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Cineforum Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 52 - N. 4 Maggio Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. 8,00
Speciale Il primo uomo Scorsese, Lioret, Allen, Burton, McQueen, Cahill, Meier
Il cinema e il suo doppio Sogni (di) prigionieri L’uomo che sapeva troppo 1934 1934//1956
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Un percorso attraverso il mondo delle serie televisive e dei suoi fan, accompagnati da una guida d’eccezione, capace di parlare dell’argomento mescolando la passione più sfrenata alla competenza critica e tecnica di chi lo frequenta sul piano professionale che portano a questa condizione; quali i comportamenti personali e collettivi che ne come un vero oggetto di studio.
[email protected] press@cine forum.it || www.cineforum.it || Tel. +39 035 361361
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TRASFORMAZIONI
Adriano Piccardi È indubbio: indubbio: a una prima lettura lettura,, i segni che prove provengongono dal presente in cui ci tocca vivere non propongono grandi gran di speranz speranze. e. Casom Casomai, ai, prop proprio rio il contra contrario: rio: induc inducono ono corteggiare la disperazione per farcela quantomeno familiare, in modo che l’abitudine alla sua vicinanza ce ce la renda, ren da, se non non altr altro, o, men menoo spav spaven entos tosa. a. Ci vuol vuolee molta molta forza, probabilmente anche anche un discreto tasso di ostinazione a una forma di pensiero che altri potrebbero chiamare irragionevolezza, irragionevole zza, per cercare di guardare oltre e trovare in tutto questo qualche motivo che induca a una nuova apertura di credito verso il futuro. futuro. For Forse se che la parola che ci può salvare sia “trasformazione”? Una parola tutt’altro che indolore, indolore, ne siamo consapevoli, e tuttavia in grado di impedire all’orizzonte di ripiegarsi su di noi e avvitarci nell’idea di una caduta interminabile. La figura della trasformazione è rinvenibile con certezza in alcuni dei film di cui si occupa questo numero di «Cineforum».T «Cineforum». Trasformazioni fisiche, storiche, interiori e/o nelle relazioni con l’altro. l’altro. Trasformazioni che, che, con tutta la sofferenza e le incognite incognite di cui sono portatrici, ci permettono comunque riappropriarci della misura con cui dare ci , dunque alla nostra percezione un senso al nostro esser ci del processo, processo, del movimento di cui cui siamo (non possiamo essere che una) piccola parte. Il film di Gianni Amelio, Amelio, innanz innanzitutto: itutto: prezi preziosa osa presenpresenza nella filmografia filmografia di questo regista, regista, di cui dovremmo dovremmo andare forse un po’ più fieri di quanto generalmente non avvenga, e in questa primavera primavera cinematografica avara avara di luce. Nel quale si narra, narra, in una rappresen rappresentazione tazione capace capace di unire uno straordinario controllo degli elementi del racconto a una straordinaria intensità emotiva, della scelta di volersi misurare – la mente e il cuore bene aperti – con le domande sulle proprie origini personali e quelle relative al futuro della comunità non conciliata (quanto non conciliabile?) di cui ci si sente comunque partecipi.
La solitudine di chi cerca senza risparmio, nell’occhio del cambiamento cambia mento individuale individuale e collettiv collettivo, o, la direzione giusta verso una risposta che si cela dietro contraddizioni e paradossi poco incoraggianti. Trasformazione devastante quella cui è sottoposto il cervello di Claire in Tutti i nostri desideri , giov giovane ane magistramagistrato dalla sensibilità sociale spiccata e dalle intuizioni brillanti, che si scopre malata malata con ormai pochissimo pochissimo tempo a disposizione. Eppure, la sua volontà volontà di non arrenders arrendersii allo smottamento fisico le permetterà di porre mattoni per il futuro di altre persone persone (vicine, lontane), compiendo così così in qualche modo la sua missione di essere umano in questo mondo mon do.. Tras rasfor formaz mazion ionii ina inarre rresta stabil bili,i, fas fascin cinose ose,, dif diffus fuse e attraverso attraver so migliaia di scatti fotografici che hanno attraversato l’esisten l’esistenza za di intere genera generazion zioni,i, dai primi primi anni Sessanta Sess anta a oggi oggi (e non è certo certo finita…) finita…):: il volto, volto, i capelli, capelli, i baffi e la barba, barba, le rughe con con il passare del tempo, il sorriso e gli occhi perennemente segnati da un velo di malinconia – immagini immagini di George George Harrison. Harrison. Martin Scorsese Scorsese ci mostra anche le altre sue trasformazioni, che gli hanno permesso di non essere essere soltanto “il terzo Beatle”, ma un artista a tutto tondo e non solo in ambito musicale: musicale: perché la nostra riconoscenza non si esaurisca con il suo tempo. Trasfo rasformaz rmazione ione,, infi infine, ne, di un corp corpoo che, attr attrave averso rso una scelta da qualcuno giudicabile come mero e inutile nichilismo (ma da altri come progetto eroico e terribile di una testimonianza portata all’estremo, all’estremo, perché altri ne potessero raccogliere raccogliere i frutti). Qualche indugio estetico estetico di troppo non impedisce al film di Steve McQueen di lasciare tracce profonde insieme a un flebile raggio di speranza, fosse anche soltanto per reazione reazione alla violenza istituzionale e commossa pietà verso chi ha avuto il coraggio di una tale scelta. Singolare tesoro, tesoro, la speranza, speranza, che spesso spesso si trova trova solo al termine di uno strano e lungo cammino.
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cineforum rivista mensile di cultura cinematografica anno 52 - n. 4 - Maggio 2012
In copertina Il primo uomo di Gianni Amelio
Edita dalla Federazione Italiana Cineforum Direttore responsabile: Adriano Piccardi
[email protected] •
Comitato di redazione: Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi Segreteria di redazione: Chiara Boffelli, Arturo Invernici, Daniela Vincenzi Collaboratori: Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera, Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D., Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, Paola Brunetta, Francesco Cattaneo, Massimo Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Andrea Chimento, Pasquale Cicchetti, Ermanno Comuzio, Jonny Costantino, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini, Lorenzo Donghi, Simone Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi, Giuseppe Imperatore, Lorenzo Leone, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Alessandra Mallamo, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi, Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca, Lorenzo Pellizzari, Alberto Pezzotta, Tina Porcelli, Piergiorgio Rauzi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti. Progetto grafico e impaginazione: Paolo Formenti - PiEFFE Grafica* Amministrazione: Cristina Lilli, Sergio Zampogna Redazione e amministrazione: Via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo tel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55 e-mail:
[email protected] http://www.cineforum.it Abbonamento annuale (10 numeri): Italia: 60,00 Euro Estero: 80,00 Euro Extra Europa via aerea: 95,00 Euro Versamenti sul c.c.p. n. 11231248 intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo e-mail:
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[email protected] Iscritto nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25-5-1961 associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana
SOMMARIO EDITORIALE Adriano Piccardi/ Trasformazioni
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CANNES Fabrizio Tassi/ Lei e il Cosmo
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SPECIALE IL PRIMO UOMO Tullio Masoni/ La differenza e la fedeltà Albert, Gillo, Luchino: Anton Giulio Mancino/ i fantasmi di un “padre ragazzo”
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I FILM Giampiero Frasca/ George Harrison: Living in the Material World di Martin Scorsese Roberto Chiesi/ Tutti i nostri desideri di Philippe Lioret Luca Malavasi/ To Rome with Love di Woody Allen Simone Emiliani/ Dark Shadows di Tim Burton Federico Pedroni/ Hunger di Steve McQueen Another Earth di Mike Cahill Paola Brunetta/ Tina Porcelli/ Sister di Ursula Meier
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Rinaldo Vignati, Elisa Baldini, Giampiero Frasca, Matteo Marelli, Lorenzo Leone, Pasquale Cicchetti, Paola Brunetta, Nicola Rossello/ The Rum Diary - Ciliegine Chronicle - Unger Games - Roba da matti - Isole - The Avengers Maternity Blues - Gli infedeli - 50 e 50
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IL CINEMA E IL SUO DOPPIO Sergio Arecco/ Sogni (di) prigionieri
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SAGGI CHANGELING Valentina Alfonsi/ Il ruolo dell’immaginario in Changeling di Clint Eastwood
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SAGGI THE MAN WHO KNEW TOO MUCH Ermanno Comuzio/ I due uomini che sapevano troppo L’uomo che sapeva troppo (1934-1956): strutture a confronto
69 79
FESTIVAL Massimo Causo/ Rotterdam Tina Porcelli/ Biarritz Claudia Bertolè/ L’Asian Film Festival di Reggio Emilia Umberto Rossi/ Trieste Film Festival
80 82 84 85
DVD a cura di Arturo Invernici
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LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato
89
LIBRI E SOUNDTRACKS a cura di Ermanno Comuzio
94
INFO dal lunedì al venerdì - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 -
[email protected]
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SPECIALE
CANNES
LEI E IL COSMO Fabrizio Tassi
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Il Festival di Cannes 2012? Interessante e deludente (viste le premesse). Un po’folle e abbastanza conformista. Ostinatamente aggrappato alla formula-fabula del “cinema d’autore” (prima il nome, poi il film), ma non privo di deragliamenti illuminanti. C’è la vetrina per venditori e spettatori critici professionisti, che dipende dalle annate (niente a che vedere con il 2011 di Kaurismäki Malick Moretti Refn Dardenne Von Trier Kawase Ceylan Hazanavicius Van Sant Allen Kim Ki-
duk), e c’è il retro-bottega pieno di cose ammucchiate alla rinfusa, che dipende dalla curiosità dello spettatore nomade rabdomante. Il bello dei festival è che un giorno sei in fuga, per terra e per mare, con due dodicenni innamorati, nel magnifico mondo di Wes Anderson ( Moonrise Kingdom ), tra scout disadattati e geniali e genitori fedifraghi e perplessi, vestitini vintage (anni Sessanta) e inquadrature squadrate ( Mr. Fox , ma con sentimen-
Amour
to), Honky Tonkin’ di Hank Williams e la musica smontabile di Benjamin Britten, e il giorno dopo ti ritrovi imprigionato tra le mura di una casa borghese con due ottantenni che stanno imparando a morire, nell’universo senza scopo e speranza, umano terribilmente umano, di Michael Haneke (Amour ) , dove la natura (la malattia) reclama la sua sovranità sulla cultura, e non resta altro che un po’ di tenerezza devota e la libertà di scegliere se vale davvero la pena (sì, comunque valeva la pena), concretizzata in un ultimo atroce gesto d’amore. Ridi, piangi, riempi gli occhi e pensi che il cinema è sempre vivo e lotta (ama, pensa, soffre, gode, muore) insieme a noi. Anche perché capita che un illustre sconosciuto di nome Rachid Djaidani – romanziere, campione di boxe, attore di Peter Brook (Hamlet ! Le Costume !), aiuto-regista di Kassovitz per L’odio –
dopo nove anni di lavoro senza finanziamenti, realizzi un magnifico film d’esordio come Rengaine , girato per le strade parigine con una camera DV, storia (tra le altre) di un amore tra una ragazza araba e un aspirante attore di colore, ostacolata dalla famiglia di lei, formata da trentanove fratelli, tra cui il capobranco, che flirta con una cantante ebrea ma decide che la tradizione (la purezza della razza culturale) vada difesa a ogni costo, anche se ormai non c’è più nulla da difendere (lo capirà anche lui). Il brutto dei festival è che, numericamente parlando, le occasioni mancate superano di gran lunga i matrimoni riusciti. L’improbabile Kerouac di Walter Salles (On the Road , film pavido che trasforma il mito in aneddoto), l’insopportabile Andrew Dominik ( Killing Them Softly , vedi alla voce cinefagia), la confusionaria soap impegnata di Nasrallah (da Baad el Mawkeaa / After the Battle , ci saremmo aspettati di capire-vedere qualcosa in più dell’Egitto post Primavera araba), la simpatica ma insipida commedia di Ken Loach (The Angels’ Share ), l’inquietante ma convenzionale film-dossier di Vinterberg (Jagten / The Hunt )… Stiamo parlando di pellicole in concorso, scelte da selezionatori navigati per darci un’idea del cinema che stiamo attraversando, molto spesso prodotto e cofinanziato (ammirevolmente) dai francesi, con tutti gli effetti collaterali del caso (vedere l’incontro paradigmatico tra Hong Sang-soo e Isabelle Huppert nell’esile divertissement Da-Reun Na-Ra-e-Suh / In Another Country ). E allora ben venga la Quinzaine des Réalisateurs, che l’anno scorso sembrava entrata in catalessi, e invece stavolta ha saputo variare spunti e proposte, dall’antonioniano Sueño y silencio all’adolescenziale The We and the I di Michel Gondry (deludente), dall’elegante melodramma di Hur Jin-ho, che ha ambientato Le liaisons dangereuses nella Shanghai degli anni Trenta, al cinefilo Room 237 di Rodney Ascher, che viviseziona Shining dando voce a cinque persone ossessionate dal capolavoro di Kubrick, tra osservazioni sorprendenti e interpretazioni bislacche. Menzione d’onore al cartoon realizzato da Stéphane Aubier e Vincent Patar (quelli di Panique au village ) insieme a Benjamin Renner, Ernest et Célestine , deliziosa storia scritta da Pennac su una “coppia di fatto” formata da un orso e una topolina, decisi a vivere insieme nonostante i pregiudizi biologici e culturali dei rispettivi compagni di specie. È alla Quinzaine che abbiamo trovato i film più convincenti del Festival: il già citato Rengaine e soprattutto l’ultimo lavoro di Pablo Larraín, No , che completa la trilogia sul Cile di Pinochet. Un film sorprendente sia per la storia, che ricostruisce la campagna referendaria (pro o contro il regime) del 1988, sia per lo stile, completamente diverso da Post Mortem , agile, sporco
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Beast of the Southern Wild
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e diretto, realizzato con una macchina degli anni Ottanta, per garantire la stessa resa dell’immagine tra video d’epoca e ricostruzione cinematografica. Documento, narrazione e riflessione sono sapientemente amalgamati in una pellicola che ricostruisce la battaglia tra il Sì e il No a Pinochet, mentre racconta la sfida personale tra un giovane pubblicitario prestato alla politica (che utilizza il suo talento per vendere il prodotto-democrazia al pubblico degli elettori) e il capo della sua agenzia, schierato con il dittatore in cerca di legittimazione internazionale. Per la prima volta l’opposizione poté contare su quindici minuti al giorno di spazio libero in tv, riempiti con una spiazzante (per il regime) retorica della gioia, jingle orecchiabili, video (più o meno) creativi, interviste raccolte per strada, satira svela-ipocrisie. La vittoria del No è raccontata in modo appassionante, ma in un certo senso finisce anche per inquietare: è davvero solo una questione di comunicazione? La politica è ancora pratica e teoria della cosa pubblica, un esercizio critico di consapevolezza (memoria) e trasformazione, o solo una tecnica da usare a fin di bene o di male, una sfida tra retoriche contrapposte, in cui la “verità” va mediata e ben confezionata perché non spaventi la gente? In confronto al film di Larraín, misteriosamente fuori concorso, tutto il resto appare incompiuto (il
che non è sempre un male), anche quando è molto più ambizioso o esteticamente coraggioso. Basta pensare a Paradies: Liebe (Paradise: Love ) di Ulrich Seidl, che racconta l’approdo in Kenya di danarose signore in là con gli anni in cerca di piaceri sessuali animali (se poi una vuole anche la tenerezza, la questione si complica): un nuovo rigoroso viaggio nell’osceno, con qualche immagine folgorante (i giovani neri in piedi sulla spiaggia del resort ad attendere di essere scelti), ma un film che finisce per attorcigliarsi su se stesso e sul sadico compiacimento del regista. Un altro film che comincia benissimo e a un certo punto non sa più dove andare è Reality di Matteo Garrone, forse anche per colpa dell’esile storia, in cui lo spassoso tragico protagonista (un pescivendolo napoletano ossessionato dal Grande Fratello televisivo) viene lasciato alla deriva di una follia che non cresce, non “impazzisce” fino in fondo, rimane in superficie, dentro un film abile, anche divertente, ma non così agghiacciante come vorrebbe (dovrebbe) essere. Christian Mungiu, invece, sa fin troppo bene dove vuole arrivare, tanto che il suo interessante Dupa dealuri (Beyond the Hills ) finisce per assomigliare a uno di quei film a tesi che non rivelano la realtà, ma ne fanno una parafrasi un po’ macchinosa (per quanto ben girata).
E sia chiaro che parliamo di registi di talento. Autori come Jacques Audiard (in De rouille et d’os ci sono sprazzi di grande intensità) o Abbas Kiarostami (che occhio! ma quanto è irritante questo esercizio di cui non si vede il motivo!) o Carlos Reygadas (all’inizio di Post Tenebras Lux ci sono i cinque minuti di cinema più straordinari di tutto il Festival, ma poi, tra la narrazione antinarrativa e le immagini sfocate e sdoppiate sui bordi, un satana-caprone fosforescente e una patetica orgia, abbiamo l’impressione che il regista voglia solo impressionare). Su tutti questi film le opinioni sono molto discordanti (rimandiamo ai voti del prossimo numero). Ci sarà spazio abbondante per discuterne sulle pagine della rivista. Ci sarà modo di raccontare la delusione dopo aver visto Io e te di Bernardo Bertolucci, gli imbarazzi di fronte al Dracula di Dario Argento (lo dicono anche i fan più sfegatati), i pregi e i difetti dei film di Nichols e Resnais, il colpo di genio di Elia Suleiman (Diary of a Beginner ) nell’inutile film collettivo 7 días en la Habana , il piacere di scoprire il talento di Ben Zeitlin, trentenne esordiente originario di New York, autore di Beast of the Southern Wild , un film malickiano, rude e visionario, pieno di idee e di energia, fatto di terra e acqua, di ghiacci che si sciolgono e animali preistorici al galoppo, di un mondo pagano che sta scomparendo (sul Delta del Mississippi) e di una coraggiosa bambina di sei anni, Hushpuppy, che vive col padre alcolizzato e un’inaffidabile inaffondabile comunità di strambi selvaggi a cui si finisce per voler bene. In un’annata come questa – col suo consueto apparato fuori concorso di film “altri” che raccontano guerre, periferie, miserie con la formula festivaliera del cinema minimalista, impegnato, anche un po’punitivo, vagamente ricattatorio – finiscono per emergere anche certi film “normali”, buoni e giusti, come Elefante blan- co di Pablo Trapero (due preti ben poco preteschi nella bidonville di Buenos Aires: uno riscopre il sesso, l’altro è destinato al martirio, contro la legge, il sistema, la curia, la polizia) o A perdre la raisons di Joacquim LaFosse (storia ben raccontata e ottimamente interpretata, finale escluso, di una madre-moglie schiacciata dal suo ruolo e dall’egoismo di chi la circonda, dentro una famiglia disfunzionale arabo-francese). Poi c’è Leos Carax e il suo ambizioso, metafisico, metacinematografico film-mondo. Il Festival di Cannes assomiglia un po’ alla limousine piena di cinema che sta al centro di Holy Motors . Maschere, trucchi, storie di ogni genere, emozioni assortite, cose già viste o ancora da vedere. Ma anche una lista di appuntamenti rigorosa, perché lo spettacolo (come la vita) ha le sue regole e la sua ontologia (autore, attori e spettatori sono complici del gioco). Ognuno prende quello che può. E non c’è modo di conciliare chi ritiene che il film di Carax sia un bidone, un esercizio
Elefante blanco
meccanico, una stecca di quelle memorabili, e chi invece pensa sia l’unico autentico capolavoro di quest’anno, il film che sbaraglia codici e attese, il cinema che va al di là del cinema.
A proposito di limousine, c’era grande attesa per l’incontro tra David Cronenberg e Don Delillo in Cosmopolis . Capita di salire su un’auto per andare dal barbiere, e magari provare a riconciliarsi con la vita (o meglio, con la morte), e di ritrovarsi protagonisti di un’odissea che assomiglia alla fine del mondo (capitalista, tecno-virtuale, solipsistico). Qui siamo nel cuore della questione che attraversa tante, forse tutte le pellicole del festival, belle o brutte, realiste o fantastiche, con ambizioni liriche o vocazione di genere. A volte è il tema e in altri casi solo il contesto, è il nemico esplicito o il convitato di pietra, la causa che scatena il dramma o il palcoscenico che ne amplifica la portata. È la nostra società fondata sul denaro e l’ossessione del controllo, sull’egolatria, l’atomizzazione sociale, il conformismo culturale, la disuguaglianza, il culto dell’efficienza, la tecnologia dell’informazione fine a se stessa. Non aspettatevi risposte da questo film parolaio, in cui gli stranianti dialoghi del romanzo vengono ulteriormente raffreddati da una messinscena che esalta l’artificio e una claustrofobia luttuosa. Ma qualche buona domanda, forse, c’è.
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SPECIALE
IL PRIMO UOMO Gianni Amelio
LA DIFFERENZA E LA FEDELTÀ Tullio Masoni
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Comincerei col dire che nella vicenda artistica di Gianni Amelio Il primo uomo è una sorta di “ripiego”; lo dico provocatoriamente, è ovvio,ma credo sia un giusto modo per rilevare l’assurdità di una pausa come quella che separa La stella che non c’è (2006) da quest’opera ultima. In altre parole, Amelio ricorre a Camus dopo l’inqualificabile comportamento dei produttori e dei committenti che avrebbero dovuto sostenere la realizzazione di un film in Argentina; il film che l’autore inseguiva da anni e avrebbe dovuto seguire le tracce dell’emigrazione paterna, cioè l’archetipo di una vita e di tutta un’esperienza di cineasta. Il film argentino era
già stato approvato; non solo, Amelio era già stato nel Paese latinoamericano (e italiano) per un non breve periodo di sopralluoghi e ricerca di attori. Che successe, poi? Successe che qualcuno giudicò poco appetibile una storia ambientata nel Paese latinoamericano – proprio in un periodo nel quale la sua crisi anticipava la nostra! – e decise di annullare il progetto. L’incompiutezza del romanzo di Camus, insomma, risponde a quella di un lavoro sacrificato. Come poteva, Amelio, entrare nella memoria di Camus (direi perfino nel suo corpo) e mantenersi libero, cioè fedele secondo i propri mezzi e bisogni? Cercherò di spiegare più avan-
può davvero essere una “nuova stesura”, ove con questo si intenda una sintesi raggiunta compiendo scelte nel testo. Da ciò, una fedeltà che si conferma attraverso le differenze formali, e rispetta nel profondo la figura di Camus: «… La ringrazio di aver fatto questo film con tanto pudore, misura e bellezza», ha scritto la figlia Catherine in una lettera al regista «… nel mio “mestiere” ho incontrato raramente un tale rispetto. […] Di certo non sono una spettatrice obiettiva, ma ho trovato il suo film bellissimo. Ho ammirato la sua direzione degli attori (senza una nota falsa!) e la giusta distanza che lei ha preso, e che rispetta la finzione senza tradire il libro» (3). ***
ti che una scelta precisa c’è stata, tale da avvicinare Il primo uomo a certi titoli di minor successo: Il piccolo Archimede (1979), I velieri (1983), Colpire al cuore (1983), che ciò è avvenuto nella ricerca di un’adesione al testo superiore a quella assunta in altre imprese: penso a Rea per La stella che non c’è o a Pontiggia per Le chiavi di casa (2004), e che tale scelta applica, ne fosse o meno consapevole l’autore, il concetto indicato da Graham Greene per Il terzo uomo : «Il film […] rappresenta […] l’ultima stesura, l’ultimo, stadio,il più perfezionato, del racconto». (1) Un aspetto della prosa di Camus è l’eccezionale equilibrio che lo scrittore raggiunge fra spinta passionale e sintattica asciuttezza, fra esuberanza corporea e spiritualità, fra disincanto sui fatti e ideale tenacia; in altri termini, uno stile che rinuncia all’enfasi pur esaltando il dramma della vita umana. Tutto ciò, con ogni probabilità, avrebbe fatto del romanzo un nuovo capolavoro ma, appunto, il romanzo è incompiuto: bellissimo e, in potenza, più bello ancora (2). Quella di Amelio col film – e credo di non forzare troppo –
Di Camus, Amelio adotta l’eccesso abbacinante della luce o la sublime chiarità. La luce, soprattutto. Che inaridiva il paesaggio urbano di La peste pur racchiudendo meraviglie, o si faceva tragico abbaglio sulla spiaggia di L’étranger . All’inizio un quadro sfocato, poi la figura mezza e nitida del custode che entra lateralmente. Su richiesta di Cormery l’uomo cerca una tomba, un morto fra i troppi del 1914; l’uomo si muove in senso orizzontale guardando in basso: il senso di sguardo che il cimitero, con le sue file, impone. Amelio ha dei cimiteri una particolare memoria: «Il mio paese è dominato da un cimitero, da qualunque punto tu guardi verso Nord vedi il cimitero e quindi ricordi le persone che ti stanno vicino e che sono lì. Credo non sia un fatto casuale che il cimitero sia stato messo là; infatti, ci sono dei Paesi, a esempio l’Albania, dove il cimitero sta addirittura dentro il paese. […] È molto bello perché è al centro: una non separazione dei morti dalla vita dei vivi» (4). Cormery, al contrario, cerca a Saint-Brieuc – cioè lontano sia da Parigi che da Algeri – un padre sconosciuto, un estraneo. Cormery ha quarant’anni, e solo leggendo l’iscrizione da cui scopre di essere più vecchio del padre viene davvero toccato: «E l’ondata di tenerezza e di pietà che d’un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell’anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassinato – era una cosa fuori dell’ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre» (5). (1) Graham Greene, Il terzo uomo , Bompiani, Milano 1989, pag. 9. (2) Albert Camus, Il primo uomo , Bompiani, Milano 1995. Nella nota del curatore (Catherine Camus), a pag. 5 si legge: «… consta di centoquarantaquattro pagine scritte di getto, a volte senza punti né virgole […] Per facilitare la comprensione del racconto, si è ristabilita la punteggiatura». (3) La lettera di Catherine Camus ad Amelio è apparsa su «La Repubblica» di martedi 17 aprile 2012. (4) Emanuela Martini, Gianni Amelio , Il Castoro Cinema, Milano 2006, pag. 9. (5) Albert Camus, cit., pag. 25.
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Tener enerezza, ezza, dunq dunque, ue, piet pietàà e angos angoscia. cia. Il tempo tempo dell dellaa vita di molti che si riduce a un tempo unico superando le generazioni. Il tempo che Amelio ha dato al film intero; un unico attonito tempo, tempo, assorto nella nella frontalità frontalità del protagon prot agonista ista;; in un primo piano piano,, da cui ogni distanz distanzaa del passato, passato, ogni cronologia cronologia si annulla: annulla: «Intorno a lui, immobile, fra queste tombe che aveva smesso di vedere, si spezzava persino la successione del tempo e gli anni avevano cessato di allinearsi in un grande fiume che scorre verso verso la foce. foce. Non erano ormai che fragore, risacca e risucchio, risucchio, ed era qui qui che si dibatteva dibatteva Jacques Jacques Cormery,, alle prese con l’angoscia Cormery l’angoscia e la pietà» (6). La scelta nel testo compiuta dal regista diventa subito scelta poetica poetica e di stile. I movimenti orizzontaorizzontali, la frontalità del protagonista protagonista (un Jacques Jacques Gamblin che più giusto – e fuori dalla somiglianza som iglianza – non avrebbe potut potutoo essere essere), ), l’in l’indiet dietregg reggiare iare dell dellaa mdp, mdp, o il seguire, segu ire, in una sorta sorta di “fa “falso lso movimen movimento”, to”, cioè di di variazione variaz ione della stasi, l’incess l’incessante ante replica del luogo – salvo le sacrali aperture di paesaggio – e la sordina raffinata di Piersanti Piersanti che accompagna accompagna alterne, sentimentali lontananze, lontananze, danno all’insieme all’insieme un fatale e tormentato tempo di ritorno. Se poc’anzi ho richiamato alcune opere “piccole” – e mi riferivo alla rarefazione dello stile – ora vorrei misuCosìì rid rideva evano no rare la coerenza di Amelio riandando a Cos
(1998), dove il passato passato – che in Il primo uomo fluisce – replica nella tragica convulsione convulsione del presente. Assai felici, in prop propos osito ito,, mi sembr sembrano ano le le parol parolee di Mauro Mauro Gervasini che, ammettendo autocriticamen autocriticamente te un vecchio disagio («… titolo cruciale nella filmografia dell’autore, da noi mai troppo troppo amato»), opera il confronto sulla sintesi sintesi di passato-presente: passato-presente: «… scopriamo che le asperità del film sono tutte negli occhi di chi guarda. Una sorta di resistenza resistenza al romanzo ellittico ellittico,, quando avremmo voluto lo scarto temporale riempito da un flusso flus so narr narrativ ativoo dive diverso» rso» (7). Una resi resisten stenza, za, cert certo, o, e aggiungerei più in generale – riprendendo quanto scritto in altra occasione occasione – la ripulsa per lo specchio, specchio, cioè per la miseria di un paese che ha smarrito – buone o cattive – identità e ragioni. Il Camus di Il primo uomo , in infin fine, e, sug sugge geris risce ce una una domanda: «… non restava ormai ormai che quel cuore angosciato […] andare andare oltre, oltre, e di sapere, sapere prima di morire, sapere finalmente per essere, essere, una sola sola volta, volta, un solo secondo secondo,, ma per sempre» (8), alla quale quale proprio il tempo concepito concepito da Amelio, Amelio, ossia la personale e corporea verifica verifica della storia, offre una parziale ma franca fran ca risposta risposta.. Oltr Oltree il segreto segreto di ogni vita, cer cercato cato con avidità da Camus/Cormery, Camus/Cormery, e avvertibile avvertibile nell’intimità di un padre ragazzo cui era toccata la morte più ingiusta.. Il segreto ingiusta segreto di una morte giusta giusta o almeno almeno
IL PRIMO UOMO Gianni Amelio
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Titolo originale: Le premier homme. Regia e sceneg- giatura: Gianni Amelio. Soggetto: dal romanzo omonimo di Albert Camus. Fotografia: Yves Cape. Montaggio: Carlo Simeoni. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Arnaud de Moleron. Costumi: Patricia Colin. Interpreti: Jacques Jacques Gamblin (Jacques (Jac ques Cormery), Maya Sansa (Catherine Cormery nel 1913 e nel 1924), Catheri Catherine ne Sola (Catherine (Catherine Cormery Cormery nel 1957), Denis Poda Podalydès lydès (il maestro Bernar Bernard), d), Ulla Bauqué (la nonna), nonna), Nino Jouglet Jouglet (Jacques da piccolo), Abdelka Abdelkarim rim Benhabouccha Benhabouccha (Hamoud), (Hamoud), Hachem Hachemii Abdelmalek Abdelm alek (Aziz), (Aziz), Jean-P Jean-Paul aul Bonnaire Bonnaire (lo zio zio Étienne nel 1957), Jean-François Stévenin (il padrone della fattoria), fattoria), Nicolas Giraud Giraud (lo zio Étienne nel 1924), 192 4), Dja Djamel mel Said Said (Ham (Hamoud oud da da picco piccolo) lo),, Mohammed Zahir Taifour (il fratello di Hamoud), Alexandre Alexand re Delamadeleine (Henri Cormery), Oualahi Messouda (la madre di Aziz), Jerome Le Paulmier Paulmier (il padronee del mulino), Mohamm padron Mohammed ed Boubker Boubker (l’accalappiacani), lappiac ani), Mohamm Mohammed ed Boubker jr. jr. (il figlio dell’accalappiacani),, Ygal Egry (un calappiacani) (un ufficiale ufficiale francese), francese), Sacha Pet Petronij ronijevic evic (un funzi funzionari onario), o), Fr Franck anck Beckman (un colono). Produzione: Marco Chimenz, Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi, Bruno Pésery per Cattleya/Soudaine Compagnie/Maison de Cinéma/ France 3 Cinéma/Laïth Média/Rai Cinema. Distri- buzione: 01. Durata: 100’. Origine: Italia/Francia/ Algeria Alg eria,, 201 2011. 1.
Il film traduce liberamente il romanzo trovato nella sacca di Albert Camus dopo l’incidente automobilistico nel quale lo scrittore, il 4 gennaio 1960, era rimasto ucciso. Jacques Cormery visita la tomba del padre, caduto sulla Marna nel 1914 e, da quarantenne, quarantenne , consta- ta di essere il più vecchio fra i due. Poi parte per Algeri, dove abita l’anziana madre; è il 1957, e nella colonia infuria la lotta che presto volgerà in guerra portando all’indipendenza dalla Francia. Il viaggio di Cormery, che incarnando lo stesso Camus è ormai uno scrittore di fama mondiale, rappresenta una verifica del passato e, al tempo stesso, ideale. L’uomo avversa il nazionalismo na zionalismo francese ma, in nome di un possibile progresso che porti a nuove e reali forme di uguaglianza, uguag lianza, diffida di una pro- spettiva – quella di un’indipendenza segnata dalla tra- gedia – che cancellerebbe ogni feconda possibilità di contatto fra diversi. Come tanti connazionali che erano emigrati in Algeria spinti dalla più dura necessità, Cormery non dimentica di essere stato povero e, come tale, vicino alla condizione degli arabi; sulla base di ciò vorrebbe fosse riconosciuta una sorta di obiettiva, ambivalente e reciproca solidarietà. È un francese france se isola- to che all’università di Algeri, dove incontra gli studen- ti, o parlando alla radio, rivendica (non solo per ragio- ni di nascita) un’appartenenza algerina. Come la madre, d’altronde, che non vuole finire la propria vita in Francia: «Parigi è bella», risponde a un timido invito del figlio «ma non ci sono gli arabi».
nonn pro propr prio io felice : «D «Dal al su suoo let letto to autentica , se no Mersault avvertì quest’urto e questa offerta e aprì gli occhi sul mare mare immenso immenso e curvo, curvo, smaglian smagliante, te, animato dai sorrisi dei suoi iddii. iddii. […] Guardò le labbra carnocarnose di Lucienn Luciennee e, dietro di lei, lei, il sorriso sorriso della della terra. terra. Li guardava con lo stesso sguardo e con lo stesso desiderio.. “T rio “Tra ra un minuto, minuto, tra un secondo”, secondo”, pens pensò. ò. La salita salita si fermò. E pietra tra le pietre, pietre, ritornò nella nella gioia del suo cuore alla alla verità dei dei mondi immobili» immobili» (9). È un caso che il romanzo ultimo e incompiuto ponga il segreto già contemplato contemplato nel primo, e che Mersault sia anche il nome dell’étranger dell’étranger ? ***
Un “contro “controcampo campo all’impiedi”, all’impiedi”, ma poi più tradizionalmente zionalmen te spezzato, spezzato, raccont racconta a il colloquio in carcere fra il vecchio compagno di scuola di Cormery e suo figlio, condan condannato nato a morte morte per aver aver preso parte parte a un’azionee terroristica. un’azion terroristica. Al giovane giovane toccherà toccherà la ghighigliottina, gliottin a, l’emblema giustiziere giustiziere della Francia Francia rivolurivoluzionaria ossessivamente inciso nella coscienza di Camus: basti ricordare ricordare il suo saggio-proclama contro contro la pena capitale, capitale, e la chiusa chiusa di L’étranger , e anco ancora, ra, in Il primo uomo , quel padre padre che si era alzato alzato prima dell’alba per assistere a un’esecuzione e da ciò aveva riportato riporta to malori di nausea e febbre. Quel giovane giovane dietro le sbar sbarre, re, poi, rico ricorda rda AlìAlì-la-P la-Point ointe, e, un picc piccolo olo
delinquente delinqu ente che da una finestra finestra del carcere, carcere, in La battaglia batta glia di Alge Algeri ri (1966 (1966)) di Gillo Pontecorvo Pontecorvo,, assisteva alla decapitazione di un patriota traendo dalla visione e dall’ultimo grido del condannato una decisiva ragione di impegno politico.
Una volta trovata la chiave con la quale tradurre il testo,, cioè l’indispen testo l’indispensabil sabilee affinità, Ameli Amelioo si diffonde su quanto in Camus rimane sospeso fra le righe, cioè la situazione che Pontecorv Pontecorvoo aveva rievocato nel film del 1965. E tuttavia i motivi motivi del contrasto fra lo scrittore e gli gli intellettuali francesi “fratelli”, che si erano schierati senza riserve per la causa dell’indipendenza, emergono chiari chiari nel film come era stato nel libro: la solitudine di chi è francese francese per origine e per il mondo ma, al tempo tempo stesso stesso,, si sente sente algerin algerinoo nell’anima, la sconfitta (giusta e storicamente ineviinevitabile, ma a che prezzo…) prezzo…) di un uomo che nel confronto di povertà (quella dei francesi immigrati per fame e degli algerini oppressi) e financo di disperazione,, cerc zione cercaa il viatico viatico per una nuova, nuova, più democrati democrati-ca e civile civile uguaglianza, uguaglianza, infine la profezi la profezia a di di una rovina che avrebbe non molto più tardi – oggi – travolto con modi e intensità diverse i popoli e i sistemi di entrambi i continenti. (6) Ibid Ibid.,., pag pag.. 25. (7) Colpi al cuore , «Fil «FilmTv mTv»» n. n. 16, 22-2 22-288 april aprilee 2012 2012,, pag pag.. 13. (8) Albert Albert Camus, Camus, cit cit.,., pag pag.. 26. (9) Albert Camus, La morte felice , Riz Rizzol zoli,i, Mil Milano ano 1987 1987,, pag pag.. 136.
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Quando nel film Cormery parla agli studenti, studenti, e più ancora alla radio, si avvertono avvertono solitudine solitudine umana, sconfitta ideale e amore. L’amore di Camus per il mare sterminato davanti e lo spazio interminabile di montagne dietro, e per «quel popolo attraente e inquietant inquietante, e, vicino e separato, che si costeggiava nel corso delle delle giornate…» (10), con quelle donne donne «… che non si vedevano vedevano mai o, se le si si incrociava incrociava per strada, non si sapeva chi chi fossero,, con quel velo a metà viso e i begli occhi sensuafossero sensuali sopra il panno bianco…» bianco…» (11); lo stesso amore che Cormery,, parlando alla radio, Cormery radio, rivendica in nome nome della della madre, ben sapendo che la minaccia invisibile invisibile dei quarquartieri sovraffollati si sarebbe presto tradotta nel coro di voci “selvagge”, incomprensi incomprensibili bili e ritmate provenienti provenienti dalla Casbah notturna; notturna; in un annuncio di insurrezione insurrezione che, commenta al telefono telefono un giornalist giornalistaa nel film di Pontecorvo, Pontec orvo, suona con la minaccia di un incubo. incubo. Se per Camus l’Algeria è terra materna, altrettanto si può dire, fatte le dovute differenze, per Amelio. Amelio. Terra non troppo diversa dalla Calabria della sua infanzia – o dall’Albania di Lamerica (1994) – e terra fecondata dall’oscura ma tenace tenace resistenza delle donne. Con La stella che non c’è il femminile, secondario ma concreto e irrinunciabile in varie opere precedenti, precedenti, passava nella sensisensibilità ferita del protagonista, protagonista, cioè scoprendo scoprendo la stessa madre di Amelio dietro la mai conclusa ricerca del padre.
Il primo uomo dà una nuova e più decisa conferma; Cormery compie il suo viaggio nel passato partendo dal riconoscimento di un padre padre mai visto, ma è la madre che davvero resta.All’arrivo resta. All’arrivo Cormery non la trova in casa ma in un mercato arabo; nel finale vedremo questa questa madre stagliata nella luce del Paese da cui non vuole né può separarsi. Con fare domestico domestico e solenne,col solenne, col senso di fatalità che talvolta anima le donne ritirate ma superiori , el ella la riceve la luce dalla finestra, poi chiude le imposte. imposte. La storia storia fini finisce sce,, la storia storia conti continua nua.. L’id ’ideal ealee di Camus/Corme Camus /Cormery ry sarà sconfitto, sconfitto, e forse lo era già da decenni se proprio lui – per sempre legato a quella terra splendida e terrificante – aveva denunciato diseguaglianze quotidiane,“naturali”(perdurando l’ordine coloniale), e furori umiliati dall’endemica stanchezza cui induce induce il potere. Un po’ nella stessa stessa anomalia anomalia dello scrittore, che aveva acquisito acquisito una Patria più che ereditarla, Amelio sostiene da tempo il valore di una terra e una famigl famiglia ia putative putative;; per questo questo la madre di Cormery,, che accoglie la tragedia sapendo di apparteCormery nerle, suggerisce anche per il dopo – cioè per l’oggi tristissimo stiss imo – un parziale parziale,, disper disperato, ato, e tuttavia tuttavia caparbio caparbio sentimento di pace. (10) Albert Camus, Il primo uomo , ci cit. t.,, pa pag. g. 231 231.. (11) Ibid Ibid.,., pag pag.. 231.
ALBERT, GILLO, LUCHINO: I FANTASMI DI UN “PADRE RAGAZZO” Anton Giulio Mancino
Quando si dice che Il primo uomo è un film autobiografico, di Gianni Amelio, basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Albert Camus, occorre intendersi. Per quanto assurdo o paradossale possa sembrare, non significa che Amelio si sia semplicemente servito di questo testo per potersi raccontare in prima persona, con tutto ciò che in un autore la soggettività comporta sul piano storico, sociale e antropologico.
