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· A DANGEROUS METHOD
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CARNAGE
Cineforum
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NEL PROSSIMO 2 SPECIALI
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8 SCHEDE
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FOCUS MILDRED PIERCE
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IL CAVALIERE CHE A SUO MODO FECE L’IMPRESA
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SUGGESTIONI MUSICALI
cineforum 507
Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 51 - N. 7 Agosto/Settembre2011 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. € 8,00
Meadows, Abrams, Hark, Patierno, Pacinotti, Bercot, Crialese, Wright Focus Mildred Pierce Il Cavaliere che a suo modo fece l’impresa Appunti sull’uso delle canzoni nel cinema recente
Comunichiamo a tutti gli abbonati e ai lettori che da quest’anno non verrà più inviato in automatico l’indice stampato dei numeri dell’anno precedente. Tutti i dati saranno rintracciabili direttamente nell’archivio del sito www.cineforum.it. Per chi lo volesse, sarà comunque possibile scaricarlo dal sito in formato PDF.
www.cineforum.it
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RIENTRO
Adriano Piccardi Settembre. Dopo un’estate tanto ricca di eventi nefasti (e ci dovremo tornare perché non resteranno senza ricadute anche per quanto riguarda i problemi che già gravano sull’associazionismo cinematografico e su «Cineforum») quanto povera di significative offerte cinematografiche, riprende la stagione. In contemporanea con la Mostra veneziana sono ritornate le prime visioni che contano (o che vorrebbero contare…). Le prime due settimane del mese hanno visto un improvviso affollarsi di titoli in sala, in parte provenienti proprio dalla Mostra ma non solo. «Cineforum» ne dà conto con un’affollata sezione-recensioni dove trovano spazio anche alcune uscite estive (si tratta del numero doppio, targato agosto/settembre). Il cinema italiano è rappresentato da Terraferma, Cose dell’altro mondo, L’ultimo terrestre. Film che a vario titolo e con differenti gradi di consenso hanno fatto parlare di sé al Lido. Nella loro diversità sono accomunati dall’intento di parlare di un’Italia che ci riguarda e che non possiamo fingere di non vedere: anche negli approcci più paradossali (Patierno, Gipì), sono film che ci parlano del Paese – senza aggettivi e senza complementi di qualità – in cui ci tocca comunque vivere. La lettura delle recensioni che ne trattano si accompagna doverosamente a quella dei due interventi, nella sezione saggistica, di Anton Giulio Mancino e di Tullio Masoni: questo è dunque un numero ricco di riferimenti attuali e di stimoli di riflessione che dimostrano senza ombra di incertezza come il cinema (nei suoi risultati migliori come in quelli più trascurabili) non possa comunque essere guardato e considerato come prodotto separato dal contesto storico che gli è proprio. Il discorso non vale ovviamente soltanto per i film italiani: This Is England e Student Services ci consegnano squarci d’esistenza provenienti, sì, da altre realtà, ma che appaiono tutt’altro che estranei alla fenomenologia
sociale e generazionale, nella gestione dei corpi e dell’affettività, che è anche la nostra. E così anche film come Super 8, Hanna, Detective Dee, nel loro esplicito riferirsi ai meccanismi di genere, alla citazione, alle fascinazioni visive e compositive del cinema-cinema, in realtà ci dicono qualcosa di importante muovendosi intorno a quei temi, filtrandoli esplicitamente attraverso i loro riferimenti culturali, storici, metalinguistici. Se l’estate è da queste parti stagione pressoché morta per quanto riguarda la distribuzione, non si può dire che lo sia anche sul piano delle manifestazioni internazionali. Su queste pagine troverete dunque i resoconti di festival e mostre, fra i quali tre in particolare si distinguono. Due sono quelli di grande tradizione, che da decenni si presentano come momenti di riferimento e di interesse indiscutibile nel panorama annuale: Il Festival di Locarno e la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Ma anche il bolognese Cinema Ritrovato che nel giro di questi ultimi anni si è rapidamente costruito una posizione e una fama del tutto meritate, grazie alla qualità e alla singolarità dei materiali che sa ogni volta proporre ai suoi spettatori. Non manca, infine, l’anticipazione riguardante il lavoro televisivo realizzato da Todd Haynes ispirato a Il romanzo di Mildred di James M. Caine: una miniserie di cinque puntate, che ha avuto la sua vetrina durante la Mostra di Venezia (Haynes era in giuria), ma che passerà sui canali Sky a ottobre. Come avvenne con Lontano dal Paradiso, il regista californiano si riallaccia al melodramma, proponendone questa volta una lettura tutta in levare e molto poco “nostalgica”. Tutto questo e molto altro, che per motivi di spazio non è possibile anticipare in queste poche righe: un numero che pensiamo non lascerà insoddisfatti i nostri attenti ed esigenti lettori.
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CINEFORUM IN LIBRERIA LIBRERIE FELTRINELLI • C.so Garibaldi, 35 • ANCONA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • Via Melo, 119 • BARI LIBRERIA FASSI • L.go Rezzara, 4/6 • BERGAMO LIBRERIA PALOMAR • A. Maj 10/i • BERGAMO FELTRINELLI INTERNATIONAL • Via Zamboni, 7/B • BOLOGNA LIBRERIA DI CINEMA, TEATRO E MUSICA • Via Mentana, 1/c • BOLOGNA LIBRERIE FELTRINELLI • Via dei Mille, 12/a/b/c • BOLOGNA LIBRERIE FELTRINELLI • P.zza Ravegnana, 1 • BOLOGNA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • C.so Zanardelli, 3 • BRESCIA LIBRERIA UBIK • Via Galliano, 4 • COSENZA LIBRERIA MEL BOOKSTORE FERRARA • P.zza Trento/Trieste • FERRARA LIBRERIE FELTRINELLI • Via Garibaldi, 30/a • FERRARA LIBRERIE FELTRINELLI • Via dei Cerretani, 30/32r • FIRENZE LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA S.R.L. • Via Ceccardi, 16/24 rossi • GENOVA LIBRERIA LIBERRIMA (SOCRATE S.R.L) • Corte dei Cicala, 1 • LECCE LA FELTRINELLI LIBRI • C.so della Repubblica, 4/6 • MACERATA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • P.zza XXVII Ottobre, 1 • MESTRE ANTEO SERVICE • Via Milazzo, 9 • MILANO FELTRINELLI INTERNATIONAL • Piazza Cavour, 1 • MILANO JOO DISTRIBUZIONE • Via Argelati, 35 • MILANO LA FELTRINELLI LIBRI & MUSICA • C.so Buenos Aires, 33/35 • MILANO LIBRERIA DELLO SPETTACOLO • Via Terraggio, 11 • MILANO LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO • Via Tadino, 18 • MILANO LIBRERIE FELTRINELLI • Via Manzoni, 12 • MILANO LIBRERIE FELTRINELLI • Via Ugo Foscolo, 1/3 • MILANO LIBRERIE FELTRINELLI • Via Cesare Battisti, 17 • MILANO LA FELTRINELLI EXPRESS VARCO • Corso Arnaldo Lucci • NAPOLI LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • Via Cappella Vecchia, 3 • NAPOLI LIBRERIE FELTRINELLI • Via T. D'Aquino, 70 • NAPOLI LIBRERIE FELTRINELLI • Via San Francesco, 7 • PADOVA BROADWAY LIBRERIA DELLO SPETTACOLO • Via Rosolino Pilo, 18 • PALERMO LIBRERIE FELTRINELLI • Via della Repubblica, 2 • PARMA L'ALTRA LIBRERIA SAS • Via U. Rocchi, 3 • PERUGIA LIBRERIE FELTRINELLI • C.so Umberto, 5/7 • PESCARA LIBRERIE FELTRINELLI • C.so Italia, 50 • PISA LA FELTRINELLI LIBRI • Via Garibaldi, 92/94 A • PRATO LIBRERIE FELTRINELLI • Via IV Novembre, 7 • RAVENNA ASSOCIAZIONE MAG 6 • Via Vincenzi, 13/a • REGGIO EMILIA LIBRERIA LA COMPAGNIA DI L'AURA SCRL • Via Panciroli, 1/A • REGGIO EMILIA NOTORIUS CINELIBRERIA DI GIOVANARDI LUCA • Vicolo Trivelli, 2/E • REGGIO EMILIA BLOCK 60 LIBRERIA PULICI DI PULICI ILIO • V.le Milano, 60 • RICCIONE LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • Largo di Torre Argentina, 5/10 • ROMA LIBRERIA DEL CINEMA • via dei Fienaroli, 31 d • ROMA LIBRERIA MEL BOOKSTORE ROMA • Via Modena, 6 • ROMA LIBRERIE FELTRINELLI • Via V.E. Orlando, 78\81 • ROMA LA FELTRINELLI LIBRI E MUSICA • C.so V. Emanuele, 230 • SALERNO LIBRERIA INTERNAZIONALE KOINÈ • Via Roma, 137 • SASSARI LIBRERIE FELTRINELLI • Via Banchi di Sopra, 64\66 • SIENA LIBRERIA GABÒ SAS DI GAGLIANO LIVIA • C.so Matteotti, 38 • SIRACUSA LIBRERIA COMUNARDI DI BARSI PAOLO • Via Bogino, 2 • TORINO LIBRERIE FELTRINELLI • P.zza Castello, 19 • TORINO LA RIVISTERIA S.N.C. • Via San Vigilio, 23 • TRENTO IN DER TAT DI TERRA ROSSA SOC.COOP • Via Diaz, 22 • TRIESTE LIBRERIA EINAUDI DI PAOLO DEGANUTTI • Via Coroneo, 1 • TRIESTE LIBRERIA FRIULI S.A.S. DI GIANCARLO ROSSO • Via dei Rizzanti, 1 • UDINE LIBRERIE FELTRINELLI S.R.L. • C.so Aldo Moro, 3 • VARESE LIBRERIA RINASCITA • Corso Porta Borsari, 32 • VERONA GALLA LIBRARSI • Contrà delle Morette, 4 • VICENZA
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cineforum rivista mensile di cultura cinematografica anno 51 - n. 7 - Agosto/Settembre 2011
In copertina Faust di Aleksandr Sokurov
Edita dalla Federazione Italiana Cineforum
Comitato di redazione: Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi Segreteria di redazione: Chiara Boffelli, Arturo Invernici, Daniela Vincenzi Collaboratori: Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera, Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D., Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, Paola Brunetta, Francesco Cattaneo, Massimo Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Andrea Chimento, Pasquale Cicchetti, Ermanno Comuzio, Jonny Costantino, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini, Lorenzo Donghi, Simone Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi, Francesco Imperatore, Lorenzo Leone, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Alessandra Mallamo, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi, Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca, Lorenzo Pellizzari, Alberto Pezzotta, Tina Porcelli, Piergiorgio Rauzi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti. Progetto grafico e impaginazione: Paolo Formenti - PiEFFE Grafica* Amministrazione: Cristina Lilli, Sergio Zampogna Redazione e amministrazione: Via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo tel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55 e-mail:
[email protected] http://www.cineforum.it Abbonamento annuale (10 numeri): Italia: 60,00 Euro Estero: 80,00 Euro Extra Europa via aerea: 95,00 Euro Versamenti sul c.c.p. n. 11231248 intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo e-mail:
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[email protected] Iscritto nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25-5-1961 associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana
SOMMARIO EDITORIALE
Adriano Piccardi/Rientro
VENEZIA 68
Bruno Fornara/Tra Faust e Jung
I FILM
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Elisa Baldini/This Is England di Shane Meadows Luca Malavasi, Emilio Cozzi/Super 8 di J.J. Abrams Pierpaolo Loffreda/Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma di Tsui Hark Paola Brunetta/Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno Emiliano Morreale/L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti Roberto Chiesi/Student services di Emmanuelle Bercot Lorenzo Leone/Terraferma di Emanuele Crialese Federico Pedroni/Hanna di Joe Wright
15 18 21 24 27 30
Rinaldo Vignati, Simone Emiliani, Fabrizio Liberti, Giampiero Frasca, Mattia Mariotti,Valentina Alfonsi, Pasquale Cicchetti, Michele Marangi, Giacomo Calzoni, Simone Emiliani/ Contagion - I pinguini di Mr. Popper - Il mercante di stoffe At the End of the Day - Kung Fu Panda 2 - Questa storia qua Captain America - Ruggine - Vanishing on 7th Street In the Market - Ballkan Bazar
33
FOCUS MILDRED PIERCE TELEVISIVA
Roberto Manassero/Uno sguardo moderno sul melodramma
SAGGIO IL CAVALIERE CHE A SUO MODO FECE L’IMPRESA
Anton Giulio Mancino/Note sul cinema italiano del ventennio berlusconiano
9 12
46 50
SAGGIO ARRANGIATEVI
Tullio Masoni/ Ancora qualcosa su Habemus Papam (e Ferreri, Pasolini, Olmi, Fellini)
SAGGIO SUGGESTIONI MUSICALI
Paola Brunetta/Appunti sull’uso delle canzoni nel cinema recente
SAGGIO MIZOGUCHI E UTAMARO
Giuseppe Sedia/Due pellicole attorno a Utamaro
FESTIVAL
58 63 69
Tullio Masoni,Valentina Alfonsi, Paolo Vecchi/Pesaro Film Festival Pasquale Cicchetti/Festival del film Locarno Bruno Fornara/Il Cinema Ritrovato Chiara Boffelli/Festival International du Film de la Rochelle
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DVD a cura di Adriano Piccardi, Angelo Signorelli, Arturo Invernici LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato LIBRI a cura di Ermanno Comuzio
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INFO dal lunedì al venerdì - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 -
[email protected]
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Direttore responsabile: Adriano Piccardi •
[email protected]
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SPECIALE
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Faust
TRA FAUST E JUNG cineforum 507
Bruno Fornara
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Considerazioni iniziali. Conferma della linea, giusta, da qualche anno affermatasi in tutti i festival, anche a Venezia, che si deve mostrare di tutto, cinema alto e basso, popolare e colto, ricco e povero, rozzo e pettinato, narrativo e anarrativo, di finzione e documentaristico, di finzione documentaristica e di documentarismo finzionale. Film di qualsiasi specie religione sesso etnia provenienza fattura: e ormai si può evitare di star lì a raccontarsela riprendendo ogni
volta, per l’ennesima volta, con finta meraviglia, discorsi ormai stantii, tipo: ah! questo film mescola finzione e realtà, ah! quest’altro mescola alto e basso, ah! questo qui mescola mise en scène classica moderna postmoderna primordiale. Facciano un po’ i registi quel che vogliono: basta che il film sia un buon film (e qui la critica dovrebbe riuscire ad argomentare perché un film è un buon film oppure no). E non stiamo neppure lì a proclamare che un film è
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“nuovo”: è “il nuovo”.Visto che ormai vale tutto, allora tutto può essere nuovo, nuovissimo. Non c’è più vecchio e nuovo. Ogni film è quello che è. Da questa idea di Mostra come luogo dove si mostra di tutto discende una seconda constatazione: gli autori migliori non si pongono più problemi di evidente riconoscibilità stilistica, non fanno film in cui si privilegia, per dire, il piano sequenza (come è stato per lungo tempo); i migliori autori possono rifarsi al classico montaggio nascosto così come a un montaggio forzato ed esposto, al piano sequenza, alla fissità, a qualsiasi altra prestazione linguistica gli passi per la testa. È tramontata l’era in cui, scegliendo un modo di fare cinema, ci si trovava più avanti e scegliendone un altro ci si trovava più indietro. Oggi, Sokurov, Polanski, Cronenberg, Diaz, Naderi, Ann Hui, Wiseman, Glawogger, Solondz o
Alfredson, per nominare un bel gruppo di registi che hanno portato a Venezia dei film dal buono in su, fanno tanti tipi di buon cinema e non ha senso chiedersi se uno sia migliore dell’altro. Fine – finalmente! – dei discorsi essenzialisti sul cinema: il cinema è questo e non quest’altro, questo è cinema e questo no. Molto meglio dire: questo film di questo regista è fatto così ed è bello; quest’altro film di quest’altro regista (o magari dello stesso regista) è fatto cosà ed è ugualmente ottimo; e all’inverso: questo film è fatto come quel bel film di quel bravo regista, però è molto brutto. Lo spettatore si mette a disposizione dei film e degli autori, non sta lì a segnare con il ditino “questo sì e questo no” solo perché il film è fatto in un modo che si pensa sia giusto o sbagliato di fare cinema. Dopo questo pistolotto a favore della pluralità dei modi di fare buon cinema, veniamo agli esempi, ai film e ad alcuni registi: perché, per Sokurov, Cronenberg, Wiseman o Polanski, i modelli di regia in gioco possono essere, come in effetti sono, molto distanti fra loro e danno tutti luogo a ottimi e buoni film, diversi fra loro. A noi utilizzatori finali, questa vivace pluralità fa molto piacere. Prima, diciamo una cosa sul verdetto. Se il Leone d’oro al Faust di Sokurov è parso assolutamente inevitabile, non si capisce perché siano poi stati esclusi dai premi i due altri migliori film del concorso, A Dangerous Method di Cronenberg e Carnage di Polanski. Viene da pensare che la Mostra pensi ancora di dover andare in caccia di nomi nuovi (il Nuovo!) per accreditarsi una fama di scopritrice di talenti: questo potrebbe anche andare bene quando si riesce a trovarli, i nuovi talenti; se, però, si lasciano a piedi Polanski e Cronenberg e si danno premi a film che il tacere è bello, qualcosa non va. Il Faust di Sokurov è trascinante, in continua tensione verso un oltre che non è mai raggiunto, proprio perché è, per definizione, oltre. Quando, alla fine, Faust sotterra in una bara di pietre il diabolico e funambolico compagno e poi esce dal film davanti a un immenso ghiacciaio, è questa la parola che ci lascia in consegna: «Weiter! Weiter!». Oltre! Oltre!, avanti, di più, più lontano. Faust è, per Sokurov, uno dei fondatori (pericolosi? ammirevoli?) della modernità. Abbandona il vecchio mondo, la città, gli affari, anche l’amore, e si inoltra nei territori sconosciuti, nella terra desolata, dove si è soli a costruire, se ce la si fa, il futuro. Goethe, che fu anche pittore, ha scritto un trattato sui colori, Zur Farbenlehre, 1810, dove attacca Newton: i colori non sono soltanto un fenomeno fisico, ottico; i colori sono vivi, arrivano all’animo, hanno a che fare con simboli, estetica, poetiche. Sokurov dipinge il film con colori diffusi e soffusi (il volto d’oro di
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A Dangerous Method
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Margherita!): e trascina Faust in una perpetua corsa, con immagini in cui sono rispettate le dimensioni delle figure e altre immagini in cui le figure sono affilate, protese in avanti. Il film non è più un film: diventa un’esperienza sensoriale. Si fa esperienza dell’essere cinematograficamente trascinati da una forza che lascia il vecchio mondo di dei e diavoli in cerca di un’altra terra. Anche la triade di A Dangerous Method di David Cronenberg, formata da Jung, Freud e Sabina Spielrein, sta sospesa tra due mondi. Uno è il mondo che il film osserva, quello di fuori e di sopra, il mondo della fin de siècle dove “portare la peste” che macchierà le belle ville, l’arredamento, i giardini, gli abiti, tutti curatissimi (qualcuno ha preso l’abbaglio che questo sia un film accademico in costume…). Jung e la sua paziente amante allieva Spielrein si inabissano invece nel mondo di sotto, esplorano, come Faust, geyser che soffiano, cunicoli che percorrono le tenebre di quell’inconscio che Freud aveva appena tratto fuori a una qualche luce, inconscio che riemerge nel linguaggio, nella parola smozzicata, anche in una sola lettera fischiante. Una faticosa effe. Il film va visto in originale: perché nelle prime sedute con Jung, Sabina deve riuscire a pronunciare, per liberarsi dalla sua nevrosi, le due parole che rinserrano il segreto, e quelle parole cominciano, nell’inglese parlato nel film, con la lettera effe, e una
parola è sacra e l’altra è maledetta, e lei non riesce a pronunciarle, non sa quale delle due far uscire per prima, e la bocca si storpia, il mento si allunga, f ff fff ffff, father e fuck finalmente escono e la voragine è aperta e la lava può scorrere dal vulcano psicoanalitico e lei si aggrappa a Jung e lo trascina con sé nel baratro salvifico in cui perdersi e ritrovarsi. Film immacolato e violento, sotterraneo e infuocato. Freud, in esergo alla Interpretazione dei sogni (1900), mise un verso dell’Eneide (VII, 312): «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo», se non riuscirò con gli dei celesti, smuoverò quelli infernali. È quello che hanno fatto Freud e Jung: e Cronenberg, che tra le ombre acherontee si è mosso in tanti film, è come se risalisse alle sorgenti prime del suo cinema e ringraziasse quei tre per aver aperto i cancelli delle caverne ctonie da cui sono usciti i fantasmi che abitano i suoi film. In Carnage di Roman Polanski siamo di fronte a un quartetto da camera cacofonico, un massacro in guanti bianchi, una prova di regia fondata sul ritmo, sulla impeccabile costruzione di una battaglia da salotto, dove la macchina da presa, nel poco spazio che le è concesso e nell’unicità di un tempo che comincia poco dopo l’inizio del film e finisce poco prima della fine – film aristotelico! – deve trovare il modo di essere lì, di non perdere nessun attimo, gesto, battuta o squillo di cellulare. Carnage è un perfido divertissement.
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Polanski lo dirige con la sicura bacchetta del maestro, e che sia del tutto suo (anche se viene da una pièce di successo) lo dichiara con la sua minima apparizione dietro la porta dell’appartamento accanto. Anche qui non c’è nessun bisogno di interrogarsi sulle scelte di regia e di stile: sono semplicemente quelle, ammirevolmente classiche, giuste per il film. Oltre la finzione. Due documentari: felicemente splendido quello di Frederick Wiseman, Crazy Horse , dolorosamente testimoniale quello di Michael Glawogger, Whore’s Glory. Wiseman arriva al Crazy Horse dopo aver filmato due anni fa il balletto dell’Opéra. Arriva e trova il film già bell’e fatto: le ballerine, il palcoscenico, i numeri, le attrazioni. Quasi si dimentica di se stesso, non sta a cercare personaggi, lascia perdere le frizioni tra il regista e il direttore artistico: si ferma stupefatto e ammirato davanti alle ragazze, ai loro balletti, alle canzoni, alle marcette. E arriva a una conclusione memorabile. Approda a un mare di fesses perfettamente rondes, di culi femminili, disposti su più file, fino all’orizzonte, ondeggianti piano come onde, un mare dove felicemente naufragare come sembra voler fare Wiseman che si è dimenticato di tutto, di ogni preoccupazione cinematografica sociale politica davanti a quell’incanto. All’opposto della felicità di Wiseman, sta la dolente constatazione della crudeltà del mondo, in Tailandia, Bangladesh, Messico,
là dove le prostitute lavorano e piangono la loro sorte in Whore’s Glory di Michael Glawogger. Solo i titoli di altri bei film (le recensioni e le pagelle sono sul prossimo numero di «Cineforum»): Le idi di marzo del malinconico George Clooney, Dark Horse dell’inesorabile Todd Solondz, Tao Jie (A Simple Life) dell’amorevole Ann Hui, Cut del battagliero Amir Naderi, Io sono Li del promettente Andrea Segre (miglior film italiano della Mostra; debolissimi i tre in concorso, Crialese, Cristina Comencini, Gipi), Piazza Garibaldi del perplesso viandante Davide Ferrario, Cime tempestose della burrascosa e corrusca Andrea Arnold, La talpa del neoclassico Tomas Alfredson, Century of Birthing del luminoso Lav Diaz, Texas Killing Fields della paludosa Ami Canaan Mann, figlia di Michael Mann, Twilight Portrait della sconfortata esordiente postcomunista Angelina Nikonovna. Che bello andare a una Mostra dove i film sono tutti diversi uno dall’altro, dove non ci si deve iscrivere a una tendenza, dove si cambia occhio mentale davanti a ogni film. Dove si viene trascinati via da Faust, tirati giù da Sabina e Jung, riportati su dalla signora di Ann Hui, dove si naufraga felicemente nel mare di culi femminili di Wiseman. Come diceva un antico filosofo: «Nun euploeka, tote nenauagheka». Ho navigato felicemente per mare solo quando ho fatto naufragio.
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THIS IS ENGLAND Shane Meadows
L’incredibile leggerezza del mare, sulla spiaggia Elisa Baldini Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: Shane Meadows. Fotografia: Danny Cohen. Montaggio: Chris Wyatt. Musica: Ludovico Einaudi. Scenografia: Mark Leese. Costumi: Jo Thompson. Interpreti: Thomas Turgoose (Shaun), Joseph Gilgun (Woody), Vicky McClure (Lol), Andrew Shim (Milky), Andrew Ellis (Gadget), Rosamund Hanson (Smell), Stephen Graham (Combo), George Newton (Banjo), Jo Hartley (Cynth), Perry Benson (Meggy), Frank Harper (Lenny), Jack O’Connell (Pukey Nicholls), Kriss Dosanjh (il signor Sandhu), Kieran Hardcastle (Kes), Chanel Cresswell (Kelly), Danielle Watson (Trev), Sophie Ellerby (Pob). Produzione: Mark Herbert, Julia Valentine, Louise Meadows per Warp Films/Big Arty Productions/EM Media/Film4/Optimum Releasing/Screen Yorkshire/UK Film Council. Distribuzione: Officine Ubu. Durata: 101’. Origine: Gran Bretagna, 2006. 1983, un piccolo paese della provincia inglese. Shaun ha perso il padre durante la guerra delle Falkland e vive con la madre in un degradato quartiere operaio. Deriso a scuola per l’aspetto rétro dei suoi poveri abiti, passa le sue giornate da solo sulla spiaggia, senza amici né svaghi. Un giorno incontra Woody, capobanda di un gruppo di allegri e scapestrati skinheads: presto diventa la mascotte della gang e passa le giornate in loro compagnia. La sua trasformazione in piccolo skinhead è appena avvenuta quando irrompe nel gruppo Combo, uscito di galera e avvicinatosi alle idee politiche del destrorso National Front. È arrivato il momento per Shaun di crescere davvero e capire da che parte stare.
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Shaun è arrabbiato perchè la guerra gli ha portato via il padre, lasciandolo solo a difendersi da chi crede che i suoi pantaloni a zampa siano irrimediabilmente fuori moda. Sfrontato come solo un ragazzino ferito in odore di adolescenza può essere, prende a calci l’aria con la sua bicicletta scassata e lascia indietro l’ordinario quartiere operario dove vive per raggiungere il mare, o meglio la spiaggia-palude che prelude a esso, dove orchestra giochi silenziosi e ricostruisce, almeno nella fantasia, la sua lesa, maltrattata dignità. Alla fine non chiede molto: un paio di pantaloni nuovi, qualche amico, poter leggere i fumetti dall’edicolante pakistano senza che questi lo sbatta fuori a male parole ogni mattina. È fiero, Shaun, non abbassa la testa: al massimo scuote le spalle solo leggermente più onerate e corre in avanti, stringendo i pugni. Bastano pochi minuti dall’inizio di This Is England, e Thomas Thorgoose, il ragazzino scovato da Shane Meadows, ci ha completamente convinto: crederemo a ogni singola parola che pronuncierà, a ogni suo gesto di gioia o di stizza, seguiremo la sua traiettoria come se fosse l’unica via possibile. Meadows racconta di aver visionato tantissimi giovani allievi di scuole di recitazione senza aver trovato nessuno che lo soddisfacesse, e che solo alla fine è arrivato al piccolo Thomas, figlio di operai, monello patentato, bollato a scuola per disturbo da deficit di attenzione e completamente estraneo al mondo del cinema. Non stupisce che per un film dalla vocazione così naturalmente autobiografica si sia voluto un protagonista totalmente incorrotto: la storia di Shaun è anche quella di Thomas e insieme quella di Shane, in un gioco di rimandi e assonanze che non fanno altro che rendere ancora più credibile la materia trattata. E di Inghilterra si tratta, sì, come recita perentoriamente il titolo: dell’Inghilterra delle tute sporche di lavoro, degli ideali innati e indotti, della guerra delle Falkland della Thatcher e il sangue sprecato per la crescita economica, del Paese dei ricchi che aderiscono e dei poveri che obbediscono. Mentre i giovani stanno a guardare, alcuni con le mani in mano, altri no.
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Il gruppo di skinheads che Shaun incontra è un’armata innocua, buffa e inconcludente. C’è un capogruppo,Woody, che si prende a cuore la solitudine di Shaun da quando lo vede passare con i suoi pantaloni a zampa di elefante, incrucciato per i dileggi subiti a scuola: lo difende, consola, accoglie. In poco tempo Shaun entra a far parte di una catena di solidarietà che lo stupisce e insieme rafforza: come genitori adottivi Woody, Lol, il giamaicano Milky, il permaloso Gadget lo scortano nelle loro scorribande sgangherate, lo iniziano a nuovi giochi, più o meno pericolosi, lo rendono uno di loro. E questo passaggio di identità, o meglio questa definizione di un’identità, si compie attraverso una vera e propria vestizione: capelli rasati, camicetta a quadretti, doctor martin’s finte (la scena in cui la commessa, d’accordo con la madre, spaccia a Shaun per originali un paio di stivali neri, chiaramente meno costosi, è una delle poche in cui si indulge nella retorica): adesso che è un piccolo skinhead Shaun ha un posto dove stare, degli amici con cui ridere e con cui fare colazione, a cui dare pacche sulle spalle contraccambiate. Il suo passaggio all’età adulta si completa anche con la sperimentazione del sesso, con la complicità della bizzarra e altissima Smell, dark lady supertruccata che dopo averlo iniziato ai baci con una succosa performance con apparecchio, gli chiede innocentemente di “succhiargli le tette”, lasciando il nostro piccolo
uomo completamente di stucco, ma non certo deciso ad arrendersi. Meadows ci mostra questa parabola di affiliazione a ritmo serrato, lasciando però respiro alle immagini, restituendoci diapositive di una lucidità intatta, quasi trasparente. Visi, colori e rumori: tutto è presente a se stesso con il suo caos e la sua non precisione, un universo difettoso, con parole interrotte e parolacce quasi declamate, abbracci fuori misura, eccessiva gratitudine: eppure tutto sembra in perfetto equilibrio, la quadratura di un cerchio. Finchè nell’idillio non irrompe Combo (un magnifico Stephen Graham): bestia ferita, finito in carcere per coprire Woody secondo un patto di fratellanza suggellato da una piccola croce in mezzo alla fronte: tutto quello che era leggero, naturale, scontato diventa pesante, lacrimoso, difficile da gestire. Le facce si contraggono, le birre non bastano più: c’è qualcosa che scorre sottotesto, ma Shaun è troppo innocente per accorgersene. Combo, che ha conosciuto in carcere il gigantesco Banjo, è adesso un nazi skinhead: ha sviluppato ancora più amore per la Nazione e ancora più odio per chi vorrebbe inquinarla, il numero sempre crescente di immigrati che affolano le cittadine e rubano il lavoro a chi in Inghilterra ci è nato. Sparla di tutto, se la prende con Milky, il ragazzo di origine giamaicana e ancora di più con chi non lo difende, esige manifestazioni di fedeltà e adesione completa alla sua causa.
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Combo è quello che Shaun potrebbe diventare: un uomo solo, disperato, che sfoga la sua rabbia sbattendo la testa sul finestrino della macchina fin quasi a romperlo, che ama e non è ricambiato, perchè dell’amore ha una visione totalizzante a senso unico, dirompente come la devozione per una Patria che nella realtà lo respinge a calci. È per questo che i due si attraggono: Shaun vede nella fierezza di Combo le ragioni di una guerra che altrimenti non avrebbe capito mai, la giustificazione di una perdita la cui vera causa fluttuava in un limbo indistinto da quando aveva iniziato a bruciare, nella sua possenza dominatrice il padre nelle cui braccia non può più riposare. Decide di seguirlo a malincuore, lasciando la sua innocenza e fanciullezza nelle mani di Woody: abdica ai giochi innocenti per la guerra vera, di strada, ma sempre guerra. È interessante vedere come Meadows mostri questa seconda ri-nascita di Shaun con un procedimento simmetrico alla prima, solo con un’ombra di ambiguità e pesantezza intorno: ancora immagini del gruppo, retate, pacche sulle spalle, sorrisi: ma l’aria è greve, fa presagire il risvolto della medaglia. Il punto massimo di bilico prima della rottura si raggiunge nella gita alla riunione del National Front: questo gruppo eterogeneo di skiheads già stona con l’aspetto campagnolo e conservatore del resto della, pur misera, platea: le strette di mano sono ingessate, solo Combo riesce ad appassionarsi al discorso infarcito di retorica razzista, gli altri sbadigliano e seguono l’altisonante applauso del loro mentore più per obbligo che per convinzione. L’abbandono di uno di loro durante il viaggio di ritorno segna il primo vero scoppio di violenza di Combo: non c’è spazio per chi non crede nella lotta, e solo una volta si decide se superare o meno il confine che separa chi scherza con la vita e chi invece ci fa a cazzotti. L’educazione di Shaun assume l’aspetto di una vera e propria scuola di intolleranza: inizia con la ribellione di Shaun al “padre”, quando Combo ha parole di sdegno nei confronti della guerra che lo ha reso orfano (nessuno si era mai permesso di trattarlo così, ed è così che doveva essere trattato) e prosegue nell’affinamento del linguaggio. Se già la parola «fuck» era il fulcro di ogni frase per la gang di Woody e soci, con Combo assume una durezza e una reiterazione quasi ipnotica (la visione del film in lingua originale in questo, come nella maggior parte dei casi, è quasi d’obbligo per la piena comprensione dei toni e dei personaggi): abbinata a pakistano viene scandita da Combo e ripetuta da Shaun come se fosse un nuovo alfabeto, fatta graffito e infine messa in pratica sia nei confronti del pakistano colpevole (l’edicolante che ha sempre maltrattato Shaun) sia di quello innocente (i tre ragazzi che giocano a palla nel quartiere). Shaun si riprende con Combo quello che crede gli spetti di diritto: la sua illusione è quella di attuare la giusta vendetta per la morte del padre, nel nome di
una croce rossa da appendere alla finestra come una bandiera di liberazione. La regia di Meadows è sapiente, ma in modo totalmente naturale. La sapienza sta soprattutto nell’orchestrazione delle parti: i dialoghi, la fotografia naturalistica, l’uso della musica (sia quella, bellissima e originale, di Ludovico Einuadi, che la riproposizione di molti successi dell’epoca, mai arbitraria). Il climax drammatico arriva quando deve arrivare e scoppia comunque con una dirompenza che spiazza: lo vediamo crescere e annunciarsi quando Combo decide che non ha nessuna voglia di rimanere lucido, che la solitudine che così tanto gli pesa deve essere annegata nell’erba che gli procura Milky, quel giamaicano così simpatico, così poco giamaicano e così tanto inglese, ma così giamaicano nella sua calma interiore, nell’affetto che trasuda aver vissuto attraverso la sua numerosissima e solidale famiglia, nella fortuna che ha avuto e che Combo non ha. È lì che si consuma tutta la solitudine del capo, e l’annullamento istantaneo della sua carica: nella violenza cieca, nel risultato peggiore di una struttura sociale già all’epoca corrosa. A Shaun/Thomas/Shane non rimane che tornare sulla spiaggia, raccogliere in un fagotto le sue speranze disilluse, crescere ancora un po’, in solitudine, e disperdere la bandiera di una guerra che si combatte ogni giorno, e che quindi non ha bisogno di vessilli.
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SUPER 8 J.J. Abrams
Nel cinema l’educazione alla vita Luca Malavasi
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Metafilm sentimentale ma, soprattutto, raro caso di remake emotivo. Cioè: l’erede 2.0 di Steven Spielberg, J.J. Abrams, omaggia il Maestro, portando sullo schermo non la sua versione di E.T., ma l’emozione di quella visione, catturata all’età di sedici anni, quando il cinema ha già chiamato, con anticipo analogo a quello del Maestro. Non so cosa dica la biografia di Abrams in proposito, o cosa abbiano dichiarato, incrociando i complimenti, gli interessati; non importa. Perché è comunque evidente che Super 8 è, prima di tutto, il remake di un’emozione cinematografica e già cinefila, archeologia nostalgica allo stato puro: il tentativo, necessariamente virato in favola, di ripescare l’emozione di un adolescente predestinato di fronte alla prima – di molte, s’immagina – visioni di E.T. Non c’è altro modo di vedere (e,
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Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: J.J. Abrams. Fotografia: Larry Fong. Montaggio: Maryann Brandon, Mary Jo Markey. Musica: Michael Giacchino. Scenografia: Martin Whist. Costumi: Ha Nguyen. Interpreti: Joel Courtney (Joe Lamb), Kyle Chandler (il vicesceriffo Jackson Lamb), Elle Fanning (Alice Dainard), Riley Griffiths (Charles), Ryan Lee (Cary), Gabriel Basso (Martin), Zach Mills (Preston), Jessica Tuck (la signora Kaznyk), Joel McKinnon Miller (il signor Kaznyk), Ron Eldard (Louis Dainard), Noah Emmerich (Nelec), Brett Rice (lo sceriffo Pruitt), Glynn Turman (il dottor Woodward), Bruce Greenwood (Cooper), Dan Castellaneta (Izzy), Michael Giacchino (il vicesceriffo Crawford), Caitriona Balfe (Elizabeth Lamb). Produzione: Steven Spielberg, J.J. Abrams, Bryan Burk per Amblin Entertainment/Bad Robot/Paramount Pictures. Distribuzione: Universal. Durata: 113’. Origine: USA, 2011. Estate 1979. In una piccola cittadina dell’Ohio, un gruppo di sei ragazzini sta girando un film horror in Super 8 sugli zombie. Molto vicino al luogo in cui si stanno svolgendo le riprese c’è un terribile scontro fra un treno e un pick-up al quale assistono come testimoni. Si riescono a salvare fuggendo, ma sono convinti che non si tratti di un normale incidente. Infatti, dopo questo episodio, iniziano a esserci misteriose sparizioni e ad accadere eventi inspiegabili. Il vicesceriffo Jackson Lamb, padre di Joe (uno dei ragazzi) e rimasto vedovo dopo che la moglie è morta per un incidente sul lavoro, cerca di vederci chiaro. Ma la situazione non è facile da risolvere. Sul posto arriva anche l’esercito. C’è, però, soprattutto la presenza nascosta di una creatura aliena.
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eventualmente, amare) Super 8 se non attraverso questa specie di rêverie emotiva che sa di regressione e che, dietro l’Omaggio Istituzionale, nasconde una questione molto privata – oltre a rappresentare, chiudendo il cerchio generazionale, la fine del primo volume di un diario personale e la ratifica di un passaggio di consegne. Certo, quell’emozione tutta cinematografica è anche di un’intera generazione, precocemente svezzata da E.T. e da vicine operazioni “alla Spielberg” (penso soprattutto a Gremlins, del 1984, e ai Goonies, del 1985), destinate a iniziare e allevare una nuova leva di spettatori, grazie al rispecchiamento anagrafico e alla continuazione, per immagini in movimento, delle favole scritte e disegnate e lette o ascoltate. Con questa nuova leva di mooviegoer, preparati per avventurarsi con disinvoltura nell’epoca blockbuster, Spielberg e compagni avrebbero fatto, per i successivi trent’anni (e non è ancora finita) affari d’oro. Ma in tutta questa storia – proprio come rivela Super 8 – c’è anche il lato dolce e magico: del cinema che salva la vita o, quantomeno, le dà un senso e un valore. E che per un’intera generazione diventa – anche se non tutti lo sanno – l’unico, per pochi, e il più importante, per molti, strumento per guardare in faccia le cose – il mondo, i padri, gli alieni, le ragazzine di cui si è innamorati. Sguardo e linguaggio, ma anche ossessione e dannazione: i cinefili, del resto, sono sempre un po’ dei disadattati. Ma nelle vite di chi ha scelto l’immagine e il simbolo, arriva sempre, prima o poi, il momento del riscatto: Super 8 è anche questo, l’affermazione a distanza di una scelta giusta, in principio inevitabile e necessario, poi stile di vita e contenuto estetico. E, su
un piano più largo e diversamente generazionale, il diario intimo di una intera generazione di registi-cinefili americani, scritta da un erede legittimo. La biografia per interposto regista, o biografia doppia, di Super 8 si chiude infatti con la vittoria dell’immagine. È l’immagine che cattura la verità: prima di quello che è successo davvero durante l’incidente ferroviario, poi di quello che trama il governo alle spalle dei cittadini; e nelle immagini di un vecchio Super 8 in bianco e nero è contenuta la verità dell’esperimento che ha partorito l’ennesimo alieno spielberghiano. È solo grazie a queste proiezioni che, nella scena finale, padri e figli, abbracciati e con lo sguardo allo schermo del cielo, possono davvero guardare e capire. L’argomentazione è quasi da manuale, e il cinema – o, più in generale, l’immagine in movimento – emerge come vera e propria educazione alla vita e apprendistato. Non c’è scampo, non c’è altro modo per confrontarsi con la realtà. L’educazione sentimentale di quella e poi delle successive generazioni è passata per il grand tour del cinema. E Super 8 fa anche un po’ di genealogia, oltre a liberare tutta una serie di utili confronti tra i primi e gli ultimi, e tra gli immaginari di ieri e quelli di oggi. Che sono cambiati solo nella forma, non nella sostanza: J.J. Abrams aggiorna e continua il lavoro del Maestro, senza divergere dalle premesse, e lo fa dopo aver incrociato o anche solo sfiorato tutti o quasi i registi-cinefili della generazione Spielberg, da Lucas a De Palma. E allora, chiamiamolo pure omaggio, questo Super 8, anche se per metà è un trattato di cinefilia, un saggio di storia del cinema, un ritratto emozionale dello spettatore contemporaneo.
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Abram(s): o le profezie fuori sala
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Emilio Cozzi
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Molto è stato detto di Super 8. Altrettanto è stato scritto.Tra i fan del film svetta imponente la frangia nostalgica, quella di chi riconosce nelle visioni di Jeffrey Jacob Abrams un omaggio di un giovane genio al suo mentore produttivo e al di lui immaginario (buona parte dei sogni “peterpanofili” occidentali, trattandosi di sua maestà spielberghiana). Di contro, fra i detrattori, impazza chi sostiene che Abrams una poetica propria non l’abbia. Di sicuro non al cinema. Tanto che – argomentano gli Abramo scettici – , dopo un franchise (Mission: Impossible III), un reboot (Star Trek) e un’opera arguta ma senza lui al timone (Cloverfield, diretta dal fido Matt Reeves), Super 8 dimostrerebbe la cine-vacuità di un tuttalpiù degno sceneggiatore baciato dalla fortuna seriale (ed ecco, d’un lampo, tolti di mezzo anche i fantasmi di Alias e Lost). Tuttavia, se molto si è detto e scritto di Super 8, ben di più si è ipotizzato. Ed è qui che sarebbe più interessante scovare l’eventuale talento del demiurgo dell’isola: nell’alone nebbioso ma irresistibile che circonda ogni sua produzione, anche la meno simpatica al registratore di cassa. È bene ricordarlo: siamo nel 2011, ad attendere l’uscita del film sono schiere di nativi digitali, occhi freschi e iperconessi che di Incontri ravvicinati del terzo tipo conoscono, ben che vada, il tema musicale downloadato sull’iPhone. Abrams lo sa bene. Tanto da farsi desiderare comunque. Da ingenerare chiacchiericcio, attesa… brama. E come nessun altro. Ma in che modo? Nel maggio 2010 – a un anno dall’uscita – milioni di spettatori impazzirono di fronte ai novanta secondi di un filmato in cui un pick-up si schianta contro un treno in corsa. Il ritmo superbo del teaser di Super 8 – rivisto durante il Super Bowl – la magistrale allusione a un fuori campo extra-terrestre e la chiusa tipica da episodio tv innescarono
la caccia al film. Ma, rintracciabile solo online, il video rimase per mesi avamposto solitario e misterico del progetto. Il segreto divenne c(a)risma narrativo-produttivo proprio come successo, guarda caso, per Lost, Star Trek e Cloverfield – che è la summa (extra)cinematografica di questa strategia e addirittura tematizza il mistero, vive sul fascino del non visibile. Solo molto dopo qualcuno rintracciò informazioni aggiuntive su Super 8. Al cinema? No, nel trailer interattivo nascosto fra gli extra di Portal 2 (Valve), sublime videogame per gli amanti del rompicapo 2.0. Al giocatore/spettatore viene permesso di trovarsi su quel treno durante quella corsa. E, dopo lo scontro, di perlustrare la zona fino al vagone ormai celebre da cui qualcosa di extraumano dovrebbe sbucare. Una volta raggiunta la carrozza, però, il trailer finisce. Ecco il punto: quasi fosse l’unico ad aver compreso la lezione di Jacques Tourneur alla RKO e la portata immaginifica delle “sequenze” preconizzate da William Gibson nel suo L’accademia dei sogni (Mondadori), Abrams ha la prodigiosa capacità di innestare indecifrabili frammenti visivi nell’immaginario collettivo, di disseminare con ritmica seriale visioni criptiche e sequenze irrisolte in cui la curiosità voglia penetrare. Leopardi dell’extra cinema, Abrams glorifica l’attesa del film fuori dalla sala, fra avanguardia transmediale e hip-sterismo. E sarà da quelle parti, forse, che la Settima arte si giocherà qualche sfida futura. «Ma è marketing, non cinema», sosterrà qualcuno. Eppur si muove e si vede. Quando nei loro romanzi Gibson e Bruce Sterling allusero al cd come all’inizio – immateriale – dell’apocalisse discografica, le major risero. Chissà che ora, mentre si sorride del suo omaggio vacuo al cinema di ieri, fuori dalla sala Abrams non stia già sceneggiando il domani.
