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Cineforum
Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 51 - N. 3 Aprile 2011 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. 8,00
Speciali Habemus Papam / Sorelle Mai Chang-dong, Faenza/Macelloni, Romanek, Ciarrapico/Torre/Vendruscolo, Panahi, Carpenter
de l ciclone Focus Porco Rosso . L’occhio del La quarta dimensione
Il cinema e il suo doppio: Sokurov e la voce solitaria dell’uomo
31ª EDIZIONE
PREMIO
ADELIO AD FERRERO 2011 PER GIOV GIOVANI ANI SAGGISTI E CRITICI DI CINEMA
BANDO DI CONC CONCORSO ORSO La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino organizza per il 2011 la trentunesima edizione del Premio, a ricordo dell’opera critica, didattica didattica e politico-culturale che Adelio Ferrero (1935-1977) svolse ad Alessandria e a livello nazionale in qualità di critico cinematografico, docente docente di Storia del Cinema presso il DAMS dell’Università di Bologna, fondatore della rivista Cinema&Cinema, primo Presidente dell’Azienda Teatrale Alessandrina. Il Premio è riservato a giovani autori di saggi e di recensioni di argomento cinematografico. Gli argomenti dei saggi dovranno riguardare il cinema (autori, opere, tendenze, teoria, problematiche) problematiche) senza alcuna limitazione di tempo, luogo, aspetto aspetto e prospettiva. Le Le recensioni dovranno riferirsi a film apparsi nel circuito di prima visione italiano limitatamente al periodo 2010-2011. Saranno esclusi estratti da tesi di laurea.
IL PREMIO CONSISTE IN: Sezione saggi 1.000,00 al primo classificato - 500,00 per saggi ritenuti
meritevoli di segnalazione Sezione recensioni
400,00 al primo classificato - 250,00 per recensioni ritenute meritevoli di segnalazione
Premio Scuola Holden
Un corso on-line tra quelli indicati sul sito www.scuolaholden.it La Giuria si riserva il diritto di non assegnare o di attribuire diversamente le somme qui indicate. Il saggio e la recensione premiati verranno pubblicati sulla rivista Cineforum che potrà pubblicare altri elaborati ritenuti significativi. L’inosservanza o la non accettazione di quanto qui esposto precluderanno la partecipazione al concorso.
AL PREMIO POSSONO PARTECIPARE PARTECIPARE GIOVANI:
che alla data del 15 giugno 2011 abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e non abbiano compiuto il ventottesimo; che non abbiano collaborato a quotidiani, periodici e riviste specializzate con diffusione nazionale; che non abbiano conseguito il primo premio in precedenti edizioni del “Ferrero”.
MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE
I concorrenti dovranno far pervenire a Fondazione TRA - Teatro Comunale di Alessandria Segreteria del Premio Ferrero - Via Savona, 1 - 15121 Alessandria (Tel. 0131/52266) entro e non oltre il 15 giugno 2011: - un modulo di iscrizione scaricabile dal sito internet www.teatroregionalealessandrino.it in cui dovranno essere chiaramente indicati: generalità anagrafiche, residenza, numero telefonico , e-mail, curriculum studi, attività ed eventuali progetti; - la tassa di iscrizione di 25,00 il cui pagamento potrà avvenire tramite: assegno circolare o vaglia postale, intestati a Fondazione TRA (da allegarsi alla domanda).
I concorrenti dovranno inoltre allegare, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale (file di Word o Pdf), un solo saggio inedito e originale, di ampiezza compresa fra le 15.000 e le 30.000 battute (spazi compresi) e/o, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale (file di Word Word o Pdf), una sola recensione giornalistica inedita inedi ta e originale di ampiezza non superiore alle 4.000 battute (spazi compresi). I concorrenti possono partecipare, con la stessa domanda ad una o a entrambe le sezioni ma potranno essere premiati per una sola di esse, con precedenza accordata alla sezione saggistica.
DELLA GIURIA DEL PREMIO FARANNO PARTE: Lorenzo Pellizzari (Presidente), Nuccio Lodato (Coordinatore), Nino Battaglia (giornalista Rai), Pier Maria Bocchi (critico), Carlo Cerrato (capo redattore RAI TGR Piemonte), Giorgio Cremonini (storico e saggista), Bruno Fornara (critico) BarbaraGrespi (docente di sto-
ria e critica del cinema), RobertoLasagna (critico ed editore), Luca Malavasi (docente e critico), Roy Menarini (docente di storia del cinema e critico), Morando Morandini (critico), Emiliano Morreale (critico), Adriano Piccardi (direttore di Cineforum).
I testi delle recensioni saranno inoltre valutati per il particolare valore narrativo dalla Giuria della Scuola Holden.
FONDAZIONE TEATRO TEATRO REGIONALE ALESSANDRINO Uffici: Teatro Comunale di Alessandria Via Savona, 1 - 15121 Alessandria Tel. 0131/52266 - Fax 0131/325589 www.teatroregionalealess regionalealessandrino.it andrino.it
[email protected] www.teatro
in collaborazione con
FESTIVAL REALIZZATO CON IL SOSTEGNO DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI DIREZIONE GENERALE PER IL CINEMA
31ª EDIZIONE
PREMIO
ADELIO AD FERRERO 2011 PER GIOV GIOVANI ANI SAGGISTI E CRITICI DI CINEMA
BANDO DI CONC CONCORSO ORSO La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino organizza per il 2011 la trentunesima edizione del Premio, a ricordo dell’opera critica, didattica didattica e politico-culturale che Adelio Ferrero (1935-1977) svolse ad Alessandria e a livello nazionale in qualità di critico cinematografico, docente docente di Storia del Cinema presso il DAMS dell’Università di Bologna, fondatore della rivista Cinema&Cinema, primo Presidente dell’Azienda Teatrale Alessandrina. Il Premio è riservato a giovani autori di saggi e di recensioni di argomento cinematografico. Gli argomenti dei saggi dovranno riguardare il cinema (autori, opere, tendenze, teoria, problematiche) problematiche) senza alcuna limitazione di tempo, luogo, aspetto aspetto e prospettiva. Le Le recensioni dovranno riferirsi a film apparsi nel circuito di prima visione italiano limitatamente al periodo 2010-2011. Saranno esclusi estratti da tesi di laurea.
IL PREMIO CONSISTE IN: Sezione saggi 1.000,00 al primo classificato - 500,00 per saggi ritenuti
meritevoli di segnalazione Sezione recensioni
400,00 al primo classificato - 250,00 per recensioni ritenute meritevoli di segnalazione
Premio Scuola Holden
Un corso on-line tra quelli indicati sul sito www.scuolaholden.it La Giuria si riserva il diritto di non assegnare o di attribuire diversamente le somme qui indicate. Il saggio e la recensione premiati verranno pubblicati sulla rivista Cineforum che potrà pubblicare altri elaborati ritenuti significativi. L’inosservanza o la non accettazione di quanto qui esposto precluderanno la partecipazione al concorso.
AL PREMIO POSSONO PARTECIPARE PARTECIPARE GIOVANI:
che alla data del 15 giugno 2011 abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e non abbiano compiuto il ventottesimo; che non abbiano collaborato a quotidiani, periodici e riviste specializzate con diffusione nazionale; che non abbiano conseguito il primo premio in precedenti edizioni del “Ferrero”.
MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE
I concorrenti dovranno far pervenire a Fondazione TRA - Teatro Comunale di Alessandria Segreteria del Premio Ferrero - Via Savona, 1 - 15121 Alessandria (Tel. 0131/52266) entro e non oltre il 15 giugno 2011: - un modulo di iscrizione scaricabile dal sito internet www.teatroregionalealessandrino.it in cui dovranno essere chiaramente indicati: generalità anagrafiche, residenza, numero telefonico , e-mail, curriculum studi, attività ed eventuali progetti; - la tassa di iscrizione di 25,00 il cui pagamento potrà avvenire tramite: assegno circolare o vaglia postale, intestati a Fondazione TRA (da allegarsi alla domanda).
I concorrenti dovranno inoltre allegare, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale (file di Word o Pdf), un solo saggio inedito e originale, di ampiezza compresa fra le 15.000 e le 30.000 battute (spazi compresi) e/o, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale (file di Word Word o Pdf), una sola recensione giornalistica inedita inedi ta e originale di ampiezza non superiore alle 4.000 battute (spazi compresi). I concorrenti possono partecipare, con la stessa domanda ad una o a entrambe le sezioni ma potranno essere premiati per una sola di esse, con precedenza accordata alla sezione saggistica.
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ria e critica del cinema), RobertoLasagna (critico ed editore), Luca Malavasi (docente e critico), Roy Menarini (docente di storia del cinema e critico), Morando Morandini (critico), Emiliano Morreale (critico), Adriano Piccardi (direttore di Cineforum).
I testi delle recensioni saranno inoltre valutati per il particolare valore narrativo dalla Giuria della Scuola Holden.
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DOLCE CASA?
Adriano Piccardi Parecch arecchio io cinema cinema italiano su questo questo numero. numero. Due speciali, Moretti (in tempi di evaporazione del padre, va diretto al cuore del simbolico e fa conseguentemente evaporare il Santo Padre) e Bellocchio («Bellissimo film di frammenti [che tutto riporta] ancora una volta, al motore insieme visivo e tematico di tutto il cinema di Bellocchio, l’istituto della famiglia, famiglia, inteso come come schema ordinatore ordin atore dell’es dell’esistenz istenza, a, debito di di sangue pagano, pagano, strozzatura dell’evoluzione»); dell’evoluzione»); poi un ritorno impegnativo, magar magarii controverso controverso rispett rispetto o alla sua “util “utilità”, ità”, del documentario docume ntario-inchi -inchiesta esta firmato firmato da Faenza, Faenza, cinea cineasta sta non nuovo a queste esplorazio esplorazioni; ni; e il piccolo “caso “caso”” (“cult”, bizzarria…) di un film di generazione televisiva che, lungi dal fallire la prova, si rivela invece un’intelligente operazione di cinema Medio-Di-Nicchia-MaNon-Poi-Così-T Non-Poi-C osì-Tanto, anto, che lascia il suo graffio su questa seconda second a parte della stagione. stagione. Infine Infine:: dopo un saggio che riprende alcuni titoli italiani del 2010 (più uno uscito nel 2007, più un inedito inedito realizza realizzato to in Italia Italia da un inquieto quanto da tempo irresoluto regista tedesco) per lavorare sui concetti di spostamento e di territorializzazione lizza zione,, tra filoso filosofia fia e politic politica; a; tanto per non farci mancar niente, nella consueta rubrica dvd due film che hanno lasciato (per motivi molto diversi) un segno indelebile nella storia storia del cinema italiano, entrambi in edizione splendidamente restaurata: La presa del pote- re da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini e Novecento di Bernardo Bertolucci. In concorso concorso a Cannes Cannes,, ques quest’a t’anno nno,, il già nomina nominato to Moretti (a proposito, una incursione da manuale la sua a «Che tempo che fa», con Fabio Fabio Fazio Fazio pericolosamente in bilico fra il giornalista Rai che nel film conduce la cronaca del Conclave e la ormai leggendaria intervistatrice in Palombella rossa – mentre Moretti al termine della conversazione lo guardava con occhi non troppo
diversi da quelli dello psicanalista quando rifila la scopa ai cardinali avversari dopo averli distratti parlando dei suoi guai famili familiari…), ari…), insieme a Paolo Paolo Sorrentino, Sorrent ino, mentre nella nella Quinzaine Quinzaine si presenterà presenterà in esordio Rohrwacher (Alice). «Cineforum» vuole sottolineare un momento favorevole alla nostra cinematografia? Certo è meglio non lasciarsi andare all’entus all’entusiasmo iasmo,, ma non ci si può nemmeno nemmeno lamentare. lament are. Un paio di anni fa, dopo l’uscita l’uscita di Gomorra e Il Divo , giù tutti a sperticarsi sul nuovo Rinascimento, Rinascimento, disquisendo delle basi produttive, produttive, dell’autorialità maturata nell’esperienza pluriennale eccetera. Quando l’anno successivo le magnifiche sorti e progressive hanno partorito, rit o, in def defini initiv tiva, a, sol soltan tanto to Vincere (capolavoro) firmato da Marco Bellocchio (e ce lo teniamo stretto), chi in precedenza gridava al nuovo corso non sapeva più sostanzialmente che dire. Nel 2010 la situazione si è stabilizzata, nel senso che in assenza assenza di opere clamorose clamorose ci si è accorti di quanto possa essere importante saper guardare ai prodotti prodotti più defilati, defilati, non sostenuti sostenuti da grancasse grancasse extra-cinematografiche (sia detto senza nulla togliere al merito intrinseco dei fortunati) e – lo sappiamo – penalizzati da una circuitazione votata preferibilmente al botteghino.. Non contano, teghino contano, in questi casi, casi, le attenzioni attenzioni festivafestivaliere raccolte anche in sedi blasonate: ne sanno qualcosa il Frammartino di Le quattro volte e il Gaglianone di Pietro , tanto per dirne dirne due. Ne deriva deriva la la necessità necessità deldell’esercizio di una caccia al tesoro che i nostri lettori, lo sappiamo, sappiam o, pratic praticano ano con passione; ne conseguono anche, anche, come da copione, le parole del neoministro per i Beni e le Attività Attività Culturali, Culturali, che esorta Cinecittà Cinecittà a favorire favorire la distribuzione di opere prime e seconde… il fatto è che ne abbiamo già sentite a sfinirci di queste dichiarazioni d’intenti. d’inte nti. Fo Fosse sse la volta volta buona, buona, per qualità qualità e quantità, quantità, ne saremmo comunque felici.
CINEFORUM IN LIBRERIA LIBRERIE FELTRINELLI C.so Garibaldi, 35 ANCONA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA Via Melo, 119 BARI LIBRERIA FASSI L.go Rezzara, 4/6 BERGAMO LIBRERIA PALOMAR A. Maj 10/i BERGAMO FELTRINELLI INTERNATIONAL Via Zamboni, 7/B BOLOGNA LIBRERIA DI CINEMA, TEATRO E MUSICA Via Mentana, 1/c BOLOGNA LIBRERIE FELTRINELLI Via dei Mille, 12/a/b/c BOLOGNA LIBRERIE FELTRINELLI P.zza Ravegnana, 1 BOLOGNA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA C.so Zanardelli, 3 BRESCIA LIBRERIA UBIK Via Galliano, 4 COSENZA LIBRERIA MEL BOOKSTORE FERRARA P.zza Trento/Trieste FERRARA LIBRERIE FELTRINELLI Via Garibaldi, 30/a FERRARA LIBRERIE FELTRINELLI Via dei Cerretani, 30/32r FIRENZE LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA S.R.L. Via Ceccardi, 16/24 rossi GENOVA LIBRERIA LIBERRIMA (SOCRATE S.R.L) Corte dei Cicala, 1 LECCE LA FELTRINELLI LIBRI C.so della Repubblica, 4/6 MACERATA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA P.zza XXVII Ottobre, 1 MESTRE ANTEO SERVICE Via Milazzo, 9 MILANO FELTRINELLI INTERNATIONAL Piazza Cavour, 1 MILANO JOO DISTRIBUZIONE Via Argelati, 35 MILANO LA FELTRINELLI LIBRI & MUSICA C.so Buenos Aires, 33/35 MILANO LIBRERIA DELLO SPETTACOLO Via Terraggio, 11 MILANO LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO Via Tadino, 18 MILANO LIBRERIE FELTRINELLI Via Manzoni, 12 MILANO LIBRERIE FELTRINELLI Via Ugo Foscolo, 1/3 MILANO LIBRERIE FELTRINELLI Via Cesare Battisti, 17 MILANO LA FELTRINELLI EXPRESS VARCO Corso Arnaldo Lucci NAPOLI LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA Via Cappella Vecchia, 3 NAPOLI LIBRERIE FELTRINELLI Via T. D'Aquino, 70 NAPOLI LIBRERIE FELTRINELLI Via San Francesco, 7 PADOVA BROADWAY LIBRERIA DELLO SPETTACOLO Via Rosolino Pilo, 18 PALERMO LIBRERIE FELTRINELLI Via della Repubblica, 2 PARMA L'ALTRA LIBRERIA SAS Via U. Rocchi, 3 PERUGIA LIBRERIE FELTRINELLI C.so Umberto, 5/7 PESCARA LIBRERIE FELTRINELLI C.so Italia, 50 PISA LA FELTRINELLI LIBRI Via Garibaldi, 92/94 A PRATO LIBRERIE FELTRINELLI Via IV Novembre, 7 RAVENNA ASSOCIAZIONE MAG 6 Via Vincenzi, 13/a REGGIO EMILIA LIBRERIA LA COMPAGNIA DI L'AURA SCRL Via Panciroli, 1/A REGGIO EMILIA NOTORIUS CINELIBRERIA DI GIOVANARDI LUCA Vicolo Trivelli, 2/E REGGIO EMILIA BLOCK 60 LIBRERIA PULICI DI PULICI ILIO V.le Milano, 60 RICCIONE LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA Largo di Torre Argentina, 5/10 ROMA LIBRERIA DEL CINEMA via dei Fienaroli, 31 d ROMA LIBRERIA MEL BOOKSTORE ROMA Via Modena, 6 ROMA LIBRERIE FELTRINELLI Via V.E. Orlando, 78\81 ROMA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA C.so V. Emanuele, 230 SALERNO LIBRERIA INTERNAZIONALE KOINÈ Via Roma, 137 SASSARI LIBRERIE FELTRINELLI Via Banchi di Sopra, 64\66 SIENA LIBRERIA GABÒ SAS DI GAGLIANO LIVIA C.so Matteotti, 38 SIRACUSA LIBRERIA COMUNARDI DI BARSI PAOLO Via Bogino, 2 TORINO LIBRERIE FELTRINELLI P.zza Castello, 19 TORINO LA RIVISTERIA S.N.C. Via San Vigilio, 23 TRENTO IN DER TAT DI TERRA ROSSA SOC.COOP Via Diaz, 22 TRIESTE LIBRERIA EINAUDI DI PAOLO DEGANUTTI Via Coroneo, 1 TRIESTE LIBRERIA FRIULI S.A.S. DI GIANCARLO ROSSO Via dei Rizzanti, 1 UDINE LIBRERIE FELTRINELLI S.R.L. C.so Aldo Moro, 3 VARESE LIBRERIA RINASCITA Corso Porta Borsari, 32 VERONA GALLA LIBRARSI Contrà delle Morette, 4 VICENZA
cineforum rivista mensile di cultura cinematografica anno 51 - n. 3 - Aprile 2011
In copertina: Habemus Papam di Nanni Moretti
Edita dalla Federazione Italiana Cineforum Direttore responsabile: Adriano Piccardi
[email protected] •
Comitato di redazione: Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi Gruppo di lavoro: Francesco Cattaneo, Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore, Arturo Invernici Collaboratori: Sergio Arecco, Alberto Barbera, Alessandro Bertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti, Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, Massimo Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Ermanno Comuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini, Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, Simone Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi, Matteo Marino, Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca, Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, Alberto Pezzotta, Francesco Pitassio, Piergiorgio Rauzi, Giorgio Rinaldi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti. Progetto grafico e impaginazione: Paolo Formenti - PiEFFE Grafica* Amministrazione: Cristina Lilli, Sergio Zampogna Redazione e amministrazione: Via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo tel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55 e-mail:
[email protected] http://www.cineforum.it
SOMMARIO EDITORIALE Adriano Piccardi/ Dolce casa?
SPECIALE HABEMUS PAPAM Pier Maria Bocchi/ Le nostre prigioni Bruno Fornara/ ???????????? Emanuela Martini/ Cambia, todo cambia Giorgio Cremonini/ In lutto per la nostra vita Fabrizio Tassi/ Risucchiati nel vuoto (santo) Roberto Chiesi/ Libertà e depressione del flâneur Luca Malavasi/ Riconosci te stesso Paolo Vecchi/ «A Bobbio! A Bobbio! A Bobbio!». Bellocchio à rebours Alice Cati/ Seguire le tracce dei temi generatori Dario Tomasi/ Poetry di Lee Chang-dong Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli/ Silvio Forever di Roberto Faenza e Filippo Macelloni Pier Maria Bocchi/ Non lasciarmi di Mark Romanek Chiara Boffelli/ Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo Simone Emiliani/ Offside di Jafar Panahi Federico Gironi, Anton Giulio Mancino/ The Ward di John Carpenter
32 38 41 44 47
FOCUS PORCO ROSSO Fabrizio Liberti/ Il volo del maiale La strana coppia intervista a Marco Pagot
58 61
FOCUS L’OCCHIO DEL CICLONE
BERGAMO FILM MEETING
associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana
29
Lorenzo Leone, Giampiero Frasca, Emilio Cozzi, Simone Emiliani, Lorenzo Donghi, Roberto Manassero/ Ju tarramutu - Lo stravagante mondo di Greenberg Kick-Ass - Frozen - La fine è il mio inizio - The Next Three Days 52
spedizione in abbonamento postale DL 353 /2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB - Bergamo
Iscritto nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25-5-1961
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I FILM
Nicola Rossello/ Sangue sulla palude
Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - via F. Argelati 35 20143 Milano - tel. 028375671 - fax 0258112324 e-mail:
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4 8 11 13 15 17
SPECIALE SORELLE MAI
Abbonamento annuale (10 numeri): Italia: 60,00 Euro Estero: 80,00 Euro Extra Europa via aerea: 95,00 Euro Versamenti sul c.c.p. n. 11231248 intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo e-mail:
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stampato presso la S tamperia Stefanoni Bergamo - via dell’Agro, 10
1
63
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO Sergio Arecco/ Sokurov e la voce solitaria dell’uomo
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SAGGI “GEOGRAFIE” Alessandra Mallamo/ La quarta dimensione
72
Andrea Frambrosi/ Mostra Concorso Tullio Masoni/ Mondo ex Francesco Portesi/ Omaggio a Regina Pessoa Lorenzo Rossi/ Visti da vicino
80 81 83 84
DVD a cura di Adriano Piccardi, Martino Maccari, Arturo Invernici
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LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato
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LIBRI a cura di Ermanno Comuzio e Adriano Piccardi
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INFO dal lunedì al venerdì - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 -
[email protected]
3 0 5 m u r o f e n i c
3
SPECIALE
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti
LE NOSTRE PRIGIONI Pier Maria Bocchi
Questo film di Nanni Moretti parla delle prigioni delle parti in cui viviamo e che indossiamo.
PRIGIONE #1
3 0 5 m u r o f e n i c 4
È la prigione del ruolo sociale. Lontano da facili condanne o da prevedibili messe in burla, Habemus Papam guarda alla persona come a un’ immagine di cui farsi carico e responsabili. Spesso nostro malgrado. La persona qualunque, la persona di potere: entrambe sono simulacri di un vivere che ci hanno insegnato dover essere civile. E la civiltà impone di
aderire a dei vestiti fatti da altri su misura. Gli altri sono le tradizioni, le convenzioni, le aspettative. Ma la misura talvolta va stretta. I sarti non sbagliano, piuttosto seguono l’onda. Gli obblighi sono morali: l’abito fa il monaco. E in Habemus Papam di “monaci” ce ne sono molti: c’è il monaco psicanalista, ci sono i monaci cardinali, c’è il monaco guardia svizzera e c’è il monaco Papa. Tutti fanno quello che gli si chiede, ciò che i rispettivi ruoli impongono. Tutti, alla fine, si svestono, restando nudi: non solo il re, ma pure i fanti e le regine. È morale portare il capo d’abbigliamento al quale si è destinati, ma è altrettanto morale – più morale
– infine toglierselo. Questo ci dice Habemus Papam . Sfilarsi il vestito non è segno di rinuncia, è un primo passo verso il cambiamento. In questo modo, la società ricomincia da zero. Se perfino il Papa abbandona i propri abiti, vuol dire che si può. Yes, we can . Rinunciatario, Moretti? Non direi: Habemus Papam mi sembra un invito commovente a ripartire, a trovare nuove strade, a smettere i credo secolari e a smetterla con le attese più ovvie. Ecco il vero Papa di tutti! Quello che nessuno s’aspetta: un uomo che confessa di non farcela. Dio non c’entra, come non c’entrano le varie chiamate: è un Papa che lascia di fronte al mondo (il popolo, la piazza, gli sguardi dei fedeli), non ai cieli. Eresia? Solo per i poveri di spirito e per chi non è capace di uscire dalla porta e aprire le finestre. Questa terra (la terra , sì) è talmente abitudinaria da avere un armadio per ogni stagione. Com’è che si dice? Morto un Papa, se ne fa un altro. Ecco, appunto. Moretti però ci propone una responsabilità diversa: non quella di fare ciò che dobbiamo fare, ma la responsabilità di scegliere una via alternativa, la differenza, la disuguaglianza. La scelta della difformità. Il Papa di Habemus Papam osa cogliere l’opzione numero due, dire di no. Allo stesso modo gli altri, lo psicanalista, i cardinali, addirittura il portavoce del Vaticano: dicono di no agendo in maniera differente, abbandonandosi al momento, giocando, mentendo. Lo psicanalista lascia presto da parte ruolo e compito per giocare a carte e organizzare un torneo di pallavolo; i cardinali sfruttano l’impasse del conclave aderendo con entusiasmo ai giochi; il portavoce del Vaticano diventa un bugiardo cronico e un gran regista teatrale (con la messa in scena della guardia svizzera negli appartamenti del Papa). Tra le mura segrete della società vaticana, si indossano nuovi vestiti. Peccato sia un evento passeggero: poi torna la normalità, lo psicanalista resta deluso, i cardinali anche. E pensare che l’Oceania avrebbe potuto dire la sua al gioco, e piazzarsi una volta tanto tra i paesi più forti! Che è come dire che l’inusuale e l’inaspettato avrebbero avuto finalmente una possibilità, prima che tutto rientrasse nei ranghi. Per un po’, lo psicanalista si scrolla di dosso l’ombra della moglie, del deficit d’accudimento e del primato sul campo; per un po’, il tempo di qualche partita, i cardinali non lasciano l’abito talare ma lasciano quello più torvo dell’apprensione, dell’inquietudine religiosa, del rispetto delle regole; per poco, la durata della finzione , la guardia svizzera sveste i panni del proprio ruolo per fare l’attore al soldo del portavoce del Vaticano, mangiando il cibo del Papa e ascoltando la musica del Papa, con l’unico sforzo di smuovere regolarmente le tende alla finestra del Papa; per un po’, il
portavoce irrequieto del Vaticano è costretto dagli eventi a spogliarsi degli abiti di factotum indefesso e nascondersi dentro quelli di metteur en scène , per il bene del pubblico dei confratelli e del mondo (non esclusivamente cattolico). Le alternative durano quel tanto che basta a renderle ipotesi di vita. Il discorso finale del Papa, ben diversamente dal discorso di re Giorgio VI d’Inghilterra, è la preghiera semplice e diretta per un ripensamento: rinunciando, egli suggerisce un’altra via. Quella che probabilmente potrebbe spalancare le sbarre di questa prigione sociale.
PRIGIONE #2 È la prigione delle differenze. Quelle tra i ruoli ma anche tra le arti . È qui che Moretti è più sapido. Ed è qui che ha maggiormente infastidito certa critica, pronta a condannarlo di morettismo. La straordinaria sequenza a teatro non soltanto spiega la scena ufo dell’hotel che la precede, ma chiarisce le intenzioni di un film che credo voglia togliere di mezzo lo scarto tra realtà e sua rappresentazione. Per inseguire una nuova soluzione, una nuova risposta , Moretti insegue il suo Papa per le strade di Roma. La città e la vita fuori fanno morire e fanno rinascere (non risorgere) il Papa. Un sogno? Forse, come per il Moro nel finale di Buongiorno, notte . O forse no. In Habemus Papam non c’è più diversità tra immaginazione e realtà. Il Papa s’immagina di ritrovare se stesso, di ricordare, di decidere, e finisce da solo su due palchetti, prima a teatro, mentre si recita quel Cechov che nel corso degli anni lui ha mandato a memoria, poi su piazza San Pietro, davanti ai fedeli in attesa. A teatro avviene ciò che per tutto il film è stato rimandato e scansato, lo spettacolo delle parti. Con accumulo pittorico e con tensione crescente, Moretti riempie a poco a poco il luogo di suore e di cardinali in abito rosso sangue, che invadono la platea alla ricerca del loro Papa. Lo vedono, lo ritrovano, lo applaudono. Dove comincia la finzione? E dove finisce la realtà? Per ripartire, c’è bisogno di guardare alle cose in maniera diversa. Guardare all’arte come a uno strumento di vita (attraverso le parole di Cechov, il Papa ricorda l’infanzia e la sorella), guardare alla vita come a un ideale artistico, il meglio dell’arte, la perfezione. «Faccio l’attore»: è la risposta del pontefice in incognito quando la psicanalista gli chiede qual è il suo lavoro. C’è bisogno di annullare le divisioni. Dentro le mura del Vaticano, lo psicanalista arbitro e stratega organizza partite di pallavolo tra i cardinali. Moretti, nel frattempo, sorride di sé, del ruolo che riveste e dei vezzi morettiani ai quali non resiste. Così facendo, e in
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maniera decisiva, regista e personaggio servono a creare un mondo diverso dai soliti mondi e dai mondi noti. Non più una critica del mondo così come lo conosciamo e lo viviamo, non più la sua presa per i fondelli, bensì un vero e proprio new world dove realtà e illusione trovano sinergia coerente. Lo si diceva, no, che l’arte migliora la vita? La scena a teatro è insieme la sintesi e la celebrazione di un film in cui gli interventi dell’arte (anche la propria, nel caso del Moretti attore) sulla realtà operano a fin di bene. Altro che lezioni cristiane! Per creare, non è necessario distruggere, basta reinventare, smuovere le pedine, dar loro un tono e dei colori inconsueti e imprevisti. Un’opera d’arte! L’improvvisazione! D’altronde, sul tram il Papa parla da solo come un vecchio rimbambito, improvvisando un discorso, cercando le parole giuste, e nessuno lo biasima per questo. La recita infiltra dunque il reale, la rappresentazione si fa largo tra la folla. Tutta una finta, allora? Nient’affatto: Habemus Papam usa tra le altre cose il morettismo per ridefinire i contorni e, se possibile, per cancellarli. Però non è un ingenuo, Moretti: non crede e non vuol credere all’uguaglianza di tutti gli uomini e all’appianamento delle diversità, ma auspica un mondo in cui l’intraprendenza, il genio e il potere (nella sua forma più morale possibile) possano coesistere e aiutarsi. Attraverso l’arte, dentro di essa: perché se non vogliamo ritrovarci da soli e morire (lo psicanalista si ritrova di nuovo da solo e un po’ muore, quando il torneo di pallavolo viene interrotto),
dobbiamo assolutamente riscoprire l’importanza della partecipazione all’arte. Viverla, non vivere come dentro un film, c’è una bella differenza.
PRIGIONE #3 È la prigione dello sguardo della critica sul cinema di Nanni Moretti. Che equivale alla prigione del personaggio. Nel tempo, il destino degli autori forti è quello di formare un totem al quale i critici non resistono. Nel bene e nel male. Così viene preservato dall’imbarbarimento il culto autoriale dei fan integralisti e contemporaneamente – e spesso parallelamente – si delinea il rifiuto di chi comincia a nutrire qualche dubbio sulla necessità dello stesso. È successo con Woody Allen. Sta succedendo con Moretti. Del quale sempre più spesso gli appassionati gradiscono i continui birignao attoriali, da per- sonaggio , difendendoli a spada tratta e ridendone a comando, mentre i perplessi sottolineano l’apparente ripetizione di un copione ormai abusato. Da una parte e dall’altra, il rischio è di perdere di vista la ragione. Tanto che le battute e le gag diventano pesi e misure unici ed esclusivi per calcolare efficacia e fastidio. Fede ed eresia. Papaboy vs. satana. Con Habemus Papam , l’errore critico di prospettiva trova il suo apice. Il film è franto in due, di qui le vicende dello psicanalista in Vaticano, di lì la deriva
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti Regia: Nanni Moretti. Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Fotografia: Alessandro Pesci. Montaggio: Esmeralda Calabria. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Paola Bizzarri. Costumi: Lina Nerli Taviani. Interpreti:
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nista), Maurizio Mannoni (se stesso). Produzione: Nanni Moretti, Domenico Procacci, Jean Labadie per Sacher Film/Fandango/Le Pacte/France 3 Cinéma/ Rai Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 104’. Origine: Italia/Francia, 2011.
Michel Piccoli (il cardinale Melville), Nanni Moretti (il professor Brezzi), Jerzy Stuhr (il portavoce della Alla morte del Papa, viene indetto il Conclave. Dopo Santa Sede), Renato Scarpa (il cardinale Gregori), vare fumate nere, è eletto il cardinale Melville. Francesco Graziosi (il cardinale Bollati), Camillo Questi, però, cade subito preda di ansie e insicurez- Milli (il cardinale Pescardona), Roberto Nobile (il ze, al punto da indurre gli altri cardinali, dietro la cardinale Cevasco), Ulrich Von Dobschütz (il cardina- regia del portavoce della Santa Sede, a rimandare la le Brummer), Gianluca Gobbi (la guardia svizzera), proclamazione e a convocare il prefessor Brezzi, “il Margherita Bui (la ex moglie del professor Brezzi), migliore degli psicanalisti” di Roma. La situazione si Camilla Ridolfi, Leonardo Della Bianca (i bambini), mette subito in stallo, finché Melville riesce a eludere Dario Cantarelli (l’attore che recita «Il gabbiano» in la sorveglianza e prende a girovagare per la città hotel),Teco Celio (il direttore della compagnia teatra- come un qualsiasi turista. L’incontro con una com- le), Manuela Mandracchia, Rossana Mortara, pagnia di attori risveglia in lui l’antica passione per Roberto De Francesco, Chiara Causa (gli attori), il teatro. Intanto, mentre il portavoce tiene nascosta Mario Santarella (il cerimoniere), Tony Laudadio (il ai fedeli la situazione e manda avanti spasmodica- capo della Gendarmeria vaticana), Enrico Ianiello (il mente le ricerche del cardinale fuggiasco, il professor giornalista), Cecilia Dazzi (la mamma), Lucia Brezzi e gli altri porporati trovano la maniera di Mascino (la commessa), Massimo Verdastro (il vatica- impiegare il tempo…
del Papa. Diversi sono i toni, diverso è lo spessore. Eppure ho la sensazione che la “leggerezza”delle scenette tra Moretti personaggio e i cardinali faccia riflettere sulla prigionia dei ruoli quanto se non di più dell’ansia da prestazione del pontefice. Se lo psicanalista gradatamente si adegua al luogo, e con grande entusiasmo per giunta, abbandonando temporaneamente il proprio ruolo e vestendo quello di giullare di corte, significa che Moretti è ben consapevole del fascino del suo personaggio (un personaggio tipico ). Il doppio grado di sguardi (che chiamerei metacinematografico se non mi censurassi da solo) testimonia di un’autoanalisi: cardinali – primo pubblico – e spettatori del film – secondo pubblico – servono tutt’e due a Moretti per capire sia di non poter fare a meno dell’identità che s’è costruita, sia che essa è la sua prigione. È un’identità prigioniera della critica medesima, e che quest’ultima fa prigioniera. Se mai Nanni Moretti ha fatto un film autoanalitico e autocritico, questo è senz’altro Habemus Papam , e in forma definitiva. Dalle sbarre del personaggio è impossibile scappare; purtroppo, è molto difficile scappare anche dalle sbarre della critica. Che piutto-
sto dovrebbe chiedersi se a Moretti è stato utile, e a cosa è stato utile, fare il suo personaggio tra le mura del Vaticano. Cioè: è stato un fallimento? Visto come s’interrompe bruscamente il torneo di pallavolo, e vista la reazione dello psicanalista all’alzata di mano dei cardinali per andare tutti insieme a riprendersi il Papa, forse sì, è stato tutto un fallimento, le cose non sono cambiate, i ruoli non sono cambiati. Ma se in quei momenti di spensieratezza birbante, tra una scopa e una battuta, il Moretti personaggio è riuscito a immaginare un’alternativa (alla norma, alla noia, all’ansia), allora anche soltanto per una breve parentesi è avvenuta una rottura. Il lungo ralenti della partita a pallavolo sembra indicare uno stato di sogno, qualcosa che va a una velocità non comune, a una velocità che non appartiene alla realtà. Un sogno reale , un sogno lungo qualche giorno: quanto basta per immaginare altro e immaginarsi altri. In questo caso, dunque, per Moretti essere personaggio funziona come carcere ma soprattutto come valvola di sfogo. È una prigione, ma dalla quale si può discutere (senza urlare) di una trasformazione. Transitoria fin che si vuole, però è accaduta.
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L’immagine del balcone senza papa da dove il papa avrebbe dovuto affacciarsi su piazza San Pietro, con le ante del finestrone aperte sul corridoio interno vuoto e scuro – quell’immagine, Moretti la ripete, la sottolinea. Il finestrone si apre sul vuoto di un corridoio. Al cardinale che si rivolgeva al festante popolo di Dio con la formula «Nuntio vobis gaudium magnum. Habemus Papam» aveva fatto eco dal corridoio un urlo straziante, di impotenza e inadeguatezza, anche di istintiva ribellione, del papa neoeletto e scappato via: dietro la finestra restava, appunto, il vuoto. Habemus Papam? Non habemus Papam? Habemus et non habemus Papam. Ai lati del finestrone, ai lati del vuoto, ci sono delle tende. Il vento le gonfia. Che lo spirito stia sof-
fiando? Si sa che lo spirito soffia dove e quando vuole: ma com’è che lo spirito soffia proprio adesso che (finalmente?) un papa (finalmente!) se n’è scappato via? Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo tre, c’è un lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo, membro del sinedrio, un capo dei giudei, esperto di cose di fede. Nicodemo viene a trovare Gesù di nascosto, di notte, per non farsi vedere dai suoi. Crede che Gesù sia stato mandato da Dio come maestro, nessuno può fare i segni che fa Gesù se Dio non è con lui. Discutono di questioni teologiche. Gesù sostiene che bisogna nascere di nuovo e nascere «dall’alto». Il testo greco dice ànothen , dall’alto; il testo latino dice denuo , di nuovo, una seconda volta. Comunque sia, dall’alto o di nuovo, bisogna rinascere.
Nicodemo, sornione, ribatte che non si può mica rientrare nel ventre della madre. Gesù risponde che bisogna rinascere dall’acqua e dallo spirito, e poi: «Non meravigliarti che ti abbia detto: voi dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole, senti la sua voce, ma non sai da dove viene né dove va». La voce del vento, nel testo greco, è fonè (proprio come la fonè di Carmelo Bene…). Si muovono su in alto le tende del balcone, gonfie come vele, la barca di Pietro lascia gli ormeggi, il papa non vuole essere papa, lo spirito soffia allegro e gagliardo. Habemus Papam allunga la lista dei bei film che riflettono sulla storia e sul presente di noi italiani: e Vaticano e Chiesa sono ben dentro la nostra storia e il nostro presente. Bei film che ripensano le tre Italie degli ultimi centocinquant’anni della nostra ben più lunga storia: la prima Italia risorgimentale e liberale, la seconda mussoliniana, la terza repubblicana. Quando il nostro cinema parla di questo ultimo secolo e mezzo afferma nei titoli qualcosa che viene poi messo in discussione nei film. Il titolo dice, del nostro Risorgimento, Noi credevamo , e il film si pone la domanda: in cosa credevamo? di far nascere quale Italia? Il titolo Vincere diventa Vincere? cosa mai abbiamo vinto, oltre a due mondiali di calcio, lungo i due decenni abissali della dittatura fascista? Il titolo è Il Divo : quale divo? un mostro pietrificato, piuttosto. L’ultimo esemplare, per ora!, del bestiario partorito dalla nostra storia è Il Caimano : un caimano? sì, potente e grottesco. Non abbiamo una gran storia: l’inizio non si sa bene quando, come e se c’è stato, poi Mussolini per vent’anni, Andreotti per cinquanta, un intermezzo craxiano e questi vent’anni con l’accoppiata tuttora regnante Berlusconi-Bossi (veloci ed effimere le apparizioni di Prodi, fatto fuori dagli stessi che avrebbero dovuto sostenerlo…). Non si accettano scommesse su chi e come proseguirà la serie. Puntata troppo facile: molto probabile che si continuerà così. Anche Habemus Papam non ha, nel titolo, punti interrogativi, ma ne arrivano subito: perché il papa non fa il papa? perché scappa? Le risposte, per gran parte del film, sembrano essere fiduciose. Sembra che, seguendo alla lettera il consiglio di Cristo, il papa rinasca di nuovo e proprio dall’alto: dall’alto di quel balcone abbandonato. Soffia vivace lo spirito, spinge il papa a fare il papa in un’altra maniera, non vestito così, non affacciandosi al balcone, non con discorsi e benedizioni all’urbe e all’orbe. Lo faccia piuttosto, suggerisce lo spirito, vestito da persona qualunque, recitando Cechov in battute semplici e vere, andando dal fornaio la mattina presto a prendersi una brioche, parlando a un silenzioso giovanotto in autobus. Sorprendente questo papa, umile e inadeguato, libero e sconosciuto.
Il papa non ha neppure scelto il nome da papa. Di suo si chiama Melville: e fa esattamente quello che fa, o meglio non fa il Bartleby di Herman Melville. «Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street», 1853, racconta dello scrivano che, con modesta e incomprensibile ostinazione, si rifiuta di fare quello che dovrebbe fare. La sua risposta, ripetuta ripetuta ripetuta, è la stessa del Melville eletto papa: «I would prefer not to». Preferisce di no. E se gli chiedono perché, risponde ancora: «I would prefer not to». La storia di Bartleby si chiude con due sospiri e punti esclamativi: «Ah Bartleby! Ah humanity!». Ah, questo papa, umano, troppo umano! Papa Melville, come Bartleby, forse è un depresso. Tutti i cardinali sono depressi e prendono psicofarmaci, anche pesanti. In Vaticano pensano che uno psicanalista possa servire. E arriva l’invenzione che innerva il racconto. Prima che il film uscisse, si diceva fosse la storia di un papa in crisi, esistenziale e religiosa, e che uno psicanalista doveva tirarlo su di morale e di fede. Visto il film, le cose sono diverse. Non è lo psi a risollevare il pontefice. È lo spirito che soffia nelle tende sul versante affettuoso di Habemus Papam (perché ce n’è un altro di versan-
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te: oscuro oscuro…) …) a far risorgere risorgere dall’alt dall’altoo non solo il papa ma anche anche lo stesso psicanal psicanalista, ista, che rinasce rinasce meno dall’alto dall’alto del del papa ma pur sempre sempre un po’ in alto, sulla predella di arbitro arbitro di pallavolo. pallavolo. Il papa non fa il papa e lo psi fa solo per poco lo psi. Incon Incontra tra per brevi momenti momenti il suo eminentissimo paziente, sotto il controllo dei cardinali in circolo (che vogliano guarire guarire anche loro?), lo psi non può parlare parla re di sogni desideri desideri infanzia mamma mamma sesso: e l’analisi non è neppure cominciata che il papa Melville-Bartleby se ne va perché preferisce di no. Lo psi resta resta senza pazient pazientee e il paziente, paziente, appe appena na fuori per per le strade di Roma, Roma, se la cava cava bene con tutti, tutt i, anche con con l’ex-moglie l’ex-moglie dello dello psi, psi anche anche lei, fissata sul “deficit di accudimento”. La coppia psicanalista-pa nalist a-paziente ziente si scioglie scioglie subito, ognu ognuno no rinasce prendendo prend endo una una sua strada, strada, il papa a spasso spasso,, lo psi a giocare con i cardinali. Lo spirito sta soffiando allegramente e fortissimo.
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Questi punti esclamativi se li merita la novità assoluta che che c’è nel film. Che il papa se ne sia andaandato è già, già, per lui, per lo psicanalist psicanalistaa e per la Chiesa cattolica, cattolic a, apostol apostolica ica e romana, una vera vera benediziobenedizione. Ma succede qualcosa qualcosa di ancora più sorprendensorprendente, per noi che conosciamo conosciamo da tanti film film Nanni Nanni Moretti.. Succede addiritt Moretti addirittura, ura, roba da da non crederci, che Moretti Moretti in persona, persona, registaregista-attore, attore, non si indigna! Non Non si indignano, indignano, non battono battono ciglio sia lo psicanalista Moretti sia il Moretti regista di chapliniana nia na sobrie sobrietà. tà. Non lo lo fanno fanno,, i due More Moretti, tti, qua quanndo si ritrovano ritrovano senza senza paziente, paziente, non si indignano indignano quando li tengono sequestrati in una stanzettina spoglia, quando non possono possono parlare di sogninfansogninfanziasessomamma, ziasessoma mma, quando devono lasciar perdere quel bel confronto-scontr confronto-scontroo inconscio-anima, inconscio-anima, quando non possono litigare su darwinismo-creazione. Del tutto semplicemente, l’armamen l’armamentario tario psicanalitico e le questioni di fede vengono messi da parte. Moretti,, nelle parti sovrapposte Moretti sovrapposte di personaggio personaggio e di lui person persona, a, pref preferis erisce ce di no, no, pref preferis erisce ce non indiindignarsi, gna rsi, non accu accusa sa ness nessuno uno,, gioc giocaa e fa gioc giocare. are. Gioca a scopa con le eminenze, eminenze, organiz organizza za un mondiale di pallavolo pallavolo tra porporati, porporati, applaud applaudee i tre cardinali australiani quando segnano il loro unico punto. pun to. Nasc Nascee di nuovo nuovo.. Lo psi-no psi-non-p n-psi si e il papapapanon-papa non-pa pa rinascono, rinascono, si mettono a soffiare soffiare insieme allo spirito. spirito. Si accorgono accorgono del mondo, mondo, ci vivono vivono dentro. Niente macerazioni macerazioni.. Il campetto campetto della pallav pallavolo olo vaticana non è la piscina di Palombella rossa (1989),, film che aggiung (1989) aggiungeva eva un’infinit un’infinitàà di punti punti interrogativi e di dubbi al titolo. Palombella
rossa??? ,
chi ero? ero? chi sono? sono? dov dovee vado? vado? siamo siamo uguali? siamo diversi? siamo ugualidiversi? In una elegante disposizione disposizione a chiasmo, chiasmo, il papa rinchiuso rinchiuso si è liberato, liberato, lo psi è chiuso dentro dentro e gioca. gioca. Nessun buñueliano angelo sterminatore blocca le porte aperte dei dei palazzi apostolici. apostolici. A tenere lì lo psi psi e i cardinali cardina li è una guardia svizzera, svizzera, golosa e annoiata. annoiata. Tutti credono che il papa stia riflettendo, riflettendo, invece è un papa-ombra a muovere ogni tanto le tende della stanza. Una guardia guardia svizzera svizzera imita il soffio soffio dello spirito.. O anche spirito anche (perché (perché no?): lo spirito si diverte diverte a farsi passare per guardia svizzera...
