Francesco Tampoia
Socrate non è Elisa, però...
Firenze Atheneum1994 2a Ed. riveduta e corretta 2011
Indice
Cultura materiale e logos in Grecia Oralità, manoscritti, stampa Dalla Seinfrage alla Frage nach der Technik Socrate non è Elisa, però... Verso una società delle menti Postfazione
PREFAZIONE
We are well on the way to see conversation as the ultimate contest within which knowledge is to be understood. R. Rorty.
Quando si avverte in modo chiaro e diffuso il tramonto di schemi mentali, di ideologie, di saperi, la crisi di contenuti e aree semantiche, giusto il logorio inarrestabile del tempo, è d'obbligo cambiare i dizionari, mutare il lessico e collocare determinata produzione intellettuale in altre collane o schede dall'etichetta non
ancora stampata come "insiemi discorsivi", "materiali per la conversazione del XXI secolo", produzione di cui non si conosce con precisione né il percorso né l'approdo. È il modo, forse non del tutto nuovo, d'industriarsi alla ricerca di labili contenitori, di ri-trovare, ai margini dell'universo babelico dei saperi, delle frasi, dei linguaggi, dei nessi, dei codici che abbiamo dinanzi, alla ricerca di un appoggio qualsiasi, senza impegno, di una direzione, di un senso. A volt vo ltee con co n ma magg ggio iore re,, a volte vo lte con co n minor min oree ener en ergia gia e fortun for tunaa fu ques qu esto to il ruol ru oloo della de lla filos fil osof ofia, ia, prima pr ima conf co nfus usaa nel ne l vast va stoo oriz or izzo zonte nte del de l conos co noscib cibile ile,, poi po i em emer er sa nell ne llaa classificazione enciclopedica, composta per contenuto e metodo in modo specifico, infine travolta dalla rottura di argini e steccati, costretta a fluttuare tra antropologia, sociologia, storia delle idee, mito, religione, arte, scienza, tecnica, morale, politica, letteratura, sempre più oggetto di spinte centrifughe, cui non furono fur ono o sono so no estr es tran anee ee la freq fr eque uenz nzaa delle de lle reti re ti infor in format mativ ive, e, la sovr so vrabb abbon onda dann za dell de llaa divulgazione. Con piena consapevolezza, accurata analisi, poetico sentire, I. Calvino nei suoi ultimi scritti ha rappresentato la condizione dell'intellettuale del nostro tempo come uomo "senza qualità", "senza direzione", che avverte di essere parte infinitesima di un moto ondulatorio tra una precaria unità (senso di inclusione) e la sfuggente parz pa rzial ialità ità (sen (s enso so di escl es clus usion ione) e),, tra tr a il pezz pe zzo, o, la part pa rtee , il dett de ttag aglio lio e l'ip l' ipote otetic ticaa glob gl obali alità tà.. «La rego re gola la del de l sign si gnor or Palo Pal o mar a poco po co a poco po co era er a anda an data ta cambi ca mbian ando do;; ades ad esso so gli gl i ci vole vo leva va una un a gran gr an vari va riet etàà di model mod ellili,, magar mag arii tras tr asfor formab mabili ili l'uno l' uno nell ne ll'a 'altr ltroo secondo un procedimento combinatorio, per trovare quello che calzasse meglio su una realtà che a sua volta era sempre fatta di tante realtà diverse, nel tempo e nello spazio.»1. In tempi andati, di positivistica o neopositivistica memoria, il quadro culturale appariva meno smembrato. Per orientarsi "nel mondo degli uomini e della vita" si poteva pot eva ricorr ric orrere ere all'an all 'antro tropol pologi ogiaa cultur cul turale ale,, ad alcune alc une defini def inizio zioni ni di cultu cul tura ra come, com e, ad
esempio, quella di C. A. Elwood «[la cultura comprende]da un lato, la totalità della civiltà materiale dell'uomo: utensili, armi, abbigliamento, ripari, macchine, e persino sistemi di produzione e, dall'altro tutto quello che è civiltà non materiale o spirituale: linguaggio, letteratura, arte, religione, rituale, morale, legge e governo». 2 Chiara o se si vuole schematica messa a punto di un concetto e di una disciplina che poi ha dovuto rendere più deboli e labili gli scomparti con il mutamento dei campi disciplinari e delle tecniche di ricerca. O quella dell'ormai lontano 1948 di A. L. Kroeber «la cultura potreb pot rebbe be definir def inirsi si come com e l'insie l'in sieme me di tutt tut t e le attivi att ività tà e i prodot pro dotti ti non fisiol fis iologi ogici ci delle del le person per sonalit alitàà umane uma ne che non siano si ano automa aut omatic ticame amente nte rifles rif lessi si o istint ist intivi. ivi. Il che a sua volta significa, in linguaggio biologico e fisiologico, che la cultura consiste di attività condizionate o apprese (più gli artefatti da loro prodotti); e l'idea dell'apprendimento ci riporta a ciò che si trasmette socialmente, a ciò che si riceve dalla tradizione: a ciò che è acquisito dall'uomo come membro della società» 3 , defini def inizio zione ne che, che , dettat det tataa dalle dal le teorie prevalenti al momento, va almeno rivista per la cesura tra il fisiologico e il non fisiolo fis iologic gico, o, tra il materia mate riale le e l'imm l 'immagi agina nario rio,, tra tr a il cultur cul turale ale e il i l natu n atural rale. e. Oggi la dicotomia natura/cultura sembra una querelle d'altri tempi, completamente svanita per la più accreditata, probabile ipotesi che non è l'evoluzione del cervello che ha sviluppato l'abilità culturale e tecnica, ma, al contrario, l'evoluzione del nostro sistema nervoso deve molto ai processi di adattamento dell'apparato locomotorio e/o al precoc pre cocee uso di prolu pr olunga ngamen menti ti art artific ificial ialii del corpo, cor po, oss ossia ia di manufa man ufatti tti e di tecnic tec niche. he. Detto altrimenti, cervello e corpo, motilità e intelligenza, corpo, ambiente e manufatti si sarebbero sviluppati seguendo un intreccio inestricabile. Qualche anno fa, con tratti si direbbe conclusivi, G. Prodi scriveva su "Intersezioni": «Si propone un'analisi (con gli strumenti culturali oggi a disposizione) della struttura umana, per dimostrare che il dissidio non sussiste, che non è mai esistito nella realtà e che quanto è stato nella storia fu frutto di un equivoco culturale, peralt per altro ro inevit ine vitabil abile». e». 4 Senza l'intreccio di natura e cultura, uomo e ambiente, del
resto, non ci è dato di capire il decisivo passaggio e l'acquisizione di una più evoluta competenza linguistica; non saremmo in grado di valutare le condizioni che hanno portat por tatoo alla regola reg olarit ritàà del lingua lin guaggi ggioo e allo all o svilup svi luppo po formal for male, e, non compre com prende nderem remmo mo la funzio fun zione ne comunic com unicati ativa, va, comune co mune ad altre alt re specie spe cie animali ani mali,, non sar saremm emmoo in grado gra do di intendere, infine, la funzione astrattiva e la trattazione, su un piano mentale, di oggetti di cui l'uomo non ha esperienza diretta o che non esistono. Non potremmo immaginare quella vera e propria mutazione della specie dalla quale l'uomo ha potuto instaurare nessi reali o irreali tra mondo e società, intessere speciali relazioni con i suoi simili, differenziare e unificare l'esperienza, la natura delle cose. Accanto alle difficoltà dell'antropologia, per linee interne, oggi vanno registrate quelle di ordine teoretico e fondazionale o se vogliamo dall'esterno, i cui rappresentanti sull'onda lunga del pensiero di Nietzsche e Heidegger praticano il metodo della decostruzione e del sospetto, metodo che ha portato all'estinzione del cogito, alla negazione della centralità dell'uomo, alla fine dell'umanesimo. Alcuni Alc uni messag mes saggi gi proven pro venien ienti ti dagli dag li ultimi ulti mi scritt scr ittii di R. Rorty, Ror ty, alcuni alc uni stimoli sti moli dalla dal la lettura di M. Foucault, l'ascolto del complesso, intricato dibattito ermeneutico non poteva pot evano no non farsi far si sentir sen tire, e, certo cer to molto molt o libe l ibera ramen mente, te, durant dur antee la stesu ste sura ra di questo que sto libro, libr o, nato come tentativo di riscrittura o raffigurazione archeologica di segmenti di storia e di pensiero, tecniche linguistiche, stati metamorfici, istanze di ieri e di oggi per finire con il tentativo di prefigurare la futuribile società delle menti, umana e artificiale. Il libro è stato scritto in parte utilizzando il registro narrativo e argomentativo, in parte par te la tecnic tec nicaa del dialog dia logo, o, art artee antica ant ica e modern mod erna, a, usata us ata anche anc he dagli dag li studio stu diosi si di I. A., last but not least, nelle più clamorose e fortunate sperimentazioni. È una tecnica di comunicazione, quella dialogica, un modo di vivere e di essere che ha contrassegnato lo svolgimento della civiltà occidentale, cui si richiamava L. Pareyson: «la filosofia crea il dialogo, perché nell'atto stesso che moltiplica senza fine le interpretazioni person per sonali ali della del la verità ver ità,, le l e unisce uni sce tutte tut te nella nel la consa co nsapev pevole olezza zza di possed pos sedere ere la verità ver ità senza se nza
esaurirla, ma anzi alimentandosene continuamente».5 È stata suggerita da G. Gadamer quando ha evidenziato le "ragioni pratiche" che ne sarebbero alla radice, come il parlare umano comporti un rapporto bipolare con l'altro, un rapporto di amicizia, sorretto da volontà buona per essere compresi e comprendere, un rapporto di solidarietà che si consegue appunto con il dialogo. Il fatto nuovo è che tra i dialoganti abbiamo per la prima volta la macchina, il computer, uno dei personaggi più proble pro blemati matici ci e ambig a mbigui ui del nostro nos tro tempo. te mpo. Alle origin ori ginii dell d ellaa civi c iviltà ltà greca, gre ca, ispira isp irata ta dalla dal la religi rel igione one,, dal d al mito, mit o, da forme for me di cultur cul turaa e apprendimento empirico ma anche razionale, regnava una visione dell'universo come insieme di elementi fisici e psichici, di vita e di morte, di essere e non essere, alternarsi di un'incerta unità nella molteplicità, unione di elementi simili e anche dissimili, propor pro porzio zionat nata, a, ma anche anc he mos mostru truosa osa.. La narra nar razio zione ne mitolog mit ologica ica,, i sapien sap ienti ti avevan ave vanoo parlat par latoo di bovina bov ina prole pro le con volto vol to umano, uma no, di esse es seri ri umani uma ni con volto vo lto bovi bo vino no,, di esse es seri ri con caratteri a un tempo di maschio e femmina. L'umanità greca viveva in uno stato di ambivalenza, di paura, nella consapevolezza di essere es sere oggetto di trasformazioni, di incarnazioni diverse, ma percepiva anche la funzione agìta, in questi scambi o interscambi dei vari elementi naturali, dalla cultura e dalla tecnica. Scoprì ancora tra fusis e abilità tecniche il valore operativo del logos, come in sua presenza operano i sensi, si producono modi, azioni, come per mezzo della sua funzione mediatrice si manifesta la conoscenza, la volontà, il fare. Il sapiente sa che le tecniche non vanno confuse con l'empiria, sa che hanno un valore conoscitivo oltre che strumentale, sa che spesso come nel volo di Icaro o nel caso del Minotauro s ’impongono con ardimento, ai confini della mostruosità, con artifizi che sostituiscono la natura e la modificano, sa che comportano dei rischi, mettono l'uomo di fronte all'ignoto. Nella Repubblica di Platone spesso affiora la dicotomia tra tecnici e filosofi e l'implicito interrogativo: possono i tecnici pensare? Possono i filosofi essere tecnici? I sofisti hanno esaltato la propria tecnica, l'arte retorica ma Platone ha reagito convinto di
dover assegnare dignità e valore solo a tecniche che si praticano con spirito epistemico e con finalità etiche. Nel Gorgia dice che la retorica agisce a livello di pist pi stis is,, mentr men tree ciò ci ò che ch e rend re ndee valid va lidaa un'a un 'art rtee o tecn te cnic icaa è il pian pi anoo ogge og gett ttiv ivo, o, quell que lloo del de l sapere, la sua base logica. L'analogia fatta da alcuni tra l'opera del retore e il medico è da lui contestata per il semplice motivo che l'arte medica, per essere tale, non può che avere un fine buono e positivo mentre la persuasione retorica non soddisfa i requisiti di una vera techné. È quanto si comprende leggendo il Filebo, laddove Platone si riferisce al mito di Prometeo e al fuoco, la metafora del fuoco, che vuol significare luce, capacità di vedere le parti nel tutto, tecnica di scoprire il molteplice nell'unità. O quanto si può intendere, per altri versi, nel Fedro ove al dio Theuth sono attribuite numerose invenzioni e tra queste la discussa tecnica della scrittura. Theuth pubblicizza il prodotto, ma non convince perché la scrittura appare un rimedio che potrebbe sortire effetto inverso al beneficio, essere un farmakon nefasto perc pe rché hé estr es trane aneoo alla all a natur na turaa dell' de ll'uo uomo mo che ch e pret pr eten ende de socc so ccor orre rere re.. La scri sc ritt ttur ura, a, parl pa rlar aree silenzioso, muto e morto, rimedio e tecnica, artificio, apparenza di logos è ingannevole protesi. Per quanto riguarda il posto e la funzione della scrittura nell'opera e nel pensiero di Platone, secondo l'interpretazione derridiana Platone avrebbe voluto evitarsi l'uso della scrittura, ma non ha potuto, perché la scrittura non è solo tecnica, è la condizione della dialetticità dell'essere platonico, è il raddoppiamento del logos, la scrittura ha un valore epistemologico, ontologico, tecnologico; è la possibilità di parlare e di tacere, di venire alla luce e di nascondersi, evidenzia "la differenza originaria" del tutto. Forse più attendibile l'ipotesi che la scrittura, veicolo del logos, forma del sapere, strumento del pensiero post- parmenideo metaforizzato con la grammatiké, rientri nel gioco dialettico dei misti. Platone, diversamente da Parmenide, ha posto la dicotomia oralità/scrittura in un quadro più ampio, il quadro delle scienze e delle tecniche, della dialettica e della morale, dell'uomo e dell'universo, del sapere e della virtù, un aggregato in cui c ui si snoda la molteplicità.
Il rimando metaforico, simbolico, archeologico, epistemologico tra oralità e scrittura s'impoverisce ma anche si arricchisce durante il Medioevo, quando la ripresa culturale recupera la scrittura, la esalta, la considera una tecnica intellettuale che può essere designata con la metafora, vivace e popolaresca, dell'arare dei campi. La tecnica della scrittura, i suoi strumenti, possono significare proprio questo, in contrasto e affinità con la parentela semantica dell'arare e l'exarare, già proposta da alcuni autori classici, coltivare i campi del sapere. Il Basso Medioevo vede migliorarsi la tecnica della scrittura, vede crescere la produzione di libri fino alla ‘rivoluzione inavvertita’ della stampa che si
realizza mediante un transfert tecnologico, utilizzando, cioè, tecniche incrociate dell'oreficeria e dell'industria vinicola dei torchi. Gutemberg ne è l'inventore tecno-logo, Koberger, Manuzio e altri gli industriali che la perfezionano e la diffondono in tutta Europa. Ma qual è il rapporto tra i filosofi e le macchine? La tecnica della stampa, certo, ha valore non solo estrinseco, va situata in uno spettro concettuale altro, dal grafismo alla parola, dalla parola al grafismo, perché il linguaggio è in natura, negli animali, nelle piante, nell'universo, nell'unive rso, di cui è la forma ultima. Galileo, parlando del gran libro della natura, lo interpreta come libro prodotto meccanicamente a stampa e pensa che lo scritto, come più esplicitamente dirà M. Foucault, ha preceduto il parlato, è nelle cose, costituisce oggetto di episteme archeologica. Se tra Platone e Socrate è emersa la divergenza scrittura-oralità, nel Cinquecento affiora la dicotomia scrittura a manostampa. I diversi partiti hanno proprie argomentazioni, il dibattito in alcune sedi è acceso, mentre per alcuni decenni la rivoluzione della stampa passa quasi inosservata. Il successo non può mancare perché la stampa è in armonia con il tempo, la civiltà del tempo, conforta la razionalità matematica e meccanica trionfante, illustra meglio la realtà che la nuova scienza va indagando, offre la possibilità di manipolare gli oggetti, di spostarli con estrema facilità. Una riflessione più radicale sulla stampa o su altre invenzioni tecniche richiede, tuttavia, approfondimenti, analisi di ben diversa fattura, un riesame dell'intera civiltà occidentale. È quanto ha fatto M. Heidegger giudicando la nostra epoca come epoca della tecnica, estremo esito della storia, ultimo atto della scena
metafisica. Per Heidegger pensare la tecnica, oggi, è l'unico modo di riportare l'umanità a prendere coscienza del proprio destino, di intendere il senso della vita e della morte, di aprirsi all'Essere e alla Verità. Heidegger scopre o riscopre il nesso, la compresenza di fusis fus is-log logosos-tec techné hné,, il valore val ore intrin int rinsec secoo della del la tecnic tec nica, a, ignora ign orato to da molti mol ti suoi suo i contemporanei, quando dice che la via regia per capire l'essenza della tecnica è quella di pensare ad essa, riflettere su di essa in modo radicale: «Non possiamo esperire veramente il rapporto con l'essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnica e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigio pri gionie nieri ri della del la tecnic tec nicaa e incate inc atenat natii ad ess essa, a, sia che la accett acc ettiam iamoo con entusi ent usiasm asmo, o, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancora più gravemente in suo potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale». E tuttavia la sua impostazione non soddisfa, sa di conservatorismo, è venata di nihilismo. Nelle fasi di storia dell'umanità ad economia primitiva la tecnica e la natura si armonizzano, la tecnica asseconda la natura; nella civiltà contemporanea la tecnica consiste soprattutto nell'accumulo di energia, nella traduzione delle fonti naturali in fondo energetico disponibile. Ma, la tecnica del nostro tempo va ricondotta a quella arcaica, perché anch'essa è un modo del disvelamento, il suo produrre, il suo tirar fuori il nascosto è aletheia. E comunque il disvelamento non può essere opera della tecnica da sola, la macchina fino alla modernità è ferraglia e resta tale, il disvelamento accade nell'uomo e con l'uomo. All'ipo All' ipotes tesii che l'uomo l'u omo non faccia fac cia più parte par te del Bestan Bes tandd e quindi qui ndi all' all ' ipotes ipo tesii della del la strumentalizzazione dell'uomo stesso, divenuto artificio o macchina, all'ipotesi della sua fine Heidegger ritiene di poter affiancare l'altra per cui ogni disvelamento viene dal libero, va verso il libero e porta nel libero. Qualche anno dopo la comparsa del computer, con lo sviluppo abbastanza sostenuto di studi sull'I. A. abbiamo assistito a un acceso dibattito, ancora in corso, tra rappresentanti dell'orientamento forte dell'I. A. e rappresentanti di un'ipotesi debole dell'I. A. nel ridurre o accentuare lo hiatus esistente tra mente e macchina, tra
linguaggio naturale e artificiale. Il procedimento comparativo per analogia e diversificazione applicato su due dialoghi, il Menone di Platone e il Programma Elisa di J. Weizembaum, evidenzia la differenza tra Socrate ed Elisa, ma solleva una serie di proble pro blemi mi perché per ché dietro die tro la macchi mac china, na, tra tr a macchi mac china na e uomo uom o si nascon nas condon donoo sensi, sen si, significati, rapporti, il valore del computer come raddoppiamento umano, differimento dell'uomo, la concorrenzialità concorre nzialità dell'I. A. verso l'uomo. I più recenti risultati della ricerca, il dibattito filosofico che ruota intorno, hanno riproposto in termini nuovi i problemi, quello che è soprattutto un problema lessicale per l'irruz l'ir ruzione ione di nuovi nuo vi termini ter mini,, la definiz def inizion ionee di intell int ellige igenza nza,, i concet con cetti ti di informazione e comunicazione. E tuttavia il progresso della tecnica, la migliore comprensione dell'I. A, il fatto che essa avvicina il computer all'uomo non potranno mettere in ombra o escludere i limiti e dell'uomo e delle macchine, l'eventualità della fine e dell d ell'un 'unoo e delle del le altre alt re.. L'ipotesi della convivenza, avanzata in questo saggio, prefigura empiricamente empiricamente una società delle menti o metamorfosi delle menti, che comporta una società in cui l'uomo, novello Hermes, l'uomo tecno-logo del dialogo dialogo e dei dialoghi accetta e vive un contesto di partecipazione o compartecipazione , si rende conto che con la macchina, con il computer si instaura una relazione informativa ma anche comunicativa, si realizza una nuova oralità, un nuovo tipo di dialogo o conversazione. È l'ipotesi, sorretta da convincimenti convincimenti ermeneutici, che svolge un discorso anormale dal punto punt o di vista vist a del discorso disc orso normale norma le e vicevers vice versaa un discorso disc orso normale nor male da un punto punt o di vista anormale, meno filosofica e scientifica e più letteraria. Discorso e conversazione cui hanno offerto materiali, tra i tanti, Dedalo, Gorgia e Platone, Petrarca e Malpaghin Malp aghini,i, Gutember Gute mbergg e Trithemius Trith emius,, Heidegge Heid eggerr e Adorno, Ador no, Minsky Minsk y e Bateson, Bate son, Hofstaedter e Searle. Si tratta di un discorso, ha suggerito suggerito Jacques Derrida, Derrida, per affrontare la questione della tecnica come caso particolare della scrittura.
NOTE
1) I. Calvino, Palomar, Palomar , Einaudi, Torino 1983, p.112. 2) C. Kluckholm, Kluckholm, A. L. Kroeber, Kroeber, Il concetto concet to di
cultura, cultur a, Il Mulino, Bologna Bologna 1982, p.
177. 3) Ivi, p. 112. 4)
G. Prodi, La cultura come c ome ermeneutica ermen eutica naturale, na turale, in "Intersezioni" "Intersezioni",, primo primo aprile
1988, p. 27. 5) L.
Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 209.
Cultura materiale e logos in Grecia
«Vuoi tu che io, quasi come portinaio spinto e costretto dalla folla, spalancate le porte, lasci entrare tutte le scienze, lasci mescolarsi insieme alla pura quella più impura di esse?» e Protarco: «Io non so proprio, Socrate, quale danno patirebbe uno che avendo le scienze superiori, acquistasse pure tutte le altre». Platone, Filebo.
Ciò che si avverte nella concezione naturalistica di Empedocle, fiorito in un momento già evoluto della civiltà greca, quando come prima forma di vita sulla terra si pone, sulla scorta degli altri presocratici, l'acqua, l'aria, la terra, il fuoco e poi gli alberi, gli animali, e con questi il perenne modificarsi della vita dall'indistinto al distinto, il passaggio e la metamorfosi da forma a forma riguarda l'uomo, la sua definizione, la comprensione, cioè, della vita tra mito e logos, in un fluido aggregato, incerto al suo interno che non consente partizioni sicure, che oscilla tra instabilità biologica e anatomica, tra divino e umano, animalesco, bestiale, razionale. Empedocle, tra i sapienti presocratici, appare il più suggestivo perché si presenta come medico e come dio, uomo speciale cui tutti corrono per chiedere oracoli, cure mediche, rimedi ai mali della vita. Di lui L. Gernet ha scritto: ‗II complesso di questi tratti ricorda curiosamente una figura che l'etnologia ci ha reso familiare: uno dei soggetti principali del Ramo d'oro è quello della regalità il cui detentore è responsabile della prosperità materiale del gruppo perché ha il potere di comandare agli elementi, perché è depositario di una potenza magica e infine perché è, egli stesso, un dio‘. 1 È il sapiente che parla di
incarnazioni privilegiate che spetterebbero a indovini, poeti, medici, principi, che si atteggia a re e mago, che domina il volgo perché è capace di controllare le forze della natura. Questo non deve meravigliare perché la credenza arcaica secondo cui determinati uomini avessero poteri fuori del comune fu diffusa ‗in parecchie società affini, quale più quale meno, alla Grecia preistorica e che sono società indoeuropee: analizzando la rappresentazione mitica delle diverse attività sociali dei latini, degli indù, degli iraniani, e di altri popoli ancora, si sono trovati i tre tipi del guerriero, del mago, di colui che dà nutrimento dove i primi due sono ad un tempo in un rapporto di opposizione e di collaborazione‘. 2 Empedocle incarna un po' i tre tipi o almeno il secondo e il terzo con l'aggiunta di quello del filosofo, di un uomo-dio che sente la "mescolanza" della materialità e della cultura, la forza e il mistero del logos. La mescolanza che scopre è insieme di elementi fisici e psichici, di vita e di morte, di essere e non essere, alternarsi di un'incerta unità nella molteplicità, unione di elementi simili e anche dissimili e alternativi, proporzionata, ma anche mostruosa: ‗capitava così che nascessero molti esseri esseri bifronti e con due petti opposti, bovina prole con volto umano, e al contrario capitava che venissero fuori esseri umani con volto bovino, e altri esseri ancora con caratteri di maschio e femmina a un tempo, forniti di entrambe le parti che si celano‘ (B (B 61). Questi casi noti alla narrazione mitologica fanno testo nelle spiegazioni e argomentazioni di Empedocle e pongono interrogativi cui il filosofo sa dare risposte, anche in prima persona ‗Io fui già un tempo giovane e ragazza ed anche pianta e uccello e muto pesce che salta fuori del mare‘ (B 117), laddove si immagina soggetto di trasformazioni, di incarnazioni diverse, memore dell'originaria bisessualità dei viventi, soggetto consapevole che in questi scambi o interscambi, governati dalla natura, si frappone anche l'attività tecnica, come osserva il Vegetti: ‗All‘andirivieni ‗All‘andirivieni tra uomo e animale, animale e uomo non si attribuisce razionalità fuori la sola possibilità naturale di scambio prevista in un
universo coeso le cui parti sono sempre in comunicazione, s'interpone la tecnica che non è materiale inerte, bensì patrimonio secolare di conoscenze da riportare nell'enciclopedia del sapere‘.3 Ma, la posizione dell'uomo nella natura, il posto che occupa o può occupare è diverso quando il sapere abilita il sapiente a sospendere le leggi naturali, a eseguire miracoli. Il sapiente esplorando la natura ne scopre le forze nascoste e può produrre effetti apparentemente ad essa contrari, non nel senso di soprannaturali bensì nel senso di straordinari ‗conoscerai quanti quanti sono i rimedi dei mali e il riparo della vecchiaia: per te solo, infatti, compirò tutte queste cose. Placherai l'impeto dei venti infaticabili che, levandosi sulla terra, con i loro soffi inaridiscono i coltivati e di nuovo sol che tu lo voglia, potrai chiamare indietro i loro soffi; dopo la nera pioggia agli uomini propizia siccità darai, e dopo l'arsura estiva piogge che fanno prosperare le piante, abitatrici delle plaghe celesti. Il vigore di un uomo morto saprai richiamare dall'Ade‘ (B 111, Sulla natura). È ancora il saggio, lo sciamano che parla, l'uomo che era mago e sapiente, pensatore ed esperto di tecniche. La scuola eleatica arroccata sull'immobilità dell'essere, muovendo da forti istanze ontologiche aveva sferrato il più potente attacco alla trasformazione, al divenire e ovviamente alle tecniche che la trasformazione assecondano e accelerano. Queste rientravano nei divieti del terribile Parmenide. Il medico Empedocle, invece, non può rinunciare a strumenti che, se non riescono a debellare del tutto l'infelicità umana, congiunti a requisiti mistici e filosofici, perdono la loro presunta innaturalità e provvisorietà e rendono migliore l'esistenza, la scoperta del giusto senso della vita. La complessità e totalità della fusis è confermata in altri frammenti ove si afferma che ogni essere è esperto per natura nelle attività che riguardano la parte o organo del suo corpo in cui è la mescolanza degli elementi fondamentali (le radici) che costituiscono l'universo,
dato che proprio la complessità degli elementi e la loro presenza destina e ordina la diversità e la validità delle capacità ca pacità umane. Democrito in modo più consapevole avvicina le tecniche alla natura, le unisce ad essa e può giudicarle legittime, dignitose, "naturali", allo stesso modo si pronuncia, stemperando i miti, Anassagora. Per Anassagora l'uomo è debole e indifeso verso i fenomeni naturali e verso gli animali, è meno veloce, morde e lacera meno profondamente, ha meno forza di altri animali; ma grazie al sapere e alle tecniche riesce a sopravvivere, capovolgendo gli svantaggi iniziali, e supera tutti gli altri esseri. L'uomo è fornito di mani; sono queste che gli permettono di essere il più intelligente degli animali: ‗Ciò significa che il modello di uomo che Anassagora ha di fronte è l'uomo che ha le mani e le usa, cioè l'uomo tecnico che proprio in quegli anni in Atene si imponeva a pieno titolo nel contesto sociale. In tal modo con questa concezione anassagorea il lavoro manuale era non soltanto rivalutato, contro una tradizione aristocratica che lo disprezzava, e collocato co llocato su un piano di uguale dignità con le altre attività lavorative, ma era addirittura posto in primo piano come contrassegno costante dell'umanità‘.4 II mito racconta che la natura volle proteggere l'uomo per il mantenimento della specie e lo fornì, tra l'altro, di metis, insieme di varie e molteplici abilità, di intelligenza tecnica e di astuzia: ‗la scienza di Atena e di Efesto, di Ermes e di Afrodite, di Zeus e di Prometeo, una trappola per la caccia, una rete per la pesca, l'arte del panieraio, del tessitore, del carpentiere, l'abilità del navigatore, l'intuito del politico, il colpo d'occhio esperto del medico, le astuzie di un personaggio scaltro come Ulisse, il capovolgimento della volpe e la polimorfìa del polipo, il gioco degli enigmi e degli indovinelli, l'illusionismo retorico dei sofisti‘.5 È la natura, quindi, che ha conferito all'uomo la capacità di reagire a situazioni disparate e imprevedibili, di comportarsi ed esprimersi in modo ambiguo,
impreciso, ma anche esatto e rigoroso, unico mezzo per operare e vivere in un mondo illimitato e vario, governato dall'inesorabile legge del divenire e dal caso. Zeus è il dio della metis per eccellenza perché dopo aver sposato la dea, per non esserne vittima l'ha ingoiata. Dotati di metis e concorrenti antagonisti di Zeus, sono Efesto e Prometeo. Questo nemico/alleato di Zeus è il dio che insegna ai mortali le tecniche, le arti per vincere e sottomettere la natura, è il dio presentato nel Prometeo incatenato di Eschilo che così parla: ‗Ma udite la miseria dei mortali prima indifesi e muti come infanti, e a cui diedi il pensiero e la coscienza. Essi... ignoravano le case di mattoni, le opere del legno: vivevano sotterra come labili formiche, in grotte fonde, senza il sole; ignari dei certi segni dell'inverno o della primavera che fioriva o dell'estate che portava i frutti, operavano sempre e non sapevano finché indicai come sottilmente si conoscono il sorgere e il calare degli astri, e infine per loro scoprii il numero, la prima conoscenza, e i segni scritti che si compongono, la memoria di tutto ... Sappilo in breve; tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene da Prometeo.‘ Prometeo.‘6 La metis, quindi, è un genere di intelligenza primordiale e indeterminata che scaturisce e promana dalle viscere della natura, deriva dai quattro elementi contraddittori acqua, aria, aria, terra, fuoco, elementi elementi che modellano il cosmo, gli animali, l'uomo. Come le abilità tecniche anche il logos interagisce con la fusis, provoca sensi, modi, azioni e comprende un'ampia e diversa validità cui si aggiunge la funzione mediatrice di mettere in relazione la conoscenza, la volontà e il fare, trae alimento dal mito, come questo a sua volta dalla fusis e da tutta la sua fenomenologia, ma anche se ne distacca. Originariamente il logos è discorso, specifica capacità umana, strumento di comunicazione e di persuasione, espressione di pensiero che, al pari di tutte le capacità umane, è ambigua, diversa, può dare esiti positivi e
desiderati ma anche risultati spiacevoli e negativi. Si distingue per l'esigenza di disciplina, si sottopone a norme, leggi e anche divieti la cui forza si fa sentire in diversi campi del pensiero, della civiltà, della vita. Nelle matematiche impone all'applicazione e al sapere intuitivo una strutturazione logica, chiusa, metafìsica. Lo straniamento del logos dal mondo empirico, tuttavia, non potrà mai darsi come definitivo e assoluto, non prescinderà dalle abilità tecniche perché dalla techné il sapiente, l'esponente greco del logos, apprende aspetti metodologici,
concettuali e teorici per la sua attività, come confermato del resto dal valore semantico della voce techné, dall'affinità alla fusis, dall'equivalenza fino a Platone con episteme.7 Nella civiltà greca la tecnica occupa una funzione che possiamo chiamare mediana e interna tra il sapere logico-scientifico e le finalità dell'azione pratica, tra scienza e vita, cultura e società. Nella complessità e varietà delle operazioni manuali, meccaniche e strumentali, viene a situarsi su fondamentali basi fisiche, materiali, energetiche ed è proiettata nel vasto campo della cultura materiale. Chiarisce meglio il valore delle tecniche tra mitologia, simbologia, vita quotidiana J. P. Vernant quando scrive: ‗Pare invece saldamente stabilito, almeno nell'età nell'età classica, il legame fra tre divinità associate, Athena Hephaistos e Prometeo, e le arti del fuoco. Questo raggruppamento di dei qual è stato attestato dal culto, nel mito e nella rappresentazione figurata, tende a simboleggiare ad Atene una funzione generale che si potrebbe chiamare la funzione tecnica e una categoria sociale, quella degli artigiani‘;8 nel mito del fuoco viene a spiegarsi l'importanza del fuoco e la necessità per gli uomini di procurarselo. Prometeo ruba il fuoco, ma soprattutto lo rende alla portata dell'uomo con i suoi artifici, con l'astuzia della tecnica.
