Appunti delle lezioni (integrazioni in Wikipedia, dispense) Prof. Piero Galeotti Anno Accademico 2006/2007
MECCANICA Grandezze Fondamentali: grandezze basilari che si possono usare per descrivere il mondo fisico. Quando si guarda il mondo, si osserva che esso occupa spazio, dentro i quale si trova la materia ed entrambi esistono entro qualcosa che è chiamato tempo. L’osservazione del mondo si può svolgere facendo riferimento, appunto, allo spazio, alla materia e al tempo. Lunghezza: descrive lo spazio – Massa e carica elettrica: descrivono la materia – Tempo: tempo (o intervallo di t) . Tutte le altre grandezze dette derivate, si possono descrivere per mezzo di un appropriata combinazione delle grandezze fondamentali. S.I. (Sistema Internazionale): nel 1960 una commissione internazionale definì un’ insieme di campioni per le quantità fondamentali. È un sistema adottato in maniera universale da tutti gli scienziati del mondo.
Grandezze scalari e vettoriali: Scalari: Grandezza fisica che può essere descritta da un valore numerico con associata un’appropriata unità di misura. Vettoriali: Grandezza fisica che per essere descritta richiede che siano specificati sia un valore numerico con associate le opportune unità di misura (detto modulo del vettore), sia una direzione ed un verso cioè una direzione orientata. e, quando necessario, dal cosiddetto punto di applicazione. Modulo: lunghezza del segmento Direzione: Angolo rispetto al sistema di riferimento preso, descritto da un immaginaria retta su cui giace il modulo. Verso: “punta della freccia” del modulo. Punto d’applicazione: punto di inizio del segmento, ovvero il punto che precede tutti gli altri punti del segmento. Prodotto scalare: (da come risultato un numero con la sua relativa unità di misura). Il prodotto scalare di due vettori a e b del piano, applicati sullo stesso punto, è definito come
dove |a| e |b| sono le lunghezze di a e b, e θ è l'angolo tra i due vettori. Il prodotto scalare si indica come a·b. ‐ se θ = 0 i vettori sono paralleli ed a∙b = |a|∙|b|; ‐ se θ = 90° i vettori sono ortogonali ed a∙b = 0; ‐ se θ = 180° i vettori sono paralleli ma orientati in senso opposto, ed a∙b = ‐ |a|∙|b|. ‐ Se a e b sono versori, cioè vettori di lunghezza 1, il loro prodotto scalare è semplicemente il coseno dell'angolo compreso. Il prodotto scalare di un vettore a con se stesso a∙a = |a|2 è il quadrato della lunghezza |a| del vettore. Prodotto Vettoriale: (da come risultato una grandezza scalare) Il prodotto vettoriale, tra due generici vettori a e b, è definito come il vettore ortogonale sia ad a che a b tale che: dove θ è la misura dell'angolo tra a e b (dove 0° ≤ θ ≤ 180°), mentre n è il versore (un vettore di modulo unitario) che determina la direzione del prodotto vettoriale (ed è, come specificato più sopra, ortogonale sia ad a che a b). Il problema riguardo alla definizione del versore n è che vi sono due versori perpendicolari sia ad a che a b, uno di verso opposto all'altro in quanto, se n è perpendicolare ad a ed a b, allora lo sarà anche il versore −n. Convenzionalmente si sceglie n in modo tale che i vettori a, b ed a × b siano orientati secondo un sistema destrogiro se il sistema di assi coordinati (i, j, k). Un modo semplice per determinare la direzione del prodotto vettore è la «regola della mano destra». In un sistema destrogiro si punta il pollice nella direzione del primo vettore, l'indice in quella del secondo, il medio dà la direzione del prodotto vettore. In un sistema di riferimento sinistrogiro basta invertire il verso del prodotto vettore, ovvero usare la mano sinistra. Poiché il prodotto vettore dipende dalla scelta del sistema di coordinate, o più propriamente perché in una formalizzazione rigorosa il prodotto vettoriale tra due vettori non appartiene allo spazio di partenza, ci si
riferisce ad esso come uno pseudovettore. Sono ad esempio degli pseudovettori (detti anche vettori assiali) il momento angolare, la velocità angolare, il campo magnetico. Il modulo del prodotto vettore è l'area del parallelogramma individuato dai due vettori a e b ed è pari a infatti, b sen θ è la misura dell'altezza se si fissa a come base, e viceversa a sen θ è la misura dell'altezza se si fissa b come base. Velocità: In fisica, la velocità è definita come la derivata della posizione nel tempo, ovvero il tasso di cambiamento dello spazio in funzione del tempo. Quando non specificato per velocità si intende la velocità istantanea. La velocità è sempre uno spazio diviso un tempo, quindi nel SI si misura in metri al secondo. La variazione della velocità è l'accelerazione. Velocità media: rapporto tra lo spostamento e la durata dell'intervallo di tempo impiegato a percorrerlo:
dove è lo spostamento, e sono i vettori posizione e Δt = t2 − t1 è l'intervallo di tempo impiegato ad effettuare lo spostamento; Velocità istantanea: si ottiene rendendo piccolo a piacere il tempo nella velocità media. In pratica si va a definire la velocità per un certo istante piuttosto che in un certo intervallo, definendo la velocità istantanea come il limite per la variazione di tempo tendente a zero del rapporto che definisce la velocità media:
ove
è il vettore posizione. Lo strumento matematico per effettuare tale operazione è la derivata del
vettore posizione
rispetto al tempo t. Per cui:
Scomponendo il vettore posizione nei suoi componenti otteniamo (nel caso ad esempio di due dimensioni): Poiché la velocità è un vettore, essa ha una direzione che è quella del vettore posizione quando effettuiamo ; cioè sempre tangente alla traiettoria nel punto e all'istante considerato. Va sottolineato il limite che la definizione fornisce la velocità istantanea, calcolata per l’intervallo di tempo infinitesimo nel quale si percorre uno spazio pure infinitesimo. Essa è valida per qualsiasi tipo di moto, sia esso uniforme o meno. Accelerazione: rappresenta la variazione di velocità nell'unità di tempo. Essendo la velocità una grandezza vettoriale, anche l'accelerazione risulta essere una grandezza vettoriale. L'accelerazione può essere allora scritta come:
Accelerazione media: rapporto tra la variazione di velocità tempo Δt
e l'intervallo finito di
Accelerazione istantanea: limite per l'intervallo di tempo tendente a zero del rapporto che definisce l'accelerazione media, ovvero derivata della velocità rispetto al tempo, ovvero la derivata seconda della posizione rispetto al tempo:
dove è il vettore spostamento. 2 L'accelerazione si esprime, nel SI, in m/s . Sovente è anche espressa in g, dove un g rappresenta l'accelerazione gravitazionale terrestre che è pari a circa 9.81 m/s2. Nel caso di moto rettilineo (monodimensionale), anche il vettore accelerazione è monodimensionale. Nel caso di moto circolare uniforme, il vettore accelerazione è radiale, ovvero perpendicolare alla traiettoria circolare. Moto rettilineo uniforme: un corpo si muove ad una velocità (vettoriale) costante, ossia di moto rettilineo uniforme quando si muove in una certa direzione orientata percorrendo spazi uguali per tempi uguali. Δx V=costante, ne segue che a=0 Vx= Δt E per lo spazio percorso: s=s0 + V*t In pratica, facendo riferimento alla simbologia utilizzata per la velocità e la legge oraria del moto, l'equazioni si possono riscrivere come: se si misura lo spazio a partire da un'origine O, tale che il punto materiale per tempo t=0 sia già a distanza x0, lo spostamento è x‐x0. Nel caso di moto rettilineo uniforme con x=0 per t=0 l'equazione :
(x=spazio) Moto rettilineo uniformemente accelerato: moto in cui la velocità non rimane costante, ma è l’accelerazione ad essere invariate nel tempo. a=costante (positiva o negativa)
V=V0+a*t s= s0 + V0 * t + ½ at2 Se : t= (V‐ V0)/a si ottiene che(sostituendo t nella formula precedente di s): s= s0+ V0 (V‐ V0)/a + ½ a (V‐ V0)2/a2=
V 2 − V02 2a Altre espressioni per descrivere il moto uniformemente accelerato sono: = s0 +
V= V0 + 2as a=
s=
V 2 − V02 2a
V 2 − V02 2s
Moto circolare uniforme: consiste in un moto , di un punto materiale, lungo una circonferenza. Il moto circolare assume importanza per il fatto che la velocità e l'accelerazione variano in funzione del cambiamento di direzione del moto. Tale cambiamento si può misurare comodamente usando le misure angolari per cui le formule del moto, introdotte con il moto rettilineo, vanno riviste e rielaborate con misure angolari.
La retta passante per il centro della circonferenza e perpendicolare alla stessa prende il nome di asse di rotazione. Per semplificare l'analisi di questo tipo di moto, infatti, consideriamo che l'osservatore si ponga sull'asse di rotazione. Ciò è possibile per l'isotropia e omogeneità dello spazio. Il sistema più comodo per analizzare un moto circolare fa uso delle coordinate polari. Infatti nel caso particolare di movimento che avviene su di una circonferenza di raggio R, il moto in coordinate polari diventa: mentre in coordinate cartesiane si ha: che soddisfano la seguente identità (in ogni istante di tempo): Nel moto circolare si possono definire due diverse tipologie di velocità, la velocità angolare e la velocità tangenziale.Per descriverle consideriamo nello spazio tridimensionale, il vettore infinitesimo dove è un versore disposto lungo l'asse di rotazione e dθ la variazione infinitesima della variabile angolare θ. Sia ora il vettore posizione del punto P, allora lo del punto spostamento lineare P sull'arco di circonferenza percorso nel tempo dt sarà legata allo spostamento angolare
dal prodotto vettoriale: .
La velocità angolare è definita come la derivata, rispetto al tempo, del vettore
indicata con
e comunemente
ed è una misura della velocità di variazione dell'angolo formato dal
vettore posizione, si misura in radianti al secondo: spostamento angolare.
ed ha la stessa direzione del vettore
La velocità lineare (o tangenziale) si ottiene derivando rispetto al tempo il vettore posizione
:
ed è legata alla velocità angolare dalla seguente relazione (per approfondire si veda anche derivata di un vettore):
Si nota che la costanza della velocità angolare implica la costanza del modulo della velocità.
