SPECIALE
ROMANZO DI UNA STRAGE Marco Tullio
L’ALTRA FACCIA DEL “PASTICCIACCIO BRUTTO” DI PIAZZA FONTANA Anton Giulio Mancino «“Lei sa come la penso” disse il procuratore generale. Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa, se la pensa, e se pensa». (Leonardo Sciascia, Porte aperte , 1987)
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Come era largamente prevedibile, su Romanzo di una strage si sono scatenati la rincorsa e il balletto delle parziali, mimetizzate o totali contestazioni, competenti e incompetenti in materia.Rendendo il film stesso una cartina di tornasole utile a capire come vanno le cose nel nostro Paese, critica cinematografica compresa, sempre
orgogliosamente pronta ad arrivare seconda. Non c’è dunque da sorprendersi che parlando del film, il più delle volte dissentendo dalle clamorose ipotesi desunte dal controverso libro di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana , in molti, d’ufficio, abbiano offerto un legittimo e ponderato contributo personale, come quello di Corrado Stajano (1), a differenza di chi come Adriano Sofri (2) – a giudizio dell’ex presidente della Commissioni Stragi – si è precipitato a farlo «per un evidente motivo personale» (3).
Giordana
Una cosa, però, è certa nello svogliato e meccanico ridestarsi in Italia dal comodo torpore assicurato dal fisiologico “deficit di verità” (felice espressione dello storico Giuseppe Casarrubea). E che riguarda non tanto il libro di Cucchiarelli, su cui occorre comunque intendersi, senza sparare a zero, confondere le carte e giocare a non (far) capire. Riguarda piuttosto il film di Marco Tullio Giordana, che in larga misura appartiene anche agli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, con cui l’autore lo ha scritto: chiunque, occupandosi a vario titolo di Romanzo di una strage , ha inteso vedere il pro- prio film, inevitabilmente mancato o sfiorato. Rimproverando più o meno in punta di penna quel che sarebbe stato opportuno fare. O meglio non fare.Tra insidiosi però e gratuiti no categorici, talvolta di sospetta provenienza, non si comprende bene tuttavia quale film sarebbe dovuto o potuto altrimenti essere Romanzo di una strage , grazie al quale Giordana si è visto preventivamente lodare per i suoi lavori pregressi, in testa a tutti La meglio gioventù che, per sua fortuna critica, non faceva nomi né cognomi, né avanzava o condivideva ipotesi ardite e per chissà quanti non gradite. Un altro, centomila o nessun film? L’impressione è che il migliore dei film possibili su Piazza Fontana dovesse continuare a essere quello che finora non c’è stato: un film
insomma ideale, sempre di là da venire, auspicabile ma guarda caso irraggiungibile, irrealizzabile. Quindi da non realizzare. Un film rigorosamente altro , parallelo, evanescente, che in tanti hanno improvvisamente desiderato o sperato, proprio ora, pur di sconfessare, disinnescare que- sto film in particolare, non di rado senza precisi e circostanziati motivi. L’arte è un po’ quella di mandare avanti gli altri. Ad esempio riconoscendo, cioè rimandando astutamente – e demandando prudentemente – a terzi il delicato e impegnativo merito o il compito di essere entrati nel merito delle questioni con cognizione di causa e conoscenza specifica: «Rimando volentieri», scrive questa volta “da critico” Goffredo Fofi, che solitamente non ci tiene a confondersi con la categoria «alla più saggia delle possibili stroncature politiche del film di Marco Tullio Giordana, scritta qualche giorno fa da Corrado Stajano sul “Corriere della Sera”.Le incongruenze e gli opportunismi che segnano la ricostruzione della strage di piazza Fontana e i suoi retroscena, operata dal regista con i suoi due sceneggiatori (già autori con lui di un film non eccelso ma onesto su illusioni e sconfitte della generazione del ’68, La meglio gioventù ) a partire da un libro dove le illazioni dominano, vi sono elencati con ferma convinzione e non scivolano nell’opinione ma si attengono al concreto dei fatti dimostrati e dimostrabili.[…] Piuttosto che lanciarci nelle diatribe sul vero e sul falso e sul probabile che il film sta scatenando, per la maggior parte opinabili, diciamo subito che il film in sé non merita molta attenzione né molto riguardo e che a noi preme, da critici, rilevarne i limiti in quanto film, e più che i limiti la sostanza e l’idealità della fattura» (4). È paradossale, ma in fondo molto comprensibile, in una logica all’italiana, che su simili presupposti di film sul “pasticciaccio brutto” e diuturno di Piazza Fontana – se non di traverso o di genere, o quelli militanti, autoprodotti e contro-informativi lunghi e corti con le verità in tasca dei primi anni Settanta – non se ne siano fatti per oltre quarant’anni. Accontentando così tutti coloro che, a proposito dell’“armiamoci e partite”, hanno potuto dirsi indignati, ma intimamente felici e contenti di non doversi esprimere, esporre, chiedersi – per dirla con Leonardo Sciascia – su come la pensano, se la pensano e se pensano. Diciamola tutta, come la vicenda esemplare di Romanzo di una strage lascia intendere: anche solo supporre di realizzare un qualsiasi film sull’argomento, con fatti, concatenazioni e soprattutto nomi e cognomi espliciti, equivale a scegliere di incamminarsi su un campo minato, cacciarsi in un ginepraio a orologeria. Dove ogni centimetro del lungo, doloroso e ingarbugliato percorso si trasforma in una trap(1) Corrado Stajano, Giochi rischiosi fra realtà e finzione , «Corriere della Sera», 28 marzo 2012. (2) Adriano Sofri, 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film , http://wittgenstein.it/2012/03/31/43-anni. (3) Giovanni Pellegrino Piazza Fontana sarà capita nella Terza Repubblica , intervista a cura di Marco Imarisio, «Corriere della Sera», 3 aprile 2012. (4) Goffredo Fofi, Il telefilm della bomba , «Il Sole-24 Ore», 1 aprile 2012.
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pola, e automaticamente mobilita obiezioni e innesca polemiche. Figurarsi se, come accade con questo film, al peccato originale costituito dalla rischiosa sfida all’impenetrabile cortina del buon senso e dell’eventuale, preferibile silenzio, tutto sommato concorde e accomodante, mascherato dal saperne troppo , si aggiunge la volontà di rimettere in discussione e provare a smantellare nientedimeno che il santuario della “pista anarchica”, e per estensione quella “rossa”, destinata negli anni successivi a prendere sempre più forma e consistenza inequivocabile. In quest’ottica assume valore strategico il ricorso nel film al personaggio di Moro, il quale gioca d’anticipo la carta, anzi le carte che lo portano a una conoscenza, su questo come altri cupi retroscena della storia repubblicana, che nel 1978, a causa del Memoriale , gli sarebbe stata fatale. Romanzo di una strage ha così riconsiderato in parte quel concorso di responsabilità non paragonabile alla tristemente nota “strategia della tensione” ma comunque esistito, complice, più che per la nonviolenza di principio, la
fascinazione bipartisan per la violenza effettiva, stigmatizzata dagli inascoltati Aldo Capitini e Pier Paolo Pasolini, ciascuno a suo modo, in pieno 1968.Violenza opportunamente alimentata e sfruttata da chi, dietro le quinte, provvedeva alle infiltrazioni prima e alle esfiltrazioni dopo. Giordana, Rulli e Petraglia hanno insomma provveduto – attraverso Cucchiarelli, fin dove hanno voluto e potuto – a far correre l’iniziale, insistita “pista anarchica”, spogliandola però dell’aura completamente immacolata, parallelamente a quella “nera”, secondo una concomitanza sincronizzata e programmata dall’alto. Non sia mai detto, o fatto. Donde il feedback sortito dal film. Laddove interrogarsi sul groviglio di responsabilità, guardando in casa propria e non solo in quella altrui, comprendere fino in fondo le ragioni di Stato della strage, in chiave di romanzo, cioè di costruzione del racconto, per capitoli o frammenti da scomporre e ricomporre, significa essenzialmente, prima di tutto – e di tutti – toccare un punto dolente della storia italiana
ROMANZO DI UNA STRAGE Marco Tullio Giordana Regia: Marco Tullio Giordana. Soggetto: dal libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli. Sceneggiatura: Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Stefano Rulli. Fotografia: Roberto Forza. Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Giancarlo Basili. Costumi: Francesca Sartori. Interpreti: Valerio Mastandrea (Luigi Calabresi),
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Pan), Gianni Musy (il confessore di Moro), Luca Zingaretti (il medico in tribunale). Produzione: Riccardo Tozzi, Marco Chimenz, Giovanni Stabilini per Cattleya/Rai Cinema/Babe Films. Distribuzione: 01. Durata: 129’. Origine: Italia/Francia, 2012. In coda alle tensioni di piazza dell’Autunno caldo, il 12
Pierfrancesco Favino (Giuseppe Pinelli), Michela Cescon dicembre del 1969 esplode a Milano, all’interno della (Licia Pinelli), Laura Chiatti (Gemma Calabresi), Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana, un ordigno Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Luigi Lo Cascio (il giudice esplosivo che provoca una strage. Le indagini condot- Ugo Paolillo), Giorgio Colangeli (Federico Umberto te dal commissario Luigi Calabresi, già in rapporti di D’Amato), Omero Antonutti (Giuseppe Saragat), amichevole diffidenza con l’anarchico Giuseppe Thomas Trabacchi (Marco Nozza), Giorgio Tirabassi (il Pinelli, animatore del circolo Ponte della Ghisolfa, si professore), Fausto Russo Alesi (Guido Giannettini), indirizzano immediatamente sulla “pista anarchica”, in Denis Fasolo (Giovanni Ventura), Giorgio Marchesi particolare sul ballerino Pietro Valpreda del circolo (Franco Freda),Andreapietro Anselmi (Guido Lorenzon), romano “22 marzo”, riconosciuto dal tassista Cornelio Sergio Solli (il questore Marcello Guida), Antonio Rolandi come la persona con una pesante borsa con- Pennarella (il brigadiere Vito Panessa), Stefano dotta all’interno della Banca poco prima dell’attentato. Scandaletti (Pietro Valpreda), Giacinto Ferro (Antonino Intanto un professore padovano, Guido Lorenzon, fa Allegra),Giulia Lazzarini (la madre di Pinelli),Benedetta scattare un’inchiesta parallela sulla “pista nera”, che Buccellato (Camilla Cederna), Alessio Vitale (Pasquale vede coinvolti la cellula di estrema destra dell’editore Valitutti), Bruno Torrisi (il colonnello dei Carabinieri Pio Giovanni Ventura e dell’avvocato Franco Freda. Anche Alferano), Francesco Salvi (Cornelio Rolandi), Diego il ministro degli Esteri, Aldo Moro, incarica un colon- Ribon (il giudice Giancarlo Stiz), Marco Zannoni (Junio nello dei Carabinieri di condurre un’inchiesta. Durante Valerio Borghese), Fabrizio Parenti (Giangiacomo la notte del 15 dicembre, dalla finestra dell’ufficio di Feltrinelli),Gianmaria Martini (Enrico Rovelli), Giovanni Calabresi, al culmine di un estenuante interrogatorio Visentin (il maggiore del Genio), Corrado Invernizzi (il durato tre giorni, Pinelli precipita nel vuoto morendo giudice Pietro Calogero), Maurizio Tabani (l’ingegnere poi in ospedale. Il mistero della morte di Pinelli, come Teonestro Cerri), Edoardo Natoli (Mario Merlino), della morte di Calabresi (che sta indagando sull’ipote- Francesco Sciacca (Nino Sottosanti), Marcello Prayer si della doppia pista, ma viene ucciso il 17 maggio (Stefano Delle Chiaie),Vittorio Ciorcalo (Aldo Palumbo), 1972 dopo una prolungata campagna d’accusa da Gianluigi Fogacci (Corrado Stajano), Irmo Bogino parte del movimento “Lotta Continua”) rimangono (Giampaolo Pansa), Alessandro Bressanello (Mariano insoluti. La strage, ribattezzata “Strage di Stato” per Rumor), Roberto Sbaratto (il maresciallo Alvise via del coinvolgimento di esponenti degli organi dello Munari), Miro Landoni (l’onorevole Luigi Gui), Lollo Stato, a partire dall’ambigua figura dell’agente del Franco (l’onorevole Franco Restivo), Giovanni Capalbo Servizio segreto militare Guido Giannettini, resterà (il generale Guido Vedovato), Edoardo Rossi (Ruggero uno dei misteri italiani irrisolti più duraturi.
fisiologicamente bloccata. Significa chiamare in causa taciti accordi. Compromessi e compromissioni, che spiegano, semmai ci fosse bisogno, in mancanza di un instant movie destinato al circuito regolare all’epoca dei fatti, la pronta e piccata replica in prima fila dell’ex leader di Lotta Continua, nel suo instant e-book scritto a tempo di record: «Considero questa tesi insensata […]. Il film, avendo conservato questa tesi e avendola – grazie al cielo – spogliata dell’attribuzione agli anarchici delle bombe “innocue”, l’ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d’ordine o parafasciste che “raddoppiano”bombe fasciste». Gli autori – al plurale – di Romanzo di una strage , ci hanno voluto mettere la faccia, non accontentandosi del facile riconoscimento, che infatti non è quasi mai mancato, di aver compiuto il primo passo. Bontà loro, non si sono limitati a illustrare un’epoca, cosa che sarebbe loro valsa un’immediata e seppur diversificata promozione sul campo. Hanno piuttosto scavato nelle contraddizioni e nelle sovrapposizioni di senso e di fatto, sfidando con un film programmaticamente asciutto, dissezionato, modulare, la suscettibile condiscendenza dei critici. Si sono spinti oltre la soglia della dicibilità a beneficio venturo di quella verità che – avvertiva Danilo Dolci – «non fa il gioco di nessuno». Hanno fatto pro-
prio, con consapevolezza, il nucleo problematico, la chiave di lettura dell’insieme che il libro di Cucchiarelli, edito nel 2009 e appositamente aggiornato all’inizio del 2012, espone già nelle prime due delle settecento pagine complessive, che ci auguriamo qualcuno si sia preso la briga di leggere prima di invalidarne le ipotesi e risultati: «Nessun altro caso – se non il rapimento di Moro da parte delle BR – ha lasciato dietro di sé una tale scia di dubbi, depistaggi e misteri. Piazza Fontana e l’omicidio Moro, protagonista politico anche nel 1969, rappresentano i due pilastri dei cosiddetti “misteri italiani”. Tuttavia, non di misteri si tratta. In un Paese come l’Italia, affetto da una profonda debolezza civile, politica e statuale, i “misteri”sono i segreti che hanno potuto invecchiare grazie alla condivisione tra più soggetti. Sono i segreti condivisi che, più o meno tacitamente contrattati, vengono occultati, elusi, spinti ai margini della cronaca, insieme a tutte le omertà, i compromessi, le operazioni inconfessabili che li hanno resi possibili. Questo segreto della Repubblica ha retto – contaminando decenni della nostra storia – solo perché ognuno dei protagonisti o dei comprimari ha avuto una quota di convenienza a non rivelarlo. Chi agì per personale tutela, chi per tornaconto, chi per scelta morale, chi per obbligo, chi per la fede nella preminenza della politica
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su tutto, verità compresa: le differenti motivazioni – alcune nobili, altre misere, molte orride – hanno portato al medesimo risultato. Cos’è d’altra parte la politica se non convergenza d’interessi?» (5). Giordana, Rulli e Petraglia non hanno quindi semplicemente o capricciosamente, per puro spirito di provocazione, sposato la ricostruzione degli eventi proposta da Cucchiarelli, che se ha un difetto – come fa notare Stajano il quale, non dimentichiamolo, non deve aver gradito molto l’essere stato completamente escluso dall’ampio apparato del libro –, è quello di aver cercato di proteggere le fonti, come ben sanno le persone altrimenti informate. Persino agli stessi colleghi giornalisti che si sono occupati del caso. Questa scelta omissiva di Cucchiarelli, evidentemente vagliata e ponderata, sulla quale sarà il tempo, e non questo o quell’intellettuale o critico cinematografico, a giudicare, compromette di sicuro la valutazione degli esiti sul piano dell’ortodossia storiografica e dell’irreprensibilità dimostrativa, è stata dettata da esigenze molto pratiche. Prestando per primo il fianco alle inevitabili obiezioni circa i riscontri oggettivi, non svela l’identità del suo principale informatore, neanche nella nuova edizione accresciuta del libro. Sebbene l’anonimo personaggio in questione, «una fonte qualificata di destra, che ci ha chiesto esplicitamente di non essere citata» (6), non sia poi del tutto irriconoscibile, almeno se si va per esclusione, essendo l’ultimo ancora in vita della vicenda. Nel rispetto
della scelta dell’autore di Il segreto di Piazza Fontana , basti sapere che l’innominabile “Mister X” è un’eminenza grigia, in tutti i sensi, una figura molto infida e – attenzione – non proveniente dall’area dei servizi segreti. Ragion per cui,quale che sia il giudizio sulla metodologia e la scelta di campo di Cucchiarelli, sta di fatto che essa non impedisce a chi abbia davvero voglia di capire il contesto, senza tabù o scheletri nell’armadio, l’importanza innanzitutto morale delle inferenze e della rete ipotetica politicamente e storicamente rilevante che il film ha recepito e rilanciato. Perché altrimenti intitolarlo, al di là della sua esplicita struttura romanzesca, Romanzo di una strage , se non per alludere a un solido blocco conoscitivo di cui conviene per ovvie ragioni sempre dichiarare la mancanza di prove e indizi fino a che i tempi e gli interlocutori non diventano maturi e le sedi appropriate? Si sa, ed è stato più volte ripetuto, che questo film, che ha riunito daccapo il team collaudato di Pasolini, un delitto italiano , mutua non solo il titolo, che esplicitamente lo richiama, ma l’intera strategia discorsiva dall’articolo Cos’è questo golpe? , trasformato dallo stesso Pasolini negli Scritti corsari due anni dopo in Il roman- zo delle stragi , con esplicito riferimento non soltanto a una generica pratica romanzesca, ma a un preciso testo stragista, il romanzo che allora stava scrivendo, Petrolio . Nel cui alveo letterario codificato stavano convergendo informazioni riservate, di prima mano, potenziali prove e indizi di cui egli era evidentemente e malauguratamente in possesso, che portano diritte a Piazza Fontana. Riguardo alla cui provenienza non occorre un grande ingegno né una vocazione dietrologica, ma conoscere almeno un po’ la biografia pasoliniana, la cerchia di conoscenze, frequentazioni e profonde amicizie. Romanzo di una strage fa emergere erga omnes una verità insostenibile, ma nuova. Una forma di verità emblematicamente doppia, concomitante, ambigua, considerata da più parti – e si capisce perché – inaccettabile. Non contestata punto per punto, nello specifico, ma rifiutata in blocco e rispedita al mittente come “teoria del complotto”o “dietrologia”. Su cui in linea di principio si più essere legittimamente d’accordo, salvo dover ammettere che in Italia – diceva Norberto Bobbio – «il segreto favorisce l’idea del complotto, per la semplice ragione che chi ordisce un complotto non può farlo se non in segreto». Di conseguenza, «quando non si vede bene cosa c’è “davanti”, viene spontaneo chiedersi che cosa c’è “dietro”» (7). E quella di Piazza Fontana, si sa, è tutta una fluviale, attorcigliata retro-storia. Ma allora perché, nel caso di Romanzo di una strage , questa resa incondizionata di fronte a saperi specifici impliciti, che non possono essere elusi con un semplice «Io non voglio entrare in questi argomenti. Il mio compito è soltanto quello di fare il critico cinematografico» (8)? Dopotutto, come scrive Paolo Mereghetti, seguendo alla lettera la posizione fofiana, se «di come la storia di
quegli anni è diventata film, ha trovato una forma cinematografica […] dovrebbe essere chiamato a parlare il critico», perché girare formalmente attorno al problema Cucchiarelli (9) e non prendere di petto il problema centrale delle due piste, delle due valigie, delle due bombe? Non foss’altro perché a rigor di logica il film si assume la responsabilità dal principio e non soltanto alla fine di aver scelto di ispirarsi seppur liberamente, quindi con tutti i distinguo, a Il segreto di Piazza Fontana . Non ha molto senso, a meno di non volerlo “stroncare” (antica tenazione dei critici), meglio se per interposta persona, parandosi con rilievi mossi da altri, cioè appoggiandosi per prudenza a Stajano più che a Sofri. Né ha senso salvarlo o condannarlo a metà, piaccia o no, non importa, visto che la sua intenzione di concentrarsi sul nervo scoperto della storia italiana repubblicana, ovvero sui due fronti contrapposti eppure complementari della strage, viene preannunciata con la morte il 19 novembre 1969 del poliziotto Antonio Annarumma nel capitolo inaugurale, intitolato Autunno caldo . Come dire che le premesse dell’incredibile ma possibile doppia pista ventilata in conclusione dal personaggio del commissario Luigi Calabresi – perché qui di personaggi portatori di un discorso si tratta, non di facsimili attoriali delle persone reali – maturano con largo anticipo. La perplessità sul dispiego bilaterale della violenza giunge sempre in questo capitolo, e viene sottolineata da un altro personaggio chiave, quello del giornalista Marco Nozza, il quale avverte Calabresi di aver percepito da ambo le parti una sovreccitazione preoccupante. Ogni impresa di rendere lineare il racconto, di fare una storia, anziché un dichiarato romanzo, avrebbe comportato un’irreggimentazioni di fatti, circostanze, ipotesi. Laddove invece si è preferito procedere per scorci, piccoli nuclei narrativi, segmenti, angolazioni, per l’appunto capitoli autonomi ma suscettibili di combinazioni, inferenze, interazioni che si susseguono, si avvicendano, si intrecciano, disposti in ordine cronologico pur non essendo automaticamente consequenziali. Ogni dettaglio, personaggio o episodio potrebbe infatti essere sviluppato come un film a sé. Sebbene nella ricognizione critica sul luogo del delitto compiuta da Romanzo di una strage , cioè sull’intrinseca, calcolata molteplicità di cause ed effetti dell’affaire di Piazza Fontana, ognuno, pretestuosamente, ci ha messo dentro qualcosa di estraneo al film stesso, crediamo sia valsa la pena di soffermarsi anche sul pro-filmico che stavolta sembra fornire una chiave d’accesso privilegiata al discorso filmico. Dove peraltro tutto si prospetta come soggetto alla legge del doppio: doppie piste, doppie indagini, doppi presunti autori, doppie infiltrazioni, doppie audizioni esemplificate nel montaggio alternato che associa il processo su Pinelli all’interrogatorio a Franco Freda. Perciò doppia bomba, protagonisti speculari (Luigi Calabresi/Giuseppe Pinelli) e due vedove (Licia Pinelli/Gemma Calabresi), deprivati gli uni come le altre
della verità e accostati simmetricamente nei titoli di coda. Doppio problema di coscienza: quella di Calabresi verso Pinelli, quella dei sedicenti vendicatori di Pinelli nei confronti di Calabresi. Doppio gioco a tutti i livelli. Doppio Stato, quindi doppia verità, nel cui mezzo, a fare da cerniera tra il principio (la prima strage del 1969) e la svolta consequenziale (il rapimento del 1978) di una fase storica segnata dal delitto di Stato, troviamo il personaggio di Moro. Al di là della fedeltà alle indicazioni di Cucchiarelli (10), il Moro del film è il deus ex machina (macchina-cinema, s’intende) che incarna al di sopra delle parti la tragica e dolente consapevolezza collettiva che aspira all’espiazione delle colpe sparpagliate di un drammatico processo della verità che, al di là della serie di processi inconcludenti e insoddisfacenti, è stata proprio la strana storia di Piazza Fontana ad avviare. E di cui i segni e i sintomi dell’insofferenza trasversale e travestita – “da critici”, per carità! – sono ancora nell’aria. (5) Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana , Ponte Alle Grazie, Milano 2009 [nuova ed. 2012], pagg. 9-10. (6) Ivi, pag. 66. (7) Norberto Bobbio, «La Stampa», 12 novembre 1992. (8) Paolo Mereghetti, I due protagonisti tra i poteri oscuri: “ Romanzo di una strage ” – Divisi dalle idee, uniti dal rispetto. Il ruolo delle mogli , http://video.corriere.it/romanzo-una-strage. (9) Cfr. anche Paolo Mereghetti L’anarchico e il commissario , «Corriere della Sera», 27 marzo 2012. (10) Cfr. Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana , cit., pagg. 445-449.
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12 DICEMBRE, UN VIAGGIO NELL’ITALIA ULCERATA Roberto Chiesi
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Vedere o rivedere quell’anomalo audiovisivo che si intitola 12 dicembre , do dopo po Romanzo di una strage , accentua – ammesso che sia possibile – il senso di tragica dimissione e disfatta della giustizia italiana che è racchiuso nelle conclusioni del film di Marco Tullio Giordana. Romanzo di una strage è un film concepito nella dimensione del dopo , un film film pos postum tumo, o, dov dovee tutt tutto o è ormai accaduto e si è consumato in un Paese “orribilmente sporco”, sporco”, un Paese Paese “manc “mancato” ato” dove i colpevoli colpevoli delle stragi – di Piazza Fontana come di Piazza della Loggia – vengono regolarmente lasciati a piede libero
per l’assenza di quelle prove che una parte dello Stato italiano ha efficientemente provveduto a cancellare. Il film di Giorda Giordana, na, con qualche qualche fatica fatica e molte molte esemplificazioni didattiche, tenta di riunire i brandelli di un’esemplare tragedia italiana – dove “Stato” e “criminalità” sono due termini siamesi – per arrivare ai contorni di una verità sommersa in una melma magmatica magm atica di di depistaggi depistaggi,, tradi tradimenti menti,, misti mistificaz ficazioni, ioni, omissis, omiss is, congi congiure, ure, compl complotti, otti, dove la violenza violenza si si confonde alla lentezza paludosa della burocrazia in un unico disegno strategico e con il corollario di una lunga catena di omicidi e “suicidi”.
Romanzo di una strage sembra un lascito funebre a futura memoria, memoria, dopo che l’Italia ha ha subìto l’estrema vergogna della sentenza del 2005, 2005, che ha confermato le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura nella strage di Piazza Fontana ma che al tempo stesso li ha sottratti alla condanna perché i due erano già stati assolti dalla Corte d’Assise d’Appello di di Bari. A questa aberrazione, si è aggiunaggiunta ora, come un un suggello suggello definiti definitivo vo,, la sentenza sentenza del 14 aprile 2012 sulla strage di Piazza della Loggia. 12 dicembre invece è un film che è nato in sincronia con i traumi e le ulcerazioni di quegli orrori. È un film realizzato durante , le cui riprese riprese sono iniziainiziate il 12 dicembre del 1970 e terminate nel giugno 1971,, mentr 1971 mentree il montaggio montaggio fu concluso concluso nei nei primi mesi del 1972. 1972. È un film dalla complessa paternità, paternità, voluto da Adriano Sofri e Lotta Continua, girato in parte da da Maurizio Maurizio Ponzi Ponzi,, dal militant militantee pisano pisano Giovanni Bonfanti, da Fabio Fabio Pellarin, Pellarin, dal capo operatore Pino Pinori e da altri, con un apporto apporto determinante di Pier Paolo Pasolini. Non solo il poeta-regista ne fu il produttore ufficioso (facendo intervenire in incognito Alberto Grimaldi e la PEA, poi finanzi finanziandol andoloo anche persopersonalmente) ma vi si investì anche come cineasta, girando personalmente le sequenze del cimitero di Musocco (dove all’epoca fu sepolto Giuseppe Pinelli) Pine lli),, e poi quell quellee di Carra Carrara, ra, Mila Milano, no, Via Viareggi reggioo (successivamente tagliate) tagliate) e Napoli. Napoli. In seguito partecipò al progetto anche anche Goffredo Fofi, Fofi, con la stesura di «una traccia che non venne rispettata, rispettata, se non nell’idea di un percorso Nord-Sud dentro situazioni di lotta, che io avrei voluto veder commentato commentato da un gruppoo di operai torinesi grupp torinesi»» (1). Secon Secondo do Fofi, Fofi, 12 dicembre avrebbe dovuto essere un esempio di cinema militante militante di un certo spessore, come non ne esisteva in Italia, ma finì per risentire della disparità disparità di visione fra Pasolini e Lotta Continua. Questi volevano un film inteso «all’illustrazione di un programma politico, politico, a una fede da da propagare» (2) e finirono per entrare entrare in disaccordo con Pasolini, che aveva una visione completamente diversa da quella di Sofri e Fofi, Fofi, ossia vedeva già profilarsi concretamente la corruzione della classe proletaria e sottoproletaria, sempre più incline a conformarsi ai modelli culturali piccolo-borghesi. L’idea di Pasolini era probabilmenprobabilmente quella di realizzare non solo un pamphlet di denuncia ma anche un referto antropologico sull’Italia che stava cambiando, cambiando, con una serie serie di interviste a italiani del Nord Nord e del Sud, così da fornire fornire un quadro quadro del del clima sociale in cui era avvenuta la strage e in cui era stata ordita la strategia della tensione. Il disaccordo di Pasolini con Lotta Continua emerse quando, quando, in sede di montaggio montaggio,, «que «quell materiale materiale gli sembrava inaridito perché noi lo manipolavamo
troppo, intenzionati come come eravamo eravamo a farne farne un’illustrazione straz ione della della nostra idea idea politica» politica» (Bonfanti). (Bonfanti). Il film si aprì con il cartello «Da un’idea di Pier Paolo Pasolini» e fu firmato dal solo Giovanni Bonfanti (il montaggio è accreditato a Lamberto Mancini ma vi lavorar lav orarono ono anche anche Ponz Ponzi, i, Bonf Bonfanti anti e lo stesso stesso Pasolini). Pasolin i). Dopo essere stato presentato presentato al Festival Festival di Berlino del luglio 1972 (dove I racconti di Canterbury vinse l’Orso d’oro), 12 dicembre fu diffuso esclusivamente nel circuito dei Circoli Ottobre, parallelo a Lotta Continua. La versione più conoconosciuta è quella ridotta ridotta a meno della metà (40’ (40’ contro i 104’ originali) e distribuita prima in vhs (nel 1995) 1995) poi in dvd dvd (nel 2011). 2011). Nella sua sua integralità, integralità, quin quindi, di, è stato visto da pochi spettatori ed è in corso un progetto di restauro che si spera possa garantirne una più adeguata conoscenza. DA NORD A SUD E RITORNO
L’ambizione di 12 dicembre tesa a fornire un quadro comp completo leto,, da Nord Nord a Sud, Sud, del Paese mala malato to all’inizio degli anni anni Settanta, è solo parzialmente parzialmente riuscita, ma il suo valore risiede essenzialmente essenzialmente in alcuni straordinari frammenti dove sono stati catturati connotati connota ti significativi della realtà di quegli anni, anni che coincidono con l’incremento di quei processi che hanno mutato il tessuto antropologico del Paese e anche l’ultima fase prima della deriva criminale delle Brigate Rosse e del terrorismo di estrema sinistra. Il film inizia con un angoscioso cortocircuito temporale che unisce il presente presente al passato, il passato dei complotti del regime fascista al presente della strategia occultata dietro le stragi.Ved stragi.Vediamo iamo le immagini di migliaia di giovani che manifestano a Milano per il primo anniversario anniversario della strage, ed è l’immagine di un’Italia un’I talia che, quar quarant’a ant’anni nni dop dopo, o, semb sembra ra svan svanita: ita: una generazione di giovani che trasformavano lo sdegno in un impegno concreto e sognavan sognavanoo di cambiare il Paese. Paese. Non esiste più neanche neanche un personagpersonaggio come Augusto Ludovichetti, Ludovichetti, il primo volto volto del film, che con voce voce pacata rievoca rievoca di quando quando il regime fascista lo accusò accusò (poi lo imprigionò imprigionò e torturò), il 12 aprile aprile 1928, 1928, per la strage strage di Piazzale Piazzale Giulio Giulio Cesare, all’inaugurazion all’inaugurazionee della Fiera Campionaria, strage che in realtà, come è stato dimostrato, fu compiuta dal regime. La continuità di forme e strategie che emerge fra la regia della strage del 1928 e quella del 1969, è quasi un fenomeno fenomeno fisico fisico che la voce (1) Goffredo Fofi, 12 dicembre , in Adriano Adriano Sofri (a cura cura di), Il malo- re attivo dell’anarchico Pinelli , nuov nuova a edizione, edizione, NdA Press, Press, Cera Cerasolo solo Ausa di Coriano (RN) 2011, 2011, pag pag.. 78. (2) Adriano Sofri, Introduzione , in Adriano Adriano Sofri (a cura di), di), Il malo- re attivo dell’anarchico Pinelli , Sell Sellerio erio,, Pa Palerm lermo o 199 1996, 6, pag pag.. 10.
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lucida di Ludovichetti restituisce con una misura precisa e impressionan impressionante. te.
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Le testimonianze che si susseguono dopo, in particolare quella di Licia Pinelli, Pinelli, la vedova dell’anarchico, dell’anarchico, della madre madre Rosa Malacarne, dell’avvocato Marcello Gentili, dell’anarchico Pasquale Pasquale Valitutti, che attendeva di essere essere interrogato quella quella stessa notte, mostrano, con semplicità semplicità e logic logica, a, l’ass l’assurdit urdità à e l’inc l’incongrue ongruenza nza della versione ufficiale della morte di Pinelli. In particolare, colar e, colpis colpisce ce la fermezza fermezza della vedova vedova,, la sua mancanza di concess concessioni ioni e il rigore rigore delle sue parole: parole: è un’attitudine che sembra totalmente scomparsa nell’Italia degradata e televisiva di oggi. Un dubbio lo insinuano anche le parole non dette da Cornelio Rolandi, il tassista che trasportò trasportò l’esecutore della strage (e che morì poco tempo dopo, il 16 luglio del 1971). Nei pochi istanti della sua apparizione nel film, dichia dichiara ra che non rilascer rilascerà à più interviste interviste,, perc perché hé «è un uomo sospeso sospeso su tutto». tutto». Nella sua sua angoscia angoscia e nell’accenno al vuoto pneumatico in cui è caduto, affiora una realtà che va al di là della sua reticenza.
Le sequenze girate da Pasolini al cimitero dove era sepolto sep olto all’ep all’epoca oca Pinelli Pinelli,, mut mute, e, imme immerse rse nel fredd freddoo invernale, inver nale, mostrano con con estremo pudore pudore la compostezza e la dignità della vedova e della madre dell’anarchico assassinato. Il respiro di 12 dicembre è scandito soprattutto dal susseguirsii di racconti orali, che non hanno susseguirs hanno nulla di televisivo ma sembrano affiorare da un archivio parzialmente perduto perduto (molto materiale, materiale, pare anche prepregevole ma non montato, è andato perduto).T perduto). Testimoni anonimi rievocano le violenze e aggressioni fasciste avvenute con il tacito appoggio della polizia (come l’omicidio di Saverio Saverio Saltarelli, Saltarelli, assassinato dai dai fascisti il 12 dicembre 1970 a Trento). Nella sequenza in cui vediamo un gruppo di ex partigiani di Sarzana, udiamo le parole minacciose e disperate di una generazione che ha sofferto il tradimento degli ideali della Resistenza, primo di una lunga serie di compromessi compromessi patteggiati dai partiti della Sinistra. Le sequenze sequenze girate, ancora da Pasolini Pasolini a Carrara, Carrara, denunciano l’orrore delle morti “bianche” sul lavoro,
un orrore che continua anche quarant’anni dopo con gli stessi termini e le stesse responsabilità: in questo l’Italia non è cambiata. A Napoli, ecco un gruppo di disoccupati che parlano della “vampata di fame”, di un Sud che continua a soffrire drammi endemici e senza soluzione. Una delle parti più significative del film è senz’altro la serie di sequenze girate a Reggio Calabria durante gli scontri con la polizia. In un bianco e nero calcificato, ecco una città disastrata, come uscita dai bombardamenti, ed ecco la massiccia invasione di un esercito di polizia, che potrebbe essere quella di Genova del 2001. Il passaggio delle camionette della polizia, in quello scenario apocalittico, fra le grida degli abitanti, i fumogeni e gli spari, è uno scenario infernale, che ha mantenuto tutta la sua vividezza. La mdp si aggira poi fra le baracche dove famiglie di zingari vivono in condizioni di degrado assoluto, abbandonate a loro stesse, come in ghetti chiusi. Quando la mdp esce all’esterno, scopriamo i volti di bambini zingari e una di loro, che avrà sì e no dieci anni, fuma una sigaretta, fissando spudoratamente la mdp. Un uomo, con un sorriso atroce, afferma tranquillamente che «qua a Reggio Calabria, si muore tutti di fame. Tutti quanti, tutti questi ragazzi, muoiono tutti di fame. E perché? Vedete come siamo combinati, in queste baracche ci mangiano i topi».
Le testimonianze dei giovani di Reggio, che raccontano le violenze subìte, potrebbero essere confuse con le parole delle vittime della Diaz o di Bolzaneto: «Maltrattati, presi a pugni, manganellati, sputati in bocca. Poi facevano bere appunto a tutti i carcerati acqua salata; poi li facevano salire su dei gradini; poi facevano sgambetti per rompere i denti». Il film si trasferisce poi nella Torino dell’immigrazione: in una famiglia di emigranti, la madre esprime la propria nostalgia per la «mia Sicilia» ma è significativa la frase della figlia che invece dice: «La Sicilia è bella, però io trovo che sia bella solo per passarci le ferie». È il sintomo che nel passaggio da una generazione all’altra si è compiuto un processo di adattamento che è passato attraverso la cancellazione della propria identità. 12 dicembre si chiude ad anello ritornando a Milano. È il 12 dicembre 1971 ed è trascorso un altro anno. L’avvocato Mattina spiega come l’incarcerazione prolungata di Valpreda sia del tutto ingiustificata, se non come parte di un disegno che vuole colpire gli anarchici: «A distanza di due anni dalla strage di Stato, si devono sottolineare due serie di elementi significativi: le promozioni e i morti. I promossi, tutti presenti nella stanza dove fu interrogato Pinelli […]». L’elenco dei morti è un lungo catalogo di morti accidentali e di suicidi, da Pinelli al fascista Armando Calzolari, fino all’avvocato Vittorio Ambrosini, che “uscì” dalla finestra del Policlinico Gemelli…
L’avvocato Edoardo Di Giovanni, infine, traccia una sintesi che quasi coincide con le conclusioni del film di Giordana: «Nonostante tutte le piste conducessero a destra, i colpevoli dovevano essere […] Valpreda, gli anarchici e i suoi compagni». Ma «Valpreda è innocente, le bombe sono dei fascisti, degli agenti dei greci, della CIA».