AMELIO SECONDO CAMUS Amelio, prima ancora di farci un film, di immaginarne anche solo la possibilità, ne ha strategicamente interioriz-
zato le dinamiche costruendosi addosso una parvenza autobiografica credibile. Simulando una perfetta e meditata trasparenza del sé, che i suoi stessi film da sempre lasciano intendere reclamando percorsi interpretativi in tal senso, è riuscito ad aggirare o fugare meglio la forte istanza o ingerenza conoscitiva che dall’esterno sembra minacciare la propria sorgente creativa. Con Camus i suoi presunti fantasmi del passato, familiare e storico, hanno trovato una precisa sistemazione autobiografica. A partire dall’autobiografia romanzata, appena dissimulata, incompiuta dello scrittore francese il regista italiano ha elaborato un solido passato di copertura : uno schermo dietro il quale trovare risposo,riparo e sicurezza.La successiva trasformazione di tale schermo protettivo offerto da Camus
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IL PRIMO “PRIMO UOMO”
sta riceve dalla lettura dei dati anagrafici del padre sconosciuto e precocemente defunto: «Fu in quell’istante che lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi notò le due date – “1885-1914”– e fece un rapido calcolo: ventinove anni. Un pensiero lo colpì all’improvviso e lo scosse. Lui di anni ne aveva quaranta. L’uomo che giaceva sepolto sotto quella pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di lui. E l’ondata di tenerezza e di pietà che d’un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell’anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassinato – era una cosa fuori dall’ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre. […] Guardò le altre lapidi del settore e capì dalle date che quel terreno era costellato di ragazzi che erano stati i padri degli uomini brizzolati convinti di vivere in quel momento» (1). Dal canto suo il film puntualmente, nella prima scena, sembra recepire l’effetto sorpresa che scuote la
A innescare il meccanismo retrospettivo nel primo capitolo del libro è la forte impressione che il protagoni-
(1) Albert Camus, Le premier homme , Bibliotèque National pour la Lettre de Louis Germain, Parigi 1994 (ed. it. Il primo uomo , Bompiani, Milano 1994; 2011, pagg. 30-31).
in schermo cinematografico ha consentito semmai il raddoppiamento del dispositivo memoriale indiretto. In altre parole, il rafforzamento ad hoc della convinzione fuorviante e fallace, dentro il film, che la chiave di accesso privilegiata al vissuto di Camus sia il vissuto di Amelio. Mentre è vero esattamente il contrario. Come vedremo è Amelio ad aver scelto già nel 1994, l’anno in cui viene tradotto in Italia Il primo uomo , di attingervi per travestirsi autobiograficamente. Il pudore sul versante biografico gli ha suggerito il ricorso a una suggestiva e illustre derivazione autobiografica come travestimento insospettabile. L’intenzione di indossare la maschera espressamente autobiografica di Camus precede dunque la realizzazione di questo film sintomatico, ove Amelio sembra aver trovato il modo di dire, o meglio non dire finalmente qualcosa di sé. Lasciando che questo presunto sé coincida a prima vista con quello di Camus. Il procedimento adoperato è sottile. 4 1 5 m u r o f e n i c 14
coscienza di Jacques rispetto a quel “padre ragazzo” verso il quale non riesce più a mostrarsi indifferente, scostante, distratto. Non è un caso che Amelio abbia deciso di cominciare il suo Il primo uomo pressoché là dove comincia l’originale di Camus. Ma la fedeltà nella trasposizione cela un ben più profondo debito dell’autore cinematografico nei confronti di quello letterario. Un debito contratto – come si è detto – nel 1994, quando cioè Amelio, a stretto giro dalla pubblicazione italiana del libro, descrive in una lunga intervista il rapporto con i genitori e in particolare con il padre adottando, anzi riadattando il paradosso temporale descritto e analizzato da Camus.
IL SECONDO “PRIMO UOMO” Come il maldestro Antoine Doinel di I quattrocento colpi (Les 400 coups , 1959) di François Truffaut che desume letteralmente da Honoré de Balzac l’episodio della morte di suo nonno per il compito in classe di francese anche Gianni Amelio in un certo senso “ruba” ad Albert Camus lo schema del ricordo paterno: «Io ho avuto», racconta «sul piano personale, su un piano
molto privato, uno shock da adulto, quando, avendo di gran lunga superato l’età in cui mio padre mi ha generato, ho valutato che età avevano i miei genitori quando io li vedevo adulti. Per esempio un giorno ho pensato a mia madre morta e ho realizzato che avevo dieci anni più di lei quando è morta. Mio padre mi ha generato che aveva diciassette anni (e mia madre ne aveva quindici), e quando è partito per l’Argentina non aveva ancora ventun anni. […] Improvvisamente, quando è morto davvero, non l’ho visto più come mio padre, l’ho visto come un essere che a undici anni è stato lasciato da suo padre, a diciassette ha avuto un figlio, a diciotto ha avuto una figlia, a ventuno è partito per cercare suo padre» (2). Come si può constatare lo “shock”di Amelio coincide con «quella strana vertigin» descritta da Camus «che lo aveva colto in quel momento, quella statua che ogni uomo finisce per erigere e indurire al fuoco degli anni, insinuandosi in essa per attendervi lo sgretolamento finale, si stava screpolando in fretta, stava già per andare in pezzi» (3). Ragion per cui, retrospettiva(2) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi , Donzelli, Roma 1994, pag. 22. (3) Albert Camus, Il primo uomo , cit., pag. 31.
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mente, con il senno di poi – che è poi quello di Camus, senza citarlo esplicitamente per non svelare il curioso gioco mitobiografico – l’autore di Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994) conclude così quella che chiama «la quadratura del circolo della mia esistenza: se ho un problema come uomo, come individuo in rapporto ai miei genitori è il fatto che oggi li sento giovani, li vedo giovani, non posso avere un’immagine di mia madre, né di mio padre, quando ho visto mio padre adulto ero adulto io, e mia madre non è mai stata adulta perché era sempre bambina. Tutti dicono che io faccio i film sui bambini. Non è vero! […] E chi può dare torto […] a mio padre di essersi lasciato dietro San Pietro Magistano? Io che cosa ho fatto? Io che non ci ritorno e non ci sono ritornato più, che cosa ho fatto? Mio padre ha rimosso la povertà, la povertà della sua famiglia, di suo figlio, del suo paese andando a vedere i grattacieli, ed è rimasto laggiù» (4). Insomma, chi è che parla, Amelio o Camus, magari per bocca di Amelio? In questo montaggio incrociato senza soluzioni di continuità la palla passa a Camus: «Ma ora gli sembrava che quel segreto che aveva cercato con avidità di conoscere attraverso i
libri e le persone, fosse intimamente legato a questo morto, a questo padre ragazzo, a ciò che era stato ed era diventato; e di aver cercato lontano ciò che gli era vicino nel tempo e nel sangue» (5). Ed è sempre Camus, dopo questa premessa, a scrivere che il suo alter ego Jacques Cormery – spianando la strada alla memoria e alle parabole infantili de relato di Amelio – «poteva finalmente dormire e tornare all’infanzia da cui non era mai guarito, a quel segreto di luce, di povertà calorosa che lo aveva aiutato a vivere e a vincere ogni cosa» (6).
L’ALGERIA DEI PADRI RINNEGATI Ma anche con l’altrui riscoperta del padre, di alter ego in alter ego, occorre intendersi: «Nel momento in cui», racconta sempre il regista «ho provato questo struggimento per la giovinezza estrema di mio padre, l’ho assolto di tutti i suoi possibili peccati. Ricordo che mi dicevo: il giorno che mio padre muore continuerò a fare tranquillamente le mie cose perché la sua scomparsa fisica non mi interesserà più di tanto»
(7). Da parte di Amelio questo bisogno di convivenza con l’immagine presente/assente o con figure di riferimento a monte che assumono valenza paterna non potevano che essere mutuate da Camus. Se i ricordi e il connesso meccanismo scatenante appartiene in prima istanza a Camus, non ad Amelio, allora a chi altri potrebbe riferirsi Amelio che non a caso in Il primo uomo in Algeria è voluto tornare da un defunto padre ex milite, a lui quasi del tutto ignoto, contrapposto a una madre viva e profondamente amata? Sembra di sentire il mite sceriffo di Psyco (Psycho , 1960) di Alfred Hitchcock: «Ma se quella donna è la signora Bates, chi è la donna sepolta nel cimitero di Greenlawn?». La casella o la tomba resta infatti vuota, ora più che mai. Si potrebbe provare a riempirla con i padri cinematografici, con cui inevitabilmente un regista cinefilo e profondamente consapevole della storia del cinema come Amelio si trova ogni volta a dover fare i conti. Se in Il ladro di bambini e Lamerica ha fatto i conti con il Neorealismo e in particolare con Roberto Rossellini (Roma città aperta [1945]; Germania anno zero [1947]), o in Così ridevano (1998) con l’eredità melodrammatica di Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli [1960]), nel suo Il primo uomo i padri putativi, scomparsi, respinti, persistenti sono Gillo Pontecorvo o daccapo Luchino Visconti. L’eredità da riconfermare, confutare, capovolgere mette in moto ancora un gioco di ombre paterne. Amelio chiama in causa in maniera persino esplicita, cercando però una prospettiva e una posizione diversa, critica, sconcertata, l’esigua filmografia di Pontecorvo che principalmente ruota attorno a La battaglia di Algeri (1966), attraverso cui dall’Italia, su commissione della Casbah Film, viene rievocata/celebrata a posteriori la lotta armata per l’indipendenza dell’Algeria come prototipo del cinema politico internazionale di impianto marxista, in cui non si pone il problema del rapporto tra violenza e nonviolenza ma tra contrapposte istanze violente legittimate da una sorta di religione laica e dialettica della Storia. E chiama in causa l’atto parzialmente mancato, uno dei tanti atti mancati della filmografia e della teatrografia emblematiche e spesso sommerse di Visconti il quale nel suo quasi rimosso Lo stranie- ro (1967), non a caso prima pretestuoso poi troppo fedele all’omonimo romanzo di Camus, «progettava di prendere spunto dal testo per allargare l’argomen(4) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema , cit., pagg. 23, 25. (5) Albert Camus, Il primo uomo , cit., pag. 32. (6) Ivi, pag. 47. (7) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema , cit., pagg. 23, 25. (8) Pio Baldelli, Luchino Visconti , Mazzotta, Milano 1973, pag. 257. (9) Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico , Marsilio, Venezia 1996, pag. 57. (10) Gianni Rondolino, Visconti , UTET, Torino 1981, pagg. 463-464.
tazione dell’Algeria coloniale del 1938-’39, a una sorta di previsione dell’OAS e della guerra d’indipendenza algerina: trapiantare l’immagine dell’arabo del libro nell’immagine di un’Algeria oppressa che forse un giorno si ribellerà» (8). Del resto i «cenni all’ OAS, all’“Algérie Française” e alla Rivoluzione algerina, che Visconti lasciò circolare come propria primitiva intenzione» (9), non solo non si sono concretizzati nell’originario, ambiguo “progetto” di Lo straniero , ugualmente coprodotto dalla Casbah Film, «che possiamo definire storicopolitico, di attualizzazione del testo sullo sfondo di un’Algeria travolta da una guerra fratricida», ma nemmeno in quello contiguo teatrale di Troilo e Cressida in cui «ambientare la storia scespiriana della guerra fra Greci e Troiani nell’Algeria in lotta fra algerini e francesi: un’idea alquanto peregrina che rimase allo stadio di progetto» (10). Fantasmi paterni, atti, progetti e film mancati, opere incompiute come testi e pretesti per una storia del cinema italiano che torna sui suoi passi in cerca, da un altrove all’altro, di occasioni aperte di riflessione e riscoperta, riscrittura e riscatto.
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I F I L M
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GEORGE HARRISON: LIVING IN THE MATERIAL WORLD
Martin Scorsese
L’anima, probabilmente Giampiero Frasca È strano osservare come la sensazione che scaturisce da molti dei documentari sulle leggende del rock realizzati negli ultimi anni sia di evanescenza. Sensazione ancora più bizzarra se si valuta che ogni singola inquadratura, ogni testimonianza e ogni fotografia d’archivio inserita nelle immagini è riservata al soggetto a cui il film è dedicato. Eppure la sensazione rimane. Per di più rafforzata. Come se una parabola inesorabile, giunta al suo punto più alto dopo un avvio sorprendente, scivolasse lontano, oltre l’esistenza terrena, al di là della fama e del successo, oltre anche la leggenda e la storia della musica, in un empireo lontano, cristallizzato per sempre, inaccessibile e diafano, impalpabile. E struggente. Così è stato per Joe Strummer: The Future Is Unwritten (2007) di Julien Temple e soprattutto per Amazing Journey: The Story of the Who (2007) dell’accoppiata Paul Crowder, Murray Lerner, sicuramente uno dei migliori documenti musicali degli ultimi anni. E così è, indubbiamente, per il ritratto fiume di George Harrison realizzato da Martin Scorsese. Perché se è vero che la semplice sensazione non è di certo una categoria critica, è anche vero che tale impressione è indotta dalla costruzione del documentario, dalle prime inquadrature e dalla personalità stessa del terzo Beatle (il quarto era Ringo, gli altri due inutile citarli), quello giovane, allampanato, con la chitarra. Quello con lo sguardo intenso, rivolto all’obiettivo, ma con il pensiero indirizzato chissà dove. Il film inizia con una zoomata incerta (sono immagini tratte da un home movie ) su un giardino di tulipani, nel cui spazio esiguo delimitato dai bordi dell’inquadratura s’inserisce il volto ormai maturo di George Harrison, che prende posto discretamente dietro il rosso dei fiori e la rigidità degli steli. Presente ma defilato, centrale ma sullo sfondo. Forse il significato di un’intera vita in una sola – illuminante – inquadratura. Immagine che introduce un prologo, prima dei titoli di testa, dedicato al distacco, alla mancanza, al vuoto lasciato, su cui Eric Clapton, Dhani Harrison, suo figlio, Terry Gilliam e Ray Cooper, amico e noto
Titolo originale: id. Regia: Martin Scorsese. Fotografia: Martin Kenzie, Robert Richardson. Montaggio: David Tedeschi. Con: Terry Gilliam, Paul McCartney, Ringo Starr,Yoko Ono, Eric Clapton, Eric Idle, Dhani Harrison, Pattie Boyd, Ray Cooper, Olivia Harrison, Ravi Shankar, Phil Spector, Tom Petty, Klaus Voormann, George Martin, Jackie Stewart, Jim Keltner, Astrid Kirchhner, Jeff Lynne, Jane Birkin, Neil Aspinall, George Harrison (immagini d’archivio), John Lennon (immagini d’archivio), Derek Taylor (immagini d’archivio), Mal Evans (immagini d’archivio). Produzione: Olivia Harrison, Martin Scorsese, Nigel Sinclair per Grove Street Pictures/Spitfire Pictures/Sikelia Productions/Grove Street Productions. Distribuzione: Nexo Digital. Durata: 208’. Origine: USA, 2011. La vita e la carriera di George Harrison, gli anni di gloria con i Beatles, il loro sofferto scioglimento, gli album soli- sti, la vita privata, la riservatezza e il bisogno di spiritua- lità visti attraverso raro materiale di repertorio e raccon- tati dalla testimonianza delle persone che lo hanno cono- sciuto più da vicino.
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session man , riflettono, ognuno a suo modo, in punta di paradosso. A compendio di tutto, le note di commento di All Things Must Pass , title track di quel superbo disco solista del 1970, frutto di anni di attese frustranti, di magnifiche canzoni messe nel cassetto, di un talento purissimo espresso quasi in punta di piedi per non offuscare quello dei due leader incontrastati. «Sunrise doesn’t last all morning / A cloudburst doesn’t last all day». Quasi un elogio dell’effimero travestito da dichiarazione di poetica. O anche la chiave di lettura delle immagini che seguono. Un effimero che, tuttavia, non può non partire dai Beatles, le cui vicende occupano tutta la prima parte del film e l’inizio della seconda, per un totale di poco meno di un’ora e cinquanta. Inevitabile. Così come inevitabile appare l’anomalia di cogliere solo di riflesso natura ed essenza di Harrison attraverso la leggenda del gruppo di Liverpool, e sempre per mezzo di un diaframma fornito dalla testimonianza di Paul McCartney, di Ringo Starr, che ne evoca una doppia personalità, una amabile e l’altra nascosta, rabbiosa, o di Yoko Ono, la cui prospettiva, se ci si fida di ciò che per decenni dissero le malelingue, non può essere che alterata dal suo legame esclusivo con Lennon. Una visione mediata, che non arriva mai a scalfire la corteccia esterna per penetrare nel nucleo di una personalità nascosta e complessa, camaleontica per il bene del gruppo, in qualche modo pirandelliana, pronta a esse-
re colei che mi si crede . Infatti, prescindendo dai consueti volti immaturi e ribelli del periodo amburghese, dai caschetti falsamente ingenui della prima metà dei Sixties o degli occhi profondi alla ricerca dell’oltre del periodo Sergeant Pepper, sono due gli aspetti che colpiscono dell’esperienza con i Beatles, l’astio malamente contenuto con cui Harrison, durante le sessioni di Let it Be , risponde ai consigli di McCartney circa un uso troppo invasivo della chitarra in un passaggio melodico e l’accorato sollievo con cui firma le pratiche che sanciscono la fine legale del gruppo. Su tutto l’impressione di una maschera costantemente indossata, un’indole mai completamente espressa, come se essere parte di quella grande macchina da guerra del rock ne avesse prosciugato l’autentica personalità. Un personaggio lievissimo e una ricostruzione a tratti wellesiana, se si presta fede alla singolarità degli aneddoti, che ne fanno, una volta di più, una figura vaga, indefinibile, prismatica per la ricchezza delle prospettive possibili o f orse semplicemente diafana. Oppure plasmabile, perché attraverso l’irresolutezza del personaggio Harrison è possibile proporre se stessi nella luce più compiacente. Un episodio tra gli altri: Eric Clapton racconta che frequentando la prima moglie di Harrison, Pattie Boyd, pian piano se ne innamorò. Ma per il profondo rispetto che nutriva nei confronti dell’amico, con cui amava jammare per ore nella vastità del giardino della sua
abitazione, lo informò della situazione che stava prendendo corpo, ottenendo da Harrison una risposta che ricorda tanto (troppo?) quella di Viktor Komarovsky a Yuri Zhivago circa la sorte di Lara, «Prendila, è tua, te la regalo». La versione fornita da Pattie, invece, è di segno differente. Sorpresa con Clapton nel giardino di una villa in cui si teneva un ricevimento a cui erano stati invitati, Pattie si sentì chiedere da un Harrison furioso se volesse restare o tornare con lui a casa e optò per il mesto ma riconciliante ritorno in seno alla serenità di coppia. A chi credere? È così necessario credere che una versione sia più vera dell’altra? Oppure entrambe forniscono quel ritratto sfuggente che rappresenta la regola di un documentario nel quale si cerca di afferrare l’inafferrabile? Una cosa è certa. C’è una cesura netta tra il prima e il dopo, tra l’era dei Beatles e ciò che accadde successivamente. Per un musicista dovrebbe essere l’inizio dell’attività solista, oppure della carriera in un altro gruppo reso illustre dal suo nome leggendario. E invece per George Harrison è anche una carriera solista, ma non principalmente. Fine dell’immagine pubblica, del sono come tu mi vuoi , e inizio di quella privata. Quella più vicina alla realtà, probabilmente. Nel post-Beatles c’è spazio per il capolavoro All Things Must Pass , realizzato sotto l’egida di Phil Spector, che fornisce a Harrison forza e coraggio per riesumare dal cassetto suoni personali, riff accantonati, melodie ritenute inadatte e testi rivolti a una trascendenza diventata una sorta di stella polare, di filo conduttore di un’intera esistenza. C’è l’impegno per il Bangladesh con un’imponente operazione di marketing a sostegno dei profughi in fuga dalla guerra tra India e Pakistan che originerà un celebre concerto al Madison Square Garden di New York, un triplo live e un film con le riprese della performance. C’è anche la costituzione di una casa di produzione, la HandMade Films, nata per sostenere finanziariamente il progetto Brian di Nazareth dei Monty Python, e poi dedita ad altre pellicole con un budget sempre piuttosto contenuto (nel listino anche I banditi del tempo di Terry Gilliam, Mona Lisa di Neil Jordan e Shakespeare a colazione di Bruce Robinson). Ma c’è soprattutto spazio per una preponderante dimensione spirituale che pacifica Harrison con se stesso e con ciò che lo circonda. Lontano dallo show business , compromesso accettato a lungo ma stemprante per un carattere la cui vocazione era quella di «voler piantare alberi, stare in silenzio, meditare», come racconta la sua seconda moglie, Olivia, in relazione al suo rifiuto di comparire in serate ufficiali di consegna premi. Meditazione e musica, ricerca di una profondità mistica: una vita che si trasforma in un inesauribile mantra che contraddistingue la seconda parte della sua parabola, costruita in funzione di ciò che con riluttanza aveva accettato nella prima. Con un personaggio come Ravi Shankar a sussumere i due
periodi in un unico continuum , figura di musicista mistico che per Harrison diventa più importante del ridanciano maestro Maharishi Yogi, l’unico – afferma lo stesso Harrison nel film – che lo abbia impressionato pur non avendo mai fatto esplicitamente niente per impressionarlo. Perché, insegna Shankar, il suono è dio e i maestri lo trasmettono non come una tecnica, ma come un dono spirituale. Secondo questa accezione bisogna con ogni probabilità collocare diversamente la sensazione di evanescenza che ammanta tutta l’operazione, sostituendola con un principio ampio e avvolgente di sublimazione, in virtù del quale il soggetto più che defilarsi si eleva, nasconde la sua presenza solo per infondere un’aura precisa, l’immanenza della sua essenza. In tutto questo ampio percorso alla rincorsa della sostanza di un personaggio come Harrison, e prescindendo dalla cura chirurgica con cui le testimonianze/narrazioni sono montate con le adeguate immagini di repertorio, dove si riconosce la presenza di Scorsese, il suo tocco, la relazione con se stesso e con il suo cinema? Si può effettivamente ridurre tutto al riferimento all’“Howard Hughes di Henley”con cui è definita l’ermetica riservatezza di Harrison in una trasmissione televisiva? E anche in questo caso, evanescenza o sublimazione?
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TUTTI I NOSTRI DESIDERI Philippe Lioret
Senza dirlo Roberto Chiesi
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D’autres vies que la mienne (tradotto in Italia da Einaudi col titolo Vite che non sono la mia ) è un libro dal respiro intimo e diaristico dove lo scrittore, sceneggiatore e regista Emmanuel Carrère (La moustache , 1986, da cui ha adattato egli stesso il film omonimo nel 2005; Le détroit de Behring , 1987; La classe de neige , 1995; L’adversaire , 1999; Un roman russe , 2007) si confronta con le storie reali di altre esistenze conosciute durante e dopo il calvario di Juliette, la sorella della moglie, uccisa da un tumore a soli trentatré anni. Fra gli altri, Carrère conosce due uomini: un giudice, Étienne, collega di Juliette, che aveva un profondo rapporto di amicizia e di complicità professionale con la scomparsa, e suo marito Patrice che, fumettista di scarsa fortuna, apparteneva a un mondo diverso dalla donna, anche ideologicamente, ma le era estremamente legato. A Vienne (Isère), Étienne e Juliette avevano condiviso una battaglia legale contro il fenomeno del sovraindebitamento provocato dai crediti al consumo e dagli espedienti truffaldini (condizioni contrattuali a caratteri microscopici) praticati da banche e istituti di credito, ottenendo qualche vittoria significativa. I due giudici erano anche uniti dall’avere vissuto la stessa drammatica esperienza di malattia (un cancro in giovane età), che li aveva lasciati menomati (l’uomo era privo di una gamba e la donna doveva servirsi delle stampelle). La descrizione degli eventi delle loro due vite ne raccontava contemporaneamente una terza, quella di Juliette, la cui personalità aveva segnato entrambi. Da queste pagine, dove Carrère interroga la dimensione estrema della sofferenza e della morte che si aprono davanti a una giovane donna e madre, nel pieno della vita e della carriera, Philippe Lioret ha tratto un romanzo cinematografico, incentrato sui due temi essenziali del libro, la malattia senza speranza e la truffa legalizzata del “credito al consumo”. Ha quindi convertito il racconto in prima persona di Carrère in una storia incentrata sull’incontro di due individui di generazioni diverse, con due famiglie e storie differenti alle spalle, che esercitano lo stesso mestiere di giudici a Lione (anziché a Vienne). Lioret e il suo sceneggiatore
Titolo originale: Toutes nos envies. Regia: Philippe Lioret. Soggetto: dal libro Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère. Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol. Fotografia: Gilles Henry. Montaggio: Andréa Sedlackova. Musica: Flemming Nordkrog. Scenografia: Yves Brover. Costumi: Anne Dunsford. Interpreti: Marie Gillain (Claire) Vincent Lindon (Stéphane), Amandine Dewasmes (Céline), Yannick Rénier (Christophe), Pascale Arbillot (Marthe), Isabelle Renauld (la dottoressa Hadji), Laure Duthilleul (la madre di Claire), Emmanuel Courcol (il dottor Stroesser), Anna-Bella Dreyfus (Mona), Thomas Boinet (Arthur), Lena Crespo (Léa), Oriane Solomon (Zoé), Eric Naggar (l’avvocato Amado), Jean-Pol Brissart (il presidente Duret). Produzione: Philippe Lioret, Marielle Duigou , Stéphane Célérier, Christophe Rossignon per Fin Août Productions/Mars Films/France 3 Cinéma/Nord-Ouest Films/Rhône-Alpes Cinéma/Mac Guff Ligne. Distribuzione: Parthénos. Durata: 120’. Origine: Francia, 2011.
Claire è una bella donna poco più che trentenne, appa- gata nella vita privata e professionale: sposata con Christophe, un cuoco momentaneamente senza impie- go, che l’adora e da cui ha avuto tre figli, è giudice al tribunale di Lione. Rimane colpita dal caso di Céline, giovane madre di un’amica di sua figlia, che un istitu- to di credito ha trascinato in Assise come debitrice insolvente. Scopre così il sistema perverso del “credito al consumo” che strangola gli sprovveduti prestando loro denaro con interessi altissimi. Claire si appassiona al caso e, per superare ostacoli frapposti dalla stessa magistratura, chiede il sostegno di un giudice esperto, Stéphane che, inizialmente scettico, presto decide di sostenerla nella sua battaglia. Ma c’è un’altra, atroce, battaglia che Claire deve affrontare: un glioblastoma, un cancro al cervello che secondo i medici le lascia poco tempo da vivere. La donna decide di non seguire nessuna terapia e di nascondere il suo male a tutti, fin- ché casualmente Stéphane lo scopre. Inizia una corsa contro il tempo.
Courcol hanno modificato non poco la fisionomia dei due protagonisti rispetto ai modelli reali. Si sono ispirati a Étienne per inventare Stéphane, un magistrato di oltre cinquant’anni che non ha vissuto le terribili sofferenze fisiche e psicologiche del giudice di Vienne e, nel tempo libero, si dedica con passione all’attività di allenatore (1) di rugby (un elemento che, come l’età matura di Stéphane, provengono da un altro giudice descritto nel libro, Jean-Pierre Rieux). Dopo anni di prassi giudiziaria, l’uomo ha finito per rinunciare all’idealismo della gioventù, offuscato da delusioni e disincanto, ma ritrova l’energia di combattere per le sue convinzioni etiche grazie all’incontro con Claire. Questo personaggio ha in comune con la Juliette di Carrère l’ottimismo della volontà e la dedizione alla giustizia ma non la scelta di tacere a tutti la propria malattia e la rinuncia a qualsiasi forma di cura, perché ritiene che ritarderebbe solo l’inevitabile a prezzo di inutili umiliazioni fisiche e psicologiche. Inoltre Lioret ha eliminato dal film la diversità ideologica fra Juliette e Patrice (lui di sinistra, lei di destra) e ha aggiunto una motivazione personale all’attaccamento della donna verso Céline: la sua infanzia travagliata dall’irresponsabilità di una madre costantemente esposta a debiti e insolvenze (a questo proposito, è da ricordare la sequenza in cui Claire, subito dopo avere scoperto la malattia, si reca a trovare la madre, con cui ha un dialogo teso e pieno di incomprensioni, ma evita di parlarle del proprio dramma). Come in quasi tutti i suoi film, Lioret ha quindi tessuto una trama drammatica – in questo caso un vero e proprio mélo, sia pure dal pathos trattenuto – basata sull’incontro di due individui, sul loro confronto reciproco, sugli effetti che il loro rapporto provoca nelle esistenze rispettive. Come in Welcome , ha trovato una materia romanzesca in cui calare un nucleo di denuncia sociale e civile – il vampirismo degli istituti bancari e di credito che sfrutta i meccanismi più perversi del credito al consumo – un tema centrale anche nel libro di Carrère – e (a quanto pare con qualche disinvolta semplificazione dei passaggi giuridici) lo ha reso un fenomeno speculare e parallelo al cancro che divora rapidamente la vita di Claire.
LA DIMENSIONE DEL SILENZIO Le due guerre che scorrono binarie nel film in due dimensioni diverse – il privato di Claire e il pubblico della sua professione – costituiscono un’efficace soluzione narrativa per rendere ancora più straziante la denuncia dell’iniquità sociale di un sistema che spreme i poveri e gli ingenui con un’usura legalizzata, illudendoli di vantaggi inesistenti. Soprattutto perché sottomette la lotta di Stéphane e Claire all’urgenza di un tempo contato. Ma il parallelismo cancro/sovraindebi(1) Curiosamente era un allenatore (ma di nuoto) anche Simon, il personaggio interpretato da Vincent Lindon nel precedente film di Lioret, Welcome (2009).
tamento non ci sembra costituire l’aspetto più sottile e interessante del film. L’elemento che rende più emozionante e segreto Tutti i nostri desideri , è il non detto, il silenzio ostinato di Claire sul proprio male, mantenuto fino a ricorrere spudoratamente a fragili bugie (quando viene ricoverata d’urgenza e spaccia Stéphane per il proprio padre, davanti a lui…).Un silenzio che sottintende un ventaglio di reazioni diverse e contraddittorie – rifiuto inconscio del proprio male, pudore – e che conferisce una tinta emotiva più profonda al film e una dimensione ancora più drammatica a Claire, a lungo sola con quella consapevolezza, e perché si attende con angoscia il momento in cui la verità dovrà uscire allo scoperto. Silenzio e non detto che si riflettono nella reticenza assoluta che domina la relazione fra Stéphane e Claire. Probabilmente Lioret è rimasto colpito da una frase nel libro, dove Carrère,riferendosi a Etienne, scrive:«Ciò che ha detto senza dirlo, è che era innamorato di lei». Non si saprà mai se l’amore fra Stéphane e Claire rimanga limitato a un profondo affetto platonico – oltretutto tutelato da un rispetto perfino eccessivo per la forma: si daranno sempre e solo del “lei” – a causa delle rispettive famiglie e soprattutto dell’orrore della malattia e della morte incombente, oppure se, diversamente, il loro rapporto si sarebbe spinto oltre. Il titolo assegnato da Lioret si riferisce all’ipocrita formula con cui i contratti solleticano l’ansia consumistica delle loro vittime («Soddisferete
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tutti i vostri desideri») e, allo stesso tempo, al desiderio di vincere quella guerra che per Claire avrebbe dovuto essere la prima di una lunga carriera e invece sarà l’ultima. Ma può alludere anche al desiderio, al sentimento provato da Stéphane, che rimane incompiuto e vedovo prima di essere vissuto. La sua scoperta della malattia di Claire avviene significativamente dopo una sequenza centrale che è la più bella e riuscita del film: quando la donna, accompagnata in automobile dall’amico giudice all’ospedale (dove gli ha raccontato che è ricoverata la madre), gli chiede di fare una deviazione verso la zona di un lago artificiale dove trascorreva le vacanze da adolescente. Nella sequenza confluiscono vari motivi: la vicinanza dei corpi di Stéphane e Claire, liberi dai vestiti quando si immergono nelle acque fredde, la nostalgia della donna per il suo passato nel momento in cui sa di non avere più futuro, l’intimità di quella confidenza fatta a Stéphane. Su tutti prevale il clima di ansia, quasi di suspense quando la donna decide di raggiungere a nuoto un pontile, incurante dell’indebolimento del suo corpo. Riesce faticosamente ad arrivarvi ma, quando vi si distende, trema sensibilmente e, durante la nuotata di ritorno, all’improvviso collassa e Stéphane deve intervenire a salvarla. Di lì a poco la costringerà a farsi ricoverare al pronto soccorso per un controllo ed emergerà la verità. È una sequenza dove tutto rimane latente e l’unico fenomeno che emerge allo scoperto è la finora invisibile fragilità fisica di Claire, minata dal male. Il loro solo reale contatto fisico si verifica in quel momento – quando Stéphane la cari-
ca sulle spalle per condurla a nuoto alla riva – ma non ha nulla a che vedere con la sensualità, bensì con il suo deperimento fisico. Rispetto al libro, Lioret ha aggiunto anche una sequenza in cui, in ospedale, il marito Christophe ha uno scatto di gelosia quando scopre che Stéphane conosceva già le condizioni della moglie e gli chiede di andarsene. È significativo il parallelo delle ultime due sequenze, a distanza di tempo dalla morte di Claire (celata da un’ellissi, a differenza che nel libro di Carrère). Céline e Christophe, evidentemente uniti anche sentimentalmente, entrano nella casa coi figli, in un’immagine silenziosa che esemplifica la necessità che la vita continui anche dopo la morte. Nell’ultima sequenza, invece, vediamo Stéphane, da solo, che guarda turbato gli oggetti di Claire ammassati negli scatoloni in attesa di essere portati via dal suo studio. Il vedovo è lui, a cui rimane solo un’amarissima e quasi irrisoria soddisfazione dalla notizia che hanno vinto la loro battaglia. Se Tutti i nostri desideri riesce a evitare ogni rischio di patetismo, gran parte del merito va agli attori:Vincent Lindon ha un’intensità espressiva di sguardi e gesti, nonché fisica, che lo confermano come uno dei più grandi attori francesi della sua generazione. Marie Gillain, che ha lottato per avere il ruolo di Claire, inizialmente destinato a un’altra attrice, si libera definitivamente del ruolo di eterna ragazza di cui sembrava prigioniera in Francia; ma il pubblico francese, stranamente, ha rifiutato l’audacia sua e del film, che ha avuto un modesto esito commerciale Oltralpe.
TO ROME WITH LOVE Woody Allen
Tracce di materia e niente accademia Luca Malavasi Per capire e magari amare questo sogno di/in una Roma di mezza estate, bisogna amare un po’ il teatro, lasciar perdere almeno un po’ il Cinema, ricordarsi di Shakespeare e di quanto fosse – nel comedy , almeno – un autore solennemente pop (Elfo docet ). Con tutti i suoi fantasmi, veri o fatti soltanto della materia del sogno e del ricordo; con i suoi tempi compressi e tagliati, sia per la tragedia, sia per la commedia; con quel senso del levare e del trasportare – anche solo per una scena – il suo mondo intrec-
Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Alisa Lepselter. Scenografia: Anne Seibel. Costumi: Sonia Grande. Interpreti: Alec Baldwin (John), Jesse Eisenberg (Jack), Ellen Page (Monica), Woody Allen (Jerry), Judy Davis (Phyllis), Fabio Armiliato (Giancarlo), Roberto Benigni (Leopoldo Pisanelli), Alessandra Mastronardi (Milly), Alessandro Tiberi (Antonio), Penélope Cruz (Anna), Antonio Albanese (Luca Salta), Greta Gertwig (Sally), Flavio Parenti (Michelangelo), Alison Pill (Hayley), Riccardo Scamarcio (il ladro), Ornella Muti (Pia Fusari), Sergio Solli (l’autista di Leopoldo), Roberto Della Casa (lo zio Paolo), Ariella Reggio (la zia Rita), Gustavo Frigerio (lo zio Sal), Simona Caparrini (la zia Giovanna), Sergio Bustric (il signor Masucci), Lina Sastri (l’amica al cinema), Donatella Finocchiaro (la giornalista), Ninni Bruschetta (il detective dell’hotel), Giuliano Gemma (il direttore dell’hotel), Maria Rosaria Omaggio (una passante), Augusto Fornari, Mariano Rigillo, Gian Marco Tognazzi (i clienti di Anna), Pierluigi Marchionne (il pizzardone). Produzione: Letty Aronson, Francesco Marras, Stehem Tenebaum per Gravier Productions/Perdido Productions/Medusa Film/Mediapro. Distribuzione: Medusa. Durata: 102’. Origine: USA /Italia/Spagna, 2012. A Roma, in mezzo al traffico di Piazza Venezia, un piz- zardone ci introduce a diversi incidenti sentimentali che hanno avuto come teatro la Città Eterna. Il famoso archi- tetto John, che a Roma ha vissuto gli anni della sua gio- vinezza, rivive attraverso l’esperienza del giovane Jack una sbandata per l’amica della sua fidanzata. Il regista di opera in pensione Jerry, scoperte le virtù canore del futu- ro consuocero, becchino dall’ugola d’oro, si incaponisce a volerlo lanciare nel mondo della lirica. Leopoldo Pisanelli, persona normalissima, un giorno scopre di esse- re diventato uno degli uomini più famosi d’Italia; ma cele- brità si rivela assai scomoda. Antonio e Milly, sposini novelli, arrivano a Roma da Pordenone per far visita agli zii bacchettoni di lui. Per una serie di casualità, la coppia rimane separata per un giorno intero.
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ciato in un set che non esiste e non c’entra (apparentemente) nulla: nulla: con tutto questo questo e molto altro ancoancora, un Woody Allen Allen “a pezzi” – ma in senso buono, buonissimo buoniss imo – racconta di una Roma che non c’è, che è una memoria sbiadita e recuperata in due modi diversi: attra attraverso verso il cinema, cinema, che ha smesso smesso di omaggiare in modo diretto da almeno vent’anni e che adesso richiama richiama come se fosse vita, perché la sostituzione è ormai definitiv definitiva a e radicale, e perché il cinema è un linguaggio linguaggio buono per pensare pensare e ricordare; ricordare; e attraverso un immaginario mélange di musica opera teatro quadri storie facce all’italiana che non ha proprio un bel niente di turistico turistico o “da cartolina”, cartolina”, così come non l’aveva la Parigi di Midnight in Paris o la Barcellona di Vicky Cristina Barcelona , e che è inveinvece ben consapevole del luogo e del senso comune, dello sfacciatamente sfacciatamente riconoscibile, del narrativamennarrativamente abusato. abusato. Del resto Roma – proprio proprio come Parigi Parigi – è solo e soltanto soltanto un set di misteri e sorprese, sorprese, incontri fugaci fugaci e storielle perse perse e ritrovate. ritrovate. Una città di rovine, un set set fatto fatto di tanti altri set, set, pezzi di storia che non guardano al passato remoto ma a quello recente – e la rovina vale come testimonianza assoluta di storia, senza dover aggiungere aggiungere nient’altro. nient’altro. Allen gira gira la sua Roma Roma felliniana felliniana,, non da o di Fellini (già fin troppo omaggiato in Stardust Memories ); ); attr attrave aversa rsa Roma come se fosse Fellini,
con lo stesso modo curioso e insolente (dal punto di vista cinematografico), consapevolissimo che nella Città nient nientee si tiene perch perché, é, tutto tutto,, appun appunto, to, è framframmento o memoria memoria,, fuga fugace ce apparizion apparizionee (anche (anche di attori del cinema italiano) o passaggio frettoloso; come si può raccontare una storia, quando si è dentro un set set del genere? Piuttosto, bisogna accettare accettare una specie specie di mimetismo mimetismo contagioso, contagioso, e strutturale: strutturale: Roma – questa questa Roma che non esiste e che è, semmai, una specie di sintesi schizofrenica di romanità e italianità – impone il ritmo e l’andamento, l’andamento, i colori locali e il sentimento sentimento “medit “mediterran erraneo”, eo”, propr proprio io come Parigi dava letteralmente forma al racconto di Midnight in Paris . Solo che Parig Parigii è una città notnotturna e magica magica e ordinata in lunghi viali, da interni e bistrot , mentre Roma è solare solare e intricata e un po’ oscena: oscen a: non serve serve tornare tornare indietro e viaggiare viaggiare nel tempo;; a Roma c’è tempo c’è solo da da prendere, prendere, inseg inseguire, uire, aggi aggi-rarsi per strada, en plein air , come fa fa all’inizio all’inizio del film la provinciale in attesa di conoscere i parenti del fidanzato fidanzato,, e che è destinata destinata (naturalmen (naturalmente) te) a perdersi. perde rsi. Rovi Rovine ne e perdita, perdita, appun appunto, to, sole e confus confusioione; ecce eccess sso, o, acc accumu umulo lo,, com compre pressi ssione one.. Rom Roma a decide, decide, Allen ascolt ascolta, a, guar guarda da e filma. filma. I luoghi luoghi comuni sono sono l’essenza, l’ess enza, l’ecces l’eccesso so melodrammati melodrammatico co il basso profondo: fon do: una sig signor nora a tira tira fuori fuori un un coltel coltello, lo, cos così, ì, per vendicare l’umiliazione del marito; nessuno si farà
male, è solo opera, o forse operetta operetta da quattro quattro soldi. soldi. Machina Machi na fissa fissa,, front frontale, ale, paret paretii chiuse chiuse dalle quint quinte e dell’inquadratura. In questo set brulicante e in qualche modo già deciso , Allen dirige un traffico che non intende del tutto domare (che cosa ci sta a fare quel vigile distratto all’inizio del film, se non a suggerire che il flusso è disordinato e inarrestabile?); butta nell’arena lo straniero innamorato – di una donna, o forse due, e della città – e lascia che i suoi occhi facciano il resto; resto; gli presta presta la penna penna mentre ne ne duplica lo sguardo, proprio come ha fatto in Midnight in Paris grazie al camminatore camminatore notturno Gil. E si costruisce costruisce anche un alibi, perché l’americano Allen può guarguardaree Roma solo dar solo così, così, o vuole vuole guarda guardarla rla così, così, per quello che sembra e fa vedere, vedere, umilmente disinteressato allo spirito segreto (Barcelona Paris Rome, tuttee nel titolo: tutt titolo: guide guide,, appun appunto, to, anch anchee se non turistituristiche,, ma per inn che innamo amorat rati). i). E poi, poi, al suo ero eroe, e, pre prest sta a pure un curioso fantasma proveniente da un passato imprecisato, imprecisato, che come tante altre cose in questo film sovraccarico sovraccarico è una presenza presenza provvisoria, provvisoria, non del tutto a fuoco, fuoco, priva di tenuta tenuta drammaturgica e “morale”; uno dei tanti frammenti frammenti che compongono questa quest a ricetta ricetta un un po’ carne carneval valesca esca e pacchiana pacchiana.. E quando si ride non è soltanto per la battuta intelligente al posto posto giusto; si ride per la sorpresa di un
film lasciato andare, libero e sfacciatamente “basso” e, app appunt unto, o, fro fronta ntale le in in un sen senso so più più prof profond ondo, o, costruito con piccole pennellate di colori primari. La Roma di Allen Allen è una città divisio divisionista nista:: nient niente e sfumature, e la sintesi allo spettatore. En plein air , appunto, tracce di materia e niente accademia.
L’ecc ’eccesso esso,, così, non è semplicemente semplicemente di casa; casa; è l’unico registro possibile possibile,, con conseguente conseguente rispolver rispolveroo del basso da operetta e dell’alto passionale da opera. Fin troppo facile azzardare una somiglianza tra l’Allen dentro il film e quello dietro la macchina macchina da presa; ma il gioco da accettare è proprio il medesimo. medesimo. In quella platea in abito da sera che ascolta un becchino cantare arie d’opera mentre s’insapona sotto un getto d’acqua corrente sta la geniale follia di questo film scritto e diretto a mano libera e volutamente un po’ distratta, e l’incontro – consapevolmente impossibile, se non in forme disarmoniche o in armonie completamente nuove – tra due culture e due storie e due modi di fare cinema. cinem a. Ci sono troppi troppi amori tra cui cui scegliere, scegliere, troppa procacità a cui arrendersi. La Roma – e l’Italia – di Allen sta in questa confusione di desideri e storie e luoghi, da cui il regista si lascia volentieri travolgere travolgere e, come si diceva, diceva, contag contagiare, iare, senza opporre opporre grandi grandi difese. Parigi è la città della testa e degli amori intellettuali, Roma quella quella dei sensi sensi e degli eccessi. eccessi. Da filmare filmare in modo scomposto, scomposto, con buona pace del “bel” “bel” cinem cinema. a.