L'esplicazione mitologica su cui ci siamo soffermati, comunque, non basta; con essa il valore e il senso delle tecniche non è ancora chiaro e definito: ‗senza dubbio per un piccolo contadino beota del VII secolo il lavoro deve essenzialmente restar limitato all'agricoltura, ancora non sono nettamente chiarite l'idea di un'attività tecnica e l'idea d'una funzione tecnica, e neppure s'è delineato il personaggio di Prometeo come padre padre di tutte le arti‘.9 L'attività agricola, principale occupazione dell'uomo, si svolge senza determinante ausilio delle tecniche, è praticata affiancando e assecondando la natura. Il Prometeo di Eschilo è un po' diverso da una certa tradizione, ‗il suo Prometeo non è specialmente metallurgo, né vasaio; nella lunga lista delle 'tecniche di cui si vanta di aver fatto dono agli uomini la ceramica e la metallurgia non figurano neppure‘.10 Non molto diverso da quello di Platone è il padre di tutte le tecniche e di tutti i saperi, tanto che il fuoco ha ben altro significato, il fuoco che ha sottratto è maestro di tutte tutte le arti, è didascalos téchnes pases.
È ciò che dimostra B. Gille, seguendo un originale programma di ricerca quando dice che l'insieme delle tecniche appare come elemento primario di mediazione tra cultura e società, tra oggetto della conoscenza teorica e finalità dell'azione pratica, tra bisogni materiali, esigenze economiche e condizioni naturali. Per le origini della civiltà greca aggiunge che ‗tra gli dei e gli uomini si è creato un intermediario indispensabile: non potendo ammettere l'origine unicamente umana delle tecniche, almeno di quelle più essenziali è stato necessario immaginare Prometeo. Dedalo ci conduce a una terza tappa, quella definitiva, una sorta di laicizzazione delle tecniche‘.11 Con Dedalo è come se la tecnica si specifichi, si scomponga in dettagli, con Dedalo si è pervenuti alla strumentazione. Con essa un fatto altrettanto importante: Dedalo è un uomo, un personaggio che ha un sostrato storico, che può essere situato storicamente nel VII secolo. E ancora più avanti ‗Eroe il cui nome, trasferito nel vocabolario corrente,
suggerisce ogni oggetto di fabbricazione artigianale, eroe legato alla dinastia reale di Atene, legata a sua volta a Efesto e ad Atena. Dedalo appare proprio come il prototipo dell'artista e dell'artigiano [...] Incarna il genio inventivo e il talento artistico. artistico. E appunto il rappresentante della techné‘.12 Dedalo è un grande inventore; con la sua perizia è arrivato al punto di dare la vita alle sue statue, è stato capace di imitare il vivente, ha creato delle macchine viventi. Solo da questo momento e nei limiti della concezione greca della vita, entro paradigmi che sono indubbiamente diversi dai nostri, per i greci si può parlare di un insieme strutturato di tecniche o di complessità della tecnica, di un'arte, insomma, già evoluta. Lo dimostra, per fare un esempio tra tanti, il caso della leva, una macchina complessa che risolve l'aporia di una piccola forza che solleva un grande peso e rappresenta la vittoria della techné sulla fusis, macchina la cui tecnologia sarà spiegata in epoca matura da Aristotele e meglio ancora dal grande Archimede. Su questa linea interpretativa, con altre argomentazioni A. Ferrari che lamenta come gran parte della produzione tecnica dei greci non ci sia pervenuta, soprattutto se ci riferiamo a catapulte, baliste, strumenti musicali, gnomoni e orologi astronomici. Gli oggetti artificiali giunti fino a noi sono, comunque, bastevole testimonianza di un mondo, simbologia di una concezione della vita: ‗Già Pausania (9,3,2) sapeva che Dedalo deriva da daidalon e non viceversa; daidalon a sua volta viene da daidalto, il verbo che indica la giunzione di materiali diversi, soprattutto legno e metallo, nello stesso oggetto. Il daidalon è dunque il limite estremo, quanto a perizia, raggiungibile dal tekton omerico e Dedalo ne diviene l'eroe eponimo‘. eponimo‘.13 Assemblare elementi diversi e incongrui come nel caso del volo di Icaro o del Minotauro è un fare fin troppo ardito, ai confini della mostruosità, significa dar
vita a fatti ed esseri intermedi, promiscui, operare ai limiti dell'invalicabile con il brivido dell'eccellenza ma anche del gravissimo rischio. Questo perché ‗l'oggetto artificiale diventa prima raffigurativo del vivente, poi un suo sostituto ingannevole e infine si estrania completamente dal suo autore acquistando una vita propria‘.14 Comporta la coscienza di un esito voluto e desiderato ma anche temuto, gravido di pericolo perché in concorrenza con la natura. J. P. Vernant, tratteggiando la temperie storico-sociale del secolo di Eschilo e di Platone, scrive: ‗la riflessione sulle teknai era diventata cosa corrente particolarmente presso i sofisti. In Platone stesso l'interesse per la tecnologia si manifesta nel frequente ricorso che nei dialoghi si fa ad esempi tolti dalle tecniche‘.15 Non possiamo seguirlo fino in fondo, però, quando implicitamente accenna alla conversione dell'interesse in disprezzo e scrive: ‗si trova in lui la cura di separare e d'opporre l'intelligenza tecnica e l'intelligenza, l'uomo tecnico e il suo ideale d'uomo così come egli separa e oppone nella città la funzione tecnica e le altre due. È questo partito preso che spiega la distorsione che Platone fa subire nel IV libro della Repubblica alla sua teoria tripartita della società‘, 16 laddove sottace la cura a unire, a evidenziare casi e situazioni miste come la classe dei guerrieri, affiancata a quella dei filosofi che deve essere esperta di tecniche, di tecniche militari, per poter difendere lo stato, o le tesi assunte in altri dialoghi. Parla di dissimmetria tra le classi e i rispettivi compiti o attività: ‗Questa sorprendente dissimmetria non si spiega altrimenti che col rifiuto d'accordare una virtù positiva a quelli la cui funzione sociale è costituita dal lavoro‘, 17 tesi (di Vernant) non condivisibile perché la distinzione nelle tre classi va riportata a motivi di funzionalità e, peraltro, Platone attribuisce a tutte insieme, unendole, la sophrosyne. Quando Platone parla dell'ipotetica nascita della città, riconosce che essa deve soddisfare i bisogni primari dei cittadini: ‗Ora il primo e maggiore bisogno è quello di provvedersi il nutrimento per sussistere e vivere. Senz'altro il
secondo quello di provvedersi l'abitazione, il terzo il vestito e simili cose. Qui nessuno può bastare a se stesso‘ (Rep. 369d).18 E questo può aversi con un'armoniosa e organica comunità in cui agricoltori, costruttori, tessitori, calzolai e altri tecnici hanno un giusto e insostituibile posto in una comunità fondata sulla divisione del lavoro. Nel Protagora si presenta il mito di Prometeo, spesso ricordato nei dialoghi e ricorrente nella letteratura, l‘ipotesi sulle origini delle tecniche. Il mito narra di un compito assegnato dagli dei a Epimeteo e Prometeo, quello di distribuire a tutti gli esseri viventi, e con regolarità, le forze naturali o requisiti istintuali prima che vengano al mondo. Epimeteo chiede e ottiene di assolvere da solo il compito, salvo la revisione di Prometeo. La distribuzione è equa, appropriata al fine di assicurare la sopravvivenza di ogni specie; quando Epimeteo giunge all'uomo, però, si accorge di aver esaurito "i doni naturali". Prometeo, scoperto l'errore e vedendo l'uomo nudo, scalzo, inerme mentre il giorno della comparsa sulla terra era giunto, decide di rubare il fuoco e donarglielo. Così l'uomo fu partecipe di divina sorte e in seguito «usando l'arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra» {Prot. 322ab). Con Epime-teo l'uomo è ancora terra; fango, è materiato dei quattro elementi, vive in uno stato selvaggio, belluino, con Prometeo è nato, invece, l'uomo vero, un essere che si giova della sapienza tecnica, di poteri artificiali e divini, ricompone nella sua natura anfibia animalità, arte, divinità. Non possiede, tuttavia, l'arte politica e Zeus, perché gli uomini potessero vivere raggruppati e quindi più sicuri, per mezzo di Hermes fa loro apprendere la virtù politica e il senso del giusto, arte che si pratica con il possesso del logos, ossia della parola. Le tre fasi, quella di Epimeteo, quella dì Prometeo, quella di Zeus e Hermes rappresentano rispettivamente phu-sis, technai, nomos o arte politica. Questo dice la tradizione sulle tecniche, mescolanza di mito, realtà, religione, logos.
In altri dialoghi è esposta la metodologia dei tecnici: essi usano modelli eristici, adottano il procedimento per tentativi ed errori nella soluzione di problemi, nella realizzazione di artefatti. Nell‘Apologia si dice della loro notevole superiorità nelle conoscenze specifiche: ‗Alla fine mi rivolsi agli artisti; tanto più che dell'arte loro sapevo benissimo di non intendermi affatto, e quelli sapevo che gli avrei trovati intendenti di molte e belle cose. E non m'ingannai: che essi sapevano cose che io non sapevo, e in questo erano più sapienti di me. Se non che, o cittadini di Atene, anche i bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti» (Apol. 22cd) ignoranza e debolezza quando si occupavano d'altro. Per Platone questo sapere, particolare, specialistico, simile a quello del medico o del geometra ha, quindi, una sua efficace metodologia, ma ha bisogno di essere orientato perché non autosufficiente e autoriflessivo, fatto per esprimersi su oggetti, su altro da sé, su altre cose, come leggiamo nel Carmide ‗io non posso neppure affermare per certo che esista una scienza della scienza, né, nel caso che esista, posso ammettere che quella scienza sia la saggezza‘ (Car. 169ab). La tecnica persegue fini pratici e se la conoscenza tecnica, incalza Socrate verso la fine del dialogo, non si coordina e indirizza alla ricerca del bene rischia di perdere ogni valore, o meglio resta ancorata a disvalori, a obiettivi parziali, si attesta su un piano di neutralità piatta e cieca. Nell‘Eutidemo è trattato il problema dell'uso e non uso di strumenti, beni e tecniche. Chi possiede un bene e non lo usa è come se non lo avesse; l'uso, comunque, deve essere corretto e può esserlo solo a condizione che si realizzi l'unità di virtù e scienza. Le tecniche sotto l'aspetto della produzione sono neutre, né buone, né cattive; sotto l'aspetto dell'uso devono dare "veri" vantaggi all'uomo. Di qui il motivo per cui ‗Platone distingue due livelli di considerazione di una tecnica. Ogni tecnica è da una parte tecnica di produzione o di acquisizione e ha come esito un oggetto prodotto o acquisito; d'altra parte essa è anche tecnica di
uso di determinati strumenti per la produzione o acquisizione di un oggetto‘. 19 Per Platone è decisivo il secondo aspetto, aspetto, quello dell‘arte, dell‘arte, l'uso dell'oggetto prodotto. Come la geometria, l'astronomia, l'aritmetica non producono niente dal nulla, bensì scoprono realtà già esistenti e come i geometri, gli astronomi, i matematici in genere, nella concezione platonica, offrono ai dialettici le loro scoperte perché le usino, così i tecnici devono ispirarsi alla dialettica per la migliore utilizzazione dei prodotti tecnici. La distinzione, il diverso valore delle tecniche d'uso da quelle di produzione è ripreso anche nella nella Repubblica ‗chi produce è inferiore a chi usa il prodotto, per due motivi soprattutto: 1) perché i pregi dell'oggetto prodotto sono funzionali all'uso del prodotto stesso; 2) perché l'uso presuppone la conoscenza degli effetti possibili di un determinato prodotto e in tal senso condiziona la stessa produzione. L'uso, dunque, è il parametro che istituisce una gerarchia fra le tecniche [...] È vero che il primato dell'uso sulla produzione corrisponde, a un livello generalissimo, all'orizzonte schiavistico della cultura antica; ma occorre precisare la posizione specifica di Platone all'interno di tale orizzonte. Al riscontro della legittimazione dell'uso nel possesso Platone apporta una correzione fondamentale: l'uso è legittimato non dal possesso, ma dal sapere. Chi usa deve disporre di un sapere maggiore di chi produce‘. 20 Verso la conclusione della sua interpretazione Cambiano: ‗Platone più che richiamare i tecnici alla considerazione di queste zone di valori e disvalori, intende sottolineare che le tecniche artigianali da sole non risolvono la totalità dei problemi umani, perché richiedono l'integrazione di un'attività che eserciti funzione normativa sulle aree che sfuggono alla loro competenza diretta‘. Possono i tecnici pensare? A Platone sembra quanto mai problematico che i tecnici diventino filosofi o che i filosofi diventino tecnici. L'attività tecnica e specialistica distoglie necessariamente dal pensare, così come il filosofare può rendere estranei alla tecnica, al fare; ma non c'è dubbio che il tecnico, nel momento in cui usa una
tecnica e non la produce, è simile all'altro uomo, è simile al filosofo. La confutazione, procedura discorsiva usata da Socrate in altri dialoghi, anche nel Gorgia mira a conseguire il transito dal piano della doxa al piano dell'episteme.
Nella prima parte del dialogo, Gorgia presenta una definizione della retorica come arte del parlare, arte superiore a tutte le altre compresa la medicina; ma incalzato da Socrate perché ne dia una più esauriente e chiara e dica esplicitamente qual è la materia dei discorsi del retore, afferma che il bene più grande per l'uomo è ‗la capacità di persuadere mediante discorsi in tribunale i giudici, nel bulenterio i consiglieri, nell'assemblea i cittadini riuniti, e così in ogni altra riunione che che abbia un carattere politico‘ {Gor. 452c). Socrate replica che la retorica si muove a livello di pistis, e invece ciò che rende valida un'arte o una tecnica è il suo valore oggettivo, cioè la sua base logica, la possibilità di mandare a effetto un progetto mentale in modo misurato e perfetto, allo stesso modo in cui il demiurgo plasma il mondo. La matematica e con essa la medicina e le altre arti sono scientifiche perché possono essere dimostrate e falsificate. La retorica vuole ottenere risultati provvisori ed emotivi, cerca soltanto di persuadere, non si espone o sottopone alla falsificazione. Per Gorgia il retore ha una posizione egemone rispetto agli altri tecnici; pur non possedendo una specifica competenza, mediante il linguaggio può orientare il consenso. Per Socrate, invece, va accentuata la distinzione tra sapere e credere: ‗E chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la stessa cosa‘ (Gor. 454d) e la retorica è artefice di una persuasione, atta a farci credere, ma non a istruirci sul giusto e l'ingiusto. La retorica non è arte, bensì pratica ‗poiché non ha nessuna razionale comprensione della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione possa, appunto, riferirsi; ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa‘ (Gor. (Gor. 465a). C'è un'importante differenza tra arte e pratica ‗dicevo che tra i sistemi che preparano alla vita, ve ne sono alcuni che non hanno altro fine se non il piacere, e
solo a questo è inteso ogni loro sforzo, senza conoscere affatto ciò che sia meglio e ciò che sia peggio, e altri a ltri che, invece, riconoscono il bene e il male‘ (Gor. 500ab). Le arti, insomma, hanno maggiore consapevolezza della pratica. Per esempio ‗Io dicevo che la culinaria non mi pare un'arte, ma una pratica, mentre la medicina sì; giacché questa, la medicina, dei corpi che prende a curare ha già studiato la natura, e sa il perché di ciò che fa, e può render conto d'ognuno dei suoi atti; laddove l'altra, che mira soltanto al piacere, va incontro a questo senza nessunissima arte; senza averne studiato né la natura né la causa, procedendo, per dir così, addirittura alla cieca‘ (Gor. 500e-501a). 500e-501a). I tecnici, quindi, possono elevarsi, superare la materialità e meccanicità della loro pratica a condizione che la loro opera realizzi un ideale, muovendosi quasi in parallelo con la più difficile e problematica cura dell'anima, perché l'anima umana, pur distinta dal corpo, ne segue in parte il destino, può anch'essa macchiarsi o purificarsi. A Callide, che intende esaltare i meriti della retorica, definirli superiori alle altre a ltre arti, così Socrate risponde:‗di regola il pilota non si da arie, sia pur salvandoci. E neppure, stupefacente amico, grandi arie si dà il costruttore di macchine belliche, il quale può talvolta salvare, non solo quanto il pilota, ma non meno dello stratega, non meno di qualunque altro; egli salva a volte intere comunità. E a te non sembra che sia al livello dell'oratore forense? Eppure, Callide, s'egli volesse magnifìcare l'opera sua, come fate fate voi, vi sommergerebbe sommergerebbe di parole [...] [...] Ma tu disprezzi lui e la sua arte, e oltraggiosamente lo chiameresti 'costruttore di macchine'‘ (Gor, 512bc) passo in cui pare che Platone voglia accennare al significato dispregiativo che si dava, si da ancora oggi, a ciò che è macchina, ossia macchinazione, artificio contro natura, ma per ribaltarlo, fare, invece, proprio della retorica una macchinazione, una pratica dell'artificio. Di qui l'insistenza sulla distinzione tra le arti, il voler separare empiria e tecnica, la prima esperienza incontrollata,
ammasso di episodi e casi non sorretti dal logos, la seconda (le tecniche) fornita di procedure mentali precise, regolate. È concorde opinione che Platone, in questo dialogo, abbia cercato soprattutto di replicare al Gorgia sofista e scrittore che accomunava l'arte retorica alla medicina: ‗Per Platone l'arte retorica di un Gorgia non è un'arte genuina come la medicina, ma una pseudoarte, una sua contraffazione come lo è la culinaria [...] L'analogia fra la persuasione esercitata dal retore e l'azione del medico è quindi contestata per il fatto che l'arte medica, per essere tale non può che avere un fine buono o positivo (il ristabilimento della salute) e lo ottiene con l'accettazione della verità, anche quando questa sia sgradevole al paziente (può essere necessario assorbire una medicina amara o peggio); la persuasione retorica non soddisfa a questi requisiti della vera techné [...]‘.22 Nel Filebo Platone si spinge avanti nella critica della teoria delle idee a vantaggio del mondo sensibile e della materialità, come elementi ineliminabili della ricerca scientifica, e nella difesa delle tecniche. Giunto ormai alla maturità ha abbandonato le tentazioni utopiche della Repubblica tanto da far dire a Socrate del sapiente privo di cognizioni pratiche ‗Avrà quest'uomo una scienza sufficiente, conoscendo il discorso che definisce il cerchio e la sfera in quanto tale divina, e non conoscendo la sfera della nostra conoscenza umana e questi cerchi qui e usando anche, nella costruzione delle case e nelle altre arti, di simili regoli e cerchi perfetti?‘ (Fil. (Fil. 62ab). Quest'uomo, ignorando le approssimazioni del sapere di cui è fatta tutta la scienza umana e le tecniche, si troverebbe come colui che non sa trovare la strada di casa. Il filosofo non può essere e non deve essere del tutto avulso dal mondo delle cose. L'ideale del sapere della Repubblica va, quindi, inteso in senso regolativo. A un'attenta lettura del Filebo, non sarebbe sfuggito che già dalla fase iniziale del dialogo l'asse del discorso è stato spostato su un diverso
registro: ‗Un dono gli dei agli uomini, così almeno mi pare, da un punto del cielo divino, un giorno sulla terra fu gettato, per mezzo di un Prometeo, insieme a un fuoco d'una chiarezza abbagliante e gli antichi (che erano più valenti di noi e vivevano più vicini agli dei) l'hanno tramandata questa rivelazione e cioè che risultando dall'unità e dalla molteplicità le cose che sono, le cose che sempre sono state dette e saranno dette 'cose che sono', esse portano in sé connaturato finito ed infinito‘ (Fil. 16 (Fil. 16 ab). Qui il fuoco, la metafora del fuoco ha un diverso peso, vuol significare luce, capacità di vedere, tecnica del vedere le parti nel tutto, il molteplice nell'unità. Molteplice costituito da quattro principi fondamentali: l'illimitato, il limite, la mescolanza, la causa della mescolanza. L'uomo è fatto per vivere una vita composita di senso e intelletto, di materia e spirito, di tecniche e dialettica. Le forme di conoscenza vanno classificate in funzione della loro fedeltà ai modelli, quelle che hanno a che fare con la produzione delle cose, quelle che hanno a che fare con la cura dello spirito. Tra queste in una posizione mediana le matematiche, per esempio, come sostenuto in Rep. 526b, sono utili a tutti gli uomini, verso il basso e verso l'alto, ai tecnici e ai filosofi. La medicina, l'architettura, l'agricoltura, la nautica, la strategia, sono tecniche molto importanti e rispettabili. La tecnica delle costruzioni è superiore perché ‗si vale di parecchie misurazioni e di parecchi strumenti, stru menti, è resa la più tecnica della maggior parte delle scienze da quelle cose che le procurano grande precisione, come? Riguardo alla costruzione di navi e a quella di edifici e in molte altre costruzioni di falegnameria. Infatti, credo, essa si serve di squadra, tornio, compasso, filo a piombo e di una morsa abilmente costruita‘. A sua volta, la matematica (Rep. 521-22) va suddivisa in matematica pratica o applicata e matematica pura, quella che usano i filosofi. Tra le arti e le tecniche, insomma, bisogna distinguere quelle più rozze da quelle più rigorose e pure; ma
come la molteplicità dà vita all'uno così le tecniche, le conoscenze inferiori hanno valore in un molteplice e unitario mondo culturale. Le tecniche se non possiedono o danno la somma verità, da sole possiedono adeguatamente verità parziali, saperi limitati. L'uomo ha bisogno anche di questi, della mescolanza, insieme di cognizioni, esperienze pure e impure, materiali e immateriali. Le argomentazioni sono tanto sentite che spingono Platone a riportare una delle più complete classificazioni delle scienze in cui naturalmente hanno un posto rilevante le tecniche. Per quanto diversa da quella della Repubblica con essa non contrasta, solo chiarisce il pensiero platonico degli ultimi dialoghi. È opportuno fare delle distinzioni, come spesso ha raccomandato durante tutta la sua opera. Nel caso della matematica, già ricordato, ‗E dici molto bene che non è piccola la differenza tra coloro che si occupano del numero, cosicché è logico che ci siano due aritmetiche‘. aritmetiche‘. L'arte di misurare e calcolare dei tecnici non può essere paragonata alla geometria dei filosofi, al calcolare astratto; anche in altre discipline sarà opportuno distinguere la parte applicativa da quella teorica. E tuttavia tra le due non si può tracciare una separazione invalicabile; le tecniche sono, pur nella distinzione, in linea di continuità con l'episteme, con i modelli, i valori. È il dissidio tra divenire ed essere, tra la natura, l'universo e il logos che riappare. Ed è ciò che si avverte verso la fine del dialogo, laddove Socrate 'Vuoi tu che io, quasi come portinaio spinto e costretto dalla folla, vinto, spalancate le porte, lasci entrare tutte le scienze, lasci mescolarsi insieme alla pura quella più impura di esse?' e Protarco che rappresenta la contraddizione dialettica di Socrate 'Io non so proprio, Socrate, quale danno patirebbe uno che, avendo le scienze superiori, acquistasse pure tutte le altre'. Al quale Socrate replica dicendo 'Devo permettere dunque che tutte corrano giù nel ricettacolo del "vallone della mescolanza" come molto poeticamente dice Omero? (Fil. 62).
