese. Il tempo libero viene impiegato nei rapporti sociali, nei giochi, nelle danze, nelle conversazioni, nei riti. ! Kung curino con particolare attenzione attenzione la propria vita L’accampamento L’accampamento !Kung è pieno di vita. Si direbbe che i !Kung sociale e la propria piccola società.
Salute. Nel complesso i !Kung godono di relativo benessere. Caccia e raccolta consentono loro di alimentarsi bene. I !Kung consumano circa 2300 Kcal pro capite, più del loro fabbisogno minimo calcolato intorno alle 2000 Kcal, appena al di sopra della soglia nutrizionale minima generalmente accettata di 2200 Kcal e al di sopra dei consumi di vari paesi di nuova industrializzazione. La dieta è abbastanza equilibrata, grazie anche all’apporto proteico delle noci di mongongo (ricche di proteine vegetali) e di cibi animali ottenuti con la raccolta e la caccia. Il ridotto numero di ore di lavoro e il tempo libero mettono i !Kung in condizione di non stressarsi e contribuiscono considerevolmente al loro benessere, dimostrato anche dagli esami medici e da una discreta longevità, superiore a quella di vari paesi di nuova industrializzazione. Egualitarismo e disuglianze. La società !Kung è egualitaria: i membri della banda si considerano pari e tutto sommato sono effettivamente sullo stesso piano. Abbiamo visto che non ci sono veri e propri capi, cioè che non ci sono persone che hanno più potere degli altri. Non ci sono neppure persone che accumulano ricchezze: i beni dei !Kung, bastoni da scavo, frecce, abiti, monili, vasellame, pipe, sono distribuiti uniformemente. C’è chi gode di maggiore considerazione di altri per il proprio talento, ma si tratta di un fatto limitato: il prestigio guadagnato non dà alcuna autorità e si mantiene finché si dimostra il talento. A guardar bene l’egualitarismo non è totale. Come è stato messo in evidenza dall’antropologia marxista e femminista, c’è una, seppur modesta, disuguaglianza uomo-donna. La raccolta è di fatto l’attività più importante per il sostentamento dei !Kung. È stato calcolato che copre il 60- 80% del fabbisogno di cibo. Eppure i !Kung stimano molto di più l’attività maschile della caccia. Si direbbe che, con una sfumatura di ingiustizia, non riconoscano alla donna il suo ruolo decisivo nel
procurarsi da vivere. Sono diverse le ragioni che portano a tenere in più alta considerazione la caccia. La carne viene consumata più di rado ed è ritenuta un alimento superiore ai vegetali. La battuta di caccia poi, a differenza della raccolta, è impegnativa, imprevedibile e a volte rischiosa: ha qualcosa di eroico, mentre la raccolta è routinaria. Resta il fatto però che il contributo del sesso femminile all’approvvigionamento di cibo è sottovalutato. Fa pensare alla disuguaglianza anche la rigida esclusione delle donne dalla caccia. Non meraviglia che alla caccia si dedichino gli uomini, dato che le donne hanno i piccoli da accudire e non potrebbero star fuori per lunghe battute. Ma perché tenerle rigorosamente fuori? Si può sospettare che gli uomini custodiscano la prerogativa di svolgere l’attività più prestigiosa, che tengano per sé il mondo eroico della caccia. Certo è anche un modo di proteggere la donna, di tenerla lontano dal lato violento del rapporto con l’ambiente. Va detto anche che nelle altre sfere dell’esistenza la donna è protagonista e che tutto sommato la caccia è lo spazio las ciato all’uomo. Nonostante le modeste disuguaglianze riscontrabili, la società !Kung nel complesso è fortemente egualitaria. L’egualitarismo dei !Kung non fiorisce spontaneo: è costruito e conservato giorno per giorno con grande cura. I !Kung sanno bene che qualcuno può emergere nel gruppo e rivendicare uno status superiore e di conseguenza sono vigili e si sforzano di prevenire e frenare tutto ciò che può minacciare la parità. L’egualitarismo è assicurato innanzitutto dal costante controllo reciproco nei rapporti interpersonali. I !Kung hanno forte il senso dell’eguaglianza e sono abituati a farsi valere. Perciò chi prevarica deve fare i conti con la vittima della prevaricazione. Nella società !Kung sono operanti poi meccanismi tesi specificamente a impedire o a frenare l’ascesa sociale di qualcuno a scapito degli altri. Accumulare beni è oggettivamente difficile per via del nomadismo: spostandosi di continuo senza mezzi di trasporto, le cose che si possono portare dietro sono poche. L’accumulo è frenato però anche dalla pratica dello xharo, lo scambio di doni. Tutto ciò che una persona o una famiglia ha in più viene usato come dono da fare ad altri della stessa banda o di altre bande. Si crea così una fitta rete di donazioni reciproche e il di più circola nella tribù, anziché fermarsi nelle mani di qualcuno. In vari modi, per lo più basati sulla derisione e sullo scherzo, si cerca di sminuire il prestigio che le persone si guadagnano. Ad esempio, durante tutta la spartizione della carne il cacciatore che ha c olpito l’animale viene preso in giro e la sua impresa è ridimensionata. Il cacciatore deve stare al gioco e dare prova di modestia.