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DETECTIVE DEE E IL MISTERO DELLA FIAMMA FANTASMA Tsui Hark
La storia e la cultura/La fantasia e la meraviglia Pierpaolo Loffreda
Titolo originale: Di Renjie zhi Tongtian diguo. Regia: Francesco Patierno. Soggetto: Lin Qianyu, Robert van Gulik. Sceneggiatura: Zhang Jialu. Fotografia: Chan Chi Ying, Chan Chor Keung. Montaggio: Yau Chi Wai, Yang Xiao. Musica: Peter Kam. Scenografia: Choo Sung Pong. Costumi: Bruce Yu. Interpreti: Andy Lau (Di Renjie, il Detective Dee), Carina Lau (l’imperatrice Wu Zetian), Li Bingbing (Shangguan Jing’er),Tony Leung Ka Fai (Shatuo Zhong), Deng Chao (Pei Donglai), Richard Ng (Donkey Wang prima), Teddy Robin Kwan (Donkey Wang dopo), Yao Lu (il generale Li Xiao), Yan Qing (Jia Yi), Liu Jinshan (Xue Yong), Jean-Michel Casanova (il generale Aspar), Sos Haroyan (l’assistente dell’ambasciatore Umayyad), Jialin Zao (l’interprete), Deshun Wang (Xiazi Ling). Produzione: Wang Zhonglei, Wang Zhongjun, Tsui Hark per Film Workshop Co. Ltd./Huayi Brothers Media Corporation. Distribuzione: Tucker. Durata: 122’. Origine: Hong Kong/Cina, 2010. È il 689 e.v., e sta per essere incoronata come Imperatrice della Cina la regina Wu, che già per molti anni era stata reggente, dopo la morte dell’Imperatore suo marito. A corte si ordiscono intrighi e congiure contro di lei, mentre una strana epidemia sembra diffondersi fra i responsabili della costruzione dell’immensa statua del Buddha che la sovrana ha voluto far erigere nei pressi della sala dove dovrà avvenire l’incoronazione: un fuoco interiore devastante uccide due funzionari imperiali. Per risolvere il caso viene richiamato a corte Di Renjie, abile spadaccino e indagatore inflessibile, che giace nelle prigioni imperiali per essersi precedentemente ribellato al dominio della regina Wu. Di Renjie, il Detective Dee, sarà affiancato nella sua ricerca dalla giovane e affascinante donna soldato Jing’er, dal pubblico ufficiale Pei Donglai e dal Medico degli Spettri, maestro di magia che vive appartato. Dopo rocambolesche avventure e colpi di scena, il Detective Dee si riconcilierà con la sovrana (ottenendo però una riduzione dell’autoritarismo del potere imperiale) e riuscirà a risolvere il mistero, pagando però un prezzo salato.
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Che fine ha fatto la nouvelle vague del cinema hongkonghese, particolarmente feconda dall’inizio degli anni Ottanta fino alla seconda metà dei Novanta del secolo scorso (o più precisamente dal 1979, anno di realizzazione di Gli omicidi-farfalla di Tsui Hark, al 30 giugno del 1997, data infausta dell’annessione di Hong Kong alla Cina)? Il fenomeno, portato all’attenzione internazionale dalla Mostra del Cinema di Pesaro nel 1983, e quindi dal numero speciale dei «Cahiers du cinéma» curato da Olivier Assayas nel 1984, aveva raggiunto vaste proporzioni sia produttive che di spessore estetico-inventivo, ed espresso personalità autoriali di grande rilievo (oltre a Tsui Hark basti pensare, fra i più noti, a Ann Hui, John Woo, Wong Kar Wai, Fruit Chan, Johnnie To, Allen Fong, King Hu, Ringo Lam, Stanley Kwan, Ching Siu Tung). Dopo l’esodo e la trasferta hollywoodiana, non sempre felice, di alcuni di questi registi, da parecchio tempo non si sentiva parlare di loro, a parte dell’ultraprolifico Johnnie To. Questo nuovo lavoro di Tsui Hark ci fa ben sperare su una possibile continuità delle iniziative del grande regista, autore e produttore versatile di numerosissimi film (1) capaci di intrigare sia lo spettatore comune, che richiede spettacolarità e dinamismo, sia quello più esigente e curioso. Tanti i generi (i cui codici ha spesso combinato insieme) fra i quali l’autore ha scelto di muoversi:
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l’horror, l’apologo socio-politico, la commedia, il wuxiapian, il gangster movie, il fantasy, il melodramma, la screwball comedy, il kung fu movie. La contaminazione fra i generi è propria pure di Detective Dee, anche se il film fa riferimento soprattutto al wuxiapian, un modello tipico della cultura cinese sia colta che popolare (di tradizionale ascendenza letteraria), e insieme la matrice fondamentale del cinema hongkonghese. Basato su avventure epico-cavalleresche di eroi solitari, monaci ieratici e cavalieri erranti particolarmente abili nell’uso della spada (così come nella declinazione della sua simbologia) e nelle evoluzioni acrobatichevolanti, il wuxiapian si sposa, nell’ultimo film di Tsui Hark, con l’action movie, il fantasy, la detective story, il mélo, e si arricchisce di riflessioni storico-politiche non banali (sul potere, sulla funzione della dissidenza, sulla libertà dell’individuo). Motivi dominanti del film sono: i miti fondativi e le leggende tradizionali (tratte dalla letteratura e dall’arte visiva cinese), gli intrighi e le cospirazioni politiche, l’amor fou, l’amicizia virile fra vecchi ribelli (fino a quanto domati dal peso dell’esistenza e delle sconfitte?), il suspense e gli effetti sorpresa legati alle indagini, il rapporto fra sensualità e ferocia, la trasfigurazione e lo svelamento (vedi la trasformazione della donna soldato Jing’er nel Cappellano di Corte e viceversa), l’ambiguità (rinvenibile oltre che in Jing’er anche nel pubblico ufficiale-uomo d’azione albino Pei Donglai), le metamorfosi continue e in divenire (lo sdoppiamento del guerriero rosso invincibile, trasformato poi in pura forma-colore in movimento), le coppie oppositive altezza/profondità,
materiale/spirituale, la magia (il cervo parlante, cui scopriamo dar voce Jing’er: il cervo nella simbologia cinese rappresenta l’immortalità, perché viene considerato l’unico essere vivente in grado di trovare il fungo allucinogeno mangiando il quale si può diventare immortali). Il reale viene deformato attraverso gli strumenti del meraviglioso: i voli e le prodezze dei protagonisti che, come in ogni film wuxiapian, violano costantemente le regole della gravità universale (e richiedono il massimo livello possibile della sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore), i passaggi (e paradossi) spazio-temporali e le combinazioni analogiche sorprendenti (come il percorso repentino di Pei Donglai dal Bazar Fantasma al Monastero Infinito), la maestosa ricchezza delle inquadrature, che contengono molteplici elementi combinati insieme, e la precisione maniacale nei dettagli. Il film coniuga la massima libertà della fantasia creatrice con la precisione e l’attendibilità della ricostruzione storica (anche relativamente al clima culturale dell’epoca presa in considerazione). La vicenda è ambientata nel 689 e.v., a ridosso dell’incoronazione dell’imperatrice Wu, che intendeva sostituire suo marito – appartenente alla dinastia Tang e morto da poco – sul trono, suscitando dissensi e reazioni violente fra i notabili imperiali.Va rilevato che sotto la dinastia Tang (dal 618 al 907) la Cina riacquisì la sua unità politica e conobbe un lungo periodo di relativa pace – nonostante le ripetute aggressioni da parte dei turchi e dei coreani – e di sviluppo. La vicenda della presa del potere da parte dell’imperatrice Wu si colloca nella prima fase (la più dinamica) di questo periodo. Proprio Wu spostò la capitale a Luoyang,
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insediandovi una corte vasta e articolata: «I grandi proprietari terrieri, i generali e le famiglie legate al trono avevano una parte decisiva nel potere imperiale e nell’amministrazione. I mandarini erano il cardine dell’amministrazione; alcuni di loro potevano accentrare nelle proprie mani tanto potere da arrivare veramente a governare» (2). Il buddismo si diffuse capillarmente, influenzando tutta la produzione artistica, letteraria e filosofica, e stimolando lo sviluppo economico (si affermò una sorta di proto-capitalismo). Per capire la centralità del personaggio del Cappellano di Corte (e del suo lungo ritiro in un luogo impervio e inaccessibile) nel film è utile, a nostro avviso, riflettere sul ruolo assunto in quei secoli dai monaci: «I letterati, quali che fossero i loro pregiudizi di casta nei confronti dei monaci, intrattengono con questi relazioni amichevoli. Essi vanno a cercare fra i monaci, soprattutto nei loro rifugi montani, l’evasione dagli obblighi amministrativi e rituali. […] Vi sono monaci regolari, normalmente iscritti come tali nei registri dello Stato, e ci sono gli irregolari, anacoreti, taumaturghi, vagabondi di ogni sorta» (3). A proposito degli anni della reggenza e quindi del regno dell’imperatrice Wu (dal 690 al 705), dell’atmosfera culturale del periodo e della costruzione (e quindi distruzione) nel film dell’immensa statua del Buddha, va notato che Wu – unica donna che abbia mai occupato il trono cinese – era riuscita a stabilire una prevalenza femminile nell’entourage che contava a palazzo. In questo periodo anche la raffigurazione scultorea del Buddha assumeva connotati androgini o addirittura femminili (4). Approfondiamo un attimo alcuni particolari – ignoti, crediamo, allo spettatore nostrano – utili per la lettura del film: «L’imperatrice Wu – era questo il suo nome di famiglia, che ella sostituì a quello dei Tang – era stata, in gioventù, una monaca buddhista […]. Tutto spingeva la temibile usurpatrice ad appoggiare il buddhismo: […] il suo femminismo, dal momento che in Cina il buddhismo è considerato una religione femminile (yin); la sua megalomania, che si sfogò nell’erigere monumenti grandiosi, come il colossale Buddha che si può ancora vedere a Longmen […]. Solo l’età, e una protesta generale del suo seguito, le avrebbero impedito, nel 704, di far fondere in bronzo, alla periferia di Luoyang, una statua del Buddha alta quanto la Torre Eiffel» (5). Un aspetto sul quale si sofferma in particolare la verve immaginativa di Tsui Hark nel film è il rapporto fra altezze inaudite (la statua cava del Buddha con sembianze femminili) e profondità abissali (il Bazar Fantasma in cui vive, fra gli altri reietti, il Medico degli Spettri, sodale di Di Renjie). Le prime vengono percorse in modo vertiginoso, nei due sensi, dai personaggi; nelle seconde ci si confonde, con un brivido, nel nulla dell’oscurità, in mezzo alle creature degli inferi (e qui, nell’ombra perenne, dovrà infine rifugiarsi il protagonista). La fascinazione per le alte cime e i profondi abissi rimanda alla logica e alla sensibilità del sublime, una concezione estetica maturata, in Occidente, fra il Seicento e (soprattutto) il Settecento, quando si modificò la visione data dai pittori e dai poeti
della montagna, della tenebra e della grandiosità dello spazio. L’esplorazione e la curiosità degli intellettuali viaggiatori crearono un nuovo sentimento dell’altezza e degli abissi, espresso pienamente prima da Edmund Burke nella sua Ricerca sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello (1757) e quindi da Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790) . Quella del sublime è una poetica della disarmonia, del disordine, della precarietà (condizioni valutate positivamente). Si scoprì la forza della verticalità: la vertigine come effetto prodotto dal rapido passaggio dall’alto al basso e dalla luce all’oscurità. Si veda, a questo proposito nel film, come abbiamo già evidenziato, l’approdo volante dal mondo degli inferi al Monastero Infinito. Ma le relazioni culturali stabilite da Tsui Hark con la concezione occidentale del sublime non si fermano qui. Il rapporto spiazzante fra molto alto e variamente stratificato da un lato, ed estremamente profondo dall’altro è al centro anche dell’elaborazione estetica di Jean Giraud (Moebius), disegnatore di fumetti francese che, con alcune sue opere, come Harzak e The Long Tomorrow (1975), Il maggiore fatale (1982) e la saga dell’Incal, realizzata insieme ad Alejandro Jodorowsky (1981-1988) ha influenzato direttamente film come Possession di Andrzej Zulawski, Blade Runner di Ridley Scott (1982), Il Quinto Elemento di Luc Besson (1997) e, forse, oggi anche questo Detective Dee di Tsui Hark. (1) Fra i principali ricordiamo almeno Don’t Play with Fire del 1980, Shanghai Blues del 1984, Peking Opera Blues del 1986, Green Snake del 1993, The Blade del 1995. (2) Giorgio Melis, «Storia», in Giorgio Melis e Franco Demarchi (a cura di), La Cina contemporanea, Edizioni Paoline, Roma 1979. (3) Max Kaltenmark, Paul Demiéville, Guillaume H. Dunstheimer, Li Ogg, La Cina e la Corea, vol. 16 dell’oper a Henri-Charles Puech (a cura di), Storia delle religioni, Laterza, Bari, 1978. (4) Cfr. Maria Tchou, «Scultura», in Giorgio Melis e Franco Demarchi (a cura di), cit. (5) Max Kaltenmark, Paul Demiéville, Guillaume H. Dunstheimer, Li Ogg, cit.
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COSE DELL’ALTRO MONDO Francesco Patierno
Treviso, la Lega e noi. La mano di Dio
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Paola Brunetta
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Succede che Treviso, che per inciso è la mia città, assurga agli onori della cronaca per ragioni che onore non le fanno, in realtà. Le dichiarazioni dell’ex sindaco (e non solo) sugli extracomunitari che fanno sì che qualunque ospite esterno venga a tenere una conferenza su tematiche anche lontanamente sociali, si stupisca della partecipazione calorosa del pubblico («A Treviso non me l’aspettavo»); la rimozione, qualche tempo fa, delle panchine antistanti la stazione per evitare che gli immigrati vi potessero sostare, argomento portato all’attenzione nazionale da Marco Paolini; le “battute” omofobe (dell’ex sindaco, sempre e dei suoi compagni di partito) e, sul tema, la polemica suscitata di recente dal mancato flash mob legato al progetto Dolce Pace e alla relativa mostra fotografica organizzata da XYZ in collaborazione con Fabrica (1). Una cittadina strana,Treviso. Graziosa e ridente da un lato con i suoi corsi d’acqua che percorrono il centro storico medioevale (o almeno questa è l’impressione che ne ha chi vi giunge da fuori), fin troppo tranquilla, borghese e chiusa nella mentalità dall’altro, senza contare l’attenzione alla forma quindi all’aspetto esteriore nonché (quindi) al denaro che la caratterizza e che ne ha fatto il simbolo del Nord Est produttivo e ricco, che fonda il proprio benessere sull’etica del lavoro. Una città di provincia da cui si tende a fuggire per spaziare in contesti culturalmente più vivaci e vari, ma una cittadina anche in cui può essere piacevole restare, per la qualità di vita che può offrire. Alcuni film hanno avuto come sfondo questa città; se tralasciamo quelli più noti e meno recenti come Signore & Signori (2) e Il disco volante (Germi, 1965 e Brass, 1964), da cui emerge il quadro di una città bigotta e perbenista, dominata da una morale cristiana usata in senso strumentale e funzionale al mantenimento dello status quo politico, religioso e sociale, trovo Le acrobate (Soldini, 1997) e Le conseguenze dell’amore (Sorrentino, 2004) particolarmente significativi in questo senso (3). Il primo ritrae una Treviso cupa, deserta, invernale, contrapposta a Taranto come emblema di un Sud problematico ma aperto e vitale, in cui l’energia
Regia: Francesco Patierno. Soggetto: dalla sceneggiatura di Sergio Arau,Yareli Arizmendi e Sergio Guerrero per il film Un giorno senza messicani (2004). Sceneggiatura: Diego De Silva, Giovanna Koch, Francesco Patierno. Fotografia: Mauro Marchetti. Montaggio: Cecilia Zanuso. Musica: Simone Cristicchi. Scenografia: Tonino Zera. Costumi: Eva Coen. Interpreti: Diego Abatantuono (Mariso Golfetto), Valerio Mastandrea (Ariele Verderame), Valentina Lodovini (Laura), Sandra Collodel (Marta), Laura Efrikian (la signora Verderame), Maurizio Donadoni (il sindaco), Vitaliano Trevisan (il tassista), Riccardo Bergo (Otello), Sergio Bustric (il Mago Magic), Fulvio Molena (il questore), Fabio Ferri (il sottocapo), Grazia Schiavo (la giornalista del telegiornale). Produzione: Marco Poccioni, Marco Valsania per Rodeo Drive. Distribuzione: Medusa. Durata: 95’. Origine: Italia, 2011. In una bella, civile e laboriosa città del Nord Est vive e lavora una percentuale alta di immigrati, tutti in regola e ben inseriti. L’industriale Golfetto si diverte, sugli schermi di una tv locale, a mettere quotidianamente in scena un teatrino razzista: iperbole, giochi di parole, battute sarcastiche, politicamente scorrette. Un teatrino dal quale invita gli immigrati a sloggiare per tornare ai loro Paesi. Un giorno il teatrino si fa realtà, e gli immigrati “tolgono il disturbo”. La vita di Golfetto, e con lui quella di Ariele, un cinico poliziotto romano, di Laura, una “buona” e bella maestra elementare, e di tutta la cittadinanza, vanno in brevissimo tempo a gambe all’aria.
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scorre e da cui è possibile uscire per cambiare il corso della propria esistenza, delle proprie esistenze. Elena infatti, la protagonista trevigiana, viene messa in contatto con Maria da una donna che viene dall’Est, e che aprirà uno squarcio magico e inaspettato nella sua vita monotona. Qui Treviso, che nella prima parte dell’opera è raffigurata come fredda e buia, si apre man mano con l’aprirsi anche delle stagioni, diventando una città primaverile dov’è possibile sedersi in una piccola piazza ai tavoli di un bar, ma da essa è necessario partire se si vuole realizzare un cambiamento vero, o almeno provarci. A Treviso possono accadere dei miracoli; che però si concretizzano altrove. Il secondo mostra Treviso come la vede il suo protagonista dalle vetrate dell’hotel Continental (4): fredda e deserta, cupa, asettica e priva di vita, popolata da fantasmi che non possono definirsi persone, con i quali qualunque tipo di relazione è destinata a finire. E del resto Sorrentino usa Treviso per parlare della Svizzera, come luogo di denaro e di traffici illeciti. La Svizzera è un luogo per antonomasia misterioso e segreto, ha detto in un’intervista, come la mafia (tema portante del film, anche se ce ne accorgiamo solo dopo una buona parte) è l’organizzazione misteriosa e segreta per antonomasia. Ma è anche il luogo dell’attesa, dell’attesa, alla fin fine, della morte, ha aggiunto. E luogo di morte è questa città, così come Sorrentino ce la rappresenta. Luogo appunto di fantasmi. Non luogo, anche. E infatti di Treviso è preso in considerazione un albergo, un “non luogo” per eccellenza. Ora arriva il film di Patierno che non è stato girato a Treviso ma a Bassano del Grappa (anche se tutto fa pen-
sare alla “marca gioiosa”, a partire dall’azienda di proprietà del protagonista che ha sede lì), perché il sindaco ha negato l’autorizzazione. Arriva a Venezia (Controcampo italiano) e subito dopo nelle sale, provocando polemiche prima (da una parte) per la negata ambientazione trevigiana, dopo (dall’altra) per le accuse di razzismo che farebbe ai trevigiani e ai veneti in generale, polemiche sfociate in un’interpellanza parlamentare (5) il mese scorso, quando ancora nessuno lo aveva visto. Cosa che non stupisce perché il film ha un valore civile o almeno sociale, in quanto mette effettivamente in luce (1) Su cui è uscito proprio oggi un articolo su «D» (Un gelato con me e mio marito, in «D – la Repubblica», 3 settembre 2011, n. 757, pp. 89-92). (2) Il programma tenuto dal protagonista di Cose dell’altro mondo sulla propria emittente televisiva si intitola non a caso Signore & Signori Golfetto, ed è interessante notare che se negli anni Sessanta Treviso faceva scandalo per motivi legati alla morale, adesso fa tristemente parlare di sé per la difficile integrazione degli stranieri. (3) Si veda, sul primo di questi film, un mio contributo al testo Luci sulla città. Treviso e il cinema a cura di Giancarlo Beltrame, Livio Fantina e Paolo Romano, Marsilio 2005, dal titolo Treviso città “chiusa”, Le acrobate di Silvio Soldini, pp. 228-231. (4) Anche se, come ha dichiarato ancora il regista, l’hotel Continental è un albergo particolare, unico, non il classico albergo dai lunghi corridoi e dalle stanze impersonali. L’ideale per ambientarvi un racconto ellittico, glaciale, giocato sul non detto, sui volti e sugli sguardi, su inquadrature secche e geometriche che non lasciano spazio al sentimento della vita; un «thriller dell’anima», per utilizzare una definizione del suo autore. Che poi a entrare nella vita il protagonista prova anche («Sedermi a questo bancone è forse la cosa più pericolosa che abbia fatto in tutta la mia vita», dice nel momento in cui si avvicina a Sofia dopo otto anni di silenzi e sguardi), ma la vita, quella vera, non fa per lui. O è comunque destinata al fallimento. (5) Da parte di un sindaco, quello di Cittadella, che ha già avuto occasione di distinguersi per le ordinanze emanate in materia di immigrazione e per le dichiarazioni fatte: http://mattinopadova.gelocal.it/cronaca/2011/08/26/news/bitonci-all-attacco-della-caritas-siete-responsabili-per-i-profughi-4846604, a titolo di esempio.
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una mentalità (quella leghista, per uscire dalla genericità) diffusa in queste zone e data talmente per scontata che di fronte a certe “battute” invece di indignarsi si sorride, per cui dal momento che, come scrive Zappoli (6), la commedia spesso riesce «a far arrivare a un vasto pubblico delle idee che il dramma o la riflessione “alta” avrebbero costretto nella ristretta cerchia dei già convinti», ogni volta che ciò accade è giusto felicitarsi e noi ci felicitiamo, sperando che davvero il film riesca a fornire qualche spunto di riflessione. Specie sulla realtà in cui viviamo: cose dell’altro mondo, infatti ma quale mondo? Quello degli extracomunitari , quello dei piccoli imprenditori proprietari magari di una tv locale come il Golfetto del film (7), quello dei trevigiani anzi dei veneti, quello degli italiani, quello più ampio in cui con spirito illuminista (non “illuminato”, come si autodefinisce a un certo punto il protagonista del film) e cosmopolita orgogliosamente ci riconosciamo? Qualche anno fa Winterbottom aveva intitolato un suo bellissimo film sull’immigrazione clandestina dall’Afghanistan verso Londra Cose di questo mondo, perché purtroppo è questo il mondo in cui viviamo: un mondo di squilibri, disuguaglianze e contraddizioni, in cui fatalmente chi “ha meno” va dove sta chi “ha di più” o molto di più, o dove crede che stia chi ha di più. Allo stesso modo Goupil ha collocato la cornice del suo ultimo lavoro, che parla anch’esso di immigrazione e (in questo caso) di politiche migratorie, nel 2067 per poter mostrare i fatti accaduti nel 2009 come una distopia cioè un’utopia negativa, un’utopia rovesciata, un qualcosa che non dovrebbe succedere: una cosa dell’altro mondo. Un mondo in cui, per tornare al tema della nostra scheda, un imprenditore leghista può invocare «la mano di Dio» per «mandare a casa» nel senso di far tornare al proprio paese tutti gli immigrati dal Nord Est, e Dio dopo un temporale che pare la pioggia manzoniana se non altro per l’effetto di “purificazione”che produce, può accontentarlo e può far quindi sparire, letteralmente, gli stranieri da tutto il Veneto: novantamila prima (all’incirca gli abitanti di Treviso, sarà un caso?), un milione poi. Mandando in tilt tutto il sistema sociale, tanto che lui stesso, alla fine, si trova a pregare Dio di «far tornare tutto come prima».
A questo tema forte per il quale Patierno ha preso spunto, con i cosceneggiatori De Silva e Koch, da un film di Sergio Arau (8) che tratta dell’improvvisa sparizione, nella California del benessere, di tutti (tranne uno) gli immigrati messicani e del panico che questa provoca, qui sviluppato dal personaggio di Golfetto, si legano le storie di Laura, che si scopre poi essere sua figlia, e del suo ex fidanzato Ariele, talmente sconvolto dalla notizia che lei aspetta “un bambino negro”da uno dei lavoratori del padre, da rimandare la partenza per Roma dove si era stabilito e da assistere così alla scomparsa degli extracomunitari, come la chiama il telegiornale. I personaggi sono ben delineati e gli attori che li interpretano, Abatantuono in particolare (ma anche Trevisan nella parte del tassista), sono davvero bravi; la prima parte del film è incalzante e ben girata, e descrive l’ambiente in cui si muove Golfetto con precisione di particolari (anche realistici nella parafrasi di cose effettivamente dette e nella rappresentazione di cose effettivamente fatte, tanto che il regista ha dichiarato che non ha dovuto inventare niente), senza cadere nello stereotipo alla “casalinga di Treviso” di morettiana memoria; nella seconda, però, il ritmo rallenta e il film sembra che non sappia più che direzione prendere, per cui il finale aperto ma non troppo ha in realtà il sapore di qualcosa di irrisolto. Ed è un vero peccato, perché al di là della precisione quasi filologica della ricostruzione di un clima e di una mentalità, precisione che porta il film su un côté realistico-sociale virato felicemente in chiave di commedia, oltre che di favola surreale, la prima parte è davvero interessante, a partire dall’incipit con il toro che esce dal furgone che lo trasporta e se ne va in giro per la città fino a che Golfetto non gli spara, che ricorda Il toro di Mazzacurati (complice Abatantuono) e, per la situazione e il tono, i Racconti dell’età dell’oro (9), e dai titoli di testa per metà sfocati e mossi che completano la situazione di cui sopra senza farcela capire, e cominciano a inquadrare i personaggi; poi, però, il tono si appiattisce appunto in quello di una commedia sentimentale e il personaggio stesso di Golfetto perde smalto, nel tentativo del regista di umanizzarlo (10). Film così, tuttavia, ci vogliono; per fortuna ci sono; e la “mano di Dio” che noi chiediamo è che servano davvero, a tutti, come spunto importante di riflessione. (6) Cfr. la sua recensione al film: http://www.mymovies.it/film/2011/ cosedellaltromondo/. (7) Altro riferimento, non casuale, all’imprenditore trevigiano proprietario di tre reti televisive locali ed entrato in politica poco prima di morire in un incidente qualche anno fa. (8) A Day Without a Mexican (2004), distribuito in Italia direttamente in dvd con il titolo Un giorno senza messicani. (9) Hanno Höfer, Cristian Mungiu, Constantin Popescu, Ioana Uricaru e Razvan Marculescu (2009). (10) Patierno ha dichiarato più volte, presentando il film, che la sua intenzione era quella di narrare la storia di tre personaggi in una situazione paradossale come questa, dei loro sentimenti e delle loro vite, e come queste cambino attraverso il momento-chiave della vicenda, momento del quale ha voluto mostrare non solo gli aspetti politicosociali ma anche quelli emotivi, e le loro ripercussioni sulle vite dei protagonisti.
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L’ULTIMO TERRESTRE Gian Alfonso Pacinotti
Maestri dallo spazio profondo Emiliano Morreale Regia e sceneggiatura: Gian Alfonso Pacinotti. Soggetto: dal romanzo a fumetti Nessuno mi farà male di Canicola (Giacomo Monti). Fotografia: Vladan Radovic. Montaggio: Clelio Benevento. Musica: Valerio Vigliar. Scenografia: Alessandro Vanucci. Costumi: Valentina Taviani. Interpreti: Gabriele Spinelli (Luca Bertacci), Anna Bellato (Anna Luini), Luca Marinelli (Roberta), Teco Celio (Giuseppe Geri), Stefano Scherini (l’americano), Robert Herlitzka (il padre di Luca), Paolo Mazzarelli (Walter Rasini), Sara Rosa Losilla (l’aliena), Vincenzo Illiano (Gabriele Del genovese), Ermanna Montanari (Carmen), Ugo De Cesare (Joseph Palla). Produzione: Domenico Procacci per Fandango/Rai Cinema. Distribuzione: Fandango. Durata: 100’. Origine: Italia, 2011. Gli extraterrestri stanno sbarcando sulla Terra. Arrivano in un Paese stanco e disilluso, in piena crisi economica. La gente risponde alla venuta degli extraterrestri con una reazione razzista «Adesso ci ruberanno il lavoro, come hanno fatto i cinesi prima di loro!» o con strampalate interpretazioni mistico-religiose. Luca Bertacci, un uomo con enormi problemi di relazione, un uomo che abbandonato dalla madre quando era piccolo, è cresciuto nella diffidenza e nell’incapacità di provare sentimenti. Spende la sua vita tra il lavoro di barista in una sala bingo, i rari pranzi con il padre e un’attrazione segreta e inconfessabile per la sua vicina di casa. L’arrivo degli extraterrestri cambia tutto e assume sempre di più le caratteristiche di una vera e propria "rivelazione" per il nostro protagonista. Questi alieni, che come forma e atteggiamento sono simili ai “grigi” di Incontri ravvicinati, e dimostrano di saper distinguere il Bene dal Male, agiscono ai margini della vicenda modificando la vita di Luca, innescando eventi che lo porteranno a scoprire una verità inaspettata e sconvolgente, fino a dargli una nuova possibilità di vita e una speranza di felicità.
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Nel cinema italiano, Gianni Pacinotti alias Gipi è un alieno. Chi ama i fumetti lo conosce bene, come il talento più completo e geniale emerso negli ultimi decenni, capace di spaziare dalla vignetta al quasi-romanzo, dal comico al tragico, con una maestria che lo mette alla pari dei grandi autori internazionali. Anche questo esordio nella regia, peraltro, è tratto da un fumetto, ma non suo. Parte dell’originalità del film viene dal suo rivolgersi a un gioiello del fumetto contemporaneo italiano, Nessuno mi farà del male di Giacomo Monti (Canicola), racconto originale, per brevi storie, che è stato da più parti definito «carveriano» – ma, si potrebbe aggiungere, di un Carver già riletto da Altman, trasformato in mosaico. Si conferma in misura più ridotta, per il film, come un punto di forza del cinema italiano di oggi possa essere la sinergia e l’ibridazione con ciò che sta intorno, a cominciare dalle arti e dal fumetto. Qui c’è, nella parte della prostituta, una delle più straordinarie attrici contemporanee di teatro non solo italiano, l’Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna (Le Albe e
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un grande disegnatore, Gian Luigi Toccafondo, curiosamente lambivano anche un progetto diversissimo da questo, Gomorra, cioè il film italiano forse più importante del decennio). Inevitabile dunque, per molti, chiedersi cosa aggiunga e cosa tolga al mondo di un artista come Gipi l’incontro con il cinema – e per giunta con un cinema produttivamente molto “strutturato”, Fandango-Rai Cinema. Va detto subito che, per fortuna, la diversità di Gipi non va perduta, e anzi è visibile fin dalle prime scene, tanto che uno dei giurati della Mostra del cinema di Venezia, Todd Haynes, pare si fosse chiesto stupito: «Ma questo è un film italiano?». Sì, L’ultimo terrestre è italiano. No, per fortuna non somiglia molto a quello che siamo abituati ad aspettarci da un film italiano. L’ultimo terrestre è anzi la descrizione più originale di un pezzo di Italia, di luoghi e di atmosfere del nostro Paese che non si erano mai viste sullo schermo. Veri protagonisti del film sono i luoghi, una provincia che raramente il cinema italiano ci aveva mostrato in tutto il suo surreale squallore, in cui brandelli di campagna convivono insieme a non-luoghi che danno un’impressione di sgombero, di smobilitazione. I posti in cui si aggirano i personaggi di Gipi sono una visualizzazione della crisi. L’ultimo terrestre è forse il film che più profondamente ci trasmette il senso di un Paese in crisi, di una crisi che è anzitutto morale e che si
riscontra forse ancor più nel privato che nel pubblico: in un’assenza di dignità personale che diventa impossibilità a legami sociali degni. Gli alieni, nel film di Gipi, significano essenzialmente due cose, o meglio due perdite: la distinzione del bene e del male, il senso del futuro. In primo luogo, dunque, questa cosa che piove dal cielo è la moralità, il legame tra le azioni e le loro conseguenze, l’essere semplicemente buoni o cattivi (anche in un meccanismo di contrappasso quasi cartoonesco, per cui alla fine i buoni vengono premiati e i cattivi picchiati, infantilmente). Ma, inoltre, gli alieni sono il terrore che, in luoghi senza storia e senza direzione, può procurare il futuro. «L’unica cosa che dovrebbe farci davvero paura è che non cambi niente», dice uno dei personaggi. Gli unici che sanno cavalcare il futuro sono mossi da animal spirit, incoscienti e ribaldi, come i due impostori che fingono la comunicazione con gli “esseri di luce” e che fondano la propria fortuna su una semplice affermazione: «Lavoravo in un call center», e dunque, qualunque cosa siano gli alieni, potranno mai essere peggio del presente? Il cuore del film è, nella descrizione di un’Italia dispersa e incerta, il privato, o meglio l’insostenibilità del privato, e in particolare l’impossibilità del rapporto con le donne. L’ultimo terrestre è il racconto di come gli alieni giungono sulla terra e insegnano agli uomini ad amare le donne. Gli uomini del film sono incapaci di amare le
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donne, e hanno per loro un odio che è il concentrato dello squallore che vediamo scorrere intorno a loro. Non solo i sordidi impiegati della sala bingo, ossessionati dal sesso, ma anche i due “piazzisti alieni”, che usano le panzane sugli alieni per rimorchiare, e soprattutto il padre del protagonista, geloso e omicida pronto a schiavizzare una marziana. Un ritratto di più generazioni e più varianti di maschilismo, dal patriarca contadino ai moderni consumatori di pornografia su Internet, accomunati da un’atonia che diventa tranquillamente, e ripetutamente, violenza e morte. In questo senso, L’ultimo terrestre vuol dire proprio “l’ultimo essere umano rimasto”, o forse (in un conato di ottimismo) il primo. A ben vedere, non è nemmeno così chiaro se questi ospiti siano alieni o proprio aliene (l’unica che si vede è certamente di sesso femminile). E non c’è bisogno di sottolineare quanto sia ampia la prospettiva di Gipi rispetto a quello che si autoproclamava film sulle donne a Venezia, Quando la notte di Cristina Comencini, goffa collazione di stereotipi da bignamino di psicologia. Certo, non sempre la coralità delle storie regge e anzi, quando si vogliono riportare a unità i frammenti delle storie di Monti, la sceneggiatura sembra forzare un po’. È un problema che viene al pettine nella seconda parte del film, e soprattutto nella brutta scena finale del racconto del padre del protagonista (Roberto Herlitzka): che stona non solo per via della recitazione smaccatamente teatrale, ma anche perché, posta lì, quella scena sembra avere un valore da “incidente rivelatore” del trauma del protagonista, che risolve troppo: mentre invece è forse solo un evento come tanti, una rivelazione come le altre. In effetti, se c’è un rischio in questo esordio, non è tanto quello del mancato controllo dei materiali. Semmai il contrario, di certe “normalità” eccessive, quando fa capolino lo stile Fandango, come nell’uso della musica e soprattutto dei cavalli sonori che legano le scene tra loro (legare le scene coi cavalli sonori è un po’ come cucinare con la panna: una scelta facile, che sembra risolvere i problemi ma poi crea un unico pastrocchio audiovisivo). L’ultimo terrestre rimane a ogni modo uno dei migliori film italiani dell’anno, uno dei meno prevedibili. Fin dalla prima scena sui titoli, con le voci di una radio privata che non sanno nemmeno cosa dire dell’invasione aliena, e parlano di calcio o di complotti. Ma, più in generale, Gipi sente quel che racconta, ci crede. Bastano, come sempre, poche spie a definire la diversità di un regista. Basta la scelta dei luoghi e degli attori, la loro direzione, che rifiuta ogni realismo: l’umorismo sottile e impercettibile dei dialoghi, mormorati e sottratti a ogni ritmica televisiva (la parte migliore, per tempi di regia, set e facce, è quella della sala bingo: una delle più efficaci descrizioni dell’Italia di oggi, da rivedere fra qualche anno). E basterebbe solo il protagonista, Gabriele Spinelli, la cui faccia oblunga regge e amplifica la desolazione circostante. O quella che è forse la scena più importante del film, il pestaggio dell’amico trans del
protagonista, che quest’ultimo vede dall’interno di una macchina, in un’inquadratura fissa insostenibile di tre minuti che, forse involontariamente, risulta la versione grottesca e paralizzante di una scena molto simile nel Conformista di Bertolucci. L’augurio è quindi che Gianni Pacinotti (il quale ha annunciato di voler proseguire la propria carriera di regista) conservi di questo film gli elementi di alterità, di spiazzamento, senza voler per forza inseguire un cinema solido e ben fatto, e ci regali un film all’altezza dei suoi capolavori grafici, di storie come Effetto notte o Appunti per una storia di guerra, che sono tra i “film” italiani più belli degli ultimi decenni, o la fulminea, rara poesia di certi suoi cortometraggi, come Da un’altra parte (una delle riflessioni più sottili e limpide, e divertenti, su cosa significa fare un’inquadratura, sul rapporto tra immagini e vita), o La villa.
ERRATA CORRIGE CINEFORUM 506 Nella tabella riassuntiva delle votazioni dello “speciale Cannes” sono stati pubblicati per Emiliano Morreale gli stessi voti di Federico Gironi. In realtà Emiliano Morreale aveva dato i seguenti: Habemus Papam, 3,5 – Le Havre, 4 – Le gamin au vélo, 3,5 – Sleeping Beauty, 2 – The Tree of Life, 3,5 – Midnight in Paris, 3 – The Artist, 3,5 – Halt auf freier strecke, 3 – Skoonheid, 1 – Trabalhar cansa, 2 – 17 filles, 4 – Avè, 3,5 – Las acacias, 3,5 – Snowtown, 1 – Take Shelter, 4 – The Slut, 2 – My Little Princess, 2 – Corpo celeste, 5. Nella sezione delle schedine brevi del medesimo “Speciale”è stata inoltre attribuita a Pier Maria Bocchi quella di Busong, redatta invece da Massimo Causo. Ci scusiamo con i lettori e, naturalmente, con i collaboratori loro malgrado coinvolti.
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STUDENT SERVICES Emmanuelle Bercot
In vendita Roberto Chiesi
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La marginalità del cinema francese in Italia è ormai un antico dato di fatto: numerosi film significativi di autori di ogni generazione rimangono inediti, mentre a un numero crescente di altri viene riservata soltanto la diffusione in tv o sul satellite, oppure l’edizione in dvd senza passaggi nelle sale. Ecco perché è più unico che raro il caso di Student Services, ossia di un film prodotto dalla televisione francese (Canal+) e mai uscito nelle sale d’Oltralpe, che viene distribuito nei nostri circuiti. Il motivo non risiede certo in un cambio di tendenza, ma nelle potenzialità pruriginose del soggetto – la prostituzione di una studentessa che ha problemi economici – debitamente sottolineate dal solito, assurdo titolo inglese, ritenuto più allettante di quello originale, Mes chères études. Quali che siano le ragioni, se non altro hanno consentito la prima distribuzione nei cinema italiani di un film di un’autrice finora pressoché sconosciuta da noi, Emmanuelle Bercot (1). Classe 1967, dopo i trascorsi nella danza con Serge Alzetta, sul palcoscenico con Robert Hossein e Jean-Luc Tardieu, entrò alla Femis dove si mise subito in luce, come regista, con un documentario, True Romanès (1996) e soprattutto con due mediometraggi girati in 16mm, Les Vacances (1997), sulla tormentata relazione fra una madre e una figlia, che
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Titolo originale: Mes chères études. Regia e sceneggiatura: Emmanuelle Bercot. Soggetto: dal libro Pagami – Studentessa 19 anni prostituta part-time di Laura D. Fotografia: Christophe Offenstein. Montaggio: Julien Leloup. Musica: Frédéric Pardon. Scenografia: Eric Barboza. Costumi: Marité Coutard. Interpreti: Déborah François (Laura), Alain Cauchi (Joe), Mathieu Demy (Benjamin), Benjamin Siksou (Manu), Joseph Braconnier (il cliente del parcheggio), Marc Chapiteau (il fotografo), Pascal Bongard (Gérard), Anna Sigalevitch (Fanny), Lou Bohringer (Lou), Marthe Caufman (Elsa), Édith Le Merdy (l’assistente sociale), Frédéric Épaud (l’agente immobiliare). Produzione: François Kraus, Denis PineauValencienne per Les Films du Kiosque/Canal+/A Plus Image. Distribuzione: Bolero. Durata: 103’. Origine: Francia, 2009. Trasferitasi a Besançon, la diciannovenne Laura frequenta il primo anno di lingue all’università ma, nonostante svolga un lavoro part-time di telemarketing, non riesce a mantenersi. La situazione è complicata dal fatto che non può chiedere soldi alla famiglia (di condizioni modeste) e il suo fidanzato Manu non l’aiuta, anzi le chiede metà dell’affitto. Una sera, consultando gli annunci di lavoro su Internet, Laura risponde alla richiesta di un incontro da parte di un uomo, Joe. È per lei l’inizio di una doppia vita: quando ha bisogno di soldi, si prostituisce con clienti occasionali, oppure posa per un equivoco fotografo, reprimendo il malessere e il disgusto causati da quella scelta. Decide di lasciare Manu e, qualche tempo dopo, incontra un trentenne sfaccendato, Benjamin, che accetta la relazione sentimentale anche quando scopre che la ragazza si prostituisce. Ma in seguito Benjamin si scopre geloso, litiga con Laura e la abbandona. Dopo avere subìto una terribile e degradante esperienza a causa di Joe, la ragazza decide di trasferirsi a Parigi e qui, dopo aver trovato lavoro in un ristorante, riuscirà a terminare i suoi studi.
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vinse il Premio della Giuria a Cannes, e La Puce (1999), che fu applaudito come un film maturo e non quel saggio di diploma che in effetti è (premiato anch’esso a Cannes e a Pantin). I «Cahiers du Cinéma» e «Positif», una volta tanto, furono unanimi nel segnalare il talento emergente e insolito di questa autrice che prediligeva storie di adolescenti e di rapporti ambigui e contraddittori fra generazioni diverse, inserendosi in quella linea del cinema francese – il cui maestro era Pialat – che privilegia la corporalità, le pulsioni e l’istintualità sulla psicologia e le scacchiere della dialettica. In La Puce colpisce la descrizione, cruda e delicata insieme, del gioco erotico fra una ragazza di quattordici anni e un uomo di trentacinque, dove la diversità del desiderio di una ragazzina acerba e di un uomo maturo si esprime attraverso le esitazioni e gli slanci della fisicità, mentre i ruoli di dominatore e sottomesso si alterna fra l’una e l’altro. In quel periodo la Bercot fu apprezzata anche come attrice in film di Richet, Deville, Miller, Tavernier e Lelouch, e scoprì il talento recitativo di Isild Le Besco, protagonista dei primi mediometraggi, poi diventata una delle più dotate attrici del cinema francese contemporaneo. Il primo lungometraggio della regista, Clément (2001), prodotto da Arte e girato in digitale, ritornava sulla sessualità fra adolescenti e adulti, ma stavolta era il maschio ad avere tredici anni, Clément appunto, e la donna (interpretata dalla stessa Bercot) se ne innamorava fino all’estremo, subendo lei un’iniziazione dolorosa, anziché il contrario. Il film fu accolto favorevolmente dalla critica ma ebbe una travagliata anticamera distributiva (uscì in Francia due anni dopo la presentazione a Cannes),
subì vari tagli (non dovuti a censura), e, quel che è peggio, cadde nell’assoluta indifferenza del pubblico. Una sfortuna analoga accolse il secondo lungometraggio della Bercot, Backstage (2005), dove un’adolescente (Le Besco) si misura con la promiscuità medusea di una grande star pop (Emmanuelle Seigner), da lei adorata come fan. Il risultato un po’ discontinuo di questo film, che ha passaggi interessanti e altri irrisolti, è stato sanzionato da un altro cocente insuccesso di pubblico che ha finito per pesare nella carriera della Bercot. Oltre a continuare l’attività di attrice (con Maïwenn e Assayas), ha accettato regie su commissione della tv, realizzando recentemente uno dei suoi film migliori Tirez sur le caviste (2008), da un romanzo di Chantal Pelletier, per la serie di Arte Suite noire. È ancora la storia di un confronto fra un uomo e una ragazza, un vecchio viticoltore e una giovane vagabonda, che assolda come sguattera e cuoca. In questa storia, raccontata da due angolazioni opposte, manca qualsiasi scintilla erotica fra i due protagonisti, ma domina un mélange di crudeltà, devozione e dipendenza che segue un inquietante crescendo fino a un violento e riuscito colpo di scena.