??? Ma è proprio così? Troppo bello: un papa se ne va e nella Chiesa Chiesa prende a soffiare soffiare lo spirito spirito.. C’è un versante vers ante oscuro oscuro del film, dov dovee si incont incontrano rano punti punti interr int erroga ogativ tivii nasc nascost osti. i. Nel Nella la pri prima ma imm immagi agine, ne, si intravede un elicottero che volteggia sopra i palazzi vaticani vat icani:: come l’elicott l’elicottero ero che che apre La dolce vita (1960) e vola sui ruderi degli acquedotti romani, sulle terrazze con le ragazze in bikini, sui palazzoni della speculazione edilizia. Sotto l’elicottero felliniano era sospesa la statua di un Cristo benedicente. Sotto a quello di Habemus Papam non è sospeso nessun Cristo. Quando poi papa Melville gira tranquillo per Roma, Roma, vengono in mente altre immagini, immagini, molto simili, quelle di Aldo Moro che cammina libero per per Roma, Roma, in una una sequenz sequenzaa visiona visionaria ria di di (200 003) 3),, se sequ quen enza za in cu cuii Buongiorno, notte (2 Bellocchio mostra «il desiderio allucinatorio di una liberazione dello statista (“senza condizioni”, condizioni”, come avevaa chiesto, lo si ricorderà, il pontefice Paolo avev Paolo VI in un drammatico appello agli “uomini delle Brigate Rosse”)» (P. (P. Montani, «L «L’immaginazione ’immaginazione intermediale», le », La Late terz rza, a, 20 2010 10,, p. 28 28). ). Un’alluci Un’al lucinazi nazione one libe liberato ratoria. ria. E se Habemus Papam , Non habemus Papam, Habemus Papam? fosse proprio un’allucinazione liberatoria? Lo suggeriscee quel finale secco gerisc secco e duro. duro. Il papa torna nel palazz pal azzo, o, tie tiene ne un breve breve disc discorso orso al balco balcone: ne: «La Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti… Chiedo perdono per quello che sto per fare… La guida non sono sono io…». Si volta e si ritira ritira nel buio, buio, stavolta per davvero. davvero. E cala il nero come una mannaia, si affonda nello nello schermo schermo scuro, scuro, senza più sofsoffio,, sen fio senza za nessun nessun vento vento,, la foné tace tace.. Qui comincia comincia il film che che Moretti Moretti non ci mostra. mostra. La domanda è nascost nasc ostaa nelle tenebr tenebre: e: cos cosaa succede succede a questa Chiesa che non sa cambiare? Prologo del Vangelo di Giovanni: Giovanni: «In lui era la vita e la vita era la luce luce degli uomini; uomini; e la luce nelle tenebre tenebre brilla e le tenebre non la compresero».
CAMBIA, TODO CAMBIA Emanuela Martini
Una pesantezza pesantezza continua, continua, la testa troppo troppo piena. «È come se avessi una una specie di sinusite psichica». A chi non è capitato, capitato, e continua a capitare capitare ciclicamente? Al di là dei dei sintomi sintomi più più vistosi, vistosi, e gravi, gravi, della malattia chiamata depressione, questo senso di stordita inquietud inquietudine, ine, di passiva passiva insofferenza insofferenza,, di eccitata impotenz impotenza, a, è, credo credo,, uno degli degli stati stati più diffusi diffusi del del nostroo vivere nostr vivere quotidiano quotidiano.. Non sappiamo sappiamo che fare, fare, e dovee andare, dov andare, non vediam vediamoo sponde sponde e apertu aperture, re, non abbiamo fatto quello quello che avremmo voluto, voluto, abbiamo dimenticato troppe troppe cose della della nostra vita, abbiamo bisognoo di tempo per ricordare. bisogn ricordare. Non siamo pronti pronti per quello quello che gli altri si aspetta aspettano no da noi; ma, forse, nemmeno gli altri sono pronti. E tutto si ferma. Un Papa Papa che non non vorrebbe vorrebbe essere Papa, Papa, e che all’improvviso ricorda che avrebbe voluto fare l’attore teatrale. Uno psicoanalista che è il più più bravo di
tutti, ma che tutti, che ha ha una una famigli famigliaa sfascia sfasciata. ta. Cardi Cardinali nali che di notte hanno gli incubi e chiamano la mamma,, cardin mamma cardinali ali che che usano usano ansioliti ansiolitici, ci, stabi stabilizzalizzatori del tono dell’u dell’umore, more, tran tranquilla quillanti nti maggiori, maggiori, cardinalii che, chiusi nel conclav dinal conclave, e, implor implorano ano in silenzio silenzio «Non «N on io. io. No Nonn io, io, Si Sign gnor ore! e!», », un att attor oree che, che, in insi siem eme e alle battute del «Gabbiano» di Cechov Cechov,, recita senza soluzione di continuità le indicazioni di regia e che, senza soluzione soluzione di continuità continuità,, passa dalla dalla clinica clinica psichiatric psichi atricaa al palcoscen palcoscenico. ico. E fuori, fuori, sul sagrato sagrato di di piazza San Pietro Pietro,, o dentro, dentro, nella platea platea di un un teatro,, il pubblico tro pubblico aspetta aspetta la rappresen rappresentazio tazione, ne, “l’impersonazion person azione” e” giust giusta, a, aspet aspetta ta qualcun qualcunoo che gli gli dia una mano a vivere, a superare «la terribile bellezza del darwinism darwinismo», o», la certezza, certezza, cioè, che la vita vita non non ha alcun senso. senso. Sopra Soprattut ttutto to qui e ora, si sarebbe sarebbe tentati di aggiung aggiungere. ere. Non io, io, non io, io, che non ce la faccio faccio
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nemmeno a superare il mio personale “deficit di accudiment accud imento”; o”; e che perciò mi abbandono abbandono ai bombomboloni alla crema appena sfornati, come il Papa Papa in giro in incog incognito nito per per Roma, Roma, o alle marmella marmellate, te, alle torte alla panna e alle sacher, sacher, come la giovane guarguardia svizzera che sta rinchiusa negli appartamenti vaticani a fare la “controfigura” “controfigura”del del Papa, con l’incarico di passeggiare davanti alle finestre chiuse e di muovere ogni tanto le tende. Habemus Papam non è un film sul Papa e sul Vaticano, anche se si apre con le riprese di repertorio dei funerali di Papa Wojtyla e se racconta le umane debolezze e lo spirito competitivo dei prelati attraverso la descrizione della tormentata notte in Vaticano e della loro voglia di di vincere, nelle scommesse dei bookmaker inglesi, a scopone o a pallavolo. Habemus Papam è un film su tutti tutti noi, o almeno su chi arriva a un punto della vita in cui l’anagrafe o qualche avvenimento esterno lo costringono a fare i conti con se stesso, stesso, a guardare guardare indietro indietro,, a chiederchiedersi cos’è diventato diventato,, cosa avrebbe avrebbe voluto voluto,, cosa ancora ancora può fare fare o non fare e, e, sopra soprattut ttutto, to, se se la sente. Gli ottantacinque anni di Papa Melville (come JeanPierree e perciò come Herman, Pierr Herman, dal quale quale il regista
francese prese lo pseudonimo) o i quasi sessanta di Nanni Moretti fanno fanno poca differenza: sono “snodi”, momentii chiave, moment chiave, attim attimii di rendi rendiconto conto.. La maturità maturità a qualcosa serve, serve, anche ad ammettere con noi stessi che no, no, non diventer diventereno eno mai attori attori teatrali, teatrali, o ballerini, o campioni di pallavolo pallavolo,, che a sessantadue sessantadue anni abbiamo abbia mo sbagliato sbagliato vita, come in una commedia commedia di Cechov,, che avremmo voluto vivere in città e invece Cechov invece stiamoo in campagna stiam campagna e portiamo portiamo addosso addosso,, vest vestiti iti sempre di nero, nero, il lutto per per la nostra vita. vita. In pratica pratica ci sentiamo, sentiamo, come dice lo psicoanalist psicoanalistaa del Papa, Papa, vulnerabil vulne rabilii ma anche (almeno (almeno un po’, po’, ognu ognuno no di noi) narcisisticamente eccezionali. Ammettere di non farcela non significa necessariamente (come è stato rimproverato a Moretti anche da alcuni estimatori del suo film) essere rinunciatari, abbandonare una vita maldestra e illusioni mal mal riposte. riposte. Signi Significa, fica, anche narci narcisistica sisticamenmente, acc accett ettare are la prop propria ria ina inadeg deguat uatezz ezza. a. Chi Chiede edere re aiuto.. E magari aiuto magari non trovar trovarlo, lo, come accade accade a Papa Papa Melville, costretto alla solitudine di un ruolo (unico, (unico, monolitico, che non concede la possibilità di recitarecitare anche anche le indicazio indicazioni ni di regia) regia) che, che, da solo, solo, sa di non potere assolvere. E significa chiedere di potersi potersi specchiare specch iare in altri, in una moralità moralità collettiva, collettiva, in idee condiv con divise ise,, in dubbi dubbi ugual ugualii ai nostri nostri.. Non ci ci sono risposte rispos te per Papa Papa Melville Melville che, coeren coerentemen temente, te, se ne va; lascia vuoto vuoto quel quel balcone, balcone, mentre la musica musica crecresce e, per la prima prima volta, volta, assume accent accentii drammatidrammatici che rimandano a quelli della sequenza conclusiva di Il Caimano (20 (2006) 06).. La gent gente, e, il pubb pubblic lico, o, que questa sta volta non mette a ferro e fuoco il Palazzo di giustizia, ma resta muta muta e disorientat disorientata, a, mentre i cardinacardinali si abbandonano abbandonano a una palese palese disperazione. disperazione. Ma, forse,, la gente, forse gente, il pubblico pubblico,, quest questaa repentina repentina abdica abdica-zione se l’è meritata, non nella gentilezza gentilezza dei singoli individui, individui, ma nell’acquies nell’acquiescenza cenza indistint indistintaa della massa. E questo ci riguarda tutti. Resta una voce, voce, una voce femmin femminile ile calda calda e appassionata che ci assicura che «tutto cambia»: «Cambia lo superficial / Cambia también lo profundo / Cambia el modo de pensar / Cambia todo en este mundo». mundo». Merce Mercedes des Sosa, Sosa, “La Negra”, Negra”, la grande grande cantante argentina argentina scomparsa nel 2009, che ha raccontato conta to al mondo “el Sur” e i suoi drammi, drammi, che ha parlato parla to di di libertà, libertà, d’amo d’amore re e di lotta: lotta: ancor ancoraa una una volta, quando la sua voce si alza dalle stanze stanze vaticane, è come se una ventata ventata d’aria libera si diffondesse sopra sopra Roma, Roma, tra i person personag aggi gi “pr “prigi igioni onieri eri”” in Vaticano e tra i passanti per strada in mezzo ai qualii cammina qual cammina in in incogni incognito to Melvill Melville, e, per un un momento non più Papa, Papa, ma un turista turista qualunque, sollevato da una canzone canzone dal suo buco nero. È come se un “pensiero collettivo”attraversasse collettivo” attraversasse il film, a trasmettere un’ipotesi di speranza. Chissà.
IN LUTTO PER LA NOSTRA VITA Giorgio Cremonini Se si dovesse sintetizzare in uno slogan l’ultimo film di Nanni Moretti, Habemus Papam , mi verrebbe da dire: la leggerezza della commedia e la profondità del pensiero. Il che mi riporta alla memoria un saggio che anni fa scrissi sul suo cinema, intitolandolo «La forma comica del pensiero», ma allo stesso tempo mi suggerisce una sorta di connubio tra Billy Wilder, Stanley Kubrick e Luis Buñuel. Ma se la leggerezza è un dono e uno stile e come tali caratterizzano il film e la sua forma, la profondità e il pensiero si collocano, come negli esempi citati, o come nel Keaton caro a Moretti, in un sottotesto a più linee, che si sfiorano, s’intrecciano, si abbandonano, vengono riprese in un affastellarsi di motivi tematici di cui colpiscono innanzitutto l’incongruità e le divagazioni calcolate. Nessuna sequenza è sepa-
rata dal resto, a partire dalla funzione cardinale su cui si costruisce il film, la consapevole ritrosia dell’eletto ad agire da Papa, a essere Papa. Questa inadeguatezza tutta umana viene rivelata in una doppia gag: gli elettori che sussurrano in coro «Non io, non io», anche se non è chiaro fino a che punto siano sinceri (dopo tutto potrebbe essere solo una forma di civetteria, non necessariamente di malafede); le urla di terrore che per un attimo sovrastano l’annuncio «Habemus Papam» davanti a una folla che da festante si fa allibita. Il resto è un percorso, più zigzagante che rettilineo, presente più nel pensiero che nella trama, verso la rinuncia in una chiusura malinconicamente a spegnere ben lontana da quella minacciosa e crudele di Il Caimano (2006). Il senso si costruisce in progress, per allu-
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sioni e implicazioni apparentemente disperse, eppure conseguenti e logiche, necessarie. La rinuncia finale è il corollario lucido di un ambiente, come quello pontificio, in cui l’assunzione al trono di Pietro avviene in un microcosmo in cui il Potere è al livello massimo o non è. Lo confermano il dogma dell’infallibilità del Papa e il rigore rituale e piramidale della gerarchia che vi domina (e che viene messo in ridicolo dalla sostituzione della vorace guardia svizzera a un Papa che è solo una figura lontana, come una tenda che si muove: il simulacro bassomimetico basta per qualche giorno a surrogare un’assenza travestita da presenza, ma soprattutto a rivelarcene la fatuità e il vuoto). Il fulcro del film è l’impraticabilità di un potere divenuto troppo ingombrante, troppo vischioso: il potere della chiesa, sì, ma soprattutto il potere in sé. Che il rituale – maschera per eccellenza del potere – sia l’espressione più evidente della chiesa-potere trova per altro riscontro nell’analogia che con esso disvela il papa/non papa, quando dichiara di essere un attore, cioè il comprimario di una finzione: solo che la finzione di «Il gabbiano» di Cechov è
sincera (fino alla follia, come mostra l’attore che non si frena più e viene portato via in ambulanza), comporta l’assimilazione completa del ruolo, mentre la finzione rituale è solo portatrice di falsità, di allontanamento dalla vita. L’attrice apre la pièce dicendo: «Vesto di nero perché sono in lutto per la mia vita». Come qualche volta succede, le citazioni sono una parte rivelatrice del discorso: il teatro si mescola alla vita, la illumina – il rito la uccide. La fuga, la paura e la rinuncia non sono dettate da specifiche condizioni di sopravvivenza, ma da una vita collettiva trasformata alle radici: lo svelamento di un’ontologia del potere, di fronte al quale il neo non-papa Melville tocca con mano – dentro di sé – tutta la propria inadeguatezza prima ancora di sperimentarla. La logica che muove lo smarrimento del Papa è molto di più di un «Domine, non sum dignus»: non si rivolge tanto al Dominus, quanto a se stesso e agli uomini. Non è in gioco una inadeguatezza personale, invano perlustrata dagli psicanalisti di turno con formule che non possono schiudere il mondo, ma la discrasia che separa l’uomo e il potere dal mondo: l’impraticabilità etica del sistema. Bastano tre giorni (numero non casuale) a fargli capire che il mondo e la gente vivono, ancorché lontani, e che basta poco per sperimentare il contatto: il Papa che si aggira in borghese fra bimbi che bisticciano, in un albergo, su un bus, che usa il suo cellulare, è uno di noi, toccato non da grazie o eventi straordinari, ma da una normale quotidianità. Quanto Il Caimano era una distopia, puntualmente verificabile nella recente attualità, Habemus Papam è un’utopia: il primo apparteneva al politico, l’ultimo appartiene all’etica e alla coscienza. Qui l’approssimativo confronto con Kubrick, Wilder e Buñuel scivola via: nel film di Moretti non c’è irrisione, l’ironia non è caustica e condannatrice, nemmeno nella scoperta del gioco da parte dei prelati; lo svelamento di una imprescindibile natura ludica dell’umano (anche fare un solo punto in una partita a pallavolo in condizioni disperate, tre contro sei, diventa occasione di festa e di gioia; anche una canzone può essere gioia) non prepara una conclusione minacciosa, ma una liberazione. L’invocata lacerazione di una socialità tutta risolta nell’ottundimento del confronto troppo alto/troppo basso (o troppo autoreferenziale/troppo estraneo) sta nella rinuncia più personale e al tempo stesso pubblica, appartiene a tutti, anche ai prelati che si riversano nel teatro, e più ancora a coloro che in piazza fanno seguire un silenzio attonito al fragore rituale degli applausi. La scena può cambiare. Deve cambiare. Perché todo cambia – la chiesa e questo mondo. La coscienza ci rende vili, sì, ma è verità e libertà.
RISUCCHIATI NEL VUOTO (SANTO) Fabrizio Tassi Camminano mesti, ordinati, verso il luogo del conclave, ed è come se venissero risucchiati nel nulla.Ti immagini un burrone, un varco spazio-temporale, un gigantesco imbuto che digerisce i cardinali e li risputa su un nastro trasportatore, pronti a diventare “carne da santo” (magari...!). Le guardie svizzere sono schierate in fila, a protezione del fuoricampo. I cardinali attraversano l’inquadratura e poi spariscono oltre quella soglia, alla sinistra dello schermo. Uno stacco in campo medio (che è quasi un totale) sottolinea il passaggio traumatico. Dove se ne vanno i porporati? Fisicamente, lo sappiamo: nella Cappella Sistina. Ma psicologicamente? Spiritualmente? Moralmente parlando? Se ne vanno letteralmente fuori dal mondo, per (provare a)
comunicare con Dio. Se ne stanno lontani dalle strade, i ristoranti, i teatri, gli studi degli psicanalisti, perché potrebbero “inquinare” la loro scelta con qualcosa di troppo umano: dubbi, desideri, paure, chiacchiere da bar e dialoghi di Cechov, sane malinconie e insani entusiasmi. Tutta quella roba, insomma, che il Dio-Uomo cristiano (in teoria) è venuto a nobilitare, fin nei suoi più infimi recessi, ma che l’uomo-dio cattolico (in pratica) ha bisogno di mettere tra parentesi, per dare un che di eterno e assoluto e buono e giusto nei secoli dei secoli a tutta quella recita (Melville lo sa di essere un attore…). E sia chiaro che Moretti queste cose non le dice (clericali e anticlericali ne usciranno scornati, vagamente insoddisfatti, o peggio, genericamente solle-
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vati). Lui si limita a far sfilare i cardinali in un’altra dimensione, un mondo con regole tutte sue (anche se poi scopriamo che è la parodia di quello terreno, un po’ elezione scolastica coi bigliettini, un po’ tombolata), in una delle immagini più abili ed eloquenti di questo film, in cui la messinscena ha un’importanza (letterale e metaforica) che non ricordiamo di aver visto in altre pellicole di Nanni Moretti. Fino a questo punto, ogni cosa sembra molto formale e solenne, se non fosse per quei giornalisti lasciati lì a sbavare e blaterare mentre i vescovi passano sul tappeto rosso, manco fosse la notte degli Oscar, nomination comprese. Poi si arriva alla porta magica – abracadabra, bididibodidibù – attraversata solo dagli uomini che Dio ha scelto attraverso il suo uomo più fidato. Poco importa che sia l’ultimo erede di una santa investitura evangelica, o di un formidabile equivoco storico e teologico. Importa che là fuori, là dentro, venga investito il Papa, da cui “dipendono” un miliardo di fedeli, svariate migliaia di attività (sociali, educative, finanziarie), un buon numero di uomini politici influenti e un patrimonio di idee e principi potenzialmente destabilizzante, ma tradizionalmente passatista. Quanto “bene” potrebbe fare un Papa deciso a «portare grandi cambiamenti», a «capire le cose del mondo», ad «ammettere le colpe della Chiesa?». Melville lo sa, e non regge il peso di quella responsabilità. Melville appare schiacciato da quelle pareti ciclopiche e
affreschi preziosi. Il suo corpaccione da vescovo attempato occupa un terzo o poco più dell’altezza dell’inquadratura, quando non è ridotto al primo e primissimo piano della propria gentile, disperata incredulità. Il Papa non ha sesso e non ha madre, non ha più un’infanzia, figuriamoci se ha dei sogni. Il Papa perde perfino il proprio nome.Visto nel caos del traffico, invece, nelle forme disordinate della vita extra-vaticana, Melville sembra solo un vecchio. Ed è qui, spogliato dai paramenti, che può ritrovare il passato e immaginare un futuro, può riscoprire ricordi, desideri, rimorsi, fragilità, turbamenti, imbarazzi. La cacofonia dell’umano (le voci al ristorante). Altra che «ora pro nobis», tutti in coro, tutti in fila, tutti a onorare le vite perfette dei santi, e a sperare nel Papa che ci guida e ci insegna. Lo Spirito soffia là fuori, come sempre, dove vuole. Dentro ci sono rimaste le tende mosse da una controfigura che si strafoga di torte e cioccolato, il cui compito è mettere in scena il Papa orante (come potrebbe inscenare facilmente quello che benedice la piazza, che scomunica il teologo libertario, che difende “la vita” imponendola a chi è ridotto a un vegetale). Mentre i vescovi, spogliati dei riti e miti dell’elezione di Pietro, tornano a essere fragili, buffi, infantili esseri umani. Lo psicanalista ateo impone altre regole, non meno ordinate e non più assurde di quelle di un conclave, e si gioca tutti insieme a pallavolo. Ma a questo punto i cardinali non sono più anonime comparse di una scenografia troppo grande per la loro effimera umanità. Ricevono perfino la grazia di un rallenti. Non sono ancora pronti, però, a capire quel balcone vuoto, quello spazio nero in cui si rivela l’assenza del Papa. Ha una potenza mitografica che apprezzeremo solo con gli anni, quella scena in cui il vescovo, dopo aver capito che “non habemus Papam”, si ritira nel buio delle stanze vaticane, camminando all’indietro, in una sorta di tragicomico “rewind” che sconquassa il nostro immaginario, più o meno cattolico (rivista alla tv, fa anche più effetto). È il segno di qualcosa che non riesce più ad accadere (come una messinscena che ha vissuto troppe repliche, e ormai è troppo uguale a se stessa) e che Melville trasformerà in scelta consapevole. Consapevole che ciò che si aspettano da lui (lo stemma!) non è ciò che potrebbe dare: dubbiosa, tenera, contraddittoria umanità. E sia chiaro che la Chiesa è un pre-testo. Nel vuoto di quel balcone, che è angoscia (abbiamo bisogno di af-fidarci a qualcuno) ma anche speranza (e se ci andassimo noi sul balcone? e se il balcone lo tirassimo giù?), che è solitudine (chi ci guiderà?) ma anche comunità (siamo soli, diamoci una mano), che è umano ed è certamente sacro, ci potete mettere ciò che più vi ispira o vi spaventa.
LIBERTÀ E DEPRESSIONE DEL FLÂNEUR Roberto Chiesi Nelle interviste rilasciate per Habemus Papam , Nanni Moretti dichiara di avere sempre pensato a Michel Piccoli per il ruolo del cardinale Melville. L’immagine di Piccoli, quindi, sarebbe stata subito indissociabile da quella di un monsignore angosciato dalla nomina a pontefice che lo ha investito. Ma un’immagine non è mai innocente e tantomeno lo è quella di un attore come Piccoli. Ossia un grande attore che non soltanto ha una carriera lunga quasi settant’anni e duecento film (dall’esordio come figurante in Sortilèges [Silenziosa minaccia , 1945)] di Christian-Jaque e in un piccolo ruolo di Le point du jour [1948] di Louis Daquin), ma che soprattutto rappresenta un simbolo delle grandi stagioni del cinema europeo (innumerevoli i film memorabili sotto la regia di Buñuel, Melville – non a caso il nome assegnatogli da Moretti – Godard, Cavalier, Varda, Costa-Gavras, Chabrol, Deville, Petri, Tavernier, Demy, Malle, Rivette e molti altri). In particolare, Piccoli è l’ultimo sopravvissuto di quel glorioso quartetto di attori (con Tognazzi, Mastroianni e Noiret),
complici diretti da Ferreri in leggendari attentati cinematografici contro la morale borghese (si pensi a La grande bouffe [La grande abbuffata , 1973]). È anche uno degli ultimi ad avere incarnato, soprattutto negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, un’immagine elegante,complessa e ambigua della borghesia in film di Buñuel, Sautet, Chabrol, Deville e Granier-Deferre. Ma, al di là di queste reminiscenze che la presenza di Piccoli evoca spontaneamente, ci sembra che il cardinale Melville nasca da due matrici. La prima, più esteriore, è una figura di Moretti: il vecchio Sigmund Freud (interpretato da Remo Remotti) del film nel film ( La mamma di Freud ) che il regista Michele Apicella sta girando in Sogni d’oro (1981). Il vecchio Freud era un doppio di Michele, una sua emanazione senile: come il regista, anche l’illustre padre della psicoanalisi viveva ancora con la mamma e come lui non si era liberato da un infantilismo che esprimeva in modo buffonesco, con smorfie e moine alla madre. Dopo trent’anni, il personaggio impersonato da Moretti
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in Habemus Papam , lo psicoanalista interpellato dal Vaticano per curare il disagio del papa, è nuovamente confrontato a un vecchio,solo come lui.È appunto la vecchiaia – una vecchiaia di solitudine (ricordate la raggelante frase che concludeva Bianca [1984]: «È triste morire senza figli»),l’angoscia che lo psicoanalista dalla barba ingrigita non esprime e non confessa ma che ci sembra di intravedere dietro la sua ansia trattenuta. La specularità fra Melville e lo psicoanalista Moretti è più sotterranea rispetto a quella fra il cineasta e il “suo” Freud (che in effetti finiva per essere più una “caricatura dell’artista da vecchio”, che non una sua emanazione). Ma non è un caso se, nel momento in cui Melville riesce a fuggire dall’aurea reclusione in Vaticano, prigioniero lo diventa lo psicoanalista, cui viene interdetto il ritorno al proprio domicilio finché non si risolve l’incresciosa situazione del nuovo papa. È un’ambigua prigionia, perché il personaggio morettiano non sembra così ansioso di ritornare alla solitudine della sua normalità (è stato lasciato dalla moglie anni prima e ne soffre ancora). Sembrerebbe quasi una sostituzione se non fosse che riguarda solo il suo destino ma non il suo ruolo, rimasto immutato e che, proprio come il personaggio di Sogni d’oro , prevede una ludica regressione all’infanzia, con la partita di pallavolo organizzata con cura maniacale coinvolgendo i cardinali. Forse non è solo un caso se una volta che il Papa ha fatto ritorno in Vaticano – in effetti, un falso movimento
perché è l’atto che precede la rinuncia a quel ruolo – lo psicoanalista di Moretti scompare nel nulla.
UN IO NOMADE Ma esiste un altro personaggio e un altro film che, soprattutto, ci sembrano avere nutrito l’immagine di Piccoli-Melville: è il Gilbert Valence di Vou para casa (Ritorno a casa , 2001) di Manoel de Oliveira. Un vecchio attore che, mentre recita «Le roi se meurt» di Jonesco, è colpito da un lutto atroce (la morte accidentale della moglie, della figlia e del genero). La tonalità che il film di de Oliveira condivide con quello di Moretti è la depressione. Habemus Papam e Vou para casa possono essere considerati (anche) due grandi film sulla depressione. La depressione si insinuava in Valence dopo una tregua apparente, colpendolo in seguito a brutali intrusioni della realtà esterna (il furto delle scarpe appena acquistate, dei soldi e dell’orologio a opera di un balordo). Lo colpiva soprattutto nella perdita della memoria, che lo esponeva a situazioni imbarazzanti durante le riprese di un film tratto dall’«Ulisse» di Joyce. Dopo qualche défaillance coi gesti e le battute della sua scena,Valence si arrendeva e abbandonava bruscamente il set per tornarsene a casa. L’improvvisa vulnerabilità della sua memoria si univa forse a una ribellione inconscia contro un boulot non voluto (un ruolo secondario di vecchio, Buck Mulligan, in un adattamento “impossibile”).
Le sequenze di Habemus Papam , in cui Moretti segue Piccoli/Melville mentre vaga per le strade romane, scoprendo un’inaspettata libertà nell’assenza di responsabilità, nella latitanza dalla propria identità, e un rapporto finalmente immediato con le cose, possono essere confrontate a quelle in cui Piccoli/Valence deambulava per le strade parigine in Vou para casa . Potrebbe essere un’allusione a quel film e a quel ruolo, anche la bugia di Melville che racconta alla psicoanalista Margherita Buy di essere un attore (e conosce a memoria Cechov). Una bugia che è come una sottile citazione. È probabile che Moretti sia rimasto colpito da quell’immagine di depressione magistralemente evocata da Piccoli in una recitazione tutta interiorizzata di cui ritroviamo una splendida prova anche in Habemus Papam , con l’aggiunta di un soliloquio in autobus,mentre dai finestrini sfila una visione notturna della Città eterna. Melville vaga senza fissa dimora e a poco a poco ritrova un benessere che aveva perduto nelle stanze vaticane. Anche Valence, colpito da un lutto immedicabile come lo psicoanalista Giovanni di La stanza del figlio (2001), si abbandonava alla casualità del flâneur, ritrovando il senso dell’esistenza nel flusso della quotidianità. In Melville la libertà, che ottiene grazie alla sua “evasione”, lo conduce a trovare il coraggio di rifiutare quello che gli altri cardinali (e i fedeli) credono l’effetto di una scelta divina. L’io depresso che cammina e vaga in una ricerca silenziosa di cose e persone, è, del resto, una figura peculiare del cinema di Moretti: si pensi al nomadismo di Bianca (in particolare alla scena in cui Michele entra nel bar), o agli errabondaggi di don Giulio in La messa è fini- ta (1985), per non parlare delle corse ginniche del padre in La stanza del figlio , che non avevano meta ma solo lo scopo di spossare il corpo oppresso dai rimorsi. Forse nell’ultimo film di Moretti aleggia anche il fantasma di un altro film: L’udienza (1972) di Marco Ferreri, con il segreto intimo e non svelato di Amedeo, l’omino (Enzo Jannacci) che voleva incontrare il papa e diventava prigioniero di un implacabile ingranaggio che lo sopprimeva lentamente e senza colpo ferire. Bisogna ricordare che in quel film appariva anche Piccoli, in un ruolo che è l’esatta antitesi del Melville di Moretti: l’elegante e suadente monsignor Amerigo, rappresentante dell’anima progressista della Chiesa, dove si trova perfettamente a suo agio, sinuoso e sfuggente. Una figura dove Piccoli addensava ogni possibile ambiguità, come in altri personaggi di ministri, industriali e dignitari che ha interpretato. Per Ferreri, Piccoli sarà anche il missionario bretone Jean-Marie di Come sono buoni i bianchi! (1987), sconfitto dalla vittoria del Corano fra le popolazioni africane che ha tentato di convertire. Con sarcasmo, Ferreri lo mostra mentre benedice senza convinzione un bambino agonizzante. Un religioso in crisi è anche il cappellano militare Benetandi che Piccoli impersona nell’unico film diretto
da Luciano Tovoli, Il generale dell’armata morta / L’armata ritorna (1983) (dal romanzo di Ismail Kadare), anche co-sceneggiato e prodotto dall’attore. Un ruolo che lo confronta all’amico e complice Mastroianni (il generale Ariosto), in una missione ingrata e amara che diventa l’occasione per un sottile teatro psicologico e nuancé fra i due grandi attori. Ricordiamo, infine, che a segnare l’incontro fra Piccoli e Buñuel era stato proprio un film dove l’attore impersonava un prete: padre Lizzardi in La Mort en ce jardin (La selva dei dannati , 1956). Fu lo stesso Piccoli (come racconta nel libro «Michel Piccoli le provocateur» di Robert Chazal, Éditions France-Empire, Parigi 1989) a proporsi al maestro spagnolo per quel ruolo che in origine era lontanissimo da lui (il personaggio avrebbe dovuto avere quindici anni di più rispetto all’età dell’attore e doveva essere piccolo e rotondetto). Come scrive Alberto Farassino, «elegante, vestito in clergyman bianco, con un prezioso orologio dono di una compagnia petrolifera, Lizzardi è sicuramente una figura non gradevole, più o meno consapevolmente alleato del potere, ma con una sua complessità e anche contraddittorietà che lo rendono interessante. L’eleganza attoriale di Michel Piccoli ne fa in ogni caso un corpo estraneo fra gli avventurieri e soldatacci fra i quali si muove» (1). (1) Alberto Farassino, «Tutto il cinema di Luis Buñuel», Baldini & Castoldi, Milano 2000, pp. 219-220.
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SPECIALE
SORELLE MAI Marco Bellocchio
RICONOSCI TE STESSO Luca Malavasi
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Gli ultimi film di Bellocchio sono, più o meno apertamente, tutti storico-biografici; o, quantomeno, il filo conduttore della narrazione è rappresentato dal tempo di una vita (in) particolare, raccontata, studiata, ricostruita. Nel caso di Vincere , quella di Benito Mussolini, a cui s’intrecciano le esistenze all’ombra del potere del figlio e della Dalser; in Buongiorno, notte , la parentesi insieme breve e lunghissima di Moro prigioniero; in L’ora di religione , l’esistenza in attesa di canonizzazione della madre forse santa di Ernesto Picciafuoco, il “modello” di biografo più vicino al narratore di Sorelle Mai : scettico e fin troppo consapevole degli inevitabili pro-
cessi di falsificazione che la scrittura biografica porta con sé, perché radicalmente contraria – nel suo mettere ordine e dare forma e rendere “interessante” – alla disordinata complessità dell’esistenza umana. Non a caso, poi, in quel film il dietro le quinte della morte della forse santa era preso pari pari dal primo (e adesso, ci si rende conto, insieme ultimo e definitivo) film del regista, I pugni in tasca , che torna in Sorelle Mai disseminato qua e là, soprattutto nella prima parte, chiamato direttamente – per analogia visiva – dal nuovo film. Torna con moltissimi valori diversi: è una firma; è un genius loci , indissolubilmente legato a Bobbio e al rappor-
to tra Bellocchio e il piccolo paese piacentino in cui è nato; è il “motivo nella tappezzeria” di tutto il cinema del regista; è il simbolo di una protesta violenta mai risolta, contro tutto ciò che Bobbio e la sua gente e la sua storia rappresentano (e che in Sorelle Mai viene detto e ripetuto grazie a Cechov); è il filtro salvifico posto dal regista alla difficoltà di appartenere a qualcuno e a qualcosa, una famiglia e un luogo; è, rispetto a Sorelle Mai , il principio d’ordine di un progetto – quello di Fare Cinema – che si è retto, nel corso degli anni, su due soli elementi di continuità: la presenza del regista e Bobbio; la presenza del regista nella sua Bobbio. Quindi, appunto, I pugni in tasca . Come se la relazione tra Bellocchio e la sua città natale – il semplice stato in luogo – fosse sufficiente a risvegliare quel primo e mai esaurito gesto di ribellione e devastazione fatto esplodere una prima volta nell’esordio. Il problema dell’appartenenza a un luogo, a una storia, a una relazione affettiva (amorosa o parentale) si trasforma così, inevitabilmente, nel collante di questo bellissimo film di frammenti, riportando tutto, ancora una volta, al motore insieme visivo e tematico di tutto il cinema di Bellocchio, l’istituto della famiglia, inteso come schema ordinatore dell’esistenza, debito di sangue pagano, strozzatura dell’evoluzione. Attorno ai due totem rappresentati dalle sorelle del titolo, ferme, fisse, inseparabili dai luoghi, ruotano le esistenze inquiete dei nipoti, Giorgio e Sara, che a quei luoghi possono appartenere in modo solo intermittente: starvi, tornarvi, viverci, significherebbe entrare a far parte di quella gente senza talenti di cui parla Cechov e con cui Giorgio, più apertamente di Sara, si confronta all’inizio e alla fine del film. E quando riescono a sedersi tutti insieme attorno a un tavolo – Sara, Giorgio, le zie, ma anche la piccola Elena, figlia di Sara, e il “funzionario”(questo sì davvero cecoviano) Gianni – è per parlare di morte e sepoltura (l’acquisto di una nuova cappella funeraria accanto a quella già posseduta dalle zie, diventata col tempo un po’ troppo affollata). La morte e la sepoltura delle devotissime zie, ma anche quella dei nipoti e dei loro figli e compagni: discorso di soldi e scartoffie, preceduto da un discorso analogo e contrario, la vendita della parte di casa bobbiese di proprietà di Sara; Bellocchio ricorda così ai “suoi” che quella terra, alla fine, li avrà comunque, e per sempre, dentro un albero genealogico di cadaveri; e che non basta andare via, vendere tutto, liberarsi di zie e case, per essere liberi: è un sottotesto insieme mitico e pagano, che parla di origine e appartenenza e che assegna un ulteriore valore a quei frammenti saltati da I pugni in tasca : che servono a rinnovare e a ribadire la separazione, il desiderio della non
appartenenza (cecoviana) ma, al tempo stesso, per il solo fatto di rendersi necessari a distanza di cinquant’anni, formalizzano qualcosa che somiglia alla sconfitta o forse, semplicemente, a una – per quanto non pacifica – presa d’atto; frammenti che danno, al contempo, una diversa lettura di quella pagina di Cechov, riferita a quello che sarà. E l’ambiguità di quel “Mai”, nel titolo, non vale diversamente. E lasciamo pure perdere le realtà biografiche – Giorgio che è il figlio Piergiorgio, Elena che è la figlia del secondo matrimonio di Bellocchio con la sua montatrice, le zie che sono le Sorelle, e poi le attrici (la Finocchiaro e la Rohrwacher) che valgono un po’ di più che semplici prestacorpi e prestavoci, per non dire dell’onnipresente Schicchi. Anche a voler ignorare la questione – giustificandola in parte con la condizione “spontanea”, didattica, low budget e per l’appunto famigliare caratteristica dei laboratori di Fare Cinema –, Sorelle Mai è comunque un “film di famiglia”: non perché Bellocchio vi racconta la sua famiglia, e i luoghi a cui essa, da generazioni, appartiene, ma perché ha riunito con leggerezza poetica gli appunti di un diario filmato nel
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corso degli anni, scoprendo e riconoscendo se stesso nella “facilità” con cui tessere tanto diverse si sono infine trovate e legate insieme. Questa dimensione propria dei materiali che compongono Sorelle Mai , che è insieme biografica e di poetica, che parla di ossessioni e continuità d’ispirazione, dona al film non tanto una dimensione collettiva, famigliare, appunto, ma lo rende estremamente privato e solitario: (auto)biografico, come molti altri film dell’ultimo Bellocchio. Che, si capisce, usa la famiglia – l’istituzione e il caso di specie – per mettere in scena la sua storia: che, alla fine, sia sul piano biografico, sia sul piano artistico, è tutta una questione “di famiglia”. Il “film di famiglia”, allora, non è, nel caso di Bellocchio, una forma o un genere tra gli altri, con buona pace della critica psicoanalitica (che qui potrebbe felicemente sbizzarrirsi, per esempio dilungandosi a ragionare sul rapporto, piuttosto sadico, tra il regista e il figlio…); no, il “film di famiglia” vale per Bellocchio come unica forma possibile di autobiografia artistica e, insieme, dichiarazione di poetica, in cui la famiglia non costituisce il “tema” ma il mezzo per parlare di sé, per disseminarsi, per guardarsi da un punto di vista moltiplicato, per testimoniarsi. Si capisce, allora, la necessità, tutta cinematografica, di una serie di fragilissime falsificazioni – piccoli slittamenti nei nomi, sostituzioni di corpi, velature sui luoghi e i tempi; e si capisce la necessità di usare il cinema già realizzato – I
pugni i n tasca –, unico mezzo per entrare nel nuovo film. Si capisce la necessità stilistica di cancellare i corpi e le storie nel nero, nel ralenti , nell’ellissi, fino a trasformarli in macchie di colore, in fantasmi, in doppi evanescenti, sospendendo, già sul piano dell’immagine, la referenzialità sempre troppo ingombrante e didascalica dell’“home movie”. Bellocchio sa come si racconta la storia (vera) di un uomo, la sua per primo. Non con le date e i dati e la correttezza filologica – altrimenti, come avrebbe potuto far rinascere Moro? Bellocchio è l’ultimo grande regista surrealista della storia del cinema, che da una decina d’anni a questa parte lavora come nessun altro sa fare sulla penombra della realtà, sulle verità nascoste, sulla materia dell’immagine – luci, corpi, colori, tempi, movimenti… Sorelle Mai è il suo diario onirico e notturno, la sua autobiografia allucinata e inevitabilmente contraffatta a cui affida l’ideale chiusura di un percorso cominciato nel 1965. Chiude e riapre: se Moro rinasceva dalla sua morte nell’alba di una Roma deserta, Sorelle Mai chiude con un battesimo pagano che coincide con la definitiva scomparsa nel luogo e il riconoscimento di dover appartenere a una terra da cui si è inseparabili, e a cui, in fondo, si può anche essere grati – perché se la terra non fosse stata così arida, e la famiglia tanto sterile, la ribellione non avrebbe avuto senso e forza, e l’arte non avrebbe posseduto una così potente necessità.
SORELLE MAI Marco Bellocchio
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Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio. Fotografia: Giorgio, sempre più inquieto e incerto sul proprio Marco Sgorbati, Gian Paolo Conti (sequenze girate futuro. Giorgio e le due zie sono ormai la famiglia nel 1999). Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: di Elena, finché un giorno, dopo aver ottenuto una Carlo Crivelli, Enrico Pesce. Scenografia: G. Maria parte importante, Sara decide di portare la figlia Sforza Fogliani. Costumi: Daria Calvelli. Interpreti: con sé a Milano, e trasferrirsi in una casa più gran- Pier Giorgio Bellocchio (Giorgio), Elena Bellocchio de. A questo scopo, torna a Bobbio per formalizza- (Elena), Donatella Finocchiaro (Sara), Letizia re la vendita della sua parte della casa, trovando in Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio (le zie di Sara e Giorgio un alleato prezioso, malgrado i rapporti dif- Giorgio), Gianni Schicchi (Gianni), Valentina Bardi ficili intercorsi in passato tra i due. Gli anni passa- (Irene), Silvia Ferretti (Silvia), Alberto Bellocchio (il no, Elena cresce e si ritrova di nuovo a vivere con le preside), Alba Rohrwacher, Irene Baratta, Anna zie, che ospitano anche una giovane professoressa Bianchi (le professoresse). Produzione: Irma di liceo che, travolta dalla sua angoscia d’amore, Misantoni per Kavac/FareCinema/Provincia di durante gli scrutini finali, per “assenza” rischia di Piacenza/Comune di Bobbio/Rai Cinema. far bocciare un suo studente. Anche Giorgio fa Distribuzione: Teodora. Durata: 105’. Origine: Italia, ritorno a Bobbio, in fuga dai debiti e inseguito da 2011. due personaggi loschi: stavolta sarà la sorella ad aiutarlo. La famiglia al completo si riunisce infine Sara Mai è un’attrice e vive a Milano, cercando di sulla riva del Trebbia per assistere a una rappresen- affermarsi, mentre sua figlia, la piccola Elena, passa tazione ideata dall’amico Gianni, che, vestito in gran parte del tempo nella casa di famiglia a frac, si immerge nelle acque dell’antico fiume del Bobbio, dove è accudita dalle due anziane zie. A paese dove tutti i personaggi sono nati e dove hanno Bobbio torna spesso anche il fratello di Sara, trascorso la loro prima giovinezza…
«A BOBBIO! A BOBBIO! A BOBBIO!» BELLOCCHIO À REBOURS Paolo Vecchi Con una certa periodicità a partire da Vacanze in Val Trebbia (1980), Marco Bellocchio frequenta i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza – l’immutabile “natìo borgo selvaggio”, le sue viuzze, il palazzo avìto, i meandri del fiume – nel tormentato quanto necessario recupero di una stagione con la quale forse non si è mai illuso di avere fatto definitivamente i conti. Immaginiamo che le motivazioni e le urgenze che stanno dietro questo eterno ritorno vadano ben oltre il laboratorio “Farecinema”, una scuola estiva di regia e recitazione che si tiene da anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui proiezioni si svolgono nel chiostro dell’abbazia di San Colombano. Sorelle Mai , che del laboratorio è
figlio, è un po’ la sintesi, forse destinata a ulteriori sviluppi, di un articolato work in progress .
Pur essendo solo in parte autobiografico, il film accumula laboriosamente e con fatica le stratificazioni di un vissuto, anche cinematografico. Per questo alcune corrispondenze vengono sottolineate da fulminee citazioni di I pugni in tasca (1965), che funzionano in qualche modo da flashback. Ma ben presto i richiami al capolavoro d’esordio, la cui iterazione avrebbe potuto diventare ingombrante, vengono abbandonati in funzione di un addio del passato che è anche recupero del passato stesso, o di un approccio più maturo legato all’età e alle esperienze. Come sapevano i classici, la comprensione passa attraverso la sofferenza, solo il
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dolore può aprire a una prospettiva di pacificazione. Il processo si incardina nel riconoscimento di quella saggezza antica personificata dalle zie e dall’amico di sempre dal nome pucciniano, Gianni Schicchi, ma anche nella rivisitazione di colori, profumi e sensazioni legate ai luoghi. Curiosamente ma non troppo, Bellocchio il nichilista, l’anarchico, l’eversore, sembra avvicinarsi per certi versi al (quasi)corregionale Pascoli nella disarmata e diretta semplicità della rievocazione se non del rimpianto, introiettando la sua “poetica del fanciullino” che contempla attonito le cose con uno sguardo vergine e primigenio.
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Contemporaneamente, però, il regista piacentino rimane attaccato a un’idea di complessità maturata attraverso anni e stratificazioni culturali, ad esempio assumendo il fiume come elemento amniotico ma anche luogo della purificazione (la magnifica sequenza in cui Sara recita la scena della pazzia di Lady Macbeth sotto la pioggia, mentre Giorgio nuota in quelle stesse verdi acque del Trebbia in cui la sorella cerca di lavarsi forsennatamente le mani). Pur caratterizzandosi come ibrido giocato sull’esiguità dell’intreccio e su immagini ostentatamente povere, Sorelle Mai riesce dunque a toccare corde profonde. Lo fa, anche, servendosi di rimandi ad autori da sempre congeniali a Bellocchio.
Cechov innanzitutto, letto nelle prime battute da Giorgio, modellato in parte sullo Andrej di «Le tre sorelle». Di questo capolavoro il film condivide senso di fru-
strazione e derive esistenziali, anche se ne inverte la vettorialità: mentre Ol’ga, Masa e Irina sognano gli splendori di Mosca come riscatto della mediocrità provinciale, il regista, come anticipavamo, sembra piuttosto impegnato in un itinerario à rebours , di riappropriazione di quell’humus di paese e famiglia contro il quale più di quattro decenni fa si era abbattuta la sua rabbia iconoclasta. Poi Verdi, nella rappresentazione en plein air nel corso della quale vengono eseguite due tra le più celebri romanze del «Trovatore», che in altro contesto avrebbero rischiato di sembrare (alla maniera di Bertolucci?) stucchevoli, ma qui sono percepite come tessere necessarie per la ricomposizione di un mosaico identitario. Infine Kleist, già frequentato tangenzialmente in Il sogno della farfalla (1994), direttamente in Il principe di Homburg (1997), per quelle accensioni febbrili, quei tempi sospesi, quelle atmosfere subliminali che costituiscono uno dei pezzi forti dell’armamentario poetico del regista: si vedano la sequenza della ragazza che ha conosciuto Giorgio tredicenne, con il quale si è scambiata una promessa e che lo bacia non venendo riconosciuta, o quella davvero straordinaria dell’uscita di scena di Gianni Schicchi, ineffabile uomo in frac che si inabissa nel fiume mettendo una (provvisoria?) pietra tombale alla vicenda. Al di là di un atteggiamento esistenziale mutato, in Sorelle Mai , a nostro avviso uno dei momenti alti nella filmografia ricca ma altalenante di Bellocchio, ci sono tuttavia due aspetti nuovi che meritano una veloce sottolineatura. Innanzitutto, alcuni momenti di schietta comicità, merce rara in un autore votato semmai al grottesco (cfr. in particolare La Cina è vicina [1967]): lo show di un insegnante che, nel corso di un consiglio di classe surreale ma non poi più di tanto, prima recita l’invettiva del tenente Mahler nel pre-finale di Senso (1954), poi si lancia in uno haendeliano «Alleluia!», o il cocciuto interesse di zia Letizia per l’acquisto di una cappella del cimitero limitrofa a quella di famiglia, mentre il notaio sta stipulando la ben più importante vendita dell’appartamento di Sara. Quasi che il film, oltre all’approdo a una considerazione più pacificata di se stesso, significhi per l’autore il recupero di un senso dell’umorismo altrove poco praticato. Poi, l’aspetto in qualche modo metalinguistico, figlio forse dell’occasione e delle modalità realizzative. Pur non essendo un vero e proprio film teorico sul cinema, come lo sono, ad esempio, Rear Window (La finestra sul corti- le , 1954) o Peeping Tom (L’occhio che uccide , 1960), per limitarci a due esempi grandissimi, Sorelle Mai riesce comunque a riflettere – e a far riflettere, spettatori e allievi della scuola – sul proprio farsi , procedimento miracolosamente risolto in quella che potremmo chiamare compatta frammentazione, su necessità di budget che sanno diventare virtù di idee e creatività, oltre che equilibrio nella direzione di attori e non attori, sui quali Bellocchio, grazie a un girato che copre un decennio, può mostrare davvero la morte al lavoro .