Ordine sociale e conflitti. I !Kung sono tendenzialmente pacifici. Scontri bellici tra gruppi si verificano, ma sono sporadici, limitati e non particolarmente violenti. I !Kung vivono serenamente anche all’interno del gruppo di appartenenza: «gente inoffensiva» li definisce L. Marshall (1976). Generalmente i !Kung sono persone miti e gentili, forse per il tipo di educazione che ricevono fin da piccoli. Non è però solo grazie al loro carattere che riescono a mantenere l’ordine e l’armonia sociale. Tra i !Kung le tensioni nascono, più che altro sulla spartizione del cibo, sull’impegno nel lavoro, sui problemi matrimoniali e sulla fedeltà coniugale. Di solito tutto si risolve in liti senza conseguenza, ma sono stati documentati anche casi di assassinio e, seppure eccezionalmente, faide di sangue, vendette a catena tra gruppi di parentela. La tranquillità di cui godono i !Kung , come l’egualitarismo, è costruita. L’aggressività è considerata una minaccia per il gruppo, per cui non appena alcuni litigano gli altri si preoccupano di risolvere la tensione, per lo più scherzando. Un modo per sanare le discordie è fumare assieme passandosi la pipa o organizzare una danza. Chi è arrabbiato con qualcun altro può sfogarsi in un soliloquio di lamentela in pubblico: rimugina ad alta voce sui torti che pensa di aver subito senza fare nomi. Ritirarsi per alcuni giorni nella macchia è un altro sistema. Il mezzo più importante per mantenere l’ordine e l’armonia è costituito però dalla fluidità delle bande. Il reclutamento dei membri della banda non segue regole precise: come dice Lee, un accampamento di !Kung è formato di parenti, amici e affini che si sono trovati bene a vivere e a lavorare assieme. Se nascono gravi dissidi, ci si divide e ci si aggrega ad altre bande. È stato calcolato che ogni anno tra i !Kung il 10-15% della popolazione si trasferisce stabilmente da un campo all’altro. Religione. I !Kung pensano che ci sia un Creatore, un essere supremo che ha fatto la terra e ogni forma di vita, e lo invocano recitando preghiere collettive. «Tu, o mio Creatore – dice una preghiera !Kung – nel corso di questo mese fammi ricevere animali e altri doni favorevoli ». Alla luna nuova si rivolgono preghiere per la pioggia: «Luna nascente, sorgi e donaci l’acqua, Luna nuova, donaci acqua in abbondanza». La religione !Kung è sciamanica: non ci sono operatori religiosi professionali, ma sciamani, individui ai quali si attribuisce la capacità di entrare in contatto diretto con il mondo soprannaturale e con gli spiriti, cadendo in trance. Lo sciamano usa il proprio potere per curare e per propiziare la caccia. Come ogni altra persona di talento, lo sciamano non gode di speciali privilegi, né di potere, ma è solo stimato per ciò che fa.
Astrarre per capire.
Esaminare la vita dei !Kung ci ha consentito di scorgere dietro i fatti quotidiani la trama della società. Per capire la società però non basta vederla in un caso specifico: accorgersi che esiste una società !Kung e coglierne qualche aspetto. Dobbiamo astrarre, cioè elaborare concetti e modelli di portata generale a partire da ciò che abbiamo intravisto nella vita dei !Kung. Il concetto di società.
Abitualmente parliamo di società in due sensi: per indicare una specifica società, come quando diciamo «la società !Kung è egualitaria», e per intendere la società in generale, come quando diciamo «gli esseri umani vivono in società». La società in generale è un concetto che ricaviamo astraendo dai casi specifici. Perciò, se riflettiamo sulle società !Kung, cerchiamo di individuare gli elementi che si ritrovano in ogni società e li combiniamo assieme, arriviamo a dire che cos’è la società in generale . Possiamo definire la società all’incirca così: un’entità, parte materiale e parte immateriale, formata da un insieme di persone in rapporto tra loro su un territorio e con un proprio sistema di vita, che tende a riprodursi e a essere autonoma . Analizziamo uno per uno gli elementi della definizione, andandoa rintracciarli nella vita dei !Kung. Un’entità in parte materiale, in parte immateriale.
Una società è fatta di cose concrete, quali gli esseri umani, il territorio, i comportamenti, l’insieme dei beni posseduti, compreso il repertorio degli strumenti tecnologici e dei manufatti prodotti, repertorio che di solito si chiama cultura materiale. È fatta però anche di realtà impalpabili, quali i modelli di vita, le convinzioni, il sistema di vita nel suo complesso. Noi inferiamo l’esistenza di questi aspetti partendo dall’esame di fatti concreti, ma non si tratta di cose concrete. Abbiamo a che fare con un mondo simbolico, che c’è nella mente dei membri della società. Sono stati gli esponenti dell’interazionismo simbolico ( Unità 6, § 3.4), corrente sociologica sviluppatasi negli Stati Uniti tra la fine del XIX secolo e i primi del XX, a insistere per primi sul fatto che la società si regge su una realtà mentale, di simboli, di segni che hanno senso per le persone che vivono al suo interno. Il lato immateriale della società non è meno reale di quello materiale. Possiamo rendercene conto riflettendo sul fatto che ha una vita propria e che si impone alle persone. Quando nasce, l’individuo trova già il sistema di vita della sua società e viene socializzato a quello. Il !Kung entra in un mondo in cui ci sono le bande e la tribù, la famiglia nucleare, la monogamia e via dicendo. Gran parte della sua vita è spesa a essere preparato per stare in quel mondo. L’indivi duo può discostarsi dalle norme della società in cui vive, ha facoltà di manovra, ma solo entro certi limiti e nella misura in cui riesce a farsi spazio. Tra i !Kung è praticamente impossibile per una donna diventare cacciatrice e per un maschio è molto difficile essere poligamo. Quando il singolo muore, il mondo simbolico della sua società gli sopravvive.