Se si esegue il prodotto scalare dei due vettori
e
si ottiene zero per ogni istante di tempo t, e
. questo dimostra che la velocità tangenziale è sempre ortogonale al raggio vettore Accelerazione: Derivando rispetto al tempo l'espressione del vettore velocità tangenziale otteniamo l'accelerazione; che ha una componente parallela alla velocità (responsabile della variazione del modulo di questa) ed una normale (o radiale): si tratta rispettivamente dell'accelerazione tangenziale e dell'accelerazione centripeta:
La prima frazione si chiama accelerazione angolare di solito indicata con
oppure
, si misura in
, fornisce la variazione della velocità angolare ed ha stessa direzione di questa. Sviluppando la relazione precedente otteniamo: dove si vede chiaramente la componente tangenziale che rappresenta la variazione del modulo della velocità lineare e la componente normale o centripeta che rappresenta la variazione della direzione della velocità lineare, diretta sempre verso il centro della circonferenza. Pertanto possiamo concludere che l'accelerazione ha un componente radiale di modulo
e una tangenziale di modulo . Se il moto circolare è uniforme significa che è costante il vettore velocità angolare, cioè si ha velocità lineare costante in modulo. Integrando la tra i due tempi t0 e t iniziale e finale corrispondenti ad un angolo iniziale θ0 e θ: θ(t) = θ0 + ωt essendo ω la velocità angolare costante. Ne consegue (dalle equazioni viste alla sezione precedente) che la velocità tangenziale ha modulo costante pari a:
e dal momento che essa vettorialmente varia solo in direzione, l'accelerazione ha solo componente radiale (accelerazione centripeta): Poiché il raggio è costante in una circonferenza, il moto circolare è uniforme se W è costante. In questo tipo di moto di definisce il Periodo T [s], e la frequenza =
1 [Hz]. T
Moto di un proiettile: è un tipo di moto bi‐dimensionale, con accelerazione costante (data dalla forza di gravità). L’effetto della resistenza dell’aria deve essere trascurabile. La traiettoria di un proiettile è una parabola. Il vettore posizione è descritto da:
r = Vi * t +
1 g * t 2 dove ri= 0 a=g (accelerazione 2
gravitazionale = 9,81 m/s2) Il moto di un proiettile è la sovrapposizione di due moti: ‐ Un moto uniforme nella direzione orizzontale con velocità costante. ‐ Un moto in caduta libera nella direzione verticale Le leggi della cinematica che esprimono la posizione del proiettile nel piano al tempo t con g: accelerazione di gravità vo: velocità iniziale, α: angolo formato dalla bocca da fuoco col terreno (alzo) sono espresse dalle seguenti formule:
risolvendo la prima rispetto alla t e sostituendo nella seconda si ottiene
intersecando con l'asse delle x, cioè sostituendo y=0 nella precedente si ottiene la gittata
L'accelerazione di gravità è l'accelerazione che un corpo subisce quando è lasciato libero di muoversi in campo gravitazionale. L'accelerazione di gravità prodotta dal campo gravitazionale terrestre, spesso abbreviata col simbolo g è usata come unità di misura non‐SI ed è stata posta uguale al valore convenzionale di 9,80665 m/s2 dalla terza CGPM, nel 1901. Il simbolo è scritto g minuscolo per distinguerlo dalla costante gravitazionale G che compare nelle equazioni di Newton. Il valore convenzionale di g è un valore medio assunto convenzionalmente che approssima il valore dell'accelerazione di gravità prodotta al livello del mare ad una latitudine di 45,5° dalla Terra su un grave lasciato in caduta libera. Tale valore viene a volte rappresentato con g0 quando g viene invece usato per rappresentare l'effettiva accelerazione di gravità locale. ag=9.81 m/s2
Leggi di Newton
Prima legge di Newton(principio d’inerzia): “in assenza di forze esterne, un corpo in quiete rimane in quiete, ed un corpo in moto persevera nello stato di moto con velocità costante(cioè moto rettilineo uniforme)” Quando su di un corpo non agisce nessuna forza la sua accelerazione è nulla. La tendenza di un corpo ad opporsi ad ogni tentativo di modificare la sua velocità è chiamata Inerzia. Un sistema di riferimento inerziale è un sistema sistema che non possiede accelerazione. Massa: è quella proprietà di un corpo che specifica quant’è grande l’inerzia che il corpo possiede e l’unità di misura è il [Kg]. La massa è perciò una proprietà intrinseca di un corpo ed è indipendente da ciò che la circonda e dal metodo adoperato per misurarla. La massa è una quantità scalare (massa e peso sono due quantità distinte)
La seconda legge di Newton(principio di proporzionalità): Partendo dalla prima legge di Newton, e esercitando una forza sul corpo, otteniamo che l’accelerazione di un corpo è direttamente proporzionale alla forza risultante agente su di esso ed inversamente proporzionale alla sua massa: ΣF = m * a L’unità di forza ne S.I., definito come la forza che agendo su un corpo di massa 1 [Kg], produce un’accelerazione di 1 m/s2. 1[N]= 1[Kg]*1 m/s2 Forza: è una spinta o una trazione che agisce su un corpo nella relazione descritta dalla seconda legge di Newton. Si può definire come un’agente che imprime una ad una massa m un’accelerazione a. Sono vettori che modificano lo stato di quiete o di moto di un corpo. Quindi producono un’accelerazione , anche se non sono a contatto del corpo su cui agiscono. Forza di gravità: il peso di un corpo, definito come un’intensità di Fg, è : Fg=m * g Perciò il peso non è una proprietà intrinseca di un corpo, perché dato che g diminuisce con l’aumentare della distanza dal centro della terra, maggiore distanza, rileva un peso minore Esempio: una pila di 1000[Kg] di mattoni utilizzati per la costruzione dell’Empire State Building, perdeva circa 1 [N] di peso una volta sollevato in cima rispetto al marciapiede. La velocità di un oggetto che venga lanciato verticalmente verso l’alto diminuisce gradualmente in modulo fino a diventare zero nel punto piu alto della sua traiettoria , dal punto piu alto la velocità cambia verso e riprende a crescere in modulo. Siccome c’è una variazione di velocità, e quindi un’accelerazione, si conclude che su di esso agisca una forza peso di gravità. Fp= m * g La terza legge di Newton (principio d’azione‐reazione): ctioni contrariam semper et aeqalem esse reactionem: sive corporum duorum actiones in se mutuo semper esse æqualis et in partes contrarias dirigi. (cit.) Se due corpi interagiscono tra di loro, la forza F12 esercitata dal corpo 1 sul corpo 2 è uguale in intensità ed opposta alla forza F21 esercitata dal corpo 2 sul corpo 1 F12=‐F21 F12+F21=0
Forza D’attrito: è responsabile del rallentamento di un corpo che scivola su di un piano scabro. E’ una forza dissipativa che si esercita tra due superfici a contatto tra loro e si oppone al loro moto relativo. La forza d'attrito che si manifesta tra superfici in quiete tra loro è detta di attrito statico, tra superfici in moto relativo si parla invece di attrito dinamico. Si esercita tra le superfici di corpi solidi in mutuo contatto ed è espresso dalla formula: dove Fr è la forza di attrito radente, μr il coefficiente di attrito e la componente perpendicolare al piano di appoggio della risultante delle forze agenti sul corpo(N). Per un corpo appoggiato su un piano orizzontale è semplicemente uguale a Fp , forza peso del corpo(mg); per un corpo appoggiato su un piano inclinato di un angolo α rispetto all'orizzontale risulta
invece
Condizioni d’equilibrio: Valgono sempre per 1) Un corpo sospeso (in tensione) 2) Per un corpo appoggiato su di un piano orizzontale 3) Oppure appoggiato su un piano inclinato (se il corpo non si muove la forza d’attrito è detta statica) Quantità di moto: detta anche momento lineare o semplicemente momento, è una grandezza vettoriale che misura la capacità di un corpo di modificare il movimento di altri corpi con cui interagisce dinamicamente. È una grandezza utile quando vengono trattati urti e reazioni. Un punto materiale di massa m che si sposta con velocità vettoriale v ha una quantità di moto p pari al prodotto della sua massa per la sua velocità. Cioè:
Il vettore risultante ha, quindi, modulo pari al prodotto di massa per il modulo del vettore velocità, e direzione e verso del vettore velocità. Forza Centripeta: è la forza che è necessaria per far muovere un copo su una circonferenza a velocità costante. È diretta radialmente ed orientata verso il centro della circonferenza. Per poter mantenere un corpo di massa m su una traiettoria circolare di raggio r con una velocità tangenziale vt occorre una forza centripeta pari a
ovvero essendo ω la velocità angolare. La forza centripeta è la forza per effetto della quale i corpi sono attratti, o sono spinti, o comunque tendono verso un qualche punto come verso un centro. Di questo genere è la gravità, per effetto della quale i corpi tendono verso il centro della terra, … e quella forza, qualunque essa sia, per effetto della quale i pianeti sono continuamente deviati dai moti rettilinei e sono costretti a ruotare secondo linee curve.[…] Tentano tutti di allontanarsi dai centri delle orbite; e se non vi fosse una qualche forza contraria a quella tendenza, per effetto della quale sono frenati e trattenuti nelle orbite … se ne andrebbero via con moto rettilineo uniforme. Forza Centrifuga: è la reazione alla forza centripeta. Non agisce sullo stesso corpo della forza centripeta. Cioè se si legasse un sasso ad un filo e si facesse ruotare il sasso su una circonferenza ad una velocità costante, la forza centripeta agirebbe sul sasso, quella centrifuga agirebbe sullo spago. (vedi immagine dopo). Lavoro: il lavoro di una forza costante lungo un percorso rettilineo è definito come il prodotto scalare del vettore forza per il vettore spostamento : dove L è il lavoro e α l'angolo tra la direzione della forza e la direzione dello spostamento. Lavoro con forza e traiettoria costante Il lavoro può essere sia positivo che negativo, il segno dipende dall'angolo α compreso tra il vettore forza ed il vettore spostamento . ovvero se cosα > 0. Un lavoro positivo è definito Il lavoro svolto dalla forza è positivo se motore, uno negativo, invece, resistenza. Il termine utilizzato in fisica differisce dalla definizione usuale di lavoro, che è decisamente antropomorfa. Infatti si compie un lavoro se si ha uno spostamento e se questo spostamento non è chiuso (cioè ritorna al punto di partenza). Ad esempio se si spinge contro un muro, naturalmente il muro non si sposta e, quindi, non si ha lavoro. Casi particolari Quando la forza ha la stessa direzione dello spostamento, il prodotto scalare equivale al prodotto aritmetico dei moduli dei due vettori: . Anche nel caso di forza parallela ma opposta allo spostamento, l'espressione del lavoro si riduce al prodotto aritmetico dei moduli, ma con segno opposto: . Quando forza e spostamento sono perpendicolari, il lavoro è nullo: . Il lavoro si calcola in Joule : 1[J]=1[N] * 1[m]