MANIPOLATORI E CONSUMATORI L’iniziazione alla vita, con i suoi traumi e squilibri, e la dialettica di manipolazione, plagio e seduzione reciproca che si instaura fra un individuo maturo e uno (1) In dvd sono stati editi i suoi mediometraggi La Puce e Les Vacances (E-mik) e il lungometraggio Backstage (BIM).
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acerbo, sono quindi temi ricorrenti nei film della Bercot, che ha dichiarato di avere trovato subito congeniale la narrazione delle esperienze autobiografiche del libro di Laura D., il cui adattamento le fu proposto da due produttori di Canal+ per una serie dedicata a problematiche politiche e sociali (ovviamente inimmaginabile dalla tv nostrana). Incastonato fra due false interviste televisive alla protagonista (il cui aspetto è dissimulato dalla parrucca e gli occhiali neri), anche Mes chères études ha il suo nucleo nel rapporto fra Laura e il suo primo cliente, il quasi sessantenne Joe, professore di educazione fisica e padre di famiglia, attratto dalle ragazzine e incline a mettere in scena le sue fantasie lubriche. Il primo approccio con l’uomo che la inizia alla prostituzione, avviene attraverso Internet, ossia con una semplice pressione sulla tastiera del computer, che sembra senza conseguenze e invece è una trappola. Infatti la prostituzione pattuita via Internet o sms, è vissuta da Laura come una parentesi occasionale, causata dalle sue difficoltà a pagarsi gli studi e a mantenersi. Ma questo finisce per diventare un alibi. Laura non è la Séverine di Belle de jour (che si prostituiva per piacere) e non è nemmeno la Nanà di Vivre sa vie (che vi indulgeva per passività): è una ragazza priva di qualsiasi anomalia, che si aliena e degrada inizialmente per fronteggiare le proprie drammatiche difficoltà economiche, poi per impadronirsi di quei beni di consumo che altrimenti non avrebbe mai potuto permettersi (borse, giacche, scarpe, eccetera). Da questa alienazione e degradazione deriva un malessere che, come mostra bene il film, avvelena l’esistenza di Laura non costantemente, ma soltanto a correnti alterne. La Bercot evita ogni vittimismo nel caratterizzare il suo personaggio e si astiene da ogni giudizio anche quando, nell’inquadratura finale, insiste su un primo piano in cui Laura guarda in macchina, ma dopo essersi tolta la mascherata che le è servita per confessarsi nell’intervista alla tv. Una contraddizione interessante nella figura della protagonista (interpretata da un’intensa, bravissima Deborah François) è l’assenza in lei di qualsiasi attitudine conturbante o provocante: non è una ragazza dotata di una particolare indole erotica, ma è il prodotto generazionale di un presente di mercificazione e alienazione. Infatti il film suggerisce che la ragazza abbia continuato a prostituirsi anche a Parigi, come se vendere il proprio corpo e garantirsi beni di consumo inaccessibili si fossero fusi in un’unica equazione, in un’irrinunciabile coazione a ripetere. Fra i tanti oggetti che costellano il film come merci di scambio della dignità e del corpo di Laura, il pc e i cellulari sono ossessivamente onnipresenti (si farà legare e imbavagliare da Joe appunto in cambio di un pc). Ma la Bercot non intende certo demonizzare pc o cellulari. Li mostra invece come strumenti di un filtro fra sé e il reale che in effetti non filtra nulla, anzi favorisce la deriva in un sottobosco concreto,
parallelo e pericoloso, dove agiscono individui frustrati e cinici (come il fotografo) o dalla fisionomia doppia, come Joe. Dotato di una bonomia che svela progressivamente la violenza di un voyeur mai sazio, Joe non perde la sua aria paterna e rassicurante nemmeno quando, dopo un primo incontro in cui si è limitato a guardarla nuda e ad accarezzarla, la lega e minaccia con un fallo finto. Neanche quando, nel corso del loro ultimo incontro, la inganna dandola in pasto a uomini ripugnanti in un club privato, per godersi lo spettacolo che giustamente l’autrice fa cadere in ellissi. Nell’incontro fra la ragazza e il quasi vecchio cliente, la Bercot confronta (ancora una volta, dopo La Puce, Clément, Backstage, Tirez sur le caviste) la diversa natura e storia di due corporalità, che emergono negli sguardi e gesti, in brevi piani fugaci. Come manipolatore (che segue una strategia per ottenere ciò che spesso non dice), Joe è ambiguo ma lo è anche Laura, di cui la Bercot sottolinea la voracità con cui si avventa sui soldi. Laura è ambigua anche nello strano attaccamento verso il suo primo cliente, una relazione dove si mescolano disgusto, disprezzo, sarcasmo (il sorriso di compatimento con cui esegue le recite che lui le chiede). Ma Joe è anche l’unico uomo al quale telefona per annunciare di aver passato gli esami, come se avesse finito per formare con lui un legame familiare in sostituzione di quello che dovrebbe avere col padre (2), legame che probabilmente si accentua quando non si incontrano più e svanisce fra loro il mercato di tempo e sesso non consumato. O forse è semplicemente un gesto dettato dal senso di colpa (per l’indifferenza che gli aveva riservato quando le aveva detto di essere malato incurabile). Contraltari di Joe dovrebbero essere gli uomini che Laura frequenta nella sua vita privata, ma sia il ventenne Manu che il trentenne Benjamin (nonostante qualche differenza, in particolare dal punto di vista sessuale) sono accomunati da un’immaturità, da un’irresponsabilità, che sembra anch’esso un connotato generazionale e che, nel caso di Benjamin, si accompagna anche all’ipocrisia (3). La loro mediocrità e viltà sono analoghe a quelli dei clienti e dei manipolatori di Laura, come a dire che non appartengono a mondi diversi e separati, ma a una stessa normalità. (2) Nel libro di Laura D., Mes chères études – Étudiante, 19 ans, job alimentaire: prostituée (tradotto in Italia presso Sonzogno con il titolo Pagami – Studentessa 19 anni prostituta part-time), viene dedicato un più ampio spazio alla descrizione della vita sociale e familiare della ragazza. La Bercot ha inserito solo una breve sequenza in famiglia, probabilmente per sottolineare l’esigenza di Laura di affrancarsi, a ogni costo, da quella dimensione. (3) A differenza di quanto hanno scritto alcuni critici nostrani, la regista non ha rappresentato i personaggi maschili in una luce esclusivamente negativa: si pensi al ristoratore che la impiega disinteressatamente nel proprio locale.
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TERRAFERMA Emanuele Crialese
Tra vecchio e Nuovomondo Lorenzo Leone Regia: Emanuele Crialese. Sceneggiatura: Emanuele Crialese, Vittorio Moroni. Fotografia: Fabio Cianchetti. Montaggio: Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Paolo Bonfini. Costumi: Eva Coen. Interpreti: Donatella Finocchiaro (Giulietta), Filippo Pucillo (Filippo), Beppe Fiorello (Nino), Mimmo Cuticchio (Ernesto), Martina Codecasa (Maura), Tiziana Lodato (Maria), Claudo Santamaria (il finanziere), Timnit T. (Sara), Filippo Scarafia (Marco), Pierpaolo Spollon (Stefano), Rubel Tsegay Abraha (Omar). Produzione: Riccardo Tozzi, Marco Chimenz, Giovanni Stabilini, Fabio Conversi per Cattleya/Babe Films/France 2 Cinéma. Distribuzione: 01. Durata: 88’. Origine: Italia/Francia, 2011. Due donne, un’isolana e una straniera: l’una sconvolge la vita dell’altra. Eppure hanno uno stesso sogno, un futuro diverso per i loro figli, la loro Terraferma. Terraferma è l’approdo a cui mira chi naviga, ma è anche un’isola saldamente ancorata a tradizioni ferme nel tempo. È con l’immobilità di questo tempo che la famiglia Pucillo deve confrontarsi. Ernesto ha settant’anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il suo peschereccio. Suo nipote Filippo ne ha venti, ha perso suo padre in mare ed è sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e il tempo di suo zio Nino, che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. Sua madre Giulietta, giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà mai esserci un futuro né per lei, né per suo figlio Filippo. Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare. Un giorno il mare sospinge nelle loro vite altri viaggiatori, tra cui Sara e suo figlio. Ernesto li accoglie: è l’antica legge del mare. Ma la nuova legge dell’uomo non lo permette e la vita della famiglia Pucillo è destinata ad essere sconvolta e a dover scegliere una nuova rotta.
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Prima di tutto e oltre tutto, Terraferma certifica l’avvenuto spostamento di senso all’interno del cinema di Emanuele Crialese. Prima dunque delle polemiche sulla premiazione veneziana (ricordiamolo, Leone Speciale della Giuria) e sulla vera natura del premio (c’è chi ci vede il cerchiobottismo della giuria, chi lo zampino di Müller per tenersi buona la pattuglia italiana in funzione di una riconferma, chi un mero premio politico contro le leggi anti-immigrazione firmate dal centrodestra), il quarto lungometraggio di Crialese certifica quello spostamento già messo in atto con Nuovomondo, pellicola di mezzo tra le tentazioni fantasiose o meglio ancora fantastiche di Respiro e quelle iper-narrative di Terraferma. Eccoci subito al dunque. Ciò che funziona nel nuovo film di Crialese è tutto quello che già funzionava in Respiro e in Nuovomondo, il suo cinema di libertà, di inquadrature visionarie, di immagini insomma che come tali diventano essenzialmente cinema. Ciò che non funziona, invece, e a ben vedere è la parte maggioritaria della
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pellicola, ruota intorno a quel relativamente nuovo di cui sopra, a quell’ansia drammaturgica con cui il cinema di Crialese si sta via via saturando.
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UN CINEMA POLITICO?
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Ancora un’altra introduzione. Sarebbe interessante sviluppare uno studio su quali interferenze/influenze abbiano avuto le film-commission sul cinema italiano. È innegabile infatti che alcune di esse, specie quelle più potenti e preparate, abbiano sviluppato una sorta di marchio di fabbrica, addirittura a volte è come se esprimessero il loro referente (la Regione, il più delle volte) attraverso alcune marche di enunciazione disseminate qua e là nei film da loro griffati (soprattutto tramite alcune vedute e paesaggi, ma anche introducendo un elemento narrativo che sia tipico, se non pittoresco, di quel luogo). Chiudendo subito quest’escursione semiotica, riapriamo il discorso principale con una considerazione: può stupire un poco eppure è proprio così, Terraferma è il primo film di Emanuele Crialese dai connotati squisitamente politici. Che ci sia lo zampino della film-commission di cui sopra (in questo caso quella siciliana) e di tutti i paratesti possibili e immaginabili – vale forse la pena ricordare che la Regione Sicilia, alle cui dipendenze sta ovviamente l’omonima film-commission, è guidata dall’ormai ex pidiellino Raffaele Lombardo, ora alla guida del Movimento per le Autonomie in netto contrasto con
l’operato del Governo Padano-Romano di Berlusconi, e certo chi immagina dietro a l’appoggio dato a Terraferma una sorta di vendetta trasversale è libero di farlo – oppure una sorta di conversione last-minute, ispirata dapprima da un senso di oggettiva ripugnanza all’apparire della famigerata “legge Maroni” (con l’introduzione del reato di immigrazione clandestina e la liberalizzazione della pratica dei respingimenti) e successivamente dalla “messa in forma” di quella legge, vista con i propri occhi dal regista durante un soggiorno a Lampedusa, a causa di uno sbarco clandestino finito in tragedia. Da quello spunto, politico o morale che sia, Crialese parte per raccontare l’aspetto umano della vicenda, dando dunque spazio alla storia vera di Timnit T. (unica donna a sopravvivere al naufragio), decidendo poi di trasporla sullo schermo facendola persino interpretare dalla stessa donna. Ora, delineato il fulcro drammaturgico sul quale verte l’opera di Crialese, vediamo come tutto ciò viene traslato su pellicola. La scelta, naturale per il regista di Respiro, è quella di ambientare la storia su un’isola siciliana, in una famiglia di pescatori. Ecco dunque emergere tutto il cinema precedente di Crialese: una famiglia di pescatori dicevamo, come quella di Respiro appunto, nel cui ventre possiamo ritrovare tre generazioni ognuna in rappresentanza di un certo modo di vedere la vita. Giulietta (non è un caso la scelta del nome felliniano) sogna la terraferma come la Golino di Respiro sognava di evadere dalla stretta realtà isolana; nonno
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Ernesto non vuole abdicare al suo passato di pescatore; il piccolo Filippo (personaggio-ponte di tutta la trilogia isolana, non a caso interpretato sempre dallo stesso non-attore, Filippo Pucillo) che rimane a metà, indeciso sul da farsi, anche se alla fine sarà l’unico a far qualcosa, attratto sì dalla terraferma anch’esso ma impossibilitato a recidere quel cordone ombelicale che lo lega alla sua terra. Far coesistere questi due mondi, quello socio-politico del nuovo Crialese e quello legato alla possibilità di evasione da un ristretto ambiente familiare/culturale, era la sfida di Terraferma. Sfida sostanzialmente persa. Perché i mondi, narrativi e generazionali, non riescono ad amalgamarsi sullo schermo, così come gli afflati veristi (la famiglia malavogliana) o il citazionismo neorealista (i pescatori sospesi tra Visconti e De Seta) rimangono solo sulla carta. Perché appaiono sinceramente esagerate certe insistenze con le quali il regista fa affiorare risvolti di sceneggiatura anche risibili (come la donna che viene soccorsa dalla famiglia di pescatori: non solo ha un figlio ma è anche incinta, per via di uno stupro nelle prigioni africane, e chissà se il marito che la aspetta a Torino capirà? E poi, appena nata la bambina, il fratello più grande che tenta subito di eliminarla per coprire l’onore della famiglia…). Perché ogni personaggio ha una sua precisa funzione (fra i tanti personaggi-funzione ci sono: i tre ragazzi-turisti, il finanziere cattivo in rappresentanza delle istituzioni nel film, riducendo dunque in maniera fin troppo macchiettistica l’equivalenza Stato = male, persino i migranti che nella notte “assaltano” la barca isolana e sui quali torneremo a breve) che ne determina meccanicamente ogni azione, ogni snodo narrativo, costringendo il film a una serie di automatismi che lo imbrigliano, impedendogli tra l’altro di esprimere con continuità ciò che di meglio il cinema di Crialese sa produrre. E quel meglio, come abbiamo visto poco sopra, è quella spontaneità di uno sguardo mai banale.
QUESTIONI DI STILE Val la pena ora soffermarsi un attimo su una scena, quella poc’anzi suggerita di un “attacco” notturno da parte di un gruppo di clandestini ai “danni” di Filippo e della turista nel pieno della loro fuitina. In quella scena, di grande violenza espressiva, Crialese sembra condensare tanti cliché stilistici di certo cinema tricolore. Utilizzare cioè un tema universale come quello dell’immigrazione per fare da grimaldello sul proprio io del protagonista, per far riemergere in lui pulsioni sepolte e inespresse. Ecco allora che quel gruppo di clandestini di colore non sono nient’altro che lo specchio oscuro, borghese direbbe qualcuno, nel quale psicanalizzare il giovane Filippo e con esso l’italiano medio al confronto con l’altro da sé. Sempre a proposito di stile è innegabile notare quanto poco stia ferma la macchina da presa di
Crialese. La sua regia sempre in movimento, nei momenti di maggior pathos come in quelli più rilassati, evidenzia soprattutto una cosa: che per primo lui non crede alle emozioni che stanno rappresentando i suoi attori, altrimenti non avrebbe necessità di esacerbarle così. Ma nel gioco degli alti e bassi di Terraferma c’è un “alto”col quale val la pena chiudere. Oltre ad aver aperto e chiuso il suo film con due scene visionarie e riuscitissime, Crialese si è concesso un paio di minuti di grande cinema mettendo in scena in pratica l’immaginario medio (= televisivo) italiano, con quella barca di cafoni che danzano sulla note di Maracaibo. Non a caso a menare le danze il regista chiama Giuseppe Fiorello, star televisiva prima che cinematografica, al quale regala un particolare ruolo da “scafista” che invita tutti a farsi il bagno. A fare da controcampo ironico, insomma, ai migranti che s’inzaccherano nel mare, Crialese contrappone una masnada di turisti che salutano e si agitano come per attirare l’attenzione. Che poi è davvero quello che propone quotidianamente la televisione sempre a caccia di sconosciuti da far emergere. Eccola allora la vera grande forza di certo cinema di Emanuele Crialese: la sua capacità di realizzare e proporre quasi subliminalmente immagini che suggeriscono altre immagini. Come nel finale, con la barca ripresa dall’alto che solcando le onde solleva due scie di spuma ai lati, quasi fossero due braccia (o ali) che spingono la nave verso quella tanto agognata terraferma.
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HANNA Joe Wright
La ragazza che cadde sulla Terra
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Federico Pedroni
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Una distesa bianca di neve, puntellata da giganteschi alberi verdi. Un movimento umano in una natura deserta. Un cacciatore punta un cervo. Lo segue. Lo scruta. Lo studia. Il predatore si muove veloce, armato di arco e frecce. La preda conduce la sua vita naturale, ignara del pericolo. Di colpo l’azione: una freccia scoccata, il cervo che crolla a terra, la cacciatrice (che è poco più di una bambina, per quanto sicura nei suoi movimenti) che valuta la sua azione e ne coglie l’imperfezione («Ti ho mancato il cuore», dice all’animale, ovvero: «Non ti ho privato di un dolore inutile»). Improvvisamente, mentre l’implacabile azione della giovane continua (uno scuoiamento sicuro, da professionista, mai sanguinolento, anzi responsabile e consapevole della crudeltà delle azioni quotidiane in un mondo selvaggio), un uomo appare e la attacca. Dopo una breve lotta – caratterizzata ancora una volta da gesti e colpi secchi, sicuri, precisi, automatici – scopriamo che l’uomo è il padre della giovane e che la ragazza stava affrontando una prova. Inizia così Hanna, opera quarta del regista inglese Joe Wright che, dopo un paio di alterni adattamenti letterari (Orgoglio e pregiudizio da Jane Austen ed Espiazione da Ian McEwan) e un pessimo melodramma sinfonico (Il solista), mette in scena sotto le fattezze di una spystory l’educazione alla vita di una giovane donna. Hanna (l’efebica, inquietante Saoirse Ronan) è cresciuta sola con il padre, addestrata alle arti marziali e all’uso delle armi, in una condizione di totale estraneità con il mondo che la circonda e di cui nulla conosce. In pericolo costante di vita, l’uomo ha scelto l’isolamento assoluto per proteggere la sua bambina fino a quando la giovane non decide di testa sua che è giunto il momento di riconsegnarsi alla vita, di provare l’esperienza filtrata fino ad allora dalle pagine di pochi libri. Sono proprio i due volumi che Hanna legge e rilegge le principali chiavi di lettura della storia: un’enciclopedia e un libro di fiabe dei fratelli Grimm. A differenza di molti altri film precedenti basati su un’educazione alla violenza, Hanna riempie la sua protagonista di valori simbolici altri. Non è Nikita, che
Titolo originale: id. Regia: Joe Wright. Soggetto: Seth Lochhead. Sceneggiatura: Seth Lochhead, David Farr. Fotografia: Alwin H. Kuchler. Montaggio: Paul Tothill. Musica: The Chemical Brothers. Scenografia: Sarah Greenwood. Costumi: Lucie Bates. Interpreti: Saoirse Ronan (Hanna Heller), Eric Bana (Erik Heller), Kate Blanchett (Marissa Wiegler), Jessica Barden (Sophie), Tom Hollander (Isaacs), Oliva Williams (Rachel), Jason Flemyng (Sebastian), Joel Basman (Razor), Michelle Dockery (la falsa Marissa), Martin Wuttke (Knepfler), Vicky Krieps (Johanna Zadek), Paris Arrowsnith (il tecnico della CIA). Produzione: Marty Adelstein, Leslie Holleran, Scott Nemes, Christoph Fisser, Charlie Woebcken per Holleran Company/Marty Adelstein Productions/Studio Babelsberg. Distribuzione: Sony. Durata: 111’. Origine: Gran Bretagna/USA/Germania, 2011. Cresciuta e addestrata in una località sperduta della Finlandia dal padre Erik, ex agente della CIA che ha fatto di lei un vero e proprio soldato, la giovanissima Hanna Heller ha un unico scopo: rintracciare e uccidere Marissa Wiegler, un agente segreto privo di scrupoli responsabile della morte di sua madre. Hanna si mette di buon piglio nella sua “missione” e, pur braccata da altri agenti, porta avanti la sua ricerca. La conoscenza di una famigliola come tante, fatta durante il viaggio, le fa però intravedere la possibilità di una vita normale…
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per cancellare il proprio passato viene trasformata in una macchina omicida che si vorrebbe senza emozioni. Non è la Mathilda di Léon, in cui l’addestramento è solo virtuale e sfuma in un melodramma ai confini dell’attrazione morbosa. Non è la giovane supereroina killer di Kick-ass, dove l’ironia iperrealista di derivazione fumettistica non concede spazio a letture esistenzialiste. E, per fortuna, non è neanche una delle ninfette combattenti del terribile Sucker Punch, dove si reagisce ai traumi dell’inconscio con una violenza macchiettistica non lontana dalla glacialità decerebrata di un brutto videogioco. Hanna è una giovane in costante pericolo che sceglie di vivere in fuga piuttosto che privarsi del dono dell’esperienza. Una principessa protetta dal padre che preferisce il rischio all’esilio, una morte possibile a una vita solo potenziale. Di lei sappiamo poco e questo favorisce lo svolgersi della trama, volutamente ellittica, che si concentra su singoli episodi della nuova vita della ragazza piuttosto che perdersi in improbabili spiegazioni sulle motivazioni del suo isolamento. Anzi, quando si concentra sulle necessità di pura sceneggiatura, il film sembra imballarsi, perdere la forza liberatrice di un coming of age ritmato più dallo stupore languido (e dalla fredda determinazione) della giovane protagonista che dalle semplici e spesso trascurabili trovate di scrittura. Ci sembra infatti più interessante immaginare che Hanna sia tenuta in quarantena da un padre paranoico che la ama e la protegge troppo piuttosto che seguire le ragioni narrative fondate su soliti cliché (le schegge impazzite dei servizi segreti, gli esperimenti socio-scientifici e tutto l’altro armamentario tipico del genere). In fondo, anche la nemesi della ragazza, una luciferina Cate Blanchett agente perversa della CIA, rappresenta al meglio l’archetipo favolistico della matrigna (o del lupo cattivo), legata morbosamente alla sua vittima, quasi obnubilata dalla necessità di sopprimerla. È proprio nella struttura favolistica che Hanna funziona al meglio: la parabola della protagonista è un viatico alla crescita costruita ed eventualmente raggiunta, attraverso il distacco dal padre possessivo e lo scontro catartico con la strega. Il libro dei Grimm con cui Hanna cresce sottolinea – con qualche eccesso di didascalismo – il percorso della ragazza e l’intera struttura del film rispecchia abbastanza fedelmente quella fiabesca canonizzata dalle teorie formaliste di Propp. Un’operazione non troppo dissimile da quella tentata da Steven Spielberg in uno dei suoi film più fascinosi e imperfetti, A.I., dove l’impostazione fantascientifica diventava un grimaldello per raccontare una versione gotica e cupissima di Pinocchio, un burattino di metallo e microchip stravolto dalla sua capacità imprevista di provare emozioni. La chiave intima di Hanna è proprio nella descrizione di un rapporto vergine tra la protagonista e il mondo che la circonda: lei ha appreso dai libri tutto ciò che sa, con inestinguibile curiosità, ma non ha nes-
suna esperienza del mondo. Sa tutto ma non conosce niente. Parla fluentemente varie lingue senza averle mai sperimentate nella realtà dei rapporti umani. Diventa così centrale nella storia più l’incontro occasionale con una famiglia inglese in vacanza (la prima amicizia, il primo sentore dell’idea di famiglia e comunità, i primi timidi turbamenti amorosi) che la motivazione reale del suo perenne fuggire. L’affermazione di sé si realizza più attraverso l’incontro/scontro con il reale che nel meccanico sfruttamento delle nozioni da piccola guerriera ninja. E quel corpo a corpo con una realtà tangibile sembra anche fornire alla ragazza dei nuovi mezzi interpretativi sulla violenza con la quale era stata cresciuta. Hanna – e il suo viatico alla conoscenza che ha persino qualche reminiscenza platonica – sembra il perfetto contraltare della Mattie Ross del True Grit dei Coen. Mentre Mattie è un’adolescente costretta a crescere troppo in fretta che dimostra, nonostante la condizione di inferiorità (è donna, giovane, orfana), una precisa conoscenza del mondo e un’implacabile capacità di adattamento, Hanna di quel mondo non sa niente, ma è costretta ad affrontarlo con le armi non convenzionali che ha a disposizione. Sole entrambe ed entrambe forzate a entrare in un meccanismo più grande di loro. Tra tutti i misteri che il mondo le spalanca e le svela, quello che sembra attirare maggiormente Hanna è la musica, la forma d’arte più immune da una possibile definizione teorica. La ragazza sa cosa è la musica ma non l’ha mai sentita. Lo iato incolma-
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bile tra conoscenza ed esperienza raggiunge qui il suo apice e in questo un ruolo centrale nel film lo assume la colonna sonora. Quella diegetica (tra Kooks di David Bowie e un folcloristico flamenco) raccoglie lo sbigottimento emotivo di fronte a qualcosa che non si riesce a spiegare, quella extradiegetica – magnifica, dei Chemical Brothers – segue la narrazione con un rincorrersi animalesco di disarmonie, esplosioni di suono, rumori post-industriali: accompagnamento perfetto a una storia saltellante, bipolare, fatta di momenti di stasi e di infuocati inseguimenti, di contemplazione e azione che si accavallano vorticosamente. Hanna è una sorta di nuova Alice in un paese delle (non) meraviglie, obbligata a interrompere il suo sguardo estatico sul mondo (spesso sottolineato attraverso l’uso costante di carrelli all’indietro, quasi a svelare progressivamente quello che la ragazza vede e apprende) a causa dei pericoli che la minacciano. Questo continuo doppio binario è forse la caratteristica principale e più interessante del film di Wright. L’ambivalenza narrativa è funzionale e la tensione emotiva si regge proprio su questa insistita doppiezza, su un montaggio sincopato, sulle ellissi utilizzate come ipotesi interpretative. I problemi nascono proprio quando le necessità di sceneggiatura cercano di compattare i due livelli in maniera forzata, sfumando quello sfrangiamento nel quale si nasconde il cuore pul-
sante del film. Quando i due mondi di Hanna si avvicinano fino a scontrarsi (e il passato sconosciuto si impone per diventare presente), le scene più astratte – tra cui spicca un inseguimento tra i container quasi coreografato nella sua musicalità action come un vero e proprio balletto – vengono in parte depotenziate e sacrificate in nome di un’unità narrativa che mostra il lato debole del film, appesantito dalla ridondanza non necessaria di molti flashback. Anche la fotografia, che nella prima parte tende ad assecondare un’idea fiabesca dei contrasti (le sterminate pianure di neve e di deserto con al centro la sola protagonista), si uniforma a un più piano e pavido gusto mainstream. La regia di Wright, creativa estetizzante barocca, si piega nelle scene finali – tante, troppe – a un canonico nervosismo saltellante che toglie respiro al ritmo fin lì orgogliosamente e intelligentemente diseguale. E se nelle pieghe di questa favola dell’orrore appaiono come dei lampi citazioni filmiche disparate (da Ninotchka a James Bond al cattivo fischiettante sul modello di The Night of the Hunter) il centro del film sembra essere sempre il senso di vertigine di fronte alla scoperta, la via di fuga terribile e misteriosa verso cui si lancia il personaggio di Hanna. Un’eroina postmoderna con il problema senza tempo della maturità, della consapevolezza di sé, della dolorosa relazione con il contesto che la abbraccia e la circonda, la minaccia e la attira.
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Steven Soderbergh Titolo originale: id. Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Scott Z. Burns. Fotografia: Peter Andrews [Steven Soderbergh]. Montaggio: Stephen Mirrione. Musica: Cliff Martinez. Scenografia: Howard Cummings. Costumi: Louise Frogley. Interpreti: Matt Damon (Thomas Emhoff), Gwyneth Paltrow (Beth Emhoff), Marion Cotillard (la dottoressa Leonora Orantes), Kate Winslet (la dottoressa Erin Mears), Jude Law (Alan Krumwiede), Bryan Cranston (Lyle Haggerty), Laurence Fishburne (il dottor Ellis Cheever), John Hawkes (Roger), Jennifer Ehle (la dottoressa Ally Hextall), Sanaa Lathan (Aubrey Cheever), Elliott Gould (il dottor Ian Sussman). Produzione: Gregory Jacobs, Michael Shamberg, Stacey Sher, Steven Soderbergh per Double Feature Films/Imagenation Abu Dhabi FZ/Regency Enterprises. Distribuzione: Warner Bros. Durata: 105’. Origine: USA/Emirati Arabi Uniti, 2011. Inserendosi nel filone dei film “pandemici”, Soderbergh sceglie di tenere un basso profilo sul piano della drammatizzazione, esponen-
do in modo nudo e crudo dei fatti (il regista ha indicato in Tutti gli uomini del presidente, con la sua narrazione antiromanzesca, uno dei suoi modelli) e, pur richiamandosi al cinema catastrofico, ne ribalta alcuni canoni. Ricorre a un cast di all stars, com’è tipico dei disaster movies, ma si diverte a inferire sui corpi dei divi come se volesse programmaticamente negarne il fascino (o, al contrario, volesse ribadirlo nonostante gli abbrutimenti): il viso emaciato di Gwyneth Paltrow in apertura sembra una dichiarazione d’intenti. Anche Kate Winslet subirà le devastanti conseguenze della malattia e Jude Law è grottescamente imbruttito da una dentatura che pare quasi uscita da un travestimento di Jerry Lewis. Scardina poi la figura dell’eroe. Due personaggi, secondo i principi del cinema spettacolare, potrebbero prestarsi a rivestirne il ruolo: il blogger potrebbe diventare l’outsider capace di indicare soluzioni che altri respingono, mentre Matt Damon potrebbe essere l’uomo medio che trova in sé inaspettate capacità. Ma se il primo si rivela senza scrupoli, anzi maleficamente egoista, l’altro è sì personaggio positivo, ma non in modi tradizionalmente eroici. Il suo ruolo è sostanzialmente passivo. Si potrebbe dire che sia una figura
positiva perché si adegua diligentemente alle regole e alle richieste del Sistema. Sì, perché in Contagion il Sistema funziona. Se i rischi e le paure globali (come hanno argomentato Luhmann, Beck e altri sociologi) minacciano di far crollare la fiducia sistemica, il film di Soderbergh – paradossalmente – è da questo punto di vista rassicurante. Qui ci sono istituzioni affidabili, in grado di tenere sotto controllo un’umanità nella quale prevalgono pulsioni distruttive ed egoiste. La soluzione non è affidata all’iniziativa di un “eroe”, ma al procedere ordinato di istituzioni ben organizzate, formate da personale competente e, pur con momentanee titubanze, anche disposto al sacrificio. È curioso notare che nell’esporre questo punto di vista, Contagion assuma talvolta moduli retorici che sembrano presi dal cinema industriale, da quei filmati con cui grandi aziende e istituzioni preposte alla salute promuovono la loro attività (verso la fine, la sequenza di immagini che indicano come il virus sia sotto controllo, in particolare quelle dei ricercatori che osservano fieri i vaccini conservati in laboratorio, emblema dell’affidabilità del sistema, è in questo senso rappresentativa). È probabile che nello sviluppo del film si siano scontrate, finendo per sovrapporsi, due opposte “tesi”. La prima (quella, istituzionale e rassicurante, appena riassunta) si rivela nel fatto che gli interessi delle corporation farmaceutiche non vengono mai chiamati direttamente in causa (e, anzi, i punti di vista di chi li critica vengono totalmente squalificati). La seconda (accusatoria rispetto al carattere predatorio del capitalismo globale) è esplicitata nel finale, quando l’origine della catena causale viene ricondotta a un’azione della multinazionale per cui lavorava la Paltrow, così da attribuire a questo spirito predatorio gli egoismi che avevano punteggiato la vicenda e che – più del virus – avevano rappresentato il male da combattere.
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Se c’è un punto su cui il Sistema rivela le sue falle, è nell’approfondirsi delle differenze economiche, tra Primo e Terzo mondo, e tra gruppi sociali all’interno del primo (motivo ricorrente nei film catastrofici: in 2012 le fratture del terreno richiamavano metaforicamente le fratture sociali). Anche qui si direbbe che il film, nel chiamare in causa lo spettatore, adotti modi espressivi in un certo senso debitori della comunicazione pubblicitaria: lo sguardo in camera del bimbo cinese svolge la stessa funzione retorica di analoghi sguardi in camera dei bimbi africani negli spot che invitano a contribuire alla raccolta di fondi contro povertà e carestie. Contagion rimane in bilico tra gusto ludico (giocare con i generi e con il fascino dei divi) e pretese di serietà, tra volontà di tenere sotto controllo il romanzesco e zoppicanti spunti thriller (il rapimento di Marion Cotillard è un episodio debolissimo): un film scorrevole, diretto con qualche vezzo indie, ma mai incisivo o veramente appassionante.
Rinaldo Vignati
I PINGUINI DI MR. POPPER
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Mark Waters
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Titolo originale: Mr. Popper’s Penguins. Regia: Mark Waters. Soggetto: dal romanzo omonimo di Richard e Florence Atwater. Sceneggiatura: Sean Anders, John Morris, Jares Stern. Fotografia: Florian Ballhaus. Montaggio: Bruce Green. Musica: Rolfe Kent. Scenografia: Stuart Wurtzel. Costumi: Ann Roth. Interpreti: Jim Carrey (Tom Popper), Carla Gugino (Amanda), Angela Lansbury (la signora Van Gundy), Ophelia Lovibond (Pippi), Madeline Carroll (Janie Popper), James Tupper (Rick), Kelly Barrett (la
signora Popper), Dylan Clark Marshall (Tom Popper da bambino), Patrick O’Sullivan (Tom Popper sr.), Clark Gregg (Nat Jones), Jeffrey Tambor (il signor Gremmins), David Krumholtz (Kent), Philip Baker Hall (Franklin), Maxwell Perry Cotton (Billy). Produzione: John Davis per Davis Entertainment/20th Century Fox Film Corporation/Centro Digital Pictures Ltd.. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata: 94’. Origine: USA, 2011. Nasconde ancora insidie fantasy la commedia di Mark Waters. Anche con I pinguini di Mr. Popper si è di colpo proiettati in una realtà parallela, in cui la dimensione quotidiana s’incrocia con quella fantastica, dove i luoghi diventano degli spazi isolati, (s)perduti nel tempo, quasi proiezione di una memoria soggettiva. Solo a una lettura superficiale il film può apparire una commedia familiare. In realtà entrano in gioco successive mutazioni, già presenti nella filmografia del regista come lo scambio di identità tra madre e figlia (dove l’una entra nel corpo dell’altra) in Quel pazzo venerdì. Anche l’uomo d’affari del settore immobiliare Tom Popper cambia all’improvviso. Ciò non avviene solo perché ha ricevuto in eredità i pinguini dal padre, ma soprattutto
sembra mutare la sua immagine agli occhi degli altri, la sua fisionomia fisica, il modo in cui è percepito non soltanto da chi guarda fuori lo schermo ma anche dagli altri personaggi del film, soprattutto i due figli del protagonista. Certamente molto è dovuto alla prova di Jim Carrey, autentica figura elastica, capace di interagire e lasciarsi andare nel vuoto anche quando è da solo. In I pinguini di Mr. Popper, inoltre, ritrova quell’energia e quella scatenata mimica degli anni Novanta, tra Ace Ventura e soprattutto Bugiardo bugiardo. Il personaggio di I pinguini di Mr. Popper appare quasi come la reincarnazione di quello delle pellicole dirette da Tom Shadyac, con una gestualità quasi tipica delle gags del muto, in cui il suo corpo segue movimenti impazziti, sconnessi col cervello, quasi un cartoon con le sembianze umane. Per questo, a un certo punto, la sua figura perde fisicità e per più di un momento dà l’illusione di vedere qualcuno che in realtà non c’è, come se ci si trovasse in uno stato di ipnosi. Jim Carrey non è soltanto Tom Popper ma, forse per effetto ipnotico, sembra moltiplicarsi come in A Christmas Carol di Zemeckis, anche senza gli effetti della performance capture. Da Charles Dickens al romanzo di Richard e Florence Atwater, l’attore esce già
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fuori dalla pagina scritta, si libera e prende forma come una creatura magica e diabolica. Ma la sua figura “aliena” è anche in linea con il cinema di Waters. Ciò magari non è rintracciabile nei terreni più ovvi, cioè ricollegandolo all’avventura fantastica di Spiderwick. Le cronache, ma piuttosto si tratta ancora di un altro personaggio che si trova di colpo a contatto con il soprannaturale, come avveniva al fotografo Connor nel momento in cui gli comparivano davanti i fantasmi delle sue ragazze passate, presenti e future in La rivolta delle ex. In I pinguini di Mr. Popper, queste visioni sono prevalentemente più immaginate che realizzate. Ma il suo appartamento, che si trasforma in una specie di luogo a metà tra un igloo e un parco di divertimenti invernale, già anticipa il salto finale in Antartide. Inoltre, l’attraente parte iniziale, con i contatti via radio del protagonista ancora adolescente con il padre, con gli anni che intanto trascorrono, lasciano anche una vibrante ambiguità tra realtà e desiderio, che a tratti finiscono anche per sovrapporsi. Tom lo continua a vedere anche quando non c’è più, nel tavolino di un leggendario locale, il Tavern on the Green di Central Park gestito da Angela Lansbury. Lì potrebbe prendere forma uno squarcio di una sua memoria. O un sogno che nella sua vita magari non si è mai realizzato, ma che per un attimo diventa concreto proprio grazie al cinema. Oltre le sue ipnosi (come quelle sospese, quasi di momentaneo incanto chapliniano, davanti ai pinguini), I pinguini di Mr. Popper possiede anche continue traiettorie slapstick, con un trascinante ritmo forsennato (la parte al Guggenheim avrebbe funzionato benissimo anche se i dialoghi fossero stati del tutto assenti, mentre Carrey ha un affondo inarrestabile quando cerca di capire i complicati turbamenti sentimentali della figlia) che s’interrompe soltanto quando entrano in gioco le inevitabili trac-
ce della commedia familiare con derive sentimentali forse troppo disegnate. Ma Carrey e i pinguini li cavalcano, con un’interazione che sembra arrivare ancora dal cinema di Zemeckis, dove gli animali non perdono mai la loro naturalezza anche perché in parte sono ripresi dal vero e in parte generati dalla computer grafica. La loro è una danza continua, anche senza musica, dai risultati imprevedibili. Come se i pinguini di Madagascar incrociassero all’improvviso sulla loro strada l’Eddie Murphy di Una poltrona per due. Più folle del vero. Ma anche per questo più elettrizzante.
Simone Emiliani
IL MERCANTE DI STOFFE Antonio Baiocco
Regia: Antonio Baiocco. Sceneggiatura: Antonio Baiocco, Franco Cardi. Fotografia: Adolfo Bartoli, Maurizio Calvesi. Montaggio: Mirco Garrone. Musica: Tony Esposito, Sasà Flauto. Scenografia: Alfonso Rastelli. Costumi: Andretta Ferrero. Interpreti: Sebastiano Somma (Alessandro), Emanuela Garuccio (Najiba), Marta Bifano
(Silvia), Antonio Capobasso (Omar), Philippe Boà (Alì), Madia Kibout (Aisha), Patrizia Pezza (Luisa), Luca Capuano (Marco), Medi El Quazzan (Mohamed), Ionis Bascir (il commerciante), Amede Slam Bouhasni (il venditore). Produzione: Gino Usai per Kartisia/Poetiche Cinematografiche. Distribuzione: Digital Network Microcinema. Durata: 88’. Origine: Italia, 2011. Nonostante diverse peripezie, Il mercante di stoffe , diretto da Antonio Baiocco, è riuscito ad arrivare nelle sale italiane e questa è sempre una buona notizia. Motore di questa operazione è stato Sebastiano Somma, che è anche il protagonista di una storia sulla carta assai intrigante, che racconta il confronto tra due culture lontanissime e una storia d’amore intensa e contrastata. Anni Trenta: il mercante italiano Alessandro deve recarsi in Marocco per trovare un fornitore di stoffe di qualità per la sua attività. L’artigiano Omar fa al caso suo e Alessandro si ferma per lunghi mesi. Durante questo soggiorno egli resta affascinato dalla misteriosa Najiba, promessa sposa del figlio di Omar, una ragazza orfana che indossa un inseparabile medaglione, unico ricordo di suo padre. L’arrivo improvviso della moglie di Alessandro complica la situazione e l’uomo deve decidere se tornare o restare lì, scegliendo la seconda
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opzione. Durante una spaventosa tempesta di sabbia, Alessandro resta gravemente ferito e viene salvato da Najiba la quale, non vedendolo ritornare, si era messa con coraggio sulle sue tracce. Tra i due esplode una passione clandestina, ma la società in cui lei vive non è disposta a tollerare quel tradimento, che la donna pagherà con la vita. La storia è alternata in flashback con quella di Luisa, una giovane archeologa che è in Marocco con Marco, il nipote di Alessandro, per ritrovare quel medaglione, testimone di un grande amore, e per riconsegnarlo al legittimo proprietario… Ambientato tra l’Italia e il Marocco, tra il presente e gli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, Il mercante di stoffe aveva in sé la potenzialità di una storia dirompente sulla falsariga di Il tè nel deserto di bertolucciana memoria. Un viaggio profondamente affascinante attraverso le insondabili dinamiche della passione amorosa, il confronto con l’altro da sé e l’esplorazione dell’io, in cui gli elementi principali sono il mercante Alessandro, sua moglie Silvia e la giovane affascinante e misteriosa Najiba. Purtroppo nel dosaggio degli ingredienti, come succede anche in cucina, qualcosa è andato storto. Infatti, nel confronto fra i tre personaggi, la massiccia presenza di Somma ha messo in secondo piano quella del personaggio di sua moglie e, soprattutto, quello di Najiba, che nell’economia del film era in potenza il più ricco e intrigante. L’atout del film stava proprio nell’incontro di due personaggi che interpretano mondi lontani e che si studiano, si affrontano, imparano a conoscersi e poi ad amarsi. Purtroppo, il regista non ha avuto la lucidità di comprendere che Somma e il suo personaggio avrebbero dovuto fare un passo indietro per il bene del film. Il suo ruolo infatti è ridondante, sovraesposto, e purtroppo indebolisce ogni dialettica antropologica, culturale e
amorosa. Vi sono inoltre almeno due momenti in cui il suo personaggio offre il destro a incongruenze abbastanza ingenue e risibili, che rischiano di compromettere quanto di buono c’è nel film. Innanzi tutto, la non plausibilità di un personaggio che, quarantenne negli anni Trenta, nella storia ambientata al presente dovrebbe avere quasi centoventi anni… In secondo luogo, la scarsa documentazione storica nel farci vedere il suo girovagare nel deserto, nella parte in flashback, a bordo una jeep – prodotta soltanto a partire dal 1940! C’è comunque del buono nel film di Baiocco: parliamo, per esempio, della fotografia di Maurizio Calvesi e Adolfo Bartoli, che regala un incantevole ritratto del Marocco che non sfigura al cospetto di quello realizzato da Vittorio Storaro per Bertolucci. Ma soprattutto, nonostante il mancato approfondimento del rapporto tra Alessandro e Najiba rappresenti una felice opportunità dissipata, ciò che resta è una credibile storia d’amore, e questo per merito di Emanuela Garuccio, un’attrice di cui sentiremo sicuramente parlare nel prossimo futuro. Infatti, nel ruolo molto soffocato di Najiba, attraverso la sua recitazione e un fascino intrigante difficile da riscontrare nel panorama delle giovani attrici italiane, la Garuccio riesce a rappresentare in modo sorprendente l’enigma di questa ragazza fiera, misteriosa e innamorata.