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DARK SHADOWS Tim Burton
Forever Young Simone Emiliani Come un vampiro che esce dalla bara dopo secoli e guarda quello che è successo, Dark Shadows ha gli occhi di Collins, ma in realtà sono ancora quelli di Tim Tim Burton. In realtà quasi un un unico corpo mutante, mutante, con le molteplici reincarnazioni reincarnazioni di Johnny Depp, Depp, più doppio che filtro, come fosse una figura figura a distanza che in tutta l’opera del cineasta cineasta statunitense, anche quando è troptroppo vicino o troppo troppo lontano, lontano, sta filmando attraverso il suo sguardo anche nel momento in cui è presente nell’inquad l’in quadratur raturaa o sta agendo. agendo. Da Beetlejuice a Dark Shadows , un viaggio onirico ininterrotto ininterrotto,, che attraversa attraversa luoghi geografici geografici distanti ma anche secoli secoli differenti. E quest’ultimo quest’ulti mo film ritorna proprio proprio lì, in una specie specie di casa infestata, con tutti i segni del tempo. Non più spiriti cialtroni, cialtroni, come quello di Michael Keaton, ma figure che riappaiono dall’aldilà dall’aldilà o reincarnate, che non hanno risolto ancora i loro conti in sospeso. Sembrava essersi chiuso in un congegno certamente perfetto e riconoscibilissimo, riconoscibilissimo, ma al tempo stesso pericopericoloso, il cinema di Burton, soprattutto in quel duplice passaggio tra La fabbrica di cioccolato e Sweeney Todd in cui il lavoro su un soggetto preesistente subiva il consue-
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Titolo originale: id. Regia: Tim Burton. Soggetto : John August, Seth Grahame-Smith, Grahame-Smith, dall’omo dall’omonima nima serie televisitelevisiva ideata da Dan Curtis. Sceneggiatura: Seth GrahameSmith. Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: Chris Lebenzon. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Rick Heinrichs. Costumi: Colleen Atwood. Interpreti: Johnny Depp (Barnabas Collins), Michelle Pfeiffer (Elizabeth Collins Stoddard), Stoddard), Helena Bonham Bonham Carter (la dottoressa dottoressa Julia Hoffman), Eva Green (Angelique Bouchard), Bouchard), Jackie Earle Haley Haley (Willie (Willie Loomis), Loomis), Jonny Lee Miller (Roger (Roger Collins), Colli ns), Bella Heathcot Heathcotee (Victoria (Victoria Win Winters/Jo ters/Josette sette DuPres), Chloë Grace Grace Moretz (Carolyn (Carolyn Stoddard, Stoddard, Gullive Gulliver r Mcgrath (David (David Collins), Collins), Christophe Christopherr Lee (Clarney), (Clarney), Alice Cooper (se stesso), Ivan Kaye (Joshua Collins), Susanna Cappellano (Naomi (Naomi Collins), Josephine Butler Butler (la madre di David Da vid), ), Jus Justin tin Trac racyy (Barnaba (Barnabass da piccolo piccolo), ), Ale Alexia xia Osborne (Victoria (Victoria da piccola), Raffey Cassidy (Angelique (Angelique da piccola). Produzione: Ri Rich char ardd D. Za Zanu nuck ck,, Jo John hnny ny Depp,, Graham King, Depp King, David Kennedy Kennedy,, Christi Dembrowski, Dembrowski, Katterli Frauenfelder per Dan Curtis Productions/GK Films/Infinitum Nihil/Tim Burton Productions/Village Roadshow Pictures/W Pictures/Warner arner Bros. Pictures/T Pictures/The he Zanuck Company. Distribuzione: Warner Bros. Durata: 113’. Origine: USA, 20 2012 12.. Secolo XVIII. Barnabas Collins, signore ricco e potente, s’innamora di Josette DuPres. Infrange così il cuore di Angelique, una strega, che si vendica trasformandolo in vampiro e facendolo seppellire vivo. Circa due secoli dopo viene inavvertitamente liberato. Ritorna nella sua vecchia tenuta e si accorge che il mondo è com- pletamente cambiato. I suoi eccentrici eredi, però, non se la sono cavata cavata molto bene e la loro attività è in rovina. Collins, che affida aff ida il segreto della sua identità alla matriarca Elizabeth, cerca di recuperare l’antico splendore del nome di famiglia. Ma in città c’è qualcuno che vuole ostacolare il suo scopo. Si chiama Angie, che è simile in maniera impressionante a una sua vec- chia conoscenza…
to lavoro di vampirizzazione e trasformazione all’interno dei segni, delle atmosfere, delle zone dark del cineasta. E lo stesso Johnny Depp era attore/marionetta di un cinema che, nel privilegiare l’oggetto, le architetture scenografiche, stava davvero correndo il rischio di inanimarsi rispetto allo straordinario equilibrio nello scarto tra figura e ambiente che aveva toccato il culmine proprio in Edward mani di forbice , nella crudeltà originata dal vuoto che si è creato in una frattura dove la volontà individuale s’infrange con la volontà della collettività. Corpi, segni, prospettive riprendono forma nella sperimentazione del 3D nel passaggio importante ma eccessivamente incompreso (anche dagli stessi fans burtoniani) di Alice in Wonderland . Con questo film il suo cinema, magicamente, riparte da zero, o almeno dagli inizi; potrebbe essere ipoteticamente collocato nella filmografia del regista della seconda metà degli anni Ottanta.
UGUALE E DIVERSO Se il proposito di svecchiamento del cinema di Scorsese è rimasto essenzialmente un magnifico progetto solo teorico in Hugo Cabret , il 3D del film precedente di Burton, invece, ha creato un magnifico caos, dove i punti di riferimento di un’opera in cui era fortemente marcata l’identità di chi l’aveva costruita si è rimessa in discussione. Burton nel suo cinema è sempre il costruttore, come il dottor Frankenstein di un suo ottimo corto degli esor-
di, Frankenweenie . Il regista è ancora il suo mostro gentile; stavolta lo scienziato, però, cede spazio al sognatore. Forse dentro questo film c’erano più progetti: ancora la fiaba gotica, oppure il melodramma,oppure l’horror, con Christopher Lee nei panni di un capitano che ritorna nella sua opera, come era avvenuto in Il mistero di Sleepy Hollow per una danza dei morti tra la casa Hammer, Roger Corman e Mario Bava. Ma c’è anche la svolta clamorosa dentro gli anni Settanta, dove Burton/Depp/Collins si muovono come catapultati da un altro secolo, da un altro pianeta con esiti irresistibili, senza però nessuna parodia, in un cinema che non solo si è scrollato di dosso tutte le scorie del tempo, ma appare già ora eterno, forever young , sublime non solo in senso kantiano (il mare in tempesta di La cri- tica del giudizio è un’immagine che ritorna più volte), e che s’inoltra alla ricerca di nuovi abissi, esplora altre profondità, con una passione per quel periodo simile a quella di J.J. Abrams in Super8 . Quest’ultima è di un’assoluta purezza cinematografica; quella di Burton, invece, è un ritorno alla propria memoria, dove forse si è materializzata l’immaginazione del regista bambino che nel 1972 aveva quattordici anni, sospeso tra fiabe nere, cartoon, miti sepolcrali ma anche una passione musicale dove i brani non sono solo colonna sonora, ma stavolta, proprio in un suo film, scorrono nelle vene, tra Olivier Assayas e Wes Anderson. Il sangue non è più quello iconografico di Sweeney Todd . Dagli occhi di Collins, quando all’inizio perde la
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sua amata ed è condannato alla vita eterna, esso si espande come elemento liquido in continuo movimento, come l’acqua del mare che s’infrange sugli scogli e segna i passaggi del desiderio di normalità e immorta- lità (la dottoressa, interpretata da Helena Bonham Carter, se ne vuole impossessare) e si sente il flusso dei suoi passaggi anche se non si vede. Dark Shadows potrebbe essere come il corpo umano, da studiare da un punto di vista anatomico e scientifico, altra creatura costruita dal suo creatore. Ma poi i pezzi saltano; si cercano di rimettere al loro posto ma gli effetti non sono più quelli previsti. Burton crea un meraviglioso inganno. All’inizio con una falsa identificazione col proprio cinema (tutto il prologo del tragico destino di Collins), poi con uno smascheramento e fuga.
FILM-ROCK
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I primi dieci minuti di Dark Shadows sono da urlo. Come un contagio, come un altro passaggio sanguigno da un vampiro che ha già inebriato la testa e messo in subbuglio tutti i sensi. Il resto del film è ancora più bello: esplosivo, ironico, bizzarro, tragico. Soprattutto, si è spiazzati da come un regista come Burton riesca a guardare l’adolescente ribelle (Chloë Grace Moretz, già vista in (500) giorni insieme e Hugo Cabret , è uno dei passaggi più forti nel suo cinema della leva di giovanissime attrici statunitensi, simile a quello di Winona Ryder in Edward mani di forbice , di Alison Lohman in Big Fish e di Mia Wasikowska in Alice in Wonderland ) chiusa nella sua stanza, Michelle Pfeiffer che ritorna dagli anni Ottanta, e precisamente da Le streghe di Eastwick , con tutto un immaginario vissuto e reinventato. Era da Big Fish che il cinema del regista non aveva questa innocenza e non arrivava così dritto al cuore. Tutte leggende,qui, possono essere vere, tutte le favole
assumono contorni sinistri e deliranti. Dark Shadows è il vero elogio della follia di Burton. Il trapasso emozionante di Big Fish fra la vita terrena e l’aldilà, una delle più belle morti al cinema dell’ultimo decennio, trova qui il suo esatto, speculare contrario nel ritorno alla vita del vampiro che resta spiazzato da ogni cosa che vede, è spaventato e attratto dalla modernità e perde volontariamente la sua immagine, come Burton smarrisce, si reimpossessa e si diverte a riperdere il proprio cinema; un’immagine di sé che riconosce nel quadro della casa, per poi sparire nuovamente mentre si lava i denti davanti lo specchio. Come in Big Fish , non c’è stata mai una sintesi tanto perfetta tra passato e futuro, nella quale ogni istante si vorrebbe rivivere, e rivedere più volte. Proprio come l’arrivo di Vicky in treno, all’inizio, sulle note di Nights in White Satin dei Moody Blues, canzone da riascoltare in un momento da rivedere più volte, fin quasi a consumarlo. I colori raggelati di La fabbrica di cioccolato esplodono sulle superfici di Dark Shadow . Non solo il sangue, ma anche l’auto rosso fuoco di Eva Green (davvero un’interpretazione da oggetto smontabile e ricomponibile, sulle tracce dei corpi di La morte ti fa bella di Zemeckis) fanno penetrare una luce forte in un film di continui risvegli percettivi, grazie anche a una partitura visivo-sonora il cui merito è da spartire con la musica del fedelissimo Danny Elfman. Ma il momento in cui questo contrasto cromatico esplode è nell’happening , la festa. La dimensione dark di Burton s’incrocia con tonalità accese, e la stessa presenza di Alice Cooper sposta la pellicola nelle zone vergini del film-rock, con un’autoironia inconsueta evidente nell’incontro di Collins con i “figli dei fiori”, nel quale i dialoghi sembrano arrivare quasi da una commedia demenziale nel momento in cui il protagonista cita la frase-clou di Love Story – libro che ha letto con Vicky – «Amare significa non dover mai dire mi dispiace», evidente anche nel ribaltamento dei simboli della modernità (la “M” di MacDonald associata a Mefistofele). Anche per questo film non c’è un soggetto originale, ma la serie televisiva creata da Dan Curtis. Eppure, ancora una volta il cinema di Burton se ne impossessa in una continua sovrapposizione di giochi, visioni, sovrapposizioni, dove gli oggetti si trasformano, i dipinti sembrano animarsi (come avviene realmente nel finale). L’incredibile elasticità del film è presente nella scena di sesso tra Collins e Angelique, tra videoclip e cartoon: aver pensato un momento così evidenzia un estro fuori dal comune; realizzarlo e poi inserirci gli effetti speciali è un’incrocio tra genialità e follia. Non c’è solo la tradizione dei film sui vampiri in Dark Shadows , ma tutto il mito del Romanticismo dell’ottocento che incontra The Rocky Horror Picture Show . Forse il film diretto da Jim Sharman è uno dei motivi ispiratori, non solo per una sessualità sempre sul punto di esplodere, ma per il concerto di suoni, musiche e colori. Una casa-giocattolo che, nel momento in cui si accende, diventa memorabile spettacolo.
HUNGER Steve McQueen
Estetica del corpo che resiste Federico Pedroni 1981. In dodici anni il conflitto in Irlanda del Nord ha causato duemilacentottantasette morti e sembra lontano da ogni soluzione possibile. Sotto il governo di Margaret Thatcher le posizioni si sono ulteriormente irrigidite. Belfast è una città sotto assedio e il livello del conflitto all’interno delle carceri inglesi dove sono rinchiusi i militanti dell’Irish Republican Army è sempre più alto. Ormai la partita si gioca in una guerra di nervi (non meno sanguinosa di quella che quotidianamente va in scena per le strade) tra il governo che rifiuta il riconoscimento di uno status politico ai prigionieri irlandesi, costringendoli al ruolo di criminali comuni, e i carcerati che adottano forme di protesta sempre più eclatanti. Da tempo, dopo gli scioperi della fame che avevano attirato l’attenzione della comunità internazionale e suscitato qualche timida spinta al dialogo dal Vaticano, i detenuti hanno smesso di lavarsi e di indossare le uniformi della prigione, vivono in uno stato fiero e animalesco, con barba e capelli incolti, in celle rivestite dai loro stessi escrementi. Hunger , il film di esordio del 2008 del videoartista britannico Steve McQueen che ha vinto la Camera d’Or a Cannes e arriva nelle nostre sale cercando di sfruttare il clamore mediatico dello “scandaloso” Shame , presenta questi elementi in rapida successione: cartelli iniziali per contestualizzare gli eventi e poche e precise inquadrature per coglierne il senso ed evocare la ferocia di una divisione fratricida. Un campo lungo all’interno di un carcere dove i detenuti battono oggetti a terra, come in un rito di protesta percussiva. Stacco. Le mani segnate dai pestaggi di un agente della polizia penitenziaria che, tornato a casa, cerca di cancellare segni indelebili dal proprio corpo, riappropriandosi di una normalità negata, in un ambiente piccolo borghese che stride in contrasto con i claustrofobici muri della prigione. La scena successiva mostra la quotidianità estraniata dei secondini, che si lavano e si vestono prima di entrare in carcere, trasformandosi anche nelle relazioni, dismettendo un’umanità destinata a restare negli armadietti dello spogliatoio per indossare un’uniforme ancor più emo-
Titolo originale: id. Regia: Steve McQueen. Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen. Fotografia: Sean Bobbitt. Montaggio: Joe Walker. Musica: Leo Abrahams, David Holmes. Scenografia: Tom McCullagh. Costumi: Anushia Nieradzik. Interpreti: Michael Fassbender (Bobby Sands), Liam Cunningham (padre Dominic Moran), Lalor Roddy (William), Stuart Graham (Raymond Lohan), Brian Milligan (Davey Gillen), Liam McMahon (Gerry Campbell), Laine Megaw (la singora Lohan), Helena Bereen (la madre di Raymond), Karen Hassan (la ragazza di Gerry), Frank McCusker (il direttore del carcere), Helen Madden (la signora Sands), Des McAleer (il signor Sands), Ciaran Flynn (Bobby a dodici anni), Geoff Gatt (l’uomo con la barba), Rory Mullen (il sacerdote), Ben Peel (l’agente antisommossa), Paddy Jenkins (il sicario), Billy Clarke (l’ufficiale sanitario), B.J. Hogg (l’inserviente lealista). Produzione: Robin Gutch, Laura Hastings-Smith, Andrew Litvin per Blast! Films. Distribuzione: BIM. Durata: 96’. Origine: Gran Bretagna/ Irlanda, 2008. Irlanda del Nord, 1981. Raymond Lohan lavora come agente penitenziario nel carcere di Long Kesh, sopran- nominato “ The Maze ” (il labirinto). È assegnato a uno dei famigerati H-Blocks , il braccio dove i detenuti repubblicani stanno effettuando la “protesta delle coper- te” e la “protesta dello sporco”. Davey Gillen, un giova- ne detenuto appena arrivato, rifiuta di indossare l’uni- forme carceraria, si unisce alla protesta delle coperte e divide una cella sudicia con un altro detenuto repubbli- cano dissidente, Gerry Campbell, che lo presenta a Bobby Sands, leader del loro raggio. I detenuti vengono convinti dalla direzione del carcere ad accettare l’offerta di abiti civili, ma l’offerta di rivela una derisione. Scoppia una sommossa, soffocata con violenza. Una vio- lenza che si estende anche fuori dal carcere: Raymond viene ucciso. Bobby Sands inizia un nuovo sciopero della fame in segno di protesta per l’abolizione dello stato giuridico speciale riservato ai detenuti repubblica- ni. A seguito di questo sciopero, è il primo di dieci dete- nuti a perdere la vita.
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tiva che fisica. A segnare come un metronomo la vita dei prigionieri è la voce della Lady di Ferro che risuona nei corridoi bui e maleodoranti per ribadire fermezza nelle proprie posizioni, sancire codici morali ed escludere potenziali compromessi. La paura della guerra civile ha trasformato una Nazione moderna in un campo di battaglia in cui i terroristi oscillano tra l’accusa di essere dei semplici e feroci assassini e la pretesa di diventare dei martiri, in cui il radicalismo indossa fattezze messianiche e dove il continuo rilancio di obiettivi e metodi occhieggia a una forma persecutoria di vittimismo distruttivo. Attraverso gli occhi di McQueen la vita carceraria, derelitta e intestinale, assume le forme astratte dell’esibizione artistica. Le feci e il cibo che i detenuti spalmano per sottolineare con implacabile fisicità la loro condizione e la loro resistenza sui muri delle celle hanno la vibrante drammaticità dell’ action painting , delle tele di Pollock, di una body art i cui colori vengono dalle viscere, simboleggiando un’interiorità sofferente e aggressiva: una forma estrema di creatività esercitata in gabbie sempre più disumane. I prigionieri irlandesi di Hunger non sono assolti dai loro peccati, non vengono sollevati dai crimini commessi. Quei crimini però appartengono a un mondo esterno, altro, mentre il regista ci testimonia la loro resistenza intellettuale e politica attraverso azioni fisiche,
costrette in spazzi angusti, osserva le loro idee farsi corpo (e sangue e merda) in maniera sempre più astratta e simbolica, registra la reazione per cui la claustrofobia delle piccole celle prende aria attraverso la contrazione del fisico: sacchi di ossa e muscoli che si fanno verbo, diventano nella loro consunzione momento di battaglia politica. Trenta minuti di pestaggi e violenza – cadenzati da un’alternanza di ruoli di vittime e carnefici esposta con contrapposizioni anche visive di interni e esterni, buio e luce, cattività e libertà – che culminano nell’esecuzione di una guardia carceraria in visita in un ospizio alla madre catatonica, in cui il rosso sangue macchia la candida vestaglia di una vecchia che non capisce quel che succede né ha gli strumenti per reagire (la mano dell’assassino è fuori campo, ma anche le urla sgomente dei testimoni), simbolo di una situazione in cui le definizioni di responsabilità – la dicotomia aggressore/aggredito – diventano sempre più labili e indefinibili. Solo dopo questo lungo tour de force introduttivo che prova i nervi dello spettatore, scaraventato in un conflitto in cui tutti sembrano reagire meccanicamente in una spirale dai riflessi pavloviani, entra in scena il protagonista, Bobby Sands, la faccia segnata dai pestaggi e un carisma pieno di fervore mistico e dignità. La narrazione di colpo si fa più fluida, sembra aver
trovato il suo cuore pulsante. L’andamento singhiozzante dei dialoghi lascia spazio a una verbalità più piana e compiuta che raggiunge il suo apice nella scena centrale del film. Un dialogo di oltre venti minuti tra Sands e un parroco nordirlandese, inquadrati in campo medio e macchina fissa, che crea uno sfasamento temporale ipnotico. Si parla di Belfast e di ideali, di corsa campestre e di vocazione, di conoscenza e di libertà fino a estrarre, come in una prova maieutica, il nocciolo della questione. Bobby espone il suo piano, il rilancio di una lotta che usa l’autodistruzione come strumento di propaganda, la scelta della fame – che già dal titolo si manifesta come il tema che coglie il cuore del ragionamento, molto più del concetto di sciopero – come estrema forma di combattimento, uso improprio di un’arma al contrario, la privazione come dimostrazione di ricchezza, l’asciugarsi nel corpo per diffondersi nelle anime dei compagni che sono fuori. È un suicidio calcolato, una forma di hybris ai limiti della mitomania, come sembra suggerire l’infastidita, anche se commossa, ostilità del religioso? O è una nuova figura misticheggiante, un sacrificio estremo capace di dare fiducia e giovamento ai combattenti ancora sul campo? È qui che le suggestioni cristologiche di Hunger esplodono in tutta la loro forza: Sands fa continui riferimenti alla Bibbia – unico libro a disposizione dei detenuti, conforto anche quando usato soltanto per rollare surrogati di sigarette – e alla dirompente potenza di un esempio messianico.Ancora una volta McQueen è adamantino nella scelta dei rari stacchi di montaggio. Dopo l’interminabile sequenza che inquadra i due contendenti in un’unica cornice, la cinepresa stacca sul primo piano di Bobby mentre dal discorso universale sui massimi sistemi si passa a un ricordo d’infanzia in cui un episodio violento aveva rivelato la pietà nascosta nelle pieghe dell’orrore. Qui il regista si incolla al volto di Sands, ci mostra le sue emozioni, ci svela che le rigide teorie morali appena esposte vengono dall’animo di un uomo ferito e implacabile nella sua dolorosa umanità. Una sorta di Vangelo apocrifo applicato al terrorismo politico. La fine di quella scena sospesa sancisce l’inizio del Calvario. Bobby comincia il digiuno e i segni dell’ascesi su un corpo già asciugato dalla rigidità del carcere sono impietosi. Il fisico si ribella e si consuma, le piaghe da decubito sono stimmate da lenire con unguenti, le ossa disegnano una croce su cui potersi crocifiggere. La consunzione quotidiana, scandita dalla stupita indifferenza delle guardie che lo accudiscono senza poterlo capire, che lo curano senza volerlo salvare, assume le caratteristiche di una performance estrema che si tramuta in una sorta di tortura attoriale per lo straordinario interprete, Michael Fassbender. Il corpo che si asciuga, si piega, sembra tramutare le sue giunture nei nodi di un albero maledetto (forse quello a cui Giuda si è impiccato?), impone al film una sorta di estatica afasia, un mutismo stupefatto di fronte all’imperscrutabile scelta di morte. Si procede per ellissi
verso la fine inevitabile, con i colori – già da prima desaturati da una fotografia che privilegia i contrasti sui toni – che virano semanticamente verso l’assolutezza del bianco accecante. Hunger è un’opera feroce e pietosa, che ricorda le fatiche della corsa campestre, lo sport che da bambino fece scoprire a Sands, cresciuto nelle periferie di Belfast, la libertà della natura e il senso di assoluto, la fatica del fiato e la ricompensa dello sforzo. McQueen costruisce un film ieratico e consapevole, che dall’arte contemporanea prende lo spirito della performance e lo declina in un atto unico di annientamento. Il senso morale del film non sta nel dispensare giudizi (non c’è assoluzione per i terroristi, non c’è perdono per uno Stato privo di carità) ma nel rappresentare la parabola di un uomo che per cambiare il mondo ha ucciso se stesso. Il risultato, nonostante si sfiori a tratti il crinale dell’estetismo, è un’opera poetica e terrena, estrema e compassionevole, militante e spirituale.
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ANOTHER EARTH Mike Cahill
Un’altra Terra è possibile. E un’altra vita Paola Brunetta Io me ne rendo conto. Mi rendo conto che la storia di Another Earth può sembrare scontatissima, e non solo la sua storia (il cinema indipendente americano stile Sundance, dove infatti il film ha vinto lo scorso anno il Premio Speciale della Giuria e il Premio Sloan). E che da un altro punto di vista può sembrare assurda, inverosimile, forzata. Ma per me il film d’esordio di Mike Cahill, documentarista con studi economici alle spalle, che ha curato regia sceneggiatura fotografia montaggio nonché produzione dell’opera insieme (per produzione e script ) alla protagonista femminile Brit Marling, è stato un’immersione nella poesia della vita. Nel dolore, nell’angoscia, nella solitudine ma anche nella riflessione, nella meditazione sull’esistenza, nella consapevolezza che si acquisisce piano piano di quello che si vuole e che si è e nelle possibilità che la vita può offrire, non per
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Titolo originale: id. Regia, fotografia e montaggio: Mike Cahill. Sceneggiatura: Mike Cahill, Brit Marling. Musica: Fall On Your Sword. Scenografia: Darsi Monaco. Costumi: Aileen Diana. Interpreti: Brit Marling (Rhoda Williams), William Mapother (John Burroughs), Jordan Baker (Kim Williams), Flint Beverage (Robert Williams), Robin Taylor (Jeff Williams), Meggan Lennon /Maya Burroughs), Kumar Pallana (Purdeep), Luis Vega (Federico), Rupert Reid (Keith Harding), Ana Kayne (Claire), Matthew-Lee Erlbach (Alex), Jeff Clyburn (DJ Big Mike), Diane Ciesla (la dottoressa Joan Tallis). Produzione: Hunter Gray, Mike Cahill, Brit Marling, Nick Shumaker per Artists Public Domain. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata: 92’. Origine: USA, 2011. Rhoda Williams è una studentessa di notevoli capacità, tanto da essere ammessa al MIT di Boston per partecipare a un ambizioso programma di astrofisica. La sua gioia e soddisfazione vengono però funestate da un incidente, da lei involontariamente causato al ritorno dalla festa organiz- zata per festeggiare l’ammis- sione. Nell’incidente perde la vita un’intera famiglia, quella di John Burroughs: un musi- cista di successo, felicemente sposato, con un figlio e un altro in arrivo. Intanto, in cielo è apparso un pianeta, in tutto e per tutto uguale alla Terra, i cui abitanti sono una nostra esatta copia speculare. Pare che su questa copia con- forme del nostro Pianeta sia possibile, attraverso i nostri sosia, riparare agli errori commessi. Per questo, Rhoda spera di rimediare alla tragedia di John.
forza su un altro pianeta, di cambiare, di svoltare, di redimersi; di portare del bene alle persone a cui si è fatto, anche se involontariamente, del male. E nella casualità che ci governa. Sì, il caso. È molto kieslowskiano il film di Cahill da questo punto di vista, a partire dallo spunto narrativo che riporta a Film blu (l’incidente, la musica, l’elaborazione del lutto) per arrivare all’inquadratura del volto della protagonista che rimanda alla Julie Delpy di Film bianco . E dostoevskiano ovviamente, ed esistenzialista. Apro a caso un libro sul Decalogo e trovo queste parole, che esemplificano alcuni aspetti del nostro film: «Questo significato tutto terreno che si cerca “approssimando” e “per ripetizioni”, è appunto l’incontro con se stessi nella consapevolezza del possi- bile , come condizione d’esperienza attraverso la quale interagiscono dialetticamente la contingente casualità delle circostanze e la loro casuale necessità. Se è vero infatti che Kieslowski filma la dialettica caso/necessità nella possibilità di scegliere, di determinare, pure non sembra interessarlo la scelta in sé; piuttosto la possibilità della scelta, appunto, che non si teorizza in abstracto , ma che si dà, kantianamente quasi, nell’esperienza concreta» (1). Perché come dice Kieslowski stesso intervistato in un altro testo, «il caso nel Decalogo ha un significato essenziale, è strettamente collegato all’inevitabile. La necessità esiste. Ma come si muoveranno i protagonisti, questo in gran parte dipende dalla casualità» (2).
E c’è Von Trier: Melancholia naturalmente (il pianeta “altro” che incombe sulla Terra, il senso di irrequietezza e di solitudine e di spaesamento che questo provoca, la depressione di Rhoda come di Justine, la volontà di entrambe di accoglierla quest’energia nuova, di farsi permeare da essa pur nel significato diverso che questo assume nei due film, e l’aspetto delle due donne) ma anche Le onde del destino , espiazione e colpa, redenzione e follia; ma anche qui con conclusioni opposte perché lo sguardo di Cahill non contempla il misticismo anche se per certi versi è impregnato di spiritualità, ed è decisamente più positivo, dà ai suoi personaggi la chance che Von Trier non concede, non si concede; anzi fa in modo che se la diano reciprocamente questa chance , laddove per Von Trier la guarigione di Jan aveva dovuto significare, comportare la morte della “colpevole”Bess (3). Un altro libro ho tra le mani in questi giorni ed è Le domande della vita , il testo in cui Savater illustra ai ragazzi che non studiano filosofia a scuola alcuni elementi-chiave della disciplina. E nel capitolo sulla (1) Emanuela Imparato, Krysztof Kieslowski – Il Decalogo , AIACE, Roma 1990, pag. 19. (2) Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto (a cura di), Kieslowski , Museo Nazionale del Cinema, Torino 1989, pag. 31. (3) A qualcuno proprio questo non è piaciuto, questo finale ottimistico con John che va sull’altra Terra a ritrovare i suoi cari, e Rhoda che invece trova, su questa Terra, il suo doppio probabilmente mandato da lui con chiaro effetto catartico e risolutore; dove appunto ognuno fa del bene all’altro e in primis è lei che lo fa a lui, dopo che tanto male gli aveva fatto, quattro anni e più prima.
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libertà, dopo aver spiegato il concetto di responsabilità per Hume («Essere liberi non è motivo solo di orgoglio, ma anche di inquietudine e perfino di ansia. Assumere la libertà implica accettare la responsabilità di ciò che facciamo, nonché di alcune conseguenze indesiderabili delle nostre azioni» (4), osservazione che ben si adatta al nostro film), mostra come lo stesso era inteso nella Grecia antica e in particolare nella tragedia, spiegazione che ci porta ancora più vicino a noi: «Secondo Sofocle, ciò che ci rende responsabili non è ciò che abbiamo intenzione di fare, e neppure quel che facciamo effettivamente, ma la riflessione su ciò che abbiamo fatto» (5). È questa in effetti la “saggezza che libera” la protagonista, per citare non casualmente il titolo di un testo di Confalonieri sulla meditazione vipassana : l’aver riflettuto quattro anni su quello che era accaduto, quattro anni di segregazione in carcere, di silenzio e solitudine, di introspezione estrema e assoluta; e l’esserne uscita (dal carcere) con l’intenzione di rimediare almeno un po’ a quanto commesso, di migliorare almeno un po’, in modo semplice e concreto, la vita della persona a cui aveva involontariamente provocato tanto dolore, rinunciando a quello che di bello aveva precedentemente ottenuto (l’ammissione al MIT e una probabile carriera di astrofisico, motivo della festa dopo la quale c’era stato l’incidente che dà avvio al film, dovuto al fatto di voler guardare la seconda Terra appena scoperta). Lei si offre a lui e lui si offre a lei, dopo. Nel controverso finale. Perché Rhoda e John si cercano come se un’energia sottile li spingesse l’uno verso l’altra o comunque richiamasse verso di lei John, che non sa ancora chi lei sia. E poi la fantascienza: la Terra 2, il doppio in cui tutti siamo compresi, migliori o peggiori di quello che siamo qui, o uguali. Questo nuovo pianeta e il problema di chi deve andarci, se solo le autorità o anche i civili. E tutti che ne parlano, stampa radio tv e Rhoda che ci pensa, è il suo sogno e a quello rinuncerà alla fine, in nome dell’amore che ha per John o del percorso di espiazione che deve compiere, a seconda dei punti di vista (e noi preferiamo il primo). Un falso film di fantascienza quindi, un film che utilizza l’espediente del secondo pianeta per parlare di noi, di quello che siamo, di questa nostra condizione umana e di quanto sia importante la vicinanza tra le persone, al di là di tutto. Libertà e responsabilità. Un po’ come Moon e Monsters , due dei film più interessanti degli ultimi anni. Cahill per il suo film è partito tra l’altro dagli studi di due astrofisici, Berendzen e Greene, che hanno ripreso la teoria del multiverso della fisica quantistica, ma questa è appunto la cosa meno importante: l’interesse del film è un altro, psicologico ed esistenziale. Ci sono molti elementi, comunque, in quest’opera che è complessa. Sul piano dei contenuti troviamo per esempio la storia, parallela a quella di Rhoda, dell’uomo che fa le pulizie con lei a scuola, che lei
apprende essersi accecato con la candeggina nel momento in cui con la stessa sostanza si è reso sordo; lui la sostiene all’inizio e le dice di tenere la mente sgombra e di assecondare se stessa, lei, in maniera speculare a quello che le accade con John (e di specchi il film è pieno, vetri, specchi nei quali lei si riflette, senza contare la teoria dello “specchio rotto”per il nuovo pianeta), in ospedale gli si distende vicino e in una scena bellissima e incantata gli prende la mano, che è quella di un indio, e gliela accarezza dicendogli: «Perdona». Poi c’è la storia del cosmonauta russo, che invece di infastidirsi per il ticchettio che sente e che gli impedisce di godere dello spettacolo della Terra che vede dall’oblò dell’astronave, decide di innamorarsi di quel rumore e chiude gli occhi per rifugiarsi nell’immaginazione, per riaprirli e sentire che il ticchettio si è trasformato in musica: John è un compositore che dal momento dell’incidente non suona più, ma a un certo punto porta Rhoda in un auditorium e le fa sentire il suono della sega ad arco, un suono etereo e primitivo al tempo stesso che sembra la musica di un altro mondo, che lei ascolta chiudendo gli occhi (anche lui, del resto, li ha chiusi) e rifugiandosi nell’immaginazione di cui sopra, mentre il suono si trasforma in musica e la scena successiva è l’amplesso dei due, disperato e sublime. E quando lei tornerà da lui dopo aver saputo di aver vinto il viaggio lo troverà che suona una musica al piano che sembra Chopin (ma è Phaedon Papadopoulos, l’unico pezzo in colonna sonora che non sia l’elettronica un po’ straniante dei Fall On Your Sword), la sola melodia che ascoltiamo in un film che comincia e finisce con il suono battente di una musica da discoteca. E poi la caverna di Platone citata da John: non siamo pronti (come umanità) per uscire dalla caverna e quindi è meglio non andare su Terra 2, non vedere cosa c’è là. Cahill, si diceva, ha prodotto, scritto, diretto, fotografato e montato un film a basso costo che richiama nella prima parte lo stile del Dogma 95, oltre che, in qualche momento, Cronenberg e Lynch: camera a mano, insistenza sui volti dei personaggi, uso insistito dello zoom , colori lividi e tendenti al seppia, ambientazione prevalentemente in interni (la casa di John, che richiama la casa di tanti film dell’orrore ed è nella realtà la casa della madre del regista), musica pressoché assente e lo spaesamento della protagonista che ci arriva tutto (il suo camminare sulla neve e vicino all’acqua, sola), insieme al dolore di John; mentre nella seconda parte si apre a colori più vivaci e nitidi, blu, azzurro, bianco, e a immagini suggestive del cielo e del mare blu cobalto, meraviglioso. Perché il mare come il cielo, per citare in conclusione Michel Houellebecq, ci può dare la possibilità di un’isola, in mezzo al tempo. (4) Fernando Savater, Le domande della vita , Laterza, Bari 1999, pag. 129. (5) Ivi, pag. 131.
SISTER Ursula Meier
Storie a margine Tina Porcelli NO MAN’S LAND Al Festival di Berlino 2012 Sister , secondo lungometraggio cinematografico della svizzera Ursula Meier, ha vinto un Orso d’argento-Menzione speciale della giuria. Ricevere un riconoscimento che non esiste, «un no man’s land dei premi», ha scherzato la regista, in una certa misura corrisponde perfettamente alla natura intrinseca di Sister , ma anche al suo film precedente Home (2008). Questo concetto di “terra di nessuno” sembra essere un po’ il fil rouge della poetica della Meier, ma di fatto è connaturato alla sua vita. Ed è importante avviarsi da qui per entrare nello spirito del suo cinema. Ursula Meier nasce a Besançon, un paesino francese al confine con la Svizzera, e cresce praticamente alla frontiera con Ginevra come città di riferimento. A questo si aggiunga un côté germanico da parte del padre svizzero-tedesco e un’educazione protestante che presuppone un rapporto con l’immagine prima delle parole. Cosa che, spiega la regista, se indubbiamente le ha creato delle difficoltà relazionali da ragazzina, ha sen-
Titolo originale: L’enfant d’en haut. Regia: Ursula Meier. Sceneggiatura: Antoine Jaccoud, Ursula Meier, Gille Taurand. Fotografia: Agnès Godard. Montaggio: Nelly Quettier. Musica: John Parish. Scenografia: Ivan Niclass. Costumi: Anna Van Brée. Interpreti: Kacey Mottet Klein (Simon), Léa Seydoux (Louise), Martin Compston (Mike), Gillian Anderson (Kristin Jansen), Jean-François Stévenin (lo chef),Yann Trégouët (Bruno), Gabin Lefebvre (Marcus), Dilon Ademi (Dilon), Magne-Håvard Brekke (lo sciatore violento), Simon Guélat (l’uomo della Golf), Mike Winter (lo sciatore al Dynastar), Calvin Oberson (il fratello del “Mains Bleues”), Eugenia Ferreira (Maria), Antonio Troilo (l’autista del minibus), Luca May (il bambino piccolo), Lisa Harder, Lucien Saint-Denis (i figli di Kristin Jansen). Produzione: Jean-Marie Gindraux, Rith Waldburger, Denis Freyd per Bande à Part Films/Arcipiel 35/Véga Films/ RTS Radio Télévision Suisse. Distribuzione: Teodora. Durata: 97’. Origine: Svizzera/Francia, 2012. Simon, un ragazzino di dodici anni, vive da solo con la sorella maggiore Louise in un grigio quartiere industriale della pianura, sovrastato da un’opulenta stazione sciisti- ca sulle Alpi. Tutti i giorni, prende la funi- via e sale in cima, dove ruba gli sci e i costosi equipaggiamenti dei ricchi turisti per rivenderli, ricavandone piccoli ma rego- lari introiti. Là in alto c’è un mondo bene- stante di vacanzieri allegri, in basso Simon deve fare i conti con una quotidianità di squallore e miseria. Sua sorella Louise non riesce a mantenere a lungo un posto di lavoro ed esce con uomini sempre diversi, a volte scompare per giorni, abbandonando Simon a se stesso. La ragazza cerca in tutti i modi di trarre vantaggio dai traffici illeci- ti del fratellino, ma finisce per dipendere economicamente da lui e si fa pagare anche per manifestargli il proprio affetto. Tra gelosie e ripicche i due fratelli vivono alla giornata, ma il loro rapporto nasconde un inimmaginabile segreto…
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z’altro influenzato il suo successivo modo di pensare il cinema. In seguito si iscrive alla scuola di cinema in Belgio, dove tutt’ora vive, e nel 2009 ha fondato con tre amici una società di produzione dal nome godardiano (Bande à Part Films) ubicata a Losanna, in cui risiede per lunghi periodi. Insomma, un po’di qua, un po’di là. Sta sul confine Ursula Meier, che i belgi chiamano «la svizzera» e gli svizzeri «la belga». Sovente la regista cita proustianamente un episodio significativo. Una parte del giardino del liceo che frequentava in Francia sconfinava in Svizzera e quando domandava alle insegnanti dove si trovassero in quel preciso punto, si sentiva rispondere che era una terra di nessuno, una “no man’s land”. Ed è su questa espressione verbale astrusa che non riusciva a comprendere, questo non luogo , questo vuoto di senso e di materia, che la Meier ha costruito la sua attuale idea di cinema. Infatti i due film da lei realizzati, Home e Sister , ci portano entrambi a riflettere proprio sul concetto di confine, raccontano luoghi ai margini e persone anch’esse marginali.
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Simon è interpretato dal bravo Kacey Mottet Klein, scoperto dalla Meier in Home nel ruolo del figlio maschio della famiglia, quella che viveva nella casetta a ridosso dell’autostrada. Nell’ultimo film della regista però non ci sono nuclei familiari felici e uniti, ma una cellula sgangherata composta da Simon e Louise, fratel-
lo-sorella, o figlio-madre come scopriamo con effetto sorpresa all’incirca dopo un’ora di film. Rispetto al lavoro precedente l’attore che interpreta Simon è ovviamente cresciuto, ha dodici anni.Anche questa volta l’intenzione della Meier era di approfittare di un margine risicatissimo che definisce una “non età”, cioè la fase in cui non si è più bambini ma ancora non si rientra a pieno titolo dell’adolescenza. Un periodo limite da cogliere in fretta perché se solo Kacey Mottet Klein fosse stato più grande, si sarebbe persa la connotazione innocente di alcune scene chiavi, come il momento struggente in cui Simon paga Louise per dormire affianco a lei nel letto, per guadagnarsi il permesso di abbracciarla e non scivolare nel buio del sonno da solo. È un trafficone il piccolo Simon, una formichina operosa del piccolo crimine che si mimetizza tra i turisti benestanti delle alte vette innevate per sottrarre loro le costose attrezzature sportive. Sci, guanti, occhiali, scarponi, giacche a vento, portafogli, persino i panini al sacco. Acchiappa tutto. A volte agisce su commissione, gli indicano i modelli degli sci più costosi dai cataloghi e lui meticolosamente li cerca e li ruba, invecchia gli esemplari troppo nuovi e copre i graffi di quelli malridotti per ingannare i compratori poco esperti. Simon ha le mani svelte e la parlantina ancora più sciolta come l’Antoine Doinel di I 400 colpi (Les 400 coups , 1959) di Truffaut, regista che la Meier dice di amare e di conoscere a memoria, o di L’infanzia nuda (L’enfance nue , 1968) di Pialat, film a cui confessa di avere molto pensato per il modo si
tratta il tema dell’infanzia. Abbandonato a se stesso, Simon s’ingegna come meglio può nella sua lotta di sopravvivenza quotidiana, ma quando incontra una dolce turista inglese con i figli piccoli, fa in modo di sedersi con loro a pranzare e insiste anche per pagare le consumazioni, illudendosi di poter comprare attimi di convivialità familiare. E allorché gli viene chiesto come si chiama fornisce un nome falso, Julien, che guarda caso era lo stesso che in Home . Sembrano quasi un dittico, Home e Sister , l’uno il proseguimento dell’altro. Intanto perché nelle interviste è la stessa regista a metterli sempre a confronto. Spiega che Home è un film orizzontale, si svolge lungo un’autostrada, e Sister è invece verticale, ritmato dall’incessante movimento tra l’alto e il basso, il bianco accecante della stazione sciistica sulla cima della mo ntagna e la piana industriale sotto la coltre delle nuvole, dove la neve si è sciolta o raggrumata in ammassi grigiastri. La funivia, che è il luogo dove Simon si sposta, si cambia, mangia, è appunto l’elemento di raccordo tra i due mondi. Collega due spazi radicalmente distanti, sia in senso geografico che sociale. Sulla sommità i benestanti vacanzieri di passaggio si divertono, sciano, prendono il sole, si rifocillano gioiosamente senza badare a spese, mentre in fondo alla montagna i residenti sgobbano al loro servizio e vivono in uniformi appartamenti angusti e grigi.