SEGUIRE LE TRACCE DEI TEMI GENERATORI Alice Cati La scrittura del romanzo famigliare coltiva l’ambizione di costruire affreschi organici e unitari, all’interno dei quali la trama si disegna secondo forme riconoscibili, pressoché geometriche e prevedibili. La narrazione si avviluppa infatti attorno ad alcuni grandi temi generatori , riconducibili ai valori che la famiglia incarna e alle sorti che hanno atteso il suo destino. Storie di riscatti, di ricomposizione della crisi, di ritorni inattesi, di conciliazioni in seguito a scissioni ideologiche o a drammi storici, e via di seguito (1). Nel suo ultimo film, Sorelle Mai, Marco Bellocchio lavora su un ripensamento radicale del concetto stesso di “tema generatore”, trattandolo cioè nella sua doppia valenza: da una parte come snodo narrativo genealogico , capace di dare voce e visibilità alla storia di famiglia; dall’altra, come principio generativo , atto appunto a generare, a dar vita a un vero e proprio processo creativo, che è solo parzialmente parte della celebrazione di una micro-comunità (di sangue) per estendersi alla costituzione di una nuova comunità – forse solo temporanea – culturale.
Nato in seno ai laboratori condotti per la scuola estiva Fare Cinema, attiva dal 1997 a Bobbio, sui colli piacentini, il film cuce insieme sei cortometraggi, realizzati in collaborazione con gli studenti, in un lasso temporale che va dal 1999 al 2008 (2). Ciascun progetto si presenta non soltanto come addestramento formativo per gli allievi che partecipano ai corsi, ma anche come deposito di temi cari al regista, nonché come luogo di sperimentazione visuale, nella prospettiva dei lungometraggi a venire (3). In Sorelle Mai , la conversione dei singoli progetti in episodi che palesano una tenuta narrativa è data innanzitutto dalla presenza di due anziane zie, interpretate dalle sorelle del regista, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, attorno alla cui casa gravitano le esistenze dei nipoti: la piccola Elena (Elena), che vede fiorire la propria adolescenza tra la penombra delle mura della residenza famigliare e le acque del fiume (1) Duccio Demetrio, «Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa», Meltemi, Roma 2002, p. 79. (2) In particolare, due sono i documentari già presentati pubblicamente da Bellocchio, Sorelle (1999) e Sorelle (Il Matrimonio) (2004). (3) Sara Leggi, Gli ultimi cortometraggi in Adriano Aprà (a cura di), «Marco Bellocchio.Il cinema e i film»,Marsilio,Venezia 2005,pp. 223-226.
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Trebbia; sua madre Sara Sara (Donatella (Donatella Finocchiaro) Finocchiaro),, attrice di teatro, teatro, che fugge dal luogo luogo di origine, staccandos staccandosii dalla figlia piccola, piccola, a rischio di inseguire un un sogno vano; vano; e l’inquieto e stralunato Giorgio Giorgio (Piergiorgio (Piergiorgio Bellocchio), Bellocchio), che legge e rilegge Cechov, Cechov, alla ricerca di una risposta al richiamo costant costante, e, eser esercit citato ato dai luoghi luoghi della della memori memoria. a. All Alle e spalle di tutti, tutti, veglia in modo modo paterno Gianni (Gianni (Gianni Schicchi),, il quale amministra interessi materiali Schicchi) materiali e affettivi, con uno sguardo attento all’impalpabile all’impalpabile ragnatela ragnatela che tiene insieme il passato famigliare e l’ondivago procedere dei suoi membri. Il film cattura pertanto lo spettatore per le sue implicazioni familiari familiari.. Ma gli episodi episodi del del film sono sono popolati, popolati, nel loro insieme, insieme, da attori “di famiglia”, famiglia”, non semplicement semplicemente e perché Giorgio ed Elena sono interpretati dai figli del regista, né tanto meno perché perché le zie non sono altro altro che le zie reali. Anche gli altri volti volti e corpi attoriali attoriali appartengono appartengono infatti alla storia cinematografica cinematografica del regista, in quanto già interpreti interpre ti dei suoi film.Addirit film. Addirittura tura gli ambienti trasudano dell’autentica aura famigliare dei Bellocchio quando si scorgono,, ad esempio, scorgono esempio, sulla credenza credenza della sala da pranzo pranzo i ritratti di famiglia, famiglia, oppure quando Giorgio Giorgio incalza la zia Mariuccia, Mariucci a, ponendol ponendolee domande sulla figura della nonna e sulla sua giovinezza. giovinezza. L’ombra del padre/regista padre/regista è, in questo modo, modo, chiamata obliquament obliquamentee in causa, quasi a presiedere l’invocazione degli avi. Tuttavia, il film appare molto di più come l’esito di un gioco di rimandi e interventi davanti e dietro la macchina da presa, il cui implicito obiettivo obiettivo è quello di far slittare il racconto autobiografico e lo sguardo autoreferenziale in una logica partecipativa partecipativa e composi composita, ta, premessa necessaria a un’appropriazione un’appropriazione comunitaria. comunitaria. Se difatti nell’autobionell’autobiografia personale l’autore si assume il compito di ridarsi un’ident un’i dentità, ità, nell nellaa compo composizi sizione one di temi temi gener generator atori,i, lo scopo precipuo consiste nel voler restituire senso di sé al gruppo,, anche a prezzo di eclissare gruppo eclissare la personalità personalità stessa dell’autore. dell’aut ore. Per attendere attendere a una simile simile intenzione, intenzione, la scrittura deve però seguire un iter di elaborazione che fissi precisi passaggi, appigli utili al richiamo richiamo e alla ricognizione ricognizione memori mem oriale. ale. La proce procedura dura prev prevede, ede, di consue consueto to,, l’i l’indiv ndiviiduazione di alcuni luoghi della memoria, memoria, che siano stati la cornice di eventi, situazio situazioni ni e relazioni passate. Di certo, certo, i luoghi di Bobbio Bobbio rappresentano rappresentano i topoi narrativi, rati vi, in interno interno ed estern esterno, o, com comuni uni ai sei episod episodi.i. Nel Nella la casa, troviam troviamoo la sala da pranzo,dove pranzo, dove si celebra celebra il rito dell’ospitalità l’ospit alità e dell’accoglienza, dell’accoglienza, da parte delle zie nei confronti dei nipoti, che spesso sollecitano sollecitano aneddoti dei tempi andati; anda ti; la stanza stanza di Elena, Elena, semp sempre re resisten resistente te al sonno sonno e vorace di chiarimenti sulla vita e i rapporti amorosi dello zio e della madre, così lontani dal riuscire riuscire a legarsi a qualcuno; il giardino, giardino, quale ambiente ambiente di convivial convivialità ità e svago, svago, primo contatto contatto con la campagna bobbiese. Andando fuori dal cancello domestico domestico,, si districano le le viuzze del paese; la piazza dove si allestisce «Il «I l Trovatore» di Verdi, che raccoglie in una serata estiva l’intera l’intera comunità; comunità; per non dimen-
ticare le acque del Trebbia, dentro le quali i personaggi si tuffano come attratti attratti da una forza ipnotica,rituale ipnotica, rituale che culmina tra l’onirico l’onirico e il simbolico simbolico,, a chiusura del del film, nell’immersione l’imme rsione di Gianni Gianni in frac e cilindro, cilindro, sulle note di Domenicoo Modugno, senza più riemergere. Domenic Quando dunque si parla di “memor “memoria ia dei luoghi”, si ricorre rico rre a un’espre un’espressio ssione ne ricca ricca di suggestio suggestioni. ni. Se, da un lato,èè possibile affermare che ogni memoria lato, memoria ha per oggetto il luogo, luogo, dall’altr dall’altro, o, non si può negare che essa stessa stessa sia localizzata localiz zata nei luoghi. luoghi. Ciò significa significa che i luoghi possono essere allo stesso tempo tempo soggetti e portatori portatori del ricordo, ricordo, e «magari, avere a disposizione disposizione una memoria che trascende gli uomini» uomini» (4). (4). Propri Proprioo in questo questo modo modo esemplare, esemplare, aggiungerei, aggiunger ei, i luoghi sono mostrati da Bellocchio Bellocchio in quanto forieri di un senso che travalica la dimensione strettamente familiare, familiare, per canalizzare una memoria ancestrale. ancestrale. Alla dialettica tra passato e presente si accompagna ineluttabilmente quella che coinvolge la vita e la morte, come viene rappresentato dall’opposizione tra il luogo dei vivi – la casa di famiglia – e il luogo dei morti – la cappella. Ferme Fer me sulla soglia del tempo, tempo, quasi imbalsamate imbalsamate in una dimensione dimensio ne che odora di naftalina, le anziane zie si pongono come guardiane guardiane della discendenza, discendenza, la cui presenza nel mondo è da perpetuare attraverso la conservazione delle reliquie.. Pregano nel secondo episodio l’eterno reliquie l’eterno riposo nel cimiter cim iteroo che si apre apre sulla sulla vallata; vallata; ment mentre re nel terzo terzo,, le vediamo richiamare i nipoti per l’acquisto di una seconda cappella di famiglia, resasi disponibile disponibile grazie all’estinzioall’estinzione della stirpe dei precedenti proprietari. proprietari. Confidando sempre in un ritorno alla terra d’origine di tutti i membri dispersi della famiglia, famiglia, ancora oltre le sorelle sorelle sollecitano ossessivamente l’acquisto della cappella durante la seduta con il notaio, notaio, mentre Sara ha deciso di vendere vendere la propria parte della casa di famiglia. Se fin qui risulta chiaro il lavoro genealogico del regista, sottotraccia sottotr accia è rimasto il discorso generativo. generativo.Seppur Seppur sottoposto con il montaggio a un intervento di chiusura del cerchio, nel film permane la filigrana della bozza di lavoro. lavoro. Simile alle annotazioni annotazioni dei processi ideativi, la continuità narrativa spesso si libera di capitolo in capitolo dal rigido controllo delle drammaturgie cinematografiche “canoniche”, compiut compiutee nelle loro strutture testuali e ripulite dalle tracce visibili visibili della loro elaborazione. elaborazione. A un primo impatto,, Sorelle Mai colpisce per le sue imperfezioni formali, to date dall’alternanza dall’alternanza di pellicola e digitale, digitale, la cui resa fotografica sgrana luci e colori, colori, cui si aggiungono le incoerenincoerenze, o meglio i disorientamenti disorientamenti di sceneggiatura. sceneggiatura. Esattamente Esattame nte in queste queste esitazioni esitazioni risiede, però, il pregio dell’opera. dell’op era. Essa infatti mantiene il polimorfismo polimorfismo dell’imdell’impegno collettivo collettivo,, che ha coinvolto coinvolto in modo discontinuo discontinuo soggetti diversi, diversi, tutti chiamati a contribuire incasellando il proprio frammento frammento dentro il mosaico filmico. filmico. Non stupisce pertanto l’episodio che sembra interrompere il filo della del la storia storia di famig famiglia lia,, con prota protagon gonist istaa Alba Alba Rohrwacher nei panni di un’insegnante afflitta da pene
d’amore che la distolgono dai doveri degli scrutini scolastici. Qui il tema generatore sviluppato sembra rispondere rispondere alla domanda: domanda: a chi si si è aperta aperta la porta porta di casa, dopo la partenza di Elena con la madre a Milano e la vendita dell’appartamento? Come si relazionano le zie innanzi all’elemento estraneo? Quale vita si conduce al di fuori delle pareti domestiche? I vari capitoli non servono che da gioco preparatorio, da materialee abbozzato, material abbozzato, per poi giungere alla stesura di quel volume che riguarderà riguarderà non solo il racconto famigliare, ma la storia più estesa del borgo in cui la famiglia è vissuta. Perché Perc hé se la famigli famigliaa è soprattutto comunità, comunità, anche altre possono essere, senza cognomi e riconoscibilità riconoscibilità immediata, le comunità comunità da immort immortalare. alare. Il film quindi raggiunge raggiunge un indice di libertà, libertà, spontaneit spontaneità, à, per non dire di improvviimprovvisazione sazio ne percepibile percepibile nell’inte nell’interpret rpretazion azionee delle zie, che irrompono con il loro lessico famigliare nelle conversazioni di scena, generando un innesto innesto di reale nel tronco tronco finzionale. Eppure, l’accent l’accentoo che potrem potremmo mo definire documentaristico evapora sempre di più nell’incedere degli episodi, quando si aprono a situazioni situazioni surreali, surreali, come l’happening teatrale per le stradine stradine di Bobbio, Bobbio, oppure nella rappresentazione presentazi one dell’incubo dell’incubo di Giorgio, con la proiezione di ombre cinesi.Anche cinesi. Anche in questo caso si allentano i freni inibitori della scrittura filmica, filmica, consente consentendo ndo al pensiero creativo di affiorare liberamente. Infine, non resta che interroga interrogarsi rsi sulle forme forme assunte dall’impul dall’ impulso so autobiograf autobiografico ico,, che giace alla alla radice di Sorelle Mai. Per quanto infatti i temi generatori si sviluppino in un’ottica di trascendenza della semplice memoria individuale, individual e, diventan diventando do canovaccio canovaccio per un raccont raccontoo a più voci, le marche autoriali autoriali si mostrano mostrano come un residuo residuo indissolubile. indissolu bile. Non si tratta solo del fatto che il film nasce da un’esperienza autobiografica (la direzione della scuola
di cinema),oppure cinema), oppure che è ambientato nel paese che ha visto i natali del regista, bensì tali marche riguardano riguardano l’impasto stesso della memoria memoria visuale. Il cinema di Bellocchio Bellocchio ne è l’ingrediente l’ingredi ente dominante, dominante, in termini termini sia di archivio di immagini,i, sia di calco impresso sui luoghi della rappresenimmagin tazione. Girate nella nella medesima medesima casa di di I pugni in tasca (1965), alcune sequenze sono inframmezzate dalle fugaci immagini del primo primo film del regista. È evidente che qui la famiglia riappaia riappaia non solo come motivo poetico, poetico, del quale si ricordano, ricordano, oltre agli ambienti, ambienti, anche i significati significati (l’alie(l’alienazione, la violenza, violenza, la claustrofo claustrofobia, bia, il desiderio desiderio di fuga), fuga), ma soprattutto come configurazione dello sguardo. Tuttavia, Bellocchio in questo ultimo lavoro vuole compiere un salto: una riflessione riflessione sulla famiglia come come spazio limi- nare , allo stesso stesso tempo individua individuale le e sociale. sociale. Come direbdirebbe Maurice Halbwachs Halbwachs (5), le traiettorie traiettorie che la memoria percorre all’interno di questo spazio si tracciano per gradi: la mia memori memoria, a, la memoria memoria dei miei familiari familiari e, infine, la memoriaa degli altri. Negli scarti tra questi tre stadi si insememori risce la metamorfosi o meglio l’apertura della memoria privata verso quella sociale e collettiva. Tale processo di apertura si esplica nel lavoro sperimentale cui hanno partecipato non solo solo i parenti del regista, ma persino gli studenti dei corsi di cinema. Sorelle Mai racconta in fondo come la memoria sia capace di indossare indossare diversi diversi abiti, abiti, sagomand sagomandoo un corpo che, anch anchee in procint procintoo della della fine, fine, ves veste te un costum costumee di scena. Per affrancarsi affrancarsi dai vincoli vincoli del passato, passato, o meglio per conciliarsi concilia rsi con esso, basta forse immergersi immergersi in un fiume, lasciando a galla solo il proprio cilindro. (4) Aleida Aleida Assmann, Assmann, «Ricordare. Forme e mutamenti della della memoria culturale», il Mulino, Bologna 2002. (5) Maurice Halbwachs, «Memorie di famiglia», famiglia», Armando Editore, Roma 1996.
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I F I L M
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POETRY Lee Chang-dong
La poesia del tempo sospeso Dario Tomasi Quinto film di Lee Chang-dong, e suo secondo, dopo Oasis , a essere distribuito sugli schermi italiani, Poetry consacra finalmente il regista sudcoreano come uno degli autori di maggior rilievo del cinema asiatico contemporaneo. Già autore di opere premiate a Venezia e Cannes (come il già citato Oasis e Secret Sunshine ), Lee Chang-dong non appartiene, coi suoi film, a quelle roboanti estremità che hanno caratterizzato certe figure emergenti del suo paese, come Kim Ki-duk o il Park Chan-wook di Old Boy . Per quanto le sue trame siano spesso altrettanto forti di quelle dei registi appena citati, i suoi film fanno un uso più morbido della violenza, spesso relegata nei vuoti del fuori campo e dell’ellissi (come accade per lo stupro e il conseguente suicidio della vittima, eventi che fanno da motore narrativo a Poetry ) . I fatti, per Lee Changdong, contano soprattutto per ciò che essi significano per coloro che li vivono. Quello del regista sudcoreano è, innanzitutto, un cinema di personaggi.Tutto Poetry è costruito intorno a Mi-
Titolo originale: Shi. Regia e sceneggiatura: Lee Changdong. Fotografia: Kim Hyun-seock. Scenografia: Shin Jeom-hui. Costumi : Lee Choong-yeon. Montaggio: Kim Hyun. Interpreti: Yun Jung-hee (Yang Mi-ja), David Lee (Yang Jong-wook, il nipote), Kim Hee-ra (il signor Kang), Ahn Nae-sang (il padre di Kibum), Kim Yongtaek. Produzione: Lee Joon-dong per Pinehouse Film. Distribuzione: Tucker. Durata: 139’. Origine: Corea del Sud, 2010. Mi-ja è una donna di sessantasei anni, che abita nei dintorni di Seoul col nipote, Jong-wook, la cui madre vive e lavora a Pusan. Nel corso di una visita medica, Mi-ja scopre di essere affetta dal morbo di Alzheimer, a uno stadio ancora iniziale. Dopo essersi iscritta a un corso di poesia, la donna apprende che il nipote, insie- me con altri cinque suoi compagni, ha violentato una ragazza, che si è poi tolta la vita. I padri degli altri figli coinvolti cercano, con la collaborazione della scuola, di mettere tutto a tacere, offrendo del denaro alla madre della vittima. Mi-ja non sa come fare per trovare i soldi del dovuto. Mentre conti- nua a seguire il suo corso di poesia e a fare le pulizie presso la casa del vecchio Kang, la donna si rende conto che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Dopo aver final- mente trovato il denaro necessario, e quando tutto sembra essersi risolto nel migliore dei modi, Mi-ja decide di denunciare l’accaduto alla polizia, costringen- dola così ad aprire un’indagine.
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ja, una donna di sessantasei anni che sta ammalandosi di Alzheimer. Se si escludono la sequenza iniziale e quella finale, tutte le altre scene del film ruotano intorno alla presenza di Mi-ja. La macchina da presa di Lee la bracca, coi suoi movimenti a spalla, senza sosta, dall’inizio alla fine, mettendo in scena,con rara intensità,il suo anelito a trovare nella poesia una ragione di vita più autentica, ma anche una possibile via di fuga dai drammi e dalle fatiche della vita quotidiana. Poetry scandisce con rigore la vita di Mi-ja, strutturando il proprio intreccio nel succedersi di una serie di situazioni (e luoghi che le incarnano) che rappresentano le diverse realtà della sua condizione esistenziale. L’appartamento di Mi-ja, che la donna condivide col nipote adolescente, è il luogo in cui ella è costretta a confrontarsi con la colpa di questi (il già citato stupro col conseguente suicidio della vittima), e il dolore che tutto ciò provoca in lei. Le sale d’attesa degli ospedali e gli studi medici danno corpo alla sua incipiente malattia (che lei finge di ignorare, e su cui tace al telefono con la figlia). I locali pubblici, dove incontra i padri degli altri ragazzi coinvolti nello stupro, hanno a loro volta il compito di esplicitare il problema relativo al denaro che Mi ja deve in qualche modo procurarsi, senza sapere come, per trovare un accordo con la madre della ragazza che si è tolta la vita. L’appartamento del vecchio Kang, in cui la donna si reca più volte per fare le pulizie, è, dal canto suo, il luogo in cui in cui Mi-ja scopre, senza alcun piacere, di poter essere ancora l’oggetto del desiderio sessua-
le di un uomo (cosa che le permetterà di racimolare il denaro necessario al compromesso). L’aula del corso di poesia e la sala dei reading , infine, sono lo spazio in cui prende forma il suo anelito alla poesia, a una dimensione in grado di trascendere le logiche e le fatiche del quotidiano (come accade anche in quei diversi momenti in cui la donna, soprattutto all’aperto, cerca di trarre ispirazione dal contatto con la natura), ma sono anche lo spazio, soprattutto la sala dei reading , in cui la donna matura quanto la sua idea di poesia come bellezza e purezza d’animo sia alquanto inappropriata. La storia di Mi-ja è, infatti, la storia di una crescita, dell’acquisizione di una consapevolezza. È un romanzo di formazione che ha per protagonista una donna di sessantasei anni. Mi-ja scopre nel suo cammino, e in particolare attraverso l’incontro col poliziotto e aspirante poeta Park, che la poesia è anche altro da ciò che lei ingenuamente immagina. Che essa non può sottrarsi dall’incontro con tutti gli aspetti dell’umanità, anche quelli che lei considera più torbidi e svilenti. La poesia è braccata dalla realtà, non solo in quanto questa, che per certi aspetti è il suo contrario, la rende difficile (come faccio a far poesia quando devo procurarmi a tutti i costi quattro milioni di won?), ma anche perché la poesia stessa non può fare a meno della realtà, non può vivere in una dimensione separata da essa, ma deve in qualche modo farla propria. Ciò che Mi-ja apprende è, da una parte, che la poesia non può essere un alibi per fuggire dalla realtà (e
così, quando tutto sembra ormai risolto per il meglio, i soldi sono stati trovati e la madre della suicida ha accettato il compenso in denaro, la sua coscienza la spinge a denunciare alla polizia il nipote, provocando l’arresto di questi e l’apertura delle indagini); e, dall’altra, che la stessa poesia non può che trovare la sua forza a partire da uno stretto legame con la realtà (e così la lirica, che alla fine troverà finalmente la forza di scrivere, non parla di fiori o uccelli, bensì del dramma della ragazza che si è tolta la vita). Di particolare importanza, a questo riguardo, sono le scene finali del film, quando, dopo che la voce narrante della ragazza ha preso il posto di quella di Mi ja nella recitazione della poesia che la donna ha composto, le immagini che ripercorcorrono il gesto suicida della giovane vittima, sino all’avvicinarsi al ponte da cui si era gettata, si sospendono in un frame stop della ragazza che, dopo aver guardato l’acqua del fiume, si volge verso la macchina da presa e, in un primo piano assai coinvolgente, interpella direttamente lo spettatore. Quasi che la forza di quelle parole, di quella poesia, riuscisse a modificare il passato, o almeno a sospenderne il corso un attimo prima che l’irreparabile accada. La poesia (l’arte, il cinema) non più come fuga dalla realtà, ma come strumento per incidere sulla realtà. Autore nel senso forte della parola, Lee Chang-dong ha dato corpo, attraverso la sua filmografia, a un universo assai coerente che Poetry non fa che ribadire. In un saggio scritto prima dell’uscita di quest’ultimo film (che potete leggere in Marco Dalla Gassa, Dario Tomasi, «Il cinema dell’Estremo Oriente», Utet, Torino 2010, pp. 182-191) individuavo alcuni luoghi di passaggio che caratterizzano l’opera del regista sudcoreano. In primo luogo i suoi film tendono a concentrarsi su personaggi di intrusi, segnati da un drammatico passato. In Green Fish e Oasis , ad esempio, i due protagonisti ritornano, all’inizio del film, in seno a una famiglia che non li vuole più, e devono confrontarsi l’uno col frantumarsi del proprio gruppo familiare, avvenuto durante la sua assenza, e l’altro con le conseguenze dell’essere stato in prigione. Anche Mi-ja è un’intrusa, come dimostra, fra il resto, il suo rapporto con i padri dei compagni del nipote, colpevoli anch’essi di stupro: non solo lei è oggettivamente diversa da loro (è una donna e gli altri sono uomini, è una nonna e gli altri sono padri, è più anziana e non ha i soldi necessari a “compensare” la madre della vittima), ma ogni volta che si riunisce con loro se ne estranea, non partecipando alla discussione o addirittura andandosene. Il drammatico passato che segna la vita degli altri protagonisti dei film di Lee, in Poetry assume la forma di un drammatico futuro , rappresentato dall’incipiente morbo di Alzheimer. Un’altra caratteristica comune ai personaggi del regista è il loro essere “senza famiglia”, come la protagonista di Secret Sunshine , che ha perso il marito e il figlio, o come quello di Peppermint Candy , separatosi
anch’esso dai suoi cari. Non diversa è la realtà di Mi ja, come testimoniano l’assenza di un marito, cui mai si fa cenno, quella della figlia, che vive e lavora lontano, e il rapporto fatto di soli silenzi col nipote. Questa assenza di una vera famiglia spinge i personaggi di Lee a crearsene una artificiale, a entrare a far parte di un gruppo che li accolga e di cui possano sentirsi parte: la banda di gangster per il protagonista di Green Fish , la polizia per quello di Peppermint Candy , o il gruppo religioso per quella di Secret Sunshine . Una scelta analoga fa anche Mi-ja, quando entra a far parte della comunità degli aspiranti poeti. Ma anche lei, come gli altri personaggi di Lee, si troverà poi in attrito con tale nuova famiglia, come accade nella scena del ristorante, in cui la sua ingenua adesione alla poesia come bellezza è derisa dal giovane, affermato, e ubriaco poeta che le siede di fronte. Un altro tratto comune ai personaggi del regista è l’esistenza di un sogno che essi in qualche modo riescono a realizzare, a volte anche dopo la loro morte (come il ricomporsi della famiglia in Green Fish , o il ritorno alla purezza originaria in Peppermint Candy ). Anche Mi-ja realizza, come già abbiamo visto, il suo sogno: è lei l’unica fra i partecipanti del suo corso a scrivere una poesia; una poesia che riuscirà a sospendere nel tempo il suicidio della ragazza, in un epilogo che, come ancora accade molte volte nel cinema di Lee, più che chiudere il racconto in se stesso sembra aprirlo a nuovi e possibili destini.
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SILVIO FOREVER - AUTOBIOGRAFIA NON AUTORIZZATA DI SILVIO BERLUSCONI Roberto Faenza e Filippo Macelloni
Storia di un italiano di (s)fiducia Anton Giulio Mancino «Luce, duce, pagaci la luce. Re, re, pagaci il caffè!» (Marcello Mastroianni in Enrico IV di Marco Bellocchio)
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Non è facile occuparsi di un film che nell a migliore delle ipotesi – crediamo – darà maggiormente i suoi frutti tra qualche anno. Del resto è già successo. Sono trascorsi esattamente trentatre anni dall’uscita in sala di Forza Italia , che ha poi precorso l’impianto dei film di Michael Moore. Ed è evidente che Roberto Faenza abbia concepito Silvio Forever come un’opera gemella, anzi una prosecuzione ideale, cronologica, persino logica di Forza Italia . L’impianto discorsivo è lo stesso, non perché l’autore, che firma il film con Filippo Macelloni, non sia stato in grado di immaginarne uno diverso, nuovo, originale. Al contrario: l’impressione è che la ripetitività appena differenziata degli eventi, delle circostanze, dei ruoli in commedia abbia daccapo richiesto una modalità di racconto consimile, una struttura inveterata ma adeguata per un’inchiesta retrospettiva, la cui strategia forse oggi risulta persino più chiara, importante, utile di quanto non sia accaduto nel così lontano/vicino 1978. Certo è cambiato il tipo di rappresentanza su cui si concentra la rappresentazione stessa: dalla coralità immobile e sempre uguale dal 1945 al 1978 dello stato maggiore democristiano di Forza Italia si è passati in Silvio Forever alla singolarità di un presidente-padrone altrettanto inamovibile, perdurante, autoreferenziale dal 1994 a oggi. Donde la scelta di costruire il racconto come racconto inevitabilmente di sé, mito biografia, affidata alla voce del protagonista, voce simulata (di Neri Marcorè) su testi autentici (di Silvio Berlusconi). La differenza di vertice, tra un modello dominante di potere da prima repubblica in Forza Italia a uno impostosi successivamente, viene compensata in Silvio Forever dall’artificiosa propensione berlusconiana alla moltiplicazione, alla riproposizione, alla palingenesi di se stesso all’infinito. Ecco perché il “Forever” del titolo non suona né come una minaccia, né come una constatazione ras-
Regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni. Sceneggiatura: Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo. Montaggio: Riccardo Cremona. Con: Silvio Berlusconi, Rosa Bossi Berlusconi, Ugo Gregoretti, Roberto Benigni, Marco Travaglio, Noemi Letizia, Dario Fo, Indro Montanelli, Raimondo Vianello, Ambra Angiolini, Mike Bongiorno, Neri Marcorè (voce narrante simulata di Silvio Berlusconi). Produzione: Ad Hoc Film. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 85’. Origine: Italia, 2011. … e poi, col tempo, tutto ha cominciato a ruotare sempre più intorno a lui. Solo a lui. Ossessivamente a lui: Silvio Berlusconi. Che, comunque la si pensi, al di là dei meriti per cui lo osannano e dei demeriti per cui lo disprezzano, è uno strepitoso personaggio della commedia dell’arte, capace di offrire miriadi di spunti per una avventura cine- matograficamente immaginabile. Piaccia o non piaccia, nessuno è più rappresentativo dell’Italia di oggi quanto il Cavaliere. Destinato per le sue gesta, che mandano in delirio chi lo adora e fanno inorridire chi lo detesta, a rap- presentarci in patria e all’estero per molto tempo. Anche indipendentemente dalla tenuta del suo governo e dal s uo destino personale, che alcuni sognano al Quirinale, altri ai Caraibi… (sinossi dal sito ufficiale del film www.silvioforever.it )
segnata. Piuttosto rientra nell’ironia della sorte, che implica pienamente la consapevolezza dell’involontario protagonista del film, ma volontario protagonista della storia italiana dell’ultimo trentennio (senza contare il pregresso che il film non esclude come base politica, culturale, sociale e antropologica) a incarnare anche simultaneamente, a seconda dei casi, delle necessità, dei luoghi e delle circostanze, ogni sorta di personaggio concepibile: mimetizzandosi, egli maschera se stesso e nel contempo maschera di continuo la verità, ne ripropone la sostanza variando di volta in volta la forma, l’apparenza, sostituendosi da solo, con il proprio abile spirito trasformista, all’immutabilità collegiale di un ormai antico, ma non tramontato stampo democristiano. L’assolo prolungato e a senso pressoché unico di un Berlusconi mammone e libertino nello stesso tempo, bigotto per necessità, anticomunista fuori tempo massimo, tutto e il contrario di tutto, che crea senza contraltari credibili o stabili il suo popolo a immagine e somiglianza (a immagine e somiglianza dei suoi fantasmi, delle sue pulsioni, del suo immaginario pruriginoso, consumistico e edonistico), diventandone di conseguenza il leader incontrastato, equivale oggi a quella che fu la recita collettiva della congrega assortita dei comprimari dell’élite democristiana. Questo aspetto cangiante ma in sostanza, sotto mentite spoglie, fisso del protagonista assoluto e pluridecennale italiano consente a Faenza di inaugurarne il decorso del suo ultimo film, come in Forza Italia , con l’alba repubblicana, devozionale, vitellonesca, pronta alla massificazione gaudente e al miracolo economico. La storia italiana si rispecchia ed è rispecchiata da un fenomeno esemplare, modulare, riproducibile: il berlusconismo, prima, durante e probabilmente dopo Berlusconi medesimo, inteso come paradigma autoreferenziale e collettivo senza soluzioni di continuità. Ragion per cui le qualità seminali di Silvio Forever risulteranno probabilmente più apprezzabili, come si suol dire in gergo sportivo, “sulla distanza”. Anche Forza Italia , al di là dell’ostilità manifesta, della carica dirompente, provocatoria, antidemocristiana di allora, con il passare del tempo ha guadagnato efficacia, offrendosi sempre più come documento storico puntuale, strumento conoscitivo preciso. Più austero e meno goliardico di quanto non fosse (apparso) nel 1978. Un progetto estetico coerente e distanziato che, però, aveva bisogno in quel momento di sedimentarsi, di essere elaborato lucidamente da parte degli spettatori, dei critici e della classe politica del tempo: di quella giusta distanza, di strumenti e capacità di lettura che tornano oggigiorno a mancare, per ragioni altrettanto comprensibili, di fronte a Silvio Forever . Detto altrimenti, l’ultimo film di Faenza risente (pur)troppo dell’effetto presente di saturazione, della sovraesposizione mediatica del personaggio Berlusconi.
Gli spettatori italiani, a qualsiasi livello di consapevolezza, appartenenza culturale e politica, non sono nelle condizioni di rapportarsi a questo progetto cogliendone, qui e ora, lo spessore. Lo dimostra l’atteggiamento contenutista, ugualmente strumentale sui due fronti contrapposti, che ha accompagnato l’uscita in sala del film, la visione, il dibattito pubblico. L’impressione è che, sommersi di immagini di ogni tipo del premier, questo film non differisca tanto da una qualsiasi antologia, da una puntata di «Blob» (non va dimenticato che anche a Moore, diretto erede di Faenza, in Italia è stato ugualmente rimproverato di non aver fatto granché di più di una delle tante puntate del varietà «Le iene»), da una delle quotidiane sintesi che persino un telegiornale riconsegna a quella opinione pubblica assuefatta, critica, consenziente, indignata. Lo spettatore italiano, che oggi coincide con il telespettatore, reagisce a Silvio Forever credendo di aver già visto tutto, di sapere già tutto, se non di più. Molte recensioni o interventi a vario titolo, tiepidamente, riconoscono al film un valore direttamente proporzionale a un bagaglio conoscitivo pregresso, individuale, indipendente dal film stesso. Come se Silvio Forever fosse esattamente ciò che ciascuno ritiene che sia, che dica. E vi si possa leggere esattamente ciò che c’è dentro, quantitativamente. Lo si interpreta in relazione a ciò che già si pensa. Si cerca, di conseguenza, nel film conferma delle proprie convinzioni, pro o inevitabilmente contro il personaggio Berlusconi. Ammesso e non concesso che Faenza l’abbia concepito per prestarsi al “gioco delle parti” o del “come tu mi vuoi”, speculare e parallelo all’atteggiamento camaleontico dello stesso protagonista onnipresente, Silvio Forever rischia di ridursi a semplice supporto dell’esistente, di un dibattito pseudo politico che si trascina, ripetitivo e sempre più stanco, di talk show in talk show . Invece, al di là di qualsiasi connotazione immediata, contingente, italiana, il film di Faenza è un oggetto che ha, avrà bisogno di tempo per essere identificato appieno, interpretato, compreso profondamente. Non è nemmeno un caso che quasi sempre nelle trasmissioni televisive a parlarne siano stati chiamati non i registi Faenza e Macelloni ma, in qualità di sceneggiatori-autori, i giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Non dimentichiamo che quest’ultimo aveva già curato l’introduzione del volume che accompagnava la riedizione in dvd di Forza Italia . Né che già Forza Italia era stato scritto da due giornalisti, Antonio Padellaro e Carlo Rossella, oggi inimmaginabili all’interno di un progetto comune. A riprova di come di Silvio Forever interessi, per ora, l’esclusiva componente giornalistica, di come venga preso in considerazione per le cose che dice o si vorrebbe che dicesse, in una fase diuturna e congiunturale in cui, peraltro, gioca a svantaggio della lucidità criti-
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ca l’eccesso e non il difetto di quote informative, di notizie clamorose, cui lo stesso premier contribuisce concedendo – forse con chiara cognizione di causa, lascia intendere il film, che infatti è costruito sull’imbarazzo della scelta dei materiali di repertorio – quotidianamente nuovi spunti, nuove esternazioni. Mettendo cioè sempre più carne, in tutti i sensi, a cuocere. Silvio Forever , con buona pace di fraintendimenti o di considerazioni mirate e di convenienza, esprime sin dal titolo questa cognizione del problema, l’entità del problema, che è di portata storica. L’aspetto esplicitamente auto-promozionale del personaggio centrale, pressoché unico, venditore incontenibile di se stesso, che riduce tutti gli altri al rango di comparse, figure confinate sullo sfondo, sostenitori e detrattori, corrisponde per certi versi a una logica che potrebbe essere riassunta da una nota campagna pubblicitaria della telefonia mobile secondo la quale più si chiama l’utente e più la scheda si ricarica. Per poter esserci sempre e comunque, Berlusconi ha bisogno di essere chiunque, essere uno qualunque, essere dappertutto e comunque. Ragion per cui, sin dal principio, il Faenza scopre le carte. Infatti la sequenza dei titoli di testa esibisce un modello di famiglia o di clan allargato in cui ogni membro è un sosia del premier di lunga durata: uomini, donne, bambini, anziani, genitori, figli, parenti di ogni tipo, hanno il volto di Silvio
Berlusconi, come in Essere John Malkovich di Spike Jonze (salvo che lì si trattava di un incubo immaginario, di una visione psichica della realtà, qui di realtà tout court ). E Silvio Berlusconi medesimo rilancia, sta al gioco, conduce e si fa condurre dal gioco cercando, contro ogni buon senso, contro ogni remora, misura o forma di contegno, di dichiarare, millantare di aver preso parte a tutti i passaggi chiave della storia repubblicana (lo conferma il ricorso indiretto ma pertinente in Silvio Forever di stralci di cinegiornali dell’Istituto Luce). Sostiene di aver fatto tutto lui, in qualsiasi momento, sfidando qualsiasi condizione concepibile, mentendo sistematicamente: all’italiana. In virtù di un principio della conoscenza appiattita su un presente mediatico usa e getta, in cui solo la successione insensata di cose dette e smentite, poi riaffermate e nuovamente smentite, vanificando anche il principio di non contraddizione, introduce un fattore di trasformazione, per non dire di mutazione, non tanto politica, sociale e culturale, quanto addirittura antropologica. In questo Silvio Forever è molto vicino a Videocracy di Erik Gandini, altro film poco favorito dalla sovraesposizione incessante di notizie sempre più aggiornate, sempre più incredibili e nondimeno digerite, metabolizzate. Su una comune base di materiali di repertorio disponibili su cui non c’è che l’imbarazzo della scelta, e che in Silvio Forever
equivalgono all’intero spazio della rappresentazione, mentre in Videocracy fanno parte di uno schema intermediale, l’effettivo quadro complessivo trascende i confini, anche nazionali, del racconto storico come dell’inchiesta giornalistica, per suggerire altro: una visione d’insieme ai limiti della fantascienza distopica, che sociologicamente allude a un avvenire sconcertante, prefigura uno scenario prossimo venturo che è però già presente. Ancora una volta ci sembra questa la chiave più emblematica della seconda parola del titolo, quel “Forever” che fa seguito automaticamente al nome proprio del protagonista-paradigma,“Silvio”, deprivato del cognome in quanto riferito a un personaggio collettivo indistinguibile dalle ragioni favorevoli o contrarie. Il Silvio nazionale ha autorizzato la confidenza nei suoi confronti da parte dell’italiano medio, generico, comune. Il “tu” dato a chiunque diventa il “tu” confidenziale assegnato al premierpadrone. Anche rispetto a Il Caimano di Moretti, che enunciava a parole il problema per bocca dello stesso regista (nel ruolo di un suo possibile se stesso, salvo poi visualizzarne le estreme, gotiche conseguenze nel finale, sospeso tra realtà e finzione), la scelta compiuta in Silvio Forever di far rivedere e risentire tutto ciò che si crede di aver già visto e sentito troppe volte, permette di interrogarsi sul grado perverso di assuefazione all’amico/nemico che, come un anfitrione occulto, a latere o eccessivamente palese di un decorso storico ultradecennale, ha condizionato, ipotecato, costruito un mondo come un mad doctor di fantascientifica memoria, un Mabuse moderno, un mostro di una categoria “mostruosa” da commedia (all’)italiana: una figura che sembra uscita da un vecchio film di Risi o Monicelli, un novello Sordi plurivalente e prismatico che, infine, ha potuto rimettere assieme tutti i suoi sketch, i suoi personaggi più celebri, le sue parti in commedia e ricavare un film di montaggio che potrebbe durare ore e ore, svilupparsi orizzontalmente a tempo indeterminato. Il noto programma-omaggio di Alberto Sordi e Giancarlo Governi si intitolava infatti «Storia di un italiano». Di “un italiano”, dunque, non di un attore, quell’attore, Sordi, o della galleria di personaggi sordiani. Proprio come Silvio Forever , emblematica, ideale copia di quel film antologico (cui abbiamo nel titolo di questo intervento aggiunto parte di quello indovinato di un racconto di Tullio Kezich, sul cinema: «L’uomo di sfiducia»). Solo che, allora, l’italiano rappresentato era un prodotto cinematografico, umoristicamente verosimile; ora è un commediante vero. Anche perché, come i padri della commedia italiana hanno spesso sostenuto, i loro mostri o mattatori erano scomparsi dagli schermi, si erano resi non più proponibili se non tristemente, tragicamente e malinconicamente, in quanto nel frattempo “nuovi”, altri, veri “mostri” avevano inva-
so la vita pubblica, si erano materializzati come maschere non riproducibili di una farsa reale. Perché mai una certa commedia d’autore, dopo aver tenuto banco dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, cambia pelle, si trasforma, termina proprio tra la metà e la fine degli anni Settanta? Perché da questo momento le commedie cominciano a far meno ridere, a diventare più canagliesche, cattive, cupe e persino più volgari? La risposta, prefigurata da Faenza nei suoi saggi pubblicati in volume, poi in Forza Italia , sul versante della non-fiction, e in Si salvi chi vuole , su quello della fiction, andava ricercata nel potere delle immagini mediali e nell’avvento delle tv private, quindi lungo la strada che avrebbe condotto quel sintomatico padronecommediante in carne e ossa a proseguire in modo compulsivo la tradizione della commedia cinematografica nella realtà. Una realtà che per eccesso ripetitivo di visibilità, non per difetto, per questa capacità di armonizzarsi con le menzogne e il menzognare italiano appare oggi un drammatico déjà vu sordiano. O risiano, monicelliano. Né con il senno di poi c’è da sorprendersi più di tanto se quello che nel 1978 era stato scelto come titolo irrisorio di un film anti-democristiano, Forza Italia , sia diventato il nome del partito del protagonista di Silvio Forever . Che perciò, come si diceva all’inizio, è in tutti i sensi la fisiologica, cronologica, logica prosecuzione testimoniale del precedente film di Faenza.
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Il giusto prezzo Giacomo Manzoli
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Dopo almeno un secolo che se ne parla, ancora non è dato sapere se esista davvero quella cosa che si è soliti chiamare “spirito del tempo”. Lo Zeitgeist , quella strana comunanza di sentire e pensare fra persone completamente scollegate fra loro, che sconfina nelle suggestioni psicomagiche che Jung definiva “sincronicità” e che da Richard Dawkins in poi ha preso la strada della cosiddetta memetica. Che siano le cose distanti ad assomigliarsi o che sia l’occhio tendenzioso dell’osservatore a cogliere e dare significato a elementi solo casualmente convergenti, poco importa. Alla fine, ciò che conta sono le relazioni che i soggetti instaurano con i singoli oggetti o con gruppi di essi, associati in maniera sempre più arbitraria, nel disperato tentativo di ricavare un senso dal flusso incontrollato delle informazioni e delle sensazioni. Ad esempio, può capitare di trovarsi perturbati dalla visione, in un periodo relativamente ravvicinato, di due film che più distanti fra loro non potrebbero essere. Il primo è un film americano, realizzato dai due maggiori talenti del cinema contemporaneo, remake di un western così crepuscolare da poter essere letto come un anti western o un sous-sous-western , per rifarsi a una definizione classica. Cinema narrativo di finzione, Global Hollywood, frontiera e sparatorie che si dissolvono nella fiaba e nel romanzo di formazione. Il secondo è un film che la critica ha definito “docu-fiction”.Di certo un film local , che affronta il più inspiegabilmente italiano dei fenomeni della triste storia nazionale recente, mettendo assieme materiali d’archivio raccolti da due dei maggiori giornalisti del momento (Stella e Rizzo) e assemblati assieme da un regista discontinuo e bizzarro, portato a essere dialetticamente permeabile dalle influenze del contesto internazionale (Faenza). Ma è proprio la distanza siderale che separa Il Grinta da Silvio Forever , distanza geografica, produttiva, forse perfino ideologica, estetica e strutturale a rendere interessante un tratto comune, un fenomeno che siamo riusciti a concettualizzare grazie a una intuizione di Elisa Battistini («Il Fatto Quotidiano») nella sua recensione al film dei Coen Bros.: «I protagonisti sono impegnati in estenuanti contrattazioni. Mercanteggiano su tutto e non esiste accordo che non passi per un lungo negoziare dialettico, di cui Mattie è incontrastata regina».In effetti,gli speach acts del film sono per la stragrande maggioranza atti che riguardano il contrattare, mercanteggiare, negoziare. Non c’è relazione fra i personaggi che non sia mediata dai meccanismi che attengono all’attribuzione di un valore prettamente economico (valore di scambio). Detto in altri termini, non c’è una sola azione gratuita fino al compimento dell’inte-
ra parabola, laddove il diavolo (il serpente) si presenta a reclamare il prezzo della vendetta compiuta e Jeff Bridges interviene a strappare un prezzo vantaggioso per quella che – nel frattempo – è diventata la sua protetta (un braccio in cambio di una vita, l’ultimo “affare”di una ragazzina troppo agguerrita). Si negozia la restituzione di un cavallo, il costo della sella, un posto letto assieme a una insopportabile compagna; una prestazione lavorativa, una cooperazione, i cadaveri, presi per intero o smembrati per componenti (come fossero aziende in fallimento: e per ben due volte).Si negoziano le modalità di pagamento, i termini delle prestazioni, una resa, la giustizia, un accordo, un’amicizia, il rischio della vita, la vita stessa. Questa ossessione commerciale/negoziale afferma una coincidenza assoluta fra economia e politica che produce un’atmosfera bellica latente, e umilia componenti della vita relazionale come la fiducia, lo slancio spontaneo, la simpatia, l’empatia e la convinzione fini a se stesse, soprattutto un sistema organico e gerarchico di valori (dove il valore d’uso e quello di scambio siano almeno bilanciati da una scelta di carattere umano). Questo spirito apparentemente weberiano è la cifra della frontiera e della wilder- ness , qualcosa di profondamente arcaico, e saremmo portati a considerarlo premoderno, se non fosse che lo ritroviamo identico in un film che racconta una storia iniziata – di fatto – nel secondo dopoguerra, e narrata con un tempo che somiglia “ present perfect ”inglese (geniale definizione di un passato che non vuole smettere e continua a insistere – come un destino – sul presente). Silvio Forever è infatti narrato in prima persona da un personaggio che sta a metà fra il Pinocchio di Collodi (il bugiardone irresponsabile) e quello di Fellini (il Casanova) ma che è anche una specie di piccolo eroe alla Roald Dahl. Un bambino allevato da una banca, si diceva di Charles Foster Kane di Orson Welles, ma in questo caso è un bambino che pare partorito direttamente dalla fantasia malata di una schiera di economisti britannici. Un bambino che negozia su qualunque cosa e su qualunque cosa commercia. Non è un “olividado”, non vive in una discarica ma nelle case della piccola borghesia, eppure si aggira come il protagonista di Germania Anno Zero per un paese povero e devastato in cerca di carta e di ogni tipo di rimasuglio (restituire valore agli scarti, rivalutare) per poterne ricavare un profitto. Profitto che ritroviamo come ossessione dominante in ogni sua attività: quando fa i compiti finisce in fretta per poter vendere il tempo di studio rimasto (plusvalore?) ai compagni in difficoltà, con la garanzia di rimborso se non saranno promossi. Così all’Università, dove la sua principale preoccupazione è redigere appunti così appetibili da
poter essere rivenduti sul mercato clandestino del sapere ridotto e standardizzato il giorno stesso in cui l’esame è stato verbalizzato. Perfino il rapporto con la creatività simbolica tipicamente giovanile (la musica) è sottoposto alle medesime procedure e si traduce nel suonare in crociera, dove si giunge alla perfezione: pagato per cantare, ovvero per esprimersi, fare le vacanze e accoppiarsi, tutte attività che lui compie in modo ossessivo e dimostrativo, privilegiando costantemente la dimensione del riconoscimento (formidabile la foto che lo ritrae mentre mostra i muscoli, in stile Maciste) a quella della“cura di sé”, dell’arricchimento interiore, dell’armonia e della qualità della vita. Così sarà per tutto: lo sport, l’intrattenimento, il matrimonio, la paternità, l’identità nazionale, la sessualità, perfino la morte. Non c’è dimensione dell’esistenza che il piccolo eroe non converta nel comune denominatore del valore di scambio per ridurla a possibile oggetto di contrattazione e profitto. Se è vero che lo spirito del capitalismo borghese nasce nella Firenze del Boccaccio, con Andreuccio da Perugia che finisce nella merda per tre volte e per tre volte risorge, recuperando il suo tesoro e traendone un vantaggio, possiamo dire che il principio trova una sua sinistra e parossistica sublimazione in questa figura patetica, tragicomica, e nel suo grottesco anti-esistenzialismo, che fa persino del vitalismo tipico della sua “classe”e del suo tempo una specie di ansiogena caricatura, talmente reificata da divenire, appunto, mortuaria. Nella merda, letteralmente, questo mutante che pare geneticamente modificato dalla Umbrella Corporation, nella merda ci sta benissimo, e
anzi, troverà certamente il modo di farla fruttare con termovalorizzatori immaginari o altre diavolerie. La Mattie del Grinta , per la sua sete di vendetta e la sua formidabile ossessione negoziale paga un prezzo altissimo. La perdita del braccio destro, e con essa la prospettiva di una vita “normale”, e resterà per sempre malinconicamente legata al filo di quell’affetto gratuito e disperato con cui il feroce ma elementare Rooster Cogburn scende all’inferno per strapparla dalle mani del demonio. Il giovane Silvio, invece, pagherà con la perdita di qualsiasi residuo di dignità e umano rispetto la sua adesione (in)condizionata alla legge innaturale e diabolica del mercato totale, in base alla quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto può e deve essere fonte di profitto. Il mercato globale in un’epoca di crisi – sembrano dirci questi due film legati assieme e letti uno alla luce dell’altro (ma altri film recenti si potrebbero collegare al medesimo discorso: Devil di John Erick Dowdle, Non lasciarmi di Romanek, Buried di Cortes e perfino geniali cartoons come Cattivissimo Me e Megamind ) – somiglia tremendamente al paleocapitalismo selvaggio nella sua fase aurorale come lo descrivono i vari filosofi neomarxisti, da Badiou a ˇ Zizek, ˇ da Laclau a Bauman a Negri e Hardt e tanti altri. Più le frontiere diventano porose ed evanescenti e più si ripresenta un paradossale spirito della frontiera, che domina la mente e il cuore dei nostri attuali e vecchissimi governanti. «Sleeping in the Devil’s Bed», come cantava Daniel Lanois, non è una bella cosa e speriamo di svegliarci in fretta, prima che venga chiuso il coperchio del sarcofago di Arcore.