Lavoro fatto da una molla: Fm=‐Kx Dove x è il valore dello spostamento della molla da suo stato di equilibrio iniziale (posizione d’equilibrio), K è una costante positiva chiamata costante elastica. Questo rapporto è noto come legge di Hooke ed è valida nei limiti dei piccoli spostamenti. Il valore di k da un indice di rigidità della molla. Energia cinetica: è l'energia che un corpo possiede in virtù del suo movimento. Tale concetto formalizza l'idea che un corpo in moto è in grado di compiere lavoro in quanto esso è in moto. L'energia cinetica di un punto materiale può essere espressa matematicamente dal semiprodotto della sua massa per il quadrato del modulo della sua velocità. In coordinate cartesiane si esprime di consueto come:
L'energia cinetica di un corpo morto massa m è il lavoro necessario per portarlo da una velocità iniziale nulla ad una velocità finale v. Questa definizione può essere formalizzata grazie a quello che storicamente prende il nome di teorema delle forze vive, oggi più noto come teorema dell'energia cinetica. Ne vediamo ora una rapida dimostrazione, rimandando per approfondimenti alla voce specifica. Consideriamo un punto materiale di massa m. Sia F una forza agente su di esso. Vale il secondo principio della dinamica: ovvero: Consideriamo ora: Il primo membro di questa equazione prende il nome di potenza della forza . Consideriamo ora l'integrale dell'espressione precedente da un tempo iniziale ti ad un tempo finale tf. Si ha:
Il primo membro rappresenta per definizione il lavoro della forza sul punto materiale. Il secondo membro si può invece esprimere come segue:
Ricordando che
la precendente diventa:
Derivando il seguente prodotto scalare si ottiene invece:
che sostituita alla precedente permette di ottenere
ovvero la variazione di energia cinetica di un punto materiale tra un istante iniziale e uno finale è uguale all'integrale della potenza delle forze agenti sul corpo tra tali istanti, che prende il nome di lavoro ed è stato indicato con L. L'energia è definita come la capacità di un corpo o di un sistema di compiere lavoro. L'unità di misura derivata del Sistema Internazionale, per l'energia e il lavoro è il joule (simbolo: J), chiamata così in onore di James Prescott Joule e dei suoi esperimenti sull'equivalente meccanico del calore. 1 joule esprime l'energia usata (o il lavoro effettuato) per imprimere ad una massa di 1 kg una forza di 1 newton, cioè un'accelerazione di 1 m × s ‐2. 1 joule equivale quindi a 1 newton metro, e in termini di unità base SI, 1 J è pari a 1 kg × m2 × s‐2 (in unità CGS l'unità base è l'erg ovvero 1 g × cm2 × s‐2). L'energia permette anche di fare altre previsioni. Infatti, grazie alla legge di conservazione dell'energia valida per sistemi chiusi, si può determinare lo stato cinetico di un sistema sottoposto ad una sollecitazione quantificabile. Ad esempio si può prevedere quanto velocemente si muoverà un determinato corpo a riposo, se una determinata quantità di calore viene completamente trasformata in movimento di quel corpo. Similarmente, sarà possibile anche prevedere quanto calore si può ottenere spezzando determinati legami chimici. La potenza è definita come il lavoro (L) compiuto nell'unità di tempo (t): In base al principio di eguaglianza tra lavoro ed energia, la potenza misura anche la quantità di energia scambiata nell'unità di tempo, in un qualunque processo di trasformazione, meccanico, elettrico, termico o chimico che sia. Nel caso di energia meccanica (lavoro), la potenza corrisponde anche al prodotto della forza per la velocità del punto di applicazione e, nel caso di moti rotatori, al prodotto della coppia per la velocità angolare. All'inverso, l'energia trasformata durante un processo, si ottiene dalla potenza sviluppata moltiplicandola per la sua durata. Nel sistema internazionale di unità di misura (SI) la potenza si misura coerentemente in watt (W), come rapporto tra unità di energia in Joule (J) e unità di tempo in secondi (s): Nel sistema britannico si usano i cavalli‐vapore: 1HP=746W ESEMPI: un maratoneta, alla fine di una gara di maratona, avrà consumato certamente più energia (più calorie, se vogliamo) rispetto ad un centometrista, dopo i suoi dieci secondi di gara. Ma certamente la potenza che deve sviluppare il centometrista è enormemente superiore a quella del maratoneta. Allo stesso modo una lampadina da 100 watt consuma un decimo di una stufetta (o di un altro elettrodomestico) da 1000 watt, ma, se utilizziamo la stufetta per un'ora e lasciamo accesa la lampadina per 24 ore, alla fine la stufetta avrà consumato solo un chilowattora mentre la lampadina avrà consumato ben 2,4 chilowattora. (Il chilowattora è un modo, tollerato, per misurare l'energia. Corrisponde alla potenza di 1000 watt sviluppata continuativamente per un'ora). Ovviamente all'azienda elettrica si pagano i chilowattora, che misurano l'energia consumata. Ma la stessa azienda elettrica fa pagare anche una quota base, proporzionale alla potenza impegnata (chilowatt), cioè al numero massimo di stufette da 1000 watt che si possono accendere contemporaneamente senza far "scattare" il contatore. Infatti, si capisce anche intuitivamente, per sviluppare potenze più alte ci vogliono linee elettriche più robuste, come muscoli robusti servono al centometrista per il suo scatto.
Energia Potenziale: è una funzione scalare dello spazio (delle coordinate nel sistema di riferimento considerato) e rappresenta la capacità di compiere lavoro che il corpo possiede in virtù della sua posizione all'interno di un campo di forze conservative. In un campo di forze conservative se il corpo si sposta da un punto A (definito da un vettore posizione rA) ad un punto B (definito da rB), le forze del campo compiono su di esso un lavoro definito da . Tale lavoro non dipende dal particolare percorso seguito ma solo dalla posizione di A e B. L'energia potenziale è definita a meno di una costante additiva. In altri termini è possibile fissare arbitrariamente il livello zero dell'energia potenziale in corrispondenza di particolari posizioni r; questo non dà luogo ad alcuna ambiguità, poiché il lavoro è definito in termini di variazioni di energia potenziale (la quale dipende solo dalla posizione r) e la forza come gradiente. Forze conservative, che ammettono una funzione di energia potenziale: 1)la forza di gravità ammette un'energia potenziale gravitazionale. Un corpo di massa m, in prossimità della superficie terrestre, posto ad un'altezza h rispetto ad una quota di riferimento scelta arbitrariamente, ha un'energia potenziale U(h) = mgh essendo g (9,81 m/s²) l'accelerazione di gravità. Se la distanza di un corpo di massa m dalla superficie terrestre (o di qualunque altro corpo celeste) è tale da non poter trascurare le variazioni della forza gravitazionale con la distanza, allora l'energia potenziale ad una distanza r dal centro del corpo celeste è definita da dove G è la costante di gravitazione universale e M la massa della terra o del corpo celeste. In quest'ultima il livello di zero di U è posto a distanza infinita dal corpo celeste; di conseguenza i valori di U sono sempre negativi. 2)la forza di Coulomb ammette un'energia potenziale elettrica; una carica q posta a distanza r dalla carica Q , essendo εo la costante generatrice del campo, possiede un'energia potenziale dielettrica del vuoto. Nello studio dei fenomeni elettrici è tuttavia di uso più frequente il potenziale elettrico, definito come energia potenziale per unità di carica elettrica: 3)la forza elastica ammette un'energia potenziale elastica se segue la legge di Hooke F = − kx (essendo k la costante elastica della molla e x l'allungamento o accorciamento). In tale caso l'energia potenziale è Con il termine energia meccanica si intende la somma di energia cinetica ed energia potenziale attinenti allo stesso sistema. In un campo conservativo, in presenza di sole forze conservative, vale il principio che "durante la trasformazione, le energie parziali si trasformano, mentre l'energia meccanica si conserva. Per esempio, un corpo in un campo gravitazionale, che è un campo conservativo quando è situato in una certa posizione è dotato di (sola) energia potenziale gravitazionale. Se lo lasciamo libero, in assenza di forze dissipative come l'attrito con l'aria, l'energia potenziale iniziale, a mano a mano che cade, si trasforma in energia cinetica (cresce la velocità) mentre la somma delle due energie rimane la stessa. Il campo conservativo equivale al principio di conservazione dell'energia: le variazioni di energia potenziale equivalgono alle variazioni di energia cinetica, cambiata di segno: ΔK = − ΔU ovvero
che può essere scritta come
Ogni membro della precedente esprime l'energia meccanica totale del sistema e, in quanto nota, costituisce una costante. Pertanto si può scrivere
che nel caso generale diventa
La costante è un'energia, ed è quelle che è comunemente nota come energia meccanica. In definitiva: Alla fine della caduta, quando il corpo urta il pavimento ed è di nuovo fermo, l'energia cinetica è nuovamente nulla, e poiché anche l'energia potenziale è diminuita, concludiamo che in questo evento l'energia meccanica si sia trasformata in qualcos'altro, poiché consideriamo la conservazione dell'energia totale un principio. Nel caso specifico, diciamo che l'energia meccanica si è trasformata in energia termica, e se misuriamo la temperatura del sistema corpo + pavimento ci aspettiamo di osservare una variazione di temperatura. Insieme alla conservazione della quantità di moto e alla conservazione del momento angolare, la conservazione dell'energia è uno dei principi fondamentali della fisica classica. In meccanica razionale, l'energia meccanica è uno degli integrali del moto, e la conservazione dell'energia meccanica è una conseguenza dell'omogeneità del tempo. Non sempre le forze che agiscono su un sistema sono conservative, e non sempre l'energia meccanica, dunque, si conserva. Siano allora FC e FNC rispettivamente la somma di tutte le forze conservative e non conservative. Il lavoro da esse compiuto è allora: Per il teorema dell'energia cinetica, il lavoro corrisponde alla variazione totale di energia cinetica del sistema: L = ΔK mentre, essendo FC forze conservative, è possibile ad esse associare una funzione potenziale U tale che il lavoro di tali forze possa essere espresso come: L = − ΔU In questo modo, sostituendo nell'espressione del lavoro, si ha: Ora a primo membro si riconosce la variazione di energia meccanica del sistema, essendo Emecc = K + U. In definitiva si ha dunque che: che prova che le variazioni di energia meccanica di un sistema sono dovute esclusivamente al lavoro compiuto dalle forze non conservative sul sistema. Un esempio di forza non conservativa, preso dall'esperienza di tutti i giorni, è la forza d'attrito. Sebbene in natura non esistano forze non conservative (a livello microscopico), la forza d'attrito è considerata non conservativa, in primo luogo perché essa, in generale, non è costante, perlomeno in direzione e verso; in secondo luogo perché gli effetti che essa produce (generalmente surriscaldamento delle parti a contatto) non sono conteggiati nel computo dell'energia meccanica.