Formata da un insieme di persone in rapporto tra loro su un territorio. Nel caso dei !Kung l’insieme di persone è piccolo, ma come sappiamo esistono società molto più popolose. I membri della società !Kung hanno modo di incontrarsi, di comunicare faccia a faccia e di creare un’estesa rete di relazioni stabili, un network sociale che li unisce. Nelle società più grandi un rapporto così stretto su larga scala non è possibile, neppure sfruttando i moderni mezzi di comunicazione, ma comunque si vive assieme. Pur essendo nomadi, i !Kung hanno un territorio che considerano proprio. Il dominio su uno specifico territorio è ancora più evidente nelle società sedentarie. Ci sono però casi di nomadismo in cui è difficile assegnare a una società un territorio che le appartiene: si parla di popoli senza territorio. Ad esempio, i Peul sono un popolo di pastori di circa seimila persone che, divisi in piccoli gruppi, migrano continuamente su una vasta regione tra il Golfo di Guinea, la costa atlantica del Senegal e il lago Ciad e nei loro spostamenti passano per i territori di altri popoli, sedentari e urbanizzati. I !Kung sono legati tra loro perché parlano la stessa lingua, hanno la stessa storia, la stessa tradizione, un sentimento di identità che li accomuna e nomi con cui vengono chiamati e si chiamano: sono un popolo a tutti gli effetti. Non sempre una società è formata da un unico popolo. Le società multietniche sono il risultato della mescolanza di popoli diversi più o meno amalgamati. In ogni caso abbiamo un insieme di persone in rapporto tra loro su un territorio. Con un proprio sistema di vita. Gli appartenenti a una società nei comportamenti e nei rapporti fanno riferimento a un complesso di modelli di vita e di convinzioni. Nella società !Kung ci si aggrega in bande di una certa misura, le bande si attribuiscono specifici territori di appartenenza, si spostano sul proprio territorio secondo determinati schemi, gli sconfinamenti entro certi limiti sono tollerati, ci si sposa tra persone di bande diverse, le persone con lo stesso
nome si considerano parenti, ecc. Modelli di vita e convinzioni non sono sconnessi: più andiamo a fondo più ci accorgiamo che sono collegati tra loro in modo coerente. Ad esempio, il fatto che gli sconfinamenti siano tollerati è in accordo con il principio di reciprocità, di mutuo soccorso, cui i !Kung si ispirano e con le loro tendenze pacifiche. L’insieme dei modelli di vita e delle convinzioni forma un complesso organico, è un sistema di vita. In altre società troveremo sistemi di vita diversi, ma ci sarà comunque un complesso di modelli di vita e convinzioni al quale le persone fanno riferimento. Il sistema di vita è la componente culturale della società: quella che in antropologia si chiama cultura è in fin dei conti il complesso dei modelli di vita e delle convinzioni di un dato popolo e di una data società.
IL PROBLEMA DEI CONFINI E I LIMITI DELL’ASTRAZIONE Se ci chiediamo fin dove arriva una società, se cerchiamo di delimitare l’unità che prendiamo in esame, incontriamo difficoltà. Riflettiamo sul caso dei !Kung. Dobbiamo considerare società !Kung la singola banda? o la banda è una componente della società !Kung, una sottosocietà all’interno della società tribù? E perché fermarci alla tribù !Kung? In fin dei conti le varie tribù boscimani intrattengono rapporti tra loro. I !Kung formano allora una sottosocietà nella società boscimane? Analizzando i rapporti tra i Boscimani e gli
altri abitanti di quell’area dell’Africa, possiamo avere perplessità ulteriori: forse è più corretto pensare che i Boscimani formino una sottosocietà all’interno delle società degli Stati che hanno giurisdizione sul Kalahari? perché non considerarli semplicemente delle minoranze etniche del Botswana, della Namibia e dell’ Angola? Angola? Qualunque scelta è arbitraria. Di fatto non c’è un’unità sociale isolata, ma siamo noi a isolarne una dando rilievo a certi aspetti piuttosto che ad altri. Un problema analogo incontriamo muovendoci lungo la dimensione tempo. Le società mutano col passar del tempo e quando parliamo di una società dobbiamo fissare limiti temporali. La nostra descrizione dei !Kung si riferisce grosso modo al trentennio tra il 1960 e il 1990: vuol essere una fotografia scattata in quel periodo. La scelta è stata dettata dal fatto che i resoconti degli antropologi sono di quegli anni. Ma, avendone la possibilità, perché non prendere in esame un arco di tempo più ampio? o uno più breve? Il problema dei confini svela un rischio presente nello studio della società. Per analizzare una società dobbiamo considerarla qualcosa di ben definito. Così facendo però siamo portati a isolare e a cristallizzare la realtà sociale. Finiamo per vedere la società più autonoma e più capace di autoperpetuarsi di quanto non sia di fatto. Ci sfugge che la società, poco o tanto, è aperta e in trasformazione, è un’ entità viva, fluida, dinamica. Generalizzare, astrarre è necessario nello studio della società – è indispensabile qualunque cosa si studi –, ma occorre ricordare sempre che stiamo astraendo e fare attenzione a non perdere di vista la realtà fluida da cui traiamo i nostri concetti e i nostri modelli. Lo studio maturo della società richiede un continuo va e vieni tra piano astratto e piano concreto. È stato l’antropologo francese Georges Balandier a mettere in evidenza il rischio di finire in costruzioni astratte che descrivono le società come sistemi