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NON LASCIARMI Mark Romanek
La sostanza e la forma Pier Maria Bocchi
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Nella seconda metà degli anni Sessanta e per buona parte dei Settanta, un film come Non lasciar- mi sarebbe stato THX 1138 . O anche Soylent Green . O Logan’s Run . Era la fantascienza sociologica, quella impegnata “nel civile”, quella che elaborava l’inquietudine dell’epoca attraverso un genere e delle coordinate spazio-temporali ben precise; la fantascienza verisimile , verrebbe da dire, che prendeva le mosse da tematiche urgenti e à la page (il sovraffollamento, il capitalismo, l’esercizio del potere, l’annullamento dell’identità individuale) per costruire un panorama di desolazione, schiavitù e morte sulla Terra che servisse da monito. Si trattava di un filone legato a doppio nodo a quello della fantapolitica, ben più che alla fantascienza vera e propria di 2001: A Space Odyssey . I film di Lucas e di Fleischer erano l’altra faccia di Klute e di The Parallax View , la faccia che distorceva le impalcature del sistema in una visione apocalittica, orwelliana. Era un genere molto praticato sia dai block- buster , sia dagli investimenti più ridotti. Il mercato americano non ne aveva l’esclusiva, però: l’Italia, ad esempio, produceva La decima vittima e i pamphlet di Agosti, mentre in Gran Bretagna Peter Watkins, per dirne uno, diceva la sua. Ma è un genere che in particolare ogni fan e studioso della New Hollywood che si rispetti non può sottovalutare (e non amare) per capire l’evoluzione di un’industria e la realtà di quelle cose. Non c’erano solo Easy Rider e i drammi esistenzialisti di Bob Rafelson. Che effetto fa oggi un film come Non lasciarmi ? Un film che termina con Carey Mulligan che aspetta la sua ora davanti a un orizzonte bellissimo, un po’ come nel finale di Soylent Green Edward G. Robinson si abbandonava alla morte con le immagini della bellezza perduta e dimenticata, un fiore, l’acqua, il sole, cura Ludovico al contrario? Un effetto che turba un po’, e che lascia più depressi di quanto si è abituati. Ossia: va bene assistere alla fine del mondo come la descrive 2012 , cioè proprio come la si immagina e come ci hanno insegnato a
Titolo originale: Never Let Me Go. Regia: Mark Romanek. Soggetto: dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro. Sceneggiatura: Alex Garland. Fotografia: Adam Kimmel. Montaggio: Barney Pilling. Musica: Rachel Portman. Scenografia: Mark Digby. Costumi: Rachael Fleming, Steven Noble. Interpreti: Carey Mulligan (Kathy), Andrew Garfield (Tommy), Keira Knightley (Ruth), Isobel Meikle-Small (Kathy da piccola), Ella Purnell (Ruth da piccola), Charlie Rowe (Tommy da piccolo), Charlotte Rampling (la signorina Emily), Sally Hawkins (la signorina Lucy), Kate Bowes Renna (la signorina Geraldine), Mathalie Richard (Madame), Andrea Riseborough (Chrissie), Domhnall Gleeson (Rodney), Hannah Sharp (Amanda), Christina Carrafiell (Laurs), Oliver Parsons (Arthur), Luke Bryant (David). Produzione: Alex Garland, Andrew MacDonald, Allon Reich, Richard Hewitt per Dna Films/Film4/Fox Searchlight Pictures. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata: 103’. Origine: Gran Bretagna, 2010. Kathy , Tommy, e Ruth trascorrono l’infanzia nel colle- gio inglese di Hailsham, un luogo apparentemente idillia- co, dove scoprono un segreto oscuro e angoscioso riguar- dante il loro futuro. Quando si lasciano alle spalle il rifu- gio del collegio e si avviano inesorabilmente al destino sconvolgente che li attende da adulti, essi devono anche confrontarsi con i profondi sentimenti di amore, gelosia e tradimento che rischiano di dilaniarli. (dal pressbook del film )
immaginarla (bravi e cattivi maestri, religioni e credo), va meno bene una realtà che ha tutte le sembianze della nostra realtà, che non ha vulcani che eruttano e strade che si squarciano e arche di Noè, una realtà quotidiana, di scuole e ospedali, che parla di ragazzi e di ragazze programmati per morire, non cyborg dalle fattezze umane, bensì adolescenti in carne e ossa la cui vita è destinata a interrompersi poco dopo aver raggiunto la maggiore età. Non c’è nemmeno più quel côtè fantapop di quarant’anni fa, quando si pensava al futuro con gli abiti a mezza via tra il modernariato artistico e l’astrattismo surreale: Non lasciarmi copre le epoche come potrebbe farlo un film di James Ivory. Il paradosso sta esattamente qui, nello scontro inammissibile tra un argomento fantasociologico (ma in fin dei conti neanche tanto fanta ) che turba e uno stile rigoroso ed entomologico, distaccato e neutro, che si permette di svolazzare soltanto con le musiche spesso ingombranti dell’ormai anacronistica Rachel Portman. Romanek parla di cloni, ma ne parla con i modi e l’interesse che Ivory dimostra per il galateo e le tazzine da tè delle sue classi in costume. Già soltanto il paragone è paradossale, me ne rendo conto, però credo possa rendere l’idea di un film che coi tempi che corrono mette a disagio più per la forma che per la sostanza (la voglia di scomodare nientemeno che Tolstoj e il suo «Che cos’è l’ar-
te?» è forte, ma lascio stare). Insomma, oggi per mettere in scena i replicanti si ricorre alla spettacolarizzazione hollywoodiana di The Island (o, quando va decisamente meglio, di Il mondo dei replican- ti ), non certo a uno stampo da prodotto apparentemente d’essai e autoriale. Ma che autore c’è dietro Non lasciarmi ? E, di riflesso, che tipologia di film c’è? È un caso che il romanzo porti la firma di Ishiguro Kazuo, che scrisse anche le pagine di quel «The Remains of the Day» da cui Ivory trasse il film omonimo? Forse sì. O forse no. Mai avrei pensato di occuparmi dell’immaginario del regista californiano, eppure non riesco a non ipotizzare una somiglianza di atmosfere e oserei dire di risultati tra questo film di Romanek e quel film (ma non quel film soltanto) di Ivory. Per raccontare della contemporaneità, Non lasciarmi non ha bisogno né di guerre, né di terrorismo; non ha bisogno della suspense , della tensione per l’ignoto (sebbene atteso). Non ci sono pacchi bomba o attentati. E non ci sono d’altronde trame politiche o truffe più o meno organizzate. Ciò che accade è un “fatto quotidiano”, un evento della vita come lo può essere fare colazione la mattina o dormire la notte. Nascere, crescere e morire giovanissimi, dopo aver donato un paio d’organi, è normale . Tutto secondo le regole, la legge di Stato e le decisioni del governo, per giunta, alla larga dal mercato nero. Nessun inte-
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resse mediatico, perché l’essere dentro la notizia è una condizione straordinaria, una tantum . Con una metafora fantasociologica, Non lasciarmi fa vedere a che punto è arrivato il mondo con un’impassibilità simile a quella che dimostrava il maggiordomo di The Remains of the Day nei confronti di ciò che avveniva nella tenuta di Darlington Hall, compresa la Storia. Per mezzo di cloni, ma senza mostrare mai i cosiddetti Originali, Romanek mette in scena una società che educa e prepara a morire fin dalla tenera età. Le intenzioni sono encomiabili ma senz’altro non nuove, perlomeno non col cinema odierno più “impegnato” (al di là di ipocrisie varie) a rappresentare e mettere all’indice la corsa verso la distruzione, film di guerra prima di tutto. Risulta inconsueto invece il “quadro generale”, nel quale gli afflati mélo vengono schiacciati da un determinismo metodico che non ha niente di celebrativo. Difficile scambiare Non lasciar- mi per un funerale dell’identità officiato con tutti gli onori: il senso simbolico, solenne e definitivo, contrasta con una forma di severità soltanto raramente incrinata dalla sottolineatura musicale (e dalle due esplosioni di rabbia speculari di Tommy). Romanek adopera uno stile che oggi per le major è decisamente rischioso, quando non addirittura improponibile. Guardate come risolve un momento che è chiaramente la classica “scena madre” con rivelazione “a sorpresa”, l’incontro di Kathy e
Tommy con la madame che dovrebbe accordare loro la dilazione: un dialogo spiccio, una sola battuta a effetto («Non avevamo la Galleria per guardare dentro le vostre anime. Avevamo la Galleria per sapere se ne avevate una, di anima»), sguardi rassegnati, la distruzione dell’illusione e la consapevolezza delle rispettive posizioni prima suggerite tra le parole e poi sintetizzate con una frase lapidaria («Non ci sono dilazioni, non ci sono mai state»). Le esequie della persona trovano un contegno che sarebbe cinico se non fosse per l’estrema tragicità di una catastrofe senza auto che esplodono, o aerei in picchiata suicida, o ghiacciai che si sciolgono. È come se questi ragazzi andassero alla guerra senza farla e quando essa non c’è. Un salto nel vuoto senza paracadute, condiviso e legalizzato. D’altronde, se non è guerra (con se stessi, col mondo) quella che induce una diciottenne a cercare il proprio Originale (ciò che le ha dato la vita) tra le pagine di una rivista pornografica, allora cos’è? Il risultato è il medesimo: la sconfitta di ogni speranza, l’annientamento della dignità, l’inevitabile mancanza di una risposta, il nulla . Al pari degli umani che in THX 1138 venivano identificati con una sigla e a cui venivano proibiti i sentimenti, o di quelli ai quali in Logan’s Run si prometteva la rinascita con la morte imposta al compimento dei trent’anni. Ecco, the remains of man , quel che resta dell’uomo.
BORIS - IL FILM
Giacomo Ciarrapico | Mattia Torre | Luca Vendruscolo
Dopo la tv c’è il cinema, dopo il cinema la radio e poi la morte Chiara Boffelli Chi ha detto che la televisione fa male alla cultura? Ogni volta che qualcuno l’accende, io vado in un’altra stanza a leggere un libro». (Groucho Marx) «
Caso più unico che raro in Italia: una serie televisiva diventa un film. Se del processo inverso ci sono ormai diversi casi interessanti e fortunati (Romanzo criminale di Michele Placido e Romanzo criminale – La serie di Stefano Sollima; Quo vadis, baby? di Gabriele Salvatores e la miniserie di sei puntate diretta invece da Guido Chiesa), passare dalla televisione al cinema non è un processo nè scontato nè garantito. Diverso linguaggio,diverso formato, diverso ritmo, diverso pubblico, diversa fruizione… Eppure Boris ce la fa, funziona, eccome se funziona. Qual è l’idea per reggere la prova in sala e per non tradire gli spettatori di una serie divenuta ben presto un cult? Forse una sceneggiatura robusta, attori capaci e perfettamente calati nel ruolo, la riproposizione di tutti gli elementi che il pubblico ha conosciuto nella serie e che quindi si aspetta, la capacità di non fare un “puntatone” della serie e trasformare un format televisivo in uno cinematografico? Probabilmente sì, ma andiamo con ordine…
LA SERIE Nasce tutto nel 2005, con la puntata pilota, dal titolo «Sampras», presentata alla Festa Internazionale del Cinema di Roma nel 2006 nella sezione Extra. La serie televisiva, prodotta dal 2007 al 2010 da Wilder per Fox Italia e trasmessa prima da Fox e poi da FX, e dal 2009 anche in chiaro sul canale del digitale terrestre Cielo, porta in scena il dietro le quinte di un set televisivo nel quale si sta girando la soap «Gli occhi del cuore 2». La serie non è stata trasmessa in chiaro per quasi tre anni e non ha mai avuto alcuno spazio sulle reti principali: è stato con il passaparola che è diventata un cult , soprat-
Regia e sceneggiatura: Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo. Fotografia: Mauro Marchetti. Montaggio: Massimiliano Feresin. Musica: Giuliano Taviani, Carmelo Travia. Scenografia: Michele Modafferi. Costumi: Fiorenza Cipollone. Interpreti: Francesco Pannofino (Renè Ferretti), Caterina Guzzanti (Arianna Dell’Arti), Alessandro Tiberi (Alessandro), Ninni Bruschetta (Duccio Patanè), Paolo Calabresi (Biascica), Pietro Sermonti (Stanis), Antonio Catania (Diego Lopez), Alberto Di Stasio (Sergio), Carolina Crescentini (Corinna), Carlo De Ruggieri (Lorenzo), Roberta Fiorentini (Itala), Luca Amorosino (Alfredo), Rosanna Gentili (Marilita Loy). Produzione: Lorenzo Mieli, Mario Gianani per Wildside/Rai Cinema/Sky Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 108’. Origine: Italia, 2010.
Ci sono scene troppo brutte perfino per un regista televisi- vo: uno struggente rallenti sulla corsa nei prati di un gio- vanissimo Joseph Ratzinger che festeggia la scoperta di un vaccino è troppo anche per René Ferretti. E sì che di mon- nezza ne ha girata tanta, narcotizzanti apologie del presen- te, inquietanti biografie di santi e tante altre ancora. E allora basta. Meglio l’insicurezza economica, meglio il cinema. Meglio tradire tutti – la Rete, la moglie in attesa di alimenti, la impresentabile storica troupe – e buttarsi nel cinema. Tanto più se la sfida è un copione libero, serio, forte, di denuncia, “alla Gomorra”. Purtroppo però, anche con un progetto “alla Gomorra”, bisogna fare i conti con la palude culturale che tutto ingloba. I committenti del salot- to buono del cinema si rivelano, alla prova dei fatti, solo diversamente codardi. I nuovi collaboratori solo diversa- mente inaffidabili. E la presunta grandeur del cinema una rogna senza fine. Come per una condanna divina, nono- stante i suoi lodevoli sforzi, René Ferretti si ritrova tra i piedi la stessa troupe scalcinata di sempre, gli stessi attori cani, gli stessi sceneggiatori inetti e perfino lo stesso borio- so capetto d’un tempo …
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tutto tra gli spettatori più giovani, un passaparola che si è subito dilagato in Internet, su YouTube, dove il pubblico ha potuto vedere tutte le tre stagioni (quattordici puntate l’una). È stato il web a decretarne il successo, con la nascita di blog, pagine sui social network e siti dedicati (ad esempio www.borisitalia.it, completissimo di tutte le informazioni, curiosità e segreti della serie, e che addirittura ospita i siti delle varie soap e fiction citate nella serie – «Gli occhi del cuore», «Troppo Frizzante», «Machiavelli» e «Medical Dimension»). La regia della prima stagione è di Luca Vendruscolo, a cui si affiancano Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre per la seconda stagione. La regia della terza stagione è di Davide Marengo. Protagonista della serie è una scalcinata troupe televisiva, capitanata dal regista Renè Ferretti e dalla sua assistente Arianna; insieme a loro l’aiuto regia Alfredo, il direttore della fotografia con problemi di dipendenza dalle droghe Duccio, l’irruento elettricista Biascica, la sfaticata segretaria di edizione Itala e i due stagisti: Alessandro e Lorenzo “lo schiavo”. Con loro il delegato di produzione Sergio e il delegato di rete Diego Lopez. Immancabili le star: Corinna, la “cagna maledetta”, lo sfrontato e viziato Stanis La Rochelle, Cristina Avola Burkstaller e Karin “le cosce”. C’è un’idea forte alla base: quella di raccontare – decostruendo e destrutturando – con satira pungente, il dietro le quinte della produzione televisiva italiana, la bassa qualità imposta nelle fiction (la rete esige di usare un’illuminazione di scarsa qualità, sovraesposta, inferiore a quella che si vede in pubblicità, per evitare che il pubblico cambi canale durante gli spot), i mali della tv, i suoi
peccati, le raccomandazioni,le vessazioni contro il personale, il rapporto tra televisione e potere, con riferimenti all’attualità e personaggi politici… In fin dei conti lo specchio dell’Italia di oggi. Un vero e proprio grido di disperazione contro la volgarità esasperata, lo squallore della quotidianità dentro e fuori lo schermo, la rassegnazione al brutto, l’impotenza di chi vuole cambiare lo stato delle cose, i privilegi e le prevaricazioni. Boris diventa una finestra che ci permette di penetrare nei retroscena della tv generalista, scoprirne i segreti e le regole del gioco, andare a fondo della mostruosità che ci affligge e forse, amaramente, accorgerci che nulla potrà mai cambiare.
LA NASCITA DEL CULTO Quali sono stati gli elementi principali del successo di Boris ? Che cosa lo ha reso un cult ? La ripetitività del format è certamente alla base, perchè stimola la memoria dello spettatore, lo rassicura e lo prepara all’episodio successivo, creando aspettative e attese. Le variazioni e le novità apportate in ogni puntata appagano lo spettatore, che ritrova la conferma a tutte le sue aspettative ma, allo stesso tempo, un qualcosa di unico, nuovo e irripetibile, una novità che lo può stupire ed emozionare. Boris ha saputo giocare bene con la serialità – stesso cast, stesse scenografie, stessa macro-storia – apportando, però, infinite variazioni al tema, allenando, in questo modo, il pubblico a ogni minimo cambiamento, favorendone continuamente stupore e trepidazione. Tra gli stra-
tagemmi utilizzati dagli sceneggiatori c’è sicuramente l’inserimento, all’interno di un cast artistico “stabile e rassicurante”, di numerosi camei e apparizioni di personaggi celebri: Corrado Guzzanti (l’indimenticabile Mariano Giusti), Roberto Herlitzka, Laura Morante, Cecilia Dazzi, Paolo Sorrentino, Giorgio Tirabassi, Filippo Timi, il gorilla degli spot del Crodino (!), Giuliano Giubilei del Tg3, il Trio Medusa e Valerio Mastandrea, nel ruolo di un attore esordiente che tenta un provino davanti a René Ferretti.Altra chicca: Boris è il pesciolino rosso portafortuna di Renè Ferretti, che presenzia sempre durante le riprese. Renè ha sempre avuto dei pesciolini a cui dà i nomi di campioni del tennis: Boris per Boris Becker, nella puntata pilota Sampras e nella terza serie compare anche Federer. I programmi di culto giocano sempre con l’autocitazione, il metalinguaggio, prendendosi in giro e imitandosi. Si fa ricorso anche alla citazione cinematografica: nell’episodio «La mia Africa» (parte prima) l’arrivo di Corinna ricorda l’arrivo di Rose al porto nel film Titanic ; nell’episodio «La figlia di Mazinga» il pestaggio di Lorenzo richiama quello di Full Metal Jacket; nell’episodio «Il sordomuto, il senatore e gli equilibri del paese (seconda parte)» si cita Guerre Stellari – Il ritorno dello Jedi; nell’episodio «Il cielo sopra Stanis», si fa chiaro riferimento a Il cielo sopra Berlino ; nell’episodio «Nella rete» il dottor Cane offre a Ferretti una scatola blu vuota, come in Mulholland Drive di David Lynch. La fidelizzazione dello spettatore ha permesso un coinvolgimento del pubblico così significativo da modificarne il comportamenti, il modo di parlare, il modo di comunicare che solo i “fedeli” della serie possono cogliere («Smarmella», è per esempio il comando che Renè dà a Duccio per avere le luci tutte aperte sul set; o il «Troppo italiano» con cui Stanis definisce molte produzioni e attori; o «Daidaidai» con cui Renè sprona il cast). Si crea una sorta di divisione, tra chi è dentro e chi è fuori, da chi comprende e chi ignora. Questo rende l’influenza delle serie molto più estesa nel tempo e incontrollabile coi soli dati auditel. Altra carta vincente nella creazione del cult è l’utilizzo della satira, intesa come decostruzione dell’esistente. E qui, la scelta di due prodigi della satira italiana, Caterina e Corrado Guzzanti, già conosciuti al grande pubblico, non poteva che essere vincente. Il pubblico di Boris è un pubblico motivato, che va a scovare la propria trasmissione, sia in televisione che su Internet; un pubblico attento, che negli anni è stato allevato e allenato, ormai pronto per la prova “in sala”.
IL FILM Il film è graffiante, cinico, dissacrante, spoetizzante; dipinge l’industria cinematografica come bieca, fatta di espedienti; di sceneggiatori “democratici” che giocano a tennis, mentre ragazzi chiusi in una cella scrivono per loro; attrici vicine alla follia, che non riescono
a parlare e sussurrano solamente (come non riconoscere in Marilita Loy l’acclamata Margherita Buy) o totalmente dedite al sesso pur di avere una parte; attori che si fanno di eroina; segretarie arroganti e direttori della fotografia totalmente fanatici del proprio lavoro. E poi, il pubblico italiano che ingurgita qualsiasi trivialità e volgarità, attraverso il prodotto tipico del cinema italiano: il cinepanettone. L’operazione di trasferimento sul grande schermo era certamente complessa e il rischio di cadere in un lungo episodio della serie era tangibile, ma la rinuncia ai tormentoni e l’aver spostato radicalmente l’attenzione sul mondo cinematografico hanno scansato il problema. Boris è un film con una dignità salda, un’ottima squadra di attori, una sceneggiatura energica, che sa parlare dell’Italia di oggi senza timori o soggezioni; uno schiaffo a un’industria che dovrebbe produrre cultura e invece riproduce cliché rozzi e spregevoli. Boris – Il film , infine, non tradisce lo spettatore, che è alla ricerca del nuovo ma allo stesso tempo lo teme: l’esatta distanza tra ciò che non si è mai visto e ciò che si è sempre voluto vedere è la chiave del prodotto di culto. Boris – Il film lascia allo spettatore la piacevole sensazione di essersi avventurato in nuovi mondi, senza esserne però travolto. Abbandonata la tv, siamo ora nel cinema, ma lo spettatore ritrova la “famiglia” che ha lasciato. Ritrova anche la satira, le citazioni e le parodie (Margherita Buy, Mimmo Calopresti, Valeria Golino, Matteo Garrone…) tipiche della serie. E forse, come dice Arianna: «La ristorazione è l’unica cosa seria di questo Paese!».
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OFFSIDE Jafar Panahi
Il sogno che non c’era Simone Emiliani Forse era nel destino di Offside di essere confinato a una tragica clandestinità. Forse troppo intenso, troppo pieno di realtà e umanità insieme per poter entrare tutto lì dentro un film. Forse non ci riesce nemmeno, in quanto straborda, fa sentire anche quello che c’è nel fuoricampo. Un corpo prima inquadrato che poi sparisce e ritorna, una voce urlante e insistente della quale si vedono soprattutto gli effetti su alcuni dei primi piani delle protagoniste. Offside è del 2006 ed esce solo ora nelle sale italiane. Si tratta anche dell’ultimo film del cineasta iraniano Jafar Panahi, che al Festival di Berlino di quell’anno si è aggiudicato l’Orso d’argento, prima della sua odissea giudiziaria culminata, nel dicembre scorso, con la condanna a sei anni di reclusione e il divieto di produrre, girare e scrivere film e rilasciare interviste sia all’estero sia in patria per i prossimi vent’anni.
FUORI-GIOCO
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L’Iran allo specchio. Con un flusso sonoro ininterrotto che passa a volte attraverso l’udito prima che allo sguardo, derivato certamente dal cinema di Abbas Kiarostami (del quale Panahi è stato assistente per Sotto gli ulivi del 1994), ma da cui si differenzia in quanto il suo è una specie di neorealismo urbano dove i rumori della metropoli sono importanti, e a tratti più decisivi, dei dialoghi. C’è un’attenzione ossessiva per i suoni nel cinema di Jafar Panahi. Forse non con la meticolosità maniacale di Jacques Tati,che scriveva la colonna audio come una sceneggiatura a parte (come in Mon oncle ); ma si ha l’impressione che essi vengano registrati più volte, fatti interagire con i piani ,come se si trattasse di una canzone o un commento musicale che, nel caso di Offside , deve accompagnare soprattutto le paure, il coraggio, la rabbia della ragazze a cui è stato impedito di entrare sugli spalti a vedere la partita. Panahi dà tale importanza ai suoni che sembra istintivamente di collegarli alle immagini. Ce ne sono alcuni isolati (la suoneria di un telefonino, la trombetta), altri invece persistenti (la strada, il pullman e soprattutto lo stadio). Le stesse voci, con il tono degli
Titolo originale: id. Regia: Jafar Panahi. Sceneggiatura: Jafar Panahi, Shadmehr Rastin. Fotografia: Mahmood Kalari. Montaggio: Jafar Panahi. Musica: Korosh Bozorgpour. Scenografia: Iraj Raminfar. Interpreti: Sima Mobarak Shahi (la prima ragazza), Shayesteh Irani (la ragazza che fuma), Golnaz Farmani (la ragazza con il chador),Mahnaz Zabihi (la ragazza soldato), Nazanin Sedighzadeh (la ragazzina), Ida Sadeghi (la giocatrice di calcio), Mohsen Tanabandeh (il venditore di biglietti), Reza Farhadi (l’uomo anziano), M.R. Gharadaghi (il ragazzo con fuochi d’artificio),Ali Baradari (il passeggero),Safar Samandar Azari,M. Kheyrabadi Mashadi, M. Kheymeh Kabood, Karim Khodabandehloo, Hadi Saeedi (soldati). Produzione: Jafar Panahi per Jafar Panahi Film Productions. Distribuzione: Bolero. Durata: 88’. Origine: Iran, 2006. Teheran. Una ragazza, travestita da uomo, è sul bus che sta portando i tifosi allo stadio per assistere all’incontro di cal- cio tra Iran e Bahrain valevole per la qualificazione ai Mondiali di calcio in Germania nel 2006. A causa di una legge che impedisce alle donne di assistere alle partite in compagnie degli uomini, viene fermata ai controlli prima di raggiungere gli spalti, poi arrestata e rinchiusa in un recinto proprio accanto allo stadio dove si trovano già alcune giova- ni tifose. Lì, sorvegliate dai soldati, lei e le altre sono costret- te a seguire la partita solo attraverso i cori dei tifosi che arri- vano dall’interno senza poter vedere nulla del match. Portate via da un furgoncino della polizia un po’ prima della fine, potranno poi festeggiare insieme la vittoria dell’Iran.
uomini (soldati, bagarini) che si alza all’improvviso, o anche la radiocronaca del match, contribuiscono in maniera decisiva ad arricchire ulteriormente un cinema del sentire, spesso elemento caratterizzante dei più importanti autori iraniani, dove la vista segue quasi istintivamente l’udito, come si può vedere in modo ancora più evidente, oltre che in Kiarostami stesso, anche in alcune opere che possono sembrare quasi dei trattati teorici, come, per esempio, Il silenzio (1998) di Mohsen Makhmalbaf, su un ragazzino cieco che fa l’accordatore, o gli impeti alla Herzog di Acqua, vento, sabbia (1989) di Amir Naderi. Offside è un film su una partita di calcio, anzi sulla passione del calcio. Non si vede, però, mai un’azione di gioco. Si può scorgere appena il campo verde quando una delle ragazze fermate dalla polizia viene accompagnata in bagno prima di liberarsi dal soldato che la sorveglia, oppure nel cancello che separa l’esterno dall’interno, da cui però escono tutti quei rumori, quegli sbalzi improvvisi delle reazioni del pubblico, che portano a immaginare un’azione in un modo invece che in un altro. O, infine, uno schermo del televisore visto da lontano dal pullman. C’è una partita immaginaria oltre quella che si sta giocando. Sentire quindi, senza poter vedere. Panahi aderisce strettamente alle emozioni istantanee delle ragazze. Il suo film non ha nessuna deriva visionaria, eppure si ha l’idea che prenda forma un grande sogno. Gli abbracci dopo il gol segnato (la partita Iran-Bahrain
finirà uno a zero e permetterà alla nazionale di qualificarsi per i mondiali di calcio del 2006 in Germania) o la festa collettiva dopo il fischio finale danno provvisoriamente forma a un’euforia momentanea e contagiosa, dove i colori sembrano liberarsi dagli oggetti o dalle figure dei protagonisti ed espandersi dentro l’inquadratura come un dipinto impazzito, dove soprattutto è il verde che si espande sugli sfondi grigi o neri e si sprigiona anche durante le feste in strada, mentre si suona l’inno nazionale, proprio come accadeva nell’ottimo documentario Green Days realizzato dalla figlia più piccola della dinastia Makhmalbaf, Hana. Presentato fuori concorso al Festival di Venezia del 2009, quel film porta sullo schermo le giornate di speranza dei giovani nel giugno di quell’anno prima del golpe elettorale. Quello di Panahi è un cinema realistico che diventa improvvisamente ipnotico, che lascia vedere nella nostra mente altro da quello che è mostrato sullo schermo, che si libera in un impeto di fuga che, per esempio, prendeva concretamente forma in I gatti persiani di Bahman Ghobadi, documentario e finzione insieme, che faceva invece fuoriuscire dall’inquadratura cromatismi come il marrone e un rosso scuro che s’impressionavano nella retina proprio come il verde del film di Panahi. Offside è il Contact di Jafar Panahi. La partita, per la ragazza che all’inizio si vede sul pullman ed è vestita come un uomo per poter cercare così di entrare allo stadio, rappresenta per lei qualcosa di simile al luogo raggiunto da Ellie
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(Jodie Foster), dove vedere vite extraterrestri che si materializzano sotto le sembianze del padre da tempo deceduto. Lì, sul campo, non vorrebbe solo vedere il match ma soprattutto riagganciare il contatto con il suo ragazzo morto, come lei stesso rivela nella parte finale. Il suo pianto si confonde con gli altri suoni, ma è al tempo stesso intenso, quasi struggente, il segno di un desiderio impossibile negato in un momento dove un sogno impossibile resterà tale. Forse quei suoni, quei rumori sono di un altro Iran. Non quello che c’è ma quello che si vorrebbe che ci fosse. Ora ce ne sono altri. E lì dentro ci sono nascosti e rivelati tutti i dialoghi di un film politico, di protesta, che all’interno mostra anche le condizioni delle classi sociali più disagiate, come il soldato che viene dalla campagna con la madre malata, verso il quale c’è un improvviso miracolo, un momento di solidarietà fortemente intenso da parte della ragazza che era scappata e poi tornata proprio perché, come dice lei «Ero triste per le sue bestie». Anche il suo film precedente, Oro rosso (2003), specie di noir astratto, era un’altra immagine allo specchio di un Paese classista dove ad avere la peggio sono i ceti più poveri, film che ha lasciato il segno essendo stato proibito in Patria. 3 0 5 m u r o f e n i c 46
UN CINEMA AL FEMMINILE Tranne Oro rosso , quello di Jafar Panahi è un cinema al femminile. Il punto di vista è deciso, chiaramente orientato anche in Offside. Ci sono figure
diverse, da quelle più silenziose ad altre che si fanno meno scrupoli e sfidano apertamente l’autorità maschile. In ogni caso la macchina da presa di Panahi è spesso addosso a loro, le fronteggia sul volto, le (in)segue condividendone le ansie, come nel momento in cui la prima ragazza cerca di superare i controlli per entrare a vedere la partita. Non è una soggettiva, ma quasi. Standole così appiccicato, seguendola da dietro, quasi attaccato alla nuca, il cineasta ne condivide tutti i battiti del cuore. Si sente la paura addosso. Ogni persona che incrocia potrebbe essere quella che la scopre e la smaschera. C’è, un momento di straordinaria tensione ed è quello in cui cerca di comprare il biglietto dal bagarino. Si avverte quello che sente, tra il tentativo di provarci e la rinuncia, prima di parlare all’uomo e chiudere la trattativa il prima possibile. Lui prima non le vuole vendere il biglietto, poi glielo dà a un prezzo ben maggiore rispetto al precedente cliente. Quelli di Offside sono diversi ritratti, dalla ragazza vestita da soldato a quella più aggressiva, da quella timida che ha perso lo zio, all’altra che prova a scappare dal soldato per vedere la partita. Una galleria ideale, quella del cinema di Panahi, che parte proprio dal suo primo lungometraggio. Il pedinamento quasi zavattiniano è quello di Il pal- loncino bianco (1995) e soprattutto Lo specchio (1997). La coralità, il tentativo di cambiare la propria vita e soprattutto la propria condizione, l’immagine di Teheran come spazio claustrofobico da cui è impossibile scappare rimanda invece a quello che è forse il suo film più conosciuto, Il cerchio (Leone d’oro al Festival di Venezia del 2000). La vicenda della protagoniste di Offside ripercorre quasi quella delle otto donne di quel film. Qui lo stadio, lì la prigione e l’ospedale. Luoghi chiusi, con aperture sull’esterno, ma spazi strettamente sorvegliati, dove si avverte una violenza nascosta, fatta anche di sguardi indiscreti, di prevaricazioni quotidiane. Se Il cerchio conteneva insieme ribellione e rassegnazione, fierezza e sottomissione, Offside è invece il film di Panahi con maggiori aperture, quello che veramente ipotizza e sogna un Paese ideale, che si prende gioco del regime anche con la commedia, evidente nel modo in cui a una delle protagoniste viene imposto di non fumare o alla motivazione che dànno alle giovani donne sul divieto di vedere la partita in quanto ci sono gli uomini che insultano e bestemmiano. Una sottile leggerezza, con l’uso di un’ironia che diventa un’arma di cui servirsi, attenua a tratti un dramma avvolgente, che tocca per il modo in cui aderisce alla vita di ogni singola protagonista. Sono passati cinque anni da quest’opera che, in una filmografia estremamente interessante, è forse il suo capolavoro. Forse già proiettato nel futuro. In attesa del suo prossimo film. Subito, non tra vent’anni.
THE WARD - IL REPARTO John Carpenter
Nel profondo dell’immagine Federico Gironi Quella di un «neat little horror film». Così John Carpenter ha definito la sceneggiatura di The Ward , firmata dai semisconosciuti fratelli Rasmussen, quella che l’ha convinto a tornare su un set cinematografico. L’accento, in questa definizione, va sull’aggettivo neat : termine anglosassone che, a seconda delle sfumature e delle frasi, si traduce con corrispettivi italiani come ordinato, pulito, liscio, accurato, armonioso, chiaro e perfino bello. Lì va fatto cadere l’accento perché il ritorno alla regia di uno dei registi più amati degli ultimi trent’anni, a nove anni di distanza dal sottovalutato Fantasmi da Marte , è esattamente quello: neat . Fin dall’inizio, il progetto di The Ward è stato circondato da un lato da un’elettricità palpabile dovuta all’attesa di un comeback sperato troppo a lungo, dall’altro da una sottile ma palpabile vena di scetticismo. Un film su commissione, si diceva. Un film alimentare: a “dimostrarlo”, una trama assai poco carpenteriana, sulla carta. Come se poi ci fosse qualcosa di male, in tutto questo. Carpenter, da vecchia volpe qual è, era ovviamente consapevole di tutto questo, e con il suo film pare aver
Titolo originale: The Ward. Regia: John Carpenter. Sceneggiatura: Michael Rasmussen, Shawn Rasmussen. Fotografia: Yaron Orbach. Montaggio: Patrick McMahon. Musica: Mark Kilian, John Carpentet. Scenografia: Paul Peters. Costumi: Lisa Caryl. Interpreti: Amber Heard (Kristen), Lyndsy Fonseca (Iris), Danielle Panabaker (Sarah), Jared Harris (il dottor Stringer), Mamie Gummer (Emily), Mika Boorem (Alice), Laura-Leigh (Zoey), Sean Cook (Jimmy), Sydney Sweeney (Alice da ragazzina), Jillian Kramer (il fantasma di Alice), Sali Sayler (Tammy), D.R. Anderson (Roy), Susanna Burney (l’infermiera Lundt), Mark Champberlin (il signor Hudson), Andrea L. Petty (la signora Hudson), Tracey Schornick, Kent Kimball (il poliziotti). Produzione: Peter Block, Mischa Jakupcak, Doug Mankoff, Mike Marcus, Andrew Spaulding per Echo Lake Entertainment/A Bigger Boat/North by Northwest Entertainment/Premiere Picture/FilmNation Entertainment/Modern VidioFilm. Distribuzione: Bim. Durata: 88’. Origine: Usa, 2010. Kristen, una giovane donna bella e disturbata, si ritrova coperta di lividi e di tagli, imbottita di sedativi e rinchiu- sa contro la sua volontà in un inaccessibile reparto di un ospedale psichiatrico. È completamente disorientata e non ha idea di quale sia il motivo per cui è finita in quel posto, né alcuna memoria della sua vita prima del ricovero. La sola cosa che sa è che non è al sicuro. Le altre pazienti del reparto, quattro giovani donne altrettanto distur- bate, non sono in grado di fornirle alcuna risposta e ben presto Kristen si rende conto che le cose non sono come sembra- no. L’aria è densa di segreti e di notte, quando l’ospedale è buio e sinistro, sente dei suoni strani e terrificanti. A quanto pare non sono sole. Una a una, le altre ragazze cominciano a scomparire e Kristen deve trovare il modo di fuggire da quel luogo infernale prima di diventare anch’essa una vittima.
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coscientemente deciso di giocare sulle aspettative e i pregiudizi. Spiazzando con malizia, lasciando che i malevoli avessero la vita facile. Dando l’impressione di non essere affatto interessato ad aggiungere del suo in maniera minimamente rilevante a una trama chiaramente derivativa e senza particolari tratti di originalità. Di più: di essersi ben guardato dal lavorare su personaggi e intreccio in maniera tale da aprire la storia a possibili letture interpretative che travalicassero o metaforizzassero la narrazione, in senso politico, sociologico, financo psicologico. E di aver voluto lavorare in maniera quasi esclusiva su un aspetto formale caratterizzato da un’eleganza fluida e cristallina: dall’essere neat con straordinaria consapevolezza. Eppure, così facendo, firmando un film piccolo, minore nel senso più positivo e sfaccettato del termine, apparentemente lontano da ogni forma di “carpenterismo” così come viene tradizionalmente e banalmente inteso – facendo quasi lo shooter – John Carpenter ha fatto di The Ward un’opera non solo straordinariamente personale, ma soprattutto in grado di riaffermarne in pieno lo statuto autoriale, e di rebootare il concetto stesso di autorialità. Laddove, in un film che a The Ward è teoricamente speculare come Shutter Island , Martin Scorsese cerca-
va nel sovraccarico barocco e vagamente postmoderno la chiave per aprire (e aprirsi a) un genere, per impadronirsi di coordinate narrative così come dell’attenzione dello spettatore, immergendosi nell’intrigo fino a risultarne prigioniero, John Carpenter (si) smantella (da) strutture e sovrastrutture, mirando a un’essenzialità formale e narrativa che si traduce irrimediabilmente in un amplificato surplus emozionale e di tensione. La pulizia e l’eleganza semplice e sartoriale della forma, quindi, diventa in The Ward il luogo dove massimamente echeggia l’agitarsi convulso del contenuto, entrando in risonanza per via del suo essere costretto e ordinato. Forte di un’esperienza che gli permette di sapere a occhi chiusi “quello che non deve essere fatto”, il regista americano si appoggia quindi con sicurezza al canovaccio narrativo a sua disposizione senza nemmeno porsi il problema di non svelare. O non svelarsi. Fin dal principio. Perché la splendida sequenza iniziale dei titoli di testa – nella quale l’iconografia antica e moderna legata alla stregoneria e alla malattia mentale viene proposta in una suadente carrellata, mentre il vetro-specchio-schermo che le contiene e le propone si frantuma in mille pezzi, e che prende il via dopo un incipit essenziale
che si chiude con un lungo e lento carrello all’indietro – è anzi un indizio più che esplicito di quello che andremo a vedere e della risoluzione dell’enigma che (non) è insito nella trama. E dell’idea di cinema, di immagine cinematografica, proposta dal film e dal suo autore. Procedendo con la storia e il dipanarsi delle vicende, diventa poi chiaro che in The Ward , invece che avventurarsi nelle profondità mentali e nelle distorsioni percettive della sua protagonista, come fatto con fin troppa ansia dal già citato Scorsese, John Carpenter sceglie invece di esplorare la profondità dell’immagine, del campo, dello schermo e dello sguardo: allargando il respiro dell’inquadratura, muovendo la macchina da presa con morbidezza inquisitiva e sinuosa, abbondando nei carrelli come nei dolly, concedendo(si) solo la distorsione discreta di grandangoli occasionali e mai esasperati, sempre nel segno dell’apertura. The Ward , per e con John Carpenter, è allora un film che riafferma (anche) lo statuto primario e privilegiato dell’immagine e dello sguardo. Uno sguardo che nel suo caso è di straordinaria limpidezza, proprio perché puro e quindi totalmente asservito alla storia, alla sua accurata descrizione, alle dinamiche e alle esigenze del genere nelle sue accezioni più “basse”e “popolari”. E perfino a personaggi che ama nonostante (o forse proprio perché) dichiari esplicitamente che la loro stessa esistenza e la loro eventuale morte è unicamente funzionale allo sviluppo dell’intreccio, alla stimolazione di una reazione emotiva e visiva in chi guarda, al procedere delle esigenze filmiche e nulla più. Eppure lo sguardo di Carpenter (e quindi il nostro, nella loro totale aderenza) accarezza con altrettanta leggerezza e uguale affetto anche gli spazi dell’(in)azione, i luoghi vuoti e desola(n)ti dove l’occhio è libero di correre senza timore d’imbattersi in ostacoli, la fantasia di scatenarsi nell’interpretare ombre e angoli bui, e dove il gimmick del facile spavento a presa rapida trova il suo terreno più fertile, il suo parco giochi preferito. The Ward è quindi fatto tanto di figure e personaggi quanto di spazi e luoghi: di corridoi e stanze vuote, di cortili e sgabuzzini, di cantine e scalinate. Perché tutto è compreso – e va compreso – nello sguardo che (ci) cattura, che non lascia scampo, che comprende lo spazio e il senso stesso dell’immagine filmica. Così, ecco che lo sguardo carpenteriano, apparentemente proteso verso un’assenza di filtri personali, metastrutturali e interpretativi, nel nome di una purezza estetica quasi svincolata dal senso, diventa affermazione stracarica di senso politico dell’immagine e della rappresentazione. Autoriale, appunto. Perché più gioca a nascondino con lo spettatore, più il regista di The Ward fa sentire il peso profondo e pressante della sua presenza-assenza: quanto e più della fantasmatica Alice che assedia la tranquillità e
la sanità mentale e fisica della Kristen di Amber Heard e delle sue compagne. Compagne che sono proiezioni, filtri, layer di un’immagine (quella di sé) che vanno progressivamente ridotte, eliminate nel nome di quella purezza, di quella trasparenza di sguardo che quindi è anche etica, e non solo politica. Se alla fine del film Kristen non riesce a liberarsi di quelle immagini, delle sovrastrutture, delle sue proiezioni e finisce con il perire a causa di questa sovrapposizione impossibile, ecco che John Carpenter trova vigore e spinta vitale ed energetica proprio nel portare all’essenzialità massima l’aspetto e il contenuto del suo film. Del suo cinema e di se stesso. Del suo essere autore. Un’essenzialità che trova calore e contatto in quelle che appaiono freddezza e distanza, e che invece sono solo sintomi di una estrema consapevolezza, di una straordinaria comprensione di un meccanismo e del suo senso profondo. In The Ward John Carpenter è allora l’Uomo invisibile, tanto più presente e percepibile quanto più trasparente, tanto più proiettato verso il futuro quanto più orientato verso il passato. Tanto più capace di fare della teoria sul genere e sui suoi sviluppi quanto più disinteressato alle architetture metadiscorsive.