Fabrizio Liberti
AT THE END OF THE DAY
UN GIORNO SENZA FINE Cosimo Alemà
Regia: Cosimo Alemà. Sceneggiatura: Cosimo Alemà, Romana
Meggiolaro, Daniele Persica. Fotografia: Marco Bassano. Montaggio: Alessio Borgonuovo. Musica: Soap and Skin, Women in the Woods, Hammock. Scenografia: Fabrizio D’Arpino Costumi: Emanuela Naccarati. Interpreti: Stephanie Chapman Baker (Lara), Michael Lutz (lo zio), Neil Linpow (Rika), Sam Cohan (Alex), Tom Stanley (Thomas), Monika Mirga (Diana), Andrew Mills (Chino), Daniel Vivian (Vinnie), Michael Schermi (Raw), Valene Kane (Monica). Produzione: Fulvio Compagnucci, Lorenzo Foschi, Davide Luchetti, Andrea Biscaro, Franco Gaudenzi per The Mob/Frame by Frame/The Coproducers/BMovie/Eurolab. Distribuzione: Bolero. Durata: 93’. Origine: Italia, 2011. È un film italiano, anche se della tradizione italiana non ha nulla. Meglio: è un film di un regista italiano che vive da tempo all’estero, che si è fatto un nome nell’ambito dei videoclip con i maggiori artisti del nostro paese (dai Subsonica a Renato Zero, ma l’elenco è lunghissimo), e che per il suo esordio nel lungometraggio ha deciso di realizzare una storia con attori sconosciuti al grande pubblico che recitano in inglese, a uso del mercato internazionale. Lo sguardo proposto da Cosimo Alemà, infatti, va ben al di là dei prodotti nostrani, visto che gli ascendenti di At the
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End of the Day si rivolgono tutti ai brividi provenienti da Oltreoceano, dal Boorman di Deliverance al Walter Hill di Southern Comfort, senza dimenticare le inflessioni alla Tobe Hooper, Wes Craven e, perché no?, alla Rob Zombie, per un vortice derivativo che non è semplice omaggio, ma autentica creazione dell’immaginario. Un gruppo di amici si ritrova in una campagna di un luogo imprecisato per una battuta di soft air, pratica con cui si simulano tattiche militari utilizzando armi ad aria compressa. Lo stesso luogo è frequentato da un terzetto di loschi figuri, appartenenti a una formazione paramilitare che fa base in una vecchia fortezza-prigione, chiusa ormai da tempo. Stanchi di uccidere soltanto cani sottratti ai legittimi padroni, i tre soldati coinvolgono il gruppo di amici in un’atroce caccia all’uomo la cui posta in gioco è la sopravvivenza. Ossia, come trasformare un’attività ludica in un’apocalisse per puro diletto. Apparentemente, potrebbe trattarsi di una riflessione sulla presenza del Male filtrata attraverso la logica di genere. Ma il discorso compiuto da Alemà si pone a fianco di questo aspetto, utilizzando l’insorgenza della crudeltà non nella sua immanenza, quanto nella contingenza del contatto con l’altro da sé, con l’estraneo. Il Male esiste da sempre, come realtà che trascende
luoghi ed epoche, e lo scopo del film non è quello di indagare sulla sua natura: esiste nelle fotografie di drappelli di soldati sorridenti affisse sulle pareti della fortezza, sulle immagini di corpi mutilati e senza vita che probabilmente quegli stessi soldati hanno straziato per poi farne fiero trofeo. Esiste nella stessa presenza della fortezza-prigione, indicativamente in disuso, come un fantasma inconscio pronto a materializzarsi all’interno di una cattiva coscienza collettiva. Il problema proposto riguarda invece la comparsa della violenza, improvvisa, inattesa, probabilmente sottovalutata, e la sua diffusione contagiosa, che il film organizza preliminarmente confrontando due situazioni formalmente antitetiche, nonostante la matrice bellica comune. Simulazione e realtà. Pronte tuttavia a fondere la loro differente natura in una sintesi estrema in grado di erodere certezze, valori e la sacralità stessa della vita. At the End of the Day mette in scena questa frantumazione di confini altrimenti definibili con certezza, portando alle estreme conseguenze la colpevole innocenza di un gioco che tradisce l’ambizione non confessata di voler essere ciò che non può essere, così come sottolinea la comparsa improvvisa della pistola vera all’interno del gruppo di amici. Senza altro motivo, se non per la superba attrazione che esercita.
Nessuno può conservare la sua purezza all’interno di un contesto marcescente, neanche chi, come il personaggio di Lara, somma su di sé (didascalicamente) una serie di caratteristiche tali da renderla estranea sia al gioco (è stata trascinata dalla sorella e dai suoi amici), sia, più in generale, alla cattiva coscienza del mondo (lavora in una Ong e considera la sua attività una missione). Alemà imposta un thriller disturbante modellando pazientemente i singoli personaggi e l’espressività dei loro volti, sui quali affiorano il terrore e la tensione anomala di una situazione da gestire estremizzando la propria natura. L’angoscia è tarata sul corpo dell’individuo, sull’arbitrio subìto e sulla sua violazione, mentre lo scenario, che nel dichiarato modello Boorman (anche il piano di un banjo inserito per evidenziare la filiazione diretta) era elemento significante, è utilizzato soltanto come semplice spazio d’ambientazione esemplare, come contenitore isolato di relazioni, scontri, fughe e inevitabili rese dei conti. Angoscia che si nutre in contrappunto di interessanti squarci lirici, quando all’ansia di un volto in attesa si sovrappone l’armonia di un commento sonoro di una soavità avulsa rispetto alle immagini. Pare un azzardo straniante, sicuramente dipende dal retaggio di Alemà come regista di videoclip, ma molto più probabilmente è l’ennesimo punto di contatto tra gli opposti, autentico presupposto espressivo e simbolico dell’intero film.
Giampiero Frasca
KUNG FU PANDA 2 Jennifer Yu
Titolo originale: id. Regia: Jennifer Yu. Sceneggiatura: Jonathan Aibel, Glenn Berger. Montaggio: Maryann Brandon, Claire De Chenu. Musica: John Powell, Hans
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Zimmer. Scenografia: Raymond Zibach. Voci: Jack Black/Fabio Volo (Po), Gary Oldman/Massimo Lodolo (Lord Shen), Dustin Hoffman/Eros Pagni (Shifu), Angelina Jolie/Francesca Fiorentini (Tigre), Jackie Chan/Angelo Moggi (Scimmia), Seth Rogen/Simone Mori (Mantide), Lucy Liu/Tiziana Avarista (Vipera), David Cross/Danilo De Girolami (Gru), James Hon/Francesco Vairano (il signor Ping), Michelle Yeoh/Roberta Greganti (la Divinatrice), Danny McBride/Stefano Mondini (Capo Lupo), Dennis Haysbert/Francesco Pannofino (Maestro Bue), Jean-Claude Van Damme/Franco Mannella (Maestro Croc), Victor Garber/Robert Draghetti (Maestro Rino), Fred Tatasciore/Alessandro Rossi (il padre biologico di Po), Carlo Cozzolino (un coniglietto). Produzione: Melissa Cobb per DreamWorks Animation. Distribuzione: Universal. Durata: 91’. Origine: USA, 2011.
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Parlando di Kung Fu Panda avevamo chiuso rivendicando un maggiore gusto per la sperimentazione, per la commistione di stili, il coraggio di andare oltre il rassicurante perfezionismo plastico offerto dal 3D. In quel primo capitolo, infatti, il tentativo era stato piuttosto timido, confinato al solo incipit (l’incubo del panda Po, messo in scena con un’intrigante e antirealistica animazione in 2D). In Kung Fu Panda 2 la DreamWorks dimostra invece di saper lavorare sugli stili, di non volersi accontentare del già noto, di saper sconfinare nella sperimentazione pura, qualità fino a ora, almeno per le produzioni mainstream , appannaggio della sola Pixar. La crudele vicenda del malvagio pavone Lord Shen è raccontata con un raffinato gioco di fragili silhouettes colorate, in un colto omaggio al teatro cinese e a Lotte Reininger (e al suo Le avventure del principe Ahmed). Così come per la rappresentazione del passato triste di Po ci si affida a un 2D disegnato con linee espressionisti-
che, colori deformanti, in un impasto di suggestioni grafiche antirealistiche assai lontane dalle nitide superfici 3D. Proprio questa commistione di tecniche, di immagini animate (purtroppo ormai) inconsuete rende l’ultima fatica DreamWorks diversa, a tratti lontana, dalla consuetudine mainstream, dal successone di box office fabbricato a tavolino, con un occhio più al merchandising che alle emozioni (come ci era parso, ad esempio, Madagascar 2). Altrettanto riuscita la rappresentazione dello strano mondo di in cui Po compie le sue gesta. Sorta di variopinto, strampalato, misterico mondo animale, tra suggestioni esopiane e rivisitazioni divertite dei bestiari medioevali. Il minaccioso Lord Shen è un pavone bianco e rosso dalle piume affilate come lame, i suoi sgherri sono gorilla immensi e lupi-iena, gli innocui abitanti dei villaggi conigli paffuti e antilopi timorose. La DreamWorks è ricorsa molto spesso agli animali per mettere in scena le sue parodistiche avventure (Madagascar, Z la formica, Giù per il tubo), affidando a queste simpatiche creature il compito di rappresentare le nevrosi della contemporaneità. Allo stesso modo i protagonisti sono sovente degli impacciati antieroi, deficitari nel fisico (troppo piccoli come il
pesciolino Oscar di Shark Tale, troppo pingui come Po, troppo brutti come Shrek) ma non nell’animo (spesso si tratta di personaggi generosi, a loro modo coraggiosi, disposti a morire pur di cambiare il corso del destino). Quella della DreamWorks pare una sorta di nuova e popolosa fattoria orwelliana, in cui l’uomo è assente o ai margini e gli animali si affannano nell’eterna lotta contro il male e la sopraffazione, trovando come nuove guide curiose creature fino ad allora dimenticate in disparte. Naturalmente il gioco DreamWorks viene messo in scena in controluce, in modo più divertito (e divertente) che sofisticato, ma nei casi migliori (Shrek e appunto questo Kung Fu Panda 2) il risultato è davvero apprezzabile. Perché si riesce ad andare oltre la gigioneria perfezionistica del 3D, oltre il vortice citazionista per cui tutto ha (già) un corrispettivo (cinematografico, letterario, televisivo). Anche se il gusto per il rimando regala, in questo secondo capitolo, gag a tratti irresistibili, come il momento in cui l’inseguimento tra gli sgherri di Lord Shen e i cinque compagni di Po si trasforma in una surreale partita a Pacman (il classicissimo videogioco anni Ottanta). Il concedersi alla citazione irriverente (meccanismo portato
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all’estremo per la prima volta con Shrek) è senza dubbio ormai un vero e proprio marchio di fabbrica per la DreamWorks, ed è in grado di aprirsi, almeno a tratti, a squarci inaspettati. Nella stessa trovata attorno cui ruota Kung Fu Panda 2 (la scoperta da parte di Lord Chen delle armi da fuoco) riecheggiano suggestioni miyazakiane con il suo La principessa Mononoke. Anche nel mondo di Po, infatti, il combattimento eroicamente corpo a corpo rischia di venire spazzato via dalle pallottole di metallo pesante, contro cui nulla può l’arte antica dei samurai o il kung fu. E tutto perché l’ingordigia di un pavone dai colori strambi ha deciso di costringere la polvere da sparo in un’arma, anziché lasciare che esploda in cielo in mille artifici di fuoco. Ma per fortuna non è il nostro mondo, ma solo quello bislaccamente romantico di un panda eroe, in cui la guerra può evaporare in una notte, in mille luci colorate appena sopra il mare.
Mattia Mariotti
QUESTA STORIA QUA Alessandro Paris Sibylle Righetti
Regia: Alessandro Paris, Sibilla Righetti. Fotografia: Valerio Azzali. Montaggio: Ilaria Fraioli. Musica: Vasco Rossi, Giovanni Paris. Con: Vasco Rossi, Novella Rossi, Ivana Lenzi, Marco Gherardi, Giulio Santagata, Marco Manzini, Lucio Serra, Manola Righetti, Maurizio Ferlito, Gaetano Curreri, Giuliano Riva, Angelo Righetti, Floriano Fini, Stef Burns. Produzione: Nicola Giuliani, Francesca Cima per Indigo Film. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 75’. Origine: Italia, 2011. Più che guardare Questa storia qua come un film su Vasco Rossi
buono per deliziare i fan e per irritare i detrattori, può essere interessante osservare la tecnica con la quale due registi molto giovani – Sibylle Righetti e Alessandro Paris hanno ventotto anni – manipolano il linguaggio del documentario musicale, tra canzoni, interviste e voci fuori campo. Proiettato in anteprima lo scorso 5 settembre fuori concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia in contemporanea con duecento cinema sparsi in tutta Italia, il film è prodotto dalla Indigo Film di Nicola Giuliano e Francesca Cima e distribuito in un più che discreto numero di copie dalla Lucky Red. Se un difetto si può imputare agli scorrevolissimi settantacinque minuti di Questa storia qua è l’assenza di un punto di vista più ampio e problematico e di una reale, consistente elaborazione dei contenuti: Paris e Righetti (lei è la figlia di Angelo, vecchio amico di Vasco Rossi) si mettono in ascolto con notevole gusto per il racconto, evitano le celebrazioni superficiali, ma si fermano al ritratto personale. Bravi e capaci quando si tratta di incastrare musica e immagini, abili col montaggio (curato da Ilaria Fraioli) e pieni di sensibilità per i volti delle persone e per la geografia dei luoghi, i due autori non riescono (o forse non vogliono) mettersi intellettualmente in gioco.
Il risultato è quindi un documentario confezionato con buona professionalità ma con scarso spessore sociale, storico e culturale, ed è un peccato, perché il materiale offriva ottimi spunti, a partire da quella distinzione (nel film la spiega Angelo Righetti) tra l’anticonformismo di chi vuole essere ribelle e il non-conformismo di chi non si schiera per restare libero e fuggire dalle etichette. Anche lo sguardo dei registi sull’ambiente provinciale di Zocca, il paese in provicia di Modena dove Vasco Rossi è nato e cresciuto, si limita a essere partecipe e affettuoso in modo illustrativo, e dell’Italia che intorno al cantautore – Rossi è sulla scena dagli anni Settanta – nel frattempo cresceva e assumeva nuove forme, si discute sempre troppo poco (tra le eccezioni, l’accenno alla lingua vuota delle pubblicità su cui Rossi ironizzava nel testo di Bollicine). Per contro, il lavoro di ricerca condotto da Paris e Righetti sulla storia del proprio protagonista è veramente accurato, tra frammenti video appartenenti a decenni diversi e distanti, filmini casalinghi, vecchie fotografie e interviste a familiari, amici e collaboratori. L’immagine di Vasco Rossi è affidata solo a questi materiali già esistenti e cuciti insieme per l’occasione, i due registi scelgono di
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stessa figura che Righetti e Paris vogliono grattar via per far venir fuori il viso di colui che, per loro, è per prima cosa un amico.
Valentina Alfonsi
CAPTAIN AMERICA
IL PRIMO VENDICATORE
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Joe Johnston
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usarne la voce fuori campo come contrappunto alla parte visiva ma rinunciano a inquadrarlo: di un cantante, del resto, conta la voce e quella di Vasco deve affascinare parecchio i giovani autori, che infatti inseriscono nel film le lodi rivolte da Gaetano Curreri – fondatore degli Stadio, musicista e arrangiatore per Rossi – a quell’ugola capace di nobilitare anche la lettura di un elenco del telefono. Abbondano ovviamente anche le canzoni in Questa storia qua, a volte presenti in stralci di concerti, più spesso come sottofondo in brevi sequenze che non sono videoclip, ma piuttosto piccoli viaggi cinemusicali nella memoria di un uomo e soprattutto in quella, multiforme e sfaccettata, di chi quelle canzoni le ha amate e le ha collocate in un punto importante della propria vita. Coi fan di Vasco i registi non parlano; vanno però a cercare, curiosi, i loro volti nella folla urlante che riempie gli stadi e le loro esperienze nelle scritte sui muri e sugli striscioni adoranti sventolati agli show dal vivo. In fondo, chi ha fornito la materia al centro di Questa storia qua sono proprio loro, gli innamorati di Vasco che ne hanno fatto ciò che è, che ne hanno costruito il successo e la figura fatta di fama. Quella
Titolo originale: Captain America: The First Avenger. Regia: Joe Johnston. Soggetto: dai personaggi Marvel creati da Joe Simon e Jack Kirby. Sceneggiatura: Christopher Markus, Stephen McFeely, Joss Whedon. Fotografia: Shelly Johnson. Montaggio: Robert Dalva, Jeffrey Ford. Musica: Alan Menken, Alan Silvestri. Scenografia: Rick Heinrichs. Costumi: Anna B. Sheppard. Interpreti: Chris Evans (Steve Rogers/Catain America), Hayley Atwell (Peggy Carter), Stanley Tucci (il dottor Abraham Erskine), Tommy Lee Jones (il colonnello Chester Phillips), Hugo Weaving (Johann Schmidt/Red Skull), Toby Jones (il dottor Arnim Zola), Dominic Cooper (Howard Stark), Sebastian Stan (James Buchanan “Bucky” Barnes), Richard Armitage (Heinz Kruger), Neal McDonough (Timothy “Dum Dum” Dugan), Derek Luke (Gabe Jones), Keneth Choi (Jim Morita), JJ Feild (James Montgomery Falsworth), Bruno Ricci (Jacques Dernier), Samuel L. Jackson (Nick Fury). Produzione: Kevin Feige, Amir Madani per Marvel Studios. Distribuzione: Universal. Durata: 124’. Origine: USA, 2011. Captain America, si potrebbe dire in una battuta, è un eponimo mancato. Perché Cap – forse anche più del Superman siegeliano – è l’eroe icona, il simbolo per eccellenza di quello che in gergo americanista si chiama “American Exceptionalism”. Il Super Soldato, uscito dalle chine di Simon e Kirby per com-
battere l’Asse, ha assunto negli anni connotazioni diverse e talvolta contrastanti. Da paladino dell’opposizione ai “rossi” a ribelle anti-governativo nell’orwelliano Civil War (testi di Mark Millar, matite di Steve McNiven, chine di Dexter Vinens, testate varie, Marvel Comics, 2006-2007), il personaggio ha dimostrato una vitalità simbolica capace di adattarsi alle più diverse stagioni politiche e storiche: come la retorica della “missione americana”, sempre uguale e sempre diversa. Basti pensare, per fare un esempio pescato dalla cronaca recentissima, alla foto che qualche settimana fa immortalava sui giornali di tutto il mondo un manifestante che protestava contro le misure fiscali di Obama in costume da Capitan America, a un raduno del Tea Party a Washington. The First Avenger arriva sugli schermi in un momento vivacissimo per il filone supereroico, con i Marvel Studios intenti a trasportare in sala larghi blocchi del proprio universo diegetico: un tentativo di continuity cinematografica che – sulla carta – potrebbe dare respiro alle stantie formule attuali, riassumibili nell’orribile trittico seriale sequel, prequel e reboot. Il film di Joe Johnston si configura invece secondo il modello canonico del “racconto delle origini”, concepito come parte integrante dell’ar-
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co narrativo in atto. Le vicende che portano la gracile recluta Steve Rogers a vestire i panni dell’ipertrofico Capitano vengono ripercorse piuttosto fedelmente, con una messa in forma che mescola tropi action a stilemi presi a prestito dal combat movie tradizionale. La continuità multinarrativa è garantita dalle brevi sequenze che fungono da prologo ed epilogo, in cui il personaggio di Chris Evans viene “reintrodotto” nella timeline dei titoli “paralleli” – Thor, il dittico di Iron Man – attraverso l’apparizione semi-messianica di Nick Fury. La confluenza di tutte le linee narrative è rimandata all’imminente The Avengers, affidato al nume tutelare di Joss Whedon, autore di culto a cavallo dei due universi: quello fumettistico (su tutti, Astonishing X-Men) e quello seriale (Buffy the Vampire Slayer, Angel, Dollhouse, Firefly). Serialità e continuity a parte, tuttavia, l’impressione è che il film di Johnston manchi gli obiettivi importanti su almeno due livelli. I portati generazionali del genere bellico e la carica iconica del personaggio, rievocata attraverso la sua iconografia quarantesca, sembrerebbero proiettare il film verso un possibile riposizionamento dell’intero sottogenere supereroico: un’operazione che va al di là della formula narrativa, la cui posta in gioco è piuttosto l’eredità – commerciale e carismatica – del grande blockbuster per famiglie. Un’eredità cruciale, attualmente contesa tra i kolossal dell’animazione d’intrattenimento e prodotti di segno incerto come Avatar. Johnston – che aveva lavorato come direttore artistico degli effetti visivi in I predatori dell’arca perduta – rivendica la traccia spielberghiana, e in effetti, nei suoi momenti migliori, il film raggiunge la levità ludica del modello. Ma la resa del personaggio non è mai all’altezza della sua mitologia: complice anche la prova fin troppo bimbesca di Chris Evans, invisibile – soprattuto nel secondo e terzo atto – dietro la sua mascella da male lead.
Le prestazioni attoriali, infine, penalizzano il film anche sul fronte “interno”, quello dove la partita – per capirci – si gioca con la storia culturale del fumetto, e quindi con Watchmen. Se il romanzo di Moore (e il fedelissimo adattamento di Snyder) avevano dettato le coordinate di una Golden Age corrotta in partenza dalle proprie pulsioni cripto-fasciste, l’immaginario “ingenuo” che la rievocazione quarantesca di questo Captain America si porta dietro potrebbe leggersi come un tentativo (maldestro ma comunque interessante) di revisionismo consolatorio. Un po’ come il recentissimo Super 8 di J.J. Abrams, che guarda, non a caso, alla stessa “eredità” di cui sopra. Come dire: la partita è aperta, sullo schermo e fuori.
Pasquale Cicchetti
RUGGINE
Daniele Gaglianone Regia: Daniele Gaglianone. Soggetto: dal romanzo omonimo di Stefano Massaron. Sceneggiatura: Daniele gaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa. Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Enrico Giovannone. Musica: Ecandro
Fornasier, Walter Magri, Massimo Miride. Scenografia: Marta Maffucci. Costumi: Lina Fucà, Francesca Tessari. Interpreti: Filippo Timi (il dottor Boldrini), Stefano Accorsi (Sandro da adulto), Valerio Mastandrea (Carmine da adulto), Valeria Solarino (Cinzia da Adulta), Giuseppe Furlò (Sandro bambino), Giulia Coccellato (Cinzia bambina), Giacomo Del Fiacco (Tonio), Leonardo Del Fiacco (Andrea), Annamaria Esposito (Betta), Alessia Di Domenica (Rosalia), Giulia Geraci (Margherita), Michele De Viriglio (il padre di Sandro), Anita Kravos (la madre di Sandro), Giuseppe Vitale (Cosimo), Cristina Mantis (la signora Mauriello). Produzione: Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto per Fandango/Zaroff Film/Rai Cinema. Distribuzione: Fandango. Durata: 109’. Origine: Italia, 2011. Come spesso accade nei film di Gaglianone, cineasta rigoroso ed esigente, che sceglie sempre temi difficili e modalità narrative non convenzionali, la scena chiave, il particolare emblematico, sta in un dettaglio, in un particolare apparentemente secondario. In Ruggine accade quando il piccolo Sandro rientra a casa dopo il solito pomeriggio trascorso con gli amici nel Castello, un enorme deposito di rot-
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tami arrugginiti e pericolanti in cui i bimbi del quartiere si ritrovano e combattono tra bande. Sandro deve farsi la doccia, subendo le rampogne paterne per lo stato in cui si ritrova, e lascia l’impronta della sua mano sporca di ruggine sulle piastrelle del bagno. È un’impronta resistente, che il padre cerca poi di pulire ma che non sembra andarsene. In questa scena, nella sua semplicità formale e nella sua accuratezza narrativa, nel gioco dei simboli e dei non detti, c’è tutto il film, che a ben vedere non è tanto sulla pedofilia in sé, quanto sulla permanenza e sulle conseguenze che i traumi subiti nell’infanzia, psicologici e fisici, comportano anche in età adulta. In modi differenti, i tre protagonisti sembrano condannati a convivere con la scena primaria della loro infanzia, ovvero le morti di piccoli amici prima e la scoperta successiva dell’orco, il dottor Boldrini, che minaccia di uccidere anche la piccola sorella di Carmine e che da questi è di fatto giustiziato. La comune problematicità è bene esplicata dall’ultima scena, che interrompe i titoli di coda e mostra per la prima e unica volata insieme Mastandrea, Accorsi e Solarino, atomi uniti e inconsapevoli sullo stesso vagone della metropolitana, ancora in viaggio dentro a un tunnel di cui non si vede l’uscita. Ruggine, in questo senso, è un film molto sincero, fedele alla poetica del suo autore, che in ogni suo film rac-
conta sempre la dialettica tra i traumi del passato e le difficoltà del presente, e che intreccia volentieri il suo punto di vista con quello delle vittime, dei dropout, degli sconfitti. Ma il film, nonostante le perplessità di alcuni, è coerente allo stile di Gaglianone anche nella sfaccettatura narrativa, negli andirivieni temporali e nella complessità dei rimandi, talvolta fugaci, talvolta ermetici. A maggior ragione di fronte a un tema delicato come quello della pedofilia, ad altissimo rischio di retorica da una parte e di banalizzazione dall’altro, l’autore torinese sceglie di giocare continuamente su due registri narrativi. Da un lato si attiva la stilizzazione enfatica, sia nelle scelte fotografiche che nella cura dei dettagli e nella caratterizzazione dei personaggi, in particolare il pedofilo Boldrini, reso da Timi come un personaggio da favola nera, sempre sopra le righe. D’altro canto lavora in sottrazione nelle scene del presente, sia visivamente che narrativamente, al punto da renderli quasi come monologhi teatrali, in cui l’inadeguatezza dei tre adulti prende pieghe sociali ed esistenziali al tempo stesso, con vette di grande inquietudine soprattutto nel caso di Accorsi, alle prese con il drago immaginario del figlio e con quello molto concreto della sua infanzia, in una continua dialettica di inquietudine e orrore che potrebbe nuovamente esplodere da un momento all’altro. Paradossalmente, al film nuoce la maggiore disponibilità produttiva, ovviamente rapportata ai comunque limitati budget che caratterizzano i film di Gaglianone, e talvolta un certo indugiare su aspetti visivi e narrativi che rischiano di appesantire un po’ la narrazione. Restano invece negli occhi le geometrie visive e i controcampi strazianti di un quartiere folle – che nella realtà non è Torino, ma il suburbio tarantino di Paolo VI, costruito nel nulla e tale rimasto – ma soprattutto una poetica autoriale che non si limita a raccontare, ma invita lo spettatore alla fatica della riconnessione dei pezzi, alla necessità di interrogarsi sui
nodi insoluti e, soprattutto, a dover guardare oltre ogni etichetta. In sintesi, se l’orco Boldrini è stato ucciso dal piccolo vendicatore Carmine sotto le lamiere, quanto sopraffazione, quanta violenza verso i più deboli e indifesi continua a scorrere sotto pelle, negli occhi e negli atteggiamenti di molti, apparentemente normali e integrati? Quanta ruggine lascia ancora il suo segno nelle tracce del quotidiano?
Michele Marangi
VANISHING ON 7TH STREET Brad Anderson
Titolo originale: id. Regia: Brad Anderson. Sceneggiatura: Anthony Jaswinski. Fotografia: Uta Briesewitz. Montaggio: Jeffrey Wolf. Musica: Lucas Vidal. Scenografia: Stephen Beatrice. Costumi: Danielle Hollowell. Interpreti: Hayden Christensen (Luke), Thandie Newton (Rosemary), John Leguizamo (Paul), Jacob Latimore (James), Taylor Groothuis (Briana), Jordan Trovillion (la ragazza della concessione), Arthur Cartwright (la guardia di sicurezza), Hugh Maguire (il paziente), Erin Nicole Brolley (Paige), Larry Fessenden (il ciclista), Neal Huff, Nick Yu (i reporter), Stephen William Clarke, Caroline Clifford-Taylor (i presentatori televisivi). Produzione: Tove Christensen, Norton Herrick, Peter Pastorelli, Celine Rattray per Herrick Entertainment/Mandalay Vision/ Forrest Park Pictures. Distribuzione: One Movie. Durata: 92’. Origine: USA, 2010. C’è stato un tempo in cui, anche in Italia, il nome di Brad Anderson veniva considerato tra quelli su cui scommettere per il futuro: l’ottimo Session 9 e il successivo, pretenzioso L’uomo senza sonno (prodotto dagli spagnoli della Filmax, che agli
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inizi degli anni Duemila si presentavano come l’unica speranza per il futuro dell’horror di qualità) sembravano il perfetto biglietto da visita per il giovane regista canadese. Oggi, nel 2011, le cose però sembrano già cambiate di molto. Se L’uomo senza sonno viene ormai ricordato più per il dimagrimento di Christian Bale che per gli effettivi meriti artistici della pellicola, le opere successive del regista spariscono nel limbo dei prodotti mai distribuiti (Transsiberian), oppure escono in piena estate in un pugno di copie, come questo Vanishing on 7th Street. Che sin dall’inizio manifesta una forte componente teorica che cercherà, con esiti altalenanti, di mantenere costante per tutta la durata: si comincia infatti in un cinema, con il fascio di luce del proiettore che squarcia il buio e accompagna i titoli di testa. L’oscurità, in Vanishing on 7th Street, è il nemico da combattere, l’orrore da evitare: se fossimo in uno slasher, il buio sarebbe il baubau, Freddy Krueger, oppure Michael Myers. Ancor più che in Darkness di Balaguerò, le ombre portano con sé molte domande ma nessuna risposta: va certamente dato atto ad Anderson un certo talento visivo nella loro visualizzazione, la quale, sebbene di grana grossa e fin troppo debitrice dell’immaginario orientale à la Ju-On – The Grudge, è di quelle efficaci a un
livello primario. Sarebbe a dire: riescono davvero a mettere paura. Senza sapere come, né perché, l’epidemia ha inizio nella penombra di un multisala, e ben presto si spande a macchia d’olio per tutta la città (e, plausibilmente, per tutto il globo). L’unico rimedio è la luce, altrimenti i corpi scompaiono nel nulla lasciando come traccia solamente un mucchio di abiti vuoti, esattamente come le vittime polverizzate dai tripodi di La guerra dei mondi di Spielberg. Dire che la metafora è chiara è dire poco: la luce, quindi lo sguardo (l’occhio), quindi il cinema, come prova di resistenza ultima in un mondo dove riuscire a vedere è l’unico modo per riuscire a capire, e sopravvivere. Anderson liquida velocemente la componente catastrofista da film di genere a pochi minuti dall’inizio, quando Hayden Christensen si risveglia in una metropoli svuotata e silenziosa: un aereo di linea precipita lontano (sindrome post-11 settembre, ancora?), in campo lungo e senza troppo clamore visivo. Da quel momento in poi diventa esplicita l’intenzione di dare al film un taglio intimista e privato, con pochi personaggi – due uomini, una donna, un bambino – e una pressoché totale unità di luogo. Prestando fede al proprio titolo, Vanishing on 7th Street si trasforma quindi in film d’assedio, scelta che in un primo momento disorienta lo spettatore il quale, date le premesse, forse cominciava ad alimentare ben altre aspettative; ma quello che a molti è sembrato un limite, è in realtà l’obiettivo dichiarato di Anderson: anziché accumulare, gioca di sottrazione per rinchiudere lo sguardo, per lavorare sugli spazi e utilizzare il buio come strumento dialettico. Il problema è che quasi mai riesce a infondere linfa vitale al genere: l’aspetto teorico che permea il suo film è fin troppo inflazionato per pretendere di poter dire qualcosa di davvero sconvolgente sull’argomento, e il più delle volte sfocia nella superficialità e nei luoghi comuni – a cominciare sicuramente dall’uti-
lizzo della sala come non-luogo metacinematografico per eccellenza, un puro pretesto narrativo (si veda anche il recente YellowBrickRoad) che oramai non sconvolge più nessuno. Vanishing on 7th Street rimane quindi un film di idee (alcune pure interessanti, indubbiamente) che muoiono sul nascere e si trasformano in esercizio di stile: un ibrido incerto tra la riflessione semiotica e l’horror tout court, nonchè la dimostrazione che quando la pretesa di voler dire troppo è talmente grande, spesso alla fine si riesce a dire ben poco.
Giacomo Calzoni
IN THE MARKET Lorenzo Lombardi
Regia: Lorenzo Lombardi. Sceneggiatura: Eleonora Stagi, Marco Martini, N. Santi Amantini, Lorenzo Lombardi. Fotografia: N. Santi Amantini. Montaggio: Daniele Bartoli. Musica: Emanuele Frusi, GTO. Scenografia: Eleonora Stagi. Costumi: Demón Hombard. Effetti speciali: Sergio Stivaletti. Interpreti: Ottaviano Blitch (Adam il macellaio), Marco Martini (David), Elisa sensi (Nicole), Rossella Caiani (Sarah), Eleonora Stagi (Monika), Massimiliano Vado (il rapinatore “Bush”), Claudio Bellanti (il rapinatore “Minnie”), Gloria Coco (la cartomante), Silvano Granci (il benzinaio), Alessandra Maravia (la donna delle pulizie). Produzione: Lorenzo Lombardi per Whiterose Picture/The Coproducers. Distribuzione: Whiterose. Durata: 88’. Origine: Italia, 2009. Probabilmente ci sono troppi horror dentro In the Market. Una conoscenza vastissima, certamente, quella del regista Lorenzo Lombardi che, anche a causa del budget ridottissimo, punta al respiro del Bmovie con le immagini in HD. Tre ragazzi, David, Nicole e Sarah, partono con la loro jeep per un viaggio
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senza meta nell’estate del 2005. Il loro unico scopo è il concerto dei GTO, la loro rock-band preferita (persistente colonna sonora nell’arco del film). Ma a un certo punto le cose prendono una brutta piega e, dopo essere stati rapinati a un distributore, arrivano a uno market dove decidono di nascondersi per nascondere la notte. Lì, però, non sanno quello che li attende. Uno dei rischi della citazione continua è quella di sfociare nella parodia o nell’autoreferenzialità. Quest’ultimo, infatti, sembra essere uno dei problemi più vistosi di In the Market, che ingloba horror diversi – da Hostel di Eli Roth a Saw, passando per Vacancy, The Descent e soprattutto Tarantino, con un frammento di Grindhouse. A prova di morte, visto alla tv del benzinaio, e un rifugio notturno sul modello di Dal tramonto all’alba – non solo per omaggiarli, ma quasi per esibire la propria preparazione sul cinema di genere e non solo. A che servirebbero, altrimenti, le inutili divagazioni iniziali dei tre protagonisti con frasi tipo «Non è un paese per vecchi», o dissertazioni su Salvate il soldato Ryan? Oltre a confusi frammenti di analogie narrative, non si rintraccia il collegamento tra gli echi dei continui horror e quello che accade sullo schermo. Certo, si può obiettare che anche in Tarantino ogni inquadratura sembra essere un omaggio a un film già visto. Ma il cinema di Lombardi, più che omaggiarlo, finisce
solo per cercare di riprodurlo. E a volte i tentativi di imitazione lasciano solo le macerie. Non è solo un problema di povertà di mezzi. Certo quelli hanno influito, come non si può negare al venticinquattrenne cineasta originario di Sansepolcro e al suo gruppo di lavoro della casa di produzione Whiterose Picture un indubbio entusiasmo e una grande passione per il cinema di genere. Sono però tante, troppe intuizioni che stanno dentro al film in modo caotico, con una prima parte road-movie piena di lungaggini, di dialoghi che potevano essere smussati o addirittura eliminati prima di arrivare al cuore della vicenda che si svolge nella camera delle torture del macellaio, con enorme ritardo, mettendo a questo punto in primo piano gli effetti speciali di Sergio Stivaletti e scene truculente e sadiche con schizzi di sangue, gambe sventrate, mani maciullate che però non producono la tensione sperata e, soprattutto, promessa. C’è sempre qualcosa che sta dietro lo sguardo di Lombardi. Un qualcosa di già visto, un istinto continuo a riprodurlo anche per pochi momenti. In questo caso, nell’horror spezzato in due entrano quasi in gioco le “ombre”di Shadow di Federico Zampaglione (con cui questo film condivide l’attore Ottaviano Blitch, qui nel ruolo del macellaio) senza però lasciar intravedere le profondità dell’incubo senza fine molto ben chiaro, invece, nella riuscita opera seconda
del leader dei Tiromancino per non parlare della rapina mascherata che sa tanto di Point Break. Quando In the Market non si perde nelle riflessioni esistenziali dei tre protagonisti, si sofferma in modo insistito sui dettagli (la carne, l’occhio della cartomante) disperdendo invece la funzione dell’ambiguità del paesaggio. La jeep ha la targa del Texas, la vicenda è girata invece tra la Toscana e l’Umbria. Questa eliminazione dell’identità dello spazio in cui ricreare un fatto di cronaca presente in un documento della polizia statunitense chiamato «Missing Person Report», ossia il rapporto di scomparsa di tre teenager partiti per un viaggio da cui non sono più ritornati, poteva essere funzionale proprio al contrasto tra il dato oggettivo (lo spunto di partenza) e lo sfondo creativo che ci viene costruito sopra. Ma anche in questo caso lo spazio è solo attraversato, se ne intravede lo sfondo, si annebbia dentro gli spostamenti della macchina. C’è solo un momento vero che prelude alla tragedia, con i ragazzi chiusi nel bagno mentre sta passando l’addetta alle pulizie in cui i rumori (segno riconoscibile dell’horror) fanno sentire la paura addosso. Sono però tracce troppo deboli, che si disperdono in un film che non punta mai all’essenzialità. Forse, per racchiudere questa vicenda (e quindi per renderla più asciutta), sarebbe bastato un cortometraggio.
Simone Emiliani
BALLKAN BAZAR Edmond Budina
Titolo originale: Ballkan Pazar. Regia e sceneggiatura: Edmond Budina. Fotografia: Daniele Baldacci. Montaggio: Marzia Mete. Musica: Admir Shkurtaj. Scenografia: Arian Risani. Costumi: Stela Laknori. Interpreti: Catherine Wilkening (Jolie), Veronica Gentili (Orsola), Visar Vishka (Genti), Erand Sojli (Miri), Edmond Budina (il prete),
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Luca Lionello (Marcello), Karafil Shena (Dionisos), Laertis Vasiliou (Ilia), Marko Bitraku (Nazif), Vasil Cuklla (Stavros), Artan Islami (Adi), Valetnina Xhezo (la moglie del prete), Hajrie Rondo (la madre di Adi), Nikolla Llambro (Qazim),Viktor Caro (l’uomo con i baffi), Liliana Ristani (la moglie di Dionisos). Produzione: Sabina Kodra per Erafilm/Mediaplex. Distribuzione: Mediaplex. Durata: 91’. Origine: Albania/Italia, 2010. Negli anni Settanta un italiano emigrato in Svizzera, Alvaro Bizzari, mentre lavorava come operaio realizzò, con mezzi molto poveri, alcuni film nei quali rappresentò, con qualche ingenuità ma anche con evidente sincerità, la difficile condizione degli stranieri in un Paese che ne sfruttava la forza lavoro mentre negava loro diritti elementari. Ora, alla insolita figura del migrante che alterna lavoro in fabbrica e dietro la macchina da presa possiamo aggiungere un altro nome, quello dell’albanese Edmond Budina, che assembla caldaie a Bassano del Grappa e che è riuscito già a realizzare due lungometraggi. Il primo, Lettere al vento (2003), storia di un emigrato in Italia e del padre rimasto in Albania, ottenne lusinghiere recensioni. Questo secondo lavoro, tematicamente e narrativamente più ambizioso, è girato in Albania e intende porsi (fin dal titolo, Ballkan, non Balkan, e dalla fanfara che accompagna le prime immagini) sulla scia delle storie balcaniche alla Kusturica, proponendosi di affrontare argomenti politicamente delicati (i non sempre facili rapporti con i vicini greci, il ruolo della religione, eccetera – le cronache riportano infatti notizie di proteste del clero ortodosso). La vicenda è quella di una donna francese che, assieme alla figlia, di nazionalità italiana, deve riportare in Patria le ossa del padre, morto dieci anni prima. Per un non meglio precisato disguido, la cassa con i resti, anziché arrivare in Francia, finisce in Albania, in uno sperduto villaggio vicino al confine greco. Qui
le due donne – aiutate da un giornalista locale – si trovano invischiate in una storia di trafugamenti di cadaveri che coinvolge un prete ortodosso e il rappresentante della popolazione di origine greca. Con tutta la simpatia che si può nutrire per una figura così singolare di regista, con tutta la comprensione che si può avere per le difficoltà pratiche che la realizzazione di quest’opera ha sicuramente dovuto affrontare, non si può fare a meno di notare che le alte ambizioni appaiono ben lungi dall’essere centrate. Il film appare anzi sgangherato e velleitario, infarcito di tentativi comici grossolani e con sviluppi narrativi confusi. I difetti ci pare nascano già in sceneggiatura: lo scarso approfondimento delle due donne, ad esempio, impedisce di creare empatia tra lo spettatore e i personaggi. Per questo non si è mai coinvolti nella vicenda, non si riesce a “solidarizzare” con la ricerca dei resti dell’antenato, e ad “appassionarsi” agli incidenti che la punteggiano. Diventa ben presto evidente che, nello sforzo di emulare il caotico e vitale accumulo che caratterizza le storie di altri autori balcanici, Budina mette troppa carne al fuoco, mescolando onirismo, magia, denuncia politica, farsa e romanticismo, senza però riuscire a tenere le fila di tutto questo materiale e finendo perciò per realizzare un film frammentario, dove i passaggi tra una sequenza e l’altra risultano spesso pasticciati. In linea di principio si può apprezzare la scelta di non fare di nessun personaggio una figura completamente positiva, caratterizzando ognuno di essi con qualche elemento negativo – l’opportunismo e l’ambizione (il giornalista), la codardia e la superstizione (il cameraman), la superficialità (le due donne) e così via. Ma questa scelta si traduce in esiti disordinati, che lasciano spesso l’impressione di un film che non sa dove andare a parare: i personaggi variano i loro atteggiamenti senza giustificazioni. A dispetto di questi tentennamenti, le intenzioni di Ballkan bazar
rimangono chiare: mettere in luce – con un misto di divertita partecipazione e di impaziente distacco – il perdurare di elementi magici e premoderni nella cultura albanese, imbastire un discorso sulla perdita dell’identità e del legame col proprio passato e condannare, in primo luogo, i nazionalismi che – con il loro culto di bandiere, confini e martiri – sono fonte di divisioni spesso tragiche e, secondariamente, il ruolo politico della religione (o del clero, pronto a mettersi al servizio di cause molto terrene), contrapponendo a questa condanna l’esaltazione della potenza dell’amore e dell’attrazione fisica (riassunta dalle immagini finali del giornalista e della ragazza che fanno l’amore sul retro del furgone). Anche i modelli cinematografici sono altrettanto chiari (evidente, infatti, il richiamo a Kusturica e a Fellini). Ma le intenzioni non riescono a tradursi in un discorso cinematografico credibile e i modelli non diventano mai, neanche lontanamente, stile, rimanendo a livello di scolastica imitazione. Un’ultima nota dolente: l’edizione italiana (con la donna francese doppiata da un’italiana che imita malamente l’accento d’Oltralpe – consuetudine purtroppo diffusa, ma assai discutibile – e con la drastica semplificazione dell’originario intreccio di lingue) è inascoltabile.
Rinaldo Vignati
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UNO SGUARDO MODERNO SUL MELODRAMMA Roberto Manassero
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PREMESSA
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Mildred Pierce, miniserie televisiva in cinque puntate prodotta dalla Hbo, ispirata all’omonimo romanzo di James M. Cain del 1941 (e non al film di Michael Curtiz del 1945, in Italia conosciuto come Il romanzo di Mildred), diretta da Todd Haynes e interpretata tra gli altri da Kate Winslet, Ewan Rachel Woods e Guy Pierce, è andata in onda sulla tv via cavo americana il 27 marzo scorso. Un prodotto di lusso a tutti gli effetti, una sorta di film-evento atteso e seguito dai media fin dalle riprese, impreziosito dalla presenza di abituali collaboratori dei progetti cinematografici di Haynes – il direttore della fotografia Ed Lachman e lo scenografo Mark Friedberg – anch’essi come il regista e gli interpreti principali alla prima esperienza in campo televisivo.