CONTAMINAZIONI Simon e Louise fanno parte di quelle persone che nella vita nessuno vede e trascinano le loro esistenze nelle difficoltà quotidiane. Letteralmente, Simon trascina ogni giorno il suo slittino con gli oggetti rubati e una volta invita anche Louise a salirci sopra e porta anche lei. Con questi evocativi espedienti visivi la Meier è brava a passare dal concettuale al fisico, dalle sensazioni astratte alla rappresentazione di un malessere concreto. Perché il suo è un cinema “di carne”, come lo definisce, non tanto di corpi che si scontrano alla Ken Loach o dei gesti reiterati nel quotidiano dei fratelli Dardenne. È un cinema dove la presenza fisica dei protagonisti si relaziona agli ambienti che non sono mai soltanto sfondi, ma parte integrante della narrazione, personaggi essi stessi. Ma soprattutto è un cinema dove le idee si traducono in materia, dove la vita nella casetta di Home diventa così insostenibile per i rumori del traffico che gli abitanti si murano vivi dentro la casa; dove Simon che non vale niente alla fine viene gettato tra i rifiuti, ammonticchiato come un oggetto inutile tra i sacchi neri della spazzatura che la teleferica di servizio porta a valle. Ursula Meier ama mescolare e contaminare generi e situazioni. Home partiva come un film realista ma poi sconfinava nella fantascienza, e la regista lo definiva un road movie all’inverso. In Sister punta a trovare un equilibrio tra una dimensione del reale non limitata
all’aspetto sociale e l’importanza di un solido intreccio narrativo alla base. Indubbiamente, uno dei cardini del film è rappresentato dal ribaltamento dei ruoli convenzionali. Nei rapporti tra adulto/ragazzo, genitore/figlio, la Meier scardina i compiti e attribuisce all’uno quelli dell’altro. Così è Simon, bambino cresciuto troppo in fretta, a doversi ingegnare a portare a casa i soldi necessari per il cibo e la “carta igienica”. È sempre lui a preoccuparsi di quando la madre ritornerà a casa dopo le sue fughe con uomini sbagliati e a prendersi cura dei suoi crolli emotivi. Però, nella straordinaria e intensa inquadratura finale in cui le due cabine della funivia si incrociano, accade una sorta di piccolo miracolo. I ruoli si ristabiliscono. Simon, disorientato dalla chiusura degli impianti e dalla fine della stagione sciistica che rappresenta la sua fonte di reddito, perde quella sicurezza (ostentata) da adulto e si ritrova spaesato, smarrito in un paesaggio di piste gialline e fangose non più ricoperte dalla neve. E così torna verso il basso, ritorna al suo ruolo di ragazzino. Al contrario, la madre recupera il senso di una maternità troppo a lungo rifiutata e sale verso l’alto, alla consapevole ricerca di quel figlio mai abbastanza amato. E alla fine il miracolo si compie, su quelle due cabine che corrono in direzioni opposte, ma all’interno delle quali delle mani si protendono verso altre mani, e i volti trasmettono stupore e tutto quello che non sono stati capaci di comunicare con le parole. Per un istante lo spettatore avverte un fluido pieno di amore, così forte che sembra quasi di vederlo materializzare.
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I FILM
IN SALA THE RUM DIARY CRONACHE DI UNA PASSIONE
Bruce Robinson Titolo originale: The Rum Diary . Regia e sceneggiatura: Bruce Robinson. Soggetto: dal romanzo Cronache del rum di Hunter S. Thompson. Foto- grafia: Dariusz Wolski. Montaggio: Carol Littleton. Musica: Christopher Young. Scenografia: Chris Seagers. Costumi: Colleen Atwood. Interpreti:
Johnny Depp (Paul Kemp), Aaron Eckhart (Sanderson), Michael Rispoli (Bob Sala), Amber Heard (Chenault), Richard Jenkins (Lotterman), Giovanni Ribisi (Moberg), Bill Smitrovich (Zimburger), Amaury Nolasco (Segurra), Marshall Bell (Donavon), Julian Holloway (Wolsey), Bruno Irizarry (Lazar), Enzo Cilenti (Digby), Aaron Lustig (Monk), Tisuby González (Rosy), Karen Austin (la signora Zimburger), Andy Umberger (Green), Karimah Westbrook (Papa Nebo), Jimmy Ortega (il poliziotto). Produzio- ne: Graham King, Tim Headington, Johnny Depp, Robert Kravis, Anthony Rhulen, Christi Demborwski per Filmengine/Dark & Stormy Entertainment/ GK Films/Infinitum Nihil Production. Distribuzione: 01. Durata: 120’. Origine: USA, 2011.
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Bruce Robinson si è preso diverse libertà nel trasporre il romanzo di Hunter S. Thompson. Il principale cambiamento sta nell’aver soppresso un personaggio importante come Yeamon, una sorta di doppio del protagonista: simile a lui, ma più capace di vivere con pienezza il rapporto con le donne (la relazione con Chenault) e con il giornalismo (l’inchiesta sull’emigrazione da Porto Rico), Yeamon rappresenta quello che Kemp avrebbe voluto/potuto essere. La sua cancellazione porta con sé alcune conseguenze significative, in particolare il fatto che Chenault si trasforma nella donna di Sanderson (personaggio che nel libro rimane sullo sfondo, mentre nel film diventa il vero e proprio antagonista di Kemp).
Si direbbe che i cambiamenti introdotti assolvano a due funzioni. Da un lato, ampliando lo spazio di Sanderson, facendo apparire la sua impresa come una specie di complotto internazionale da sventare e mettendo in primo piano la sfida donchisciottesca di Kemp nei suoi confronti, Robinson cerca di aggiungere intrigo e mistero a una trama che nel libro rimane sostanzialmente immobile (più o meno, una serie di colossali bevute, autocommiserazione e vaghe speranze di cambiamento: nel libro non ci sono galli che combattono, né il disperato tentativo di salvare il giornale). Dall’altro, introducendo nella storia elementi provenienti da altre opere di Thompson – nel libro non ci sono giudizi su Nixon (espressi in altre sedi, vedi il necrologio compreso in Meglio del sesso. Confessioni di un drogato della poli- tica : «Era assolutamente privo di
etica, morale o di qualunque fondamento di decenza… gli storici onesti lo ricorderanno come un topo di fogna»), così come è assente la scena dell’assunzione di un potente allucinogeno (che crea un collegamento con Paura e disgusto a Las Vegas ) – rafforza l’identificazione (poi esplicitata nel finale) tra il protagonista e lo stesso Thompson. Facendo di Chenault la ragazza dell’uomo potente, la trama prende qualcosa da certi vecchi noir (lui, incastrato dal fascino ammaliante di una donna, rimane invischiato in un gioco solo all’apparenza pulito e in cui tutti si rivelano diversi da quel che sembrano). Si direbbe anzi che Robinson voglia far assumere al protagonista tratti provenienti da archetipi bogartiani (in questo sviluppando forse un suggerimento del romanzo, dove l’io narrante, a un certo punto, dice che «era il tipo di città che ti faceva sentire come Humphrey Bogart» – anche il valore simbolico attribuito al rosso e all’azzurro, principale leitmotiv visivo del film, sembra sviluppare un fugace accenno a quei colori presente nel libro): l’“eroe riluttante” che – preferibilmente in un posto esotico (Acque del Sud , Casablanca ) – sembra lì solo per denaro, osserva il mondo con disin-
cantato cinismo, ma finisce per impegnarsi sempre nelle cause giuste, anche se la seduzione di una donna (Solo chi cade può risorgere ) può fargli perdere la strada. Il risultato di queste interpolazioni, però, non riesce a formare un tutto coerente. È evidente, ad esempio, per rimanere sulla figura di Chenault, che certe scene del libro, ripetute nel film con Sanderson al posto di Yeamon, perdono di significato. Quando (nel libro) Kemp vede la ragazza che fa l’amore con Yeamon al largo, viene sopraffatto dai ricordi «di cose che non ero riuscito a fare, ore sprecate e attese frustranti e occasioni perdute per sempre perché il tempo aveva portato via così tanto alla mia vita e nessuno me l’avrebbe restituito». Se al posto di Yeamon c’è Sanderson (e al posto della barriera corallina, una lussuosa barca), la visione è più banalmente l’attrazione per il bel mondo (ricchezza, belle donne); e la recitazione buffonesca di Depp ubriaco allontana ancor di più dal senso originario. Oppure, si prenda la scenata dopo l’abbandono di Chenault: fatta da Yeamon ha un senso (lui è un personaggio che può essere disperato), fatta da Sanderson lascia emergere una vulnerabilità che mal si accorda con i presupposti del suo carattere (con una scenata del genere viene meno la “grandezza” necessaria a fare di lui un “cattivo”sul serio).
Insomma, decisi certi cambiamenti di fondo, sarebbe stata necessaria una più profonda riscrittura, che sostenesse in maniera più credibile la volontà di fare della vicenda un noir, rendendo più sottile l’ambiguità dei personaggi. Il film, grazie alla buona qualità di una fotografia dai colori brillanti, fila comunque via per gran parte della sua durata senza disturbare (ma senza nemmeno appassionare). Sono gli scorci conclusivi a lasciare l’amaro in bocca: Kemp si trasforma in una specie di eroe, di Don Chisciotte, per essere poi (didascalia finale) identificato con Thompson, così da fare di quest’ultimo una specie di santino, che combatte contro “i bastardi”, e innalzare oltre i limiti il tasso di retorica (che era proprio ciò da cui scrittori come lui cercavano di fuggire…). Rinaldo Vignati
CILIEGINE Laura Morante Titolo originale: La cerise sur le gâteau. Regia: Laura Morante. Sce- neggiatura: Laura Morante, Daniele Costantini . Fotografia: Maurizio Calvesi . Montaggio: Esmeralda Calabria. Musica: Nicola Piovani. Scenografia: Pierre-François Limbosch. Costumi: Agata Cannizzaro. Interpreti: Laura Morante (Aman-
da), Pascal Elbé (Antoine), Isabelle Carré (Florance), Samir Guesmi (Maxime), Patrice Thibauud (Hubert), Frédéric Pierrot (Bertrand), Vanessa Larré (Valerie), Georges Claisse (lo psicoanalista), Nadia Fossier (Mathilde), Yves Verhoven (Victor), Elisabeth Catroux (Fabienne), Emmanuelle Balabru (Béatrice), Frédéric Moulin (Bruno), Mathilda Vives (Claire), Louis-Charles Finger (Léo), José Fumanal (François), Sandrine Le Berre (Anne-Lise), Ennio Fantastichini (il signor Faysal). Produzione: Francesco Giammatteo, Philippe Carcassonne, Bruno Pesery per Nuts & Bolts Productions/Maison de Ciné-
ma/Soudaine Compagnie . Distribu- zione: Bolero. Durata: 85’. Origine: Francia/Italia, 2012. Amanda ha tanti pregi, e poi anche tanti difetti. Per esempio odia le ingiustizie, e la disattenzione: gli sgarbi fatti con o senza volontà di ferire. Non distingue la negligenza di chi mette una bottiglia di vetro nella spazzatura indifferenziata e chi si dimentica i suoi gusti in fatto di cucina giapponese. Ha ragione, sempre, e quindi il mondo le dà torto, perché l’unico modo per viverci in mezzo sgusciando tra le insidie come un’anguilla è accettare che la perfezione ha la qualità effimera della ciliegina che troneggia per circa un minuto o due sulla torta condivisa con il compagno, e poi sparisce. Una donna a più di quarant’anni senza un uomo stabile, anche a Parigi, è un caso da analizzare, e bene. Il marito dell’amica, psicoanalista, la guarda con rassegnata competenza, l’amica con preoccupazione crescente, il compagno che cerca di metterci su casa insieme con rabbia e incomprensione. Eppure non ha inclinazioni sessuali atipiche, non è brutta, né infelice.Vuole avere i suoi spazi belli larghi, e un uomo che ci cammini attraverso in punta di piedi, e questo, ne conveniamo anche noi, non è sempre semplice. L’uomo che vuole è una chimera, il personaggio di un libro che deve aver letto tanto tempo fa, un cavalie-
re senza macchia che non lascia tracce nella sua cucina, ma c’è se piove, e al cinema di quartiere danno un bel film. Quando Amanda incontra Antoine è subito amore:Antoine, così le hanno riferito, è gay, quindi non sarà mai una cocente delusione. Il loro rapporto si fermerà sull’orlo del precipizio, e sarà bello guardare il paesaggio senza paura di cadere giù. Ciliegine è una commedia scritta bene e recitata benissimo: si esce dal cinema rasserenati e in pace con noi stessi, e non è cosa da poco in questi tempi in cui anche andare al cinema solo per ridere o stare bene fa sentire un po’ in colpa. Laura Morante abbandona lo stile nevrotico urlato e spossato che caratterizza ormai la gran parte dei suoi ruoli in Patria, e acquisisce una lievità di tratto insolita, una delicatezza eterea, e una bellezza tangibile e quasi esagerata. Non fraintendiamo: Amanda e la rappresentazione che di essa fa la regista-attrice è una donna profondamente nevrotica,ma questa caratteristica sembra essere la sua immensa forza, la grazia sgraziata che costituisce il suo fascino. Tutto è semplificato, e senza dimensione: questo non vuol dire che la Morante mette in scena un teatrino delle scimmie ammaestrate, ma semplicemente che non è interessata alla realtà. Se non fossimo al cinema, direi che è teatro: anche perché la regia qui è tutta sui personaggi, sui tic delle
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facce, sui gesti a segno o a vuoto. E non ci si vergogna a costruire delle macchiette: l’uomo sensibile e timido che sembra gay, il gay vero che sculetta in giro e mangia la foglia, l’amica premurosa e borghese, il marito di questa, psicoanalista, che architetta un piano che è anche un’esperimento rivoluzionario che gli permetterà di scrivere un libro di successo su come liberarsi dell’androfobia. Parigi è una città delle favole, piena di alberi che fioriscono e di fenomeni naturali, di canali rilucenti al sole, di giardini rigogliosi e fantastici che crescono ai margini degli appartamenti. Non c’è niente di plausibile in Ciliegi- ne , compreso il titolo, e fa ridere chi cerca di interpretare questo film intavolando una riflessione profonda sulla visione della donna e delle sue declinazioni psicologiche: del resto è stata la stessa Morante ad ammettere con candore di essersi ispirata al personaggio di Lucy dei Peanuts per costruire la sua Amanda, una donnafumetto che odia gli uomini perché ama se stessa, una bambina cresciuta che ha paura che le scrutino troppo la generosa scollatura, che comunque non esita a sfoggiare. Questo film ci ricorda semplicemente due cose e lo fa bene. La prima è ciò che dimostra: che è ancora possibile scrivere e realizzare commedie intelligenti e piacevoli, nonostante gli sforzi per farci credere il contrario del cinema contemporaneo,soprattutto italiano. E poi ci rammenta che è inutile cercare all’infinito: in ogni caso il sogno sarà sempre meglio della realtà. Lo sapevamo già, ma per ottantacinque minuti ci siamo divertiti. Elisa Baldini
CHRONICLE Josh Trank 4 1 5 m u r o f e n i c 42
Titolo originale: id. Regia: Josh Trank. Soggetto: Max Landis, Josh Trank. Sceneggiatura: Max Landis. Fotografia: Matthew Jensen. Mon- taggio: Elliot Greenberg. Scenogra- fia: Stephen Altman. Costumi:
Diana Cilliers. Interpreti: Dane DeHaan (Andrew Detmer), Alex Russell (Matt Garetty), Michael Kelly (Richard Detmer), Michael B. Jordan (Steve Montgomery), Ashley Hinshaw (Casey Letter), Bo Petersen (Karen Detmer), Anna Wood (Monica), Rudy Malcolm (Wayne), Luke Tyler (Sean), Crystal Donna Roberts (Samantha), Adrian Collins (Costly), Grant Powell (Howard), Armand Aucamp (Austin), Nicole Bailey (Cala). Produzione: John Davis, Adam Schroeder per Davis Entertainment/Adam Schroeder Productions/Film Afrika Worldwide. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata: 84’. Origine: Gran Bretagna/ USA, 2012. Una storia di formazione adolescenziale travestita da superhero movie , situata tra la divertita presa di coscienza dello Spider-Man di Raimi e la vindice esplosione di violenza di una malmostosa Carrie . Il tutto proposto attraverso la pratica stilistica (e narrativa) del found foo- tage , ormai un autentico sottogenere con implicazioni del tutto proprie (e non sempre giustificate dalla storia raccontata). Tre ragazzi, tre tipologie differenti di adolescenti riuniti intorno a un’idea di mutamento del proprio stato e delle caratteristiche individuali in prossimità della fatidica soglia che contraddistingue l’età adulta. Andrew, vittima costante della prepotenza dei compagni di scuola, ves-
sato anche dal padre, invalido e alcolista, sofferente per una madre malata terminale. Matt, spigliato e tranquillo, unico amico di Andrew prima della comparsa del solare Steve, personaggio molto popolare al liceo, candidato alla carica di presidente del consiglio studentesco, considerata il primo passo per incarichi sempre più ambiziosi. I tre trovano per caso una misteriosa conformazione all’interno di un buco nel terreno, poco distante da una festa a cui hanno preso parte. Il contatto con la formazione cristallina, di cui – indicativamente – s’ignorano natura e origine,fornisce all’improvvisato terzetto una serie di poteri di cui poco a poco comprendono potenza, peculiarità ed entità. Ma di fronte al mutamento di stato, e dopo un breve periodo di incosciente spensieratezza, di frizzi e di lazzi, le differenti nature dei tre personaggi vengono allo scoperto e collidono, fino all’irrazionale esplosione di violenza finale, a causa della quale Andrew sarà prima motivo indiretto della morte di Steve e poi cieco distruttore della zona centrale di Seattle, ostacolato dall’intervento risolutore di Matt. Lo spunto sci-fi è ovviamente solo un pretesto. La conformazione cristallina e ramificata comparsa improvvisamente sotto il terreno è un dato di fatto imponderabile sul quale non si indaga, e che tantomeno pretende una soluzione che soddisfi una curiosità mai generata dal film. È l’indice di un cambiamento radicale, la mani-
festazione concreta di una funzione cardinale del racconto, la cesura allegorica dopo la quale niente è più come prima. Il dopo è l’abbozzo di un’osservazione di caratteri e di aspirazioni, riassumibile in una tripartizione anch’essa traslata, in virtù della quale l’adolescenza – e il senso di onnipotenza che a volte porta con sé – è vista attraverso la saggia misura di Matt,l’illuso e generoso entusiasmo di Steve e il rabbioso senso di riscatto di Andrew per una famiglia disfunzionale e per le umiliazioni subite in un recente passato da nerd emarginato. Ma se il racconto di (divergente) formazione è poco meno che convenzionale proprio perché proposto come science-fiction in disguise , più interessante appare la logica di creazione dello sguardo che informa il film e sostanzia la modalità stessa di racconto. Il found footage come principio fondante, l’occhio di Andrew come visione orientante. La prima inquadratura del film – Andrew che pone la sua videocamera davanti a uno specchio – rappresenta il principio concettuale che attraversa tutta la pellicola, caratterizzandone orientamenti e prospettive: insieme sguardo soggettivo sul mondo e piano oggettivo su di sé, una visione totalizzante dell’esistente e dell’esperienza sensibile che implica una precisa volontà di collocazione all’interno della realtà, come parte di essa, e non solo in qualità di osservatore esterno. Il concetto di visione sottende il desiderio di un adolescente tormentato, esterno alla realtà che lo circonda e da cui è escluso, se non, nella migliore delle ipotesi,come semplice spettatore, poiché quando entra – suo malgrado – in contatto con quella stessa realtà che si limita a guardare è solo per essere malmenato o umiliato. La soggettiva come aspirazione, l’inglobamento nell’oggettiva come conseguenza dell’assunzione dei poteri (le scene in cui Andrew libra la videocamera in volo per farsi inquadrare in plongée ) e come immagine della volontà di appropriarsi di quel mondo di cui Andrew non ha mai fatto parte in precedenza. Un progetto di visione che si espande con la
megalomane violenza in cui pare intrappolato il personaggio, ormai preda di una crisi irreversibile indirizzata verso l’annientamento, mostrato attraverso ogni dispositivo di visione e registrazione possibile (cellulari,tablet, telecamere a circuito chiuso eccetera) fino al redde ratio- nem finale con Matt. Solo a quel punto il regime dello sguardo subisce uno scarto differente: Andrew lotta per la sua folle affermazione senza che la sua azione sia filtrata da un qualunque apparecchio. La sua è un’oggettiva di cui si fa carico l’istanza narrante. Direttamente, senza intermediari e senza figure vicarie. Un dubbio si introduce nell’ipotesi di significato: il cambio di registro è legittimato dalla insana determinazione di Andrew a essere il centro di convergenza degli sguardi altrui, oppure il disegno teorico predisposto fino a quel momento da Josh Trank è saltato per l’og- gettiva difficoltà di mettere in scena una vorticosa sequenza d’azione secondo un unico punto di vista? Giampiero Frasca
HUNGER GAMES Gary Ross Titolo originale: The Hunger Games. Regia: Gary Ross. Soggetto: dal
romanzo omonimo di Suzanne Collins. Sceneggiatura: Gary Ross, Suzanne Collins, Billy Ray . Fotogra- fia: Tom Stern. Montaggio: Stephen Mirrione, Juliette Welfling. Musica: James Newton Howard,T-Bone Burnett . Scenografia: Philip Messina. Costumi: Judianna Makovski. Inter- preti: Jennifer Lawrence (Katniss Everdeen), Josh Hutcheson (Peeta Mellark), Liam Hemsworth (Gale Hawthorne),Woody Harrelson (Haymitch Abernathy), Elizabeth Banks (Effie Trinket), Lenny Kravitz (Cinna), Stanley Tucci (Caesar Flickerman), Donald Sutherland (il Presidente Snow), Wes Bentley (Seneca Crane),Toby Jones (Claudius Templesmith), Alexander Ludwig (Cato),
Isabelle Fuhrman (Clove), Amandla Stenberg (Rue), Willow Shields (Primrose Everdeen), Leven Rambin (Glimmer), Jacqueline Emerson (Foxface), Paula Malcomson (la signora Everdeen). Produzione: Nina Jacobson, Jon Kilik, Diana Alvarez, Louis Phillips, Aldric La’auli Porter, Bryan Unkeless per Color Forse/Larger Than Life Productions/Lionsgate/Ludas Productions. Distribuzio- ne: Warner Bros. Durata: 142’. Origi- ne: USA, 2012. «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spet- tacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», scrive Guy Debord (La società dello spettacolo , Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, pag. 53). Per cercare di capire Hunger Games bisogna leggerlo a livello contestuale. Cioè vedere come il film prenda senso e valore all’interno del macrotesto cine-spettacolare. Il lavoro di Gary Ross, trasposizione del primo capitolo dell’omonima epopea scritta da Suzanne Collins, si colloca nel solco delle recenti saghe cinematografiche principalmente concepite per un target giovanilistico. Ogni anno, ciascuno dei dodici distretti di Panem deve tributare due suoi giovani, un ragazzo e una ragazza, ai “giochi della fame”, arena postmoderna concepita per celebrare la repressione della rivolta che i poveri tentarono per destituire gli alti
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scranni di Capitol. «Preparate il massacro dei […] figli a causa della iniquità dei loro padri, perché non si alzino più a prendere possesso della Terra» (Isaia 14, 21 [Nuova Diodati]). Il tutto sotto gli occhi delle telecamere, in un barbarico reality show al termine del quale uno solo dei partecipanti resterà vivo. È il ritratto di una società strutturalmente organizzata secondo il modello già immaginato da Fritz Lang per Metropolis , con la differenza che i miserabili non sono confinati nel sottosuolo ma alle periferie. Da un lato l’immagine di una povertà riecheggiante atmosfere anni Quaranta, dall’altro una capitale che rilegge i fasti di Versailles nell’ottica futurista e kitsch del tubo catodico, abitata da figure eccentriche, parossistiche e ciniche, in pendant con le acide fosforescenze televisive. Molte le suggestioni: dall’ovvio rimando al mito di Minosse fino a Battle Royal , romanzo di Koshun Takami che ha ispirato il manga (sceneggiato dallo stesso scrittore) e il film (diretto da Kinji Fukasaku) omonimi. Questo a dimostrare che non è certo l’originalità il risultato che il film si prefigge di raggiungere. La stessa idea che tutto sia regolato dalle logiche televisive, e che di conseguenza ogni comportamento o reazione sia condizionato dagli indici di gradimento spettatoriali, non è di certo un qualcosa di inedito; è questione già cinematograficamente affrontata e con ben maggiore approfondimento. Ciò che rende interessante Hunger Games è quello di accennare questa riflessione all’interno di un film che si presenta sul mercato come il classico prodotto mainstream , conforme alle retoriche di vendita, all’apparenza proponente una vicenda che non conceda alternative a una monolettura, da intendersi come prospettiva unica e unificante. Gary Ross si rivolge a un pubblico abituato a narrazioni filmiche d’immediata decifrazione e insinua in questi il sospetto che non tutto sia di diretta interpretazione, che può esistere un sottotesto,e che bisogna quindi sforzarsi a vedere del “montato”(cioè del fabbricato) là dove abitualmente si è
soliti vedere dell’omogeneo (cioè del “naturale). In questa prospettiva, sotto la superficie ingannevole della facilità fruitiva, Hunger Games presenta un articolato intrecciarsi di ossessioni metacinematografiche. È il film che esibisce i criteri della sua stessa giudicabilità, in quanto lancia segnali sul tipo di operazione che va compiendo. Come sostenuto da Marcello Walter Bruno, «ogni film si autorizza da sé, ma non da solo. Esso si inserisce nel grande flusso della produzione culturale» (I giochi proibiti , «Segnocinema» n. 44, luglio 1990, pag. 4). L’operazione è la verità dell’opera. Un’operazione, però, di certo non priva d’ambiguità, poiché non ci permette di capire quanto Gary Ross sia realmente conscio del proprio meta-operare. Siamo di fronte a un regista perfettamente consapevole e quindi interessato a riflettere sulla struttura visiva e narrativa di un preciso modello testuale, oppure di uno scaltro artigiano che giustifica le proprie pecche facendole passare per volute incongruenze finalizzate a mettere in risalto la struttura del sistema? Il dubbio rimane: il film non coinvolge per mancanze della sceneggiatura, o perché gli artifici sentimentali della comunicazione spettacolare, per loro stessa natura, non possono coinvolgere? Matteo Marelli
ROBA DA MATTI Enrico Pitzianti Regia e sceneggiatura: Enrico Pitzianti. Montaggio: Marco Antonio Pani. Produzione: Enrico Pitzianti
per Eia Film/Società UmanitariaCineteca sarda/A.S.A.R.P. Casamatta Onlus. Distribuzione: Eia Film. Durata: 80’. Origine: Italia, 2011. «Esistono donne che in silenzio, tutti i giorni, dedicano la loro vita a chi soffre. Sono loro le vere eroine dell’Italia di oggi e in questo film, come autore e come uomo, ho avuto il pri-
vilegio e l’onore di poterlo testimoniare» (Enrico Pitzianti). Se c’è stato un prima, ma non siamo sicuri ancora un dopo, l’avanguardistica “Legge Basaglia” del 1978 che in pratica rivoluzionò la gestione e l’approccio anche sociale del disagio mentale in Italia e in tutto l’Occidente lo dobbiamo anche a storie come questa. La storia di Roba da matti infatti è la dimostrazione di quanto si debba ancora lavorare in questa direzione: siamo in Sardegna, precisamente a Quartu Sant’Elena, all’interno della residenza socio-assistenziale di Casamatta in cui vivono otto persone con disagio mentale. La struttura è considerata all’avanguardia nel panorama italiano, un luogo dove le persone con sofferenza mentale possono aspirare a ricostruirsi una vita. Purtroppo però, dopo diciassette anni di attività, la casa rischia di chiudere, stretta tra la morsa della burocrazia e delle gelosie e ripicche corporative: da una parte c’è lo sfratto deciso dal padrone di casa che non è più intenzionato a rinnovare il contratto d’affitto, dall’altra c’è una denuncia di un medico “pre-basagliano”, che accusa gli operatori di maltrattamenti e di gravi inadempienze sanitarie. E qui arriva Enrico Pitzianti, documentarista militante, si sarebbe detto qualche anno fa. Pitzianti, camera in mano, entra in Casamatta e comincia a filmare, senza filtri. E come un fiume prende corpo la storia.Tre mesi di convivenza e un pro-
getto di un puro film di finzione che rimane solo sulla carta: forse l’urgenza di raccontare la chiusura di Casamatta impedisce a Pitzianti di calcare troppo la mano sulla fiction. Quello che ne esce è una docu-fiction disadorna, senza orpelli, volutamente “brutta” nell’estetica ma solida nel suo rapportarsi indefessamente con la realtà provando persino, follia!, a tentare di influenzarla. Meriti e pregi della pellicola sono tutti qui, nell’intersezione tra la finzione e la realtà, tra un classico racconto cinematografico e l’urgenza di raccontare un mondo che sta per sparire. E tante anche le mancanze: del film di finzione manca la grande idea di regia dalla quale trarre continua ispirazione, così come una chiara e progettuale articolazione del discorso filmico. Altro dubbio sorge guardando anche all’utilizzo di alcuni registri narrativi, nelle finalità come nelle modalità, come ad esempio la scelta di affidare solo parzialmente un commento in voice over di una delle più strenue sostenitrici di Casamatta, Gisella Trincas, presidente della comunità nonché sorella di uno dei malati. Malati che, è il caso dirlo (e questo è uno dei grandi punti di forza di Roba da matti ), vengono tratteggiati da loro stessi, attraverso le loro parole e i loro gesti, senza quella retorica tipica di certo cinema “patologico” che impone al malato il filtro onnipresente del medico o dell’operatore. E il cuore del film è tutto qui, in quel “misterioso” ed empatico rapporto fra gli assistiti e gli “altri”. Bravo Pitzianti nell’aprire con naturalezza e soprattutto pudicizia uno squarcio su questa umanità dolente e nel delineare, anche con sorprendente ironia, il ritratto di queste personalità che troppo facilmente potrebbero esser definite “border-line”. Ecco perché nei racconti e negli sguardi di Stefano, l’innamorato, di Sergio, il lavoratore, di Patrizia, che dorme beata, di Maria Antonietta, “lucida” a tal punto da riconoscere come spesso siano gli “ospiti”a maltrattare gli operatori, di Cenza, che scopre con innocenza il gusto vellutato di una tazza di latte, di Pinuc-
cio, che non ha altra casa all’infuori di Casamatta, c’è tutta l’urgenza del cinema di vero impegno, di militanza e di partecipazione. Che non sarà, come detto, propriamente “bello”, ma che certamente è “utile”, per quanto possa esserlo un film oggi. Certo, siamo anche distanti dall’esperimento argentino dei coli- fatos , raccontati nello splendido documentario di Carlos Larrondo LT 22 – Radio La Colifata , datato 2004, ma quello era un caso forse più unico che raro di compartecipazione “autoriale”. Lorenzo Leone
ISOLE Stefano Chiantini Stefano Chiantini. Soggetto: Massimo Gaudioso, Stefano Chiantini. Sceneggiatura: Stefano Chiantini, Giuliano Miniati. Fotografia: Vladan Radovic . Montaggio: Luca Benedetti, Cristina Flamini. Musica: Piernicola Di Muro. Scenografia: Ludovica Ferrario. Costumi: Susanna Mastroianni, Francesca Tessari. Interpreti: Asia Argento (Martina), Giorgio Colangeli (don Enzo), Ivan Franek (Ivan), Anna Ferruzzo (Wilma), Pascal Zullino (Rocco), Paolo Briguglia (Alessandro), Alessandro Tiberi (don Paolo),Vincenzo Crivello (il muratore), Philippe GuaRegia:
stella (il padre di Ivan), Mauro Bonaffini, Beniamino Caldiero, Eugenio Krauss (gli uomini della rissa). Produzione: Selvaggia Sada, Gianluca Arcopinto per Obraz Film. Distribuzione: Gianluca Arcopinto, Marco Ledda per Zaroff . Durata: 92’. Origine: Italia, 2011. Martina ama le api. Le api di lei se ne infischiano, e pensano a fare il miele. Se porge la sua pelle chiara, nonostante il sole dell’isola, alla loro mercè, loro non esitano ad approfittarne: ma Martina conosce le punture della vita, e le api in confronto sono compagne carezzevoli, produttrici di un nettare inebriante che placa il suo tormento. Martina ha smesso di parlare quando ha perso la figlia, e adesso è schiva, solitaria, pazza. O almeno così la chiamano in paese. È tornata una bimba anch’essa: fragile nel suo giubbino démodé , inconsapevole della propria bellezza, egoista e incosciente. Mentre scalcia passi per le strade in salita dell’isola si scontra in Ivan, un albanese che arriva ogni giorno in traghetto per lavorare, e ne è subito attratta. Nonostante lui sia un uomo, abbia mani forti, ossa robuste. Martina di lui si fida quasi subito, perchè ha qualcosa nello sguardo di dolce, il sapore di una vita che non è quella che sta vivendo, il desiderio intatto di altri luoghi. Don Enzo si è preso cura di Martina da quando è rimasta sola e senza voce, e nonostante adesso un ictus lo
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abbia menomato nei movimenti e nell’indipendenza, vuole continuare a farlo. Chissà perchè. È un prete ostinato e atipico, che risponde in malo modo, comanda, maltratta la sorella che vuole aiutarlo (non proprio disinteressatamente), non si fida di nessuno. Quando Martina gli porta a casa un clandestino, però, non ci mette molto ad assumerlo come badante, scandalizzando tutti. Ivan, poi, è molto bravo, e soprattutto non ha un soldo, nemmeno per tornare da dove è venuto. Isole è un film breve, piccolo e delicato. Guardarlo (in streaming web, grazie all’insolita iniziativa dei produttori Obraz Film e Arcopinto, che lo hanno reso disponibile gratuitamente in contemporanea con l’uscita in sala) suscita sensazioni contrastanti: un misto di fastidio e compiacimento, noia e attenzione, alti e bassi, come le onde del mare che separano le due isole (una italiana e una albanese) a cui il titolo fa riferimento. È un film di sentimenti quasi primordiali, mostrati mentre nascono, crescono, scoppiano e poi nuovamente trovano un equilibrio. Il paesaggio delle isole Tremiti, la loro apparente inospitalità rocciosa, è la metafora scontata di questa ritrosia che si moltiplica per tre: sia Martina, sia don Enzo che Ivan sono isole che hanno imparato a convivere con se stesse e a bastarsi, affidandosi al ricordo e a un pianto di nascosto o represso il rilascio del sentimento. Se è abbastanza chiaro l’abbinamento tra la solitudine di Martina, privata della figlia, di un compagno e di una vita normale dal destino, e quella di Ivan, muratore sfruttato e respinto dall’Italia e dallo stesso, sfaccendato padre, due sguardi incompresi che si riconoscono, è il personaggio di don Enzo a rimanere poco delineato. Interpretato dal bravissimo Giorgio Colangeli, questo prete burbero colpito improvvisamente da una malattia che lo riempie di rabbia e impedimenti, è lasciato a se stesso anche dalla sceneggiatura, che è volutamente e in più punti lacunosa ed ellittica, ma con lui è quasi impietosa. Da cosa
nasce il suo attaccamento per Martina? Da un desiderio di paternità azzoppato dalla vocazione? Da pia misericordia cristiana? Da una forma seppur innocente e platonica di attrazione per una donna, indifesa e fragile, problematica e infantile, ma comunque una donna? Di qualsiasi forma e dimensione, di amore si tratta, comunque. Un amore che non chiede quasi niente, e che si accontenta della compagnia di un piatto di minestra condiviso, che fa finta di non vedere gli sguardi desideranti, e che, alla fine, accetta di soccombere a un altro amore, più giovane, forte e pieno di speranza. Isole è un film che scorre sulla punta delle dita quasi senza lasciare traccia, inconsistente ed essenziale come l’immagine mentale del volto di una persona cara sott’acqua (una citazione nemmeno tanto velata da L’Atalante di Vigo?). Ma, forse proprio per questa sua spontanea vacuità, qualcosa resta. Elisa Baldini
THE AVENGERS Joss Whedon Titolo originale: id. Regia: Joss Whedon. Soggetto: Joss Wheldon,
Zak Penn, basato sui personaggi creati da Stan Lee e Jack Kirby per la Marvel. Sceneggiatura: Joss Wheldon, Zak Penn. Fotografia: Seamus McGarvey . Montaggio: Jeffrey Ford, Lisa Lassek . Musica: Alan Silvestri. Scenografia: James Chinlund. Costumi: Alexandra Byrne . Interpreti: Robert Downey jr. (Tony Stark/Iron Man), Chris Evans (Steve Rogers/Capitan America), Chris Hemsworth (Thor), Mark Ruffalo (Bruce Banner/Hulk), Jeremy Renner (Clint Barton/Occhio di Falco), Scarlett Johansson (Natasha Romanoff/Vedova Nera), Tom Hiddleston (Loki), Samuel L. Jackson (Nick Fury), Cobie Smulders (Maria Hill), Clark Gregg (l’agente Phil Coulson), Cobie Smulders (l’agente
Maria Hill), Stellan Skarsgård (il professor Erik Selvig), Gwyneth Paltrow (Pepper Potts), Evan Kole (Joey), Harry Dean Stanton (una guardia), Stan Lee (l’uomo anziano in televisione). Produzione: Kevin Feige per Marvel Studios/Paramount Pictures/Albuquerque Studios. Distribuzione: Walt Disney . Durata: 142’. Origine: USA, 2012. Resta – ed è bene confessarlo fin da subito – negli occhi una strana impressione, all’uscita di questo Avengers firmato Joss Whedon. Un’immagine frammista di familiarità antiche e squarci di cose nuove: come quella che accoglie chi torna a distanza di anni nei luoghi che furono dell’infanzia. Di un’infanzia, s’intende, opportunamente rivisitata e aggiornata. Il film non ha nulla di quella deriva finto-retrò che pure si avvertiva in Captain America .Tuttavia, a dispetto degli scintillii digitali e dei dialoghi brillanti, questi marcantoni in costume restano il parto di un’immaginazione le cui coordinate culturali differiscono irriducibilmente – almeno per chi scrive – da quelle che dominano l’industria culturale statunitense oggi. L’idea stessa del supergruppo, della crestomazia di individui eccezionali che si uniscono per superare l’ostacolo, sottende ad esempio un’ideologia da consenso liberale tanto smac-
cata da far oggi sorridere. Non a caso, la riproposizione del motivo rinuncia in partenza a quella cupezza delle distopie collettive, a quella serietà introspettiva dei caratteri che infiltrano oggi i prodotti young adult . Questo film – per intenderci – si prende assai meno sul serio. Piuttosto, quei tratti lasciano qui il posto a un distanziamento ludico, un’ironia che è quasi strategia narrativa. Quasi. Si avverte infatti lo sforzo di sbalzare i personaggi dalla superficie della pagina, di lavorare attra- verso gli elementi riconoscibili del genere, per far riemergere l’umanità dei caratteri, la verità delle loro reciproche relazioni umane. A tal fine, la trama risulta opportunamente ridotta a pretesto, a innocua trovata favolistica. La giocata tuttavia riesce a metà: l’intreccio è sì trasparente, ma il film, schiacciato sotto il peso necessario delle proprie coreografie e della propria scontatissima colonna sonora, inclina pericolosamente al versante smargiasso del filone supereroistico, quello à la Bay, per intenderci. L’aspetto meno interessante della pellicola, quello legato a un piacere visivo viscerale e financo puerile, finisce con ingombrare la scena, rubando il campo a quelle dinamiche di gruppo che pure Whedon ha dimostrato più volte di saper maneggiare con sincerità e delicatezza. Così com’è, invece, il film evita tanto il côté fantapolitico-morale quanto – e più colpevolmente – quello psicologico, del quale non restano che sprazzi: penso ad esempio al legame “tragico” tra Loki e Thor, o a quello speculare tra Banner e Stark, giocato sulla dialettica tra un doppio interno e un doppio esterno. Qualcosa insomma si intravede: ma è poco, e non basta a riscattare Avengers dalla debolezza di alcune scelte di casting che lasciano perplessi (Occhio di Falco e Capitan America su tutti), o dalla vacuità di caratterizzazioni appena sbozzate. Nick Fury, per dire, resta sospeso tra gli aneliti messianici di un “Negro Magico”, per citare Spike Lee, e la spavalderia guascona propria della
sua controparte cartacea; la coppia Romanoff-Barron stenta a sollevarsi dal livello di cliché da action movie. Ma soprattutto quel poco di buono che resta non basta a riscattare il film da quel che prometteva di essere: la regia di Whedon aveva sollevato discrete speranze, delle quali non nego d’essermi nutrito anch’io. Ora un film andrebbe sempre studiato per quel che è e non per quel che non è, ma se si pensa alla distanza tra i personaggi femminili di Whedon e la parte della Johansson in questo film, è difficile sopprimere un moto di delusione. Rispetto a quanto scrivevo su queste pagine a proposito di Captain Ame- rica («Cineforum» n. 507), infine, mi sembra che le opportunità di innovare la modularità del racconto cinematografico seriale siano state sostanzialmente disattese. L’idea di una continuity , di un cosmo narrativo coerente che si dispieghi in parallelo alla diegesi del testo filmico non trova in The Avengers alcun riscontro forte. Il film allude al seguito, ma l’idea che le varie narrazioni possono dipanarsi contemporanamente insieme e ciascuna per conto loro viene (mi sembra) sostanzialmente abbandonata. Peccato. Non resta, per consolarci – se ci è concessa una chiusa mondana – che la cristallina bellezza di Cobie Smulders: a lei rivolgiamo auguri di brillante carriera. Nello SHIELD, e fuori. Pasquale Cicchetti
MATERNITY BLUES Fabrizio Cattani Fabrizio Cattani. Soggetto: dal libro From Medea di Grazia Verasani. Sceneggiatura: Fabrizio Cattani, Grazia Verasani. Fotografia: Francesco Carini. Montaggio: Paola Freddi. Musica: Paolo Vivaldi. Sce- nografia: Daniele Frabetti. Costumi: Teresa Acone, Sandra Cianci. Inter- preti: Andrea Osvárt (Clara), Monica Birladeanu (Eloisa), Chiara Martegiani (Rina), Marina Pennafina Regia:
(Vincenza), Daniele Pecci (Luigi), Elodie Treccani (Giulia), Pascal Zullino (il dottor Scalia), Giulia Weber (Trudy), Lia Tanzi (Rosa), Pierluigi Corallo (l’avvocato), Giada Colucci (la dottoressa Lucia Stregari), Franca Abategiovanni (Elsa), Amina Syed (Mari). Produzione: Fulvia Manzotti per The Coproducers/Ipotesi Cinema/Faso Film. Distribuzio- ne: Fandango. Durata: 95’. Origine: Italia, 2011. Partiamo dal Natale, dalla festa di Natale che fa da catalizzatore agli eventi del film, a due terzi di film. Eloisa viene invitata sul palco da Vincenza, l’amica-nemica, a cantare la canzone che l’aveva resa famosa nel 1995 al festival di Castrocaro, e scopriamo che lei, che ha ammazzato il figlio, quella canzone l’aveva dedicato proprio a lui. E cantando si commuove, piange; e scende dal palco e si butta tra le braccia di un amico, e con lui teneramente balla in un’atmosfera da piano-bar anni Ottanta, simile a quella dell’inizio di Félix et Lola . Atmosfera che viene poi rotta dall’aggressione di altre due compagne ai suoi danni, perché se l’istituto in cui si ambienta la vicenda è ben lontano dagli ospedali psichiatrici giudiziari reali, è pur sempre un luogo di detenzione e di cura, di persone che non stanno bene.