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Reparto B Movie Anton Giulio Mancino
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Bert I.[ra] Gordon! Chi era costui? Le vecchie abitudini sono dure a morire. Per fortuna, perché John Carpenter non esita a rievocare un suo regista di culto come Gordon. Continua a fare le cose che faceva trent’anni fa, nonostante siano intanto cambiati i modi di produzione e gli stili collettivi. Anche The Ward risente abbastanza di un modo di fare e di concepire l’immagine, il suono e il racconto decisamente mutati. Il montaggio troppo rapido, piegato sull’effetto immediato, è poco attento a prolungare la suggestione rituale della singola inquadratura fissa o in movimento. Ne risentono, ad esempio, le carrellate nel lungo, scuro corridoio (ineluttabile “corridoio della paura”) dell’ospedale inteso carpenterianamente come luogo deputato di degenza/detenzione coatta,impedimento fisico e perdita del controllo psichico. Dunque zona manicomiale ad alto rischio (equivalente a quella carceraria) in cui si scatena contigua la pulsione omicida (come in In the Mouth of Madness [Il seme della follia , 1994], certo, ma anche l’intero Halloween 2 [Halloween 2 – Il signore della morte , 1981] del diligente epigono Rick Rosenthal e la sequenza iniziale di Halloween 3: Season of the Witch [Halloween 3 – Il signore della notte , 1982] dell’amico Tommy Lee Wallace). Sebbene non venga adeguatamente valorizzato l’impatto di uno dei suoi stilemi classici, l’autore di The Ward riesce a conservare un margine di controllo sul progetto, e non dissimula il compromesso con istanze corrive, basate su un gioco sterile e assai poco inquietante di azione del film e reazione immediata dello spettatore, talmente consolidate da decretare la scarsa capacità da almeno vent’anni, salvo eccezioni e sempre più rare, del film dell’orrore, chiuso ormai nel vicolo cieco della serialità, della riproducibilità, della bidimensionalità, dell’usa-spaventae-getta, di intercettare, (c)analizzare e restituire i fantasmi della contemporaneità, leggere e interpretarne le paure a essi connessi. A Carpenter non sfugge la difficoltà sempre maggiore, cronica,che i film di genere di nuova generazione hanno di durare, in tutti i sensi, dall’inquadratura al rispecchiamento storico, sociale e culturale. Ma non ne diventa ostaggio consenziente, ben sapendo che cineasti oramai anacronistici come lui possono fare ben poco per arrestare una tendenza pluridecennale che ha ridotto a puro e inoffensivo svago il fantastico cinematografico, quanto basta per testare i riflessi giovanili i sala o davanti a una playstation. Poco tuttavia non vuol dire niente. E The Ward dimostra come il sempre indipendente Carpenter sappia trovare il suo spazio persino dentro uno schema preordinato che non sembra consentirgli una libertà paragonabile a quella pazientemente guadagnata a suon di esiti favorevo-
li al box office tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del decennio successivo, e ogni volta rinegoziata, rimessa in discussione, recuperata a fasi alterne fino ai giorni nostri. Non si tratta nemmeno di riconoscere la sua mano, secondo un esercizio di cinefilia sterile. Né importa stabilire o addirittura dimostrare che nel suo ultimo film egli è, per così dire, ancora vivo e lotta insieme a noi. Occorre piuttosto accorgersi di come un’antica propensione per quella che Pietro Montani chiama «immaginazione intermediale» offra ancora a lui, e a suoi più o meno coetanei, l’opportunità di costruire un discorso che vada al di là di una vicenda peraltro non originale. Prova ne è l’utilizzo strategico delle immagini televisive che scorrono all’interno del film, parallelamente. Cioè fare interagire brevi clip di un vecchio film dell’amato Gordon del 1960, Tormented (intitolato in Italia Delitto al faro ), in onda sul piccolo schermo, con ciò che accade sul grande schermo alla/e protagonista/e di The Ward . Questo ricorso a pratiche archeologiche, filologiche, autoreferenziali, che un tempo si sarebbero dette metalinguistiche o direttamente metafilmiche,onnipresenti a partire dalle numerose «megacitazioni hawksiane» (Danilo Arona) e che in Halloween (Halloween – La notte delle streghe , 1978) si erano tradotte nella messa in onda ammonitrice del classico campbelliano/hawksiano The Thing (La “cosa” da un altro mondo , 1951; preannunciando così l’ardito remake nel 1982), suggerisce fortunatamente anche in The Ward la voglia di moltiplicare e codificare, intrecciandoli, i piani mediali della rappresentazione, ben oltre quelli del racconto in sé, mutuato dal lehaniano/scorsesiano, costoso, priapico Shutter Island (id.,2010; di cui il film di Carpenter altro non è che un sottoprodotto dichiarato, una imitazione low budget priva però di complessi di inferiorità). Perché, dunque, stabilire una relazione tra ciò che accade in quel film-contenuto ( Tormented ), relegato in posizione subalterna,al consumo domestico, casuale, e ciò che accade nel film-contenitore ( The Ward )? Innanzitutto perché il film di Gordon riassumeva in poco più di un’ora la parabola tragica e allucinatoria di un pianista che fa morire una fidanzata poco disposta a lasciarlo libero di sposarsi, per essere poi perseguitato dal presunto spettro. In questo modo The Ward svela in anticipo come la dimensione orrorifica che agisce in superficie abbia un’origine mentale. Ciò nonostante, proprio attraverso il richiamo metodico a Tormented , in cui non a caso veniva eluso di continuo il confine tra verosimile e sovrannaturale (si giocava cioè su tutti e due i territori, senza troppa attenzione alla logica narrativa, secondo le regole del B-movie), The Ward lo ospita al suo interno, proprio come il repar-
to ospita le sue pazienti-detenute o, concettualmente, come in Body Bags (Body Bags – Corpi estranei , 1993), una sorta di “cosa”, di “ultracorpo”o “corpo estraneo”filmico. In questo modo insinua che la realtà materiale, fisica, istituzionale fatta di pratiche persecutorie, crudeli, vessatorie tipiche del potere psichiatrico tradizionale, non può smettere mai di spaventare. E che il vero pericolo, la vera minaccia repressiva da sfuggire, vincere, ben più dello spettro-zombie omicida immaginario, sia la “prigionizzazione” – come la definisce Michel Foucault – qui mascherata da ospedalizzazione: gli emissari in camice bianco (uomini e donne, paramedici e medici, tutti) e gli stessi luoghi sinistri del potere (la clinica, i reparti, tutti), indipendentemente dalla rivelazione finale, fin troppo prevedibile dopo Shutter Island , a sua volta debitore in pectore del Shock Corridor (Il corridoio della paura , 1963) di Samuel Fuller, inaugurato da una ineccepibile citazione euripidea («Dio per prima cosa rende pazzo colui che vuole distruggere») nonché prodotto tre anni dopo dalla stessa Allied Artists di Tormented o Il delitto del faro che dir si voglia. C’è poi un secondo motivo che spinge Carpenter a stabilire un rapporto feticistico con questo piccolo film di Gordon: l’anonimato che caratterizza le presenze femminili. In Tormented , infatti, non si capisce bene perché il protagonista dovrebbe respingere la supermaggiorata Vi, facendola morire senza pietà, per sposare l’altrettanto stereotipata ragazza di buona famiglia Sandy. Allo stesso modo, ma capovolgendo l’assunto gordoniano, specialmente quando, un po’ come nel finale di Inland Empire (Inland Empire – L’impero della mente , 2006) di David Lynch, ballano tutti assieme sulle note della spensierata ma indicativa «Run, Baby Run» dei Newbeats, le ragazze rivelano essere varianti culturalmente equivalenti di un modello femminile anni Sessanta, capeggiate dalla più emancipata di tutte, la ribelle Kristen. Che incarna non soltanto la capobranco ma anche la componente dominante e vincente di un soggetto femminile multiplo in fuga per la sopravvivenza. Espressione viva di una personalità schizoide che ha bruciato la sua casa e il passato negletto, Kristen è l’unica in grado di contestare l’autorità ospedaliera, affrontare le sfide, gli ostacoli, i divieti e traghettare questa composita serie di ragazze-oggetto, figure stereotipate e sottomesse, modulari e riproducibili, in un clima nuovo, controculturale, sessantottino: la vicenda, originariamente concepita per essere ambientata nel presente, è stata poi spostata da Carpenter prima negli anni Cinquanta, dove però rischiava troppo il confronto svantaggioso con Shutter Island , poi nel 1966. Per lui, un anno di transizione: dai primi cortometraggi molto indipendenti del 1961-1962,che imitano la fantascienza povera o il fantasy eroico sulla falsariga anche dei film di Gordon, all’ammissione proprio nel 1968 alla prestigiosa University of Southern California, egli continua a esibirsi come bassista e cantante seguendo in parte le orme paterne. Desidera infine rispecchiarsi o richiamarsi all’ingenuità pur suggestiva di Tormented per sottolineare la vocazione per un cinema, se necessario, di
serie B, orgogliosamente di serie B, ma potenzialmente d’autore, sottilmente complesso in quanto mai vittima di una presunzione produttiva che altrimenti naufragherebbe nell’eccesso, nell’ostentazione. Insomma, The Ward non cade nella trappola di trasformarsi, senza averne peraltro i mezzi, in un B-movie gonfiato con gli estrogeni come Shutter Island . È esattamente quello che sembra, anche malgrado lo stile un po’ soffocato dell’autore: un’opera minore, semplice, di genere, non originale. La cui intelligenza, profondità, densità semantica è – per fortuna – inversamente proporzionale all’inutile presunzione di grandezza. C’è dentro tutto: la violenza maschilista, premessa del trauma femminile,destinata tuttavia essere respinta solo momentaneamente: la ricomposizione psichica-familiare-istituzionale viene contraddetta nel finale convenzionale ma coerente con un incubo sempre-aperto, ambivalente, a tempo indeterminato; la capacità di saper commisurare le risorse alle aspettative e di usare come sottotesto esplicativo un piccolo film senza pretese che, con il suo faro, luogo del delitto, porta allo scoperto, in chiave psicanalitica, intertestuale e intermediale, ambizioni eccessive quali quelle riassunte nell’immagine simbolica, fallica del faro di Shutter Island . Sostituito invece in The Ward dal metronomo che lo psichiatra infligge alle ragazze-vittime. E a proposito di fantasmi letali, in Tormented in un ruolo di antipatico ricattatore c’era anche un caratterista molto caro a Stanley Kubrick, il sinistro Joe Turkel, che in Shining sarebbe diventato la reincarnazione allucinatoria del custode pluriomicida. Non resta che chiedersi: dopo questa promettente mise-en-abîme, a quando il remake carpenteriano di Tormented ?
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I FILM
IN SALA JU TARRAMUTU Paolo Pisanelli Regia, sceneggiatura e fotografia: Paolo Pisanelli. Montaggio: Matteo Gherardini. Musica: Animammersa. Suono: Biagino Bleve, Bruce Morrison. Voci narranti: Antonella Cocciante, Patrizia Bernardi. Produzio- ne: Andrea Stucovitz, Paolo Pisanel-
li per Big Sur/Partner Media Investment/OfficinaVisioni. Distribuzio- ne: ZaLab. Durata: 89’. Origine: Italia, 2010. Approdato in sala e rimasto giusto il tempo di un paio di spettacoli, in coincidenza con il secondo anniversario della tragedia abruzzese, Ju tarramutu di Paolo Pisanelli è un documentario con una solida vita, innanzitutto produttivo-realizzativa, ma anche festivaliera. Attenzione dunque a etichettarlo come mero prodotto celebrativo perché il lavoro di Pisanelli, svolto invece con una dovizia impressionante e un “tocco” sensibile e rispettoso, è tutto fuorché un compendio televisivo col quale intonare l’ennesimo coro al Caimano B., né l’ennesimo attacco “in stile Moore” alla ricostruzione aquilana. Distante dunque sia dai finti spot di Vespa e del suo salotto (giustamente definito, con mestizia tutta italiana, la terza camera del Parlamento…) sia da Sabina Guzzanti, che col suo Draquila – L’Italia che trema ha
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tracciato uno spaccato cinematograficamente lodevole, anche se probabilmente utile solo per chi era già dall’altra parte della barricata. Pisanelli, con un lavoro sul campo durato mesi, compie una sorta di viaggio on the road tra le fratture di una terra, quella abruzzese, orgogliosa e fiera ma ancora ferita da un terremoto imponente e piegata da alcune scelte delle istituzioni che sembrano mirate esclusivamente a tenerne sotto controllo ogni eventuale reazione. Un viaggio anti-narrativo, con fili che si intrecciano, che poi non sono altro che vite, storie e volti che si accavallano, e soprattutto voci, tante, impressionanti, imperscrutabili. Un viaggio prima di tutto tra i suoni per sentire, più che per capire. Eccolo il vero quid di Ju tarramutu , lasciare spazio alle emozioni che una voce o un rumore possono suggerire, piuttosto che continuare a cercare di capire i perché e i per come di una tragedia. Via la testa, il cervello, gli specialisti con la loro razionalità, la loro (dis)umanità tecnica, dentro il cuore, la voce, le emozioni e – perché no – i fantasmi di una città intera (L’Aquila) che non c’è più. Ju tarra- mutu si compone dunque con una progressiva e naturalissima immersione nelle terre abruzzesi, senza forzare lo spettatore a una troppo fittizia identificazione, ma lasciando invece che fosse il film stesso a coagularsi intorno a esso. L’operazione di Pisanelli è sottilissima: in un certo senso si ha come l’impressione che la missione del regista sia quella di “sostituire” la sovrastruttura mercificata e soprattutto massificata che i principali mezzi di comunicazione hanno contribuito a realizzare con una più umana e reale, incentrata sia sul presente, con le facce i volti e le voci dei sopravvissuti, che sulla memoria, con il suo corollario di sofferenza, di rumori terribili e di paure ancestrali. A partire dal titolo dialettale, insomma, in Ju tarramutu è chiara la scelta
di partire dal locale ed evitare, ma anche ragionare, sulla medializzazione dell’evento (non c’è dubbio che il terremoto dell’Aquila sia stato uno dei primi e più importanti esempi di sovraesposizione mediatica di una tragedia). Più di una volta, infatti, Pisanelli contrappone filmicamente la spoglia realtà di un capannone della ricostruzione, in cui campeggia una televisione, ai messaggi berlusconiani che passano proprio su quello stesso schermo, sui presunti viaggi-premio e campeggi che i terremotati avrebbero vinto in seguito al terremoto. Nel silenzio e nel vuoto dei container riecheggia la propaganda del Caimano, ma anche le delittuose (e ormai tristemente famose) intercettazioni della cricca di costruttori che la notte del terremoto se la rideva di gusto in attesa di rimontare un giocattolo da milioni di euro. Non è cinema di sdegno né di denuncia quello di Pisanelli, ma un semplice testimoniare i destini di una città ancora preda di una miriade di speculazioni edilizie (ivi incluse alcune dubbie operazioni perpetrate dalla longa manus della Chiesa Cattolica, marginalmente dibattute qui come già nel lavoro della Guzzanti). Con l’idea, fissa e quasi démodé , di fare cinema, e non tribuna politica. Lorenzo Leone
LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG Noah Baumbach Titolo originale: Greenberg. Regia e sceneggiatura: Noah Baumbach. Soggetto: Noah Baumbach, Jennifer Jason Leigh. Fotografia: Harris Savides. Montaggio: Tim Streeto. Musica: James Murphy. Scenogra- fia: Ford Wheeler. Costumi: Mark Bridges. Interpreti: Ben Stiller
(Roger Greenberg), Greta Gerwig (Florence Marr), Jennifer Jason
Leigh (Beth), Rhys Ifans (Ivan Schrank), Chris Messina (Phillip Greenberg), Brie Larson (Sara), Juno Temple (Muriel), Susan Traylor (Carol Greenberg), Merritt Wever (Gina), Zach Chassler (Marlon), Mina Badie (Peggy), Blair Tefkin (Megan), Mark Duplass (Eric Beller), Jake Paltrow (Johno), Dave Franco (Rich), Max Hoffman (Jerry), Ramona Gonzalez (Anita), Alessandra Balazs (Olivia), Nick Cordella (Jordan). Produzione: Jennifer Jason Leigh, Scott Rudin per Scott Rudin Productions. Distribu- zione: Bim. Durata: 107’. Origine: Usa, 2010. Roger Greenberg è un altro dei personaggi facenti parte della galleria di individui smarriti nel tempo e nello spazio proposti al pubblico da Noah Baumbach in qualità di regista e come sceneggiatore di Wes Anderson. Greenberg, a cui dona la sua maschera tirata e irregolare un insolito Ben Stiller, è appena uscito da una clinica psichiatrica a causa di un forte esaurimento nervoso che pare averne cancellato con un deciso colpo di spugna gli ultimi quindici anni di vita. Un blackout che, da New York, città in cui si era trasferito dopo la fallita scalata al successo con un promettente gruppo rock, lo riporta alle origini, da dove tutto ha avuto inizio, in una Los Angeles assolata e caliginosa, per risiedere a casa del fratello, partito con la famiglia per il Vietnam. Visto in quest’ottica, il film di Baumbach asseconderebbe una lettura di primo livello sulle differenze sostanziali tra l’Est e l’Ovest, sullo sradicamento di un newyorchese e sulla sua logica di adattamento nella Città degli Angeli, contesto insolito ed esteso in cui, davanti all’occhio stupito dell’abitante della costa atlantica, i californiani si mostrano attenti a non eccedere nell’utilizzo del clacson pur vestendosi perennemente come bambini un po’ troppo cresciuti. Quelle offerte da Baumbach tramite l’inadeguatezza del personaggio interpretato da Ben Stiller, tuttavia, sono soltanto pennellate contestua-
lizzanti che servono a definire caratteri e situazioni attraverso l’immediatezza definitoria di un dialogo o di un’immagine (come il piano dall’alto che inserisce Greenberg all’interno della festa all californian del suo amico di un tempo Beller, unica sagoma immobile in maglione e giubbotto smanicato in mezzo a una moltitudine di t-shirt e bermuda in disordinato movimento). Il discorso proposto, in realtà, si pone al di là della newyorchesità che anche regista e interprete possono vantare, e che ha fatto collocare Greenberg da molta critica all’interno della tipica galleria di personaggi alleniani, riferimento obbligato in caso di croniche insicurezze e carenze emotive con matrice nella Grande Mela. Senza esservi completamente alieno, Greenberg deve però il suo smarrimento a una personale interruzione spazio-temporale in cui la dicotomia est/ovest non è principio fondante, ma dinamica dislocante di una crisi più ampia che coinvolge la sua incapacità di relazionarsi nel presente. Anche perché, ed è notazione elementare, Greenberg è originario di Los Angeles, e il suo è solo un ritorno a casa dopo il trauma nervoso che ha rimesso in discussione tutte le scelte che lo hanno portato ad abbandonare la città tre lustri prima. Una forma di disagio che utilizza l’hic per soffermarsi sul nunc e che Baumbach, attraverso una scrittura accurata e una regia attenta al dettaglio e alla strutturazione dello spazio, restituisce concentrandosi sulla relatività di un tempo apparentemente bloccato e sulle dinamiche di interazione irrimediabilmente inibite. La messa in scena di una palese immobilità dello spirito si inscrive in un rapporto particolare attuato con gli elementi profilmici, i quali, aiutati dall’evidenza dei dialoghi, diventano lo specchio progressivo di uno sviluppo della vicenda che altrimenti rimarrebbe ferma al momento della crisi e all’impossibilità di uno spiraglio possibile.
Da un lato, il volto atarassico di Ben Stiller si adagia in continui riferimenti a un passato da cui non si è mai distaccato, quasi si trattasse di un’ideale età dell’oro oltre la quale esiste soltanto il nulla dei valori e delle prospettive: il suo tempo libero è da riempire costantemente con pellicole della seconda metà degli anni Ottanta (Mannequin di Michael Gottlieb e Gung Ho di Ron Howard), il viaggio in Australia di sua nipote si traduce in una canzone dei Kinks del ’69, la tirata di coca alla festa dei teenagers necessita dell’accompagnamento di «The Chauffeur» (da «Rio», album dei Duran Duran dell’82). Baumbach offre nella sceneggiatura continui riferimenti a un passato melmoso che funge da prigione delle sensazioni per Greenberg, ma al contempo ne mostra l’inerziale sviluppo relazionando metonimicamente il personaggio con gli oggetti con cui entra nevroticamente a contatto. Infatti, se Greenberg è spesso ostacolato nella sua interazione verso l’esterno da filtri scenografici (vetri, finestre, stipiti, soglie d’ingresso, balconi), è tramite la ripetizione degli stessi elementi che esprime la sua torpida evoluzione, altrimenti uniforme e indeclinabile. Il burro di cacao come perpetua coperta di Linus, una lettera di protesta, tra le tante inviate, che infine trova la sua giusta collocazione sulle pagine del «New York Times», oppure il telefono, l’oggetto principale. Veicolo di collegamento possibile
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con l’esterno, diaframma di autodifesa e infine, pur tra una moltitudine di dubbi, modalità per congiungersi con l’altro. Baumbach narra un percorso di formazione minimalista dagli sviluppi implosi: Greenberg si dichiara a Florence, ma lo fa per mezzo della segreteria telefonica; il suo è solo un attestato di esistenza, non una conquista. Una messa a fuoco da parte dell’obiettivo della macchina da presa mentre si sta apprestando ad attraversare una strada, non il raggiungimento della felicità. Giampiero Frasca
KICK-ASS Matthew Vaughn
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Titolo originale: id. Regia: Matthew Vaughn. Soggetto: dall’albo a fumetti omonimo di Mark Millar e John Romita jr. Sceneggiatura: Jane Goldman, Matthew Vaughn. Fotografia: Ben Davis. Montaggio: Eddie Hamilton, Jon Harris, Pietro Scalia. Musica: Marius De Vries, Ilan Eshkeri, Henry Jackman, John Murphy. Scenografia: Russell De Rozario. Costumi: Sammy Sheldon. Interpreti: Aaron Johnson (Dave Lizewski/Kick-Ass), Christopher Mintz-Plasse (Chris D’Amico/Red Mist), Mark Strong (Frank D’Amico), Chloë Grace Moretz (Mindy Macready/Hit-Girl), Nicolas Cage (Damon Macready/Big Daddy), Clark Duke (Marty), Evan Peters (Todd), Lyndsy Fonseca (Katie Deauxma), Michael Rispoli (Big Joe), Garrett M. Brown (il signor Lizewski), Elizabeth McGovern (la signora Lizewski), Xander Berkeley (il detective Gigante), Omari Hardwick (il sergente Williams). Produzione: Adam Bohling, Tarquin Pack, Brad Pitt, David Reid, Kris Thykier, Matthew Vaughn per Plan B Entertainment. Distribuzione: Eagle. Durata: 117’. Origine: Gran Bretagna/Usa, 2010.
Non ci sono più i supereroi di una volta. Sono lontani i deliri schizoidi di
Batman, le ingenuità fascistissime di Superman, i sensi di colpa (da frustrazione sessuale) di Spider-Man. Da Alan Moore in poi – e il gruppo è agguerrito e di non poco talento, fra Garth Ennis e Grant Morrison, Mark Millar e Brian Vaughn –, lungi dall’essere valvole di sfogo dell’immaginario collettivo e dal cristallizzarne l’incarnazione in maschera e collant dei sogni migliori, i supereroi sono più spesso il concentrato di quanto di peggio la società possa esibire. Sono incubi, più che desideri (ecco perché sua maestà Moore si chiedeva chi controllasse i controllori). Avremmo voluto concentrarci anche su un aspetto solo parzialmente “cinematografico” del film di Vaughn. Lo accenneremo qui, a mo’ di provocazione: ben prima dell’uscita in sala, Kick-Ass è stato visto da qualsiasi fan del fumetto, e non solo da lui, in modo più o meno consentito (lo dimostrano centinaia di forum dedicati). Quand’è che la critica comincerà a occuparsi dei nuovi ma sempre più diffusi modi di fruire il cinema e di come questi stiano influenzandone anche la retorica? Gli spettatori sono pronti. E già da un po’.
La trasposizione di Matthew Vaughn del capolavoro di Mark Millar e John Romita jr. non va sottovalutata proprio per come si colloca – e si muove – dentro un percorso in divenire, in una deriva che pare segnare la frantumazione progressiva di certe ingenuità d’altri tempi (anche per questo è curioso che al regista sia stato affidato l’imminente X- Men – L’inizio , “versione blockbuster”, non parodia). Insomma, ucciso il sogno americano, quello vero, da un po’ si attenta anche alla sua declinazione fasulla, cartacea, a strisce (e senza più stelle). Tuttavia, si limitasse alla denigrazione delle illusioni superomisiche della cultura occidentale, il film di Vaughn ripeterebbe pedissequo l’operazione dell’originale – e a dirla tutta, con molta meno ferocia del fumetto. No, come l’epilogo del Watchmen di Zack Snyder, il Kick-
Ass in pellicola si discosta non poco
dalla sua fonte e va a (s)parare in una direzione imprevista ma precisa, addirittura didascalizzata dalla messinscena in più di un’occasione. Se quello di Millar era uno scagliarsi brutale contro l’ingenuità supposta dei nostri miraggi (eroici) con l’intento di evidenziarne i lati oscuri e morbosi, la messinscena di Vaughn tralascia i sogni e parla ai sognatori. A noi, dritto in faccia.Via dall’essere un caleidoscopio post-moderno che miscela citazioni più o meno colte e rimandi crossmediali, registri diversi e sorgenti d’ogni tipo, Kick- Ass è un “instant movie”. È un frullato di cultura pop contemporanea. E lo è, soprattutto, quando abbandona il fumetto da cui è tratto. L’epilogo sopra le righe col jetpack, i duelli contrappuntati ora da Morricone, ora da Bad Reputation di Joan Jett – si badi bene, nella colonna sonora c’è la versione delle Hit Girls, ché oggi la musica è continuo remake –, la video esecuzione in diretta in stile al-Qaeda, la sequenza in soggettiva e in “visione notturna” appena dopo – presa di peso dall’estetica di un qualsiasi first person shooter videoludico –, l’uso di MySpace, l’abuso di iPhone; addirittura il personaggio di Big Daddy, una parodia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan – che nel fumetto ha e fa tutt’altra figura.Gli indizi sono chiari: la realtà di Vaughn è la nostra, qui e oggi. Non bastasse, c’è pure un cartellone pubblicitario di Claudia Schiffer, moglie del regista dal 2002.
Ecco perché la messinscena è un continuo chiamare in causa lo spettatore: gli sguardi in camera dei protagonisti, il voice over da noir (che a un certo punto, guarda caso, cita pure Il viale del tramonto e quella parabola d’oggidì che è American Beauty ), Red Mist che nell’epilogo ci spara in faccia, Hit-Girl che poco prima aveva chiuso la sequenza dell’esecuzione live spegnendo la telecamera (intra ed extradiegetica) con tanto di saluto agli astanti: «Fuck you». Brava, fottiamoci. I tizi, “tutti gli altri”, che stanno a guardare mentre qualcuno se la vede brutta dall’altra parte dello schermo siamo noi, spettatori di al-Qaeda tv, hard-core gamer da fps online, maniaci di MySpace e Facebook, habitué di scene con mani di bimbo armate («Tre stronzi si scagliano su un uomo mentre tutti gli altri guardano e tu chiedi cosa non va in me?»). E se non ci sono più i supereroi di una volta, è solo perché non ce li meritiamo. Emilio Cozzi
FROZEN Adam Green Titolo originale: id. Regia e sceneg- giatura: Adam Green. Fotografia: Will Barrat . Montaggio: Ed Marx . Musica: Andy Garfield. Scenografia: Bryan McBrien. Costumi: Barbara Nelson. Interpreti: Emma Bell (Parker O’Neil), Shawn Ashmore (Joe Lynch), Kevin Zegers (Dan Walker), Ed Ackerman (Jason), Rileah Vanderbilt (Shannon), Kene Hodder (Cody), Adam Johnson (Rifkin), Christopher York (Ryan), Peter Melhuse (l’autista). Produzione: Peter Block, Cory Neal per A Bigger Boat/Ariescope Pictures. Distribuzione: M2. Durata: 93’. Origine: Usa, 2010.
Si svuota progressivamente lo spazio in Frozen . Proprio come 127 ore di Danny Boyle, che parte da dai titoli di testa con un’eccessiva densità fino a filmare il protagonista som-
merso dal paesaggio. Qui sono i tre personaggi principali, la coppia formata da Dan e Parker e l’amico di lui Joe, appassionati di snowboard, a essere bloccati sulla seggiovia prima dell’ultima discesa. Consapevoli che l’impianto non riaprirà fino al week-end successivo, i ragazzi cercano un modo per abbandonare la montagna prima di morire congelati. Il buio della notte con il bianco della neve sono già un acceso contrasto di un horror pieno di felici intuizioni, che ha lo spirito e l’essenzialità quasi da B-movie, che fa sentire addosso i brividi del freddo e le continue ombre della morte che si affacciano a più riprese. Per Adam Green, anche sceneggiatore del film, Frozen rappresenta un’altra variazione tra le forme del genere, dove il luogo diventa minaccioso come le paludi vicino New Orleans di Hatchet , oppure con la mente dei ragazzi che quasi anticipa delle sconcertanti visioni (immaginazioni che pur non prendendo forma visivamente sembrano contagiare l’occhio dello spettatore facendogli vedere qualcos’altro oltre quello che è inquadrato) prima che queste accadano nella realtà assimilabili ai detour hitchcockiani del suo Spiral . Dagli squarci da teenagermovie forse un po’ riciclato e leggermente tirato oltre misura, con la marcata sottolineatura delle dinamiche sentimentali, Frozen cambia improvvisamente faccia dal momento in cui si spengono le luci dell’impianto sciistico, anche se tracce di nascosta tensione erano già presenti soprattutto nel modo in cui sono amplificati certi dettagli sonori come i rumori della seggiovia. Il corpo è solo a contatto con la natura. Senza però la volontaria sfida e il flusso esistenziale dove il futuro cancella il passato del grandioso Sean Penn di Into the Wild . Qui in Frozen c’è, invece, un tentativo disperato di recuperare il passato. Immobilizzati in quella seggiovia che è diventata improvvisamente crocevia
tra la vita e la morte, i tre protagonisti vorrebbero riprendere quella normalità che ora ai loro occhi è straordinario miracolo. Quando si sono addormentati e si risvegliano hanno, per un brevissimo istante, il desiderio che si tratti solamente di un brutto sogno. Green, malgrado qualche dialogo ancora di troppo lì sulla seggiovia, riesce a far avvertire i pensieri paralleli in una situazione di concreta drammaticità. Da una parte c’è la mutazione del corpo, a contatto col gelo, anche con il passaggio di una tempesta di neve, dove ogni ulteriore scatto temporale diminuisce progressivamente la speranza di salvezza. Frozen lavora in maniera esemplare
sui dettagli (il sangue sul guanto, la mano congelata nella seggiovia), sottolinea ogni movimento disperato senza enfasi (il sedile che si sgancia, uno dei protagonisti che cerca di passare da una seggiovia all’altra) con i rumori apparentemente innocui che, però, possono diventare simile a quelle tracce sonore infermali del cinema di Tobe Hooper. Dall’altra c’è invece l’abisso del vuoto. L’altezza diventa incolmabile profondità. Il salto dalla seggiovia come vertigine. In quella sua provvisoria dimensione astratta dove tutto sembra essersi fermato per sempre, Frozen è un film che ha la capacità di aggredire direttamente, di far sentire le ossa che si spezzano, il sangue e il corpo che diventa preda per lupi affamati.
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Il paesaggio innevato viene inquadrato come se fosse il mare aperto, qui limitato ma che appare sterminato, dove le vie di fuga sono ridottissime. In un’opera che fa recuperare la sintesi di un cinema artigianale essenziale e d’immediato impatto, c’è anche un tocco di gran bel cinema come quello di non mostrare la tragica fine di Joe, facendolo per un attimo sparire nel nulla, dando una provvisoria illusione a Parker. Fro- zen non concede nulla, e ha giovani attori ispirati, dal più famoso Kevin Zegers (visto in Transamerica ) alla rivelazione Emma Bell. Se dopo tanti informi sequel del cinema horror degli anni Settanta e Ottanta, si ripartisse da film che hanno uno spirito simile a Frozen , forse c’è ossigeno per una nuova possibile vitalità nel genere. Simone Emiliani
LA FINE È IL MIO INIZIO Jo Baier Titolo originale: Das Ende ist mein
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Anfgang/La fine è il mio inizio. Regia: Jo Baier. Soggetto: dal libro omonimo di Tiziano e Folco Terzani. Sceneggiatura: Folco Terzani, Ulrich Limmer . Fotografia: Judith Kaufmann. Montaggio: Claus Wehlisch. Musica: Ludovico Einaudi. Scenografia: Eckart Friz. Costumi: Gerhard Gollnhofer . Interpreti: Bruno Ganz (Tiziano Terzani), Elio Germano (Folco Terzani), Rika Pluhar (Angela Terzani), Andrea Osvárt (Saskia Terzani), Nicolò Fitz-William Lay (Novi). Produzione: Manfred Brey, Ulrich Limmer per Collina Film/B.A. Produktion/Bayerischer Rundfunk/Südwestrundfunk/Arte/ Dageto Film/Beta Film/Rai Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 98’. Origine: Germania/Italia, 2010. Cerchiamo di tenere separati due versanti: da un lato, la vita di Tiziano Terzani, le sue avventure di invia-
to dai fronti caldi dell’Asia durante la guerra del Vietnam o la Rivoluzione maoista, l’attività di scrittore, la svolta “mistica” e il ritiro sull’Himalaya, le riflessioni in punto di morte raccolte dal figlio Folco e pubblicate nel libro omonimo «La fine è il mio inizio» (edito postumo nel 2006 per Longanesi); dall’altro, il film di Jo Baier, coproduzione italo-tedesca sceneggiata a quattro mani dallo stesso Folco Terzani e dal produttore Ulrich Limmer (Terzani era infatti assai popolare anche in Germania, essendo stato per trent’anni corrispondente per il settimanale amburghese «Der Spiegel»). Vale a dire, teniamo separati la vita di Tiziano Terzani e il resoconto che di essa offre il film. Non tanto nei contenuti o nel loro valore di verità (li immaginiamo del resto inappuntabili, non foss’altro poiché estrapolati direttamente dal libro e garantiti dalla presenza del figlio nella fase di sceneggiatura), quanto nella forma con cui Baier cerca di tradurli per immagini. Più che al cospetto di un rapporto intimo, quasi confessionale, tra un padre morente e il figlio che lo raggiunge da lontano, pare che il film sia modellato sulla scorta di un intento agiografico decisamente unilaterale. Un esempio. L’oralità tra padre e figlio assume nel lavoro del regista una tanto drastica quanto esplicita radicalizzazione: quella, per definizione univoca, del monologo. Se nel libro la presenza di Folco è nascosta tra le parole del padre, come un testimone silenzioso cui viene concesso l’onore della ricostruzione e del montaggio, il paradosso, cioè, di una “delega autobiografica”, nel film il suo personaggio perde efficacia proprio perché ne viene mostrata con tanta insistenza la funzione, mentre, al contempo, ne è ridimensionato l’effettivo apporto narrativo. In La fine è il mio inizio , Elio Germano è poco più di un ingombro visivo che intervalla lo strapotere dell’one man show interpretato da Bruno Ganz.
Poco male, si dirà, visto il rispettivo calibro degli interessati. In realtà, più che per demeriti attoriali, è la reiterazione di una sintassi registica piattamente stereotipata a banalizzare gli incontri e l’interazione tra i due uomini, incatenata com’è a un inventario limitato di varianti filmiche, che non si spinge mai oltre la ricetta di una retorica visiva povera, o peggio standard: campo lungo sulle verdi vallate dell’Orsigna (Appennino tosco-emiliano, dove Terzani ha aspettato la morte, sopraggiunta nel 2004), primo piano sul volto guru di Ganz, come Terzani, barba incolta e lunghi abiti bianchi, contro-campo di servizio sull’inebetito Germano che, sotto una pergola di vite, fissa muto l’orizzonte, impegnato in quella che dovrebbe essere scambiata come un’intensa contemplazione dei lasciti paterni. Il risultato è sì il ritratto di un uomo eccezionale, capace cioè di saper fare eccezione rispetto a una normalità intesa come vuoto di stimoli, curiosità, idee. Un asso del giornalismo che ha cercato la verità nei fatti e poi al di là di essi, verso una verità più grande che, spesso, proprio i fatti tendono a nascondere. Ma anche un’opera monocorde e un po’ stucchevole, dall’effetto pressoché incolore. Per chi volesse farsi un’idea meno impacchettata di Tiziano Terzani, il dvd Anam il Sen- zanome , che contiene la sua ultima intervista rilasciata, poco prima della scomparsa, al regista Mario
Zanot, rimane probabilmente lo strumento più incisivo. Lorenzo Donghi
THE NEXT THREE DAYS Paul Haggis Titolo originale: id. Regia e sceneg- giatura: Paul Haggis. Soggetto: dalla sceneggiatura di Pour elle (2008), di Fred Cavayé e Guillaume Lemans. Fotografia: Stéphane Fontaine. Mon- taggio: Jo Francis. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Laurence Bennett. Costumi: Abigail Murray. Inter- preti: Russell Crowe (John Brennan), Elizabeth Banks (Lara Brennan), Michael Buie (Mick Brennan), Moran Atias (Erit), Remy Nozik (Jenna), Ty Simpkins (Luke), Jason Beghe (il detective Quinn), Aisha Hinds (il detective Collero), Olivia Wilde (Nicole), Helen Carey (Grace Brennan), Brian Dennehy (George Brennan),Toby e Tyler Green (Luke a tre anni), Liam Neeson (Damon Pennington), RZA (Mouss). Produzione: Olivier Delbosc, Paul Haggis, Marc Missonier, Michael Nozik per Hwy61/Fidélité Films. Distribuzio- ne: Medusa. Durata: 122’. Origine: Usa/Francia, 2010.
The Next Three Days , ovvero come il cinema di genere cerchi di sopravvivere a se stesso. Sempre uguale, prevedibile, magari per alcuni pure n oi os o, m a, c red ia mo, m ai c os ì tanto da risultare insostenibile. Può sembrare implausibile quanto si vuole, può gettare il suo protagonista nelle più assurde delle situazioni, ma se continuasse per ore al solito ritmo, pezzo per pezzo, ostacolo dopo ostacolo, non fallirebbe mai. Al cinema, a volte, non si chiede altro: che faccia il cinema e magari lo dia anche a vedere. In The Next Three Days non c’è vera azione, tutto si muove per soddisfare l’esigenza di completezza del racconto tornando al posto che gli spetta: come se ogni elemento
fosse mosso da una calamita. Che poi il film sia un remake (del francese Pour elle di Fred Cavayè, inedito in Italia) non fa che confermare la meccanicità dell’operazione di Haggis, il suo esibito meccanismo di sostituzione e riempimento. Un procedimento così elementare ed evidente da dare un senso – per quanto labile – al fatto che il regista di Crash e Nella valle di Elah , due film che soffrivano proprio di un’ingombrante autorialità, abbia rinunciato allo status artistico per girare un semplice thriller d’azione. The Next Three Days procede diritto per la sua strada, non si ferma a riflettere su se stesso. Visto il nome sopra il titolo, a voler essere spettatori pigri, ci si aspetterebbe qualcosa in più, quel tanto di cognizione che allontana dal cinema commerciale: ma questa volta non c’è altra realtà oltre a quella riprodotta. Siamo nel pieno dominio della classicità, aliena alla consapevolezza della modernità quanto al pandemonio del postmoderno; ciò che si mette in scena è un sogno impossibile noto solamente al cinema (di genere): il sogno vecchio come Hollywood che l’ordine delle cose possa essere ristabilito dalla narrazione. Le tappe del racconto si presentano in scena come passaggi obbligati, l’immaginazione dell’eroe, artefice di un piano che ha bisogno della concomitanza di ogni sua parte, crea un castello di ipotesi plausibili solo se seguite da una reazione prevista. Due più due deve dare quattro, e soprattutto non darà mai cinque. Ne va della credibilità della trama (ché tanto l’incredulità abbiamo imparato a sospenderla) e dell’illusione dell’eroe, mai come in questo caso unica matrice del racconto. Ogni passo che John Brennan compie da un certo punto in poi della trama, da quando cioè olia alla perfezione, ma solo nella sua testa, il piano per liberare la moglie di prigione, è un pezzo che partecipa alla creazione di un quadro finale infallibile, articola-
to e saldo come le ramificazioni urbane di una cartina geografica. Un percorso segnato, indicato dal conto alla rovescia suggerito dal titolo, che porta allo zero, alla fine del disordine, a un nuovo inizio. Non c’è fuga vera e propria, la trama non è da spezzare, come nei racconti di jailbreaking , ma al contrario da ricostruire (che a voler essere pignoli rappresenta il procedimento stesso del remake, ricomposizione di un ordito disfatto). John Brennan non agisce, bensì riproduce un piano già scritto. La trama si rivela un tracciato soffocato dalla sua stessa inevitabilità e per sua natura necessario: per liberare una donna, per rimpossessarsi della propria vita, per confermare a se stessi di essere nel giusto, per tornare a credere, a quel livello simbolico che rende il cinema commerciale interessante, nell’equilibrio dell’immaginazione, nella forza di un cinema che sa inscenare una palingenesi del quotidiano. Sarà per questo, perché in fondo è un film rassicurante, che The Next Three Days ha riscontrato un notevole successo in Italia (un milione di euro alla prima uscita). Il cinema americano ha ancora bisogno di forgiare la realtà secondo un proprio ordine stabilito e il pubblico di seguire orme bene in vista che portano sani e salvi verso altri mondi, verso finali scontati e nuovi inizi da non raccontare. Roberto Manassero
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FOCUS
PORCO ROSSO di Hayao Miyazaki
IL VOLO DEL MAIALE Fabrizio Liberti
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Realizzato nel 1992 e proclamato alcuni anni fa da una giuria di esperti come il miglior lungometraggio della storia del Cinema di Animazione, Porco Rosso è uscito in Italia con quasi vent’anni di ritardo. Il film, ispirato al manga «Hikotei Jidai» realizzato dallo stesso Miyazaki nel 1989 per la rivista «Model Graphix», per il suo autore in principio doveva essere solo un mediometraggio proiettato a bordo degli aerei della Jal, la compagnia aerea giapponese. Solo in un secondo momento egli si convinse a farlo diventare un film vero e proprio. Porco Rosso non sperimenta il fantasy estremo di Tenkû no shiro Rapyuta (Laputa – Il castello nel cielo , 1986), Kaze no tani no Naushika (Nausicaä della Valle del Vento , 1984) e Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro , 1988), ma contiene in sé molti temi cari al maestro giapponese. Innanzi tutto la straordinaria passione
per tutto ciò che ha un’anima meccanica e in particolare per gli aeroplani. Dietro a questo film c’è un lavoro di documentazione davvero scrupoloso, che ha comportato anche un viaggio in Italia per studiare paesaggi e colori che avrebbero fatto da sfondo alle avventure di questo maiale volante. Un rapporto con l’Italia che risale indietro nel tempo, almeno al 1979, quando il ladro gentiluomo Lupin III si spostava utilizzando una Fiat 500, orgoglio della tecnica e del design automobilistico italico. Ancor più importante è, però, il rapporto di amicizia che nasce durante i primi anni Ottanta con i fratelli Marco e Gina Pagot, eredi del grande Studio italiano di animazione, con i quali collabora nella realizzazione per la Rai della serie televisiva Meitantei Holmes (Il fiuto di Sherlock Holmes , 1984-85). Molto si è detto a proposito dell’origine dei nomi dei due protagonisti del
film; in realtà si tratta della stima e di un omaggio del maestro giapponese nei confronti dei suoi due amici e colleghi italiani. Della passione di Miyazaki per il volo e i velivoli si è scritto in abbondanza e probabilmente essa nasce negli anni dell’infanzia quando il padre lavorava per una azienda che costruiva pezzi per i famigerati aereoplani Zero, che furono una spina nel fianco per gli americani nella guerra nel Pacifico e sui quali volavano anche i tristemente famosi kamikaze. Curioso che il significato della parola giapponese kamikaze sia traducibile come “vento divino” ,e che anche il nome della casa di produzione legata ai successi di Miyazaki sia quello di un vento, il Ghibli, vento del Sahara ma anche appellativo del velivolo italiano Caproni Ca. 309 che Miyazaki cita affettuosamente quando ne pone l’iscrizione sul motore che Porco Rosso fa montare dal suo meccanico Piccolo e da sua nipote Fio sul suo idrovolante, ricostruito dopo essere stato mitragliato dal suo avversario Donald Curtis. Porco Rosso, però, si trova agli antipodi dei kamikaze: infatti, egli è il classico antieroe con un pizzico di mistero nel suo passato, che piuttosto rassomiglia ad alcuni personaggi del cinema di Hawks e Ford. Porco è un pilota che non uccide ma irride i suoi avversari, e in realtà ciò che ne annienta è l’onore che, come per un giapponese, è più importante della vita stessa. Tornando per un attimo alla passione del regista per i velivoli, ricordiamo in sintesi le numerose e dotte citazioni contenute nel film. Il cognome dell’antagonista di Porco è quasi identico a quello di un progettista americano, Glenn Curtiss, che diede il suo nome a un idrovolante che aveva battuto nel 1925 gli italiani nella celebre Coppa Schneider (una sorta di campionato mondiale per idrovolanti che si svolse dal 1913 al 1934) tra i quali uno con il motore Folgore, quello che viene montato sul velivolo di Porco. I nomi dei due piloti degli idrocaccia della nave passeggeri attaccata dai pirati della banda “Mamma Aiuto”, sono quelli di due eroi del volo italiani, Francesco Baracca e Adriano Visconti. Infine, il nome della banda “Mamma Aiuto” è un piccolo refuso di Mammaiut, soprannome dell’idrovolante Cant Z.501, nonché grido del 15° Stormo. Piccoli refusi che si rincorrono nel film ma che danno la misura del grande e meticoloso lavoro di documentazione fatto da Miyazaki durante il suo viaggio in Italia. Già all’inizio del film, beato al sole sulla spiaggia della sua isoletta, Porco si diletta nella lettura della rivista «Cinema», sulla cui copertina sbirciamo l’anno 1929. Ma la celebre rivista, sulle cui pagine scrissero alcuni dei talenti critici e registici italiani più importanti, fu fondata solo sei anni più tardi. Anche Alcione, la barca di Gina, è un rimando,
oltre che al nomignolo dato al trimotore Cant Z.1007, all’Alcyone di Gabriele D’Annunzio, che proprio in quelle zone legò il suo nome a celebri imprese belliche durante e dopo la Prima guerra mondiale. Particolarmente dettagliata e affascinante è la ricostruzione dei Navigli milanesi, attraverso i quali Porco e Fio sono protagonisti di una fuga mozzafiato con il nuovo idrovolante per sfuggire alla polizia segreta fascista. E il fascismo non deve essere proprio simpatico al regista, che fa dire al suo protagonista, rivolto al vecchio compagno d’armi che gli rivela che la polizia è sulle sue tracce, «piuttosto che diventare un fascista meglio essere un maiale». Stessa musica quando l’impiegato di banca gli consiglia di investire i suoi soldi in titoli patriottici, e al quale risponde tagliente «Queste cose fatele tra voi umani». Oltre alla innata passione per i macchinari in genere e per i velivoli in particolare, in Porco Rosso Miyazaki sfrutta la sua mai celata simpatia per il maiale, esplicitata a partire dal nome dello Studio Ghibli che in giapponese è anche detto buta-ya , ovvero “la casa del porco”, per via dell’insegna vittoriana raffigurante un maiale che spicca sul portico dell’edificio che ne ospita la sede. Quindi, anche se per noi occidentali, e pure per Marco Pagot (quando venne a sapere di questo omaggio), un protagonista maiale
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suona un po’ bizzarro, per il maestro giapponese si tratta, invece, di un atto di grande affetto. Il maleficio che ha trasformato il pilota Marco Pagot in Porco Rosso non viene mai chiarito, ma parrebbe ricondursi al suo disagio, quasi un disonore, di sentirsi un sopravvissuto nei confronti dei suoi amici piloti caduti in combattimento. Tale ipotesi sembra suffragata dal sogno che egli ebbe durante un duello aereo contro gli austriaci sui cieli dell’Istria, in cui venne abbattuto l’amico Berlini che da soli due giorni era diventato lo sposo di Gina. Spossato da quel duello, Marco aveva sognato di entrare in una specie di nube luccicante, una sorta di coda di una cometa che, guardando con attenzione, era composta dagli aerei di ogni nazione abbattuti in guerra, e che gli fa dire con tristezza a Fio: «Quelli bravi erano quelli che sono morti». In qualche modo quella trasformazione è il fio da pagare al destino di essere sopravvissuto a una morte che non lo aveva voluto. La figura del maiale legata a un maleficio riapparirà anche in seguito nell’opera del regista, e più precisamente in Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata , 2001). Qui, però, l’origine del maleficio è meno nebu-
losa, e colpisce i genitori della piccola Chihiro una volta entrati nella città incantata. Il maleficio li colpisce a causa dell’ingordigia con cui si gettono sui succulenti piatti ancora fumanti nel ristorante, e solo la purezza di spirito e di “sguardo” di Chihiro sarà in grado di riportarli al loro stato di esseri umani. Un altro omaggio, il film lo rende a colleghi importanti come i fratelli Fleischer, i grandi animatori della Warner e Walt Disney, quando Porco si trova a guardare in un cinema di Milano un film che sembra un mix tra Plane Dippy (1936, di Tex Avery), Gertie the Dinosaur (Gertie il dinosauro , 1914, di Winsor McCay) e una delle Silly Symphonies . Infine, arriviamo al personaggio della giovane Fio, meccanico, nipote di Piccolo, che si guadagna la fiducia del perplesso Porco convincendolo ad affidarle il progetto del nuovo idrovolante. In questo personaggio femminile, Miyazaki continua a fare il ritratto, che si ripete e si completa in quasi tutti i suoi film, di una figura femminile adolescente, volitiva e che contiene in sé i germogli migliori della razza umana. Di solito si tratta di una figura in cui non si palesa un discorso né sentimentale né tantomeno sessuale, ma in questo caso assistiamo a una parziale aporia. Infatti, Porco spesso cerca di allontanare da sé ogni manifestazione di affetto da parte della sua giovane assistente, nonché figlia di un suo commilitone, che invece sembra in qualche modo subire il fascino dell’uomo adulto e sicuro di sé. Come nella scena sull’isola di Porco, in cui la ragazza, tra il serio e il faceto, si offre di baciarlo per vedere se quel bacio, come nella favola del “Principe ranocchio”, potesse in qualche modo rompere il sortilegio e restituirgli le sue fattezze umane. Porco si sente a disagio per questi atteggiamenti, e chiaramente il regista si diverte a fare in modo che colui che non teme neppure la morte appaia, invece, timoroso di fronte alle caste avances di una giovane donna. Ironia scherzosa del regista che si palesa anche nel tratteggio che fa del bellimbusto Curtis, innamorato di Gina, alla quale confida che nel suo futuro egli intravede il trionfo a Hollywood e un successivo ruolo di Presidente degli Stati Uniti d’America; vi ricorda qualcuno?
