Il pensiero di Kierkegaard Per Kierkegaard la vera realtà è il singolo, non l’universale. Da qui la polemica con la filosofia hegeliana riferiva il reale, in quanto razionale, all’universale. Per Hegel la realtà è etica e religiosa ed è tutto risultato del movimento dialettico. Invece Kierkegaard difende la categoria del singolo come la categoria etico-religiosa per eccellenza. Non è un caso che proprio nella sua tomba voleva che ci fosse scritto: Quel singolo. Egli pone la possibilità come categoria dell’esistenza del singolo. L’infinito è per lui possibilità, a differenza di Hegel che lo aveva concepito come necessità. La possibilità è la vera condizione dell’esistenza, e per Kierkegaard l’uomo è ciò che sceglie di essere. Se l’uomo è ciò che sceglie di essere, allora il pensiero hegeliano è una contraddizione dato che il movimento dialettico non sarà più ‘’ aufhebung ‘’ cioè ‘’superamento’’ che include gli opposti, ma esclusione reciproca, una possibilità esclude l’altra. La scelta nasce dalla libertà di scegliere, e consiste in un’alternativa tra le varie concezioni di vita che ci si presentano. Tra le diverse alternative non c’è passaggio o sviluppo. No. C’è un vero e proprio salto, che implica la crisi dell’esistenza, la sofferenza e l’angoscia. Quando si scopre che tutto è possibile si affaccia l’angoscia. Quando tutto è possibile è come se nulla lo fosse. C’è sempre la possibilità dell’errore. L’angoscia a differenza della paura che si riferisce a qualcosa di preciso e cessa quando il pericolo scompare, non si riferisce a nulla di preciso e accompagna costantemente l’esistenza dell’uomo. L’angoscia però è la possibilità della libertà, che tramite la fede ha la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le illusioni. La disperazione invece irrompe nel rapporto dell’io con se stesso. Essa è dovuta al fatto che l’io scelga o meno di volere se stesso, ossia se decida o no di accettarsi per quello che è. Se l’io sceglie di volere essere se stesso, cioè sceglie di realizzarsi, viene messo di fronte alla sua limitatezza e all’impossibilità di compiere quanto ha deciso. Il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità si mostrano insufficienti ed inadeguate. Ma quando anche il singolo capisce che non c’è più alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, rinuncia e inizia a desiderare di distruggere se stesso senza poterci riuscire. Questa è la forma piena di disperazione che Kierkegaard chiama Malattia Morale. Queste alternative vengono da lui chiamate stadi dell’esistenza, ma non nel senso di tappe di un percorso, ma come possibilità appunto di scelte che si escludono a vicenda. Kierkegaard dice: aut aut, o questo o quello. Esse sono: lo stadio estetico, lo stadio etico, lo stadio religioso. Lo stadio estetico non è propriamente una scelta, perché si caratterizza proprio con il non scegliere mai. L’uomo estetico non decide,gioca e sfugge per sempre. L’eroe dello stadio estetico è Don Giovanni le cui caratteristiche sono la varietà molteplice, l’immediatezza e l’istantaneità. La passione è il fascino di questo eroe mozartiano e rappresenta la forza traboccante dell’amare che
cerca in ogni donna la donna, infedele per una specie di forza cosmica, che per Mozart e Da Ponte coincideva con la musica. Il protagonista del diario del seduttore è Faust, che rappresenta l’esteta riflesso, in cui prevale il calcolo, il programma quindi la riflessione. Egli è l’eroe non del desiderio, ecco perché al polo opposto rispetto a Don Giovanni, ma dell’arte della seduzione- La donna che cade nelle sue reti, è incapace di un’esistenza spirituale autonoma e attende che l’uomo gliela riveli. Faust tronca con lei non appena si accorge che è vincolata a lui, senza averla mia toccata, così da farle chiedere se tutto sia stato reale o no. Il simbolo della vita etica è il matrimonio. Dicevamo che tra i due stadi non c’è passaggio ma un vero e proprio salto che deriva dalla disperazione dell’esteta di fronte alla consapevolezza della vanità delle cose finite. Nello stadio etico non viene ripudiata la vita estetica , cioè la bellezza, ma l’autosufficienza dell’estetica, che viene subordinata a qualcosa di più ampio. In quanto vincolo, il matrimonio è la decisione del tempo, mentre l’esteta sceglie non il tempo ma l’istante. L’estetica in breve sceglie nel tempo la vera eternità dell’amore, cioè la continuità. Essa esprime l’infinito nel finito. Passare dallo stadio estetico allo stadio etico è passare dunque alla chiusura in se stessi. L’impossibilità del matrimonio annuncia il terzo stadio, lo stadio religioso. Si tratta del fatto che l’uomo etico è autosufficiente che riesce a trovare in se la propria salvezza. L’uomo etico non ha dunque bisogno di dio. Ma cosa succede quando l’individuo si trova solo con se stesso? È il caso di Giobbe, l’eroe biblico che viene messo alla prova da dio con ogni sorta di sventura e di mali. Allora Giobbe lotta con dio, senza però mai cessare di abbandonarsi a lui. È chiaro che Kierkegaard intende fede come puro rischio. L’eroe della fede non si può appellare che al suo privato e silenzioso rapporto con dio, senza altri appigli. Non c’è alcun criterio per sapere se egli è pazzo o un credente. Da qui la concezione di fede come paradosso. Non ci sono criteri per distinguere se l’individuo nella fede operi per volontà propria o per volontà di dio. Abramo ha creduto per assurdo: persino quando levava il coltello sul collo del figlio Isacco, ha creduto che dio non gli avrebbe chiesto Isacco. La fede nell’amore di Gesù Cristo diventa così per Kierkegaard la possibilità suprema dell’esistenza.