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Poche scene dopo e sempre in occasione del Natale un altro pianto, quello di Clara, disperato, davanti al marito, che è tornato da lei perché si è reso conto che la ama ancora, nonostante tutto quello che è successo e nonostante il suo tentativo di andare oltre; ma per lei tornare insieme non è possibile, quello che sente è solo la sua bruttezza, la sua colpevolezza, la sua inclinazione a distruggere se stessa e gli altri. E mentre Rina in quegli stessi giorni va a fare uno stage da parrucchiera in città,Vincenza, delle quattro la più vecchia e apparentemente più risolta, si toglie la vita scrivendo ai due figli che le sono rimasti che vuole loro bene, che augura loro il bene. E viene inquadrata a piombo nello spazio della psicoterapia di gruppo, in fondo a una serie di scale di hitchcockiana memoria. Nel finale Clara è in giardino, presso una fontana; guarda l’acqua e ricorda l’uccisione dei suoi figli in uno specchio d’acqua, e si immagina dentro quest’acqua, lei stessa dentro l’acqua a morire insieme a loro, fino a che un qualcuno immaginario non la toglie da lì. L’acqua è verde, e quel verde è quello della scena iniziale, il verde screziato da dei flash di luce intermittente, il rumore del treno, il volto di lei che si accenna mentre nella scena finale del film si definisce, con la voce narrante (la sua, ma probabilmente sta leggendo i diari di Vincenza) che parla di loro donne, di loro detenute in quell’istituto, di loro amiche, di loro compagne di stanza, di loro infanticide, «con le facce tirate e la testa vuota», dicendo che hanno «una tempesta dentro che non esce mai» e che non esiste al mondo una roccia che prima o poi non si sgretoli, perché come affermava il prete amico del marito, il male è dentro a ognuno e Dio non è ancora riuscito a separare il bene dal male, come recita il brutto sottotitolo del film (Il bene dal male , appunto). 4 1 5 m u r o f e n i c 48
Ci sono altri film a cui questo può richiamarsi, Quando la notte in primis, presentato anch’esso a Venezia 68 (Maternity Blues era nel Controcampo Italiano); ma
quel verde che lo apre e lo chiude ci riporta a Lo spazio bianco , in cui una donna che non voleva avere figli decide di tenere un bambino “venuto per caso” e deve anzi attendere tre mesi sperando che riesca a sopravvivere fuori dall’incubatrice, visto che è nato prematuro. Maria che è perfettamente autonoma, Maria che bada a se stessa, Maria che starebbe bene anche senza figli, che forse starebbe meglio come era per la Fallaci del libro che l’ha resa famosa (e anche Lo spazio bianco è tratto da un libro, come il nostro film da un testo teatrale della Verasani, che ha firmato con il regista la sceneggiatura), ma che nell’attesa della sua bambina, prima e dopo il parto, trova un suo senso e un suo scopo.
Il paragone con il film di Francesca Comencini (e anche, se vogliamo, con quello della sorella, che presenta una donna che non riesce più a sostenere le attenzioni e le cure che le richiede il figlio e che un giorno in cui lui cade lo lascia lì, incapace di reagire) ci porta a entrare per contrasto nel discorso sul valore del film: laddove il primo è realistico, sottile, profondo nell’analizzare i sentimenti della protagonista in maniera minimale e con dialoghi essenziali e scarni, Maternity Blues è molto televisivo, specie nella prima parte: regia piatta, schematismo di fondo, dialoghi scontati e buonismo imperante, per cui viene da dire che, con un tema di questo tipo e di questa portata, Cattani avrebbe potuto fare di più, osare di più. Essere un po’ più duro e rendere le cose un po’ più complesse, come sono nella vita reale. È per questo che sono partita dalla descrizione di alcune sequenze e situazioni: sono quelle meglio riuscite, più poetiche e più vere, e determinano il film sul piano narrativo. Ma l’opera ha il merito di portare sullo schermo il tema della depressione post-partum , legata all’infanticidio, che vale la pena di indagare anche al cinema, mostrando le diverse (in questo caso quattro) ragioni e situazioni e lasciando allo spettatore il compito di giudicare, se ha senso giudicare
quello che, inspiegabile, costituisce uno dei tabù più potenti di qualunque società umana. Paola Brunetta
GLI INFEDELI AA.VV. Titolo originale: Les infidèles. Regia: Jean Dujardin, Gilles Lellouche (ep. Las Vegas ) ; Emmanuelle Bercot (ep. La domanda ); Fred Cavayé (ep. Prologo ) ; Alexandre Courtès (epp. Bernard , Thibaud , Simon , Infedeli anonimi ); Michel Hazanavicius (ep. La buona coscienza ); Eric Lartigau (ep. Loli- ta ). Soggetto: Jean Dujardin. Sce- neggiatura: Jean Dujardin, Gilles
Lellouche, Stéphane Joly, Philippe Caverivière, Nicolas Bedos. Fotogra- fia: Guillaume Schiffman. Montag- gio: Anny Danché, Julien Leloup, Benjamin Weill, Michel Hazanavicius. Musica: Evgueni e Sacha Galperine . Scenografia: Maamar Ech Cheikh, Wahib Chehata. Costumi: Carine Sarfati. Interpreti: Jean Dujardin (Fred/Olivier/François/ Laurent/James), Gilles Lellouche (Greg/Nicolas/Bernard/Antoine/Er ic), Mathilda May (Ariane), Géraldine Nakache (Stéphanie), Julien Leprisé (Mathéo), Alezandra Lamy (Lisa), Anne Suarez (Julie), Cyrius Rosset (Victor), Guillaume Canet (Thibaud), Annabelle Naudeau (Agnès), Claire Vivilel (l’amante di Thibaud), Manu Payet (Simon), Sandrine Kiberlain (Marie-Christine), Isabelle Nanty (Christine), Charles Gérard (Richard), Maeva Pasquali (Nathalie), Clara Ponsot (Inès). Produzione: Jean Dujardin, Marc Dujardin, Éric Hannezo, Guillaume Lacroix per JD Prod./Black Dynamite Films. Distribuzione: BIM. Durata: 109’. Origine: Francia, 2012. Bisogna dargliene atto: fresco vincitore del premio Oscar, Jean Dujardin ha voluto sorprenderci («Quest’esercizio mi permette di proporre
qualcosa di diverso, di non diventare The Artist »). E così con Gli infe- deli egli ha deciso di rimettere in gioco la propria immagine di novello Maurice Chevalier del cinema transalpino, lanciandosi, insieme al sodale Gilles Lellouche, in un’avventura per tanti versi arrischiata, tesa a sconfessare, degradare e irridere il mito del grande seduttore francese, ricorrendo a quel gusto tra il beffardo e il crudelmente satirico che animava la commedia all’italiana degli anni Sessanta e Settanta, quella, in particolare, dei film a episodi di Dino Risi ed Ettore Scola. Un’eredità che è percepibile, ad esempio, nelle microstorie incastonate frammezzo ai segmenti di più largo e disteso respiro, esili interludi comici, di una comicità alquanto grassa, al limite della barzelletta sconcia, dove nondimeno pare di poter cogliere qualcosa della misoginia disinibita e dell’insolenza sguaiata e anarchica che improntavano gag, arguzie verbali e trovate visive della commedia a sketch del buon tempo antico. Per contro (e paradossalmente), gli episodi più articolati, e di maggior consistenza, e più convincenti, esibiscono tonalità che tirano all’amaro e al dolente. Il film ci scodella allora un campionario di ritratti di infedeli compulsivi che conservano, nelle loro fattezze e nelle loro movenze, qualcosa di urticante. Gli antieroi di questi piccoli racconti si presentano come
individui grigi, sciatti, mediocri: squallidi erotomani e tristi libertini con i quali non è possibile, per il pubblico, stabilire alcun processo di identificazione. Penso soprattutto a Laurent, il protagonista di La buona coscienza , il segmento più riuscito del lotto, dove la dissacrazione della figura del maschio sessista assume un timbro acido e derisorio. La goffa esuberanza dell’uomo sposato che, lontano da casa per ragioni di lavoro, è ben deciso a cogliere al volo l’occasione propizia gettandosi sulla prima gonnella che gli capiti a tiro, si traduce in una smania affannosa, lamentosa e impotente, capace di trasmettere nello spettatore una sensazione di persistente disagio. Allo stesso modo, la vicenda del maturo dentista irretito da una ninfetta senza cervello acquisterà assai presto qualcosa di penoso e di patetico, prima di risolversi, nell’uomo, in amaro disincanto (Lolita ). Ancora più secco e più cupo, giocato su un registro drammatico che si discosta dalle cadenze leggere del resto della pellicola, l’episodio (La domanda : l’unico costruito a partire da una prospettiva femminile e firmato da una regista donna) in cui un marito e una moglie decidono incautamente di confessarsi le reciproche scappatelle, innescando in tal modo un feroce gioco al massacro entro il quale entrambi i contendenti finiranno per smarrirsi: una
piccola pièce da camera, costruita sul volto degli interpreti (uso insistito di piani ravvicinati e inquadrature fisse) e sulla tagliente densità dei dialoghi. Va da sé che, in un formato cinematografico anomalo come la commedia a episodi, se alcuni sketch funzionano a dovere, altri possono denunciare cadute di tono, squilibri di ritmo. Talora le scelte di regia s’ingolfano nelle grinze di un grottesco sin troppo laborioso e caricaturale (Gli infedeli anonimi , dove una Sandrine Kiberlain decisamente fuori parte fa rimpiangere la splendida interprete di Storie di spie ). In altre situazioni (Prologo e soprattutto Las Vegas ) gli autori scelgono di adottare una narrazione più scanzonata e sconnessa, sbrigativa e ammiccante, prossima alla sciatteria programmata e alla scioltezza praticona ma fragile di certa commedia neohollywoodiana. Qui la pellicola non rinuncia a farsi complice di un cameratismo virile dietro il quale s’insinua l’ombra di un’omosessualità mal repressa. E tuttavia anche qui la messa in scena, nella sua macchinosa intenzione comica, fatica non poco a trovare i tempi giusti del racconto. Perché, si sa, la comicità esige tempi rigorosi, esatti. È quello che verrà a scoprire a sue spese il povero Laurent, il quale, avendo commesso l’imperdonabile errore di tirare troppo per le lunghe la sua barzelletta, finirà per annoiare tutti. Nicola Rossello
50 E 50 Jonathan Levine Titolo originale: 50/50. Regia: Jonathan Levine. Sceneggiatura: Will Reiser. Fotografia: Terry Stacey. Montaggio: Zene Parker. Musica: Mochael Giacchino. Scenografia: Annie Spitz. Costumi: Shane Vieau. Interpreti: Joseph Gordon-Levitt (Adam), Seth Rogen (Kyle), Anna Kendrick (Katherine), Bryce Dallas Howard (Rachel), Anjelica Huston
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(Diane), Serge Houde (Richard), Andrew Airlie (il dottor Ross), Matt Frewer (Mitch), Philip Baker Hall (Alan), Donna Yamamoto (la dottoressa Walderson), Sugar Lyn Beard (Susan),Yee Jee Tso (il dottor Lee), Sarah Smyth (Jenny), Daniel bacon (il dottor Phillips), Will Reiser (Greg). Produzione: Evan Goldberg, Ben Karlin, Seth Rogen, Shawn Williamson, Nicole Brown, Kelli Konop, Tendo Nagenda per Point Grey Pictures/ IWC Productions. Distribuzione: Eagle. Durata: 100’. Origine: USA, 2011. Bello questo nuovo cinema indipendente americano, segnato da commedie che commedie del tutto non sono, ma che offrono uno sguardo leggero e disincantato sulla realtà e sugli aspetti anche drammatici che presenta. Commedie low budget di ambientazione prevalentemente urbana, giovanilistiche quanto basta o comunque con protagonisti giovani e dirette spesso da autori giovani che curano molto la musica, legata al panorama indie rock americano, e che lavorano con attori che condividono la loro visione del mondo e il loro stile di regia che è spesso sussurrato, minimale quando non dimesso nella rappresentazione del quotidiano. Stile Sundance se vogliamo, o comunque a un terzo modo di fare cinema che non sia quello dei film d’autore propriamen-
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te detti né quello dei blockbusters si è richiamato il regista, facendo riferimento al festival di Redford. Ne abbiamo viste parecchie, negli ultimi anni: (500) giorni insieme , Juno , Un perfetto gentiluomo , Humpday , Me and You and Everyone We Know , Lo stravagante mondo di Greenberg , Fa’ la cosa sbagliata
dello stesso nostro regista, e per certi versi anche American Life , Il calamaro e la balena , Soffocare . 50 e 50 rientra nel genere, con la differenza che il tema che affronta con leggerezza e ironia a volte eccessiva è quello della malattia, del cancro per la precisione, con il quale ultimamente molti registi si sono confrontati, uscendo dal cliché melodrammatico alla Love Story per andare su visioni differenti (della malattia ma anche della vita, probabilmente) e per toccare aspetti diversi della questione, Le invasioni bar- bariche , La mia vita senza me e Biu- tiful l’ultimo periodo della vita dei protagonisti e le priorità nuove che esso propone, Uno su due la malattia presunta e le sue conseguenze, La guerre est déclarée la malattia di un figlio dal punto di vista dei genitori, sull’esempio dei libri di Forest. Ma il problema è, appunto: come parlare di una malattia di questo tipo, che come scrive Ken Wilber ha un aspetto medico-oggettivo e un aspetto culturale dato dal modo in cui la nostra società la vive e la considera a livello di paure, speranze, miti, storie, valori e significati, senza contare le implicazioni psicologiche legate al singolo individuo ma anche a coloro che lo circondano, e come parlarne al cinema? Quali aspetti evidenziare, quale interpretazione dare ma soprattutto che stile e che tono utilizzare per esprimerli? C’è chi dice che la malattia ha un significato profondo per la persona, che ha a che fare con quello che è e con il modo in cui vive. Da questo punto di vista ha portato movimento, scombussolamento (caos, fango, energia primordiale) nella vita ordinata e sempre uguale del nostro protagonista, uno che non era solito porsi domande o mettere in discussione le cose. Poi c’è il punto di vista
medico, ben espresso dal modo asettico e terminologicamente corretto che il dottore utilizza per comunicare ad Adam che è malato e che ha cinquanta possibilità su cento di sopravvivere. C’è il protagonista che deve riconsiderare la sua vita ma che in realtà non fa nulla per “cambiarla”, se non lasciarsi un po’ andare alle persone che gli stanno vicino, lasciando (invece) andare chi sembra vicino ma non lo è. Ci sono gli altri da consolare e sostenere, come fossero loro i malati. C’è da affrontare il paradosso di ammalarsi anche se non si beve, non si fuma, si fa jog- ging tutte le mattine, non si attraversa col rosso anche se la strada è libera (emblematica la prima sequenza del film) e nemmeno si guida l’auto perché gli incidenti sono «la prima causa di morte, dopo il cancro». E da affrontare l’apparente non senso di tutto questo, da cercare di capire perché sia capitato proprio a te, che significato possa, appunto, avere. E un significato per il nostro pare averlo, alla fine, questo cancro da cui riesce a venire fuori. O almeno questo ci fa intendere il finale che apre all’amore e alla condivisione, quella con chi ti vuole bene davvero. La storia raccontata nel film è ispirata alla vicenda di Wile Reiser, che ne è produttore e sceneggiatore; gli attori, tutti bravi nello stile minimale che caratterizza l’opera, sono il Gordon-Levitt di (500) giorni insie- me , l’attore comico Seth Rogen, le giovani Anna Kendrick e Bryce Dallas Howard che si stanno facendo conoscere sempre di più, qualche caratterista di rango e Anjelica Huston nella parte della madre; lo stile è realistico-quotidiano con qualche elemento interessante quale l’uso dell’inquadratura a piombo a indicare la drammaticità di alcuni momenti e una fotografia dai colori plumbei o comunque neutri, il tono è appunto quello della commedia e bisogna dire che anche se dal regista di Fa’ la cosa sbagliata ci si poteva aspettare qualcosa di più in termini di coraggio e originalità, l’operazione funziona. In tutti i sensi. Paola Brunetta
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
SAGGI
Sogno di prigioniero
SOGNI (DI) PRIGIONIERI Sergio Arecco «Ho sofferto molto,
cado nel vuoto senza di te, Sto tornando, amore, Heathcliff crudele, mio unico sogno, mio unico padrone, troppo tempo ho urlato nella notte, sto tornando al tuo fianco, per mettere le cose a posto sto tornando a casa, alle mie Cime Tempestose, Heathcliff, sono io…» (Kate Bush, Wuthering Heights , 1978)
1. Qualcuno
ha scritto, non a torto, che nessuna versione cinematografica di Cime tempestose è riuscita a “liberare” lo spettatore dalle pagine del romanzo di
Emily Brontë (1847) con la perfetta intensità della canzone che ne ha tratto Kate Bush, con quel grido gemente (Heathcliff…) che sembra liberarsi dal più profondo nucleo espressivo del libro e volare via nell’aria. Perché il romanzo, fin dalle prime incomprensibili (comprensibili solo a posteriori) cinquanta pagine, tende a rinchiudere il lettore, per effetto di un incantesimo di scrittura che ha molto a che fare con l’elemento gotico che lo pervade, in quella stessa prigione in cui rinchiude inesorabilmente i propri personaggi, vittime della maledizione che affligge in pari misura Cime Tempestose (Wuthering Heights), la ricca dimora degli Earnshaw radicata nella desolata brughiera dello Yorkshire ed esposta come vuole l’etimologia alle
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La voce nella tempesta
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sferzanti raffiche delle tempeste, e Cime tempestose , il dark novel (o il romance , essendovi il reale e il fantastico inscindibilmente connessi) che da Cime Tempestose prende il nome – con un passaggio talmente fluido dal significante al significato da autorizzare, ad esempio, la disinvoltura-forzatura della traduzione francese, Les Hauts de Hurlevent (da cui l’Hurlevent di Jacques Rivette [1985], ahimè circoscritto alla sola impaginazione dei primi capitoli). «Torna a casa, ho così freddo! Lasciami entrare dalla tua finestra!», canta la Cathy (Catherine) di Kate Bush, rivolta a un Heathcliff scomparso che la rassicura: «Sono io!». Finché, nella versione di William Wyler (1902-1981), La voce nella tempesta (Wuthering Heights , 1939), l’Heathcliff di Laurence Olivier, tornato davvero a casa dall’America per comprarsi, ormai ricco, la dimora ora fatiscente dov’è stato accolto come trovatello dal signor Earnshaw e dov’è stato per troppo tempo impiegato come stalliere, non rompe davvero il cerchio magico della maledizione che aleggia su Cime Tempestose e si avventura, sulla scia
della “voce nella tempesta” della Catherine di Merle Oberon, fuori dalla “prigione” di quelle mura per ricongiungersi con lei tra le nuvole, in intermundia affatto immuni dalla bufera di neve che sta infuriando fuori. Nell’accesa, rusticana versione di Luis Buñuel (1900-1983), Cumbres borrascosas o Abismos de pasión (Cime tempestose , 1953), certo non incline come quella di Wyler al romanticismo hollywoodiano del lieto fine, si preferisce invece esplorare fino in fondo, per ammissione dello stesso Buñuel, la dimensione “sadica” del romanzo acutamente percepita dai surrealisti (soprattutto quelli “neri”, Bataille in primis, ma anche dai meno radicali, come Breton) e si opta per il gesto rituale del prete/esorcista che gira attorno al catafalco di Alejandro/vampiro (così si chiama lo Heathcliff messicano di Buñuel) per aspergerlo di acqua santa, decontaminarlo e buttarvi sopra una palata di cenere, dopo che el bruto ha osato sollevare per un attimo il velo che ricopre il cadavere di Catalina e baciarne le labbra (una cerimonia ancestrale che il
giovane Buñuel ha memorizzato dai tempi dell’infanzia trascorsa a Calanda). E nella versione più recente, il Wuthering Highs di Andrea Arnold (2011), si torna sì all’antico, ossia al testuale – piuttosto che all’infratestuale – del romanzo, e dunque al rispetto della sua inimmaginabile brutalità intrinseca, ma, proprio per la presa d’atto dell’inimmaginabilità , si concede troppo spazio a un’interfaccia di Heathcliff alquanto à la mode e a un’immaginabilità viziata da un eccesso di attualizzazione (il trovatello immaginato come un ragazzo di colore). Luis Buñuel ricorda nell’autobiografia di aver scritto una prima sceneggiatura da Cime tempestose fin dal 1931, ossia subito dopo la realizzazione di L’âge d’or (1930), sotto la diretta influenza del surrealismo più radicale, e di averla dovuta poi manomettere nel corso degli anni per riuscire a girare il film, con mezzi poverissimi, ben vent’anni dopo, in Messico, con attori mediocri e un esito – sono le sue parole – «assai discutibile». E quando sottolinea “radicale”, Buñuel intende proprio la lettura che di Cime tempestose ha condotto Georges Bataille (lettura elaborata tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta), il quale prende a pre-testo il romanzo per sviluppare per l’ennesima volta il tema prediletto dell’erotismo quale «conferma della vita dentro la morte»: quella simbiosi tra sensualità fisica e furore erotico intinto di morte che, a dire di Bataille, trova nell’unione finale tra la Catherine Earnshaw e lo Heathcliff (Earnshaw? non potrebbe essere un fratello illegittimo, come molti hanno ritenuto?) di Cime tempestose un paradigma letterario insuperato. Persino per i giapponesi, il cui Cime tempestose più aggiornato (Arashi gaoka , 1988, di Yoshishige Yoshida, sottotitolo Onimaru , “Il demoniaco”) si pone ostentatamente come rilettura in salsa medievale e in chiave sado-necrofila non tanto del romanzo di Emily Brontë quanto del saggio di Bataille su Emily Brontë, ovvero del lungo, sottile delirio metafisico che lo percorre. «L’infanzia, la ragione, il male»: sono questi i tre registri che, secondo Bataille, scandiscono il tempo della rivolta contro le costrizioni familiari condotta dai due protagonisti: l’infanzia delle loro corse selvagge nella landa, con il libero gioco dell’innocenza gettato in faccia alla ragione adulta e repressiva di una società (quella vittoriana) pronta a condannare le loro pulsioni primordiali come colpevoli sfrontatezze, dettate da un spirito di trasgressione che non può non portare al trionfo della parte maledetta sepolta in loro: la parte del gioco, del rischio, del pericolo, del maligno, della “sovranità” tutt’altro che inespiabile. Il «verde paradiso degli amori infantili» cantato da Baudelaire, quel «paradiso innocente di amori furtivi» – chiasmo che la dice lunga sul modo quanto mai ambiguo in cui 2.
La voce nella tempesta
il poeta francese, di soli tre anni più vecchio di Emily Brontë, interpreta l’infanzia – si trasforma nella lettura “demoniaca”di Bataille in un “alto luogo”della fantasia, rappresentato appunto dalla “casa maledetta”, battuta dalla violenza selvaggia dei venti e delle bufere, attorno alla quale ruota la vicenda: un “alto luogo”, di una sovranità aspra e ostile, dove «la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, il Bene e il Male non sono più percepiti in modo contraddittorio». Tanto che la parte maledetta , o la sovranità erotico-sadica, vi possono essere espiate – dopodiché, una volta «pagata l’espiazione, traspare nell’opera il sorriso, cui essenzialmente si riduce la vita». Non è dunque così vero che anche la versioneWyler, pur hollywoodianamente risolta in un mélo edulcorato e favolistico, contravvenga allo spirito del libro. In ogni caso – ed è un bel paradosso – vi contravviene molto meno della cruda versione-Buñuel, pur così coerente con la lettura, oltraggiosa nel contenuto ma esattissima nella sostanza, di Bataille. Se
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infatti, la “sadica” Emily Brontë, letterariamente posseduta dall’idea “gotica” dell’Eroe Maledetto (la famosa frase di Catherine: «Heatcliff sono io!») espia se stessa e il proprio romance immaginando nell’ultima pagina che i due fantasmi di Catherine e Heathcliff si possano ricongiungere di notte, dopo la morte, nella brughiera di Wuthering Heights, ecco che Wyler, il quale si è preoccupato, ma non troppo, di stemperare la componente blasfema o incestuosa o anarcoide dell’Eroe Maledetto, fa altrettanto: prima allestendo, a mo’ d’incorniciatura (entro la quale proiettare in flashback l’intera storia), lo scenario della tempesta di neve e promuovendo poi due spiriti “positivi” come il proprietario Lockwood e il dottor Kenneth a spiriti visionari («Li ho visti con i miei occhi»), titolari della visione delle due anime troppo a lungo tenute prigioniere da Cime Tempestose e finalmente “liberate” in una candida luce di espiazione. 4 1 5 m u r o f e n i c
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«“Abbassa le pesanti sbarre! apri, severo guardiano!” / Non osò rifiutare – stridono gli aspri cardini piano», scrive Emily Brontë in The Prisoner (fragment) (9 ottobre 1845), la poesia che Bataille suppone faccia da preludio a Cime tempestose , con la sua apologia 3.
della “liberazione” per pura forza di volontà – volontà ovviamente selvaggia, «la cui violenza è destinata a venire riassorbita in un’illuminazione lenta e lungamente vissuta», forse mistica, o comunque prossima «all’indicibile tormento» degli asceti. «Pure sappiano i miei tiranni che io non sono condannata / a lunghi anni di tenebre e disperazione desolata; / un messaggero di speranza viene a me nell’oscurità, / e per una breve vita mi offre eterna libertà. // Viene col vento dell’ovest, con le brezze erranti della sera, / nell’ora in cui il cielo s’illumina e dilata di stelle la sfera. / Quando il respiro del vento si fa dolce, pensoso e serio, sorgono e mutano visioni che mi ammalano di desiderio».
In realtà non sono questi i versi citati da Bataille nella nota 10 al saggio su Emily Brontë. Lo scrittore preferisce, nel suo stile e intendimento, quelli della penultima quartina che alludono a «torture e tormento», ad «angoscia e lamento», a «fuochi infernali» placati da una «luce azzurrina», spenti i quali, «se è messaggera di morte, la visione è visione divina». Noi abbiamo privilegiato quelli delle quartine nona e decima perché ci sembrano più pertinenti a quella poetica del sublime e della credenza esoterica che a nostro avviso fanno da sottostruttura a tutto Cime tempesto- se e rendono plausibile l’esistenza cinematografica di quelli che abbiamo definito intermundia , in assenza dei quali Catherine e Heathcliff non avrebbero un posto dove ritrovarsi e dove andare. E che altri ha definitivo, nel corso di una speculazione diversa ma pur sempre intrinseca al mondo sublunare del sogno o della veggenza, intersigna , voce del latino medievale riferibile a quella misteriosa relazione tra fatti e persone lontani che dà luogo a un’immagine telepatica, a una “seconda vista” a mezza strada tra il presagio e la premonizione. Anzi, Jean Grenier (perché di lui si tratta, di un filosofo, maestro di Albert Camus, che non esita a raccontare l’attrazione del vuoto facendo appello al mondo di credenze esoteriche della Bretagna natìa, soprattutto la Bretagna hurlevent della Baia dei Trapassati) arriva persino a prendere le distanze dal termine “premonizione”e a togliere quel “pre”– giusto per togliere alla visione onirica qualsiasi sostrato sintomatico o traccia anteriore di tipo mnestico, à la Freud – per scegliere il termine, di matrice ecclesiastica, “monizione” (monition ), puro e semplice indicatore di uno stato particolare della coscienza (non dell’inconscio) che ci rivela, medianicamente, qualcosa che, mentre noi siamo qui o lì, si sta svolgendo in altro luogo o in altro tempo, e che ciononostante, grazie a una percezione istantanea, possiamo condividere e persino toccare con mano. 4.
C’è un film che narra per filo e per segno la fenomenologia or ora descritta e che, non a caso, assomiglia moltissimo a La voce nella tempesta , un film per
Sogno di prigioniero
il quale la nona e decima quartina di The Prisoner (fragment) di Emily Brontë suonerebbero come un viatico ideale, e in misura ben superiore a quella da noi introdotta a proposito del film di Wyler. Solo che il film, Sogno di prigioniero (Peter Ibbetson , 1935) di Henry Hathaway, viene girato quattro anni prima (!) di La voce nella tempesta e, pur derivando dal romanzo omonimo, molto à la Brontë, pubblicato dall’epigono George L. Du Maurier (nonno di Daphne Du Maurier) nel 1891, vive assolutamente di luce propria. Non gli fa velo né l’identica ambientazione nello Yorkshire, dove il «verde paradiso degli amori infantili» ospita questa volta due bambini di pari condizione sociale (facoltosa), il Peter Ibbetson eponimo (otto anni) e la vicina di casa Mary (sei anni), visceralmente uniti dai giochi d’infanzia, né l’identica sventura della divisione – una catastrofe familiare che li tiene separati per molti anni l’uno dall’altra, finché, venti anni dopo, non si ricongiungeranno adulti, diversi eppure eguali, riconoscibili eppure irriconoscibili, visibili eppure invisibili, comunicabili eppure incomunicabili, in altro luogo e in altro tempo. L’amour fou raccontato da Sogno di prigioniero è composto da un tale carico di reminiscenze brontiane
sui nessi amore/morte, bene/male, salvezza/dannazione, eros/espiazione, realtà/sogno, da meritare a sua volta l’entusiastico apprezzamento sia di un surrealista ortodosso come André Breton sia di un surrealista eterodosso (“nero”) come Luis Buñuel. Tutto sa, in effetti, di Cime tempestose : la sfrenatezza dei giochi, la rivalità sessuale sinonimo di attrazione fatale, la maledizione dell’allontanamento e della morte. Eppure nulla, nella geniale trasposizione del romanzo effettuata da un Hathaway in stato di grazia, sa, in effetti, di Cime tempestose . Sarà perché Hathaway trasferisce l’azione dallo Yorkshire originario alla ben più amena campagna circostante Parigi. Sarà perché rispetta scrupolosamente l’epoca storica del libro (laddove, per volontà di Samuel Goldwyn, avverso ai costumi in stile Reggenza,Wyler deve spostare l’azione di La voce nella tempesta dal 1801, anno dell’ambientazione brontiana, al 1841, anno troppo sbilanciato in avanti per legittimare un amour fou accesamente preromantico come quello tra Catherine e Heathcliff): una fine Ottocento di lavoro e progresso in cui Peter Ibbetson può intraprendere una professione liberale come quella di architetto e solo Mary, divenuta duchessa di Towers, rimane vincolata non per sua responsabilità a
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un passato aristocratico dei cui tabù premoderni finirà per pagare il prezzo. Sarà perché adotta uno schema da romantic fantasy già collaudato a teatro attraverso il Peter Ibbetson di Nathaniel Raphael e al cinema attraverso una versione kitsch di George Fitzmaurice, regista standard di solito al servizio di vedette come Pola Negri o Rodolfo Valentino o Greta Garbo o Jean Harlow (Per sempre [Forever , 1921], con i ben più anonimi Wallace Reid e Elsie Ferguson). Fatto sta che la versione-Hathaway, con un set carcerario fortemente chiaroscurato da lame di luce spioventi dalle grate che sembra fatto apposta per alleggerire il prigioniero Peter Ibbetson (Gary Cooper) dal peso delle catene della colpa e proiettarlo impercettibilmente al di fuori, fornisce un’esemplare conferma di quel quid di “sospensione dell’incredulità” in cui fondamentalmente consiste il cinema, e non solo un cinema “gotico”come questo. È vero che il «severo guardiano», in questo caso, non «abbassa le pesanti grate», anzi, infierisce vieppiù su un Peter estaticamente raggiunto da quella monition in cui lo irretisce, dall’esterno, Mary Towers (Ann Harding). È vero che il carceriere incrudelisce fino a provocargli, con l’impugnatura della frusta, quella lesione alla spina dorsale che, a detta del medico, dovrebbe immobilizzarlo per sempre e procurargli una morte subitanea. Dovrebbe. Perché proprio da questo stato di totale prostrazione sorge, grazie alla logica degli intersigna , un altro uomo, un altro Peter Ibbetson che non soltanto non muore ma, smentendo la ragion “positiva” del medico, vive per molti anni ancora, dentro (ove gode delle impalpabili visite di Mary) e fuori la prigione, abbassando da sé le pesanti grate e ricongiungendosi con Mary in quel «verde paradiso degli amori infantili», completo di altalena e scivolo, in cui si sono conosciuti bambini e in cui ora si riconoscono adulti, al di fuori dello spazio e del tempo, incorporei in tutta la loro corporeità (o viceversa). Il cinema di fantasmi vanta una lunga tradizione, fin dalle origini del cinema, dove il fantasma è il materiale filmico più idoneo a dimostrare che cosa la nascente Settima Arte sappia fare con i suoi trucchi artigianali e i suoi pionieristici effetti speciali. Ma non è propriamente di questo bric-à-brac che in Sogno di prigioniero si tratta. Se mai dell’opposto, dello statuto del visibile e della genealogia dell’invisibile. Di quell’esaltazione della ragion “visionaria” che, ontologicamente, dà corpo e immagine a quanto, per la natura evanescente e imponderabile che lo qualifica, sfugge a ogni norma gravitazionale. 4 1 5 m u r o f e n i c
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5. Di solito, per portare a buon fine traffici del genere, non sottoposti alle leggi del sogno diurno o notturno bensì a quelle della rêverie o del daydream in libera uscita, occorre il contatto medianico di un oggetto
magico che funga da talismano. In Sogno di prigionie- ro è l’anello di Mary. In un film che ne evoca, con la marcata accentuazione dell’onirico specifica del “gotico americano”, i prodigi luministici e i riverberi da pittura metafisica, e che, forse non casualmente, è ambientato in quel medesimo 1934 in cui viene girato Sogno di prigioniero , l’oggetto del transfert è una sciarpa femminile. Stiamo parlando di Il ritratto di Jennie (Portrait of Jennie , 1949) di William Dieterle (1893-1972), regista cresciuto in Germania con i fasti illusionistici dell’espressionismo e trasformatosi, dopo il trasferimento a Hollywood, in cineasta per tutte le stagioni (thriller, poliziesco, musical, biopic). Salvo lasciarvi, prima di abbandonare la “fabbrica dei sogni” per rientrare in Europa, una personalissima impronta proprio con un romantic fantasy che di quella “fabbrica” è un prototipo purissimo: un “sogno a occhi aperti” che potrebbe appartenere a un musical e invece assume le sembianze del thriller fantastico, ammesso che Il ritratto di Jennie sia accreditabile a un genere specifico (il quale, nel caso del thriller fantastico, comincerà a esistere un bel po’ più in là…). Al punto che Buñuel (dopo aver ammirato Sogno di prigioniero e La voce nella tempesta ) lo ha amato in sé e per sé, con un esplicito richiamo al suo indecifrabile impasto di elementi disparati: «Ho adorato Ritratto di Jennie con Jennifer Jones, opera misconosciuta, misteriosa e poetica. Ho dichiarato da qualche parte il mio amore per questo film e David O. Selznick mi ha scritto per ringraziarmi». La sciarpa femminile. È il medium tra realtà e sogno, visibile e invisibile, comunicabile e incomunicabile, che lega, fin dal primo dei sette incontri che li congiungeranno ogni volta di più fino a dar vita a un vero e proprio incantesimo erotico, il mediocre pittore Eben Adams (Joseph Cotten) e la giovane scomparsa (bambina nel corso del primo incontro, donna nel corso dell’ultimo, secondo una simmetria esponenziale che condensa nei sette incontri almeno quattordici anni della vita di lei) Jennie Appleton (Jennifer Jones). Ed è giusto la sciarpa, simbolo di un «verde paradiso degli amori infantili» che qui, in una New York invernale, con tanto di Central Park ghiacciato e trasformato in pista per pattinatori, parrebbe tale solo per suggestione analogica o metaforica – laddove, paradossalmente, riesce a essere tale grazie all’estroso comportamento del “folletto” Jennie, un vero spiritello o coboldo della “foresta di smeraldo” della città – a impedire al film di diventare una rilettura sado-necrofila del tema della prisoner “liberata” dalla morte, vittima nella fattispecie di una precoce death by water consumatasi nei primi anni del secolo. Il talismano funziona («Da dove io vengo nessuno lo sa, / dove io vado tutte le cose vanno, / il vento soffia, il mare urla… / nessuno lo sa», canticchia Jennie bambina). E non solo per
Qui e sotto, Il ritratto di Jennie
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Qui e nelle due pagine successive, Il fantasma e la signora Muir
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virtù propria, altrimenti resteremmo nel campo angusto di una “sospensione dell’incredulità” tutta estemporanea e aleatoria. Funziona perché interagisce con un altro talismano di caratura e valore equipollente, ovvero l’eponimo “ritratto di Jennie”, un talismano dal potere tanto più forte e duraturo quanto più si reitera nel tempo, perfezionandosi da schizzo appena tracciato su carta ad abbozzo più elaborato a quadro a colori su tela esposto con tutti gli onori in un museo: sì, a colori, per effetto della magniloquente irruzione cromatica (anch’essa non una novità assoluta, ma certo una plusvalenza inusuale e scioccante per il modo invasivo in cui si fa sentire, colorando l’eternamente rannuvolato cielo di New York della tinta più appropriata) alla quale Dieterle ricorre nell’ultimo quarto d’ora del film, con viraggi prima in verde bottiglia, poi in seppia e infine in… Technicolor. Come può darsi un ritratto di Jennie senza Jennie? Tutti gli amici di Eben Adams, adepti della ragion “positiva” e non della ragion “visionaria”, se lo chiedono. E nessuno sa rispondere. Anche perché non
risultano dotati di quella “seconda vista” di cui può godere lui per il fatto di essere, in quanto artista (Dieterle dixit), un abitatore di intermundia o un frequentatore di intersigna . Per cui non riescono, neppure sforzandosi, a vedere Jennie. La quale lascia, nondimeno, tracce indubitabili del proprio passaggio. La sciarpa. I ritratti… Da dove vengono quei ritratti, quei sortilegi? Da lei? Da lei e da Eben congiunti e collaboranti. Si badi. Il primo ritratto, quello che fa tanta impressione sugli scettici mercanti d’arte Martins e Spinney, è stato tracciato da Eben come in trance, sulla scia del ricordo di lei, senza che lei abbia posato da modella, come le capiterà di posare in seguito. Dunque è un prodotto dell’incorporeo. E dato che ha la medesima pregnanza figurativa degli altri ritratti successivi, più evoluti ma anche più seriali, sorge il sospetto, per via dell’omologabilità del seriale, che anche i successivi, sia pur tracciati in presenza di Jennie, siano altrettanti prodotti dell’incorporeo. Da qui la straordinaria intuizione cinematografica del film: l’incorporeità è la
condizione, non la sostanza. Jennie è una figura di Eben, appartiene alla sua realtà subliminale. Non per nulla, quando, terrorizzato dall’idea di averla perduta per sempre, Eben osa sfidare di notte il mare in burrasca (il quarto d’ora finale virato a colori) onde raggiungere su una perigliosa barca a vela le cime tempestose dello scoglio e del faro di Chion presso le quali si è consumata la tragedia degli Appleton, non trova su quelle prode nulla e nessuno se non se stesso: un se stesso costretto a rivivere l’annegamento di Jennie attraverso il rischio del suo stesso annegamento. Il film, proprio perché è ingenuamente volto a dirci che siamo noi i soli responsabili dei nostri sogni e, quando siamo artisti, i soli responsabili della liberazione dei nostri fantasmi interiori, non si fa scrupolo di abbinare altrettanto ingenuamente, a titolo di doppia epigrafe (come se non bastasse la voce fuori campo a prevenirci su quanto stiamo per vedere), due autori lontanissimi nello spazio e nel tempo che avremmo pensato incompatibili, Euripide e Keats. «Chissà se morire non sia vivere / e se ciò che i mortali chiamano vita non sia morte?». «La bellezza è verità, la verità bellezza, questo è tutto / ciò che vi occorre sapere». La prima citazione è troppo generica, e forse apocrifa, per poterla rintracciare in una qualche opera del grande tragico greco. La seconda, invece, è talmente famosa – se n’è già ricordato quattro anni prima Elia Kazan e ne ha fatto un passaggio chiave del film d’esordio, Un albero cresce a Brooklyn (A Tree Grows in Brooklyn , 1945) – da indurci subito a riscoprirla in fondo alla poesia cui fa da mirabile suggello (Ode su un’urna greca , 1819, vv. 49-50). Magari aggiungendovi quel primo emistichio del v. 50 che nella didascalia del film manca: «Ye know on Earth» (vi è dato sapere qui sulla Terra). Perché è importante che l’ intersignum verità-bellezza avvenga “qui sulla Terra”, in uno spazio definito di figurazioni presenti e assenti, di cui l’infinito è soltanto un analogon creato da quella che Coleridge, amico di Keats, chiama imagination e che è la fantasia creativa.
Come se il cinema fantastico di fine anni Quaranta costituisse una piattaforma ideale per una Keats-renaissance , ecco il poeta inglese fare capolino, due anni prima, anche in Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir , 1947) di Joseph L. Mankiewicz. «Incantate finestre spalancate sulla schiuma / di mari perigliosi in magiche contrade abbandonate» (Ode a un usignolo , 1819, vv. 69-70). E a fare capolino non in un’epigrafe più o meno convenzionale, bensì attraverso la peculiare dizione di un attore, Rex Harrison, travestito da nero fantasma galante e rivolto alla rapita Gene Tierney, la giovane vedova Muir (mare , in gaelico: siamo nel villaggio di 6.
Whitecliff, sul Mare del Nord) che ha affittato il cottage del defunto capitano di marina suscitandone le immancabili rimostranze. O, per meglio dire – se davvero si potesse dire in italiano –, “mostranze” (mon- strance , “ostensione”): dal momento che il fascinoso Daniel Gregg si “mostra”senza tanti imbarazzi in veste di revenant a un’inquilina, Lucy Muir, a sua volta per nulla imbarazzata (ed è per questo che legano fin dal primo incontro, notturno ma nient’affatto spaventoso, se mai disinvolto e rilassato) dalla presenza ostinata dell’ospite. Il che sposta inesorabilmente l’asse ermeneutico dalla ghost story alla sophisticated comedy , con gran sfoggio di atmosfere gotiche de-goticizzate da un romanticismo più solare (il mare, la spiaggia, il plain air marino in cui il fantasma si muove pienamente a suo agio) che sinistro – tanto che verremo a sapere alla fine, anche se lo spettatore attento ha modo di accorgersene assai prima, che l’illustre trapassato intrattiene rapporti non meno amabili con la figlioletta di Lucy, la non meno disinibita Anne, bambina del tutto refrattaria alla paura dei fantasmi.