12 DICEMBRE Regia: Giovanni Bonfanti, Pier Paolo Pasolini [non accr.]. Soggetto: da un’idea di Pier Paolo Pasolini. Sceneggiatura: Giovanni Bonfanti, Goffredo Fofi. Fotografia: Sebastiano Celeste, Giuseppe Pinori, Enzo Tosi, Dimitri Nicolau, Roberto Lombardi [non accr.]. Montaggio: Lamberto Mancini, Giovanni Bonfanti [non accr.], Maurizio Ponzi [non accr.], Pier Paolo Pasolini [non accr.]. Musica: Pino Masi. Con: Edoardo Di Giovanni, Marcello Gentili, Augusto Ludovichetti, Rosa Malacarne, Liliano Paolucci, Licia Pinelli, Cornelio Rolandi, Achille Stuani. Produzione: Giovanni Bonfanti per Circolo Ottobre/Lotta Continua. Distribuzione: Circolo Ottobre/Lotta Continua (distribuzione dvd+libro: NdA Press, 2011). Durata: 104’ (ridotti a 43’). Origine: Italia, 1972.
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I F I L M
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Quijote
DIAZ Daniele Vicari
Pezzi di vetro Federico Gironi Una bottiglia di vetro, vuota, vola per aria, al rallentatore. Effettua la sua parabola, s’infrange sul bordo del marciapiede, andando in mille pezzi. Improvvisamente, un rewind: i frantumi si ricompongono, la bottiglietta ritrova la sua interezza, torna indietro fino al momento del lancio. Questa è la scena con cui Daniele Vicari ha scelto di aprire il suo Diaz . Questo il motivo che ritorna a punteggiare la narrazione, il riferimento simbolico e temporale che rappresenta uno dei pochissimi ormeggi narrativi del film. La scelta di Vicari è simbolica a più livelli. Il primo, quello ovvio e chiaramente cosciente da parte del regista, è quello della folle vacuità del pretesto usato dalle Forze dell’ordine del nostro Paese per giustificare l’applicazione di quel codice del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza che permette alla polizia di entrare in un edificio previa semplice comunicazione al magistrato, senza bisogno della sua autorizzazione. Quindi, per fare irruzione improvvisa nella scuola Diaz di Genova e far accadere tutto quel che è drammaticamente successo, e in questo film raccontato: solo perché una bottiglia vuota si era andata a
Regia e soggetto: Daniele Vicari. Seneggiatura: Daniele Vicari, Laura Paolucci, Alessandro Bandinelli, Emanuele Scaringi. Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Benni Atria. Musica: Teho Teardo Scenografia: Marta Maffucci. Costumi: Roberta Vecchi, Francesca Vecchi. Interpreti: Elio Germano (Luca Gualtieri), Jennifer Ulrich (Alma Koch), Claudio Santamaria (Max Flamini), Davide Iacopini (Marco), Fabrizio Rongione (Nick Janssen), Ralph Amoussou (Étienne), Émilie De Preissac (Cécile), Camilla Semino (Franci), Renato Scarpa (Anselmo Vitali), Lilith Stranghenberg (Bea), Christian Blumel (Ralph), Mattia Sbragia (Armando Carnera), Paolo Calabresi (Francesco Scaroni), Monica Birlandeanu (Costantine Giornal), Antonio Gerardi (Achille Faleri). Produzione: Domenico Procacci, Bobby Paunescu, Jean Labadie per Fandango/Mandragora Movies/Le Pacte. Distribuzione: Fandango. Durata: 120’. Origine: Italia/ Francia/Romania, 2012. È il 20 luglio 2001, l’attenzione della stampa è catalizzata dagli scontri durante il vertice G8 di Genova. Alla notizia della morte di Carlo Giuliani, Luca, un giornalista della «Gazzetta di Bologna», decide di partire per Genova per vede- re di persona cosa sta succedendo. Alma è un’anar- chica tedesca che ha partecipato agli scontri. Sconvolta dalle violenze cui ha assistito, decide di occuparsi delle persone disperse insieme a Marco, un organizzatore del Genoa Social Forum, e Franci, una giovane avvocato del Genoa Legal forum. Nick è un manager che si interessa di eco- nomia solidale, arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George. Anselmo è un vecchio militante della CGIL e con i suoi com- pagni pensionati ha preso parte ai cortei contro il G8. Étienne e Cécile sono due anarchici francesi protagonisti delle devastazioni di quei giorni. Bea e Ralf sono di passaggio e hanno deciso di riposarsi alla Diaz prima di partire. Max, vicequestore aggiunto, non vede l’ora di tornare a casa da sua moglie e sua figlia. Luca, Alma, Nick, Anselmo, Étienne, Marco e centinaia di altre persone incro- ciano i loro destini la notte del 21 luglio 2001.
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infrangere su un marciapiede dopo il passaggio di una pattuglia davanti alla scuola stessa. Il secondo, forse meno conscio per Vicari, riguarda le analogie tra la struttura fisica della bottiglia e dei suoi cocci e quella cinematografica e narrativa del film Diaz . Daniele Vicari, infatti, parte da un oggetto di cronaca e narrativo (i fatti di Genova 2001), trasparente nella sua innegabile ovvietà ma reso più che leggermente opaco da menzogne e omissioni, tanto da deformare la realtà che vi si legge dentro come quella che si osserva attraverso un vetro convesso. Allora, Vicari questa realtà opaca e deformata la infrange in mille pezzi, fa partire mille schegge, ognuna delle quali è una storia, uno sguardo, un personaggio. Rifiutando quindi una visione monolitica, compatta e monodirezionale, frantumandola invece in una complessa e tagliente polifonia. In una visione caleidoscopica e disordinata, l’unica che possa permettere, nella sua vertiginosa e disorientante multiformità, la ricostruzione di un nuovo dato unitario. Di una e condivisa verità, il più possibile (s)oggettiva, a partire da tante, differenti verità soggettive che si scontrano, accavallano, magari contrastano. La struttura polifonica di Diaz , che racconta le microstorie personali di manifestanti e poliziotti, membri del Social Forum e giornalisti, pensionati e gente capitata nella scuola per caso, non ha però il solo scopo di rintracciare la verità, per quanto personale, nella complessità. Perché Diaz – segnando una differenza sottile ma
notevole rispetto alla tradizione del cinema socialmente e politicamente impegnato del nostro Paese – non vuole essere né un documentario né un pamphlet appassionato e accusatorio. Mira, con ambizione semplice eppure smisurata, a essere semplicemente un documento, una testimonianza (da intendersi quasi in modo processuale) il più possibile fattuale di una serie di avvenimenti che rappresentano uno dei più ingombranti e vergognosi rimossi della Storia recente del nostro Paese. E per raggiungere questo scopo, abbraccia l’ovvio: ovvero il cinema, i suoi generi, i suoi strumenti narrativi. Gettando le sue radici in fondamenta solide,e che permettono di resistere allo sferzare di violente polemiche pretestuose e partigiane, come quelle degli atti processuali, Diaz si sviluppa attraverso l’applicazione di dinamiche e stilemi che utilizzano le retoriche dei generi per costruire un racconto cinematografico complesso e articolato, nel quale il para-documentarismo è sempre minoritario e subordinato al thriller, al dramma sociale, all’horror più contemporaneo: quello del torture-porn e del found-footage . In un simile contesto, dove i registri si alternano e si accavallano, quella molteplicità di sguardi e quei frammenti di storie che si compenetrano hanno quindi anche la funzione di privare lo spettatore della maggior parte dei riferimenti tradizionali, di trasmettere il senso di caos, vibrante nervosismo, incessante movimento che ha caratterizzato quelle ore e quegli eventi. Di provocare
una vertigine che amplifica la tensione oppressiva, la preparazione della violenza nota e annunciata che sta per arrivare e che, quando le violenze hanno inizio, rende in maniera fin troppo partecipe i sentimenti d’incredulità e impotenza, la sensazione di trovarsi invischiati dentro un incubo a occhi aperti, teso e spietatamente lucido. Aggrappandosi ai visi e ai corpi dei suoi protagonisti, quei corpi che mostra straziati da una violenza quasi metafisica ed esistenziale nella sua esplosione impreparata e inspiegabile, Daniele Vicari testimonia una follia che si fa tanto concreta quanto astratta, tanto più vera e accaduta quanto più raccontata con forma oniricamente iperrealista, che passa dai dati fattuali alle narrativizzazioni legittime e rischiose senza soluzione di continuità, trovando il suo difficile e a volte precario baricentro nel centro del ciclone. A ben pensarci, col senno di poi, le scelte effettuate da Daniele Vicari sono state quasi obbligate, considerata la delicatezza dei temi che vengono affrontati. Obbligata, a meno di non cadere nella trappola della retorica militante e partigiana, era ad esempio la scelta – contestata dai più duri e puri , tra i quali lo sdegnato Vittorio Agnoletto – di non voler rappresentare una totalità, di farsi Verità documentaria inserendo nomi, cognomi: puntando, quindi, indici accusatori e populisti. E lo stesso riguarda i fatti più estremi di violenza fisica e psicologica che il regista ha scelto di omettere con pudore esemplare, in controtendenza rispetto al sensazionalismo che contraddistingue sempre di più non solo il cinema ma tutto l’impianto massmediatico e informativo del nostro Paese e non. Proprio mettendo il cinema davanti alla cronaca, lo stile davanti al contenuto, Diaz è più potente e articolato di tanti epigoni, di ieri e di oggi, che nella loro piatta correttezza vogliono portare avanti una tesi, diventare una gogna, imporre una verità che è comunque parziale e contestabile. Avendo coscienza della sua natura di frammento, o di insieme di frammenti scelti con inevitabile e innegabile soggettività, il film raggiunge un grado di realismo e di oggettività altrimenti difficilissimo da ottenere. Immobile nel centro del ciclone che mette in scena, quindi, Diaz rende inutili e pretestuose le accuse di coloro i quali lo accusano di non aver contestualizzato abbastanza, di non aver denunciato abbastanza. Lascia che il magma di vicende ed emozioni che ha intorno regali l’impressione di un’insostenibile (ir)realtà, la cui illusione, tutta cinematografica, si va a incrinare proprio laddove si è voluto concedere qualcosa in termini di appigli, spiegazioni, razionalità: dove la sceneggiatura si macchia dei peccati di quel cinema da cui cerca sempre di distaccarsi, ovvero nelle battute messe in bocca a Santamaria, Germano, Scarpa e altri. Battute che, nella loro reale verosimiglianza e nella loro paternalistica volontà esplicativa, negano il senso angoscioso e onirico di disorientamento e di terrore. Ecco che allora il paradosso di Diaz risiede nel farsi debole in quanto documento dell’orro-
re del reale nei momenti in cui la realtà spezza l’illusione del sogno. Dell’incubo. Un discorso analogo si potrebbe fare riguardo un altro set di accuse che ha toccato Diaz : quello di essere un film capace di suscitare reazioni emotive forti, di far montare la rabbia e lo sdegno, di far provare sulla pelle il dolore, la paura e il senso d’impotenza ma di non proporre alcuna prospettiva. Di essere un film chiuso in se stesso, senza proposte d’uscita o uno sguardo più ampio e meno claustrofobico. Non è un caso, per noi, che il film si chiuda con l’immagine del pullman che conduce oltreconfine i cittadini stranieri reduci dalla scuola Diaz e dalla caserma di Bolzaneto imboccando un tunnel autostradale. Perché se una via d’uscita al tunnel di quegli eventi e del film c’è, Vicari ha deciso di non mostrarla, probabilmente perché non la conosce o non ritiene sia di sua competenza doverla conoscere o comunque proporla. Perché Diaz voleva (e forse doveva) essere proprio e solamente quello che è: un documento, uno spaccato, doloroso e opprimente, capace di far conoscere o ricordare ma fortunatamente incapace di erigersi a portavoce di rivendicazioni peraltro legittime. Un film che schiaffeggia l’immobilismo e che non mira a supplire alcuna mancanza, e che, così facendo, auspica implicitamente che a quell’immobilismo e a quelle mancanze vengano date risposte concrete e fattuali da chi di dovere e non dal cinema. Per questo, Diaz è un film che, per la prima volta forse in Italia, ridefinisce il concetto di militanza applicata al cinema, facendola nascere non da una bandiera ideologica o politica in senso stretto ma da un sincero, per quanto appassionato e a volte rabbioso, afflato democratico e di giustizia. Un film che è un grido assordante, rabbioso, ma in un certo senso muto: metaforicamente parallelo al senso di mani legate e d’impotenza di allora e di oggi e al colpevole silenzio di istituzioni che avrebbero dovuto avere il coraggio di parlare. Doloroso come pezzi di vetro taglienti che feriscono mani, occhi e cuore.
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17 RAGAZZE Delphine e Muriel Coulin
Piccole amazzoni in rivolta Nicola Rossello
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Perché quelle ragazze hanno deciso, tutte assieme, di rimanere incinte contemporaneamente e di tenere il bambino? È questa la domanda su cui è sospeso il lungometraggio d’esordio di Delphine e Muriel Coulin, la stessa su cui si interrogano i personaggi adulti della pellicola, i genitori e i professori delle diciassette fanciulle in fiore, gli uni e gli altri descritti dalle due autrici come figure disorientate e deludenti, incapaci di costituire un punto di riferimento attendibile a cui le adolescenti possano aggrapparsi, macchiette caricaturali e ridicole (l’insegnante di ginnastica che si rammarica perché, a causa del pancione, le allieve non potranno partecipare alla finale del campionato di salto in alto), creature persino patetiche nel loro vano arrovellarsi per cercare di comprendere ciò che è destinato comunque a restare senza risposta. 17 ragazze ci parla della frattura insanabile che si è venuta a creare tra le due generazioni. Quella che viene descritta nel film è una situazione di blocco comunicativo che oppone le adolescenti al mondo degli adulti. Come se le prime avessero deciso di recidere una volta per sempre ogni dialogo con le figure genitoriali verso cui provano ormai una sorda insofferenza, un malcelato disprezzo («Siete disgustosamente falsi!», grida Camille, la leader del gruppo, all’infermiera scolastica che si era provata a farla ragionare). Come se padri e figlie parlassero due lingue completamente diverse e tra le esperienze degli uni e quelle delle altre fosse trascorso un tempo incommensurabile, tale da rendere impossibile ogni confronto. Perché, allora, le diciassette fanciulle hanno deciso di diventare madri anzitempo? Se lo chiedono anche i loro coetanei maschi, gli stessi di cui le ragazze si sono servite per essere fecondate, per poi allontanarli, escludendoli dalla gioiosa avventura comunitaria che esse si apprestano a intraprendere. Camille e le altre non si degnano di fornire risposte. Non danno spiegazioni. Allo sguardo interrogativo, inquisitorio dei maschi e degli adulti, oppongono un silenzio ostinato, quando non ricorrono alla battuta derisoria e sprezzante – si pensi alle invettive che Camille lancia contro la madre o l’infermiera del liceo (1) –, sicché il loro gesto conser-
Titolo originale: 17 filles. Regia e sceneggiatura: Delphine e Muriel Coulin. Fotografia: Jean-Louis Vialard. Montaggio: Guy Lecorne. Scenografia: Benoît Pfauwadel. Costumi: Dorothée Guiraud. Interpreti: Louise Grinberg (Camille), Juliette Darche (Julia), Roxane Duran (Florence), Esther Garrel (Flavie), Yara Pilartz (Clémentine), Solène Rigot (Mathilde), Noémie Lvovsky (l’infermiera), Florence Thomassin (la madre di Camille), Carlo Brandt (il preside), Frédéric Noaille (Florian),Arthur Verret (Tom). Produzione: André Bouvard, Denis Freyd per Archipiel 35/arte France Cinéma. Distribuzione: Teodora/ spazioCinema. Durata: 90’. Origine: Francia, 2011. Diciassette ragazze di un liceo di Lorient, in Bretagna, deci- dono di restare incinte quasi nello stesso momento (la storia è ispirata a un fatto di cronaca accaduto nel 2008 in una città americana). La prima è Camille, la più intrepida del gruppo: ha scoperto di aspettare un bambino e lo vuole tene- re a ogni costo, convinta che la propria vita potrà finalmen- te cambiare. Le amiche del cuore decidono allora di condi- videre la sua esperienza e si danno da fare con i ragazzi del luogo. Le gravidanze precoci si moltiplicano. Gli adulti non sanno come affrontare la situazione. Poi tutto precipita: Camille ha un incidente stradale e perde il bambino. La comunità di ragazze-madri non si realizzerà.
verà sino alla fine qualcosa di elusivo, di inesplicabile, di imperscrutabile. Le sorelle Coulin, dal canto loro, non intendono sciogliere i dubbi, chiarire le ragioni di quel proposito sconcertante, né tantomeno hanno la pretesa di giudicare o giustificare il comportamento delle ragazze. Esse si limitano semplicemente a osservare con sguardo partecipe ma discreto, mai intrusivo. «Il nostro sguardo è vicino al loro mondo», precisa Delphine Coulin «ma ne volevamo rispettare il mistero. Non sappiamo cosa effettivamente pensino: volevamo essere prossime ma pudiche, vicine ma opache». Uno sguardo che sceglie di aderire al punto di vista delle protagoniste – ben misera cosa è l’attenzione riservata a familiari, insegnanti, ragazzi, tutti assai presto estromessi dal racconto, confinati nel fuori campo (2) – e non dissimula affatto l’empatia, la complicità. Le Coulin amano di un amore istintivo e sincero le loro eroine (3). Si attardano ad accarezzarne la pelle, i volti, i ventri rotondi attraverso un uso insistito di piani ravvicinati. Esplorano la grazia nervosa, la freschezza, la luminosità, la leggerezza inquieta e talora ambigua di quei corpi adolescenziali, da cui sembra emanare una sensualità inedita, assai diversa da quella che vi riconosce solitamente il voyeurismo maschile («Noi volevamo stare vicino alle ragazze, riflettere sul loro corpo con dolcezza, non erotizzandolo con violenza»). Nel contempo, le due autrici decidono di conservare un’opportuna, salutare distanza dalla storia, tenendosi lontane dalle semplificazioni di certo didascalismo sociologico («Volevamo evitare la sociologia perché non l’amiamo nei film»). La pellicola, di fatto, non intende esporre (imporre) una tesi, una dichiarazione politica, un messaggio morale. Se il contesto ambientale è ritratto con incisività (le Coulin sono cresciute proprio in quelle contrade) e viene a definire un paesaggio afflitto dalla crisi economica, consegnato a un futuro senza avvenire, il progetto di Camille e delle amiche appare dettato, più che da un malessere sociale, da un malessere esistenziale. La sofferenza assume qui le sembianze del male di vivere di un mondo giovanile costretto senza scampo entro uno spazio grigio, desolato, dove i sogni, le speranze, le emozioni, gli ardori della prima giovinezza non possono che rimanere mortificati. Certi scorci di Lorient, i suoi quartieri periferici, la zona del porto, le dune battute dal vento – una cornice ambientale a cui una fotografia studiatissima, giocata su cromatismi allucinati e preziosi, conferisce un’indubbia forza immaginativa –, e poi ancora la serie delle inquadrature fisse di quelle camerette entro cui le ragazze, sole e pensierose, misurano lo sconforto del presente, tutto questo ci comunica un senso di immobilità, di tristezza, di vuoto languore, che sembra raggelare ogni autentico slancio vitale. Certo, l’oceano è lì, a suggerire, come in certi versi di Montale, un varco, una via di scampo («Il mare ha un significato centrale nel film: è un orizzonte verso cui far tendere i propri sogni, teso verso il possibile, aperto in contrasto con la chiusura della città, con l’effettiva mancanza di una prospettiva concreta»). E tuttavia è proprio la prospettiva di un altro-
ve lontano a rendere ancora più intollerabile il peso di una quotidianità mediocre e inerte. Le ragazze decidono di fare gruppo a sé, stringendosi l’una all’altra in un rapporto solidale forte, quasi un vincolo di sangue, che consentirà loro di spezzare il cerchio della solitudine e di non lasciarsi vincere dalla rassegnazione. Il loro gesto diviene allora un gesto di ostentata rivolta. Il bisogno di riconoscimento, di affermazione di sé, ovvero l’esigenza di radicarsi in una consapevole identità adulta (ciascuna delle ragazze è rosa dal desiderio di diventare donna al più presto possibile), conoscerà strade accidentate in cui la volontà di rompere i ponti con il proprio nucleo familiare, perce(1) Quanto poi alle rassicurazioni che le ragazze si scambiano tra loro per farsi coraggio («La gravidanza può aiutarmi a dare una svolta alla mia vita»; «Sono abbastanza grande per decidere da sola»; «Se dovessimo aspettare il permesso per tutto, non faremmo mai niente»), si dovrà riconoscere che, soprattutto in tali occasioni, i dialoghi denunciano qualcosa di forzato, di artificioso. Chissà, forse l’intenzione era quella di rendere il linguaggio banale degli adolescenti di oggi. Resta il fatto che i dialoghi costituiscono con tutta evidenza uno dei punti deboli del film. E dire che Delphine Coulin proviene dal romanzo… (2) Una scelta di regia – va detto anche questo – che non convince del tutto: l’impressione che se ne ricava è che, accantonato ogni contrasto tra le eroine e il mondo degli adulti, la tensione drammatica venga meno: si pensi alla scena della piscina, o al confronto tra Camille e il fratello. La figura stessa di Camille, che pure è figura centrale del racconto, appare per certi versi sfocata: troppo disparati, confusi e contraddittori restano i tratti che ne dovrebbero definire i contorni. E questo nonostante l’indubbia bravura dell’attrice che l’interpreta. (3) A cui uno stuolo di giovanissime interpreti – ma alcune di loro hanno già alle spalle qualche esperienza importante: con Cantet, Haneke, Bonello… – conferisce intensità e varietà di accenti.
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pito ormai come uno spazio sterile, convive con inconsapevoli rigurgiti neofemministi: la scelta di disporre liberamente del proprio corpo; la maternità vissuta come un’esperienza comunitaria; il ripudio della coppia tradizionale a favore di un nuovo sistema familiare allargato, esclusivamente femminile. Il sogno ingenuo e adolescenziale dell’utopia collettiva assume al tempo stesso le parvenze di un malsano gioco di compensazione, una scommessa provocatoria, non esente da una buona dose di irresponsabilità (decidendo di avere un bambino,le ragazze, come è loro detto e ripetuto da genitori e insegnanti, si precludono ogni possibilità di riscatto sociale). Nelle fanciulle c’è qualcosa di esaltato dietro cui s’intuiscono paure più intime e inconfessate (la paura di Camille di dover affrontare da sola la trasformazione del proprio corpo; il timore di Florence di venire estromessa dal gruppo entro cui, mentendo, ha faticato a inserirsi…), le stesse di chi ancora fatica a trovare un senso alla propria vita. L’enigma dell’adolescenza, un tema su cui il cinema francese è venuto ripetutamente a interrogarsi negli ultimi decenni (da Pas ton bac, d’abord – un’opera “minore” di Pialat che le Coulin hanno tenuto ben presente – alla splendida serie di Tous les garçons et les filles de leur age , a Hadewijch di Dumont, a Tomboy della Sciamma), ci viene qui riproposto attraverso la registra-
zione partecipe e fedele dei palpiti, degli ardimenti, degli impulsi generosi di quella stagione difficile dell’esistenza, perigliosamente sospesa tra gli stupori e la gioiosa incoscienza dell’infanzia e le amare disillusioni della maturità («Camille e le sue amiche hanno un’età in cui si è insieme troppo grandi e troppo piccoli. Un’età in cui si hanno sogni meravigliosi, ma si è troppo giovani per farli diventare realtà»). Le fanciulle in fiore dovranno misurarsi, inevitabilmente, con lo svolgimento implacabile della realtà in una prova che alla fine le vedrà soccombenti. L’epilogo del racconto, assumendo il punto di vista delle ragazzemadri, vira nel fiabesco. Dopo la perdita del bambino, Camille scompare misteriosamente da Lorient senza lasciare tracce. A quel punto, a trionfare saranno le regole del buon senso, il disincanto, la rassegnata accettazione della normalità. La comune che avrebbe dovuto ospitare le piccole mamme e i loro pargoletti non si farà. «Non li abbiamo allevati insieme», ci informa la voce fuori campo di una delle fanciulle «Non ne abbiamo più parlato». E tuttavia il ritorno all’ordine non annulla l’importanza e la centralità di quell’avventura scandalosa e impossibile. «A quindici anni», dice ancora la voce fuori campo (e sono le ultime battute del film) «non si può essere seri. Si sogna. Non si può impedire a una ragazza di sognare».
QUIJOTE Mimmo Paladino
Un immaginario picaresco Matteo Marelli «Ho pensato che il Don Chisciotte finale potrebbe considerarsi una specie di palinsesto». (Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del “Chisciotte” )
Il Don Chisciotte è un colossale intertesto , cioè esplica la propria forza semantica attraverso un rizoma di connessioni interpellanti altri testi. Come nell’utopia borgesiana di Tlön è un libro “completo”, com’è dimostrato dalla vasta e complessa confluenza di generi e filoni letterari, nonché di registri linguistici custoditi al proprio interno. Il Don Chisciotte è un libro “totale” che compendia e rende intelligibile tutta la Biblioteca di Babele. Facendo nostro l’invito di Genette, dobbiamo pensare all’opera in termini di “struttura aperta”, praticando una lettura che sia anche un gioco, che sia “relazionale” e “palincestuosa” perché, «se si amano veramente i testi, si avrà pure il desiderio, ogni tanto, di amarne (almeno) due alla volta». Di fronte alla mastodontica tradizione ortodossa di studi specialistici sul Don Chisciotte , così ricca che ormai da tempo tende ad alimentarsi di sé e da sé, producendo titoli che sempre più spesso prescindono (dandolo per scontato) dal confronto diretto con l’opera e si misurano quasi esclusivamente con l’interminabile carovana delle più autorevoli interpretazioni, Mimmo Paladino, deciso a confrontarsi con il testo di Cervantes, ha trovato la propria cifra interpretativa, sicuramente meno disciplinata e disciplinare, puntando proprio sul suo esibito non specialismo. Ha praticato una forma estrema e solo apparentemente ingenua di radicalismo filologico, cercando (e trovando) il proprio interlocutore, il modello e la fonte di legittimazione del proprio agire nella coscienza critica del Don Chisciotte . Il suo Quijote , presentato alla sessantatreesima Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti (quella dove si affrontano i limiti e le possibilità dell’immagine cinematografica, l’idea di visione come atto anarchico, il diritto/dovere di immaginare un altro cinema , e quindi tutte quelle opere “fuori formato”, non rispondenti alle logiche tradizionali e di mer-
Regia: Mimmo Paladino. Soggetto: dal romanzo Don Chisciotte della Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra. Sceneggiatura: Mimmo Paladino, Corrado Bologna. Fotografia: Cesare Accetta. Montaggio: Massimiliano Pacifico. Musica: Lucio Dalla. Scenografia: Paolo Petti. Costumi: Ortensia De Francesco. Interpreti: Peppe Servillo (Quijote), Lucio Dalla (Sancho Panza), Ginestra Paladino (Dulcinea), Enzo Moscato (il curato), Alessandro Bergonzoni (il mago Festone), Enzo Cucchi (il mago Merlino), Remo Girone (la Morte), Edoardo Sanguineti (il poeta), Roberto De Francesco (Federico II), Paolo Petti (Quijote da anziano), Lorenzo Palimieri (Quijote da giovane),Angelo Curti (il barbiere), Daghi Rondanini (Cervantes), Carlo Quartucci (il cardinale), marco Alemanno (Turiddu Carnevale), Gabriella Petti (marcella), Carla Tatò (la duchessa), Alfonso Beatrice (il cavaliere), Carlo Alberto Anzuini (l’arabo), Martin Reicht (Sancho l’acrobata). Produzione: Angelo Curti per Ananas S.r.l. Distribuzione: indipendenti. Durata: 75’. Origine: Italia, 2006.
L’ ingenioso hidalgo creato quattro secoli fa da Miguel de Cervantes Saavedra rivive qui un’altra volta, raccontato in un percorso fra letteratura, cinema e arte che non tra- scura il suo essere eroe e antieroe a un tempo, né il suo immaginario, né la nobiltà e il coraggio con cui affronta le sue infinite battaglie.
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cato), si configura come una glossa del Don Chisciotte , cioè non come autonomo discorso sull’opera, ma come pratica interpretativa di un esegeta d’occasione che aspira a essere continuatore di uno dei livelli di discorso contenuti nel testo. Parafrasando Borges, Paladino non vuole comporre un altro Chisciotte ma il Chisciotte . Inutile specificare che egli non ha mai pensato a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non è di copiarlo. La sua ambizione mirabile è di produrre alcune pagine che coincidano (parola per parola e riga per riga) con quelle di Miguel de Cervantes (1). Ciò che il regista ha messo in atto è un processo di “mimesi assoluta” oppure “transustanziazione”, cioè un’identificazione totale con l’autore. Non è tanto che Paladino voglia ottenere il suo obiettivo diventando Cervantes; egli rinuncia a questo approccio. Invece, vuole rimanere Mimmo Paladino e arrivare al Chisciotte attraverso le proprie esperienze. Il suo approccio è un tentativo intenzionale di ricreare ciò che in Cervantes fu un processo spontaneo. Il regista elabora una messinscena che non tradisce il proprio percorso artistico. Paladino rifiuta l’avanguardia che distrugge e trasfigura provocatoriamente il passato giungendo alla tela lacerata, al silenzio assoluto, alla pagina bianca. Un vicolo cieco di fronte al
quale non si può andare oltre. Rimane conforme al principio teorico fondante della transavanguardia , di cui è stato tra i maggiori interpreti, e cioè la rivisitazione del passato, e con esso la scoperta di una molteplicità di tempi diversi, corrispondenti alle diverse epoche e culture, che si intrecciano tra loro e si stratificano. Non un unico tempo storico, lineare e progressivo, ma una nozione plurale di tempo, non un solo passato ma una rete complessa di “passati” diversi. Ecco quindi che il suo personaggio (o forse, ancor meglio, il progetto di personaggio) di Don Chisciotte è senza uno spazio e un tempo precisato, smarrito in un contesto che non ha nessuna connotazione geografica, nomade di un immaginario senza soste o punti di ancoraggio e di riferimento. Lo sfondo è un paesaggio detritico, un luogo di lunghi echi, in cui riaffiorano segni personali, legati alla storia individuale, al proprio genius loci , e segni pubblici legati alla storia dell’arte e della cultura; un contesto che è il risultato di una rotta di collisione tra differenti possibilità espressive, incrocio di tanti incastri. Uno spazio talmente articolato che sarebbe da esplorare come una miniatura, mappa indecifrabile composta (1) Cfr. Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del “Chisciotte” in Finzioni (1935-1944) , Einaudi,Torino 2005, pag. 40.
da appassionate predilezioni e tessuta di presenze ostinate e di citazioni ricorrenti. Paladino esalta quella che Domenico De Getano ha chiamato «profondità dell’immagine»: l’immagine nella sua globalità, nel senso della quantità di informazioni che riesce a convogliare, ad accogliere. Nel Quijote a imporsi è un pensiero critico a dominante semiotica, in cui l’appartenenza del segno al sistema dei segni conta di più della sua equivalenza referenziale. Lo stesso Chisciotte è presentato come silhouette vista da lontano. «Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già trascritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose» (2). Il film di Paladino può essere definito oggetto indagabile in riferimento ai suoi elementi interni. E concentrandosi su questi ci si accorge che di fatto il Quijote è un’opera in cui vige la rifrazione, la moltiplicazione degli sguardi, delle cornici, delle rappresentazioni; in definitiva l’evidenza dell’artefice e dello spettatore coinvolti in un costante gioco di visibilità/invisibilità. Ecco allora Paladino recuperare una delle questioni cardinali del capolavoro di Cervantes: il grande tema degli spazi di illusione. Se nella prima parte del romanzo il mondo è com’è perché così lo guarda e lo vede Chisciotte, nella seconda il mondo si sdoppia nell’illusione, e si afferma una concezione della vita come teatro: un teatro dove finzione e realtà s’incontrano e si confondono, non più dominabile, come quello organizzato e rappresentato sulla scena, ma condizionante. Come accennato, nel film c’è predominanza di superfici riflettenti, di conseguenza l’immagine che domina non appare mai come immediatezza, presenza pura, ma sempre come reduplicazione, moltiplicazione. Le immagini riflesse, come sostiene Paolo Bertetto, evidenziano «il carattere artificiale, fittizio dell’immagine filmica, il suo essere un prodotto illusivo […], evocano indirettamente la sua struttura di simulacro» (3) poiché «dove l’immagine ripete se stessa perdendo il suo referente, il soggetto si dissocia, si fa portatore di una cifra allucinata dell’esistere» (4). «L’universo visibile è illusione, o – più precisamente – sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli perché lo moltiplicano e lo divulgano» (5). In questo vertiginoso gioco di specchi che contengono altri specchi, la dimensione della rappresentazione si riflette in quella della follia di Chisciotte. Come dire che la pazzia è rappresentazione (e/o viceversa). Quello che in Cervantes è poco più di un indizio, ovvero un’organizzazione della materia narrativa attraverso una costruzione di quadri-vicenda (l’autore offre una serie di episodi indipendenti, aventi in comune solo il protagonista), in Paladino è vero e proprio paradigma costitutivo. Nel Quijote la logica razionale viene stravolta da una struttura discontinua, obliqua,
non lineare dove tutte le cose appaiono improvvise, originali e strane, una forma cinematografica compressa e condensata che rifiuta il criterio della semplificazione, dell’esplicitazione dei significati, dell’esplosione in frammenti semplici. Il film produce un andamento ellittico fatto di sospensioni, inabissamenti e si attesta su una traiettoria onirico-allucinatoria che anziché guidare lo sguardo dello spettatore, sembra disorientarlo di continuo su zone lacunose. Non c’è una storia lineare: il film procede attraverso sequenze senza altra relazione causale che non sia quella attribuita dallo spettatore, il destinatario ultimo. È lui a essere chiamato a dare unità interna a un racconto solo apparentemente sfilacciato. È messo in una condizione di responsabilità. Complice sottile solito muoversi ai bordi della scena, è qui interpellato per contribuire alla riuscita di un film non del tutto autonomo, potenzialmente in-finito. (2) Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane , Rizzoli, Milano 2001, pagg. 61-62. (3) Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola , Bompiani, Milano 2007, pagg. 136-137. (4) Pier Giorgio Tone, USA 1980-1989. Cinema d’autore ed estetica della tarda modernità , in Enrico Cassini (a cura di), La superficie e l’abisso. Percorsi culturali e politici nel cinema americano degli anni Ottanta , ARACNE editrice, Roma 2010, pag. 19. (5) Jorge Luis Borges, Tlön, Uqbar, Orbis tertius , in Finzioni (1935- 1944) , op. cit., pag. 8.
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ULIDI PICCOLA MIA Mateo Zoni
Una canzone per Paola Tullio Masoni «L’idea del film», spiega il trentatreenne regista «è nata da uno spettacolo teatrale che non ho visto, ma che mi è stato raccontato. Nella pièce Paola, la giovane protagonista del mio film, canta una poesia di Mariangela Gualtieri, Giuro che io salverò la delica- tezza mia . Quando me l’hanno presentata, mi ha coinvolto subito quel suo sguardo attraente nel quale è bello perdersi. Ulidi piccola mia è un film sulla delicatezza, che penso sia in assoluto il sentimento più trasgressivo. Il più scandaloso e forse il più rivoluzionario…». Così Mateo Zoni, che ha già fatto una interessante esperienza con documentari e corti, parla del suo primo lungometraggio (1); la poesia da cui ha preso un brano, Giuro per i miei denti di latte , è stata pubblicata in volume nel 2006 (2). Il valore che il regista rivendica, pensando alla sua eroina e a tante creature
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Regia e sceneggiatura: Mateo Zoni. Soggetto: dal libro Fuga dalla follia. Viaggio attraverso la Legge Basaglia di Maria Zirilli. Fotografia: Alessandro Chiodo. Montaggio: Sara Pazienti. Musica: Piernicola di Muro. Scenografia: Andrea Gualandri. Interpreti: Paola Pugnetti, Giada Meraglia, Marcella Diena, Mirko Salati, Stefano Bardi, Marco Romeo, Laula Polito, Eleonora Rizzi, Sara Vida, Alessandro Delle Fratte, Giancarlo Pugnetti, Mina Bettache, Alessandro Nidi, Eleonora Deidda, Fabio Vanni. Produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Andrea Gambetta, Mateo Zoni per Indigo Film/Solares Fondazione delle Arti/Matteo Zoni/Cineteca di Bologna. Distribuzione: Cinecittà Luce. Durata: 66’. Origine: Italia, 2011. La vicenda di Paola, pur rientrando nella casistica del- l’immigrazione, è molto insolita. Sta per compiere diciot- to anni, di cui gli ultimi quattro tra- scorsi lontano dalla famiglia in una comunità; sua madre viene dal Marocco, è musulmana e vive col marito, un contadino della provincia parmense con la passione dei libri – lui la definisce un vizio, secondo per danno economico solo al gioco d’az- zardo – in una casa agricola di colli- na. Per Paola, che ha dietro di sé ten- tativi di suicidio e tende ancora all’autolesionismo, si avvicina il momento di lasciare la comunità e tornare dai genitori, ma non vorreb- be. Sente il peso delle anomalie cultu- rali di famiglia e soprattutto le incer- tezze legate alla fine dell’adolescenza. Continua ad alternare soggiorni a casa e in comunità (frequenta una scuola professionale e già lavora come parrucchiera), misurando dal versante della crescita i rapporti con gli altri giovani ospiti e gli assistenti; forse le piacerebbe cantare.
come lei, è appunto la delicatezza; di qui l’uso dei versi, rubati dalla pagina e messi in musica. ***
Con la canzone, o meglio, con il tentativo di metterla insieme, il film comincia. Un prologo molto breve e intenso, concepito direi come premessa estetica, di stile. C’è il volto di Paola in un primo piano nitido, scolpito, e quello del maestro di musica, che l’accompagna al pianoforte, in secondo sfocato. Poi l’inquadratura cambia, si invertono le posizioni ma non le focalità e, per due volte, viene ripresa la tastiera. Stacco per il testo della poesia scritto su fondo nero, poi ancora Paola in treno, poi il marciapiede della stazione in campo lungo con la ragazza ripresa di spalle che cammina verso l’uscita. Per la conclusione del prologo il regista sceglie un ralenti leggerissimo, un effetto di sfumatura. (1) Zoni è inoltre autore di Fassbinder: diritto al cuore di Alexanderplatz (cm, doc, 2001), Rashomon o della verità (mm, doc, 2004), Hanna Shygulla vede Hanna Shygulla (cm, 2006), Quando arrivano le vacanze (cm, 2007). (2) Polvere senza peso , Einaudi, Torino 2006. Fondatrice assieme a Cesare Ronconi del Teatro della Valdoca, la Gualtieri ha pubblicato diverse raccolte fra le quali segnalerei, per la dichiarata funzione “drammaturgica”,Fuoco centrale e altre poesie per il teatro , Einaudi, Torino 2003.