Qui in Italia, come ormai succede da anni, il battage è corso solamente su internet e gli spettatori interessati al film l’hanno visto scaricandolo illegalmente, per poi scriverne su forum e riviste on line e rendere di fatto superfluo, almeno per la critica, il passaggio festivaliero alla Mostra di Venezia e quello televisivo su Sky. Un caso esemplare, non l’unico ma semmai l’ennesimo, della diffusione sempre più ampia di una pratica di visione non consentita ma assurta a principale fonte di conoscenza delle produzioni d’oltreoceano. Una pratica a tutti gli effetti critica: appassionata, a suo modo militante, di certo alla portata di tutti, per quanto quasi sempre dimenticata, o mai trattata, dalla critica cartacea («Cineforum» compresa) (1). Scrivere di Mildred Pierce – ma potremmo fare altrettanto con una qualsiasi serie tv americana o con altri film-evento per nicchie di appassionati (ad esempio Kick-ass
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per i fan del fumetto) (2) – significa saltare a piè pari i tradizionali canali di diffusione culturale e di conseguenze rendere conto dell’importanza acquisita in quanto consumatori da spettatori fai-da-te competenti e liberi da condizionamenti pubblicitari. Che poi si tratti di gruppi esigui ed elitari, è un discorso che coinvolge la diffusione di internet nel nostro paese e che porta fuori tema: ma resta il fatto che nel momento in cui Mildred Pierce arriva in Italia, per una buona parte del pubblico interessato ci arriva da prodotto già consumato, come la replica di una prima visione, nel momento in cui la rete è occupata da altre operazioni simili e la cultura italiana non riesce a tenerle testa. Le ragioni che hanno portato Todd Haynes a girare una nuova versione di Mildred Pierce sono diverse, prima fra tutte, come ha dichiarato lo stesso regista (3), l’aver letto in anni recenti il romanzo di Cain ed essere stato colpito dalla diversità rispetto al film di Curtiz. C’entrano poi la scadenza dei diritti americani sul testo, l’opportunità colta dalla Hbo e il desiderio di regista, attori e membri della troupe di confrontarsi con il formato televisivo, con gli obblighi di una scrittura seriale e tempi di lavorazione più rapidi. Non va dimenticato, inoltre, che il realismo psicologico del libro di Cain, in contrasto con la trama noir della sua celebre versione hollywoodiana, si adatta perfettamente al cinema di Haynes: a quel lavoro, in particolare, di revisione del cinema classico cominciato stilisticamente con Lontano dal paradiso (Far from Heaven, 2002) e narrativamente fin dai tempi di Safe, con la lettura in chiave domestica e familiare della realtà e della storia americane. In questa occasione Haynes non si è adattato al modello di Il romanzo di Mildred, ma a qualcosa di successivo e più indefinito, all’operato, come ha dichiarato nella medesima intervista, di quei registi della New Hollywood che negli anni Settanta innovavano i generi dall’interno, mantenendo intatta la forma ma ravvivando dall’interno la sostanza, con una sensibilità moderna e una finezza psicologica che finivano per superare la stilizzazione del periodo classico, il continuo ricatto estetico di una forma impermeabile e definitiva. Lo scarto tra la nuova versione del romanzo di Cain e quella vecchia con Joan Crawford, entrambe inserite in un contesto produttivo rigido e predefinito, sta nella liberazione di una storia fino a
oggi conosciuta come trama hollywoodiana, con le forzature e le esigenze narrative che conosciamo (Cain, in particolare, non ne apprezzava la deriva noir). Una liberazione che avviene a livello di racconto, con il respiro dato ai personaggi, con l’indipendenza data all’azione e all’emozione, ma anche a livello formale, con il movimento all’interno dello spazio scenico aperto e alla luce del sole, secondo una revisione formale dei tipici procedimenti della lingua melodrammatica. L’operazione di Haynes rispetto a un romanzo realista e a un film degli anni Quaranta, meno visibile ma altrettanto consapevole di quella clamorosa sul cinema di Sirk, suona in fondo come un paradosso: laddove libera un racconto dal giogo del cinema classico, restituendogli profondità psicologica e realismo luminoso, finisce per rivedere i codici narrativi del formato televisivo, con i singoli episodi costretti sì a chiudere ogni volta il cerchio, o ad aprirlo per l’appuntamento successivo, ma in fondo lasciati in qualche modo alla deriva, senza un vero e proprio plot a sorreggere una storia priva di motivazioni (perché Mildred ama così tanto una figlia così ingrata? perché Monty accetta di sposarla, per poi rinfacciarle di mantenerlo?) e senza un vero centro emotivo. Il risultato è un effetto di straniamento diffuso come una malattia lungo l’intera miniserie, un senso
(1) A proposito del rapporto tra conoscenza del cinema e utilizzo di internet, purtroppo declinato in chiave negativa pensando all’impreparazione di molti studenti nel reperire i materiali in rete, si veda Luca Malavasi, Citizen Kane Incomplete, pubblicato sulla rivista on line «Filmidee» (http://www.filmidee.it/article/68/article.aspx). (2) Si veda al proposito la scheda del film scritta da Emilio Cozzi sul n. 503 della rivista («Cineforum» n. aprile 503, 2011, p. 54). (3) Christina Radish, Kate Winslet and Director Todd Haynes Interview (http://collider.com/kate-winslet-todd-haynes-interviewmildred-pierce/69347). 47
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di offuscamento che impedisce all’emozione di dispiegare le ali, che predilige il non-detto e la ritrosia allo scontro frontale con il dramma. Succede con la morte di Ray, la figlia minore di Mildred, un passaggio fondamentale nel film che viene invece sentito come un obbligo narrativo e quasi lasciato fuori campo, con la drammaticità dell’evento spostata nell’abbraccio di Mildred a una Vida ancora bambina, alla fine del secondo episodio. Succede, ancora, nel silenzio carico di lacrime e rimpianto che sancisce il divorzio fra Mildred e il marito Bert, saggio straordinario di recitazione “a levare” che a occhio disattende le regole di compressione narrativa di una serie tv, prediligendo l’attesa e la durata, e idealmente ricorda il magnifico dialogo tra Robert Redford e Barbra Streisand in chiusura di Come eravamo (The Way We Were, 1973) di Pollack, tutto giocato su sguardi, pensieri muti espressi dal volto dei due interpreti. Soprattutto, succede nel culmine drammatico della serie, nella scoperta da parte di Mildred della relazione fra Vida e il secondo marito Monty, choc narrativo che Haynes raffigura dal punto di vista della donna tradita, racchiudendo nella rigidità del movimento panoramico, nella lentezza dei movimenti, nell’inspiegabile arroganza di Ewan Rachel Wood, nella deriva quasi horror di una perversione ingiustificata, la sconfitta della volontà individuale contro l’inevitabilità del destino.
Memore dell’evoluzione del melodramma hollywoodiano tra la fine dello Studio System e i citati anni Settanta, Haynes prosegue sulla strada intrapresa con Lontano dal paradiso: una riflessione sulla condizione della donna nel Novecento, attraverso uno studio approfondito delle forme assunte dal cinema nei decenni della sua evoluzione. In Mildred Pierce non c’è più bisogno di un sovrapporsi della forma a uno stile riconosciuto e riconoscibile, filtrato da anni di cultura camp e di rivalutazioni critiche. La scelta non è rifare L’uomo che non c’era (The Man Who Wasn’t There, 2001) dei Coen, la scelta è rileggere il desiderio di emancipazione proprio della cultura americana grazie alla vicenda di una donna moderna, suo malgrado in anticipo sui tempi, e ai mutamenti subiti da Hollywood nell’era moderna. La mancanza di pathos della storia, la dispersione dei momenti ideali in una narrazione caratterizzata dalla medietà del passo, la chiusa in tono minore (con quel «To hell with her» sussurrato da Mildred e finalmente rivolto alla figlia lontano), sono per Haynes i segnali ancora attuabili, ancora efficaci, di quella dispersione del senso che segna il melodramma a partire dagli anni Sessanta, dopo la concentrazione e l’eccesso dei decenni precedenti. Perduta la consequenzialità narrativa tra le singole inquadrature, perduto un modello che puntava alla convergenza sulla scena degli elementi narrativi e sti-
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listici, quello che nella modernità resta al melodramma è una realtà disgregata ed episodica, la stessa in cui Haynes immerge i suoi personaggi, separati dalla scenografia e da uno spazio troppo ampio, laddove nei classicissimi anni Quaranta la scenografia imponente e le luci espressioniste ne restituivano l’ambiguità interiore, essendo ancora l’effetto di una centralità della dimensione individuale. È il senso di una lacerazione storica tra individuo e storia, quello che Mildred Pierce mette in scena con uno stile sommesso e lontano anni luce dall’artificiosità iperrealista di Lontano dal paradiso. Come ancora in Come eravamo, Haynes immerge i suoi personaggi in un preciso momento storico – la Depressione contro il dopoguerra e la Caccia alle streghe del film di Pollack – imponendo sui personaggi un ambiente coercitivo, il passo ineluttabile di una Storia indifferente che offusca ogni tragitto individuale, ogni parabola esistenziale, simbolica o morale. Quello di Mildred non è più un romanzo, ma il frammento di una storia americana come tante, dove la famiglia si spacca, dove una donna può intraprendere un cammino di emancipazione economica, sociale e sessuale, arrivare a realizzarlo, ma proprio per questo risultare sconfitta, abbandonando la condizione di innocenza che la cura del focolare domestico le avrebbe idealmente garantito. La parabola della donna moderna è così dispersa nel divenire storico, impotente di fronte all’inspiegabile e all’inspiegato, capace di reagire ai mutamenti del destino con l’inutile dispiego dei propri limiti. L’accusa che Vida rivolge continuamente alla madre, quella cioè di valutare i rapporti umani in termini monetari, per quanto assurda, perché rivolta dall’unica persona che Mildred ha amato, racchiude in realtà il paradosso su cui si regge l’intera operazione di Haynes. È la condanna di una donna che per essere una madre ideale e rispettabile, in grado cioè di badare alle figlie e garantire loro la sicurezza, sceglie di abbandonare un modello femminile arcaico e improduttivo (se vogliamo anti-americano) e per questo motivo viene punita. Reagendo alle parole della segretaria dell’ufficio di collocamento che la attacca in quanto donna della middle class («Lei ha la testa sulle spalle e un bel personale», le dice «Ma si è lasciata sfuggire metà della sua vita senza far altro che dormire, cucinare e preparare la tavola»), Mildred riscatta con un atto della volontà una condizione sociale umiliante: ma la realtà imperscrutabile trova altri modi per punirla. Lo scarto tra la dimensione ideale e quella reale è realizzato da Haynes in termini puramente stilistici, e in particolare in una scena del primo episodio in cui Mildred fugge dalla casa della ricca signora Forrester che la vorrebbe come cameriera a tempo pieno: in quel caso, con il passaggio dalla fissità del campo-controcampo alla mobilità nervosa della macchina a spalla, Haynes oppone cinema classico e cinema contempora-
neo, superamento in modo evidente, ma non del tutto risolto, il mimetismo di Lontano dal paradiso. Rispetto perciò al capolavoro del 2002, che viene alla memoria di fronte a un’operazione come Mildred Pierce, Haynes torna sì indietro di due decenni, ma spinge in avanti la sua definizione di un’anima nuova della donna all’interno del cinema americano. Mildred Pierce, il personaggio, esce sconfitta dalla battaglia contro il caos, ma non arresa: alla fine della serie il cerchio come sempre si chiude, ma resta in qualche modo sospeso, pronto ad aprirsi in un domani che da spettatori non vedremo e che per la donna e il nuovo-vecchio marito rappresenterà invece la vita vera. Senza Vida, senza Monty, senza modelli da interpretare o rinnegare, e con un mondo là fuori da riconquistare.
MILDRED PIERCE
Titolo originale: id. Regia: Todd Haynes. Soggetto: dal romanzo omonimo di James M. Cain. Sceneggiatura: Todd Haynes, Jon Raymond. Fotografia: Edward Lachman. Montaggio: Camilla Toniolo, Affonso Gonçalves. Musica: Carter Burwell. Scenografia: Mark Friedberg. Costumi: Ann Roth. Interpreti: Kate Winslet (Mildred Pierce), Guy Pearce (Monty Beragon), Evan Rachel Wood (Veda Pierce), Morgan Turner (Veda Pierce da piccola), James LeGros (Wally Burgan), Melissa Leo (Lucy Gessler), Brian F. O’Byrne (Bert Pierce), Mare Winningham (Ida Corwin), Hope Davis (la signora Forrester), Diane Kagan (la signora Pierce), Mark Margolis (il signor Chris), Scott Robertson (il signor Rand), Victor Slezak (il dottor Collins), Paul Pilcz (Tommy). Produzione: Harvey Waldman per Hbo/John Wells Productions/Killer Films/Metro-Gordwyn-Mayer. Durata: cinque episodi di 60’ ciascuno. Origine: USA, 2011.
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IL CAVALIERE CHE A SUO MODO FECE L’IMPRESA
SAGGI
Silvio Forever
NOTE SUL CINEMA ITALIANO DEL VENTENNIO BERLUSCONIANO
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Anton Giulio Mancino
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Se dovessimo occuparci del cinema italiano ai tempi di Berlusconi, come in un libro di storia per le scuole, di quelli su cui stentano gli studenti a concentrarsi, accettando sempre di imparare a malapena e controvoglia le poche pagine di un paragrafo o stralciando qua e là quelle di un intero capitolo, sorgerebbe un problema. Quello della periodizzazione semplice ed elementare. La prima cosa che lo studente svogliato, convinto di essere così già a metà dell’opera, memorizzerebbe per avere almeno un punto di riferimento. Ebbene, questo punto di riferimento temporale, nel caso specifico, risulta incompleto, se non del terminus a quo, il principio, comunque imprecisato, almeno del terminus ad quem, la fine, che infatti si
intravede da anni, ma mai si vede. Beninteso, si tratta di una constatazione estremamente ovvia, non tanto di un augurio, perché non ci sarebbe niente di più banale di un articolo antiberlusconiano, oltretutto di questi tempi, dove antiberlusconiani sembrano esserlo in molti, troppi, salvo poi seguire comportamenti, professare concezioni o esibire stili di vita conformi al paradigma berlusconiano di lunga durata. Su questo, non c’è che dire, Nanni Moretti aveva ragione affermando tra le righe di Il Caimano (2006), senza intermediari, in prima persona il concetto chiave: «Berlusconi ha già vinto». Concetto che viene poi sviluppato da Roberto Faenza in Silvio Forever (2011), film
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che, come abbiamo scritto, troverà forse negli anni a venire, anche dopo Berlusconi, quando forse ancora gli effetti del berlusconismo bipartisan continueranno a farsi sentire, l’attenzione che merita. Un’attenzione necessariamente distanziata, scevra dalla pericolosa convinzione di saper già tutto, di saperne persino più del film, di aver visto tutto, anche più di ciò che il film recupera attraverso un montaggio intelligente di immagini di repertorio che documentano. E non fanno però – come diceva Danilo Dolci – «il gioco di nessuno». Come ai tempi della rivoluzione, perennemente di là da venire, a tempo volutamente indeterminato, onde non turbare l’equilibrio geopolitico instaurato dalla guerra e vigilato nel dopoguerra su scala internazionale, anche l’età berlusconiana comporta un inizio, senza un’esatta collocazione cronologica, eppure certo, ma per ora non una fine, neanche sufficientemente certa: oggi, domani, dopodomani? Immediatamente dopo l’estate, in concomitanza con una manovra economica che non potrà che suonare impopolare? Nel 2013, a fine legislatura? Il cinema italiano, oltre che la televisione, che di questa età e non fase berlusconiana, è stata la maggiore interprete consenziente, come si è mosso, cosa ha saputo dire, come è cambiato o si è articolato? Cercheremo di rispondere di seguito a questa domanda, argomentando il più possibile quelle che restano impressioni, note sparse – si fa per dire – appena tassonomizzate. Inutile aspettare che i tempi siano più propizi e maturi per un più circostanziato bilancio, visto che nel frattempo, anche in quest’ultimo scorcio estivo, dell’egida berlusconiana che agisce ormai a livello antropologico, non si riesce a immaginare ragionevolmente e concretamente l’epilogo.
frasi in funzione delle estrapolazioni ad hoc per i flani pubblicitari dei giornali o delle fascette di dvd o blu ray. Solo che stavolta non siamo in presenza di un critico. Qualcuno avrà già indovinato. O si sarà ricordato. Tuttavia, procediamo con i suggerimenti. Il primo, testuale: «un coro in cui tutti gli italiani possono riconoscersi». A chi può venire o sarebbe potuto venire in mente, illo tempore, poiché parliamo oramai del passato, di questi tempi un rispecchiamento corale degli italiani, tutti? A chi può, in Italia, appartenere un sogno ecumenico, in grado non soltanto di abbracciare una totalità, e dunque non una maggioranza o una minoranza pur consistente, ma addirittura di raggiungere «gli spettatori che vivono dall’altra parte del mondo» e offrir-
Draquila
IL QUIZ Facciamo un gioco. Molto semplice, che può considerarsi uno dei tanti effetti collaterali di questa lunga durata del berlusconismo, giunto a un livello orwelliano di rimozione e riscrittura sistematica della memoria. Si tratta di indovinare chi ha scritto quanto segue: «Baarìa di Giuseppe Tornatore è un film magnifico, emozionante e profondo. È un omaggio alla sua città, ai personaggi reali e immaginari che ne popolano i racconti e i ricordi. Dosando la commozione e il sorriso, il regista descrive e inventa una storia, un mosaico, un coro in cui tutti gli italiani possono riconoscersi. È un film epico e privato, sincero e immaginario, ilare e malinconico, profondamente legato alle radici e capace di incuriosire gli spettatori che vivono dall’altra parte del mondo. Le immagini, i volti, le atmosfere di Baarìa sono un dono per la storia del cinema mondiale». Potrebbe trattarsi di un critico cinematografico, uno alle prime armi o uno più navigato che, come di consueto, non distingue una recensione da un encomio e – probabilmente – già organizza le parole e le
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La voce della Luna
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si come «dono per la storia del cinema mondiale»? Secondo l’autore del testo, che sottolinea la capacità del film di Tornatore di «incuriosire gli spettatori che vivono dall’altra parte del mondo», la “storia del cinema” beneficiaria di tale “dono” è effettivamente “mondiale” se per “mondo”si intende l’“altra parte del mondo”, e si presuppongono soggetti giudicanti collocati implicitamente nella posizione di “spettatori”. Dunque, una concezione del mondo su base spettatoriale e made in Usa, dal cui osservatorio privilegiato sarebbe possibile imparare a riconoscere l’Italia attraverso il cinema. Così come agli italiani sarebbe dato riconoscersi sempre attraverso la prospettiva cinematografica. Far conseguire un riconoscimento ufficiale a un film italiano di grosso impegno finanziario, ad esempio un Oscar per il miglior film straniero, susciterebbe in Italia, in tutti, nessuno escluso, un sentimento di grande riconoscenza. Torniamo a chiederci: a chi può appartenere una simile logica? Chi vede nel cinema oggi – con qualche decennio di ritardo rispetto agli anni Cinquanta, quando ancora una battaglia per il cinema, in un clima “surriscaldato” dalla Guerra fredda, era comprensibile quantunque non condivisibile – la grande cassa di risonanza per conoscere e conoscersi, essere riconosciuti ed essere perciò riconoscenti. Passiamo ora al suggerimento successivo, extratestuale: la data è il 2 settembre del 2009. Qui il gioco, fin trop-
po scoperto, finisce. Per chi non avesse ancora indovinato, sveliamo la soluzione. Si tratta, o meglio: si trattava, della “Dichiarazione dell’allora On. Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sen. Sandro Bondi sul film Baarìa”. Un documento storico, risalente al lontano 2 settembre 2009, nel quindicesimo anno dell’età berlusconiana (salvo incidenti di percorso: due governi di centrosinistra presieduti da Romano Prodi, che, mentre Berlusconi muoveva i suoi primi passi paleo-politici, si dilettava in sedute spiritiche che contenevano preziose indicazioni sulla prigione in cui Aldo Moro era detenuto: Gradoli…). All’epoca questa illustre dichiarazione venne inserita nelle caselle dei giornalisti accreditati alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia. Forse per suggerire argomenti utili alle corrispondenze festivaliere, alle valutazioni, alle interviste. O magari, così, tanto per far sapere cosa ne pensava il ministro “competente”, del film prodotto dalla Medusa dalla figlia Marina del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E regolarsi di conseguenza. Lo stesso ministro che l’8 maggio 2010 ha disertato il Festival di Cannes per incompatibilità verso il film in concorso di Sabina Guzzanti Draquila. Incompatibilità del ministro e per interposta persona del suo leader. Il che voleva dire (implicitamente?) dell’immagine all’estero dell’Italia, tutta. Un diniego nato dal «rincrescimento» e dallo «sconcerto» per «la partecipazione di un’opera di propaganda,
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Draquila, che offende la verità e l’intero popolo italiano». Strano paese l’Italia e strano destino, all’estero, perché a onor del vero è stato proprio Baarìa a scontare in fondo ingiustamente le parole del ministro. E Tornatore, come spesso gli è capitato in passato per ragioni differenti, con la sua inclinazione a concepire il cinema in termini di grandezza espressiva, coniugando Hollywood, Blasetti e Visconti, il suo bisogno di epicizzare la Sicilia, il suo universo immaginifico, il suo posto delle fragole in nome della «nostalgia di kolossal» – per usare una felice espressione bertolucciana dei tempi del pluripremiato L’ultimo imperatore (1987) – è stato l’unica vera vittima di queste intromissioni dall’alto. Il suo kolossal siciliano non è stato incluso tra i concorrenti all’ambito quanto imbarazzante Oscar riservato da Hollywood ad autori e film “extracomunitari”. Triste sorte per un film resosi con ogni probabilità, seppure involontariamente, antipatico agli occhi dei membri dell’Academy, che l’hanno respinto al mittente come un’imbarcazione indesiderata al di qua dell’Oceano, applicando paradossalmente al cinema italiano i principi progressivi delle più recenti leggi in materia di immigrazione, dalla Turco-Napolitano del 1998 alla Bossi-Fini del 2002 e alla Maroni del 2009. Mentre – nel pieno rispetto di una consuetudine nostrana –, a beneficiare del suo naturalmente essere contro-Berlusconi, è stato Draquila, invitato in concorso a Cannes non certo per ragioni di merito, a dispetto del suo essere un sottoprodotto sfacciatamente alla Michael Moore che in modo molto confuso dice anche cose estremamente interessanti, ma di sicuro non frutto delle riflessioni, delle inferenze economico-politiche e delle intuizioni dell’impacciata autrice, molto presenzialista, laddove sarebbe stato molto più opportuno farsi da parte, rinunciare ai suoi controcampi, e affidarsi a una voce narrante meno personalizzata e più orecchiabile. Se insomma, anziché ricalcare Fahrenheit 9/11 (id., 2004), avesse seguito un percorso originale o anche solo la strada più austera e fitta di The Corporation (id., 2003), l’impatto sarebbe stato diverso. Si sarebbe potuta riallacciare al discorso inaugurato dal benemerito Francesco Rosi quasi cinquant’anni fa con l’ancora insuperato Le mani sulla città (1963) in materia di speculazione edilizia capace di digerire o provocare persino i disastri umani oltre che paesaggistici. Ma così non è stato, poiché alla Guzzanti una metodologia diversa, meno sulla cresta dell’onda, riconoscibile urbi et orbi, all’americana, avrebbe compromesso il battibecco all’italiana, lo spazio performativo nei talk show, la provocazione pure e semplice (che è cosa alquanto innocua se paragonata alla satira consistente di Moore). Ma questa è un’altra storia. Certo è che è ancora una volta è questa idea di totalità, di investimento su modelli ecumenici, che torna a farsi sentire e a essere espressa. Un connotato che è lo specchio dei tempi e trascende le parti, appartenendo piuttosto al gioco delle parti. Il tratto distintivo di quello che
per comodità, con il senno di poi, resta di fatto l’ultimo ventennio del cinema, corrispondente al periodo quasi ininterrotto di governo berlusconiano. Complici un’idea di cultura, un’idea di spettacolo, un’antropologia e un modello di società che hanno inciso sui film prodotti in Italia che, con o senza la presenza del bersaglio polemico berlusconiano, hanno interagito con comportamenti collettivi e di vicende private e pubbliche narrate molto riferibili alla figura del leader, ai suoi paradigmi di gestione del potere o del “sistema” Paese, di aziendalizzazione della sfera pubblica ed erotizzazione di quella politica, incidendo sui rapporti interpersonali, la rappresentazione della società fino al fare-cinema. Un fenomeno che è assai vasto e complesso. Che impedisce di circoscrivere vent’anni di cinema italiano, o più correttamente trent’anni di cinema e televisione. Perché tale è l’intorno temporale in cui si comincia e si diffonde l’azione delle tv private e del cinema in Italia, in maniera coordinata, nonché della tv sul cinema a essa subordinato, va dalla fine degli anni Settanta ai giorni nostri. Per comprendere in tutti i suoi aspetti concomitanti il fenomeno occorrerebbe dunque occuparsi di provvedimenti legislativi, di meccanismi societari, di passaggi di consegne, di proprietà dei mezzi di comunicazione, di finanziamenti pubblici al settore cinematografico, di nomine negli enti pubblici a livello nazionale e regionale o nelle postazioni strategiche dell’assetto ministeriale. E così via. I film, in sé, non sono che la cartina di tornasole del quadro generale, l’effetto a valle di tutto ciò che è accaduto e accade a monte, dietro le quinte o alla luce del sole, senza grandi soluzioni di continuità. Eppure anche dai film, da una proposta di raggruppamento per aree di intervento o di gradimento popolare, in una fase in cui la fruizione e i supporti si sono molto diversificati, è possibile farsi un’idea di uno stato delle cose pluridecennale. Una proposta – lo si è detto – che solo esteriormente pretenderebbe di offrire una classificazione filmografica del periodo in questione sul versante cinematografico, quanto piuttosto una libera e volutamente non troppo organizzata indicazione di potenziali contenitori. Laddove possibile, eviteremo lunghi elenchi di titoli, in presenza cioè di tendenze stabili e durature e di opere in buona sostanza equivalenti e abbastanza note.
LA GRIGLIA Da dove cominciare? Da una constatazione abbastanza elementare. Che il binomio cinema-Berlusconi o il cinema dell’epoca berlusconiana che dir si voglia, in attesa di definizioni più pertinenti, ha prodotto un solo tipo di rapporto diretto e incontrovertibile. Quello, già accennato, di film e autori che, al di là di qualsiasi distinguo, hanno realizzato film-contro, film di denuncia, film anti-berlusconiani o – prendendo ad esempio
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Videocracy
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Silvio Forever – emblematici dell’Italia berlusconiana in cui si è creata una sorta di osmosi o di rincorsa mimetica tra il capo e la base, il super-premier e la cittadinanza di elettori attivi o, come nel caso dei fumatori, passivi. Sebbene non sia ampia questa prima rappresentanza, ci sembra sia la più rappresentativa. Una specie di capofila della sintomatologia, a partire dal già citato Caimano morettiano, grande campione d’incassi preelettorale dopo l’inevitabile passaggio da Cannes, è di sicuro il film più noto, seguito da Viva Zapatero! (2005) e Draquila di Sabina Guzzanti, le cui sorti nel medio periodo, con Le ragioni dell’aragosta (2007), hanno registrato una relativa battuta d’arresto. Si aggiungano chiaramente Qualunquemente (2011) di Antonio Albanese, tentativo maldestro di capitalizzare – forse in vista di un’imminente caduta del capo che puntualmente non si è verificata – gli sketch della trasmissione sempre più paternalistica e benpensante, condotta da Fabio Fazio; o Shooting Silvio (2006) di Berardo Carboni che ha provato, senza fortuna, a cavalcare l’onda anomala, e Videocracy (2009) dell’italiano sui generis Erik Gandini, che invece è riuscito a inquadrare il problema reale, con accenti da reportage e da film di fantascienza, anche stavolta, di matrice orwelliana: il berlusconismo che, come tale, trascende la figura-bersaglio del diretto interessato ed è molto trasversale, culturalmente,
socialmente, a livello partitico. Moretti l’aveva compreso, ma si era limitato a farlo dire a voce al suo personaggio, salvo ribadirlo nella sequenza finale, anticipatrice del clima teso, a due passi dal Palazzo di Giustizia, delle ultime elezioni amministrative di Milano, giocando invece nel complesso del suo meta-film sul registro privato (forse speculare del contesto, forse no); su sponde satiriche estemporanee (il cinema di genere a basso costo che c’entrava?); su interessanti accostamenti tra realtà a prefigurazioni dell’omonimo film da fare. A chiamare in causa Berlusconi sono stati anche In un altro paese (2005) di Marco Turco e Il Divo (2008) di Paolo Sorrentino. Il primo sostenendo, anch’esso con finalità pre-elettorali, comunque ante litteram sullo schermo la consequenzialità tra le stragi palermitane del 1992 considerate allora esclusivamente “di mafia” e la discesa in campo del sempre attuale premier. Il secondo nel glossario introduttivo sottolineando la presenza/persistenza di Berlusconi negli elenchi, parziali, della P2 scoperti e sequestrati nel (lontano?) 1981 a Castiglion Fibocchi. Ma l’immagine dipinta di Berlusconi, al fianco del suo Milan rampante, faceva capolino anche in quell’italico ritratto dove furoreggiava la volgarissima Sagra dello Gnocco di felliniana memoria. In La voce della luna (1990) un’epoca si era già prefigurata, con una sola variazione fonetica: dallo “gnocco”, senza soluzioni di continuità, si è passati alla “gnocca”. Su questo Fellini e Videocracy insegnano meglio dello stillicidio mediatico che serve soprattutto ad assuefarsi. A tutto. Per restare in tema, più che per par condicio, possiamo sicuramente considerare altrettanto significativo un altro filone, assai più pertinente del primo se si guarda ai riscontri commerciali e all’effetto di lunga durata sull’immaginario popolare: i film-panettone che coprono ininterrottamente l’intero trentennio e continuano a essere i maggiori campioni d’incasso nazionali. Spesso alludono a Berlusconi, ma soprattutto – con o senza riferimenti diretti – si rispecchiano in un’Italia berlusconiana. Grazie ai vari fratelli Vanzina, Neri Parenti ed Enrico Oldoini (ma possiamo aggiungervi anche il filone prenatalizio che ultimamente ha portato Ezio Graggio con Box Office 3D a pre-inaugurare l’88ª Mostra veneziana). Nonché tutto il filone cabarettistico televisivo trasferitosi di peso sul grande schermo, dove i comici spesso fanno anche i registi, ma con molta meno convinzione dei predecessori Troisi, Verdone, Nuti e Benigni, essi realizzano una perfetta e reciproca osmosi tra il modello culturale promosso dal premier o al suo mondo riconducibile e la cultura di massa “bassa”. Che poi in realtà è molto più “media” di quanto non si faccia finta di credere. Senza dimenticare una branca più recente dei film-panettone, costituita dai remake mimetizzati da sequel fuori tempo massimo. Sequel non di classici del cinema italiano, ma di film grande successo popolare degli anni Settanta e Ottanta, che suggeriscono un effetto-vintage suppergiù
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dell’epoca in cui l’universo Reteitalia-Mediaset comincia a delinearsi: in questo novero rientrano a pieno diritto Febbre ai cavallo – La Mandrakata (2002), Il ritorno del Monnezza (2005), Eccezzziunale… veramente: capitolo secondo… me (2006) di Carlo Vanzina, Torno a vivere da solo (2008) di Jerry Calà e L’allenatore nel pallone 2 (2008) di Sergio Martino. Un ulteriore sotto-filone che non accenna a scemare è quello dove la parola “amore” si profila spesso già nel titolo. È sostanzialmente contiguo al precedente, grazie anche ad autori che si barcamenano tra i precedenti filoni e questo, e che ridimensiona la commedia a favore dell’elemento sentimental-adolescenziale, ai limiti del “Papimovie”, ove tuttavia mancano diretti riferimenti berlusconiani senza perciò risultare meno acquiescenti. È stato ribattezzato il nuovo cinema dei “telefonini bianchi”, in cui, come ai tempi del ventennio fascista, la macrostoria era deducibile perché camerinianamente occultata, rimossa, ignorata. Rientrano di diritto nella categoria – perché no? – i film di Gabriele Muccino, nonostante le pretese autoriali poi premiate dall’immediata chiamata in servizio hollywoodiana – in ossequio ai sogni proibiti del ministro Bondi. C’è anche da prendere in esame quella serie di film dove si intravede un malessere diffuso, intriso di saltuari scatti di rabbia e pronte ricomposizioni familiari, sinto-
matici dell’epoca berlusconiana quand’anche a essa non allineati. Pur non prendendo quasi mai di mira il nemico pubblico numero uno Berlusconi, le numerose commedie, quasi commedie e non commedie, più o meno d’autore, costituiscono da tempo immemorabile l’ossatura di un cinema medio sempre più medio e in perenne crescita in Italia, a discapito del film d’autore. Eviteremo per carità di patria, anche di “patria” cinematografica, di fare esempi. Ma chiunque sia andato a cinema negli ultimi trenta o vent’anni, o anche solo da qualche anno a questa parte, sa esattamente di quali film, autori, sceneggiatori, produttori, attori, si sta parlando. Se qualcuno ha parlato di “due camere e cucina”, ci limitiamo ad aggiungere che si tratta del mare magno del “due camere e cucin(em)a” italiano contemporaneo. E che raggruppa una fascia di pubblico medio-alta. Una variante della precedente categoria, che potrebbe ambire a una sua autonomia in questo proposta molto approssimativa di mappa mentale ci auguriamo utile a orientarsi nel ventennio berlusconiano del made in Italy cinematografico, potrebbe essere quella dei film popolati da personaggi canaglieschi e amorali. Che alle spalle hanno le commedie all’italiana, sempre più acide nel passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta, ma la cui esistenza recente sullo schermo è una conseguenza dell’assuefazione progressiva alle sempre più numerose e
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Gomorra
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sempre meno eclatanti Tantentopoli contemporanee degli ultimi decenni. Qui un breve elenco, piacciano o no gli esemplari scelti, aiuta a orientarsi: La bionda (1996) e La terra (2006) di Sergio Rubini, Persone perbene (1992) di Francesco Laudadio, I ragazzi della notte (1995) e Gli inaffidabili (1997) di Jerry Calà, Il trasformista (2002) di Luca Barbareschi, L’ora di punta (2007) di Vincenzo Marra. C’entrano anche le incursioni di genere, più o meno consapevolmente noir, come Cemento armato (2007) di Marco Martani, Arrivederci amore, ciao (2006) di Michele Soavi, Il passato è una terra straniera (2008) di Daniele Vicari. Film che dicono che questa Italia ripugna, ma è la stessa ripugnanza a dare spessore “pulp” alla costruzione del racconto, al montaggio e al disegno dei personaggi. Una sotto-variante, che riteniamo invece contenga elementi di maggiore interesse, è la tendenza, quasi spesso coincidente con istanze autentiche d’autore, di dedicarsi a ritratti subumani, di personaggi eccentrici. Insomma, come fu rimproverato a Pirandello e a Svevo nei primi decenni del secolo scorso, la tendenza a rendere “bello” il “brutto”, capovolgendo il paradigma estetico tradizionale. Ovviamente in chiave polemica, che non tocca il bersaglio berlusconiano direttamente perché gli autori hanno ben compreso che in fondo si tratta di un
alibi ben al di sotto delle dimensioni del problema italiano contemporaneo di deriva antropologica. Il bestiario contemporaneo rintracciabile nella filmografia di Matteo Garrone, specialmente da L’imbalsamatore (2002) a Gomorra (2008), e nell’intera filmografia di Paolo Sorrentino sono più che sufficienti a chiarire l’ambito di riferimento. Se di anti-berlusconismo si volesse per questi due autori più unici che rari parlare, esso sarebbe più contestuale che esplicito. A ragion veduta, anche perché poi in Italia – come ricordava dal suo punto di vista Michele Placido attaccato all’ultima Mostra di Venezia per l’innocuo suo Il grande sogno (2009) sessantottino – i film con un budget che si rispetti si fanno con la Rai o con Mediaset o Medusa che dir si voglia, il che ci riporterebbe al Berlusconi produttore o capo di governo che quindi finanzia un tipo di cinema maggioritario e “suo” personale. Va detto che esistono poi molti altri film d’autore in qualche modo nati dentro questo bel ventennio/trentennio, senza rappresentarlo in stretta relazione con il personaggio simbolo ai vertici del potere mediatico. Film che piuttosto hanno riflettuto su un’Italia divenuta una sorta di ostaggio consenziente del sistema telecratico o videocratico. L’elenco qui non potrebbe che risultare approssimativo per difetto. Ci limitiamo a fissare un terminus a
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quo costituito dagli ultimi tre film felliniani segnati dall’ingerenza del piccolo sul grande schermo e incentrati sullo scontro impari con un’idea di cinema ormai impraticabile: Ginger e Fred (1986), Intervista (1987) e La voce della luna che – si è detto – Berlusconi riusciva a farlo intravedere. Un terminus ad quem potrebbe essere Vincere Di Marco Bellocchio, che offre una lettura retrospettiva e diremmo quasi genealogica del potere dei mass media audiovisivi, unita a una disamina dei meccanismi psichici e immaginifici del culto della personalità. Sul versante opposto, sono pochi, pochissimi i film che hanno sponsorizzato volenti o nolenti il perdurante blocco di potere contemporaneo italiano, caratterizzato da un autoritarismo morbido, da commedia all’italiana che sconfina dallo schermo e si insinua in una realtà-copia dell’audiovisivo. Un blocco qualunquistico che abbraccia destra e sinistra sedicenti in cui gli ex Pierini si sono trasformati in classe politica con tutti gli annessi e connessi, e i Mostri della più illustre tradizione risiana e monicelliana non sono più appannaggio deformato del grande schermo perché recitano la propria parte in commedia quotidianamente in Parlamento o nei salotti televisivi. Esistono o sono esistiti film di supporto a tutto questo marasma? Ufficialmente no. Eppure ci sono e ci sono stati. Probabilmente gli stessi autori non vorrebbero mai riconoscersi come appartenenti a una simile categoria, dando ragione a Woody Allen che citava – a suo dire – Groucho Marx in Io & Annie (Annie Hall, 1977): «Non vorrei appartenere a un club che accettasse tra i suoi iscritti gente come me». Infatti, ammesso che esista, una simile categoria sarebbe composta da film affetti da un principio di alienazione: non vorrebbero mai essere o essere stati ciò che di fatto sono, complici anche le sponsorizzazioni politiche, economiche e culturali di cui hanno anche malvolentieri beneficiato. Pensiamo ai medievalistici I cavalieri che fecero l’impresa (2001) di Pupi Avati e Barbarossa (2009) di Renzo Martinelli e, con un effetto ossimorico non del tutto paradossale, il kolossal neorealistico Baarìa di matrice basettiana o tardo viscontiana. Essi confermano l’esistenza di un bisogno che forse accomuna l’alto e il basso, ma di sicuro viene molto spunto dall’alto che è essenzialmente un bisogno di identità nazionale o sub-nazionale che, quand’anche inneggia all’epopea di questa o quella parte d’Italia, il Nord (Barbarossa) o il Sud (Baarìa), Lega o non Lega, comunque si vogliano giudicare i singoli film e i rispettivi autori, giocano la carta dell’invenzione di quella pratica, nota agli storici, definita da Eric Hobsbawm «invenzione della tradizione». Che in tempi recenti ha portato la fiction in prima linea a riproporre, spesso e volentieri con intenti revisionisti o comunque edificanti, personaggi italiani illustri, cantanti, ciclisti, statisti, medici, sindacalisti. Opere talvolta di taglio post-rosiano o post-ferrariano. Senza contare il sottogenere praticato sempre più in
ambito televisivo, e intriso più che mai di quel paradigma hobsbawmiano ben applicato alla storiografia sulla mafia da Salvatore Lupo, che ha visto riemergere una visione della mafia e in genere del crimine organizzato di stampo mafioso fatta di eroi controversi e valori di vecchio conio. In controtendenza rispetto alle dieci serie della Piovra targata Rai anni Ottanta e Novanta, che non a caso il Presidente del Consiglio ha stigmatizzato pubblicamente come esempio di cattiva promozione all’estero dell’immagine dell’Italia. Non è un caso che i maggiori esemplari di questa linea sostanzialmente pro-mafiosa siano stati prodotti in casa Mediaset, e che persino i magistrati siciliani impegnati in processi in pieno svolgimento si siano espressi con grande preoccupazione su questa nuova ondata di fiction che di fatto vanifica la loro azione giudiziaria agendo direttamente sull’italico immaginario tele-collettivo. Barbarossa
Arrivederci amore, ciao
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SAGGI
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Habemus Papam
ANCORA QUALCOSA SU HABEMUS PAPAM (E FERRERI, PASOLINI, OLMI, FELLINI) cineforum 507
Tullio Masoni
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Ricordiamo tutti l’arringa di Totò nel film che Bolognini, con l’indispensabile collaborazione di Benvenuti e De Bernardi, realizzò nel 1959. La legge Merlin, è il senso ultimo del discorso, costringerà i maschi a “impegnarsi” più nobilmente per soddisfare i loro desideri; in ultima istanza a essere più civili e più “moderni”, come il Paese esige da loro dopo le fatiche della ricostruzione. A incitarli è paradossalmente un vecchio, uno che nelle case chiuse ha passato tanto
tempo e predica dall’alto, da una finestra che fa pensare al fatidico balcone di Piazza Venezia o, chissà, al Palazzo apostolico da cui si affaccia il papa per la benedizione domenicale. Se l’accostamento fra la comicità farsesca di Totò e la storica consuetudine vaticana sfiora l’irriverenza, con Cechov ogni raffronto potrebbe apparire più rischioso, perché meno scanzonato, o addirittura riprovevole. Ma proprio del rapporto fra Habemus
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Papam (2011) e «Il gabbiano» si occupa, in un suggestivo commento, Roberta De Monticelli. Distinguendosi dalla gran parte dei giudizi e dalle ritrosie dello stesso regista, la filosofa legge il film come «una sorta di geniale trasposizione» del dramma cechoviano (1); perciò Melville (il nuovo Celestino V) altri non sarebbe che un Sorin di oggi: «… In giovinezza – recita l’anziano signore del “Gabbiano” – una volta volevo diventare un uomo di lettere e non lo sono diventato; volevo essere un parlatore e ho sempre parlato in modo nauseante; […] volevo sposarmi e non mi sono sposato; volevo vivere sempre in città e finisco la mia vita in campagna». Se l’autocritico Sorin è il rassegnato testimone di un più esteso fallimento (il divino dell’arte sacrificato come il gabbiano) a Melville spetta assumere il fallimento della Grande Rappresentazione del cattolicesimo: «… Il Teatro di Dio non può rinascere – non qui. Il divino ha scelto l’uomo limpido, l’attore rifiutato dall’Accademia, per chiudere baracca e burattini. Le bandiere festose calano, la folla si disperde. La vita continua – altrove» (2). Ma allora: cosa c’entra il Totò del 1959? Risponde a una delle solite civetterie pseudo-provocatorie richiamarne la concione? Forse no. Lo scambio di grave e leggero – di dramma, comico, e farsesco – non è solo nel carattere di Nanni Moretti (e particolarmente felice in quest’opera ultima) ma anche nel maestro russo: «La riluttanza a innalzare frontiere tra la comicità e l’angoscia», scriveva Angelo Maria Ripellino nel 1968 «fece sì che Cechov si ostinasse a considerare commedie, anzi vaudevilles e persino farse, “Tri sestry” e “Visnëvyj sad”» (3). Un’altra conferma, poi, viene in Habemus Papam dalla colonna sonora, che non esito a definire mirabile, di Franco Piersanti. I brani sono disposti dal musicista con diegetica fedeltà e segnano al tempo stesso una preziosa autosufficienza; direi quasi che a un ascolto secondo si avvertono espressivamente dialettici e aggiungono vera profondità. Non si sente scarto alcuno con quelli “adottati”: la canzone di Mercedes Sosa, «Todo cambia», il liturgico ma divagante «Miserere» di Arvo Pärt nel finale, mentre toni solenni incrociati dall’inquietudine di pause – altri hanno scritto – sfociano in armonie dubbiose. Come dire che l’ambivalenza drammatico-drammaturgica del filmico si specchia coi rovelli indotti dal crescere e dallo sfumare degli archi, dei legni e dei suoni onomatopeici, dall’incupimento dei fiati, e dal contrasto tematico coi più rari “allegri”. La scelta di una simile collaborazione per le musiche conferma, direi, la maturità stilistica di Moretti, un autore che ha spesso perseguito i rischi del contrasto esponendosi alle insidie della “farsa intellettuale”, ma in nessun’altra prova, a mio avviso, ha saputo tenere
l’equilibrio che in questa rimane costante fino all’ultima inquadratura. L’immagine del gabbiano, infine – e qui vorrei porre un’ambiguità ulteriore rispetto a quella che secondo la De Monticelli accosta “in arte” la goffa ma limpida spiritualità infantile alla maestà dell’uccello in volo –, può suggerire un abbagliante ma precario, momentaneo equilibrio poetico: «Accingendomi a montare il film di Bellocchio – mi confidò Silvano Agosti – dovevo fissare una figura: non il gabbiano in volo (immagine usurata, quindi banale) né del gabbiano a terra (eccessivamente goffa)… fissai allora il gabbiano che si posa sull’acqua tenendo per un attimo le ali aperte…». Come dire che fra divino e terrestre può darsi l’illuminazione: il divino si manifesta e subito si nega, si perde nello spreco di Konstantin, sopravvive nell’angoscia di Nina – sempre limpida, sempre sconfitta – o è contemplato da lontano dal vecchio, onesto, e rassegnato Sorin.