G. Colli, nella sua ormai classica rivisitazione della sapienza greca, ha riportato una testimonianza che ben si addice al nostro discorso: ‗Anche se la nascita della della ragione è improvvisa, pure quando si alza il velo del silenzio che nascondeva l'uomo misterico, il logos appare dapprima disarticolato. È un u n sapiente, Eraclito di Efeso, che si proclama scopritore e possessore di una legge divina che incatena gli oggetti mutevoli dell'apparenza e lui stesso per primo assegna il nome di logos a questa legge. Esso è la trama nascosta del dio che regge e sferza tutte le cose, ma coincide al tempo stesso con il‘ il‘discorso' di Eraclito, Eraclito, con le sue parole‘23 fugace descrizione della estraniazione da un sapere disarticolato alla legge. E poco più avanti: ‗Gli Efesii non vollero ascoltare il sapiente. Se gli uomini non prestano attenzione, bisogna rendere accessibile il 'discorso' agli dei. Viene usato un mezzo particolare di comunicazione, inconsueto nella sfera dei sapienti, la scrittura, e il logos, reso in tal modo visibile, viene dedicato ad Artemis, nel tempio di Efeso. Origine nobile di uno strumento espressivo destinato ben presto a tralignare‘ (Fr 177, 179). La scrittura strumento ambiguo, innovativa tecnica della parola, nobilitata per i suoi requisiti di mimesis, soggetta al tempo stesso a deterioramento, era comparsa in Grecia poco dopo la metà del VI secolo per i documenti pubblici, gli atti politici; quando il linguaggio dialettico fu portato nell'agorà, all'età della sofistica divenne un problema. Colli vuole dirci che la scrittura, in Grecia, ha generato una falda, una differenza, uno spostamento linguistico, logico ed epistemologico, oltre che tecnologico. Ne è consapevole Platone che prende posizione di fronte a questa "tecnica alta" di cui si dibatte tanto; anzi entra con forza nella polemica che si è scatenata, come sappiamo da numerosi dialoghi. Nel Cratilo (393d), esaminando sia l'ipotesi naturalistica del linguaggio sia quella convenzionalista, aveva attribuito agli enti naturali "il primo linguaggio", a quelli prodigiosi e innaturali "il
secondo linguaggio", in seguito aveva rimesso in discussione tutto. Ora si tratta di decidere tra oralità e scrittura. J. Derrida ha sostenuto che solo una lettura superficiale dell'opera platonica, accreditata fino a qualche tempo, ha diffuso il convincimento che Platone condannasse l'arte dello scrivere. All'inizio del Fedro ‗Socrate paragona a una droga (pharmakon) i testi scritti che Fedro ha portato con sé. Questo pharmakon, questa 'medicina', questo filtro, insieme rimedio e veleno, vi introduce già nel corpo del discorso con tutta la sua ambivalenza. Questo incanto, questa virtù di affascinamento, questa potenza di sortilegio, possono essere, volta a volta, simultaneamente benefici e malefici‘. malefici‘. La condanna altrove pronunciata va attenuata: Fedro non ha imparato tutto a memoria e ha pensato di portarsi, quale supporto per parlare, sia pur tenendolo nascosto, lo scritto. Platone ha detto più volte che la scrittura, privata della voce, è segno senza vita, morto e insignificante grafema, una ripetizione senza sapere. Il logos, al contrario, è uno zoon: ‗descrivendo il logos come uno zoon, Platone segue certi retori e sofisti sofist i che, alla rigidezza cadaverica della scrittura, opposero prima di lui la parola viva, che si regola infallibilmente sulle necessità della situazione in atto, sulle attese e sulle richieste degli interlocutori presenti, che subodora i luoghi in cui deve prodursi che finge di piegarsi nel momento in cui si fa insieme persuasiva e costringente‘, 25 ma ha fatto uso della scrittura. Più avanti nella sua lettura, lettura, Derrida aggiunge ‗ciò che Platone prende di mira dunque nella sofistica non è il ricorso alla memoria, bensì, all'interno di un simile ricorso, la sostituzione del promemoria alla memoria viva, della protesi all'organo, la perversione che consiste nel sostituire a un membro una cosa‘,26 mentre il suo ideale sarebbe una memoria senza segno, un uomo perfetto, completo, autosufficiente con i mezzi che la natura vivente gli ha dato.
Il mito della nascita della scrittura, riportato alla fine del dialogo, racconta: ‗Ho sentito narrare che a Naucrati d'Egitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a cui è sacro l'uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l'inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell'astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell'alfabeto‘ (Fed. 274cd). Theuth nel presentare l'alfabeto al re sostiene che questa scienza ‗renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria‘. Ma il re non è del tutto convinto e replica ‗O ingegnosissimo Theuth, Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà; essi cesseranno c esseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'istinto di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei‘ estranei‘ (Fed. 247e-275a). 247e-275a). Ciò che tu offri agli scolari è apparenza di sapere perché crederanno di essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla. La scrittura può, quindi, produrre l'effetto inverso di quello che Theuth le attribuisce, essere un farmakon nefasto perché estraneo alla natura vivente dell'uomo che pretende di soccorrere. ‗Le impronte (tupoi) della scrittura non si iscrivono questa volta, come nell'ipotesi del Teeteto (191 sg) impresse nella cera dell'anima, rispondendo così ai movimenti spontanei, autoctoni, della vita psichica. Sapendo che può affidare o abbandonare i suoi pensieri al fuori, alla registrazione, alle tracce fìsiche, spaziali e superficiali che si stendono su una tavoletta, colui che disporrà della techné della scrittura si rimetterà ad essa‘.27 Saprà che lo scritto lo rappresenterà anche in sua assenza, che porterà la sua parola, anche se lui non sarà presente a dargli vitalità, anche se lui
sarà morto, e per conseguenza tale uomo-tecnico eserciterà meno la memoria, si renderà smemorato. Per la verità i sofisti, come Platone, hanno esortato a esercitare la memoria ‗Ma era, l'abbiamo visto, per parlare senza sapere, per recitare senza giudizio, senza preoccuparsi della verità, per dare dei segni. O piuttosto per venderli. Per questa economia dei segni, i sofisti sono proprio uomini di scrittura nel momento in cui la negano. Ma non lo è anche Platone, per un effetto di rovesciamento simmetrico?‘.28 L'esteriorità dell'alfabeto cui Thamus si riferisce è la mobilità dei segni che possono essere incisi sulla pietra, sulla sabbia, su altri materiali. In quanto scritti comportano un salto tecnico, l'invenzione di un sistema di manipolazione di elementi, un parlare silenzioso, muto e morto e pertanto farmaco, rimedio e tecnica, artificio, apparenza di logos, ingannevole protesi, linguaggio differito. Ma ben altro significato ha la scelta platonica. Platone ha lasciato intendere che avrebbe voluto evitarsi l'uso della scrittura, ma non ha potuto. Come dopo la tormentata crisi sulla definizione dell'essere si è deciso per il parricidio di Parmenide, così ha tradito il suo maestro Socrate per la scrittura. Nel Teeteto, quando sembrava che si potesse mantenere l'unicità eleatica del logos, abbiamo assistito alla sua rottura, all'accettazione del suo dinamismo, del suo muoversi da soggetto a predicato, del suo intrecciarsi di determinazioni, di essere e linguaggio, di senso e pensiero. Derrida, accostando il parricidio di Parmenide alla scelta della scrittura, sostiene che la scrittura non è solo tecnica, è la condizione della dialettica dell'essere platonico, è il raddoppiamento del logos, l'iterazione dell'uomo, destino epocale che riguarda l'uomo e l'universo. La scrittura è la possibilità di parlare e di tacere, di venire alla luce e di nascondersi, evidenzia la "differenza originaria" del tutto, la struttura originaria dell'Essere. Platone è stato indotto a scrivere ‗perché non può né di fatto, né di diritto spiegare
che cos'è la dialettica senza ricorrere alla scrittura‘ 29 quantomeno, ciò che appare sicuro, senza ricorrere a una tecnica. Seguendo altro percorso, rinforzi a tale lettura offre E. A. Havelock, che ricostruendo questi momenti significativi della storia della lingua greca dice: ‗la sostituzione del presente atemporale 'che si trasforma in un presente logico', in luogo del 'presente immediato' o del passato o del futuro diventò una preoccupazione dei filosofi pre-platonici, soprattutto di Parmenide. I suoi versi illustrano vivacemente la dinamica dell'associazione tra espressione orale ed espressione scritta così come esistevano ai tempi suoi‘. 30 Il discorso alfabetizzato consentiva un linguaggio nuovo ed enunciati nuovi. Platone, che scriveva in questo lungo e sofferto momento di transizione dall'oralità alla scrittura, mentre riafferma la naturalità e il primato della parola parlata e dell'ascolto, per lo scambio personale, usa la scrittura. La forma dialogica e parlata dei suoi scritti attesta tale scelta, che può essere fatta perché l'alfabeto greco si avvicina in modo abbastanza esatto alla traduzione esauriente della lingua parlata o perché nel sistema linguistico greco le lettere rappresentano ciascuna isolatamente un suono della lingua, vocale o consonante che sia. Platone e i suoi contemporanei hanno compreso che la rappresentazione grafica esatta e fedele dei suoni umani con "lettere digitali", che possono essere manipolate e combinate in una sterminata varietà secondo regole fonico-morfologico-sintattiche, è innovativa. Basta soltanto un piccolo spostamento, cambio o scambio di scrittura per modificare il senso delle parole. Allo stesso tempo l'alfabetizzazione genera una svolta, un atto di astrazione: la non rappresentazione materiale della cosa o del referente conferisce un valore, come un significato al significante, maggiore di quanto gli era stato assegnato: il verbo essere del presente assume valenze logiche, epistemologiche, ontologiche.
Riportando, quindi, sul piano della variazione linguistica, ma anche storica e sociale, la novità Havelock parla di modifica degli schemi di pensiero e della visione del mondo nella Grecia del V secolo. La comunicazione umana veicolata acusticamente con l'impiego dell'orecchio e della bocca, con l'uso della scrittura coinvolse ancor più la vita e la cultura. Apparentemente si trattava di registrare la parola parlata, di diminuire così l'impiego della funzione mnemonica, ma in effetti ben altro avveniva; si costruiva il discorso orale in modo diverso con una sintassi descrittiva, con caratteri definitori concettuali. ‗Una ‗Una volta che l'uso di 'argomenti' per il discorso fu divenuta una consuetudine riconosciuta, crebbe la spinta in favore dei predicati, che dopo aver prima fornito una 'azione continuativa' potessero trasformarla in una 'condizione continuativa' ossia in una relazione. I 'dati di fatto' statici cominciarono a sostituire gli 'accadimenti' diacronici. Nel linguaggio della filosofia, l'essere' (come forma di sintassi) cominciò a sostituire il 'divenire'.31 Se affiora qualche perplessità sull'interpretazione del fenomeno della scrittura proposta da Havelock, come apparentemente emergono riserve sulla grammatologia derridiana per l‘apparente valore semi-ontologico attribuito alla scrittura, corretto nella produzione più recente, certamente più credibile appare la tesi sostenuta finora per cui la scrittura nel pensiero platonico va intesa come tecno-logia, tesi avanzata anche da alcune tesi di M. Vegetti quando ha scritto che Platone si decise per la scrittura ‗per ‗ per la fruibilità come modello; e precisamente per la capacità di alludere — ancora una volta — a una forma di sapere che non si smarriva sterilmente nella polarità uno-infinito, ma che sia in grado, attraverso il processo analitico di elementazione e numerazione degli stoicheìa e quello compositivo di aggregazione ordinata degli stoicheìa stessi, di muoversi nello spazio intermedio fra quella polarità, di passare passa re da una concezione indifferenziata a una articolata e composita dell'unità (Phil. 18ab)‘.32 La scrittura, veicolo del
logos, forma del sapere, strumento del pensiero post-parmenideo metaforizzato con la grammatiké, entra, pertanto, nel gioco dialettico dei misti. Platone, diversamente da Parmenide, ha posto la dicotomia oralità-scrittura in un quadro più ampio, il quadro delle scienze e delle tecniche, della dialettica e della morale, dell'uomo e dell'universo, del sapere e della virtù, un quadro interdisciplinare paragonabile a un aggregato complesso, organico, differenziato in cui si snoda e prende consistenza la molteplicità.
NOTE 1) L.
Gernet, Antropologia della Grecia antica, a cura di R. Di Donato,
Mondadori, Milano 1983, p. 356; titolo originale dell'opera Antropologie de la Grèce antique Libraire François Maspero, Paris 1968. Per un'introduzione al
pensiero di Empedocle si veda W. Jaeger, Paideia, trad. it. di A. Setti voi. I, La Nuova Italia, Firenze 1954; titolo originale Die Fomung des griechischen Menschen, W. de Gruyter Berlin 1954. 2) Ivi, p. 358. 3)
M. Vegetti, II coltello e lo stilo , II Saggiatore, Milano 1978 p. 24; in
particolare i cap. I, II. 4) G. Cambiano, 5) M.
Platone e le tecniche , Einaudi, Torino 1971, p. 56.
Detienne, J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza, Universale Laterza,
Roma-Bari 1984, p. X, titolo originale Le ruses de l'intelligence-La metis des Grecs, Flammarion, Paris 1974. 6)
Prometeo incatenato, trad. it. di E. Madruzzato, in Il teatro greco, a cura di C.
Diano, Sansoni, Firenze 1980. 7) M.
Isnardi Parente, Techne, Momenti del pensiero greco da Platone a Epicuro,
La Nuova Italia, Firenze 1966, per un'analisi storico-semantica della techné. 8) J.
P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi Torino 1982, p. 274;
titolo originale Mythe et pensée chez les Grecs. Etudes de psychologie historìque Libraire Francois Maspero, Paris 1965. 9) Ivi, p. 277. 10Ivi, p. 282.
11)
B. Gille, Storia delle tecniche, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 74; titolo
originale Histotre des techniques, Editions Gallimard, Paris 1978. 12) Ivi, p. 75. 13) G.
A. Ferrari, Macchine e artifici in II sapere degli antichi, a cura di M.
Vegetti, voi. II, Boringhieri, Torino 1985 p. 166. 14) Ibidem. 15) J. P. Vernant, Mito
e pensiero presso i Greci, cit., p. 280.
16) Ibidem. 17) Ivi, p. 281. 18) Platone,
Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1982-88, edizione da cui sono
tratti i passi platonici riportati. Per una guida al pensiero e all'opera platonica F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 1989. Va tenuto presente anche il citato W. Jaeger, Paideia, Firenze, oltre a A. E. Taylor, Plato. Thè Man and bis Work, Methuen & Co. Ltd. London 1946; Plafone, trad. it. di M. Corsi, La
Nuova Italia, Firenze 1968. 19) G.
Cambiano, Platone e le tecniche, cit. p. 159. 159 .
20) M, p. 180. 21) Ivi, p. 100. 22) W.
Leszi , , Linguaggio e discorso in I1 sapere degli antichi, a cura di M.
Vegetti, cit. p. 26. 23) G. Colli,
La sapienza greca, III Eradito, Adelphi, Milano 1980.
24) J.
Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, p. 52; titolo
originale La pharmacia de Platon in La dissemination Editions du Seuil, Paris 1972. Sulla scelta platonica per il dialogo scritto vedi, tra l'altro, le pagine di P. Frjediander, Platone. Eidos, paideia, dialogos , La Nuova Italia, Firenze 1979. 25) ivi, p. 61. 26) Ivi, p. 91. 27) Ivi, p. 87. 28) Ivi, p. 95. 29) Ibidem. 30) E.
A. Havelock, La musa impara a scrivere, Laterza, Roma-Bari 1987, p.
133. 31) Ivi, p. 131.
ORALITÀ, MANOSCRITTI, STAMPA
La stampa fa della lingua un segno che si allontana dal logos originario, si acconcia a un modo al sapere e saper fare nuovo, meccanicistico che ha nello spazio il suo elemento fondamentale. Nel Medioevo apparentemente sono posti gli stessi interrogativi: che significa parlare? Chi parla? Che significa scrivere? Perché scrivere? Carlo Magno, negli sforzi di istruzione personale e in quelli finalizzati a innalzare il livello degli studi delle sue popolazioni, fu ispirato, di certo, dal sentimento cristiano dei suoi doveri come monarca, dal credere che Dio gli avesse conferito il potere perché proteggesse la Chiesa e regolasse i costumi dei sudditi, avesse cura, cioè, che si formassero nella fede. Uno dei suoi primi impegni programmatici fu quello di fare in modo che il clero fosse istruito al punto da poter, con la predicazione, addottrinare le genti. Si imponeva una missione di carattere religioso cui faceva da contrappeso il fine politico di uniformare e unificare, nell'ambito di una concezione barbarica e feudale del diritto e della società, l'Impero. Bisognava lottare contro le sopravvivenze del paganesimo, ancora diffuso tra la popolazione incolta e bisognava contrapporsi alle infiltrazioni delle eresie, e per questo disporre di testi che fossero redatti secondo uno spirito s pirito unitario e universalistico. Se Cristo aveva usato soltanto il veicolo orale per comunicare, non per questo andava demonizzata la scrittura. La stessa tradizione biblica, accanto a pagine che insegnano una sapienza diversa da quella greca e un sapere che si conforma di più all'ordine naturale, che si nutre del timore di Dio e poco si affida alle capacità
tecniche dell'uomo, riporta passi in cui si apprezzano le tecniche. La scrittura è stimata dalla divinità. Nel libro di Giobbe il Signore rimprovera Giobbe per il suo ardimento, gli addita la possanza della Creazione di fronte alla fragilità umana; ma si presenta con lo scritto, consegna a Mosè le tavole della testimonianza, tavole di pietra scritte di Suo pugno. Offre, infine, da mangiare il rotolo di un libro coperto di parole divine sul diritto e sul rovescio al profeta Ezechiele che di esso nutre il proprio ventre. Il creatore spesso ha scelto la lettera scritta al posto dell'immagine, altro veicolo per offrirsi all'uomo. Lo Spirito continuerà a parlare e a scrivere in tutte le lingue e in tutte le scritture mediante san Paolo e i padri della Chiesa. In ogni angolo del suo impero Carlo Magno promosse una politica orientata all'uso sistematico della scrittura. Il patrimonio culturale di alcuni popoli, affidato fino ad allora all'oralità, fu messo per iscritto; gli scrivani di palazzo dovettero redigere capitolari a carattere legislativo, norme per gli ispettori inviati nei diversi regni, promemoria per lo svolgimento delle assemblee; gli intendenti dei domini regi furono tenuti a presentare inventari, rapporti, conti per iscritto. Questa cura, assolutamente nuova, faceva seguito, come accennato, al convincimento che senza la scrittura l'ordine, la stabilità e la giustizia non potevano regnare nello stato; ma presupponeva l'esistenza di un certo numero di esperti, capaci di scrivere e di leggere quei testi, di interpretarli correttamente, di farne scrivere altri. Uomini del genere, pochi prima dell'età carolingia, non erano molti al tempo di Carlo, come pochi erano i libri circolanti. ‗I magnifici manoscritti di questo periodo sono opere di lusso. Se si riflette al tempo che si perde a tracciarli in bella scrittura - la calligrafia è, più di quanto non sia la rotocalcografia ai nostri giorni, l'indice di un'epoca incolta in cui la richiesta di libri è assai limitata - a ornarli splendidamente per la Reggia o per alcuni grandi laici ed
ecclesiastici si avrà un'idea di quanto scarsa fosse la rapidità di circolazione dei libri‘ libri‘.1 Eppure i monaci, ispirati dall'ora et labora benedettino, con alacrità scrivono negli scriptoria spingendo quasi meccanicamente la mano. Per loro è importante l'applicazione con cui hanno lavorato, il tempo e le fatiche che hanno speso per scrivere, opera penitenziale e meritoria per il Paradiso, ‗essi misurano dal numero delle pagine, delle righe, delle lettere, gli anni di purgatorio riscattati‘ riscattati ‘.2 Quando nel copiare commettono disattenzioni ed errori, che pur si registrano nelle condizioni dure e proibitive di immobilità e silenzio necessario per il buon andamento di uno scriptorium, ne danno la colpa al demone Titivillus. L'atmosfera dello scriptorium non è certo lieta e confortevole, è contrassegnata dalla rigida posizione seduta del corpo, dalla lettura personale in silenzio, introdotta a quanto pare da sant'Agostino e in uso presso molti monasteri. La sala piuttosto grande ove scrivono diversi amanuensi, è diretta da un capo che distribuisce i compiti, spesso i monaci lavorano su un medesimo testo dandosi il cambio; i quinterni del testo da copiare sono distribuiti in modo che sia rispettata scrupolosamente la disposizione e che ogni scrivano termini la propria parte di fogli alla stessa parola. Il caposala sovrintende alle varie fasi della lavorazione, rivede e corregge i manoscritti, controlla l'uso del materiale adoperato. A volte l'amanuense si prende qualche pausa o distrazione, e scrive brevi note, in margine al manoscritto, originali, talvolta osceni e ambigui disegni, chiara manifestazione umorale di fronte alla pagina. Un singolare documento, databile verso la fine del secolo VIII, sintomatico di questa condizione, il cosiddetto indovinello veronese, rappresenta con metafora efficace, di sapore popolaresco, l'arte dello scrivere. Il testo, riportato sul recto di
un foglio di mano veronese può essere, con lieve inversione iniziale, presentato: ‗Boves se pareba / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro semen seminaba‘ seminaba‘. E così tradotto, ponendo a soggetto l'uomo che scrive ‗spingeva avanti le dita, solcava i bianchi campi, teneva il bianco aratro, versava seme nero‘ nero‘. La metafora, accostando il lavoro dei campi, le sue tecniche tra le prime inventate dall'uomo, alla tecnica della scrittura, ai suoi strumenti, ricalca, in contrasto e in complementarità, l'affinità semantica tra l'arare e l'exarare già proposta da alcuni autori classici, riecheggia l'etimo di scrittura bustrofedica, da destra a sinistra e viceversa alla maniera dell'arare dei buoi (bous = bue e strophé = svolgimento). Può anche significare, come ha proposto S. Freud, l'atto del coito per il fatto di lasciare scorrere del liquido da una canna sopra un pezzo di carta bianca. In modo più esplicito riviviamo la fatica dello scrivere sfogliando altri documenti come il codice berlinese 270 del secolo IX della Lex Romana Visìgothorum: ‗O beatissime lector, lava manus tuas et sic librum adprehende: leniter folia turna, longe a littera digito pone, quia, qui nescit scrivere putat hoc esse nullum laborem. O quam gravis est scriptura! Oculus gravat, renus frangit simul et omnia membra contristai. Tria digita scribunt, totum corpus laborat. Quia sicut nauta desiderai venire ad proprium portum, ita et scriptor ad ultimum versum. / O felicissimo lettore, lava le tue mani e così prendi in mano il libro, volta le pagine con garbo, tieni le dita lontane dalla scrittura perché chi non sa scrivere crede che non sia questa alcuna fatica. Quanto faticosa è la scrittura! Affatica gli occhi, e insieme spezza la schiena e fa dolere tutte le membra. Tre dita scrivono; tutto il corpo si travaglia. Perché come il navigante brama giungere al proprio porto, così lo scrittore all'ultima riga‘ riga‘.3 Lo scenario dell'arte della scrittura alla metà del secolo VIII è più completo ricordando che si adoperavano scritture elaboratissime e pesanti: la capitale,
insieme di maiuscole accuratamente tracciate con accentuazione dei tratti sia grossi che sottili e l'onciale, anch'essa costituita da maiuscole ma caratterizzata dalle aste e dalle code che oltrepassavano due linee tracciate sopra e sotto il corpo delle lettere. Gli amanuensi preferivano usare delle scritture corsive e maiuscole, con numerose legature che evitavano di sollevare la mano fra una lettera e l'altra. Tra le scritture quella usata per copiare una Bibbia durante i primi anni del regno di Carlo Magno presenta già molti dei caratteri della scrittura carolina. Compirà la sua formazione a San Martino di Tours sotto l'influenza di Alcuino e il suo allievo Fradegiso. Da Tours si diffonderà in tutto l'Impero. Nel Basso Medioevo il progresso tecnico assicura una produzione materiale di migliore qualità in molti settori dell'economia, una crescita dell'alfabetizzazione, con un numero maggiore di persone che sanno leggere e scrivere, un aumento della produzione, consumo e conservazione di documenti scritti e letterari. La rinascita borghese e commerciale, la notevole richiesta di oggetti domestici e di arredamento, la più attenta conoscenza della vita privata e quotidiana nei suoi aspetti oltre che spirituali anche materiali, la pratica del calcolo e della contabilità nell'amministrazione e nel commercio, la sollecitazione di più ordinata e razionale quantificazione delle merci, richiedono un aumento di alfabetizzazione. La lettura e osservazione della natura (vedi la scoperta della prospettiva) dettagliata, puntuale che porta a intravedere alcuni fondamentali princìpi fisici nella realtà, la stessa rappresentazione del mondo con mappe che si perfezionano a mano a mano che avvengono le scoperte geografiche, la maggior diffusione di documenti scritti sia in latino, lingua dotta europea, sia nelle lingue moderne, sono emergenze significative. Nella fase iniziale, la cristianizzazione si era giovata totalmente del veicolo orale; in seguito aveva adoperato la scrittura moltiplicando la scrittura di bibbie, di