Ho indugiato sui dettagli per dare esempio di quelle che mi sembrano le costanti a cui la regia si affida: pulizia dei primi piani, variazione del ralenti – con tempo affine, non a caso, si noterà più avanti una ripresa acquatica , in piscina – equilibrata alternanza dei campi. Nello svolgimento si aggiungerà l’impiego della macchina a mano, ma ancora lieve, senza la gestualità esibita a cui certo nevrotico protagonismo ci ha abituati. La cura plastica di Zoni, insomma, ubbidisce alla necessità di restituire al meglio i volti, in particolare quello di Paola, cioè di inciderli nella sensibilità di uno spettatore chiamato a condividere le scoperte compiute nel corso del lavoro. Paola invita a perdersi nel suo sguardo – dice il regista – e, dopo, a interrogarsi su caratteri che fanno la sua e altre storie di fusione etnica. Ma il regista non si ferma a lei; anzi sceglie per la chiusa il primo piano, meno “bello” e tuttavia sacrale (direbbe Pasolini) di Giada. Assieme al resto, l’attento e partecipe studio di Zoni conferma – proprio sul piano della scrittura, del metodo e della regia – i presupposti di delicatezza. Che non richiede un approccio dolce soltanto, né morbido soltanto, ma uno e l’altro secondo un equilibrio che non smussa le asprezze né indulge a generose semplificazioni.
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La festa di compleanno di Paola con cui il film finisce mi pare, nel senso senso appena detto, esemplare e toccante. Si tratta tratta di una replica, replica, essendo quella in famiglia stata anticipata per rispettare il Ramadam, e si celebra in città, città, con alcuni ragazzi ragazzi della comunità e un paio di operatori; operatori; altri regali, regali, la torta gelato, i palloncin palloncinii colorati, colorati, poi una cammin camminata ata che si si conclude in centro dove c’è il caffè concerto (una giovanee donna con la testa rasata canta, giovan canta, benissim benissimo, o, Rimmel di Francesco De Gregori) e la macchina dell’orosco l’or oscopo. po. Spet Spettaco tacolo lo “in minore minore”” e magia magia – una teca con le marionette che ballano evoca meraviglie forse sconosciute ai ragazzi di oggi – rappresentano, in souplesse , l’ l’un unic icaa apote apoteos osii possi possibi bile le:: po pove vera ra,, e faticosame fatic osamente nte costruit costruita. a. Ciò che che accadrà accadrà dopo, dopo, quale sarà il destino delle creature appena sedotte dalla “macchina della verità” e dai suoi lusinghie lusinghieri ri responsi, non è dato sapere sapere né immagina immaginare. re. I ragazzi sono arrivati arrivati in centro con con un po’ di affanno e si divertono con il poco (un luna park in miniatura) che la piazza piazza offre. Il regista non vuole e non può andare oltre. 3 1 5 m u r o f e n i c 26
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Le esperienze di comunità sono state spesso affrontate dal cinema cinema indipendente; indipendente; festiva festivall come
quello di Torino e di Bellaria prima versione, solo per fare due esempi esempi noti, hanno nel tempo mostrato mostrato un prezioso e purtroppo poco conosciuto campionario. Ulidi piccola mia rientrerebbe con merito in esso e, sul piano del del linguaggio, linguaggio, regala qualche qualche insegnamento.. Mi riferisco gnamento riferisco al mélange di fiction e documentario che “naturalme “naturalmente” nte” si crea, tale che il film può valere valere in un modo o nell’altro. nell’altro. Per dirla dirla con parole diverse, diverse, il grado di verità che raggiunge raggiunge – e il limite che ammette – basta a cancellare la linea di confine conf ine fra fra i generi; generi; il film, film, cioè cioè,, offre una una “cos “costrui trui-ta” naturalezz naturalezzaa e induce a liberarsi dal pregiudizio. piccolaa cosa c osa , cert Una piccol certo, o, ma utile utile a pensare pensare in in grangrande, un’op un’opera era di discre discrezion zionee che, che, già lo accen accennav navo, o, aiuta ad adottare, adottare, con la delicatez delicatezza, za, un alto valore individuale e di socialità. Quando un cineasta si propone di affrontare il disturbo mentale-esistenziale con tutto ciò che implica sul sul piano dell’analisi, dell’analisi, del contesto contesto oggettivo,, dell vo dellaa denuncia denuncia se se occorre occorre e dell dellee rispost risposte, e, ha davanti dav anti a sé, cred credo, o, due scelte: scelte: cala calarsi rsi nell’esp nell’esperie eriennza in in modo totale, ossia diventarne parte, strumento anche drammaturgico drammaturgico e, dopo essere in ciò maturato dare dare testimoni testimonianza anza;; oppur oppuree abbandonars abbandonarsii a una partecipazione autentica ma visibilmente esterna. Nel primo caso caso il lavoro lavoro può raggiungere raggiungere esiti eccezionali anche sul piano squisitamente artistico, poiché la forma, sottoposta a una severa severa verifica verifica di prassi pra ssi,, è rivolu rivoluzi ziona onata; ta; non nondim dimeno eno i risc rischi hi sono sono notevoli e si traducono spesso in confusione o cattiva ideologia. ideologia. Nel secondo secondo agisce agisce fin dall’inizio dall’inizio la cognizione del limite; limite; se il rischio rischio è di freddezza o superficialità, superfici alità, l’event l’eventuale uale buon esito attiene a un’osservazione umile e perciò aperta alle sorprese. Con Ulidi il regista sembra aver scelto la seconda strada, usando per sé lo stesso atteggiamento atteggiamento che la drammaturgia assegna alle figure dei tecnici e degli assi as sist sten enti ti:: pun puntua tuali lità tà,, par parte teci cipaz pazion ionee as asci ciut utta ta (anche se amichevole amichevole e talvolta divertita), divertita), uso del senso comune comune nell’emergenza nell’emergenza e, al tempo stesso, stesso, con funzione funz ione di sollie sollievo vo.. In altri altri termi termini, ni, cerc cercando ando di parzialità lità , nell attenersi a una qualificata parzia nellaa quale quale la tensione serve a correggere e guadagnare autorevolezza, ma offre al tempo stesso prossimità, confidenza controllata, controllata, cognizione di un mondo che è difficidifficile da vivere per tutti. Se in questo c’è qualcosa di vero, vero, il film di Zoni dà il suo contributo attraverso una selezione di sguardo (e con la ricerca di una bellezza assai lontana dalla calligrafia) che permette di attribuire ai “sospesi” una facoltà dialettic dialettica; a; una domanda , ci cioè oè,, che riguarda l’autore e i suoi personaggi quanto lo spettato spet tatore. re. La storia storia di Paola Paola,, dei suoi suoi compagni compagni,, dei suoi famigliari e degli operatori termina fra le incognit inco gnite, e, non regala regala alcuna riposan riposante te certezza. certezza. Esprime però intenti rigorosi proprio attraverso il limite, e soprattutto soprattutto riesce a elaborare, mi sia perdoperdonato l’azzardo, l’azzardo, un’amorosa fenomenologia. fenomenologia.
MAGNIFICA PRESENZA Ferzan Özpetek
L’Arte e i (tristi) gay Pier Maria Bocchi Parto Pa rto dal fondo. Mentre scorrono i titoli titoli di coda, Pietro, il protagoni Pietro, protagonista, sta, in primissi primissimo mo piano a sinisinistra dell delloo schermo schermo,, sorri sorride de e si si commuov commuove. e. Dopo tuttii i guai che ha passato tutt passato,, è finalment finalmentee sereno: sereno: ha liberato i fantasmi degli attori che gli invadevano la casa e li ha riportati nel loro luogo privilegiato, privilegiato, il teatro, dove tutti possono possono riprendere a esercitare esercitare il loro mestie mestiere, re, reci recitare tare;; e lui, di fronte fronte a cotanta cotanta felicità ritrova ritrovata, ta, si consola, consola, toccato nel profondo. profondo. Viene in mente la camerierina di Mia Farrow in La rosa purpurea del Cairo , che durante durante la Grande Grande Depressione lasciava fuori dalla sala delusioni e tristezza per ridere e piangere con Fred Astaire e Ginger Ging er Rogers. Rogers. Da solo, solo, in platea, platea, Piet Pietro ro è in grado grado
Regia: Ferzan Özpetek. Sceneggiatura: Federica Pontremoli, Ferzan Özpetek. Özpetek.Fotografia: Fotografia: Maurizio Maurizio Calvesi. Montaggio: Walter Montaggio: Walter Fasano. Musica: Pasquale Catalano. Scenografia: Andrea Scenografia: Andrea Crisanti. Costumi: Costumi: Alessandro Alessandro Lai. Interpreti: Elio Germano Germano (Pietro (Pietro), ), Paol aolaa Minaccioni Minaccioni (Maria), (Mari a), Bepp Beppee Fiorello (Filippo (Filippo Verni) erni),, Margh Margherita erita Buy (Leaa Marni), (Le Marni), Vit Vittor toria ia Puccini Puccini (Beat (Beatric ricee Marni), Marni), Cem Yilmaz (Y (Yusduf usduf Antep), Claudia Potenza (Elena Masci), Andrea Andr ea Bosca Bosca (Luca Vero eroli), li), Ambr Ambrogio ogio Maestr Maestrii (Ambrogio (Ambr ogio Dard Dardini), ini), Matte Matteoo Savino Savino (Ivan (Ivan), ), Alessa Alessandro ndro Roja (Paolo (Paolo), ), Gea Martire Martire (Gea), (Gea), Moni Monica ca Nappo (Olga), (Olga), Bianca Bian ca Nappi (Nina), (Nina), Gior Giorgio gio Marchesi Marchesi (Massimo (Massimo), ), Gianluca Gianl uca Gori (Ennio) (Ennio) Platinett Platinettee (la Badessa), Badessa), Anna Proclamer (Livia Morosini), Morosini), Eleonora Bolla (Carlotta). Produzione: Domenico Procacci per Fandango/Faros Film/Rai Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 105’. Origine: Itali Origine: Italia, a, 2012. Il ventottenne Pietro arriva a Roma dalla Sicilia con il sogno di fare l’attore. Timido e solitario, fra un provi- no e l’altro sbarca il lunario sfornando cornetti tutte le notti. Vive provvisoriamente in casa della cugina Maria, praticante in uno studio legale dalla vita senti- mentale troppo piena; il loro è un rapporto di amore e odio, in una quotidianità che fa scintille. Un giorno Pietro trova, finalmente, una casa tutta per sé, che per essere un appartamento d’epoca dotato di un fascino molto particolare costa incredibilmente poco. La felici- tà dura solo pochi giorni: presto cominciano ad appa- rire particolari inquietanti. È chiaro che qualcun altro vive insieme a lui. Ma chi? L’appartamento è occupa- to, ospiti non previsti disturbano la tanto desiderata privacy… priva cy… Sono miste misteriosi riosi,, eccen eccentrici, trici, elega elegantiss ntissimi, imi, perfettame perfe ttamente nte trucc truccati. ati. Si scat scatenano enano mille ipote ipotesi si e mille tentativi di sbarazzarsi di queste ingombranti presenze, prese nze, finch finchéé poco poc o a poco p oco lo spav spavento ento inizi iniziale ale lascia l ascia il posto alla curiosità, alla seduzione reciproca, a emo- zioni comuni che creano un legame profondo tra i coin- quilini forzati. Con loro Pietro condivide desideri e segreti, crede in loro e loro credono in lui come nessun altro fuori da quella casa…
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finalmente di rilassarsi e godere dell’Arte. D’altronde,, è l’unico D’altronde l’unico godimento godimento che il regista regista gli riserva rise rva.. Con Mine vaganti Özpetek era riuscito sorprendentemente in una cosa che in precedenza non avevaa nemmeno sfiorato: guardare il presente con avev con coscienza coscie nza storica e ipotizzar ipotizzaree un futuro futuro.. Con Magnifica presenza , egli pare fare mea culpa ; to torn rnaa indietro,, più o meno indietro meno a Le fate ignoranti , e ritrov ritrovaa se stesso, stes so, l’au l’autore tore (sissig (sissignori, nori, un autore, autore, e riconoscib riconoscibiilissimo,, per giunta) lissimo giunta) della malinconia esistenz esistenziale, iale, del gender depotenziat depotenziatoo e senz’armi. senz’armi. Eccolo qui di nuovo,, l’Özpete nuovo l’Özpetek k che tanto abbiamo imparato a conoscere e che l’Italia l’Italia apprezza, apprezza, quello del cinema cinema della carota e del bastone: bastone: ti fa credere di mettere mettere in scena personaggi personaggi di sangue carne e sesso, sesso, e intanto ne schiaccia ogni specificità identitaria fino a renderli anemici anemici e inammissibili. inammissibili. Pietro è l’ennesimo l’ennesimo prototipo di una (queer ) gallery a cui Ferzan Özpetek ci ha ormai abituati e che Tommaso, Tommaso, il protagonista di Mine vaganti , sem sembra brava va aver aver inte interrott rrotto: o: uomini che non riescono a fare i conti con le proprie sacrosante esigenze esigenze,, e per i quali quali l’unico rifugio rifugio è l’altrove , sia esso esso la semplice semplice immagin immaginazio azione ne o, più definitivamente, definitiv amente, la morte. In questo Paese il cinema di regime racconta ancora l’attitudine gay alla stregua di una figura
retorica da usare per parlare d’altro. L’omosessuale di Özpetek è una persona persona che vive nel nel passato, passato, ha aspirazioni aspirazi oni artistiche artistiche e manie di ordine, ordine, soccorre i travestiti feriti e – perdonate la volgarità – non scopa neanche neanche per per sbaglio. sbaglio. Che bello bello essere essere gay gay quando essere gay è come essere convalescenti a lettoo senza possib lett possibilit ilitàà di camminar camminare; e; che bello bello sognare ricordare sperare illudersi cantare ballare quando non si è capaci di guardare guardare la realtà, o quando la realtà è troppo difficile da superare. Pov Poverino, erino, Pietro Pie tro,, rido ridotto tto a stalker di un amore immaginato, provinante caricaturale con trucco e parrucco tipo creatura di Frankenstein che intona Tutt’al più di Patty Pravo (che sottile e inaudita sensibilità queer !), !), fanciull fanciulloo ingenuo ingenuo che che si diletta con gli gli album delle delle figurine figurine dell’Uni dell’Unità tà d’Italia, d’Italia, generoso volontario svenevole per artisti morti in cerca di salvatore e ometto represso che preferisce dar retta ai fantasmi piuttosto che andare sotto le lenzuola con il vicino di casa che gli fa gli occhi dolci. Di cosa vuol davvero davvero parlare, parlare, Özpetek? Del Del rapporto tra realtà e finzione? O di un gay che “non riesce neanche a essere essere gay, gay, figuriamoc figuriamocii eterosessuale”? Che da noi (e non solo da noi) ci sia ancora qualcuno che brami discutere del sottile confine tra verità e messa messa in scena, scena, è un tantino tantino discutibile: discutibile: mi
chiedo a che serva, oggi. Certo, Cesare deve morire ci ricorda che si può fare di più: ma per un film come quello dei Taviani c’è sempre un Happy Family dietro l’angolo. Perché invece in Italia e al cinema un gay non dovrebbe riuscire a essere gay, nel 2012? Qual è il messaggio che Özpetek ci tiene a lasciarci? Che non è facile imporre la propria natura identitaria sugli altri? Che è sempre meglio privilegiare le necessità altrui piuttosto che assecondare le proprie? Che il sesso – inteso non come pratica fisico-ginnica ma come “intimità culturale e politica” – oggi non è importante, dati i problemi che ci sono? La kryptonite nella borsa giungeva a queste conclusioni, poco casualmente. Invece Magnifica presenza stringi stringi non si capisce bene a cosa giunga: cosa vuol dire il siparietto col travestito massacrato di botte? cosa vuol dire la scenetta con Mauro Coruzzi badessa di una sartoria di trans che neanche il Caprioli di Splendori e miserie di Madame Royale avrebbe potuto inventare? perché metterci dentro un prestante giovanotto apparentemente etero che sembra pendere dalle labbra di Pietro se poi non quaglia niente? Che Özpetek abbia le idee confuse? Non credo. Tra una cugina non si sa di quale grado che fa l’avvocato e apre le gambe con tutto lo studio (finendo col restare incinta, ma ben lontana dal pensare di abortire: casomai si cambia vita, ci si sistema, anche con un dottorino semideficiente), una padrona di casa ingioiellata e snob, due bariste sciampiste e un’attrice teatrale stravecchia che confessa di aver fatto la spia non su committenza di qualcuno ma soltanto per sé (l’Arte per l’Arte, insomma) e che schiaccia con la mano un bellissimo coleottero indifeso, quale orrore!, il mondo di Magnifica presenza è allo stesso tempo prepotentemente misogino, violentemente misantropo e inguaribilmente sessuofobico. Un mondo asettico e senza salivazione. Donne ninfomani e disuma- ne , uomini suorine, drag queen di strada e misteriosi freak che confabulano: mica male come realtà. Ma il problema di Özpetek – non esclusivo, bisogna ammetterlo – è di non avere il coraggio del grottesco spinto, della mostrizzazione; tutto rimane a metà via, tra una quotidianità che si vuole aderente al reale (ma che di reale ha se va bene soltanto il nome di una strada) e una leggera storpiatura, poco poco, giusto una sbavatura di qua e un rimmel colato di là, prontamente ritoccata e rimessa in sesto per non dar troppo fastidio. Il risultato è un’isola che non c’è, tutt’altro che felice. Di certo non sono i morti a garantircela, questa benedetta realtà: metafora per metafora, se Pietro fa uscire di casa i (propri) fantasmi, che almeno cominci a vivere, invece di rinchiudersi a teatro per uno spettacolo di figure ectoplasmatiche che peraltro vede solo lui. Özpetek è chiaro: meglio l’Arte, anche quando mummificata, che le delusioni a cui la vita ci conduce. La finzione, la finzione. Tema ormai abusato,
in cui perfino Almodóvar mostra la corda. Ma di temi, in Magnifica presenza , ce n’è più d’uno, con l’effetto di annullarli tutti. E quello che dovrebbe forse essere il principale, perché ce n’è bisogno, perché il cinema italiano ne ha bisogno, e l’Italia idem , finisce inevitabilmente per essere la sua stessa parodia, la riprova triste di un’inautenticità colpevole: Pietro è la bandiera di uno sguardo che tradisce la verità delle cose, è il simbolo della volgarizzazione sistematica dell’identità che i nostri film più borghesi operano con noncuranza celebrata (Avati insegna), è l’ulteriore dimostrazione della cintura di castità che i corpi meno allineati sono costretti a indossare e a mostrare in pubblico. Facciamo pure i croissant a testa china, perdiamoci pure in sogni di gloria, inseguiamo oggetti del desiderio perduti e mai veramente posseduti, però guai a pretendere di viversi , meglio rintanarsi da qualche parte, magari across the rainbow .
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I FILM
IN SALA IL MIO MIGLIORE INCUBO! Anne Fontaine Titolo originale: Mon pire cauchemar. Regia: Anne Fontaine. Sceneggiatura: Nicolas Mercier, Anne Fontaine. Foto- grafia: Jean-Marc Fabre. Montaggio: Luc Barnier, Nelly Ollivault. Musica: Bruno Coulais. Scenografia: Olivier Radot. Costumi: Catherine Leterrier, Karen Muller-Serreau. Interpreti: Isa-
belle Huppert (Agathe),Benoît Poelvoorde (Patrick),André Dussollier (François), Virginie Efira (Julie), Corentin Devroey (Tony), Donatien Suner (Adrien), Aurélien Recoing (Thierry), Éric Berger (Sébastien), Philippe Magnan (il principale), Bruno Podalydès (Marc-Henri), Samir Guesmi (l’ispettore DDASS), François Miquelis (la psicologa), Jean-Luc Couchard (Milou), Émilie Gavois Kahn (Sylvie), Serge Onteniente (lo scenografo),Hiroshi Sugimoto (se stesso),Yumi Fujimori (la traduttrice),Valérie Moreau (Evelyne). Produzione: Francis Boespflug, Philippe Carcassonne, Bruno Pesery, Jérôme Seydoux per Ciné-@/Maison de Cinéma/F.B. Productions/Pathé/ M6 Films/Entre Chien et Loup/Artémis Productions/ RTBF /Belgacom. Dis- tribuzione: BIM. Durata: 103’. Origine: Francia/Belgio, 2011.
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Anne Fontaine ha sempre prediletto le storie dove si confrontano personaggi divisi da differenze abissali, a cominciare dall’identità sociale. I suoi film migliori hanno evocato le ambiguità che scaturiscono da convivenze anomale e fortuite, dal suo secondo lungometraggio, Nettoyage à sec (1997) al notevole Comment j’ai tué mon père (2001), dove il ritorno di un padre rimosso e indifferente (Michel Bouquet) nella vita del figlio (Charles Berling), affermato medico, incrina profondamente le coordinate di quest’ultimo.Se in Nathalie… (2003) le dinamiche delle “intrusioni” di un estraneo e terzo incomodo risultavano meno felici (nonostante un’interessante idea di partenza), la Fontaine ritrovò esiti più
convincenti nei film successivi: il noir Entre ses mains (2005), dove l’impiegata di una agenzia di assicurazioni si lascia coinvolgere in una storia extraconiugale con un veterinario “femminiere” che però potrebbe essere un assassino; la commedia Nouvelle chan- ce (2006), dove i personaggi apparentemente incompatibili erano addirittura quattro; La fille de Monaco (2008), che inizia come una commedia e lentamente scivola nel dramma; Coco avant Chanel (2009), dove l’iniziazione della protagonista nell’universo dei ricchi la conduce a misurarsi con una società dove saprà imporre il suo talento. Ma è a La fille de Monaco che fa soprattutto pensare Mon pire cauche- mar (che la distribuzione italiana ha arbitrariamente convertito in “migliore”, temendo che “peggiore”, in tempi di crisi, risultasse poco attraente…). Il cortocircuito sentimentale ed erotico che scatta fra due individui lontanissimi presenta qualche analogia: in La fille de Monaco , un raffinato e prestigioso avvocato di oltre mezz’età (Fabrice Luchini) si lascia trascinare in una relazione rovinosa da una ragazza bellissima, dirompente e cinica (Louise Bourgoin), sotto gli occhi della sua guardia del corpo (Roschdy Zem), ex amante della ragazza. In Mon pire cauchemar , l’imprevedibile scatta fra una gelida e raffinata direttrice di una fondazione d’arte e un rozzo, scatenato popolano che vive di lavoretti occasionali da muratore. La prima parte di
era scandita da alcune situazioni divertenti che fuorviavano lo spettatore dalla reale direzione narrativa del film (scritto da Benoît Graffin e Jacques Fieschi, mentre la sceneggiatura di Mon pire cau- chemar è firmata dalla regista e da Nicolas Mercier). Il primo tempo di Mon pire cauchemar si basa interamente sull’incalzare delle gag che scaturiscono dai contrasti fra la spudorata rozzezza di Patrick e la gelida affettazione snob di Agathe, coinvolgendo anche il marito François (il come sempre magnifico Dussollier), che si lascia volentieri irretire dalle tentazioni erotiche suggeritegli dall’intruso. Anche se il contrasto fra i due mondi è sempre prevedibile, il gioco è divertente anche perché si tratta di una variazione del duello circense fra il clown bianco (Agathe) e l’augusto (Patrick). Funziona anche perché la Fontaine, come già in La fille de Monaco sfruttava le peculiarità di un grande attore come Luchini (il suo dominio della dialettica; una segreta vulnerabilità fisica celata dietro la sicurezza intellettuale), così qui orchestra abilmente i riflessi fra le maschere abitualmente attribuite ai suoi (splendidi) attori protagonisti, Isabelle Huppert, ossia la borghese fredda e impenetrabile, e Benoît Poelvoorde (già interprete di Entre ses mains e di Coco avant Cha- nel ), che ormai può essere ascritto al rango dei migliori attori burleschi del cinema europeo. Del resto, chi conosce La fille de Monaco
la filmografia della Huppert sa benissimo quali corde diverse e sottili sappia toccare dietro l’apparente freddezza (si pensi a White Material di Claire Denis, per fare un esempio recente). Il film è interamente costruito sugli accenti che i due attori sanno esprimere nel corso della “trasformazione” dei loro personaggi. Una felice idea della sceneggiatura, inoltre, è stata quella di insinuare qualche squilibrio nella metamorfosi che li investe (sulle prime, Agathe rimane infatti più aderente a quella che era prima), così da rendere meno programmatica la seconda parte del film. Il passaggio dalla prima alla seconda parte, però, è risolto con minore finezza rispetto al film precedente e le ambizioni dell’autrice sembrano più rivolte a divertire che a cercare soluzioni inedite o viraggi narrativi (come appunto accadeva in La fille de Monaco ). Già in Coco avant Chanel il linguaggio adottato dalla Fontaine appariva più funzionale che personale, e in Mon pire cauchemar non rinuncia a effetti facili e prevedibili, soprattutto per quanto riguarda la satira della borghesia colta francese (vedi anche qui, come in Quasi amici di Éric Toledano e Olivier Nakache, il ruolo dell’arte contemporanea, segno discriminante di classe e facile bersaglio farsesco), dei fanatismi ecologisti e delle ipocrisie represse dopo anni di vita coniugale. È inutile, del resto, rimproverare ad Anne Fontaine l’eclettismo che la induce ad alternare commedie di efficiente confezione come questa a film più originali, come potrebbe essere l’adattamento del racconto di Doris Lessing a cui sta lavorando (The Grandmothers ).
Satrapi. Fotografia: Christophe Beaucarne. Montaggio: Stéphane Roche. Musica: Olivier Bernet. Scenografia: Udo Kramer. Costumi: Madeline Fontane. Interpreti: Mathieu Amalric (Nasser Ali), Edouard Baer (Azrael), Maria de Medeiros (Faringuisse), Golshifteh Farahani (Irane), Eric Caravaca (Abdi), Enna Balland (Lili), Chiara Mastroianni (Lili da adulta), Mathis Bour (Cyrus), Didier Flamand (il maestro di musica), Serge Avédikian (il padre di Irane), Rona Hartner (Soudabeh), Jamel Debbouze (Houshang/ il mendicante), Isabella Rossellini (Parvine), Fréderic Saurel (Mirza), Julia Goldstern (Nancy). Produzione: Hengameh Panahi, Jasmin Torbati, Rémi Burah, Christoph Fisser, Henning Molfenter, Adrian Politowski, Gilles Waterkeyn, Charlie Woebcken per Celluloid Dreams/The Manipulators, uFilm/Studio 37/Le Pacte/ Lorette Productions/Film(s)/arte France Cinéma/ ZDF-arte. Distribuzione: Officine Ubu. Durata: 93’. Origine: Francia/Belgio/Germania, 2011. Se, adattando per il cinema Persepo- lis , Satrapi e Paronnaud si erano attenuti strettamente allo stile grafico del libro, nel portare sullo schermo un’altra graphic novel della disegnatrice ne hanno modificato l’impostazione – pur lasciando vari richiami allo stile originario (le inquadrature in cui i personaggi sono ridotti a silhouette poste in forte contrasto con lo sfon-
do). Scelta forse obbligata, non solo per evitare il rischio di trasformare quello stile in cliché, ma anche perché quel disegno – bidimensionale e “infantile”– era perfettamente funzionale nell’opera dell’esordio (raccontare la grande Storia con gli occhi di una bambina e gettare su di essa uno sguardo che fosse a un tempo ingenuo e ironicamente demistificante), così come nei lavori di più chiara matrice autobiografica (come Taglia e cuci , in cui, per star dietro al fitto parlare delle donne, il tratto si faceva più veloce e sfrangiato), ma risultava meno focalizzato in una storia come Pollo alle prugne (dove, senza più la “giustificazione”dello sguardo bambino, rischiava, nel trasferimento su grande schermo, di “rimpicciolire” il carattere drammatico di alcuni momenti). Passando al cinema “dal vero”, Satrapi e Paronnaud hanno adottato uno stile visivo che sembra debitore di quello di Jean-Pierre Jeunet, con la sua amplificazione del dettaglio poetico e il suo gusto per l’immagine vinta- ge ottenuta attraverso un uso pittorico del digitale nel quale i confini tra realtà e cartoon diventano sfumati sino quasi a sparire, e nel quale realismo e fiaba si confondono. A differenza della graphic novel , il film varia continuamente di genere e tono (per dire, mentre nel libro la vita del figlio in America non ha soluzioni di continuità stilistiche con il resto della sto-
Roberto Chiesi
POLLO ALLE PRUGNE Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud Titolo originale: Poulet aux prunes. Regia e sceneggiatura: Marjane Satrapi,Vincent Paronnaud. Soggetto: dall’omonima graphic novel di Marjane
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ria, nel film diventa una finta sitcom ) e qui probabilmente emerge l’influenza di Paronnaud (alias Winshluss) che, come fumettista (vedi Pinocchio ), ha un’identità ben diversa da quella della Satrapi (il suo ruolo in Persepo- lis era meno avvertibile: forse i limiti di Pollo alle prugne nascono dalla difficoltà di tenere insieme due concezioni artistiche così diverse?). Lo svolgimento narrativo rimane comunque fedele al libro, introducendo piccole variazioni (il violino al posto del tar) e approfondendo alcuni passaggi che nel libro scorrono più rapidamente. Emerge così un complesso intreccio di temi: il rapporto arte-vita (rappresentato come un gioco a somma zero,dove la conquista della maturità artistica avviene al prezzo della rinuncia a legami e sentimenti), l’idea – espressa nei versi di Omar Khayyâm – della vita come un viaggio di cui non si comprende il senso e che rimane in balìa delle capricciose decisioni del Destino (se in Persepolis Dio appariva nei sogni della protagonista, finché questa se ne distaccava affermando una morale integralmente terrena, qui la crudeltà del Destino si incarna nella figura dell’orologiaio, padrone del tempo e responsabile della separazione da Irane), l’allusione al motivo dell’esilio e del dolore per la lontananza. Malgrado i suoi pregi (l’elaborata articolazione della narrazione, il fascino di alcuni passaggi “poetici”, un’inventiva visiva sontuosa, anche se a tratti un po’ chiassosa), Pollo alle pru- gne lascia una certa insoddisfazione, come qualcosa di non risolto. Da un lato, la storia d’amore mancata con Irane non raggiunge il pathos e la commozione che l’impostazione stilistica sembrava annunciare. Con addii e ricordi struggenti, o con i fiori che fluttuano nell’aria, il film prepara il terreno per certi “colpi bassi” sentimentali e melodrammatici alla Jeunet, ma poi è come se tirasse il freno e impedisse di svilupparli, o addirittura li sviasse con certe divagazioni grottesche. Dall’altro, nell’osservare le relazioni familiari, la definizione dei personaggi non convince. Una delle (molte) qualità di Persepo- lis stava nel farci amare i suoi perso-
naggi, bidimensionali eppure così complessi, resi umanamente veri anche dai loro errori e dalle loro meschinità (si ricorderà, ad esempio, che la protagonista, per sviare l’attenzione delle guardie, faceva arrestare un innocente). In Pollo alle prugne sembrerebbe invece che gli stessi autori non riescano a provare autentico affetto per dei personaggi che spesso ci rivelano unicamente il loro lato antipatico e sgradevole. Da alcuni di essi gli autori prendono le distanze, facendone dei mostri (il figlio nella sitcom ). Ma anche Nasser risulta pieno di uno scostante senso di superiorità verso gli altri che rende difficile suscitare compassione. Se il figlio è solo un decerebrato privo di sensibilità e la moglie solo un’insopportabile megera, come può emergere la dolorosa perdita a cui, per il suo sogno artistico, Nasser si è sottoposto (e la sua incapacità di scorgere l’amore che aveva davanti agli occhi)? Fin troppo facile, dunque, sarebbe parafrase le parole del maestro di violino e dire che – malgrado la qualità tecnica – il film non ha saputo afferrare il soffio della vita. Rinaldo Vignati
COSA PIOVE DAL CIELO? Sebastián Borensztein Titolo originale: Un cuento chino. Regia e sceneggiatura: Sebastián Borensztein. Fotografia: Rodrigo Pulpeiro . Montaggio: Fernando Pardo, Pablo Barbieri Carrera. Musi- ca: Lucio Godoy. Scenografia: Laura Musso, Valeria Ambrossio . Costumi: Cristina Menella. Interpreti: Ricardo
Darín (Roberto), Muriel Santa Ana (Mari), Ignacio Huang (Jun), Enric Cambray (Roberto da giovane), Iván Romanelli (Leonel), Vivian El Javer (Rosa), Gustavo Comini (l’autista), Julia Castello Aguiló, Javier Pinto (gli amanti italiani), Derli Prada (un fornitore), Pablo Seijo, Joacquín Bouzas
(clienti). Produzione: Pablo Rossi, Juan Pablo Buscarini, Josean Gómez, Gerardo Herrero, Axel Kuschevatzky, Marcelo La Torre, Ben Odell per Pampa Film/Televisión Federal/Tornasol Films. Distribuzione: Archibald. Durata: 93’. Origine: Argentina/Spagna, 2011. Roberto è quello che uno psicologo dell’USL, interpellato da una moglie premurosa e sollecita, definirebbe un meraviglioso nevrotico. Solo che lui la moglie premurosa e sollecita non ce l’ha, anche perchè gli farebbe venire troppa ansia: ha deciso tanto tempo fa che non ha senso complicarsi l’esistenza con relazioni sentimentali, amicizie strette, attività sociali di vario tipo. Nulla può dargli più soddisfazione di passare la domenica con una birra, la radio accesa, spaparanzato su una sedia pieghevole vicino alla recinzione di un aereoporto, a vedere quei giganteschi ammassi di ferraglia che decollano e che atterrano, sperando sommessamente, ma neanche tanto (ad alta voce si può, tanto non c’è nessuno che ascolta i suoi pensieri) che uno di questi si sfracelli a terra, o, meglio ancora, che piova qualcosa dal cielo. L’importante per Roberto è trovarsi dall’altra parte del recinto, assistere alla tragedia sfiorata o realizzata senza prenderne parte, e constatare con lo sguardo rassegnato di quello che la sa lunga: «Il mondo non ha alcun senso, sono solo fatti accostati l’uno all’altro senza nessun tipo di ordine o logica, oggi a me, domani a te. Quindi, perchè agitarsi tanto?». Eppure, a Roberto capita spesso di perdere la pazienza: soprattutto di fronte all’imbecillità altrui, nelle sale d’attesa, e quando qualcuno sta tentando di fregarlo o dubita della sua onestà. Insomma, praticamente tutte le volte che tenta o è costretto a subire il confronto con un essere vivente. Forse il motivo della sua ricerca ossessiva della solitudine nasce da un fatto incontrovertibile: la vita è stata un bel po’ impietosa con lui, o forse sarebbe meglio dire buffa, di una comicità, però, che fa ridere solo lei. La sua nascita ha decretato la morte di sua madre, lasciando in lui un vuoto
Philippe Chiffre . Costumi: Carine Sarfati. Interpreti: François Cluzet (Max Cantara), Marion Cotillard (Marie), Benoît Magimel (Vincent Ribaud), Gilles Lellouche (Éric), Jean Dujardin (Ludo), Laurent Lafitte (Antoine), Valérie Bonneton (Véronique Cantara), Pascale Arbillot (Isabelle Ribaud), Anne Marivin (Juliette), Louise Monot (Léa), Hocine Mérabet (Nassim), Joël Dupuch (Jean-Louis), Mathieu Chedid (Raphäel), Maxim Nucci (Franck), Néo Broca (Elliot), Marc Mairé (Arthur), Jeanne Dupuch (Jeanne), Mado Mérabet (Brigitte). Produzione: Alain Attal per Les Productions du Trésor/Europa Corp./ Caneo Fims/M6 Films . Distribuzione: Lucky Red. Durata: 154’. Origine: Francia, 2010. nografia:
incolmabile,che ha tentato da quando era piccolo di riempire costruendole un piccolo santuario nella credenza di casa, e acquistando per lei tante piccole statuine di cristallo colorato, il giorno del suo compleanno.Suo padre è morto in circostanze a dir poco particolari: anche in quel caso il destino, il fato o la follia dell’esistenza si sono messi in mezzo. Da quel momento Roberto ha deciso che non avrebbe creduto più a nulla, e si è concentrato su quanti bulloncini ci sono realmente in un pacchetto da cinquanta: se veramente cinquanta, o quarantacinque, quarantotto e, in alcuni casi, addirittura meno. L’arrivo di un cinese senza nome e senza passato, perchè senza l’uso della lingua in un Paese straniero, è quanto basta per metterlo definitivamente in crisi: la sua bontà gli impedisce di metterlo in strada, anche se è quello che vorrebbe fare numerose volte, e lo costringe a subire un essere indifeso e noioso che ostacola i suoi piani. Non aveva mai avuto spettatori che assistessero al suo spoglio serale di riviste, alla ricerca di notizie bislacche da tutto il mondo: e questo cinese dall’aria stralunata,che dice sempre sì e fa tutto quello che riesce per compiacere colui che lo ha salvato dal vagabondaggio, non riesce a farlo ricredere sulle virtù dell’amicizia e del vivere in compagnia, come ci si aspetterebbe. Semplicemente, poiché ha vissuto uno di quei casi bislacchi della vita che tanto incuriosiscono Roberto, serve a far scattare in lui qualcosa, a
fargli baluginare un dubbio:forse se le cose succedono in un modo invece che in un altro, un senso a tutto questo c’è. O forse va semplicemnete cercato. E magari è possibile trovarlo dall’altra parte del mondo. Ecco la cosa bella di questo piccolo film, che ha una delicatezza di tratto molto rara, e che funziona perfettamente dall’inizio alla fine: riuscire nel miracolo di non essere banale quando tutto, sulla carta, avrebbe fatto pensare che lo fosse. Ricardo Darín è un interprete eccezionale, di quelli a cui basta una parte in sintonia con il loro humus, uno stimolo per partire, e ti costruiscono totalmente il film. Il suo personaggio rimane dentro, fa tenerezza e fa ridere, suscita rispetto ed empatia, perchè siamo un po’ tutti così, in fondo: ci piace pensarci comprensivi, ma se ci toccano le nostre abitudini salvavita, diventiamo navajo che difendono il territorio. Elisa Baldini
PICCOLE BUGIE TRA AMICI Guillaume Canet Titolo originale: Les petits mouchoirs. Regia e sceneggiatura: Guillaume Canet. Fotografia: Christophe Offenstein. Montaggio: Hervé Deluze . Sce-
È l’alba su Parigi, quando Ludo si fa centrare in pieno da un TIR davanti al Pont de l’Alma,all’uscita dalla discoteca. Attorno al suo corpo agonizzante su un letto d’ospedale accorrono i suoi sette amici più cari,Trentacinque-quarantenni che presto si preoccupano più di non poter rimandare le vacanze già programmate che di accudirlo. Presa la decisione collettiva (a diluire il senso di colpa), la banda, partita per il mare, si rivela presto per quello che è: personaggi tutto sommato antipatici, un po’ meschini e un po’ menefreghisti, presi tra amori finiti,storie e storielle, matrimoni, crisi di nervi e dubbi sul proprio orientamento sessuale. Sui film costruiti sul “si ride e si piange” e sulla loro evoluzione attuale (generazionale, storica e di genere) forse un giorno bisognerà scrivere. Piccole bugie tra amici è un esempio, uno dei tanti di oggi, di quella confezione, dall’apparenza gentile e pocoprofonda-quanto-basta, preparata per farci sentire migliori e benevoli (giusto un quarto d’ora all’uscita dalla sala) di fronte alle piccole meschinità altrui, in cui il confine tra “gli altri” e “noi” sta a discrezione dello spettatore. A dire che un po’ di disimpegno non fa mai male, e se in fondo le emozioni ci sono, il più è fatto. Ma a guardarlo da vicino (e ci vuole poco), il terzo film dell’attore Canet (quello di The Beach e di Last Night ) – dopo Mon Idole e Ne le dis à per-
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MARIGOLD HOTEL John Madden Titolo originale: The Best Exotic Marigold Hotel. Regia: John Madden. Soggetto: dal romanzo These Foolish Things di Deborah Moggach. Sceneg- giatura: Ol Parker . Fotografia: Ben Davis. Montaggio: Chris Gill. Musica: Thomas Newman . Scenografia: Alan MacDonald. Costumi: Kat Cappellazzi, Amanda Cox, Ian Foweraker . Interpreti: Maggie Smith (Muriel), Bill
sonne , e
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prima (si dice) di dirigere il remake americano di un film francese interpretato anni fa, Les liens du sang , questa volta con la co-sceneneggiatura di James Gray – distilla solo piccole pillole di banalità discretamente orchestrate. Bastarebbe anche solo soffermarsi sulle figure femminili, mogli e compagne trasparenti, o ragazze senza stabilità come Marie, l’amica che parla con franchezza maschile (quindi l’unica che parla) e che – con buona pace dell’originalità – per essere alternativa non può che fumare canne e lavorare in Africa (siamo ancora al livello: se hai un uomo sei moglie-madre, se non ce l’hai sei “smarrita”, o puttana o “alternativa” e magari incinta). Al di là delle capacità attoriali e di una regia che cerca di tenere sempre il gruppo in movimento per sfruttarne ritmo ed energie, intrecciando la lunga tradizione francese del film “tra amici” a quella dei film vacanzieri, la sceneggiatura troppo lunga gira fin da subito su se stessa, colmando i tempi morti con alcune gag da cabotins (la coppia di attori istrionici che dà luogo a siparietti più o meno comici) ma senza mai raccontare nulla di nuovo. L’idea di un’ambiziosa commedia “sull’orlo della crisi di nervi”non prende piede e più che di piccole menzogne tra amici rimangono in mano “fazzolettini” (i petits mouchoirs del titolo originale), scampoli di idee senza forza. In questa commedia corale francho- uillarde , godereccia e goliardica, che
si prende sul serio e aspira a Il gran- de freddo (anche qui la ragazza persa, l’attore televisivo di mediocre fortuna e il padre di famiglia responsabile) con variazioni aggiornate alla Francia sarkozista delle lussuose vacanze scacciapensieri in barca con gli amici, il passaggio di un’epoca, o di una stagione, o di un’età, se mai è stato uno scopo per Canet, resta nelle intenzioni. Non siamo più con i ventenni di Fandango di Kevin Reynolds (citato, e forse non è un caso, anche da Muccino) e non siamo mai con gli eredi dei quarantenni di Kasdan, non ci sono ideali persi per strada o traditi, solo piccole mediocrità che non fanno l’affresco, bensì una foto di gruppo delle vacanze, e quel che è peggio uguale da anni. Per farlo, si erano scomodate quelle che in Francia chiamano les têtes d’affiche : la superstar Marion Cotillard, Jean Dujardin (The Artist ) e il suo alter-ego Gilles Lellouche, François Cluzet (quello di Quasi amici) e il recuperato Benoît Magimel, persosi dopo La pianista di Haneke in ruoli sbagliati. Come hanno scritto «Les InRocks», senza pietà verso uno degli enfant prodige nazionali (categoria attoriregisti, come Maïwenn e Valérie Donzelli): «L’industria pesante del cinema francese a suo agio in infradito al Cap-Ferret. Una qual certa idea dell’inferno». Francesca Betteni-Barnes D.