LA CUPOLA, IL COLONNATO, LA CAMPANA Nel suo libro-testamento Valerio Zurlini ricordava l’agonia e la morte di Giovanni XXIII: «… Durante le lunghe notti della sua lenta agonia Piazza San Pietro fu gremita fino alle prime luci dell’alba da gente di ogni specie e rango, razza o religione… poi una sera morì. Il suo forte cuore aveva ceduto. Fu una notte in cui si videro fianco a fianco i capi del partito comunista e festaioli in abito da sera, reduci da parties o da locali notturni… Io andai a visitarlo la notte seguente. Rientravo da un viaggio e già trascoloravano le luci dell’aurora. La Basilica era deserta. Illuminato da luci discrete il grande corpo riposava sul catafalco, vegliato dai suoi gentiluomini d’onore e devozione. Le grandi volute barocche dell’altare di Bernini erano in penombra, un silenzio immobile prolungava con una eco spenta il rumore discreto dei miei passi. Sostai a lungo di fronte all’uomo che un giorno mi aveva convocato per parlarmi di un mio film nel quale – mi dissero – si era riconosciuto… Non riuscivo a staccare gli occhi da quel volto paterno che la morte non era riuscita a deturpare finché il cielo cominciò a riflettere attraverso le grandi finestre una luce rosata e così lo salutai per sempre» (4). L’autore di Cronaca familiare (1962), ancora preso dalla speranza per i grandi cambiamenti, (1) Il divino è fuori scena, «il manifesto», 1 maggio 2011, p. 15. (2) Ibid. (3) Il teatro di Cechov, in Angelo Maria Ripellino, «Letteratura come itinerario nel meraviglioso», Einaudi, Torino 1968. Ora, come introduzione, in Anton Cechov, «Capolavori», a cura di Mauro Martini, Einaudi, Torino 2003. (4) «Gli anni delle immagini perdute», Prandi, Reggio Emilia 1982, pp. 120-121.
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aveva poco prima annotato la fine sinistra di Pio XII: «… il suo ritratto più fedele ci rimane in una scultura di Francesco Messina, in cui lo sguardo promette le fiamme dell’inferno e il gesto è quello di chi scaglia un terribile anatema… Nella maestà della notte di San Pietro, al calore abbacinante delle lampade ad arco che illuminavano a giorno la basilica, il cadavere cominciò a gonfiarsi, a perdere un liquame nauseabondo, finché non esplose sordamente, mentre le guardie nobili in servizio d’onore svenivano per il fetore, afflosciandosi con spade e alabarde» (5). Pio XII, Giovanni XXII: da uno all’altro un breve, eccezionale periodo, entrato in vari modi nell’opera di alcuni fra i cineasti amati. La dolce vita (1960) credo sia ancora un’opera “pacelliana”. Nell’incipit Fellini rappresenta lo squarcio di un’improvvisa modernità attraverso motivi pagani (i ruderi dell’acquedotto romano), cattolici (la statua di Cristo da portare in Vaticano) e, con le signore in due pezzi che salutano dall’attico, gentilmente blasfemi. E venne un uomo (1965) di Olmi sembra invece agiograficamente “giovanneo” come, in tutt’altro modo, è giovanneo il brano pasoliniano di La rabbia (1963), che anticipa la dedica fatta dal poeta a papa Roncalli in Il Vangelo secondo Matteo (1964). Né pacelliano né giovanneo La dolce vita
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è invece L’udienza (1971) di Ferreri, anche se il cinico moralista non si sottrae all’umanissima, patetica condivisione della sconfitta di Amedeo, che torna nel negozio di souvenir per ascoltare la voce di un “Papa buono” vissuto, si direbbe, secoli prima. La simbologia scenografica che si impone e ricorre in ogni film – Habemus Papam compreso – è data dalla monumentalità vaticana. L’elicottero di La dolce vita raggiunge la basilica e il colonnato da dietro; la cupola, sia esterna che interna viene esplorata da Olmi nell’incipit di E venne un uomo, mentre Pasolini opera sul contrasto fra il cerimoniale dei documentari ufficiali (la sedia gestatoria che solca la folla in piazza, Giovanni XXIII seduto in trono) e un commento ispirato ad affettuosa, interrogativa famigliarità: «“Lo spirito è retaggio del mondo contadino, e tu sii il pastore del mondo antico che in quello spirito ha vita” queste sono le parole che l’angelo ha soffiato all’orecchio del dolce Papa dal misterioso paterno testone di tartaruga?». Tornando a Fellini, il suo è film pacelliano (lo ritroveremo, il Papa degli anatemi: Otto e mezzo [1963], Roma [1972]…) proprio essendo opera di passaggio: Marcello insegue per la stretta scala obliqua della cupola un’Anita in abito talare, e quando lei sul balcone che domina la piazza sembra offrirsi, un colpo di vento fa volar via il cappello per mettere fine all’incantesimo e sancire, quasi buñuelianamente, il limite di un desiderio comunque sorvegliato dalla Colpa. Non c’è, insomma, feticistica invenzione che basti. La cupola di Michelangelo, ha detto qualcuno, è concepita per custodire la tomba di Pietro, ma è al tempo stesso un mezzo per chiudere, sigillare; il colonnato del Bernini promette un immenso abbraccio ma fa pensare anche a una tenaglia. Così li vede Ferreri, trasfigurando nel “massiccio” l’oppressivo mistero del castello di Kafka. Ma cos’è questo monumento della storia? Un emblema del potere e della sua caparbietà, certo, perfino della vergogna. E tuttavia la tenacia di Amedeo non si esaurisce nella raffigurazione della buonafede o dell’innocenza; piuttosto dà corpo a quella che a suo tempo Goffredo Fofi, sfuggendo all’accusa di anacronismo rivolta a L’udienza, definì come lotta contro un insieme, la Chiesa cattolica, «col quale ciascuno di noi ha i suoi conti da regolare…» (6). La sacra istituzione alla quale i catechisti della nostra infanzia e adolescenza attribuivano il miracolo di aver resistito alle secolari insidie della storia, continua a incidere nell’immaginario dei credenti e, spesso, degli agnostici e degli atei. In altre parole, da qualunque parte si osservi: dall’agiografia prudente di Olmi che riprendeva una nota dello stesso Roncalli: «Voi siete qui un prigioniero di lusso che
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(5) Ibid, p. 84. (6) Il castellano bianco (su Ferreri), «Ombre Rosse» n.s., n. 2,1972, pag. 64 (7) Lettera al fratello Severo capofamiglia 3 dicembre 1961, in Giovanni XXIII, «Il giornale dell’anima e altri scritti di pietà», Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1965, p. 395.
esiti di parodia “volgare” (Kafka) quanto sinceramente tragica, l’altro a un crescendo elegante che poi sfocia nell’afasia, nel vuoto. Il solenne rintocco della campana di San Pietro scava nell’aria di entrambi, e se Piersanti l’adopera come “rumore” (insieme alle percussioni onomatopeiche, ad esempio il picchiettare delle penne nel silenzio del Conclave), Ferreri si affida a Teo Usuelli per sincoparne il suono, assotigliarlo e imbrigliarlo con profana e paranoide solennità. Il rapporto più interessante fra i due film, a ogni modo, credo sia di specie sentimentale; deriva cioè dall’angoscia comune ad Amedeo, che vorrebbe incontrare il papa ma si scontra con la proibizione, e a Melville (ortodosso a sua volta, in buona fede e innocente) che papa rinuncia a essere.
LA METAFORA DI HABEMUS PAPAM La croce nuda, sul fondo buio dell’interno, traballa prima che sul balcone arrivi il papa col seguito per il sospirato discorso di investitura. Nella piazza
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non può fare quel che vorrebbe…» (7), o dal beffardo annichilimento dell’eroe di Ferreri, il Palazzo vaticano (col suo re) lascia un’impressione ambivalente; è un edificio della Storia, ma pone altresì il sospetto di un tempo diverso: Storia fissata nella pietra e pietra fuori dalla Storia. Da qui una domanda che risuona dal profondo di incolmabili lacune: assisteremo a una rinascita del sacro pur sempre debitrice della durata e, con essa, di una degna autorità spirituale? Su ciò, sulla domanda, vorrei tornare fra poco. Per ora osserverei che, per quanto possa sembrare bizzarro, l’affinità più autentica fra gli autori e i film citati è quella fra Habemus Papam e L’udienza. Intanto per il comune e “dissimulato” uso dei reperti documentari nella finzione, poi per il ricorso all’ibrido già visto di dramma, comicità satirica e farsa, che porta l’uno a
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Sul set di E venne un uomo
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la folla attende in silenzio e si prepara a esultare. La rinuncia che invece Melville dichiara si trasforma, all’istante, in coscienza del vuoto, in impaccio grave, in umanissimo sperdimento. Perché la domanda cui poco sopra accennavo – una rinascita del sacro, una conferma solenne (problematica, magari) dell’autorità spirituale – resta senza risposta. Il valore del film di Moretti sta anche nell’esito che si allarga in metafora superando, forse, le immediate intenzioni del regista (8): l’autorità spirituale non può essere celebrata, la rinuncia di Melville lascia percepire un altro vuoto, la delusione della folla raccolta in piazza San Pietro può moltiplicarsi. Un segno dei tempi, insomma, se da autorità spirituale si passa ad autorità morale tout court, e da alta testimonianza religiosa a ideologia nobile. Anche i laici, per un attimo, coglieranno un’assenza del proprio campo per condividere la generale delusione; accentuata, poi, dal carico di responsabilità che la scelta di Melville fatalmente implica. Arrangiatevi! Proprio così: il discorso farsesco e civile di Totò viene pronunciato di nuovo e rende
possibile una sorta di miracolo: la folla, la stessa che aveva miseramente scandito slogan per l’immediata santificazione di Giovanni Paolo II, si trasforma per effetto della rinuncia in popolo attonito e triste. Come accade, dicevo, alla folla politica più vasta di chi vorrebbe cambiare il mondo ed è (piaccia o meno ammetterlo) senza guida da troppi anni. Una folla dove lo stesso Moretti si confonde – «Con questi dirigenti non vinceremo mai!», aveva proclamato dal palco di piazza Navona – e si confonde il personaggio del suo psicoanalista, che dal dolore famigliare della Stanza del figlio (2001) passa a quello collettivo di chi sembra ormai inchiodato alla scelta fra nuove responsabilità ed eterna sconfitta. Una laica, umile e necessaria professione; dove il registaattore rimane se stesso, coi tic e le astuzie “maligne”, ma regredendo a una catarsi adolescente (il torneo di pallavolo coi cardinali restituiti alle ingenuità del seminario) fino a sparire. (8) Le opere giuste racchiudono spesso, per natura propria o segreto, una parte di casualità.
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SUGGESTIONI MUSICALI
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I Love Radio Rock
APPUNTI SULL’USO DELLE CANZONI NEL CINEMA RECENTE La musica, la più impalpabile delle arti. Già Lessing nel Laocoonte la poneva nelle “arti del tempo” insieme alla poesia, alla danza e al teatro, arti nelle quali è presente «una temporalità precisa e calcolata che è la durata del brano e delle singole battute che lo compongono; e una spazialità inesistente, virtuale, completamente estranea al sistema di segni organizzato dal medium» (1), associandola appunto al tempo, al movimento, al fluire delle note che si diffondono nell’aria e che vanno a costituire ciò che Chion chiama «imposto a udire», quando afferma che «a causa di fatti noti a tutti (l’assenza di palpebre per l’orecchio, l’onnidirezionalità dell’ascolto, la stessa natura fisica del suono), ma anche dell’assenza di
una vera e propria cultura uditiva, questo imposto a udire è tale che in esso difficilmente possiamo escludere, selezionare e sezionare qualcosa. Nel suono vi è sempre qualcosa che ci sommerge e ci sorprende qualunque cosa facciamo. E che, anche e soprattutto quando ci rifiutiamo di prestare a esso la nostra attenzione cosciente, si insinua nella nostra percezione e vi produce i propri effetti» (2). Effetti su cui si è soffermata Cristina Cano in un interessante saggio su «Cinema&Cinema», evidenziando che la percezione della musica non concerne solo il senso dell’udito ma anche quello del tatto, anzi le vie sensoriali della pelle, poiché «le vibrazioni sonore giungono al corpo attraverso le oscillazioni aeree, attivando un
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Paola Brunetta
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effetto immediato nel sistema vasomotorio somatico, con conseguenti reazioni psicoaffettive», e anche il sistema cinestesico, tanto che «l’effetto biopsicologico delle stimolazioni sonore sembra dipendere proprio dalla loro interazione con tre diversi sistemi sensoriali e risulta legato soprattutto all’intensità e al ritmo, cioè a quelle dimensioni del linguaggio musicale che coinvolgono rispettivamente le vie sensoriali della pelle e il sistema cinestesico» per cui «esiste una sorta di stadio primario nella ricezione della musica che possiamo definire sensoriale-percettivo, che risveglia in qualsiasi ascoltatore delle risposte vegetative e motorie, oltre che affettive» (3). Ecco perché la musica ci coinvolge così tanto, ed ecco perché nel cinema, dove pure si fonde con le immagini e non può prescindere da esse, anzi si definisce in relazione a esse (4), gode del privilegio, per dirla con Chion, di funzionare come «piattaforma girevole spazio-temporale» cioè di «non essere soggetta a barriere di tempo e di spazio, contrariamente agli altri elementi visivi e sonori»: «la musica nel cinema è l’attraversamuri per eccellenza, capace di comunicare istantaneamente con gli altri elementi dell’azione concreta (per esempio, di accompagnare dall’off un personaggio che parla nell’in), e di oscillare istantaneamente dalla buca allo schermo, senza rimettere in questione la realtà diegetica o colpirla con l’irrealtà […]. Fuori del tempo e dello spazio, la musica comunica con tutti i tempi e tutti gli spazi del film, ma lascia esistere questi ultimi separatamente e distintamente» (5). Questa premessa per porre delle basi teoriche al mio scritto ma soprattutto per spiegare (se spiegare si può) la mia fascinazione nei confronti della musica e il mio
interesse per la questione dei rapporti tra la musica e il cinema, su cui si è peraltro detto e scritto molto. Sull’assenza della musica che si nota, mentre non si percepisce la sua presenza o la si percepisce nel momento in cui cessa e poi riprende (Balázs); sull’irrealtà ma al contempo necessità di melodie e ritmi presenti in qualunque contesto, anche in quelli in cui non lo sarebbero (Morin); sul rapporto tra cinema sonoro e silenzio (Bresson); sul sonoro come quarta dimensione dell’immagine (Deleuze, che conia le definizioni di immagine-movimento e immagine-tempo per associarle all’elemento apollineo e a quello dionisiaco); sul continuum sonoro (Fano) in contrapposizione alla musica come “corpo estraneo” all’immagine (Jansen); sulle funzioni del suono, ovviamente (per Casetti-Di Chio tre principali: caricare di ulteriore senso il contenuto dell’inquadratura, collegare le inquadrature tra loro, marcarne la separazione); e sul cinema come «spartito della visione» (6), commistione cioè di immagine e suono in cui ogni elemento si carica di una valenza ulteriore nell’incontro con l’altro (Chion parla di «valore aggiunto») e non può esistere senza, anzi può esistere ma come cosa diversa. Chion ha scritto, in questo senso, che il cinema offre la possibilità sognata da Wagner di organizzare in base a un ritmo l’insieme della realtà; Lotman ha evidenziato la capacità della settima arte «di assorbire i tipi più svariati di semiosi e di organizzarli in un unico sistema», realizzando la «natura sintetica e polifonica del cinema» (7); Bresson infine ha parlato di «pellicola stregata» per dire dell’azione di trasformazione visibile e istantanea che, nel cinema, le immagini esercitano sui suoni e viceversa.
24 Hour Party People
Su questo punto voglio fermare la mia attenzione, per cominciare a entrare nello specifico di questo contributo. La definizione che mi ha colpito di più rispetto al rapporto tra cinema e musica è quella, data sempre da Chion, del «carattere arbitrario e assoluto del loro incontro». Che si tratti di musica originale (la “colonna sono(1) Mentre nelle “arti dello spazio”, pittura scultura architettura, sono presenti «una spazialità fissa e unidimensionale che è la tela, invariabile, concretizzata una volta per tutte dal creatore dell’opera» e «una temporalità indefinita, variabile, stabilita di volta in volta dal fruitore» (Dante Albanesi, Lo spartito della visione, 1999, in www.ponilla.org). (2) Michel Chion, L’audiovisione – Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001, p. 40. (3) Cristina Cano, Il sonoro tra esperienza corporea ed esperienza auditiva, in «Cinema&Cinema», Nuova serie, Anno 18, n. 60, gennaio/aprile 1991, pp. 100-101. (4) La distinzione dei suoni in in, off e over è infatti legata alla loro disposizione in rapporto al quadro visivo cioè a quello che si vede nell’immagine, ferma restando l’osservazione di Chion secondo cui, se l’immagine non è il “contenuto” ma il “contenente” vale a dire il quadro, «per il suono non esiste né un quadro né un contenente preesistente: è possibile sovrapporre simultaneamente quanti suoni si vogliono, all’infinito, senza incontrare limiti. Inoltre, questi suoni si collocano a differenti livelli di realtà […], mentre il quadro visivo si situa quasi sempre a uno solo di questi livelli per volta» (Michel Chion, op. cit., p. 70). (5) Michel Chion, op. cit., p. 83. (6) La definizione è di Albanesi. (7) Jurij Lotman, Semiotica del cinema, Edizioni del Prisma, Catania 1979, p. 144. 64
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ra” creata appositamente per il film) o di musica preesistente non fa differenza; tuttavia, scrive Chion, «quando sappiamo che la musica esiste indipendentemente dal film si crea una situazione molto inquietante, una specie di unione assoluta fra due partner completamente autonomi», e ancora: «mentre nel cinema sonoro il dialogo è completamente integrato nel film, la musica conserva la sua esteriorità, appena abbandona il film diventa brano autonomo che può essere fruito a parte. Durante la proiezione appare molto solidale, subito dopo smette totalmente di esserlo: è il suo fascino» (8). Mi sono immaginata due traiettorie, due elementi che si incontrano dalla loro autonomia e separatezza per generare insieme, l’uno per l’altro ed entrambi per l’elemento che li comprende in quel momento, il film, un significato ulteriore, pronti ad andarsene a fine proiezione per tornare nel cielo, scie di luce sfolgoranti di tutta la loro bellezza che si può gustare anche singolarmente, adesso. Come in qualsiasi incontro vero; in cui l’altro “aggiunge” valore ma non esclude che tu ce l’abbia, un valore di per sé, e che lo possa mantenere. E ho pensato soprattutto alle canzoni, ai film che utilizzano le canzoni modificandone il senso nell’incontro con le immagini o usandolo o stravolgendolo, in un effetto straniante che è davvero in grado di offrire un altro senso a un oggetto che tornerà a essere se stesso non appena “lascerà” il film, arricchito tuttavia di vita nuova cioè di nuove connotazioni. Ho trovato esempi di questo in molti film recenti, a partire da Malavoglia di Scimeca (2010) che sdogana la musica rap inserendola nel contesto (attualizzato) del romanzo verghiano, effettuando la rilettura parodico-carnevalesca (il “sacro” riletto in chiave “profana”) di cui scrive Cremonini riferendosi a Bachtin (9); ma la regista che forse, nel cinema recente su cui il mio scritto andrà a incentrarsi, meglio esprime questo spirito dissacrante che è in realtà un distruggere per (ri)costruire senso o meglio sensi, è Sofia Coppola. Che il suo interesse per la musica l’ha manifestato anche nella vita privata, nella relazione con Spike Jonze e in quella, ora, con il cantante dei Phoenix. Già per Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999) la Coppola si era avvalsa della collaborazione degli Air, che conferivano alla densità contenutistica del film e alle geometrie raggelanti che nella sostanza (8) Una falsa barriera – Conversazione con Michel Chion (a cura di Alberto Boschi e Monica Dall’Asta), in «Cinema&Cinema», Nuova serie, Anno 18, n. 60, gennaio/aprile 1991, pp. 40-41. Chion continua parlando di «illusione fusionale che rinvia a un fantasma materno», uno spunto interessante per chi si voglia addentrare in un’analisi psicanalitica del rapporto tra immagini e suono nel cinema. (9) Giorgio Cremonini, Canzoni, canzoni, canzoni, in «Cinema&Cinema», Nuova serie, Anno 18, n. 60, gennaio/aprile 1991. (10) Nico Guidetti, Ritratto di borghesia in nero, in «Cineforum» n. 399, anno 40, n. 9, novembre 2000, p. 73. Anche Termenini si è soffermato sul significato della musica nei film della Coppola, scrivendo, per questo, che «riesce a esprimere tutto ciò che vuole esprimere per immagini, musica e montaggio. L’essenza del cinema» (Il giardino delle vergini suicide, in «Cineforum» n. 500, anno 50, n. 10, dicembre 2010, p. 44).
Nel paese delle creature selvagge
esso propone una leggerezza e un’ariosità solamente esteriori (Guidetti definisce la colonna sonora del duo francese «bambinesca e subdolamente innocente») (10), che intendevano mostrare la provincia americana degli anni Settanta, il contesto in cui la vicenda si colloca, nella sua armonia apparente e fondamentalmente falsa; in Lost in translation – L’amore tradotto (Lost in Translation, 2003) la regista utilizza una colonna sonora composita (Death in Vegas, Phoenix, My Bloody Valentine e ancora Air) in cui spicca, per rendere il senso di spaesamento dei protagonisti che si trovano sperduti e soli in un altro contesto, quello della Tokyo dei nostri giorni entro la quale si staglia un non-luogo internazionale e cosmopolita come il Park Hyatt Hotel in cui stan-
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Somewhere
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no, il brano dei Roxy Music che Bob canta al karaoke, che tradotto recita «Come un sogno nella notte / chi può dire dove stiamo andando / non importa nulla nel mondo» (oltre al brano punk della festa in cui i protagonisti vengono a trovarsi, ma questo è un altro discorso o forse è lo stesso, parla di lei e della sua generazione e della realtà che la circonda come Bryan Ferry parla di lui, a dire dell’incontro di due mondi “altri” che per qualche istante si toccano per poi divergere nuovamente); ma è con Marie Antoinette (2006) e con Somewhere (2010) che l’uso della musica si fa più articolato e interessante, nel senso dell’accompagnamento e del contrasto. Perché nel primo film, ambientato alla corte di Versailles e incentrato sulla vita della regina di Francia dal matrimonio con il futuro Luigi XVI allo scoppio della rivoluzione, la musica punk-dark-new wave e comunque indie e comunque contemporanea che si alterna con quella classica sembra in contrasto assoluto con l’ambientazione settecentesca, curatissima nella scenografia e nei costumi color pastello, a partire dal brano dei Gang of Four che apre l’opera e dal cameo dei Phoenix nelle vesti (letteralmente) di musicisti dell’epoca. Spiazzante, dissacrante, supponente anche quest’accostamento, specie in due momenti-chiave (tre se inclu-
diamo l’amplesso sulla musica degli Strokes) che sono la festa di compleanno su Ceremony dei New Order e il ballo in maschera su Hong Kong Garden di Siouxsie & the Banshees, quest’ultimo soprattutto, in cui la danza saltata e in questo senso “moderna” riporta allo spirito dionisiaco di cui sopra e a Shiva come divinità della distruzione, movimento distruzione ritmo che significano (ri)creazione di senso. L’armonia settecentesca ribaltata, lo spirito della corte quindi dell’ancien régime messo sotto accusa e considerato nei suoi ultimi sussulti, fino all’epilogo (non a caso il film si chiude con il primo accenno di rivoluzione, un sasso che rompe il vetro di una finestra del palazzo: dopo quello non c’è più niente da dire, o è già stato detto tutto). Ma se prendiamo per buona l’interpretazione che Malavasi dà del film anzi del cinema della Coppola (11), ci rendiamo conto che più che un film in costume nel senso classico del film storico avente lo scopo di ricreare lo spirito di un’epoca e di collegarlo magari all’oggi per esprimere un messaggio di un certo tipo sul nostro tempo, quello della Coppola è un film en travesti, «una recita o forse una festa» che realizza in qualche modo i sogni di una ragazzina «che si immagina principessa e poi regina della corte più sofisticata d’Europa», come teen movies sono
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un po’ tutti i film della regista, che anche quando non parlano di adolescenti (Somewhere) presentano comunque personaggi inquieti, alla scoperta, non ancora definiti e non ancora omologati, aperti insomma oltre che fondamentalmente soli, dei «turisti per caso» come li definisce Bocchi (12), nei confronti del contesto nel quale si trovano inseriti e che avvertono come una gabbia che li imprigiona. In questo senso la scena di cui sopra pare il solo momento “senza maschera”cioè autentico del film ed è, per usare le parole di Malavasi, «l’unico caso di esplicita sincronia tra colonna sonora contemporanea e mondo fine Settecento», non il contrario come può sembrare. Somewhere, invece, è un elogio del silenzio vale a dire del disagio esistenziale, dell’incertezza e della fragilità, ma anche, nella figura di Cloe e nel rapporto che instaura con il padre, della vita. Se Marie Antoinette era un film “pieno”, questo ultimo è un film “vuoto”, rarefatto, composto da inquadrature lunghe, perfette, immobili dove l’accento è sulla lentezza, sull’apparente assenza di ritmo, e sul silenzio appunto, ancora in contrasto con Marie Antoinette. I brani più significativi (sempre del genere indie-rock) accompagnano infatti delle situazioni specifiche ed “esterne”, le due scene di lap-dance e la scena meravigliosa del pattinaggio sul ghiaccio; la vita del protagonista è contrassegnata dal silenzio e dai rumori (l’auto, la pallina da ping pong, il casinò, l’elicottero) e l’unico brano musicale che lo riguarda da vicino è un pezzo lento degli Strokes, una sorta di ballata country, che unisce tre momenti molto belli che egli vive con la figlia, la partita di ping pong e la sequenza della piscina (sott’acqua e sulle sdraio), con lui che chiede a Cloe se sta bene e lei che gli risponde «Sì». Un momento in cui il film potrebbe anche finire, sull’inquadratura della locandina. Un momento di verità. Il senso ritrovato. Altri film e autori recenti hanno attirato la mia attenzione sul piano della ricerca musicale. Winterbottom trovo che sia un regista molto attento alla musica in tutti i suoi film, al di là di 24 Hour Party People (Wonderland e Genova in primis, ma anche in qualche misura Benvenuti a Sarajevo); che cerca di riprodurre l’andamento della musica, che crea delle sinfonie di immagini. Di Claire Denis, oltre al sodalizio con i Tindersticks, è interessante il metodo di lavoro («Ho sempre avuto la sensazione che la musica aiuti non i film ma i cineasti, in ogni caso mi aiuta come regista di film. Mi nutro essenzialmente di musica più che di letteratura. Per me, i film nascono con una musica che cerco di comunicare agli attori con i quali lavoro, ma anche ad (11) Luca Malavasi, Marie Antoinette, in «Cineforum» n. 460, anno 46, n. 10, dicembre 2006, pp. 11-12. (12) Pier Maria Bocchi, Il turismo e lo spazio, ivi, pp. 13-14. (13) La musica per pensare il cinema: Claire Denis in Gilles Mouëllic, La musica al cinema – Per ascoltare i film, Lindau, Torino 2005, p. 90.
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Agnès Godard, che tiene la macchina da presa. Quando è possibile, si gira con un play-back. Oppure si ascolta la musica prima di girare. Non per riscaldarsi ma per trovare lo spirito, l’atmosfera di una scena. Faccio in modo che si condivida una musica, una sonorità, e non soltanto idee. Quando va bene, siamo fisicamente insieme in una musica. Il film si alimenta con questo, e la dimensione fisica viene in gran parte dalla musica», ha dichiarato) (13). Poi ci sono Michel Gondry e Spike Jonze, autori entrambi di videoclip prima di dedicarsi al grande schermo (cito solo, del secondo, Nel paese delle creature selvagge [Where the Wild Things Are, 2009], uno dei film più vitali degli ultimi anni nel senso dell’energia del movimento insieme a I Love Radio Rock, con la musica di Karen O and the Kids), Tarantino ovviamente (cosa sarebbe Pulp Fiction senza il ballo Travolta-Thurman su You Never Can Tell?), Miranda July che è anche (innanzitutto) artista e musicista, e degli autori di Indigo (Sorrentino e Molaioli) che hanno trovato in Teardo un musicista d’elezione. Ma siccome siamo partiti dalla musica, dall’uso della musica preesistente e in particolare delle canzoni nel cinema recente, vorrei soffermarmi su altri due film interessanti, italiani, seguendo la suggestione del pieno e del vuoto. Il primo
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è Hai paura del buio di Massimo Coppola (2010), regista televisivo e di documentari prima che di film per il cinema, che qui usa i Joy Division (emblema, dice, della cultura post-punk e post-industriale di cui il suo film è intriso) per segnare il ritmo dell’opera, tagliando le canzoni in maniera cruda e brusca prima che cominci il ritornello, quindi togliendoci il piacere dell’ascolto-riconoscimento nell’intento di svuotare la canzone del significato pregresso e piegarla a quello che, di significato, vuole dare lui (la discontinuità e i salti, quindi la perdita dell’armonia, a marcare l’alienazione di un mondo in cui per fame una donna deve lasciare i propri figli per andare in un altro paese, e in cui il lavoro è sottopagato e precario anche nei luoghi in cui si dovrebbe stare meglio) (14); come usa Tiziano Ferro e Lio in funzione straniante, il primo dalla tv mentre una donna anziana muore, e PJ Harvey in maniera invece più tradizionale, nel momento del trucco della protagonista. L’altro è La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo (2010), che nell’intento di parlare della famiglia e delle sue costrizioni (e del male di vivere, del disagio esistenziale e di quello psicologico, dell’incontro di due solitudini che non riescono a incontrarsi causa il trauma che ciascuna ha subito) in chiave horror utilizza la musica di Mike Patton come leitmotiv inquietante e magico dell’opera e tre brani (diegetici tutti, due dei quali interrotti dallo spegnimento del mezzo e l’altro che collega due sequenze appartenenti a tempi diversi) in tre momenti significativi, all’inizio a metà e alla fine del film: Magic Thriller dei Goblin nella scena iniziale e angosciosa della recita, la house music martellante nella sequenza
della festa che fa conoscere i protagonisti adolescenti e Bette Davis Eyes di Kim Carnes, molto molto anni Ottanta (le canzoni hanno anche la funzione di scandire il tempo della vicenda, che procede per analessi e prolessi continue), ascoltata a tutto volume da Alice nella scena-chiave dell’ultimo incontro con Mattia, che continua anche quando lui è entrato in casa e che si interrompe bruscamente, lasciando spazio al silenzio che suggella l’avvicinamento finale dei due al parco e che era stato la cifra stilistica del film precedente di Costanzo, In memoria di me (2007). Termino con delle suggestioni: Anima fragile di Vasco Rossi cantata dal protagonista di La nostra vita (Luchetti 2010) inquadrato in primissimo piano al funerale della moglie, espressione di una reazione che si vuole a tutti i costi mettere in atto nei confronti del dolore, e della vita; la danza nella neve del Central Park su Sunday Morning dei Velvet Underground in Un perfetto gentiluomo (The Extra Man, 2010) di Berman e Pulcini, classico uso della musica come unione di scene diverse in funzione di raccordo temporale; il ballo sui Kinks in Les amants réguliers di Garrel (2005), così improvviso e così vero (il suo ’68), che richiama quello (andando indietro nel tempo) di Liv Tyler in Io ballo da sola di Bertolucci (1996), su Rock Star delle Hole al walk-man, oltre che la corsa nella Parigi notturna di Rosso sangue (Mauvais sang, 1986) di Carax (e lì era David Bowie, Modern Love); tanto Nanni Moretti (una sequenza per tutte: quella della corsa in Vespa di Caro Diario sulla musica di Khaled, che diventa man mano una danza); la sequenza iniziale di Félix e Lola (2000) di Leconte con Alain Bashung che interpreta se stesso e che accresce l’aria di mistero che avvolge il film; e la scena iniziale di La donna che canta (Incendies, 2010) di Villeneuve: sui Radiohead di You and Whose Army si vedono dei bambini vestiti uguali, a cui tagliano anzi rasano i capelli. Un orfanotrofio? Ancora non lo sappiamo, ma lo struggimento e la malinconia della canzone ce lo fanno presagire e ci danno in un istante l’atmosfera della vicenda, anche se il film prende poi una piega diversa, più melodrammatica che melanconica. L’ultima suggestione viene da Pasolini, con cui chiudo questo contributo: «La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo” – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente piatte, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita» (15).
La nostra vita
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(14) Scrive del resto Chion che «il silenzio non è mai un vuoto neutro: è il negativo di un suono che si è sentito prima o che si immagina; è il prodotto di un contrasto» (op. cit., p. 60), quindi il silenzio di un brano che si è interrotto bruscamente acquisisce nel contesto dell’opera un significato ancora maggiore. (15) Cito da Fabrizio Tinazzo, Pier Paolo Pasolini: la dimensione prospettica della musica, in www.stradedelcinema.it.
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MIZOGUCHI E UTAMARO
SAGGI
Cinque donne attorno a Utamaro
DUE PELLICOLE ATTORNO A UTAMARO In Cinque donne attorno a Utamaro (Utamaro o meguru gonin no onna, 1945) Kenji Mizoguchi si è cimentato con successo con la vita del disegnatore giapponese di stampe Kitagawa Utamaro (17531806). Nonostante le restrizioni imposte dalle forze di occupazione sulla produzione di jidaigeki nel secondo dopoguerra, Mizoguchi ottiene un permesso speciale, aggirando il veto imposto sui soggetti ambientati prima della Restaurazione Meiji (1868), messi al bando dal Civil Information and Education Section. Mizoguchi riesce a presentare il suo personaggio agli uffici del CI&E come una figura democratica lontana dai valori feudali e nazionalistici allora condannati
dall’amministrazione americana. Mettendo l’accento sul fatto che il personaggio di Utamaro poteva essere considerato “il pittore del popolo”, il regista nipponico è riuscito così nel difficile compito di rassicurare i censori americani (1). Il primo film di Mizoguchi, girato dopo la resa incondizionata del Giappone alle potenze alleate, mette in scena un ventaglio di figure femminili che sembrano rubare all’artista il ruolo di protagonista nell’intreccio. Nonostante la loro diversa estrazione sociale, queste donne sembrano muoversi sullo stesso (1) Vedi le note originali del regista sul film in «Kinema Jumpo» n. 80, gennaio 1954.
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Giuseppe Sedia
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I racconti della pallida luna d’agosto
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piano in ragione del loro amore incondizionato per l’artista (2). La centralità del personaggio di Utamaro nella storia è rafforzata dall’ammirazione che i personaggi secondari nutrono per il maestro. Il suo autoritratto con donne incluso nel ciclo Il dramma di Chunshingura parodiato da famose beltà (1875) – visibile al Fitzwilliam Museum di Cambridge – sembra il corrispettivo figurativo del punto di vista narrativo adottato da Mizoguchi nel film. La maggioranza degli attori scelti per il film restano in gran parte sconosciuti al pubblico occidentale. L’unica eccezione è rappresentata dall’attrice Kinuyo Tanaka impiegata nel ruolo della cortigiana Okita. Okita Naniwaya cameriera nella sala da tè del tempio di Asakusa a Edo (l’odierna Tokyo) era uno dei modelli preferiti del maestro giapponese. La sua figura compare in numerose stampe, talvolta immortalata in alcuni Okubi-e (ritratti a mezzo busto) insieme ad altre cortigiane. Dopo aver scoperto che il suo amante è scappato con un’altra modella di Utamaro, l’infelice Okita decide di assassinarli prima di togliersi la vita nell’epilogo della pellicola. Il biopic di Mizoguchi mostra l’artista al lavoro soltanto in poche circostanze. In una delle prime sequenze, Utamaro (Minosuke Bando) risponde alla
provocazione dell’artista Seinosuke che raggiunge l’atelier del maestro per sfidarlo in una prova di disegno. Attraverso un semplice raccordo di sguardo Mizoguchi ci mostra prima la faccia attonita di Seinosuke, per poi inquadrare il suo disegno corretto dalla mano di Utamaro. Seinosuke (Kotaro Bando) si presenta al maestro come allievo dell’antica scuola di Kano, un’accademia fondata durante la metà del Millequattrocento dal pittore Kano Masanobu (1434-1530). Tale scuola gettava le sue radici nella tradizione pittorica cinese patrocinata e promossa dallo shogun (3). Questo episodio sottolinea la rottura tematica e stilistica di Utamaro con la tradizione figurativa locale e, come vedremo più avanti, anche con la ricerca di un nuovo ideale di arte e di femminilità, in contrasto con lo stile classico che (2) Donald Richie, A Hundred Years of Japanese Film, Kodansha International, Londra 2005, p 130. [T.d.A.] (3) Jack Hillier, Utamaro. Colour Prints and Paintings, Phaidon, Oxford 1979, p. 11. [T.d.A.] (4) Freda Freiberg, Utamaro and His Five Women in «Senses of Cinema» (http://archive.sensesofcinema.com/contents/cteq/03/25/utamaro.ht ml). [T.d.A.] (5) Dudley Andrew, Paul Andrew, Kenji Mizoguchi. A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1981. [T.d.A.] (6) Yoshikata Yoda, Souvenirs de Kenji Mizoguchi, Petite Bibliothèque des Cahiers du Cinéma, Parigi 1997 pp. 66-67. [T.d.A.] (7) Hillier, Utamaro. Colour Prints and Paintings, p. 58.
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privilegiava ancora soggetti tradizionali come paesaggi e ritratti di corte. Il secondo episodio significativo mostra Utamaro alla prese con un ritratto femminile dipinto sulla schiena nuda della cortigiana Takasode (Toshiro Iizuka). Questa scena sembra evocare in modo chiaro il potere dell’artista di rendere le donne eternamente giovani e belle (4). Una vera e propria performance di body art figurativa che pare suggellare l’affiliazione del corpo-supporto di Takasode all’universo sociale e all’immaginario artistico di Utamaro. Soltanto nell’ultima inquadratura le opere di Utamaro vengono mostrate in tutti i dettagli al pubblico: il processo creativo ha finalmente dato vita a delle opere finite. Le prove della ricerca di un nuovo ideale di femminilità vengono offerte allo sguardo dello spettatore nella loro tangibile evidenza. Il personaggio di Mizoguchi-Utamaro osserva con passività e rassegnazione gli intrighi sentimentali che gli scorrono davanti agli occhi. Allo stesso modo, gli altri personaggi presi dalle loro storie personali sembrano indifferenti alla parabola esistenziale e artistica del maestro. «Utamaro è coinvolto nella storia e negli eventi, soltanto che lo fa adottando una distanza calcolata» (5). Questa distanza calcolata non è forse uno degli aspetti specifici della messa in scena mizoguchiana rispetto, per esempio, all’approccio più coinvolto, occidentale del linguaggio di Akira Kurosawa? Il carettere voyeuristico di Utamaro salta fuori in modo evidente nella sequenza della battuta di pesca. Un gruppo di schiave seminude si tuffa in mare per catturare i pesci a mani nude soltanto per il piacere del proprio signore. Invitato dal padrone, Utamaro, alla ricerca di nuove modelle, osserva la scena dalla finestra di fronte. I nervi dell’artista sono eccitati da Cinque donne attorno a Utamaro
una visione erotica probabilmente ispirata alle serie di stampe Awabi-tori (Le pescatrici di ostriche), come si possono vedere oggi al Musée National des Arts Asiatiques-Guimet di Parigi. Il soggetto del film è basato sulla biografia romanzata di Utamaro scritta da Kanji Kumieda, adattata per il grande schermo da Yoda Yoshikata, fedele collaboratore di Mizoguchi, fino all’anno della morte del maestro. Nella sua biografia sul regista nipponico,Yoda ha dichiarato che il personaggio di Utamaro rappresenta per certi versi un ritratto dello stesso Mizoguchi (6). Come ha giustamente notato J. Hillier, «Utamaro ha conferito un aspetto di malinconica rassegnazione alle sue graziose donne più eloquente di una rivolta esplicita» (7). Forse il trattamento di Yoda ha voluto evidenziare la capacità da parte di entrambi di affrontare – in tempi e con mezzi diversi – il tema della condizione femminile sotto il giogo repressivo della società patriarcale. Nonostante le occasioni di “conforto” offerte dal distretto a luci rosse di Yoshiwara, l’atteggiamento ieratico, quasi calcolato di Utamaro nei confronti dei piaceri della carne è accompagnato da una singolare frenesia creativa. Il suo personaggio nutre una dedizione assoluta nei confronti del proprio lavoro, paragonabile soltanto al carattere del vasaio Genjuro nel capolavoro mizoguchiano I racconti della pallida luna d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953). La sceneggiatura di Yoda mette in rilievo in modo netto la dedizione artistica e la posizione coraggiosa di UtamaroMizoguchi in un contesto di conformismo creativo imposto dall’autorità governante. La frenesia creativa del disegnatore giapponese è messa in evidenza anche nella pellicola Il mondo di Utamaro (Utamaro: Yume to shiriseba, 1977). Ma nel Awabi-tori (Le pescatrici di ostriche), dipinto di Utamaro.
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La vita di Oharu, donna galante
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film di Akio Jissoji è la dimensione voyeuristica a prendere il sopravvento nel carattere del personaggio. Il voyeur-Utamaro osserva gli amplessi delle cortigiane con i loro clienti dai tetti delle case oppure dietro alle porte dei bordelli di Yoshiwara. Attraverso lo studio dal vivo dell’anatomia umana e l’osservazione diretta del sesso, Utamaro riesce a trovare nuovi soggetti per le sue stampe, imparando così i segreti degli shunga (stampe erotiche). L’origine dell’illustrazione erotica in Giappone risale storicamente ai rotoli della scuola di pittura Tosa – fondata da Mistunobu (14341525) – raffiguranti dodici scene erotiche, una per ogni mese dell’anno (8). Nel suo film Jissoji mette l’accento sulle conseguenze negative per l’arte colpita dagli editti morali promulgati in seguito alle riforme del Kansei (17891801). Il mondo di Utamaro racconta la decadenza della produzione ukiyo-e, in un periodo in cui incisori e stampatori sono costretti a soddisfare una sempre più pressante domanda per le stampe di soggetti popolari, ben oltre i confini della capitale. L’immaginario soft-core di Jissoji ha il merito di mostrare sullo schermo la transizione artistica tra la ricerca di un ideale figurativo di femminilità da parte di artisti come Utamaro, e la progressiva tendenza al realismo nella raffigurazione di soggetti popolari quali le cortigiane delle case di piacere (9).
Jissoji sembra più interessato al clima di decadenza che circonda Utamaro, piuttosto che alla figura dell’artista stesso. Il mondo di Utamaro presenta uno scorcio colorato degli antichi bordelli di Edo frequentati da samurai facoltosi, arroganti funzionari dello shogun, e volgari mercanti di provincia. Confezionato secondo le convenzioni del cinema sexploitation, la pellicola di Jissoji descrive le cortigiane come semplici funzioni narrative del piacere, oggetti erotici umiliati e sfruttati dai propri clienti. Questa sessualità passiva nelle donne di Jissoji si oppone in modo drammatico al personaggio fiero e combattivo di Okita-Tanaka. Il ruolo di Tanaka nel biopic di Mizoguchi sembra preannunciare la performance tragica dell’attrice in La vita di Oharu, donna galante (Saikaku ichidai onna, 1952). Attraverso il personaggio di Okita, Mizoguchi è riuscito a ricreare con la cinepresa quella patina di malinconica rassegnazione che caratterizza la ritrattistica femminile di Utamaro. E, forse, il maestoso piano sequenza mizoguchiano era davvero l’unico strumento adatto a catturare la vitalità delle modelle di Utamaro imprigionate nello schermo. (8) Ibid., p. 60. (9) Juzo Suzuki, Isaburo Oka, Masterworks of Ukiyo-E. The Decadents, Kodansha International, Londra 1969, p. 10. [T.d.A.]