chiusi e fuori dal tempo. Balandier ha studiato a fondo le società del Gabon, del Congo, del Senegal, tutte società africane in via di sviluppo. Queste società sono soggette a spinte diverse: a restare nella tradizione, a modernizzarsi secondo i modelli occidentali, a modernizzarsi costruendo forme di civiltà inedite. Perciò sono società dalle molte facce, instabili, in fermento. Come dice Balandier «mettono di fronte a configurazioni che si fanno e si definiscono continuamente» e mostrano chiaramente il carattere dinamico delle società umane. Dall’esperienza dei suoi studi sulle società africane Balandier ricava una lezione di metodo che vale per accostarsi a qualunque società. La storia attuale – scrive Balandier (1971) – sta diventando un vero e proprio rivelatore della realtà sociale. Essa ci mostra delle configurazioni sociali in movimento, tronca l’ illusione di una lunga permanenza delle società, che assumono sempre più l’aspetto di un’opera collettiva mai compiuta e continuamente da rifare e rende più evidenti gli effetti delle relazioni esterne – dell’«ambiente», per usare la terminologia dell’analisi dei sistemi – sulle
strutture interne delle società che le intrattengono. All’attenzione dei sociologi si impongono pertanto le caratteristiche e le proprietà dinamiche e relazionali di tutte le formazioni sociali, che non possono più essere considerate come appartenenti all’accidentale, all’evento (o fenomeno di breve durata) o al marginale, ma sono iscritte nella natura stessa di qualsiasi società.
Che tende a riprodursi. La società tende a conservarsi e a perpetuarsi nel tempo e nello spazio: si parla di riproduzione sociale. L’idea che la società si riproduca si deve ai padri fondatori della sociologia, soprattutto a Marx ( Unità 5, § 1.5), r iproduzione. Per continuare secondo il quale la vita di una società è fatta da un lato di produzione, dall’altro di riproduzione. a esistere la società deve assicurare innanzitutto un adeguato ricambio demografico, cioè deve reclutare nuovi membri che rimpiazzino quelli che vengono meno. In una banda !Kung, come in ogni società, il reclutamento di nuovi membri avviene per immigrazione, in seguito ai trasferimenti che di continuo si verificano, ma soprattutto grazie alle famiglie, unità riproduttive biologiche che sfornano nuovi nati. La riproduzione sociale non è solo ricambio demografico, ma anche riproduzione culturale: la società tende a mantenere il proprio sistema di vita. Tra i !Kung la cosa è evidente. Ai nuovi nati, prima in famiglia, specie nel rapporto con la madre, e poi nel contesto allargato della banda, vengono trasmesse le acquisizioni necessarie per adeguarsi al sistema di vita !Kung: si tratta di un fondamentale meccanismo di riproduzione culturale noto come socializzazione. Nel corso della vita sociale poi vari meccanismi intervengono a salvaguardare caratteristiche culturali della società !Kung, quali la monogamia, lo spirito di reciprocità, l’egualitarismo, le tendenze pacifiche. Alcuni consistono in vere e proprie attività istituzionalizzate, come la spartizione della carne o lo xharo. Altri, come il combattimento rituale, la derisione dell’«eroe» della battuta di caccia, la fumata collettiva di pipa, il soliloquio di lamentela in pubblico, sono prassi consolidate. Altri meccanismi sono più spontanei, legati all’interazione che sul momento si sviluppa tra le persone: in questi casi è come se gli interessati trattassero, negoziassero la conservazione o il cambiamento di un tratto della cultura. Ad esempio, la monogamia è minacciata dai tentativi di alcuni uomini di avere più mogli ed è difesa dalla gelosia delle donne, cosa che sta a significare che tra mariti e mogli si giocano partite a riguardo e che la persistenza della monogamia nella società dipende dall’esito di una miriade di quest e competizioni tra coniugi. A ben guardare nessuna società perpetua intatta la propria cultura: le società tendono a riprodursi, ma ora più rapidamente, ora meno, mutano nel tempo. Abbiamo visto che la società !Kung studiata tra gli anni ’60 e ’90 va spare ndo sotto la pressione delle più ampie società di nuova modernizzazione del Botswana, della Namibia e dell’Angola, gli Stati sul cui territorio i !Kung vivono. Del resto tutto fa supporre che anche nei secoli precedenti, seppure più lentamente, la società !Kung abbia subito trasformazioni: ritirarsi in un territorio marginale quale il Kalahari ha sicuramente inciso sul sistema di vita dei !Kung e devono aver influito anche i contatti con i vicini allevatori, agricoltori e modernizzati. Che tende a essere autonoma. Esaminando la società !Kung emerge anche un’altra caratteristica fondamentale: l’autonomia. I !Kung nel procurarsi da vivere, nel condurre la loro esistenza sociale e nel riprodursi biologicamente e culturalmente sono autosufficienti, non dipendono da altre società. Si tratta di un’autonomia relativa: come tendono ad autoperpetuarsi, le società tendono a essere autonome, ma di fatto cambiano e comunicano con le altre. Nella misura in cui hanno avuto contatti con altri popoli, i !Kung ne hanno tratto anche beni ed elementi socioculturali. I !Kung poi, essendo cacciatori-raccoglitori, sono spiccatamente autosufficienti nel procurarsi da vivere. Altre società hanno economie che richiedono necessariamente scambi commerciali esterni, se non addirittura di operare in un sistema economico e culturale integrato. Componenti strutturali della società.