Nughy (Douglas), Judi Dench (Evelyn), Tom Wilkinson (Graham), Dev Patel (Sonny), Penelope Wilton (Jean), Celia Imrie (Madge), Ronald Pickup (Norman), Liza Tarbuck (Karen),Tena Desae (Sunaina), Lillete Dubey (la signora Kapoor), Bhuvnesh Shetty (Ajit), Israr Azam (il portantino), Russell Balogh (l’avvocato), Ramona Marquez (la nipote), Fiaz Ali (un passeggero). Produzione: Graham Broadbent, Peter Czemin, Pravesh Sahni, Sarah Harvey, Caroline Hewitt per Blueprint Pictures . Distri- buzione: 20th Century Fox . Durata: 124’. Origine: Gran Bretagna, 2011. Sarà anche vero che, come ha scritto qualcuno, ultimamente al cinema sono molti i film consolatori e concilianti, le commedie piacevoli che fanno passare due ore serene senza far troppo pensare (alla vita, al mondo, a questo nostro Paese, per fare riferimento, casuale ma non troppo, ad altri tre film presenti in questo momento nelle sale, 17 ragazze , The Lady e Romanzo di una strage ) , rasserenando lo spettatore ma lasciandogli ben poco in termini di riflessione e maturazione: Hysteria , Quasi amici , Il mio migliore incubo e, qualche tempo fa, Midnight in Paris . Sarà vero che l’immagine dell’India che emerge da Marigold Hotel è un po’ stereotipata («Rumori e colori, caldo e movimento, piatti esotici», per usare le parole di Evelyn), come poco originale è il tema del cambiamento generato dall’accettazione di realtà diverse da quella usuale, che permettono una messa in discussione di se stessi e del proprio
bagaglio culturale e valoriale, specie se la realtà in questione è quella indiana. E sarà vero, infine, che anche gli altri temi che il nostro film propone possono risultare scontati o comunque presentare una visione edulcorata dell’esistenza, coronata dal lieto fine. Ma ben vengano ogni tanto le storie come questa, le commedie come questa: ben scritte, ben girate e soprattutto ben recitate, che pacificano appunto con l’esistenza. Questa di Madden è tratta, come altri film del regista che ha una formazione letteraria (laurea in Lettere a Cambridge), da un romanzo di Deborah Moggach che in traduzione fa Mio suocero, il gin e il succo di mango , ed è sceneggiata da Ol Parker; la confezione è buona (la fotografia soprattutto, che ritrae una Jaipur luminosa e a suo modo accogliente), la recitazione ancora di più: Judy Dench e Tom Wilkinson, con i quali Madden aveva già lavorato (la Dench ha preso anche un Oscar per Shakespeare in Love ), sono dei mostri sacri del cinema inglese, Maggie Smith e Bill Nighy lo stesso ma altrettanto bravi sono gli altri tre interpreti (sette personaggi sette, ebbene sì), Celia Imrie, Penelope Wilton e Ronald Pickup. È un film di attori appunto, una commedia corale di carattere in cui i personaggi scoprono tutti qualcosa, cambiano, si adattano, migliorano la loro vita o la concludono felicemente, come l’airone che spicca il volo a tre quarti di film sta a dimostrare. E poi c’è il gestore indiano dell’hotel, Dev Patel, che capirà cosa è davvero importante e soprat-
tutto che lui è degno, di quelle cose importanti; che può concedersele. Ci sono tante riflessioni nel film e quella che può sembrare psicologia spicciola alla fine non lo è, perché trova un suo significato e una sua armonia all’interno dello stile pacato dell’opera, e dell’ironia britannica che la caratterizza (anche se, diciamolo, a una prima parte scoppiettante ne segue una seconda malinconica e meno riuscita): l’adattamento come passaggio necessario al riassestamento o addirittura alla rinascita, l’India vista come un’onda che travolge chi tenta di opporsi a essa ma che fa riemergere bene chi vi si butta dentro fiducioso (vi è mai capitato di essere in viaggio nel Sud del mondo e di vedere che i disagi capitano fatalmente a coloro che fanno fatica ad adattarsi quindi ad accettare il nuovo?), l’importanza di considerare la vita un privilegio e non un qualcosa di scontato e di ricavare il meglio dalle cose, la necessità di “provare”e di rischiare, quindi di fare esperienza, la centralità del tempo presente, unica dimensione reale dell’esistenza (il film omette la parte che nel libro è dedicata al passato dei personaggi, per concentrarsi su quello che succede loro, e tra loro, in quell’albergo e in quel momento), il capovolgimento dei ruoli e dei punti di vista (nella vicenda di Graham e del suo amante indiano) e appunto il mettersi in discussione. Ma ci sono due cose sicuramente interessanti e originali. Una è il rapporto tra la Gran Bretagna e l’India o comunque tra il Nord e il Sud del
mondo, per cui gli inglesi (anziani) cercano conforto nell’ex colonia ormai in pieno sviluppo, abbandonando un Paese che manifesta la sua decadenza anche nel non saper gestire i suoi pensionati (di delocalizzazione della vecchiaia parla non a caso Sonny, dicendo che «sono molti i Paesi in cui i vecchi non li considera nessuno»); l’altra è il fatto che i sette protagonisti sono degli anziani, categoria a cui il cinema si rivolge sempre più spesso, e anche se non siamo dalle parti di Settimo cielo o di Intramontabile effervescenza , vedere che gli anziani possono, almeno in un film, darsi la possibilità di superare la crisi economica o gli acciacchi fisici o una crisi matrimoniale piuttosto che di (ri)trovare le persone importanti, quindi gli affetti profondi, cambiando ambiente, occupazione e compagnia, è qualcosa che fa bene al cuore. Paola Brunetta
I GIORNI DELLA VENDEMMIA Marco Righi Regia e sceneggiatura: Marco Righi. Fotografia: Alessio Valori. Montaggio: Marco Righi,Arianna Bardizza. Musi- ca: Roberto Rabitti. Scenografia e costumi: Giorgia Mandriani. Interpre- ti: Lavinia Longhi (Emilia), Marco
D’Agostin (Elia), Gian Marco Tavani (Samuele), Maurizio Tabani (William), Claudia Botti (Maddalena), Elide Bertani (nonna Maria), Luigi Gandolfi (Giovanni), Rossella Torri (l’amica di Maddalena), Claudio Binini (l’amico di William), Emiliano Bisegna (l’amico di Samuele). Produzione: Simona Malagoli per Ierà. Distribuzione: Ierà/indipendenti regionali. Durata: 80’. Origine: Italia, 2010. è l’opera prima del ventottenne Marco Righi, realizzata con un budget irrisorio e distribuita solo dopo un lungo percorI giorni della vendemmia
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so festivaliero cominciato a San Giovanni Valdarno e terminato ad Amburgo, passando, tra gli altri, per Nashville e Montpellier, Londra e Città del Capo, nel corso del quale si è aggiudicata numerosi premi. La linearità della sua costruzione narrativa, che abbraccia pochi giorni del settembre 1984, non deve trarre in inganno. Il film presenta infatti una sua neppure tanto sotterranea complessità. Partecipa del romanzo di formazione, perché Elia, il protagonista, vi affronta il doloroso apprendistato virile a partire dal momento in cui la sua solitudine è interrotta dall’arrivo di Emilia, che dalla città si è trasferita in campagna dai nonni per scrivere la tesi di laurea e aiuta il ragazzo a vendemmiare per mettere da parte qualche soldo nella prospettiva di un viaggio. Apparentemente matura, disinvolta e sicura di sé fino alla sfrontatezza, inizia con lui il gioco della vanità e della seduzione, compiacendosi ambiguamente di un ruolo in qualche modo didattico ma non privo di venature di sadismo. Lontano eppure presente, Samuele, fratello maggiore di Elia,rimane per lui un solido punto di riferimento affettivo e culturale. Ha studiato a Bologna partecipando al movimento del settantasette, lavora come free lance per alcune riviste musicali cosiddette alternative, è sempre in viaggio e non si fa quasi mai vedere a casa e proprio per questo il suo fulmineo ritorno complica ulteriormente il groviglio emotivo di Elia, tanto più perché Emilia, che in precedenza aveva provato a intrecciare una
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fugace relazione con Samuele, gli rivela che in realtà è omosessuale. La famiglia di Elia è quella tipica della provincia rurale emiliana, versione don Camillo e Peppone aggiornata al compromesso storico: dunque, madre cattolica e padre comunista, ma senza traumi e ripicche, con lui che legge «L’Unità», piange Berlinguer ricordato in effigie dalla televisione, riportando alla mente una “questione morale”oggi più che mai d’attualità, ma è rispettoso dei riti devozionali di lei. Tutto si concentra nelle stanze di una tipica casa colonica della bassa e tra i filari di vigne di Lambrusco che da essa si dipartono, con qualche sconfinamento nelle stradine che costeggiano i canali di bonifica, talvolta sormontati dal “Pan di Zucchero” del Monte di Valestra, inconfondibile avamposto dell’Appennino, tanto lontano da apparire appena percettibile. A fare da filtro letterario e memoriale, la figura di Pier Vittorio Tondelli, evocata nel decisivo colloquio tra i due fratelli e la cui opera più nota, Altri libertini , compare come livre de che- vet in camera di Elia. Più che un film generazionale, I gior- ni della vendemmia è dunque una ricognizione nel paese straniero di un passato prossimo, non a caso quello in cui è nato il suo regista e sceneggiatore. Conseguentemente, è la commossa ma limpida rievocazione di radici geografiche e culturali, un atto d’amore nei confronti dell’Emilia contadina e socialista ma anche una presa di distanza da essa, con la mediazione dello scrittore correggese a dire della
necessità di leggere criticamente il proprio humus, della trasgressione come passaggio obbligato per la maturità, della spinta irrefrenabile verso la fuga, perché, come ha scritto Pavese, un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Delimitando volutamente lo spazio della messa in scena, il regista tratteggia con nitore e pudore i caratteri dei due protagonisti, l’evolversi del loro rapporto, i gesti e gli sguardi, le attese e gli smarrimenti, gli azzardi della fantasia e le timidezze del corpo. La sua è un’ottica limpida ed essenziale, che si esprime in inquadrature e movimenti di macchina accuratamente studiati e mai banali. Al di là degli inevitabili difetti di gioventù, I giorni della vendemmia è dunque un esordio tutt’altro che acerbo, non indegno dei tanti classici,letterari e cinematografici, che hanno affrontato gli assoluti e le fragilità dell’adolescenza. Paolo Vecchi
I PIÙ GRANDI DI TUTTI Carlo Virzì Regia, sceneggiatura e musica: Carlo Virzì. Soggetto: Andrea Agnello, Francesco Lagi, Carlo Virzì. Fotografia: Ferran Paredes Rubio. Montaggio: Simone Manetti. Scenografia: Roberto De Angelis. Costumi: Cristina La Parola. Interpreti: Claudia Pandolfi (Sabrina
Cenci), Alessandro Roja (Loris Vanni), Marco Cocci (Maurilio “Mao” Fantini), Corrado Fortuna (Ludovico Reviglio), Dario Cappanera (Rino Falorini), Claudia Potenza (Simona Vanni), Frankie Hi-Nrg Mc (Saverio), Francesco Villa (Armando), Niccolò Belloni (Alessio Vanni), Catherine Spaak (Esmeralda Reviglio), Vasco Rossi, Litfiba, Irene Grandi, Baustelle, Tre Allegri Ragazzi Morti, Red Ronnie (loro stessi). Produ- zione: Carlo e Paolo Virzì, Fabio Donvito, Marco Cohen, Benedetto Habib per Motorino Amaranto/Indiana Productions/Eagle Pictures/Rai Cinema .
Distribuzione: Eagle . Durata: 99’. Ori- gine: Italia, 2012.
È una sorta di ricatto morale quello che Carlo Virzì mette in atto nei confronti di noi spettatori e critici, analogo a quello che, nel suo film, mette in atto il giornalista musicale nei confronti dei componenti dei Pluto, una band degli anni Novanta che si riunirà dopo oltre dieci anni per tornare sul palco. Perché l’interesse dei temi, ma soprattutto il fatto che sia una delle poche commedie italiane a parlare di musica e che sia realizzata da musicisti, ci costringe a occuparci di un’opera che sul piano cinematografico in realtà è banale, scontata nei dialoghi e nei cliché che mette in scena, priva di spessore, insomma, e lontana dalla scrittura garbata ma socialmente incisiva del fratello. Nonostante il passaggio a Torino di quest’autunno, e nonostante il primo film del regista, L’esta- te del mio primo bacio , fosse tutt’altro che banale o edulcorato, com’è invece sembrato a qualcuno. Per cui potremmo accantonare la pars destruens e concentrarci sulla pars construens , a partire dell’oggetto dell’opera, la musica. Virzì è (anche) un musicista, che ha curato la colonna sonora di molti film del fratello e che, negli anni Novanta, ha suonato in una band che si chiamava Snaporaz, si è ricostituita per un concerto a Livorno nel 2007 e lo stesso farà il 19 aprile, per il compleanno dell’Hiroshima Mon Amour di Torino. Dario Cappanera, che interpreta Rino, è un chitarrista metal e ha scritto con Virzì i testi delle canzoni dei Pluto, poi cantate da Marco Cocci, che interpreta Mao ed è da anni il leader di un gruppo indie rock , i Malfunk. Claudia Pandolfi, Sabrina, aveva suonato molti strumenti ma mai prima di questo momento quello che usa nel film, il basso. E Frankie Hi-Nrg Mc recita una parte. Per cui sul modello di Quasi famosi (il neogiornalista rock in tour con la rock band tanto amata) ma con un occhio a Breakfast on Pluto che non è un film sulla musica ma che con la musica ha molto a che fare, Virzì costruisce dal di dentro questa che viene pubblicizzata come la prima commedia rock italiana, anche se per-
sonalmente, se devo pensare al rock e al suo spirito e significato, per l’Italia mi vengono piuttosto in mente Non pensarci o Tutti giù per terra o anche, con i dovuti distinguo, This Must Be the Place . Materiali resistenti. Poi i temi, dicevamo. Quello principale è il tempo che scorre, e in particolare il passato e la necessità o meno di rievocarlo e farlo tornare, nella diversa valenza che questo assume per i musicisti della band (per i quali salire di nuovo sul palco significherà riscatto dalle esistenze amare o vuote o monotone che si sono nel frattempo costruiti) e per il giornalista, che ha perso la sua ragazza nonché l’uso delle gambe in un incidente seguito all’ennesimo concerto dei Pluto a cui aveva assistito, e che ha evidentemente bisogno di riportare il tempo a quel momento per poterci andare oltre, in funzione catartica. E il tempo che passa sul piano generazionale: a vent’anni si aveva voglia di spaccare tutto, come dice Loris al figlio per spiegargli il significato del termine “rock”; a quaranta, come nota il giornalista, non si sa più chi si è e si prende al volo qualunque occasione per evadere dalla routine e sentirsi di nuovo vivi. Ma il tema più interessante è la riflessione che il film suggerisce sul rapporto tra realtà e finzione. Innanzitutto perché il giornalista “mette in scena” qualcosa che non è più vero, e forse non lo era nemmeno prima (gli episodi che racconta sul gruppo sono ben diversi da quelli reali); poi perché la band viene fatta esibire in uno studio di Cinecittà (nessun locale o club è
disposto a ospitarla) con le comparse pagate per fingersi entusiaste del concerto, entusiasmo che “arriva”ai musicisti a dire che la finzione paga, cioè che non importa se sia vero o meno, l’importante «è che funzioni». E poi per una ragione più complessa. I Pluto non sono mai esistiti, ma adesso in rete sono presenti un loro EP (le canzoni del film), le magliette, una pagina su Facebook e qualcos’altro che ho dimenticato, che è la stessa operazione che aveva fatto Franzen con il suo romanzo Libertà , parlando di una band, i Traumatics, che sono effettivamente in rete con un album che racchiude le canzoni di cui si parla nel libro, scritte da Franzen e Katz (il suo leader) e lanciate anche dalla compilation messa dallo scrittore su YouTube, con i brani «che Richard Katz potrebbe non odiare». E in entrambi i casi dei musicisti affermati sono stati chiamati a lodare la nuova band. Uso astuto della rete o selvagge operazioni di marketing, dipende dai punti di vista e dalla considerazione che si ha di questi nuovi mezzi (anche i Pluto, nel film, totalizzano ottocentoventisette visualizzazioni di un video del loro concerto fatto col telefonino); ma soprattutto un esempio della cultura convergente di cui parla Jenkins nel suo libro, cioè della compenetrazione dei diversi media e della conseguente nascita di nuovi modelli estetici, in cui il pubblico non più passivo ha la sua parte; e di come, con questi mezzi, la finzione può creare la realtà. Paola Brunetta
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GLI SFIORATI Matteo Rovere Regia: Matteo
Rovere. Soggetto: dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi. Sceneggiatura: Matteo Rovere, Laura Paolucci, Francesco Piccolo. Fotogra- fia: Vladan Radovich. Montaggio: Giogiò Franchini. Musica: Andrea Farri. Scenografia: Alessandro Vannucci. Costumi: Monica Celeste. Interpreti: Andrea Bosca (Méte), Miriam Giovanelli (Belinda), Claudio Santamaria (Bruno), Michele Riondino (Damiano), Massimo Popolizio (Sergio), Aitana Sánchez-Gijón (Virna), Asia Argento (Beatrice Plana),Ugo De Cesare (l’artista di strada), Chiara Brunamonti. Produzione: Ivan Fiorini, Domenico Procacci per Fandango/Rai Cinema. Distribuzione: Fandango. Durata: 111’. Origine: Italia, 2011.
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Non è la meglio gioventù quella che ci racconta Matteo Rovere nei suoi film: in Un gioco da ragazze i giovani dell’alta società della provincia benestante italiana, che frequentano le scuole private e che passano il tempo libero tra negozi di abbigliamento e feste in cui stordirsi con le droghe e con il sesso senza amore, in Gli sfiora- ti quelli dell’alta borghesia romana in crisi di identità perenne, sfiorati dalla vita perché incapaci di entrarvi, di stare dentro alla sua pienezza. E credo che l’accoglienza tiepida quando non negativa che hanno ricevuto i suoi film, al di là del valore effettivo che hanno, sia stata dovuta proprio a questo: una cosa sono gli adolescenti inquieti di Van Sant o di Dumont o di Assayas, diversamente motivati dal disagio sociale o familiare, dalle condizioni ambientali o da una crisi esistenziale a essere così complessi, un’altra sono le adolescenti di Un gioco da ragazze , che non hanno nessun motivo, se non la noia, per arrivare a fare del male. Ma è proprio questo il punto, la difficoltà ad accettare qualcosa che non riusciamo a spiegare con le categorie che abitualmente utilizziamo, e che preferiamo quindi non vedere. O il fatto di accettarlo
solo se inserito in un film d’autore, all’interno quindi di uno stile “alto”. Il fatto è che, appunto, Rovere con il suo secondo film ci vuole mostrare una tipologia di giovani “nuova”, o meglio: il libro di Veronesi da cui il film è tratto è del 1990 ed è ambientato nel 1988; Un mondo senza pietà (1989), uno dei riferimenti del regista, presenta già un personaggio di questo tipo; di società liquida (e quindi di indefinitezza, mutevolezza, indeterminatezza anche sul piano dell’identità personale) ci parla autorevolmente Baumann dall’inizio del millennio; ma quella degli “sfiorati”come di ragazzi lontani, distratti, che quando parli non capisci se ti stanno ascoltando e che vivono cose che gli altri nemmeno vedono, per usare le parole di uno dei personaggi del film, è una categoria sociologica disperatamente attuale, come sottolinea Veronesi quando parla dei multita- sking di oggi come di ragazzi ancora più “sfiorati”di quelli del suo romanzo, il terzo a essere stato portato sullo schermo dopo La forza del passato e Caos calmo . Ora la domanda è: ma Méte, il protagonista, è davvero uno “sfiorato” come fa intendere il finale del film, quando Bruno accosta il suo biglietto a quello di Belinda, dichiaratamente tale? O non è un ragazzo in preda a un pensiero amoroso, anzi incestuoso ossessivo, che lo fa uscire di casa a fare cose che altrimenti non farebbe, stare con Beatrice con cui altrimenti non starebbe, poggiare in modo assillante sui suoi amici? Lui che altrimenti starebbe a
casa, che sta sempre volentieri a casa, solo, e semmai il tratto problematico del suo carattere è questo, la timidezza e la tendenza alla solitudine, legate alla perdita della madre e all’imminente nuovo matrimonio del padre? In questo senso i rimandi sono semmai, più che a Gli indifferenti , a Lolita e ad American Beauty , che è esplicitamente richiamato; e Méte, interpretato da Andrea Bosca che ricordiamo in Noi credevamo , è un personaggio più wertheriano che moraviano, sfumato e vero nella sua difficoltà di vivere o meglio nel suo vivere in punta di piedi la vita, estraniandosi da essa e appoggiandosi ad amici più concreti di lui: Damiano, con l’erotismo che promana (il fuoco), e Bruno, con la solidità che cerca di mantenere nelle questioni pratiche da risolvere (la terra), mentre tenta di sfuggire all’ossessione d’amore incarnata dalla sorellastra, l’unico personaggio poco riuscito del film (l’acqua); lui, invece, è l’aria. C’è poi Beatrice, il prototipo della giovane donna che cerca l’amore ma che ne ha una gran paura, per cui si butta nella carriera e spaventa gli uomini che attira con i suoi racconti autoreferenziali, allontanandoli da sé. E c’è un padre vedovo che ha scelto di risposarsi con la donna che ama da vent’anni, sul cui matrimonio si apre e si chiude circolarmente il film. Con un lieto fine che sembra assurdo, la neo-famiglia felice che si allontana in auto cantando Più bella cosa sotto la pioggia dopo che Méte e Belinda si sono detti che «non è successo niente», affermazione
da prendersi probabilmente come ironica se non grottesca, non comunque nel significato letterale. Rovere gira abbastanza bene anche se con un’estetica da videoclip , la sceneggiatura regge (vi hanno collaborato Paolucci e Piccolo), gli attori sono bravi (Riondino, Santamaria, Giovanelli, Argento e appunto Bosca), musica e fotografia sono buone. Ma nel film c’è qualcosa che non tiene, un che di irrisolto che sta forse nella mancanza di profondità, e di intensità, del regista stesso. Che forse è simile, in questo, ai personaggi che presenta. Paola Brunetta
THE RAVEN James McTeigue Titolo originale: id. Regia: James McTeigue. Sceneggiatura: Hannah Shakespeare, Ben Livingstone. Foto- grafia: Danny Ruhlmann. Montaggio: Niven Howie. Musica: Lucas Vidal. Scenografia: Roger Ford. Costumi: Carlo Poggioli. Interpreti: John
Cusack (Edgar Allan Poe), Luke Evans (l’ispettore Emmett Fields), Alice Eve (Emily Hamilton), Brendan Gleeson (il capitano Charles Hamilton), Oliver Jackson-Cohen (l’ufficiale Cantrell), Jimmy Yuill (il capitano Elderidge), Brendan Coyle (Reagan), Kevin McNally (Henry Maddox), Pam Ferris (la signora Bradley), Dave Legeno (Percy), Ana Sofrenovic (lady Macbeth), Sam Hazeldine (Ivan), Adrian Rawlins (il dottor Clements), Michael Shannon (il dottor Morgan), John Warnaby (Griswold). Produzio- ne: Marc D. Evans, Trevor Macy, Aaron Ryder, Richard Sharkey per Intrepid Pictures/FilmNation Entertainment/ Galavis Film/Pioneer Pictures/ Relativity Media. Distribuzio- ne: Eagle. Durata: 111’. Origine: USA / Ungheria/Spagna, 2012. Scrittore e poeta ossessionato e malinconico, precursore del decadentismo nonchè vittima di fantasmi e angosce personali: Edgar Allan Poe era questo e
molto altro ancora, unanimemente riconosciuto come il padre della moderna letteratura horror e poliziesca, ma anche autore (in questo dimenticato, purtroppo) di importanti saggi di stampo comico e satirico. Peccato però che di questa complessità nel film di James McTeigue sia rimasto ben poco, riducendo la sua figura a quella di un umorista (?) perennemente alticcio e dalla battuta sempre pronta. Non che la verosimiglianza storica debba rappresentare una regola inattaccabile, ma dispiace non poco che si sia scelta la strada più facile, quella dell’immedesimazione tra il protagonista e lo spettatore: quindi The Raven risente indubbiamente del felice esito commerciale dei due Sherlock Holmes di Guy Ritchie, dove il classicissimo investigatore di Baker Street si trasformava in un funambolico James Bond ante litteram, contaminato da suggestioni vagamente cyberpunk. Con la differenza, però, che il succitato dittico risultava molto più onesto nella sua (unica) ragion d’essere: quella di rivelarsi semplicemente un prodotto di intrattenimento natalizio, senza troppi danni nei confronti dell’intelligenza dello spettatore. The Raven sembra ruotare intorno a intuizioni tutt’altro che puerili o banali: lavorare su un immaginario letterario ben consolidato per poi metterlo completamente in discussione, mescolando tra di loro i differenti piani di realtà e finzione per arrivare, in conclusione, a riflettere sulla mitologia stessa scaturita dalle pagine di Poe.Tutto il film, infatti, è disseminato di rimandi e citazioni all’influenza che lo scrittore di Boston ha avuto sull’immaginario popolare, pagando pegno soprattutto al celebre ciclo di pellicole di Roger Corman (tra gli altri, in particolar modo Il pozzo e il pendolo e Sepolto vivo ) e trasformando l’Artista in un ideale trait d’union tra il passato e il presente della tradizione gotica americana. In più, non si può fare a meno di sottolineare la dimensione teorica dell’assunto, nel quale si immagina una serie di delitti ispirati proprio ai racconti dello scrittore, dapprima sospettato e poi chiamato come consulente nelle indagini. Ed è proprio nelle motivazioni dell’assassino che risiede, almeno nelle
intenzioni degli autori, il significato del film: in quel monologo così smaccatamente esplicito da sfociare inevitabilmente nel didascalismo, dove nulla è lasciato sottintendere e tutto viene spiegato quasi parola per parola. Ma sembra un sotterfugio troppo facile per non destare sospetti sulla natura intera dell’operazione, che a conti fatti risulta un compitino fin troppo diligente; questa rilettura dei classici di Poe, filtrata attraverso un vedere e un sentire di matrice contemporanea, si ferma sempre sulla superficie e non si trasforma mai in una vera e propria dialettica ipertestuale: a differenza di quanto accadeva invece con V per Vendetta , dove alla potenza del racconto di Alan Moore si affiancava un utilizzo decisamente più consapevole degli elementi esterni alla vicenda (immagini di repertorio; rimandi sociali, culturali e politici). Al punto da far sorgere il sospetto che la riuscita di quel film sia forse da attribuire più ai fratelli Wachowski che non a McTeigue stesso: il quale stavolta non sembra in grado di gestire in maniera personale il bagaglio culturale preesistente intorno al quale si muove The Raven , limitandosi pertanto a contenerlo entro i confini canonici di un moderno gotico d’azione, che sul piano visivo nulla aggiunge a quanto già visto altrove ( From Hell ) e abbandona per strada quegli stimoli e suggestioni che sembravano caratterizzarlo in un primo momento. Giacomo Calzoni
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FOCUS
IL CASTELLO
UN VIAGGIO SCOMODO, SOTTO L’OCCHIO DI UN MODERNO PANOPTICON Sergio Di Giorgi 3 1 5 m u r o f e n i c 40
Quasi all’inizio di Il castello , c’è una lunga, quasi ipnotica, sequenza: qualcuno guida un mezzo zigzagando tra piste di asfalto innevate, sembra di stare nella cabina di pilotaggio di un aereo, ma poi ci rendiamo conto che è solo un furgoncino che fa il giropi-
sta di controllo, incrociando i veri aerei, appena arrivati. È una sequenza che indica un patto preciso che D’Anolfi e Parenti fanno con lo spettatore: condividere uno sguardo spiazzante per un viaggio dalle coordinate spazio-temporali stranianti che non promette il
massimo comfort possibile sin dal decollo, ma anzi induce un po’ di disagio, già nel prologo di immagini fisse da un luogo asettico, freddo, metallico, inquietante. Di notte, la torre di controllo veglia su tutto e tutti (anche se dopo la tragedia di Ustica, le torri sono passate dal controllo militare a quello dell’aviazione civile); un artificiere, che sembra uscito da The Hurt Locker (id., 2009), attraversa la scena e avvolge con una coperta una valigia abbandonata, forse è solo una esercitazione ma l’esplosione si sente, eccome, sul nero di una didascalia che avverte che è inverno, tempo di arrivi. Il film infatti – girato nel corso di un anno all’aeroporto di Malpensa, dal dicembre 2009 al novembre 2010, e il cui montaggio segue la reale cronologia delle riprese – si articola in quattro movimenti che seguono il succedersi delle stagioni: gli arrivi invernali, con i
diversi tipi di controlli; la primavera, dove scopriamo altre procedure di sicurezza, anche all’esterno dell’aeroporto, dalla “caccia” agli animali alla formazione degli addetti alla prevenzione di minacce o attentati; l’estate, la rottura del meccanismo, il tempo dilatato dell’attesa, l’incontro con Milietta (episodio che viene raccontato solo attraverso i suoi gesti, senza una parola); infine l’autunno, tempo di partenze, quando le persone vengono espulse dall’aeroporto. L’unico aereo che si vede volare nel film è quello della sequenza finale: trasporta un rifugiato nigeriano al quale viene rifiutata la richiesta di asilo, che non ha nessuna intenzione di tornare in Nigeria, ma che viene costretto a imbarcarsi. È la fine dell’accoglienza. Del resto, un aeroporto intercontinentale come Malpensa è il crocevia strategico di tutti gli agenti istituzionali e non (servizi segreti italiani e stranieri, polizia, ordinaria e di frontiera, Guardia di Finanza, guardie giurate, cani antidroga, antivaluta, antiesplosivo, eccetera eccetera) preposti alla sicurezza e dunque al controllo su cui essa si fonda; controllo in primo luogo visivo, fondato sull’occhio sempre acceso di torri, telecamere, monitor, apparecchi per il body control ; ma anche tattile, acustico, olfattivo (il film ne offre ampie casistiche). La torre di controllo è il gigantesco e multietnico Panopticon del mondo terrorizzato post 11 settembre (quello dove hanno preso via via maggior potere i “ministri della paura”, come, in Italia, un comico molto “serio” come Antonio Albanese ha saputo ben raccontarci). Come è noto, il celebre modello di edificio a struttura circolare ideato alla fine del Settecento dal filosofo sociale inglese Jeremy Bentham e applicato da allora soprattutto alle moderne prigioni, consentiva ai controllori di osservare contemporaneamente diverse persone, o addirittura tutte, senza che queste ne fossero consapevoli. Negli ultimi due secoli, le strategie e le tecniche per “sorvegliare e punire” si sono via via molto affinate e diversificate, ma di recente la diffusione delle tecnologie di massa e dei loro meccanismi e dispositivi visivi (tra cui gli innumerevoli schermi, display, video e telecamere che affollano il mondo contemporaneo) ha reso il quadro più ambiguo: infatti è proprio lo sguardo dei “controllati” (che si convincono di essere sempre visibili o almeno vedibili ) a rafforzare e alimentare la pervasività sociale del controllo e le sue logiche di obbedienza e disciplina. Per questo il film rivela il “set Malpensa”(ma lo stesso varrebbe per Schiphol o Charles de Gaulle) per ciò che – pur se invisibilmente agli occhi dei distratti passeggeri – è: un concentrato poliziesco, una claustrofobica trappola tecnologica che lega indissolubilmente chi osserva e chi è osservato. La camera dei due filmmaker include in un unico sguardo controllori e controllati, come nelle scene delle perquisizioni e delle
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radiografie che scoprono i traffici della droga dentro i corpi stessi delle persone; poi si addentra nei meccanismi, persino nei più minuti ingranaggi, di questo sistema relazionale mirato al controllo securitario, cercandone (vedi intervista a fianco) le crepe, le faglie, anche ironiche, gli anelli mancanti, come nella sequenza, iperrealista, dei controlli antidroga svolti da specialisti in camice bianco su aragoste e tartarughe. D’Anolfi e Parenti sono ben consapevoli che filmare è comunque un “atto di violenza” e che la messa in scena dichiarata rende i gesti e i rituali di quei controlli, certo necessari ma quasi sempre asimmetrici in termini di potere, solo in apparenza meno duri e più “umani”. Ma, anche in questo film, a loro non interessa giudicare i buoni e i cattivi, quanto piuttosto trovare, tra la folla confusa e le pieghe, spesso nascoste, dell’organizzazione, storie e persone da raccontare, al di là dei loro ruoli, al di qua dei nostri stereotipi . IL CASTELLO 3 1 5 m u r o f e n i c 42
Regia, sceneggiatura, montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti. Fotografia: Massimo D’Anolfi. Musica: Massimo Mariani. Produzione: Montmorency Film/Rai Cinema/Lines. Durata: 90’. Origine: Italia, 2011.