LIQUIDI Il liquido, uno degli stati della materia, è un fluido il cui volume è costante a temperatura e pressione costanti e la cui forma è solitamente quella del contenitore che il liquido stesso riempie. La comprimibilità dei liquidi è in genere molto bassa, e trascurabile se confrontata a quella dei gas, quindi i liquidi sono considerati incomprimibili. Generalmente, una sostanza allo stato liquido è meno densa che allo stato solido, ma un'importante eccezione è costituita dall'acqua. Le molecole o atomi che costituiscono il liquido interagiscono fra loro, sebbene non fortemente come nel solido. Non sono fra loro in posizioni fisse ma "scorrono" gli uni sugli altri, sebbene si ipotizzi l'esistenza di cluster o gabbie relativamente stabili, in liquidi dai forti legami intermolecolari come l'acqua. Pressione: la sola forza che i fluidi possono esercitare su un corpo immerso in un fluido è quella che tende a comprimere l’oggetto immerso. La pressione è una grandezza fisica, definita come il rapporto tra la forza agente normalmente su una superficie e la superficie stessa. Il suo opposto (una pressione con verso opposto) è la tensione meccanica. F è la forza e S la superficie o area La pressione si misura in Pascal [Pa] che equivale a 1 newton al metro quadrato o kg∙s−2∙m−1. Altre unità di misura della pressione sono: ‐ L’atmosfera: 1 [Atm] = 101 325 [Pa] (1,013 * 10‐5) ‐ Il Torr: 1[Torr]= 1/760 [Atm] = 133 [Pa] ‐ Il bar e millibar: 1 [millibar] = 102 [Pa] La legge di Stevino è uno dei principi fondamentali della statica dei fluidi. Venne enunciata da Simon Stevin (1548‐1620) nel suo trattato del 1586 De Beghinselen des Waterwichts dedicato all'idrostatica. Afferma che la pressione esercitata da una colonna di fluido di profondità h (distanza dal pelo libero del fluido, ossia la parte in alto nella colonnina aperta, a contatto con l'ambiente esterno) e densità costante δ è direttamente proporzionale a h, essendo l'accelerazione di gravità g = 9.8 m/sec²; se la superficie della colonna di liquido è esposta alla pressione atmosferica PA allora la legge viene così modificata: essendo PA = 101325 Pascal la pressione atmosferica standard. La legge di Stevino deriva direttamente dall'equazione del moto di un fluido ideale: dove rappresenta la forza di volume agente sul fluido, p è la pressione e ρ la densità. Nel caso di un , quindi: fluido fermo, la condizione di equilibrio è tradotta in Questa equazione significa che nel caso statico le forze di volume devono uguagliare le forze di superficie. Se le forze cui è soggetto il fluido sono conservative allora la precedente equazione diventa: dove U = ρgz + cost è l'energia potenziale dovuta alla forza di volume. L'equazione indica tra l'altro, che le superfici equipotenziali nel caso di fluido ideale sono anche superfici isobare. Supponendo che il fluido sia incomprimibile (come nel caso dei liquidi):
che integrata tra due quote
e
:
p2 − p1 = ρg(z2 − z1) che è appunto la legge di Stevino. Principi di Pascal: una variazione di pressione applicata ad un fluido viene trasmessa invariata ad ogni punto del fluido ed alle pareti del contenitore. P = P + рgh (р=costante di densità specifica) La pressione P ad una data profondità h dalla superficie libera a contatto con l’atmosfera è maggiore della pressione atmosferica della quantità рgh. Vedi legge di Stevino: le forze verticali sono in equilibrio se : F1 + mg = F2 ossia se p1S + mg = p2S [sapendo che :m=pS(y2‐y1)] => p1S + pS(y2‐y1)g = p2S quindi: p2‐p1 = pg(y2‐y1) La legge di Pascal vale anche per i gas e può essere enunciata in un modo più generale: "la pressione esercitata sulla superficie di un fluido si trasmette inalterata su tutte le superfici a contatto con il fluido". Chiariamo meglio quanto asserito con l'esempio del torchio idraulico. Consideriamo il recipiente mostrato in sezione in cui è contenuto un liquido (di solito olio) ed in cui sono presenti due pistoni di superficie diversa : Sia la superficie del primo pistone e quella del secondo. Sul primo pistone venga esercitata (dall'alto in basso) una forza . A causa di questa forza, il secondo pistone risente della forza (dal basso in alto). Applichiamo la legge di Pascal. Secondo questa legge la pressione si esercita in maniera uguale su tutte le superficie a contatto con il liquido. Per questo motivo, la pressione che esercita il primo pistone e che vale : è la
stessa
esercitata
(dal
basso
verso
l'alto)
sul
secondo
pistone
.
Da queste formule siamo in grado di ricavare la forza incognita formule) Consideriamo
:
che vale (confrontando le due :
il
caso
concreto
in
cui
si
abbia
. :
(usiamo Sostituendo
qui nella
per formula
comodità precedente
centimetri). infine :
i risulta
. Questo risultato può essere compreso in maniera intuitiva con la seguente osservazione. La
pressione
su
vale
.
Siccome questa pressione si trasmette inalterata sulla superficie quadrato di sarà
:
compare una forza F = 2N . Poiché
, avremo che su ogni centimetro , la forza complessiva su
:
Abbiamo ricavato il sorprendente risultato che con una piccola forza
si ottiene una grande
forza .La legge di Pascal può quindi essere sfruttata nelle applicazioni di ingegneria per sollevare con piccoli sforzi grandi pesi. Innumerevoli sono i congegni che sfruttano questo principio. Fra i tanti : il crick idraulico, i freni delle auto, presse ed elevatori ecc. ecc. Da quanto mostrato (la possibilità di ricavare grandi forze con piccoli sforzi) sembrerebbe che si possa guadagnare energia. Purtroppo, le cose non stanno così ed il principio di conservazione dell'energia non viene violato. Principio d’Archimede: Il principio di Archimede è un teorema riguardante l'interazione dei fluidi con i corpi che vi sono immersi. È così detto in onore di Archimede di Siracusa, matematico e fisico greco, vissuto nel III secolo a.C. che lo enunciò nella sua opera Sui corpi galleggianti (nell'opera di Archimede si trattava però di un teorema, dedotto da un semplice postulato oggi dimenticato). « Un corpo immerso (totalmente o parzialmente) in un fluido riceve una spinta (detta forza di galleggiamento) verticale pari al peso di una massa di fluido di forma e volume uguale a quella della parte immersa del corpo. Il punto di applicazione della forza di Archimede, detto centro di spinta, si trova sulla stessa linea di gradiente della pressione su cui sarebbe il centro di massa della porzione di fluido che si trovasse ad occupare lo spazio in realtà occupato dalla parte immersa del corpo. » Tale forza è detta forza di Archimede o spinta di Archimede o ancora spinta idrostatica (nonostante non riguardi solo i corpi immersi in acqua, ma in qualunque altro fluido – liquido o gas). Una formulazione più semplice del principio è la seguente: « Un corpo riceve dal basso verso l'alto una spinta pari al peso del volume di liquido spostato » La spinta si applica al baricentro del corpo immerso ed è diretta, secondo l'equazione fondamentale dell'idrostatica, verso il piano dei carichi idrostatici (o piano a pressione relativa nulla), che nella maggioranza dei casi coincide con il pelo libero del liquido, ed è quindi diretta verso l'alto. Archimede inventò la bilancia idrostatica, utilizzata per misurare il peso specifico dei liquidi. Sulla base di quelle rilevazioni, affermò: « Qualsiasi solido più leggero (n.d.T.: con peso specifico minore) di un fluido, se collocato nel fluido, si immergerà in misura tale che il peso del solido sarà uguale al peso del fluido spostato »
« Un solido più pesante di un fluido, se collocato in esso, discenderà in fondo al fluido e se si peserà il solido nel fluido, risulterà più leggero del suo vero peso, e la differenza di peso sarà uguale al peso del fluido spostato » Il principio è quindi un caso particolare dell'equazione fondamentale dell'idrostatica, che vale finché il fluido può essere trattato come un materiale continuo, e questo avviene solo fintanto che le dimensioni dei corpi immersi sono abbastanza grandi rispetto alle dimensioni delle molecole del fluido. Da un punto di vista matematico, la forza di Archimede può essere espressa nel modo seguente: essendo ρflu la densità del fluido, g l'accelerazione di gravità e V il volume spostato (che in questo caso è uguale al volume del corpo). Allo stesso modo, il peso del corpo è dato da essendo ρsol la densità media del solido immerso. La spinta è indipendente dalla profondità alla quale si trova il corpo. La densità relativa (del corpo immerso nel fluido rispetto alla densità del fluido) è facilmente calcolabile senza misurare alcun volume: Densità relativa = {Peso del corpo nello spazio vuoto} / {Peso del corpo nello spazio vuoto ‐ Peso della parte immersa nel fluido}. Il peso di un corpo immerso (parzialmente o totalmente) non è quello totale misurabile fuori dal liquido, ma il peso del volume di fluido spostato dalla parte immersa. Questa quantità riduce il peso del corpo (parte immersa e non nel fluido) quando si trova appeso ad un filo nello spazio vuoto. Corpo immerso in un liquido Possono darsi tre casi (illustrati da sinistra a destra in figura): Il corpo tende a cadere fino a raggiungere il fondo se la forza di Archimede è minore del peso, FA < Fp, ovvero se ρflu < ρsol. Il corpo si trova in una situazione di equilibrio se la forza di Archimede è uguale al peso, FA = Fp, ovvero se ρflu = ρsol. Questo significa che se il corpo era in quiete rimarrà in quiete, mentre se era in moto si muoverà di moto decelerato fino a fermarsi per effetto dell'attrito. Il corpo tende a risalire fino alla superficie dove galleggia se la forza di Archimede è maggiore del peso, FA > Fp, ovvero se ρflu > ρsol. In questo caso il volume immerso Vi sarà tale da spostare un volume di fluido che equilibri il peso del corpo, ovvero: da cui si deriva la formula del galleggiamento:
La frazione di volume immerso è quindi uguale al rapporto tra le densità del corpo e del liquido. Nel caso di un iceberg che galleggia nel mare, la densità del ghiaccio è circa 917 kg/m³, mentre la densità dell'acqua salata è circa 1025 kg/m³; in base alla formula precedente, la percentuale di volume immerso è quindi del 89,3%.