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PESARO 2011 La mostra Gravemente condizionata dai tagli che in ogni campo contraddistinguono i programmi di crescita del governo, e in particolare di un ministro, Tremonti, già distintosi per la fine considerazione del bene culturale, la Mostra diretta da Giovanni Spagnoletti ha comunque offerto, alla sua quarantasettesima edizione, un programma di alto interesse. E vario, se agli eventi speciali dedicati a Bernardo Bertolucci, alle sperimentazioni in videoarte di Flatform e alla singolare diaristica di Cosimo Terlizzi, ha affiancato una significativa selezione di documentari della Russia post-sovietica, e un concorso di sette film (il “Premio Lino Miccichè”) fra i quali uno solo, quello francese, non si qualifica come lungometraggio di esordio. Dopo un confronto che immagino vivace e contrastato la Giuria, formata da Fabio Ferzetti, Isabella Ragonese e Marina Spada, ha premiato Musanilgi (The Journals of Musdan), del giovane Park Jungbum (Corea del Sud 2010). Buona scelta, a mio avviso, anche se lo stesso riconoscimento poteva toccare al thailandese Rak (Eternity) o a Igillena maluwo (Flying Fish) dello Sri Lanka. Musanilgi porta sullo schermo l’emigrazione di un giovane nordcoreano che, spinto dalla più nera indigenza, cerca una via d’uscita a Seul. L’opera, assai matura per mestiere e costruita con salutare asciuttezza pur nella progressione dei tempi drammatici, si fa apprezzare per il franco e disincantato approccio d’ambiente. Come quasi tutte le capitali del mondo, allorché sono in gioco la lotta per la sopravvivenza e l’arrivo di stranieri, Seul impone agli “sbarcati” i filtri della
malavita, dello sfruttamento illegale e della “guerra per bande”. Ecco perché l’oggettiva cattiveria contagia fatalmente il protagonista fino a rendere “naturale” ogni rassegnazione; anche quella di perdere da un momento all’altro l’amatissimo cagnolino. Se da un quadro di irriducibile violenza urbana Park Jung-bum ritaglia qualche avaro motivo patetico-fiabesco (la vicenda del ragazzo e del cane ricorda un po’ Umberto D), su una tematica affine (ma con enormi differenze etnico-geografiche), il francese Sylvain George si affida ad altra “sublimazione estetica”. Qu’ils reposent en revolte (De figures de guerre), del 2010, si avventura fra i gruppi di migranti (per lo più mediorientali o dell’Africa interna) che a Calais aspettano l’occasione per raggiungere le coste inglesi. I cespugli dei giardini pubblici, i fossi, le precarie costruzioni nella macchia, gli
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FESTIVAL
angoli fatiscenti, sono la loro “giungla”, il nascondiglio sempre provvisorio per sfuggire a una polizia che un po’ tollera un po’ interviene con cariche, arresti e il piazza pulita delle ruspe. George è un poeta “prestato” all’attivismo politico, e sul tema dell’immigrazione si è a lungo impegnato come cineasta sperimentale. Il film in concorso a Pesaro ha il pregio di una convinzione calcata dal bianco e nero e, soprattutto nella prima parte, riserva sorprese e scoperte. Poi, forse, cade in qualche lungaggine o tentazione retorica; cede cioè alla leziosità e a certa convenzione simbolica fino a mal governare, a mio modesto avviso, un epilogo nei centri di accoglienza i quali, pur avendo le caratteristiche della caserma, potrebbero destare nello spettatore un curioso, igienico sollievo. Non va però dimenticato che la cura estetica dell’immagine dichiara le preferenze dell’artista e al tempo stesso un ineludibile “distacco” dalla materia socio-antropologica scelta. Diventa insomma, per certo verso, un indice di onestà intellettuale. Affinità alla lontana sono ravvisabili in Trabalhar cansa (Lavorare
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stanca, un titolo esplicitamente ripreso da Cesare Pavese), dei brasiliani Juliana Rojas e Marco Dutra (2011), Headshots, dell’americano trapiantato a Berlino Lawrence Tooley (2010), e Medianeras, dell’argentino Gustavo Teretto (2011). Affinità tematiche fra i due sudamericani, laddove si riconosce la dolente omologazione delle modalità comunicative, del lavoro e dell’impoverimento (Trabalhar cansa vira poi sull’horror, mentre Medianeras – unico film acquistato da una casa di distribuzione italiana – passa dal dramma esistenziale urbano alla commedia), e di stile per tutti e tre per certa inclinazione minimalista. Il film argentino sembra sprecare il bell’incipit visivo (Buenos Aires colta nel significato simbolico delle sue affastellate architetture) con soluzioni drammaturgiche di comodo, cioè prevedibili o grossolane e, in ultima istanza, convenzionali; quello brasiliano mostra una tensione più coerente ma troppo rattenuta, superficiale. Concepito sulla scoperta della bestia che si nasconde nell’uomo e dei meccanismi sociali che lo portano all’abbrutimento (il marito della protagonista perde il lavoro sui quarant’anni e non ne troverà un altro) Trabalhar cansa ha comunque il pregio di prendere di petto la deriva globale del malessere: la storia che racconta, infatti, si svolge in una città brasiliana, cioè all’interno di un sistema economico in rapida espansione, ma
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The Rak (Eternity)
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Headshots
potrebbe svolgersi senza cambiamenti significativi a Milano, Parigi o Londra. Headshots, invece, è il film di un fotografo americano che si è stabilito a Berlino; fotografa è la protagonista, e di vago rispecchiamento concettuale il gioco fenomenico che ne articola gli insoddisfacenti andirivieni sessual-amorosi. Il film sembra esibire tutti i difetti dell’opera prima (infilare tutto, chiamare in causa i maestri della messa in scena “consapevole”) e finisce per rendere omaggio alla città ospite – la Berlino sempre nuova e in vetrina, appunto – usando visioni artificiose e virtuosismi intellettualistici. The Rak (Eternity), del thailandese Sivaroj Konsakul (2011) mi è sembrato il miglior film in concorso.
Un morto torna nel centro rurale del suo passato e rivive i tempi dell’infanzia e dell’amore con la giovane che sarebbe poi diventata sua moglie e vedova. Eternità, ossia immobilità. Quel che non muta «se non da pianto»; il tempo elegiaco “giusto” di un desiderio che cresce nella tangibile bellezza del paesaggio avito. Allo scopo la mdp di Sivaroj Kongsakul impone una lentezza nostalgica costante: del fantasma che torna e della sua assenza; una rarefazione contemplativa che però, nel finale, subisce lo scarto di un tempo più serrato e ordinario: quello dei vivi, dei rimasti, e degli orfani. Di notevole interesse mi è parso anche il film dello Sri Lanka. In Igillena maluwo (Flying Fish), l’esordiente Sanjeewa Pushpakumara propone un singolare melodramma socio-familiare e di guerra. Attingendo a motivi di attualità: l’alternanza dei soprusi esercitati dai “regolari” e dai guerriglieri Tamil, il regista incrocia sullo schermo tre storie femminili nelle quali il desiderio (intenso quanto disperato) fa sempre rima con la paura e lo scenario devastato, per la scelta di inquadrature ricorrenti, giunge ad assumere una sacralità rituale. Un melodramma, dicevo, ma di specie particolare e originalissimo, pur nell’uso dei mezzi classici quali la passione, il contrasto fra i sessi, la violenza bruta e la vendetta.
Tullio Masoni
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Documentari russi «Il livello di acculturazione specifica è molto più avanzato della media e grandi conoscenze storicocinematografiche, impensabili altrove, si aggiungono di solito a una professionalità perfetta. […] E persino il ritratto più banale della persona più banale, che vive in un luogo qualsiasi della periferia moscovita od oltre gli Urali, è testimone di una padronanza quasi istintiva dell’abc dell’arte documentaria», scrive Barbara Wurm (1). I documentari visti a Pesaro grazie alla retrospettiva che la Mostra del Nuovo Cinema ha dedicato alla cinematografia russa contemporanea (iniziata l’anno scorso col cinema “di finzione”), delineano in effetti uno spessore culturale e un livello di consapevolezza nell’utilizzo del linguaggio da parte degli autori, alcuni dei quali sotto i quarant’anni, davvero impressionante. Sarà per la ridotta circolazione dei film documentari nelle sale (un problema a tutte le latitudini), sarà che i pochi fortunati in grado di raggiungere i grandi schermi raramente si discostano dal modello collaudato dell’intervista o dell’inchiesta ben ordinata e sconfinano al massimo nella rielaborazione ironica o poetica, sarà
che discrezione e pudore sono generalmente considerate doti positive per l’occhio di un documentarista, ma la maturità e la radicalità espressiva dei russi presenti a Pesaro sono state davvero una bella e salutare frustata sugli occhi e sui cervelli. I selezionatori del festival hanno chiaramente operato una scrematura mirata, perché, come spiega Viktorija Belopol’skaja (2), anche nel cinema documentario russo non mancano «film dozzinali d’intrattenimento per la televisione» e i budget troppo piccoli generano di frequente prodotti segnati da «povertà», «qualità scadente delle inquadrature» e «sciatteria nella registrazione audio». Belopol’skaja denuncia in particolare l’assenza del documentario «dalla coscienza collettiva del Paese»: tra gli «esperimenti nella sfera estetica (e talvolta anche etica)», confluiti in abbondanza a Pesaro, e la massa di titoli scadenti che al pubblico della Mostra sono stati risparmiati, «manca il mainstream, manca un prodotto artistico che al contempo possa avere un potenziale di pubblico e che si basi su valori riconosciuti da tutta la società». La pressoché totale impossibilità di immet-
tere i propri lavori in un circuito distributivo sufficientemente ampio è stata evidenziata da gran parte degli autori ospitati a Pesaro: i luoghi di visione sono soprattutto i festival o, occasionalmente, qualche canale televisivo, ed è un peccato perché la cura e la creatività applicate specialmente alla fotografia e al sonoro – si vedano ad esempio Blokada (The Blockade) di Sergej Loznica, Glubinka 35x45 (Countryside 35x45) di Evgenij Solomin e Devijat zabytych pesen (Nine Forgotten Songs) della trentaduenneenne Galina Krasnoborova– richiederebbero sempre buone proiezioni su grande schermo. La difficoltà di concentrare, in tempi di ristrettezze economiche, tutta la programmazione della Mostra del Nuovo Cinema in un’unica sala, quella del Teatro Sperimentale, con la sola aggiunta delle proiezioni serali in Piazza del Popolo, è stata aggirata inserendo nel calendario molti titoli di durata inferiore ai sessanta minuti, ma non per questo meno interessanti rispetto ai lavori più lunghi. Svyato di Viktor Kosakovskij racconta in mezz’ora la nascita della coscienza di sé e della propria immagine nella mente di un essere umano. Che il protagonista sia un delizioso e trotterellante bimbetto biondo (figlio del regista, tra l’altro) è un dettaglio che smette di intenerire dopo pochi minuti: lasciando Svyato (che Glubinka 35x45 (Countryside 35x45)
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significa “sacro” ma è anche il diminutivo di Svyatoslav) da solo a riempire un’inquadratura senza fine e ponendolo per la prima volta di fronte a uno specchio, Kosakovskij mette in scena una vera e propria battaglia dell’intelletto, crudele ed estenuante, e trasforma il bambino in un’inquietante figura astratta. L’epifania finale, che vede Svyato comprendere e riconoscere l’identità del sé riflesso nello specchio, appare come un miracolo così grandioso da spingere lo spettatore ad abbassare gli occhi: è giusto spiare una persona inconsapevole, di due anni appena, in un momento così importante della propria esistenza? Questa spietatezza nel filmare l’intimità degli esseri umani è stata una caratteristica presente in diverse opere viste a Pesaro: lo sguardo dei documentaristi è spietato non perché guarda la realtà con morbosità fine a se stessa, tutt’altro, ma perché la fruga alla ricerca di materiale narrativo, di immagini in grado di rappresentare con chiarezza sintetica meccanismi sociali, comportamenti collettivi e psicolo-
gie private: un approccio mai passivo perché non si tratta di osservare fatti, cose e persone ma di tirar fuori, anche in modo violento, delle storie, senza mai dubitare del diritto di infilare ovunque la propria macchina da presa. In Dikij, Dikij Pljaz. Zar neznych (Tender’s Heat: Wild Wild Beach) Aleksandr Rastorguev filma ferite, animali morti, bambini che piangono, rapporti sessuali, litigate violente, persone ubriache, e non lo fa certo per semplice spirito curioso nei confronti della varietà antropologica che affolla una spiaggia del Mar
Mat (The Mother)
Nero in un giorno d’estate. Una crudezza così profonda serve a Rastorguev per parlare «della struttura del potere, quello dell’uomo sull’animale, dell’adulto sul bambino, del marito sulla moglie o, più in generale, del governo sul resto della popolazione. Un rapporto che in Russia è molto animalesco». Meno estremi ma ugualmente secchi, quando si tratta di entrare nelle vite delle persone, Mirnaja zizn’ (Life in Peace), Mat (The Mother) e Transformator di Antoine Cattin (svizzero di nascita) e Pavel Kostomarov; quest’ultimo è anche direttore della fotografia della Wild Beach di Rastorguev (al terzetto di autori Pesaro ha dedicato un focus speciale) e insieme hanno diretto Ja tebja ljublju (I Love You), dove si lascia che siano gli stessi giovani protagonisti a filmarsi e auto-raccontarsi. Rastorguev, che in questa fase della propria carriera si dice più preso dalle tecniche cinematografiche che dalla narrazione, ne è particolarmente soddisfatto perché «è meglio che l’autore si metta da parte: da nuovi meccanismi possono nascere nuove storie e nuovi modi per raccontarle».
Valentina Alfonsi (1) Barbara Wurm, Il cinema documentario russo. Un tour bio-geografico, «Cinema russo contemporaneo», Marsilio, Venezia 2010, p. 166. Il volume è stato pubblicato nel 2010 proprio in concomitanza con la prima parte della retrospettiva pesarese sul cinema russo. (2) Viktorija Belopol’skaja, Il cinema documentario in Russia: un movimento sul ciglio della strada, op. cit. , pp. 161-162.
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Un altro Bertolucci Nell’ambito dell’Evento Speciale dedicato a Bernardo Bertolucci, oltre ai lungometraggi, la quarantasettesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ha presentato qualche lavoro meno noto del regista parmense, girato per impegno politico o su commissione, di un certo interesse in quanto utile a offrire un’immagine più dettagliata della sua complessa e controversa personalità. Realizzato in occasione delle elezioni al Comune di Roma nella primavera del 1971, La salute è malata è il tipico documentario Unitelefilm, molto professionale anche nella sua ostentata sciatteria “militante” (la fotografia è di Renato Tafuri, il montaggio di Kim Arcalli), che ha come protagonisti gli abitanti della Borgata Gordiani, gli iscritti di una sezione locale del Pci e il personale e i dirigenti dell’Ospedale San Camillo. Il suo pregio consiste soprattutto nell’essere positivamente datato, a testimoniare lo scarto con un presente che sembra porsi a distanza di anni luce e non di soli quattro decenni. Del film esiste anche una versione leggermente più lunga (trentanove anziché trentaquattro minuti), nota col titolo di I poveri muoiono prima, firmata da Kim Arcalli, Bernardo e Giuseppe Bertolucci, Lorenzo Magnolia, Giorgio Pelloni, Domenico Rafele e Marlisa Trombetta. Dello stesso anno, Le lavoranti a domicilio è una sintesi di venticinque minuti, operata da Guido Albonetti nel 2000, di un materiale di circa due ore che raccoglie le testimonianze di un gruppo di magliaie di Carpi, le loro difficoltà a far coesistere il ruolo di lavoratrici e di madri e mogli in assenza di adeguati servizi sociali. Girato da entrambi i fratelli Bertolucci, documenta le fasi di un’animata assemblea sindacale, anche qui con argomentazioni e dialettiche di tempi sideralmente lontani. Una curiosità: sullo sfondo,
dietro le commoventi cotonature d’epoca, spunta il volto inconfondibile dell’amico di famiglia Morando Morandini. Di ben altra articolazione e impegno produttivo La via del petrolio (1967). Come documenta l’entusiasta Giulio Bursi nel suo corposo e brillante saggio (1), il documentario a destinazione televisiva viene commissionato a Bertolucci dall’Eni nell’ambito di una strategia messa a
punto da Enrico Mattei sulle tracce di Adriano Olivetti, convinto che «… la rivoluzione pacifica della globalizzazione per essere tale avrebbe dovuto adattarsi e commisurarsi alla cultura umanistica del Vecchio continente» e che «la grandezza dell’imprenditore si misura non solo negli utili e nei ricavi, ma anche nella capacità di persuadere il mondo che il pensiero umanistico laico e cattolico e la bellezza favoriscono il progresso dell’umanità e dunque formano un antidoto al liberismo selvaggio senza strizzare l’occhio a vecchie e nuove teorie anticapitaliste» (2).
In questa pagina e nella successiva, La via del petrolio
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Il film si compone di tre movimenti. Il primo, «Le origini», documenta il lavoro di perforazione sulle montagne dell’Iran e di estrazione nella piattaforma nel Golfo Persico da parte del personale italiano – prevalentemente emiliano – del quale Bertolucci onora le competenze professionali e registra atteggiamenti e stati d’animo. Il regista gioca qui su una serie di contrapposizioni: il moto quasi perpetuo delle maestranze e la millenaria stasi dell’oggetto della loro ricerca, l’altrove inospitale per paesaggio, clima e relazioni umane in cui gli addetti operano e il ricordo lancinante del verde padano e della famiglia che li attende, la tecnologia d’avanguardia spesa dalle équipes e la secolare arretratezza del Paese mediorientale… Il secondo, «Il viaggio», racconta il tragitto che porta l’oro nero da Suez a Genova, soffermandosi in particolare sulla sospensione del tempo che avvolge il Canale, ritmata dal passaggio delle navi che si materializzano con regolarità ma la cui silenziosa, fantasmatica mole genera ogni volta la stessa meraviglia della finzione di una celebre sequenza di Lawrence d’Arabia. Il terzo, «Attraverso l’Europa», segue l’oleodotto che da Genova porta a Ingolstadt introducendo un personaggio – il curioso giornalista argentino Mario Trejo – come io narrante, che sposta parzialmente la collocazione del film nel campo
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della fiction. Cinema di poesia, cinema epico e come tale solennizzato da uno score che allinea musiche di Vivaldi, Telemann (il primo movimento del «Concerto in re maggiore» sul quale Fabrizio De André aveva da poco cucito le parole della «Canzone dell’amore perduto»), Bach, Schubert e Verdi, ma anche Miles Davis e Gino Paoli, è certo importante nella tumultuosa evoluzione del giovane Bertolucci, come sostiene Bursi citando Aprà e Eisenschitz. Al di là dei suoi limiti, La via del petrolio, insieme a lavori analoghi – di Olmi, ad esempio – pur nella sua peculiarità autoriale, ci si presenta oggi come oggetto-simbolo di un rapporto ormai impensabile tra l’ar-
tista e un committente di lungimiranza quasi mecenatesca. Attraversato dalle stesse nevrosi che caratterizzano il coevo cinema di finzione, tanto d’autore quanto di commedia, al pari di quello ci pare tuttavia leggibile come cartina di tornasole di uno dei periodi più felici della nostra storia nazionale, in cui si avvertiva la sensazione – che ovviamente il tempo avrebbe ben presto smentito – di un Paese destinato a uno sviluppo senza limiti. Parallelamente alla realizzazione della seconda parte di La via del petrolio, Bertolucci gira a Suez Il Canale, un cortometraggio a colori di docici minuti che, recuperando in parte le stesse inquadrature del documentario, ne accentua la dimensione lirica, citando Conrad e Méliès ma soprattutto «Le bateau ivre», del quale la voce fuori campo di Nando Gazzolo recita tre folgoranti versi, fornendo un esempio di quella contaminazione, in qualche modo pasoliniana, con la poesia alta che caratterizza in positivo i primi lavori del regista.
Paolo Vecchi (1) La via del petrolio, in Adriano Aprà (a cura di), «Bernardo Bertolucci – Il cinema e i film», Marsilio, Venezia 2001. (2) Simone Misiani, L’Eni di Mattei e la nascita di una democrazia immaginaria, in Sergio Toffetti (a cura di), «La scoperta dell’altrove», Feltrinelli Real Cinema, Milano 2010 (libretto allegato al dvd del film).
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FESTIVAL Locarno
Un amour de jeunesse
attirano visibilità – anche quando appare chiaro che vorrebbero essere da tutt’altra parte – e che la medesima tensione si può rinfacciare a tutte quelle manifestazioni costrette a giostrarsi tra ambizioni e necessità. Del resto, l’impressione è che Locarno riesca, nonostante tutto, a trovare un suo equilibrio e una sua unità complessiva. Non tanto nella selezione, nella quale rinuncerei onestamente a cercare un filo conduttore – come pure è stato tentato da qualcuno. Piuttosto, credo che a segnare la coerenza della manifestazione sia piuttosto la dimensione sociale: il cosmopolitismo diffuso, l’eclettismo dei gusti, una certa idea di cinefilia sul campo, lontana da lustrini e paillettes. Sul programma, invece, le impressioni sono più variegate. Il Pardo d’oro della sessantaquattresima edi-
zione è andato a Abrir puertas y ventanas, primo lungometraggio della regista italo-argentina Milagros Mumenthaler. Il film – la storia di tre sorelle rimaste orfane, ritratte nei loro rapporti quotidiani all’interno di spazi domestici – mette a frutto uno spunto narrativo decisamente esile attraverso una regia delicata, capace di orchestrare gli spazi e penetrare la sostanza dei rapporti umani senza appesantire la trama del discorso. Ne esce una pellicola fresca e gradevole, a tratti divertente, a tratti un po’ stucchevole, comunque un buon primo lungometraggio. Buono, ma niente di più: tanto che la scelta dei giurati risulta, alla fin fine, un poco enigmatica. Soprattutto perché il concorso internazionale di quest’anno non mancava di titoli di grande caratura. A partire da Un amour de jeu-
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Ogni festival di cinema – ha dichiarato Jean-Michel Frodon – costruisce la propria idea di quello che il cinema, tutto il cinema, dovrebbe essere. C’è in quel condizionale una traccia di pensiero utopico che personalmente trovo irresistibile. Come dire che ogni festival descrive e proietta nel cinema una nuova immagine del mondo. Da questo punto di vista, Locarno rivela una consapevolezza non comune. Quando l’anno passato Olivier Pére prese le redini della direzione artistica, i caratteri chiave del progetto erano tutti già sul tavolo: nelle intenzioni del critico e programmatore francese, responsabile anche della Quinzaine cannense, la manifestazione svizzera doveva diventare il crocevia cosmopolita di un cinema internazionale, giovane, di ricerca. Osservatorio critico, ma anche laboratorio produttivo e distributivo, capace – attraverso il progetto Open Doors – di far incontrare produttori e cineasti da cinematografie emergenti. A un anno di distanza, l’impressione è che Locarno resti una creatura strana. Un organismo ancipite, diviso tra l’ambizione cinefila e la necessità del consumo culturale: da un lato le sale, dall’altro la Piazza Grande. Non a caso, i commenti sulla selezione di quest’anno si sono equamente divisi tra coloro che deprecavano l’invasione dei blockbuster americani (in piazza) e coloro che lamentavano il sovraffollamento di titoli francesi nel concorso internazionale. La tensione – inutile negarlo – esiste e si fa avvertire. Con tutto l’affetto per Mila Kunis, un festival che offre il suo schermo principe a Friends with Benefits va un po’ oltre i limiti dell’ammiccamento al pubblico. Ciò detto, è pur vero che i divi
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Din dragoste cu cele mai bune intentii
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nesse, terzo lungometraggio di Mia Hansen-Løve, per chi scrive uno dei nomi più interessanti nel panorama del nuovo cinema francese. Il film – che pure ha ottenuto il premio speciale della giuria – porta a compimento un trittico nel quale la cineasta si dimostra capace di ripercorre e riattivare i canoni di un certo “modernismo ingenuo” che ha fatto la storia del cinema. La trama – una giovane donna romanticamente divisa tra l’irrazionale persistenza del suo primo amore e la serenità emotiva di una relazione adulta – si sviluppa con una spontaneità e insieme una consapevolezza che sorprendono. Sbaglierò, ma più che a Rohmer – pure espressamente citato dalla regista – mi sembra che in questo titolo si possa cogliere soprattutto il tremito di una visione truffautiana, la lucida leggerezza con cui, alle volte, cinema e vita si intrecciano e si illuminano a vicenda. La messinscena, giocata su un naturalismo più romanzesco che realista, concede ai propri personaggi una dimensione immediamente “letteraria”, questo sì; ma essi non arrivano mai a prenderne a coscienza di fronte allo spettatore: è l’intero testo-film che, in un certo senso, proietta se stesso sullo sfondo delle vicende. Il mon-
taggio, ad esempio, alterna inquadrature lunghe a sequenze più frammentate, con un’intelligenza drammatica che contrappunta la narrazione senza mai invaderne i contorni diegetici. Convince anche il riconoscimento per la miglior regia a Din dragoste cu cele mai bune intentii di Adrian Sitaru, che del resto non teme di esibire il proprio virtuosismo formale. Il film romeno vede il suo giovane protagonista impegnato a prendersi cura della madre malata, con un crescendo di ingerenze e idiosincra-
L’estate di Giacomo
sie che sfocia presto nel grottesco. Sitaru orchestra una raffinata cortina di soggettive e pianisequenza, dietro alla quale si intravedono sottotesti legati al contesto nazionale romeno e al passaggio generazionale in atto nel Paese. Soprende l’assenza completa dal palmarès di titoli dichiaratamente ambiziosi, come Low Life o The Loneliest Planet. Il primo, firmato dai francesi Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz, si propone come un affresco post-bressoniano della nuova meglio gioventù francese, divisa tra attivismo sans-papier e un wertherismo a tratti stucchevole. Il film punta in alto, è sicuramente sincero, e in alcune sequenze raggiunge esiti lirici notevoli, ma il côté cerebrale dei dialoghi alla lunga non regge: il sospetto dell’ingenuità colpevole si insinua, e l’intera operazione finisce con lo scricchiolare sotto il suo stesso peso. The Loneliest Planet, della videoartista russo-americana Julia Loktev, si è rivelata una piacevole sorpresa. Il film si colloca in quel filone contemporaneo che punta a rivalutare l’utilizzo drammatico del tempo – un filone in verità piuttosto variegato, che comprende maestri come Bèla Tarr e “nuovi autori” come Lisandro Alonso. Il racconto segue l’escursione di una giovane coppia di turisti americani e della loro guida sulle montagne della Georgia.
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Attraverso tempi dilatati e un sottile gioco di strappi narrativi, il film si destreggia con efficacia su due livelli: l’analisi del rapporto di coppia da un lato, e la denuncia dell’ottusità culturale propria di certo turismo (occidentale) dall’altro. Riscontri controversi sono stati riservati all’unico film italiano in concorso, Sette opere di misericordia dei fratelli Massimiliano e Gianluca Serio. Ambientato nella periferia torinese e incentrato sull’incontro di due personaggio programmaticamente marginali – un’emigrante moldava in cerca di riscatto e un anziano malato che sopravvive di piccoli traffici – il film dimostra una formidabile consapevolezza stilistica nei due autori, già apprezzati per le loro prove documentarie e per gli esiti raggiunti nel campo della videoarte. La messinscena dei corpi e del loro linguaggio “presociale” serve qui a sollevare il film dall’orizzonte della denuncia, per fargli pren-
dere piuttosto la strada della parabola, dell’allegoria morale: non a caso, il richiamo del titolo è all’omonimo e simbolicamente densissimo quadro del Caravaggio. Una svolta “spirituale” che tuttavia riesce solo a metà, o che comunque lascia irrisolti più nodi di quante vorrebbe risolvere: spunti, questi, approfonditi nell’intervista in questo numero. Al di fuori del concorso ufficiale, che in ogni caso ha riservato anche alcune delusioni – su tutte, Dernière Séance e l’imbarazzante Tanathur – restano alcuni titoli sparsi da segnalare. A cominciare dagli altri italiani: Andrea Comodin ottiene il primo premio nella sezione Cineasti del presente con L’estate di Giacomo, un delicatissimo bozzetto lirico che cattura due pomeriggi estivi di un ragazzo sordo sulla riva del Tagliamento. Luca Mosso e Bruno Oliviero coordinano invece 55,1, coraggioso esperiemento di documentario collettivo realizzato nella
settimana che ha visto Milano prepararsi al secondo e definitivo turno delle recenti elezioni amministrative. Il risultato paga in parte la molteplicità degli sguardi e la volontà di non inserire un punto di vista forte sul materiale raccolto, ma resta coerente coi suoi presupposti e resta una testimonianza importante della vitalità del cinema indipendente milanese. Conferma infine il suo talento Nicholas Winding Refn, alla sua prima prova hollywoodiana con Drive, noir urbano di rara potenza visiva. Il regista danese si dimostra capace di mescolare efficacemente l’omaggio al genere, una vena di sincera tensione morale e una rigorosa estetica della violenza. Un’abilità, questa di bilanciare urgenze e filoni diversi, che in fondo potremmo allargare a cifra dell’intero festival: il cinema di domani, comunque sia, passa da qui.
Pasquale Cicchetti
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Sette opere di misericordia
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Il Cinema Ritrovato
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Barnet, Ford, Hawks, Murnau
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Che bella settimana, questa del XXV Cinema Ritrovato. Il festival bolognese cresce ogni anno, il pubblico aumenta, i film svariano dai primi anni del cinema all’epoca classica, ai Sessanta e Settanta, fino a The Artist, film sonoro ma non parlato, appena presentato a Cannes. Una quantità di film ritrovati, restaurati, riscoperti, riproposti. Al Cinema Ritrovato si va passeggiando di sezione in sezione. Se un film di Hawks lo si ricorda piuttosto bene, meglio allora vedersi un Wellman di cui si è solo sentito parlare come The President Vanishes, thriller fantapolitico, del 1934, in cui scoppia la guerra in Europa (come succederà di lì a pochi anni) e il presidente degli Stati Uniti scompare, forse rapito, mentre il congresso sta decidendo la mobilitazione sotto la spinta di un manipolo di affaristi che, per sobillare la popolazione, hanno anche foraggiato un’organizzazione parafascista, le Camicie Grigie. La scomparsa del Presidente, decisamente rooseveltiano, blocca le manovre dei feroci capitalisti, fa cambiare opinione ai cittadini, smaschera i fanatici: poi si scopre che il Presidente è stato lui stesso ad autosequestrarsi proprio per respingere ogni tentativo antidemocratico. Bello il rapporto tra l’avida brutalità degli uomini d’affari e la semplice quotidianità della vita del Presidente con i suoi pochi amici. Questo di Wellman è strettamente collegato a un altro film, uscito un anno prima, Gabriel over the White House di Gregory La Cava, fantapolitico melodramma sovrannaturale con un Presidente (Walter Huston) quasi socialista che dopo un incidente d’auto ritorna in vita per miracolo, conserva misteriosi contatti con l’aldilà (l’arcangelo Gabriele veglia sulla Casa Bianca?), si trasforma in una specie di dittatore, sconfigge i gangster, licenzia i ministri e tutto il Congresso, dà lavoro ai disoccupati… Parabola swiftia-
na? Apologo radicale? Rappresentazione ironica di una forma di governo dittatorial-populista a fin di bene? Definizioni tutte buone per il vivace film di La Cava. Di Boris Barnet abbiamo rivisto i capolavori sempre freschi e attraenti, La ragazza con la cappelliera (1927), La casa sulla Trubnaja (1928), Okraina (Sobborghi, 1933), Vicino al mare più azzurro (1935), e scoperto altre meraviglie. Barnet ha il dono della grazia e della naturalezza, di una dolcezza inguaribile e di una pervicace naïveté, anche nei film più duri, quelli di guerra. Appena può privilegia la deviazione e la sosta, piuttosto che non il racconto vero e proprio che procede felicemente zoppicando e scartando di lato (Jean-François Lyotard sosteneva che si dovesse boiter, zoppicare, per conoscere un po’ il mondo). Così, in Un bravo ragazzo/Quelli di Novgorod (1942), girato durante la guerra con una sceneggiatura appena abbozzata, poi sovieticamente “perduto”’ e rimasto inedito fino al 1992, Barnet può sbizzarrirsi in una paradossale “commedia bellica”, con gag e duetti canori tra un pilota francese e una ragazza La macchina ammazzacattivi
partigiana, con un tenore patriota e girovago che va cantando arie del «Principe Igor» di Borodin, con una comunità di ribelli che vive nei boschi in una fraterna utopia comunista contro la voragine della guerra. E in Alënka (1961), Barnet può di nuovo dimenticarsi di ogni obbligo ideologico e narrativo per lasciarsi andare agli incontri tra un gruppo di persone – la bambina Alënka, una giovane dentista, qualche adulto, anche Vasilij Suksin, ancora attore, poco prima di diventare regista – che si spostano su un camion per centinaia di chilometri nel vuoto della steppa. L’inquadratura finale con Alënka che mangia un gelato insieme a un suo amichetto è memorabile (e un altro gelato se lo tengono per dopo). Anche nel sognante Vicino al mare più azzurro, Barnet lascia perdere ogni parvenza di racconto e si ferma a guardare (per questo il film è stato molto amato dai registi della Nouvelle Vague e Henri Langlois lo proiettava periodicamente alla Cinémathéque). Nel film, c’è uno dei più bei momenti di cinema che ci siano mai stati regalati. Il filo della collana di Marija si spezza e le perle cadono a terra tintinnando come fossero campanellini. Beh, al Cinema ritrovato può capitare che la stessa situazione, con perle più borghesi sparse sul pavimento, ricompaia da un’altra parte: in Paid to Love (Passione di principe, 1927) di Howard Hawks, film allegro
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e movimentato, dall’ambientazione lubitschiana in un immaginario regno mediterraneo di San Savona, con George O’Brien, principe ereditario, Michael Powell, lascivo cugino del principe, e Virginia Valli, ballerina apache. Tra i tanti altri Hawks, Tiger Shark (Tigri del Pacifico, 1932) ci è sembrato ben superiore a quanto ne vien detto di solito, melodramma marinaro tra pescatori californiani di San Diego, di origine portoghese!, uno anche italiano!, con al centro un maturo Edward G. Robinson, parruccona riccioluta e uncino (mano mangiata via da squalo). Nel film c’è una lunga sequenza documentaristica di pesca del tonno con lenza e amo, senza neppure l’esca: viene subito in mente, per questo uso del documentario dentro la finzione, la grande scena della mattanza dei tonni in Stromboli di Rossellini. Le due sequenze, neorealistiche, ce le siamo proiettate in parallelo nella nostra testa: quella di Stromboli è corale, sociale, comunitaria; quella hawksiana è molto americana e individualista (al massimo i pescatori si mettono in due, unendo le lenze, per tirar su i tonni più grossi). A proposito di Rossellini, abbiamo visto il raro La macchina ammazzacattivi (1951), film attualissimo sull’Italia sempiterna della corruzione, degli intrighi, beghe, ricatti, politica e affari; così come sono ugualmente attuali Anni difficili, Processo alla città, Anni facili, Gli anni ruggenti di Luigi Zampa, anch’egli ritrattista di una minuscola italietta che scivola senza soluzione di continuità dal fascismo alla repubblica, eternamente corrotta, eternamente immodificabile. Torniamo a Hawks per segnalare, tra i film meno rinomati, Fazil (L’oasi dell’amore, 1928), melodramma esotico con un bronzeo principe arabo (Charles Farrell) che preferisce senz’altro cammelli e cavalli a ogni donna fino a quando non incontra una pallida parigina (Greta Nissen) della quale si innamora alla follia, complice una notte veneziana, con gondola e gondoliere zingaresco che canta in inglese «Oh Nights of Splendor» (da cui discende sorprendentemente «Romagna mia»). Ma la vita nel deserto non fa per lei, lui mette su un
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Upstream
harem e il finale non può non essere fatale per entrambi. Film artificiale, film zeppo di stereotipi e proprio per questo grande film: per come Hawks sa trarne un’avventura romantica tra «tragedia greca e fotoromanzo esotico per sartine […]. Per Hawks non esiste un soggetto così ingrato che non si possa arricchire e trasformare dall’interno» (Jacques Lourcelles). Due film bellissimi. Upstream (Controcorrente, 1927, 61’) di John Ford, ritrovato nel 2009 negli archivi neozelandesi, è una tenera commedia ambientata in una pensione per gente di spettacolo, a New York. Ford dedica la prima metà del film alla descrizione degli ospiti, tutti spiantati, un lanciatore di coltelli, la ragazza bersaglio, un attor giovane molto gigione. Il primo ama la seconda che ama il terzo che viene sorprendentemente chiamato a Londra per recitare Amleto e ancor più sorprendentemente ottiene un notevole successo. Torna a New York e i primi due si sono appena sposati. Tutta qui la trama. Ford è maestro nell’introdurre dettagli (un teschio di Yorick usato come portastuzzicadenti), schizzi, figurine, scherzi, passione per l’arte della recitazione. Secondo film fenomenale: Der Gang in die Nacht (Il cammino nella notte, 1922) di Friedrich Wilhelm Murnau. Louis Delluc scrisse all’epoca che «tutto in questo lungo film è
intelligente», vi trovava «turbamento, ebbrezza nervosa, semifollia». Un medico preso dalle sue ricerche. La donna che lui trascura. L’altra donna, una ballerina. Il dottore si mette con la ballerina, vivono vicino a un mare oscuro e tempestoso. Un uomo (Conrad Veidt, stupefacente) scende da una barca come in trance, come un fantasma: fa il pittore ed è cieco.Tra i quattro personaggi, con la quinta, sesta, settima presenza di mare, cielo, vento, inizia un folle girotondo di passioni, dolore, perdita di sé. Murnau non si cura di nulla, non della progressione dei fatti, non della verosimiglianza: ci lascia senza fiato, corre con ostinazione verso il baratro con i personaggi travolti da se stessi. Premiati i migliori dvd mondiali. Giuria: Lorenzo Codelli, Alexander Horwath, Mark McElhatten, Paolo Mereghetti, Jonathan Rosenbaum e Peter Von Bagh. Ne citiamo due. Miglior dvd, quello edito dalla Filmoteca de Catalunya con trentuno titoli (1903–1912) del grande fantasista Segundo de Chomón. Migliori extra in The Night of the Hunter della Criterion: otto ore di materiali sulle riprese del capolavoro di Charles Laughton (grande esultanza!). Tutti gli altri premiati si trovano sul sito della Cineteca di Bologna.
Bruno Fornara
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Festival International du Film de La Rochelle Sta per raggiungere l’ambito traguardo dei quarant’anni, questo ricco e imprevedibile festival racchiuso nella splendida cittadina di La Rochelle in Francia, che per dieci intensi giorni si anima attorno al vecchio porto, dove ben quattordici sale propongono ininterrottamente circa duecentocinquanta0 film. La Rochelle è – fin dalla sua nascita nel 1973 – caratterizzato dal fatto di non essere un festival competitivo. Attento alla riscoperta del passato, quest’anno il Festival ha proposto la retrospettiva completa dei dodici lungometraggi (più sedici corti) di Buster Keaton, accompagnati al piano da un ispitato Jacques Cambra, pianista, compositore e improvvisatore francese. Il genio di Keaton ha accompagnato tutte le giornate del Festival, con la
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Lawrence d’Arabia
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sua commedia irresistibile fatta di travolgente sensibilità, intelligenza frizzante e irriverente e un profondo senso di bellezza. L’altra retrospettiva è stata dedicata a David Lean, un nome celebre e familiare, anche se il suo lavoro spesso non è stato valutato in modo imparziale e corretto. In Francia è stato il bersaglio di una diffidenza, a tratti addirittura ostilità, rivolta genericamente al cinema inglese. Regista troppo commerciale per essere un vero artista, non abbastanza intellettuale e troppo inglese per far breccia nel pubblico e nella critica francese. Ma in Gran Bretagna i primi film sono bene accolti e l’enorme successo commerciale dei suoi ultimi film – Il ponte sul fiume Kwai, Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago, La figlia di Ryan e Passaggio in
India – lo consacra in tutto il mondo. Regista innovativo e ostinato, descritto come ossessivo e perfezionista, si immerge anima e corpo in ogni set. I film del periodo inglese (1942-1954) mostrano una modernità che merita una rivalutazione e la sua carriera internazionale (1955-1984) ci ha regalato affreschi di grandi dimensioni per un meraviglioso intrattenimento. Il Festival è da sempre un’attenta vetrina sull’oggi e dedica ampio spazio a noti registi, attori, compositori, sceneggiatori che raggiungono La Rochelle per incontrare il pubblico e la stampa. Uno degli omaggi è stato dedicato a Bertrand Bonello, giovane regista francese, trasgressivo e innovativo. Bonello ha una formazione inconsueta, che trae origine nella musica classica, e ciò traspa-
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re continuamente dai suoi lavori. Ormai affermato “autore”, grazie anche al successo ottenuto nei maggiori festival, Bonello ha vinto il premio FIPRESCI al Festival di Cannes nel 2001 con Le pornographe ed è stato selezionato sempre in concorso a Cannes con Tiresia (2003) e L’Apollonide (2011). Bertrand Bonello sarà in residenza nel distretto di Mireuil nel 2011 e 2012, dove realizzerà un lungometraggio che sarà proiettato il prossimo anno. Altro omaggio è stato riservato a un grandissimo artista, sceneggiatore, traduttore, poeta, saggista, giornalista, cantautore e anche attore: Jean-Claude Carrière. Ha lavorato con Pierre Étaix, JeanPaul Rappeneau, Luis Buñuel – con cui condivide uno spirito surrealista lucido, tagliente e geniale – Marco Ferreri, Giuseppe Bertolucci, Louis Malle, Jean-Luc Godard, Jesús Franco, Volker Schlöndorff e Andrzej Wajda. Il Festival gli ha dedicato anche una mostra (la prima mai realizzata) alla Mediateca “Michel Crépeau” dal titolo “Jean-Claude Carrière, un hétéroculturel à La Rochelle”, un vero e proprio viaggio attraverso i film da lui scritti, i suoi manoscritti, i suoi disegni, poster e fotografie dei suoi viaggi – in particolare in Messico e India – e dei suoi incontri con più grandi artisti del XX secolo. Anche Denis Côté ha raggiunto La Rochelle: cinefilo, critico cinematografico, fin dal suo primo lungometraggio, Les états nordiques (2005), Côté è diventato uno dei registi canadesi più celebrati a livello internazionale. Nel corso degli anni ha raccolto numerosi riconoscimenti internazionali: Pardo d’oro a Locarno nel concorso video per il suo film d’esordio; miglior regia a Locarno per il suo terzo lungometraggio Elle veut le chaos (2008); Carcasses è stato invece presentato a Cannes, mentre Curling ha nuovamente vinto il premio per la miglior regia a Locarno. Il tratto di Côté si rifà a un’estetica minimalista, con pochi personaggi e l’uso della camera digitale in luo-
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L’alliance
Ma vache et moi
ghi remoti e solitari, che rimandano alle sua terra d’origine. Poi l’omaggio a Mahamat-Saleh Haroun, regista dal Ciad trapiantato in Francia dal 1982, molto conosciuto e apprezzato nella sua terra adottiva. Il suo primo lungometraggio Bye Bye Africa è del 1999 ed è stato premiato a Venezia come migliore opera prima; il suo secondo lungometraggio Abouna (2002) è stato presentato al Festival di Cannes, mentre il terzo Daratt (2006) ha vinto il Gran Premio Speciale della Giuria alla 63a Mostra di Venezia. Nel 2010 Un homme qui crie ha vinto il Pre-
mio della Giuria al Festival di Cannes, rendendo Haroun il primo regista del Ciad a vincere un premio a Cannes. Il festival si è poi concluso con l’immancabile “Notte bianca”, una maratona notturna (film fino alle 7 di mattina!) dai toni horror-vintage: Dracula il vampiro di Terence Fisher (1957), Il diabolico dottore Satana di Jesús Franco (1961), Revolver di Sergio Sollima (1973), L’éternité pour nous di José Bénazéraf (1963) e infine E Dio disse a Caino di Anthony Dawson (1970).