Presentato in anteprima mondiale al Festival Internazionale Vision du Reèl di Nyon e invitato in tutti i maggiori festival
internazionali di cinema ha sinora ottenuto: il Premio Speciale della Giuria al Festival Internazionale Hot Docs di Toronto, il Premio Speciale della Giuria all’ EIDF di Seoul, Premio per la miglior fotografia agli International Documentary Awards di Los Angeles, il Premio Speciale della Giuria a Italiana.Doc e il Premio Avanti al Torino Film Festival, il premio AAMOD Doc/it Award, il Premio Arci Doc a Visioni Italiane di Bologna, il Premio Miglior Documentario a Tremblay – Terre di Cinema. Il film è stato venduto in tutto il mondo: Italia, Canada, Finlandia, Polonia, Messico, Israele, Francia, Germania, Corea eccetera.
NOTE BIO-FILMOGRAFICHE Massimo D’Anolfi è nato a Pescara ed è videomaker dal 1993. Ha scritto la sceneggiatura del film Angela di Roberta Torre, presentato alla Quinzaine des Réalizateurs a Cannes nel 2002. Nel 2003 ha realizzato cinque documentari radiofonici per Radio RAI3. Si torna a casa, appunti per un film (2003) è stato selezionato al Torino Film Festival e Play (2004) al Festival dei Popoli di Firenze. Martina Parenti lavora per il cinema e la televisione come documentarista. Nel corso degli ultimi anni ha realizzato documentari proiettati e premiati in vari festival.Tra i quali L’estate di una fontanella (2006), selezionato al Bellaria Film Festival e Animol (2003), presentato a Filmmaker Film Festival. Ha realizzato programmi televisivi tra cui School in Action (2006), L’apprendista stregone (2002). Nel 2006 ha diretto un episodio del film collettivo Checosamanca . Insieme, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno realizzato I promessi sposi (2007) (presentato in prima mondiale al Festival del film di Locarno, sezione Ici & Ailleurs e premiato al Festival dei Popoli, Firenze, e a Filmmaker, Milano), Grandi speranze (2009) (anch’esso presentato in prima mondiale al Festival del film di Locarno, sezione Ici & Ailleurs) e Il castello (2011), presentato e premiato in numerosi festival internazionali.
DARSI UN TEMPO, SAPER ASPETTARE, PER TROVARE NEI PICCOLI GESTI COSE PIÙ GRANDI Intervista a Massimo D’Anolfi e Martina Parenti Nell’arco di pochi anni, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno dato vita a un sodalizio, non solo artistico, che ha già realizzato tre opere assai illuminanti sull’Italia di oggi: I promessi sposi (2007), Grandi speranze (2009), Il castello (2011). Sono tre documentari che indagano il rapporto tra le persone e i cittadini da una parte, l’Autorità e il Potere dall’altra, ed esplorano i diversi strati, dai più superficiali ai più nascosti e profondi di cui si compone ogni cultura, dunque anche la nostra. Un viaggio, quello di D’Anolfi e Parenti, ora dentro ora fuori del nostro Paese (ma da ultimo, con Il castello, al tempo stesso dentro e fuori il nostro Paese) che ha anche il merito
di far incrociare spesso gli sguardi – e i rispettivi immaginari – tra noi e loro , gli “stranieri”. Il viaggio ha inizio con I promessi sposi tra i simboli e i linguaggi della burocrazia impiegatizia, come sempre per lo più ottusa e ignorante, e le narrazioni dell’ipocrisia clericale con cui si scontrano – tra uffici municipali e parrocchie di cinque città diverse, del Sud, del Nord e del centro Italia – coppie in procinto di sposarsi, anch’esse assai differenti (quasi sempre coppie miste, per razza, età, background sociale). Prosegue poi con Grandi speranze , che pone sotto esame i riti e i cosiddetti valori dell’impresa italiana: i due registi inseguono infatti, tra l’Italia e la Cina, alcuni giovani imprenditori
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nostrani (figli d’arte, ma ancora ignari della crisi incombente), i quali – tra seminari motivazionali dove si forgiano i “leader del futuro”, velleitari tentativi di investimento, frustranti e improbabili riunioni di lavoro con i collaboratori cinesi – rivelano un imbarazzante mix di arroganza e inconsapevolezza culturale. Infine, giunge a una sfida più alta, quella che con Il castello (vedi box a fianco) li ha spinti a trascorrere un anno intero dentro l’aeroporto internazionale di Malpensa, mostrandoci le procedure , per lo più ripetitive e ossessive, del controllo e della sicurezza messe in atto dai loro numerosi agenti, civili e militari. Così, i due finiscono per analizzare un’altra dimensione culturale oggi assai cruciale – anche sul piano delle scelte sociali, economiche, organizzative – come il rapporto con l’ incertezza : dunque con quanto devia dalla norma, dallo standard procedurale, dal conosciuto e dal prevedibile, ed è perciò – persona o cosa o idea che sia – diversa, innovativa, o piuttosto, strana, o straniera. Insieme, in questi anni, D’Anolfi e Parenti hanno esplorato luoghi e istituti sociali come forse nessuno tra i filmmaker italiani contemporanei, rivolgendo la propria attenzione più che alle forme , alla “meccanica” del potere: strutture, processi, meccanismi interni. In questo hanno voluto e saputo applicare la lezione del loro
autore di riferimento, il grande e sempre attivo documentarista statunitense Frederick Wiseman, che ha dedicato la sua opera a raccontare dall’interno diverse istituzioni del suo Paese (manicomi criminali, ospedali, tribunali, caserme, ma anche le famiglie e le scuole),cercando di svelarne gli aspetti violenti e irrazionali. Nel solco del “cinema d’osservazione”, D’Anolfi e Parenti hanno affermato una poetica visiva e una idea di messinscena personali e rigorose, cercando di evitare ogni collusione con, o peggio ancora, ogni identificazione emotiva dello spettatore: attraverso, tra l’altro, un uso marcato di piani-sequenza o della camera fissa, posizionata però quasi sempre in modo obliquo o “sulla soglia”, o di immagini non di rado filtrate da vetrate, specchi, e altri display. In questo senso, il loro è uno sguardo lucidamente “saggistico” senza mai essere neutro o disincantato, piuttosto sempre pronto all’ironia, a volte scoperta, spesso più ambigua e sottile (ironica è del resto anche la scelta di celebri riferimenti letterari per i titoli dei loro film); uno sguardo dunque, a detta loro, politico proprio in quanto ironico. – Non so quale sia la vostra opinione al riguardo, ma a mio avviso Il castello presenta un livello ben maggiore di difficoltà e complessità rispetto alle prime
due opere, sul piano sia narrativo che stilistico: penso alla scansione del film nelle quattro stagioni dell’anno, a una camera e a un montaggio comunque più mobili nel cercare e nell’alternare i punti di vista, al lavoro sul sonoro, ma anche sulle pause e i silenzi, in un film che è in effetti assai meno parlato degli altri due, e dove l’ironia mi pare lasci spazio a uno sguardo più assorto e malinconico…
– In realtà, crediamo che fra i tre film siano più le costanti, e non solo sul piano produttivo, che le differenze. Certo, per Il castello , la natura del soggetto – la scelta di raccontare un luogo complesso e una frontiera molto ambigua, sfuggente, spesso ingiusta – ci ha permesso una maggiore esplorazione sul piano della ricerca stilistica, in particolare sull’immagine. Del resto, su novanta minuti, settanta sono praticamente senza parole… Se rivediamo il film e lo paragoniamo agli altri due, forse è vero che ci siamo un po’ incupiti. Ma già il terzo episodio di Grandi speranze [quello che mette in mostra le difficoltà o i veri e propri “incidenti” di comunicazione interculturale di un giovane imprenditore italiano in Cina, ndr], sia per lo stile che per la vena malinconica che lo pervade era quasi un prologo di Il castello . E comunque Grandi speranze a sua volta era meno ironico e allegro di I promessi sposi , dove l’ironia, quasi una chiave da commedia, era più programmatica, e dove avevamo poi trovato una figura come don Emilio, un sacerdote che a Pescara è un personaggio pubblico e che tiene da tanti anni dei seguitissimi corsi prematrimoniali… C’è da dire che sì, dopo I promessi sposi abbiamo voluto alzare il livello dell’asticella, della sfida. Quel film ci era anche riuscito un po’ troppo facilmente, e allora forse abbiamo deciso di cambiare direzione. Comunque, anche in Il castello ci sono diversi momenti ironici: pensiamo agli uomini della sicurezza che imitano i versi degli uccelli, o alle scene dei controlli sugli animali da parte dei veterinari in camice bianco; altre cose che avevamo girato, come gli episodi del controllo di valuta, con tante persone che nascondono le banconote nei posti più imprevedibili, erano molto divertenti, ma poi abbiamo preferito non inserirle nella versione finale, perchè non legavano bene con l’andamento narrativo e con la tonalità complessiva del film. Forse quell’ironia che nei primi due film ci era servita come uno strumento, qui era più difficile da usare, la realtà era più complessa, era più difficile trovare la giusta posizione, la giusta distanza.
il nostro soggetto è sempre scarno, ci serve per chiarirci un po’ le idee e per trovare un qualche sostegno produttivo. È un lavoro al tempo stesso di accumulo e sottrazione: accumuliamo molto all’inizio, poi man mano lavoriamo per sottrazione. La scelta dell’aeroporto è stata per noi casuale, ma sicuramente è il frutto di un processo creativo interiore e si è rivelata davvero interessante proprio rispetto a questo nostro approccio: l’aeroporto è il luogo per antonomasia della procedura, qualsiasi evento segue una procedura precisa. Invece, il nostro intento e la nostra sfida erano, anche qua, stare in mezzo ai meccanismi per trovare le crepe della procedura, le crepe del Potere. Come nella scena dell’astice che cerca di uscire da una scatola che il veterinario non riesce a chiudere. Per noi si tratta di una simbolica piccola crepa. – Ma come siete riusciti a entrare prima e poi a orientarvi dentro un’ organizzazione così complessa?
– Abbiamo chiesto i permessi, pensavamo che non ce li avrebbero mai accordati. Invece la SEA ci ha detto subito sì dopo pochi giorni, e ci hanno assegnato una persona addetta a seguirci. Ma non avevano fatto i conti con la quantità di tempo che noi avremmo investito e che invece l’aeroporto non si poteva permettere di “perdere” andando dietro a noi. In breve tempo, siamo rimasti soli. D’altra parte, a volte può essere utile e interessante “assecondare” il narcisismo di chi ha il potere – come è successo con i giovani imprenditori per Grandi speranze – perché anche questo può creare un’apertura, può svelare appunto le crepe.
– Nemmeno il vostro amato Frederick Wiseman ha mai pensato di mettere in scena un aeroporto interconti- nentale , voi siete stati là addirittura per un anno intero… Come è nata l’idea e che tipo di film avevate in mente?
– Molte cose non le abbiamo decise a priori, in realtà scriviamo davvero il film mentre lo facciamo: questo è stato da sempre il nostro approccio. In partenza 45
Abbiamo avuto la fortuna, o forse lo abbiamo fatto un po’ per istinto, di iniziare le riprese con la figura del caposcalo (ovviamente è un ruolo h24 e quindi erano persone diverse che si alternavano). È la figura-chiave dell’aeroporto, anche se sta in un piccolo stanzino parlando sempre al telefono. Attraverso questa figura abbiamo capito l’organizzazione e il funzionamento di tutto l’aeroporto, cosa facevano i vari reparti e le persone che vi lavoravano. Ma nel film non c’è il caposcalo, ci sarebbe stato magari se fosse accaduta una disgrazia… Nei nostri film non c’e la ricerca dell’evento irripetibile , la costruzione del film segue altre strade. È sempre una questione di metodo: la capacità di attesa che ci consente di cercare e di trovare nei piccoli gesti delle cose più grandi senza avere bisogno di cli- max narrativi. – In effetti, la capacità di darvi tempo e di “stare in attesa” nei luoghi sembra una costante del vostro lavoro e anche del vostro metodo…
– Sì, per noi che siamo piccoli, il tempo è l’unica forza: la costanza, il saper aspettare senza spazientirsi e anzi restando sempre fiduciosi che qualcosa prima o poi arriverà, se non sai cosa arriverà, o che quelle cosa che conosci e attendi arriverà. – Saper “presentarsi all’appuntamento”, per citare il titolo dell’edizione italiana di una raccolta di saggi di John Berger… Anche all’incontro con persone specia- li, come accade, sempre in Il castello, con Diego, e soprattutto, con Milietta.
– Innanzitutto vogliamo chiarire che noi, prima di girare, chiediamo sempre i permessi alle persone, che possono dirci di sì o di no. Detto questo, sì, Diego e Milietta sono due figure fondamentali del film e in qualche modo incarnano, anche se in maniera opposta, il nostro approccio. Diego [un giovane paraguayano che viene scoperto a trasportare ovuli di droga, ndr] è un incontro casuale e breve, tutto avviene in quel momento, ti giochi tutto là. In quei mesi a Malpensa abbiamo visto e ripreso molti di questi cosiddetti “ovulatori”ma nel montaggio abbiamo scelto Diego per tante cose che lui assommava in sé: la sua faccia, lo sguardo, i piccoli gesti come il suo modo di alzare il bavero del colletto che ci ricordava molto il personaggio di Pickpocket di Bresson. Milietta invece è una donna di circa settantacinque anni che per scelta “abita” nell’aeroporto da sei anni; vive in una sua bolla, per lo più notturna. È una cittadina italiana che è stata respinta dalle Mauritius dove vorrebbe tornare, ma i cavilli burocratici non glielo permettono. Malpensa è il posto più vicino a dove lei vorrebbe andare… La sua è dunque una rivolta tanto silenziosa quanto dignitosa. È sicuramente una figura eccezionale, anche rispetto ai film precedenti, pensiamo a don Emilio di I promessi sposi o agli imprenditori di Grandi speranze , che si mettevano in scena in spazi pubblici. Milietta invece ha fatto di un luogo pubblico per eccellenza il suo spazio più privato, la sua casa; però è consapevole del fatto che non è la sua casa, che lei è un’ospite, in certo senso una clandestina, e quindi tratta tutto con la massima cura. – In questo senso Milietta rappresenta forse la “crepa” del sistema più profonda nella quale vi siete imbattuti… e mi sembra una figura emblematica del vostro approccio, anche sul piano etico, al cinema documentario. Ma come siete riusciti a entrare in rela- zione con lei?
– La sfida era quella di ottenere la sua fiducia. Con persone come lei conta sopratutto l’onestà: la prima cosa che le abbiamo detto è che non doveva farsi illusioni sul fatto che tramite il film sarebbe potuta tornare alle Mauritius, e che anzi avremmo fatto il possibile per non crearle ulteriori problemi. La prima cosa che invece lei ci ha detto è stata: «Non sono una barbona». C’è un episodio che ha rappresentato la svolta del nostro rapporto con lei: è stato quando un giorno non funzionava il fornellino, la presa all’interno del bagno dell’aeroporto era guasta, e Milietta non si volta verso di noi, ma, come se nulla fosse, va fuori a cercare un’altra presa funzionante: in quel momento abbiamo capito che la fiducia c’era, e che lei sarebbe stata un personaggio importante del film. Allora abbiamo filmato anche altre cose, la tintura dei capelli, il lavaggio dei panni, la chiesa, la sua uscita all’esterno dell’aeroporto… 46
– E per contro, nel vostro aeroporto non si vedono i normali passeggeri, o gli equipaggi, o i duty-free, insomma chi attraversa questo luogo in maniera fret- tolosa…
– L’idea era quella di fare un film su un luogo che è un luogo corale, ma dove normalmente si passa molto rapidamente, senza attenzione, cercando invece delle vite, delle storie, nella loro verità. – Milietta è una figura vera e reale, anche se parla solo con i suoi gesti, sembra quasi un personaggio di finzione, come se noi spettatori, almeno questo è acca- duto a me, volessimo sapere di più, del suo passato, del suo futuro, penso proprio in particolare a quella sequenza in cui la vediamo uscire fuori… – Quella sequenza è stata un’eccezione anche per noi, che non chiediamo mai alle persone di fare qualcosa di diverso dai loro gesti abituali. Lei quasi ogni sera, per suoi motivi personali, legati a ricordi ma anche come un gesto di raccoglimento e di preghiera, va a fare una breve passeggiata appena fuori dall’aeroporto. A noi non piaceva filmarla in quel posto che non restituiva la forza del suo gesto; allora una sera le abbiamo chiesto se voleva andare in un altro posto, sempre appena fuori dell’aeroporto
che lei non conosceva, ma che per noi traduceva meglio il suo raccoglimento; lei ha accettato e il posto le è molto piaciuto… Ora è diventato uno dei suoi spazi preferiti.
– Veniamo agli aspetti produttivi. Voi difendete la vostra autonomia, dalla scrittura alla realizzazione, e anche per questo i vostri sono film low budget . I tanti premi ricevuti da Il castello [vedi box a fianco] potreb- bero cambiare qualcosa?
– È vero, facciamo tutto da noi, dalla scrittura alle riprese al montaggio finale. L’unico collaboratore esterno per il suono e le musiche è il compositore Massimo Mariani. Ma non è solo per esigenze di contenimento dei costi di produzione, è una scelta profonda e ragionata: crediamo che sia giusto così ed è il nostro modo ideale di fare film. In questi anni abbiamo avuto come costante l’aiuto della Lines, per gli ultimi due film anche quello di Rai Cinema, e comunque, dal 2008 abbiamo deciso di fare una società nostra. L’espressione “basso costo” oggi ci sembra una cosa paradossale e anzi a volte demenziale: spesso si fanno film documentari in due, tre mesi, però non si paga nessuno e si dice «Ho fatto un film a basso costo», quasi fosse un’etichetta di prestigio.
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Il castello è stato fortunato, ha vinto numerosi premi, è stato acquistato in tanti Paesi, Finlandia Polonia, Repubblica Ceca, in Corea. Noi abbiamo la consapevolezza di aver fatto il nostro dovere, ma pensiamo anche che i film sono fatti per essere visti dal pubblico, non per girare solo i festival specializzati. In questo senso constatiamo un “fallimento”.
– Eppure, lo scorso marzo, siete riusciti a sbarcare in una sala, sia pure indipendente ed “eccentrica” come il Mexico di Milano. La sera della prima – che era anche un evento particolare, organizzato per la presentazione del nuovo numero della rivista online «Filmidee» – la sala era sold out ; poi siete rimasti per un paio di setti- mane in programmazione, ma pomeridiana, serale solo il lunedì, peraltro con discreti risultati. Nonostante il proliferare di produzioni e di festival specializzati, il documentario in Italia non riesce ad approdare in sala, se non in casi sporadici ed eccezionali… 3 1 5 m u r o f e n i c 48
– Purtroppo è così. In Svizzera, in Francia, in Canada, i documentari arrivano in sala… L’Italia, come è noto, non è un Paese per documentaristi, è un problema di fondo del nostro sistema cinematografico. Eccezioni come la nostra, riuscire a essere visti in una
particolare sala milanese, non servono a invertire la tendenza, anche se certo siamo stati contentissimi di incontrare un vero pubblico… Ma, a essere onesti, il peggioramento sul piano produttivo e soprattutto della distribuzione si avverte in tutta Europa, nonostante la qualità media dei documentari sia ancora molto elevata. In realtà a imporsi è un modello di documentario – basato principalmente su interviste e ricostruzioni – che è un format più televisivo. È questo che sta diventando l’unico linguaggio codificato e riconosciuto, e chi sta fuori da questo modello è come se non esistesse… – Nonostante questa consapevolezza, mi sembra che anche per il vostro prossimo progetto abbiate deciso di continuare in “direzione ostinata e contraria”…
– Non ci piace parlare dei film prima di averli finiti. Ti diciamo solo che al Festival di Trieste abbiamo vinto il Premio Corso Salani per lo sviluppo, e che proveremo a raccontare un luogo di guerra in tempo di pace e che lo spazio del film sarà un poligono sperimentale nel sudest della Sardegna. (Intervista a cura di Sergio Di Giorgi )
I COLORI DELLA PASSIONE
FOCUS
LA FORZA DEL PASSATO Alessandra Mallamo Sui prodigiosi effetti che scaturiscono dalla visione di I colori della Passione si è molto scritto, l’opera di Lech Majewski è infatti tutta incentrata sull’estrema spettacolarizzazione degli elementi figurativi presenti nel capolavoro di Bruegel il Vecchio che mette al centro della narrazione, La salita al Calvario del 1564. Spettacolo s’intende nel senso positivo di stupore di fronte alla vista di corpi che prendono tridimensionalità rispetto allo sfondo, e di sfondi in cui si scoprono caverne profondissime, attraversate da scale in legno così surreali e sospese da appartenere piuttosto a un quadro di Escher. L’uso della grafica digitale è massiccio ma è altrettanto calibrato, soprattutto rispetto all’evidente esigenza di non uscire mai dal quadro, cioè di mantenere ben salda la natura bidimensionale dell’immagine
facendola al contempo interagire con la nuova prospettiva di visione che il regista inventa. Su questo punto bisogna ammettere che l’autore polacco ha elaborato trovate davvero originali per restituire il complicato sentimento dello spazio che il quadro già possiede a livello ottico e concettuale. Una di queste a pochi minuti dall’inizio, dove è inserita una ripresa in plongée dall’alto del punto più alto del dipinto oltre le pale del mulino, uno dei principali elementi della composizione pittorica che svetta al centro sullo sfondo, l’inquadratura taglia il piano della tela svelando in perpendicolare un’inaspettata vastità orizzontale. Ma è soprattutto il lavoro sul suono che riesce a trasformare la superficie dipinta in immagine cinematografica senza tuttavia snaturarla: prima di giungere in cima al mulino, la macchina da presa muove dall’in-
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terno della montagna sopra la quale esso è posto; per arrivarci segue un giovanotto che sale per le scale nel silenzio assonnato del mattino, il rumore dei cui zoccoli di legno rimbomba nella caverna; più quello si allontana più il luogo s’ingigantisce. L’effetto doppler si ripete nei passi, assai più terribili, dei cavalli spagnoli che arrivano da lontano; i soldati che li conducono colpiscono all’improvviso e con cieca crudeltà gli inermi abitanti del villaggio che anche per questo motivo diventeranno i protagonisti della passione reinterpretata da Bruegel. Eccetto i rumori del vivere di ogni giorno, dove anche le urla di dolore e le lacrime sono diventate cosa quotidiana, l’opera è estremamente silenziosa, intervallata unicamente dalle parole sofferte di Maria, dallo sdegno del banchiere interlocutore di Bruegel e dalle spiegazioni dello stesso artista sul senso e la logica della sua opera. Il limite del film sta in una certa rappresentazione di maniera: si percepisce un’enfasi nella messa in scena di certi personaggi che a tratti rischia di diventare ridicola, e un tono didascalico un po’ troppo stucchevole. Ma l’aver concentrato tutto sulla logica del dipinto permette una riflessione non tanto, o non solo, sul lavoro di Majewski, quanto sull’interessante strategia di Bruegel, che nella passione di Cristo traspone la tragedia della dominazione spagnola sul popolo fiammingo alla fine del XVI secolo. I soldati romani che
portano Gesù Cristo presso il Golgota non sono altro che soldati mercenari in tonaca rossa, mandati dal cattolico re di Spagna a sorvegliare e punire i ribelli di religione protestante; l’antico popolo di Gerusalemme è adesso il popolo di uno sperduto villaggio nelle Fiandre, la croce la porta un ribelle della Riforma il cui volto resta nascosto. Per immortalare il momento preciso della creazione, il regista ricostruisce un impressionante tableau vivant ; vedendolo, si spiega il grande successo che ebbe questa singolare forma di messa in scena nei secoli passati: decine di persone immobilizzate in un’idea, una gigantesca visione materializzata in realtà, vita, respiro. Tutto si ferma e appare la geniale intuizione dell’artista: la miriade di uomini che scorre da sinistra verso destra e i cambiamenti di luce per indicare lo scorrere del giorno e del tempo, confuso in questo movimento il Cristo, e sullo sfondo, lontani, il Calvario e la città; contemporaneamente si fa avanti l’immagine della crocifissione nell’imponenza di tre elementi verticali: a sinistra l’albero della vita, a destra quello della morte e al centro il mulino con la croce formata dalle pale. Se Bruegel lavora sulla complessità, quasi a formare un immenso piano sequenza in profondità di campo, Majewski fa l’operazione inversa, e si concentra sul racconto delle singole esistenze che affollano il
dipinto fino al loro confluire nel quadro. Viene in mente il modo con cui Pier Paolo Pasolini ha girato La ricotta (1963): anche lì si costruisce una narrazione a partire da un tableau vivant , anche lì la vita e l’opera d’arte si trovano in prossimità (in questo caso sono alcuni quadri di Rosso Fiorentino e di Pontormo a fare da riferimento). Tra le due opere c’è più che altro una differenza sostanziale, capace di spiegare come mai I colori della Passione non riesce a convincere fino in fondo: mentre il film di Majewski è tutto dentro il quadro, quello di Pasolini apre e allarga una frattura tra la passione di Cristo e la passione di Stracci, il vero protagonista, che nel paradosso finisce per coincidere. Mentre tra il quadro di Bruegel e il film di Majewski c’è continuità, poiché i personaggi al di fuori della tela e nel film fanno esattamente quello che genericamente ci si aspetta, tra il quadro di Pontormo e il film di Pasolini c’è la rappresentazione del sottoproletariato urbano. Lo stesso è per quel che concerne il rapporto tra il soggetto di La salita al Calvario , cioè la Passione, e l’effettiva “messa in scena” operata da Bruegel, che testimonia l’ingiustizia cui egli assiste. Tra i molti i registi che si sono confrontati con la storia dell’arte, focalizzando la loro attenzione su un dipinto o su un artista, Pasolini è uno dei più significativi e originali: senza dubbio è un autore il cui gusto è più di origine figurativa che cinematografica, ecco perché sembra lecito un confronto che metta proditoriamente sullo stesso piano Bruegel, un pittore “cinematografico”, Majewski, un videoartista, e Pasolini stesso. Quest’ultimo ha sempre legato la sua produzione artistica a una precisa poetica in cui le idee sul cinema e il modo di realizzarlo erano indiscernibili dalla dimensione culturale, storica e politica in cui l’opera veniva a immergersi. L’estetica è in Pasolini una vera e propria teoria della percezione o, ancora meglio, della comprensione del mondo; per questo motivo la complessità, il carattere allegorico e lo spirito del tempo che pervadono il quadro di Bruegel richiamano la lezione pasoliniana almeno quanto l’operazione del regista polacco se ne allontana, riducendosi ad azione di pura reggenza, sicuramente valida e spettacolare, ma incapace di sfondare il limite della didascalia e della maniera (è chiaro, però, che non si arriva a paragonare il suo operato all’intellettualismo e al cinismo del regista interpretato da Orson Welles in La ricotta ). Tutte le volute di questa riflessione portano infine a cozzare contro il nocciolo duro della questione, che è il difficile rapporto tra un’opera d’arte e il contesto in cui essa si inserisce, da un altro punto di vista, tra ciò che l’artista “sa” e ciò che effettivamente “fa”. Così, mentre usciva nelle sale I colori della Passione , per
una coincidenza arrivava nello stesso giorno il film di Marco Tullio Giordana sulla strage di Piazza Fontana, un’ingiustizia che sicuramente sentiamo molto più nostra rispetto ai massacri del XVI secolo, e molto più viva, visto che a oggi ufficialmente non ci sono responsabili, e che fin dal titolo rimanda al famoso articolo in cui Pasolini scriveva «io so, ma non ho le prove» (1). Continuando con il gioco dei confronti impossibili, attraverso l’anello rappresentato da Pasolini, si può aggiungere un nuovo nome alla triade prima delineata per notare come Romanzo di una strage esprima uno stile di regia in cui il rapporto tra elementi formali e contenutistici sia completamente ribaltato rispetto al film di Majewski. A differenza di questi, in cui la raffinata riflessione sulla forma non produce un effetto di stile, Giordana punta tutta l’attenzione sul contenuto del suo racconto, dimenticandosi di riflettere sul racconto stesso e sul cinema da fare. Senza entrare nello specifico dell’analisi, si può vedere che il problema è sempre il legame che intercorre tra un’opera e la sua capacità d’impatto sul reale. L’ingenuità sta nell’allusione alla verità storica, che “esiste” come era scritto nei cartelloni ma che nessuno di noi conosce, che ha ridotto il tutto a un resoconto a (1) Pier Paolo Pasolini, 14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi , in Scritti Corsari , Garzanti, Milano 2001, pagg. 88-93.
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metà tra fatti e ipotesi (e ha riaperto l’infinita e irrisolvibile discussione su quanto sia veramente accaduto), trascurando lo sviluppo di un punto di vista critico, e dunque stilistico, e dunque politico, sull’esistenza paradossale di un fatto che non ha verità, in cui osservazione e comprensione non si incontrano. Ora, se si continua a guardare nella lente pasoliniana, si può delineare una domanda circa quello che un’opera d’arte può fare. Alla discussione pubblica provocata dal film di Giordana, fa da controcanto il finale del film di Majewski, nel quale la macchina da presa esce dal quadro e lo mostra solitario, appeso al muro del museo di Vienna dove è conservato, tanto che viene da chiedersi tristemente se il destino dell’arte figurativa è lo stesso che toccherà anche al cinema. Come si evince dall’io so di Pasolini, che continua oltre la ben nota apertura, l’artista per essere tale è prima di tutto un intellettuale, non uno che esprime opinioni, o emozioni, ma pensieri, relazioni tra le cose, attraverso l’immaginazione e la finzione. Ed è un pensiero della memoria che manca, o meglio della rappresentazione della memoria. Il museo nel finale del film di Majewski riporta immediatamente al problema che riguarda il nostro modo di ricordare, facendo pensare alla differenza che esiste tra puntare (2) Giorgio Agamben, Il cinema di Guy Debord , www.progettorizoma.org, pag. 3 (sul sito si può trovare il saggio in versione integrale).
l’attenzione su un fatto dimenticato o ignorato e lavorare in modo non formalistico sulla memoria. Non basta produrre indignazione dicendo che qualcosa di terribile è stato, né basta ripercorrere la nascita di un’opera profondamente legata alla sensibilità storica del suo creatore per poi lasciarla chiusa nel museo “concettuale” dell’estetica fine a se stessa; sul tema della memoria è davvero illuminante la tesi di Giorgio Agamben secondo cui il cinema, a differenza dei media, «è un modo di proiettare la potenza e la possibilità verso ciò che è impossibile per definizione, verso il passato» (2), superando l’impotenza del fatto e l’astrazione del sentire. I COLORI DELLA PASSIONE – THE MILL AND THE CROSS Titolo originale: Mlyn i krzyz/The Mill and the Cross. Regia: Lech Majewski. Soggetto: dal dipinto La salita al Calvario di Pieter Bruegel e dal libro The Mill and the Cross di Michael Francis Gibson. Sceneggiatura: Michael Francis Gibson, Lech Majewski. Fotografia: Lech Majewski, Adam Sikora. Montaggio: Eliot Ems, Norbert Rudzik. Musica: Lech Majewski,Józef Skrzek. Scenografia: Katarzyna Sobanska-Strzalkowska, Marcel Slawinski. Costumi: Dorota Roqueplo, Ewa Kochanska. Interpreti: Rutger Hauer (Pieter Bruegel), Charlotte Rampling (Mary), Michael York (Nicolaes Jonghelinck), Joanna Litwin (Marijken Bruegel), Dorata Lis (Saskia Jonghelinck), Ruta Kubas (Esther), Oskar Huliczka (il suonatore di corno), Marian Makula (il mugnaio). Produzione: Malgorzata Domin, Piotr Ledwig, Lech Majewski, Dorota Roszkowska, Freddy Olsson per Telewizja Polska/Bokomotiv Filmproduktion/Odeon Studio/Silesia Film/24 Media/Supra Film/Arkana Studio/Piramida Film. Distribuzione: Durata: 97’. Origine: Polonia/Svezia, 2011.
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PER UN CINEMA VIVO Emiliano Morreale Negli ultimi anni, a distanza più o meno regolare, compaiono ai festival e poi (a volte per modo di dire) sugli schermi italiani alcuni titoli che sembrano offrire una via d’uscita al cinema italiano. Alcune opere prime che magari si fanno strada nell’opinione dei critici, che girano i festival di mezzo mondo e magari escono all’estero, o che incassano anche delle cifre insospettate. A Torino nel 2009, La bocca del lupo di Pietro Marcello. A Cannes nel 2010 Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, l’anno dopo Corpo celeste di Alice Rohrwacher. A Venezia l’anno scorso Io sono Li di Andrea Segre. L’esordio di Gianluca e Massimiliano De Serio, Sette opere di misericordia (Locarno 2011) esagera forse nel partito preso di un rigore “portoghese”, ma mostra uno stile e un impegno da registi veri (so che alcuni aggiungerebbero a questo elenco il vincitore di Cinéastes du Présent all’ultimo Festival di Locarno, L’estate di Giacomo di Alessandro Comandin, che invece non mi entusiasma: ma la direzione, seppure con esiti incerti, mi pare la medesima). Se si va indietro alla metà del decennio, si trova poi il piccolo caso dell’esordio di Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro. Ma altri esempi si potrebbero trovare, di registi che magari scelgono la via del piccolo film autoprodotto: ad esempio Pietro di Daniele Gaglianone era una delle sue cose migliori, e perfino i fratelli Taviani hanno vinto a Berlino con un film, Cesare deve morire, che seppure in maniera equivoca e forse superficiale va nella stessa direzione. D’altro canto un altro esordiente di talento, Gipi, riesce a tirare fuori qualcosa di nuovo nonostante la produzione Fandango. Lo stato di salute di una cinematografia lo si deduce anche e forse soprattutto dalla qualità dei suoi registi giovani, dal ricambio delle opere prime (e magari dalla tenuta delle opere seconde). I film citati sopra sono un elenco significativo, ma certo non rappresentano la linea dominante del nostro cinema, né economicamente né artisticamente. Anzi: potremmo dire che questi registi riescono a fare i loro film, a pensarli girarli e finirli, a essere quello che sono, non nel cinema italiano ma nonostante il cinema italiano. Sono degli alieni, che magari si riconoscono e si fiutano tra loro, ma che soprattutto cercano altrove parentele e ispirazione. La differenza, ad esempio, la si poteva vedere all’ultimo festival di Roma, dove un film forse imperfetto come quello di Marina Spada spiccava comunque per la sua totale diversità rispetto a una miriade di prodotti più o meno ben confezionati, da prime-time Rai1 o da vintage stremato. O ancora, una scena surreale era stata, in alcune edizioni recenti dei David di Donatello (un Barnum incredibile, a suo modo esilarante) l’improvvisa apparizione di qualche volto umano, di solito il vincitore per il miglior documentario, che faceva ancor più risaltare la mostruosità del resto: un anno era Daniele Gaglianone, un anno Pietro Marcello. La diversità dei registi più rigorosi delle ultime generazioni era in quelle occasioni quasi fisicamente tangibile.
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Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti
Pietro (2010) di Daniele Gaglianone
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Corpo celeste (2011) di Alice Rohrwacher
Viene allora da pensare che Roma c’entri qualcosa, che nella città dove hanno sede i principali finanziatori e produttori di cinema sia per assurdo più difficile fare un cinema d’autore. Per voler usare provocatoriamente un termine arcaico: un cinema d’arte. O forse meglio ancora un cinema vivo, termine che preferirei al termine “indipendente”. E forse le film commission, pur tra mille difficoltà e con le inevitabili ambiguità che sono loro consustanziali, possono ancora qualcosa. I film citati sopra, nelle mille diversità, danno l’idea di appartenere a una famiglia. Per elementi stilistici e di contenuto. Per come rifiutano le ideés reçues in fatto di musiche, di attori, di sceneggiatura soprattutto (gli sceneggiatori italiani, che hanno avuto un ruolo sempre maggiore negli ultimi tempi, sembrano scrivere sempre miniserie per la terza età) per porsi ogni volta il problema di quel che stanno facendo. Più colti dei critici e dei cinefili, o comunque sicuramente più curiosi, questi registi sono disponibili allo scambio con quanto di meglio viene dalle altre arti, dal teatro al fumetto (molto più delle arti visive, che sembrano da qualche tempo un ricettacolo di registi falliti). E soprattutto, tutti costoro vengono da un confronto più o meno serrato con il metodo documentaristico, con quella che Marco Bertozzi chiama “l’idea documentaria”. Probabilmente, quando tra qualche decennio si guarderà al cinema italiano degli anni Duemila, a parte le due luminose eccezioni di Sorrentino e soprattutto Garrone, ci apparirà come il decennio dei grandi documentaristi, una fioritura straordinaria di opere e autori che raramente hanno avuto l’onore della sala e ancora meno, ovviamente, quello di passaggi tele-
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visivi degni. Leonardo Di Costanzo, Stefano Savona (i «Cahiers du Cinéma» qualche mese fa hanno dedicato una decina di pagine a Piazza Tahrir: ma chi se n’è accorto?), Alina Marazzi, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, e almeno un’altra dozzina di registi di rilievo, e di risultati eccellenti anche da parte di registi attivi soprattutto nel cinema di fiction: ad esempio Rata nece biti! di Gaglianone, Tra cielo e terra di Giovanni Maderna, Io sono Tony Scott di Franco Maresco, che non a caso solo nel documentario è riuscito a trovare spazio. E soprattutto, alla luce di questa fioritura di grande livello, spesso ignorata dal grosso di tv e giornali, si può leggere il meglio del nuovo cinema indipendente (e lo stesso cinema di Garrone, a ben vedere): una nuova maniera di lavorare sugli attori, una maniera di chiedersi a che distanza stare da ciò che si filma, quando tagliare, se e quando accompagnare le immagini con la musica. Rendere problematico il proprio lavoro: è questa la lezione del documentario, ancor più che il “confronto con la realtà”, con mondi che il cinema italiano comunque di solito non racconta. Una lezione appunto di metodo, più che di contenuti. Se si prova a guardare l’elenco dei film italiani prodotti nel 2012, ci sono solo un pugno di commedie, di cui qualcuna andata bene al botteghino e le altre inabissate, una mezza dozzina di “film medi d’autore”, in versione politica o intimista, e una serie di film prodotti con qualche ambizione commerciale e che nessuno vedrà mai. I comici hanno incassato regolarmente la metà dell’anno prima (anche la pretesa rivelazione di I soliti idioti in realtà incassa un quinto di Benvenuti al Sud ), e molti film italiani “di qualità” pensati per il botteghino e lanciati in tante copie ristagnano tristemente nelle parti medio-basse della classifica: se arrivano a tre milioni di euro è un trionfo, ma più facilmente non arrivano nemmeno a uno. A questo punto, forse la cosa più sensata è mettere tra parentesi la questione produttiva, che pure in questi anni ha tentato i critici più attenti. Negli ultimi tempi, parlare di cinema significava necessariamente anche parlare di modi di produzione, di prospettive distributive, di pubblico: che voleva dire in fondo spiegare il mestiere ai produttori, cioè un esercizio il più delle volte velleitario, a meno che non si scriva su giornali importan- La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello ti. Adesso forse la cosa migliore è concentrarsi, con la maggior radicalità possibile, sulle poetiche, sui tentativi di resistenza e immaginazione che nascono dovunque, e da cui forse, poco a poco, può nascere un mutamento di gusto e di intelligenza nelle giovanissime generazioni. Le quali, al momento, del cinema italiano se ne fregano, con molte ragioni: ma fra i pochi che hanno cose da dire e talenti, si spera continuino ad arrivare ogni anno delle sorprese.