PORCO ROSSO Titolo originale: Kurenai no buta. Regia, sceneggiatura e montaggio: Miyazaki Hayao. Fotografia: Okui Atsushi. Musica: Joe Hisaishi. Scenografia: Hisamura Katsu. Voci: Moriyama Shûichirô/Massimo Corvo (Porco Rosso), Okamura Akemi/Joy Saltarelli (Fio Pikkoro), Kato Tokiko/Roberta Pellini (Gina), Ohtsuka Akio/Fabrizio Pucci (Donald Curtis), Kamijo Tsunehiko/Paolo Buglioni (il boss dei “Mamma Aiuto”), Seki Hiroko (la nonna). Produzione: Suzuki Toshiom Rick Dempsey per Studio Ghibli/Tokuma Shoten/Nippon Airlines/Ntv. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 94’. Origine: Giappone, 1992.
LA STRANA COPPIA Intervista a Marco Pagot a cura di Fabrizio Liberti – Siamo curiosi di sapere quando e come è avvenuto il tuo incontro con Miyazaki Hayao… – Eravamo nel 1979. Luciano Scaffa, allora dirigente Rai che si occupava di animazione, decise di iniziare una collaborazione produttiva con il Giappone per non essere più solo un fruitore del prodotto animazione. Quindi iniziò con il selezionare una serie di proposte italiane che secondo lui avevano delle buone potenzialità per essere prodotte con i giapponesi e tra queste ce n’era una del nostro Studio. Così io parto per il Giappone con una delegazione italiana, e lì scopro che Tms [Tokyo Movie Shinsha, forse lo Studio più importante in Giappone in quel periodo, ndr] aveva selezionato tra i vari programmi, proprio il mio che era Il fiuto di Sherlock Holmes . Arrivati alla Tms, mi viene presentato Miyazaki Hayao,
che per me era ancora un personaggio sconosciuto perché fuori dal Giappone allora non era ancora così noto. Miyazaki fu incaricato dal presidente Tms Fujioka Yotaka di realizzare i primi episodi di questa serie televisiva. Fujioka voleva avere il meglio di quello che l’animazione giapponese poteva offrire, e infatti la squadra che realizzò la serie è stata giudicata per anni come la migliore équipe di animazione giapponese. Mi trovo così, abbastanza ragazzino, a collaborare con quello che poi scopro essere un astro nascente e successivamente un mostro sacro dell’animazione giapponese. Io ero entusiasta, ma anche un po’ timido nei confronti dei produttori, lui invece molto curioso di cercare di capire i gaijin , coloro che non sono nativi del Giappone, ma comunque sempre tenendoci a debita distanza e pure animato da un certo nazionalismo.
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– Quanto tempo avete collaborato… – Direi che la collaborazione è durata per un paio di anni, a fasi alterne, più intensa all’inizio, poi un po’ rallentata, perché dopo aver realizzato l’episodio pilota, per la partenza della serie vera e propria i tempi si allungarono. – C’è qualche aneddoto che ci puoi raccontare a pro- posito della vostra collaborazione? – Be’, per esempio quello di fondere le povere interpreti, perché eravamo due zucconi, sostenendo sempre a spada tratta le nostre tesi, e avevamo chiaramente bisogno di un interprete. Solo che, iniziando alle dieci del mattino e andando avanti fino alle dieci di sera con la sola eccezione di una pausa verso mezzogiorno per un panino, la prima interprete a un certo punto fondeva e diceva «Io non ce la faccio più», perciò passavamo alla seconda… Poi, quando le discussioni si infervoravano, lui parlando giapponese e io in italiano, la responsabile delle interpreti Hiroko Watanabe, personaggio fondamentale per il nostro lavoro e figlia di samurai, diceva «Basta! Zitti tutti e due e ascoltatevi prima di continuare a parlare». Un’altra curiosità è che lui pensava ai personaggi del film in una forma canina, a una donna per interpretare Mrs. Hudson, e Moriarty per lui era un pipistrello; insomma un universo un po’ diverso da quello che avevo pensato io, e tutte le volte dovevo spiegargli le mie intenzioni e convincerlo. Forse, la sua visione era più “matta”, ma sicuramente meno adatta al pubblico a cui era indirizzata.
Un personaggio già allora molto sicuro di sé, del suo lavoro; il suo talento era già enorme, e il fatto che bene o male gli fossi stato imposto come capo del progetto, non è che lo rendesse felice. Lui non mi conosceva, e non sapeva ancora che io avevo voglia di collaborare; inoltre, qualche tempo prima, aveva avuto una brutta esperienza con i francesi, che pretendevano di dettare legge non ascoltando le richieste dei giapponesi.
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– E come sei riuscito a conquistare la sua fiducia? – Forse perché ero molto curioso e volevo scoprire sempre nuove cose, e quindi nello spiegare il progetto cercavo sempre di capire i motivi delle sue obiezioni. In realtà, il mio progetto era più adulto e non era pensato inizialmente per un target di ragazzi. Era stato concepito con i tedeschi per un target decisamente adulto. Poi, nello sviluppo, essendo stati sostituiti i tedeschi con i giapponesi, ci siamo resi conto che il pubblico a disposizione per quel prodotto era quello dei ragazzi; pertanto abbiamo modificato alcuni elementi rispetto all’idea originaria. Perciò credo di avergli dimostrato una certa flessibilità e disponibilità ad accogliere anche le idee altrui.
– Comunque è nata un’amicizia, tanto che Miyazaki ti ha dedicato uno dei suoi personaggi più famosi… – Anche se non riusciamo a frequentarci molto, per la distanza e per la difficoltà della lingua, quando vado in Giappone, se lui non ha impegni impellenti, riusciamo sempre a vederci. Mi piace, per esempio, portargli qualche libro italiano che penso lo possa incuriosire, e posso dire che si è instaurata una buona conoscenza. Comunque, è stata una sorpresa per me scoprire quella dedica che, confesso, in un primo tempo mi aveva spiazzato. Ero in Giappone e Watanabe Hiroko, con la quale continuavo a collaborare, mi dice: «Lo sai che Miyazaki sta facendo un nuovo film?». «Benissimo», le rispondo. «Dovrei dirti anche un’altra cosa e non so se ne sarai felice, ma ci sei anche tu… perché il personaggio principale si chiama Marco Pagotto». «Che onore», dissi io. «Ma veramente il tuo personaggio è un maiale chiamato anche Porco Rosso». Confesso che qualche preoccupazione ce l’avevo, e il fatto che venissi abbinato a un rivoluzionario chiamato il Porco Rosso non mi tranquillizzava; poi, ovviamente, quando vidi il film mi resi conto che si trattava di una dedica molto carina e apprezzata, e la prima visione la ebbi su un volo della Jal.
L’OCCHIO DEL CICLONE Bertrand Tavernier
FOCUS
SANGUE SULLA PALUDE Nicola Rossello Regista di solida preparazione cinefila, nonché profondo ammiratore della cultura americana (cinematografica, musicale, letteraria), Bertrand Tavernier ha inteso comporre con questa sua nuova pellicola (1) una sorta di omaggio al cinema dei grandi maestri hollywoodiani, in particolare ai maestri della “serie B”. La gloriosa mitologia del genere criminale, nella fattispecie del giallo a enigma, è qui consapevolmente assunta ed esibita nella riproposta delle sue figure canoniche (il poliziotto idealista, il maniaco omicida, il boss mafioso…) come pure dei suoi schemi, delle situazioni e dei tracciati linguistici e narrativi (la voce off, la serie dei delitti efferati, i locali equivoci, la suspense, il crescendo drammatico…). In particolare, la prima parte
del film, condotta sui tempi secchi ed energici della tradizione polar, ha fatto nascere in qualcuno il sospetto di un certo accademismo, quasi che l’esecrata “qualità francese”avesse scelto, in questa occasione, di svernare sul Delta del Mississippi. In realtà, le scelte espressive con cui il regista ha inteso misurarsi con i codici del genere (2) rispondono a un preciso disegno autoriale e restano ben lontane dal compiaciuto manierismo di certo poliziesco contemporaneo. Per Tavernier si tratta di appropriarsi dei procedimenti abituali e convenzionali della detection story , adottando nel contempo uno sguardo per molti aspetti inedito e audace, capace di sconcertare lo spettatore e di eludere le sue attese. Si consideri soprattutto il
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giante da cui il viaggiatore straniero non può non sentirsi ammaliato. Nel frattempo il meccanismo giallo, condotto su scansioni ritmiche viepiù nervose e vibranti, procede dispiegando improvvise accensioni cromatiche e inserti di realismo brutale (ma il film, nonostante la crudezza del plot, ricusa l’estetica della violenza e si tiene lontano dagli elementi splatter ). Il montaggio sa essere agile e tagliente, ed ellittico. Sicché la pellicola giunge a scorciare efficacemente quei sintagmi esplicativi che condurranno, infine, alla soluzione dell’enigma. La parte conclusiva del racconto conserva qualcosa di convenzionale e di irrigidito. Lo stesso regista ne era forse consapevole, sicché ha pensato bene di chiamare in soccorso la propria erudizione cinefila. E così il confronto chiarificatore tra il protagonista e Twinky LeMoyne ricorda l’explicit di La décade prodigieuse (Dieci incredibili giorni , 1971) di Claude Chabrol, mentre la chiusura della pellicola sulla fotografia dei soldati confederati che Alafair osserva su un libro di storia è un chiaro omaggio a The Shining (Shining , 1980) di Stanley Kubrick.
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registro fantastico: esso si insinua di soppiatto tra gli interstizi del racconto (le ripetute apparizioni, ai confini tra l’incubo e l’evento reale, del vecchio generale confederato), trascinando l’intrigo giallo lungo percorsi narrativi decisamente anomali, senza che peraltro le tecniche di ripresa consentano al pubblico in sala di cogliere agevolmente gli slittamenti del racconto sul fantasmatico («Io credevo alle visioni di Robicheaux», assicura il regista a ogni buon conto). La stessa storia criminale (un groviglio tortuoso e labirintico che intreccia due indagini e due dimensioni temporali: la caccia a uno spietato serial killer, oggi; la riesumazione di un delitto razziale consumato quaranta anni addietro) passa in secondo piano rispetto alla costruzione dei personaggi e alla definizione dell’ambiente. Ecco allora la cinepresa dilatare i tempi e i modi dell’azione, indugiare su elementi digressivi rispetto al congegno poliziesco, soffermarsi su particolari non strettamente funzionali all’economia dell’inchiesta (cosa che, a quanto pare, non è piaciuta affatto ai produttori americani, i quali sono intervenuti pesantemente sulla versione del film distribuita – direttamente in dvd – negli Stati Uniti). Tavernier decide dunque di prendersi il suo tempo. Il suo interesse, del resto, appare rivolto non già all’intrigo, ma all’esplorazione dei volti e dei luoghi entro cui ha scelto di calare la vicenda. E così egli procede per sottrazione drammatica, prolungando le parentesi intimiste, i tempi vuoti delle attese. Ciò gli consente di assaporare i profumi, cogliere i colori e i suoni di una Louisiana misteriosa e sfuggente: un paesaggio dallo splendore lussureg-
LA COLLERA DEL BUON SAMARITANO
Lo scioglimento poliziesco, come avviene nei migliori romanzi gialli di Simenon, più ancora che all’analisi minuziosa delle tracce, degli indizi, dei dettagli, è affidato alla conoscenza intuitiva degli uomini e delle loro miserie. «Il mio istinto mi aveva guidato bene», potrà commentare Robicheaux al termine della detection . Dave Robicheaux, aiutante dello sceriffo di New Iberia, Louisiana, ha un metodo tutto suo di condurre le indagini. «i sono due modi di guardare al concetto di comprensione», confida alla moglie «Uno è: se non guardi, non vedrai mai. L’altro è: se guardi un po’ meno, puoi vedere molto di più». Nelle parole di Dave è possibile leggere, certamente, una precisa dichiarazione d’intenti (che sembra riguardare il cineasta prima ancora che il protagonista del film). Ma, forse, Dave ci sta dicendo anche qual(1) Tratto da un romanzo di James Lee Burke, L’occhio del ciclone è stato trasmesso in Italia direttamente da Sky il 30 marzo 2011. E questo nonostante la presenza di star di grande richiamo come Tommy Lee Jones e John Goodman nei ruoli principali. Intanto le nostre sale – anche le sale d’essai – sono intasate da prodotti men che mediocri, talora decisamente ignobili…
(2) Già in passato Tavernier ha affrontato il cinema criminale, con noir d’impronta gauchiste (L’horloger de Saint-Paul [L’orologiaio di Saint- Paul , 1974], da Georges Simenon, ma la sceneggiatura era di Jean Aurenche e Pierre Bost, due mostri sacri della “tradizione di qualità”) o nichilista (Coup de torchon [Colpo di spugna , 1981], da Jim Thompson, ancora con sceneggiatura di Aurenche), ovvero con polar sui generis , di taglio documentario (L.627 [Legge 627 , 1992]) o antropologico (L’appât [L’esca , 1995]). Questa è la prima volta, tuttavia, che Tavernier si affida ai luoghi canonici del giallo a enigma. (3) Il libro di Burke, scritto nel 1993, non fa parola ovviamente dell’uragano Katrina. L’idea di trasportare l’azione al presente e di alludere agli interventi della mafia locale sulle sovvenzioni governative destinate alla ricostruzione è di Tavernier.
cos’altro, qualcosa che non concerne, semplicemente, il modo più efficace di leggere i dati di un’inchiesta poliziesca. Forse egli vuol farci intendere che, per un poliziotto del suo stampo, accostarsi troppo da presso a una realtà malata può comportare dei rischi. Votato a una lotta senza quartiere contro criminali mafiosi e assassini psicopatici, Robicheaux teme di smarrire la propria integrità morale e di lasciarsi contagiare dal male stesso che è chiamato a combattere. L’uomo della legge diviene qui una presenza ambigua, contraddittoria. Egli è consapevole di agire da una posizione non rassicurante. Ossessionato da torbidi sensi di colpa (da bambino ha assistito, impotente, a una scena di linciaggio), vittima dei demoni di un passato doloroso, mai del tutto sanato (ha conosciuto l’orrore della guerra, l’abbrutimento dell’alcool), Robicheaux sa di dover combattere una continua battaglia contro il lato oscuro di sé, un germe insidioso, sempre in agguato, alimentato da pulsioni distruttive, capaci di trasformare la sua inflessibile sete di giustizia in momenti di violenza incontrollata. E così, quando sente che il marciume ha superato i limiti di guardia, quando qualcuno arriva a rapire la piccola Alafair, Dave perde il controllo di sé e non esita a falsificare le prove e a picchiare a sangue i testimoni reticenti, a minacciarli di morte. E tuttavia, accanto allo sdegno morale e alla collera, in Robicheaux agisce l’attitudine del buon samaritano (come quando, nella stazione degli autobus, dopo aver riempito di cazzotti un magnaccia, offre tutto il denaro che ha in tasca a due ragazze che rischiavano di finire sulla strada). A differenza di un Philip Marlowe, testimone distaccato di una società votata al disfacimento a cui sente di non appartenere, Dave non è un corpo estraneo all’ambiente in cui vive e che ha deciso di difendere. La sua lotta contro la corruzione non è affatto la lotta di un eroe solitario. Altri poliziotti (Rosie Gomez, Lou Girard) si fanno in quattro per aiutarlo. La sua splendida famiglia lo sostiene, circondandolo di affetto. E l’umanità con cui ha a che fare non è sempre un’umanità corrotta. Molti degli individui che incrociano la sua strada – divi del cinema, ex galeotti, prostitute – rivelano di essere delle brave persone: creature fragili, talora confuse e smarrite, ma brave persone. Appare evidente allora come la determinazione che spinge Robicheaux all’azione nasca da un bisogno affannoso di redenzione personale, ma anche dal desiderio di proteggere dal male quel che resta del proprio paradiso perduto. Il problema, per Dave, è che il paese che egli vuole salvare sembra avere definitivamente smarrito la sua innocenza. Forse non l’ha mai davvero posseduta. La storia della Louisiana, ci viene detto a chiare lettere nel film, è una storia di guerre, odio razziale, abiezione. L’investigazione stessa è destinata a riportare allo scoperto un paesaggio lacerato, soffocato dal crimine e dalla violenza, in cui agli orrori del presente (i corpi straziati delle vittime del maniaco sessuale) si sommano quelli del
passato (il linciaggio dell’uomo di colore di cui Dave era stato testimone da bambino; i fantasmi della guerra di Secessione). È come se sulle paludi della Louisiana gravasse da sempre un’oscura maledizione, la stessa che attraverso l’uragano Katrina si è abbattuta sui quartieri poveri di New Orleans, devastandoli (3). Robicheaux, lui ha deciso di dare ascolto alle parole del generale sudista («Non compromettere i tuoi principi. Non abbandonare la tua causa») e di opporsi con ogni mezzo alla «gente venale e malvagia che sta distruggendo il mondo in cui è nato». Ma egli sa pure che la sua guerra non potrà mai essere completamente conclusa, la maledizione mai del tutto sconfitta.
L’OCCHIO DEL CICLONE – IN THE ELECTRIC MIST Titolo originale: In the Electric Mist. Regia: Bertrand Tavernier. Soggetto: dal romanzo «L’occhio del ciclone» di James Lee Burke. Sceneggiatura: Jerzy Kromolowski, Mary OlsonKromolowski. Fotografia: Bruno de Keyzer. Montaggio: Larry Madaras, Roberto Silvi, Thierry Derocles (versione francese). Musica: Marco Beltrami. Scenografia: Merideth Boswell. Costumi: Kathy Kiatta. Interpreti: Tommy Lee Jones (Dave Robicheaux), John Goodman (Julie “Baby Feet” Balboni), Peter Sarsgaard (Elrod Sykes), Mary Steenburgen (Bootsie Robicheaux), Kelly Macdonald (Kelly Drummond), Justina Machado (Rosie Gomez), Ned Beatty (Twinky LeMoyne), James Gammon (Ben Hebert), Pruitt Taylor Vince (Lou Girard), Levon Helm (il generale John Bell Hood), Buddy Guy (Sam “Hogman” Patin), Julio Cedillo (Cholo Manelli). Produzione: Frédéric Bourboulon, Michael Fitzgerald per Ithaca Pictures/Little Bear/Tf1 International. Distribuzione: Mikado. Durata: 117’. Origine: Usa/Francia, 2009.
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IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
SAGGI
Madre e figlio
SOKUROV E LA VOCE SOLITARIA DELL’UOMO Sergio Arecco – Ma chi ha detto che ho una storia? Io non ho una storia… – Allora, come mai siete vissuto, se non avete una storia? – Non ho affatto una storia! Sono vissuto così, per mio conto, completamente solo…». «
(Fëdor M. Dostoevskij, «Le notti bianche», II) 3 0 5 m u r o f e n i c
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1. Il
russo celovek designa l’uomo nel suo predicato più universale e impersonale: uomo in quanto umanità, senza specificazione di sesso o età. Odinokij glos celoveka (La voce solitaria dell’uomo, 1978), il saggio di diploma con cui Aleksandr Sokurov conclude da
esterno gli studi al Vgik di Mosca – proprio perché, secondo le autorità dell’Istituto, è pericolosamente incline a un’elegija generalizzata dell’umanità dolente – viene tacciato di formalismo antisovietico e respinto. Sicché Sokurov, per conseguire il diploma, deve “ripetere l’esame”, ossia realizzare un nuovo documentario, Marija , meno esplicitamente compromesso con la sua vocazione lirica e diaristica. Per fortuna Odinokij glos celoveka godrà di una circolazione clandestina e sarà
prima selezionato per il Festival di Locarno 1979, poi premiato e diffuso come esempio di un cinema la cui faktura – termine non casuale dei formalisti russi degli anni Venti – deve certo molto a quella del cinema di Andrej Tarkovskij ma si presenta nondimeno con tratti talmente pronunciati di manipolazione dell’immagine – intersezione tra documento e fiction, corto e lungometraggio, allure grottesca e allure contemplativa, pittura e letteratura, metafisica minimale e metafisica subliminale, pellicola e digitale – da proporsi come costruzione autonoma. L’elemento unificante dell’ele- gija , sorta di diarismo intimo applicabile non solo ai dieci film che portano questo titolo-dicitura ma a tutte le prosopopee del regista, assicura a sua volta uno sconfinamento totale tra i generi e i sottogeneri, tra i supporti e le stilistiche, tra le strutture e le scritture, e promuove a categoria etico-estetica quell’idea di fluttuazione perenne che è leggibile, in Sokurov, sia sul piano del profilmico sia sul piano del filmico – non sarà fuori luogo ricordare che il russo intende la voce elegija nello stesso senso “fluttuante”in cui la intendeva il giapponese Kenji Mizoguchi negli anni Trenta, ad esempio in Naniwa ereji (Elegia di Osaka, 1936). La prosopopea è la figura retorica grazie alla quale s’introducono a parlare persone assenti o morte, o anche cose astratte, come se fossero vive e presenti. In quella che per noi è un trittico esemplare e irripetibile sulla religio degli affetti familiari – Mat’ y syn (Madre e figlio , 1997), Otec y syn (Padre e figlio , 2003) e Aleksandra (Alexandra , 2007), ove la relazione nonna-nipote appare non meno viscerale delle relazioni intime raffigurate nei primi due – la figura retorica della prosopopea spicca tra le altre, peraltro non meno insistenti e pervasive, per una rilevanza specifica tutta sua, dal momento che incide sulla natura stessa della faktura : anamorfica in Madre figlio , polimorfica in Padre e figlio , teratomorfica in Alexandra . 2. Il denso, estenuato, totalizzante pittoricismo di Madre e figlio rimanda certo, com’è opinione comune,
all’impasto pittorico di Caspar David Friedrich, al suo perpetuo indugiare sui crepuscoli del mattino o della sera, sugli strati di nuvole in viaggio o sui cumuli di nuvole minacciosamente in agguato, su un sentimento panico della natura capace di fondere uomo ( celo- vek ) e natura ( priroda ), corpo e anticorpo, materia e antimateria, in una spettroscopia senza limiti né confini visibili – tutt’al più una croce, a segnare una frontiera comunque e sempre valicabile grazie all’energia spirituale di cui l’uomo dispone. Ma rimanda altresì, proprio per l’azione effusiva dell’anamorfosi, a «Gli ambasciatori» di Hans Holbein il Giovane (1533), a quel prodigio prospettico che sposta il centro d’interesse dalla figura dei due protagonisti alla rappresentazione delle molteplici nature morte poggiate sui
ripiani e alla composizione dei diversi gruppi di oggetti simbolici (come il liuto dalle corse spezzate), fino a culminare nello schizzo anamorfico del teschio posto ai piedi di Jean de Dinteville e Georges de Selve a mo’ di vanitas o memento mori in contrasto con le effimere onorificenze della vita: un’immagine dalla prospettiva allungata e distorta, illeggibile se osservata di fronte, e leggibile solo se guardata di lato o traguardata di scorcio. Quegli autentici ambasciatori della vanitas o del memento mori che sono, nella prosopopea di Madre e figlio – icone polverose, nature morte perlopiù allungate in orizzontale o in verticale in conformità con le prospettive oblunghe della dimora interna, ossia la spettrale abitazione di famiglia, o della dimora esterna, ossia lo spettrale paesaggio di boschi e sottoboschi, betulle, sentieri, crete, colline –, i sonnambuli Gudrun Geier e Aleksej Ananimov, pittoricamente stravolti e svisati dal troppo amore e dolore che li lega, si ritrovano così ricomposti nel simulacro della pietas grazie al nostro sforzo di collaborazione, che è al tempo stesso uno sforzo di decrittazione di un grafo misterioso. Collaborazione, non comprensione. «Voglio raccontare le storie di persone che superano la paura della morte. Tutti i protagonisti dei miei film concentrano il loro sforzo in questa direzione. […] Non potrei mai girare un film in cui un figlio si schieri contro sua madre. Ritengo Bergman il regista che rappresenta la più alta espressione cinematografica, ma non potrei mai creare un’opera permeata dall’odio. M’interessa solo l’amore tra le persone, la reciproca tolleranza. Ho sempre cercato di fare film in cui, se mai, sia l’amore a sovrabbondare. Che cosa fare, per esempio, quando c’è troppo amore tra una madre e un figlio?». Appunto. Che cosa fare? Visto che comprendere fino in fondo, nel senso etimologico di abbracciare, è impossibile, lasciare che siano madre e figlio ad abbracciarsi, a scambiarsi ricordi personali e memorie scritte, sonni e visioni, a trasmettersi una fisicità che solo qualcosa come il plasma pensante di Solaris (id., 1972), che Sokurov recupera assimilandolo all’oceano naturalistico di Madre e figlio , può contenere appieno nell’inquadratura. Altrimenti, senza il filtro anamorfico, l’inquadratura sbaverebbe ed esonderebbe, proprio per la sovrabbondanza di umanità. A pensarci bene, Sokurov – lo confermerà in Padre e figlio e Alexandra – è uno dei registi più fisici del cinema contemporaneo, in grado di competere, pur in altro contesto, con il più fisico di tutti: Kathryn Bigelow. Il suo gusto per la mimicry , l’arte mimetica dei personaggi del gioco o in gioco, il talento di diventare essi stessi personaggi illusori, mutevoli, alterabili, deformabili, irriconoscibili dopo l’alterazione e di nuovo riconoscibili dopo lo smascheramento, ha infatti molto a che fare con l’estetica del simulacro: un’estetica tutto sommato ludica e
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agonistica. Si veda, in Madre e figlio , l’esercizio filiale, quotidiano, del prendere in braccio la madre morente e portarla a passeggio per la campagna, rannicchiata dentro il petto: prefigurazione troppo pregnante dell’analogo gesto di Denis che, in Alexandra , prende in braccio la nonna ottantenne, accaldata ed esausta, per non legittimare ab ovo l’ermeneutica sokuroviana dei vincoli familiari e interfamiliari. 3. «A
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casa ho un enorme tomo dedicato a Leonardo da Vinci. Ogni giorno ne giro una pagina. Ogni giorno. Sono ormai alcuni anni che lo faccio e anche l’ultimo giorno della mia vita sarò pronto a voltare un’altra pagina». Come il «Libro di Kells» (IX secolo), il manoscritto miniato composto di tredentoquaranta fogli di pergamena e conservato al Trinity College di Dublino per essere esposto ogni giorno – un foglio al giorno, in progressione – all’ammirazione degli spettatori: i quattro Vangeli sontuosamente decorati con tratti di arte orientale e tratti di arte celtica, in una felice simbiosi di culture che non trascura, tra le
righe, il benché minimo ritratto di vita quotidiana, all’interno di cornici finemente bizantine. Ogni giorno. Una pagina al giorno. È vero. In Padre e figlio non ci sono libri da sfogliare. Ma non ci sono per il semplice fatto che il giorno non esiste, essendo esso, sotto il cielo ovattato di San Pietroburgo, intrinsecamente fuso con la notte, confuso con un giorno o una notte perpetua: una notte bian- ca dostoevskiana che cancella confini e identità, e si giova, per avvolgere i due protagonisti, il quarantenne Andrej e il ventenne Aleksej, in un unico discorso amoroso, di quella luce caliginosa che è il segno distintivo, miniaturistico, di Sokurov. L’amplesso notturno , oppure alla luce del sole – il “sole anche di notte”, impolverato e moribondo, come d’obbligo non solo a San Pietroburgo ma nell’iconografia standard sokuroviana –, con cui il film sintomaticamente si apre, non esibisce forse qualcosa d’incestuoso, ammesso che si possa utilizzare tale aggettivo per un rapporto sì tra genitore e figlio ma tra genitore e figlio dello stesso sesso? Aleksej, reduce dal fronte ceceno, ha avuto un incubo notturno, e il padre, che dal fronte ceceno è tornato con una malattia polmonare che lo ha escluso per sempre dalla carriera militare, lo abbraccia stretto come, all’inverso, il figlio abbracciava stretta la madre in Madre e figlio . Lo abbraccia facendogli da madre, quella moglie da cui vive separato per dissidi di cui Aleksej nulla vuole sapere, bastandogli il calore protettivo, prima di tutto fisico e animale, del genitore. Non c’è Edipo né Antiedipo nel cinema di Sokurov. L’aspro scontro, ancora spiccatamente fisico muscolare agonistico, che vedremo consumarsi da qui a poco tra Andrej e Aleksej in caserma – preludio ad altri feroci scontri da consumarsi nella mansarda in cui vivono con vista sopra i tetti di San Pietroburgo, o sulla passerella sospesa nel vuoto lungo la quale ameranno lottare fino allo spasimo rischiando ogni volta una caduta esiziale – fa parte di un esercizio quotidiano che li avvinghia fino allo sfinimento come li avvinghia fino allo sfinimento il risveglio quotidiano “dopo sonni inquieti”: una recita amorosa, oltre che potenzialmente mortale («L’amore paterno crocifigge», sentenzia Andrej), la cui prosopopea si esprime, anziché a parole, a scosse e urti, non meno appassionati delle scosse e degli urti inflitti a voce. 4. In Padre e figlio sono presenti appena due inquadrature anamorfiche – all’inizio, giusto per stabilire una continuità con Madre e figlio . Dopodiché è presente un polimorfismo diffuso ed esclusivo che, anziché isolare la coppia in una solitudine astrale, ne asseconda l’estenuante vitalismo correlandone i movimenti con quelli di un’altra coppia, composta dal dirimpettaio Sasha e dall’ospite Fëdor, coppia a sua volta risucchiata a turno dalla medesima temperatura
Qui e nella pagina precedente, Padre e figlio
incandescente – lo sport estremo della colluttazione in bilico sulla passerella o dello spenzolamento dalla finestra – e dalla medesima convulsa vita della coppia formata da Andrej e Aleksej. Fa specie, vero, un Sokurov più attivo e meno contemplativo del solito? Ma in Padre e figlio è in gioco il gioco quotidiano della pagina sempre nuova da voltare spericolatamente ogni giorno. E allora andrà detto, a questo punto, che la mancanza di un grande tomo di riferimento è soltanto un escamotage, in quanto – ce ne accordiamo il giorno dell’apparizione di Fëdor, orfano di un padre caduto in Cecenia, alla disperata ricerca dell’amico Aleksej e di quel padre sostitutivo che potrebbe essere Andrej – i grandi tomi, qui, sono più di uno, trattandosi dei tomi dell’intera opera di Dostoevskij, occultamente citato ogni volta che si allestisce un incontro ginnico e manifestamente citato attraverso l’intrusione disturbante del suo portavoce Fëdor. Tanto che si rivelerà inutile il tentativo di portare fuori Fëdor dalla culla-mansarda, in visita alla San Pietroburgo alta, magari su un vecchio tram simi-
le ai vecchi tram con cui vent’anni prima Wim Wenders o Yilmaz Güney facevano rispettivamente scoprire Lisbona o Istanbul, città collinari e subliminari come San Pietroburgo. Della missione s’incarica Aleksej, ma solo per scoprire che Fëdor, con il suo lutto immedicabile, è un’anima morta in libera uscita di cui non si libererà mai – si rivedranno presto, alla prossima visita di Fëdor, al prossimo sfoglio del suo Libro interminabile come il Libro di Leonardo da Vinci o il Libro di Kells –, non potendo mai e poi mai liberarsi della propria ombra . 5. La patina umbratile. Quella patina del tempo che, secondo Sokurov, come secondo i conservatori della Biblioteca del Trinity College di Dublino, protegge le pagine più preziose dell’esistenza rendendole, per il solo fatto di ricoprirne figure ed emblemi, paradossalmente più vivide di quanto potrebbero essere. In Padre e figlio diciamo San Pietroburgo perché, sia pur vagamente, sotto il sottile velo di polvere che ne preserva l’immagine o sotto il sottile velo di opacità che
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Alexandra
ne preserva le notti bianche dostoevskiane, in qualche modo la identifichiamo. Altrimenti non ne sentiremmo mai pronunciare il nome. In Alexandra diciamo Cecenia perché sentiamo nominare dalla nonna in visita al nipote, capitano di brigata in un campo militare, la città di Stavropol’, alle pendici del Caucaso, e sappiamo che la vecchia ottantenne ha raggiunto il nipote ventiquattrenne approfittando della breve distanza che li separa – come diciamo Cecenia dopo che abbiamo sentito o, meglio, intuito, Cecenia in Padre e figlio , confortati dall’ossessione sokuroviana per la continuità intertestuale. Altrimenti, anche qui, non ne sentiremmo mai pronunciare il nome.
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Il cinema di Sokurov, preservato e riservato per natura, è infatti tutto un nomina consequentia rerum (oltre che, ovviamente, un lacrimae rerum ) , dove sono le cose, e non i nomi, meri engrammi, a nominare. Come nominare un teatro di guerra che, per via dell’universalismo umanistico del regista, sta per tutti i teatri di guerra del mondo, spesso rimossi o dimenticati, e proprio per questo, sottintende il regista, ancor più cruenti ed “eterni”? Se mai la polvere. La patina del tempo.
In questo dettaglio allegorico sì, è la Cecenia innominata di Alexandra a fare la differenza rispetto al dittico costituito da Madre e figlio e Padre e figlio e a introdurre, rispetto alla loro scrittura rispettivamente anamorfica e polimorfica, una scrittura teratomorfica che trasfigura e sfigura la coppia identitaria nel senso del qui e ora: del blindato o del cingolato o del carro armato qui e ora, dell’accampamento sudicio e maleodorante qui e ora, dell’attendamento straccione e provvisorio qui e ora, del camminamento insalubre tra baracche e latrine qui e ora, dell’agon incongruo del corpo vecchio dell’ospite inopportuna con il corpo giovane del soldato importuno qui e ora, del “disincontro” tra l’arcaico e il matriarcale qui e ora. Perché la polvere, qui e ora, è davvero, in re , polvere/polvere, al di là di ogni cristallizzazione metaforica; la patina del tempo ricopre davvero, in re , persone e oggetti; il sole non è né ovattato né caliginoso, è un sole inesorabilmente diurno e non notturno, che scalda e spossa (sposta) davvero, in re , i corpi, senza bisogno di far loro recitare la sacra rappresentazione delle colluttazioni amorose e dei contatti all’ultimo respiro.
6. Che Sokurov sia tentato di correggere, al cospetto della straziante elegia cecena, il proprio codice di stilizzazione della realtà, disperdendo quel filo di nebbia cimmeria – tutto sommato una forma di litote o di reticenza – depositato sui nomi come sulle cose, con il quale ha sempre “patinato” le proprie elegie ? Impossibile. Sokurov ha già filmato altre volte la res gesta della guerra, si è mescolato altre volte con i soldati dislocati sul fronte del Caucaso, e lo ha sempre fatto con lo straniamento e il riserbo che gli conosciamo. Probabilmente la ragione è un’altra. Il cineasta ha tenuto presente, da russo che si sente in qualche modo chiamato in causa, una nota argomentazione di George Steiner, là dove, in «Tolstoj o Dostoevskij», osserva che i Tolstoj, i Puskin, i Lermontov, i quali, negli anni Dieci dell’Ottocento, assistettero inorriditi alla prima, spaventosa “pacificazione” del Caucaso a opera dell’esercito zarista (di cui erano ufficiali), trovarono in quella wilderness ciò che trovarono i primi romanzieri americani alle prese con i pellerossa. Wilderness. Universo alieno. Pathos della distanza. Iniziazione alla vita come ingresso in un sogno o in un incubo. Rarefazione dello sguardo, come quella che si coglie ogni volta che si legge «Il segno rosso del coraggio» di Stephen Crane (o si vede The Red Badge of Courage [La prova del fuoco , 1951] di John Huston). Semplicemente, la rarefazione ottica, cifra ultima delle prosopopee di Sokurov, non è ottenuta in Alexandra con l’uso di filtri o focali, sebbene attinga il medesimo grado di efficacia. Il pathos della distanza è assicurato – in un film che, si badi, non mostra mai la guerra in atto bensì, stendhalianamente, solo le retrovie – tramite il contrappunto tra immagini, offerte nello loro cruda nettezza, e sonoro, offerto nella cruda nettezza della presa diretta. È il contrappunto a risultare svisato, stonato, leso nei suoi legami naturali, distorto nei suoi echi riflessi, come se Alexandra e Aleksej si muovessero, oltre che in una terra di nessuno, in un vuoto d’aria, in un tempo morto: nature morte latrici di una vanitas o di un memento mori che non coinvolge soltanto loro ma l’intero paesaggio – pensiamo al misero mercato del villaggio vicino, ove Alexandra si reca per sfuggire all’aura ammorbata dell’accampamento. E poi, deve aver pensato Sokurov alle prese con quella star della lirica che è Galina Vishnevskaja, da lui filmata l’anno prima con il marito Mstilav Rostropovic in Elegija Zhizni (Elegia della vita , 2006), qui non si può giocare con trucchi e manomissioni. Bastano il suo volto enfiato e il suo corpo appesantito a disegnare appieno un’area semantica, una mitologia formale, e bastano i suoi ancor lunghi capelli, raccolti in crocchia, ad addolcirne il profilo materno – poiché Galina/Alexandra non è soltanto la nonna materna di Aleksej, è materna in sé – soprattutto quando, al cul-
Odinokij glos celoveka
mine del film, Vasilij (Shevtsov)/Aleksej, protetto dall’intimità notturna della tenda, amorevolmente glieli scioglie e altrettanto amorevolmente glieli riannoda, non prima di averla abbracciata stretta, come si fa con una giovane baba russa in procinto di celebrare non il proprio sacrificio ma le proprie nozze con la vita. Bibliografia (in ordine di riferimento)
Fëdor M. Dostoevskij, «Le notti bianche», a cura di G. Gigante (testo russo a fronte), Einaudi,Torino 2006; Mikhail Iampolski, Representation – Mimicry – Death , in Birgit Beumers (a cura di), «Russia in Reels», I.B. Turis, London/New York 1999; Aleksandr Sokurov, «Nel centro dell’Oceano», Bompiani, Milano 2009; John North, «Il segreto degli Ambasciatori», Rizzoli, Milano 2005; Roger Caillois, «I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine» (1957), a cura di G. Dossena, Bompiani, Milano 2000; G.O. Simms (a cura di), «Il Libro di Kells», ed. it. a cura di Fiorenzo Fantaccini, Colin Smythe/Trinity College Library, Dublin 1994 (estratto dall’ed. in facsimile, Urs Grag Verlag, Berne 1950); Roberto Peregalli, «I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione», Bompiani, Milano 2010; Slavoj Zizek, «Lacrimae rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio», Scheiwiller, Milano 2009; François Albera, voce Sokurov in Giampiero Brunetta (a cura di), «Dizionario dei registi del cinema mondiale» vol. III, Einaudi, Torino 2006; Aleksandr Sokurov, “segmento” Alexandra in Id., «Nel centro dell’Oceano» cit.; George Steiner, «Tolstoj o Dostoevskij» (1959), Garzanti, Milano 2005.
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SAGGI
“GEOGRAFIE”
Il volo di Wim Wenders
LA QUARTA DIMENSIONE Alessandra Mallamo BENVENUTI AL SUD
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Riace, Calabria, lo stesso paese che oggi chiede con insistenza di poter accogliere i migranti che sbarcano a Lampedusa, è stato protagonista di Il volo (2010), un film di Wenders in cui si racconta quella che, alla luce della triste strategia di governo basata su paura e razzismo e propugnata dai media, potrebbe sembrare una favola, ma è la realtà. È molto interessante, ed è
quasi logico vista la premessa, che la prima produzione italiana a utilizzare la tecnologia tridimensionale sia un qualcosa di non posizionabile né nel documentario né nella fiction. Infatti, il mediometraggio edito nella primavera del 2010, raccontando il progetto di accoglienza dei rifugiati in cui sono coinvolti alcuni comuni calabresi, nasce come film di finzione ma, per la natura dei suoi contenuti, si torce inevitabilmente verso la realtà.
Non ci si stupisca del fatto che non abbia avuto nessuna distribuzione; ad aggravare la pessima situazione italiana in merito, si aggiunge il limite dato da una durata, trenta minuti, poco agevole, a cui credo si sarebbe dovuto pensare in modo più pragmatico. Infatti, io ho potuto vederlo in condizioni del tutto particolari: a Riace in una saletta piena di gente, niente a che vedere con un cinema, anche se quella sera si è trasformata in un luogo di caotica condivisione delle immagini; e no, non c’e stata la possibilità di vederlo in 3D, ma di fronte allo schermo stavano seduti i bambini e i migranti protagonisti. Scorgere in controluce il volto allegro di Ramadullah mentre era riprodotto contemporaneamente in video (1) mi ha convinto che, in qualche modo, la tridimensionalità è stata rispettata, tanto più che l’obiettivo di Wenders era di accrescere, attraverso di essa, l’effetto di verità. La storia è quella paradossale di uno sbarco di migranti in un paese disabitato del sud dell’Italia, dove il sindaco, Ben Gazzara, che vuole farli restare, organizza una serie di escamotage affinché il burbero addetto all’immigrazione, Luca Zingaretti, chiuda un occhio e li lasci in pace a vivere lì. Una specie di favola, che nasce da una storia vera, dove la scena più rilevante è nel momento in cui la fiction s’interrompe e l’immagine si blocca, su un extracomunitario che mima Il volo dalla prua di un barcone come in Titanic (id., 1997), e si ritira. Ci ritroviamo in una sala di montaggio, dove il regista inizia a parlare. Spiega perché ha deciso di cambiare l’impostazione stilistica della narrazione, ché, quando ha chiesto a una delle comparse se aveva visto il film di Cameron, per poterne imitare la scena, si è reso conto che la finzione stava prendendo il sopravvento sulla realtà. Realtà cui l’ha riportato proprio uno dei ragazzini rifugiati di Riace, Ramadullah appunto, che gli dice: «Noi facciamo tre ore di viaggio e veniamo tutti i giorni qui [le riprese si svolgevano in un altro paese, Scilla (RC)]; se sei una persona seria, ora devi venire tu da noi». E così fa Wenders, va e inizia a osservare il paesino calabrese, che quasi disabitato com’era, ha deciso di aprire le case per dare ospitalità ai rifugiati; seguono: interviste ai bambini, giro del regista alla scoperta dei luoghi e delle persone, e colloquio finale col sindaco, fautore del progetto di accoglienza. In generale il film funziona, i limiti che manifesta, per lo più nella seconda parte, sono probabilmente dovuti al cambio di rotta narrativa e stilistica che ha modificato tutti i piani di produzione. Improvvisamente si esce dalla narrazione e si focalizza tutta l’attenzione sul racconto della “nuda”realtà di Riace, racconto che però ha poca sostanza formale e poca ricerca stilistica, ma forse questo effetto “reportage” è stato voluto. Alla luce del coinvolgimento che Wenders ha manifestato, credo
bisognasse interrogarsi un momento di più su come restituirlo al meglio; tuttavia la scena citata è abbastanza interessante da suscitare ulteriori considerazioni, anche perché rappresenta il momento più critico di tutta l’opera. Il passaggio dalla fiction alla realtà documentaria è ciò che rende Il volo il racconto di uno spostamento. Da un lato, il film è la storia di una migrazione, quella di coloro che arrivano dal sud del mondo, e quelli che il sud lo abitano come superstiti, perché le case vuote di Riace sono a loro volta la traccia, il residuo di un precedente spostamento, dettato da motivi non molto diversi da quelli che portano la gente da noi; dall’altro, è presente lo spostamento fisico dello sguardo, dal set di Scilla alla realtà di Riace, e la frase di quel bambino rende perfettamente il senso dell’ andare a vedere , del muoversi e riposizionarsi per conoscere diversamente. A meno di venti chilometri dalle location wendersiane c’è Caulonia (RC), luogo – insieme ad Alessandria del Carretto (CS) – di Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino (2); anche in questa circostanza il “set” svolge un ruolo decisivo: l’approccio registico, che rifiuta di restituire lo sfondo come se fosse solo un semplice paesaggio in cui si svolge l’azione, s’interseca per vie diverse con quello di Wenders e del suo bisogno di autenticità. In Frammartino tutto ciò si concretizza in una grande raffinatezza, formale e tecnica, volta a rendere visibile una diversa possibilità di stare nel divenire. Grazie all’uscita quasi contemporanea e alla vicinanza geografica i due film sembrano vere e proprie superfici di emergenza per riflettere sulla possibilità di posizionarsi del cinema. A sua volta, questa riflessione non può prescindere da quella sul posizionarsi nel cinema da parte degli spettatori, che, come in questo caso per chi scrive, sono nella coincidenza che li vuole abitanti di quegli stessi luoghi messi in immagine. (1) Mi viene in mente la poesia di Pasolini che apre il testo Res sunt nomina in «Empirismo Eretico»: «Ci fu, va bene, un essere che maisempre ieri-domani è. / Esso non ha bisogno di nulla: non ama! / L’amore non è che una piccola esigenza umana fuori di ogni realtà. / Ordunque: l’essere è aldilà di ogni essere. / Ma veniamo al bivio dove la libertà e nata. / C’è al mondo (!) una macchina che non per nulla si chiama da presa. / Essa è il “Mangiarealtà”, o l’“Occhio-Bocca” come volete. / Non si limita a guardare Joaquim con suo padre e sua madre nella Favela. / Lo guarda e lo riproduce. / Lo parla per mezzo di lui stesso e dei suoi genitori. / Nella riproduzione – su schermetti o schermi – / io lo decifro (meticcio? portoghese? indio? olandese? negro?) / come nella realtà. / Non sono altri gli occhi, la bocca, gli zigomi, il mento, la pelle; risalgo alla sua provenienza dal Nord del Brasile e ai suoi avi… / Voi mi capite. / Egli sullo schermo o schermetto da laboratorio è linguaggio. / S’io lo decifro come linguaggio in tal schermo o schermetto / e se non altrimenti lo decifrai in quella realtà, giorno reale / della fine di Marzo 1970 nella Favela sulla strada di Barra – / Dunque il linguaggio del “Mangiarealtà”è un linguaggio fratello a quello della Realtà. / Illusione, sì, illusione qui e là: ché / chi parla attraverso quel linguaggio è un Essere che non è e non ama» (P.P. Pasolini, «Empirismo Eretico», Garzanti, Milano 2000, p. 257). Quel nome, però, non è Joaquim bensì Alì , dagli occhi azzurri. (2) Dell’opera se ne è occupato approfonditamente uno speciale di «Cineforum» n. 495, giugno 2010, pp. 16-29.