La struttura delle società, anziché andando alla radice, guardando alla trama dei modelli interattivi, si può descrivere prendendo in esame i suoi tipici elementi costitutivi. Molti di questi sono rintracciabili nella società !Kung. Altri mancano o sono poco rappresentati, perché si tratta di componenti strutturali che compaiono in società più complesse. I sociologi hanno dedicato molto lavoro a definire e analizzare le componenti strutturali della società. La loro conoscenza è una parte importante dell’armamentario concettuale della sociologia.
Norme sociali. Possiamo definirle regole, prodotte e mantenute in vita dalla società, che disciplinano la vita sociale prescrivendo come gli individui, le categorie e i gruppi debbono pensare, sentire, agire in determinate situazioni. Nella vita sociale dei !Kung abbiamo incontrato molte norme: non si sconfina dal territorio della banda e men che meno dal territorio della tribù, si sposano persone di un’altra banda, della stessa tribù e che non siano parenti stretti, ecc. La nostra società, se solo ci guardiamo attorno con attenzione, appare carica di norme: generalmente più una società è complessa, più sono le norme che regolamentano la vita al suo interno. Le norme sociali differiscono per varie caratteristiche. Possono riguardare tutti gli appartenenti alla comunità
indistintamente – si parla di norme universali – o solo alcuni – norme speciali. Ad esempio, tra i !Kung sono universali la regola di non accumulare beni, di non mettersi in posizione di superiorità o di non sposare parenti stretti, mentre sono speciali la regola che le donne non devono cacciare, che i maschi non devono interferire nella cura della prole o che i senza famiglia devono dormire sotto gli alberi. Ci sono norme che originano dalla tradizione e altre frutto della pianificazione razionale della vita comunitaria. Tra i !Kung la gran parte delle norme origina dalla tradizione, anche se nelle assemblee o in altri contesti è possibile che si fissino regole. Nelle nostre moderne società la pianificazione razionale è invece una fonte di norme sociali almeno altrettanto importante della tradizione. Non essendoci scrittura, le norme dei !Kung sono tutte orali, ma nelle società letterate sono comuni anche norme scritte. Anche se molte norme sono esplicite, dichiarate apertamente in seno alla società e chiaramente presenti alla coscienza dei suoi membri, per lo più le norme sociali sono implicite, non dette, mantenute in vita in quanto le persone le rispettano, date per scontate e accettate tacitamente in virtù del semplice fatto che non si riesce a immaginare un ordine sociale alternativo. Ad esempio tra i !Kung le norme relative agli sconfinamenti o ai matrimoni o alla divisione del lavoro tra maschi e femmine sono esplicite, mentre sono implicite la regola di fare divorzi cordiali o di essere affettuosi con i piccoli o di scherzare per sdrammatizzare le liti. Come hanno messo in evidenza gli etnometodologi ( Unità 6 , § 3.6), le norme implicite sono le più rispettate e formano il supporto invisibile su cui l’ordine sociale si regge. Il rispetto delle norme può essere assicurato attraverso un controllo informale (se uno le viola, gli altri richiamano alla regola reagendo spontaneamente) o attraverso un controllo formale (è stabilito in partenza chi e come deve accertare le eventuali violazioni e imporre l’osservanza della regola). Tra i !Kung c’è solo controllo informale, in quanto non c’è il diritto ed è l’amministrazione della giustizia su basi giuridiche a introdurre veri e propri mezzi formali di controllo. Come accade abitualmente quando il controllo è informale, tra i !Kung il rispetto delle norme è spesso negoziato: ad esempio, se i figli rifiutano il matrimonio combinato, si può avere un matrimonio libero. Le norme hanno un diverso grado di forza coercitiva, vale a dire di determinazione con cui la società le impone. Ad esempio, tra i !Kung un conto è sconfinare dal territorio della banda, altro sconfinare dal territorio della tribù. Una nota classificazione, elaborata da Sumner nel 1906 e ancora correntemente usata nelle scienze sociali, distingue tra folkways o costumi di gruppo (le usanze, le convenzioni, l’etichetta, i cerimoniali), mores o norme morali e stateways o norme giuridiche . Folkways e mores originano entrambi dalla tradizione e sono tramandati oralmente, ma i folkways sono generalmente norme implicite, mentre le norme morali sono esplicite e ricevono una forte legittimazione su basi etiche o religiose o funzionali (in nome di obiettivi comuni). Le norme giuridiche sono tipicamente a elevata forza coercitiva e a controllo formale. Generalmente sono scritte, originano dalla pianificazione razionale oltre che dalla tradizione, sono legittimate su basi etiche o funzionali, sono universali e tendono a essere stabili. La società !Kung si regge esclusivamente i n una società come la nostra hanno un certo peso le norme su folkways e mores, mentre nel mantenere l’ordine in giuridiche.