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Non è che, in Il fantasma e la signora Muir , manchi la figura topica del prisoner . Solo che il prisoner non è Daniel Gregg, eventuale inoffensivo nosferatu finito in cattività tra le mura stregate del suo stesso cottage, bensì Lucy Muir, o, perché no?, Anne Muir, inquiline segrete di una shanned house cui si sentono legate da un troppo sollazzevole “patto con il fantasma”per avere la benché minima intenzione di violarlo. La sciarpa di Il ritratto di Jenny ? I ritratti stessi di Il ritratto di Jenny ? Macché. Tra le pieghe del precoce modello di crossover disegnato da Mankiewicz per l’occasione (mystery gotico più commedia sentimentale più dramma romantico più thriller ironico alla Hitchcock: le musiche sono firmate da Bernard Herrmann) si lascia affiorare, e con la massima credibilità diegetica, un ben più concreto talismano di origine soprannaturale, nientemeno che un libro a quattro mani destinato non solo alle stampe ma a un sicuro successo editoriale, dunque non un lascito di natura ultraterrena quanto un’eredità di natura quanto mai terrena e soprattutto pubblica, che trascende il destino privato (Daniel ripiombato tra le ombre in attesa della morte-ricongiungimento di-con Lucy, Anne sposa felice “emancipata” dal vincolo primario con il cot-
tage dell’infanzia) degli stessi contraenti il patto: il libro di memorie dettato nelle interminabili ore buie dall’incantevole man in black all’incantata apprendista di termini marinareschi e solecismi da lupi di mare. Perché, come sempre in Mankiewicz, a farla da padrone non è lo storytelling in sé, e tantomeno lo storyboard (che pare non esistere). È lo storytel- ler in persona.
BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE DI RIFERIMENTO) Kate Bush, cd The Kick Inside , EMI 67815 (lp 1978, cd 2006); Emily Brontë, La prigioniera (frammento) in Poesie , a cura di A. L. Zazo, Mondadori, Milano 1997 (già traduttrice di Cime tem- pestose , Mondadori, Milano 1989); Luis Buñuel, Dei miei sospi- ri estremi , SE, Milano 1991 (già Rizzoli, Milano 1983); Georges Bataille, Emily Brontë , in La letteratura e il male , SE, Milano 1987 (già Rizzoli, Milano 1973); Id., La sovranità , Il Mulino, Bologna 1990; Charles Baudelaire, Mœsta et errabunda , in Opere (I fiori del male , LXII), “Meridiani” Mondadori, Milano 1996; Jean Grenier, L’attrazione del vuoto , in Isole (1933), prefazione di Albert Camus, Mesogea, Messina 2003; Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, voce Sogno diurno in Enciclopedia della psicoanalisi (1968), tomo II, Laterza, Roma/Bari 2008; Ado Kyrou, Amour, érotisme et cinéma , Le Terrain Vague, Parigi 1957; Jacqueline Risset, Le potenze del sonno , Nottetempo, Roma 2009 (capitolo La notte illuminata del mondo interiore ); Samuel Taylor Coleridge, Biographia lite- raria (1817), Editori Riuniti, Roma 1992; Id., Opere in prosa , a cura di Fabio Cicero, Bompiani, Milano 2006; John Keats, Poesie , a cura di Silvano Sabbadini, Mondadori, Milano 2004.
CHANGELING
SAGGI
IL RUOLO DELL’IMMAGINARIO IN CHANGELING DI CLINT EASTWOOD Valentina Alfonsi «Nelle opere che appartengono [al genere dello strano puro] , si narrano avvenimenti che si possono spiegare mediante le leggi della ragione, ma che in un modo o nell’altro sono incredibili, straordinari, impressionanti, singolari, inquietanti, insoliti e che, per questa ragione, provocano nel personaggio e nel lettore una reazione simile a quella che i testi fantastici ci hanno resa familiare». (1)
Un bambino scompare nella Los Angeles di fine anni Venti. Alcuni mesi dopo la madre si vede ricondurre dalla polizia un bambino diverso. La donna ovviamen-
te non lo riconosce e si tenta in tutti i modi di farla tacere e di addossarle la colpa. La verità sulla sorte del piccolo verrà fuori più tardi e si tratterà di una terribile storia di infanticidi seriali di inenarrabile violenza.
«Changeling, A True Story», recitano sinteticamente i titoli di testa del film, dando forma a un ossimoro che (1) Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica , Garzanti, Milano 1977, pag. 50.
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fonde la cronaca storica con il mondo delle leggende popolari: nei fairy tales del folclore britannico ma anche germanico e più in generale nordeuropeo (2), il changeling è infatti un essere, spesso non umano, che le fairies lasciano nelle culle al posto dei bambini da loro stesse rapiti e che, in alcuni casi, non torneranno più dai loro genitori. Nel film la parola “changeling”non viene mai pronunciata, lo stesso sceneggiatore J. Michael Straczynski definisce semi-casuale la scelta del titolo (3) e del resto la pellicola era stata proiettata per la prima volta a Cannes come Exchange , ponendo quindi semplicemente l’accento sul concetto di scambio , senza sottolineature di tipo fantastico o addirittura fiabesco. È lecito pertanto pensare che quel titolo abbia una valenza principalmente metaforica e suggestiva nel sottolineare come la true story ricostruita nel film con toni del tutto realistici sia però incredibile, irreale e spaventosa come può esserlo appunto una fiaba. A uno sguardo più attento, ci si rende conto però di come i racconti sui fairy changelings (4) abbiamo
inquietanti punti in comune con la vicenda del piccolo Walter Collins e di sua madre Christine e di come pertanto il titolo sia preciso e pertinente nel definire un modello culturale, sociale e politico crudele e impenetrabile, valido tanto nelle antiche leggende quanto nel mondo moderno, che condanna senza appello Christine come donna e come madre, imputandole ogni colpa e responsabilità. Dice Carlo Chatrian (5): «Il termine “changeling” rimanda alle leggende del folclore inglese, secondo cui le fate rapivano i bimbi più belli e lasciavano al loro posto quelli brutti»: in realtà la “bellezza” (6) del bambino è solo uno dei motivi che inducono le fairies al rapimento. In taluni casi i piccoli umani vengono condotti in un altro mondo, nella fairyland , per essere ridotti in stato di schiavitù o tenuti in vita alla stregua di animali domestici per il divertimento dei loro rapitori; altre storie vedono invece i bambini come vittime sacrificali di un debito di sangue che le fairies sarebbero tenute a pagare al diavolo ogni sette anni. Bambini come strumento di piace-
re, dunque, o come carne da immolare non a un bene superiore ma al demonio. In ogni caso, oggetti e non esseri umani. Esattamente come i bambini del film di Eastwood, ingannati, torturati e uccisi dalla sanguinaria fairy Gordon Northcott (Walter e gli altri piccoli rapiti); usati dal potere per risolvere una situazione spinosa e imbarazzante (Arthur Hutchins, che viene indotto a mentire e a dichiarare un’identità fasulla per poter chiudere al più presto il caso della sparizione di Walter); ricattati e costretti a compiere crimini e crudeltà in cambio della sopravvivenza (il giovanissimo assassino Sanford Clark).Tanto nel mondo incantato dei fairy tales quanto in quello reale degli Stati Uniti di inizio Novecento, i bambini sono schiacciati da un sistema sociale che non li considera come esseri umani portatori di diritti ma come creature mute, inferiori, senza identità, tanto da poter essere scambiati, invertiti, spostati perché un bambino vale l’al- tro . Non per Christine, però. Il ruolo delle madri nei changeling tales è segnato da implicazioni colpevolizzanti frutto di una cultura strettamente patriarcale: il rapimento dei bambini è infatti spesso rappresentato come una conseguenza della negligenza della madre, per stanchezza (una madre non dovrebbe mai addormentarsi, a meno che non vi sia qualcun altro a vegliare sul bambino) o perché è stata chiamata al lavoro troppo presto dopo la nascita del piccolo. Anche Walter viene portato via quando il lavoro allontana ingiustamente e senza preavviso Christine da casa; oltretutto, Christine è una madre sola. I racconti popolari prescrivono di lasciare sopra la culla dei neonati un frammento dei pantaloni o un indumento del padre, per proteggerli e impedirne lo scambio. A essere portati via dalle fairies sono quindi i bambini soli, senza protezione paterna, privi del riconoscimento di un’autorità maschile: Walter in effetti non ha padre, porta il cognome della madre, una (2) Si tratta comunque di un tipo di storie presenti in tutte le culture, non solo europee. (3) «It’s a medieval term for one child, often a demon child,substituted for another.The downside of the word is that it has this supernatural connotation. I used it as a temporary title, figuring that I could always change it down the road, but everyone seemed to like it», Q&A with Changeling Writer J. Michael Straczynski , a cura di Gilbert Cruz, http://www.time.com/time/arts/article/0,8599,1852963,00.html (4) Molte delle informazioni di carattere generale sui fairy change- lings riportate in seguito, e la cui fonte non sia diversamente indicata, sono tratte dal saggio di Terri Windling, Changelings , pubblicato sul magazine «Realms of Fantasy» nel 2003. L’articolo è disponibile per la consultazione all’indirizzo: http://www.endicottstudio.com/jMA0301/changelings.html (5) Carlo Chatrian, Changeling , «Duellanti» n. 47, novembre/dicembre 2008, pag. 8. (6) L’unico velato riferimento alla bellezza (interiore ed esteriore) e alla sua assenza come motivo determinante di rifiuto, è la domanda di Walter sul motivo che ha indotto il padre a lasciare la famiglia: il bambino ha litigato con un compagno di classe perché «He said my dad ran off because he didn’t like me», e Christine risponde «Your dad never even had a chance to meet you… So how could he not like you?».
donna immersa in una solitudine pressoché totale che diventa drammaticamente evidente dopo la scomparsa del piccolo, quando nessun amico o parente le è vicino e le offre sostegno. Secondo le leggende, oltretutto, i bambini rapiti sono quasi sempre maschi, come maschi sono i bambini portati via e uccisi da Northcott: in una realtà in cui i bambini sono considerati oggetti e le donne individui privi di volto e di volontà, la bambina è quasi un’entità inesistente, nemmeno degna di un rapimento. Le fairies non saprebbero che farsene. Se si sospetta la sostituzione del bimbo maschio con il changeling , secondo gli antichi tales i genitori debbono innanzitutto appurare che lo scambio abbia effettivamente avuto luogo, per poi far sì che la fairy introdottasi in casa si riveli per ciò che è davvero e sparisca. Solo allora il vero bambino potrà tornare, benché non sia infrequente che il piccolo scomparso resti tale e non faccia più ritorno a casa. Risulta poi spesso determinante l’aiuto di un altro personaggio, sia esso un semplice vicino, un passante
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sconosciuto o qualcuno portatore di maggiore autorità, come un membro del clero; Christine, in lotta contro l’intero ordine costituito, dalla polizia all’amministrazione comunale, troverà un sostegno inatteso nel reverendo Gustav Briegleb, che però imposta la propria azione secondo dettami strettamente politici di lotta contro lo strapotere e la corruzione delle autorità losangeline: discorsi che Christine ascolta con rispetto ma verso i quali non mostra alcun concreto interesse. Christine rivuole suo figlio. È significativo sottolineare come ogni changeling story contenga necessariamente due nuclei narrativi, quello che vede protagonista il fairy changeling alle prese con l’ostilità crescente della famiglia in cui si è introdotto, e quello del piccolo umano condotto nella fairyland , che resta però necessariamente avvolta in un mistero molto più fitto. Il film di Eastwod, coerentemente con il titolo scelto, si concentra maggiormente sul changeling affidato alle cure di Christine, lasciando che sottili spiragli sul destino di Walter siano aperti solo attraverso i racconti di altri bambini, Sanford e David, il ragazzino fuggito dal ranch di Northcott che torna a casa dopo anni passati a nascondersi.
Il changeling , come si diceva, deve essere spinto a rivelarsi, a tradirsi : i metodi esposti dalle leggende sono bizzarri e fantasiosi, e tendono essenzialmente a provocare sorpresa e ilarità nella creatura (7). Non mancano però riferimenti a sistemi ben più crudeli e violenti: il concetto di changeling poteva essere un modo, per le famiglie il cui figlio mostrava deformità, ritardi mentali o una crescita non normale dal punto di vista psicofisico, di giustificare l’emarginazione del bambino o addirittura la sua eliminazione fisica. Dice il personaggio di Puck in Rewards and Fairies di Rudyard Kipling: «All that talk of changelings is people’s excuse for their own neglect» (8), che è esattamente l’accusa imputata dalla polizia a Christine. Come evidenzia l’acuta analisi che Briegleb fa degli articoli pubblicati sui giornali a proposito di Walter, se il piccolo mostra differenze fisiche rispetto al periodo precedente la scomparsa, la responsabilità deve essere della madre che lo maltratta o vuole che il bambino risulti diverso ed estraneo, per potersene liberare additandolo come non suo. Tutto è teso unicamente alla diffamazione e allo screditamento della madre. Le procedure adottate da Christine per dimostrare l’estraneità del piccolo che le è stato forzatamente affidato sono necessariamente più prosaiche di quelle descritte nei changeling tales : la donna si basa sul riconoscimento diretto di chi aveva avuto rapporti quotidiani con Walter, come l’insegnante e il dentista, ma anche su fatti per così dire scientifici, come l’analisi dei denti, della struttura fisica e dell’altezza (benché ogni prova venga poi clamorosamente rigettata dalle autorità). In ogni caso, coloro che possono testimoniare sono esclusivamente adulti: a scuola è solo la maestra a essere interpellata, non i compagni di classe, e i piccoli vicini di casa dei Collins non vengono più mostrati dopo i primi momenti in cui Christine si affanna a cercare Walter nel proprio quartiere. Risulta quindi evidente come il film, in maniera più o meno cosciente, tenda a stabilire un parallelo molto puntuale tra un fatto realmente accaduto e una precisa tipologia di racconti folcloristici, ai quali ci si è finora riferiti come fairy tales : in realtà, nel caso dei chan- geling tales , sarebbe più corretto parlare di folk (7) Valga come esempio la terza parte della fiaba riportata dai fratelli Grimm nei loro Kinder- und Hausmärchen (Fiabe dei bambini e della casa ) col titolo Die Wichtelmänner (tradotto in italiano come Gli Gnomi , il termine tedesco si riferisce a piccole creature umanoidi, non necessariamente malvagie): a una madre disperata per la comparsa di un mostriciattolo al posto del suo vero bambino, una vicina «disse di portare in cucina il bambino che era stato scambiato col suo, posarlo sul focolare, accendere il fuoco e mettere l’acqua a bollire in due gusci d’uovo. Questo avrebbe fatto ridere il bambino scambiato, e bastava che ridesse perché per lui fosse finita» (trad. Elena Franchetti, Fabbri Editori, Milano 1995). (8) Rudyard Kipling, Rewards and Fairies , Kessinger Publishing, Whitefish, Mont., 2004, pag. 10. (9) Cfr. Introduzione alle Deutsche Sagen (Saghe Germaniche ) dei fratelli Grimm.
legends , di racconti legend ha radici più
popolari dal momento che la marcatamente storiche, e meno implicazioni poetiche e fantastiche della fairy tale (9). Le changeling stories non sono infatti fiabe ambientate in un luogo e in un tempo sconosciuti e lontani ma racconti solidamente ancorati alla realtà quotidiana e che spesso riportano indicazioni geografiche e storiche ben precise; l’unico elemento fantastico è dato dalla presenza delle fairies , in base ad antiche credenze che le considerano esseri realmente esistenti capaci di intervenire nel mondo degli uomini. I changeling tales rappresentano, per le culture che li hanno prodotti, un strumento di interpretazione della realtà: laddove non può arrivare la ragione o l’osservazione, come nel caso della nascita di un bambino gravemente malato o malformato, interviene la legend a spiegare, a fornire istruzioni, a tracciare la strada da seguire per ripristinare l’ordine compromesso. La changeling tale serve per coprire una realtà inaccettabile, a rendere risolvibile un problema altrimenti insolubile. E se alle madri di quei racconti viene detto che il loro bambino è stato scambiato con una creatura mostruosa, a Christine lo scambio viene invece impo-
sto, con l’assurda pretesa che lei possa e debba accettarlo, ma le motivazioni dei due processi sono molto simili: nascondere un fatto reale e inconfutabile, ma drammatico e orribile, che la comunità non sa (o non vuole) gestire. Così come nei villaggi ottocenteschi di cui parlano i Grimm non c’è posto per certe malattie o deformità che la medicina ancora non conosce o non sa come trattare, la Los Angeles degli anni Venti non può ammettere la deliberata inettitudine, gli errori e la corruzione delle autorità rivelatesi incapaci di indagare correttamente per risolvere un caso di sparizione infantile: e se un colpevole ci deve essere, quel colpevole sarà la madre , perché disattenta, perché sola, perché egoista, perché incapace di prendersi cura della prole, o semplicemente perché pazza. L’immaginario collettivo (sia esso folcloristico-popolare o politico-sociale) si configura dunque come processo codificato di lettura e interpretazione del mondo, interpretazione tutt’altro che sincera e diretta ma anzi filtrata da storture di comodo, sostanzialmente mendace perché basata su invenzioni false, tese a negare l’identità e la specificità degli individui a favore di un’astratta e tenace difesa dell’immagine della comunità e dell’autorità.
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La forza scandalosa e pericolosa della lotta di Christine Collins, portata avanti unicamente in nome di un sentimento pudico e privato come l’amore, sta proprio nella sua capacità di scardinare quell’immaginario, nello sporcare l’immagine dei presupposti difensori della giustizia, nel rompere un equilibrio consolatorio e rassicurante ma fittizio.
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«Yours is a story with a happy ending, Mrs. Collins. People love happy endings», si sente dire Christine poco prima dell’incontro col finto Walter. In nome di un lieto fine da donare all’opinione pubblica si può rubare l’identità di un bambino e cancellare quella di un altro per dargliene una fasulla, si può condannare dei bambini rapiti a una morte orribile solo perché condurre le indagini in maniera approfondita avrebbe portato via troppo tempo ed energie, si può deliberatamente distruggere la vita di una donna imponendole di accogliere un estraneo in casa propria riconoscendolo pubblicamente come suo figlio, e si può definire pazzia una perfettamente legittima richiesta di giustizia. Tutto per un happy ending atto a dare un senso a ciò che non ce l’ha, a costruire un racconto (un happy tale ) che contribuisca a cementare una mentalità, un sistema di segni culturali all’interno del quale l’inganno è strumento di potere.
Anche la battaglia privata di Christine viene del resto incanalata, in particolar modo da Briegleb, su binari riconoscibili, ordinati e sensati, e così si arriva a un processo, nel corso del quale l’opinione pubblica può indignarsi e scandalizzarsi, e alla conseguente condanna esemplare dei colpevoli. Il male viene punito, la giustizia viene ripristinata, Christine da pazza diventa eroina : la fiducia delle masse nell’autorità e negli ideali di cui essa si fa portatrice viene convenientemente ricucita. E poco importa che la morte per esecuzione di Northcott sia quanto di più raccapricciante e meno liberatorio si possa immaginare, tanto per Christine quanto per gli spettatori. E poco importa che gli omicidi brutali commessi da Northcott non abbiano alcun senso, e che il racconto degli stessi fatto da Sanford, coetaneo delle vittime, sia uno dei momenti più intollerabili della carriera del sergente Ybarra e di tutta la produzione cinematografica recente, o forse addirittura di sempre. Eastwood apre delle ferite profonde e dolorose e non offre alcun rimedio per lenirle o quantomeno per tollerarle, per comprenderle. Niente dà sollievo, niente. Changeling trasmette per tutta la sua durata solo un’angosciante e disturbante sensazione di sgomento .
In base a questa lettura, la visione dell’immaginario proposta da Changeling sembrerebbe quindi del tutto negativa e illusoria; osservando la distanza che separa il sapore fiabesco del titolo dalla critica storico-politica innegabilmente contenuta nel racconto, osserva ancora Carlo Chatrian (10): «La tenace storia di Christine Collins si sviluppa lungo tutta la Grande Depressione e finirà col fare del bambino scomparso una sorta d’immagine dell’innocenza finanziaria dell’America di inizio secolo. Ritorna quindi un rapporto con il mondo dell’immaginario, anche se letto in negativo». Se esiste una realtà pubblica, sociale nella quale gli individui ricoprono dei ruoli , è però altrettanto vero che esiste una realtà interiore, privata, emotiva: di questa seconda realtà Christine viene mutilata dopo la scomparsa di Walter. Ne abbiamo fugace visione nelle primissime sequenze del film che pongono al centro la relazione affettiva tra madre e figlio: Walter è l’unico ad avere un rapporto con Christine in quanto donna, in quanto essere umano, ma nessuno degli altri personaggi, e degli spettatori, può affermare di conoscerla davvero. Nell’intimità della sua vita domestica anche Christine fa riferimento, come chiunque altro, a un immaginario, a un sistema di abitudini, di gesti; in particolare, per i Collins sembrano avere una certa rilevanza la radio (Walter è solito ascoltare le commedie radiofoniche) e il cinema. Ancora le storie . Quelle storie che sono fondamentali per reggere il sistema di potere su cui si fonda una società, sono molto simili alle storie su cui ciascun essere umano costruisce il suo vissuto privato, le proprie personalissime mitologie. Christine e Walter amano andare al cinema, e Christine non rinuncia a quella forma di svago nemmeno dopo la scomparsa del bambino: lo conferma la sequenza finale dedicata alle chiacchiere e ai pronostici sull’imminente notte degli Oscar. Christine considera Cleopatra “over-rated” e scommette sulla vittoria di Accadde una notte di Frank Capra: tale piccolo dettaglio apre agli spettatori un’inaspettata panoramica sulla personalità, sulle idee, sulle emozioni, sui gusti della donna. Christine, che abbiamo visto in azione unicamente come madre e poi impegnata (10) Ibidem. (11) È peraltro impossibile non notare quanto lontano sia, moralmente e stilisticamente, un film come Accadde una notte dalla crudezza di Changeling : tanto l’uno è impegnato a celebrare con dolce ingenuità i lati luminosi e divertenti della vita e dei rapporti umani, quanto l’altro affonda nella sofferenza e nella paura; tanto l’uno si incanta a mettere in scena una storia perfetta , senza sbavature, senza spigoli né scosse, dove ogni nodo si scioglie nella maniera più innocua, bella e indolore, quanto l’altro contempla con terrore l’impossibilità di trovare soluzioni e risposte nette di fronte all’irrompere del dolore, della violenza e della morte nell’esistenza delle persone. (12) Adriano Piccardi, Prigioniera della speranza , «Cineforum» n. 480, dicembre 2008, pag. 5.
nella sua lotta, è una donna che ama le commedie romantiche, che ama ridere, che riconosce al cinema, all’arte, all’affabulazione hollywoodiana un ruolo determinante nella propria esistenza: Accadde una notte uscì negli Stati Uniti nel 1934 e, malgrado inizialmente lo script avesse faticato a conquistare l’entusiasmo dei produttori, si rivelò un trionfo coronato da cinque Oscar. L’ottimismo e il buonumore infusi dalla pellicola furono intesi proprio come un’allegra sfida all’atmosfera spenta e sfiduciata della Grande depressione: allegria hollywoodiana (11) come antidoto alla crisi economica e sociale che tortura il Paese, quindi, ma anche balsamo per le ferite personali di Christine Collins che sembra ritrovare il sorriso grazie a Claudette Colbert e Clark Gable. L’immaginario collettivo dunque, in questo caso cinematografico, viene ora rappresentato come capace di esercitare un’influenza buona sulla vita degli individui, e per Christine in particolare si tratta di un modo per andare avanti, per continuare a vivere; nella sua riflessione sullo scollamento fra prospettiva pubblica e privata presente nel film, scrive Adriano Piccardi (12) a proposito del significato rivestito nel film di
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Eastwood dal successo vittorioso di Accadde una notte : «Anche in questo caso il simbolo collettivo va riconvertito al valore che acquista nel vissuto del personaggio: Christine ha creduto nell’assegnazione dell’Oscar a quel film, che dunque è ora per lei il segno tangibile del collegamento tra l’oggetto più urgente della sua fede individuale e il suo necessario inverarsi. Ci crederà per tutta la vita, come dice la didascalia conclusiva, pudicamente sospesa circa il destino riservato a quella speranza inamovibile». La speranza, dunque. Sulla parola «hope», pronunciata da Christine, il film si chiude. «Christine Collins never stopped searching for her son», leggiamo pochi istanti dopo, e lentamente il cuore tragico e nerissimo del racconto prende forma. La speranza di Christine, le storie e i principi di cui la donna si nutre per non soccombere, sono artificiali e fragili tanto quanto lo erano quelli su cui si reggeva il potere delle dispotiche autorità di Los Angeles: «People loves happy endings», le viene detto per giusti-
ficare il calvario a cui si sta per sottoporla, ma non è forse proprio un happy ending illusorio quello che la donna costruisce per sé? Senza lieto fine, o quantomeno la speranza di poterlo ottenere, senza storie, senza fiabe , senza una griglia interpretativa rassicurante che consenta di leggere la realtà fissando dei punti di riferimento positivi a cui guardare, è semplicemente impossibile sopravvivere. L’elaborazione di un immaginario , sia esso pubblico o privato, inteso come struttura immaginifica interpretativa e simbolica non è di per sé né buona né cattiva, ma solo necessaria e connaturata all’esistenza e alla conservazione dell’umanità stessa. Di questo parla Changeling , della mancanza di senso del reale e sopratutto del male e del dolore, e del disperato tentativo degli uomini di dar forma e direzione a quel senso inesistente attraverso sistemi astratti chiamati, di volta in volta e di luogo in luogo, società, politica, giustizia, arte, fairy tale , legend . O più umanamente speranza .
THE MAN WHO KNOW TOO MUCH
SAGGI
L’uomo che sapeva troppo (1934)
I DUE UOMINI CHE SAPEVANO TROPPO Somiglianze e differenze tra le versioni 1934 e 1956 della stessa vicenda, raccontata due volte da Hitchcock Ermanno Comuzio LE SOMIGLIANZE Ci sono stati due uomini che sapevano troppo. Uno era inglese, l’altro americano; ma a tutti e due era capitata una drammatica avventura – c’era di mezzo una crisi internazionale – eppure erano diversi fra loro. Uno apparteneva agli anni Trenta del secolo scorso, l’altro agli anni Cinquanta. In mezzo esattamente ventidue anni, quindi le cose erano cambiate
nel frattempo. E anche colui che di queste vicende fece ogni volta un film. Nel 1934 Hitchcock aveva trentacinque anni e lavorava a Londra, dov’era nato. Il suo primo The Man è il suo diciottesimo film, il nono sonoro e la sua prima spy- story . Nel 1956 di anni ne aveva cinquantasette e da sedici lavorava in America, dove si era trasferito. Perché a Hollywood sentì il bisogno di fare un remake del film già realizzato in Inghilterra? Dichiarò a Truffaut, nel
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famoso libro-intervista Le cinéma selon Hitchcock , che lo fece perché gli americani non conoscevano la prima versione, il che non è vero perché quella inglese era stata distribuita in America, dove aveva avuto lo stesso vasto successo che nella Patria d’origine (tanto è vero che il film del ’34 aveva costituito la prima vera affermazione su scala mondiale del regista). Più comprensibile la volontà di porre mano all’operazione in un ambiente di lavoro dalle potenzialità e dagli apporti tecnici più solidi della prima volta. Per questo Hitch diceva a Truffaut che «la prima versione era stata fatta da un dilettante di talento, mentre la seconda da un professionista» (1), il che suona però abbastanza strano se pensiamo che nell’anno della prima versione il regista si era fatto abbondantemente le ossa con venti film. Se ci chiediamo quale dei due risultati sia migliore dell’altro non c’è una risposta perentoria. Personalmente ho un debole per il periodo inglese del Nostro, ma questo non influisce sul giudizio, che non può che essere salomonico, in quanto si tratta di due
cose decisamente diverse e incommensurabili (nel senso proprio del termine, che non si possono misurare). Ma non sono proprio d’accordo né col giudizio di Rohmer e Chabrol, che nel loro libro dedicato al regista affermano che «il primo The Man Who Know Too Much era stato uno dei film meno felici del periodo inglese» (2), né con quello di Gosetti nel secondo “Castoro” dedicato a Hitch nel 1996, che «la seconda versione supera l’originale» (3). Consideriamo dapprima le somiglianze e le differenze (il confronto è condotto sulle copie italiane). Le somiglianze più evidenti sono nel racconto di base, scritto dagli stessi autori anche se gli sceneggiatori sono diversi, e nella stessa Cantata nel punto focale della vicenda, il concerto all’Albert Hall e il famoso colpo di piatti. In ambedue i film i “cattivi” si presentano come brave persone (ma il killer della seconda versione ha una faccia patibolare), in ambedue i figli dei protagonisti (sempre vittime per caso) sono presi in ostaggio, mentre i “buoni” inseguono delle false piste e devono sbrigarsela da soli (dai poliziotti non hanno grande aiuto, anzi la polizia
non crede a quello che dicono), e c’entra in ambedue una cappella religiosa che fa da copertura.
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Ci sono addirittura delle identità, come quando i “buoni”, giunti nella cappella, si scambiano informazioni cantando per mimetizzarsi con i fedeli che intonano in coro un inno; e come nel formidabile particolare della canna della pistola che sporge dal buio del palco, all’Albert Hall, per spostarsi minacciosamente e mirare all’ambasciatore straniero. Questo in una sequenza centellinata, nello scorrere del tempo, in cui si realizza in pieno il precetto hitchcockiano che non è nello sparo la paura, ma soltanto nella sua attesa.
IL Y A LA DIFFÉRENCE Ben più numerose, comunque, sono le differenze: ne rileviamo soltanto le più evidenti. La seconda versione dura trentacinque minuti in più, il colore prende il posto del bianco-e-nero, la coppia dei protagonisti inglesi diventa americana (e quest’ultima assume una identità precisa: medico lui, cantante lei), la figlia diventa un maschietto, il preludio vacanziero si svolge nel Marocco francese e non più nella Svizzera tedesca. E poi, nello sviluppo della stessa trama, nel primo film la prima pista seguita dal protagonista maschile è quella giusta (il dentista, complice nel complotto), mentre nel secondo film si tratta di una falsa pista (il laboratorio di tassodermia: sequenza spassosa). E poi nella cappella, prima di venirvi rinchiuso, lo stesso personaggio suscita un putiferio con una grottesca (anzi comica) battaglia a sediate con i “cattivi”, mentre nel secondo fugge dalla cappella arrampicandosi sulla fune della campana e issandosi sul campanile (premonizione, in certo senso – per il campanile e per lo stesso attore – del finale di La donna che visse due ], che arriverà due anni dopo?). volte [Vertigo E soprattutto, al concerto, nel film inglese all’esecuzione della Cantata succede la lunga sequenza della sanguinosa sparatoria al covo dei “cattivi” (un macello, tra tutori dell’ordine e fuorilegge), mentre nel film americano c’è la sequenza del ricevimento nell’ambasciata straniera in cui è rinchiuso il figlioletto. Da notare che l’episodio dell’assedio nella prima versione era stato suggerito a Hitch da un fatto vero accaduto a Londra nel 1910; ed è stato il regista a raccontare che la censura ebbe a ridire sul fatto che avesse dotato i poliziotti di fucili, dato che fieramente i bobbies si vantavano di non adoperare le armi. (1) Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock , Pratiche editrice, Parma 1991, pag. 76. (2) Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock , Marsilio,Venezia 1986, pag. 124. (3) Giorgio Gosetti, Alfred Hitchcock , Il Castoro Cinema, Milano 1996, pag. 132. (4) Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcok , op. cit., pag. 124.
Interessante la figura a chiasmo che caratterizza i personaggi dell’eroina femminile e del killer, e solo nella versione inglese: lei nella gara di tiro al piattello iniziale manca il bersaglio, mentre lui lo centra in pieno, ma nell’attentato durante la Cantata è lui a fare cilecca e nella sequenza della sparatoria finale è lei a centrare il bersaglio, che è proprio il killer. Ma queste sono tutte differenze “esterne”; più importanti sono quelle “interne”, appartenenti cioè alla natura stessa dei due film e del loro svolgimento. La versione hollywoodiana è indubbiamente la più “ricca”, oltre che la più lunga e con diversi episodi più dilatati, più “delibati” con compiacenza, si direbbe. Facendo sfoggio di un virtuosismo spudorato, insomma, tutto qui è pantografato, più enfatico, più spettacolare. I citati Rohmer e Chabrol usano il termine «trasfigurazione», e affermano che quello del 1956 è «uno dei film in cui la mitologia hitchkockiana trova la sua espressione più pura, o almeno la più evidente, il film che possiede la costruzione più studiata» (4).
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quella del 1936 si limita sobriamente a presentare davanti ai titoli due o tre dépliants turistici della Svizzera invernale (Hitch vi ha ambientato il proemio per una ragione personale – in Svizzera aveva trascorso la luna di miele – e poi il candore della neve delle montagne di St. Moritz suggerisce un’idea di innocenza, che lo sviluppo della vicenda dimostrerà fallace, e contrasterà poi con la nebbia londinese; un’altra apparenza innocente, copertura della malvagità, sarà poi la sacralità della cappella in cui celebrano funzioni religiose i “cattivi”). Nel 1956 invece i titoli di testa anticipano con sfarzo la faccenda cruciale del concerto all’Albert Hall, con inquadrature dell’orchestra, della sezione degli ottoni, di quella delle percussioni, del suonatore di piatti, e il loro gran colpo fa da sfondo al cartello «Directed by Alfred Hitchcock». E poi i piatti sono mostrati in PP, enormi, nella loro superficie piatta (è il caso di dirlo) a fare da sfondo all’enfatica scritta: «Un singolo colpo di piatti e come ha scombussolato le vite di una famiglia americana».
L’UNDERSTATEMENT
A proposito di dilatazione, un esempio “micro”, rispetto a quello “macro”dell’esecuzione in sala, ma rivelatore. Nel film del ’34 il disco con la Cantata è utilizzato una volta sola, quando è fatto ascoltare al killer, per capire qual è il punto esatto in cui dovrà sparare («Qui nessuno sentirà lo sparo, penso che il compositore avrebbe apprezzato», dice il capo, che è piuttosto raffinato: definisce la Cantata «uno splendido brano, un piccolo capolavoro», prima di citare Shakespeare. Da notare che la battuta sarà ripresa tale e quale dall’altro “cattivo” del 1956). Nella versione americana invece l’ascolto avviene due volte, e poi, quando il capo resta solo, aziona di nuovo quel disco e ascolta soddisfatto, stavolta solo per godersi la musica.
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Un altro esempio: nella sequenza del concerto (di cui diremo più avanti, data la sua importanza), nel ’56 l’ambasciatore straniero è fatto vedere diverse volte – e con malizia, dato che è lui il bersaglio – mentre si assesta nel suo palco, quando si china in avanti per ascoltare meglio, quando una lieve carrellata in PP scende dalla testa al petto. Ma questo “ingrandimento”comincia subito, in questa seconda versione, fin dai titoli di testa: infatti
Un singolo colpo di piatti in tutta la partitura. Hitch racconta che l’ispirazione gli è venuta da una storiella a fumetti del «Punch», quella di un ometto che si prepara minuziosamente al concerto all’Albert Hall cui deve partecipare, e, raggiunta l’orchestra, estrae dal suo astuccio un flauto piccolo e attende pazientemente il momento da cui dovrà estrarne una sola nota, e dopo il suo intervento ripone lo strumento e lascia discretamente la buca dell’orchestra. Inoltre tutto, nel 1956, è più dialogato e recitato: la resa dei due protagonisti americani è più drammatica, più seriosa, da un James Stewart, trottante e convulso – e magari un po’ goffo – e da una Doris Day piagnucolosa e sconvolta; gli interpreti inglesi sono molto più contenuti, soffrono composti (l’understatement ! ). Lui poi, il marito, è qui ironico anche nelle peggiori situazioni: è prigioniero dei “cattivi”insieme alla figlia, se la vedono brutta, ma quando sente anch’egli la notizia alla radio che l’ambasciatore straniero è stato soltanto leggermente ferito sorride ad Abbott, il capo, con divertita superiorità. Nel ’34 c’è anche l’impagabile Peter Lorre nel ruolo di Abbott. È al suo primo film fuori da una Germania su cui già si proietta un’ombra nefasta, ed è impagabile con la sua ciocca bianca nel ciuffo tirato sulla fronte, “cattivo” elegante, sardonico, insinuante, ma con una cicatrice su un sopracciglio e con sguardi minacciosi e scatti irosi. A proposito di capelli, il killer della prima versione ci viene presentato fin dall’inizio come un uomo ben-
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portante e una persona dabbene, ma con un particolare geniale: prima ancora che appaia, la figlia del protagonista dice di lui: «Ha troppi denti e troppa brilantina», e subito dopo, per stacco, ecco in PPP la nuca e la capigliatura imbrillantata dell’uomo di cui si parla (ed è ancora introdotto da quei capelli lucidi quando entra col capo nel gabinetto del dentista). Intendiamoci, non è che la versione americana manchi di finezze e di gag, o di capacità di agganciare lo spettatore, anche se non so se davvero il periodo americano sia maggiormente caratterizzato, per Hitch, «da un moto di penetrazione nelle profondità dell’intrigo e della suspense» (5), come afferma Fabio Carlini nel primo “Castoro” del 1974. Ricordiamo, fra le gag, quella di Ben che, nel ritrovo marocchino, prima sprofonda sui cuscini di un basso divano, poi non sa dove mettere le gambe, poi gli viene il torcicollo a parlare con la coppia finta amica che è seduta alle sue spalle; e ancora la sua difficoltà di mangiare l’arrosto con tre dita, secondo l’uso locale. Ma soprattutto ecco tutta la sequenza dall’imbalsamatore, con gli operai che mettono in salvo gli animali da loro impagliati che la colluttazione potrebbe danneggiare, e lui che, nell’agitarsi, mette
la mano nelle fauci di una tigre (imbalsamata, ma non meno minacciosa). Ancora: tutta la vicenda è intercalata dalla presenza dei parenti e amici che sono venuti a dare il benvenuto a Londra alla nostra coppia, sconcertati – e sempre ignari – dallo strano andare e venire dei due. Per contro, la prima versione è più secca, come gli altri film realizzati in Patria. Lo stesso Hitch dichiarò una volta: «Penso che i miei film inglesi siano più realistici. […] I mei film americani sono più romantici, assomigliano più ai miei sogni» (6). Il film del ’34 ha cose più fini, dunque più gustose. Come lo scherzo di un filo di lana del lavoro a maglia di Jill che Bob, mentre la moglie balla con il comune amico Louis, attacca alla giacca di quest’ultimo (che subito dopo viene ucciso mentre tutti ridono di lui): il non poter comunicare del protagonista col poliziotto di St. Moritz che parla solo tedesco: l’ironia della sussiegosa battuta del funzionario del ministero che cerca (5) Fabio Carlini, Alfred Hitchcock , La Nuova Italia (Castoro Cinema), Firenze 1974, pag. 61. (6) Charles Barr, Le strutture ipnagogiche: il periodo inglese di Hitchcock , in Edoardo Bruno (a cura di), Per Alfred Hitchcock , Editori del Grifo, Montepulciano 1981, pag. 17.
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di intimidire Bob per fargli svelare quanto gli ha detto Louis («Guardi che la sua reticenza potrebbe causare guai internazionali. Si ricorda l’uccisione dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo?»); il gas anestetico col quale il dentista tenta di addormentare Bob e poi è questi ad addormentarlo, indossando il suo camice e facendosi passare per lui quando arrivano Abbott e il killer. C’è un’importante faccenda, quella della Cantata, presente nello snodo cruciale in ambedue i film, uguale ma diversa. Anche qui vale il discorso della dilatazione; come osserva giustamente uno studioso francese che si è occupato della musica nei film di Hitch, durante il periodo inglese la musica è «discreta e molto sovente diegetica o “in situazione” (cioè la fonte è mostrata o supposta fuori campo: cantori, musicisti, radio, grammofono…), ma è molto più presente nei film hollywoodiani» (7).
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LA CANTATA 1 (1934) La musica della versione 1934, compresa la Cantata, è di Arthur Benjamin (1893-1960). Di origine australiana ma attivo in Inghilterra, grazie alla sua solida formazio-
ne accademica compose musiche d’alto livello per la scena e le sale da concerto, debuttando per il cinema proprio con il film di Hitch (e poi fu attivo in questo campo per pellicole drammatiche, commedie e ampiamente descrittive come La conquista dell’Everest [The Conquest of Everest , 1953], di George Lowe).
Per il nostro uomo che nel ’34 sapeva troppo, Benjamin compose alcuni interventi, come quello marziale sotto i titoli di testa e l’ironica polka sulla presentazione di Abbott, il diavolo in veste di agnello. Poi utilizzò musica diegetica: il fox-trot del ballo in albergo durante il quale l’agente Louis viene ucciso (anticipazione, se vogliamo, della musica che copre il rumore dello sparo); un pianino da locale popolare per la sequenza dello studio dentistico; un inno liturgico più organo per quella della cappella. Hitch non si intendeva di musica e diffidava dei musicisti perché non poteva “manovrarli” come faceva con gli altri collaboratori, ma col suo acuto senso dello spettacolo sapeva benissimo quale fosse la portata della musica (e del sonoro in generale) in un film. Tanto è vero che nei suoi storyboard indicava nei dettagli le presenze sonore e musicali. Afferma addirittura Roberto Pugliese, critico attento ai soundtracks :
«Non c’è in tutta la storia del cinema un autore “musicale”come Hitchcock. Un autore, cioè, che da un lato, scandisce i propri film secondo ritmi e strutture musicali e dall’altro eleva la musica a un ruolo narratologicamente e psicologicamente protagonistico» (8). Hitch vinse alla lotteria quando ottenne il contributo di Arthur Benjamin, soprattutto per la Cantata Storm Clouds (su testo di D.B. Wyndham Lewis, coautore del soggetto del film), la cui direzione musicale fu affidata a Louis Levy. Questi (1894-1957) era un pioniere della musica per film inglese fin dal muto – nel 1925 aveva fondato la “Cinema Music Director’s Association” per garantire la serietà e l’efficienza nell’attività degli accompagnatori musicali – ed era stato lui fino allora che aveva composto la musica dei film hitchcockiani sonori.