Esempi e applicazioni del principio di Archimede
Un fluido può essere inteso sia come liquido che come gas: una nave galleggia sull'acqua, ma anche una mongolfiera che sale verso l'alto è soggetta allo stesso principio. Una nave, anche se di ferro, essendo vuota (o meglio, piena d'aria), occupa un volume complessivo di materia (aria, ferro, plastica, legno e quant'altro compone una nave) che ha un certo peso; siccome lo stesso volume di sola acqua ha un peso maggiore, la spinta verso l'alto ricevuta dalla nave ne permette il galleggiamento; analogamente, una mongolfiera piena di aria calda o di elio, entrambi più leggeri dell'aria, risulta più leggera di quanto pesa il volume di aria che sposta, e quindi viene spinta verso l'alto. Un sommergibile in emersione ha una densità media minore di quella dell'acqua. Per potersi immergere deve aumentare la sua densità fino ad un valore maggiore di quello dell'acqua allagando alcuni comparti interni. Per stabilizzarsi ad una certa profondità deve espellere una parte di quest'acqua in modo da raggiungere una densità pari a quella dell'acqua. Diverse specie di pesci possono controllare in modo analogo il loro assetto subacqueo attraverso la vescica natatoria, che contiene aria. Comprimendo la vescica con l'azione dei muscoli riducono il loro volume e quindi la spinta di Archimede e possono scendere; rilasciando i muscoli la vescica si espande e possono invece risalire fino in superficie. Liquidi ideali: Alcuni liquidi hanno coefficiente di viscosità molto basso e coefficiente di comprimibilità molto alto, a tutti gli effetti si può considerare il fluido come ideale inteso come quel fluido che ha massa costante e coefficiente di viscosità nullo. Conseguenza più notevole è che per un fluido ideale non esistono sforzi di taglio poiché questi dipendono direttamente dal coefficiente di viscosità. In un fluido ideale gli sforzi si riducono solo a pressioni cioè a sforzi normali:
Vale inoltre il Teorema di Pascal: in un fluido ideale la pressione in un punto è indipendentemente dall'orientazione della superficie su cui agisce. Utilizzando le relazioni di Cauchy infatti si può vedere che: − p = σxx = σyy = σzz Equazione di continuità: Si può definire un'equazione di continuità anche in fluidodinamica. Essa, in pratica, diventa una legge di conservazione della massa. Si consideri un volume di controllo elementare fisso nel tempo dV = dx dy dz delimitato da facce parallele agli assi coordinati. Il principio di conservazione della massa esprime il fatto che il flusso netto di massa attraverso la superficie di controllo nell' intervallo di tempo dt è pari alla variazione di massa all'interno dello stesso elemento. Essendo il volume di controllo infinitamente piccolo ed assumendo che le variabili varino con continuità nello spazio e nel tempo, la massa del volume di controllo può essere espressa con dm = ρdV dove ρ è la densità del fluido. che per un fluido incomprimibile diventa: Teorema di Bernoulli: L'equazione di Bernoulli, citata in seguito, è il cuore di tutta l'idrodinamica. Essa altro non è che una formulazione matematica della legge di conservazione dell'energia totale, che sfrutta parametri quali l'altezza di partenza e di arrivo del flusso d'acqua, la velocità di partenza e di arrivo, la pressione di partenza e di arrivo, la densità e l'accelerazione di gravità. Queste grandezze sono poste in relazione tramite l'equazione di primo grado dove C1,C2 sono le velocità in due punti differenti del flusso; h1,h2 sono le due altezze prese in considerazione; P1,P2 sono le pressioni esercitate in due differenti punti del flusso; d è la densità e g l'accelerazione di gravità (due costanti).
É bene ricordare, tuttavia, che tale equazione deve sottostare a delle ipotesi: ci si deve trovare, infatti, nelle situazioni di flusso inviscido, stazionario, irrotazionale ed incomprimibile. Teorema: Siano h1 e h2 le altezze dei centri delle 2 sezioni S1 e S2 Consideriamo la porzione di fluido compresa tra S1 e S2 e supponiamo le pareti rigide. Dopo un intervallo di tempo Δt il fluido si sposta. Poiché il sistema è da ritenersi conservativo, vale il principio di conservazione dell’energia meccanica che è = al teorema dell’energia cinetica quando nel sistema agiscono forze conservative,quindi tutte le forze che agiscono sul fluido devono uguagliare la variazione dell’energia cinetica nello spostamento del fluido. In corrispondenza di S1 vi è la pressione dinamica p1, quindi agisce una forza F1 di modulo p1* S1 mentre in corrispondenza della S2 vi è la pressione p2 quindi agisce una forza F2 di modulo p2* S2 esercitata dal fluido spostato. Ma la forza da considerare è F ’ 2 che per reazione il fluido situato a valle esercita la quale ha anch’essa modulo p2* S2 x il terzo principio della dinamica. In Δt il punto di applicazione della forza F1 si sposta nel tratto l1 nella stessa direzione e verso della forza è il lavoro compiuto è L1= p1 S1 l1. La forza di reazione si sposta nel tratto l2 e poiché lo spostamento è nella stessa direzione della forza ma ha verso opposto il lavoro L2= ‐ p2 S2 l2. I 2 volumi S1*l1 e S2* l2 che attraversano le 2 sezioni sono uguali. X la costanza della portata. Bisogna ora considerare il lavoro connesso con le forze di gravità e si ipotizza che la massa di fluido compresa tra i piani x e y rimanga ferma e si ha solo il trasferimento del volume S1 * l1= S2 * l2 da h1 a h2. Poiché la massa in tale volume è m = ρ * S1 * l1 = ρ * S2 * l2 allora il lavoro delle forze di gravità è L3= m g (h1 –h2)= ρ * S1 * l1 * g (h1‐h2) quindi il lavoro complessivo di tutte le forze è p1 S1 l1 ‐ p2 S2 l2 + ρ * S1 * l1 * g (h1‐h2). Rimane solo da variazione di energia cinetica che è = a ½ m (v22 – v12) cioè K=½ ρ * S1 * l1 (v22 – v12). Eguagliando il lavoro totale con K e dividendo per S1 l1 = S2 l2 si ha P1 – p2 + ρ g (h1‐h2) = ½ ρ (v22 – v12) ovvero P1+ ρ g h1 + ½ ρ v12 = p2 + ρ g h2 + ½ ρ v22 ma siccome le due sezioni sono state date in modo arbitrario si può dire P + ρ g h + ½ ρ v2= costante dove p e v sono la pressione dinamica e la velocità in corrispondenza della sezione e h l’altezza rispetto ad un piano qualunque. Quindi per un fluido in moto stazionario in un condotto è costante in ciascuna sezione del condotto, la somma della pressione dinamica, cinetica e di gravità.
TERMODINAMICA Calore: è il trasferimento di energia da un corpo ad un altro dovuto a una differenza di temperatura tra i due corpi. È energia interna (energia potenziale + energia cinetica delle molecole) che si trasmette da un corpo a temperatura maggiore ad un corpo con temperatura minore. Si può prendere come corpo di riferimento una massa di acqua e definire il calore assorbito o ceduto come: dove è la temperatura iniziale dell'acqua, quella finale e , detto calore specifico, assume un valore arbitrario nel caso dell'acqua. La notazione c è utilizzata in alcuni manuali di fisica, mentre in quelli di livello universitario è più frequente trovare la notazione cx per indicare che si tratta del calore specifico della trasformazione, completamente distinto dai calori specifici (massici o molari, a pressione o volume costante) del fluido coinvolto. Quando la massa è misurata in grammi e la temperatura in gradi centigradi il calore specifico viene viene misurato in calorie, come se fosse una nuova grandezza fondamentale. posto pari a 1 e il calore In quanto energia, il calore si misura nel Sistema Internazionale in joule. Nella pratica viene tuttavia ancora spesso usata come unità di misura la caloria[cal]. Calore specifico: o capacità termica massica. È una proprietà di una data sostanza ed è la quantità di energia termica espressa in Kcal, necessaria per innalzare di 1° [C] la temperatura della massa di 1 Kg della sostanza. Alcune equivalenze: 1 cal = 4,186 J 1 Joule = 0,2388 cal Si definisce capacità termica di un corpo il rapporto fra il calore fornitogli e l'aumento di temperatura che ne è derivato. L'unità di misura nel Sistema Internazionale è J/K. La capacità termica è proporzionale alla quantità di materia: dove m è la massa e c il calore specifico per unità di massa e C la capacità termica. Quando si misura la quantità di materia in termini di moli, si ha: dove cm è il calore specifico molare ed n è il numero di moli. In termodinamica la capacità termica a volume costante è definita come la derivata parziale dell'energia interna rispetto alla temperatura, a pressione costante invece come la derivata parziale dell'entalpia rispetto alla temperatura: per un solido o un liquido queste due quantità sono sostanzialmente uguali. Per un gas invece la differenza, pari al lavoro di espansione, è significativa ed è quindi opportuno specificare le condizioni del sistema. L'energia interna, simbolo U, è una funzione di stato ed esprime l'energia totale di un sistema materiale, energia totale intesa come somma dei contributi di energia traslazionale, rotazionale, vibrazionale delle molecole che lo compongono, più il contributo dell'energia dovuto agli elettroni e dell'energia al punto zero (energia fondamentale posseduta a 0 K): si misura in Joule (SI) o in Kcal. Per la prima legge della termodinamica, per un sistema chiuso: (5a)
(5b) dove Q ed L rappresentano rispettivamente calore assorbito dal sistema e lavoro fatto dal sistema.