Istituzioni. Nella società !Kung abbiamo incontrato varie istituzioni: l’assemblea della banda, il matrimonio, il restare al campo con gli altri piccoli e gli adulti, la spartizione della carne, lo xharo, ecc. Anche nella nostra società troviamo istituzioni. Alcune somigliano a quelle dei !Kung: il matrimonio, seppure diverso, c’è anche da noi, l’assemblea e il restare al campo ricordano vagamente le nostre istituzioni politiche e scolastiche e lo xharo la pratica di scambiarsi doni in occasioni come le festività. Un’istituzione può essere definita un complesso unitario e durevole di norme sociali, che risponde a un disegno ordinato e mira a determinate finalità . Le istituzioni sono fatte in ultima analisi di norme. Ad esempio, la spartizione della carne dei !Kung prende corpo in quanto è stabilito che a presiederla sia il proprietario della freccia, che le carni vadano divise prima tra i cacciatori, ecc. Le istituzioni delle società complesse si avvalgono spesso di apparati materiali (edifici, impianti, ecc.) e immateriali (tecnologie, competenze, ecc.). Tuttavia alla radice ci sono le norme: sono le regole che i partecipanti hanno in mente e seguono a far vivere l’istituzione. Le norme istituzionali non sono slegate, ma formano un complesso unitario. Sono coordinate, di modo che le persone che entrano nel meccanismo istituzionale si muovono in modo corale. Ad esempio, mentre i cacciatori dividono la carne tra loro, i famigliari dei cacciatori e gli altri aspettano il proprio turno. Le norme istituzionali sono collegate anche perché sottoposte a controllo unitario. Se uno omette una delle azioni previste dal protocollo della spartizione della carne, quale che sia la regola violata, mette in discussion e l’istituzione nel suo complesso e scatena sempre la stessa repressione sociale. Il carattere unitario delle norme istituzionali fa subito pensare a un disegno ordinato in vista di qualche fine. Un’istituzione ha in genere più scopi – si dice che è polifunzionale – e accanto a scopi manifesti può averne di latenti, che nei fatti ci sono, sebbene non siano dichiarati. Ad esempio, la spartizione
della carne mira da un lato a garantire un’adeguata nutrizione a tutti, dall’altro a rafforzare il senso di reciprocità nella banda. Mentre il primo è uno scopo manifesto, l’altro è latente. Spesso allo stesso risultato concorrono più istituzioni: si parla di convergenza funzionale. Ad esempio, sia le permanenze al campo insegnamento concorrono all’istruzione delle nuove durante la raccolta, sia i momenti di veroe pro prio insegnamento generazioni di !Kung. Ci sono significative differenze tra l’assetto istituzionale di una società semplice come quella dei !Kung e di una società complessa come la nostra. In una società complessa le istituzioni sono molto più numerose e c’è più convergenza convergenza funzionale, dato che facilmente finiscono per intervenire negli stessi ambiti. Pensiamo, ad esempio, a quante agenzie di socializzazione operano nella nostra società: famiglia, scuola, mass media, società sportive, circoli culturali, associazioni, ecc. Un’istituzione di una società complessa ha poi solitamente molti scopi, spesso assai diversi tra loro, se non in contraddizione. Ad esempio, l’istituzione scolastica trasmette conoscenze, mette le nuove leve in grado di vivere nella società, ma provvede anche a mantere l’ordine e la coesione, specie dove coesistono gruppi sociali e culture diverse, a fare da «parcheggio» per i figli dei genitori che lavorano, a facilitare il contatto tra coetanei e via dicendo. Si può capire come mai le istituzioni delle società complesse tendano a essere meno trasparenti di quelle delle società semplici: il loro senso resta più oscuro per la gente. Un’altra importante differenza riguarda i soggetti interessati ai fini istituzionali. Le istituzioni delle società semplici appaiono evidentemente tese a fini che interessano l’intera collettività. Nelle società complesse invece capita spesso che le istituzioni operino per interessi di una parte della collettività, a volte a scapito di altre. Ad esempio, in paesi caratterizzati da forti disuguaglianze sociali, come ve ne sono in America latina o in Africa, la scuola serve spesso a conservare i privilegi delle élites: i ragazzi della massa vengono messi in condizione di non riuscire negli studi o ne vengono esclusi e così vengono tenuti lontani dai lavori qualificati e dal benessere. Le società semplici sono più compatte, non conoscono le divisioni e i conflitti tipici delle società complesse, per cui è più facile che le istituzioni tendano a rispondere a bisogni di tutti. Le istituzioni sono vantaggiose perché mettono l’individuo in condizione di coordinarsi ad altri in un’azione collettiva e lo sgravano dal carico di doversi occupare in prima persona di problemi difficili da padroneggiare. Sarebbe drammatico, ad esempio, se non avessimo le agenzie di socializzazione e dovessimo imparare da soli a vivere nelle nostre società. Poco o tanto limitano però la libertà dei singoli, a volte risultano poco trasparenti e vivere l’esperien za istituzionale è fonte di disagio, anche grave, come nel caso delle istituzioni