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L’approccio “geografico” non è proprio una novità, anzi è una sorta di leitmotiv che, come si vede dagli esempi sopra citati, comporta molti rischi, primo tra tutti quello di sostituire un preconcetto su una certa realtà con il didascalico o, peggio, con il figurativo. Poi però appaiono documentari su città come poesie (Genova in La bocca del lupo [2010] di Pietro Marcello) e, anche se un poco più datati, film narrativi che si fanno topoi del pensiero attuale (Giorgio Diritti con Il vento fa il suo giro [2005]). A volte, insomma, il gioco riesce, con somma gioia di chi ama il cinema. LUOGHI
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Da questa prospettiva si può indagare diversamente il senso di una visione che prende posto poiché i luoghi delle immagini vengono ricollocati a loro volta nello spazio dell’esperienza vissuta. L’occasione è favorevole, visto che sono tanti i film italiani di quest’ultimo anno, e anche precedenti, che pongono l’orizzonte fisico dello sguardo come luogo di senso, da pensare in maniera del tutto esplicita. Registi che tornano nella loro città natale per girarvi un film (Livorno, Bagheria) (3), riuscendoci più o meno bene; film che raccontano, attraverso il luogo comu- ne , il nord e il sud d’Italia come antipodi antropologici oltre che geografici e sbancano i botteghini (Miniero); o, sempre per restare in Calabria, Qualunquemente (2011) di Antonio Albanese, che ha scatenato non poche discussioni sui giornali locali e sulla rappresentazione di una certa “calabresità”; vi sono poi documentari come Draquila – L’Italia che trema (2010), dove un modello di spazio urbanistico è un progetto politico di costruzione, o impoverimento, del mondo.
I «Topici», o «Luoghi», sono libri di Aristotele di natura tecnica che sviluppano un metodo per argomentare logicamente a partire da un’opinione e senza contraddizioni. Essi non sono altro che schemi immanenti , interni al contesto culturale in cui si parla, regole generali che presiedono al discorso e che prendono in considerazione variabili materiali, legate cioè al contenuto, all’esperienza, al contingente, a tutto quello che, insomma, si oppone all’assoluto o allo scientifico. L’interpretazione più diffusa è che i «Luoghi» fossero, nella Grecia classica, strumenti per oratori; eppure essi avevano a che fare con la profonda dialetticità del reale, poiché manifestavano un pensiero non ideologico e discutibile (4). Ogni topos è una magmatica composizione di «materia, esperienza di mutazioni, di comportamenti emotivi, di desideri, espressioni dell’universo del dolore e della fatica […]. Storia delle ideologie e delle rappresentazioni del mondo, luogo è dunque fondamentalmente un status , determinabile dall’unità del vissuto» (5). Consideriamoli come territori di un discorso che da un lato riesce a tenere la complessità e l’enigmaticità del suo oggetto, il reale vissuto, e dall’altro riesce a essere un ragionamento fondato, un parlare che può avere senso senza essere assoluto o definitivo. Se è così, il riferimento aristotelico diventa l’anello etimologico tra i luoghi dell’immagine e quelli della (3) Il riferimento è rispettivamente a La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì e Baarìa (2009) di Giuseppe Tornatore. (4) La maggior parte degli studiosi moderni li ha considerati superati e solo pochi, tra i quali Giorgio Colli, hanno colto nella serie lunghissima degli schemi, che serviva ad affrontare vittoriosamente qualsiasi discussione, l’autentico spirito agonistico dei greci: lo sforzo intellettuale che permetteva di giungere a una verità non dimostrabile ma solo argomentabile dialetticamente. Non tanto diversa è l’aspirazione del critico cinematografico; chi sostiene il contrario, mente. (5) Salvatore Natoli, «Soggetto e fondamento», Feltrinelli, Milano 2010, p. 37. (6) Cfr. Jean-Luc Nancy, Percepire il passaggio delle immagini , in «Filmcritica» n. 543, marzo 2004, pp. 83-90.
Qui e nella p agina precedente, Le quattro volte di Michelangelo Frammartino
visione, e ci permette di spostarci aldiquà dello schermo cinematografico, per mostrare quanto il posizionarsi del cinema riguardi immediatamente il posizionarsi nel cinema. Riflettendo sulle figure che caratterizzano i modi di stare di fronte allo schermo, Jean-Luc Nancy parla di cinéphile e cinéfile (6), cogliendo nella sottile differenza ortografica un abisso, presso cui si affaccia, sfidando, il critico (o almeno, i migliori tra tutti quelli che si definiscono tali). Per il filosofo francese, se il cinéphile è proprio quest’ultimo, cioè colui che contribuisce a elaborare, con il teorico, l’arte cinematografica come modalità specifica del pensiero e dell’estetica, il cinéfi- le è invece un’incarnazione del cinema stesso: è lo spettatore appassionato. Il suo è un mondo in cui l’esperienza è schematizzata, kantianamente resa possibile – anche – dal cinema. È chiaro a questo punto che i luoghi di cui parliamo non sono solo quelli dentro l’immagine. Il territorio, o meglio, il campo di apparizione, delineato dagli esegeti del film, con saggi, recensioni e letture critiche, ha come
controcampo la
fruibilità concreta praticata dallo spettatore nonché l’innegabile condizione di un’arte che è contemporaneamente industria e distrazione di massa. Stretta tra queste istanze, la pratica critica non considera nemmeno lontanamente, e per fortuna, l’ipotesi di riportare i suoi fenomeni a un unico centro; più vicina alla funzione che alla struttura rigorosa, essa finisce per configurare il luogo di una dispersione, in cui si trova ciò che chiamiamo cinema. CAPRE E LUPI
Lo spostamento del cinema, l’apparire e il disperdersi della critica, avvengono nella territorializzazione concettuale dell’immagine: i luoghi della visione spesso si sedimentano in topoi , elementi che interagiscono con la comprensione e l’interpretazione della realtà per una moltitudine di spettatori. È la vivibilità del cinema, che si fa tra territorializzazione e spostamento. Ma il processo non è così pre-
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Qui e nella pagina successiva, La bocca del lupo di Pietro Marcello
vedibile come si immagina: in Il volo , la territorializ- zazione non è il risultato dello spostamento del regista e del set; al contrario essa è esattamente ciò che muove Wenders verso un modo altro di essere del territorio ideale e reale dell’opera .
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La perdita del radicamento e il passaggio in un nuovo campo di significazione si ritrovano nella regia di Frammartino: il suo film contribuisce, infatti, a rendere vana la discussione sulla separazione tra documentario e fiction. Bisognerebbe, però, essere capaci di accogliere lo “stordimento” di cui parla Emiliano Morreale, che arriva alla consapevolezza che «non è Le quattro volte a essere documentario, è la gran parte del cinema, commerciale e d’autore, a essere copioni filmati» (7). Lo stesso, ma diversamente, avviene in La bocca del lupo di Pietro Marcello. Lì, un movimento eccentrico scardina continuamente il rapporto tra le dimensioni spaziali dell’inquadratura: lo sfondo, Genova, e lo spostamento, l’andare di Enzo chiamato verso casa (fuori , ai bordi della città e del campo), diventano elementi chiave di un film dove il movente principale è nel desi-
derio di mettere in scena, al centro, vite ai margini. Cambiano le priorità prospettiche, e il disfarle investe direttamente il concetto di autorialità: lo sguardo di Marcello non è mai assertivo. L’operazione formale più interessante del film girato a Genova consiste in questa dialettica per cui gli “oggetti” dell’immagine si sottraggono al dominio dell’occhio autoriale sulla materia filmata. Dell’occhio si mantiene l’orbita, il bordo di uno spazio dove luoghi e persone possono mettere in mostra la libera verità che deriva dall’essere vivi. Il film racconta la città nella misura in cui ammette una comunicazione paritetica tra colui che lo fa e colui o ciò che viene avanti sullo schermo. Di nuovo spostamento e territorializzazione: di Genova vediamo il modo con cui l’hanno guardata i genovesi, e il girovagare di Enzo, mentre Mary lo chiama non si sa da dove, raccoglie i ricordi in un radica(7) Emiliano Morreale, Una prospettiva post-umanista, « Cineforum» n. 495, giugno 2010, p. 23. (8) Cfr. P. M. Bocchi, Il cinema che fa male (al cinema) , «Cineforum» n. 492, marzo 2010, pp. 37-39.
mento; la sua espressione, la sua stessa carne mappa la città nello spazio e nella storia, interseca piani. Il montaggio delle immagini fa il territorio, il testo poetico e la voce di Mary lo spostano, impedendo uno sguardo che domina e lasciando intatta la presenza. Questo “esserci” è l’unica cosa che si può veramente documentare; sui modi con cui la con-presenza è messa in atto opera la creatività dell’artista e non di meno la sensibilità dello spettatore, che, spesso, se osserva luoghi che conosce, ha la sensazione di vivere e comprendere il film in modo diverso rispetto a tutti gli altri. In Le quattro volte , Frammartino riflette sul tema della presenza ricollegandolo al valore politico che
essa assume: il film racconta, infatti, la perdita del centro antropologico; non vi è un soggetto padrone dello sguardo e della storia, ma solo un divenire perpetuo e innocente; il regista lavora dunque sull’eccentricità della sua messa in scena che mira a coinvolgere criticamente lo spettatore. Il riferimento alla politica è l’ennesimo nodo nevralgico di questa riflessione e non può più essere accolto con il “darsi alla politica”della critica, come sottolinea giustamente Pier Maria Bocchi (8); si tratta piuttosto di ridare un significato alla parola “critica”alla luce di ciò che di politico è nel cinema. Può essere utile interrogarsi, prima di tutto, sul perché di un nome che non è un altro: e se riconducessimo la domanda alla scelta di Immanuel Kant che, molto sensatamente, non ha intitolato “estetica”la sua «Critica della Capacità di Giudizio»? Sebbene in quel testo si parli di arte, Kant comprendeva che un’estetica ad hoc non avrebbe avuto nessun senso. Al contrario, questa voleva essere inserita in una problematica più generale sulle condizioni di possibilità che permettono di discutere dell’arte e dell’estetica stessa; essa risulta quindi direttamente collegata alle possibilità di conoscenza e alla capacità di azione e interazione tra gli uomini. Da questo punto di vista, la critica dovrebbe essere capace di descrivere la morfologia dell’esperienza che il cinema è capace di realizzare come cifra delle sue potenzialità; in altre parole, tentare di spiegare i rapporti tra cinema e mondo. Ecco perché il trovarsi e il vivere un posto può assumere un valore anche nell’ambito teorico della comprensione di un film: l’esperienza dei luoghi s’interseca con l’esperienza del film, e ciò può avere senso solo a patto di prendere tale intersezione come elemento di riflessione, attenti a non farla diventare un principio di autorevolezza. La politica nella critica, o meglio, il politico della critica, subentra come elemento che si oppone all’ideologia, quindi, come reinvenzione delle basi su cui si fonda ogni discorso filmico e critico. Un cinema che
s’interroga, più o meno implicitamente, sullo spazio che occupa lo sguardo, o sul fatto che gli uomini lo abitino o lo abbandonino, non fa altro che riposizionare un luogo materiale in uno territorio simbolico. Il film e la discussione su di esso, traghettano questo spostamento, delineandone il valore politico. Si può vedere come i presupposti formali della messa in scena siano coinvolti dalla sostanziale differenza dei luoghi. Marcello e Frammartino riflettono rispettivamente sulla città e la natura, l’una lo spazio che l’uomo organizza e gestisce, l’altra lo spazio di cui l’uomo è parte di un tutto che lo governa. La frammentazione dello sguardo intrapresa in La bocca del lupo rende conto della molteplicità dei soggetti che costruiscono storicamente il territorio cittadino come comune. Frammartino compie il percorso diametralmente inverso: nell’esternare un movimento che è interno alle cose del mondo, non può lasciare niente al caso, prepara accuratamente i luoghi che interessano la prima parte del film per dimostrare che anche gli uomini sono coinvolti in tale divenire.
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movimento, segreto e inafferrabile ma ordinato, avvolge il potenziale eccentrico della vita, splendidamente mostrato dall’andirivieni delle caprette nei boschi: richiamando la metempsicosi pitagorica fin dal titolo, riproduce l’unità circolare dello sguardo o dell’anima. Oggetto astratto quest’ultimo, che per la sua natura di vento (anemos ) resta l’invisibile da cercare.
IL VENTO FA IL SUO GIRO
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Wenders, che racconta storie di migrazione e accoglienza tra gli uomini, lo si vede parlare davanti a una mappa geografica della Calabria, nient’altro che un piede nell’atto di camminare circondato dal mare. E ciò lega insieme l’ineluttabilità geografica che determina un destino e il desiderio degli uomini di andare oltre i limiti naturali, spostandosi, deterritorializzandosi (l’evoluzione non incomincia anche quando una zampa si alza da terra per prendere un frutto e diventa mano? L’uomo non si è evoluto spostando gli arti dal terreno e anche la direzione dello sguardo?). L’uso dello spazio coinvolge dunque una certa visione del tempo, e ciò è evidente, se è vero che un luogo consiste nell’unità del vissuto. Frammartino fa questo tipo di operazione, ponendo l’accento su elementi che, invece del tempo a spirale della storia, rivelano quello ciclico della natura, un tempo sempre uguale a se stesso nascosto dietro lo scorrere delle cose. E lo fa legando tale visione delle cose ai luoghi che mette in immagine: «Penso che questa cosa possa rimontare proprio a quella sorta di significato originario nascosto dietro le cose e che caratterizza in modo specifico e fondamentale la terra e la cultura della Calabria» (9). Con quest’affermazione il regista individua una sorta di disponibilità naturale e culturale dove la ricerca di un
E ogni cosa prima o poi ritorna. Torniamo quindi all’emergenza di un cinema che si posiziona. L’anima di Le quattro volte, il vento invisibile che come in un quadro impressionista si cerca di catturare, catturando il movimento diveniente delle cose, ci porta con la sua etimologia, anemos, vento, presso un film davvero molto distante, anche se parla ancora una volta di capre e pastori. L’opera prima di Giorgio Diritti ci offre un’ottica decentrata, un modo di vedere sdoppiato che introduce nella realtà dei luoghi, così come la raccontano gli appartenenti a quella comunità, uno sguardo altro capace di creare un nuovo spazio di sensibilità al suo interno. La scelta del professore francese andato a vivere in uno sperduto paesino delle valli occitaniche s’interseca alla rappresentazione di un luogo contemporaneamente naturale e civilizzato, molto simile alle realtà che caratterizzano il posto da cui siamo partiti in questa riflessione, la Locride. Lì si scontrano le regole della convivenza e dell’accoglienza nell’ambito di una situazione reale di abbandono e di perdita antropologica che stanno vivendo tutti i territori periferici rispetto ai centri di dominio economico e culturale. Nel film è ben evidenziato lo scarto tra il recupero dei valori come elemento di riconoscimento e la loro effettiva messa in pratica da parte di una comunità. Questo scarto diventa in sé un topos , poiché ci fornisce un elemento d’interpretazione di una tendenza rievocativa e “nostalgica”, spesso praticata anche al cinema. Nella scena finale, infatti, assistiamo al racconto di un anziano del paese a una televisione locale: il senso antico e morale di quel luogo è tutto nella storia del fieno nascosto dalla collettività durante l’occupazione nazista, per sfamare gli animali e salvare tutti dalla fame. Purtroppo il fine pubblicitario del servizio televisivo lo rende solo un’autocelebrazione retorica utile ad attirare il turista, mentre colui che voleva realmente abitare quella comunità è stato appena cacciato, come fosse una minaccia, perché voleva farlo a partire da sé. In questa doppia realtà, quella della rappresentazione pittoresca dell’essere in comune e della vicenda reale appena compiutasi, si può riposizionare la nostra percezione delle cose e dunque noi stessi. Come succede nella sequenza finale di Il vento
Qui e nella p agina precedente, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti
fa il suo giro , si tratta sempre di costruire un punto di criticità che permetta alle immagini di spostarsi, ribaltarsi, retrocedere o avanzare. Senza cadere nelle trappole dell’arte, o della critica, engagé , un film può intervenire sul reale fluidificando stati di cose e confini apparenti (quello tra fiction e documentario), topoi naturalizzati e luoghi comuni, tutto ciò affermando una potenza o un eccesso che gli permetta di accordarsi a se stesso in un movimento di intelligibilità storica. Tale cinema potrebbe anche riuscire a farla finita con il pubblico-turista in cerca di cultura ricreativa o di affascinanti mitologie, per fondare un nuovo rapporto tra storia e leggenda e un modo diverso di essere spettatori, magari migranti, sia che si vada, sia che si torni. Che poi a volte è il cinema stesso, anche nel suo movimento “esteriore”, a fare cose leggendarie, come la vicenda umana ed estetica che ha caratterizzato Il vento fa il suo giro , distribuito da Lab 80 film, amatissimo e sostenuto dalle visioni del pubblico, dalla critica e da una sala cinematografica (10) altrettanto mitica. E così anche il migrare di Il volo è quasi leggenda, ma è realtà: come ho scritto, quella sera a Riace il bambino afgano protagonista stava seduto davanti allo schermo, con altri bambini e un signore, che pensavo fosse il
padre e invece era lo zio. Il padre si trovava in un Nord ben più lontano di quello piemontese: infatti, vive stabilmente a Oslo in Norvegia, ma questo allora non lo sapeva nessuno; era fuggito e aveva perso ogni contatto con la sua famiglia, fuggita anch’essa dalla guerra. L’estate scorsa è andato a vedere, per curiosità, il film di Wenders (proiettato a Oslo!), perché sapeva che parlava di storie come la sua, e lì, oltre la tridimensionalità anomala sperimentata a Riace, perché il suo stare di fronte allo schermo comprendeva il tempo e la vita, ha riconosciuto il suo futuro, suo figlio, che credeva disperso per sempre e che dopo pochi giorni ha potuto riavere con lui. Andando, il piccolo Ramadullah è tornato a casa sua, come Enzo torna nella sua nuova casa da Mary in La bocca del lupo , e come il ragazzo nel finale del film di Diritti; andando e tornando in un luogo che è patria ma non è quello da dove sono partiti, tutti loro fanno Storia. E questa è la prova che il cinema può ancora liberare (il) mondo. (9) Michelangelo Frammartino in Chiara Borroni (a cura di), Viaggio in Le quattro volte . A colloquio con Michelangelo Frammartino e Benni Atria , «Cineforum» n. 495, giugno 2010, p. 27. (10) Mi riferisco al famoso Cinema Mexico di Milano, unica sala in Italia ad aver distribuito il film, tenendolo in cartellone per ben otto mesi.
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FESTIVAL
BERGAMO FILM MEETING Mostra Concorso Bergamo Film Meeting (la cui ventinovesima edizione si è svolta a Bergamo, dal 12 al 20 marzo) è ormai da tempo diventato un marchio di qualità, un “brand”talmente radicato nella cultura cinematografica e nella società – bergamasca in primis, ma anche italiana – che, nonostante le mille difficoltà (economiche, soprattutto) nelle quali si dibatte, riscontra sempre un ampio, convinto, e felice successo di pubblico e di critica. È stato così anche quest’anno, dove il pubblico di appassionati e addetti ai lavori ha letteralmente preso d’assalto la sala dell’Auditorium di piazza della Libertà che ne accoglie le proiezioni. È stato così anche per i film della Mostra concorso, sette film, opere prime o seconde di produzione europea, che si contendono (votati dal pubblico) il Premio Bergamo Film Meeting. Partiamo giusto da qui, segnalando subito che il primo premio se lo è aggiudicato il film polacco Handlarz Cudów (Il venditore di miracoli, 2009) di Boleslaw Pawica e Jaroslaw Szoda; secondo classificato è risultato il film tedesco Das Lied in Mir (La canzone in me, 2011) di Florian Cossen, mentre al terzo posto si è piazzato il film italiano La strada verso casa (2011), opera prima di Emiliano Corapi. Gli altri quattro film in concorso erano: Guerra civil (Guerra civile, 2010) del portoghese Pedro Caldas, Bi, dung so! (Non avere paura, Bi!, 2010) del vietnamita Phan Dang Di, Podslon (Il rifugio, 2010) del bulgaro Dragomir Sholev e Pulsar (2010) del belga Alex Stockman.
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Usciti dalla celebre scuola cinematografica di Lodz (quella di Kieslowski, tanto per capirci), che hanno frequentato dal 1982 al 1986, Boleslaw Pawica e Jaroslaw Szoda firmano con Handlarz Cudów un’opera per certi versi sorprendente che si mantiene in felice equilibrio tra dramma e commedia. Un ex alcolizzato cerca
di raccogliere fondi per un improbabile viaggio riparatore a Lourdes. La sua vita cambia radicalmente quando incontra due ragazzini ceceni fuggiti da un istituto. Ricevendo il primo premio i registi polacchi, commentando il loro film, hanno detto che l’avventura del protagonista della vicenda «ci ricorda che la strada verso noi stessi passa sempre verso l’incontro con l’altro». Das Lied in Mir affronta invece il
tema dei desaparecidos argentini. Ma lo fa, intelligentemente, tenendo“fuori campo” la ricostruzione storica di quella atroce stagione concentrandosi, invece, sul rapporto fra padre e figlia allorquando la giovane donna protagonista capisce di non essere la figlia naturale di quelli che ha sempre pensato fossero i suoi genitori, ma di essere stata adottata ed essere quindi lei stessa figlia di desaparecidos. Piccolo ma bello anche l’esordio nel lungometraggio di Emiliano Corapi con La strada verso casa . Il film è una sorta di giallo venato di thriller, al cui centro ci sono delle persone normali che si trovano a dover affrontare una situazione anormale. Un piccolo imprenditore in difficoltà che si presta a fare da corriere per un’organizzazione criminale
viene coinvolto in una storia più grande di lui. Corapi gioca bene la carta dell’attesa, della crescita della tensione, dello spianamento quando non addirittura del ribaltamento. Curioso nel suo impianto domestico,forse un po’ingenuo nella messa in scena e un po’ troppo scritto, tuttavia, il film di Sholev, Podslon , affronta un problema che probabilmente tutti i genitori hanno dovuto affrontare: quello della crescita dei figli. Invece, quello di Phan Dang Di è un film di contrasti (dentro/fuori, caldo/freddo) e di corpi. Un film che scivola, che glissa, proprio come il ghiaccio che è uno degli elementi più presenti nel film, su una serie di sentimenti e di situazioni che sembrano sfuggire o avvolgersi su se stesse in un perenne presente che non sembra evolvere. E invece per piccoli slittamenti progressivi la storia (le storie) evolvono e si sfilano fino ad avvolgere e intrigare lo spettatore proprio per la loro apparente inconsistenza. Completavano il concorso l’inquietante Pulsar (sul rapporto fra tecnologia e inconscio) e l’intrigante Guerra civil (una tarda estate portoghese sospesa tra sentimenti e tragedia).
Handlarz Cudów di Boleslaw Pawica e Jaroslaw Szoda
Andrea Frambrosi
Mondo ex Il pubblico del XXIX Bergamo Film Meeting ha assegnato il primo premio a Handlarz Cudóv (Il venditore di miracoli) di Boleslaw Pawica e Jaroslaw Szoda; un film polacco, del 2009, che avrebbe potuto figurare nella rassegna dedicata all’Europa post-socialista. A essere sincero, la mia impressione è quella di un eccesso di favore – il film va un po’ ad alti e bassi, o, se si preferisce, offre momenti buoni e altri meno in un assemblaggio drammatico-emotivo sovraccarico; tuttavia l’accoglienza di sala merita rispetto per più di una ragione. In primo luogo per la dolorosa sincerità con la quale gli autori si sono accostati alla generalizzata realtà del vagabondaggio europeo, poi per la scelta di un personaggio protagonista insolito (dipendenza dall’alcol e sublimazione confessionale ne fanno una sorta di mistico autentico, invece che un semplice sventurato), infine per una certa avvertibile ricerca di passione. Il pubblico, probabilmente, ha avuto bisogno di esaltarsi senza dimenticare i concreti motivi di fondo a cui gli autori volevano agganciare la storia. Motivi, questi di Handlarz Cudóv , che si ritrovano in altri film della rassegna bergamasca sull’Est; angoscia quotidiana, imbarbarimento, perdita di identità e disillusione verso l’eldorado occidentale, gravano infatti sull’immaginario delle pur diverse appartenenze nazionali, fino a indurre un contagioso senso di allarme: sono soltanto “fatti loro” – ad esempio lo stretto legame fra normalità e malaffare – o potrebbe invece essere uno specchio deformato del nostro prossimo futuro, se non già del presente?
Per venire ai film della rassegna, organizzata da Andrea Trovesi – autore di «Immagini da un mondo ex», il saggio che apre lo spazio in Catalogo (1) – con la collaborazione di Fiammetta Girola, e avvertendo che il mio scritto ha una semplice funzione informativa, comincerei da Bolse Vita , un film ungherese del
Bolse Vita di Ibolya Fekete
1995 che mi sembra possa di fungere da “base fenomenica”sulla quale poggiare gli altri. La regista Ibolya Fekete (all’esordio, ma già co-sceneggiatrice di Szomjas e documentarista) ne parla come di un resoconto-inchiesta poi trasformato in fiction, che ha preso le mosse dall’incontro con due musicisti russi appunto al Bolse Vita, un locale di Budapest. Era il 1989 e la capitale ungherese accoglieva una varietà di personaggi e figure che venivano da Est per raggiungere l’Ovest ricco: «… un momento luminoso della conquista della libertà», dice la Fekete «quello che viene dopo non è più così divertente». Bolse Vita, il bar, diventerà presto un sex shop, e il destino di quelli che in esso hanno scambiato le loro vicende resta vago. Circa le speranze che urtano una quotidianità misera, propone il vero e proprio “sbattimento”dei due musicisti e di un terzo russo, ingegnere meccanico, che si adatta a vendere apparecchi radio in un bazar indecifrabile. E come un bazar, nella descrizione e nelle scelte linguistiche della regista, appare la vita di tutti o quasi, ben consolati dalla prospettiva di incontrare l’Occidente, ma poi miopi e precari nell’esercizio di un nomadismo, anche mentale, sempre in procinto di cacciarli in una strada priva di uscite. Tra gli otto titoli scelti per il programma non mancava la rievocazio-
ne, cioè film ambientati negli ultimi anni del blocco orientale e, talvolta, non alieni da qualche nostalgia: Pelí- sky (La tana, 1999), del céco Jan Hrebejk, è una commedia familiare, o meglio di inquilinato, dove si agita, alla fine degli anni Sessanta, il conflitto generazionale con i suoi aspetti ridicoli e le magre mitologie consumiste (la conquista dei jeans da parte dei ragazzi, ad esempio); l’albanese Slogans (2001), di Gjergi Xhuvani, torna agli anni Settanta e alla grama esperienza di un maestro elementare la cui principale occupazione è organizzare gli allievi per scrivere a caratteri cubitali su un pendio slogan comunisti; Marsal (Il maresciallo, 1999), del croato Vinko Bresan, allestisce una farsa semihorror, semi-onirica e piuttosto grottesca, per raccontare la resistenza del mito titino nella piccola comunità dell’isola dalmata di Vis, mentre Cum mi-am petrecut sfarsitul lumil (Come ho trascorso la fine del mondo, 2006), del rumeno Catalin Mitulescu, si porta all’ultimo anno del regime dittatoriale di Ceausescu per raccontare la vicenda drammatica e squallida di Eva, chiusa in riformatorio per aver rotto per sbaglio un busto del satrapo. Facevo cenno alla nostalgia ma, salvo rare eccezioni, è un elemento residuale o una venatura; come, del resto, la critica puntuale e delibera-
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Pelíski (La tana) di Jan Hrebejk; qui a fianco, Slogans di Gjergi Xhuvani.
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ta dei sistemi abbattuti con l’Ottantanove. Lo spiega Andrea Trovesi, quando definisce la transizione, dopo l’attesa che prevale in Bolse Vita , e indica nella percezione dell’assurdo il sentire comune: «Dal 1990», scrive «passata l’allegria della festa, quando contemporaneamente si sbriciolano il mondo di prima, fatto oltre che di ideologia e oppressione anche di enormi sicurezze e garanzie sociali, e l’illusione di un mondo, quello del dopo, di facili ricchezze e libertà lusinghevoli, sono il senso di smarrimento e di sconforto a dominare» (2). Anche se, aveva già osservato lo stesso Trovesi, «… più che insistere sulla illiberalità di quel sistema, oppure mostrare di quali prepotenze era stata capace la polizia segreta, come lo spettatore ammaestrato dalla propaganda anticomunista si aspetterebbe, è piuttosto l’assurdità, la mancanza del senso nelle azioni e comportamenti che quell’ideologia esigeva a essere oggetto di critica nei film» (3). Smarrimento e percezione di assurdità diventano, così, la premessa di una miseria morale diffusa, di una asocialità destinata a favorire la crescita di un sistema criminale invasivo e, spesso, “irrimediabile”. Sia o meno valido dal lato squisita-
mente estetico e cinematografico, un film come Dlug (Il debito, 1999), del polacco Krzysztof Krauze, propone la forma del thriller psicologico (e del serial d’azione) per raccontare una storia di usura e mafia in un quadro di vita urbana ordinaria. Una storia realmente accaduta, come vera, anche se tradotta in finzione, è quella sempre polacca di Tereska, un’adolescente che vorrebbe diventare stilista ma intanto paga a carissimo prezzo crescita e iniziazione. Robert Glinski, il regista di Czesc Tereska (Ciao Teresa), dice di aver pensato in un primo momento all’uso del colore, ma poi di aver scelto il bianco e nero per un’esigenza realistica. Ciò ha favorito, mi sembra, certo carattere di opera-cerniera – è del 2001 – cioè un rinvio critico ai moduli linguistici degli anni Sessanta. Accenno per chiudere a Lost and Found: 6 Glances at a Generation (Oggetti smarriti: 6 sguardi su una generazione), interessante per vari motivi. Anzitutto, perché raccoglie episodi diretti da cineasti di nazionalità diverse; poi per la formula: un progetto di Nikolaj Nikitin, direttore e redattore della rivista di cinema «Schnitt». Il piano produttivo è stato seguito da Herbert Schwering e Christine Kiauk di Icon Film (Colo-
nia), assieme a un gruppo di esperti e cineasti tedeschi, fino alla post-produzione e alla distribuzione. Sei episodi, dunque, firmati da registi giovani, cioè della generazione del dopo-Ottantanove, provenienti da Paesi diversi e “somiglianti”, interessati a esplorare l’ex blocco sovietico da angolazioni particolari. Anche sul piano estetico il tentativo sembra meritorio – personalmente ho preferito gli episodi bulgaro e rumeno per il rapporto che fra loro hanno: da una parte l’angoscia che si avverte quando una tradizione viene calpestata, dall’altro il senso del nuovo che prende coloriture fiabesco-surreali – e aiuta a vedere con occhio attento quel che succede e muta in quella parte di Europa. Lost and Found offre anche l’eccezione di un’età piuttosto giovanile degli autori, come dicevo; eccezione perché, e mi sembra un particolare scomodo, quasi tutti gli altri superano i quarant’anni e talvolta si avvicinano ai sessanta. Tullio Masoni
(1) Mondo ex , sezione del Catalogo BFM, Bergamo/Brescia, 2011, pagg. 56-80. (2) Immagini da un mondo ex, Catalogo BFM, cit., pag. 61. (3) Immagini da un mondo ex , cit., pag.57.
Omaggio a Regina Pessoa Proseguendo coerentemente nel manifestare un’attiva sensibilità nei confronti del cinema d’animazione e delle sue autorialità più significative, Bergamo Film Meeting dedica quest’anno uno spazio privilegiato e articolato a Regina Pessoa. Artista in decisa ascesa, fino a diventare un riferimento imprescindibile nella contemporaneità del proprio ambito professionale, la regista lusitana ha saputo affermarsi mettendo in luce uno stile dalla forte personalità e un sentire particolarissimo che, coniugato con un’evidente attenzione verso la componente più artigiana e materica dell’animazione, costituisce il cuore pulsante della sua produzione. La rassegna a lei riservata – curata da Chiara Boffelli, supportata dalla Fondazione della Comunità Bergamasca e arricchita da un catalogo monografico realizzato con il prezioso contributo di Matilde Tortora – è stata pensata e realizzata in modo da vivere tre momenti distinti ma correlati. La tradizionale proiezione ha concesso al pubblico un confronto diretto con la produzione dell’artista, dalle sue formative collaborazioni come animatrice nei lavori del pluripremiato regista portoghese Abi Feijó ( Os Salteadores , 1993, Fado Lusitano , 1995, Clandestino , 2000), fino a giungere alle opere personali (A Noite , 1999 e História Trágica con Final Feliz , 2005) che l’hanno consacrata come autrice. In queste ultime, in particolare, emerge uno sguardo sensibile e penetrante, seppur sospeso e velato di poetica delicatezza, verso l’infanzia e il mistero che la permea. La rappresentazione della marginalità, della diversità e dell’incomunicabilità si fonde con le tematiche della ricerca identitaria e delle paure legate all’universo infantile e ai fantasmi del vissuto. Il tutto ammantato di un’aura suggestiva, prodotto diretto di un sapiente
lavoro su luci e ombre, oltre che di un’attenzione non scontata verso l’aspetto sonoro. La svolta verso l’eccellenza è però garantita dal completarsi di quanto esposto finora con una ricerca tecnica e poietica indirizzata verso orizzonti opposti. La china raschiata di História Trágica e l’incisione di lastre di gesso alla base di A Noite costituiscono procedimenti tecnici molto complessi, in grado di dilatare sensibilmente le tempistiche realizzative di tali produzioni; ma plasmano anche un corpo profondamente materico, concreto, vivo, fantasticamente reale ed evocativamente palpabile, in cui l’anima contenutistica può trovare una sede in grado di amplificarne l’impatto comunicativo e stratificarne la portata emotiva. Il risultato è un immaginario visivo di intensità rara, capace come pochi di lasciare un segno e di affermare la propria identità personale, al di là delle influenze dichiarate e mostrate nella sezione “Carta Bianca a Regina Pessoa”: una carrellata di autorialità capaci di ispirare tecnicamente (Piotr Dumala), stilisticamente (Abi Feijó) e idealmente (Jan Svankmajer) l’autrice.
dagine sull’artista: la mostra organizzata presso la Sala alla Porta di Sant’Agostino garantisce al fruitore la possibilità di uno sguardo ravvicinato. Le tavole preparatorie di História Trágica con Final Feliz rimarcano la forza espressiva che pervade il disegno della Pessoa, dando un’idea molto precisa di ciò che l’autrice intende parlando di «aprire la luce dentro il nero». Come altrettanto rivelatorio diviene il workshop di animazione, condotto con Abi Feijó sempre al’interno dell’omaggio a lei dedicato. Dal confronto diretto con studenti selezionati nel panorama nazionale emergono infatti con chiarezza le fondamenta del lavoro di Regina Pessoa: l’importanza basilare di luci e ombre, la possibilità di animare qualunque cosa, la capacità di raccontare tramite ogni tipo di materiale, traendo da ciò un arricchimento decisivo.Al di là di ogni possibile interpretazione critica, resta il valore fondativo del cinema di Regina Pessoa, un animare che è anche amare, evidenziabile pure nella breve anteprima offerta dal festival di Kali , storia di un piccolo vampiro attualmente in produzione e ideale terzo capitolo di questo cursus sull’infanzia e la diversità intrapreso dall’autrice.
L’evidenza di una tale incisività si palesa tanto più si approfondisce l’in-
História Trágica con Final Feliz di Regina Pessoa
Francesco Portesi
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Tage des Regens di Andreas Hartmann; in basso, Walking Back to Happiness di Pascal Poissonnier.
Visti da vicino
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“Visti da vicino” anno quinto. La sezione che, all’interno del multiforme panorama filmico del Bergamo Film Meeting, si pone come veicolo per uno sguardo sul reale, come strumento per la sintonizzazione dell’occhio cinematografico sul mondo osservato in presa diretta, è andata costruendosi, col tempo, uno spazio sempre più personale e un programma organico e coerente. Sedici i film presentati quest’anno. Sedici lavori che sono, prima ancora che opere cinematografiche, sedici differenti testimonianze, sedici sguardi, sedici prospettive. Sedici ipotesi di realtà accomunate dalla tendenza, trasversale, di attuare una messa in contatto tra l’occhio e la materia, una prossimità linguistica, cioè, entro la quale oggetto e soggetto arrivano quasi a coincidere. In questo senso vedere da vicino significa davvero descrivere (e descriversi) dall’interno: indagare, penetrare e documentare la diegesi narrativa mentre essa si compie, senza che per questo sia preclusa la possibilità di un racconto. Tages des Regens , del regista tedesco Andreas Hartmann è, in questo senso, un lavoro esemplare. Solo, senza troupe, il giovane filmmaker porta la videocamera nel cuore del Vietnam col fine di denunciare la piaga delle mine anti-uomo.
Ma quello che si trova a filmare è qualcos’altro: ovvero la discreta umanità e la placida deferenza degli abitanti di un villaggio sperduto nelle campagne e sommerso dall’acqua. Quasi che fosse la storia a scegliersi il narratore e non viceversa. Macchina che è occhio ma anche corpo, dunque, che è incarnazione di un visibile capace di scatenare re(l)azioni, innescare spunti narrativi, racconti e esperienze dalla natura autarchica, statuto questo, che relega la condizione dell’autore a quella di testimone, uno spettatore attivo che smette di proporre imput e resta a guardare. E se in alcuni casi, come nel film belga Walking Back to Happiness di Pascal Poissonnier, la macchina è, psicanaliticamente, il mezzo attraverso il quale si scardinano le rimozioni collettive di una famiglia poco incline al dialogo, altre volte, sempre freudianamente, la videocamera diviene un feticcio irrinunciabile: è il caso di Kurdish Lover della francese Clarisse Hahn, dove l’immagine della regista ,costantemente alle prese con il mezzo digitale, suscita in alcuni dei protagonisti il divertito paragone tra la macchina e un oggetto di piacere sessuale. Molto spesso invece, chi si trova di fronte alla camera, reagisce semplicemente recitando una parte. Come in Ageroland di Carlotta Cerquetti, in cui gli abitanti del comune amalfitano di Agerola, si scoprono
tutti straordinari caratteristi e interpreti di loro stessi. O nell’altro film italiano, Raunch Girl di Giangiacomo De Stefano, ove il mettere in scena se stessi viene a coincidere, per la protagonista, con una sorta di tentativo di liberarsi dalla morale comune attraverso la lasciva esibizione del proprio corpo e del sesso. Sesso che è motivo dominante anche nel sagace Diario di un turista sessuale di Davide Arosio e Alberto Gerosa. Attraverso un attento montaggio i due registi non fanno altro che comporre in opera i video postati su YouTube da un narcisista turista sessuale tedesco. Sostituendo di fatto all’atto compositivo del filmare, quello critico del montaggio. Il lavoro più interessante è tuttavia quello del cinese Shan Zuolong, filmmaker che nel suo Hard Old Rock riesce in modo molto convincente, e a tratti raffinato, a coniugare in un grande rigore visivo forma documentaria e struttura narrativa. Il pedinamento pedissequo che il regista compie di un ottantatreenne, Zheng, mette in risalto la forte contrapposizione che sussiste tra i racconti di vita dell’anziano di fronte alla macchina e l’immagine costantemente esibita del suo corpo in disfacimento. Un mostrare impudico e allo stesso tempo carico di una struggente innocenza. Lorenzo Rossi
DVD LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DI LUIGI XIV (1966) di Roberto Rossellini Dvd + libro, Feltrinelli, 2011 -
14,90
Come annunciava Nuccio Lodato in chiusura del suo omaggio a La presa del potere da parte di Luigi XIV sul n. 500, è uscito per Feltrinelli il dvd del film accompagnato da un volumetto, curato da Bruno Fornara, che contiene, oltre a un breve saggio introduttivo di Fornara stesso, interventi d’epoca (Alatri, Bruno, Aristarco, Roncoroni, Bernardini, Moravia) nonché un’intervista e lettere di Rossellini che testimoniano dell’idea di cinema in qualche modo totale che sosteneva il metodo e la ricerca del regista di Germania anno zero e Viaggio in Italia , Roma città aperta e Il generale Della Rovere : la personalità umanamente complessa, la curiosità intellettuale vivace, il sentimento dell’esistenza come avventura continua, la consapevolezza che soltanto il controllo della forma e dell’intenzione dà vita all’opera e quindi alla quintessenza di realtà che vi è contenuta. Il dvd è stato ottenuto da una copia a 35mm restaurata, a sua volta risultato di un lavoro di laboratorio sull’originale in 16mm. La presa del potere da parte di Luigi XIV è stato – come ricorda Renzo Rossellini nell’intervista curata da Adriano Aprà e presentata come extra del dvd – il primo film che Roberto Rossellini accettò di girare in 16mm, a causa del budget ridotto (ventimila franchi) che gli era stato messo a disposizione dalla televisione francese. Utilizzando al meglio questa somma esigua, Rossellini ci ha consegnato una straordinaria meditazione sulla relazione denaro/potere/spettacolo, che, per certi aspetti, appare ancora più attuale oggi che non quarant’anni fa. Racconto, dialoghi, messa in scena si incastrano in un’architettura filmica che consegue, senza sbandamenti e con appassionato rigore, la finalità didattica per la quale era stata concepita. Il capitolo dedicato alla recitazione è stato analizzato in numerose e autorevoli sedi, ma vale la pena di sottolineare anche qui l’intelligenza con cui Rossellini ha saputo piegare la necessità (un interprete perfetto sul piano fisico ma assolutamente deficitario su quello della recitazione “naturalistica”) al progetto di mostrare una forma di potere che si concretizza nella messa in scena di sé: ottenendo come risultato un geniale mélange fra straniamento brechtiano e pratica bressoniana del modello .
La presa del potere da parte di Luigi XIV è
un film che educa chi lo guarda a cogliere nella sua essenzialità la dinamica della realizzazione e dell’imposizione di un regime che si autolegittima nella pratica del controllo prima ancora che nell’apparato ideologico dei valori. Rossellini ce ne disegna il percorso mostrandoci la dialettica implacabile che porta al suo compimento attraverso i passaggi successivi verso una astrazione, una depurazione progressiva del meccanismo, dapprima messo in moto con decisioni intrise di interesse economico e concreto scontro in nome della sopraffazione fisica. La sequenza del “pranzo del re”è magistrale punto di approdo, regolato da una ritualità che coinvolge sia la mensa/palcoscenico da cui Luigi XIV ostende alla corte il suo ruolo di officiante della propria epifania sia le cucine sottostanti, che col loro lavoro permettono il perfetto funzionamento dell’apparato cerimoniale. La “musica del re”che a un certo punto viene fatta suonare dietro richiesta del sovrano completa il rito come la giusta cornice fa con il quadro che vi è contenuto. Nell’intervista, Renzo Rossellini rivela di aver sostituito in questa sequenza il padre, impegnato per alcuni giorni al capezzale della giovanissima figlia Isabella che aveva dovuto subire un’operazione chirurgica. Ma soprattutto ci rivela di aver disubbidito alle sue indicazioni di regia nel non trascurabile dettaglio dell’uso della gru che accompagna il cammino del cerimoniere verso i musicisti quando ordina loro di suonare. Uso estremamente discreto, di cui neppure Roberto Rossellini si accorse mai, e che pure contribuisce in modo decisivo sul piano formale a completare quel processo di astrazione cui si accennava. Adriano Piccardi
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NOVECENTO (1976) di Bernardo Bertolucci Dall’Angelo Pictures, 2011 -
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21,99
«Un contadino con la faccia come il pane troppo cotto». È così che Bernardo Bertolucci, in uno degli interessanti extra allegati al film, descrive Sterling Hayden, che vi interpreta il personaggio del vecchio Leo Dalcò, il nonno di Olmo. È, molto probabilmente, in questa bella faccia contadina, da contadino d’altri tempi, che si può riassumere buona parte del significato dell’operazione di Novecento . La faccia di un attore con una recitazione “in poesia”, al contrario del suo antagonista Burt Lancaster/nonno Berlinghieri, che recita “in prosa”, secondo le parole dello stesso Bertolucci, che altrove riconosce le due principali, solo all’apparenza contradditorie ispirazioni visive di Novecento in La terra di Dovzenko e nei western di John Ford. Realismo e spettacolarità, quindi. Ma non è solo qui che si esprime il gioco di contrasti/attrazioni che caratterizza Novecento : il contrasto di classe, che si riflette nel rapporto di amicizia/rivalità fra Olmo Dalcò e Alfredo Berlingheri; ma anche il contrasto fra la tradizione cinematografica italiana e quella americana, fra il rigore autoriale e le esigenze dello spettacolo, e non ultimo il contrasto fra diverse scuole di recitazione che si trovano pure fra gli interpreti più giovani (l’europeo, istintivo
Gérard Depardieu, che interpreta Olmo; il preciso, “metodico” Robert De Niro, che è Alfredo). Contrasti che tendono a fondersi (come dice Gianni Amelio a proposito di Il con- formista , 1970, che di Novecento , per certi versi, è un’ideale anticipazione) «in un abbraccio non mortale fra Hollywood e Cinecittà. Un film in cui si legano come per magia lo sguardo di Roberto Rossellini e la sensibilità di Vincente Minnelli… e le luci del neorealismo si accendono sugli splendori di Max Ophuls». È proprio di Gianni Amelio il piatto forte del dischetto di extra allegato al film, che esce ora in una mirabile edizione restaurata per i trentacinque anni dalla sua presentazione in sala. Bertolucci secondo il cinema , girato nel 1976 sul set di Novecento , è la visita di un cineasta all’amico e collega. Fra le idee di cinema dei due ci sono differenze, ma anche somiglianze, affinità e complicità. È così che il documentario di Amelio smette ben presto di essere un mero backstage (e del resto non lo è mai stato), per diventare un duello fra una macchina a mano a 16mm e una 35mm montata su un dolly. Seguendo le riprese di tre sequenze del film di Bertolucci (la festa dei contadini in riva al fiume, il funerale in paese, la spartizione del grano sull’aia), Amelio approfitta per girare una “sua” versione del film, inframezzandola con brani di conversazione in cui si parla di cinema e inconscio (la “banda di Kociss” indossata sulla fronte da Bertolucci nasconde in realtà le conseguenze di una capocciata contro una porta a vetri); del cinema inteso sia come fulleriana azione pura che come cocteauiana morte al lavoro; della necessità, come insegnava Renoir, di lasciare durante le riprese di un film una porta aperta onde permettere alla realtà di irrompervi. A questo proposito – e qui ritorna il “contadino dalla faccia come il pane troppo cotto” – è interessante ricordare un gustoso retroscena alla lavorazione di Bertolucci secondo il cinema , come riportato da Emanuela Martini nel suo “Castoro” su Amelio: «[…] la sua 16mm è caduta innamorata di un vecchio contadino rugoso che fuma una sigaretta sulle rive dell’Oglio, e nella colonna sonora sono entrati gli accordi inconfondibili di Johnny Guitar : Sterling Hayden, la prima persona che Amelio ha incontrato arrivando nella campagna emiliana e al quale, scambiandolo per un contadino del luogo, ha chiesto dove fosse il set. E quando Hayden non lo capisce, lo riconosce e gli rifà la domanda in inglese. «Follow the music», risponde Hayden,“segno”indelebile di una memoria cinematografica gloriosa e di un cinema che non si potrà più fare e di cui Novecento è forse una delle ultime, magnifiche esplosioni». Martino Maccari
UN UOMO TRANQUILLO (THE QUIET MAN, 1952) di John Ford Stormovie, 2010 - 9,99
24 ORE A SCOTLAND YARD (GIDEON’S DAY, 1958) di John Ford Koch Media, 2010 - 12,90
«Durante la terribile guerra che oppose l’Ira, l’esercito repubblicano irlandese, ai famigerati reparti dell’esercito britannico, i Black-and-Tans, che si concluse con la tregua del 1921, sei uomini e quattro donne si trovarono riuniti, in una notte di giugno, all’Angler’s Hotel sulle rive del Lough Aonach, in un distretto montagnoso del sudovest dell’Irlanda. È la loro storia a essere raccontata qui. Una storia di passione e di onore, di temperamento e di amore, amore per l’Irlanda, le donne, il whiskey e la pesca… È quest’Irlanda, romantica e tuttavia così reale, con le sue profonde vallate, i suoi tumultuosi torrenti risaliti dai salmoni, le sue bianche fattorie circondate da muretti di pietra a secco, la sua landa e le sue torbiere a essere raccontata qui». Era un uomo piuttosto tranquillo Maurice Walsh, autore della raccolta di racconti il cui incipit è sopra riportato («Un uomo tranquillo», Giovanni Tranchida Editore, Milano 2001). Nato nel 1879 a Ballydonoghue, nella contea di Kerry, entra nella pubblica amministrazione britannica e viene assegnato a un ufficio in Scozia. Lì conosce la sua futura moglie, Caroline Thomson Begg, e un collega
Il clan degli Irlandesi: sul set di The Quiet Man, da destra, John Ford, Victor McLaglen, Barry Fitzgerald (seduto), John Wayne e Francis Ford.