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IT’S THE END OF THE FILM AS WE KNOW IT (E NEMMENO IO MI SENTO TANTO BENE) Davide Ferrario Scusate il personalismo, ma non posso fare a meno di iniziare il mio contributo osservando che sono di gran lunga il più vecchio degli scriventi (cinquantasei anni). Il che da una parte mi inorgoglisce nel vedere che sono ancora percepito come un “indipendente”; ma dall’altra mi costringe a misurarmi con una pasoliniana “irata sensazione di peggioramento”. Sì, perché sento che da quando ho cominciato a lavorare nel e col cinema (come distributore, non come creativo!) nella seconda metà degli anni Settanta, le cose sono andate sempre peggio, per gli indipendenti. E, soprattutto, che questo è andato di pari passo con la comparsa di tecnologie e fenomeni distributivi che avrebbero dovuto democratizzare il sistema, mentre non hanno fatto che confermare il potere di chi già deteneva le leve dell’industria culturale. Esempi – dalla preistoria in qua: i videotape da un quarto di pollice, la liberalizzazione dell’emittenza televisiva, le telecamerine dall’Hi-8 in poi, l’ HD, il digitale, Internet… In quarant’anni posso testimoniare che non solo i “buoni” non hanno mai vinto, ma che hanno addirittura perso la loro identità. Credo che ben pochi oggi riflettano su cosa vuol dire davvero essere “indipendente”: e una bella responsabilità ce l’ha la critica. Sì, andava bene riscoprire la serie B, gli “artigiani”, i generi e tutto il resto – ma occorreva anche tenere ben salda una percezione morale del lavoro del regista come creatore per evitare di finire nella situazione di oggi, quella della famosa notte in cui tutte le vacche sono nere. 2. Preciso subito una cosa, per non finire nell’angolino del rivoluzionario anacronistico. Io al mercato ci credo. Cioè, non al mercato come 1.
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Piazza Garibaldi (2011)
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Tutta colpa di Giuda (2009)
ideale (tendo ancora al marxismo): ma come condizione materiale nella quale si lavora. Nella mia carriera ho sempre cercato di contemperare la sensibilità personale e artistica con il senso del pubblico, con l’idea che non basta fare un film, ma bisogna anche pensare alle ragioni per le quali uno dovrebbe vederlo. Per cui nella mia filmografia (oltre a una presenza costante di documentari) trovate sia film finanziati da Medusa, RAI, Warner con nomi importanti nel cast sia avventure al limite dell’autolesionismo come Dopo mezzanotte (che il film sia poi diventato un successo internazionale non stava scritto da nessuna parte, all’inizio…). Qual è il punto dunque? Il punto è che l’indipendenza non si misura con l’identità di chi ti dà i soldi, ma da quello che con quei soldi ci fai. L’indipendenza sta nella capacità di trattare da pari a pari col sistema, sfruttandone le pieghe e le contraddizioni. Sta in un lavoro – passatemelo – da guerrigliero e partigiano. Sta in un’integrità morale che non è fatta di fideismo o roboanti principi, ma anche di furbizia e cinismo. Come mi disse una volta Ken Loach: «You can have tea with the devil. But if you do, use a very long spoon…» (Non c’è niente di male a farsi un the con il diavolo: ma almeno usa un cucchiaio molto lungo…). 3. Da questo punto di vista, mi sembra che in Italia la situazione non sia mai stata così negativa. Paradossalmente, proprio in un momento in cui il cinema nazionale è forte nei numeri e negli incassi, sono scomparse le pieghe e le opportunità per fare un cinema diverso dai blockbuster . Fuori dagli
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Dopo mezzanotte (2004)
immaturi, dagli idioti, dagli zaloni – non c’è più spazio per altro. Questo è il dato drammatico. Basta guardare gli incassi degli ultimi anni per rendersene conto. Lo scandalo non è che le commedie incassino (l’hanno sempre fatto), ma che non esista un cinema “diverso” in grado di giustificare economicamente la sua esistenza. Non so se L’ultimo terrestre sia da considerarsi bello o brutto: ma un film che, passato a Venezia, gode di paginate sui giornali e poi incassa centomila euro significa che c’è qualcosa di storto nel meccanismo, non (o non solo) nel film in quanto tale. Ma gli esempi sono tanti, troppi. Il fatto è che è mutata l’antropologia del cinema. È evidente che al cinema non ci va più chi ci andava prima, generazionalmente parlando: ma soprattutto è mutato il come si va al cinema. Tanto per cominciare, non si va più a vedere un film: si va in un locale che proietta dei film. Non è la stessa cosa: la qualità e la modalità dell’offerta cambiano radicalmente. Nei multiplex (molto spesso, e tanto più se fanno parte di un centro commerciale) si va a prescindere dai film, andando a vedere quello che è più comodo vedere. Oppure si corre in massa all’“evento” d’attualità che – ahimè – non è più, da almeno un decennio (salvo casi rarissimi), un film che valga la pena vedere. Mettete insieme a questi fenomeni la crisi delle sale del centro città, l’invecchiamento del pubblico d’essai e la pirateria su Internet e il quadro è completo. 4. Tutto questo mi preme per una conseguenza importante e drammatica. In questo modo il cinema ha perso autorevolezza . L’idea che tutto – sullo schermo – fosse “bigger than life”, che andare al cinema fosse un rito collettivo che creava un’interazione tra opera e pubblico in un contesto
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“eroico” alla Cinema Paradiso si è svilita in un gesto consumistico non dissimile dal guardare un film in tv: e, se ci badate, i gesti del pubblico sono quelli, dalle chiacchiere a voce alta ai telefonini accesi. Chi va al cinema non si aspetta nulla di più che di essere intrattenuto. Mi si obietterà che è sempre stato così. Forse, ma il sistema hollywoodiano classico “credeva” a quello che faceva. Ci credevano gli autori e ci credevano gli spettatori. Oggi si lavora solo sulla “formula”, che spesso è strettamente imparentata al videogame o a un marketing multimediale. Ripeto: questo non mi interessa tanto in sé, ma per le conseguenze che pone a me come autore. Anche se facevo una commedia, la mia aspettativa, fino a qualche anno fa, si basava su cento anni di storia del cinema che avevano prodotto una “serietà” del rapporto tra opera e pubblico. Oggi non è più così: al cinema non si va per vedere qualcosa di “più grande”, ma come variante di un generico intrattenimento. Lasciatemi usare la maledetta parola: il cinema non è più praticabile come forma d’arte, se non nel ghetto dei festival (e pure lì ci sarebbe da fare dei bei discorsi). 5. Ecco allora l’impasse in cui ci troviamo (almeno io personalmente sento questa cosa moltissimo): non sono in crisi io come autore o come produttore indipendente – è che non riesco più a immaginarmi un pubblico per quello che faccio. Quella che per me è sempre stata una delle regole base del mio lavoro (vedi punto 2) si è trasformata in un boomerang. Se la fruizione del cinema è mutata darwinianamente, è probabile che noi indipendenti siamo dei registi in via di estinzione. Oppure, per salvare quello che rappresentiamo, dovremo modificare la forma del nostro operare: per conservare il cinema, bisognerà far morire i film. Questo è un discorso molto interessante e pieno di prospettive: perché davvero la tecnologia costa poco e Internet ti permette almeno di offrire il tuo film a tutti (gratis, naturalmente…) – che lo vedano, poi, è un altro discorso. Ecco allora che certi ragionamenti radicali sulla morte del cinema come forma/film potrebbero trasformarsi da accademia d’avanguardia in pratica di sopravvivenza. Io, personalmente, sto cominciando a pensare di contravvenire alla regola che mi ha sempre guidato: sto pensando di girare fregandomene del pubblico e delle convenzioni a cui questo obbliga. Ovviamente, quello che ho in testa non è più un film. È un’altra La strada di Levi (2006) cosa (non video arte, sia chiaro), e nemmeno una cosa così nuova. Il termine “film”, in fondo, trasformava la definizione di un oggetto – la pellicola, appunto – nel senso di una storia. Oggi che la pellicola è ormai, per così dire, vintage , dovremmo trovare un nome nuovo per una cosa nuova, ma che abbia con la storia che racconta lo stesso rapporto della vecchia. Per tornare al vecchio Charles D.: evolversi – o scomparire.
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Io sono con te (2010)
UN PUBBLICO SENZA MERCATO
E I MIEI NEURONI SUPERSTITI Guido Chiesa Negli ultimi cinque anni ho attraversato esperienze professionali talmente eterogenee da aver acquisito un quadro sufficientemente composito di che cosa significa fare, produrre e finanziare oggi in Italia cinema d’autore/qualità/indipendente o-come-cavolo-lo-volete-chiamare. Ecco le tappe in sintesi. Nel 2006 ho auto-prodotto e realizzato il cortometraggio Il cuore del soldatino per una installazione al Museo Pecci di Prato. Avrebbe dovuto essere il primo di una serie di brevi film sull’infanzia diretti da più registi. Gregorio Paonessa della Vivo Film, complice nell’operazione, aveva pensato di chiamarla Ritratto dell’autore da cucciolo . Era un progetto a cui tenevo in modo particolare. Nel 2007 ho realizzato due documentari. In co-regia con Enzo Mercuri, Kishe Ione – La nostra Chiesa , parte di una serie sulle comunità arbereshe italo-albanesi prodotta da Palomar e Albasuite, e finanziata con fondi europei tramite la Regione Sicilia. Nello stesso anno ho diretto Le pere di Adamo, lungometraggio prodotto da Orione, con il
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sostegno del Ministero e della Film Commission Piemonte, in co-produzione tra Italia, Francia, Danimarca e Svizzera. L’anno successivo ho girato per Sky Quo Vadis, Baby ?, prima serie italiana realizzata autonomamente dal canale televisivo via cavo. Prodotti dalla Colorado, i sei episodi erano co-finanziati da RTI (messa in onda su Italia 1) con il chiaro intento di proporre una televisione di qualità dal taglio cinematografico. All’uscita del progetto, Sky annunciò un ambizioso piano che doveva condurre la rete di Murdoch a diventare uno dei protagonisti della produzione televisiva nostrana. Per la produzione di Magda e Colorado, in collaborazione con Rai Cinema e il sostegno del Ministero, nel 2010 ho realizzato Io sono con te , il mio quinto lungometraggio di finzione, girato in Tunisia con attori arabi. Infine, con la Colorado ho firmato l’anno seguente un contratto che mi lega alla società di Maurizio Totti per tre anni. Sembra un curriculum intenso e, in effetti, viste le difficoltà in cui Il partigiano Johnny (2000) versa il settore, non ho di che lamentarmi: ho potuto fare il mio mestiere, guadagnare discretamente e, soprattutto, realizzare i film a cui tenevo, in primis Io sono con te . Eppure mi ritengo deluso da quanto accaduto. Premetto subito che non si tratta di un’insoddisfazione legata al responso critico (generalmente positivo, in particolare per Io sono con te ), né al gradimento del pubblico, il quale, per quanto mi riguarda, ha sempre ragione: se una comunicazione/film non riesce a raggiungere/coinvolgere un qualsivoglia destinatario, non è mai responsabilità di quest’ultimo. Se ciò accade, i casi sono solo due: 1) il film non aveva in partenza alcun pubblico di riferimento, per errata valutazione, presunzione o superficialità dei suoi realizzatori (autori, produttori, finanziatori, eccetera); 2) è mancato il necessario supporto pubblicitario e promozionale, e anche in questo caso non è colpa del pubblico. Al massimo, in questa prospettiva, i realizzatori possono prendersela con lo scarso coraggio del mercato o l’inefficienza o il disinteresse del sistema di mediazione (stampa, tv, festival, eccetera), ma ancora una
Non mi bas mai (1999)
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Lavorare con lentezza (2004)
volta il ricevente non può essere ritenuto responsabile. Non è colpa del pubblico se un film ha avuto un lancio inadeguato o recensioni negative! Con questo voglio scrollarmi di dosso il sospetto di appartenere alla schiera di coloro che, per giustificare la crisi di un certo tipo di prodotti, parlano spesso di imbarbarimento del pubblico, trasformato in mero consumatore per effetto di troppa cattiva televisione, del berlusconismo (sic!) o della massificazione. Per quanto questi fattori siano da tenere in considerazione, essi mi paiono più i sintomi che le cause di una deriva antropologica, le cui radici vanno ben oltre il ristretto ambito della società dello spettacolo e ancor più dei confini italici. Ho la sensazione, invece, che essi siano il più delle volte accampati come alibi al fine di nascondere ben altre inadeguatezze. Ad esempio, quelle di chi sottovaluta il cinema come comunicazione sociale, quindi regolata da un rapporto bi-direzionale tra mittente e destinatario: non basta “aver qualcosa da dire” per farsi “ascoltare”. Contano i modi, i tempi, le tecniche, perché il destinatario non è mai un mero bersaglio passivo, ma un ineluttabile soggetto della comunicazione. Chi disprezza il pubblico, difficilmente potrà sedurlo. Sgombrato il campo da questi equivoci, vediamo l’esito dei progetti realizzati tra il 2006 e il 2010, nonché le prospettive future. La serie con la Vivo Film non ha avuto seguito, eccezion fatta per il cortometraggio Tracce del compianto Corso Salani: nessuna rete televisiva si è dichiarata interessata, nonostante l’ipotesi di coinvolgere registi italiani di fama internazionale. La serie sulle comunità arbereshe non è mai andata in
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onda. Inoltre, per incrementare lo striminzito budget a disposizione e ricevere un compenso adeguato all’impegno, mi ero impegnato a ricercare personalmente fondi aggiuntivi presso la Regione e la Film Commission della Calabria. Ampiamente promessi, questi fondi non sono mai stati erogati. Le pere di Adamo, dopo una buona accoglienza alla sezione Extra del festival di Roma e la partecipazione ad alcuni festival, non è mai uscito nelle sale (tutti i distributori lo hanno considerato troppo rischioso dal punto di vista commerciale) e nessun canale televisivo lo ha voluto acquistare. Lo stesso vale per gli altri Paesi europei, dove i co-produttori, una volta esaurita la loro funzione burocratica, si sono ben guardati dal lavorare sul prodotto. La serie Quo Vadis, Baby? ha ricevuto buone recensioni (per la prima volta Aldo Grasso ha parlato positivamente di un mio lavoro!), ma non ha sfondato presso gli abbonati di Sky, più che altro fruitori di calcio e assai diffidenti verso il prodotto italiano. A questo deficit di partenza si sono uniti vari errori di marketing, di cui la rete di Murdoch ha poi fatto tesoro per la promozione di Romanzo criminale, ottenendo risultati decisamente migliori. Malgrado ciò, le ambizioni di Sky di diventare uno Il caso Martello (1992) dei major players della produzione italiana non si sono mai tramutate in realtà. Sebbene fosse in concorso al Festival di Roma e venisse ritenuto una potenziale wild card vincente a causa del suo tema (il film è la storia di Maria di Nazaret), Io sono con te è stato rifiutato da 01, a cui ci eravamo rivolti per gli ovvi rapporti con la RAI (di cui è emanazione). Ritenuto inadeguato agli standard commerciali del distributore, il film è stato inoltre stritolato dalla concomitante querelle scoppiata con Rai Cinema attorno a Noi credevamo di Mario Martone, opera su cui quest’ultima aveva investito una cifra decisamente superiore. Distribuito infine dalla Bolero senza che questa investisse un solo euro nella promozione (tutte le spese di lancio erano a carico dei produttori), Io sono con te è uscito in ventuno copie, diventate due il weekend successivo. Incasso del primo fine settimana: ventimila euro. Ironia della sorte, nonostante il mio parere contrario, produttori e distributori avevano
Partigiani (1997)
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Le pere di Adamo (2007)
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deciso di far uscire il film in versione doppiata, asserendo che il pubblico non ama i sottotitoli. Con il senno del poi si sarebbero potuti risparmiare i soldi del doppiaggio… Ah, dimenticavo, per il Ministero un film è italiano solo se parlato in italiano, quindi eravamo obbligati a doppiare! Che cosa posso ricavare, a livello generale, da queste vicende? Il sistema-cinema in Italia è a un punto di svolta, soprattutto per il cosiddetto prodotto d’autore . Il finanziamento pubblico è ridotto ai minimi termini e, a mio parere, una sua resurrezione non è auspicabile, a meno che non si intervenga simultaneamente sulla rete delle sale, sul rapporto con la televisione, le major americane e i grandi server di Internet (quest’ultimo intervento, il più complesso, prevede uno scenario internazionale). Un semplice ritorno al passato, infatti, non solo implicherebbe la conservazione di intollerabili privilegi, sprechi e abusi – di cui tutti erano al corrente e di cui tutti siamo stati complici – ma soprattutto non risolverebbe la questione della distribuzione di questi film: come si fa a raggiungere/interessare un pubblico che sembra aver voltato le spalle al prodotto italiano, a meno che non vinca a Cannes o sia tratto da romanzi da due milioni di copie ? Quella che sta accadendo, a mio parere, è una vera e propria mutazione antropologica e culturale nelle abitudini del pubblico (mutazione di cui tutti i protagonisti del sistema-cinema sembrano essersi accorti decisamente in ritardo, come era già avvenuto nel settore musicale: e si sa com’è andata a finire lì…). Il pubblico per un certo tipo di cinema esiste eccome: semplicemente non va più nelle sale cinematografiche, ma usufruisce di altri sistemi di visione, tra l’altro meno costosi e più socializzabili. Io sono con te , ad esempio, ha ottenuto pessimi risultati in sala, ma risposte eccellenti in home-video e, soprattutto, nel download e streaming via Internet. Pur in assenza di un adeguato investimento pubblicitario, il passaparola qui ha funzionato, garantendo un efficace tam tam fuori dai canali di settore e dando vita a proiezioni artigianali in luoghi non deputati. Purtroppo, il successo in home-video e le visioni pirata non hanno alcun effetto sulla reputazione commerciale di Io sono con te , ma risarciscono almeno in parte i suoi realizzatori, convinti com’erano che il film avesse un pubblico. Ne consegue una curiosa deduzione: esiste un pubblico interessato a un certo tipo di film, ma non esiste più un mercato in grado di trasformare questo interesse in un profitto, perché il luogo deputato allo sfruttamento primario – e da cui dipende ancora tutta la filiera di un prodotto cinematografico – cioè la sala, non svolge più un ruolo attrattivo. Mentre home-video e televisione appaiono in calo, il web offre una piattaforma di indubbia efficacia,
Babylon: la paura è la migliore amica dell’uomo (1994)
ma la diffusione di film via Internet non si misura ancora in termini di valore di scambio, quindi non ci si può investire sopra. Questo è il dilemma con cui ci dovremo confrontare nell’immediato futuro: non la semplice reintroduzione del finanziamento pubblico – che auspico, fatte salve le premesse di cui sopra – ma l’elaborazione di nuovi linguaggi cinematografici e strategie produttive e promozionali che conducano a un nuovo rapporto con i fruitori. Quali conclusioni personali ho tratto da tutto questo itinerario? Oggi come oggi, gli unici che riescono a farsi finanziare un certo tipo di film – anche loro non senza difficoltà – sono quei cineasti che hanno raggiunto un significativo successo negli anni precedenti, o accettano di lavorare a basso budget, senza garanzie di guadagno e alti rischi di fallimento. Non essendo ricco, avendo a carico una famiglia di cinque persone e dato che non me l’ha prescritto il medico di fare il cinema, ho pensato più volte di cambiare professione. D’altro lato, a cinquantadue anni non riesco a inventarmi un nuovo lavoro e non ho grandi idee su come trasformare il mio approccio, anche perché sono trenta che faccio film così e, a questo punto della mia vita, sono altre le priorità su cui ho scelto di investire i pochi neuroni superstiti. In attesa che si risolva il dilemma pubblico/mercato di cui sopra – e accadrà, o almeno dovrebbe accadere: il capitale non può permettere a lungo che un mercato rimanga vacante – ho quindi deciso, almeno per un po’, di non provare a realizzare i film che vorrei fare, ma di fare quelli che mi lasciano fare, dato che qualcuno, bontà sua, crede che ne sia capace. Chissà, magari un giorno le due volontà torneranno a coincidere.
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Sette opere di misericordia (2011)
QUALCHE SEGRETO URLATO A TUTTI Gianluca e Massimiliano De Serio In segreto, da adolescenti, ci nascondevamo dietro le grandi tende rosse del Cinema Massimo di Torino, alla fine di una proiezione. Appena il film successivo cominciava, ci infilavamo in sala di nascosto. Non abbiamo mai abbandonato questa attitudine al segreto. All’essere sem pre un po’ nascosti .
Nei primi anni di produzione, legata soprattutto ai cortometraggi, si girava in pellicola. Avevamo costruito un data base di festival nazionali e internazionali, divisi per mesi in rispettive cartelle che giravano di computer in computer (dall’Università ai primi internet point , da casa all’ufficio di nostro padre) nei vecchi e pur sempre amati floppy disk . In ogni cartella una lista di festival, deadline ed entry form da compilare. Poi si andava in posta e si spediva ogni settimana un plico di buste imbottite con dentro le vhs prima, poi i dvd dei nostri corti. Era diventata un’attività praticamente quotidiana, che ci ha permesso di girare per tre anni nei festival di cortometraggi in mezzo mondo.
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Il passo precedente, ovvero la produzione, non era altrettanto scontata. Si facevano corti per creare quella comunità effimera e sempre diversa del set, con gli amici. Per raccontare storie in cui mai è entrata una commissione, uno sguardo esterno, una richiesta da parte di committenti. E si è riusciti sempre a non spendere un centesimo nostro, ma a trovare qua e là i soldi necessari, la pellicola regalata, qualche giorno di macchina da presa vinta in qualche festival. E soprattutto, a pagare sempre tutti. Lo stesso spirito collettivo e insieme indipendente è rimasto negli anni successivi, si è perpetuato negli altri film, nelle video installazioni, nei documentari. E anche nel lungometraggio appena realizzato, Sette opere di misericordia . I nostri lavori sono sempre ibridi, sfuggono alle etichette e dunque alle commissioni. Laddove queste esistono e sono il motore produttivo, noi cerchiamo di superarle, di realizzare sempre qualcosa di intimamente nostro, fuori formato. Sfruttiamo le possibilità produttive di musei e gallerie per restare in quel precario equilibrio che ci permette di volta in volta di uscire dal format , di non stare mai fermi, di sperimentare. Se la produzione di un documentario ci offre la possibilità di realizzare un lavoro, questo va oltre la destinazione di origine, diventa qualcos’altro, si trasforma, si moltiplica. Il segreto è nell’essere generosi. Prima o poi questa generosità diventa nuova produzione, nuove possibilità. Con mille difficoltà, certo, ma si tratta di fare di necessità virtù. Spesso il budget risicato, la possibilità di girare solo in pellicola, ma per pochissimi giorni, con attori non professionisti, hanno imposto al nostro sguardo una nuova disciplina che è diventata progressivamente sguardo estetico, rigore, e modalità produttiva. Ecco che i circuiti hanno cominciato a mescolarsi: una mostra richiedeva i corti girati in pellicola che avevano avuto una vita lunga nei festival internazionali (all’epoca proiettavano solo in pellicola). Poi alcuni festival ci invitavano a screening dei nostri lavori più sperimentali magari creati apposta Mio fratello Yang (2004) per mostre e musei. Nasceva dunque un terreno fertile e meticcio non solo dal punto di vista estetico, ma anche produttivo, di distribuzione e di fruizione: dunque una nuova sfida al nostro modo di lavorare. Col tempo tale attitudine è diventata una scelta e gli amici con cui abbiamo da sempre lavorato sono diventati “collaboratori” e “professionisti”, ma sempre amici. Questa dimensione ha sempre salvaguardato lo spirito d’indipendenza. Forse uno dei segreti è di restare ad ogni costo indipendenti. Chi si rivolge a noi o chi ci ascolta per un progetto di film, sa che dietro il nostro
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Maria Jesus (2003)
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lavoro c’è quello di un piccolo collettivo: esso parte da noi, gemelli e collettivo microscopico, e si allarga alla troupe, di volta in volta diversa per dimensioni e metodo. Questo forse è un altro segreto: valorizzare la dimensione collettiva del fare cinema. Recentemente abbiamo fondato un “luogo” chiamandolo Piccolo Cinema, società di mutuo soccorso cinematografico. È un luogo innanzitutto di discussione, in cui si analizzano i film e si smontano bullone dopo bullone. E poi chi ha delle competenze in vari aspetti della realizzazione (trucco, regia, suono, montaggio, eccetera) li condivide con gli altri e in questo modo si creano nuovi gruppi di lavoro, non rigidi ma sempre diversi. Si discute attorno al cinema, per farne una protesi e uno specchio della vita. Forse questo è un altro segreto: pensare che il cinema è una forma di vita, anzi, di sopravvivenza. Da reinventare continuamente. La nostra disorganizzazione e autarchia si trasforma in virtù, valorizzata dall’essere in due, dall’aiuto reciproco, dal pensare sempre una cosa diversa a quella che pensa l’altro. Questo significa saper spesso rinunciare, ma anche lottare per convincere l’altro e mettersi in discussione. È un training che ci aiuta a salvare l’originalità del progetto quando incontriamo istituzioni interessate: spesso si coinvolge nello spirito collettivo il produttore stesso. Abbiamo avuto la fortuna di non essere mai super-prodotti, di avere piccole committenze che salvaguardavano la nostra libertà in ogni scelta creativa e che ci hanno permesso non solo di realizzare film, ma anche di avere quel poco di guadagno che serve per sopravvivere. I musei spesso producono con budZakaria (2005) get non altissimi ma sufficienti. Il produttore del nostro film di finzione e di due dei nostri documentari, Alessandro Borrelli, è un nostro coetaneo che non fa i conti con i soldi propri, non essendo ricco, ma di volta in volta cerca fondi e aiuti. Amplifica in una scala leggermente più grande e più organizzata e competente il nostro lavoro di auto-produzione dei primi anni. Dunque è un altro noi . È parte del processo creativo. Forse il segreto è vedere noi stessi negli altri, e viceversa, coinvolgendo tutti nel processo creativo.
Bakroman (2010)
Rispetto a un percorso, come è il nostro, sempre in bilico tra i formati e sempre in divenire a seconda dei contesti di fruizione e delle tecnologie utilizzate, ci sorprende vedere come la critica non si sia fatta sfuggire le costanti, i fili rossi che abbiamo seminato di lavoro in lavoro. E come, negli anni, ne abbia colto i punti di rottura, le aperture, le crisi. Per noi è inutile dire che ciò è fonte di continui stimoli e riflessioni fondamentali. Una nostra installazione (circa cinque ore di proiezione) intitolata Bakroman è stata prodotta da Alessandro Borrelli. È diventata un documentario che, oltre ai festival internazionali, è stato distribuito in alcune sale italiane e continua sporadicamente a essere visto in piccoli cinema, da più di un anno. Ma la cosa che più ci commuove è che Bakroman è diventato un progetto di vita per i protagonisti stessi del film (un gruppo-sindacato di ragazzi di strada burkinabé) e grazie al film i ragazzi sono diventati più forti. Ora sono un gruppo giuridicamente costituito, hanno molta visibilità e sono appoggiati da volontari nel loro percorso di lotta quotidiana. Ecco, forse un altro segreto è questo: considerare il cinema come qualcosa che cambia le persone che lo guardano, che lo vivono, che lo creano: il cinema, e l’arte, come forma di mutuo soccorso. Ma forse il segreto più importante è che il cinema, nei suoi vari e innumerevoli aspetti, è un segreto esso stesso. Da raccontare, indicibile eppure così evidente, intimo e collettivo.
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Io sono Li (2011)
L’URGENZA DI RACCONTARE, IL BISOGNO DI MOSTRARE Andrea Segre Credo di aver prima iniziato a fare film-documentari e poi aver capito che ero diventato un regista. E questo mi ha molto aiutato. Per un semplice motivo, perché in questo modo ho anteposto le storie alla ricerca dei soldi. E mi sono divertito, mi diverto molto di più. Credo che se un regista si concentra sul cosa e sul perché vuole raccontare e attraversa il mondo guidato da questa urgenza, senza perderne la centralità, allora trovare soldi sia più facile. Non solo perché quell’urgenza se vissuta intensamente aiuta a trovare e a convincere finanziatori giusti, ma anche perché in questo modo i progetti costano di meno. Sono tantissime le spese che si possono razionalizzare in una produzione, soprattutto documentaria, ma non solo. E queste razionalizzazioni vengono viste e capite solo da chi vive il racconto come pezzo del proprio esistere, del proprio corpo, del proprio conoscere. Se
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invece viviamo il “fare un film” come sogno professionale da raggiungere, allora perdersi è facile e sprecare ancora di più. Finanziatori giusti dicevo. Mi spiego meglio. Non esiste nel cinema documentario e nel nuovo cinema indipendente solo la fonte classica di finanziamento (distributori, televisioni o fondi pubblici), ma si possono coinvolgere nella necessità di raccontare soggetti i più diversi: io ho lavorato con progetti di cooperazione internazionale, con enti locali, con fondazioni bancarie o culturali, con donatori privati, con imprese non cinematografiche, con autofinanziamenti collettivi. Ma non ho mai cercato un motivo per coinvolgerli, ho sempre incontrato un loro interesse dopo aver capito la mia urgenza. Questo è stato il mio punto di partenza ed è ancora il centro della mia produzione cinematografica. Un centro che condivido (altro elemento fondamentale) con un gruppo solido e affiatato di collaboratori, che sono prima di tutto amici con cui conoscere e capire il mondo insieme: i soci di ZaLab, Francesco Bonsembiante, Simone Falso, Marco Pettenello, Luca Bigazzi e altri. La dimensione collettiva del mio lavoro è parte integrante dell’approccio con cui ho scelto di affrontare il mondo del cinema. Non mi interessa stabilire conoscenze private con singoli amici importanti, ma voglio costruire percorsi di lungo termine con un gruppo affiatato che è capace di capire l’urgenza del racconto e garantire alta professionalità. Detto questo sarei cieco e ipocrita se non esprimessi qui tutta la fatica e la rabbia per un sistema produttivo e distributivo che in Italia poco fa per permettere alle nuove esperienze del racconto cinematografico, strettamente connesse al terreno di interazione tra finzione e documentario, di crescere. La gran parte di chi è riuscito con fatica a ottenere qualche successo e a raggiungere l’attenzione del pubblico, lo ha fatto passando per l’estero o grazie a progetti sostenuti da fondi esterni al sistema televisivo e cinematografico classico. E comunque anche chi ha potuto realizzare opere più complete dal punto di vista produttivo, si è poi scontrato con un sistema distributivo che non si basa sul rapporto filmpubblico, ma su quello filmpubblicità. La storia è ben nota: sale invase da centinaia di copie di film commerciali imposti da quattro grandi Il sangue verde (2010)
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Mare chiuso (2012)
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distributori e tempi brevissimi di permanenza, con nessuna possibilità di generare passaparola tra le persone. Ma è ben nota solo tra gli addetti ai lavori, il pubblico normale è semplicemente convinto che alcuni film siano di successo e altri piccoli e difficili. Invece semplicemente non esiste competizione possibile. Gli unici film d’autore che possono sperare di avere successo sono quelli che ottengono grande visibilità internazionale (Sorrentino, Garrone, in parte Crialese), anche se ora il rischio è che anche questo non basti più (il film dei Taviani, nonostante Berlino, non pare stia andando molto bene). Nel nostro piccolo, per affrontare questa situazione stiamo cercando di restituire ai film la possibilità di avere un rapporto col pubblico: da qui nascono esperienze come la “distribuzione civile” di ZaLab e la nuova realtà di distrbuzione cinematografica di Parthenos. La prima cerca di dialogare direttamente col pubblico e gli dice: se hai visto un film e vorresti che altri lo vedessero, non aspettare che ciò avvenga ma diventa “attore” di questo processo, ZaLab ti può aiutare a farlo. Ormai sono centinaia le richieste che arrivano a ZaLab per organizzare proiezioni in cinema, teatri, sale parrocchiali, università, biblioteche, festival, centri culturali e mille altri luoghi. Bisognerebbe istituire un CiviTel, per contare gli spettatori che in questo modo stanno vedendo i nostri film. Parthenos invece nasce da un’altra intuizione: un gruppo di esercenti che decide di gestire direttamente la distribuzione, garantendo nelle proprie sale una tenitura più lunga, in modo da dare al film la possibilità di creare un rapporto col pubblico. Io sono Li è stato il primo film di Parthenos e mentre nelle altre sale veniva comunque smontato anche se conquistava pubblico, nelle sale di Parthenos è rimasto per mesi facendo crescere gli spettatori di settimana in settimana e raggiungendo cifre insperate: più di dodicimila spettatori a Padova, più di novemila a Treviso, ottomila a Mestre, quattromila a Trento. Sono cifre molto significative, ma molto localizzate. Se Parthenos avesse avuto una maggiore attenzione e capacità comunicatva (mi auguro lo farà con i prossimi film, se no rischia di non avere molto futuro), il film avrebbe potuto forse raggiungere risultati ancora più ampi. Ma alcune dinamiche e strutture non avrebbe potuto comunque sradicarle. Quelle andrebbero
Come un uomo sulla terra (2008)
cambiate a monte con interventi legislativi, che possono nascere solo da una scelta politica nuova e chiara: per il Paese è utile e importante avere una cinema d’autore capace di indagare la realtà, di far riflettere le persone e di avere successo internazionale. Se questo fosse il punto di partenza allora si prenderebbero delle scelte economiche e strutturali diverse e si riaprirebbe il sistema produttivo e distributivo a una relazione più normale e viva con la qualità dei film e non solo con le loro caratteristiche pubblicitarie e commerciali. Noi autori dobbiamo continuare a dire con chiarezza le cose come stanno e a chiedere questo cambio di rotta che dovrebbe partire da ottenere tre importanti cambiamenti, che mi paiono certamente non unici ma prioritari: uno spazio televisivo in prima serata per i film d’autore e uno per i film-documentari, un limite al numero di copie di prima uscita nelle sale calcolato percentualmente sul totale delle sale, cambiamento dei componenti e dei metodi di valutazioni delle commissioni per i finanziamenti pubblici, che tengano conto nel punteggio anche dei successi internazionali di autori e produzioni. Noi nel frattempo con ZaLab continueremo a sedimentare interazioni virtuose per far crescere sempre più nel Paese quelli che amiamo chiamare nuclei di resistenza culturale, spazi di vivacità artistica e di attenzione sociale che rendono questo malandato Paese ancora capace di non assuefarsi ai silenzi imposti dai consumi preconfezionati dello spettacolo post-televisivo.