Benjamin comunque fece un ottimo lavoro, per quella fatidica esecuzione con orchestra, coro e voce solista, con una composizione magniloquente ed enfatica come si conviene a un concerto per una serata di gala. Tutto comincia con l’inquadratura del manifesto fuori dall’Albert Hall: ROYAL ALBERT HALL INTERNATIONAL CELEBRITY CONCERT SYMPHONY ORCHESTRA AND THE LONDON CHOIR CONDUCTED BY Mr.WYNN REEVES THURSDAY MARCH 22ND at 8,15
In sala il direttore d’orchestra (che nonostante il nome fittizio riportato sul cartellone è Louis Levy) non si vede mai in faccia, si vede soltanto di spalle mentre volta le pagine della partitura, mentre in inquadrature ripetute alcune volte si vedono il suonatore di piatti che li prende in mano, il timpanista e il suonatore di gong. Il proemio (“Allegro”) è pomposo, con trombe e tamburi che ripetono un inciso di sei note a intervalli ravvicinati, sviluppato poi anche negli archi; indi, dopo una frase melodica (“Adagio”) ecco l’attacco del soprano solista che riprende, variato, l’inciso iniziale, a sua volta ripreso dal coro. Segue, dopo un rullo di timpano, una frase nuova – sempre una ripresa variata dell’inciso portante – in un “crescendo” progressivo che esplode negli ottoni, sorretto da colpi cadenzati delle percussioni e scandita dal coro incalzante, finché a conclusione di un lungo acuto delle voci arriva il fatidico colpo di piatti. Col famoso grido che interrompe l’esecuzione, che, lanciato (7) Jean-Pierre Eugène, La musique dans les films d’Alfred Hitchcock , Éd. Dreamland, Parigi 2000, pag. 13. (8) Roberto Pugliese, Hitchcock in musica , in Davide D’Alto, Roberto Lasagna, Saverio Zumbo (a cuea di), La congiura degli hit- chcockiani , Falsopiano, Alessandria 2004, pag. 110. (9) Edoardo Bruno (a cura di), Per Alfred Hitchcock , op. cit.,pag. 187.
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dalla madre, secondo Noel Simsolo è «un grido di parto, per designare un segreto e ritrovare il suo prolungamento umano, il bambino» (9).
L’esecuzione del 1934, fino alla brusca interruzione, dura 3’55’’. Quella del 1956, 8’30”, cioè più del doppio. Il che già la dice lunga sulle differenze. Questa seconda volta Hitch ricorre al musicista che, dopo la felice esperienza di La congiura degli innocenti (The Trouble with Harry , 1955) lavora per lui, l’americano Bernard Herrmann, e che lo seguirà per altri sei film (fino al traumatico litigio avvenuto in occasione di Il sipario strappato [Torn Curtain , 1966], in seguito al quale venne bruscamente troncato un sodalizio favoloso, tra i più felici della storia del cinema).
Bernard Herrmann (1911-1975) è stato un musicista di grande rilievo che alternava la composizione di sinfonie e balletti alla direzione d’orchestra e lavorava per la radio. È qui che lo conobbe e lo apprezzò Orson Welles, che lo invitò a comporre per il cinema: fu Herrmann a occuparsi della musica di Quarto potere (Citizen Kane , 1941) e di L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), diventando poi uno dei compositori hollywoodiani più creativi in assoluto, nonché il più esigente e intransigente.
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Conosceva bene il valore della sua musica, e a proposito del nostro regista disse una volta: «Hitchcock fa il 60% dei suoi film, il resto ce lo metto io». Fu lui a comporre la musica di commento per la versione americana di L’uomo che sapeva troppo : tipici interventi ritmati e sinistri per quando Ben va al laboratorio degli imbalsamatori; drammatici, con accompagnamento martellante, per quando il piccolo Hank è visto sequestrato nell’appartamento dei “cattivi” sopra la cappella: minacciosi e scanditi da battiti ritmici accentati, richiamanti ingigantiti i battiti di una pendola, per sottolineare il tempo che stringe; musica di suspense, con effetti di riverbero, quando la polizia giunta alla cappella si dimostra impotente; e ancora musica su forti battiti irregolari quando, all’ambasciata straniera, il segretario traditore dà ordine a Drayton di far fuori il ragazzino. Ma l’apporto più importante fu per la Cantata.
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LA CANTATA 2 (1956) Herrmann, d’accordo col regista, decise di conservare la Cantata già composta per la versione inglese, in segno anche di stima nei confronti di Arthur
Benjamin, ma ampliò l’organico dell’orchestra e aggiunse diverse pagine, sia nell’introduzione orchestrale che nello sviluppo ulteriore, in concordanza con il maggior spazio dato alla sequenza (e con l’accordo di Benjamin). Inoltre fu lui a dirigere questa nuova esecuzione. I nomi dei due compositori figurano nei titoli di testa, nonché nel grande cartellone che campeggia fuori dall’Albert Hall:
LONDON SYMPHONY ORCHESTRA BARBARA HOWITT Soloist COVENT GARDEN OPERA CHOIR Conductor BERNARD HERMANN Cantata Storm Clouds by ARTHUR BENJAMIN Monday 6 June at 8 L’esecuzione è delibata con molte inquadrature delle diverse sezioni dell’orchestra, del suo direttore, del suonatore dei piatti e del suo strumento, del suo prepararsi all’intervento, del coro e della soli-
sta. Tra le altre inquadrature c’è quella del direttore d’orchestra in azione, Herrmann, dal gesto ampio e deciso; in una inquadratura è visto di fronte tra i due piatti tenuti in verticale; e finalmente si arriva al grande clash of cymbals . Il tutto alternato con convulse inquadrature dell’ambasciatore straniero, di Jo in fondo alla platea, del marito che vaga tra i poliziotti e i palchi, alla ricerca di quello col killer, di quest’ultimo in attesa nel suo palco (coadiuvato da una complice che sa leggere la partitura: infatti la tiene sulle ginocchia e la segue col dito. Ma ne vediamo una pagina a tutto schermo anche noi spettatori, pagina che scorre seguendo l’esecuzione; vediamo l’indicazione “A poco a poco crescendo” e la serie delle affannose biscrome dell’accompagnamento).
Della dilatazione temporale (e delle aggiunte di Bernard Herrmann) abbiamo detto.
LA CANZONE Non abbiamo ancora parlato della canzone che, solo nella versione americana, contrassegna l’altro momento nodale della vicenda, canzone che permette ai suoi genitori di scoprire la presenza del figlio, tenuto prigioniero nell’ambasciata straniera, e di porlo in salvo.
Hitch si era rivolto a Jay Livingston e Ray Evans, i quali formavano una coppia di parolieri-compositori autori di canzoni di successo, per ottenere da loro una canzone originale. Nacque Qué serà serà. Bernard Herrmann non avrebbe voluto una canzone nel contesto di un film con sue musiche, ma dovette abbozzare data la funzionalità di quel brano nell’impasto narrativo (fu più tardi il rifiuto, stavolta pertinace, di inserire brani di musica “leggera” in Il sipario strappato a causare lo strappo di cui si diceva). Dunque la canzone (che ottenne un Oscar: Livingston e Evans ne avevano già vinti due, nel 1948 e nel 1950) viene eseguita da Jo, pregata dall’ambasciatore al suo ricevimento (gli hanno riferito che è una cantante). Non un granché, a dire il vero: la stessa Doris Day non ne era molto convinta e la giudicava troppo infantile: in effetti è una canzone bonbon («une chanson-praline», la definisce Jacques Fieschi, il quale però aggiunge che questa canzone di «uno scadente juke-box degli anni Cinquanta diventa molto fisicamente, animalmente, il canto stesso dell’amore materno») (10). E giustappunto Jo sceglie quella determinata canzone del suo repertorio per il suo valore affettivo – era conosciuta, e canticchiata, anche da suo figlio – e perché, ascoltandola, se Hank è lì dovrebbe sentirla e rendersi conto della presenza della madre, come infatti avviene:
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nonché per il significato delle parole relativo a un rapporto filiale e alla speranza di qualcosa che dovrà accadere. «“Che sarà, sarà”, certo, ma anche “Aiutati che il Ciel ti aiuta”», osservano Rohmer e Chabrol (11).
Il testo dice infatti:
When I was just a little girl I asked my mother what will I be, Will I be pretty, will I be rich. Here’s what she said to me: Qué serà, serà, Whatever will be, will be, The future’s not ours, to see Qué serà, sera What will be, will be…
(Quand’ero una bimbetta / chiesi a mia mamma cosa sarei diventata / sarei diventata carina, sarei diventata ricca / ed ecco cosa mi rispose / Qué serà serà / qualunque cosa debba accadere, accadrà / sai, non possiamo conoscere il futuro / Qué serà serà / qualunque cosa debba accadere, accadrà)
Sono molto belle le inquadrature che ci fanno “vedere” il canto di Jo che esce nell’atrio, sale su per (10) Jacques Fieschi, citato in Marion Vidal, Isabelle Champion, Histoire des plus célèbres Chanson du Cinéma , M.A. Éd., Parigi 1990, pag. 246. (11) Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock , op. cit., pag. 128.
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lo scalone che porta al piano superiore, infila un corridoio, si ferma davanti a una porta, e dentro c’è Hank, Il ragazzino, che ascolta e realizza. Ed è la sua stessa carceriera, la signora Drayton – ormai impietosita – a suggerirgli di fischiare il motivo in modo da farsi sentire dalla madre. Poi Ben arriva a prendere il figlio, ambedue vengono minacciati dall’implacabile Drayton con una pistola, Ben lo afferra e quello ruzzola dalle scale, rimanendo stecchito. Tutta questa parte si vede intanto che Jo canta una seconda canzone, We’ll Love Again , sempre di Livingstone e Evans; ma questa, in tutto quel trambusto, si sente appena e non si distinguono le parole. Curiosa, comunque, l’osservazione relativa di uno studioso che getta uno sguardo psicoanalitico sull’omosessualità in Hitch: quest’altro brano sarebbe «molto più significativo» del primo. «”We’ll Love Again”. O almeno è tale la sua [di Jo] speranza di moglie, nonché l’auspicio sul quale si chiude il film» (12) Che in realtà, dopo l’interruzione del canto, vede l’abbraccio dei tre (genitori e figlio).
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«Ci spiace di avervi fatto aspettare» – dicono i due eroi della storia agli amici che attendono – o è Hitch che lo dice a noi, o è chi scrive queste note che lo dice agli eventuali lettori? Comunque sia, ora «è tutto finito». (12) Theodor Price, Hitchcock e l’omosessualità. Uno sguardo psica- nalitico tra Jack lo Squartatore e la Prostituta Supertroia , Ubulibri, Milano 1995, pag. 68.
L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO (1934) Titolo originale: The Man Who Knew Too Much. Regia: Alfred Hitchcock. Soggetto: Charles Bennett, D.B. Wyndham Lewis. Sceneggiatura: A.R. Rawlinson, Edwin Greenwood (dialoghi aggiunti di Emlyn Williams). Fotografia: Curt Courant. Montaggio: H. St.J. Stewart. Musica: Arthur Benjamin, diretta da Louis Levy. Scenografia: Alfred Junge, Petert Proud. Interpreti: Leslie Banks (Bob Lawrence), Edna Best (Jill, sua
moglia), Nova Pilbeam (Betty, loro figlia), Peter Lorre (Abbot, il capo del complotto), Frank Vosper (Ramon Levine, il killer), Pierre Fresnais (Louis Bernard, l’agente segreto), Hugh Wakefield (Clive, il parente dei Lawrence), Cicely Oats (Agnes, la complice di Abbott), D.A.Clarke-Smnith (Binstead), George Curzon (Gibson), Louis Levy (il direttore d’orchestra). Produzione: Michael Balcon, Igor Montagu per Gaumont British Pictures. Origine: Gran Bretagna. Durata: 84’.
L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO (1956) Titolo originale: The Man Who
Knew Too Much. Regia: Alfred Hitchcock (aiuto regia: Howard Joslin). Soggetto: da una storia di Charles Bennett e D.B. Windham Lewis. Sceneggiatura: John Michael Hayes, Angus McPhail. Fotografia (Technicolor, VistaVision) : Robert Burks. Montaggio: George Tomasini. Musica: Bernard Herrmann (canzoni Whatever Will Be e We’ll Love Again di Jay Livingston e Ray Evans; cantata Storm Clouds di Arthur Benjamin, diretta da Bernard Herrmann). Scenografia: Hal Pereira, Henry Burnstead, Sam Comer, Arthur Krams. Costumi: Edith Head. Interpreti: James Stewart (dottor Ben McKenna), Doris Day (Jo, sua moglie), Christopher Olsen (Hank, loro figlio), Bernard Miles (Edward Drayton, il capo del complotto), Brenda De Banzie (Lucy, sua moglie), Daniel Gélin (Louis Bernard, l’agente segreto), Ralph Truman (l’ispettore Buchanan), Mogens Wieth (l’ambasciatore straniero), Reggie Nalder (il killer), Barbara Burke (la compagna del killer), Brnard Herrmann (il direttore d’orchestra), Alfred Hitchcock (uno spettatore allo spettacolo di saltimbanchi). Produzione: Alfred Hitchcock per Filmwite Prod./ Paramount. Origine: USA. Durata: 119’.
L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO (1934 – 1956) STRUTTURE A CONFRONTO 1934
1956
– Alpi svizzere. L’inglese Bob Lawrence trascorre una vacanza invernale assieme alla moglie Jill e alla figlia Betty. C è anche un loro caro amico, il francese Louis Bernard, che si cimenta in un salto dal trampolino, mentre Jill partecipa a una gara di tiro al piattello, ma perdono ambedue. La gara di tiro è vinta da uno straniero, che è della compagnia insieme all’inglese Abbott e alla sua compagna.
– Marocco francese. Ben McKenna, un medico americano, trascorre una vacanza assieme alla moglie Jo, una cantante, e al figlioletto Hank. Sull’autobus da Casablanca a Marrakesh conoscono un francese, Louis Bernard, e in un albergo di Marrakech una coppia di londinesi, i Drayton.
Cena e ballo in hotel. Louis è colpito da una revolverata, ma prima di morire implora Bob di recuperare un messaggio che ha nascosto in camera sua. Bob lo trova, accenna a un complotto per uccidere un capo di stato.
Il mattino dopo visita al mercato. Un arabo corre verso la coppia americana: in realtà è Louis truccato, con un pugnale nella schiena. Prima di spirare sussurra a Ben qualcosa relativo all’uccisione di un capo di stato e gli consegna un foglietto.
Bob riceve un avvertimento: devono tacere pena la vita della figlia, che è stata rapita.
Ben, dopo aver affidato Hank alla signora Drayton, va al commissariato di polizia, dove riceve una telefonata: deve tacere pena la vita del figlio. Tornati in albergo scoprono che Hank è stato rapito dai Drayton, e decidono di andare a Londra per rintracciarli.
– A Londra, a casa, un funzionario del Ministero degli Esteri rivela alla coppia che Louis era un loro agente e invita Bob a svelare il contenuto del messaggio ricevuto, ma Bob e la moglie negano, temendo per la sorte della figlia. Una telefonata dei rapitori rinnova la minaccia, e il funzionario rintraccia il quartiere da dove è partita la telefonata.
– A Londra, all’aeroporto, un funzionario dei Servizi Segreti rivela alla coppia che Louis era un loro agente e invita Ben a svelare il contenuto del messaggio ricevuto, ma Ben nega, temendo per la sorte del figlio.
– Bob vi si reca insieme a un parente, Clive, e trova la casa con un nome indicato da Louis prima di morire. È quella di un dentista, i due entrano fingendosi pazienti e scoprono la presenza di Abbott e Ramon e apprendono che quella sera all’Albert Hall avverrà l’attentato all’uomo di stato.
– In albergo Ben trova sull’elenco telefonico l’indirizzo di un certo Ambrose Chapel, il nome che Louis gli aveva confidato prima di morire, e vi si reca, mentre parenti e amici arrivano in albergo a dare il benvenuto ai due americani appena arrivati. Ben scopre che Ambrose Chapel è il nome di un uomo (ha un laboratorio di imbalsamazione) che non c’entra col rapimento.
– Bob e Clive seguono i due del complotto, che entrano nella sede di una setta religiosa, l’Ambrose Chapel. Dentro, Bob e Clive sono scoperti e rinchiusi. Bob reagisce scagliando sedie contro i “cattivi”, e si scatena una battaglia a sediate. Bob è neutralizzato, mentre Clive riesce a uscire e telefona a Jill di andare all’Albert Hall e alla polizia. Arrivano i poliziotti, che invece di credere a Clive credono ad Abbott che lo accusa di aver provocato disordini nella cappella. Nell’appartamento sovrastante Abbott istruisce Ramon sull’assassinio che deve avvenire la sera stessa all’Albert Hall. Bob riesce a raggiungere la figlia.
– Tornato in albergo, Ben trova l’indirizzo di “Ambrose Chapel” fra le chiese e vi si reca. Intanto Abbott istruisce un killer sull’assassinio che deve avvenire la sera stessa all’Albert Hall. Jill raggiunge il marito Ben e insieme entrano nella cappella, dove Drayton officia una funzione religiosa. Scoperti, lei riesce a fuggire, telefona alla polizia e si reca all’Albert Hall, mentre Ben scopre la presenza del figlio nell’appartamento sovrastante la cappella. Ma i “cattivi” portano il ragazzo all’ambasciata del Paese straniero e Ben, rinchiuso, riesce a fuggire arrampicandosi sul campanile.
– Jill entra all’Albert Hall, dove entrano anche l’ambasciatore e Ramon, il killer, e si siede in platea scrutando i presenti. E scopre in un palco il killer. L’orchestra attacca la Cantata in programma. Mentre il killer, al momento del “crescendo” col colpo di piatti, spara all’ambasciatore, Jill emette un urlo che disorienta il killer, per cui l’ambasciatore è soltanto ferito a un braccio.
– Jo entra all’Albert Hall, dove entra anche l’ambasciatore straniero, e si mette in fondo alla platea scrutando i presenti: scopre in un palco il killer. L’orchestra attacca la Cantata in programma, e Ben raggiunge la moglie che lo mette al corrente. Invano Ben chiede aiuto ai poliziotti di servizio, per cui esplora i palchi a uno a uno. Mentre il killer, al momento del “crescendo” col colpo di piatti, spara all’ambasciatore, Jo emette un urlo che disorienta il killer, per cui l’ambasciatore è soltanto ferito a un braccio.
– Jill corre fuori dal teatro, e indica alla polizia il killer che fugge in auto. Lei va con i poliziotti che lo inseguono, i quali circondano la cappella e la casa, dove quello si è rifugiato. Dentro, Abbott li vede e organizza con i suoi una resistenza armata all’assedio. Lunga sparatoria, mentre Bob trova la figlia Betty e vuol uscire con lei dal tetto, ma Ramon lo ferisce inseguendo la ragazza sui cornicioni. Dalla strada Jill e i poliziotti seguono con apprensione. I poliziotti non sparano a Ramon per paura di colpire Betty, ma Jill strappa il fucile a un agente e spara, uccidendo il malvagio. All’interno Abbott si suicida. I genitori si ricongiungono fra loro e con la figlia. Jill: «È tutto finito».
– I Drayton portano Hank all’ambasciata straniera, ma il segretario – che ha organizzato l’attentato – impone ai due di sbarazzarsene. I McKenna sono invitati dall’ambasciatore al suo ricevimento: vuole ringraziare la donna che gli ha salvato la vita. Apprendendo che è una cantante, la prega di cantare per gli ospiti. Lei canta Qué serà serà ed è sentita dal figlio, Hank, prigioniero al piano di sopra. In loco c’è anche Ben, il padre, che trova la stanza, ma Drayton lo tiene sotto tiro con la pistola, e intima a padre e figlio di uscire con lui dall’ambasciata. Ben reagisce colpendo Drayton, che cade dallo scalone e muore.
Si ritrovano insieme per la cena in hotel.
– I genitori e il figlio tornano in albergo, dove Ben dice agli ospiti: «Ci spiace di avervi fatto aspettare ma siamo andati a riprendere Hank».
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FESTIVAL Rotterdam L’ideale del festival laboratorio calza a Rotterdam da sempre, perfettamente attinente a una città che ti accoglie tra il frastuono di cantieri aperti ab aeterno nella stazione ferroviaria e i lunghi viali costellati da attraversamenti etnici, che si srotolano giusto a un passo da altri viali tempestati dalle griffe della globalizzazione. L’International Film Festival di Rotterdam (dal 25 gennaio al 5 febbraio la quarantunesima edizione) laboratorio, in realtà, lo è sempre stato. Gli va anzi riconosciuto un primato nel farsi carico del confronto a priori con i film in fieri , del supporto artistico prima ancora che produttivo ai progetti in via di sviluppo, grazie a quel Hubert Bals Fund che sin dal 1988 ha instaurato un regime di accoglienza e sostegno per i registi, diventando un elemento ormai imprescindibile per qualsiasi fil-
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De jueves a domingo
mfestival che abbia reali aspirazioni internazionali. “The Supportive Festival”, scrivono con orgoglio quelli di Rotterdam sul catalogo, dichiarando la matrice di una manifestazione che più di qualunque altra sembra proporsi come snodo per programmer e buyer del circuito internazionale, non a caso sostenuti da un sistema di accoglienza e facilitazioni operative da Industry Office non indifferente. Certo, sappiamo bene come questa dinamica si sia generalizzata e tramutata in una sorta di lungo braccio della globalizzazione sul sistema cinematografico mondiale, formattando le differenze culturali e le peculiarità dello sguardo soprattutto laddove sono diventate il supporto principale per autori e cinematografie di Paesi emergenti. Ma questo è un altro discorso – troppo lungo e complesso, anzi banale… – di fronte al quale si sfaldano le certezze dei cartelloni di un po’ tutti i grandi festival mondiali,
col rischio che i filmmaker siano ormai educati e addomesticati al punto da saper confezionare esattamente i film che piacciono ai selezionatori… Fermiamoci qui, dunque, e scendiamo nello specifico di questo IFFR partendo dall’evidenza dei vincitori del concorso lungometraggi, che del resto compongono una terna interessante anche in questa prospettiva. In un tracciato geografico che si muove dall’Asia alle Americhe passando per l’Europa, le tre Tigri – tutte al femminile: per firma e storie – insistono su una scansione di scenari emotivamente afasici e culturalmente implosi, in cui nella filigrana di percorsi esistenziali a rischio si distinguono malesseri latamente sociali ben codificati. Il più interessante ci pare il cileno De jueves a domingo , opera prima di Dominga Sotomayor che, per intenderci, è stata sviluppata tra la Cinéfondation di Cannes e l’Hubert Bals Fund di Rotterdam: il percorso
Tokyo Playboy Club
Jidan he shitou
verso la fine dell’infanzia di una ragazzina in vacanza, con i genitori che covano il segreto della loro imminente separazione, viene affrontato dalla regista con un taglio languido ma sobrio, in cui i sentimenti fragili dell’incombente adolescenza si sommano al senso terminale del fuori tempo vacanziero. L’approccio soggettivo traspare di umori autobiografici, la fotografia ingiallisce il ritmo sospeso della messa in scena, l’on the road si traduce in deriva esistenziale nel gioco della vacanza; ma al film mancano forza e identità stilistica per sollevarsi dalla medietà del prodotto festivaliero. Meglio comunque di Clip , opera prima della regista serba Maja Milos, che nutre ambizioni virulente in linea con le recenti velleità trasgressive di questa cinematografia: ritratto spietato e scontato di una teenager di provincia, che affoga in sesso, droga e musica la noia crudele di una vita popolata da compagne di scuola volgari, amici violenti, un padre malato terminale e una madre inetta nel suo dolore. Lo stile è mosso, aderente a quella estetica video da Youtube che avrà un suo ruolo nel dramma della protagoni-
sta, la resa complessiva piuttosto insignificante. Infine il vincitore asiatico, il cinese Jidan he shitou (Egg and Stone ), opera prima della ventottenne regista Huang Ji, che con solida compostezza formale affronta un altro cammino femminile alla fine dell’adolescenza. In questo caso seguiamo la storia di una ragazzina di provincia alle prese con una gravidanza segreta e con un fatale aborto procurato con la complicità del suo ragazzo: dramma realistico contemplato con stile introflesso e illividito, appesantito da troppi silenzi e complicato da snodi narrativi tendenti al criptico. In realtà il Concorso ha poi offerto alcune opere piuttosto interessanti che lavorano molto bene nelle smagliature controllate dei ritmi e delle coordinate della messa in scena. Per esempio mostra una forza narrativa e simbolica assolutamente dirompente il russo Zhit (Living ), opera seconda di quel Vasily Sigarev che nel 2009 si era fatto notare con Wolfy. Qui la dispersione nel ventre gelido della Grande Madre Russia cristallizza un dramma sui vivi e i morti condiviso da tre storie parallele: una giovane coppia di sposi inciampa fatalmente in una banda
di delinquenti, una madre alcolizzata attende il tragico ritorno a casa delle due gemelle affidate ai servizi sociali, un ragazzino vive con una madre crudele e cerca di riunirsi al padre. L’impianto drammatico sostiene un esistenzialismo classico che però a metà film si ribalta in una sorta di carnevale delle anime in pena, dove i morti si affiancano ai viventi come revenant pronti a ridefinire le coordinate del reale. Oppure il nuovo film del giapponese Okuda Yosuke, Tokyo Playboy Club , che smargina tra luoghi e figure da yakuza movie e derive esistenziali di provincia, ambientando in una Tokyo dei quartieri bassi, poco al neon e molto popolare, la storia del proprietario di un nightclub di periferia, del suo amico appena uscito di prigione, di un giovane cameriere e della sua ragazza. Tra torsioni narrative, accessi di violenza, sospensioni psicologiche, il film prolifera in un sentimento vago e pregnante delle relazioni tra i personaggi e la scena, nutrendo un immaginario che sta a metà strada fra la tradizione di Yôji Yamada e la modernità di Takashi Miike. Massimo Causo
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Vater Mutter Mörder
Biarritz
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Dal 23 al 29 gennaio, il FIPA (Festival International des Programmes Audiovisuels) di Biarritz anche quest’anno ha proposto un’edizione davvero interessante. Ciò grazie soprattutto alla grande professionalità di Teresa Cavina (dal 2010 delegato generale, che ha dato nuovo vigore a questa manifestazione) che fra concorso, fuori concorso e l’appendice digitale del Fipatel, ha progettato un programma vastissimo e di grande livello. Il FIPA è un festival che lavora nel fecondo crocevia in cui si incontrano serie televisive, tv movie che hanno una qualità cinematografica, documentari e reportage di grandissimo livello estetico e di contenuto, creazioni per il web e programmi dedicati al mondo della musica. Nella vetrina più importante, quella dei tv movie, diversi i prodotti degni di nota. La presenza italiana è stata assicurata da Troppo amore , coprodotto da Rai Fiction, diretto da Liliana Cavani, interpretato tra gli altri da Antonia Liskova, Massimo Poggio e una straordi-
naria Anna Melato, in onda recentemente su Rai1. Un film intenso che affronta il problema sempre più attuale e doloroso dello “stalking”, della violenza contro le donne, ambientato nel meraviglioso set di Trieste e dintorni. Dalla Germania sono stati selezionati due lavori lontani tra loro ma entrambi di grande presa emotiva. Vater Mutter Mörder di Niki Stein racconta il viaggio all’inferno di una famiglia benestante e apparentemente felice il cui primogenito Lukas è accusato dell’efferato omicidio del suo più caro amico e della madre della sua ragazza. Grande prova di Heino Ferch e Silke Bodenbender (vincitrice del FIPA d’Or come miglior interprete femminile), nei ruoli dei due genitori che cercando di comprendere le ragioni di quel gesto e mettono in discussione, fino alle estreme conseguenze, anche il loro rapporto affettivo. Un altro rapporto affettivo messo in crisi è quello tra Carola e suo marito nel secondo film tedesco, Es ist nicht vorbei di Franziska Meletzky, una sorta di versione televisiva di Le vite degli altri . La protagonista è una pianista che negli anni Ottanta
venne rinchiusa in un ospedale psichiatrico della DDR, dove venne sottoposta a torture fisiche e psicologiche perdendo anche una falange di una mano. Una sera, durante una cena nella casa di un dirigente medico assunto da suo marito, riconosce nella voce dell’uomo quella del medico che la sottopose a quelle violenze e che era riuscito a mantenere l’anonimato e a non essere perseguito. Inizia una feroce guerra di nervi tra i due e la donna viene minacciata da ex agenti della Stasi, sino al drammatico epilogo. Dalla Francia La disparition di Jean-Xavier de Lestrade, tratto da una storia vera e che racconta il calvario di un marito e padre di due figli, accusato ingiustamente di aver ucciso la moglie e fatto scomparire il cadavere. Una storia intensa premiata come miglior sceneggiatura. La mer à l’aube è la ricostruzione di una storia di guerra avvenuta nell’ottobre del 1941 a Nantes e diretta da Volker Schlöndorff. Un film forte ed emozionante sulla sventura di centocinquanta francesi rinchiusi in un campo di prigionia e condannati a morte per rappresaglia in seguito all’uccisione di due ufficiali
tedeschi. Una dolorosa finestra sulla Seconda guerra mondiale con i tormenti etici di un giovane soldato tedesco che alla fine si scopre essere il futuro Nobel della letteratura Heinrich Böll. Ma il trionfatore di questa edizione è il francese Le cinq parties du monde di Gérard Mordillat, vincitore del FIPA d’Or, ambientato a Tolone il 21 luglio del 1969. Con lo sfondo della cronaca in bianco e nero che racconta le gesta di Neil Armstrong e Edwin Aldrin nel loro viaggio verso la Luna, nel Miami Bar del malfamato quartiere della Piccola Chicago, che ricorda molto Fassbinder, le vite di alcuni marinai e di un gruppo di prostitute si troveranno mescolate in drammatici confronti che stroncheranno le vite di alcuni e cambieranno per sempre quelle degli altri. Per il prodotto seriale, il FIPA d’Or è andato alla curiosa Kaboul Kit- chen , una serie francese ambientata a Kabul nel 2005, che vede il faccendiere Jacky gestire un locale dove l’unico obiettivo è il divertimento per la colonia occidentale che vive in un Afganistan tutt’altro che pacificato. Il mondo di Jacky, però, viene sconvolto dall’arrivo di sua figlia, membro di una organizzazione umanitaria, il che garantisce un tono di commedia in un contesto un po’ dissonante.
Le cinq parties du monde
Natalie Baye ha conquistato il premio come miglior attrice seriale grazie alla sua partecipazione a Les hommes de l’ombre , un realistico thriller fantapolitico che prende spunto dall’assassinio del Presidente della Repubblica francese; la Baye interpreta il ruolo di Anne Visage, una stretta collaboratrice del Presidente, sopravvissuta all’attentato e che viene coinvolta nelle lotte di potere che si scatenano per la successione. Tra i documentari in concorso, davvero di gran livello, segnaliamo il vincitore del FIPA d’Argent The Kin- gdom of Mr. Edhi , la storia affascinante di un uomo di umili origini che con l’aiuto di sua moglie ha messo in piedi in Pakistan un’organizzazione sanitaria e di assistenza per la povera gente, efficiente, profondamente radicata nel territorio e senza finanziamenti pubblici. Vincitore del Premio della Giuria dei giovani europei è il documentario The Grammar of Happi- ness di Randall Wood e Michael O’Neil, in cui si racconta la storia della particolare tribù amazzonica dei Pirahas, con una lingua e cultura che non ha eguali in tutto il mondo conosciuto. Particolarità che stanno scomparendo con l’arrivo della civiltà, ma grazie al lungo lavoro di registrazione e catalogazione condotto sul campo dall’an-
tropologo Daniel Everett, forse non tutto è perduto.
Difficile ignorare altri importanti prodotti proposti nelle varie sezioni in concorso, però ancora più complicato il lavoro per quanto riguarda lo sterminato panorama di Fipatel, una sorta di enorme magazzino audiovisivo dove convivono serie tv di gran pregio come la spagnola Gran Hotel . Acquistata in tutta Europa e ambientata agli inizi del Novecento in una location mozzafiato, questa serie tra mélo e giallo racconta del giovane e aitante Julio che è alla ricerca dell’amata sorella cameriera, appunto al Gran Hotel, scomparsa misteriosamente. Tra i lavori documentari, invece, una menzione per il toccante Album(s) d’Auschwitz , che racconta la storia di Lili Jacob, un’ebrea ungherese sopravvissuta all’Olocausto che nei giorni in cui il campo venne liberato trovò un album di foto che raccontava la vita spensierata dei carcerieri e delle loro famiglie, e raffigurava molti dei prigionieri al loro arrivo al campo. Una documentazione preziosa per gli storici e i giudici, ma dalla quale la Jacob non si è mai potuta separare neppure per un attimo, in una sorta di specialissima sindrome di Stoccolma. Tina Porcelli
Kaboul Kitchen
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L’Asian Film Festival di Reggio Emilia
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Giunto al suo decimo anno, l’Asian Film Festival dà l’impressione di essere una manifestazione in crescita. Dall’esordio romano nel 2002, alla seconda edizione in terra emiliana, appena conclusasi, il festival si sta confermando vetrina della cinematografia d’autore proveniente dall’Estremo Oriente: un ideale contraltare al Far East Film Festival di Udine, da sempre orientato, invece, alla produzione asiatica popolare e di consumo. A Reggio Emilia, dal 16 al 24 marzo scorso, sono state presentate trentasei opere provenienti da cinematografie alle quali la critica europea guarda con attenzione: sei film dal Giappone e altrettanti da Taiwan, cinque da Singapore, tre dalla Cina, due dalla Corea del Sud, uno dalla Malesia e dal Vietnam. A queste opere si sono poi aggiunti diversi cortometraggi tra cui spiccano quelli realizzati a Hong Kong anche da noti registi asiatici come il filippino Brillante Mendoza o il thailandese Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro a Cannes nel 2010. Il tutto suddiviso in una sezione Concorso, una Fuori Concorso e una Newcomers, dedicata ai nuovi registi. Dodici, infine, i titoli della retrospettiva dedicata a Shin’ya Tsukamoto, uno degli autori giapponesi di culto dell’ultimo ventennio, al quale è stato consegnato un premio alla carriera. Il regista, durante un affollato incontro con il pubblico, ha ripercorso, prendendo spunto dalle domande, la sua storia artistica, da quel primo delirio cyberpunk che fu Tetsuo (1989) all’ultima fatica, Kotoko (2011). Il film vincitore del Festival, Tat- sumi di Eric Khoo, originario di Singapore, è dedicato al fumettista giapponese Tatsumi Yoshihiro. Il regista, avvalendosi di un’animazione stilizzata, fonde in maniera effi-
cace la biografia dell’artista con le storie dei suoi manga: il risultato è un’opera che incastra sogno e realtà e celebra in maniera originale e commovente il talento artistico di Tatsumi. Dalla Cina provengono due delle opere più interessanti della rassegna. La prima è Celestial Kingdom di Wang Chao, vincitore del premio per la regia. Il regista, che iniziò come assistente di Chen Kaige, si spinge nelle desolate regioni della Cina nordorientale per raccontare, con lunghi piani sequenza e inquadrature fisse, il rituale atavico del “matrimonio ultraterreno”, concepito per trovare, con qualsiasi mezzo, una moglie a uomini morti prima di sposarsi. La seconda è Mr. Tree di Han Jie, al suo secondo film. L’attore protagonista, Wang Baoqiang, anche lui premiato a Reggio, interpreta una sorta di Candide di provincia nella Cina contemporanea, in bilico tra un presente di paesaggi urbani decadenti e radici antiche. Personaggi ai margini della società anche per l’esordio al lungometraggio del sudcoreano Jang Heechul, che ha diretto Beautiful Miss Jin , vincitore della sezione Newcomers. Il film è la storia agrodolce di una senzatetto che trova rifugio in
Tatsumi
una piccola stazione ferroviaria, insieme a una bambina, ed è aiutata da un introverso ferroviere e da un altro personaggio eccentrico. Tra le altre opere sono da segnalare I Have Loved , di Lai Weijie e Elizabeth Wijaya (Singapore), film onirico e antinarrativo, ambientato fra i templi di Angkor Wat, in Cambogia, e i premiati Make Up di Lien Yi-chi (Taiwan), per l’interpretazione femminile di Nikki Hsieh, e Bear It di Cheng Fen-fen (Taiwan), come miglior opera originale. Nella sezione Concorso, infine, erano presenti gli ultimi lavori di due tra i più noti registi giapponesi, Hirokazu Koreeda e Naomi Kawase, i cui nomi sono spesso accomunati non solo per la loro passata collaborazione, ma anche per il modo simile di rappresentare una natura potente e viva, che avvolge i personaggi. Sotto questo aspetto Hanezu , di Kawase, delicata storia a tre in un magico scenario naturale, è una conferma. Invece, I Wish , ultimo film di Koreeda sulle vicende di due giovani fratelli costretti a vivere separati, si concentra maggiormente su altri temi cari al regista: l’energia infantile, la forza del desiderio, gli affreschi di famiglia. Claudia Bertolè
Dom
Trieste Film Festival Il Trieste Film Festival, giunto quest’anno alla ventitreesima edizione, è una di quelle manifestazioni cinematografiche che, silenziosamente e caparbiamente, portano avanti un discorso di cultura e informazione di grande spessore. Per quanto riguarda la sezione che ospita la competizione fra lungometraggi, il massimo riconoscimento votato dal pubblico è andato a Dom (La casa) della slovacca Zuzana Liova, all’esordio sul grande schermo. Il film ha al centro il conflitto fra generazioni e, in modo particolare, le difficili relazioni fra un genitore all’antica e le donne della sua famiglia. Imrich, caporeparto in una fabbrica di acque minerali, con alle spalle un padre maltrattato dal regime realsocialista, vuole cocciu-
tamente portare a termine la casetta che si sta costruendo da oltre vent’anni. Vorrebbe che Eva, la figlia più giovane che frequenta ancora il liceo, facesse come lui ma la ragazza, che è innamorata del professore d’inglese, la pensa diversamente. Per quanto riguarda Jana, la figlia maggiore, è rimasta incinta a diciotto anni e si è sposata con un giovane che suo padre considera un poco di buono. Il lavorio della moglie e una minaccia d’infarto riallacceranno le relazioni del padre con le figlie e consentiranno a Eva di partire per l’amata Londra. Il film tratteggia con misura un quadro familiare in un interno senza troppo preoccuparsi di sondare l’orizzonte in cui queste vite s’inseriscono. Qualche rapido accenno fa capolino qua e là – gli operai sfaticati, il sogno d’arricchirsi aprendo un negozio, la situazione piccolo borghese dell’insegnate –, ma sono solo tracce prive di sviluppo. Più note di colore che indizi sulla volon-
tà di collocare la storia in una precisa cornice storica. Fra gli altri titoli comparsi in questa sezione, ma non premiati, molto interesse ha destato il russo Jelena (Elena), che porta la firma di Andrey Zvyagintsev (classe 1964) già vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2003 con Voz- vrashchenie (Il ritorno). Vladimir ed Elena sono una coppia matura, lei è un’ex infermiera e lui un uomo di potere ora in pensione. Ciascuno ha figli da precedenti matrimoni, quello della donna è disoccupato, spesso ubriaco e incapace di mantenere decentemente la moglie e i due figli, uno in età di servizio militare. Anche l’anziano marito ha una figlia che coltiva velleità artistiche ed è andata via da casa sbattendo la posta. Elena regala ogni mese la sua pensione al figlio e gli riempie costantemente il frigorifero, comportamento che il compagno non approva, convinto com’è che il giovane sia un profittatore.
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Jelena
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La situazione si complica quando il nullafacente chiede alla madre una forte somma di denaro, necessaria a evitare il servizio militare a suo figlio, pagando perché sia accettato all’università. Vladimir è contrario a prestare la somma, ma proprio in quei giorni è colpito da infarto. In clinica constata quanto precarie siano le sue condizioni e decide di fare testamento lasciando tutto alla figlia. Quando ritorna a casa, in convalescenza, la moglie gli chiede ancora una volta i soldi, ma lui rifiuta. Elena, ossessionata dalle necessità di soddisfare le richieste del figlio, uccide il marito propinandogli una dose massiccia di Viagra. Non c’è stato tempo per legalizzare il progettato testamento, le cui bozze l’uxoricida ha bruciato, e ora il lussuoso appartamento è invaso da figli e nipoti della vedova. Il film ha una fotografia straordinaria, che accompagna armoniosamente il ritmo lento con cui la storia è raccontata. Un ritmo che si adatta perfettamente allo scorrere reale del tempo, com’è costume del nuovo cinema, non solo russo. È una vicenda che appare, a una lettura superficiale, come una dramma famigliare, un delitto senza pena. In realtà è un esempio delle profonde, laceranti trasformazioni
che hanno segnato il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia. In questo il vecchio agiato è l’emblema di un potere illimitato che, prima, aveva l’aspetto della nomenclatura di partito e oggi assume gli eleganti vestiti degli oligarchi. Nello stesso modo la donna, immagine di un’idea di maternità totalmente assorbente cara alla mitologia russa, fa intravvedere la brutalità e la spregiudicatezza con cui le classi povere si affacciano alla nuova società. Un accenno anche a Adicos Kosmod (Un mondo ingiusto) del Adicos Kosmod
greco Filippos Tsitos. Al centro della storia c’è Sotiris, un poliziotto stanco di un lavoro del quale si occupa con sempre minore interesse. Il tempo libero lo trascorre curando un brutto plastico che raffigura un panorama immaginario. Un giorno, quasi per caso, uccide una guardia giurata da cui un suo collega pretendeva del denaro. Unica testimone del delitto è una quarantatreenne passata fra mille mestieri, compresa la prostituzione, e costretta, per vivere, a lavorare per un’impresa di pulizia. Fra l’agente e la donna s’instaura una sorta di scontro, che altro non è se non il fronteggiarsi di due vite sprecate, solitudini sull’orlo dell’auto-annientamento. È un’opera che s’inserisce nella numerosa pattuglia di film che il cinema ellenico sta dedicando allo sbandamento, morale e materiale, di individui al margine della vita. Il film coglie molto bene alcuni aspetti di questo smarrimento, più sul versante dell’agente che non su quello della donna. Lo fa immergendo personaggi e oggetti in atmosfere livide, slavate, appartamenti popolati da mobili di nessun valore, uffici freddi come carceri. A voler essere, forse, un po’ troppo generosi potremmo dire che è un possibile ritratto individuale di una crisi che ha travolto in modo massiccio le strutture di un intero Paese e, con esse, messo in discussione uno specifico modo di vivere. Umberto Rossi
DVD LA REGINA D’AFRICA
(THE AFRICAN QUEEN, 1952) di John Huston Teodora, 2012 -
17,99
SOTTO IL VULCANO
(UNDER THE VOLCANO, 1984) di John Huston Teodora, 2012 -
17,99
razione), lo faceva proprio, si gettava a corpo morto nelle riprese, si occupava del montaggio e poi via, di corsa al lavoro sul progetto seguente, del quale molto spesso aveva preso a interessarsi già a metà della lavorazione del film precedente. Peccato che, a volte, i produttori se ne approfittassero, amputando a tradimento in sua assenza il film appena concluso (destino che toccò a La prova del fuoco [The Red Badge of Courage , 1951]). Pazienza: getta l’anima oltre il muro e seguila, che il prossimo film sarà appassionante quanto quello che hai appena finito, se non di più. Una delle volte in cui Huston gettò più volentieri del solito l’anima oltre il muro fu per la lavorazione di La Regina d’Africa . Sono note le traversie delle riprese in Africa, non foss’altro perché vi si ispirò Pieter Viertel, chiamato a sistemare una sceneggiatura di James Agee, per scrivere un romanzo dal quale poi Clint Eastwood avrebbe ricavato il suo Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter Black Heart , 1990), nel quale si descrive l’ossessione di Huston per la caccia all’elefante durante la lavorazione del film (un vero e proprio atto di blasfemia, dirà poi il regista, paragonabile all’odio di Achab per Moby Dick: farà ammenda qualche anno dopo, girando la trasposizione cinematografica del romanzo- pamphlet ecologista di Romain Gary Le radici del cielo ). Vera o falsa che sia la versione di Viertel, Huston partì alla ventura, girando in condizioni pressoché proibitive e concludendo un film ben diverso da come era stato concepito sulla carta. La Regina d’Africa è tratto da un romanzo di C.S. Forester che è ben lungi dall’essere una commedia: le traversie dei
Ricordando con grande divertimento (e un pizzico di nostagia) il lungo periodo in cui risiedette in Irlanda, Paese di cui erano originari alcuni dei suoi antenati e del quale aveva preso la cittadinanza nel 1965, nelle sue memorie John Huston parla anche delle cacce alla volpe alle quali era solito partecipare. A differenza che in Inghilterra o in America, racconta, in Irlanda la volpe riusciva a scappare la maggior parte delle volte, dal momento che lì la caccia era più che altro un pretesto per permettere a cavalli (i magnifici purosangue irlandesi) e cavalieri di divertirsi da matti lanciandosi in scatenate cavalcate che potevano durare fino a un paio d’ore e coprire distanze di decine di chilometri. «Salti ostacoli che né tu né il cavallo vi sareste mai sognati di saltare in condizioni normali.“Getta l’anima oltre il muro e seguila”, si usa dire» (John Huston, Cinque mogli e sessanta film , Editori Riuniti, Roma 1982). Getta l’anima oltre il muro e seguila. Una frase che più hustoniana di così non potrebbe essere, e che il regista pare aver seguito per tutta la sua esistenza, nella vita come nel lavoro. Nel periodo più produttivo della sua carriera, Huston era solito innamorarsi di un soggetto (la maggior parte delle volte tratto da fonti letterarie: in questo, fu uno dei più “intellettuali” fra i registi americani della sua gene- Giorno dei Morti: Albert Finney e Isabel “La Chichimeca”Vázquez in Sotto il vulcano .