Si scatenano le forze della natura: la prima scena di corteggiamento fra Sean Thornton (John Wayne) e Mary Kate Danaher (Maureen O’Hara).
d’ufficio, Neil M. Gunn il quale, scrittore a tempo perso, legge alcuni suoi racconti e lo incoraggia a continuare a scrivere. Patriota convinto, Maurice Walsh all’indomani della tregua del 1921 fa ritorno in Patria, dove continua a lavorare nella pubblica amministrazione, stavolta per il neonato Stato Libero d’Irlanda, e a scrivere romanzi. Il suo primo lavoro, «The Key Above the Door», riceve il plauso di J.M. Barrie e diventa un best seller; «Blackcock’s Feather», storia d’avventure ambientata nella Scozia del XVII secolo, verrà usato per parecchio tempo come testo di storia nelle scuole della Repubblica d’Irlanda. Nel 1933 è uno scrittore già affermato, e si ritira per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Alla famiglia Walsh, da qualche tempo, si è aggregato Thomasheen James O’Gorman, un mezzo vagabondo che ispirerà allo scrittore il personaggio del filosofo della nullafacenza Thomasheen James O’Dora, protagonista di sedici romanzi umoristici il quale, a immaginarlo ipoteticamente portato sullo schermo, non potrebbe che avere i tratti di Barry Fitzgerald. John Ford, da parte sua, un uomo tranquillo non lo era poi tanto: a detta di chi lo conobbe, era un uomo capace di enormi slanci di generosità, ma li nascondeva dietro la maschera di un caratteraccio irascibile e scostante. Tipica figura dell’irlandese estroverso e casinista, era rigorosissimo sul set, ma gli piaceva fare clan attorno a sé con la sua combriccola di amici-collaboratori abituali, e teneva al suo seguito un tale con l’unico compito di suonare in continuazione alla fisarmonica motivi gaelici come «Mush, Mush», o brani più seri come il prediletto «Bringing in the Sheaves». Nel 1933, Ford adocchia il racconto di Maurice Walsh «The Quiet Man», gli piace, lo compra ma deve metterlo in un cassetto: è troppo impegnato con altri progetti, non necessariamente western (nonostante abbia messo il racconto di Walsh “in naftalina”, Ford tuttavia in questi anni torna cinematograficamente spesso in Irlanda, con il notevole The Informer [Il traditore , 1935] e il misconosciuto The Plough and the Stars [L’aratro e le stelle , 1936], tratto da un dramma di Sean O’Casey). Passata la guerra, i tardi anni Quaranta vedono il regista sotto contratto con la Repubblic Pictures di Herbert J. Yates. Ford rispolvera l’idea di trarre un film da «The Quiet Man», ma il tycoon non ci vede alcuna prospettiva di guadagno. Per spuntarla, il regista accetta di girare un western
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Un Maigret britannico: l ’ispettore Gideon di Scotland Yard (Jack Hawkins, qui con Dianne Foster).
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“su commissione”(e che western! Rio Bravo [Rio Grande , 1950] diventa il terzo capitolo della “Cavalry Trilogy”, e affianca per la prima volta John Wayne e Maureen O’Hara, in una sorta di “rodaggio”della coppia che sarà al centro dell’imminente “irish project ” di Ford). Il terzo uomo di questa storia è un titolato anglo-irlandese. Michael Morris, terzo barone di Killanin, dopo un’avventurosa attività giornalistica (fu tra le altre cose inviato per il «Daily Mail» alla seconda guerra sino-giapponese), si mette in testa un encomiabile quanto ambizioso progetto: dare all’Irlanda una solida struttura industriale cinematografica. Trova nel progetto di Ford una preziosa occasione e, anche se i suoi obiettivi verranno solo parzialmente raggiunti, col regista riuscirà a produrre, oltre a The Quiet Man , anche altri più che interessanti lavori come The Rising of the Moon (Storie irlandesi , 1957) e Gideon’s Day , di cui parleremo più sotto (in seguito, frustrate le sue ambizioni cinematografiche, lord Killanin non smetterà comunque di darsi da fare: come presidente del Comitato olimpico internazionale, si troverà tra l’altro ad affrontare gravi crisi come la strage di Monaco del 1972 e i boicottaggi delle Olimpiadi di Montréal e Mosca). Dunque, l’avventura parte. Del racconto originale, in verità, Ford tiene buone le idee di base principali (un americano di origine irlandese che torna al paesello, il matrimonio con una ragazza del luogo, le beghe sulla dote), cambia nome al protagonista (da Paddy Bawn Enright a Sean Thornton, ovvero il nome di battesimo dello stesso Ford e il cognome di un suo nonno) e imbastisce con il fidato sceneggiatore e amico Frank S. Nugent una storia che ha molto della commedia e moltissimo del racconto autobiografico. La commedia è un genere in cui Ford non si è cimentato molto in passato: forse, l’unico esempio che può venire in mente è The Whole Town’s Talking (Tutta la città ne parla , 1935), una storia basata sul classico espediente dello scambio di identità che, tuttavia, più che gli stilemi della sophisticated comedy ha molte delle tinte fosche del gangster movie. In realtà, Ford è sempre stato solito usare la commedia come un elemento di integrazione alle sue storie (e non solo in funzione di mero comic relief ), basti pensare alle compagnie di buontemponi alla Quincannon e amici nei film sulla Cavalleria, o ai battibecchi coniugali tra personaggi maschili e femminili.
Come commedia, The Quiet Man è piuttosto anomalo. Vi si respira un’aria, più che sophisticated , decisamente shakespeariana, e non solo per i palesi riferimenti alla «Bisbetica domata»: molti elementi sembrano presi dalle tarde commedie del Bardo (i riferimenti a Shakespeare, come si sa, sono costanti nell’opera di Ford), non ultimo l’uso degli elementi naturali nei passaggi clou della storia (le scene di corteggiamento fra Sean e Mary Kate sono sempre caratterizzate da pioggia, vento e tuoni). Anche l’approccio generale al plot e ai personaggi, per un film di Ford, è più unico che raro: se nell’opera del regista, finora, che fossero western od opere con ambizioni più letterarie come The Long Voyage Home (Viaggio senza fine , 1940, da quattro atti unici di Eugene O’Neill), il metodo abituale fordiano era quello di descrivere la psicologia dei personaggi attraverso l’azione, qui Ford adotta il procedimento esattamente opposto. Sono i sentimenti di Sean Thornton a determinare il compiersi degli eventi, che siano la nostalgia per luogo della sua infanzia, la ferma intenzione di sfuggire al suo tormentato passato americano e mettere su casa, fattoria e famiglia, o la difficoltà a capire le usanze del paese. Sean Thronton è John Ford stesso, nato nel Maine ma desideroso di ritrovare le radici sue e della sua famiglia. «I will arise and go now, and go to Innisfree, / And a small cabin build there of clay and wattles made / […] And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow, / Dropping from the veils of the morning to where the cricket sings»: questi versi di William Butler Yeats, più che il racconto di Maurice Walsh (la cui prosa tuttavia è molto “fordiana”, arricchita com’è da uno spirito d’avventura corretto con generose dosi di understatement ) sono alla base dello spirito che anima The Quiet Man , e della resa finale di un’Irlanda più idealizzata che reale. Un’Irlanda che esce direttamente dalla testa e dal cuore di Ford. Non a caso, se all’epoca della sua uscita il film spopolò in tutto il mondo, comprese le comunità di irlandesi “della diapora”, in Irlanda qualcuno storse il naso accusandolo di scarsa verosimiglianza. Opinione più che legittima, d’accordo; ma sarebbe come accusare Shakespeare di scarsa verosimiglianza per l’Illiria di «La dodicesima notte»… Altra recente uscita non-western in dvd, decisamente da non perdere, è la successiva produzione Ford/Killanin Gideon’s Day (in mezzo i due avevano girato anche The Rising of the Moon , sempre di ambientazione irlandese e a episodi: possiamo sperare di vedere anche questa in commercio?). Sembra un divertissement, e probabilmente lo è (a Bogdanovich, il sempre laconico Ford dichiarò in proposito: «Avevo voglia di fare qualcosa che avesse a che fare con Scotland Yard; andai là e la feci». Punto). Eppure, in questa descrizione della giornata tipo di un Maigret londinese, preso fra il caso di un collega corrotto, la caccia a un serial killer, una banda di feroci rapinatori di banche e problemi più domestici come i rapporti con il suo futuro genero o la ricerca di un merluzzo per la cena, si scova un autentico gioiellino che rivela ancora una volta uno dei migliori e più gustosi segreti del metodo Ford: alternare, come diceva il regista stesso, «dramma e commedia come gli strati di bianco e di rosso in una fetta di bacon». Arturo Invernici
LE LUNE DEL CINEMA A CURA DI NUCCIO LODATO
[email protected] 1 MARZO 2011
Muore a Santa Maria (California) a 89 anni Ernestine Jane Geraldine Russell, in arte Jane Russell, nata a Bernidji (Minnesota) il 21 giugno 1921. Lanciata a vent’anni da Howard Hughes – infermiera del suo dentista, aveva studiato con Max Reinhardt… – come “il seno”, due anni prima che il film di riferimento, Il mio corpo ti scal- derà , iniziato da Hawks e concluso dallo stesso Hughes, venisse a contatto col pubblico (da noi sarebbe accaduto solo nel 1949), fu successivamente diretta da Farrow (Il suo tipo di donna , 1951), Cummings (Questi dannati quattrini , id.), Dwan (La regina dei desperados , 1952),
della Monroe). Ripresa con La linea francese (Bacon, 1954), La donna venduta (Nick Ray, 1955), la tripletta con Raoul Walsh (Gli implacabili , 1955; Un re per quat- tro regine , 1956 e Femmina ribelle , 1957), e infine Vietato rubare le stelle (Taurog,1957).A metà anni Sessanta, rentrée nel teatro musicale con tournée in mezzo mondo (comparve anche alla nostra tv) e qualche altro film decisamente minimo.Accusata di essere “volgare”. Invece semplicemente indimenticabile. Autobiografia: «My Path and My Detours».
1 MARZO 2011
Muore a Milano a 69 anni Carlo Andrea Bixio, natovi il 18 dicembre 1941. Figlio di Cesare Andrea (autore di «Solo per te, Lucia» che musicò il primo sonoro italiano, La canzone dell’amore di Righelli, e di numerose altre popolarissime canzoni anni Trenta) e nipote di Graziano Jovinelli, è stato a sua volta sulla breccia come impresario teatrale (il milanese “Le Maschere”), produttore musicale e televisivo, padre di successi popolari tramutatisi in autentici tormentoni, talvolta ancora in corso: «I Cesaroni», «Un medico in famiglia», «Tutti pazzi per amore». Ma anche esclusivista delle colonne musicali dei film Titanus, Euro e Cineriz, il che lo portò a condividere il lavoro di molti e fra i maggiori registi e compositori da film, non solo italiani.
3 MARZO 2011
Muore a 70 anni – era nato il 15 dicembre 1940 – dopo lunga malattia, a Mumbai, Ravinder Kapoor, in arte Goga Kapoor, l’attore bollywoodiano specializzato in ruoli di malvagio e di gangster (ma era stato anche Kamsa in una versione indiana tv del «Mahabarata»), in numerosi film girati tra il 1971 e il 2006: peraltro mai pervenuti, salvo errori od omissioni, in Italia.
3 MARZO 2011
Divertirsi viaggiando: Jane Russell, con Marilyn Monroe e Charles Coburn, in Gli uomini preferiscono le bionde (1953) di Howard Hawks.
Sternberg (L’avventuriero di Macao , id.), trionfando – anche su Marilyn, grazie alla mano sinistra ancora di Hawks – con Gli uomini preferiscono le bionde (1953). Successo che non sarebbe riuscita bissare due anni dopo producendone personalmente il sequel Gli uomini sposa- no le brune (regìa di Richard Sale, Jeanne Crain al posto
Muore a Roma a 78 anni Francesco Bolzoni, nato nel 1932 e da quarant’anni critico di «Avvenire», già nella precedente incarnazione di «L’avvenire d’Italia» prima della fusione con «L’Italia» voluta da Paolo VI, dopo gli esordi precoci all’«Alto Adige». Recentissima la sua ultima recensione di Hereafter . Funzionario Rai dal 1973, e collaboratore della «Rivista del Cinematografo», che contribuì – entrando in un “comitato di consulenza” con Fernaldo Di Giammatteo e Lietta Tornabuoni – a rinnovare a metà degli anni Novanta sotto la direzione di Andrea Piersanti. Autore di saggi e monografie (tra gli altri, «Quando De Sica era Mr. Brown», 1984; «I film di Francesco Rosi», 1986; «Emilio Cecchi fra Buster Keaton e Visconti», 1986: lo stesso anno in cui raccoglie le proprie recensioni nel volume «La barca dei comici»). Chi scrive lo ricorda – esperienza diretta – per il bellissimo convegno veneziano del 1976 sul cinema spagnolo, all’indomani della fine di Franco e sull’onda dell’emozione che
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5 MARZO 2011
Muore a L’Avana, all’età di 88 anni, Alberto Granado Jiménez, nato a Cordoba (Argentina) l’8 agosto 1922. Emigrato a Cuba nel 1961, richiamato dall’amico e collega Ernesto Che Guevara de la Serna, si afferma come botanico e ricercatore al servizio della rivoluzione e fonda la Scuola Medica di Santiago. La sua fama è però legata alle testimonianze sugli anni giovanili del Che, alla base del documentario di Gianni Minà In viaggio con Che Guevara (2003), di cui è protagonista, e del film di Walter Salles I diari della motocicletta (2004) in cui compare non accreditato. Sua l’autobiografia «Un gitano sedentario» (2005). Amico dell’Italia (aveva vissuto da giovane a Torino) e anche del cinema italiano, come ci aveva personalmente confidato. [lopedeluna ]
6 MARZO 2011 Imprevisti di viaggio: Gabriel García Bernal (Che Guevara) e Rodrigo De la Serna (Alberto Granado Jiménez) in I diari della motocicletta (2004).
l’accadimento, scetticamente atteso per decenni, aveva a ragione procurato. Funerali officiati in San Pietro in Montorio da un altro critico cinematografico, padre Virgilio Fantuzzi S.J.
5 MARZO 2011
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All’inizio della prima proiezione serale di Hereafter al cinema Ariosto di Milano, un’ignara spettatrice, su invito del consorte, prova per la prima volta, dirigendo il getto in aria, lo spray autodifensivo al peperoncino che porta in borsetta. Risultato: mancamenti, grida d’allarme e sgombero precauzionale forzato di trecento spettatori presenti, quarantanove dei quali visitati sulla strada. Quasi uno tsunami preliminare a quello di Eastwood.
9 MARZO 2011
La Rai blocca la messa in onda del trailer di Silvio Forever di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, sceneggiato da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, ritenendone “inopportuno” l’inserto di quattro secondi nel quale la signora Rosa Bossi (madre del “premier”, scomparsa nel 2008) affermava: «Non si vedrà mai una foto di Silvio che è in giro con le donne o altro».
Gian Luigi Rondi, presidente del Festival di Roma, smentisce le voci accreditanti Marco Müller come prossimo responsabile della manifestazione, sostituendo Piera Detassis. In consiglio regionale del Lazio, Enzo Foschi (Pd) polemizza contro la candidatura di Müller che lo scorso autunno, in un’intervista a «l’Espresso», aveva in ogni caso ipotizzato una futura configurazione del festival assai diversa da quella attuale.
5 MARZO 2011
10 MARZO 2011
Muore a Milano, all’età di 63 anni, Silvano Cavatorta, nato nella stessa città il 31 ottobre 1947. Prima autore (il cinema militante di Feda Fargas e Splendid Milano ) e critico di cinema (a Radiopopolare e con il castorino su Joris Ivens, scritto nel 1979 con Daniele Maggioni e gli studi sulla Scuola di New York e sulla classe operaia nel cinema americano), poi produttore con lo Studio Equatore e insegnante alla Civica scuola di cinema di Milano, lega il suo nome soprattutto al Festival Filmmaker, che organizza a partire dal 1980 e cui si dedica sino alla fine con la recente celebrazione del trentennale. La sua attività era sempre rivolta alla ricerca del nuovo: al cinema dei giovani autori ha dedicato le sue migliori energie, scoprendo talenti e sostenendoli con consigli e aiuti concreti. Il premio di produzione attraverso cui dal 1985 Filmmaker ha sostenuto il lavoro di decine di autori milanesi era il progetto cui teneva di più. Con la sua scomparsa, che segue di poco quella di Enrico Livraghi, si chiude a Milano una stagione: quella della passione, della ricerca combattiva, della curiosità intellettuale, forse anche quella del cinema indipendente. Ti si può rivedere, nei panni del “grillo parlante” Alberto, nel sempreverde Come se… (1983) di Gianluca Fumagalli. Ciao, Silvano. [lopedeluna ]
Si inaugura al Museo del Cinema di Torino la mostra “Noi credevamo . Il Risorgimento secondo Martone”, una splendida rassegna fotografica curata da Alberto Barbera che consente, anche attraverso il relativo catalogo e la simultanea apparizione del dvd, di riflettere più a fondo su di uno dei più importanti film italiani – e non solo – degli ultimi anni.
11 MARZO 2011 Ai Murazzi del Po di Torino viene inaugurata una lapide a ricordo del salvataggio dalle acque del fiume che, il 17 marzo 1922, il sedicenne Mario Soldati, con l’amico Lelio Richelmy (fratello del futuro poeta Tino e nipote dell’allora cardinale di Torino), operò a vantaggio di un coetaneo in pericolo di vita. Il fatto, immortalato dalla «Domenica del Corriere» del 2 aprile successivo, valse al futuro scrittorecineasta una medaglia d’argento al valore civile, con decreto del ministro degli Interni del governo Facta, Taddei, promulgato il successivo autunno: come amava ricordare Soldati, «nell’ultimo giorno di libertà del l’Italia».
12 MARZO 2011
Muore a Segrate (Milano), all’età di 91 anni, Adionilla (Nilla) Pizzi, nata a Sant’Agata Bolognese (Bologna) il 16
aprile 1919. Prima vincitrice (con «Grazie dei fiori») nel 1951 del Festival della canzone italiana di Sanremo, resta per anni la dominatrice assoluta della melodia nostrana, non rinunciando a comparire in pubblico sino alla tardissima età, vera o ben trovata icona. Compare in ben ventidue film, da Il microfono è vostro (1951, di Giuseppe Bennati) a Melodrammore (1977, di Maurizio Costanzo) non solo in ruoli ispirati dalla sua carriera (Solo per te Lucia , 1952, di Franco Rossi; Canzone appassionata , 1953, di Giorgio Simonelli; Ci troviamo in Galleria , 1957, di Mauro Bolognini) ma anche con prove più impegnative (La Mandragola , 1965, di Alberto Lattuada). [lopedeluna ]
17 MARZO 2011
Esce a Parigi da Seuil il libro di Alain Fleischer «Réponse du muet au parlant. En retour à Jean-Luc Godard». L’autore, già collaboratore di Godard nel 2005 alla Fresnoy, rifacendosi al proprio stesso film Morceaux de conversations avec Jean Luc Godard , e a un brano di commento del godardiano Notre musique (2004), accusa di antisemitismo il cineasta. Non è la prima volta, dalla recente assegnazione a Godard dell’Oscar alla carriera mai ritirato, che si addensano su di lui simili sospetti, a tutt’oggi mai degnati di una replica da parte dell’interessato.
17 MARZO 2011
Muore nella propria dimora di Londra a 94 anni Michael Gough, nato a Kuala Lumpur il 23 novembre 1916: caratterista britannico con oltre centocinquanta pellicole all’attivo. Decolla coll’Old Vic di Londra e nel 1937 è già a Broadway. Debutta nel cinema col 1948 (Stirpe danna- ta di Marc Allégret); nel 1955 è uno dei due assassini di Clarence nel Riccardo III di Olivier: ma accede alla popolarità internazionale con l’Holmwood di Dracula il vam-
piro (Terence Fisher, 1958) che gli dischiude per numerosi altri titoli del genere. È con Delvaux (Una sera un treno, 1968); Ken Russell (Donne in amore , 1969; Messia selvaggio , 1972); Huston (Di pari passo con l’amore e la morte , 1969); Losey (Messaggero d’amore , 1971; Galileo , 1974); Schaffner (I ragazzi venuti dal Brasile , 1978); Yates (Servo di scena , 1983); Jarman (Caravaggio , 1986; Wittgenstein , 1993); Scorsese (L’età dell’innocenza , 1993). Nel 1985 è lord Delamere in La mia Africa di
Pollack: anticamera dell’ulteriore visibilità che Tim Burton gli conferisce col ruolo del maggiordomo di Batman nel film omonimo (1989), confermandoglielo per Batman – Il ritorno (1982), imitato da Joel Schumacher per i successivi Batman Forever (1995) e Batman & Robin (1998). Burton, per il quale avrebbe lavorato anche come doppiatore per La sposa cadavere (2005) e Alice (2010), lo richiamerà un’ultima volta sul set in Il mistero di Sleepy Hollow (1999).
18 MARZO 2011
Si inaugura al Museo Virtuale di Ercolano, con la partecipazione di enrico ghezzi, la mostra “Carta Kubrick”: il primo allestimento pubblico di documenti del regista, comprendente circa quattrocento elementi fra manifesti, locandine, libri, riviste e fotografie provenienti da collezioni private di tutto il mondo. Intanto l’editrice Taschen distribuisce la nuova edizione “economica”(quarantanove euro) della straordinaria raccolta dei materiali preparatorii del mai realizzato progetto di film napoleonico di Kubrick, già editi lo scorso anno in costosa tiratura limitata.
18 MARZO 2011
Muore a 82 anni Enzo Cannavale, nato a Castellammare di Stabia il 5 aprile 1928. Attore teatrale di vaglia, a lungo in organico nelle compagnie dirette da Eduardo De Filippo, che lo scopre mentre lavorava alle Poste. In sessant’anni, tra il 1949 (non accreditato in Yvonne la nuit di Giuseppe Amato) e il 2009, ha preso parte ad almeno un centinaio di film, lavorando anche con Caprioli e Nanni Loy, Risi e Rosi, Manfredi e Lizzani, Lattuada e Germi, Festa Campanile e Samperi, Troisi e Ferreri, Tornatore e la Wertmüller. Ma soprattuto con Mariano Laurenti (nove film), Bruno Corbucci (otto), Fizzarotti (cinque), Steno (cinque), Pingitore (quattro), Carnimeo (due), Tarantini (due), Salemme (due). In tv ha figurato, con Eduardo, tra l’altro in «Bene mio core mio», «Il sindaco del Rione Sanità» e «Peppino Girella» negli anni Sessanta, e senza in numerosissime altre serate singole e miniserie. Il boom della sua popolarità si registrò per i non pochi film interpretati con Bombolo.
22 MARZO 2011
Bricolage, ma con stile: Michael Gough in Gli orrori del museo nero (1959) di Arthur Crabtree.
Il Tribunale di Roma, nona sezione, inibisce a Yahoo! «la prosecuzione e la ripetizione della violazione dei diritti di sfruttamento economico sul film About Elly mediante il collegamento ai siti riproducenti in tutto o in parte l’opera, diversi dal sito ufficiale del film». Sentenza assai rilevante, riguardo alla responsabilità dei motori di ricerca «nel rendere disponibile l’accesso ai siti che immettono in rete film piratati, sprovvisti di ogni tipo di autorizzazione
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da parte dei detentori dei diritti», come recita il comunicato della Open Gate Italia, l’organizzazione specializzata nelle controversie legali per pirateria online per conto dei produttori.
23 MARZO 2011
Muore a 79 anni all’Ospedale Cedri del Libano di Los Angeles Elizabeth Rosemond Taylor, in arte Elizabeth Taylor, nata a Hampstead (Gran Bretagna) il 27 febbraio 1932, figlia di americani henryjamesianamente dislocati in Inghilterra, ma pronti a rientrare in Patria allo scoppio del Secondo conflitto mondiale. A nove anni debutta sullo schermo in There’s One Born Every Minute (di Harold Young). L’anno successivo è già protagonista e
(Daniel Mann, 1960), Chi ha paura di Virgina Woolf? (Nichols, 1966), La bisbetica domata e Il giovane Toscanini (Zeffirelli, 1967 e 1988), Riflessi in un occhio d’oro (Huston, 1967), La scogliera dei desideri e Cerimonia segreta (Losey, 1968), Il giardino della felicità (Cukor, 1976). Della spettacolarmente tumultuosa vita privata il lunista non dirà, per concentrare l’attenzione e l’ossequio di chi legga su di un lancinante fascino personale per certi versi misterioso e insuperato.
23 MARZO 2011
Contrordine non-compagni! Il consiglio dei ministri reintegra il FUS con 149 milioni di euro, cui si aggiungono i 27 già “congelati” in sede di decreto “milleproroghe”. Viene inoltre annullato l’aumento di un euro su ogni biglietto d’ingresso, decretato per scaricare sugli spettatori gli incentivi fiscali alla produzione. La risposta dei sindacati confederali è la revoca dello sciopero generale dello spettacolo in programma per il 25 marzo; quella di Agis, Federculture e Anci l’annullamento delle tre giornate di protesta prefissate per sabato 26, domenica 27 e lunedì 28.
23 MARZO 2011
Un gruppo di familiari e amici di Mario Monicelli (tra cui la compagna Chiara Rapaccini, Lizzani, Rosi e Scola) sporge querela per diffamazione nei confronti dell’on. Paola Binetti (ex Pd, ora Udc), che aveva dichiarato che la morte del regista era da interpretare «come il gesto disperato di un uomo lasciato solo dai suoi amici e dai suoi familiari». La dichiarazione, sostengono i querelanti, è gravemente offensiva, in quanto contenente «un’inammissibile ipotesi, lontana dalla verità dei fatti e da ogni sia pur minima conoscenza della personalità del regista e dai sentimenti di chiunque abbia avuto la fortuna di frequentarlo».
23 MARZO 2011
Codice cavalleresco: Elizabeth Taylor, affascinantissima Rebecca di York, a fianco di Richard Taylor (nessuna parentela) in Ivanhoe (1952) di Richard Thorpe.
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popolare con Torna a casa Lassie! (di Fred M.Wilcox), e il relativo sequel di tre anni dopo. In mezzo c’è già stato, tra l’altro, Gran Premio (Clarence Brown, 1944). Da allora un susseguirsi, per mezzo secolo, di una cinquantina di film, che ne mettono in luce soprattutto le spiccate doti drammatiche e la particolarissima bellezza. Non disponendo di una pagina intera, si spigola limitandosi a Piccole donne (LeRoy, 1949), Il padre della sposa e Papà diventa nonno (Minnelli, 1950-1951), Un posto al sole (George Stevens, 1951), Ivanhoe (Thorpe, 1952), L’ultima volta che vidi Parigi e La gatta sul tetto che scotta (Brooks, 1954 e 1958), Il gigante e L’unico gioco in città (ancora Stevens, 1955 e 1970), L’albero della vita (Dmytryk, 1957), Improvvisamente l’estate scorsa e Cleopatra (Mankiewicz, 1959 e 1963), Venere in visone
Muore a Parigi a 89 anni Richard Leacock, nato a Londra il 18 luglio 1921. Documentarista tra i maggiori della storia del cinema, attivo fin dall’adolescenza (Canary Bananas e un corto ornitologico realizzato alle Galápagos sono le sue prime realizzazioni, al seguito del padre bananiere alle Canarie), prima degli studi di fisica a Harvard e dell’inizio di carriera, ventenne, come aiuto operatore. Impegnato nel 1948 con Flaherty (delle cui figlie era stato compagno di scuola) nel capolavoro Louisiana Story , specialista della camera nascosta che in qualche modo proseguiva, dandogli carne e sangue, il geniale sogno formalista di Dziga Vertov, realizza negli anni Sessanta, nel quadro della cosiddetta “scuola di New York” (con Pennebaker, i fratelli Maysles e Drew), opere di determinante importanza: Primary (1960), The Children Were Watching (1961), Football (1962) e Jane (1963). Fino ai grandi documentari sui concerti, Monterey Pop (1967) e Woodstock (1968). Trasferitosi a Parigi nel 1988, ha realizzato ancora numerosissime opere fino alla metà degli anni Novanta. Fu definito da Henri Langlois «il più importante documentarista dal tempo dei Lumière».
26 MARZO 2011
Muore a Milano, all’età di 74 anni, Franco Quadri, nato nella stessa città il 16 maggio 1936. Critico teatrale (da «Sipario» – il convegno di Ivrea per un Nuovo Teatro e l’omonimo Manifesto del 1967 – passando per «Panorama», a «Repubblica» ove a gennaio è apparsa la sua ultima recensione), direttore dal 1983 al 1986 della sezione teatro della Biennale di Venezia, presidente della giuria del Premio Riccione dal 1995 al 2007, traduttore di Samuel Beckett, autore di importanti saggi (su Robert Wilson, Luca Ronconi, Jean Genet, Pina Bausch, eccetera), fonda nel 1971 la casa editrice Ubulibri, in cui appaiono anche decine di preziosi testi sul cinema, e crea nel 1979, collegato al Premio Ubu per le migliori opere della stagione teatrale, il «Patalogo», fondamentale annuario dello spettacolo, che fino al 1986, per le cure di Gianni Buttafava, si occupa deliziosamente anche di cinema. Persona squisita e sempre disponibile, lo si collega anche a un memorabile cineclub, il Club Nuovo Teatro, organizzato a Milano negli anni Ottanta con Alberto Farassino e altri. Ciao, Franco. [lopedeluna ]
26 MARZO 2011
In risposta al proposito dichiarato il giorno precedente dal nuovo ministro della Cultura, il veneziano Paolo Galan, di chiudere il festival di Roma, il nonagenario presidente della manifestazione, Gian Luigi Rondi, lo invita invece a inaugurarne la nuova edizione, che «sarà di grande livello».
27 MARZO
Muore a New York a 85 anni Farley Earl Granger, in arte Farley Granger, nato a San José (California) il 1° luglio
1925.Trasferito con la famiglia a Hollywood nell’infanzia in conseguenza della Grande depressione, si afferma in teatro all’inizio degli anni Cinquanta tra gli interpreti di «Cantando sotto la pioggia». Ma aveva già debuttato nel cinema con Fuoco a Oriente e Prigionieri di Satana (Milestone, 1943 e 1944), affermandosi clamorosamente a cavallo fra i due decenni, con un poker indimenticabile: due volte con Hitchcock (Nodo alla gola , 1948 e L’altro uomo , 1951), una con Nicholas Ray (La donna del ban- dito , 1949) e una, ma perentoria e definitiva, con Visconti,“sostituendo” Marlon Brando in Senso (1953). Da allora non ritroverà più quei vertici, pur essendo coinvolto in L’altalena di velluto rosso (Richard Fleischer, 1955). Tornato soprattutto al teatro dopo la rottura del rapporto di esclusiva con Samuel Goldwyn, conobbe tra il 1970 e il 1974 una nuova stagione italiana, interpretandovi tra l’altro Lo chiamavano Trinità (1970, di E.B. Clucher = Enzo Barboni) e Pianeta Venere (1974, di Elda Tattoli). Nell’ultima fase della carriera si dedicò soprattutto alla tv. Fu richiamato all’attenzione nel 1995 da Rob Epstein e Jeffrey Friedman con inserti da Nodo alla gola e una diretta intervista nella loro intelligentissima antologia su omosessualità e cinema Lo schermo velato . Autobiografia: «Include Me Out» (2007, a quattro mani col compagno Robert Calhoun).
27 MARZO 2011
Al Festival International de Films de Femmes di Créteil, retrospettiva “Cecilia Mangini.Visioni e passioni”che spazia dai corti ad All’armi siam fascisti a una mostra fotografica.
29 MARZO 2011
Muore a Bologna, all’età di 83 anni, Giuseppe D’Agata, nato nella stessa città nel 1927. Autore del bestseller «Il medico della mutua» (da cui l’omonimo film, 1968, di Luigi Zampa), di «Il segno del comando» (da cui lo sceneggiato, 1971, di Daniele D’Anza e il remake, 1992, di Giulio Questi), di «L’esercito di Scipione» (da cui il film, 1977, di Giuliana Berlinguer), tutti da lui sceneggiati, è uomo di multiforme ingegno, anche se talora marginalizzato: partigiano, narratore della Resistenza, romanziere anche sperimentale, narratore cinetelevisivo, autore radiofonico, dirigente Rai, esperto d’arte, presidente dello sfortunato Sindacato Scrittori. Ciao, Giuseppe. [lopedelu- na ]
30 MARZO 2011
Dopo 26 anni di onorevole e onorato fiancheggiamento, la Regione Piemonte nega il patrocinio al festival “Da Sodoma a Hollywood”, col conseguente blocco di manifesti e programmi, già in lavorazione a meno di un mese dall’inaugurazione (28 aprile). Lo comunica personalmente il presidente Cota (Lega Nord) al presidente del Museo del Cinema – che dal 2006 organizza materialmente questo come altri festival torinesi – Sandro Casazza: «Stampate pure i programmi ma senza il nostro logo». «I suoi gusti son squisiti»: «I signori son serviti» recitava un vecchio Carosello… Dagli amici mi guardi Dio…: Farley Granger, a destra con Robert Walker, in L’altro uomo (1951) di Alfred Hitchcock.
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LIBRI
Maria Roberta Novielli
METAMORFOSI SCHEGGE DI VIOLENZA NEL NUOVO CINEMA GIAPPONESE Epica Edizioni, Castello di Serravalle (Bologna) 2010 pp. 143. - 27,50
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(a.p.) Un libro bello e utile, questo di Maria Roberta Novielli che, analizzando i prodotti di alcuni settori del cinema giapponese dell’ultimo quindicennio, ne enuclea con attenzione e precisione gli elementi portanti profondamente radicati nel loro sostrato culturale-mitologico, ma anche quelli collegati a eventi che hanno traumatizzato/ipnotizzato la società nipponica contemporanea, al punto da influire, neppure tanto sotterraneamente, sul suo immaginario di più recente consolidamento. L’autrice focalizza il suo discorso su alcuni generi specifici. L’horror, naturalmente, nelle sue varianti tra derive nel mondo del sovrannaturale (fanta-
smi, materializzazioni del Male, reincarnazioni) e quelle legate invece alla sfera delle devianze mentali, alle patologie dell’inconscio. Secondo ambito di indagine riguarda quel cinema che lavora sull’ibridazione di natura (la tradizione di una cultura millenaria) e tecnologia (la violenza dell’irruzione occidentale in un equilibrio perfetto quanto fragilissimo) con conseguenze mostruose e foriere di esiti spaventosi. Infine, l’attenzione di Novielli si concentra sul binomio action movie/cinema erotico, cogliendone i punti di contatto e di sovrapposizione, nel legame con i generi tradizionali e gli inevitabili rispecchiamenti del cambiamento politico/sociale, dei legami tra potere e criminalità, delle domande che tale binomio porta con sé relativamente all’impatto degli interessi di mercato sul disorientamento etico che ne deriva soprattutto per le generazioni più giovani. Il lavoro condotto da Maria Roberta Novielli si preoccupa di esplicitare i necessari riferimenti culturali e storici, che non di rado (e per una comprensibile mancanza di conoscenze puntuali) mancano agli appassionati, impedendo loro di cogliere – al di là della fascinazione prodotta dalle immagini – la densità e l’intreccio dell’universo sottostante, la cui conoscenza non può che opportunamente arricchire di consapevolezza il piacere della visione. I rimandi alla mitologia, alla letteratura contemporanea, alla cronaca e alla storia del cinema nipponico sono gli indispensabili paletti che definiscono e illuminano il percorso. Corredo di immagini a colori in inserto. Bibliografia e filmografia di riferimento.
Paolo Micalizzi
LÀ DOVE SCENDE IL FIUME IL PO E IL CINEMA Ed.Aska, Firenze 2010 pp. 367 - 25,00. Il titolo riprende quello di un bel western di Anthony Mann (1952), anche se il fiume che là scende è il Columbia River, e non il Po. Al gran padre dei fiumi italiani così com’è rappresentato (o fa da sfondo) in un gran numero di film è dedicato questo libro denso, documentatissimo (oltre centottanta lungometraggi e trecentocinquanta corti, più i video), costato evidentemente una ricerca di anni da parte dell’autore, che alla sua Ferrara – “sua” anche se città d’adozione – e al territorio padano ha dedicato già attenzione. Il Po nel cinema (più la tv), dunque. Dal Monviso al Delta. Possono venire in mente, sollecitati dal richiamo, titoli come Il mulino del Po , Scano Boa , La donna del fiume , Delitto sul Po ,
Centochiodi ; pensandoci un po’ anche cose come Ossessione , Paisà , Il grido , Novecento , Un ettaro di cielo , La neve nel bicchiere , L’Agnese va a morire , Don Camillo ; più difficile immaginare che c’entrino col gran fiume (magari travestito da luoghi che vi hanno poco a che fare) film come Gli ultimi giorni di Pompei , Riso amaro , Addio alle armi , Aprile , Monella (ma non per niente quella del Po viene definita «la zona più sensuale d’Italia»).Qui si trova tutto, senza dire dei numerosi cortometraggi, dei quali si forniscono dati e pareri, assunti da montagne di comunicati, giornali, riviste, opuscoli. Settore di grande importanza, se si pensa che nei luoghi in questione si sono fatti le ossa registi come Antonioni, Lattuada, Vancini, Pupi Avati, Giulio Questi, Giuliano Montaldo (lo ricorda lui stesso nella Introduzione); e fra l’altro ci sono anche la bella ricerca di Olmi ( Lungo il fiume ) e un progetto di Zavattini, ripescato da Micalizzi. Chiaramente, dato lo scopo informativo del libro (preziose anche le ilustrazioni), non si stabiliscono gerarchie di valori in questo “fiume di celluloide” che ha la sorgente, nel 1905, in réportages come L’inondazione del Po e Le sorgenti del Po , e la foce (per ora) in Pane e tulipani (2000) di Soldini.
Claudio Manari
ELIZABETH TAYLOR Ed. Gremese, Roma 2010 pp. 175 - 27,00.
È vero, come afferma Gian Luigi Rondi nella presentazione del libro, che la pubblicistica italiana si è occupata poco di Liz Taylor, che pure non è solo una diva ma anche una attrice dalle notevoli risorse, come ha dimostrato nelle più svariate occasioni. Alla ribalta internazionale per sessant’anni con una cinquantina di interpretazioni cinematografiche (più quelle televisive e, poche ma ci sono anche quelle, le fatiche teatrali), la Taylor è indagata qui nella sua vita privata e professionale e nei singoli risultati, che per quanto riguarda il cinema vanno dagli esordi, decenne, fino all’ultima prova da sessantanovenne. Da noi si è fatta conoscere con Torna a casa Lassie (1943), che consideriamo di solito come il suo primo film, ma in realtà aveva cominciato un anno prima con una pellicola mai arrivata in Italia (There’s One Born Every Minute , 1942). Guarda caso, neppure l’ultimo (These Old Broads , 2001) è stato distribuito da noi. In seguito Liz – sempre «innamorata della vita» – si è dedicata alle opere umanitarie. Il libro, come tutti quelli della collana “Le Stelli Filanti” dedicata agli attori e alle attrici, è arricchito da numerose fotografie, tra cui quelle tratte dagli album di famiglia.
Giulio d’Amicone
RENÉ CLAIR IL SORRISO AL CINEMA Ed. Falsopiano, Alessandria 2010 pp. 199 - 17,00. Il sorriso al cinema, esatto. L’arguzia, la leggiadria (che non è la leggerezza), l’ironia. Le caratteristiche vitali di un cineasta pochissimo trattato e pochissimo ricordato, cui l’autore dedica attenzione – giustamente! giustamente! – con confessato affetto e con una confessata ammirazione. Tutti i film di Clair sono seguiti uno per uno e illustrati nelle singole caratteristiche, in grado di formare
il ritratto di un gentiluomo vecchio stampo, un intellettuale aristocratico, anche se dotato di un’umiltà che gli impedì di farsi largo in una temperie artistico-culturale di cui fu purtuttavia un esponente essenziale. Di questo regista sono messi continuamente in rilievo i valori filmici, la sua vocazione continuativa (anche nei risultati considerati minori) per la “rappresentazione” della realtà, non per la realtà. Raggiungendo, si può dire, un doppio valore, narrativo e metalinguistico. Puntuali diverse osservazioni, come quella sulla funzione degli oggetti nel mondo immaginario clairiano e sulla dimensione sonora che “completa lo spazio” (ma non mi pare messa in rilievo quella che è l’originalità di un nuovo tipo di canzone-azione – in Il milione soprattutto – in funzione strutturale). Come insegnavano, per la musica in generale, le giovani scuole in Francia (del resto il Satie di Entr’acte costituiva un precedente eloquente) e, nella stessa epoca in Germania, gli alfieri della gebrauchsmusik .
Pierangela Diadori, Paola Micheli
CINEMA E DIDATTICA DELL’ITALIANO L2 Ed. Guerra, Perugia 2010 pp. 322 – 18,50.
Uno strumento “tecnico” utile agli insegnanti e agli studenti dell’“ita-
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Più proposte di esercizi come ricreare riduzioni, situazioni, dialoghi, soluzioni filmico-linguistiche. Ci sono anche un excursus sulla storia del cinema, un capitolo sulla linguistica in generale, e poi si entra nel vivo con l’italiano libresco, quello colloquiale, quello dialettale, quello inventato, i vari codici verbali, la lingua del doppiaggio eccetera. Con strumenti per approfondimenti, suggerimenti per ottenere materiali. Un valido, importante lavoro.
liano 2”, ossia dell’italiano per stranieri, la loro seconda lingua. Ma non solo, sarebbe riduttivo prendere la specificazione alla lettera. Questa «trattazione sistematica e di respiro scientifico», maturata nelle esperienze dirette vissute dalle autrici all’Università per Stranieri di Siena – avverte il linguista Sergio Raffaelli nella prefazione – scava nella multiforme storia linguistica del cinema con risultati eccellenti per tutti. Il metodo comunque ha un precipuo scopo didattico, rifugge dalle teorizzazioni astratte, tiene sempre presenti la pratica di lavoro – citazioni di situazioni e di dialoghi, schede, tracce, confronti, tabelle, tavole sinottiche, illustrazioni – e offre esempi di “unità di lavoro” (analisi filmiche, linguistiche, interculturali) di determinati film, da fotocopiare.
Sergio Arecco
LE CITTÀ DEL CINEMA DA METROPOLIS A HONG KONG Ed. Epos, Palermo 2010 pp. 262 - 28,30. Non è il primo libro che si pubblica sull’argomento; questo è per così dire “impressionistico”, non segue un rigore cronologico, o geografico, o d’altro tipo. Quale città, d’altronde, non è apparsa sullo schermo in questi centoquindici anni? «Il fascino delle immagini metropolitane connota già il cinema delle origini», apre Arecco, che procede per costellazioni, tracciando per qualche pagina un percorso storico ma sempre con qualche scarto di fianco a seconda dell’ispirazione del momento. Il sottotitolo rivela subito
che qui si tratta anche di città immaginarie, non solo di quelle che popolano il globo terracqueo, connotando comunque – in un caso o nell’altro – tutti o quasi i molteplici modi di intendere il cinema (Hong Kong, per esempio, non è solo la città cinese ma un «simbolo della cinematografia postmoderna»). “Hong Kong e oltre”, si intitola l’ultimo capitolo, in quanto si tratta anche del cinema che ha a che fare col digitale e con i video-giochi. Il “la” è dato dalla Gotham City di Batman, in quanto città ideale perché corrotta (realtà) ma ripulita da un eroe (fantasia); la mitologia del cinema rimodella, riplasma, reinventa le città, che sullo schermo diventano in ogni caso “spettacolo”. Curiosa la suddivisione in capitoli, e i loro titoli esoterici.
Federazione Italiana Cineforum
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La Federazione Italiana Cineforum (Fic) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La Fic organizza corsi, seminari e convegni, distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze in campo cinematografico, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum», dell’«Annuario del cinema» e di altre pubblicazioni di cultura cinematografica. Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla Fic ci si può rivolgere alla segreteria (casella postale 10, 31041 Cornuda, TV, segreteria telefonica 0423639255,
[email protected]). I cineforum di nuova costituzione possono richiedere gratuitamente nel primo anno di associazione due film distribuiti dalla Fic e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo, tel. 035342239, Fax 035341255,
[email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno lo rivista «Cineforum». Tutti i cineforum affiliati ricevono lo rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del Iistino della Lab80 Film, hanno la possibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema. Il comitato centrale della Fic, per il triennio 2008-2011, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Gianluigi Bozza (presidente, Trento), Claudia Cavatorta (Parma), Dino Chiriatti (vicepresidente, Roma), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna, VB), Diego Fragiacomo (segretario, Cornuda, TV), Giorgio Grotto (Schio, VI), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi (Bergamo), Jurij Razza (Cernusco Lombardone, LC) Angelo Signorelli (Bergamo), Enrico Zaninetti (tesoriere, Novara). Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Chiara Boffelli (Bergamo), Roberto Figazzolo (Pavia), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Pierpaolo Loffreda (Pesaro), Walter Pigato (Nove, VI), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), Tonino Turchi (Pesaro), Sergio Zampogna (Bergamo). I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.
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