commenti alle sacre scritture, di testi a mezzo della copiatura eseguita negli scriptoria. Le trasformazioni della società e la nascita delle università consentono anche ai laici di accedere al grande circuito della comunicazione scritta e letteraria, per quanto nell'esame di questa fenomenologia sia consigliabile procedere con cautela. Non va dimenticato che il Medioevo resta per la lingua contrassegnato dalla parola parlata. La Chiesa come istituzione religiosa e culturale forma e informa, educa e comunica con la parola del clero, le cui prediche e narrazioni sono svolte oralmente e si possono tramandare per lungo tempo in questa forma fin quando non saranno riportate per iscritto. La scrittura solo in tempi successivi riuscirà a bilanciare quasi l'area dell'oralità in un equilibrio di uso e fortuna dei due veicoli, di interazione reciproca in una convivenza e divisione dei compiti. Mentre la richiesta di un maggior numero di manoscritti aumenta, i tempi di riproduzione, con accorgimenti dettati dalla pratica, si riducono. L'insieme dei fattori umani e tecnici coinvolti si fa più complesso, si definiscono e razionalizzano le tecniche del corpo, la posizione e i gesti di chi scrive, l'attrezzatura, il calamaio, calamo e inchiostri, gli aspetti economici, il prezzo delle pergamene e dei libri. Se il copista medievale poteva essere semianalfabeta, operando di fatto come amanuense in luoghi circoscritti e chiusi, l'intellettuale urbano del XII secolo sente di essere un cittadino, un uomo che svolge un mestiere paragonabile ad altri praticati nella città.4 ‗Ars est recta ractio factibilium‘ factibilium‘ dice san Tommaso, giudicando arte qualsiasi attività razionale dello spirito applicata alla fabbricazione di strumenti, sia materiali che intellettuali. Tecnica intelligente del fare è il significato etimologico attribuito alle arti liberali, intese come attività umana regolata da accorgimenti tecnici e fondata sullo studio e sull"'esperienza"
scrive B. Latini. Arti, appunto, perché uniscono alla produzione materiale la conoscenza, il sapere teorico. Il sapiente delle università, il magister, ha qualcosa dell'artigiano e del mercante, egli ha bisogno di un‘adeguata un‘adeguata strumentazione che non appartiene più al monastero, che deve essere di proprietà personale; egli usa e scrive libri che cerca di vendere. * Francesco Petrarca, poeta, scrittore e anche copista, sapeva che la scrittura a mano poteva essere chiara, nitida, bella ma anche sciatta, piccola, illeggibile per vizi di scrittura che si andavano diffondendo al suo tempo e che egli non tollerava. Appassionato bibliofilo, dedicò gran parte della sua vita a mettere insieme una raccolta di libri, acquistati o copiati di propria mano. Aveva maturato un ideale umanistico di vita, una concezione e una scienza dell'uomo che gli consentivano, con l'ausilio della sua fine sensibilità, di scoprire nella grafia un temperamento, il segno dei tempi. Per lui la lettera ben scritta comunica in modo più naturale e pieno il senso delle parole, esprime meglio l'humanitas che cercò di conseguire per tutta la vita. Se, come si ricava da alcuni scritti, Petrarca contrappose la poesia alle vili arti meccaniche è pur vero che apprezzò le tecniche quando raffinate e usate con umanistica misura. In una lettera al fratello Gherardo, in cui comunica di avergli inviato un suo testo personale delle Confessioni dice che i difetti dei codici del suo tempo sono dovuti soprattutto alla pratica artigianale e meccanica della produzione del libro: alcuni preparano la pergamena, altri scrivono i libri, altri li correggono, altri li illustrano e infine altri ancora li legano e ne adornano la superficie esterna. ‗Non calcem temperat architectus, sed iubet ut temperetur; non gladios acuit dux belli, non magister navis malum dedolat aut remos, non tabulas Apelles, non ebur Policletus, non Phidias marmora secabat; plebei suum opus
ingenii est preparare quod nobile consumet ingenium. Sic apud nos alii membranas radunt, alii libros scribunt, alii corrigunt, alii ut vulgari verbo utar, illuminant, alii ligant et superficiem comunt; generosum ingenium altius aspirat humiliora pretervolans.‘ pretervolans.‘5 Nel dialogo De librorum copia, inserito nel De remediis utriusque fortunae, usa toni polemici verso la sua età così indifferente alle lettere, ancora rozza e superficiale nella produzione e confezione dei libri. I copisti sono privi di alcuna relazione affettiva, di alcun rapporto intimo e simpatetico con gli incunaboli; tra penna e testo, invenzione e forma grafica sono portati a instaurare una certa estraneità, accentuano la differenza tra linguaggio e scrittura. Si preoccupò che i suoi libri fossero belli esteriormente, scritti con eleganza, adorni di ricche miniature, ma soprattutto li desiderò quanto più corretti nel testo; si adoperò a trovare copisti abili e intelligenti, tra questi il preferito Giovanni Malpaghini, e molte pagine egli stesso trascrisse con perizia di calligrafo e di erudito; collazionò i testi che gli capitarono nelle mani per migliorarli; arricchì i suoi manoscritti di frequenti postille. Nella lettera a Giovanni dall'Incisa 6 lo scrittore confessa quella che lui stesso chiama una malattia: ‗Expectas audire morbi genus? libris satiari nequeo [...] Quinimo, singulare quiddam in libris est: aurum, argentum, gemme purpurea vestis, marmorea domus cultus ager, picte tabule, phaleratur sonipes, cetera que id genus, mutam habent et superficiarum voluptatem; libris medullitas delectant, colloqueretur [...]‘ [...]‘; i libri racchiudono una grande umanità, secoli di umanità. Verso la fine chiede all'amico che faccia cercare altri libri, vada di persona a frugare negli scaffali dei monasteri. Tra i diversi tipi di caratteri fa cadere la sua scelta sulla minuscola carolina per la semplicità, la chiarezza e correttezza ortografica che ne consentiranno, poi, il successo. Non possono lasciarci indifferenti i suoi giudizi e le sue opinioni perché
sono ben motivati, sono pronunciati da un letterato che è anche uno scriba, che ha provato piacere nello scrivere, che lo ha fatto fino agli ultimi istanti della sua vita. Se il Petrarca fu il testimone forse più attento di questo stato di crisi, saranno alcuni suoi ammiratori e discepoli, sarà soprattutto Poggio Bracciolini a compiere la svolta nella scrittura medievale. ‗La minuscola carolina che per il Petrarca aveva rappresentato soltanto un ideale punto di riferimento, quasi il lontano modello cui avvicinare la scrittura del suo tempo, divenne per Poggio, con l'abolizione di ogni divario cronologico, una scrittura viva, anzi l'unica scrittura degna di essere adoperata in campo librario, nello stesso aspetto che le avevano conferito gli scribi di tre o quattro secoli prima.‘ prima.‘7 Scelta, poi, dagli stampatori di tutta Europa, sarà la scrittura principe fino ai nostri giorni, sarà usata per i vari formati e tipi di libro. Una istruttiva e utile classificazione tipologica dei libri medievali ci dà A. Petrucci: ‗I. Il libro scolastico, prodotto in ambiente universitario, le cui caratteristiche principali sono il grande formato (in folio massimo per intederci) la disposizione del testo su due colonne, la presenza di grandi margini esterni e inferiori [...] le ornamentazioni di gusto gotico‘ gotico‘,8 libro che può essere chiamato libro da banco. ‗2. Il libro umanistico, di formato medio o piccolo (in folio o in quarto) di scrittura e ornamentazione ispirate a modelli tardo carolini, con il testo disposto a piena pagina [,..]. ‘9 Infine ‗3. Il libro 'popolare', prodotto in ambiente privato, da scribi non professionisti, ma occasionali [...] Si tratta in genere di un libro di formato piccolo, per lo più cartaceo, di aspetto trascurato‘ trascurato‘.10 Il libro che possiamo chiamare da bisaccia, quale la sacca del frate, del mercante, dell'artigiano, eccetera. La stampa era praticata da tempi remoti, in Occidente, per la produzione di oggetti di largo uso e consumo: sigilli regi, punzoni adoperati dagli orafi e dagli argentieri per imprimere marchi e sigilli per anelli. Da tempo era diffusa la
stampa a cliché applicabile alla scrittura cinese, costituita da un gran numero di ideogrammi, ma poco funzionale per la scrittura alfabetica adottata in Occidente. Nel Trecento era diffusa la silografia, stampa per matrici in legno o metallo di immagini e disegni. Ma il libro stampato non fu una conseguenza della silografia come potrebbe credersi, i caratteri mobili di Gutemberg nascono in botteghe dove si lavora il metallo. Certo, data la tecnologia occorrente, la stampa avrebbe potuto affermarsi anche un secolo prima, quando dalla Cina, per il tramite degli arabi, la carta entrò in Europa e la città di Fabriano per prima produsse carta con la tecnica dei cinesi. La carta si fa preferire perché liscia e molto meno costosa, ma con la carta si chiedeva altro: un diverso inchiostro, un adeguamento del principio del torchio, la soluzione del problema dei caratteri, che fossero poco costosi e nello stesso tempo precisi. La mente va ai caratteri mobili, ‗subito pensiamo ai caratteri mobili. Per fabbricarli bisognava incidere un punzone di metallo duro, procedere all'esecuzione di una matrice, battendo con precisione il punzone su un blocco di metallo meno duro, e con questa matrice, infine, fondere dei caratteri fatti di una lega metallica adatta: operazioni queste che spiegano perché la nuova arte si affermò, nella cerchia degli orefici, a metà del Quattrocento‘ Quattrocento‘.11 Come direbbe il citato Gille, la stampa si ha operando un transfert tecnologico, utilizzando tecniche incrociate di altre arti quali l'oreficeria e l'industria vinicola con i suoi caratteristici torchi. Ma, cosa più importante, la stampa appare come la prima invenzione industriale per l'interscambiabilità dei pezzi (stampi) e la produzione in serie; si conforma a leggi di economia meccanica, guadagnare spazio e tempo mediante l'abbreviazione. Lo storico G. Sarton la definirà la più grande invenzione del Rinascimento, l'altra faccia dell'Umanesimo, F. Bacone la
porrà accanto alla bussola e alla polvere da sparo tra le maggiori invenzioni del suo tempo. A Giovanni Gutemberg spetta, dunque, il merito di aver stampato i primi libri; fu lui che risolse i problemi che impedivano la realizzazione della stampa. Invece di cercare di formare degli stampi per un'intera pagina o anche per un'intera parola, pensò di preparare stampi per ciascuna lettera, per ogni segno di punteggiatura o grafico. Ognuno di questi piccoli stampi doveva essere fabbricato in molte copie e ogni stampo o carattere doveva essere collocato in un'apposita scatola. Lo stampatore, per preparare una pagina di stampa, doveva scegliere i caratteri necessari a comporre la serie delle parole, incastonarli in un compositoio e quando la pagina era compiuta fissarli saldamente. Dopo non restava che spalmare d'inchiostro i caratteri e premerli contro un foglio di carta. Così si aveva la prima di tante pagine uguali stampate. Successivamente i caratteri mobili andavano riposti in una scatola e poi riutilizzati per la stampa di un'altra pagina e via di seguito. L'intelligenza, la sagacia e la destrezza di Gutemberg riescono a risolvere altri problemi tecnici: lo stampo, su cui verranno incise le lettere per mezzo di un punzone d'acciaio, l'inchiostro adatto, il tampone per l'inchiostro, l'adeguamento del torchio. Ma la scoperta della stampa ha altri significati. Il rimando, alternativamente, del linguaggio dall'oralità alla scrittura, alla stampa è interpretato da M. Foucault in questo modo: ‗La stampa, l'arrivo in Europa dei manoscritti orientali, la comparsa di una letteratura che non era più fatta per la voce e la rappresentazione né ordinata da esse, il privilegio accordato all'interpretazione dei testi religiosi piuttosto che alla tradizione e al magistero della chiesa, tutto questo testimonia, senza che possano sceverarsene gli affetti dalle cause del posto fondamentale
preso, in Occidente, dalla scrittura. Il linguaggio ha ormai come natura prima la qualità d'esser scritto‘ scritto‘.12 E ancora più avanti, marcando una certa ambivalenza dell'uomo del Cinquecento verso la natura e la scrittura o le scritture, ‗questo primato dello scritto spiega la presenza gemella di due forme che sono indissociabili nel sapere del XVI secolo nonostante la loro contraddizione apparente. Si tratta anzitutto della distinzione tra ciò che è veduto e ciò che è letto, tra l'osservato e il riferito, della costituzione quindi d'una falda unica e liscia sulla quale sguardo e linguaggio si intersecano all'infinito‘ all'infinito‘.13 È in corso una svolta, una modificazione del rapporto uomo/natura, uomo/linguaggio, sapere/potere che mette in crisi l'inerenza reciproca di mondo e di linguaggio. Il vedere si dissocia dall'udire, non a caso Cristoforo Colombo ha voluto "vedere di persona" un altro continente più che accontentarsi della narrazione; è in corso una svolta che impone modificazioni delle funzioni dei sensi, una metamorfosi dell'agire. Se ne rendono conto Leon Battista Alberti, Leonardo, il già citato Bacone, intellettuali e filosofi, scienziati e uomini di cultura. Nel caso della stampa evidentemente è presente la transizione da una tecnologia a un‘altra, che non è un'evoluzione dalla prima alla seconda, ma è, invece, una ricostruzione di un insieme strutturato di tecniche che si attua a ttua su nuove basi. Gutemberg ha posto, definito e risolto il suo problema da tecno-logo assimilando e confrontando tecniche vecchie e nuove, operando una vera e propria traslazione. Nel Medioevo la forma di similitudine, detta analogia, non può dar vita, in una sua versione, alla metamorfosi; il torchio del vino ora viene ad essere il torchio della stamperia, il vegetale è una bestia con la testa in giù, la pianta è un animale
specifico (uccello) dicono scienziati e anatomisti del tempo quali Cesalpino, Aldrovandi, Gianbattista della Porta. La tecnica della stampa, quindi, va situata in uno spettro concettuale dal grafismo alla parola, dalla parola al grafismo, perché il linguaggio è negli animali e nelle piante, e la stampa ne è la sua "forma ultima" e più efficace. Alcuni decenni più tardi, nel pieno dell'Età Moderna, Galileo dirà di ispirarsi al libro della natura, scritto da Dio in caratteri matematici, libro prodotto meccanicamente a stampa, che spiega meglio la relazione tra linguaggio e cose in uno spazio comune, nuovo, universale. M. Foucault, più esplicitamente di Galileo, affermerà che lo scritto ha preceduto il parlato, che i suoni della voce sono traduzione dalla scrittura, che la stampa è nelle cose; costituisce i più reconditi anfratti di ciò che egli chiama "episteme archeologica". Si danno anche pareri contrari ai difensori della stampa, controcorrente, di fiducia nella scrittura a mano, e sotto certi aspetti motivati, come quello del dotto "conservatore" abate Joannis Trithemius, esperto di greco, latino, ebraico, discepolo del mago e cabalista G. Reuchlin che scrive nel 1492, trent'anni dopo la scoperta della stampa, un'esortazione dal titolo De laude scriptorum.14 Lo scopo del breve scritto è anticipato nella lettera dedicatoria ‗fratres ad amorem scriptum incitare" ed esplicitato sin dall'inizio con l'argomento che la scrittura preserva i fatti e i pensieri dall'oblio e gli scrittori ―virtutem dant verbis memoriam rebus vigorem temporibus [...] si scriptum defecerit dispergetur populus devotio extingueretur pax catholicae unitatis confusa turbabitur‘ turbabitur‘. La scrittura è tecnica degna ed elevata, nobilitata dai greci Pisistrato, Alessandro,
Tolomeo Filadelfo e lo stesso Platone, poi dai padri cristiani Ambrogio, Origene, Agostino e infine intellettuali quali Cassiodoro, Beda, Alcuino, Rabano Mauro. Per Trithemius, come si vede, vale la tradizione; confortato da questa può esortare alla scrittura devota, a una fatica che rientra a buon diritto nel laborare dell'ordine benedettino cui appartiene. Nel capitolo VII, specificamente dedicato alla stampa (ars impressoria), con energia difende la scrittura a mano sottolineando quanta è la differenza tra questa e la stampa ‗Scriptura enim, si membranis imponitur ad mille annos poterit perdurare impressura autem cur res papyrea fit quam diu subsistet?‘ subsistet?‘ sarebbe già troppo se un volume stampato durasse duecento anni a causa del materiale su cui è scritto! Laddove sembra che l'abate non metta tanto in discussione la macchina, che certo conosceva benissimo essendo conterraneo di Gutemberg, quanto la durata del prodotto stampato e aggiunge che lo scrittore a mano ha il dovere di continuare il suo lavoro, anzi l'obbligo di ricopiare i libri stampati, di sicuro valore, il cui contenuto sarà così tramandato per un tempo più lungo. Salvato cioè dalla rovina. Tesi non del tutto fondata che può ritenersi piuttosto espediente ad hoc per mantenere ancora in vita la vecchia arte, modo di reagire alla tecnica emergente. Platone ha esitato tra oralità e scrittura, ma è stato bimediale, riportando il dilemma nell'ampiezza del suo sistema ontologico ed epistemologico; Trithemius non è Platone, e nemmeno Gutemberg, non pensa la stampa da tecnologo, la giudica da teologo e uomo di fede. È convinto che la scoperta della stampa non ha falsificato la scrittura a mano; anzi, a tempo lungo, già la fine del XV secolo, la stampa, a suo avviso, potrebbe essere superata, essere obsoleta. Qualche decennio dopo l'età di Gutemberg, in un contesto storico profondamente mutato, la "differenza" tra scrittura a mano e artificialiter scribere, dopo un
periodo di transizione, sarà chiara. Lo dice la tipologia degli operatori tecnici, l'ambiente, le macchine, la posizione di lavoro. L'amanuense e il tipografo sono due figure diverse, la macchina fa sì che all'amanuense subentri l'artigiano, alla posizione seduta si sostituisca quella prevalentemente ritta: ‗Lavorando con le proprie mani, come gli altri operai, i tipografi sono lavoratori manuali ma anche 'intellettuali', perché sanno leggere e spesso sanno un po' di latino. Sempre in mezzo ai libri, in rapporto con gli autori, al corrente prima degli altri delle nuove idee, amano ragionare, spesso si ribellano contro la loro condizione. Già nel XVI secolo organizzano scioperi di carattere moderno‘ moderno‘.15 Gli stessi autori, abbiamo visto Petrarca Petra rca nel Medioevo, trattando della figura dello stampatore, affermano: ‗Di norma deve saper leggere e scrivere e per solito i regolamenti prescrivono che conosca il latino e a volte leggere il greco g reco‘‘.16 * Nel suo controverso libro La galassia Gutemberg M. McLuhan con argomentazioni psicologiche, sociologiche, storiche, filosofiche ha trattato della transizione dal manoscritto alla stampa accentuando la differenza tra le due tecniche, fermandosi tanto a considerare gli aspetti tecnici quanto a descrivere la condizione dell'utente del libro stampato. Ha ricordato che la cultura manoscritta è intensamente audiotattile, ‗al posto di un freddo distacco visivo il mondo del manoscritto sostituisce l'empatia e la partecipazione di tutti i sensi‘ sensi‘,17 è più umanistica, avrebbe detto Petrarca; con la stampa, invece, è aumentata fortemente la componente visiva a danno dell'orecchio, della parola parlata. Se durante il Medioevo, al pari dell'antichità, si leggeva ad alta voce e con le labbra si seguivano i ritmi dell'oralità, con la stampa
la voce tacque e l'occhio fu molto più veloce, alla lettura acustica seguì la visione e un modo diverso per giungere al cervello. Al primo apparire della stampa si ebbe, quindi, la sensazione che si era prodotta una limitazione e/o una modificazione morfologica nell'essere umano. Seguendo reminiscenze platoniche, a dire il vero piuttosto labili, e facendo analogie discutibili M. McLuhan aggiunge: ‗La differenza tra l'uomo di una cultura a stampa e quello di una cultura amanuense è quasi altrettanto grande di quella che vi è tra un non letterato e un letterato. Le componenti della tecnologia di Gutemberg non erano nuove. Ma quando furono messe una accanto all'altra nel secolo XV vi fu un'accelerazione di azioni sociali e individuali corrispondente a un decollo‘ decollo‘18 ; si determinò una grande trasformazione. Ciò che soprattutto M. McLuhan ha cercato c ercato di approfondire sono le fasi transitorie tra un'epoca e l'altra. Il Rinascimento del secolo XVI ha opposto a una millenaria cultura alfabetica e manoscritta la cultura della ripetibilità e quantificazione, che con il libro stampato provocò notevoli effetti. Poteva un libro, che veniva letto rapidamente e addirittura in silenzio, prendere il posto di un altro che veniva letto ad alta voce? Potevano gli studenti formati su questi libri stampati essere all'altezza degli abili oratori e dialettici prodotti con mezzi manoscritti? ‗Sì, per quanto strano e ripugnante possa sembrare, la nuova macchina didattica consente agli studenti di imparare almeno quanto prima prima‘‘.19 La transizione fu possibile perché le due tecniche avevano rapporti di interfaccia per l'incontro e per la metamorfosi delle strutture di due tecnologie. Il successo della stampa conforta la razionalità matematica e numerica, con essa può essere meglio illustrata o si può giustificare e rendere credibile l'immagine offerta da Galileo di un libro della natura che in quanto copia meccanicomatematica della realtà è un libro stampato, un libro grammaticalmente e
sintatticamente rigoroso. Ma ancor più, con l'avvento della stampa, il linguaggio non è il contrassegno delle cose, è invece lo strumento della manipolazione e della mobilità, è il linguaggio della macchina in un universo macchina. L'accentuazione del divario, della differenza tra cultura orale e cultura scritta, sostenuta da M. McLuhan, tuttavia può essere fuorviante. Osserva E. Eisenstein che non è facile immaginare come un manoscritto appariva ‗agli occhi di uno studioso amanuense che aveva da consultare una sola versione trascritta a mano e nessuna indicazione certa sul luogo o data di composizione, titolo e autore autore‘‘.20 La ricostruzione del passaggio dal manoscritto alla stampa, pertanto, non è poi così lineare come possa credersi. Sulla condizione di lavoro dell'amanuense abbiamo ricordato l'indovinello veronese, qualche scritto del Petrarca, ma il significato profondo della scrittura a mano e di quella a stampa potrebbe sfuggirci. La scrittura a mano può essere considerata una forma intermedia tra oralità e stampa. ‗Nella misura in cui era la dettatura a dirigere la copiatura negli scriptoria e le composizioni letterarie erano 'pubblicate' leggendole a voce alta, anche la cultura 'dei libri' era governata dalla parola parlata, producendo un'ibrida cultura mezzo orale e mezzo scritta che oggi non trova un parallelo preciso preciso‘‘.21 E tuttavia al di là degli elementi mediani che attutiscono il cambiamento, la differenza tra l'ultimo secolo degli amanuensi e il primo dopo Gutemberg appare netta, descrive una scena diversa. La stampa è veramente un'invenzione industriale, forse la prima vera, con l'interscambiabilità dei pezzi e la produzione in serie, la prima che rivoluziona la produzione e la vendita del prodotto. La galassia Gutemberg, secondo M. McLuhan, si dissolve nel 1905 con lo spazio curvo di Einstein. Lo spazio o il silenzio, che nell'universo newtoniano è un semplice vuoto che può essere riempito, una pagina bianca su cui si stampano le
lettere, per Einstein è uno degli attori della scena. Il grande scienziato, mettendo in discussione le relazioni spazio- temporali newtoniane, postulando il principio della relatività e con esso quello della costanza della velocità della luce, definiva un nuovo concetto di simultaneità. La simultaneità non è una proprietà assoluta che riguarda due eventi, le dimensioni spazio-temporali implicano altrettanto decisamente il rapporto degli eventi con l'osservatore. Successivamente, con il principio di indeterminazione di Heisemberg alla variazione di significato dei concetti classici di spazio e tempo, distanza e simultaneità, oggetto e soggetto, identità e ripetibilità si unisce la progressiva perdita dei significati tradizionali di posizione e di velocità, dato che questi riguardano grandezze fisiche rilevabili indipendentemente l'una dall'altra. Oggetto della ricerca scientifica non è più la natura in sé, bensì la natura subordinata al modo umano di interpretarla. La relazione causa-effetto è stata smentita ancora una volta; si è capito che deriva dalla capacità associativa della mente umana. Nell'era telematica e/o informatica altre componenti, altri spazi e tempi entrano in gioco, tutti concorrenti con l'osservatore, con chi scrive e legge, parla e ascolta per realizzare altro tipo di comunicazione, altri contesti comunicativi, altre tecnologie della comunicazione.
NOTE 1) J.
Le Goff, Goff, L'intellettuale nel Medio Evo, Mondadori, Milano Milano 1989, p. 11.
2) Ibidem. 3) A.
Roncaglia, Le origini e il Duecento, in Storia della letteratura italiana, vol.
I, Garzanti, Milano 1965, p. 175. Per un approccio antropologico e sociologico sulla su lla compresenza di oralità e scrittura in diverse civiltà alfabetizzate si legga R. Finnegan, La fine di Gutemberg, Sansoni Editore, Firenze 1990; titolo originale Literacy and Orality, Basil Blacwell Ltd, Oxford 1988. 4)
Le Goff, L'uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1987, opera in cui M.
Fumagalli Beonio Brocchieri, trattando dell'intellettuale medievale, accentua la diversità tra le attività manuali e quelle intellettuali, pp. 202-233. 5) F.
Petrarca, familiares XVIII, 5 Argalia Editrice, Urbino 1960.
6) Ivi, I, 1. 7) A.
Petrucci, Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Laterza, Roma-Bari,
1979, p. 29. 8) Ivi, p. 141. 9) Ivi. 10) Ivi, p. 142. 11) L.
Febvre, H. J. Martin, La nascita del libro, Laterza, Bari 1977, p. 12.
12)
M. Foucault, Le parole e le cose. Un‘archeologia delle scienze umane, BUR,
Milano 1978, p. 53. Titolo originale Les mots et les choses, Editions Gallimard, Paris 1966. 13) Ivi. 14) Joannis
Trithemi opera et spiritualis quotquot vel olim typis expressa vel M.
SS reperiri potuerunt, a cura di Johannes Busaens, Mainz 1604/1605, Biblioteca Nazionale di Napoli. 15) L.
Febvre-H. J. Martin, La nascita del libro, cit., p. 155. 155 .
16) Ivi. 17) M.
McLuhan, La galassia Gutemberg, Armando Editore, Roma, 1976, p. 55.
18) Ivi, p. 132. 19) Ivi, p. 199. 20) E.
Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, II Mulino, Bologna 1986, p. 25.
21) Ivi, pp. 25-26.
DALLA SEINFRAGE ALLA FRAGE NACH DER TECHNIK
L'essenza della tecnica si situa in ciò che sin dall'inizio e prima di ogni altra cosa dà da pensare. Per questo motivo sarebbe consigliabile per il momento parlare e scrivere di meno sulla tecnica e ripensare di più alla sua essenza, per trovare finalmente una via che ci conduca ad essa. M. Heidegger, Che cosa significa pensare.