Chiara Boffelli
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DVD IO SONO CON TE (2010) di Guido Chiesa 20th Century Fox Home Entertainment, 2011 - € 17,90
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«La storia della ragazza che ha cambiato il mondo»: nel sottotitolo del film è contenuta tutta intera la chiave di lettura della vicenda che vi è narrata. Io sono con te narra la storia di una ragazza, Maria, che diventa madre di un bambino, a prima vista misterioso ma in fondo come lo sono tutti i bambini nel momento in cui vengono al mondo. Una ragazza che, però, non ci è data quale mero veicolo di un venire alla vita, ma come vita essa stessa. Prima di generarla. È dunque persona: esistenza senziente, pensante e – ça va sans dire – generata e allevata a sua volta. Di lei conosciamo la madre e comprendiamo che tra quest’ultima e la figlia corre una continuità, un’alleanza altrettanto importante di quella che si stabilirà poi fra Maria e Gesù. Le figure maschili non mancano in questa storia, ma il filo rosso che la percorre è tutto al femminile (e comprende anche la cugina di Maria, Elisabetta): gli uomini sono (quasi) tutti rappresentanti del potere o a esso contigui, consenzienti. Anche coloro che in un soprassalto di saggezza riescono all’ultimo momento a sottrarvisi – senza però poter fare nulla (né, in fondo, si pongono il problema) contro i suoi disumani colpi di coda. Soltanto due maschi adulti sono diversi dagli altri: Giuseppe, che dapprima a fatica comprende Maria, ma che da lei poi saprà apprendere, e il disgrazia-
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to emarginato a cui vanno le attenzioni prima della madre e poi del figlio, contrapposte al tabù che la comunità, utilizzando ogni pretesto, ha eretto contro di lui per escluderlo da sé. Una comunità che ha fatto della norma stabilita dai Padri la propria “legge di Natura”. Che ha nell’uso e nella formalizzazione della violenza la sua chiave di volta, il segreto della propria autoconservazione: violenza degli uomini sulle donne, degli “eletti” sui “reietti”, degli adulti sui neonati, dei genitori sui figli, del genere umano sugli animali. E di Dio sul genere umano medesimo, se è vero che tutto ciò avviene ammantato innanzitutto dal credo religioso. Ma a questa Legge si contrappone inopinatamente (insopportabilmente, per qualcuno) Maria “piena di Grazia”, che confrontata a tale violenza espressa in qualsivoglia forma ne prova orrore, la trova intollerabile, non in quanto tale, ma perché esercitata dietro il paravento del “diritto” o del “dovere” (uno dei casi in cui due antonimi sanno fare comunella per reciproco interesse). Maria “piena di Grazia”, che saprà allevare un figlio capace di muoversi entro un orizzonte totalmente diverso da quello di quanti vivono la loro imperfezione agitati da un senso di colpa esorcizzabile soltanto nell’ubbidienza cieca. Natura e Grazia. E una madre che agisce fungendo da tramite per trasfigurare la prima nella seconda e viceversa. Immagino che ci sarà chi se ne meraviglierà, ma ritrovo qualcosa di The Tree of Life nell’approccio “scandaloso” di Guido Chiesa a questa storia che riguarda così da vicino la civiltà di cui siamo parte. Inutile dire che la circolazione in sala di Io sono con te è stata a dir poco contrastata da una censura di mercato meschina quanto implacabile. Un’operazione produttiva troppo fuori dai canoni: per il soggetto, per il suo trattamento, per le scelte relative agli interpreti, per l’ambientazione e le modalità della messa in scena. Tutto questo ha fatto sì che il film sia stato proiettato in modo quasi clandestino, ricevendo attenzioni tutto sommato generalmente di superficie e convenzionali, sia nel merito dei contenuti (di fatto una serie di pro e contro, peraltro rispetto ad affermazioni contenute nel press-book) sia rispetto al suo andamento narrativo o al coraggioso rimescolamento di interpreti (attori e non-attori tunisini, ai quali si accompagnano poche presenze europee). All’oggettivo divieto di visione in sala pubblica così ottenuto si può porre rimedio grazie al dvd ora sul mercato, disponibile dallo scorso giugno.
Adriano Piccardi
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FALSTAFF (CHIMES AT MIDNIGHT/CAMPANADAS A MEDIANOCHE, 1966) di Orson Welles Cecchi Gori Home Video, 2011 - € 14,99 Non si può che essere contenti per l’uscita in dvd di un film ormai invisibile da quarantacinque anni, realizzato in condizioni infelici da un sempre grande e geniale Orson Welles, girato in economia, ma non per questo un film minore; anzi, una messa in scena di straordinario impatto emotivo, che traduce in maniera tra il giocoso, il drammatico e il tragico, la teatralità dei testi shakespeariani scelti e montati con insinuante ed esaltante tecnica tutta cinematografica. La storia, in realtà, sta tutta nel ritratto di sir John Falstaff, interpretato dallo stesso Welles, un’esistenza “ridondante” ricostruita ricorrendo a brani di Riccardo II, Enrico IV prima e seconda parte, Le allegre comari di Windsor ed Enrico V. Welles dà al personaggio la sua corporatura imponente e traballante, di tanto in tanto paradossalmente agile, e il suo volto dallo sguardo penetrante e sornione, vivace di vino e di una vita godereccia e senza freni. Falstaff è giovane e vecchio insieme, è rozzo e raffinato, è inesauribile e spossato, è provocatorio e sottomesso, è allegro e malinconico, è sfrontato e pauroso, è goffo e veloce a nascondersi, è invadente e pusillanime. Tutti lo deridono, lo insultano, lo stuzzicano e lui risponde con l’arguzia, l’offesa, la trivialità, lo sberleffo, la sfrontatezza a ritmo di danza. Falstaff non ha padroni, non ha misura, dorme mangia beve e fa i suoi bisogni quando ne ha voglia, di giorno e di notte; il solo padrone che riconosce è il proprio corpo, una macchina di eccessi e di desideri tanto impellenti quanto inesauribili. Falstaff non conosce il tempo regolato, anzi lo sfugge e lo disprezza; è irruente nell’urgenza che vuole soddisfazione subito senza ripensamenti, è provocatorio nello sferzare l’esitazione altrui, è insofferente del limite, sia esso l’ostacolo della reticenza o il fastidio all’incontinenza. Falstaff è la menzogna, l’inganno, la mancanza di pudore: è capace di negare l’evidenza, di contraddire ciò che ha appena detto, di truccare le carte, con la disinvoltura di un bambino. I suoi racconti sono del tutto falsi e cambiano a ogni versione, anche in risposta a interrogazioni immediatamente successive, con moltiplicazioni e travisamenti sfrontati e incredibili. Ma Falstaff è la vitalità e la spensieratezza, è la libertà e l’incoscienza, è la sagacia e l’arguzia. E, inoltre, e per contrasto, egli è un personaggio drammatico, solitario, malinconico; accettato solo provvisoriamente, per la sua irriverenza, per la sua condotta debosciata. L’amicizia nei suoi confronti è necessariamente transitoria, utile per un periodo limitato, prima che la responsabilità sociale richiami chi era finito tra le sue braccia. Il giovane rampollo e principe di Galles, destinato alla corona d’Inghilterra, lo abbando-
nerà al suo destino e alla sua solitudine, ponendo fine, una volta per tutte, all’improbabile sodalizio. Come Orson Welles sia riuscito a realizzare questo film ha dell’incredibile. Pur nella scarsità di mezzi a disposizione, il regista riesce a creare un’opera imponente per l’uso dello spazio scenico, per l’espressione di una tecnica cinematografica che si sostanzia in creazione stilistica e in intensità interpretativa, per il coinvolgimento di attori di bravura mostruosa (come non rimanere incantati, tra tutti e oltre allo stesso Welles, dalla presenza di John Gielgud nei panni di Enrico IV, padre e re di rara sacralità?). E come non dimenticare il Falstaff che nella sequenza memorabile della battaglia ora si nasconde ora scappa, chiuso in un’armatura che lo rende ancora più tondo, più goffo, così umano e instabile, così tragicamente e comicamente incapace di entrare nella storia e nella violenza degli uomini.
Angelo Signorelli
SONO USCITI IN DVD ANCHE: Hereafter di Clint Eastwood Warner Home Video - € 19,90 (Cineforum n.501) Il Grinta di Joel e Ethan Coen Universal Pictures - € 20,90 (Cineforum n. 502) Sorelle Mai di Marco Bellocchio Cecchi Gori Home Video - € 14,99 (Cineforum n.503) Un gelido inverno – Winter’s Bone di Debra Granik Cecchi Gori Home Video - € 14,99 (Cineforum n. 502) The Fighter di David O. Russell Eagle Pictures - € 19,90 (Cineforum n. 502) Il cigno nero di Darren Aronofsky 20th Century Fox Home Entertainment - € 19,99 (Cineforum n. 502)
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DUE PER LA STRADA (TWO FOR THE ROAD, 1967) di Stanley Donen
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20th Century Fox Home Entertainment, 2011 - € 12,90
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Dodici anni, un’estate, ovvero una Guida Michelin per la coppia sposata. Le vacanze, si sa, spesso sono galeotte: nascono amicizie, flirt temporanei ma anche amori per tutta la vita. Sono pure, però, momenti ad alto rischio per le coppie già formate: possono affiorare attriti di cui non si sospettava neanche l’esistenza, e il rischio statistico di divorzio, se non quello di prendersi reciprocamente per il collo, può avere un certo incremento. Per quanto riguarda poi le corna, fatte come ricevute, le occasioni di tentazione non mancano di certo. Sia la prima, che la seconda, che la terza di queste eventualità càpitano tutte, nell’arco di dodici anni, a Joanna e Mark Wallace, una coppia sposata sulla trentina protagonista di Due per la strada. All’inizio del film, li vediamo attraversare in automobile la campagna inglese, diretti all’aeroporto da dove s’imbarcheranno per la Francia. Passando per un villaggio, la corsa è rallentata da un matrimonio. Uno sguardo agli sposi novelli, già seduti nella limousine con delle facce più da funerale che da imminente luna di miele; «Non sembrano molto felici…», osserva Joanna; «Perché dovrebbero? Si sono appena sposati!», risponde seccamente Mark. Il tono sarcastico tra i due continua all’aeroporto, e quindi in volo. Uno sguardo di Joanna dal finestrino dell’aereo ci
sposta su di un ferryboat, sul quale vedremo i due, dodici anni prima, studente di architettura lui, corista lei, iniziare la loro storia d’amore. È qui, fin dall’inizio, che Due per la strada manifesta la sua originalità. Lo sguardo di Joanna dall’aereo, il raccordo sul ferryboat di dodici anni prima potrebbero essere l’attacco di un flashback nel quale viene narrata linearmente l’ennesima storia di una coppia in crisi. E invece no. Da questo preciso momento, Due per la strada diventa un elegante, sbarazzino andirivieni nel tempo (tecnicamente non dissimile, per inciso, da quello del romanzo di Kurt Vonnengut jr. Mattatoio 5, che peraltro è di due anni dopo…). Grossomodo, il percorso geografico che si snoda lungo tutto il film è lineare (dal porto di Dieppe alla Côte d’Azur), ma quello cronologico segue diversi piani temporali senza apparente soluzione di continuità, facendo saltabeccare il signore e la signora Wallace su e giù per sei estati, tra flashback e flashforward intrecciati fra loro. Per cui abbiamo: 1) boy meets girl; 2) giovane architetto di belle speranze e madamin alla loro prima vacanza da sposati; 3) i due, qualche estate dopo, fanno quadriglia con un’insopportabile coppia di petulanti americani con bambina straviziata al seguito; 4) lui, in viaggio da solo, ha un’avventuretta con una sconosciuta; 5) di nuovo insieme, stavolta è lei a cedere alle lusinghe di un ganimede francese; 6) la coppia, stavolta, sembra davvero in crisi, ma… Stanley Donen – un regista che danza, anche quando fa thriller come Sciarada (Charade, 1963) o racconti di fantascienza come Saturno 3 (Saturn 3, 1980) – è qui un maestro nel saper tenere insieme e rendere fluidi tali passaggi, utilizzando come raccordi luoghi, situazioni, incidenti analoghi ma accaduti in occasioni diverse, e (cosa non da poco e apprezzabilissima da parte dello spettatore) mantenendo chiari e distinti i vari piani temporali con l’aiuto di dettagli come i modelli delle automobili utilizzate nelle diverse estati o le pettinature sfoggiate nel tempo da Audrey Hepburn (la quale, a trentasette anni, dà vita magistralmente a sei diverse fasi della vita di una donna, riuscendo a essere credibilissima sia come diciottenne col cerchietto nei capelli che come parodia della borghese annoiata di stampo antonioniano: con la maturità, la Hepburn stava perfezionando e portando a vette sublimi un già altissimo livello di professionalità e di fascino, e i suoi celeberrimi occhi da cerbiatta, in alcuni punti del film, scoccano sguardi quasi felini…). Alla fine di questo viaggio sentimentale, un po’ screwball comedy un po’ commedia del rimatrimonio, è Joanna ad avere l’ultima parola. Alla frontiera tra Francia e Italia Mark, che è sempre stato un distratto, non trova più il passaporto. Mentre lui mette sottosopra l’automobile, lei glielo trova e lo posa sul volante, ripetendo una gag già apparsa nel corso del film. «Bitch», le dice lui; «Bastard», risponde lei (nel doppiaggio italiano, diventano i più blandi “strega” e “salame”). Un po’ come il «Fuck» finale di Eyes Wide Shut (id., 1999, sceneggiato, come Due per la strada, da Frederic Raphael). Ma se la coppia kubrickiana sembrava appena scesa dalla zattera della Medusa, Mark – un Albert Finney guascone e finto burbero – e Joanna pronunciano le loro battute con un tono affettuosamente divertito: se si ha il giusto senso dell’umorismo, a volte le vacanze possono anche servire a rimettere bene in sesto un matrimonio in crisi.
Arturo Invernici
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LE LUNE DEL CINEMA
A CURA DI NUCCIO LODATO
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Esce Giallo/Argento, l’ultimo film del cineasta, realizzato nel 2009, a seguito di una storia produttiva assai travagliata. E Rutger Hauer, 67 anni, al Ricetto di Candelo per il nuovo film dello stesso Argento, Dracula in 3D, si perde, bloccato in auto da un tronco abbattuto. 112: i CC – un appuntato poliglotta! – lo salvano brillantemente.
3 LUGLIO 2011
Muore a Londra a 73 anni Anna Massey, nata a Thakeham l’11 agosto 1937 . Figlia (dell’attore canade-
Cabanne, id.), per culminare nel successo di Voglio essere amata (Gregory La Cava, 1935) e di Una donna qualunque (Elliott Nugent, 1936). Lascia Hollywood qualche anno dopo, per ricomparire sporadicamente nelle tv tra i Cinquanta e gli Ottanta.
5 LUGLIO 2011
Muore a 79 anni dopo lunga malattia a Roma Enrico Manca, natovi il 27 novembre 1931. In Rai dal 1959 e redattore del Giornale Radio dal 1961, diventa poi caporedattore centrale del Telegiornale e direttore dei servizi culturali tv. Deputato PSI dal 1972 al 1994, ministro per il Commercio estero nel secondo governo Cossiga e nel successivo Forlani (1980-81), finisce presidente dell’ente radiotv di Stato dal 1986 al 1992, in piena era craxiana e tuttavia di forzoso scontro frontale con la concorrenza, ormai alla pari, di Mediaset.
6 LUGLIO 2011
Il Tar del Lazio (ricorso della produzione di Le rose del deserto di Monicelli) riscontra un vizio formale nelle modalità di visione dei film e annulla la delibera della commissione ministeriale per i premi di qualità 2006 a dieci opere, con esclusione del titolo ricorrente. Tra i “colpiti”, Amelio (La stella che non c’è), Bellocchio (Il regista di matrimoni), Moretti (Il Caimano), Sorrentino (L’amico di famiglia) e Tornatore (La sconosciuta). I produttori potranno optare per la restituzione di duecentocinquantamila euro a film, o chiedere di giudicarli nuovamente. L’incidente aveva comunque portato di fatto alla cessazione dei premi. «Tutto questo filmare non è salutare»: Anne Massey, con Karlheniz Bohm, in L’occhio che uccide (1960) di Michael Powell.
se Raymond) e sorella d’arte, in teatro dagli esordi ancora in minore età e senza scuola di recitazione, passa al cinema con l’occasionale trasferta inglese di John Ford (24 ore a Scotland Yard, 1958); poi sarà tra l’altro in L’occhio che uccide (Powell e Pressburger, 1960), in Bunny Lake è scomparsa (Preminger, 1965), in Frenzy (Hitchcock, 1972) e in Another Country – La scelta (Kanievska, 1983).
8 LUGLIO 2011
Mentre, dopo Cannes, Il ragazzo con la bicicletta regge splendidamente nelle sale italiane, i Dardenne ricevono,
Si ha notizia della scomparsa, intervenuta nella casa di riposo “Motion Picture” (!!) a Woodland Hills (California) il 26 giugno a 88 anni, di Edith Fellows, nata il 20 maggio 1923. A sei anni comparsa non accreditata in Madame X (Lionel Barrymore, 1929); poi tra le Piccole canaglie di Hal Roach, imbrocca un filotto trionfale nella prima metà degli anni Trenta: Cimarron (Wesley Ruggles, 1931), Huckleberry Finn (Norman Taurog, id.), Papà Gambalunga (Alfred Santell, id.), Fra’ Diavolo (Roach, 1933), La donna nell’ombra (ancora Santell, 1934), Jane Eyre, l’angelo dell’amore (Christy
Metodi educativi vintage: Edith Fellows, con Melvin Douglas e Claudette Colbert, in Voglio essere amata (1935) di Gregory La Cava.
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Chiari, 1962) dove erano risaltati soprattutto l’appeal e la sensualità della danzatrice.
12 LUGLIO 2011
Il tribunale tunisino chiamato a giudicarli concede la libertà provvisoria ai cinque fondamentalisti islamici di ispirazione salafita che il 26 giugno guidarono un nutrito gruppo di seguaci all’assalto della sala dove si proiettava il film Né Dio né padrone della dichiaratamente atea Nadia El Fani, minacciando di morte cineasti e spettatori. Fissato al 27 ottobre il processo. Il fatto aveva conosciuto una coda due giorni dopo, allorchè altri salafiti avevano aggredito gli avvocati che si opponevano a un loro tentativo di assalire il palazzo di giustizia per liberare i cinque imputati. Scarcerati undici dei sedici assalitori, e processo a breve. Il procuratore di Tunisi apre anche un procedimento all’estero contro la stessa regista, saggiamente espatriata per motivi di salute. Frattanto l’attrice Pegah Ahangarani, in partenza per Berlino come corrispondente del sito Deutsche Welle alla coppa del mondo femminile di calcio, viene arrestata all’aeroporto di Teheran. Aspettando che passi il treno: Roberts Blossom, a destra con Lukas Haas e Steven Spielberg, sul set di The Ghost Train (1985), episodio diretto dallo stesso Spielberg per la serie Amazing Stories.
al Teatro Romano di Fiesole, l’antico glorioso premio ai Maestri del Cinema, quarantaseiesima edizione.
8 LUGLIO 2011
13 LUGLIO 2011
Liza Minnelli canta a Umbria Jazz. A festeggiarla Steven Spielberg e Robert De Niro, Francis Ford Coppola e Ron Howard: tutti ospiti di Lucas, nell’ex convento da lui acquistato a Passignano, investendovi dieci milioni. Impallidiscono gli anni della Hollywood sul Tevere: ma almeno lavoravano gli albergatori… In paese geloso
Muore a 87 anni Scott Roberts Blossom, in arte Roberts Blossom, nato a New Haven (Conn.) il 25 marzo 1924. In teatro nel dopoguerra (La ballata del caffè triste della McCullers; Il giardino dei ciliegi allestito da Peter Brook), e caratterista di vaglia in tv dalla fine degli anni Cinquanta e al cinema dal principio dei Settanta, comparendo tra l’altro in Il grande Gatsby (Jack Clayton, 1974), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Steven Spielberg, 1977), Fuga da Alcatraz (Don Siegel, 1979), Christine, la macchina infernale (John Carpenter, 1983), L’ultima tentazione di Cristo (Martin Scorsese, 1988).
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Muore a Ginevra a 87 anni Roland Petit, nato a Villemomble (Parigi) il 13 gennaio 1924. Danzatore e coreografo tra i più rilevanti del secolo scorso, in cui concluse la carriera, attivo a Parigi tra guerra e dopoguerra nell’ambiente artistico di Cocteau, sposa nel 1954 la massima étoile emergente tra i suoi ballerini, Renée Marcelle Jeanmaire detta Zizi, interprete tra l’altro di una memorabile Carmen (1949). La coppia conosce, sull’onda di una popolarità mondiale, un’esperienza hollywoodiana, con film come Il favoloso Andersen (Charles Vidor, 1952) e Quadriglia d’amore (Robert Lewis, 1956), in cui risaltava l’inventiva innovatrice di Petit. Che nel 1972, dopo due ultimi anni all’Opéra di Parigi, passa a Marsiglia per dirigervi il Ballet National fino al ritiro. La coppia aveva anche conosciuto una fortunata stagione tv in Italia (Studio Uno con Walter
Que belle époque, la belle époque: Roland Petit e Cyd Charisse nel film-balletto in quattro episodi 1-2-3-4 ou Les collants noirs (1961) da lui stesso coreografato.
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riserbo a stampa e tv accorse in massa. Come per Clooney sul lago di Como o Sting in Valdarno, viene una gran voglia di ripristinare una rubrica a suo tempo su Cuore (o Tango?): «E chi se ne frega?»…
13 LUGLIO 2011
Allo scadere del primo mese di occupazione del Valle, Jacopo e Lorenzo Quadri, figli dello scomparso critico e editore Franco, donano agli occupanti duecento volumi di Ubulibri, l’editrice specializzata in spettacolo fondata dal padre quarant’anni fa. «Si percepisce, di un’occupazione, un certo carattere di provvisorietà: una biblioteca esprime invece un’idea di permanenza», dichiarano il noto montatore e suo fratello.
patria trentenne e dirige i primi film, tra i quali Stella, cortigiana del Pireo (1955). Raggiunge la notorietà mondiale con il bell’Elettra con Irene Papas (1962) e la celebrità proverbiale col successivo Zorba il greco (1964). Alle trascrizioni tragico-patrie tornerà con Le troiane (1971: c’è anche Katharine Hepburn!) e Ifigenia (1977); a ispirarsi al teatro anche col suo congedo in Il giardino dei ciliegi (1999).
26 LUGLIO 2011
Muore in una casa di riposo ad Alezio (Lecce) a 79 anni il conte Gioacchino Stajano Starace Briganti di Panico, poi Maria Gioacchina, in arte Giò Stajano,
14 LUGLIO 2011
Muore a Monaco a 84 anni Leo Kirch, nato a Volkach (Baviera) il 21 ottobre 1926. Inventore della tv privata in Germania e suo magnate fino al crollo 2002 con sei miliardi di euro di debiti. Associato negli anni Novanta sia a Berlusconi che a Murdoch (che fu probabilmente lui a definire per primo «lo squalo»), la sua fortuna era cominciata con l’incetta, per quattro soldi, di vecchi film americani del dopoguerra che le majors detentrici svendevano, e analoghe intuizioni (ad esempio l’esclusiva germanica di La strada di Fellini, acquisita nel 1956 con venticinquemila marchi prestatigli dalla moglie). Allo zenit della fortuna, a KirchMedia erano collegate ProSieben, Sat1 e Prémiere, l’antenata di Sky Deutschland.
18 LUGLIO 2011
Muore a Ostia (Roma), all’età di 78 anni, Alvise Sapori, nato a Roma il 22 settembre 1932. Alla redazione Spettacoli di Repubblica dalla fondazione ai primi anni Duemila, salvo un breve periodo come responsabile spettacoli dell’«Europeo», si caratterizza soprattutto come grande esperto di musical teatrale e cinematografico, nonché come cultore della Hollywood classica. Tra i suoi libri: Star. Dive, divi, divismo nella Hollywood degli anni ’30 (1984), Star 2 (1985) e, con Simona Argentieri, Freud a Hollywood (1988). [lopedeluna]
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23 LUGLIO 2011
Muore ad Atene a 89 anni Michael Cacoyannis, nato a Limassol (Cipro) l’11 giugno 1922. Dopo studi giuridici ed esperienze radiofoniche in Gran Bretagna, torna in
Pescatori improvvisati, ma volenterosi: Linda Christian e Johnny Weissmuller in Tarzan e le sirene (1948) di Robert Florey.
nato/a a Sannicola di Puglia l’11 dicembre 1931, giornalista pittrice attrice e scrittrice: la prima transessuale dichiarata in Italia, dopo un pionieristico intervento chirurgico negli anni Sessanta, perfezionato a Casablanca vent’anni dopo. Nipote di Achille Starace, allievo dei Gesuiti, poi studente di pittura e architettura, approda a Roma dove frequenta l’ambiente artistico e pubblica alcuni fortunati libri scandalistici (Roma capovolta, Meglio l’uovo oggi, Roma erotica). Si trova quasi con naturalezza a essere considerato/a da Fellini in La dolce vita, ma prende parte anche ad altri film di
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Muore a 87 anni a Palm Springs Blanca Rosa Henrietta Stella Welter Vorhauer, in arte Linda Christian, nata a Tampico (Messico) il 13 novembre 1923. Scoperta da Errol Flynn che la porta ventunenne alla Metro, presto contrapposta all’altra magnificenza latinoamericana Rita Hayworth col nomignolo di “AnAtomic Bomb”, recita con Johnny Weissmuller che sta uscendo di scena in Tarzan e le sirene (Robert Florey, 1948). Lavora ancora con John Guillermin (Il porto del vizio, 1956) e in Italia con Mario Mattoli (Appuntamento a Ischia, 1961) ma anche con Francesco Rosi (Il momento della verità, 1965).
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Lipartiti, Steno, Corbucci, Freda, Risi, Sordi, Di Leo, Castellacci e Pingitore, Mai e Minerba, Garbelli. Negli ultimi anni aspira al convento: dovrà contentarsi di essere una suora laica presso le monache di Betania a Vische (Torino).
29 LUGLIO 2011
Muore a Parigi a 84 anni Claude Laydu, nato a Bruxelles il 10 marzo 1927: l’indimenticabile protagonista del Diario di un curato di campagna (1950) di
5 AGOSTO 2011
Muore a Malibu a 48 anni per arreso cardiaco Francesco Quinn, nato a Roma il 22 marzo 1963. Figlio e fratello d’arte (gli attori Anthony e Danny), aveva debuttato con la regìa di Oliver Stone (Platoon, 1986), ed era apparso in alcune serie tv (The Shield, Il commissario Manara, 24) e in numerosi film di secondaria rilevanza.
6 AGOSTO 2011
Muore a 81 anni nel Gloucestershire John Wood, nato nel Derbyshire il 5 luglio 1930. Attore teatrale di livello e forte comprimario shakespeariano, è comparso in oltre cento titoli su piccolo e grande schermo: tra questi ultimi Scusi, dov’è il fronte? (Jerry Lewis, 1970), Wargames – Giochi di guerra (John Badham, 1983), Ladyhawke (Richard Donner, 1985), Jane Eyre (Franco Zeffirelli, 1995), Riccardo III (Richard Loncraine, 1996) e Chocolat (Lasse Hallström, 2000).
11 AGOSTO 2011
Muore a Tucson a 84 anni Robert Breer, nato a Detroit il 30 settembre 1926, tra i principali esponenti del cosiddetto New American Cinema. Pittore all’origine, comincia a filmare negli anni Cinquanta (le serie Form Phases, 1952-1954 e Images by Images, 1954-1956; A Miracle, 1954; Cats, 1956; A Man and His Dog Out for Air, 1957; Eyewash, 1958…), e prosegue ininterrottamente almeno a tutti i Settanta (66, 69 e 70, nei corrispondenti anni) congedando infine più recentemente Atoz (2000) e What Goes Up (2003). Fondamentale il suo contributo sperimentalista ai flussi mutanti di animazione e alla tecnica “passo uno”, riprendendo disegni fotogramma per fotogramma: i frequentatori di YouTube potranno rapidamente toccarne con occhio la grandezza, ad esempio guardando Recreation (1956), la cui voce francofona è quella del filmologo Noël Burch.
13 AGOSTO 2011
Un tormentato Claude Laydu in Diario di un curato di campagna (1950) di Robert Bresson.
Robert Bresson. Attore teatrale scelto dal maestro come “modello” per quell’esperienza unica e irripetibile, tentò con scarso successo altre strade cinematografiche. Ma dove “tutto è grazia” si può entrare nella storia del cinema con un’unica presenza…
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Muore a 63 anni a a Los Angeles, dove era nata il 5 marzo 1946, Annette Cardona, in arte Annette Charles. Docente di eloquenza alla California University con le sue vere generalità, utilizzate anche nelle prime e ultime prestazioni in cinema e tv, è stata la provocante “Cha Cha” DiGregorio in Grease (Randal Kleiser, 1978). Tra le molte serie tv che l’hanno vista impegnata spicca Bonanza.
Muore a 54 anni in un incidente stradale, nel quale perisceanche il suo collaboratore Mishuk Munier e resta gravemente ferita la moglie Katherine (montatrice nativa di Chicago), il regista bengalese Tareque Massud, nato a Bhanga Upazila (Bangladesh) il 6 dicembre 1956. La sua produzione, spesso sperimentale e documentaristica, ottenne una notorietà internazionale con la presentazione a Cannes di Matir Moina (2002) basato su reminiscenze della sua infanzia.
18 AGOSTO 2011
Muore a 70 anni a Parigi Raul Ruiz, nato a Puerto Mont (Cile) il 25 luglio 1941. Studente di teologia a Santiago, comincia a lavorare in Patria, per poi passare in Argentina e in Messico. Nel 1968 vince a Locarno con la trascrizione di Tre tristi tigri da Cabrera Infante, e sposa la montatrice Valeria Sarmiento. Consigliere di Allende per il cinema su mandato del Partito comunista cileno, deve esulare nel 1973 dopo il colpo di Stato di Pinochet e passa in Francia. Realizza da allora, tra l’altro, Le tre corone del marinaio (1982), La città dei pirati (1983), Tre vite e una sola morte (1996), Genealogia di un crimine (1997), Autopsia di un sogno (1998), Il
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tragica morte di costei), non ultimi i suoi atteggiamenti visceralmente anticomunisti e la facile quanto giustificabile accusa di fascista, razzista, neoschiavista. Dirige ancora il presuntuoso Mondo candido (1975), rivisitazione attualizzata da Voltaire, poi é pressoché il silenzio o – visto da destra – la messa al bando. Personaggio, appunto, da rotocalco di destra, gran seduttore (o, meglio, gran trombatore, come si definiva), lo si può rivedere, nei panni di un avvocato, in Un giorno in pretura (1953, di Steno). [lopedeluna]
18 AGOSTO 2011
In coincidenza con il suo settanquattresimo compleanno, Robert Redford pubblica da Knopf la propria autobiografia, a cura di Michael F. Callan.
18 AGOSTO 2011
Muore improvvisamente a Roma a 81 anni il produttore Ermanno Curti, noto soprattutto per aver realizzato numerose regìe di Fernando di Leo, ma anche di Romolo Guerrieri, Ruggero Deodato, Jacques Demy (Niente di grave suo marito è incinto, 1975) e Adriano Celentano (col quale coprodusse Yuppi Du, 1976). Marito dell’attrice Leonora Ruffo (1936-2007), nel 1952 aveva acquisito lo storico marchio Minerva Film (che apre anche Roma città aperta), da lui trasformato in Minerva International. Nel 1999, coi figli Gianluca e Stefano aveva dato vita a “RaroVideo”: primo dvd proposto, Vynil di Andy Warhol. L’anno successivo Gianluca riunì le aziende di famiglia nella Minerva Picture Group.
tempo ritrovato (1999: con tutta probabilità il più convincente film da Proust a tutt’oggi realizzato), Klimt (2006). Rinvio di chi voglia saperne di più alla raccolta saggistica Ruiz faber (a cura di Edoardo Bruno, minimum fax, 2007).
18 AGOSTO 2011
Muore a Roma, al’età di 91 anni, Gualtiero Jacopetti, nato a Barga (Lucca) il 4 settembre 1919. Giornalista d’assalto, presunto montanelliano (fonda lo scandalistico rotocalco Cronache, 1953), lavora per l’aggressivo cinegiornale Ieri, oggi e domani (1961), collabora al documentario Europa di notte (1958, di Alessandro Blasetti) e di lì prende lo spunto per il suo grande scoop, Mondo cane (1962), alfiere dei cosidetti “mondo movie”, un genere rivalutato dagli stracult e all’estero che lui stesso alimenta, con varianti da fiction e la collaborazione di Franco Prosperi e Paolo Cavara: Mondo cane 2 (1963), La donna nel mondo (1963), Africa addio (1966), Addio zio Tom (1971). Un mix, sempre sensazionalistico, di riprese dal vero e riprese ricostruite, anche con mezzi non sempre limpidi, che riscuote un gran successo presso un pubblico represso che non desidera altro. Sul suo film il giudizio critico non riesce a disgiungersi dalle cronache private (il matrimonio con una zingarella minorenne dopo un presunto stupro, l’amore per Belinda Lee, il tunnel della droga dopo la
19 AGOSTO 2011
Muore a Londra a 83 anni James Henry Kinmel Sangster, in arte Jimmy Sangster, nato a Kimnel Bay (Galles) il 2 dicembre 1927. Dapprima aiuto regista, poi sceneggiatore ( L’astronave atomica del dr. Quatermass , di Val Guest, 1956) principe della Hammer Film di Hinds e Carreras, in coppia di ferro con Terence Fisher alla regìa, si dedicò già nell’immediato dopoguerra alla trascrizione a colori dei classici horror hollywoodiani del muto, «creando film realisti, attenti al sociale, fedeli alle fonti originali, con personaggi scavati psicologicamente (e con che attori! Peter Cushing e Christopher Lee)» (Roberto Silvestri). Per poi approdare a Hollywood, collaborandovi con John Huston e soprattutto con Curtis Harrington (Chi giace nella culla della zia Ruth?, 1972) e scrivendo innumerevoli telefilm. Autobiografia: Do You Want It Good or Tuesday? (1997).
20 AGOSTO 2011
Il quotidiano madrileno «El Pais» pubblica la sintesi delle ricerche di uno storico catalano, Josep Caparros, che si è occupato delle proiezioni private che Francisco Franco si faceva allestire nella sua residenza privata del Pardo. La parte del leone era abitualmente svolta dalle puntate del «Notiziario spagnolo» o dall’anticipo degli spezzoni che in esse sarebbero state dedicate alla famiglia del Caudillo. Tre quarti delle millecinquecento pellicole registrate per l’apparizione su quello schermo erano hollywoodiane, assai spesso solo commerciali.
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Altro genere di tormenti per Marcello Mastroianni, qui con Anna Galiena, in Tre vite, una sola morte (1996) di Raoul Ruiz.
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tra i numerosi altri, Africa chiama (1961), Diario di bordo e Noi siamo l’Africa (1966, con Piero Nelli), Sabato domenica lunedì (1968), La “follìa” di Zavattini (1981), Memoria presente (1983), Analisi del lavoro (1981?), Roma occupata (1984). Condivide con Cesare Zavattini l’avventura del Cinegiornale della pace (1963) ed è tra i registi dello zavattiniano I misteri di Roma (1963), lasciandoci tre importanti lungometraggi, diversissimi tra loro ma accomunati dalla dialettica razionale e dal sapiente uso del linguaggio: Sierra Maestra (1969), Non ho tempo (1972), Remake (1987). Alla fine degli anni Settanta fonda con Zavattini (primo presidente), Riccardo Napolitano e altri l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che anima fino alla fine. Dal 1996 al 1999 insegna documentario e teoria e tecnica del linguaggio cinematografico al DAMS di Bologna. Ciao, Ansano. [lopedeluna]
26 AGOSTO 2011
Esce Student Services di Emmanuelle Bercot, dal romanzo autobiografico Mes chères études di Laura D., sulla prostituzione occasionale delle studentesse. Con divieto ai minori di diciotto anni. In Francia, tv in prima serata senza limitazioni. Accade così che alcune minorenni, se pure interessate in modo diretto al problema, non potranno… vedersi. Non c’è come un’autentica tata inglese…: una a suo modo amorevole Bette Davis, riflessa nello specchio, con il piccolo William Dix in Nanny la governante (1965) di Seth Holt, sceneggiatura di Jimmy Sangster.
20 AGOSTO 2011
Fausto Paravidino rimette in scena al Teatro Valle occupato il suo Genova 01.
26 AGOSTO 2011
Muore a Roma, all’età di 78 anni, Ansano Giannarelli, nato a Viareggio il 10 giugno 1933. Già assistente di Mario Monicelli, esordisce con il documentario 16 ottobre 1943 (1960), ispirato al racconto omonimo di Giacomo Debenedetti e candidato all’Oscar cui seguono,
27 AGOSTO 2011
Sky lancia anche in Italia “Sky Go”, applicazione scaricabile gratis da iTunes, che consentirà agli abbonati di visionare in streaming – su iPad, iPad2 e imminenti prodotti analoghi – la programmazione di venti canali, dei quali quindici sportivi (dieci solo calcistici). Completeranno il quadro SkyTg24 e SkySport24, SkyUno e due canali dedicati. Accesso gratuito fino al 31 dicembre: sovrapprezzo variabile dai tre ai sette euro col 2012. Come il cinema è fuggito dagli schermi, la tv scappa dai televisori…
[email protected]
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Federazione Italiana Cineforum
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La Federazione Italiana Cineforum (Fic) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La Fic organizza corsi, seminari e convegni, distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze in campo cinematografico, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum», e di altri prodotti editoriali di cultura cinematografica e audiovisiva in genere. Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla Fic ci si può rivolgere alla segreteria (casella postale 10, 31041 Cornuda, TV, segreteria telefonica 0423639255,
[email protected]). I cineforum di nuova costituzione possono richiedere gratuitamente nel primo anno di associazione due film distribuiti dalla Fic e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo, tel. 035342239, Fax 035341255,
[email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno lo rivista «Cineforum». Tutti i cineforum affiliati ricevono lo rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del Iistino della Lab80 Film, hanno la possibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema. Il comitato centrale della Fic, per il triennio 2008-2011, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Gianluigi Bozza (presidente, Trento), Claudia Cavatorta (Parma), Dino Chiriatti (vicepresidente, Roma), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna, VB), Diego Fragiacomo (segretario, Cornuda, TV), Giorgio Grotto (Schio, VI), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi (Bergamo), Jurij Razza (Robbiate, LC), Angelo Signorelli (Bergamo), Enrico Zaninetti (tesoriere, Novara). Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Chiara Boffelli (Bergamo), Roberto Figazzolo (Pavia), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Pierpaolo Loffreda (Pesaro), Walter Pigato (Nove, VI), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), Tonino Turchi (Pesaro), Sergio Zampogna (Bergamo). I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.
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LIBRI
LO SCHERMO SONORO LA MUSICA PER FILM
Ed. Marsilio,Venezia 2010 pp. 319 - € 28,00. Non mancano ormai i libri, anche in Italia, sulla musica per film (non più “la cenerentola del cinema”, come si diceva una volta). Questo di Roberto Calabretto, un musicologo friuliano dalla solida dottrina e di capacità divulgativa, è un compendio della materia a uso soprattutto degli studenti dei corsi di laurea del Dams o di Scienze di Comunicazione in cui siano previsti corsi specifici sulla “difficile identità” della musica per film. Lo stesso Calabretto ne è docente all’Università di Udine. Più che teorie, l’autore propone esempi, molti esempi, trascrivendo non solo righi musicali ma anche
festazione, a Ettore Scola. Il libro raccoglie diverse testimonianze su questo nostro autore, un autentico “maestro”, anche se lui si attribuisce la qualifica di “artigiano”; e ne vengono fatte risaltare le doti di umanista poliedrico ed eclettico. In apertura Mario Patané, direttore artistico di “CineNostrum”, mette in rilievo il modo adottato da questo regista nell’osservare i suoi personaggi, non «con quell’indulgenza a volte presente in certe “commedie all’italiana”, ma con fondo di umanesimo e di pietas». Questo motivo della commedia italiana sì commedia italiana no, a proposito dell’operato di Scola, è un po’ in tormentone di tutto il libro. Tipico l’intervento di Ennio Bispuri che, parlando della centralità dei frustrati e dei perdenti, sottolinea come Scola si situa in una «borderline in cui la risata si attenua fino a trasformarsi in tristezza e in compatimento», mentre per Franco La Magna il Nostro non confonde lo scetticismo e il disincanto con la funzione dell’intellettuale e dell’arte.
A cura di Franco La Magna e Mario Patané
SE PERMETTETE PARLIAMO DI SCOLA
Ed. Città del Sole, Reggio Calabria 2010 - pp. 189 - € 20,00. L’associazione “CineNostrum” di Aci Catena ha dedicato la sua attenzione, per la sesta edizione della mani-
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Roberto Calabretto
pagine di partiture, spesso illustrate dai fotogrammi relativi. Esempi che risentono di una “scelta di campo” in quanto l’autore ha focalizzato la sua attenzione su alcuni registi (più che sui musicisti) i quali «hanno saputo allestire con particolare cura il paesaggio sonoro cinematografico, rendendolo cifra espressiva privilegiata della loro poetica». La musica per film, quindi, come componente di un discorso complesso a più voci, un lavoro di bottega, da bravi “artigiani”. Con tutti i problemi che sono propri alla sonorizzazione di un film, dalla preparazione (le intese con i realizzatori delle immagini) alla composizione e alla post-produzione (registrazone, missaggio, interventi dell’ultima ora). Pur non rinunciando a un excursus storico (dal muto al sonoro), il libro mette l’accento sui diversi modi di lavorare del musicista, sul suo ricorso ai materiali più diversi, sulle risorse della tecnologia, trattando anche del doppiaggio, dei dischi, del restauro, delle esecuzioni off-screen.
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Determinati film sono trattati in modo specifico (Paolo D’Agostini e Nino Genovese per C’eravamo tanto amati, Rosario Mangiameli per Una giornata particolare , Angelo Pizzuto per La terrazza); e poi abbiamo la presenza di Trovajoli, i rapporti con la Francia – i legami del regista gli apprezzamenti critici – contributi di Irene Bignardi e di Walter Vetroni, Più testimonianze della figlia, di attori e collaboratori e schede dei film citati (con una nota di Tullio Kezich).
Massimo Giraldi, Enrico Lancia, Fabio Melelli
100 CARATTERISTI DEL CINEMA AMERICANO
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Ed. Gremese, Roma 2010 pp. 288 - € 35,00.
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Splendido l’argomento, splendido il libro che ne tratta. Un sollievo, vedere finalmente considerata una categoria d’attori – di “carattere”, non-protagoinisti, comprimari, tutto quel che volete, meno che “interpreti minori” o di serie B – che sono davvero il sale dei film. Dotati di solito di “caratteristiche” fisiche (faccione tonde, magrezze eccessive, occhi sporgenti, bazze imponenti, gambe stortignaccole), di tipologie marcate e di ruoli ben definiti (tassisti, poliziotti, baristi, governanti, amiche ficcanaso, parenti tiranniche, vecchietti che masticano tabacco, politici maneggioni), son molto, ma molto più bravi di tanti primattori bellocci e di primattrici dalle scollature generose. Ma quale star system? Sfuggono i loro nomi, spesso, «oscuri “eroi” della fatica del recitare», dice l’Introduzione a questo libro, che ha il merito di riportarceli alla memoria uno per uno (i cento considerati, almeno: ne restano fuori tanti) in ampie schede con biografie, risultati, valutazioni, e immagini (imponente l’apparato iconografico). Sono in ordine alfabetico, da Danny Aiello (tipico
“mafioso” italo-americano) a Burt Young (altro italo-americano: è l’allenatore-amico di Rocky). E poi, sono davvero solo “spalle”? Personaggi come Karl Malden, Thomas Mitchell, John Carradine, Clifton Webb, Lee J. Cobb, Claude Rains, sono davvero “caratteristi”? Lo sono di sicuro, ma per questo non meno sublimi, Edward Everett Horton, Donald Meek, Barry Fitzgerald, Sam Jaffe, Elsa Lanchester e Robert Morley (i due ultimi appartenenti anche al cinema americano, pur d’origine inglese). Nella postfazione si citano gli assenti: «il grande libro dei caratteristi americani rimane aperto».
A cura di Massimo Maisetti, Franca Mazzei Maisetti, Lorenzo Vitalone
CINEMA E PSICANALISI IL DUBBIO
Ed. Isca/Fondazione Cineteca Italiana/Fedic/Istituto Neofreudiano di psicanalisi, Milano 2010 - pp. 91 - s.i.p. Da tanti anni ormai si tengono a Milano rassegne di film che hanno a che fare con diversi aspetti della psicanalisi, e ogni volta tale rassegna è accompagnata da una pubblicazione che, partendo dai film della rassegna stessa, indaga quei determinati aspetti. Nel 2010 il
tema portante è stato il “dubbio” (esemplato da Il volto di Bergman, Tradimenti di Jones, Il decalogo 2 di Kieslowski, Il dubbio di Shanley e Il sospetto di Hitchcock). Argomento perfetto per le speculazioni dei “neofreudiani” organizzatori di queste iniziative (la psicanalisi per sua natura mette sempre in dubbio la verità), nonché per i collaboratori – in netta minoranza – del coté cinematografico; e del resto il cinema, afferma perentoriamente Elio Girlanda in uno degli interventi, è una forma costante di «messa in dubbio di se stesso», in quanto la forma-film è sempre, fondamentalmente, meta-cinema (o comunque intermediale). Oltre alla (psico)analisi dei film della rassegna si trattano nel libro – interventi, oltre che dei curatori e del critico citato, di Monica Rubin, Anna Di Sabato, Giovanni Invitto, Gabriella Baldissera, Gianluca Caldana, Giuliana Kantzà, Marisa Zattini, Stefano Beccastrini, Alessandro Cossu, Giusi Quarenghi – film di diverso calibro e di diverso contenuto, passando attraverso i dubbi relativi all’amore, alla fede, all’identità, al rapporto fra ombra e luce, nonché a quell’indeterminatezza tra vita e morte che domina i film di vampiri. «Lo stesso termine dubbio parla di dualismo e dunque del dilemma che sta alla base stessa della esistenza».
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Meadows, Abrams, Hark, Patierno, Pacinotti, Bercot, Crialese, Wright Focus Mildred Pierce Il Cavaliere che a suo modo fece l’impresa Appunti sull’uso delle canzoni nel cinema recente