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All’Ombra della Croce (2012) di Alessandro Pugno
COMPROMESSI E ISTINTO AL SERVIZIO DELL’AUTORE Gabriella Manfrè Sono un’imprenditrice e stamattina sono passata in banca per sbrigare alcune faccende e ne sono uscita arrabbiata, frustrata, come ogni volta. Ma è possibile che nel nostro Paese la cultura sia considerata un optional e i suoi lavoratori dei privilegiati che hanno la fortuna di coltivare un hobby e vivere in un ambiente non di lavoro, nonostante ci siano aziende, si emettano fatture e si firmino contratti? Eppure alla cultura dobbiamo quel poco di ricchezza e riconoscimento che ancora possiamo rivendicare. È ovvio che dovrei cambiare banca e lo sto facendo, verso una scelta etica, ma quando si tornerà a pensare che la cultura è necessaria alle persone quasi quanto un paio di scarpe o un piatto di minestra e che senza cultura anche un paio di scarpe o un piatto di minestra sono meno utili e buoni? Il cinema e le produzioni visive in generale sono un’industria che dà lavoro, paga le tasse, contempla molteplici professionalità tecniche, economiche e ovviamente artistiche. È più semplice capirlo nel caso di
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grandi produzioni, con marchi conosciuti, mentre quando si è piccoli meno. Se poi si aggiunge l’etichetta “indipendenti” allora si è di sicuro anche poveri per definizione e lo si fa per “spirito”. Io lotto contro queste false etichette. L’indipendenza non è una magnanima malaventura, non significa non avere mai le risorse sufficienti per produrre un film: la forbice “o la libertà o il denaro” è falsa. L’indipendenza è la volontà di tutelare idee e progetti, senza scendere a compromessi che li snaturino. Per un produttore, quindi, è la capacità – e sottolineo capacità – di difendere il progetto di film dell’autore e di attivare tutti i compromessi utili che non ne mutino il senso e l’originalità. È una definizione parziale e personale, ma credo che la vera indipendenza di un produttore sia “ author oriented ” e con essa si possa realizzare un action movie come un documentario. Ovviamente è una realtà che si presta maggiormente alla ricerca e ai debutti di carriera e non a caso il mio curriculum è una costante predilizione per le opere prime. Amo scoprire un talento, metterlo in condizioni di esprimersi e trovare il suo limite, perché un film è un pezzo di vita passato insieme con l’innamoramento, le gelosie, i dubbi, il matrimonio, la figlianza fino alla nonnitudine e al salutarsi per naturale condizione del vivere. L’autore è il protagonista, al produttore toccano i ruoli. Ho iniziato la mia carriera licenziandomi, dalla RAI, nel 2004. Dopo dieci anni in Corso Sempione 27, prima lavorando nelle fiction basso costo e poi alla Serra Creativa, avevo cominciato a svegliarmi con l’angoscia dell’ufficio. Una mattina il mio compagno, Marco, mi disse: «Non ami più quello che fai, è venuto il momento di provarci sul serio». E con i dovuti ringraziamenti alle persone e all’esperienza, mi rimisi in gioco. È stato grazie a Giovanni Maderna e alla sua urgenza di girare il suo terzo film che mi sono buttata ufficialmente nella produzione. Schopenhauer , un film fatto con niente, ci ha portati in concorso a Locarno ed è grazie a questo film che Michelangelo Frammartino contattò me e Giovanni per parlarci di Le quattro volte e ancora è stato anche grazie all’ottimo esito di quest’ultimo film che Bruno Oliviero mi ha coinvolto nella sua prossima opera prima, La strada per casa , coprodotto con Rai Cinema e Lumière. Produrre film di qualità paga e ognuno di questi film mi ha permesso di salire un gradino. Perché questo mestiere si impara facendolo. All’inizio c’è l’istinto, con quello si parte e cominciano i guai. Con un autore pieno di sensazioni e racconti, la parte più delicata del mestiere è quella di portarlo davanti a un pubblico che non sa ancora di avere, prima con la testa, con la convinzione, poi con il progetto e infine in sala. I film si producono per un pubblico, per questo curo gli autori, li stano, li coccolo, li inseguo (e quasi mai mi sono fatta inseguire), perché è per il pubblico che si raccontano le storie, siano fiction o cruda realtà; e il pubblico è plurale, è tutti, è il bene comune del nostro mestiere. Pensare che questa è democrazia, che gli occhi e le emozioni dei tanti, diversi e conflittuali,
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MM Milano Mafia (2011) di Gianni Barbacetto e Bruno Oliviero
Una su tre (2010) di Antonio De Luca, Nerina Fiumanò e Stefano Villani
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sono quello per cui esistiamo, è il senso di quello che facciamo. È un passaggio semplice, apparentemente, ma sconosciuto alla maggioranza degli autori che incontro: raramente un documentario è scritto per il pubblico, apparentemente non si insegna. Anche i migliori ci cascano. Quattro anni fa incontro un giovane autore piemontese, Alessandro Pugno, per un progetto di documentario su un monastero nella valle di Los Caidos (il monumentale luogo di sepoltura di Francisco Franco). Glielo rimandai indietro: «Scritto così non mi interessa». Il germoglio c’era, insieme a una grande confusione emotiva: mancava chiarezza progettuale e autoriale. È tornato Alessandro, dopo qualche mese, chiedendomi di lavorare con lui. Ha scritto e riscritto, suppongo mi abbia odiato per questa fatica e lo capisco visto quanto poco mi piaccia scrivere, ma la fiducia nel confronto ha fatto nascere il suo documentario e lo stiamo producendo: All’Ombra della Croce . Di questo scambio si sazia un animale da produzione. Anche quando sbaglia. E si sbaglia spesso per fretta, per troppo amore o brama. Mi è successo proprio con Le quattro volte : avevo puntato tutto – nel senso dei miei risparmi in un periodo magro e difficile – sull’intelligenza straordinaria dell’autore, vitale, naturale. Ero in un totale innamoramento progettuale che mi aveva fatto perdere di vista la concretezza. Dopo quasi due anni, ci siamo dovuti fermare: avevamo esaurito le nostre possibilità di fare da soli e l’errore era mio. Perché tutto ci incoraggiava a fare da soli: avevamo persino vinto un premio nella sezione “work in progress” all’Alba Film Festival per la realizzazione dei sottotitoli, a film ultimato, in un film di fatto muto. Avremmo dovuto capire. E quando ci siamo dovuti fermare, abbiamo raddrizzato la rotta. Dopo l’Atelier di Cannes 2007 (unico progetto italiano selezionato) abbiamo cercato dei partner e li abbiamo trovati: avrei perso la maggioranza del progetto e un po’ di autonomia, ma il film si sarebbe fatto. Non bisogna avere paura di coprodurre. È un fatto sano, complesso perché significa mettere insieme obiettivi plurali e dividere i guadagni. E dopo altri due anni di lavoro, i risultati: abbiamo vinto l’Europa Cinemas Label di Cannes 2010, nomination nella cinquina del David di Donatello per regista, produttori e fonico, Ciak d’oro 2011 per i produttori e il film acquistato in cinquanta Paesi. In poche parole: il film italiano più premiato nel 2011. Eravamo partiti con le nostre automobili per la Calabria, soli e contro tutti, per girare un film con protagonista una capra, quasi senza parole e musiche, e ci siamo ritrovati seduti in sala a Cannes, a guardare stupiti le immagini conosciute a memoria quasi fosse un miracolo. E invece è stato lavoro e testardaggine, oltre che passione, e il miracolo – se c’è – è stato non mollare, aiutare gli altri ad avere sempre le giuste motivazioni e aver messo insieme tanti piccoli pezzetti di budget, rinunciando a qualcosa per sé, per il film. Indipendenza? Voglia di cercare e non avere paura della fatica, sbagliare e ricominciare.
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Mi è capitato spesso di addormentarmi con la speranza di ritrovarmi al risveglio a odiare questo mestiere e invece non ci riesco perché alla fine trovo sempre le motivazioni per portare avanti un progetto. Certo, sarebbe bello trovarne anche fuori. La ricerca fondi in Italia, a maggiore ragione per opere di autori non ancora affermati, è estremamente difficile. Ma spesso i progetti più interessanti passano dalle mani dei produttori indipendenti: è il valore aggiunto che non dobbiamo dimenticare. Per questo non sopporto i colleghi che si lagnano della difficoltà del mestiere. Che si chiudono in un ghetto. Trovare le risorse e costruire le possibilità perché un’idea, un autore e una storia diventino cinema è un mestieraccio, per definizione complesso e accidentato – a meno di pranzare tutti i giorni con J.J. Abrams e Steven Spielberg. Il rischio non è una caratteristica della nostra cultura imprenditoriale e tanto meno bancaria o pubblica; i referenti, ormai sono pochi e sempre gli stessi; i progetti tanti, le soluzione sono poche. Nella produzione “creativa” – definizione ironica, forse, in cui credo – si valorizza ogni possibile aspetto finanziario del budget e non c’è tempo per sentire il peso di quel plico di carta che si riadatta per un giro sempre identico di potenziali finanziatori ( RAI, Mediaset, il Ministero, qualche Regione, i bandi). Una volta battuta cassa dai soliti noti – e che siano benedetti – si compone la “cordata dei finanziamenti” cercando partner all’estero e in altri settori, e partecipando a tutti i bandi possibili di finanziamento, dagli europei ai tematici. Questo è il tempo in cui l’autore aspetta, pensando che nulla il produttore stia facendo, e quello per cui il produttore soffre e si danna. Ma la fretta è la morte del mio mestiere e i buoni progetti, non hanno paura della condivisione: per l’indipendenza e la possibilità di realizzare un film in cui credi, le quote si perdono volentieri. E questo saper lasciare, spogliarsi quando è necessario, insieme alla convinzione e alla concretezza di andare fino in fondo che fa del mestiere del produttore una continua avventura culturale e artistica. Perché prima di essere una macchina organizzativa e di risoluzione problemi, il produttore è un uomo con un istinto. E Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino io sono una donna.
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DISTRIBUZIONE INDIPENDENTE? ALTERNATIVA? HA SENSO PARLARNE ANCORA? Angelo Signorelli L’ultima volta fu Il vento fa il suo giro. Qualche prospettiva sembrò aprirsi di nuovo per la distribuzione indipendente. C’era di mezzo la Lab 80 film. E c’era un film rifiutato da importanti festival e guardato con sussiego dalla distribuzione d’essai. Ci si illuse che qualcosa potesse cambiare. Ma quella stagione è finita da un pezzo. Bisogna prenderne atto, senza rimpianti, guardando in faccia la realtà. La quale, in soldoni, è una sorta di mercato delle vacche, dove non si capisce se esistono, ad esempio, strategie che lavorino sulla differenziazione dei diversi prodotti, in modo da capire se i film come tali abbiano ancora una qualche importanza o se, invece, siano solo occasioni, più o meno fortunate, di fare soldi. Cerchiamo, per prima cosa e per sommi capi, di ripercorrere la storia degli ultimi dieci/quindici anni. La Lab 80 film trova una sua strada nella riedizione di classici della storia del cinema, raggruppati in pacchetti tematici, rigorosamente distribuiti nella versione originale con sottotitoli italiani. Ne citiamo alcuni: Dreyer, Bresson, Tarkovskij, Lubitsch, Screwball & Romantic, Wilder, il noir americano. Attorno a queste rassegne orbitano alcuni satelliti isolati come il Laughton di La morte corre sul fiume e il Polanski di Repulsion. Nell’insieme, compongono un catalogo consistente e, soprattutto, sono film che non invecchiano; il loro “sfruttamento” dura nel tempo e anche adesso, a distanza di anni dalla loro riedizione, qualche passaggio lo rimediano ancora. Aveva aperto la strada a questo genere di operazioni, nel lontano 1987, Shohei Imamura con un pacchetto di dieci film che qualche apparizione in giro la fanno ancora, di tanto in tanto. Da cosa erano rese possibili queste iniziative, che offrivano l’occasione a tanta gente di vedere in sala e proiettati su grande schermo film che non erano reperibili da nessuna parte? Diversi erano i fattori che entravano in gioco: un buon rapporto con gli aventi diritto, comprese le Major americane; l’intervento dell’ente pubblico, in particolare il Ministero dei Beni Culturali e Regione Lombardia; l’interesse di qualche sponsor privato; la condivisione strategica con la FIC – Federazione Italiana Cineforum; la partecipazione di Bergamo Film Meeting, sia come cassa di risonanza che come aiuto alle spese di sottotitolaggio in italiano; l’adesione di alcuni comuni e sale d’essai per ospitare le rassegne in altre città d’Italia; l’esistenza di una rete capillare di cineforum che favorivano ulteriormente la diffusione dei film. Questa concertazione tra diverse forze, unita al numero sempre crescente di opere a disposizione, permetteva di mantenere la struttura in buone condizioni di salute e allo stesso tempo di produrre un plusvalore da reinvestire in altre
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Il venditore di miracoli (2009) di Boreslaw Pawica e Jaroslaw Szoda
operazioni, anche limitate a singoli film, sicuramente destinati a un circuito ristretto, ma perfettamente in linea con l’idea di portare a conoscenza del pubblico il cinema che c’è ma non si vede. L’intento, un po’ romantico ma sincero, era di diffondere cultura, restando al di fuori o meglio ai margini della distribuzione commerciale, un mondo assolutamente proibito a una piccola casa di distribuzione come la Lab 80, che già alla fine degli anni Settanta aveva rischiato di chiudere per avere azzardato l’acquisto di L’uomo di marmo di Wajda, un gioiello di famiglia rivenduto a terzi perché non era rimasto più niente in cassa per completare l’edizione. Già allora, poi, era molto difficile trovare le sale che programmassero i film, soprattutto per una società indipendente come la Lab 80, a dimostrazione che i tempi, per certe cose, non sono poi tanto cambiati. Per tornare ad anni più vicini, pur essendosi aperta la parentesi felice di Il vento fa il suo giro, tutto quel concorso di forze di cui si diceva, viene meno: gli enti chiudono i rubinetti dei finanziamenti, i privati si ritirano, FIC e Bergamo Film Meeting a loro volta subiscono tagli ai loro bilanci, le spese in generale per la cultura diminuiscono, tante sale chiudono, l’associazionismo vive una situazione di profonda crisi. Di contro, aumentano i multiplex e le multisale, dove, tra l’odore dei popcorn e lo sfavillio di plastiche luci e colori, è difficile immaginare che ci sia qualche disperato o disperso o sopravvissuto che vada in cerca di un film di Bresson o di Dreyer. Le distribuzioni commerciali hanno i listini che scoppiano, si accaniscono contro i pochi esercenti illuminati ancora rimasti, soprattutto quelli che cercano di resistere nei centri urbani, pretendendo che facciano uscire il maggior numero di film, anche quelli che si sa già in partenza che non funzioneranno mai. Così, può capitare che in una sala sia program-
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mato più di un film al giorno, come se ci fosse un pubblico che si accalca alle porte, pur di entrare in sala. Sull’ignoranza, sui modi barbari di distributori ed esercenti in Italia si potrebbero scrivere libri, ma alla fine non vale la pena perdere il proprio tempo. Sta di fatto che il pubblico resta disorientato, non ha più luoghi e occasioni dove ritrovarsi, dove sentirsi a casa e fermarsi a fare due chiacchiere, per scambiarsi le prime impressioni. I film, soprattutto quelli che un tempo si definivano d’essai, hanno spesso vita breve. Le sale, per sopportare i costi, debbono cedere al mercato, rompere la continuità culturale per fare cassa: in questo modo perdono parte della loro identità e insieme la fedeltà degli spettatori più attenti e più esigenti. Con le situazioni che abbiamo descritto è molto difficile rimanere in pista, conservare l’aura di distributore indipendente, costruire nuovi percorsi. Qualche tentativo è stato fatto e lo si sta facendo con i documentari, anche qui raccolti in pacchetti e inseriti in un progetto, intitolato “Avanti!”, realizzato in collaborazione con alcuni festival italiani; ma il più delle volte la fatica non vale il risultato. Ci si può certo consolare pensando al fatto che pure i bellissimi documentari di Herzog e di altri autori noti non hanno raccolto granché al botteghino, ma il problema in ogni caso rimane. Va anche detto che probabilmente il pubblico che un tempo aveva curiosità per l’inedito e il nuovo, negli ultimi anni si è un po’ seduto, è diventato più conformista, più casalingo, più pantofolaio. Si muove poco, insomma; preferisce l’abitudine, l’allineamento a gusti più generali, la visione di pochi film “sicuri”, d’obbligo, altrimenti non si può conversare con gli amici, non si può uscire insieme. Un Woody Allen, un Özpetek, Il discorso del re : bisogna correre a vederli e tutto il resto Puccini e la fanciulla (2008) di Paolo Benvenuti passa in secondo piano. La Lab 80 è rimasta la sola ancora in vita tra le cooperative che erano nate negli anni Settanta, ma grazie al fatto che l’asse della sua attività si è spostato su altri settori, come la produzione, l’organizzazione di rassegne, la formazione, tanto per citarne alcune. Con la prevalenza della distribuzione sicuramente non sarebbe sopravvissuta, ma difficilmente si dimenticano le proprie origini. L’intento di diffondere la cultura dell’audiovisivo nelle sue forme meno conosciute, ma di sicuro più stimolanti e avvincenti, è ancora vivo, nonostante tutto. Purtroppo in questo Paese malconcio non è mai esistito un circuito di sale che un tempo si sarebbe chiamato “alternativo” e negli anni Ottanta, con termine inglese, non-theatrical . Parte di esso è trasmigrato nella rete dei festival, ma anche la maggior parte di essi se la sta passando male. Così come non è mai esistita una politica seria di sostegno ai soggetti attivi nel promuovere film che altrimenti non avrebbero alcuna chance, perché sulla carta non garantirebbero un adeguato ritorno economico. Quante occasioni sono state perse, quanti film sono rimasti a casa loro, quanta bellezza è rimasta
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Di madre in figlia (2008) di Andrea Zambelli
ignorata! Nessuno implora interventi di puro assistenzialismo, ma forse una sana, e libera da condizionamenti, azione di incentivi avrebbe permesso e permetterebbe una maggiore diversificazione dell’offerta. “Non ci sono soldi”: un ritornello che ci sentiamo ripetere di continuo, una formula che ha il sapore di un goffo esorcismo. Poi uno pensa agli sprechi, alla corruzione, al malaffare, agli investimenti finiti nel nulla; centinaia e centinaia di milioni di euro. Con somme al confronto piccolissime, poche decine di migliaia di euro, si potrebbero fare molte cose, ridare vitalità a un circuito sommerso, ma capillare, che intercetterebbe un pubblico interessato, che però non trova occasioni per muoversi, al di là della fortuna o meno di avere nelle vicinanze, almeno una volta all’anno, un qualche festival. È un’utopia, tutto questo? Probabilmente sì. È vero, oggi un enorme materiale è disponibile online e questo di sicuro è uno dei canali possibili di diffusione di certi film, anche se, con listini necessariamente ridotti e con la presenza anche qui di grosse compagnie, è molto difficile pensare a un recupero dei costi e alla disponibilità di quote da reinvestire. Tanto più – e questo succede già da alcuni anni – che le condizioni di trattativa imposte dagli aventi diritto, soprattutto per quanto riguarda i film di finzione, sono assolutamente proibitive per un piccolo distributore come la Lab 80: in sostanza, si preferisce tenere i film nel cassetto, consumarlo nel maggior numero di festival in Europa o nel resto del mondo, piuttosto che scendere a richieste più ragionevoli. Salvo “liberare”, dopo un paio d’anni, il film per la distribuzione in dvd, anche questo settore controllato dalla grossa editoria e dalla grande distribuzione. Questa, in ogni caso, è una strada interessante, dove è possibile coltivare piccoli prodotti (che brutta parola!) e inventare operazioni intelligenti, gestite con
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consapevolezza e, perché no, con l’affetto che abbiamo sempre profuso nelle scelte e nell’azione di corteggiamento di film che sono in linea con la filosofia che ci ha sempre ispirati e che guarda con attenzione al cinema intelligentemente e intenzionalmente marginale, di confine, irrequieto, creativo in maniera provocatoria; un cinema che sa ancora rischiare, rappresentare la realtà suscitando domande, dubbi, incertezze, desiderio di capire. Si può pensare che questo atteggiamento di buona volontà sia già in partenza destinato alla sconfitta, ma se ha senso ancora fare questo lavoro, è giusto allora tenersi fuori del marasma, o dalla giungla se si preferisce, cercando di contribuire a rivitalizzare un circuito e con esso smuovere Indesiderabili (2010) di Chiara Cremaschi un pubblico potenziale, che è stanco di vedere sempre le stesse cose. Le associazioni di cultura cinematografica dovrebbero iniziare a porsi il problema della crisi dei circoli e questi a loro volta dovrebbero interrogarsi su come cambiare, quali programmi produrre, quale ruolo ridisegnare all’interno delle singole realtà territoriali, perché, se vorranno continuare a vivere e ad avere ancora una funzione culturale, non potranno aspettare l’aiuto dei soliti santi in paradiso, che probabilmente, di questi tempi, se la passano Pizza ad Auschwitz (2009) di Moshe Zimerman male anche loro. Esistono casi in cui le persone hanno saputo reagire, che si stanno inventando percorsi e strategie alternativi (ahimé, di nuovo l’aggettivo!), in spazi diversi, con l’utilizzo sapiente dei supporti video, con proposte inedite e in grado di raccogliere aspettative latenti. Interventi di questo tipo sono la vera sfida al presente, ma essi richiedono molta più attenzione di un tempo, maggiore informazione, nuove modalità di analisi. Ce la si farà? Bella domanda!
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FESTIVAL
BERGAMO FILM MEETING 30
Americano di Mathieu Demy
CONCORSO
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Ha festeggiato il trentennale a modo suo il Bergamo Film Meeting (la cui trentesima edizione, appunto, si è svolta a Bergamo dal 10 al 18 marzo 2012): senza festeggiamenti. O meglio, festeggiando come meglio sa fare: proiettando film.Ampio e vario anche quest’anno il programma diviso in varie sezioni: la Mostra Concorso ha presentato una selezione di sette film di giovani autori. Accanto a questa, ha riscosso particolare successo la personale dedicata al regista spagnolo Fernando Léon de Aranoa, così come molto gradite dal pubblico,che anche quest’anno ha partecipato in massa alle proiezioni che si tenevano preso l’Auditorium di piazza della Libertà, sono state le sezioni dedicate a “I confini dell’Europa”,“Ritratto d’autore.Anni ’70: uomini che raccontano le donne”, “L’ombra del dubbio. L’ambiguità come essenza del noir” e “Midnight Movie. L’ombra del doppio”. Completavano il programma, la sezione di documentari intitolata “Visti da vicino” (proiettati presso la sala video dell’Università di Bergamo, nella sede della facoltà di Scienze Umanistiche) e la mostra “Crime. Attento: sei seguito dalle ombre”, dedicata al fumettista Igort. Per quanto riguarda i film della Mostra Concorso – che vengono sempre votati dal pubblico tramite apposite schede – i premi Bergamo Film Meeting del 2012 sono andati rispettivamente al francese Americano di
Mathieu Demy (primo premio), all’ispano-argentino Las acacias di Pablo Giorgelli (secondo premio), e al francese En Ville di Valérie Mréjen e Bertrand Schefer. Gli altri film in concorso erano, lo spagnolo La mitad de Óscar , l’israelo-francese Emek tiferet (A Beautiful Valley), il rumeno-ungherese Din dragoste cu cele mai bune intentii (Best Intentions) e l’olandese Onder ons (Among Us). Detto questo e, fatto salvo che lo stesso pubblico, che pure li ha votati, ha espresso qualche malumore sul film vincitore, anche noi avremmo preferito, al posto di quello del figlio d’arte (Mathieu Demy è figlio di Agnès Varda e Jacques Demy), Las acacias , proprio per la sua straordinaria capacità di dire molto con poco, di tenere avvinti con una storia minuta ma che sprigiona un calore inaspettato, per la naturalità apparentemente dimessa di una messa in scena che invece, proprio nella cifra della sottrazione, trova la sua grandezza e la sua bellezza. En ville è invece un film che, per esplicita ammissione del suo autore, che lo ha presentato al pubblico in sala, si ispira al cinema di Michelangelo Antonioni. Aggiornato, va da sé, all’estetica contemporanea di un cinema francese sospeso tra parola e immagine o meglio, deleuzianamente, tra immagine e movimento: l’immagine di un luogo e dei corpi, e il movimento dei sentimenti che questi determinano e delimitano, creando un cortocircuito emotivo trattenuto e quasi astratto e al tempo stesso deflagrante.
Las acacias di Pablo Giorgelli
In Americano di Mathieu Demy il protagonista Martin, in crisi con la sua compagna Claire (che vorrebbe un figlio), riceve la notizia della morte della madre che viveva a Los Angeles. Turbato e un po’ contro voglia parte per gli Stati Uniti. Qui riemerge la figura di Lola, una ragazzina messicana con cui Martin giocava da piccolo e che sembra scomparsa, forse ritornata in Messico. Martin, come ipnotizzato, parte per Tijuana alla sua ricerca. La “sua” Lola richiama, naturalmente, la Anouk Aimée di Lola – Donna di vita , girato dal padre nel 1960,così come gli inserti d’epoca sono immagini tratte dal film Documenteur girato da Agnès Varda a Los Angeles nel 1981, nel quale il bambino è lo stesso Mathieu da piccolo. Mathieu Demy si sporge allora sull’abisso di questi ricordi, li elabora e li supera attraverso la mediazione catartica del cinema. Si respira un’aria di famiglia, quindi, nell’opera prima del rampollo di casa Demy. O meglio, Demy si lascia tentare dall’aria di famiglia per drammatizzarla, per utilizzarla come catalizzatore di una vicenda che, sfiorando l’autobiografia, la supera trasformandola in cinema. Onder ons , del regista olandese Marco van Geffen, è un dramma psicologico che scivola nel thriller senza eccedere sul pedale effettistico, levigando anzi la materia narrativa e lavorando sulle sfaccettature della trama. Una giovane ragazza polacca, Ewa, viene assunta come ragazza alla pari da una famiglia olandese che vive in una piccola città. La lontananza da casa e dagli affetti sono per la ragazza fonte
di una certa inquietudine, che si traduce in timida riservatezza ma che, a un certo punto, sfocia in comportamenti un po’ controversi. Tutto questo è in parte stemperato dall’amicizia con un’altra ragazza polacca, Aga, con la quale trova una consonanza di affetti. Anche se, a volte, l’atteggiamento un po’ troppo libero e scanzonato di Aga disturba la naturale riservatezza di Ewa. Su questo terreno si gioca una partita interna alla narrazione e una legata al linguaggio del film: la prima, come dicevamo, lavora per indizi e accenni, gioca sulle atmosfere e il non detto (Ewa ha davvero scoperto l’identità del maniaco che imperversa nei dintorni?); la seconda si riverbera sulla moltiplicazione dei punti di vista, sulle ridondanze della visione, sul rimescolamento spazio-temporale. Din dragoste cu cele mai bune inten- tii , del rumeno Adrian Sitaru, è una bella ed energica prova di regìa (il film si è aggiudicato il premio per la miglior regìa al Festival del cinema di Locarno), con al centro della vicenda il personaggio di Alex, un giovanotto ipercinetico e perennemente attaccato al telefono cellulare che viene avvertito dal padre del ricovero della madre a causa di un ictus. Messosi immediatamente in viaggio,Alex giunge all’ospedale avendo già mosso mari e monti per far trasferire la madre in una struttura, secondo lui, più adeguata. Inizia così un tragicomico balletto tra lui, il padre, la madre (che sembra stare già meglio), i medici, le amiche e le colleghe della donna; un balletto che si trasforma in una sarabanda indiavolata dove tutti vogliono dare consigli, portare conforto, segnalare casi simili ed esempi di guarigioni. Il tutto, naturalmente, come suggerisce il titolo, fatto con le migliori intenzioni; a parte scoprire poi, con grande scorno del nostro (anti)eroe che proprio gli alimenti che lui ha portato all’adorata mamma hanno contribuito a peggiorarne, a un certo punto, le condizioni. Una riflessione sulla caducità della vita? Più che altro un vademecum abbastanza perfido sull’uso e soprattutto l’abuso degli affetti: un abbraccio troppo forte può soffocare anziché dare conforto. Emek tiferet , dell’israeliana Hadar Friedlich, è raccontato sul filo della
memoria tra un passato forse mitizzato e un presente forse scoraggiante, mentre La mitad de Óscar , dello spagnolo Manuel Martín Cuenca, ci è sembrato un po’ un pastrocchio, riscattato però da una splendida fotografia e da una sequenza (quando il fratello e la sorella discendono la scogliera verso l’oceano) di spaesamento molto inquietante,e questa sì antonioniana (e non un po’“falsa”come nel caso di En ville ): un momento di grande forza evocatrice e perturbante. Andrea Frambrosi
RITRATTO D’AUTORE Se mi è consentito aprire questo breve commento sulla proposta del Meeting di Bergamo intitolata “Ritratto d’autore. Anni ’70, uomini che raccontano le donne” con un richiamo fuori tema, ricorderei Prologue , il film di Béla Tarr che in cinque minuti racconta l’Ungheria di oggi e lancia un monito all’Europa. Non ai vertici di UE e BCE – che sembrano ormai presi dal gusto antico di “sorvegliare e punire” – ma ai dubbiosi dei governi, se ci sono, una copia del corto andrebbe mandata. Sono fuori tema? Sì,ma fino a un certo punto. La rassegna, presentata in catalogo da Angelo Signorelli, si prestava a qualche perplessità: film assai conosciuti, quasi tutti reperibili sul mercato
Ascensore per il patibolo di Louis Malle
dvd, eccetera. Lo stesso Signorelli non se lo nasconde, e tuttavia rivendica l’utilità di allestire un raffronto fra opere di uomini che si sono occupati della soggettività femminile trascinati dai movimenti degli anni Settanta; opere di programmatica mediazione, nella maggior parte dei casi, ossia legate dal bisogno comune ad autori diversi di sondare la profondità e, al tempo stesso, prendere distanza. Salvo due, i film della rassegna (compreso Soffio al cuore di Malle, che sentiremmo vicino ma racconta una storia di mezzo secolo fa) sono “in costume”, cioè consoni alle astrazioni di certa classicità. È stato utile, dunque, vederli uno accanto all’altro, per poi ricondurli a una considerazione critica tagliata su ogni opera in sé e sul tempo che la separa dall’oggi. Ancora Signorelli, d’altro canto, ha voluto in tal senso avvertire: «Rivedendo i film, che qui abbiamo passato in rassegna», scrive alla fine della presentazione in Catalogo «ci è sembrato che contenessero riferimenti, agganci, segnali, sedimenti di un’epoca. Forse è solo una sensazione, ma in fondo stiamo solo tirando dei fili immaginari, stiamo costruendo una trama possibile, che poi non è altro che una forma di scommessa, una partita che ogni spettatore può giocare come vuole» (1). Quanto a me ho in generale avvertito il bisogno di rileggere i film secondo (1) “Gli anni Settanta: sussurri e grida”,Catalogo della XXX Edizione del Bergamo Film Meeting , Bergamo 2012, pag. 75.