totali, cioè di quelle istituzioni che tendono a prendere in consegna interamente la vita dell’individuo, tagliandolo fuori dal resto della società. LE ISTITUZIONI TOTALI Il sociologo americano Erving Goffman (Unità 6, § 3.5) passò un anno nel grande ospedale psichiatrico St. Elisabeths di Washington. Viveva assieme ai ricoverati come uno di loro e nel frattempo portava avanti le sue osservazioni da sociologo. Pubblicò i risultati del suo studio in un libro famoso del 1961, Asylums. Goffman si rese conto che quell’ospedale psichiatrico era un’istituzione totale. I ricoverati erano tagliati fuori dal resto del mondo. Un’unica istitu zione, quella sanitaria dell’ospedale, si faceva carico di loro. Non era possibile di conseguenza fare quello che di solito la gente fa vivendo in una società con parecchie istituzioni: per godere di una certa libertà si sottrae al dominio di un’istituzion e e passa temporaneamente sotto quello di un’altra. Ad esempio, se la vita in famiglia è al momento un po’ opprimente, possiamo trovare rifugio nel gruppo di amici e se il gruppo di amici diventa soffocante, torniamo alla famiglia o ci dedichiamo alla scuola. Al St. Elisabeths tutto veniva deciso dall’ospedale e non c’era un’altra istituzione dove scappare. Goffman si rese conto che le persone che vivono in istituzione totale vengono umiliate e spogliate della propria identità. Vide anche però che i ricoverati, messi alle strette, sfoderavano una sorprendente capacità di resistenza: inventavano strategie per crearsi spazi in cui vivere per conto proprio. Ad esempio, dietro l’ospedale c’era una macchia di alberi utilizzata da un gruppo di ricoverati come luog o di riunione per bere e giocare a poker di nascosto. Lì si realizzava un’altra piccola società, un’altra istituzione, tra le crepe dell’istituzione totale. L’ospedale psichiatrico non è l’unica istituzione totale possibile. Situazioni del genere si possono verificare nelle carceri, nelle caserme, nelle case di riposo e in altri contesti. Ovviamente, tutto dipende da come vengono impostate le cose. Se siamo consapevoli dei rischi che si corrono, possiamo evitare che un manicomio o un carcere si trasformino in
un’istituzione totale.
Status. Per status si intende una posizione stabile che l’individuo occupa nella società. Un individuo si trova abitualmente ad avere più status contemporaneamente e a cambiare status nel corso della vita. Sebbene nelle società complesse gli status di un individuo siano molti di più, anche nelle società semplici sono abitualmente più di uno. Ad esempio, un !Kung può essere al tempo stesso padre, marito, zio, parente onomastico, cacciatore, capobanda. Anche se un individuo ha più status, come ha notato E.T. Hiller (1947), c’è spesso uno status chiave, una posizione che per la sua importanza condiziona le altre. Ad esempio, se un !Kung è capobanda o sciamano, facilmente ne risentirà anche la sua vita di cacciatore o di genitore o marito. Lo status è correlativo, nel senso che ciascuno viene a trovarsi in una posizione che si definisce in rapporto a quella degli altri. È simbolico, giacché la posizione che uno occupa dipende da come gli altri lo collocano nella mappa della società
che hanno in mente. Nelle società complesse a produrre lo status concorrono quattro fattori: il compito sociale, cioè le mansioni che si svolgono nella società, la condizione economica, determinata dalla ricchezza (il patrimonio che si possiede) e dal reddito (gli introiti correnti), il prestigio, cioè la reputazione, la fama, il rispetto, la stima di cui si è circondati, e il potere, che è la capacità di influire sugli altri. Nella società !Kung, dato che non ci sono differenze di ricchezza e di potere, né marcate differenze di prestigio, lo status è definito essenzialmente dal compito sociale. Da quando R. Linton (1936) l’ha introdotta, è in uso la distinzione tra status ascritti, assegnati in base a requisiti requisiti che le persone hanno naturalmente, naturalmente, quali l’età, il sesso, la famiglia di appartenenza, la salute fisica, e status acquisiti, che le persone conquistano con la volontà, l’impegno e le capacità. La distinzione non è netta, in quanto gli status ascritti hanno a volte bisogno di convalida sociale (un essere sostituito se non si dimostra all’altezza) e gli status acquisiti hanno spesso una capo per discendenza può essere quota ascrittiva (è più facile raggiungere certe posizioni da certe condizioni di partenza). Tra i !Kung la maggior parte degli status sono ascrit ti, legati alla nascita, all’età e al sesso, anche se non mancano status acquisiti, come quello di sciamano, di capobanda o di parente onomastico. Nelle società complesse gli status tendono a essere acquisiti, ma non bisogna credere che manchino gli status ascritti: re, regine, capitani d’industria, ricchi per lo più si nasce. In genere nella società gli status sono ordinati gerarchicamente, secondo una graduatoria ideale che le persone hanno in mente. Nella nostra società l’attore è in genere considerato p iù impor tante del medico e il medico più del barbiere. Tra i !Kung, essendo la società egualitaria, gli status non sono gerarchizzati.