‗La svolta metafisica, il problema della verità, il linguaggio, la questione della tecnica.‘ tecnica.‘ M. Heidegger ha riportato la riflessione del nostro tempo ai moduli greci di pensare con un'accurata e profonda indagine, a misura epocale, tesa a indagare radicalmente più di duemila anni di civiltà. Come epoca della tecnica, la nostra, nella speculazione heideggeriana, appare l'estremo esito della storia, l'ultimo atto della scena metafisica. Pensare la tecnica, oggi, è l'unico modo per riportare l'umanità a prendere coscienza del proprio destino, a intendere il senso della vita e della morte, ad aprirsi all'Essere e alla Verità. Si tratta di un pensare che analizza lo svolgersi dell'Essere come totalità, compresenza di fusis-logos-techné, da un massimo di rivelazione, contrassegnata da un minimo di occultamento, alla svolta metafisica e alla metafisica della tecnica, massimo di occultamento, appena interrotto da un esile filo di luce. A partire da Platone, l'Umanesimo ha effettuato la separazione dell'ente dal suo naturale fondamento (l'Essere) per affidarsi all'uomo che, situatosi nel mezzo dell'ente, ne ha ridotto la totalità a sua rappresentazione. Da Platone, quindi, la
verità dell'Essere come mondeggiare del mondo, come disvelamento dal nulla è perduta, si sottrae ed è abbandonata a favore dell'ente; da Platone si è iniziato il cammino della metafisica nel nascondimento e oblio dell'Essere, nascondimento e oblio più evidente nell'ovvietà del linguaggio quotidiano. In Età Moderna, la riproposizione in grande stile della svolta metafisica è attribuita a Cartesio, primo grande ideatore dell'obiettivismo scientifico e Galileo, grande matematizzatore della natura, per aver compiuto la traduzione del mondo in immagine, non altro che mera rappresentazione del soggetto. Cartesio, più impegnato filosoficamente del grande pisano, ha cercato di affrontare in modo radicale il problema dell'essere, ma non ha fatto altro che aggirarlo con la nozione di res extensa: ‗si tratta dell'idea di sostanzialità, non solo non chiarita nel senso stesso del suo essere, ma dichiarata inchiaribile, e reperita, per via traversa, mediante il ricorso alla caratteristica più propriamente sostanziale della sostanza considerata‘ considerata‘,1 determinazione ontica della sostanza, e poiché ‗l'ontico sottende l'ontologico, l'espressione substanzia è intesa ora in senso ontologico, ora in senso ontico‘ ontico‘,2 con un'alternanza di senso che ha impedito l'accesso al problema fondamentale dell'essere. Cartesio ha creduto di trovare detto accesso, di scoprirlo mediante l'esprit matematico ‗l'unica via di accesso genuina a questo ente è il conoscere, l'intellectio nel senso del conoscere fisico-matematico. Il conoscere matematico è l'unico modo di conoscere che sia sempre certo del sicuro possesso dell'essere dell'ente considerato‘ considerato‘.3 Per questa via la sua ricerca della fondazione, della "spiegazione" del rapporto tra pensiero ed Essere, matematica e realtà. Partendo dalle matematiche, oltre la separazione tra matematica pura e applicata, includendo nella matematica le scienze che hanno radici nel concetto di ordine e misura, di cui Cartesio parla nel Discorso sul metodo in un decisivo momento della sua
formazione giovanile: ‗Più di tutto mi piacevano le matematiche per la certezza e l'evidenza dei loro ragionamenti ma non ne vedevo ancora l'uso migliore‘ migliore‘.4 Poi la definizione della matematica scienza delle proporzioni e relazioni, o meglio logica generale delle relazioni, unico strumento per giungere alla chiarezza e distinzione. In un altro passo significativo, che spiega questa scelta, sempre del Discorso, Cartesio dice: ‗Considerando quindi come fra tutti quanti hanno finora cercato la verità delle scienze, soltanto i matematici sono riusciti a trovare alcune dimostrazioni o ragionamenti certi ed evidenti, non dubitai che quelle fossero le verità prime da esaminare, sebbene non ne sperassi altro vantaggio che di abituare la mia intelligenza alla ricerca fondata sul vero e non su falsi ragionamenti‘ ragionamenti‘.5 La rivoluzione in campo matematico, che Cartesio compie, è l'unificazione di algebra e geometria nell'analitica ‗e pensai, allora, che nel primo caso mi convenisse esprimerli i rapporti e le proposizioni con linee, perché non trovavo nulla di più semplice e facile per rappresentarli distintamente all'immaginazione e ai sensi, e nel secondo caso mi convenisse esprimerli mediante alcune cifre, le più brevi possibili; in questo modo avrei preso tutto il meglio dell'analisi geometrica e dell'algebra, e avrei corretto i difetti dell'una per mezzo dell'altra‘ dell'altra‘.6 Una sorta di matematica universale, insieme di relazioni logiche, cemento fisso e stabile di ogni conoscenza, metodo per una garantita ed efficace adaequatio tra rescogitans e res extensa, da estendere alla filosofìa e alle altre scienze. Nella Geometrie, poi, Cartesio darà diverse prove applicative dell'algebra all'analisi geometrica, sicché una equazione algebrica diventa una relazione tra numeri, e mentre accresce il grado di astrazione matematica si rende più adatta e più potente all'applicazione pratica. A tal punto che sembra che l'algebra possa prendere il posto della geometria, monopolizzare gli approcci e le tecniche di
risoluzione matematica. Ma, obietta Heidegger, l'ente mondano di Cartesio è colto nella sua uniformità. ‗Questo ente è caratterizzato dall'essere sempre ciò che è. Ne deriva che si assumerà come essere autentico dell'ente che si esperisce nel mondo quello di cui si potrà dimostrare la permanenza costante, quella remanens capax mutationum. E autenticamente ciò che è perenne rimanere. Come tale esso è l'oggetto del conoscere matematico. Ciò che in un ente si rende accessibile attraverso la matematica, ne costituisce l'essere‘ l'essere‘.7 Il mondo di Cartesio riceve il suo Essere per imposizione, l'uniformità della natura è posta aprioristicamente; non si chiede il perché della sua essenzapresenza, la si accoglie come scontata ‗sul fondamento di un'idea dell'essere (essere = permanente, semplice=presenza) non provata e oscura nella sua origine, e prescrive al mondo il suo essere 'analitico'. Ciò che determina l'ontologia del mondo non è in primo luogo il ricorso a una scienza casualmente privilegiata, la matematica, ma l'assunto ontologico fondamentale dell'essere come semplice presenza permanente‘ permanente‘.8 Il progetto cartesiano si riduce, pertanto, a eseguire il trapianto filosofico dell'eredità dell'ontologia tradizionale nella fisica matematica moderna, sotto l‘istanza di soddisfare l'esigenza dell'utilizzabilità del mondo e delle cose. Nella nostra epoca, rimasta ancorata a Cartesio, dall'Illuminismo all'imperialismo tecnologico dell'uomo planetario, si è consumata l'estrema affermazione dell'ente con l'uniformità organizzata degli strumenti, con il dominio completo della terra, con la massificazione e il dominio dello stesso uomo. F. Nietzsche è stato il primo a scoprire l'errore metafisico, ha, come si dice, suonato un campanello d'allarme, ha scoperto e svelato il fraintendimento metafisico dell'Occidente, mettendo sotto accusa la dualità platonica di essenza e esistenza, di mondo ideale e mondo sensibile e, rovesciando la posizione dei termini, si è appellato alla volontà di potenza. Ma, non era possibile saltare la metafìsica in modo critico; con un superamento vi si rimaneva comunque dentro,
perché restava da affrontare pur sempre il problema della verità. Non era possibile rovesciare la metafisica modificando l‘adaequatio rei et intellectus , la corrispondenza di cose e pensiero, o trovando una giusta sintesi, come aveva tentato Kant, tra soggetto e predicato. Si trattava, invece, di respingere qualunque adaequatio, di riflettere sull'enigma dell'Essere, sulla differenza ontologica. Per rendere più convincenti le sue tesi, Heidegger indugia sull'origine della metafisica come si legge nel famoso mito platonico della caverna, ove l'idea inizialmente è ciò che si mostra e conserva ancora il senso originario di "essere visto" per perderlo successivamente a vantaggio di oggetto della visione, oggetto di un pensiero che, cercando l'Essere come presenza, trasferisce all'idea la quidditas, il vero Essere. Così Heidegger presenta il racconto platonico, ‗le cose che sono alla luce del giorno fuori della caverna dove lo sguardo è libero di volgersi su ogni cosa rappresentano le 'idee'. Secondo Platone se l'uomo non vedesse queste ultime e cioè l'evidenza che si dà di volta in volta delle cose degli esseri viventi, degli uomini, dei numeri, degli dei non avrebbe mai la possibilità di percepire questa o quella cosa come una casa, un albero, un dio. Abitualmente l'uomo pensa di vedere direttamente proprio questa casa e quell'albero e così ogni essente. Innanzi tutto e per lo più l'uomo non sospetta affatto che tutto ciò che vale correntemente per lui come 'il reale' egli lo vede sempre solo alla luce delle 'idee'‘ 'idee' ‘.9 Il reale è lo specchio delle idee, o meglio l'uomo specchiandosi nel reale scorge le idee. È questa l'ambigua, doppia condizione che gli tocca: vivere sapendo che nella caverna il reale è ombra, è "immagine riflessa" o accettare questa con ingenua rassegnazione, con l'avversione alla luce del sole che s'irradia fuori della caverna. Platone sceglie la prima via perché crede nell'episteme, in una salita mediante paideia che non può aversi se non si muove e trasforma anche ciò che è disvelato,
perché ‗l'essenza della 'formazione' si fonda sull'essenza della verità‘ verità‘. Formazione e verità, paideia e aletheia non possono non procedere insieme, sono un tutto intrecciato e fuso (contro i sofisti) che si svolge per i famosi quattro gradi della "linea divisa". Il mito non si chiude con il raggiungimento del quarto grado della conoscenza, ossia quello filosofico: ‗All'opposto, nel 'mito' è compreso il racconto di una ridiscesa di colui che è stato liberato all'interno della caverna, presso coloro che sono ancora incatenati. Colui che è stato liberato deve condurre anche loro fuori dal modo di disvelamento in cui stanno e li deve condurre di fronte a ciò che è massimamente disvelato. Il liberatore però non si trova più bene nella caverna. Egli rischia di soccombere alla strapotenza della verità che colà domina, cioè alla pretesa della realtà comune di valere come l'unica realtà realtà‘‘.10 Il liberatore sa di rischiare e rischia scendendo una seconda volta nella caverna che non è totalmente chiusa, è fornita di apertura, è predisposta alla sottrazione di occultamento. Il filosofo, il poeta, come dirà Heidegger in seguito, sono gli uomini più adatti a sostare su di essa, in bilico su ciò che è l'apertura dell'Essere. Solo essi sanno, in sintonia con il valore semantico del termine aletheia che con l'a privativo indica una certa consapevolezza, che la verità implica una originaria non verità, che l'Essere implica il nulla. A questo punto interviene nel linguaggio platonico uno spostamento lessicale e semantico: il concetto di idea prende il sopravvento su quello di aletheia e non ha più il valore primitivo. Con tale spostamento si dà la svolta metafisica, l'elevazione dello sguardo verso le idee e il conseguente oblio dell'Essere. Ora le idee rappresentano il soprasensibile, colto con tutti i mezzi sensibili di cui l'uomo dispone, la conoscenza si riduce a un movimento del soggetto verso l'oggetto, a un pensare che, dimentico dell'Essere cerca gli enti: ‗L'inizio della metafìsica nel pensiero di Platone è nello stesso tempo l'inizio dell‘ dell ‘ ‗umanesimo'. Qui vogliamo pensare questo termine in modo essenziale e perciò
nel senso più ampio. In tale senso 'umanesimo' indica un processo collegato all'inizio, allo svolgimento e alla fine della metafìsica, nel corso del quale l'uomo, in modi di volta in volta differenti e tuttavia ogni volta consapevolmente, si colloca in una posizione centrale entro l'essente, senza ancor essere per questo l'essente supremo‘ supremo‘.11 II mutamento dell'essenza della verità avvenuto con Platone è fin troppo evidente nell'attuale nostra civiltà: ‗è presente come la realtà fondamentale della storia mondiale della terra che si avvicina all'ultima fase dell'epoca moderna; realtà che, consolidata da lungo tempo e perciò ancora ben salda, domina su ogni cosa‘ cosa‘,12 con l'adombrarsi apocalittico di un senso drammatico e di rinuncia che induce Heidegger a interrompere l'analisi esistenziale iniziata in Sein und Zeit. Ma la nostra epoca, epoca di crisi e di oscuramento totale o quasi «che più non son gli dei fuggiti, né ancor sono i venienti» può attivare un'apertura, come nella caverna, Abgrund dell'esserci. Molti critici hanno trovato riandare alle origini, recuperare l' Abgrund
la chiave interpretativa e chiarifìcatrice del pensiero di Heidegger nello scritto Lettera sull'umanesimo, testo in cui vengono riproposti i temi lasciati in sospeso in Sein und Zeit, con aperture nuove sull'interpretazione della metafisica, il rapporto
tra Essere e Tempo, Tempo ed Essere, sulla condizione dell'uomo e dell'umanità, sul linguaggio, sulla scienza. Ritornando al pensare originario, perduto dal Dasein, e alla natura del linguaggio, Heidegger dice: ‗soggetto e oggetto sono denominazioni improprie della metafisica che dagli inizi si è impossessata dell'interpretazione del linguaggio nella forma della logica e della grammatica occidentale. Ciò che si nasconde in questo accadimento, oggi lo possiamo appena sospettare. La liberazione della lingua dalla grammatica in vista di una strutturazione più originaria della sua essenza tocca al pensiero e alla poesia poesia‘‘.13 Riaffiora in queste righe di Heidegger l'istanza tradizionale dell'Essere come presenza che informa anche il giudizio, il logos classico; ma emerge soprattutto
che la modificazione logico-tecnica del linguaggio equivale alla modificazione tecnica del pensiero. Più avanti Heidegger afferma: ‗Per imparare ad esperimentare in modo puro e cioè, insieme, a portare a compimento l'essenza del pensiero di cui si è parlato, dobbiamo liberarci dell'interpretazione tecnica del pensiero, le cui origini risalgono fino a Platone e Aristotele. Là lo stesso pensiero è inteso come una techne, come il processo della riflessione al servizio del fare e del produrre‘ produrre‘.14 La filosofia ha cercato più volte nella storia di giustificare la propria esistenza di fronte alla scienza e alla tecnica, invece questo sforzo è un errore, perché porterebbe la filosofìa alla logistica che comporta l'abbandono dell'essenza del pensiero, che è mobilità, libertà della parola. ‗Il rigore del pensiero non consiste, a differenza delle scienze, semplicemente nella esattezza artificiale, cioè tecnicoteorica dei concetti. Esso riposa nel fatto che il dire rimane integralmente nell'elemento dell'Essere e lascia dominare ciò che, nella molteplicità delle sue dimensioni, è semplice‘ semplice‘,15 ed è evidente, per Heidegger, che si è più vicini all'Essere con la comunicazione spontanea e libera, anzi, con l'ascolto più che con il vedere. Il problema del linguaggio, fondamentale nell'analisi heideggeriana della Lettera sull'umanesimo e della produzione ultima, assume capitale importanza per la
comprensione della civiltà del nostro tempo. ‗La decadenza del linguaggio di cui da poco e tardi, molto si discute, non è però il fondamento, ma già una conseguenza del processo per cui il linguaggio sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività cade in modo quasi irresistibile al di fuori del suo elemento‘ elemento‘.16 L'umanesimo crede di poter fondare il linguaggio mentre il linguaggio della sua essenza non è manifestazione di un organismo, né espressione di un essere vivente. ‗Esso perciò non si lascia mai pensare in modo
adeguato alla sua essenza in base al suo carattere di segno, e forse neanche in base al suo carattere di significato. Il linguaggio è il manifestante-occultante avvento dell'Essere stesso‘ stesso‘.17 Viene a chiarirsi, se ce n'era bisogno, la distinzione già affiorata tra linguaggio della metafisica, ovvero della tecnica, e linguaggio originario, la cui essenza è pensata in corrispondenza all'Essere. Il Dasein, destinato, gettato dall'Essere, può atteggiarsi, se vuol essere autentico, semmai a pastore dell'Essere, a custode della verità dell'Essere. In quanto Dasein deve sentirsi ospite del linguaggio, vera e propria casa dell'Essere e cercare le parole elementari. La società contemporanea ha portato a estremo sviluppo la metafìsica, umanizzando gli apparati, elaborando un sistema che si perpetua senza fine, che è d'altronde un continuo usurare e trasformare l'uomo da soggetto a oggetto. Ignorando la differenza ontologica, realizza una totalità non più controllabile che travolge e schiaccia, che può portare alla distruzione, alla fine. La società contemporanea ha cercato di afferrare qualcosa di sicuro, di solido e stabile fino a trattare lo stesso uomo come oggetto, strumento, la più importante delle materie prime; ma negandolo come oggetto. Invece la frattura, la differenza tra soggetto e oggetto va saltata ponendosi in una condizione di pre-giudizio. L'autenticità dell'esserci può essere conseguita con il pensare in modo né teorico né pratico, antecedente a questa distinzione. Si tratta di oltrepassare la metafisica non dal dopo ma dal prima, non in modo lineare e/o intenzionale, bensì lasciandosi andare, offrendosi all'Essere. Questo perché l'uomo è quell'ente particolare che ha la possibilità di pensare l'Essere. Senza riguardo alla metafisica può distaccarsi dal pensiero rappresentativo e dalla discorsività filosofica, a questo connessa, che si fondano sull'equivalenza di essere e fondamento, purché si richiami alle origini, all'Essere come tutto, laddove i quattro luoghi (terra, cielo, i divini, i mortali) non sono luoghi privilegiati, bensì dell‘orizzonte del mondo.
Questa via d'uscita si chiarisce ancor più quando Heidegger si chiede, con maggior insistenza, se si possa pensare in modo diverso, parlare in modo diverso. Si chiede: possono essere praticati accanto al linguaggio della metafìsica altri linguaggi? Sono indubbiamente i sentieri cui Heidegger vuole indirizzarci. Al termine di Sein und Zeit era venuto meno proprio il linguaggio, perché il filosofo si era sentito risucchiato ancora in quello metafisico e si era per coerenza fermato. Ora Heidegger pensa che se è impossibile uscirne, se inventare una nuova lingua non si può, è possibile almeno ricercare con instancabile viaggio ermeneutico il contenuto originario della lingua e delle parole. Se la metafisica è un destino dell'Occidente, e pertanto dalla metafìsica non si esce, il pensiero può prendere coscienza di questa situazione, può ricercare il linguaggio originario da un lato, sperimentare con il linguaggio e sul linguaggio qualcosa di nuovo dall'altro. Giocare con il linguaggio ed essere giocati è un modo di essere che può portare al dissolvimento della metafisica, alla sua fine. Per farlo bisogna avere l'animo dei poeti e dei filosofi che, in una posizione privilegiata, "di rischio", sono i più vicini all'Essere, sanno che la metafisica non ha fondamenti, sentono di vivere in costante pericolo. Negli stessi anni in cui il suo maestro E. Husserl stendeva la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Heidegger fa sentire
con forza la sua voce discordante dicendo: ‗L'intreccio caratteristico del Mondo Moderno, per cui il mondo diviene immagine e l'uomo subjectum, getta una luce significativa anche sul corso fondamentale della storia moderna, a prima vista quasi assurdo. Quanto più profondamente e recisamente il mondo è conquistato e perciò disponibile per l'uomo, quanto più l'oggetto si rivela oggettivo e il subjectum s‘ s‘impone soggettivisticamente cioè perentoriamente, tanto più risolutamente la concezione del mondo e la teoria del mondo si trasformano in dottrina dell'uomo, in antropologia. Nessuna meraviglia quindi se solo là dove il mondo è divenuto immagine si impone l'umanesimo l'umanesimo‘‘,18 laddove il termine
antropologia significa dottrina filosofica dell'uomo che spieghi e consideri l'ente nel suo insieme a partire dall'uomo e in vista dell'uomo. Ancora più avanti, cercando di ribadire le caratteristiche della nostra civiltà: ‗II tratto fondamentale del mondo Moderno è la conquista del mondo risolto in immagine. Il termine immagine significa in questo caso: la configurazione della produzione rappresentante. In questa produzione l'uomo lotta per prendere quella posizione in cui può essere quell'ente che vale come regola e canone per ogni ente. Poiché questa posizione si garantisce, si articola e si esprime come visione del mondo, il rapportamento moderno all'ente, al momento del suo sviluppo decisivo, prende la forma di un confronto di visioni del mondo; non certo di visioni qualsiasi, ma solamente di quelle già connesse in modo radicale alle situazioni estreme dell'uomo. Per questa lotta fra visioni del mondo e in conformità al senso di questa lotta, l'uomo pone in giuoco la potenza illimitata dei suoi calcoli della pianificazione del controllo di tutte le cose cose‘‘.19 Sottolineando ulteriormente gli aspetti metafisici della nostra civiltà, Heidegger annota: ‗Un segno di questo processo è costituito dal fatto che ovunque, nelle forme e nei travestimenti più diversi, si fa innanzi il gigantesco. Ciò avviene anche nella direzione del sempre più piccolo. Basta pensare ai numeri della fisica atomica. Il gigantesco avanza in una forma che sembra voler dissolverlo: con l'annullamento delle grandi distanze per mezzo dell'aeroplano, con la rappresentazione mediante una semplice manopola radiofonica - di mondi lontani nella loro quotidianità‘ quotidianità‘.20 Accentuando, infine, le distanze da Husserl, che cerca la relazione tra fondamento e scienze, afferma che le scienze non possono avere un proprio fondamento. Tutti i tentativi in questa direzione sono risultati vani, non ultimi quelli del nostro secolo perché ‗le scienze non sono in grado di rappresentare se stesse come
scienze con i mezzi della loro teoria e con i procedimenti propri della teoria ‗,21 la ricerca dell'essenza spetta ai filosofi e agli storici. Sono passi nei quali emerge la diversità tra scienza e pensiero con il tanto discusso ‗[la scienza] non pensa. Non pensa perché - in conseguenza del suo modo di procedere e dei suoi strumenti essa non può pensare; pensare, intendiamo, nel modo in cui pensano i pensatori.‘ pensatori. ‘ Che la scienza non sia in grado di Pensare non è per nulla un difetto, ma un vantaggio. Solo in virtù di questo la scienza può dedicarsi alla ricerca sui singoli ambiti e stabilirsi in essa ‗[...] Ma il rapporto della scienza con il pensiero è autentico e fruttuoso solo quando l'abisso che separa scienza e pensiero diventa visibile e se ne riconosce l'insuperabilità. Non c'è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l'unico passaggio possibile è il salto salto‘‘.22 Affermazioni cui vogliamo accostare per contrasto la relazione platonica tra dianoia e logos (la linea divisa), la differenza tra matematica pura e matematica applicata. La riflessione heideggeriana sulla scienza si unisce, come era prevedibile, a quella sui prodotti tecnologici da essa generati, in particolare nel saggio La cosa. La cosa è stata annullata alla radice per il fraintendimento metafìsico ‗il sapere della scienza, che è obbligante nel suo ambito - cioè l'ambito degli oggetti - ha già annullato le cose come cose molto prima che esplodesse la prima bomba atomica. Questa esplosione è solo la più grossolana di tutte le grossolane conferme della già da tempo accaduta annichilazione della cosa, del fatto cioè, che la cosa come cosa rimane nulla, la cosalità della cosa rimane nascosta, dimenticata ‗,23 la cosa è occultata, si è insecchita. Ma, di nuovo, quale atteggiamento può assumere l'uomo contemporaneo di fronte agli oggetti, ai prodotti della tecnica? Certo non condannando il mondo della tecnica come opera del diavolo. Può far uso dei prodotti della tecnica
mantenendosi libero, facendo in modo che essi non prendano il sopravvento su di lui; anzi la cosa o le cose, se interrogate in modo adeguato, ci indirizzano al luogo originario perché non sono del tutto fuori di noi come oggetti neutrali e di scambio. Allo stesso modo un valore filosofico per le scienze, pur sempre limitato, sussiste: quello di entrare a far parte di una visione globale e unitaria ad opera del filosofo, perché le partizioni disciplinari, dettate da esigenze fondazionali e metafisiche nelle più minute e numerose scomposizioni, se hanno fatto smarrire il senso di unità possono essere ricomposte: ‗la delimitazione dei campi di oggetti, la suddivisione di questi in zone specializzate non distacca le scienze l'una dall'altra ma anzi fonda la possibilità di rapporti di frontiera tra di esse in virtù dei quali si definiscono delle zone di confine, da queste si irradia una peculiare forza propulsiva, che apre nuove zone di problemi spesso decisive ‗.24 L'attività filosofica, il pensare favorisce la scienza, perché le toglie appunto il compito più gravoso di Pensare e le consente di occuparsi di ambiti particolari. * L'essenza della tecnica non può essere qualcosa di tecnico perché la considerazione estrinseca della tecnica, ossia il tecnicismo, preclude all'uomo la possibilità di porsi in modo autentico di fronte ad essa. ‗Non possiamo, quindi, esperire veramente il nostro rapporto con l'essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnica e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancora più gravemente in suo potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale‘ neutrale‘. 25 È il monito di sapore classico rivolto a chi la subisce, che con altro spirito, altre tonalità e motivazioni diverse, sarà pronunciato, quasi contemporaneamente da H. Marcuse. ‗Di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale
della 'neutralità' della tecnologia non può più essere sostenuta. La tecnologia come tale non può essere isolata dall'uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende a operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate‘ elaborate‘26 . Tuttavia la valutazione sulla neutralità della tecnica porta a esiti diversi i due filosofi tedeschi: per Marcuse di fronte al totalitarismo della odierna società tecnologica, di fronte all'irrazionalità della società più razionale è possibile solo una reazione di oltrepassamento metafìsico, per Heidegger, che può convenire sull'analisi della società tecnologicamente avanzata, diverse sono, invece, come abbiamo visto, le possibilità umane. Dire che da Platone in poi la tecnica è uno strumento, un mezzo di cui l'uomo si serve per raggiungere determinati fini è esatto, però questo comporta un restare nell'ambito di una concezione antropologico-metafìsica della tecnica, una concezione che ripete e ricade nell'ambito della svolta metafisica. Per Heidegger la tecnica ha un valore più importante e radicale, non è solo un mezzo, è un modo del disvelamento e ci porta o dovrebbe portare alla domanda sulla verità. Pensare la tecnica è, oggi, l'unico modo di fare filosofia. Per gli antichi greci la scienza e la tecnica in quanto poiesis, produzione, fanno sì che qualcosa passi dal non essere all'Essere, dall'assenza alla presenza. Anche la physis è poiesis come la techné , con la differenza che la physis ha in sé il principio
del proprio dispiegamento, mentre la techné opera il dispiegamento dall'esterno, la physis segue un processo naturale e interno, la techné, invece, agisce forzando la natura, spesso la violenta. ‗Una produzione, ς, non è solo la fabbricazione artigianale, né solo il portare all'apparire e all'immagine che è proprio dell'artista e del poeta. Anche la φύσις, φύσις, il sorgere di per sé (das vou-sich-her-Aufgehen) è una pro-duzione, è
ς . La φύσις φύσις è anzi
ς, nel senso più alto‘ alto‘27 questo
perché la physis ha in sé il movimento iniziale della produzione, mentre il prodotto dell'artista o del tecnico non ha in se stesso il movimento iniziale.
Entrambe queste forme di poiesis, possibili perché la natura è Bestand, fondo disponibile, fanno sì che la natura si sveli in nuove relazioni e si modifichi. Nelle fasi di storia dell'umanità a economia primitiva (caccia, pesca, allevamento) la tecnica, non molto complessa e sofisticata nella strumentazione, asseconda la produzione della natura. Nella civiltà contemporanea la tecnica consiste soprattutto nell'accumulo di energia, nella traduzione della natura in fondo energetico disponibile. Sia nella prima che nella seconda età l'uomo non è propriamente l'artefice della produzione tecnica, provoca ed è a sua volta provocato, è disposto anch'esso come Bestand. L'uomo e la natura quindi si appartengono originariamente come si co-appartengono pensiero ed Essere. L'essenza della tecnica, come si è detto, non può essere la sua strumentalità; l'esattezza della definizione di tecnica, la stessa perfezione tecnologica non ci dà la verità. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica della tecnica diventa caduca nel suo principio perché lo strumento non è mai qualcosa in sé conchiuso, esso è sempre per qualcos'altro, rimanda perennemente ad altro. Se al tempo di Platone il produrre della techné non è tanto in senso praticooperativo quanto piuttosto in senso manifestativo, se è Wissen, e techné ed ed episteme sono ancora assimilate (entrambe rappresentano il conoscere in senso ampio) nell'Età Moderna si è avuta, in modo chiaro, la distinzione tra tecnica e scienza. E tuttavia per quanto diversa, per la produzione e la strumentazione, la tecnica del nostro tempo, secondo Heidegger, va ricondotta alla prima, perché anch'essa è un modo del disvelamento. Il suo produrre, il suo tirar fuori il nascosto è aletheia. La tecnica del nostro tempo ha stravolto il rapporto uomo/natura, ha forzato questa per accumulare, immagazzinare materia ed energia. ‗La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l'antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all'altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione
della centrale‘. centrale‘.28 La centrale coinvolge in modo totale e complessivo la natura, l'uomo, le macchine. Tutti insieme sono Bestand, ciò che è pronto, deve essere pronto all'impiego. Rifacendosi ad Aristotele per il concetto greco di φύσις nel φύσις nel saggio Sull'essenza e sul concetto di φύσις distingue questa dalla tecnica. Il rapporto tecnica-natura sia
nell'antichità sia oggi è di intersezione, di complementarità, di concorrenza. Aristotele, figlio di medico, spesso si è rifatto alla pratica del padre indagando sia lo statuto epistemologico della medicina sia il valore della tecnica e il sapere empirico, sia la natura umana, il corpo del paziente. ‗La τέχνη τέχνη può soltanto venire incontro alla φύσις, φύσις, può favorire più o meno il risanamento, ma come τέχνη non τέχνη non potrà mai sostituirsi alla φύσις diventare, φύσις diventare, al suo posto, l'άρχή l'άρχή della della salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile 'tecnicamente'; ma se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute né nascita, né morte. Talvolta sembra che l'umanità corra all'impazzata verso questa meta; che l'uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà, l'uomo avrà fatto saltare in aria se stesso cioè la sua essenza come soggettività, e l'avrà fatta saltare in quell'aria dove l'assoluta assenza di senso vale come unico 'senso'‘ 'senso'‘. 29 Ma l'uomo è provocato in modo più originario, non diventa propriamente tecnica egli stesso, puro fondo. ‗All'ambito tecnico appartiene invece tutto ciò che conosciamo sotto il nome di intelaiature, pistoni, armature, e che sono parti costitutive di ciò che si chiama montaggio. Questo, tuttavia, insieme con le menzionate parti costitutive rientra nell'ambito del lavoro tecnico, il quale risponde sempre soltanto alla provocazione dell'imposizione, ma non la costituisce né la produce‘. produce‘.30
Il disvelamento, pertanto, non può essere opera della tecnica da sola, la macchina è ferraglia e resta tale; il disvelamento accade nell'uomo e con l'uomo. Così la storia è destino in cui l'uomo ‗diventa libero solo nella misura in cui, appunto, appartiene (gehört) all'ambito del destino e così diventa un ascoltante (ein Hörender), non però un servo (ein Höriger)‘ Höriger)‘.31 L'essenza della tecnica che Heidegger va cercando è la scoperta del destino inevitabile del nostro tempo, ‗quando consideriamo l'essenza della tecnica, esperiamo l'imposizione come un destino del disvelamento. In tal modo stiamo già nell'ambito di libertà del destino, che non ci chiude affatto in una ottusa costrizione per cui dobbiamo darci alla tecnica in modo cieco, oppure - che è lo stesso - rivoltarci vanamente contro di essa e condannarla come opera del demonio. All'opposto: se ci apriamo autenticamente all'essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore‘ liberatore‘.32 La tecnica mette l'uomo di fronte a due possibilità: la prima restrittiva che, largamente diffusa oggi, possiamo osservare nella considerazione superficiale e consumistica, la seconda che orienta l'uomo verso la riflessione radicale, originaria. Sia nell'una che nell'altra possibilità l'uomo è in pericolo, è come sull'orlo estremo del precipizio. Questa ambiguità della tecnica, natura ancipite di Nascondimento-disvelamento, è meglio chiarita sostenendo che essa può impedire ogni visione dell'evento del disvelare, come può, d'altra parte, consentire all'uomo di essere l'adoperatosalvaguardato (der Gebrauchte) per la custodia cu stodia (Wahrnis) dell'essenza della verità (Wahrheit). Finché pensiamo la tecnica come strumento restiamo legati alla volontà di dominarla e ne siamo dominati, ‗Se però ci domandiamo come ciò che è strumentale dispiega il suo essere (west) in quanto specie particolare della causalità, allora potremo cogliere questo essere (dieses Wesende) come il destino
di un disvelamento‘ disvelamento‘.33 All'ipotesi che l'uomo non faccia più parte del Bestand e quindi all'ipotesi della strumentalizzazione dell'uomo stesso, divenuto artificio o macchina, all'ipotesi cioè della sua fine si può affiancare l'altra per cui ‗ogni disvelamento viene dal libero (das Freie), va verso il libero e porta nel libero libero‘‘.34 Con Heidegger La questione della tecnica è decisamente riassorbita nel problema della Verità, nel problema dell'Essere.
NOTE 1) M.
Heidegger, Sein una Zeit, Niemeyer, Tùbingen 1927; Essere e Tempo,
trad. it. di P.Chiodi, UTET, Torino 1969, p. 174. Per un primo approccio al pensiero di Heidegger: G.Vattimo, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari 1971. 2) Ivi. 3) Ivi, p. 175. 4) Cartesio, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 48. 48 . 5) Ivi, p. 64. 6) Ivi, pp. 64-65. 7) M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 175. 8) Ivi, p. 176. 9) M.
Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit, Francke, Bern 1954; La
dottrina di Platone sulla verità, trad. it. di A. Bixio e G. Vattimo, SEI, Torino 1975, pp 43-44 10) Ivi, p. 54. 11)Ivi, p. 70. 12) Ivi, p. 71. 13) M.
Heidegger, Brief ùber den Humanismus, A. Francke Bern 1947; Lettera
sull'umanesimo, trad. it. di A. Bixio e G. Vattimo, SEI, Torino 1975, p. 76. 76 . 14) Ivi.
15) Ivi, p. 77. 16) Ivi, p. 81. 17) Ivi, p. 90. 18)
M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti,
(trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 97; titolo originale Holzwege, Klostermann, Frankfurt 1950. 19) Ivi, p. 99. 20) Ivi, p. 100. 21)
M. Heidegger, Vortràge un Aufsàtze, Neske, Pfulligen 1967; Scienza e
meditazione, in Saggi e discorsi, trad. it., di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 41 22) Ivi, p. 88. 23) M. Hedegger, La cosa, in Saggi
e discorsi, cit., p. 113.
24) M. Heidegger, Scienza e meditazione, cit., p. 37. 25) M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e
discorsi, cit., p. 5.