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il valore dei rapporti stabiliti con la cultura e la tradizione (classici, dicevo, anche per i modi di deviare o trasgredire) e secondo resistenza. Soffio al cuore, per cominciare, mi è parso fra i più datati: se negli anni Settanta la sua frivolezza già appariva equivoca, ma era coperta dalla contingente legittimità di fare scandalo, oggi emerge come disvalore per un’ironia di superficie e una gravità (il sentimento madre-figlio, il loro segreto) tutta regolata sul gusto. Nella sua eclettica carriera Malle ha ceduto diverse volte alle tentazioni di una sommaria scanzonatura; fortunatamente, e in ogni fase, ha saputo darci opere autentiche: da Ascensore per il patibolo a Fuoco fatuo , da Lacombe Lucien ad Arrive- derci ragazzi e Vanya . Diverso il discorso su Chabrol e Violette Nozière , un film riconducibile alla provocatoria amoralità spesso usata dai “Moralisti della Ragione”, cioè capace di filtrare la sgradevolezza di una sorte femminile dagli insegnamenti ancora preziosi di Zola, Maupassant e Jean Renoir. Denso di umori strindberghiani (il rosso come substrato del nero d’ombra o viceversa) Sussurri e grida di Bergman mi sembra adesso, più che a suo tempo, alterno di momenti sublimi e cadute, ossia frammentario, diseguale. Le donne di Bergman, comunque, sono le sue attrici, e da questo lato l’intera opera costringe a un’ammirazione senza riserve. La cagna di Ferreri – che non è in costume ma lo diventa per il carattere di fiaba – può rivelare debiti dal Beckett di Giorni felici : semiconsapevoli, ma solo in apparenza, perché chi ha voluto approfondire l’opera di questo autore si è accorto di quanto egli sapesse attingere alla moderna cultura europea pur ricorrendo alla lingua dei generi o agli specchi deformi della negazione. Messaggero d’amore di Losey – sarà interessante vedere cosa ci darà del maestro la prossima retrospettiva torinese, dopo anni di oblio ingiusto, forse “penitenziale” – era e rimane a mio avviso un capolavoro: lunga attualità dei sentimenti (o deleuziana contemporaneità), filologica e mai calligrafica ricostruzione d’ambiente,
spietata analisi della subalternità della donna amorosa in un quadro di regole “fondative”anche per gli equilibri sociali postvittoriani. Non si può parlare di capolavoro, invece, per Le due inglesi di Truffaut, anzi di finesse professionalmente “rassicurata” e ultralineare, mentre capolavoro resta, a mio avviso e per tanti motivi, La Marchesa von… di Rohmer; cioè per la dialettica uomo-donna e l’inestricabilità del desiderio – specie se ancora la donna è il luogo della sua rappresentazione – la lettura di Kleist e delle sue profetiche passioni compiuta cogliendo il superiore scetticismo verso una sacralità prussiana pur drammaticamente subìta (basti ricordare il rullo dei tamburi dopo l’happy ending sentimentale, lo stesso che aveva accompagnato la fucilazione degli inferiori), e ancora per la scommessa vinta da un filmico messo alla prova dalla puntigliosa fedeltà col testo letterario. Restano Quell’oscuro oggetto del desiderio , estremo, “anacronistico” ed eversivo saluto di un gigante che ha percorso il Novecento facendo storia con anarchico sussiego e superiore distacco d’artista, e Il caso Katharina Blum . Accolto a suo tempo con qualche favore “militante”, il film di Schlöndorff/Von Trotta ha presto avuto dai più (anche da chi scrive) un decrescente rispetto fino a essere completamente oscurato dalla fama (meritata) dei Kluge, Wenders, Fassbinder, Herzog e altri. Nel quadro della rassegna bergamasca, dopo tanti anni, poteva però sortire un curioso effetto di “attualità”; per l’aderenza al severo e polemicissimo testo di Böll, poi per un intento dichiarato di “medietà comunicativa”nella denuncia (ma non dimentichiamo la nitida e palpitante figura incarnata da Angela Winkler), infine per la memoria di una situazione, quella tedesca degli anni Settanta, dominata da tentazioni autoritarie sostenute dai media e dai giornali del gruppo Springer. Già. La Germania dei giorni nostri, presa a modello da ogni dove, ha per buona parte quell’entroterra e, probabilmente, la prima ad averne dichiaratamente approfittato è la cancelliera Merkel. Ribadito una volta per tutte che Il caso Katharina Blum non va oltre
La Marchesa von... di Eric Rohmer
l’onestà di un buon film medio, occorre subito ricordare che i sopramenzionati Kluge,Wenders, Fassbinder, Herzog si collocavano, ciascuno a suo modo, sullo stesso versante “politico”, e che anche per questa ragione si cominciò ad apprezzarli. Far finta di nulla in nome dell’arte è pura ipocrisia; come distinguere senza pensarci troppo la Thatcher (non avevamo, tutti o quasi, approvato le battaglie di Loach?) dalla Merkel, e il liberismo di vent’anni fa da quello che oggi ha condotto alla crisi avendo in cambio dall’Europa – divino paradosso – il compito di risolverla. Sotto tale profilo si potrebbe davvero dire che il richiamo a Béla Tarr fatto all’inizio è fuori tema solo in apparenza. Tullio Masoni
FERNANDO LEÓN DE ARANOA Fernando León de Aranoa è noto in Italia per il suo fortunato I lunedì al sole (2002). Film militante, si è giustamente detto da più parti,capace di uno sguardo critico e disilluso sulla società, film sensibile alle tematiche del lavoro e dello sfruttamento. Narratore abile il suo regista: prendendo spunto dalla realtà di un duro e fallimentare scontro
I lunedì al sole di Fernando León de Aranoa
sindacale, l’autore madrileno riusciva a costruire un’opera corale e accorata, abitata da personaggi memorabili per umanità e ironia. Abbandonati in un presente desolato, piombati in uno stato di frustrante e ripetitiva mancanza di senso sociale ed esistenziale,i protagonisti alla fine della pellicola incarnavano con orgogliosa vitalità un dignitoso e vibrante anelito alla lotta, nonostante tutto. Liberi e sognanti, ci lasciavano tornare alla nostra vita dopo aver compiuto un deliberato e sconsiderato atto di sfida e di resistenza. Il cinema di Aranoa parla al presente del presente situandosi all’interno del presente stesso, con la consapevolezza di chi sa di farne parte, con lo sguardo di chi osserva l’oggi senz’alcun distacco, umilmente scevro da supponenze e intellettualismi, piuttosto con la partecipe volontà di entrare nel gioco per osservarne, viverne e patirne le dinamiche, giungendo solo infine, dopo un confronto aperto e rischioso, a distaccarsene per divenire voce critica ed eccentrica. Si veda ad esempio come viene rappresentata, nel suo cinema, l’istituzione sociale primaria, la famiglia: già dal primo, sorprendente lungometraggio, Familia (1996), Aranoa si addentra in profondità nei luoghi oscuri di un presunto nucleo familiare per illustrare dal di dentro tensioni, contraddizioni e inauditi squarci che i rapporti tra congiunti sanno squadernare, spiazzando poi lo spettatore con un vero e proprio coup de théâtre capace di ribaltare
ogni logora prospettiva. Si veda l’ultima sua pellicola, Amador (2011), opera sussurrata, carsica, riflessiva, cromaticamente morbida e ritmicamente impostata sull’adagio , film vitale che matura l’accettazione della morte e la sua integrazione nel puzzle della vita, film che trova la sua pacificazione nella memoria, nel rispetto e nel ricordo di sé e dell’altro, soprattutto di ciò che di invisibile c’è in se stessi e negli altri. Aranoa, regista tanto spesso segnalato esclusivamente come strenuo realista militante, quasi fosse un novello Ken Loach iberico, sa sì insinuarsi nella realtà sociale e umana, ma ama poi sorvolare sognante, anche solo con il pensiero e il ricordo,le superfici indefinibili del mare alla ricerca di Sirenas (primo cortometraggio, 1994), ama superarne le vastità per incontrare esotiche Princesas (abitato dai corpi in vendita e dalle anime sognanti di due prostitute, 2005), ama sollevare lo sguardo verso le vastità inaccessibili del cielo per contemplare le nuvole e vedere in esse forme mutevoli e segreti arcani. Da Amador : «Dio, quando si vergogna, si nasconde dietro le nuvole». La domanda è: si vergogna di se stesso, di noi o di entrambi? Invisibile tra invisibili, in una realtà in cui ciò che più conta è spesso invisibile. Nel suo manifesto esortativo Contro l’ipermetropia , Aranoa si spende affinché «il cinema ipermetrope, che solo vede bene quello che succede a distanza, si occupi di quello che ha vicino, di
quello che dimentica perché non vede chiaramente,perché non lo vuole vedere». E allora si occupi di adolescenti spersi nell’estate soffocante e aliena di un Barrio (1998), dei dimenticati e di chi i loro diritti li difende, anche con il volto nascosto del subcomandante Marcos (Caminantes , 2001), di lavoratori disoccupati, di prostitute («Le donne invisibili, non le potete vedere, ma forse sono l’unica cosa reale»), dei bambini-soldato del Nord dell’Uganda a cui i sogni sono negati dall’incubo della guerra (Buenas noches, Ouma , episodio del collettivo Invisibles , 2007), di una giovane immigrata capace di lasciarsi scivolare con disperata levità tra la vita e la morte. «Che i protagonisti siano loro… Che i nostri racconti siano i loro pezzi di vita… Che il genere lo racconti la vita». Disegnatore per talento, sceneggiatore per formazione, scrittore per vocazione, regista per spirito e sguardo sul reale, se pur Aranoa tende all’invisibile, non cerca però il metafisico, ma ciò che i nostri occhi non vedono, le nostre orecchie non sentono, i nostri nasi non fiutano perché distratti, perché tanto presuntuosi e disillusi da non riuscir a percepire che, dietro a quella grande illusione che è la nostra realtà, si cela un’invisibilità manifesta a chiunque la sa cogliere. Ecco giustificata la mai banale trasparenza stilistica delle sue opere, la sua curiosa discrezione, l’impudica pietas e l’ironica vicinanza empatica ai luoghi e ai personaggi. «Si tratta di conoscerli emozionalmente, non intellettualmente». Ecco giustificata allora la predilezione per la fiction rispetto al documentario: «Mi sembra più onesta, più trasparente: in essa il contratto con lo spettatore è più chiaro. Tutto quello che vedrà sullo schermo è ricreato, scritto. È in realtà una grande bugia, che persegue l’obiettivo finale di trasmettere una verità». Giungiamo quindi a quello che, alla luce della retrospettiva proposta dal Bergamo Film Meeting, pare il cuore del suo cinema: il dolce naufragare nei propri sogni a cui l’uomo, immerso in una realtà ostile e inautentica, s’abbandona. «Credo che i film di finzione che ho girato abbiano un rapporto difficile con la realtà, di amore e odio assieme. Credo che partano dalla realtà per
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allontanarsi e scappare via in un’altra direzione. Che utilizzino la realtà un po’ come rampa di lancio. In questo modo la realtà non diventa un obiettivo in sé, ma un punto di partenza verso un luogo in cui i personaggi hanno bisogno di fuggire e questo perché, a modo suo,è la stessa cosa che anche la narrazione fa». Dov’è il mare? Hai mai visto la coda delle sirene? Hai mai udito il loro canto? Cosa c’è dietro le nuvole? Cosa c’è dall’altra parte del mondo, laddove tutto è diverso,sotto-sopra,agli antipodi? Aranoa si guarda bene dal rispondere a queste domande, si guarda bene dal mostrare il visibile dell’invisibile. Ciò che mostra è un’umanità che lotta per sopravvivere e trovare strategie per continuare a sognare e trasformare con essi, con i propri sogni, la realtà. Come nel finale di I lunedì al sole , alla deriva sulla coperta della “Lady España”, naufragando per affermare la propria dignità, resistendo per sfidare il degrado di un reale distorto che vuole monetizzare e obliare i sogni. Giuseppe Imperatore
VISTI DA VICINO «Per filmare tutto questo ho bisogno di una videocamera più robusta!», esclama Emad Burnat, regista (insieme con Guy Davidi) e principale inter-
5 Broken Cameras di Emad Burnat
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prete di 5 Broken Cameras . Quelli che sta documentando sono gli scontri tra l’esercito dello Stato di Israele e gli abitanti di alcuni villaggi palestinesi la cui sopravvivenza è minacciata dall’espansione degli insediamenti israeliani. Ed è una frase, quella di Emad, che racchiude un significato certamente più profondo di quello riferito alla nozione di più immediato riscontro. Un commento che assurge allo stato di metafora e che si carica di tutto un universo di senso che concerne, investe e addirittura supera il côté prettamente riferito all’orrore dell’esperienza bellica. Ponendo, di fatto, una serie di interrogativi sul ruolo della narrazione cinematografica, sul sempre più labile confine che distingue racconto e documentazione, trasposizione e interpretazione e, soprattutto, sul discrimine che sussiste fra gli elementi formali della costruzione filmica (il come) e l’esperienza percettiva offerta dal reale (il cosa). “Visti da vicino”, al suo sesto anno di vita, non smette di interrogarsi sui molteplici ruoli e le infinite possibilità espressive della messinscena, non cessa di cercare linguaggi difformi, esperienze visive altre e le applicazioni sempre nuove che il mezzo cinematografico consente di esplorare. E come d’abitudine i film della selezione, quest’anno undici, riescono a fornire un quadro molteplice e cangiante della realtà che ci circonda, in tutte le sue forme. Se il film di Burnat rappresenta il lavoro più interessante fra quelli proposti dalla rassegna, pare davvero doveroso considerare la sezione nella sua interezza, al fine di cogliere la polisemia di senso che ne contraddistingue l’essenza e avvertirsi della profonda eterogeneità dei percorsi, degli stili e dei linguaggi di un cinema che tira avanti nonostante i circuiti tradizionali, gli spettacoli mainstream e le attrazioni video-ludiche; un cinema che nonostante tutto dimostra di esserci e di essere (ancora) vivo. La guerra è protagonista anche nel lavoro del norvegese Klaus Erik Okstad Det afghanske mareritter (The Afghan Nightmare). La travagliata vicenda del colonnello norvegese Rune Solberg, comandante del contingente
NATO della provincia afghana di Faryab,
diviene una meravigliosa metafora dell’insensatezza della guerra, carica di un’ancora maggiore assurdità, quest’ultima, nel suo divenire riflesso dell’attesa di un incompiuto e della sospensione della dimensione reale, quotidiana e umana della vita. Atelier Colla di Pietro De Tilla, Elvio Manuzzi e Guglielmo Trupia, uno dei due film italiani presenti nel programma, sceglie invece di osservare – più che di descrivere – il lavoro della compagnia di marionette milanese di Carlo Colla. Quello che viene a originarsi è un racconto che oscilla fra passato e futuro, fra tradizione e rinnovamento, oltre che l’immersione in un territorio dell’arte quasi del tutto sconosciuto. Ma l’osservazione, atteggiamento della percezione capace di diventare metro compositivo, strumento d’analisi e paradigma della narrazione, può declinare la propria essenza in un’infinita varietà di forme. Come in Dimanche à Brazzaville degli spagnoli Enrich Bach e Adrià Monés, ove il semplice stare a guardare rivela particolari capaci di mettere in discussione tante delle certezze e delle convinzioni che ognuno di noi coltiva sul Continente africano. Oppure come in One Man Riot di Christopher Evans e Angus Hohenboken, un work in progress in cui anche la bizzarra disciplina del Celtic Wrestling riesce a ergersi a metafora di un mondo e di una società ai margini cui non mancano, però, dignità, fierezza e spirito unitario. E se osservare, quale atto ontologico, si unisce a uno stato d’animo sensorio quale quello dell’attesa, ciò che si produce è un sentimento dell’essenza esile, quasi irreale. È il caso di due film dell’Europa dell’Est: Decre- scendo di Marta Minorowicz e Nesvatbov (Matchmaking Mayor: The Heart Can’t Be Commanded) di Erika Hníková, opere che parlano di solitudine da prospettive diversissime, quasi opposte, ma che hanno il pregio di suggerire la medesima atmosfera di evanescenza, di rarefazione e di morte. Lorenzo Rossi
LE LUNE DEL CINEMA A CURA DI NUCCIO LODATO
[email protected] 1 MARZO 2012 Muore a Montreux (Vaud, Svizzera), all’età di 68 anni, Lucio Dalla, nato a Bologna il 4 marzo 1943. Musicista, cantante, compositore, regista lirico e tante altre cose ancora, sodale del poeta Roberto Roversi e poi di Francesco De Gregori e Gianni Morandi, è per decenni una figura dominante – pur nelle sue varie diversità o grazie a esse – del panorama musicale. Lo ricordiamo anche per le sue partecipazioni cinematografiche, musicarelli a parte: Sovversivi (1967, dei Taviani, bravissimo), Questi fantasmi (1968, di Renato Castellani), Il santo patrono (1972, di Bitto Albertini, protagonista), La mazurka del barone,
ri (il quotidiano socialista genovese «Il Lavoro», i cui proprietari Canepa avevano resistito al regime durante il ventennio; il settimanale del PCI «Vie Nuove»); diviene il fotografo fisso della CGIL con la segreteria Di Vittorio e affianca Ernesto De Martino e Diego Carpitella nella scoperta antropo-etno-musicologica del Meridione, fotodocumentandole. Promuove instancabilmente importanti testate di fotografia («Photo 13», «Phototeca», «Index», «Popular Photography Italiana») e pubblica volumi basilari ( Storia sociale della fotografia , 1976; Wanted 1978 e 2003; Storia infame della fotografia ). Una ventina d’anni fa si era ritirato dalla professione militante, tornando a vivere, con la moglie Luciana (sposata nel 1950, e con la quale aveva fondato nel 1962 a Milano la Fototeca Storica Italiana, tuttora operante) in una casa di famiglia tra le dolci colline acquesi. Senza interrompere la propria vulcanica attività, affidata, anche dalla sopravvenuta sedia a rotelle, a Facebook e Google. Fino alla creazione, quattro anni fa, del proprio canale personale su Youtube, denominato TubArt, «bannato più volte e sempre riammesso a furor di popolo. Diceva “meglio ladro che fotografo”, ma è stato il grande Lupin, il Robin Hood che ha trafugato l’eredità di Daguerre dai saloni e dai soloni delle accademie per restituirla a tutti, soprattutto ai suoi veri eroi, i magnifici randagi anonimi della fotografia povera e di strada, i reietti, i sottoproletari delle figurine sottobanco, maleducate e irriverenti» (Michele Smargiassi, «la Repubblica»).
7 MARZO 2011 Grandissimo orecchio, ma anche un occhio niente male: Lucio Dalla è l’aspirante fotografo Ermanno in Sovversivi (1967) d ei fratelli Taviani.
della santa e del fico fiorone (1975, di Pupi Avati), Borotalco (1982, di Carlo Verdone), I picari (1987, di Mario Monicelli), Il frullo del passero (1988, di Gianfranco Mingozzi), Pummarò (1989, di Michele Placido), Al di là delle nuvole (1995, di Michelangelo Antonioni), Gli amici del bar Margherita (2009, di Avati), una galleria di personaggi che si sarebbe potuto incrementare. Memorabile il suo Sancho nel Quijote (2006) di Mimmo Paladino. Oltre che di Il santo patrono , I picari , Pummarò , Gli amici del bar Margherita , sono sue le musiche, sempre funzionali, di Signore e signori, buonanotte (1976, di Luigi Comencini e altri) e Il cuore grande delle ragazze (2011, di Avati). [lopedeluna ]
5 MARZO 2012 Muore a 91 anni a Ponzone (Alessandria) Ando Gilardi, nato ad Arquata Scrivia (Alessandria) nei primi mesi del 1921. Ebreo deportato e sopravvissuto ai campi di sterminio, inizia a fotografare su incarico delle truppe alleate, che gli commissionano una documentazione sulla Shoah da utilizzarsi in aula a Norimberga. Al rientro in patria, continua a farlo per testate di sinistra all’epoca assai popola-
Muore a Milano, all’età di 91 anni, Lucia Mannucci, nata a Bologna il 18 maggio 1920. Cantante solista, attrice di musical, presentatrice di programmi televisivi, è più nota come voce femminile dal 1947 del Quartetto Cetra, fondato nel 1941 dal suo futuro marito Virgilio Savona, da Tata Giacobetti, da Felice Chiusano e da Enrico De Angelis, sostituendo proprio quest’ultimo. Celebri le loro partecipazioni, nella tv in bianco e nero, a trasmissioni quali Biblioteca di Studio Uno (sette puntante di parodie letterarie, dirette da Antonello Falqui, nel 1964) e Non canta- re, spara (1968, di Daniele D’Anza). Il quartetto si fa unanimemente apprezzare per gusto musicale, garbo, presenza scenica, senso dell’ironia, tanto da essere non tanto paradossalmente paragonato (per esempio da Francesco Guccini) ai quattro di Liverpool. La si può rivedere nei film Maracatumba… ma non è una rumba (1949, di Edmondo Lozzi), Ferragosto in bikini (1960, di Marino Girolami) e La ragazza sotto il lenzuolo (1961, di Girolami). Assieme a Savona, ha svolto una preziosa attività di ricerca nell’ambito della musica popolare. [lopedeluna ]
10 MARZO 2012 Muore a Parigi, all’età di 73 anni, Jean Giraud, in arte Moebius, nato a Nogent sur Marne l’8 maggio 1938. Grandissimo “fumettaro” (indimenticabile per il Garage
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intoccabili (1968), per Risi Vedo nudo (1969, con Sandro D’Eva); negli anni Settanta sarà a fianco, tra gli altri, di Argento (Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio , 1971), Eriprando Visconti (Il caso Pisciotta , 1972), Bellocchio ( Sbatti il mostro in prima pagina , id.) e Avati (Bordella , 1975). Autobiografia: Una vita messa a fuoco , scaricabile gratuitamente dal sito www.erico-menczer.com, ricco altresì di materiali sulla sua opera di romanziere, pittore e, naturalmente, fotografo.
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Les Maîtres du temps (1982), frutto della collaborazione fra i visionari talenti di Moebius e René Laloux.
Il sindaco di Ladispoli, Paliotta, annuncia che una parte della casa che fu di Roberto Rossellini diventerà centro di associazionismo culturale. Nello stabile di via Duca degli Abruzzi appartenuto a “nonno” Zefiro, il maestro trascorse larga parte dell’infanzia e dell’adolescenza coi fratelli Renzo e Marcella, e girò i suoi primi documentari: in particolare Fantasia sottomarina (1939).
ermetico e per la saga western Blueberry ), «miglior artista
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delle arti grafiche», come lo definisce il Ministro della cultura Jack Lang insignendolo di un prestigioso premio, «Michelangelo della matita», come lo ricordano gli infiniti estimatori (da Federico Fellini, che gli rende omaggio in Casanova , ad Alejandro Jodorovsky, che con lui sogna un adattamento della saga Dune , a David Lynch, che se ne ricorda nella sua versione), lega il suo nome ad Alien (1979, di Ridley Scott), a Tron (1982, di Steven Lisberger), a The Abyss (1989, di James Cameron), a Il quinto elemento (1997, di Luc Besson), che si ispirano alle sue atmosfere o ricorrono alle sue consulenze, con un rapporto che egli mantiene pudicamente mediato e indiretto. Collabora con René Laloux per creare il film animato Les Maîtres du temps (1982). [lopedeluna ]
Si inaugura Bergamo Film Meeting, giunto clamorosamente, contro tutto e tutti, alla trentesima edizione. Vincerà Americano , l’esordio di Mathieu Demy, il figlio di Jacques e di Agnès Varda. Buon sangue non mente, per i cineasti e per i festival…
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Muore a Roma a 85 anni Erico Menczer, nato a Fiume l’8 maggio 1926. Perseguitato per la sua origine ebraica sia dal fascismo che dalla Jugoslavia di Tito nel dopoguerra, interrompe gli studi universitari e comincia un’attività fotografica che lo porta a divenire operatore per «La Settimana Incom». A Genova, dove si era stabilito con la famiglia e aveva seguito nel 1949 le riprese di Le mura di Malapaga da parte di René Clément, diviene assistente operatore con Gianni di Venanzo per Achtung banditi! di Lizzani, passando poi ad aiuto per Cronache di poveri amanti (Lizzani, 1953), Le ragazze di San Frediano (Zurlini, 1954), Le amiche e Il grido (Antonioni, 1955 e 1957), La sfida (Rosi, 1957), Un ettaro di cielo (Casadio, 1958) e I soliti ignoti (Monicelli, id.). Aveva già debuttato come direttore della fotografia per Giovanna di Pontecorvo (1956), ma lo diviene stabilmente, da Le pillo- le d’Ercole (1960), con Luciano Salce, di cui sarà l’abituale datore di luci, affiancandolo per ben quindici film, a cominciare dagli immediatamente successivi Il federale , La voglia matta e Le ore dell’amore (1961-1963). Torna contemporaneamente ancora con Lizzani per L’oro di Roma e La vita agra , e gira con Manfredi lo straordinario episodio L’avventura di un soldato di L’amore difficile (1962). Per i Taviani e Orsini firma I fuorilegge del matri- monio (1963), per Montaldo Una bella grinta (1965) e Gli
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Sguardi incrocia- ti. Cinema, testimonianza, memoria nel lavoro teorico di Marco Dinoi , a cura di Chimenti, Coviello e Zucconi, ricorL’Università di Siena presenta il bel libro
dando il suo valentissimo docente prematuramente scomparso. Prendono la parola Alessandro Cannamela, Christian Uva, Roberto Venuti e Luca Venzi,
13 MARZO 2012 Il Museo Teatrale del Burcardo inaugura a Roma le nuove sale con una serie di mostre fotografiche dedicate alle grandi attrici della scena a cavallo tra i due secoli scorsi: Virginia Reiter (1862-1937), visitabile fino al 30 aprile; Tatiana Pavlova (1894-1975) dal 3 maggio all’11 giugno; le sorelle Irma (1867-1962) ed Emma (1874-1965) Gramatica, dal 14 giugno al 27 luglio.
16 MARZO 2012 Muore a 82 anni a Roma Giancarlo Cobelli, nato a Milano il 12 dicembre 1929. Allievo della Scuola del Piccolo, aveva esordito in scena sul palco stesso di via Rovello, sia con Strehler in Il revisore (1952) che, come mimo, con Fo, Parenti e Durano (Il dito nell’occhio , 1953). Poi solista in proprio, con un successo attribuibile alla sua spiccata originalità, anche attraverso la tv: Il mimo per tutti , i varietà del sabato sera di Antonello Falqui e perfino La tv dei ragazzi a fianco di Tortorella/Zurlì. Ancora con Strehler per L’histoire du soldat della Piccola Scala nel 1957, e al Gerolamo tra il 1959 e il 1963 col travolgente affermarsi dei suoi Cabaret annuali e le commedie musicali Un can- none per Mariù e La caserma delle fate (con lui ai testi Fusco, la Betti, Arbasino, Mauri e Badessi). Aveva successivamente scelto di ritirarsi dalla diretta visibilità scenica, dedicandosi alla drammaturgia e alla regìa teatrale. Con spettacoli sempre più personali e incisivi: Gli uccelli (che
avrebbe ripreso in forma operistica con musiche di Walter Braunfels in prima assoluta a Cagliari nel 2007) e un primo Woyzeck (1968-1969); poi, con crescente attenzione della critica, La pazza di Chaillot (1972) e Antonio e Cleopatra (1972 e 1974), Prova per una rappresentazione de “La figlia di Jorio” e Le convenienze e le inconvenienze teatrali di Sografi (1973), Aminta (1974) e L’impresario delle Smirne (1975: spettacolo indimenticabile, supportato, come altri suoi, dalla genialità scenografica del troppo presto scomparso Giancarlo Bignardi), Soprannaturale, potere, violenza, erotismo in Shakespeare (1975) e Turandot (1981), Un patriota per me di Osborne e Il dia- logo nella palude della Yourcenar (1991), Troilo e Cressida (1992) e La locandiera (riaffrontata sempre nel 2007), per non dire degli allestimenti lirici, da Gluck a Rossini, da Verdi ai contemporanei. Nel cinema aveva debuttato col singolarissimo, discusso e discutibile, Fermate il mondo… voglio scendere (1969), per limitarsi quattro anni dopo a filmare l’ulteriore Woyzeck , realizzato dirigendo a Parigi (con Giovanna Marini alle musiche) la dodicesima edizione dell’École des maîtres per giovani attori. In tal ruolo, però, aveva figurato al cinema ne Lo svitato (1955, Lizzani), in Guendalina (1957, Lattuada), Souvenir d’Italie (id., Antonio Pietrangeli), Gli eroi di ieri… oggi… domani… (1963, episodio Dell’Aquila), Bianco, rosso, giallo, rosa (1964, Mida), La bisbetica domata (1967, Zeffirelli), Io non protesto, io amo (id., Ferdinando Baldi), Barbarella (1968,Vadim), H2S (1969, Faenza), Ius primae noctis (1972, Festa Campanile). E in tv in I Giacobini di Zardi (1962: era il parrucchiere, come cinque anni prima il barbiere con Lattuada…) e nella sua commedia Raccomandato di ferro (allestita sempre da Edmo Fenoglio lo stesso anno), dirigendovi a sua volta nel 1985 lo sceneggiato Teresa Raquin .
16 MARZO 2012 Prime dichiarazioni di Marco Müller finalmente approdato, dopo tre travagliatissimi mesi, alla direzione del festival di Roma: «Non voglio impoverire ma arricchire, budget permettendo. Roma, per indicazione unanime, è il festival con il maggior potenziale di sviluppo in Europa. A differenza degli altri, sono un direttore romano in grado di ottenere appoggi da molti amici del cinema. Come diceva Michelangelo, la verità è come l’acqua, viene sempre fuori. Un dirigente del ministero scherzava: “Per tre anni alla Mostra ti ho protetto da chi ti considerava un pericoloso comunista. Potevi dirlo che eri fascista”. Venezia è stata un’esperienza entusiasmante, oggi Roma lo è molto di più». Polverini e Alemanno possono finalmente plaudire.
19 MARZO 2012 Muore a New York a 83 anni Ulu Grosbard, nato ad Anversa (Belgio) il 9 gennaio 1929. Cittadino americano a venticinque anni, dopo aver seguito il padre, commerciante di preziosi, prima a Cuba e poi negli USA, diplomato a Chicago in discipline dello spettacolo, si forma negli anni Sessanta a contatto con la scena off newyorkese, e sfonda nel 1965 dirigendo Dustin Hoffman in Uno sguardo dal ponte di Miller. Esordisce in cinema nel 1968, trascrivendo il Frank Gilroy di La signora amava le rose , che aveva già inscenato (vi fa tornare allo schermo Patricia Neal
dopo la devastante malattia, ed esordire Martin Sheen). Ancora con Hoffman, da un copione di Herb Gardner il successivo Chi è Harry Kellerman e perchè parla male di me? (1971), e da un romanzo di Edward Bunker, con riprese iniziate dallo stesso attore unitamente a Michael Mann, Vigilato speciale (1978). Subentra De Niro in L’assoluzione (1981), facendogli poi cogliere, assieme a Meryl Streep, un momento di popolarità mondiale con Innamorarsi (1984). Seguiranno invece undici stagioni di silenzio, e una misurata chiusura di carriera: Georgia (1995: forse il suo migliore) e In fondo al cuore (1999).
Confessioni in famiglia: Robert Duvall (il fratello poliziotto) e Robert De Niro (il fratello monsignore) in L’assoluzione (1981) di Ulu Grosbard.
21 MARZO 2012 Muore a Santarcangelo di Romagna, all’età di 92 anni, Antonio Guerra detto Tonino, nato nella stessa località il 16 marzo 1920. Maestro elementare d’origine contadina, poeta, scrittore, pittore, autore di installazioni artistiche, animatore di eventi, costituisce per decenni una sorta di filo rosso del cinema italiano, ma definirlo sceneggiatore è un termine riduttivo, anche se in cinquant’anni di attività sono oltre cento le sceneggiature (anche di film dimenticabili) firmate o attribuite. Il primo nome cui si lega è quello di Michelangelo Antonioni, da L’avventura (1960: secondo «Positif» gli spetta il “brevetto” dell’incomunicabilità/alienazione) a Eros (2004), attraverso tappe che si chiamano La notte , L’eclisse , Il deserto rosso , Blow-up , Zabriskie Point , Al di là delle nuvole . Il secondo è quello del conterraneo Federico Fellini: in particolare, per le molte consonanze, Amarcord (1973), ma anche … e la nave va (1983), Ginger e Fred (1986), oltre che, non accreditato, Casanova (1976). Importanti anche i suoi rapporti con Elio Petri ( L’assassino , 1961; I giorni contati , 1962; La decima vittima , 1965); con Francesco Rosi (C’era una volta…, 1967); Uomini contro (1970); Tre fratelli (1981); La tregua (1997); con i Taviani (La notte di San Lorenzo , 1982; Kaos (1984); Good Morning, Babilonia (1987); Il sole anche di notte (1990). Senza dimenticare l’apporto a Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, è con Thodoros Angelopoulos – che lo considera «una fonte meravigliosa cui attingere, quella della sua memoria, della sua fantasia e della sua creatività» – che si stabilisce il rapporto più intenso e fervido, anche se con qualche eccesso di poeticismo (Il volo , 1986; Il passo sospeso della cicogna , 1991;
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pagna , id.), esplodendo nel biennio immediatamente successivo nel “dittico anomalo e sublime” (Silvestri) di L’abominevole dottor Phibes e Frustrazione . Esaltanti un Vincent Price appena uscito dalla factory Corman e pronto a replicarsi l’anno dopo con Hickox in Oscar insangui- nato . E confermandosi con Alpha-Omega: il principio della fine (1973), per proseguire meno felicemente in Il maligno (1975), La rivolta delle donne di Stepford (1980, per la tv) e Aphrodite (1982, da Pierre Louÿs).
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Apocalisse nel deserto: Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, sceneggiatura di Tonino Guerra.
La sorgente del fiume , 2004; La polvere del tempo , 2008). Storia a sé fanno i film tratti direttamente dai suoi testi: il curioso Tre nel mille (1971, di Franco Indovina) e i volonterosi Il frullo del passero (1988, di Gianfranco Mingozzi) e La domenica specialmente (1991, di Giuseppe Bertolucci, Marco Tullio Giordana, Giuseppe Tornatore, Francesco Barilli) in cui peraltro si respira molta aria di casa, di quell’“ambiente dell’uomo” di cui è permeata la sua nostalgica e spesso illusoria visione del tempo, dei luoghi, della natura. Ma i più giovani rischiano di ricordarlo per lo spot televisivo dell’UniEuro, con quel suo imbarazzante eppure credibile tormentone: «Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita!». Ciao, Tonino, e un abbraccio a ] Lora. [lopedeluna
21 MARZO 2012 Lo stesso giorno, a Roma, l’Accademia di Francia fa decollare a Villa Medici un omaggio proprio ad Antonioni, nel quadro della seconda edizione di “Re-visioni. Cinema Restaurato, cinema ritrovato”, con la versione restaurata di L’avventura . Faranno seguito La signora senza camelie e Le amiche , nonché tre corti, fra i quali il tardo (1992) e sorprendente Noto, mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale .
21 MARZO 2012 Si inaugura al Palazzo Reale di Milano la mostra “Henri Cartier-Bresson. Photographe”. Centotrenta scatti attraverso la cui magistrale intensità passano tanto i grandi eventi che la minuta quotidianità del secolo scorso.
21 MARZO 2012 3 1 5 m u r o f e n i c 94
Muore a Londra, dov’era nato il 30 settembre 1927, a 84 anni Robert Fuest. Regista e produttore, sceneggiatore e scenografo, ha diretto tra gli altri Just Like a Woman (1967) e un’ulteriore versione di Cime tempestose (1970), per poi virare decisamente e con mano felice verso un thrilling aspirante al nero ( Il mostro della strada di cam-
Primavera intensa per Liliana Cavani. Annunciato finalmente il passaggio RaiUno del suo ultimo film Troppo amore . Alla Casa del Cinema di Roma, Caterina d’Amico ed Enrico Magrelli presentano, con la sua partecipazione, il bel libro di Francesca Brignoli Liliana Cavani. Ogni pos- sibile viaggio (Le Mani). Al Bari FilmFest, il presidente Vendola e l’assessore Godelli le consegnano il premio “Fellini Otto e Mezzo”: «Una grande donna e una grande regista che attraverso i suoi film, i suoi documentari e i suoi lavori per la tv ha saputo esplorare la tempra e la fragilità della condizione umana dinanzi a quelle che spesso risultano essere circostanze e situazioni straordinarie». La premiata ricambia con la proiezione di Il portiere di notte restaurato e una “lezione di cinema”.
22 MARZO 2012 All’Associazione Piccolo Apollo presso l’ ITIS “Galilei” di Roma, serata in onore di Cecilia Magini.Vengono proiettati La canta delle marane , Felice Natale e Non c’era nessu- na signora a quel tavolo . Intervengono, con l’autrice, Sergio Staino, Bruno di Marino e Davide Barletti.
26 MARZO 2012 Sempre al Bari FilmFest, Max von Sydow in una sentita due giorni presenta il suo ultimo film (centoquarantaquattresimo della serie: Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry, dal romanzo di J.S. Foer) e dialoga col pubblico. I quattordici titoli “agiti” per Bergman (da Il set- timo sigillo del 1956 a L’adultera del 1971: «Nonostante quel che si potrebbe supporre, era un uomo dotato di un grandissimo senso dell’umorismo»…); il lavoro coi grandi, da Stevens a Huston, da Friedkin a Pollack, da Tavernier a Milius, da Woody Allen a Spielberg, da Wenders alla Ullmann, e quello in Italia 1976-1977 (Lattuada e Rosi, Zurlini e Bolognini). Fino alla sua unica regìa (il bel Katinka – Storia romantica di un amore impossibile , 1988) che lo fece iscrivere al partito – fondato negli anni Venti da Lillian Gish… – dei grandi attori i quali, sperimentata l’opera prima, ritennero troppo faticoso tornare dietro la cinepresa.
27 MARZO 2012 Il giudice di pace di Torino assolve Giacomo Campiotti dall’accusa di ingiurie e lesioni, mossagli dal direttore di produzione Patrick Giannetti, a seguito di un diverbio originatosi il 22 giugno 2009 alla mensa FIAT di Rivalta, sul set della fiction Rai Il sorteggio , interpretato da Beppe Fiorello e già programmato dall’ente. Il regista aveva rifiutato, a termini di contratto, di impiegare in un ruolo di comparsa un aspirante già scartato ai provini, e che tutta-
via si era presentato, muovendosi appositamente da Roma in aereo, per prendere parte alle riprese, sostenuto dal direttore di produzione. Alcune ore dopo l’animata disputa con insulti, quest’ultimo si era presentato a un pronto soccorso denunciando anche danni fisici. Il magistrato assolve dalle offese in quanto «provocate da un fatto ingiusto e non punibili», e ritiene non sostenute da prove le lamentate lesioni.
30 MARZO 2012 Muore a Roma a 81 anni Olimpia Cavalli, nata a Cadeo (Piacenza) il 30 agosto 1930. Già in avanspettacolo con Macario dagli anni Cinquanta, al cinema ha preso parte anche a I baccanali di Tiberio (1959, Simonelli), La cam- biale e Totò a Parigi (id., Mastrocinque), Morte di un amico (1960, Franco Rossi), Tu che ne dici? (id., Amadio), Gli attendenti (1961, Giorgio Bianchi), Il mantenuto (id., Ugo Tognazzi), I due marescialli (id., Sergio Corbucci), Vanina Vanini (id., Rossellini), La viaccia (id., Bolognini), Fellini 8 1/2 (1963, non accreditata), Due mafiosi nel Far West (1964, Simonelli), Il giovedì (id., Dino Risi), Che fine ha fatto Totò Baby? (id., Alessi), Letti sbagliati (1965, Steno: episodio La seconda moglie , finalmente protagonista…). Aggiudicandosi peraltro un record forse imbattibile: l’essere entrata nella storia del cinema, con l’opulenza delle sue grazie, in virtù dei pochi secondi in cui apre e richiude la porta di un “basso” da prostituta, pronunciando la battuta «Principone mio!» in una delle prime sequenze di Il Gattopardo di Visconti. Che il nome del suo personaggio sia Mariannina dobbiamo dedurlo direttamente da Lampedusa (della cui pagina dedicata si era ricordato anche Luigi Squarzina nel libretto d’opera commissionatogli da Paul Hindemith: fatica vanificata dalla scomparsa del compositore, l’anno dopo l’uscita del film).
30 MARZO 2012
Esce in Italia il suggestivo ed estremo I colori della passio- ne di Lech Majewski. Un bell’articolo di Natalino Bruzzone su «Il Secolo XIX» di Genova si domanda provocatoriamente: «Il cinema uccide la pittura?».
31 MARZO 2012 Lo Short Film Festival di Ca’ Foscari Cinema a Venezia si chiude con «un finale straordinario: la proiezione del corto The Professor , interpretato, diretto e prodotto nel settembre 1919 da Charlie Chaplin. Una sequenza di sei minuti, quanto rimane di un film mai completato, in cui Chaplin interpreta un prestigiatore soprannominato “Professor Bosco”» (Beatrice Andreose, «il manifesto»). «Iniziato il 30 settembre 1919, il film è stato montato probabilmente con
Charlie Chaplin in un’inquadratura del suo The Professor (1919).
spezzoni e scarti di altri; mai distribuito, era dichiarato pronto per la distribuzione nel novembre 1922. Esiste una sequenza montata di circa 450 piedi, insieme ad altre inquadrature probabilmente derivanti da altre sequenze. Scrivendo a Sidney nel 1923, Chaplin comunque definiva The Professor un film di due bobine (circa 2000 piedi)» (David Robinson, Chaplin. La vita e l’arte , Marsilio, Venezia 1987, pag. 791: il futuro direttore delle Giornate del Muto pordenonesi fu il primo a inserire il titolo nella filmografia chapliniana).
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Federazione Italiana Cineforum La Federazione Italiana Cineforum (Fic) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La Fic organizza corsi, seminari e convegni, distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum» e di altri prodotti editoriali di cultura cinematografica. Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla Fic ci si può rivolgere a
[email protected] om. I cineforum di nuova costituzione possono richiedere gratuitamente, nel primo anno di associazione, due film distribuiti dalla Fic e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT - 24121 Bergamo, tel. 035342239, fax 035341255,
[email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno la rivista «Cineforum». Tutti i cineforum affiliati ricevono la rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del listino della Lab80 Film, hanno la possibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema. Il comitato centrale della Fic, per il triennio 2011-2014, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Chiara Boffelli (Bergamo), Gianluigi Bozza (presidente,Trento), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto,TN), Bruno Fornara (Omegna,VB), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi (Bergamo),Walter Pigato (Nove, VI), Jurij Razza (Robbiate, LC), Roberto Santagostino (Tortona, AL), Angelo Signorelli (vicepresidente, Bergamo), Enrico Zaninetti (segretario, Novara). Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Dino Chiriatti (Roma), Roberto Figazzolo (Pavia), Pierpaolo Loffreda (Pesaro), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), Claudio Scarpelli (Reggio Calabria), Tonino Turchi (Pesaro), Daniela Vincenzi (Bergamo), Sergio Zampogna (Bergamo). I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.
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LIBRI
Meris Nicoletto
VALERIO ZURLINI IL RIFIUTO DEL COMPROMESSO Ed. Falsopiano, Alessandria 2011 pp. 383 - 22.00.
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Mettiamo le cose a posto, sembra dire la giovane autrice di questo libro, laureata a Padova: Zurlini è stato un regista di serie A; e invece tanta critica lo ha snobbato, e ancora adesso è situato in un «cono d’ombra». È vero che questo cineasta è sottovalutato, e l’autrice parte subito nell’ampia carrellata iniziale a mettere ordine, combattendo le incomprensioni di coloro che nel trattare di Zurlini trascurano circostanze e confronti; invece nel libro si dà largo spazio alla contestualizzazione dell’operato di un regista che ha sempre rifiutato i compromessi, pagando di persona (solo otto film a lungometraggio, e tanti rimasti nel cassetto). Si allarga dunque il discorso con conti-
nui riferimenti paralleli a film, a registi, agli eventi pubblici e privati, e si batte appassionatamente sul chiodo di Zurlini come uno dei grandi autori del cinema italiano. Dopo aver passato in rassegna a volo d’uccello tutti i film del Nostro (con la difesa appassionata di quelli giudicati particolarmente maltrattati come Le ragazze di San Frediano , il primo lungometraggio che non ha niente a che vedere con i contestuali “poveri ma belli”),ecco l’analisi dei singoli risultati, di cui si fa risaltare il tema – in anticipo sui tempi – dei giovani in lotta contro le avversità della vita; e poi, fra l’altro, l’influenza dell’arte figurativa e la sensibilità nei confronti delle opere letterarie; il tutto con puntigliosi paragoni, citazioni, messe a punto.
Giorgio Bertellini
EMIR KUSTURICA Ed. Il Castoro Cinema, Milano 2011 pp. 205 - 16,00.
È la seconda edizione, più scicciosa, del primo Castoro dedicato dallo stesso autore a Kusturica, apparsa nel 1996. Quindici anni dopo ci sono i necessari aggiornamenti, ma anche alcune integrazioni e modifiche, nonché l’ampliamento del capitolo dedicato agli esordi. Curioso il risultato: è un aggiornamento che lungi dall’essere una tessitura di lodi appare piuttosto un parce sepulto . Concluse, più o meno, le tragedie dell’ex Jugoslavia, passata anche per lui la sindrome di Sarajevo e la sua ruvida, provocatoria,
calda reazione con film come Underground , ora il Nostro si è internazionalizzato, è diventato una «star mondana», il suo cinema si nutre di caricature e non più di feroci sarcasmi. «ll risultato è che un certo Kusturica è morto a Serajevo», e anche quello che poi ha fatto pensare a una rinascita «non c’è più da un pezzo».
ERRATA CORRIGE A pagina 41 del n. 511, la recensione dedicata al film di Bennett Miller, L’arte di vincere , per un errore di impaginazione è rimasta tronca dell’ultima riga. Pubblichiamo qui la versione completa del periodo, scusandoci con i lettori e con l’autore Federico Pedroni: «gli estremi di una mitologia in cui la distanza tra la polvere e l’altare può essere brevissima e in cui la sconfitta, sia umana che sportiva, resta un’ineluttabile minaccia all’orizzonte».
Edizioni di Cineforum Sottodiciotto Filmfestival Museo Nazionale del Cinema
AlanParker In occasione di Sottodiciotto Filmfestival 2011
Le Edizioni di Cineforum hanno pubblicato il volume
Alan Parker a cura di
Stefano Boni e Massimo Quaglia
Interventi di Grazia Paganelli, Simone Arcagni, Simone Emiliani, Federico Chiacchiari, Mariolina Diana, Giuseppe Gariazzo VOLUME DI 80 PAGINE - 10 € Info – Via Pignolo, 123 – 24121 Bergamo - Tel. 035 361361 -
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