Ruolo. È il complesso delle azioni che ci si aspetta da un individuo per la posizione che occupa in società . Se paragoniamo la vita sociale a una specie di teatro in cui gli individui sono attori che recitano dinnanzi agli altri, il ruolo è il copione, la parte. Ad esempio, da una madre !Kung ci si aspetta che allevi i figli con senso di responsabilità e con amore, che finché sono piccoli li porti con sé nelle spedizioni di raccolta, che nell’attività domestica si lasci aiutare dalle altre donne, ecc. Il ruolo si basa su norme sociali: gli altri si aspettano che l’individuo reciti quella parte perché ci sono norme sociali che regolano il comportamento di chi si trova in quella posizione. Tuttavia, come hanno messo in evidenza gli etnometodologi ( Unità 6 , § 3.6) un ruolo non dipende solo da norme esistenti, ma poco o tanto viene definito strada facendo, nel corso dell’ interazione: è un copione – dice Cicourel (1972) – scritto assieme dagli stessi attori. Ad esempio, una madre !Kung può essere inizialmente un po’ fredda nel trattare il figlio, ma dietro gli inviti delle altre donne, vedendo come queste si muovono, notando l’imbarazzo del marito, può darsi che arrivi a essere più calda. Tra chi detiene il ruolo e gli altri si realizza una sorta di contrattazione su come debba interpretarsi la parte: si parla di negoziazione di ruolo. Ovviamente non si negozia con chiunque, ma solo con chi ha voce in capitolo nella definizione del ruolo: nel linguaggio tecnico persone e gruppi di riferimento. Ci sono ruoli formali, riconosciuti ufficialmente, e ruoli informali, non ufficiali e di cui siamo scarsamente consapevoli. consapevoli. I formali sono basati più sulle norme, mentre gli informali sono maggiormente negoziati. Ad esempio, tra i !Kung il ruolo della madre o del parente onomastico o del capobanda o del proprietario della freccia nella spartizione della carne sono formali. Se però uno ogni volta che nasce una tensione si incarica di avviare lo scherzo, detiene il ruolo informale di risolutore di tensioni. Molti comportamenti abituali che il senso comune e la psicologia attribuiscono a com’è fatto il singolo, esaminati dal punto di vista d ella società, appaiono legati a ruoli informali. In una ricerca di M.S. Davis e C.J. Schmidt (1977) è stata studiata in chiave di ruolo la simpatia: è risultato che le persone giudicate simpatiche interpretano generalmente la parte di chi è disposto generosamente a cedere, mentre gli antipatici quella di chi si impone sugli altri. Peraltro i due ruoli tendono a essere complementari: in molte situazioni risulta utile che, accanto a chi cede salvaguardando l’armonia, ci sia chi si impone, ottenendo che si facciano le cose. A ogni status corrispondono di regola più ruoli: per il fatto di occupare una posizione nella società l’individuo si trova a svolgere una serie di ruoli diversi: si dice che detiene un role-set. Ad esempio, una madre !Kung interpreta parti diverse nei riguardi del figlio più piccolo, del più grande, del marito, delle altre donne, ecc. Nelle nostre società complesse si è spesso esposti al conflitto di ruolo. Può accadere che l’individuo si trovi a far fronte a richieste contraddittorie di ruoli diversi. Ad esempio, il ruolo di uomo politico può richiedere di impegnare anche i week-end, ma il ruolo di padre esige che si stia a casa. In questi casi si parla di conflitto inter-ruolo. Altre volte c’è un conflitto intraruolo. Accade quando ci sono ambiguità nella definizione del ruolo, in genere perché individui o gruppi di riferimento diversi chiedono cose diverse e contraddittorie. Ad esempio, l’addetto alla cassa di un supermercato può trovare difficile conciliare la richiesta del suo capo di sbri garsi per la chiusura col fatto che l’azienda desidera che si sia gentili con i clienti. In società semplici come quella dei !Kung il conflitto di ruolo è raro. La cosa si spiega pensando
che i ruoli che gli individui si trovano a interpretare sono relativamente pochi e che i gruppi di riferimento possono confrontarsi facilmente all’interno della banda, in modo da chiarire le ambiguità e negoziare soluzioni in caso di disaccordo su come ci si debba comportare. Quando le persone sono alle prese con un conflitto di ruolo, di solito cercano di uscirne rinegoziando la definizione del ruolo o interpretando il ruolo in modo da conciliare il più possibi le le contraddizioni. La comunicazione ha una parte decisiva nell’assicurare il successo dell’operazione e nell’eliminare i disagi derivanti dall’esperienza del conflitto. Se non riesce a sanare la situazione così, l’individuo può rifugiarsi nel distanziamento: si disaffeziona al ruolo, lo considera con indifferenza e distacco.