26) H. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 14. 14 . 27) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 9. 28) Ivi,
p. 12. Per il rapporto tra storia dell'Essere e problema della tecnica
vanno segnalati: M. Ruggerini, 11 soggetto e la tecnica, Bulzoni, Roma 1977; V. Vitiello, Scienza e tecnica nel pensiero di Heidegger, in "II pensiero", 1973, pp. 113-48; V. Cavallucci, Heidegger, Metafisica e tecnica, Arsenale Cooperativa
Editrice, Venezia 1981; E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, Guida Editori, Napoli 1981, pp. 229-323, parte terza. 29) M.
Heidegger, Wegmarken, Klosterman, Frankfurt 1978; trad. it. di F. Volpi
e G. Gurisatti, Segnavia, Adelphi Milano 1987, p. 211. 30) M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 15. 31) ivi, pp. 18-19. 32) Ivi, p. 19. 33) Ivi, p. 25. 34) Ivi, p. 19.
SOCRATE NON È ELISA, PERÒ...
Se tutto fosse assoluta diversità, il pensiero sarebbe votato alla singolarità, e come la statua di Condillac prima di aver cominciato a ricordare e a confrontare, sarebbe votato alla dispersione assoluta e all'assoluta monotonia. Non vi sarebbero, di conseguenza, né memoria né immaginazione possibile, e nemmeno riflessione. E sarebbe impossibile confrontare le cose, definirne i tratti identici, e fondare un nome comune. Non vi sarebbe linguaggio. Il linguaggio esiste in quanto al di sotto delle identità identità e delle differenze vi è il fondo della continuità, delle somiglianze, delle ripetizioni, degli incroci naturali. M. Foucault, Le parole e le cose.
4.1. La costruzione di macchine digitali ha avuto, sin dall'inizio, i requisiti e i connotati di una tecnica particolare, unica nella storia, uno scopo non solo computazionale ma anche più ardito di materializzare il pensiero, le idee, di tradurli in forma soggetta a manipolazione. Oggi con l'I. A. siamo di fronte al più avanzato tentativo di informatizzare processi intellettuali, siamo alle prese con una "macchina pensante" che simbolicamente rappresenta l'aspetto più originale della nostra civiltà, oggetto d'indagine e ricerca non solo di esperti della computer science, ma anche di fisici, matematici, biologi, semiologi, filosofi. Anni fa J. Searle ha presentato, sia pure in modo schematico, nell'agile divulgativo libretto, Mente, cervelli e programmi,1 in
contrapposizione frontale due degli orientamenti più accreditati: a) dell'ipotesi forte dell'I. A., ossia di un'intelligenza simile a quella umana in cui la mente sta al cervello come il software sta all'hardware; b) dell'ipotesi debole dell'I. A., attestata sulla non riproducibilità dell'intelligenza umana. Tra le diverse prese di posizione riportate da Searle, vogliamo menzionare quella di B. Bridgeman tendente ad avvicinare l'I. A. all'uomo: «il cervello è simile a un programma di computer in quanto riceve esso pure solo input e produce solo output. Gli input sono piccoli segnali a 0.1 volt che entrano in gran quantità lungo i nervi afferenti, e gli output sono segnali fisicamente identici che abbandonano il sistema nervoso centrale sui nervi efferenti».2 Convincimento contro cui, di primo acchito, nulla è da obiettare, così come può essere accettabile che il neurone è una macchina; ma che appare discutibile quando Bridgeman, unificando biologico e fisico, utilizza l'esempio di animali monocellulari, indubbiamente meno "organizzati" del computer, e può con procedura riduzionistica legittimare il computer a inserirsi o essere inserito nella grande e indistinta famiglia delle menti, l'uomo incluso, ridotto solo a massa cerebrale, insieme di proprietà a livello di neuroni. O l'indiretto riferimento alle note teorie di J. C. Eccles, che sul più importante dei quesiti posti da J. R. Searle (possono i computer avere intenzionalità?) afferma seccamente: «l'intenzionalità è una proprietà della mente autocosciente». Oppure la battuta critica, riportata sempre nello stesso volume, quasi ironica, di R. Rorty: «Nel 1960 Putnam notò che l'analogia tra mente e programma non mostrava che possiamo usare il computer per aiutare i filosofi a risolvere il problema mentecorpo, ma che non c'era alcun problema mente-corpo che i filosofi dovessero risolvere. Il meglio del lavoro degli ultimi venti anni di I. A. ha rafforzato la tesi di Putnam»,3 pronunciata per mettere definitivamente fuori gioco ogni pretesa
epistemologica della filosofia in cambio di una scelta ermeneutica o debole, punto di vista trattato ampiamente in La filosofia e lo specchio della natura . A una fase più avanzata e recente dell'I. A. ha posto attenzione W. Hofstaedter nella parte finale del suo Godel, Escher, Bach quando ne presenta una breve storia s toria 4 ed
elenca le più complesse e sorprendenti operazioni che riesce a compiere. In
precedenza, trattando della differenza macchina/pensiero, cita un teorema: «A questo proposito esiste un 'teorema' sui programmi di I. A.: non appena si riesce a programmare qualche funzione mentale, immediatamente si smette di considerarla un ingrediente essenziale del 'vero pensiero', il nucleo ineluttabile dell'intelligenza è sempre in quell'altra cosa che non si è ancora riusciti a programmare. Questo 'teorema' mi venne proposto per la prima volta da Larry Tesler, per cui lo chiamo teorema di Tesler: l'I. A. è tutto ciò che non è ancora stato fatto». Detto altrimenti: ci sarà sempre qualcosa di intelligente che l'I. A. non riuscirà a fare. Affermazione che, dettata da pregiudizi antropologici, coglie alla radice le difficoltà maggiori dell'I. A., quelle inerenti la nozione stessa di programma che esclude, dal concetto di intelligenza, la casualità e la creatività, con l'emergenza della dicotomia programma/caso. Ma che non può, in quanto sorretta da pregiudizi, essere condivisa da W. Hofstaedter che a questo proposito aggiunge: «Se l'intelligenza comporta creatività, apprendimento, risposte emotive, senso della bellezza, senso di sé, allora vi è una lunga strada da percorrere» 5 una strada che non è totalmente chiusa. Tra gli studiosi italiani, infine, S. Moravia, occupandosi del mind-body problem e riportando considerazioni di Searle, ha affermato che il computer «usa 'segni' e non 'simboli' (presupponenti una conoscenza distinta delle 'cose' e dei 'designanti', dei significati e dei significanti). Correlativamente, esso può bensì obbedire a una sintassi, ma non realizzare una semantica», 6 per evidenziare che,
ad avviso di Searle, e anche suo «le operazioni cognitive dei computer hanno una somiglianza assolutamente minima col pensiero cognitivo umano. Quest'ultimo si sviluppa secondo procedure (precomprensioni, accostamenti analogici, ritagli, scomposizioni tematiche, ipotizzazioni ecc.) incommensurabilmente diverse da quelle eseguite dai computer. È poi perfino inutile aggiungere che se invece delle operazioni cognitive si parla del pensiero in generale la distanza tra la 'mente' (o l'uomo) e la 'macchina' aumenta enormemente».7 Ma forse le considerazioni più feconde del libro di Moravia sono scritte verso la fine quando, a completamento dell'excursus sul dibattito, ammette che esso, ormai, è imbrigliato in una serie di fraintendimenti nominalistici. Dopo aver detto che «nessuno contesta [...] la legittimità di effettuare determinate comparazioni - ben 'delimitate' e ontologicamente uncommitted - tra la mente e la macchina. Bisogna però aggiungere subito che certi termini/concetti non possono essere usati come meri segni 'neutrali', attribuibili a qualsiasi ente il quale 'sembri' comportarsi in un certo modo. Quando noi diciamo 'credenza', 'intenzione', 'progetto', abbiamo in mente tre 'designata' ben precisi, e soprattutto ben 'densi' di implicazioni e riferimenti psico-antropologici e socio-culturali».8 Più avanti, ritornando alla componente linguistica del problema e riportando affermazioni di D. Davidson, «la seconda osservazione riguarda invece la 'diversa natura', e dunque la, almeno parziale, intraducibilità dei concetti psicologici e dei concetti fisici. I primi sono essenzialmente valutativi; i secondi no»,9 perviene alla conclusione che solo un uomo può compiere azioni propriamente umane, gli altri (computer o altro) possono al massimo simulare i suoi comportamenti; con la riduzione del mind-body problem a problema nominale.
Fermando l'attenzione all'elaborazione dei programmi, cercheremo di evidenziare lo hiatus esistente tra mente e macchina, rimarcando la "differenza" tra linguaggio naturale e linguaggio artificiale con l'elementare espediente del confronto di linguaggi e comportamenti tratti da due testi-dialoghi, salvo poi ricondurli a una originaria "prestruttura". 4.2. Nel dialogo platonico omonimo, Menone entra nella scena con una perentoria richiesta a Socrate circa la natura e l'insegnabilità della virtù, domanda di informazioni su un determinato oggetto giustificata e possibile, perché tra i due sussiste la condizione primaria per comunicare o, come direbbe K. O. Apel, l'a priori trascendentale della comunicazione: il comune possesso della lingua, della medesima koinè. Ma Socrate, consapevole di non essere depositario di particolari saperi, non intende rispondere, tantomeno di primo acchito. Fa capire che è necessario in primo luogo "porre bene il problema" nella sua complessità, saper fare le domande, stabilire esattamente i termini del discorso. Si schermisce, dribbla la domanda e, quasi diabolicamente, invertendo le posizioni, con il suo fare maieutico spinge Menone a una serie di tentativi volti a definire la virtù, dato che nella definizione risiede la soluzione alla domanda iniziale. Non si tratta di accogliere la prima che affiora alla mente; è necessario cercare, invece, quella che, lungi dall'essere parziale e limitata o banale elencazione di casi particolari, possa ritenersi esauriente, comprensiva, universale. Socrate, con finezza mista a una certa dose di humour, incoraggia il giovane: «non lascerò nulla d'intentato per venire incontro a te e a me con le mie parole, ma non sarò forse capace di reggere a lungo simili ragionamenti. Ad ogni modo, ora, cerca anche tu di mantenere la promessa, definendo in generale cosa sia la virtù e smetti di fare dell'uno una molteplicità, come scherzando si dice di chi manda in pezzi un oggetto; lascia intera e intatta la virtù, e dimmi in che consiste. Già ti ho dato
esempio di come devi fare» {Me 77ab). Menone raccoglie la battuta, si sente un po' smarrito, avverte una sensazione di confusione e candidamente confessa: «Socrate, anche prima d'incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri; ora poi, come mi sembra, mi affascini, mi dai beveraggi, m'incanti, tanto da non avere più alcuna via d'uscita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare; perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi, subito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, perché sono veramente intorpidito nell'anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti» {Men 80a). Siamo ancora all'antefatto del dialogo, fase di schermaglia e preambolo, momento di critica e di purificazione della mente con il conseguente riconoscimento della vanità dei tre tentativi (trials), seguiti dai relativi insuccessi (errors), Menone ha la forza di riprendersi e, fattosi più cauto, anche furbo, fa una contromossa, sottoponendo a Socrate quello che a lui pare il paradosso su cui verte l'intero dialogo: dover cercare ciò che non si conosce (impresa impossibile) o cercare ciò che si sa (ricerca inutile). Ma Socrate sa come uscirne. «L'anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell'Ade, in una parola tutte quante le cose, non c'è nulla che non abbia appreso. Non v'è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere nella mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d'altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l'anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l'anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza (anamnesi)». {Me 81cd). Ricorda che può riuscire, nel modo migliore, impegnandosi in una ricerca comune, di gruppo, perché «non è, questa mia, una scienza come le altre; essa non
si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza; nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima» (Lett. VII 341cd). Il vero sapere non è certo comunicabile, veicolabile come mero scambio di informazioni; consiste nel riscoprire nozioni, idee ora illanguidite e velate ora divenute più chiare per il continuo interrogare; conservate, quindi, e di tanto in tanto riaffioranti nell'eterno peregrinare umano di corpo in corpo, di luogo in luogo. Con la dottrina dell'anamnesi è superato il paradosso, anche se non assicurato un procedimento lineare di ricerca, anzi è riaffermato che l'uomo sbagli alle prime prove, che è normale che si imbatta in ostacoli, si muova tra difficoltà note e imprevedibili. Socrate lo dimostra con la celebre prova cui sottopone un giovane schiavo di Menone. Dopo essersi accertato che conosce la lingua greca e non ha mai ricevuto un insegnamento di geometria, lo guida nel "provare" (problem solving) che l'area del quadrato, costruito sulla diagonale di un quadrato dato, è doppia dell'area della figura originale. Il metodo dialogico, sul modello tecnico-stilistico brachilogico, evidenzierà le capacità intuitive, argomentative e razionali del giovane. Ci basta riportare poche battute, a partire dal primo momento, momento di posizionamento del problema con l'invito alla soluzione e il primo errore del servo. Socrate «DIMMI RAGAZZO RICONOSCI IN QUESTO UNO SPAZIO QUADRATO?» Servo «Sì.»
Socrate «E SAI CHE UNO SPAZIO QUADRATO HA UGUALI TUTTE QUESTE LINEE CHE SONO IN NUMERO DI QUATTRO?» Servo «Senza dubbio.» Socrate «E CHE UGUALI SONO ANCHE QUESTE LINEE CHE LO INTERSECANO A MEZZO?» Servo «Sì.» Socrate «E NON PUÒ ESSERE SIMILE SPAZIO MAGGIORE o MINORE?» Servo «Certo.» Socrate «AMMESSO CHE UN LATO SIA DI DUE PIEDI E DI DUE ANCHE IL LATO ADIACENTE, QUANTI PIEDI SAREBBE L'INTERO? VEDI UN PO': SE UN LATO FOSSE DI DUE PIEDI E QUEST'ALTRO DI UNO SOLO, NON È VERO CHE LO SPAZIO SAREBBE DI UNA VOLTA DUE PIEDI?» Servo «Sì.» Socrate «MA SICCOME È DI DUE PIEDI ANCHE DA QUESTA PARTE, NON RISULTA DI DUE VOLTE DUE?» Servo «Risulta di due volte due.» Socrate «QUANTO FA DUE VOLTE DUE PIEDI? CALCOLA E DIMMI IL RISULTATO.» Servo «Quattro, Socrate.» Socrate «E POTREBBE ESSERVI UNO SPAZIO DOPPIO DI QUESTO, MA SIMILE A QUESTO AVENTE TUTTI E QUATTRO I LATI UGUALI?»
Servo «Sì.» Socrate «E DI QUANTI PIEDI SARÀ?» Servo «Otto.» Socrate «SU VIA, ALLORA, PROVA A DIRMI QUANTO SIA LUNGO CIASCUN LATO. SE IN QUESTO IL LATO È DI DUE PIEDI, QUANTO SARÀ IL LATO DI QUELLO DOPPIO?» Servo «Evidentemente il doppio, Socrate.» (Men. 82bcde). 8 2bcde).
Socrate si rivolge a Menone per commentare quanto ha detto lo schiavo e fa notare come la sua risposta è ispirata da affezioni sensoriali, dal credere ingenuamente all'apparenza. Nella seconda parte del dialogo, il servo riconosce, mediante prove geometriche, di geometria intuitiva, l'errore commesso e la propria ignoranza. Nel terzo momento, infine, abbiamo, dopo il riconoscimento di un secondo errore, la giusta soluzione. Socrate «E ORA DIMMI NON È QUESTO UNO SPAZIO DI QUATTRO PIEDI P IEDI [ABCD]? COMPRENDI?» Servo «Sì.» Socrate «POSSIAMO AGGIUNGERVENE UN ALTRO UGUALE [BINC]?» Servo «Sì.» Socrate «E ANCORA UN TERZO [CNLO] UGUALE A CIASCUNO DEGLI ALTRI DUE?» Servo «Sì.»
Socrate «E RIEMPIRE QUEST'ANGOLO CHE RESTA VUOTO [DCOM]?» Servo «Certo!» Socrate «NON AVREMO COSÌ QUATTRO SUPERFICI QUADRATE UGUALI?» Servo «Sì.» Socrate «EBBENE, QUANTE VOLTE PRESI TUTTI INSIEME [AILM] I QUATTRO QUADRATI SONO PIÙ GRANDI DI CIASCUNO DI ESSI?» Servo «Quattro volte.» Socrate «A NOI, PERÒ, SERVIVA UNA SUPERFICIE DOPPIA: RICORDI NO?» Servo «Certamente.» Socrate «E QUESTA LINEA CHE TRACCIAMO DA UN ANGOLO ALL'ALTRO DI CIASCUN QUADRATO NON LI TAGLIA IN DUE PARTI UGUALI?» Servo «Sì.» Socrate «E NON SONO FORSE QUESTE QUATTRO LINEE UGUALI CHE CIRCOSCRIVONO CIRCOSCRIVONO QUESTA SUPERFICIE?» Servo «Lo sono.» Socrate «GUARDA UN PÒ: QUAL È LA DIMENSIONE DI QUESTA SUPERFICIE?» Servo «Non capisco.»
Socrate «CIASCUNA DELLE QUATTRO LINEE NON TAGLIA IN DUE PARTI UGUALI CIASCUNO DEI QUATTRO QUADRATI? O NO?» Servo «Sì.» Socrate «E QUANTE DI QUESTE METÀ VI SONO ALL'INTERNO DI QUESTO QUADRATO [ABCD]?» Servo «Due» Socrate «E COSA È IL QUATTRO IN RAPPORTO AL DUE?» Servo «II doppio.» Socrate «QUANTI SONO DUNQUE I PIEDI DI QUESTO QUADRATO [BDON]?» Servo «Otto.» Socrate «E SU QUALE LINEA È COSTRUITO?» Servo «Su questa [DB]» Socrate «CIOÈ SU QUELLA CHE VA DALL'UNO ALL'ALTRO ANGOLO DEL QUADRATO DI QUATTRO PIEDI [ABCD]?» Servo «Sì.» Socrate «CODESTA LINEA I SOFISTI LA CHIAMANO DIAMETRO. E SE TALE È IL SUO NOME, DIREMO, O SERVITORELLO DI MENONE, CHE, COME TU SOSTIENI, È SULLA DIAGONALE CHE SI COSTRUISCE LA SUPERFICIE DOPPIA.» Servo «Esattamente, Socrate.» {Men. 84de, 85ab). 85 ab).
Questo il modo umano di pensare e comunicare, fare logica, libero spostamento nel molteplice, modo di essere diverso dall‘uniforme appiattimento meccanico, segmentato, prevedibile. * J. Weizembaum, decenni or sono, elaborò il Programma Elisa, ormai un classico, per mezzo del quale il computer conversa con l'uomo, nella fattispecie una giovane donna, fa domande e risponde con precisione, svolge un vero e proprio dialogo. Ne riportiamo un brano indicando in maiuscoletto, come fatto con Socrate, le battute di Elisa che interpreta il ruolo di terapeuta: <
> <> <> <> <> <<È IL SUO RAGAZZO CHE L'HA FATTA F ATTA VENIRE?>> <> <> <> <> <>
<> <> <> <> <> <> <> <> <> <> acco rga.>> <> AGGRESSIVO?>> <> <> <> <> <> <> <>
<>10 La simulazione, compiuta con discrezione e finezza, attutisce passaggi non rigorosamente logici o addirittura slegati; ma il programma, apprezzabile per essere stato uno dei primi tentativi di usare il linguaggio naturale con la macchina, non riesce a mascherare l'artifizio della situazione, l'accento di teatralità e finzione di Elisa. Lo stesso autore del programma dice: «Questo era un programma consistente, per lo più, in metodi generali per analizzare frasi e frammenti di frasi, identificando le cosiddette parole chiave in un testo, riunendo frammenti di frasi e così via. Esso non aveva, in altre parole, alcuno schema concettuale, o universo di discorso. Quest'ultimo gli era fornito da un 'copione'. Elisa era come un'attrice che conosca un insieme di tecniche di recitazione, ma che non abbia niente di suo da dire». 11 Le sequenze chiave «fatta venire, il fatto di venire, sua famiglia, pensare a suo padre», e altre, la ripetitività e la povertà lessicale, la uniformità linguistico-semantica di Elisa, che portano, tra l'altro, a escludere una personalizzazione del discorso, sono evidenti. Ad alcuni input Elisa non risponde, oppure lo fa in modo evasivo. Anche se il dialogo, come sembra, dovesse rappresentare la prima seduta analitica e partire da un grado zero di informazioni, il terapeuta umano certamente si comporta in modo più flessibile, "comunica", lo abbiamo visto con Socrate. Il terapeuta umano coglie molti dati indirettamente e contemporaneamente, si avvale di percezioni intersensoriali, di indizi che non sono alla portata del computer; usa codici diversi, si fa guidare da quella specifica capacità umana che è il buon senso, attivazione simultanea di percezioni, ragione, azione. I sostenitori dell'ipotesi forte dell'I. A. tendono ad avvicinare il computer all'uomo, l'informare al comunicare; considerano l'uomo piuttosto semplice e gli
uomini molto simili, affermano che tra esseri monocellulari e macchine non vi è grande differenza, appellandosi, per questo, alla scienza biologica che definisce la cellula in termini di informazioni. Gli oppositori possono replicare che «gli esseri umani, ammesso che siano macchine, sono macchine molto generali e, cosa più importante, capiscono comunicazioni inviate in linguaggio naturale (per esempio in italiano) che sono di gran lunga meno precise e più ambigue rispetto ai normali linguaggi di programmazione».12 Ancora, possono dire che sensori, display, sintesi vocale, riconoscimento della parola non bastano a superare le difficoltà derivanti dalla mancanza di tutti quegli elementi empirico-ontologici, psicologici, di destinazione concettuale, di designazione del destinatario, del complesso dei livelli esistenziali, sociologici che compongono il contesto del discorso umano e, tantomeno, far interagire in tutte le sue possibilità testo e contesto. È il fenomeno linguistico che si ripropone nella sua complessità, per la difficoltà del rimando da significante a significato, con i pronomi personali e/o dimostrativi che indicano conoscenza di un conosciuto, ma non qualificano né quella né questo, con i nomi propri che significano un solo individuo e i nomi comuni tanti, con nomi e verbi che significano aspetti, qualità, dimensioni, attività e passività, vero e falso, bello e brutto, parte e tutto, principio e fine. Anche una sofisticata identity theory è compromessa dalla semplificazione del mondo psichico che sconfina nel gratuito e nell'arbitrario. Deve ammettere che l'I. A. è in grosse difficoltà nell'uso degli elementi spazio e tempo, di per sé complessi e contraddittori, incapace sia di rendersi conto di quanto sta accadendo, sia di orientarsi verso l'obiettivo (è costruita su pacchetti di enunciati, elaborata per programmi lineari), giacché solo sottoponendosi a una forte restrizione, come sostiene P. F. Strawson, riesce a scarnificare il contesto ed essere precisa.
Prendendo in esame i più noti loop del linguaggio informatico abbiamo conferme. Il computer usa strutture deduttive (IF...THEN...ELSE), (IF...THEN...ELSE), strutture imperative (DO), strutture
condizionali(WHEN...DO),(DO...UNTIL),(IF...GOTO),
strutture
dichiarative (...INTEGER,...POINTER), (...INTEGER,...POINTER), strutture esecutive (ADD, GO TO); ma non è in grado di usare strutture dubitative o interrogative (WHY, WHAT ABOUT, NOW) in senso proprio. Il loop IF...THEN, che appare abbastanza raffinato in quanto pone l'ambiguità e la probabilità delle asserzioni, non ha comportato finora un vero salto qualitativo del linguaggio informatico. In effetti ciò che condiziona IF...THEN, che riproduce il connettivo linguistico modus ponens, è l'appartenenza, come altri schemi logici, alla dimensione atemporale, mentre nel linguaggio naturale si danno relazioni causali, finali, ma anche di altro tipo, tutte contestualizzate nel tempo. Il linguaggio di Elisa dimostra, al di là della comunanza apparente con quello naturale,
l'impossibilità
della
"traduzione"
tecnica
sia
per
difficoltà
computazionali che per ragioni teoriche; l'uomo può usare disinvoltamente il linguaggio naturale e artificiale, spostarsi a suo piacimento dall'uno all'altro; Elisa non può farlo. Il sogno booleano fu quello di stabilire le leggi del pensiero, ma queste, applicate alla computer science hanno mostrato la loro limitatezza, hanno confermato che la logica di Boole rappresenta una parte e forse piccola all'interno del complesso albero del pensiero; anzi detta logica, secondo G. Bateson, offre un modello esplicativo carente, rappresenta «solo un mondo logico» generato dalla logica universale, meglio ancora bio-logica universale. Platone si era posto il problema del linguaggio cercandone la soluzione e il fondamento da un dialogo all'altro, dal Cratilo al Sofista, dal Gorgia al Fedro alla Repubblica. Il fondamento-debole è l'uomo che riconosca, senza indulgere a noti motivi heideggeriani, di essere nel linguaggio, di essere destinato a vivere e a
"nuotare" in questo universo paradossale di immagini e di parole, finito e infinito nelle sue combinazioni. Mondo "che gli è dato, ma a suo modo può controllare, ordinare, piegare nel dare valore, sia pure contingente, al rapporto tra parole e cose, significante e significato in un libero uso/gioco di metafore, anacoluti, iperboli, metonimie, sineddochi. Platone dice che avrebbe preferito seguire il suo maestro Socrate, e non scrivere, perché il pensiero vive nel parlato, è più libero e autonomo quando può andare di bocca in bocca, usare il veicolo della voce umana; mentre nella scrittura trova notevoli vincoli e restrizioni. Se il linguaggio umano scritto è limitato di fronte a quello orale, il linguaggio del computer è ancora più limitato, è un linguaggio uniforme, "freddo", fatto con un sistema di segni il più elementare e semplice possibile, su misura per un'intelligenza povera. Nel dialogo tra uomo e uomo giocano molti elementi logici e contestuali alla comunicazione, anche nel dialogo tra uomo e computer hanno il loro peso. Quando si ha l'impressione che il computer abbia capacità intuitive e logiche superiori e perfino affettive queste sono un riflesso della situazione. Weizembaum dice dei colloqui di Elisa e dei suoi pazienti: «Persone che sapevano perfettamente di stare conversando con una macchina dimenticarono ben presto questo fatto, proprio come gli spettatori a teatro, presi da un attacco di credulità, presto dimenticano che l'azione cui stanno assistendo non è 'reale'. A questa illusione si aggrappavano in modo particolarmente forte e tenacissimo quelle persone che sapevano poco o niente di computer».13 Elisa, può sembrare una banalità, è vivente, assume fattezze e sentimenti umani perché è coinvolta in una situazione psico-affettiva influenzata dal valore di scambio, in cui "ella" dà, ma soprattutto riceve secondo un ben noto antropomorfismo, quello che ci fa dire che la macchina pensa e parla, che le attribuisce accanto al valore di scambio di carattere metrico, informazionale, il
valore d'uso, ossia di finalizzazione. Mettendo tra parentesi contrapposizioni sostanzialistiche del tipo biologico/fisico, qualora si entri in un orizzonte diverso, si scopre la vera essenza del computer, esito del raddoppiamento umano, ripetizione, supplemento e pertanto differenza, per dirla con J. Derrida, perpetrata all'interno del logos. 4.3. Il programma SHRDLU, realizzato da Terry A. Winograd quasi all'inizio degli anni settanta del secolo scorso ed elaborato con semplici oggetti tridimensionali, quali cubi e piramidi di diversa forma, misura e colore e scatole, appoggiati su un tavolo e facenti parte di un dominio estremamente semplificato chiamato "mondo dei blocchi" offre indubbiamente più convincenti performance. SHRDLU simula le azioni e le risposte di una persona, in un linguaggio naturale, e "agisce" conseguentemente. Riportiamo un brano di dialogo tra Eta Oin e SHRDLU dalla citata opera di Hofstaedter. Eta Oin «Prendi un blocco rosso grande.» (cfr. Fig. 1) SHRDLU «BENE.» Eta Oin «Afferra la piramide». SHRDLU «NON CAPISCO A QUALE PIRAMIDE TI RIFERISCI.» Eta Oin «Cerca un blocco più alto di quello che hai preso e mettilo nel scatola.» (cfr. Fig. 2) SHRDLU «CON ‗LO‘ PRESUMO CHE VUOI INDICARE IL BLOCCO PIÙ ALTO DI QUELLO CHE HO PRESO.» SHRDLU «BENE»
Eta Oin «Che cosa contiene la scatola?» sc atola?» SHRDLU «LA PIRAMIDE BLU E IL BLOCCO BLU.» Eta Oin «Da che cosa è sostenuta la piramide?» SHRDLU «DALLA SCATOLA.» Eta Oin «Quanti blocchi non sono nella scatola?» SHRDLU «QUATTRO.» Eta Oin «Almeno uno di essi è più stretto di quello che ti ho detto di prendere?» SHRDLU «SÌ, IL CUBO ROSSO.» Eta Oin «È sostenuto?» SHRDLU «SÌ, DALLA TAVOLA.» Eta Oin «La tavola può prendere blocchi?» SHRDLU «NO.» Eta Oin «Una piramide può essere sostenuta da un blocco?» SHRDLU «SÌ.» Eta Oin «Può una piramide sostenere una piramide?» SHRDLU «NON SO.» Eta Oin «Metti una piramide sull'altra.» SHRDLU «NON POSSO.»