L'equivalente meccanico del calore fu un concetto fisico che svolse un ruolo importante nello sviluppo della legge di conservazione dell'energia e per la termodinamica del XIX secolo. Il fisico inglese James Prescott Joule, tramite una famosa esperienza (1850) con uno strumento denominato "mulinello di Joule", effettuò una misura precisa dell'equivalente meccanico della caloria, ottenendo un valore molto preciso per quei tempi (anche grazie all'ottima lavorazione dello strumento effettuata dal meccanico aiutante di Joule). Per mezzo di tale esperimento Joule determinò un valore dell'equivalente meccanico del calore pari a 4.18 J/cal, valore di straordinaria precisione per i tempi. In seguito, tramite altre e più sofisticate esperienze di elettromagnetismo, si pervenne al valore di 4.1855 J/cal. Il primo principio della termodinamica (anche detto, per estensione, Legge di conservazione dell'energia) è un assunto fondamentale da cui si diparte gran parte della teoria della termodinamica. Il cardine del primo principio, nonché dell'intera termodinamica, è l'equivalenza di calore e lavoro. Tale equivalenza fu dimostrata da Joule attraverso il noto esperimento nel quale trasferiva energia meccanica al sistema lasciando cadere un peso accoppiato meccanicamente ad un'elica, immersa in un liquido contenuto in un recipiente adiabatico, per mezzo di una corda. Risultato dell'esperienza fu l'aumento della temperatura del liquido. Per poter definire il primo principio, in termini di bilancio energetico, c'è bisogno di due postulati essenziali: - L'energia non si genera. (ΔEG = 0) - L'energia non si distrugge. (ΔED = 0) Quanto postulato, determina che: ‐ Per un sistema isolato (ovvero senza flussi di energia che vengono dall'esterno) l'energia è costante. L'universo è considerato un sistema isolato. È utile definire, istante per istante, attraverso quali modalità è possibile scambiare energia con il sistema considerato, a tal proposito parleremo di: Flusso convettivo: Se il tipo di scambio energetico è dovuto alla variazione della massa del sistema considerato a cui è associata un'energia (ad esempio se spingo 1 kg di acqua ad una certa velocità "w" in una caldaia, questa massa avrà un'energia cinetica, oppure se la lascio cadere del fluido da una certa altezza ci sarà un contributo di energia potenziale). Calore: Se la causa della variazione di energia del sistema dipenda da una variazione di temperatura. Chiameremo tale scambio energetico "Potenza Termica" (energia termica fornita al sistema nell'unità di tempo) indicandola con . L'unità di misura nel SI è, in questo caso, il Watt (W). Lavoro: Se la causa della variazione energetica è diversa da tutte quelle sopra evidenziate. Chiameremo tale scambio energetico "Potenza Meccanica" e la indicheremo con . Anche in questo caso l'unità di misura è il Watt (W). Premesso ciò, possiamo dire che per un volume interessato da più contributi per ogni tipologia di scambio energetico, il bilancio di energia si può scrivere come:
rappresenta la variazione totale dell'energia all'interno del sistema, i termini e Dove rappresentano i flussi di calore e lavoro totali (entranti ed uscenti dal sistema) mentre gli altri due addendi
rappresentano masse che entrano ed escono dal sistema apportando o asportando energia sottoforma di cinetica ( ), potenziale (gz) ed interna specifica per ogni massa (u). Per un sistema chiuso, ovvero che non può scambiare nessuna massa con l'esterno, gli ultimi due addendi ovviamente sono nulli, per cui la relazione sarà: Facendo riferimento all'energia per una trasformazione completa, e non alla potenza, e considerando EVC come energia interna del volume considerato (EVC = U) il bilancio energetico si può scrivere come: Cioè, la variazione di energia interna U di un qualsiasi sistema termodinamico (un uomo, un reattore chimico, un pianeta) corrisponde alla differenza delle quantità di calore Q e lavoro L forniti al sistema. Q ed L sono considerati riferiti al sistema, vale a dire: L positivo quando è ceduto dal sistema all'ambiente, Q positivo quando è ceduto dall'ambiente al sistema. Il primo principio può essere scritto in forma differenziale: Dove d è un differenziale esatto mentre, dato che le variazioni infinitesime di calore e lavoro esprimono differenziali non esatti, le indicheremo con il simbolo δ. Q ed L, infatti, non sono funzioni di stato, in quanto dipendenti dal particolare percorso compiuto nel corso della trasformazione. La prima legge della termodinamica definisce l'energia interna come funzione di stato, ovvero una caratteristica termodinamica atta ad identificare lo stato energetico del sistema in esame. Più semplicemente, assegnate le coordinate termodinamiche di pressione, massa e temperatura si è raggiunto tale stato: U rappresenta quindi una funzione di stato. Esempio: Si consideri 1 Kg di Azoto (N2) 100°C ed 2 Atm (373,16 K e 202650 Pa) che vogliamo portare fino a 200°C e 6 Atm fornendo sia calore (trasferimento da una sorgente più calda) che lavoro (compressione attraverso un pistone) al sistema. Si potrebbero individuare in questo modo infiniti valori possibili per Q ed L, e cioè tutti quelli che hanno come differenza Δ U* uguale (considerando livello energetico zero quello iniziale). Per trasformazione termodinamica si intende quel processo tramite il quale un sistema termodinamico passa da uno stato di equilibrio ad un altro. Un sistema termodinamico si trova in linea di massima in uno stato di equilibrio quando le variabili principali, ovvero pressione, volume e temperatura del sistema, non subiscono nessuna ulteriore variazione. In termodinamica una trasformazione isocora è una variazione dello stato di un sistema durante la quale il volume rimane costante. La trasformazione isocora di un gas perfetto è descritta dalla seconda legge di Gay‐Lussac che, in un diagramma pressione‐volume, è rappresentata da un segmento parallelo all'asse delle pressioni. In termodinamica una trasformazione isobara è una trasformazione termodinamica dello stato di un sistema fisico durante la quale la pressione rimane costante. In termodinamica una trasformazione isoterma è una variazione dello stato di un sistema fisico durante la quale la temperatura rimane costante. La trasformazione isoterma di un gas perfetto è descritta dalla legge di Boyle che, in un diagramma pressione‐volume, è rappresentata da un ramo di iperbole equilatera. In termodinamica una trasformazione adiabatica è una trasformazione termodinamica nel corso della quale un sistema fisico non scambia calore con l'ambiente esterno. In termodinamica l'entropia è una funzione di stato che si introduce insieme al secondo principio della termodinamica e che viene interpretata come una misura del disordine di un sistema fisico o più in generale dell'universo. In base a questa definizione si può dire, in forma non rigorosa ma esplicativa, che quando un sistema passa da uno stato ordinato ad uno disordinato la sua entropia aumenta. Nel Sistema Internazionale si misura in joule su kelvin (J/K). La variazione della funzione di stato entropia S venne introdotta nel 1864 da Rudolf Clausius nell'ambito della termodinamica come
dove ΔQrev è la quantità di calore assorbito o ceduto in maniera reversibile e isoterma dal sistema a temperatura T. In forma differenziale, la legge si presenta così:
È importante notare come, mentre δQrev non è un differenziale esatto, dividerlo per la temperatura T lo rende tale: è dunque il fattore d'integrazione. Occorre sottolineare che dS è un differenziale esatto solo se è valido il secondo principio della termodinamica. In una delle sue diverse formulazioni, il secondo principio della termodinamica afferma che in un sistema isolato l'entropia può solo aumentare, o al limite rimanere costante per trasformazioni termodinamiche reversibili. Seconda legge della termodinamica: Il secondo principio della termodinamica, è legato alla termodinamica classica. Esso si fonda sull'introduzione di una nuova funzione di stato, l'entropia, e di due postulati che ne regolano le caratteristiche.Il secondo principio è fondamentale, in quanto stabilisce il verso delle interazioni termodinamiche, ovvero chiarisce il perché una trasformazione avviene spontaneamente in un modo piuttosto che in un altro; basti pensare al calore che fluisce naturalmente da una sorgente più calda ad una più fredda: il contrario è impossibile. Impossibilità, questa, non deducibile affatto dal 1° principio della termodinamica. Esistono molte formulazioni equivalenti di questo principio. Quelle che storicamente si sono rivelate più importanti sono: ‐ Nella formulazione di Clausius, si afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo. ‐ Nella formulazione di Kelvin-Planck, si afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato preveda che tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea sia interamente trasformato in lavoro. Non è possibile - nemmeno in linea di principio - realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%. Nella fisica moderna però la formulazione più ampiamente usata è quella che si basa sulla funzione entropia: In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo. Questo principio ha avuto, da un punto di vista storico, un impatto notevole. Infatti implicitamente sancisce l'impossibilità di realizzare il moto perpetuo cosiddetto di seconda specie e tramite la non reversibilità dei processi termodinamici definisce una freccia del tempo. I due principi della termodinamica macroscopica valgono anche nei sistemi aperti, e vengono generalizzati tramite l'energia.
GAS In fisica e in termodinamica si usa generalmente l'approssimazione detta dei gas perfetti: il gas cioè viene considerato costituito da atomi puntiformi, che si muovono liberi da forze di attrazione o repulsione fra loro e le pareti del contenitore: questa approssimazione conduce a formulare la legge nota come equazione di stato dei gas perfetti, che descrive, in condizioni di equilibrio termodinamico, la relazione fra pressione, volume e temperatura del gas: dove P è la pressione, V il volume occupato dal gas, n il numero di moli del gas, R la costante universale dei gas perfetti e T è la temperatura. Per esempio, una mole di gas perfetto occupa 22,4 litri a temperatura di 0ºC e pressione di 1 atmosfera. Da questa legge ne discendono poi altre due: La legge di Boyle Per una certa massa di gas a temperatura costante, il prodotto del volume del gas V per la sua pressione P è costante. Cioè per una certa massa di gas a temperatura costante, le pressioni sono inversamente proporzionali ai volumi. La figura geometrica che ha per equazione l'espressione è una iperbole equilatera. La legge di Boyle è una legge limite vale cioè con buona approssimazione ma non in modo assoluto per tutti i gas. Un gas perfetto o gas ideale che segua perfettamente la legge di Boyle non esiste. Le deviazioni dal comportamento dei gas reali sono assai piccole per un gas che si trovi a bassa pressione e ad una temperatura lontana da quella di liquefazione. La trasformazione isoterma è quindi una variazione del volume e della pressione mantenendo costante la temperatura. La prima legge di Gay Lussac Un gas perfetto che alla temperatura di 0°C occupa un volume V° e che viene riscaldato mantenendo costante la pressione occupa alla temperatura t un volume Vt espresso dalla legge in cui V0 è il volume occupato dal gas a 0°C e α0 è pari a 1/273,15. La temperatura è espressa in gradi Celsius. La trasformazione isobara è una variazione del volume e della temperatura a pressione costante. In un diagramma pressione‐volume è rappresentata da un segmento parallelo all'asse dei volumi. Quindi la variazione di volume che subisce un gas per la variazione di temperatura di ogni grado centigrado ammonta a 1/273 del volume che il gas occupa a 0 centigradi. La seconda legge di Gay Lussac La relazione che intercorre tra pressione‐volume e quella tra temperatura e volume, permette di ricavare la relazione tra la pressione di un gas e la temperatura quando si operi a volume costante. Un gas perfetto che alla temperatura di 0°C ha una pressione p° e che viene scaldato mantenendo costante il volume si trova ,alla temperatura t,a una pressione pt espressa dalla legge: Oltre alle leggi summenzionate, per i gas perfetti vale anche la legge di Avogadro: a pari condizioni di temperatura e pressione, se due gas occupano lo stesso volume allora hanno lo stesso numero di molecole. Una mole di gas (n = 1, N = NA) alla temperatura T = 0 oC e alla pressione p = pn = 1 atm occupa V = 22,4 litri, da cui R = 0,082 litri∙atm/K. Nel S.I. si ha R = 8,31 Pa∙m3/K. Essendo V = m/r e posto nR = k, l’equazione di stato di un plasma (ossia di un gas perfetto ionizzato) k generalmente viene scritta nella forma: p = ρT μm H ‐27 dove mH = 1,67∙10 kg è la massa dell’atomo di idrogeno e m è il peso molecolare medio delle particelle che costituiscono il plasma.