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due inglesi, un alcolico conducente di traghetto e una segaligna missionaria di mezz’età che vuole affondare nel corso della Prima guerra mondiale una nave da guerra tedesca, finiscono nella prima edizione americana del libro con il fallimento dell’obiettivo e la morte dei due protagonisti. Huston parte per l’Africa con una sceneggiatura drammatica in linea con il romanzo; ma, durante le riprese, nota l’inaspettata chemistry tra Humphrey Bogart e Katharine Hepburn e, intravvedendo delle venature comiche fra le pieghe del racconto, decide di cambiare il tono generale e di modificare il finale. La Regina d’Africa , com’è quindi diventato, è un oggetto un po’ difficile da classificare: un film d’avventura, e allo stesso tempo la garbata parodia di esso; ma anche una commedia dai toni quasi screwball mascherata da film d’avventura. I personaggi, che all’inizio sono deliberatamente spigolosi e piuttosto stereotipati – il capitano di vaporetto cinico, sgarrupato e alcolizzato; la missionaria acida e petulante – si ammorbidiscono e acquistano spessore psicologico man mano che l’avventura procede; il paesaggio attorno a loro rifugge da qualsiasi esotismo (i due protagonisti non si trovano mai alle prese con leoni elefanti giraffe rinoceronti ippopotami – se non quando Bogart ne fa bambinescamente l’imitazione – ma con più prosaiche, fastidiose zanzare e sanguisughe); le disavventure fluviali si fanno sempre più picaresche e maliziose (come nella scena che segue il passaggio delle rapide: «Non avrei mai detto che un’esperienza fisica potesse essere così appassionante», dichiara la missionaria, con un’eccitazione che pare trascendere alquanto il mero sollievo per lo scampato pericolo). La Regina d’Africa , nelle mani di Huston, diventa quindi una bizzarra, movimentata cerimonia di corteggiamento. Un altro muro esemplare, oltre il quale Huston gettò più che volentieri la propria anima, fu la trasposizione di Sotto il vulcano , torrenziale romanzo di Malcolm Lowry le cui continue digressioni, i flussi di coscienza, le visioni etiliche del protagonista (un dimissionario console inglese in Messico) ne avevano fatto un’opera giudicata pressoché impossibile da portare sullo schermo. Pare che nell’intento ci si fossero provati in molti, da Buñuel a Losey, e che fossero state scritte almeno di una sessantina di sceneggiature; tentativi tutti abortiti a causa della complessità di tanto e tale materiale. Huston, che ne era anche lui interessato da tempo, per certi versi era l’unico regista, oltre a Buñuel, titolato a farlo: il suo interesse per le figure magnificamente donchisciottesche, la sua passione per il Messico (da giovane, vi risiedette per un certo periodo, arrivando persino a fare il cavallerizzo per l’esercito messicano), i suoi precedenti cinematografici in loco (Il teso- ro della Sierra Madre [Treasure of the Sierra Madre , 1947] e La notte dell’iguana [Night of the Iguana , 1963]), nonché il fatto di essersi trasferito nel Paese in pianta stabile da sei anni, ne facevano l’uomo e il cineasta con l’anima più adatta da lanciare oltre quel muro. Delle varie sceneggiature scritte, Huston sceglie quella dello scrittore e drammaturgo Guy Gallo, che si distingue per la sinteticità nel trattare il copioso materiale; la sfronda ulteriormente e decide di girare completamente on location a Cuernavaca e dintorni. Viene tenuta la trama nella sua linearità (durante il Giorno dei Morti del 1938,
l’alcolizzato ex console Geoffrey Firmin – un impareggiabile, gigionescamente trattenuto Albert Finney – riceve la visita dell’ex moglie Yvonne, che vuole riconciliarsi con lui, e del fratellastro; ma in serata rimane ucciso da dei filonazisti in una bettolaccia), elimina parte dei personaggi di contorno e toglie tutti i flussi di coscienza. La maggior parte degli estimatori del romanzo, a loro modo comprensibilmente, all’epoca ebbero di che storcere il naso per questo approccio. Eppure Huston compie brillantemente l’unica operazione possibile su questo materiale: Buñuel stesso lo aveva abbandonato perché, parole sue, è impossibile rendere sullo schermo quello che sta dentro la mente di un uomo. Huston parte da questo presupposto, fa un passo indietro e segue rispettosamente, con profonda ma ironica pietas , le ultime ore di vita del protagonista, quasi adottasse il punto di vista distaccato di uno dei personaggi di contorno (magari quello di M. Laruelle, che nel libro introduce la storia, è eliminato dalla sceneggiatura e, guarda caso, di mestiere fa il regista cinematografico). Non solo. La storia, come raccontata da Huston, rispetto all’abbondanza del romanzo assume una forma scarnificata, paragonabile concettualmente a quei pupazzetti a forma di scheletro che i messicani sono soliti acquistare o regalare il Giorno dei Morti, e che indossano abiti e dettagli di ciò che erano in vita. «Il Giorno dei Morti, bisogna ridere, non piangere: se no i nostri morti si ritrovano la strada per il Paradiso scivolosa per le nostre lacrime e faticano ad arrivarci», dice a Firmin il suo amico dottor Vigil. Sotto il vulcano , nelle mani di Huston, è diventato così una magnifica danse macabre , un allegro canto funebre in onore di uno dei tanti donchisciotte così amati dal regista. Messico e nuvole, la faccia triste dell’America… Che voglia di ridere ho. Arturo Invernici
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LE LUNE DEL CINEMA A CURA DI NUCCIO LODATO
[email protected] 1 APRILE 2012
Si registra tardivamente la scomparsa (il 27 marzo a 92 anni a Roma: vi era nato nel 1920) di Mario Socrate. Ispanista insigne e poeta di vaglia (anche per canzoni politiche sul Vietnam musicate da Fiorenzo Carpi), nel 1964 aveva impersonato indimenticabilmente il Battista nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Il 14 marzo era venuto a mancare a 83 anni a Clamart (Hauts-de-Seine)
pur continuando a valutare la già prospettata ipotesi di abbandonare con dicembre il mercato italiano.
3 APRILE 2012
Carlo Lizzani compie novant’anni, e viene festeggiato alla Casa del Cinema, anche con l’annuncio del suo prossimo libro Il mondo in 35 millimetri (ERI). In una lunga e bella intervista ad Antonio Gnoli per «Repubblica» dice tra l’altro: «Siamo parte di una storia che per un po’ resterà scolpita nella memoria di qualcuno. Poi, il tempo farà il suo lavoro. Mi sorprendo a volte nel pensare quanto sia stato fortunato in ciò che ho fatto. Ho lasciato tracce. E mi accorgo ora che tutto questo è diventato una sfida alla sparizione. I novanta ho cominciato da poco a darmeli. Capisco che sono una condanna perché il tempo accelera e passa come un fulmine. Aver vissuto così a lungo è già una vittoria».
2 APRILE 2012
Il poeta e ispanista Mario Socrate, come Giovanni il Battista, in Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini.
anche Pierre Schoendoerffer, nato a Chamalières (Puyde-Dome) il 5 maggio 1928. Cineasta della Marina durante la guerra in Indocina e prigioniero dei Vietminh, con all’attivo una decina tra documentari, romanzi e film, tra i quali 317° battaglione d’assalto (1965), Obiettivo 500 milioni (1966), L’uomo del fiume (1977, da un suo libro) e Dien Bien Phu (1992).
1 APRILE 2012
Censura all’offensiva nell’Egitto “liberato” da Mubarak. Una commissione della tv statale pare dedita a un controllo sistematico retrospettivo della passata produzione cinematografica nazionale, per eliminarne quanto contrario alla stretta ortodossia islamica. Ne fa le spese il più popolare comico, l’ultrasettantenne Adel Imam (un concentrato Totò, Sordi e Banfi, per l’inviato di «Repubblica»), i cui film, su iniziativa di un avvocato integralista, vengono sottoposti a revisionismo inquisitorio. Accuse di passata amicizia col deposto dittatore, da un lato; di aver mancato di rispetto ai valori fondamentalisti dall’altro. Ma perfino un ex membro dei “Fratelli Musulmani”, Abdel Ghail Sharnouby, chiarisce: «Questi casi di censura, di denunce giudiziarie non hanno nulla a che fare con la religione, con il vero Islam: sono tutti casi che l’Egitto affronta oggi. È la stessa tecnica usata ai tempi di Mubarak».
Muore improvvisamente a 62 anni per crisi cardiaca a Monteriggioni (Siena) Omar Calabrese, nato a Firenze il 2 giugno 1949. Semiologo e docente all’Università di Bologna prima, di Siena poi, già condirettore di «Alfabeta», aveva presieduto la Mediateca Regionale Toscana e svolto attività di critico televisivo, fornendo contributi di eccelsa qualità alla semiotica delle arti visive e alla stessa cultura cinematografica, con generosa, stimolante e originalissima partecipazione.
1 APRILE 2012
Centocinquanta dipendenti parigini della FNAC, in agitazione, impediscono per sette ore al direttore delle sedi della Capitale l’uscita da un hotel cittadino, dove era in corso una trattativa sindacale. Si accentua lo stato di crisi dell’azienda, che nel corso del 2011 ha registrato una perdita superiore al 3%, annunciando economie per ottanta milioni e la “rinuncia” a trecentodieci dipendenti,
Dolorosi ricordi dalla guerra d’Indocina: 317° battaglione d’assalto (1965) di Pierre Schoendoerffer.
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3 APRILE 2012
Due abbandoni tv incrociati: Mediaset esce da Endemol, Cristina Parodi da Mediaset. Un documentato Antonello Catacchio ricostruisce sul «manifesto» le vicende della multinazionale olandese finita nel 2007 a Goldman Sachs, e la necessità dell’azienda berlusconiana di recuperare settanta milioni sfilandosi da una situazione che, attraverso il massiccio ingresso nella compagine di creditori, ne aveva ridotto la presenza dal 33 al 6%. La popolare giornalista non rinnova il contratto con Canale 5, cui deve la notorietà: pare orientabile verso La7 per un progetto autunnale, non connesso però né al TG di Mentana né al successo della sorellina cuoca, già a sua volta trasmigrata.
4 APRILE 2012
Muore dopo lunga malattia a Parigi a settant’anni (vi era nato il 20 febbraio 1942) Claude Miller. Ventenne, frequenta l’IDHEC e si accosta operativamente al cinema da militare. Poi assistente di Carné, Bresson, Godard, Deville, Demy e Truffaut negli anni d’oro della Nouvelle Vague, esordisce in proprio nella regìa spintovi giusto da lui (ne era stato direttore di produzione da La mia droga si chiama Julie , 1969, a Adele H., 1975, e anche attore in Il ragazzo selvaggio ) con La meilleure faços de marcher (1976, inedito da noi). Seguono Gli aquiloni non muoio- no in cielo (1977) e il successo di Guardato a vista (1981), poi Mia dolce assassina (1983) e Sarà perché ti amo? (1985). Nel 1988 realizza La piccola ladra, riprendendo un progetto abbandonato da Truffaut. Nei Novanta s’impone ulteriormente con L’accompagnatrice (1992) e Il sorriso (1994). Prende parte ai due film del
4 APRILE 2012
La direzione del personale RAI sospende per dieci giorni da ruolo e funzioni Carlo Freccero, direttore di Rai4, in quanto «venuto meno agli obblighi di dirigenza, correttezza e buona fede derivanti dal rapporto di lavoro, determinando sfiducia nel corretto adempimento dei suoi obblighi». Il fatto di cui il malcapitato si sarebbe reso reo pare essere una telefonata piuttosto “energica” al giornalista di «Libero» Francesco Borgonovo, da lui accusato di aver provocato lo spostamento del format spagnolo Fisica o chimica , programmato dalla rete, dal mattino alla seconda serata, per il fatto di dedicare troppa attenzione a tematiche come il sesso e l’omosessualità. Pronta la reazione dell’interessato: «È già tutto in mano all’avvocato Grazia Volo. Sono pronto a fare anche lo sciopero della fame. È un trattamento vergognoso e umiliante. Non ho mai ricevuto un premio di produzione in tanti anni, nonostante i grandi ascolti, e oggi vengo punito per una cosa che non esiste». «Freccero», commenta l’ex consigliere di amministrazione RAI dimessosi a gennaio, Nino Rizzo Nervo «in questi ultimi anni ha subìto un vero e proprio mobbing, ma resta una delle menti più lucide della televisione italiana. Senza uomini e mezzi, è riuscito a realizzare l’unica rete di successo del digitale terrestre, Rai4. Invece di ringraziarlo, la RAI lo ha sempre evitato, confinandolo in un sottoscala».
4 APRILE 2012
A poche settimane dal debutto in borsa di Facebook (inizio delle quotazioni a maggio inoltrato),Yahoo annuncia una prossima riduzione della propria forza lavoro di duemila posti, pari al 14% del totale, che si aggiungerebbe ai millecinquecento licenziamenti già resi esecutivi a inizio d’anno. La mancata fusione con Microsoft avrebbe causato il dimezzamento del valore dell’azienda, bersaglio della spinta innovativa posta in essere da Google e Facebook. Il taglio preluderebbe al progetto di specializzare il gruppo (che comunque conserva la supremazia di contatti statunitense con settecento milioni di utenti), opportunamente “snellito”, nell’area, considerata determinante, dell’informazione.
10 APRILE 2012
Le gioie della campagna: Audrey Tautou e Gilles Lellouche in Thérèse D (2012), opera ultima di Claude Miller dal romanzo di François Mauriac.
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centenario, Les enfants de Lumière e il collettivo Lumière and Company (con l’episodio Paris ): e ancora La classe de neige (1998), Betty Fisher e altre storie (2001), La pic- cola Lili (2003), Je suis hereux que ma mère soit vivante (2010, con il figlio Nathan), Voyez comme ils dansent (2011) e infine Thérèse D (terminato in già precarie condizioni di salute, a mezzo secolo esatto dal capolavoro di Georges Franju dal romanzo di Mauriac Thérèse Desqueyroux ) la cui uscita è prevista, postuma, dopo l’estate.
Muore a Roma, all’età di 76 anni, Maria Pia Casilio, nata a L’Aquila il 5 maggio 1935. Eternata da Vittorio De Sica, che la scopre per il personaggio della servetta in Umberto D. (1952) e la utilizza anche in seguito (Stazione Termini , 1953; Il giudizio universale , 1961; Lo chiameremo Andrea , 1972), apprezzata per la sua ingenua spontaneità e per il suo aspetto altrettanto naturale, di piacente morbidezza, ha doti superiori ai ruoli (di comprimaria o di caratterista) spesso affidatile. Se ne accorge, ad esempio, Marcel Carné (che la dirige in Teresa Raquin , 1953, e in Aria di Parigi , 1954) ma il pubblico la ricorda meglio come fidanzatina di Alberto Sordi in Un americano a Roma (1954, di Steno) o accanto a Totò (Il medico dei pazzi , 1954, di Mario Mattòli; o Totò, Peppino e i fuorilegge , 1956, di Camillo Mastrocinque). Ritiratasi dallo schermo dopo solo una decina d’anni, compare ancora saltuariamente in Brutti, sporchi e catti- vi (1976, di Ettore Scola), Identificazione di una donna
12 APRILE 2012
La Warner blocca la preparazione del nuovo film di Mel Gibson, I Maccabei . Nella sceneggiatura, lamenta il presidente Silverman, mancherebbero «sentimento e senso del trionfo». Reagisce duramente lo sceneggiatore, Joe Eszterhas, con una fluviale lettera aperta in rete, in cui accusa Gibson di antisemitismo e di non aver realmente avuto l’intenzione di girare il film. Risposta per le rime dell’interessato, non nuovo a simili contestazioni dopo La passione di Cristo : «Immagino che i tuoi problemi con me siano cominciati dopo che la Warner ha respinto il tuo copione».
13 APRILE 2012 Sulla strada d’er Kansassity: Maria Pia Casilio e Alberto Sordi su Harley Davidson in Un americano a Roma (1954) di Steno.
(1982, di Michelangelo Antonioni), Tre uomini e una gamba (1997, di Aldo, Giovanni & Giacomo e Massimo Venier). Moglie del famoso doppiatore Giuseppe Rinaldi, è talora doppiatrice ella stessa: le si devono le voci di Marina Vlady in Giorni d’amore (1954, di Giuseppe De Santis) e di Stefania Sandrelli in Il federale (1961, di Luciano Salce). [lopedeluna ]
10 APRILE 2012
Compie ottant’anni, nativo di Alessandria d’Egitto, Omar Sharif, al secolo Michel Demitri Shalhoub, noto anche come Omar El-Sherif (a seguito della sua conversione dal cristianesimo ortodosso all’islamismo, intervenuta nel 1955: quando la sua notorietà, due anni dopo il debutto nel cinema egiziano, era ancora limitata al mondo arabo, e Lawrence d’Arabia e Zivago di là da venire…).
11 APRILE 2012
All’Hangar Bicocca di Milano, inaugurazione della personale di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi “Non Non Non”. Il 17 maggio, nel quadro della rassegna visitabile fino al 10 giugno, davvero un “evento” eccezionale: la proiezione dei film profumati a passo ridotto che cominciarono a rendere celebre la coppia negli anni Settanta…
11 APRILE 2012
All’Hub Multiculturale Cecchi Point di Torino, la locale ANPI presenta il film di Frank Apprederis Le temps du silence (2011), frutto dell’ultima sceneggiatura di Jorge Semprún, e il numero 12 del «Nuovo Spettatore Cinematografico», edito da Kaplan e dedicato monograficamente alla guerra di Spagna.
12 APRILE 2012
L’assemblea dei soci del Festival del Film di Roma prende atto del debito di due milioni e trecentomila euro gravante sulla relativa Fondazione e decide di ripianarlo. Comune e Provincia di Roma, Regione Lazio e Camera di Commercio di Roma verseranno allo scopo cinquecentocinquanta milioni (e spingi…) di euro ciascuna. Il lunista, strofinandosi gli occhi, si chiede se nella notizia non sia scappato qualche zero in più.
Alla Fondazione Minici Zotti di Padova, fino al 23 giugno una mostra dedicata a Charles Dickens e la lanterna magica, nutrita come sempre da stupendi vetrini originali d’epoca conquistati e selezionati dalla grande Laura.
13 APRILE 2012
A Palermo viene occupato il teatro Garibaldi alla Kalsa. Il Valle continua a fare scuola sul territorio…
14 APRILE 2012
Muore a Rio de Janeiro a 78 anni Paulo Cesar Saraceni, nato a Gavéa (Ipanema) a il 5 novembre 1933. Il più importante esponente del Cinéma Nôvo brasiliano insieme a Glauber Rocha e Nelson Pereira dos Santos aveva iniziato come critico e assistente alla regìa teatrale nella prima metà degli anni Cinquanta. Esordisce nel cortometraggio, viene ammesso al nostro Centro Sperimentale (1961, con Gustavo Dahl), abbandonando una promettente doppia carriera sportiva (calcio: aveva giocato con Vavà, Pelé, Garrincha; e pallanuoto) e vi si diploma. Il suo cinema è conosciuto dagli italiani praticamente solo nei festival: Porto de Caixas (1963) e O desafio (1965), fino all’ultimo O gerente (2011). Per la RAI aveva realizzato reportage sul forum mondiale di Porto Alegre, il Movimento dei senza terra e appunto Garrincha. «Il neorealismo, Rossellini (“meu deus”), padre Arpa, Sandro Franchina, il CSC, Lea Massari (“quell’incredibile brasiliana nell’anima”), Gianni Amico, il festival di S. Margherita Ligure che aprì l’Italia al mondo normale , Guido Cosulich, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci… Non solo perchè era di antiche origini milanesi (nonno) e senesi (nonna), e forse ancor più antiche molisane, ma è molto intrecciata all’Italia e al cinema italiano, anche se da noi pochi lo ricordano, forse per aver scoperto su Fuoriorario il suo documentario su di uno spicchio aureo dell’Estate romana nicoliniana, Bahia do todos os sambas , la vita avventurosa e l’opera del filmmaker brasiliano, dandy, biondo e rivoluzionario, del marxista festivo come si definiva» (Silvestri). Autobiografia: Il mio viaggio nel cinema novo (1993).
14 APRILE 2012
Muore in ospedale a New York a 69 anni William Finley, natovi il 20 settembre 1942. Interprete privilegiato di Brian De Palma, del quale era stato compagno di università, in ben sette film, compresi i corti giovanili: tra cui, indimenticato protagonista, Il fantasma del palcoscenico
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(1974). Gli altri: Wotan’s Wake (1962), Oggi sposi (1966), Murder à la Mod (1968), Dionysus in 69 (1969), Le due sorelle (1973), Black Dahlia (2006). Ripetutamente anche con Tobe Hooper (Quel motel vici- no alla palude , 1976, Il tunnel dell’orrore , 1981 e Night Terrors , 1993), e ancora con Marshall Brickman (Simon , 1980) e Michael Miller (Terrore in città , 1982).
14 APRILE 2012
Alla Casa del Cinema di Roma,Valentina Carnelutti presenta il suo documentario Melkam Zena (Buone notizie), girato in Etiopia per Action Aids. Con lei Rolando Ravello.
direttrice artistica. Ormai anche le Lune si adeguano all’andazzo stampa: a far notizia, più che i festival in sé e i loro cataloghi, sono i sempre più animati cambi della guardia alla loro direzione…
18 APRILE 2012
Virginia Woolf non amava il cinema. Lo si deduce da due articoli inediti in Italia, che Sara Matetich pubblica nel volumetto Sul cinema edito da Mimesis.
15 APRILE 2012
Al cinema Massimo di Torino, l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa diretto da Sergio Toffetti presenta per la prima volta Icam 3000 , documentario realizzato tra il 1985 e il 1986 dai fratelli Taviani con Valentino Orsini, Tonino Guerra e Lucio Dalla. E al Cecchi Point della stessa città, su iniziativa dell’Associazione Museo del Cinema,“Variazioni”, un omaggio ad Armando Ceste, dal titolo di un suo film, nel terzo anniversario della scomparsa (v. «Cineforum» n. 484, lopedeluna del 16 aprile 2009), introdotto tra gli altri da Vittorio Sclaverani, curatore dell’Archivio Ceste e presidente dell’associazione organizzatrice.
15 APRILE 2012
Muore di cancro a Málaga a 57 anni Rosa Maria Almirali, in arte Lina Romay, nata a Barcellona il 25 giugno 1954. Scoperta diciottenne da Jess (Jesus) Franco, mentre recitava in una compagnia amatoriale, entra con lui in un legame insieme artistico e sentimentale durato fino a oggi (ma l’attività interpretativa si era conclusa nel 2005), partecipando a oltre un centinaio di film, quasi sempre firmati dallo stesso Franco, di genere erotico-carcerario-orrorifico-vampiresco, una decina dei quali circolarono anche in Italia negli anni Settanta.
16 APRILE 2012
Roger Corman in carne e ossa a Torino! L’ottantaseienne maestro, che nei due giorni successivi farà altrettanto alla Cineteca di Bologna e al Palazzo delle Esposizioni di Roma, chiude davvero in bellezza la straordinaria retrospettiva dedicatagli dal Museo del Cinema e dagli altri due enti, riscuotendo un enorme successo personale di stima e di simpatia nel presentare al pubblico La piccola bottega degli orrori (1960, introducing Jack Nicholson…): «È vero che l’ha girato in due giorni?» «Verissimo: ma vanno conteggiate anche le due notti corrispondenti!»…
16 APRILE 2012
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Dopo Sony, Warner e Universal, anche la Metro “cede” a Youtube (una parte della propria library : resiste fuori per ora soltanto la Fox…).
16 APRILE 2012
Tiziana Rocca e Mario Sesti nuovi responsabili del Festival di Taormina rispettivamente come producer e
Andiamo al cine? Ma al cine vacci tu! Pare che a Virginia Woolf non piacesse il cinema. Peccato… (nella foto, Nicole Kidman nei panni della scrittrice inglese in The Hours , 2002, di Stephen Daldry).
20 APRILE 2012
Esce a Parigi da Gallimard il tredicesimo romanzo di Anne Wiazemsky, Une année studieuse . “La più bella ragazza di Parigi”, nipote di François Mauriac e protagonista di sette film di Godard da La cinese (1967) a Crepa padrone, tutto va bene (1972), ma anche di Bresson (con cui debuttò minorenne nel 1966 come “modello” in Au hasard Balthazar ) , Pasolini, Ferreri, Bene, Amico e Tanner, aveva poi fatto la sceneggiatrice, produttrice e regista, prima di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura.
21 APRILE 2012
Restaurato e riaperto al pubblico, nella londinese chiesa di Notre Dame a Soho, il murale che Jean Cocteau vi dipinse nel 1959, affrescando la cappella del Santissimo con tre pannelli raffiguranti Annunciazione, Crocifissione e Assunzione. Un misterioso vandalo lo aveva danneggiato, cerchiando il sole oscurato che sovrasta la scena centrale, e apponendo la propria firma accanto a quella dell’autore.
24 APRILE 2012
Muore a New York a 91 anni appena compiuti Amos Vogelman, per gli americani Vogel, nato a Vienna il 18 aprile 1921. Esule negli Usa con la famiglia al momento dell’Anschluss e fondatore a New York del cineclub Cinema 16, attivo dall’immediato dopoguerra al 1963, fondatore nel 1973 dell’Annenberg Cinemateque presso l’università della Pennsylvania e autore nel 1974 di Film, arte sovversiva , è stato docente a Harvard e a New York. Tra i fondatori del New York Film Festival, ha rivestito a
lungo l’incarico di selezionatore dei film americani per Cannes, Berlino e Venezia. Efficace e onnicomprensivo il modo di ricordarlo di Martin Scorsese: «Se stai cercando le origini della cultura cinematografica in America, non cercare oltre Amos Vogel. Tra Cinema 16 (che teneva con la moglie Marcia e che ci ha aperto gli occhi su Maya Deren, Brakhage, Bruce Conner, Kenneth Anger, Cassavetes e centinaia di altri registi visionari), il New York Film Festival e il suo libro, Amos ha aperto le porte a ogni possibilità di visione». Nel 2003 aveva ancora preso parte al documentario di Martina Kudlácek In the Mirror of Maya Deren .
26 APRILE 2012
Esce, difficoltosamente, Interno giorno , opera prima di Tommaso Rossellini, secondogenito di Isotta, figlia di Ingrid e Roberto.
27 APRILE 2012
Parlando a Las Vegas agli esercenti americani riuniti nella loro annuale convenzione, ancora Scorsese annuncia che i suoi prossimi film saranno tutti realizzati in 3D, rammaricandosi che la nuova tecnologia non fosse ancora disponibile ai tempi di Taxi Driver o di Toro scatena- to : «Il 3D ti trasporta in un altro mondo, in cui è bello rimanere: dà qualcosa di diverso al film, è come guardare una scultura animata dagli attori, quasi una combinazione tra cinema e teatro che ti immerge ancora di più nella storia». Gli dànno man forte Ang Lee e Peter Jackson, che presenta nell’occasione i primi dieci minuti tridimensionali del prequel di The Hobbit , la cui uscita è prevista cadenzata in un biennio, alle scadenze natalizie del 14 dicembre di quest’anno (An Unexpected Journey ) e del prossimo (There and Back Again ).
27 APRILE 2012
Anouk Aimée (ovvero l’inarrivata Françoise Sorya Dreyfus, parigina) compie 80 anni, di cui sessantacinque di carriera. Aveva esordito quindicenne col suo nome vero in La maison sur la mer (1947, di Henri Calef: ma il per-
Bon anniversaire! La quindicenne Anouk Aimée ai tempi di La maison sur la mer (1947) di Henri Calef, suo film d’esordio.
sonaggio si chiamava Anouk, e la cosa le piacque…) ed è fresca reduce da tre interpretazioni dell’ultimo biennio, Ces amours-là di Claude Lelouch, Paris connections di Harley Cokeliss e Tous les soleils di Philippe Claudel.
28 APRILE 2012
Muore a Roma a 76 anni Rita Vicario. Regista televisiva, aveva messo in scena con Renzo Arbore Quelli della notte (1985) e Indietro tutta (1987), e l’aveva diretto nel 1990 nella miniserie Aspettando Sanremo .
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Federazione Italiana Cineforum La Federazione Italiana Cineforum (FIC) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La FIC organizza corsi, seminari e convegni, distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum» e di altri prodotti editoriali di cultura cinematografica. Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla FIC ci si può rivolgere alla Segreteria – Sede operativa di Bergamo, tel. 035 361361 (da lunedì a venerdì 9.30-13.00, mercoledì e giovedì 9.30-13.00,15.00-18.30) o via e-mail
[email protected]. I cineforum di nuova costituzione possono richiedere gratuitamente, nel primo anno di associazione, due film distribuiti dalla FIC e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT - 24121 Bergamo, tel. 035 342239, fax 035 341255,
[email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno la rivista «Cineforum». Tutti i cineforum affiliati ricevono la rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del listino della Lab80 Film, hanno la possibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema. Il comitato centrale della FIC, per il triennio 2011-2014, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Chiara Boffelli (Bergamo), Gianluigi Bozza (presidente,Trento), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna,VB), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago,VR), Adriano Piccardi (Bergamo),Walter Pigato (Nove,VI), Jurij Razza (Robbiate, LC), Roberto Santagostino (Tortona, AL), Angelo Signorelli (vicepresidente, Bergamo), Enrico Zaninetti (segretario, Novara). Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Dino Chiriatti (Roma), Roberto Figazzolo (Pavia), Pierpaolo Loffreda (Pesaro), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco,TV), Claudio Scarpelli (Reggio Calabria), Tonino Turchi (Pesaro), Daniela Vincenzi (Bergamo), Sergio Zampogna (Bergamo). I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.
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LIBRI
Ilaria Floreano
CONCERTO PER MACCHINA DA PRESA MUSICA E SUONO NEL CINEMA DI KRZYSZTOF KIESLOWSKI
Ed. Bietti, Milano 2011 - pp. 342 22,00.
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Un libro singolare, che si occupa solo sommariamente di “musica e suono” in Kieslowski, ed è in realtà occupato da un’analisi capillare, minuziosissima, della colonna sonora reputata la più importante in assoluto del cinema di quel regista: Film Blu . Il che può essere sostenuto con ragione, anche se i soun- dtrack del Decalogo e di La doppia vita di Veronica hanno particolarissima importanza nello svolgimento del racconto.
In effetti il libro – il primo, mi pare, che approfondisca tanto incisivamente l’argomento – è un po’ pletorico e corre il rischio della ripetitività – su trecentoquarantadue pagine duecentoventotto sono dedicate a Film Blu , il resto è preso da introduzioni, postfazioni, ampie notizie sul regista: biografia, il suo lavoro in generale – con continui riferimenti a incontri, luoghi, circostanze, metodi, nonché sulla Trilogia dei colori. Nonché sulla funzione della musica nella storia del cinema in generale. Il tasto più battuto è l’importanza della musica in Kieslowski e la stretta collaborazione col musicista, soprattutto con Preisner, che in dieci anni lavorò per diciassette film di Kieslowski e a Parigi, per i Tre colori, ne ha seguito passo per passo la genesi a stretto contatto col regista e con lo sceneggiatore Piesewicz. E poi ecco l’analisi in dettaglio della musica di Film Blu , sviscerato nel vero senso della parola, cioè steso sulla tavola anatomica e analizzato in tutti i suoi organi, dalle sequenze ai dialoghi ai suoni, naturalmente.
Laurent Juiller e Jean-Marc Leveratto
GLI UOMINI OGGETTO ERIC DUFOUR: I MOSTRI AL CINEMA
Ambedue Ed. Gremese, Roma 2011 pp. 128 - 18,50. Stessa collana, argomenti diversi. Il primo libro è dedicato a una tipolo-
gia d’attori, quelli qui denominati uomini-oggetto (esistono le donneoggetto, dunque…). Ma se in copertina troneggia il Marlon Brando di Un tram che si chiama desiderio , sia pure con canottiera strappata e sudata – figura considerata simbolica anche nell’introduzione –, allora sorge la perplessità. Oggetto per chi, per le sbavanti eroine del film o per lo spettatore (spettatrici)? Sfilano qui i Mr. Muscolo, gli Ercoli, i sexytoy, ma ci sono soprattutto attori, veri attori come Lancaster, Douglas, Holden, Dean, Depardieu, Mastroianni, che possono anche apparire qua e là con i pettorali e i bicipiti in mostra, ma chiamarli oggetti del desiderio è piuttosto discutibile. Nel novero ci sono anche i travestiti e gli “eteroflessibili”. Ampia galleria di immagini con didascalie motivate. Il libro sui mostri, anch’esso di origine francese, parte dalle creature dei
film di fantascienza anni Cinquanta di Arnold e di Corman – con qualche incursione nelle epoche precedenti – per sciorinare una serie numerosa di draghi, animali marini, ciclopi, extraterrestri, mutanti, morti viventi e simili, anche qui con vasto corredo di immagini. Serpeggia qua e là una vena di ironia per questi mostri «offerti al pubblico ludibrio»,e anche di una certa simpatia: ma talvolta l’autore fa la voce grossa, per cui queste creature esprimerebbero le nostre pulsioni sessuali, i nostri desideri di trasgressione, e ci interrogano «sulle nostre angoscie più profonde». Poiché quelli più pericolosi sono quelli nascosti nell’ombra e mascherati di perbenismo.
della riproduzione di fotogrammi, opportunamente richiamati nel testo.
Alberto Morsiani
A cura di Stefano Boni, Massimo Quaglia
pp. 195 - 14,90.
pp. 81 - 10,00.
Preceduta non dal solito montaggio di interviste ma da un incontro diretto, questa corposa trattazione sul regista australiano apre con dodici fitte pagine di presentazione a tutto giro in cui la personalità di Weir è indagata nel suo essere e nei suoi motivi in maniera scrupolosa ed esauriente (certo, poi ci sono le analisi dei singoli risultati, non se ne può fare a meno; comunque una premessa che può fungere benissimo anche da postmessa). C’entrano molto l’origine del regista nel nuovissimo continente – ampio poi l’excursus sul cinema australiano – e il successivo esodo, con i temi ricorrenti di ciò che divide l’umanità più di ciò che la unisce, della frammentarietà, della diaspora e dello straniero in terra straniera, dei conflitti tra i mondi reali e quelli straniati (diciamo pure Natura/Cultura: ma quale “cultura”?) Si parte dai primi film (quelli realizzati prima di Picnic a Hanging Rock , il risultato rivelatore) per illustrare tutti gli esiti con ampie trame – in cui ci sono già indicazioni su tecnica e stile del racconto – con il supporto, spesso,
Nicolò Barretta, Andrea Chimento, Paolo Parachini
PETER WEIR ALAN PARKER Ed. Il Castoro Cinema, Milano 2011 Ed. Cineforum, Bergamo 2011 ALLA RICERCA DELLA (IN)FELICITÀ
IL CINEMA DI TODD SOLONDZ Ed. Falsopiano, Alessandria 2011 pp. 197 - 19,00. Due registi che più diversi non si può. Uno popolarissimo, prolifico e vitalistico. L’altro poco frequentato, contenuto e pessimista. Alan Parker proprio alla sua popolarità (e al fatto di provenire dalla pubblicità) deve l’arcigno atteggiamento della critica. Eppure, ci dicono gli autori degli interventi raccolti nel libro, si tratta di un cineasta al quale, pur nella svariate forme di racconto e nei diversi generi trattati, si deve riconoscere lo statuto di autore. I giovani, i contrasti familiari, la ribellione, la musica, e – perché no? – l’impegno civile. Un inglese vulcanico – scrive anche romanzi, disegna vignette, ha nel cassetto una montagna di sceneggiature – dinamico e viscerale, non immune da
ridondanze. che nonostante la sua origine «attraversa il cuore del genere statunitense» e ne ricrea il passato rifacendosi al cinema “classico”. Riproponendosi al tempo stesso, per almeno uno dei generi, il musical, un anticipatore di nuovi sviluppi, anche se non è stato proprio lui a inventare il musical drammatico (Saranno famosi , Pink Floyd The Wall , The Commitments , Evita ). Todd Solondz, americano del New Jersey di famiglia ebrea, classe 1959, dagli anni Ottanta a oggi ha girato sette film, tutti di nicchia, pochissimo conosciuti dal grande pubblico, portati in palma di mano dalla critica (da certa critica: io, se mi è consentito un giudizio personale, me ne escludo). Gli autori del libro dedicato a Solondz ne fanno un Grande, anche e proprio per come tratta pervicacemente problemi, fallimenti, depressioni: un programma chiarito fin dal titolo del suo primo lungometraggio, Fear, Anxiety and Depression , ribaltato più tardi in un sarcastico Happiness . Dice il regista nell’intervista che non si può essere ottimisti nei tempi in cui viviamo: sveliamo pure gli inganni del “sogno americano”, ma illustrare solo gli stupri, le violenze, gli aborti e le cose malsane in generale non è un po’ masochistico?
Il libro comunque è esauriente e, prima di arrivare alla “macrosezione” dedicata ai film del Nostro, disserta ampiamente della cultura USA e del contesto storico-socio-politico.
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SOUNDTRACKS UN SECOLO DI CINEMA CON FRANZ LISZT Tutti i grandi musicisti del passato hanno avuto ampia ospitalità sullo schermo. Beethoven, Ciaikowskij, Verdi, Puccini, Wagner, in prima linea. E Liszt? È inimmaginabile la quantità delle occasioni in cui Franz Liszt ha bussato alla porta del cinema; o, per dir meglio, la quantità delle volte in cui Franz Liszt è stato tirato dentro a prepotenza nella porta magica delle immagini in movimento. Lo dimostra un eccezionale dvd approntato in occasione del duecentenario della nascita del grande musicista ungherese da un musicologo attivo nel campo dei video musicali, Francesco Leprino, e da un musicista insegnante al Conservatorio di Roma, Luigi Verdi; è quest’ultimo che ha compiuto sull’argomento – su idea dell’Istituto Liszt di Bologna – una ricerca filmica durata tre anni. Il risultato è un video di 123’ che assomma brani più o meno lunghi di qualcosa come trecento film.
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Ci sono titoli italiani, americani, francesi, inglesi abbastanza noti anche da noi, ma, sorprendentemente, anche diversi realizzati in tempi e luoghi a noi lontani, cose mai arrivate sui nostri schermi. Dico per esempio di astrusi film ungheresi, russi, messicani non solo del sonoro ma anche del periodo muto, sonorizzati. Qualche titolo: ci sono un giapponese, Kimi ona sakasu (Uno strano circo), un messicano, La huella mácabra (La danza macabra), un russo, Kosmichevskij reys: fantati- sheskaya novella , un francese, Par ordre du tzar . E sono incredibili, a volte con risultati surreali, i diversi modi con cui Liszt è stato utilizzato; naturalmente nei film a contenuti romantici, drammatici, storici (compresi quelli biografici concernenti non solo il nostro musicista, ma anche Wagner e Chopin, con cui lui ha avuto a che fare), ma anche ni western, nei film bellici, nell’horror, nella fantascienza. E poi lo sentiamo condito in tutte le salse, suonato, cantato, danzato, complici personaggi come Pa de re ws ki , J os é I tu rb i, D uk e Ellington, Fred Astaire, Harpo Marx. Senza dire dell’appendice
dedicata al Liszt dei cartoons. Ma guarda un po’ – talvolta siamo costretti a dire – la musica di questa sequenza è di Franz Liszt! Chi se lo ricordava più, o chi lo avrebbe detto, che questa canzonetta o questo brano jazzistico risalivano al Nostro!
Il risultato, meglio ancora per chi sa di cinema e sa riconoscere i volti degli attori, è di grande divertimento. È una cosa seria, che ha richiesto un lavoro faticoso, sia chiaro, ma per chi guarda lo spasso è assicurato, anche per quella certa dose di malizia che sovrintende al montaggio dei materiali. Tale montaggio accosta, alterna, paragona le situazioni più diverse, sia pur rette dallo stesso brano musicale, e senza bisogno di commenti parlati i risultati parlano da soli. Occorre dire che il criterio conduttore non è la tipologia dei film né la cronologia, bensì la successione dei brani lisztiani: si va da quello più gettonato, la Rapsodia Ungherese n. 2,al Sogno d’amore n.3,ai Préludes sinfonici e via via a quelli meno noti. Ed è comunque una maiuscola occasione audiovisiva in senso proprio. Ermanno Comuzio
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