Eta Oin «La piramide blu è mia.» SHRDLU «CAPISCO.» Eta Oin «Io posseggo tutti i blocchi che non sono rossi, ma non posseggo nessun oggetto che sostenga una piramide.» SHRDLU «CAPISCO.» Eta Oin «Posseggo una scatola?» SHRDLU «NO.» Eta Oin «Posseggo qualcosa che sta nella scatola?» SHRDLU «SÌ, DUE COSE IL BLOCCO BLU E LA PIRAMIDE BLU.»
Fig. 1 «Prendi un blocco rosso grande» (Da Terry Winograd, Understanding Natural Langucge, Academic Press, New York 1972, p. 8).
Fig. 2 «Cerca un blocco più alto di quello che hai preso nella scatola» (Adattamento da Terry Winograd, Understanding Natural Language, p. 9). Eta Oin «Per favore, vuoi mettere uno sull'altro i due blocchi rossi e un cubo verde, oppure una piramide?» (cfr. Fig. 3) SHRDLU «BENE.» Eta Oin «Quale cubo poggia sul tavolo?»
SHRDLU «QUELLO VERDE GRANDE CHE SOSTIENE LA PIRAMIDE ROSSA.» Eta Oin «C'è un blocco grande dietro una piramide?» SHRDLU «SÌ, CE NE SONO TRE: UNO ROSSO GRANDE, UN CUBO VERDE E QUELLO BLU.» Eta Oin «Mettine uno piccolo sul cubo verde che sostiene una piramide.» SHRDLU «BENE.» Eta Oin «Metti sopra di esso la piramide piccolissima.» SHRDLU «BENE.» Eta Oin «Quanti oggetti ci sono sopra i cubi verdi?» SHRDLU «NON SONO SICURO CHE COSA INTENDI CON 'SOPRA' NELL'ESPRESSIONE 'SOPRA I CUBI VERDI'. INTENDI DIRE: 1. DIRETTAMENTE
SULLA
SUPERFICIE
DEI
CUBI
VERDI.2.
IN
QUALUNQUE LUOGO SOPRA I CUBI VERDI?» Eta Oin «Hai toccato qualche piramide prima di mettere quella verde sul cubo piccolo?»
Fig. 3 «Per favore vuoi mettere uno sull'altro i due blocchi rossi e, o un cubo verde oppure una piramide» (Adattamento da Terry Winograd, Understanding Natural Language, p. 12).
SHRDLU «SÌ, QUELLA VERDE.»
Eta Oin «Quando l'hai presa?» SHRDLU «QUANDO STAVO SOVRAPPONENDO IL CUBO ROSSO, UN BLOCCO ROSSO GRANDE E UNO VERDE GRANDE.» Eta Oin «Perché?» SHRDLU «PER SBARAZZARMENE.» SBARAZZARMENE.» Eta Oin «Perché lo hai fatto?» SHRDLU «PER LIBERARE IL CUBO ROSSO.» R OSSO.» Eta Oin «Perché lo hai liberato?» SHRDLU «PER METTERLO SOPRA UN CUBO VERDE GRANDE.» Eta Oin «Perché lo hai fatto?» SHRDLU «PER SOVRAPPORRE IL CUBO ROSSO, UN BLOCCO ROSSO GRANDE UN CUBO VERDE GRANDE.» Eta Oin «Perché lo hai fatto?» SHRDLU «PERCHÉ MI HAI CHIESTO DI FARLO.» Eta Oin «Come lo hai fatto?» SHRDLU «METTENDO UN BLOCCO ROSSO GRANDE SULLA TAVOLA; POI LASCIANDOLO; POI METTENDO UN CUBO VERDE GRANDE SOPRA DI ESSO; POI LASCIANDO QUESTO CUBO; POI METTENDO IL CUBO ROSSO SU QUESTO CUBO; POI LASCIANDO QUESTO CUBO.» Eta Oin «Quanti oggetti hai toccato durante questa operazione?»
SHRDLU «QUATTRO.» Eta Oin «Che cosa sosteneva il cubo rosso prima che tu cominciassi a liberarlo?» SHRDLU «LA PIRAMIDE VERDE.» Eta Oin «In quel momento c'erano cinque blocchi alla a lla sinistra della scatola.» SHRDLU «NO, SOLTANTO QUATTRO; IL CUBO ROSSO, DUE CUBI VERDI GRANDI E UN BLOCCO ROSSO GRANDE.» Evidentemente SHRDLU "sa" che frasi che cominciano con "la, il" eccetera si riferiscono a un oggetto specifico, considera termini negativi come "no, non, niente, nessuno" isolatamente e in gruppi nominali come "nessuna scatola", ha capacità euristiche in quanto sa decidere quali informazioni interessano una persona che fa domande. Fa, inoltre, la distinzione tra sé e la tavola per quanto riguarda l'informazione "prendere", usa nomi e pronomi, può trattare tempi verbali composti e varie forme di verbi irregolari. Dal mondo dei blocchi, adottato come sorta di laboratorio per sperimentare strategie di apprendimento dell'I. A., dal programma Elisa appare, comunque, che la ricerca sull'I. A. è stata, negli anni settanta e successivi, condizionata, in gran parte, dal quadro ideologico e scientifico di quegli anni. a nni. Oggi sul piano teorico-fìlosofico tende a spostarsi dalle ultime contrastanti propaggini del neoempirismo a riferimenti prestrutturali di segno ermeneuticoontologico. Tra epistemologia e ontologia dell'informazione pare aprirsi una breccia per rimettere in discussione il lessico tradizionale e fermare l'attenzione su termini chiave quali input, output, hardware, software, mente, programmi.
La stessa definizione di intelligenza, quella derivata dal test di Turing, che ha guidato per più di venti anni i ricercatori di I. A. non pare del tutto soddisfacente, come sostiene T. Peggio: «A nostro giudizio, un nuovo test di Turing dovrebbe mettere l'accento sull'apprendimento, o forse su quella che è stata definita la 'crescita' o 'sviluppo' delle competenze percettive, motorie e linguistiche».14 Come noto un sistema artificiale, secondo il test di Turing, è definito intelligente quando partendo da un livello anche basso di rendimento, è in grado di apprendere per mezzo dell'esplorazione dell'ambiente, cioè è capace di imparare. Converrà, pertanto, ritornare a rivedere, ridiscutere, approfondire il concetto, per noi fondamentale, di informazione. Si definisce informazione il complesso di strutture, modelli, figure e configurazioni ma anche idee, ideali, idoli, immagini e ancora scambi, continuità, discontinuità, segni, significati e simboli, gesti, intonazioni, ritmi, presenze e assenze, parole, azione, silenzio, una varietà di impulsi metrici. E, di contro, si pensa che debba essere chiamata comunicazione una struttura organizzata di un sistema vivente che respira, si riproduce, si adatta all'ambiente. Nel senso proprio del termine, invece, il comunicare non implica necessariamente comprensione conscia, si riferisce solo alla trasmissione di messaggi per mezzo di una rete informativa che comprende un insieme di rapporti e informazioni di situazioni, di istruzioni contestuali, verbali, un insieme, insomma, che fornisce spiegazioni sulla materia, sul movimento, sui comportamenti. Il termine include, quindi, in senso ampio, condizioni biologiche, fisiche, ecologiche. Se l'immagine dell'universo classico composto di materia ed energia poteva essere tracciata e interpretata all'insegna di modelli fisico matematici e se l'immagine dell'universo organico e umano richiedeva ben altri paradigmi e altra interpretazione, giacché era elaborata come complessità strutturata, sistema che mette in relazione materia,
energia e anche informazione, l'immagine di sistema presente e futura rimanda a una società delle menti e della comunicazione in cui gli enti informatici interagiscono incessantemente tra di loro in uno spazio aperto, luogo di rapporti, relazioni e trasformazioni in balìa di una causalità non più sicura e lineare. Negli anni sessanta la biologia molecolare e la computer science, discipline apparentemente molto distanti, avevano conseguito lusinghieri risultati ispirandosi l'un l'altra e sostenendosi con apporti concettuali, alcuni dei quali confluiti poi nella cibernetica, scienza dell'organizzazione come la definì N. Wiener, scienza contemporaneamente della comunicazione tra le macchine e tra gli esseri viventi. La nozione di programma usata da entrambe diede luogo, tuttavia, a divergenze e dibattiti, come spesso è accaduto nella storia della scienza quando un lemma di origine fisica o meccanica sia stato adottato dalla scienza biologica. La dicitura programma-genetico suggerita da alcuni studiosi, feconda sul piano operativo, portava a notevoli difficoltà. Si diceva, mentre il programma di computer è realizzato consapevolmente da un programmatore, il programma genetico non ha programmatori espliciti; il programma genetico non è programmato dall'esterno perché si programma da sé, è epigenetico, un programma che scompare nell'insieme delle strutture e del funzionamento della cellula. Conosciamo perfettamente la sintassi del programma di un computer, non conosciamo la sintassi del codice genetico, la sintassi della lingua dei geni, la lingua degli enzimi, tra linguaggio informatico e linguaggio dei geni riscontriamo la stessa dicotomia tra sintassi e semantica.15 Oggi gli esperti della scienza dell'informazione affrontano il problema dell'autoorganizzazione, studiano algoritmi probabilistici, sono riusciti a elaborare processi
di auto-organizzazione che fanno del programma non più una struttura, bensì una funzione. Sotto l'effetto di perturbazioni, che disorganizzano e/o disarmonizzano, i nuovi sistemi sono in grado di reagire e operare l'autocreazione di senso, la creazione, cioè, di nuovi significati. Simili problematiche e i relativi programmi di ricerca nell'ambito del linguaggio informatico richiedono, comunque, approcci transdisciplinari, il superamento delle dicotomie concettuali o reali segnate in passato quali essere/divenire, riduzionismo/olismo, parte/tutto, albero/rete, testo/contesto, innato/acquisito e tra queste digitale/analogico con l'irriducibilità dell'uno all'altro. Che un procedimento digitale possa darci un'approssimazione o simulazione utile ed efficace di un continuo analogico possiamo capirlo con l'elementare esempio degli orologi digitali che presentano direttamente i valori numerici corrispondenti a ore e minuti durante l'intervallo di tempo di un minuto, e in questo caso i numeri sono fermi per scattare poi sul valore successivo, e ci sono orologi dotati di lancette che con il loro continuo moto di rotazione assumono posizioni angolari che rappresentano le ore in forma analogica. La diversità tra le due rappresentazioni, se si pone attenzione soprattutto agli aspetti funzionali, è meno rigida di quanto sembri, come altre precedentemente esaminate quali verbale/non verbale, orale/scritto, fisico/biologico. La diversità delle due rappresentazioni si stempera se pensiamo che sul piano della performance ciò che l'analogico guadagna in semantica lo perde in sintassi e viceversa. Si stempera, ancora, quando consideriamo l'insieme immediato di circostanze in cui avviene sia la comunicazione che l'informazione: il contesto.
Senza contesto ci troveremmo di fronte alla differenza pura, alla diversità di cui dice Foucault, all'impossibilità della significazione, di finalizzare un aggregato, di orientare e interpretare un'esperienza mondana reale o immaginaria. Indubbiamente in un sistema quantitativo il contesto è più povero, qui l'informazione procede in modo unidimensionale; in un sistema biologico abbiamo a che fare con contesti molto ricchi, contesti nei quali l'informazione è varia, generata da distinzioni qualitative. Ma possiamo affermare che in ogni tipo di relazione è operante la compresenza di aspetti analogici e digitali, i vantaggi dell'uno e dell'altro; nei sistemi biologici e nello stesso uomo, la cui capacità digitale è diversa dalla digitalità meccanica, perché si unisce a un'analogicità raffinata di tipo logico superiore, è questa compresenza. Così siamo in grado di instaurare all'interno e tra rappresentazioni o linguaggi una varia gerarchia come afferma K. H. Pribram: «I programmi di basso livello, scritti in codice macchina o in linguaggio assemblatore, possono essere eseguiti solo su un particolare tipo di elaboratore, e hanno in genere una logica molto simile a quella della macchina per cui cu i sono stati scritti. D'altra parte, i linguaggi di alto livello come il Fortram, l'Algol e il Pascal sono di applicazione universale, e vi è una somiglianza molto immediata fra la loro logica implicita e quella delle macchine. Al livello più alto vi sono i linguaggi come l'inglese o l'italiano, che vengono a volte usati, in certe applicazioni, per dare comandi alla macchina e le cui parole hanno sempre una forte connotazione sociale».16 Dall'hardware al software, al brainware, quindi, dai calcolatori a logica binaria a calcolatori "intelligenti" nei quali le cifre binarie (bit) danno origine a codici più complessi. «Sembra probabile che vi sia una qualche forma di integrazione gerarchica che mette in relazione i processi mentali con il cervello. I meccanismi sensori trasformano configurazioni di energia fisica in configurazioni di energia
neuronica. La retina e la coclea sono meccanismi di questo tipo, ma essendo analogici piuttosto che digitali, il processo di trasduzione è considerevolmente più complesso di quello che avviene nei calcolatori elettronici.»17 Oggi, mentre muta il lessico e si modifica il nostro modo di pensare, siamo autorizzati a dire che «gli elementi fondamentali dell'universo non sono né mentali né materiali, ma neutri. Il processo di smaterializzazione che, al di là di un certo livello di analisi, ha luogo nella fisica moderna, trova il suo corrispettivo nel 'monismo neutrale', in quanto i termini 'mente e cervello' rappresentano due classi di realizzazioni diverse, ognuna delle quali corrisponde a un modo diverso di considerare la gerarchia concettuale dei sistemi realizzati. I fenomeni mentali sono altrettanto reali degli oggetti materiali, ed entrambi sono concrezioni di strutture sottostanti che la scienza ha il compito di descrivere in un linguaggio per quanto possibile neutrale, non connotato rispetto all'appartenenza di tali strutture all'una o all'altra classe. È un realismo costruttivo i cui rapporti con il realismo critico, il pragmatismo e il razionalismo neo-kantiano sono stati chiariti altrove»;18 così continua Pribram con toni neoplatonici, offrendo un'affascinate ipotesi risolutiva dei dissidi sorretta da comprovati supporti della neurologia e della computer science. Un modello epistemologico-cibernetico di successo, preferiremmo chiamarlo metafora, è stato quello proposto da G. Bateson, il quale ha posto alla base del sistema il rapporto 0/1, atomo informazionale, minima unità differenziale atta a generare senso in un campo di interrelazioni. Questo atomo materiale e immateriale, simile a una monade leibniziana, fonda l'universo della comunicazione rispettando determinate leggi e opera secondo una teoria dell'apprendimento universale «tutte le risposte, tutti i comportamenti, tutto l'apprendimento e tutta la genetica, tutta la neurofisiologia e l'endocrinologia,
tutta l'organizzazione e tutta l'evoluzione insomma tutto un vasto campo, dev'essere considerato come avente natura di comunicazione ed è pertanto soggetto alle grandi generalizzazioni o leggi che valgono per i fenomeni di comunicazione».19 All'interno di questo ampio campo Bateson individua quattro livelli di apprendimento da attribuire gradatamente a tutti gli esseri, la natura nel suo complesso e anche le macchine intelligenti. Secondo Bateson l'uomo è in possesso di più linguaggi. «Se, dunque, il linguaggio verbale fosse in un qualche senso un sostituto evolutivo della comunicazione cinetica e paralinguistica, ci si dovrebbe aspettare che i vecchi sistemi prevalentemente iconici fossero notevolmente decaduti. Al contrario la cinetica dell'uomo è diventata più ricca e complessa, e il paralinguaggio è riccamente fiorito parallelamente all'evoluzione del linguaggio verbale.»20 La molteplicità e varietà dei linguaggi nell'uomo, quindi, pare escludere che un solo linguaggio possa prevalere «il sogno dei logici, cioè che gli uomini debbano comunicare tra loro soltanto per mezzo di segnali discreti non ambigui non si è avverato e probabilmente non si avvererà».21 Bateson è convinto che nell'era dell'I. A., comunque, il linguaggio informatico non prevarrà o escluderà gli altri, si affermerà, invece, l'interazione complessa e continua tra messaggio e ambiente che giustifica una concezione ecologica del sistema e di equilibrio tra i sistemi nel corso dell'evoluzione. Per chiarire in modo conclusivo il modello ecologico-cibernetico aggiunge: «I. Il sistema agirà su e con differenza. 2. Il sistema consisterà in anelli chiusi o reti di canali lungo i quali verranno trasmesse le differenze e le loro trasformate (ciò che viene trasmesso su un neurone non è un impulso ma la notizia di una differenza). 3. Molti degli eventi interni al sistema riceveranno energia dal componente che
risponde piuttosto che dall'effetto del componente innescante. 4. Il sistema si dimostrerà autocorrettivo nella direzione dell'omeostasi o nella direzione dell'instabilità. L'autocorrezione implica il procedimento per tentativi ed errori. Ora queste caratteristiche minime della mente sono generate ogni qualvolta e ovunque esista l'adeguata struttura circuitale di anelli causali. La mente è funzione necessaria inevitabile di un'adeguata complessità ovunque questa complessità si presenti».22 Trattando nello specifico della dicotomia uomo/calcolatore dice: «Consideriamo ora per un momento se un calcolatore pensi. Io direi di no. Ciò che pensa e procede per tentativi ed errori è l'uomo più il calcolatore più l'ambiente. Quello che pensa è il sistema totale».23 E‘ un sistema in cui il caso, il particolare non può essere astratto dal contesto e trasferito in zona neutra e universale, è invece refrattario a tutto ciò, condizionato da molteplici interazioni note ma anche ignote. Un "sistema-mente" che non può essere a misura del linguaggio umano; fondato su un vasto campo di processi interconnessi in cui l'uomo è coinvolto, può essere immaginato come una società delle menti, governata dalla dinamica interazione di varie entità. Può essere immaginato come una totalità non più di stampo metafisico, come un luogo in cui avvengono sfondamenti, si aprono fratture, dissidi, contrasti, un luogo, come osserva H. Atlan in cui «Si può produrre qualcosa di nuovo proprio perché non tutto è determinato a priori e che permette a questa novità di non essere un semplice caos e di poter acquisire eventualmente un significato a posteriori in un determinato contesto quindi senza fungere da testo da norma per il futuro».24 Anche la spiegazione della complessa e unitaria organizzazione del cervello che M. Minsky ha offerto proponendo l'efficace formula di società della mente è orientata in questa direzione. «Le buone teorie della mente devono abbracciare
almeno tre scale temporali diverse: una lenta per i miliardi di anni in cui il nostro cervello si è evoluto, una rapida per le settimane e gli anni fuggevoli della nostra infanzia e fanciullezza e una di media velocità per i secoli di sviluppo delle nostre idee nel corso della storia.»25 Per comprendere la natura della mente, quindi, bisogna attribuire decisiva importanza al fattore tempo e all'evoluzione, tener presente che la mente è costituita da atomi o cellule piccolissime che hanno come carattere fondamentale l'attività, sono "agenti" nel tempo. Par di capire che a breve o a lunga distanza in presenza di un'interazione tra la mente umana e la mente artificiale, di una comparazione mediante dispositivi di interfaccia tra l'identità/differenza dell'una e dell'altra possa costituirsi, forse già si è costituita, una "società delle menti". Una società in cui affiorano accidentalità, ostacoli, indifferenza ma anche amicizia, una società in cui l'uomo ha preso coscienza che qualunque macchina dall'uomo inventata non è banale, ancor più la macchina che pensa, impropriamente chiamata così perché ormai non è una macchina.
NOTE
1) J.
R. Searle, Menti, cervelli e programmi, a cura di G. Tonfoni, Clup
Clued, Milano 1984; titolo originale Minds, Brains and Programs in The Behavioral and Brain Science, Cambridge University Press, Cambridge 1980. 2) Ivi, p. 87. 3) Ivi, p. 168. 4)
W. Hofstaedter, Godel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid, Basic
Books, New York 1979; trad. it. Godel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984, pp. 658 e segg. 5) Ivi, p. 619. 6) S.
Moravia, L'enigma della mente, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 135. 135 .
7) Ibidem. 8) Ivi, p. 136. 9) Ivi, p. 162. 10)
J. Weizembaum, II potere del computer e la ragione umana,
introduzione di F. La Cecla, edizioni Gruppo Abele, Torino 1987; titolo originale Computer Power and Human Reason, Freeman, S. Francisco 1976, pp. 23-24. 11) Ivi, p. 176. 12) Ivi, p. 172.
13) Ivi, p. 176. 14) L'automa
spirituale. Menti cervelli e computer a cura di G. Giorello e P.
Strata, Laterza Roma-Bari 1991, p. 170. 15) AA.VV.
La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti,
Feltrinelli, Milano 1983, l'articolo di H. Atlan ―Complessità, ―Compless ità, disordine e autocreazione di significato‖. 16) AA.VV.
Mente umana, mente artificiale, a cura di R. Viale, Feltrinelli,
Milano 1989 pp. 167-168. 17) Ivi, p. 169. 18) Ivi, pp. 174-175. 19) G. Bateson, Steps to an
Ecology of Mind, Chandler, New Yoik 1972; trad.
it. Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, p. 307. 20) Ivi, p. 422. 21) Ibidem. 22) Ivi, p. 502. 23) Ibidem. 24)
H. Atlan, Complessità, disordine e autocreazione di significato, in
AA.VV. La sfida della complessità, cit., pp. 167-168. 25) M.
Minsky, The Society of Mind, Simon & Schuster, New York 1986;
trad. it. La società della mente, Adelphi, Milano 1989, p. 24. 24 .
VERSO UNA SOCIETÀ DELLE MENTI
Non gli manca che esporre questi bei pensieri in forma sistematica, ma uno scrupolo lo trattiene; e se ne venisse fuori un modello? Così preferisce tenere le sue convinzioni allo stato fluido verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano nel fare e nel non fare, nello scegliere o escludere, nel parlare o nel tacere. I. Calvino, Palomar
Per Heidegger la tecnica, se intesa in senso originario ed essenziale, attestazione della infinitesima fede epistemologica dell'uomo nelle possibilità di razionalizzare tutti i saperi e tutti i poteri, nella possibilità di eseguire sofisticate manipolazioni e di cambiare il mondo, chiude il corso della metafisica. In Sein und Zeit il filosofo tedesco aveva cercato di pensare il senso dell'essere fuori dell'orizzonte della presenza, oltre l'oggettività, oltre il rapporto soggetto-oggetto, ma non gli era riuscito. Per mancanza di linguaggio era rimasto contraddetto e confuso in mezzo al guado del linguaggio metafisico. Aveva preso atto che fin quando la tecnica non fosse giunta alla sua fase estrema non restava che assumere un atteggiamento di attesa, adottare una specie di torsione del pensiero (Verwindung) e un nuovo linguaggio. Il Dasein di Heidegger, quindi, nel momento crepuscolare e negativo della sua storia, non può che attribuirsi una funzione debole, un modus vivendi
umile, ma pur sempre dignitoso, la sperimentazione di un pensiero rammemorante dell'essere, un pensiero che non produce effetti o risultati umani (umanistici), che prende coscienza di essere sul limitare dell'apertura. L'uomo del nostro tempo può pensare la tecnica nella sua essenza, nel suo valore originario, in modo libero, non facendosi condizionare e coinvolgere dalla strumentazione, dalle venalità degli oggetti, dall'usura. Mentre la civiltà continua a produrre pensiero rappresentativo e metafisico e fa della tecnica uno strumento onnipotente, il filosofo può riscoprire associando fusis e poiesis, armonizzando natura e tecnologia, tecnologia e ambiente, la smarrita connessione unitaria di mezzo e fine. Del resto se si potesse dare in modo definitivo la separazione tra fusis e techné non avremmo forse la negazione della natura, la sua distruzione, la fine della vita? Oppure non ci riporterebbe l'assenza della tecnica alla notte dei tempi, all'assenza della vita? L'atteggiamento del filosofo o come dice Heidegger del poeta, né pessimista ne ottimista, vuol essere, quindi, di fiducia nell'Essere, vuole ispirarsi a un sentire pre-metafisico, cercare residenza in un'oasi, una radura neutra. Egli farà uso dei prodotti della tecnica, delle cose, senza dipendere da essi. Detta scelta, a causa del residuo antropologico accumulato da Platone in poi, sarà ancor più difficile nel momento in cui il dominio ontico delle scienze e della tecnica è al suo culmine, ma avrà qualche probabilità di riuscita perché la razionalità metafisica, la filosofia classica e neoclassica sembrano al tramonto, sembrano avviare al dopo-filosofia. In alcuni scritti degli ultimi anni Heidegger è parso convinto che la cibernetica possa costituire l'unica disciplina in grado di unificare tecnicamente i vari saperi
in virtù dei suoi strumenti teorici come l'informazione, il feedback, un lessico che espunge i tradizionali concetti di causa, effetto, sostanza. Si tratta di un esito problematico e ambiguo perché porta alla luce qualcosa di impensato: da un lato la negazione dell'antropologia, la fine della filosofia, dall'altro una transizione, cioè, dallo schiacciante potere della tecnica a una nuova civiltà. Heidegger analizza con procedere ermeneutico il termine cibernetica, «la matrice greca del vocabolo e privilegia questo aspetto, piuttosto che – ad esempio - la nozione centrale di feedback, quale filo conduttore per comprendere e spiegare le caratteristiche di una tale 'disciplina non disciplina'»1 ed è convinto che la cibernetica potrà raccordare e mettere insieme diversi campi di ricerca, funzione che nel passato è stata della filosofia. «La filosofia nel suo dissolversi viene rimpiazzata da un nuovo tipo di unificazione fra queste scienze nuove e tutte già esistenti. La loro unità s'annuncia nel fatto che le differenti sfere tematiche delle scienze sono indotte (herausgefordert) a presentare quest'accadimento come l'avvento di un processo di controllo co ntrollo e d'informazione»2 Ma la cibernetica, per Heidegger, ancor più, come ogni sapere, non è una scienza fondata, costruita su fondamenti, è, invece, una disciplina rigorosamente tecnica che può rimpiazzare la filosofia perché «il concetto guida della cibernetica, il concetto di informazione, è per giunta sufficientemente vasto da poter assoggettare alle pretese della cibernetica anche le scienze storiche dello spirito».3 Ma se queste e altre tesi heideggeriane presuppongono o preludono una seconda futuribile svolta epocale, è il filo delle argomentazioni che non appare convincente.