Per esempio se si tratta di puro idrogeno ionizzato si ha m = 0,5 in quanto una particella "media" ha massa media tra quella del protone (che possiamo assumere uguale a 1) e quella dell'elettrone che possiamo considerare nulla. La trasformazione isocora di un gas perfetto è descritta dalla seconda legge di Gay‐Lussac: che, in un diagramma pressione‐volume, è rappresentata da un segmento parallelo all'asse della pressione. Se ora si considera una trasformazione isocora reversibile finita di un gas perfetto tra due stati alle temperature T1 e T2, e supponendo che in questo intervallo di temperatura il calore molare cv si possa considerare costante, dalla definizione δQ = ncvdT si ottiene dal primo principio della termodinamica: Qisoc = ΔU = ncv(T2 − T1) e quindi anche Lisoc = Infatti per quanto riguarda il lavoro: dL = pdV essendo 0 Dalla definizione entropia: , nel caso di una trasformazione isocora di un gas perfetto si ottiene:
da cui si vede che l'entropia di un'isocora aumenta per un riscaldamento o aumento di pressione. La trasformazione isobara di un gas perfetto è descritta dalla prima legge di Gay‐Lussac: che, in un diagramma pressione‐volume, è rappresentata da un segmento parallelo all'asse dei volumi. La trasformazione isoterma di un gas perfetto è descritta dalla legge di Boyle: che, in un diagramma pressione‐volume, è rappresentata da un'iperbole equilatera. Nel caso di una trasformazione adiabatica di un gas ideale δQ = 0, si ha dal primo principio della termodinamica: Utilizzando l'equazione di stato dei gas ideale:
e integrando si ottiene: cvlnT + RlnV = cost
FENOMENI ONDULATORI ED ELETTROMAGNETICI I corpi in natura possono essere conduttori, semiconduttori o isolanti; la differenza è dovuta alla frazione di elettroni liberi di muoversi nella banda di conduzione o legati nella banda di valenza. La carica elettrica elementare è quella dei protoni (positiva) e degli elettroni (negativa), ma in realtà la materia è composta di quark (particelle con carica elettrica frazionaria che costituiscono i protoni e i neutroni) e di leptoni. La forza elettrostatica (attrattiva o repulsiva) che si esercita tra due cariche elettriche e` stabilita dalla legge di Coulomb: qq 1 q1q2 F = k 1 22 = r 4πε r 2 simile alla legge di Newton, ma con una differenza importante: le masse sono solo positive, mentre le cariche elettriche possono essere positive oppure negative. La grandezza e e` detta costante dielettrica e = e0er, dove e0 = 8.86∙10‐12 C2N‐1m‐2 è la costante dielettrica del vuoto e er > 1 è la costante dielettrica relativa al mezzo. Nel caso dell’acqua si ha er ~ 80 (molto grande), e quindi la forza di Coulomb è molto piccola; questo è il motivo per cui l’acqua si dissocia molto facilmente (elettrolisi). Nel S.I. la grandezza elettrica fondamentale è l`unità di corrente elettrica (ampere) e l’unità di carica elettrica, il Coulomb [C] è una grandezza derivata da dq = i∙dt. Il Volt [1V = 1J/1C] è l’unità di misura del potenziale elettrico. Il lavoro fatto per spostare la carica q > 0 dal punto A al punto B non dipende dal percorso e vale: Circuiti elettrici:La corrente elettrica, misurata in Ampere [1A = 1C/1s], rappresenta il flusso di cariche positive attraverso la sezione di un conduttore ai cui capi è applicata la differenza di potenziale V = VA – VB. dq corrente i = dt Un condensatore è un componente dei circuiti in grado di accumulare su ogni armatura la carica q. Si definisce capacità del condensatore il rapporto tra carica e tensione tra le armature: q C= V Leggi di OHM:forniscono la relazione tra il passaggio della corrente in un conduttore e la tensione applicata ai suoi capi. La grandezza R, misurata in [W], è detta resistenza elettrica e la grandezza r, misurata in [W m], è detta resistività. Il suo inverso, s = 1/r, misurata in Siemens [W‐1m‐1] è detto conducibilità. In un circuito le resistenze possono essere in serie o in parallelo. La resistenza interna r di un generatore di tensione (generatore ideale) si può spesso trascurare nel calcolo della resistenza equivalente Req di un circuito. Poichè la corrente che attraversa resistenze in serie è la stessa, la resistenza equivalente è data da: Req = i Ri
V = Ri
∑
R=ρ
l S
Resistenze in parallelo hanno invece la stessa differenza di potenziale ai loro capi e la corrente si suddivide tra i vari rami in modo inversamente proporzionale ai valori delle resistenze. In questo caso la resistenza equivalente è data da:
1 1 = ∑i Req Ri
Ceq = ∑i Ci
Per i condensatori vale le regola opposta: se in parallelo la capacita` totale è: 1 1 = i e viceversa in serie: Ceq Ci La capacità di un condensatore dipende dalla costante dielettrica del mezzo interposto tra le armature e dalle sue caratteristiche geometriche. q C= V2 − V1 La semplificazione e risoluzione di un circuito elettrico si ottiene applicando alcuni teoremi (per esempio quelli di Thevenin e di Norton). Un circuito si può semplificare in un circuito equivalente applicando le leggi di Kirchoff: • prima legge (dei nodi): in un nodo la somma algebrica delle correnti è nulla, • seconda legge (delle maglie): in una maglia la somma algebrica delle tensioni è nulla. Deve valere il Principio di sovrapposizione: se in una rete sono presenti piu generatori di tensione, la corrente in un ramo è la somma delle correnti prodotte dai singoli generatori. La prima legge di Kirchhoff delle correnti (LKC o LKI) afferma che, definita una superficie chiusa che attraversi un circuito elettrico, la somma algebrica delle correnti che attraversano la superficie (con segno diverso se entranti o uscenti) è nulla. In ogni istante di tempo si ha quindi:
∑
∑ i (t) = 0 k
σ dove σ è la superficie che racchiude parte del circuito e ik(t) il valore della k − esima corrente (che attraversa σ) all'istante t. In una formulazione semplificata, e definendo una superficie che racchiuda un singolo nodo del circuito, si può dire che in esso la somma delle correnti entranti è uguale alla somma delle correnti uscenti (per la definizione di nodo vedi la figura più sotto). Indicando con Ie le correnti entranti e con Iu le correnti uscenti, in formula si scrive:
Ad esempio, prendiamo un nodo a cui giungono quattro rami del circuito e chiamiamo le correnti i1, i2, i3 ed i4. Decido che da un solo ramo uscirà corrente (i4), quindi la formula sarà: i1 + i2 + i3 = i4 che trasformata nella forma canonica i1 + i2 + i3 ‐ i4 = 0 In questo caso essendoci un'unica uscita, i4 sarà la somma di tutte le altre correnti. La somma algebrica totale sarà quindi nulla. Se risolvendo il circuito otteniamo un valore negativo di corrente questo significa che il verso effettivo con cui la carica percorre il ramo è l'opposto di quello ipotizzato all'inizio. Nella formulazione più semplice la seconda legge di Kirchhoff delle tensioni (LKT o LKV) afferma che, in un circuito a parametri concentrati planare, è definito il concetto di potenziale elettrico (vedi anche differenza di potenziale o d.d.p.). Equivalentemente, la somma algebrica delle tensioni lungo una linea chiusa (con il segno appropriato in funzione del verso di percorrenza della maglia stessa) è pari a zero. Se le grandezze elettriche del circuito sono rappresentate nel dominio del tempo (per esempio se è in corrente continua) la somma va intesa come somma algebrica. Se il circuito è in corrente alternata e le grandezze elettriche sono rappresentate da fasori la somma può essere fatta anche sui fasori corrispondenti alle tensioni (quindi come somma vettoriale.) Indicando con Vi le tensioni, in formula si può scrivere: . Una maglia (vedi figura) è un percorso chiuso di una rete elettrica che partendo da un nodo torna allo stesso senza attraversare uno stesso ramo due volte, non è necessario che tra due nodi successivi di una maglia ci sia un componente "effettivo" (anche perché si può sempre immaginare la presenza di un componente circuito aperto). Questa legge corrisponde alla legge di conservazione dell'energia per un campo conservativo, in quanto afferma che il lavoro compiuto per far compiere ad una carica un percorso chiuso deve essere uguale a zero. Effetto Joule: il lavoro L = q(VA‐VB) = qDV prodotto dallo spostamento di una carica elettrica tra due punti del campo elettrostatico può essere espresso in termini di passaggio della corrente elettrica i = q/t in un conduttore di resistenza R=DV/i. Si ottiene così L = Ri2t e l’energia termica associata a questo lavoro Q = Ri2t/J (J equivalente meccanico del calore: 1 cal = 4,186 J) viene dispersa nell’ambiente sotto forma di calore. Potenza: per definizione la potenza associata al lavoro è P = L/t = Ri2 = V2/R = Vi. Si noti che la potenza si misura in watt (o kW) mentre il kWh è un lavoro, o l’energia utilizzata per compiere il lavoro. Campo magnetico: Esempi di campo magnetico sono quello terrestre, le calamite, i magneti, ecc... Sono sempre definiti da un polo nord e un polo sud, anche se i monopoli magnetici sono particelle previste dalla teoria GUT, ma non scoperti. Le linee di flusso del campo magnetico indicano la direzione del campo e il valore dell’induzione magnetica B (da S a N). Forze di Lorentz: un campo magnetico non ha effetto sulle particelle neutre ma provoca la deviazione di particelle cariche la cui velocità cambia di direzione ma non di modulo. Un campo magnetico è un campo vettoriale: associa, cioè, ad ogni punto nello spazio un vettore che può variare nel tempo. L'effetto fisico di un campo magnetico si esplica in termini della forza di Lorentz subita da una carica elettrica in movimento attraverso, appunto, il campo. Sorgenti del campo magnetico sono correnti elettriche. Se la particella ha massa m, carica q e velocita` costante v, la forza di Lorentz e` data da F = qvרB e non dipende da m. Tuttavia, essendo la forza centripeta: F = m ac = m v2/R = m w2R il raggio di curvatura R = mv/qB (costante nel tempo se B e` costante) dipende da m, nel senso che se m e` grande la particella e` poco deviata e viceversa; inoltre la velocita` angolare w = qB/m non dipende da v. Se e` presente anche un campo elettrico E, l’espressione piu` completa delle forze di Lorentz e` allora data da: F = q( E + v ∧ B)