Adorno aveva detto che il linguaggio, la stessa parola essere, in Heidegger, era autoritaria e illusoria in quanto racchiude l'aspirazione a "spiegare" o "comprendere" una realtà che cambia, che il nesso passato/presente/futuro, nell'analisi heideggeriana, è governato-destinato da una realtà originaria investita di poteri vincolanti, per quanto mascherati, secondo un modello emanatista. Postulando la influente autorevolezza della tradizione e operando una decostruzione della metafisica, Heidegger rende lecita la mediazione assoluta tra storia e verità, il superamento su base storicistica delle problematiche empiriche; ma chiude all'innovazione. Non riesce, come ha sostenuto P. Ricoeur, a risolvere l'alternativa tra tempo vissuto e tempo cosmico, alternativa condannata a valorizzare l'uno a danno dell'altro. Si può aggiungere che se è avvenuta una svolta metafisica, come dice Heidegger, essa è simile a una mutazione; da essa non si esce per tornare indietro, può semmai esservi un'altra svolta, non un nuovo nu ovo mito della caverna; può esservi la fine senza ritorno. Heidegger sembra riportare a un viaggio circolare che rimette in gioco la metafìsica, sembra portare a un ricorso, mentre il linguaggio della metafisica, a suo stesso parere, non dice più nulla, deve mutarsi nei linguaggi, in una molteplicità di grammatiche, di logiche, di tecniche; deve situarsi in uno spazio puntiforme, parlare e tacere, dire i dissidi, gli scontri e gli incontri delle parole e delle frasi. In un'epoca postmetafisica come la nostra, alla decisiva domanda sulla natura e sulla funzione del linguaggio, la risposta ultima di Heidegger, citando R. Rorty, è la seguente «Heidegger risponde che dovrebbero esserci alcune [parole elementari] dotate di una [forza] indipendente dall'uso che ne fa [l'intelletto comune]. A quest'ultimo arriva la teoria del linguaggio come gioco linguistico mentre l'idea di [casa dell'Essere] dovrebbe permetterci di cogliere la forza. Se le
parole non avessero una forza, la filosofia in quanto tentativo di preservarla sarebbe inutile».4 Heidegger vorrebbe, pertanto, comprendere i vocabolari decisivi, vocabolari che dicono chi siamo, perché ci hanno fatti. Questa ricerca del pensiero rammemorante (andenken denken) evidentemente si fonda sulla fede ontologica che possa esserci un simile linguaggio originario, mentre per chi ha altro senso del tempo e del divenire è più prudente credere che il linguaggio è un continuum senza inizio, forse senza fine, di parole che nascono e muoiono, di rimandi tra significante e significato, ambigui e vaghi che si perdono nel tempo. Tornando alla questione della tecnica che in Heidegger si avviluppa con quella del linguaggio, come si è visto ampiamente, non sembra adeguatamente sostenuta la connessione/sconnessione, la continuità/differenza di techné e logos, di linguaggio artificiale e linguaggio naturale. Priva di delucidazioni tecnologiche, con Heidegger la tecnica è diventa una categoria. Lo si evince dal significato attribuito alla voce techné, che nella sua essenzialità non ammette variazioni, né fratture, né salti. Ma Il produrre della techné di Heidegger, il suo far avvenire alla presenza, non è quanto si verifica con la tecnologia del nostro tempo. Il filosofo tedesco aveva fatto una distinzione tra techné antica e tecnologia moderna. «La differenza risiede nel fatto che la τέχνη degli antichi si disponeva al dispiegamento della forza della natura, mentre la tecnica moderna accumula la forza della natura per disporne in base ai suoi piani.» 5 Aveva detto che l'autentico valore della techné si comprende superando il Gegenstand, pensando il Bestand. «Questo fondo disponibile è l'essere che la metafisica occidentale ha pensato come fondamento dell'ente, che la scienza ha obliato nell'oggettivismo dell'ente, e che la tecnica può recuperare come fondo (Bestand), in cui già siamo per l'originaria coappartenenza all'essere.»6 Aveva ritenuto possibile l'abbandono del pensiero
rappresentativo con un salto: «Dal salto nasce il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal 'ritrovarsi' nel 'già' in cui si era; il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del 'ritorno' nel luogo in cui 'da sempre' si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero».7 Salto che comporta la ferma convinzione che «il pensare tecnologico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso del pensare pensoso che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all'impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose».8 Salto che di fatto non realizzava perché, alla luce della sua definizione e immagine della tecnica, poneva la tecnica fuori del tempo della tecnica; aggirava l'analitica del come senza cui non può avviarsi l'analitica del che cosa; restava con la Verwindung nella sfera metafisica. Attenti alle variazioni delle tecniche, ai diversi momenti e contesti della storia, storici e filosofi si sono occupati della tecnica classica, moderna e contemporanea, con approccio "internista". A giudizio di J. Vernant, per citare un esempio, la tecnica e la scienza greche non sono figlie della filosofia; la techné dell'artigiano greco si nutriva di una tradizione non di carattere scientifico o filosofico, era spesso soggetta al caso, alla fortuità, scaturiva dalla concomitanza di fattori favorevoli e non di rado occasionali. O. Neugebauer, rivalutando, a sua volta, le procedure tecniche dei greci, elaborate soprattutto empiricamente, ha aggiunto, riferendosi all'età alessandrina, metafisica per Heidegger, «se gli studiosi moderni avessero dedicato a Galeno e Tolomeo altrettanta attenzione che a Platone e ai suoi seguaci sarebbero giunti a risultati alquanto diversi e non avrebbero inventato il mito della spiccata attitudine del cosiddetto spirito greco a sviluppare teorie scientifiche senza far ricorso a esperimenti o a verifiche empiriche».9 Per un'epoca come la nostra, il concetto di tecnica heideggeriano risulta risulta inadeguato e generico.
* II noto ricercatore di I. A. R. Shank, muovendo da un versante epistemologico, ha affermato che oggi i nuovi filosofi sono i ricercatori di I. A.; sono questi gli eredi di Platone, visto che da Platone è stato fondato l'umanesimo della scienza e della tecnica moderna e contemporanea. E senza dubbio per l'I. A. si possono riscoprire origini antiche a partire dal razionalismo platonico, dalla grammatica e sintassi platoniche, dall'episteme platonica che avrebbe generato la costruzione logica e tecnica del mondo. Ma, d'altro canto, non è legittimo nascondere o colmare un fossato, il fatto cioè che tra il concetto di techné platonico e la tecnologia del computer vi è come una falda, un'enorme differenza, il fatto che l'I. A., quale prodotto delle tecniche, è quantomeno una tecnica particolare che fonde varie tecniche insieme, vari saperi, logica ed elettronica, software e hardware come esemplarmente ha mostrato W. Hofstaedter nel suo classico Godel, Escher, Bach, già citato. È sintomatico che due ricercatori di computer science, quasi contrapponendosi a R. Shank, T. Winograd e F. Flores, abbiano cercato, nello studio dei calcolatori, di seguire una pista di orientamento ermeneutico. Dopo aver deplorato lo sfondo scientifico e filosofico in cui sono cominciate le ricerche di I. A., decenni or sono, hanno sostenuto che «I calcolatori non soltanto sono progettati all'interno del linguaggio, ma sono essi stessi attrezzature per il linguaggio. Non solo essi riflettono la nostra comprensione del linguaggio, ma allo stesso tempo creano nuove possibilità per il nostro parlare e ascoltare per creare noi stessi nel linguaggio».10 Gli stessi ricercatori, dichiarando di ispirarsi all'ermeneutica heideggeriana, hanno sottolineato la crescita vertiginosa e la validità del dizionario tecnico avutasi, nella pur breve storia dell'informatica, con il frequente scambio lessicale fra dizionari diversi. «Lo sviluppo della tecnologia ha attribuito
nuove accezioni a termini quali 'informazione', 'input', 'output', 'linguaggio' e 'comunicazione' mentre il lavoro in aree quali l'intelligenza artificiale sta modificando il significato delle parole quali 'intelligenza' 'decisione' e 'sapere'»,
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visto, e su questo non ci sono dubbi, che il calcolatore è un dispositivo che crea, manipola e trasmette oggetti simbolici (dunque linguistici), crea un nuovo dizionario che può assurgere all'essenzialità e rendere sbiadito, obsoleto quello precedente. Hanno aggiunto che il dizionario tecnico ha acquistato ormai valore di tradizione, rappresenta un "modo di essere", la storicità delle nostre modalità di pensiero, la storicità della stessa I. A. che consente alle nuove generazioni di I.A. di "nascere" con un background, una originaria pre-struttura, la tradizione informatica appunto. L'approccio di Winograd e Flores, detto ermeneutico, tende proprio a questo, a considerare e valorizzare l'influenza della preconoscenza nell'interpretazione della situazione problematica di problem solving in una essential tension tra tra tradizione e innovazione. innovazione. * L'intera storia delle tecniche ci dice che queste spesso sono state dipendenti l'una dall'altra e coerenti tra di loro, sotto diversi aspetti, nel processo di affinamento, e L. Mumford ha parlato di effetto di trascinamento dovuto a tecniche dominanti. Ma la storia dice, anche, che i sistemi tecnici hanno avuto e hanno limiti nello spazio e nel tempo, i cosiddetti limiti strutturali che determinano la loro decadenza, anche rapida, e la fine. Si può congetturare che lo stesso valga per l'I. A. Se assimilata ipoteticamente alle tecniche fa emergere la sua non omogeneità con quelle che l'hanno preceduta, e tuttavia è soggetta ai limiti di ogni tecnica, a una sua eventuale saturazione, esito su cui pochi pochi hanno fermato fermato l'attenzione. Accanto all'ipotesi della sua fine si pone o si propone quella più attuale e alternativa di una sua centralità nella civiltà del nostro tempo in cui possa
assumere il posto dell'uomo, spodestarlo, spingerlo in periferia, come hanno pensato e detto filosofi, intellettuali e scrittori. In questo caso l'uomo postmetafisico, postindustriale si troverebbe di fronte ad essa in una posizione scomoda, anfibia, costretto a instaurare un rapporto obliquo, scettico verso il mondo e verso se stesso, come ha suggerito G. Vattimo, da Verwindung in atto, un rapporto che si istituisce avendo compiuto la critica della metafisica, la messa in mora dell'antropologia, il superamento della metafisica della tecnica. È un intellettuale che ai margini tra critica ermeneutica ed ermeneutica della critica vive una sorta di transizione dall'epistemologia all'ermeneutica complementare, d'altro canto, al passaggio dall'ermeneutica all'epistemologia, inseguendo un sentiero, ancora vago e incerto, tra la precedente complementarità tra spiegazione e comprensione, tra razionalità delle scienze naturali e razionalità della vita e delle forme di vita. A questo riguardo il M. Ferraris ha scritto: «il porsi dell'ermeneutica come koinè della filosofia continentale ha reso evidente la necessità di un dialogo con le filosofie a orientamento analitico-epistemologico diffuse nel mondo anglosassone»; detto dialogo è facilitato da due circostanze: «il fatto che anche le filosofie analitiche siano caratterizzate da una svolta linguistica che presenta affinità oggettive con l'ermeneutica; e il fatto che in generale il crollo del dogma dell'empirismo ha prodotto, specialmente nel campo di una teoria analitica della storia e dell'azione, una transizione dall'epistemologia all'ermeneutica».12 Per rendere scorrevole questo dialogo devono cadere definitivamente «la pretesa di universalità dell'ermeneutica» e «le pretese di universalità dell'epistemologia», con una ricerca di conciliazione di vocabolari tra ontologia ed epistemologia. La diversa estensione di campi, inoltre, porterà a «revisione di metodi e aggiornamento di vocabolari» porterà più facilmente a «pensare una complementarità fra spiegazione epistemologica e comprensione ermeneutica».
È l'ottica al cui interno preferiamo situare il rapporto tra il filosofo e il computer, perché «L'uomo dello scentramento, dello sfondamento resta tuttavia presso la tecnica, al di fuori della quale ogni via d'accesso al mondo gli è negata, ma proprio per questo non è più soltanto un uomo tecnico pur non essendo — e come potrebbe? — antitecnico, antimetafìsico».13 È un uomo, ancora albeggiante, «il tecnologo-non-tecnocrate-liberato cioè non dalla tecnica, ma dalla tecnica in quanto dominio e volontà di potenza». 14 Un uomo mente che "si muove liberamente nel gioco infinito degli orizzonti e dei rimandi aperti" che trova alloggiamento in una totalità aperta, simile a quella ipotizzata dalle attuali teorie organicistiche e sistemistiche, totalità debole o totalità mescolanza, insieme di menti, che ha trovato ermeneuticamente il caso di confine tra uomo e I. A., l'interfaccia uomo/computer. J. R. Searle è tornato sulla tematica cervello/mente artificiale confermando argomenti già prodotti e sostenendo, per chiudere il dibattito, che l'identità cervello-computer è un errore fìlosofico. Per rafforzare il suo assunto ha ricordato: «A « A tutt'oggi non siamo ancora in grado di spiegare il funzionamento del cervello e questo limite è per noi fonte di grave imbarazzo scientifico. Sappiamo molto sulla microanatomia del cervello, con i suoi neuroni, sinapsi, recettori e neurotrasmettitori. Eppure i quesiti fondamentali, relativi, per esempio, al rapporto fra cervello e coscienza, alle modalità di memorizzazione e al ruolo del sonno, restano ancora senza risposta [...] La nostra incapacità di comprendere appieno il funzionamento di un organo fondamentale quale il cervello ci spinge a ricorrere a spiegazioni di tipo analogico».15 Poi ha sviluppato prove per confutare l'identità cervello calcolatore. Ma, a ben vedere, l'identity theory non ha sostenitori forti come non può avere sostenitori forti la negazione della identity theory, cerchia in cui pare si muova il Searle. Searle, di fatto, spinge troppo e soltanto nel differenziare e non considera possibilità gradualistiche, cui molti hanno fatto riferimento.
Nel confronto Socrate/Elisa sono stati posti di fronte l'uomo e il calcolatore in contesti dialogici che, ha detto D. C. Dennet, danno vita a un'interazione in cui l'uomo assume un "atteggiamento intenzionale" nel senso che attribuisce alla macchina credenze e desideri. Certo l'I. A. può non avere intenzionalità o stati mentali, ma "la complessità del sistema" dal dialogo realizzata rende legittima l'affermazione che tra l'uomo e la macchina si svolge un reciproco scambio intenzionale. In passato l'uomo ha cercato di appagare la sua curiosità intellettuale mediante schemi analogici, non epistemologicamente fondati, offerti alla scienza con la creazione di modelli, figure, metafore, passando disinvoltamente dalla banda della spiegazione a quella della comprensione. Modelli pratici, contingenti, deboli, metafisici e non, scientifici, dimostrati e non, dettati da princìpi, credenze, buon senso, che tuttavia hanno avuto fortuna nell'immaginario scientifico, che non provano nulla ma fanno apprendere in modo approssimativo e/o indiretto ciò che pur non essendo sicuro in modo categorico è sempre pensabile e dunque possibile. Se nel passato come nel presente il mondo delle idee o della scienza sono stati avvicinati alle tecniche, all'ultima scoperta tecnologica, o se i "modelli computazionali" sono o risulteranno efficaci per lo studio della mente e del cervello, l'umanità ne trarrà beneficio. Se procedimenti euristici, inventati dall'uomo e che l'I. A. può elaborare da sé, vengono assimilati in un'ottica ermeneutica, quando la barriera tra naturale e artificiale è in via di radicale trasformazione, non si tratta propriamente di un errore. Rispondiamo a Searle, riprendendo le note fatte in precedenza; to be like is not to be identical. Se per un'epistemologia forte Socrate non è Elisa, il loro dialogare, infrazione dell'episteme per la conversione dei codici o per i salti di complessità, tuttavia ha
senso perché essi sono contigui, perché il primo è la mente, la seconda la mente della mente, pur non essendo propriamente seconda. L'uomo tecno-logo del dialogo, agente nella società delle menti, può e deve sentirsi un "transformer", capace di trasformarsi ed essere trasformato, di parlare con l'I. A., essere colui che all'ipotesi del dissidio e della dissociazione affianca quella del congiungimento, di una particolare pratica, di partecipazione.
NOTE 1) M.
Heidegger, Filosofia e cibernetica, a cura di A. Fabris, ETS,
Pisa 1989, p. 10; titolo originale Im Frage nach der Bestimmung àer Sache des Denkens, Erker Verlag, St. Gallen 1984. 2) ivi, p. 32. 3) ivi, p. 34. 4) R.
Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e
solidarietà, introduzione di A. G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 140; titolo originale Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge 1989. 5)
U. Galimberti, Heidegger e la tecnica, in "Paradigmi", 20,
maggio-giugno 1989, p. 277. 6) Ivi, p. 283. 7 ) Ivi. 8) Ivi, pp. 286-287. 9)
O. Neugebauer, Le scienze esatte nell'antichità, Feltrinelli,
Milano 1974, pp. 183-184; titolo originale The Exact Sciences in Antiquity, Brown University Press, Providence (Rhode Island) 1957. 10) T.
Winograd, F. Flores, Calcolatori e conoscenza, Mondadori,
Milano 1987, p. 106; titolo originale Understanding Computer and Cognition, Ablex, Norwood (N.J.) 1986. 11) ivi, pp. 30-31.
12) M.
Ferraris, Ermeneutica e epistemologia, in "AUT AUT", 217-
218, gennaio-aprile 1987, pp. 244-245. 13) M.
Ravera, Computer e Bestand. Alla ricerca di un dialogo tra
ermeneutica e cibernetica, in "AUT AUT", 220-221, p. 109. 14) ibidem. 15 J.
R. Searle, L'analogia cervello/computer: un errore filosofico,
in L'automa spirituale, cit., p. 200.
Postfazione
What is a technical object? At the beginning of Western philosophy, Aristotle contrasted beings formed by nature, which had within themselves a beginning of movement and rest, and man-made objects, which did not have the source of their own production within themselves.
―La riproducibilità della macchina differisce da quella degli esseri viventi, in quanto non è basata su codici non perfettamente circoscritti in un genoma―. (Guattari) ―E se già non fossimo più umani?‖ (Bernard Stiegler, La technique et le tems.1. La faute d’Epiméthèe Galilee 1994, in English, Technics and Time . 1 The Fault of Epimetheus ,1998)
La conclusione del saggio prefigurava l'ipotesi della convivenza, una società delle menti o metamorfosi delle menti, che comporta una società in cui l'uomo, novello Hermes, l'uomo tecno-logo del dialogo e dei dialoghi accetta e vive un
contesto di partecipazione o compartecipazione, si rende conto che con la macchina, con il computer si instaura una relazione informativa ma anche comunicativa, si realizza una nuova oralità, un nuovo tipo di dialogo o conversazione. Pensato e scritto prima del libro di Bernard Stiegler, La technique et le tems.1. La faute d’Epiméthèe, il saggio affrontava la questione della tecnica,
come suggerito da Derrida, come caso particolare della scrittura. In questi ultimi anni il dibattito sulle tecniche si è ulteriormente allargato spaziando per diversi domini, diverse direzioni, sub-temi e sub-discipline, altre diramazioni che richiedono un‘adeguata specializzazione. Partendo dalla heideggeriana Lettera sull’umanesimo, si parla di convivenza tra uomo e computer, di post-uman condition con Lyotard, si parla soprattutto di aggirare il lessico antropomorfico, e secondo un trend abbastanza significativo si approfondisce la storicità e l‘evoluzione delle tecniche tecniche con Bernard Stiegler, il quale si volge indietro e discute del de-fault delle origini e della super macchina originaria del mondo in cui sono mescolate sia s ia la materia organica sia quella inorganica. inorganica . Gilbert Simondon critica la cibernetica per aver accettato una classificazione degli oggetti tecnici secondo i tradizionali criteri di gene e specie. Suggerisce, invece, di pensare la logica dello sviluppo tecnologico separatamente da funzioni umane e cultura umana, visto che non può essere assunta dagli oggetti stessi, né essere oggetto di calcolo, e pertanto va pensata come problema da parte di un vivente verso un vivente. Al di là dei criteri di reciproca schiavitù e libertà, la relazione tra uomo e macchina diventa una relazione tra organi diversi, e gli umani devono muoversi oltre ogni forma di tecno- philia o tecno- fobia. Sul piano ontologico insomma l‘uomo e la macchina sono eguali. La ricerca di Simondon, tuttavia, è indirizzata particolarmente allo studio della relazione tra uomini e tecnologia con l‘accento sulla responsabilità. La responsabilità di cui parla Simondon non è
quella del produttore in quanto produce, bensì di un terzo X testimone di una difficoltà che solo lui può risolvere perché solo lui può pensarla. Le macchine non possono né pensare né vivere da sé una mutua relazione, possono soltanto agire l‘una l‘una verso l‘altra, secondo schemi causali. La individual macchine rappresenta l‘umano, l‘umano rappresenta l‘insieme delle macchine, macchine, non vi è ancora alcuna macchina di tutte le macchine. Insomma, l‘evoluzione tecnologica non ha raggiunto un grado sufficiente di autonomia per andare avanti da sola. Ancora oggi le macchine hanno bisogno dell‘uomo, dell‘uomo, il linguaggio delle macchine non ha autonomia. L‘errore di Heidegger è stato di ignorare i processi di individuazione che sono responsabili per produrre esseri pienamente formati. La filosofia è certamente ed essenzialmente ontologica e non ontica, si occupa sicuramente dell‘essere e non degli esseri, ma deve anche analizzare i processi concreti e fisici che sono responsabili per l‘individuazione l‘individuazione degli esseri a diversi livelli dal fisico al biologico, dall‘animale dall‘animale all‘umano e al collettivo. L‘individuazione non è altro che mettere in relazione due o più livelli della realtà. Nel suo intento di uscire dalla sostanza della metafisica, Simondon porta l‘interessante l‘interessante esempio del mattone di
argilla fatto dallo stampo. Si è sempre pensato all‘imposizione di una pura forma su una pura materia. Ma tale concezione considera solo il punto finale del processo e ignora il processo dell' individuazione. Lo stampo non è pura forma, è esso stesso materia; ciò che avviene nel processo è che i due materiali messi insieme realizzano un sistema energetico che produce il mattone di argilla. Detto altrimente, l‘individuale, l‘entità singola, nasce da qualcosa di pre-individuale. pre-individuale. La relazione uomo-macchina per Simondon si spiega su un piano di immanenza (Deleuze) in cui vige disparità nella parità in un contesto ontologico che si giustifica storicamente. Gli storici del robot potrebbero protestare dicendo che la
terminologia che Simondon usa è ancora a ncora umana e impropria. Il loro slogan s logan è: Non abbiamo bisogno né di memoria, né di cervello, né di DNA. Al centro del suo libro, Bernard Stiegler pone le radici tecnologiche del mondo in relazione al tempo. Per un verso condivide le preoccupazioni di Husserl e Heidegger su come la tecnologia trasforma il mondo, per l‘altro accetta la presenza della tecnologia, le strutture di protezione e mantenimento costitutive del tempo attraverso il coinvolgimento e l‘influenza di di oggetti tecnici e di protesi tecniche. È possibile parlare di evoluzione delle tecniche mettendo insieme oggetti meccanici e biologia in un unicum eterogeneo di forze? forze? A quali condizioni? condizioni? Nel suo libro La technique et le tems.1. La faute d’Epiméthèe Stiegler crede che la domanda sia urgente e vada ulteriormente approfondita. Qualunque oggetto artefatto va considerato in un insieme di oggetti che si sono sviluppati nel tempo secondo un percorso linguistico, mitologico, sociale, tecnico, secondo processi culturali e naturali, fisici e biologici. Del resto, oggi, è acquisito un largo consenso su teorie neo-evoluzionistiche al fine di spiegare le dinamiche tecnologiche, un consenso fondato su una sorta di darwinismo nell‘evoluzione delle tecniche. Si tratta di accogliere la tesi secondo cui alle origini dell‘evoluzione umana hanno giocato una molteplicità di elementi-fattori, di accettare che sin dalla sua comparsa sul pianeta gli esseri umani si sono sviluppati tra gli utensili e all‘interno della super-macchina del cosmo. Possiamo aggiungere, come novità, che le strutture logiche umane sono state trasferite dal corpo-mente dell‘uomo dell‘uomo alle notazioni logiche dei circuiti elettromeccanici. Il rapporto di filia tra uomo e computer, introdotto verso la fine del saggio ‗Socrate non è Elisa, però...’, prima della pubblicazione dei lavori di Stiegler può essere ricostruito anch‘esso retroattivamente secondo una linea in cui vengono a coesistere corpo e mente, materia organica e materia inorganica.
A tutt‘oggi le macchine sono inventate, non hanno né la capacità di autodefinirsi, né di auto prodursi; il silicio non si produce automaticamente nel computer. A tutt‘oggi l‘oggetto l‘oggetto tecnico deve essere prima pensato nella mente umana e poi prodotto. Ma Stiegler va avanti e si chiede: il processo cognitivo del disegno e dell‘invenzione è solamente umano, o è è già tecnologico? Se definiamo un computer dalla sua forma, una macchina elettronica che trasmette informazione in codice di logica binaria mediante circuiti di silicio, l‘analogo computer degli anni 30 e primi anni 40 sembra completamente superato. Oggi un computer ha una molteplicità di funzioni, è un dispositivo che gestisce e crea ogni ambiente della nostra vita quotidiana, è un nodo o snodo di un più grande network, la internet. Ma come identifichiamo il linguaggio delle macchine? Come acquisiamo la loro rassomiglianza con l‘umano, con il linguaggio umano umano è stato ampiamente discusso nel cap. IV ‗Socrate non è Elisa, però... ’ Le macchine tecnologiche sono inventate da qualcuno o qualcosa; è questo che le distingue dagli organismi viventi, non possiedono in se stesse la fonte della propria origine. Per Stiegler il punto resta amalgamare ‗linguaggio‘, ‗tecnica‘, ‗cultura‘, e ‗tecnologia‘ seguendo una metodologia de-costruttiva de-costruttiva di stampo materialistico. In La technique et le tems.1. La faute d’Epiméthèe, Stiegler parte dai miti greci e dai primi passi della filosofia, in cui la tecno-logia scaturiva dall‘interno dall‘interno del pensiero e viceversa. Ricorre al mito greco in cui Epimeteo e Prometeo esprimono in contrasto, direi in modo chiastico, la fondamentale interdipendenza interdipendenza dell‘uomo e la tecnica, rappresentano il de-fault delle origini . All‘inizio la filosofia separa separa techné da episteme, la tecnica, per lo più, è vista come mero supplemento, mentre l‘uomo è situato contro il processo di tecnicizzazione. Il pensiero umano è posto contro la tecnica, non riceve nulla da fuori, deve soltanto ricordare nell‘anima (Platone). (Platone). La tecnica come artefatto, invece, non è capace di originarsi da sé. Aristotele nella Fisica scrive di macchine cui manca la
capacità di auto-prodursi, di non essere causa sui, di non muoversi con proprie risorse, in altre parole macchine che sono l‘opposto l‘opposto dell‘essere dell‘essere umano. umano. Ma, l‘originaria incompletezza dell‘uomo, la stessa mancanza mancanza di una definizione dell‘uomo, ci dice altro, ci dice di una esistenza sempre sorretta da protesi tecniche. Solo ponendo una ―originary technicity‘, technicity‘, aggiunge Stiegler, è possibile pensare adeguatamente la questione della tecnica, l‘essere l‘essere umano e il tempo., tempo., Persino con il concetto di Ereignis, evento di
appropriazione o mutua
appartenenza di umano, di esseri e di Essere Heidegger non arriva a pensare una ―originary technicity‘, resta legato all‘essenziale distinzione, persino opposizione, opposizione, tra l‘uomo e la tecnica, tra l‘ontico e l‘ontologico, separa la comunicazione dalla tecnica e commette il comune errore della metafisica fino ai nostri giorni di dimenticare l‘origine prostetica della natura e dell‘uomo. Tale ignoranza ovviamente non gli permette di comprendere come la tecnica riesca ad agevolare più che minacciare l‘avventura dell‘uomo e della collettività, come lo sviluppo e/o il divenire della tecnica sia sempre un divenire con, uno sviluppo- con, un codivenire dell‘umano e dell‘umano e della tecnica. Secondo J. Derrida, maestro di Stiegler, una certa tecnicità si è infiltrata nel vivente sin dalle origini, è rimasta lungo un processo spazio- temporale, è essa che spiega la sua meravigliosa plasticità. Le macchine future devono riscoprire la loro primordiale vita secondo la logica dell‘ereditarietà e della trasmissione. Come possiamo noi umani caratterizzare il non umano? Stiegler afferma che bisogna pensare a un amalgama tra linguaggio, tecniche, cultura e tecnologia, che le tecniche e l‘umano hanno un'origine comune, derivano da una mescolanza mescolanza originaria e vanno di nuovo verso tale mescolanza. Su questo gli storici del robot potrebbero sollevare alcune obiezioni; la nostra epoca appartiene ancora alla preistoria del robot; così come al casuale attivismo di organismi monocellulari appartiene il primordial brood di nutrienti. Il primo problema, diranno, è che la
filosofia e la scienza sono ancora antropomorfiche, pensano ancora in termini di intelligenza, dignità, diritti, memoria. L‘origine dell‘uomo è fondamentalmente aporetica. aporetica. La tecnica non è alle origini dell‘uomo, viene dopo la cosiddetta età dell‘oro, soltanto dopo l‘originario default per colmare una mancanza. L‘uomo L‘uomo si è costituito mediante l‘esterno con gli oggetti tecnici, la sua origine non può essere spiegata né in termini puramente trascendentali, né puramente empirici come evoluzione genetica. La liberazione della mano durante lo spostamento con la posizione eretta, vedi cap. I Cultura materiale e logos in Grecia , ha generato una serie di funzioni. La mano
necessariamente richiede utensili, organi mobili, e gli arnesi della mano necessariamente esigono il linguaggio. Il cervello ovviamente gioca un ruolo, ma non è più direttivo, non è altro che verso lo sviluppo sviluppo della corteccia cerebrale (The Fault of Epimetheus 145). La posizione eretta portò quasi alla sospensione delle coazioni genetiche. Il risultato fu che apparentemente sia l‘utensile sia il linguaggio riempirono questa mancanza di programmazione genetica. Lo sviluppo del cervello, quindi, si ebbe per effetto di fattori di esteriorizzazione, si stabilizzerà soltanto con la comparsa dell‘uomo dell‘uomo di Neanderthal il cui corredo neurologico è molto simile al nostro. Stiegler vuol dirci che la sua contestazione delle opposizioni non elimina la genesi delle differenze‖ (163). Pensare l‘antropogenesi come costituita mutualmente mutualmente con la tecno-genesi tecno-genesi implica che l‘umano non è un miracolo spirituale che si aggiunge a un corpo animale ma che l‘ominizzazione è la continuazione dell‘evoluzione della vita con altri modi di vita.‗Pensare vita.‗Pensare l‘antropogenesi l‘antropogenesi come mutualmente costitutivo della tecno-genesi implica che l‘umano l‘umano non è un miracolo spirituale che si aggiunge aggiunge al corpo animale, ma che l‘umanizzazione è il risultato di una evoluzione del vivente da altro non vivente‖ vivente‖ (135)
Mentre l‘onda del fascino dei cyborg, sia a livello i cultura generale sia tecnicotecnicoscientifici sembra non fermarsi, la spinosa questione del rapporto uomo/macchina resta in discussione. Per andare lontano si pensi all‘eredità cartesiana della res cogitans e res extensa, naturale/artificiale, mente corpo, organico/inorganico; si pensi, per andare vicino a pensatori quali Haraway e il ‘Cyborg manifesto‘ manifesto‘ 1985, che affronta tematiche fantascientifiche di ibridità. La distinzione uomo/macchina tiene banco soprattutto perché l‘ipoteca del linguaggio umano, ancora sostanzialistico ci condiziona.