Le onde sono vibrazioni (possono essere di tipo elastico, meccanico o acustico) che si propagano in un mezzo, oppure sono onde elettromagnetiche che si propagano anche nel vuoto (oltre che in un mezzo). Le onde possono essere longitudinali se oscillano lungo la direzione di propagazione, oppure trasversali se oscillano in direzione perpendicolare alla loro propagazione. I suoni sono onde longitudinali, di pressione, che si propagano in un mezzo ma non nel vuoto. Nel S.I. l’intensità di un suono (che si misura in W/m2), di ampiezza A e frequenza n, che si propaga alla velocità V in un mezzo di densità r, è definita da: I = 2p2VrA2n2 Tuttavia, poichè i sensi dell’uomo (udito e vista) hanno risposta logaritmica allo stimolo a cui sono sottoposti, vengono anche usate altre unità di misura: le magnitudini in astronomia e i decibel in acustica. L'intensità del suono si misura in decibel [dB] dalla soglia di udibilità I0 = 10‐12 W/m2. La relazione tra l'intensità di un suono I e il suo livello b in decibel e`: I β = 10 log10 (per es. se I = 10‐4 W/m2, b = 80 dB). I0 La soglia del dolore è ~ 1 W/m2. I suoni sono classificati come acuti (alta frequenza) o gravi (bassa frequenza). L’orecchio umano ha sensibilità in frequenza tra f ~ 40 Hz e f ~ 20 kHz. Nelle onde (elettromagnetiche o sonore) si ha l’effetto Doppler che, nei due casi vale: Δλ = ± v λ c V f = f0 V ±v L'effetto Doppler è un cambiamento apparente della frequenza o della lunghezza d'onda di un'onda percepita da un osservatore che si trova in movimento rispetto alla sorgente delle onde. Per quelle onde che si trasmettono in un mezzo, come le onde sonore, la velocità dell'osservatore e dell'emettitore vanno considerate in relazione a quella del mezzo in cui sono trasmesse le onde. L'effetto Doppler totale può quindi derivare dal moto di entrambi, ed ognuno di essi è analizzato separatamente. È importante notare che la frequenza del suono emesso dalla sorgente non cambia nel sistema di riferimento solidale alla sorgente. Per comprendere il fenomeno, consideriamo la seguente analogia: se siamo fermi sulla spiaggia, vediamo arrivare le onde supponiamo ogni cinque secondi, quindi ad una determinata frequenza; se ora entriamo in acqua e navighiamo verso il mare aperto, andiamo incontro alle onde, quindi le incontriamo più frequentemente (la frequenza aumenta), mentre se navighiamo verso riva, nella stessa direzione delle onde, la frequenza con cui le incontriamo diminuisce. Per fare un altro esempio: qualcuno lancia una palla ogni secondo nella nostra direzione. Assumiamo che le palle viaggino con velocità costante. Se colui che le lancia è fermo, riceveremo una palla ogni secondo. Ma, se si sta invece muovendo nella nostra direzione, ne riceveremo un numero maggiore perché esse saranno meno spaziate. Al contrario, se si sta allontanando ne riceveremo di meno. Ciò che cambia è quindi la frequenza nel sistema di riferimento del rilevatore; come conseguenza, l'altezza del suono percepito cambia.
Se una sorgente in movimento sta emettendo onde con una frequenza f0, allora un osservatore stazionario (rispetto al mezzo di trasmissione) percepirà le onde con una frequenza f data da:
dove v è la velocità delle onde nel mezzo e vs, r è la velocità della sorgente rispetto al mezzo (considerando solo la direzione che unisce sorgente ed osservatore), positiva se verso l'osservatore, e negativa se nella direzione opposta). Un'analisi simile per un osservatore in movimento e una sorgente stazionaria fornisce la frequenza osservata (la velocità dell'osservatore è indicata come vo): In generale, la frequenza osservata è data da: dove vo è la velocità dell'osservatore, vs è la velocità della sorgente, vm è la velocità del mezzo, e tutte le velocità sono positive se nella stessa direzione lungo cui si propaga l'onda, o negative se nella direzione opposta. Luce(e natura corpuscolare di essa) Nel 1900 Planck propose che la radiazione fosse quantizzata, ossia composta di quanti di energia multipli di un valore minimo e0 (ossia ne0, con n > 1). La teoria di Planck sulla radiazione permise di spiegare l’effetto fotoelettrico e l’effetto Compton. Dunque la luce (o generalmente la radiazione) deve avere anche natura corpuscolare, come proposto da Einstein nel 1905, che introdusse il quanto elementare di luce, il fotone. Al fotone di frequenza n viene associata l'energia E = hn, dove la costante di Planck h vale: h = 6.63∙10‐34 J∙s = 4,14∙10‐15 eV∙s. L’effetto Compton descrive l'urto elastico di un fotone su un elettrone. Il fenomeno osservato per la prima volta da Arthur Compton nel 1923, divenne ben presto uno dei capisaldi per la descrizione quantistica della luce. L'esperimento di Compton consisteva nell'inviare un fascio di luce su un oggetto ed osservarne la diffusione. Il fisico statunitense osservò che i fotoni di alta energia (fra gli 0,5 ed i 3,5 MeV) che passavano all'interno del materiale subivano una perdita di energia, ovvero viravano verso il rosso. Questo effetto può essere spiegato semplicemente se si pensa ai fotoni come a particelle che urtano elasticamente contro gli elettroni presenti negli atomi, cedendogli energia. Accettare questa spiegazione vuole però dire abbandonare la teoria ondulatoria della luce descritta dalle equazioni di Maxwell in favore di una teoria corpuscolare della luce che non dà conto degli effetti di interferenza (già ben noti all'epoca). La soluzione del paradosso è stata l'introduzione di una teoria quantistica della luce. OTTICA GEOMETRICA: è la branca dell'ottica che studia il comportamento della luce quando questa interagisce solo con oggetti di dimensioni molto maggiori della sua lunghezza d'onda. Con questa condizione, gli unici fenomeni rilevanti sono la rifrazione e la riflessione ed è possibile dare una spiegazione approssimata, ma sufficiente in molti casi, del funzionamento di specchi, prismi, lenti e dei sistemi ottici costruiti con essi. La rifrazione e la riflessione sono spiegati dal principio di Fermat. La riflessione è il fenomeno per cui un raggio di luce che incide su una superficie genera un nuovo raggio che si trova nel piano definito dal raggio incidente e dalla perpendicolare alla superficie. Il raggio riflesso forma con la perpendicolare un angolo con la stessa ampiezza e verso opposto. Il fenomeno della riflessione si manifesta anche abbinato alla rifrazione, al passaggio della luce da una sostanza ad un'altra. La luce riflessa è polarizzata. La rifrazione è il fenomeno per cui un raggio che attraversa la superficie di contatto tra due materiali diversi viene deviato. Il raggio uscente si trova sul piano definito dal raggio entrante e dalla perpendicolare alla superficie di contatto. Le ampiezze degli angoli formati dai due raggi rispetto alla perpendicolare alla superficie sono collegati dalla Legge di Snell: n1sinθ1 = n2sinθ2 Il coefficiente n (indice di rifrazione') dipende dal materiale di cui è fatto il mezzo e dalla lunghezza d'onda della luce ed è uguale al rapporto tra la velocità della luce nel vuoto e quella nel mezzo. Di conseguenza, l'indice di rifrazione del vuoto è 1, e quello di tutte le altre sostanze è maggiore di 1.
Il variare dell'indice di rifrazione in funzione della lunghezza d'onda provoca il fenomeno della dispersione cromatica', cioè la separazione di un raggio di luce bianca nel suo spettro. La dispersione cromatica è all'origine dell'arcobaleno e dell'aberrazione cromatica. Oltre al raggio rifratto, c'è sempre anche un raggio riflesso. Nel caso in cui il raggio provenga dal mezzo con indice di rifrazione maggiore, con un angolo tale che l'angolo uscente dovrebbe essere maggiore di 90 gradi (θ1>arcsen(n2/n1)), il raggio rifratto non è presente e tutta la luce viene riflessa (riflessione totale). Le leggi sulla riflessione e rifrazione sono riassunte dall’equazione: n1sin i = n2sin r Vale il principio che il cammino ottico si può invertire. Ne seguono i concetti di riflessione totale e di angolo limite. Le fibre ottiche ne sono un esempio. L’indice di rifrazione diminuisce al crescere della lunghezza d’onda: n = n(l) > 1 e vale 1 nel vuoto; la velocità della luce in un mezzo è v = c/n La riflessione è il fenomeno, governato dalla legge della riflessione, per cui un'onda elettromagnetica che colpisce una superficie di separazione tra due mezzi, in parte prosegue il suo percorso deviandolo al di là della superficie, mentre in parte torna nella direzione da cui proveniva. In particolare, secondo la nota legge, detto θi l'angolo di incidenza del raggio luminoso e detto θr l'angolo formato dal raggio riflesso con la . Se invece si chiama θt l'angolo formato dal raggio rifratto con la normale alla superficie, si ha che , detti n1 e n2 gli indici di normale alla superficie, secondo la legge di Snell si ha che rifrazione dei mezzi. La riflessione totale avviene se l'angolo θt raggiunge l'ampiezza di π / 2, cioè se non esiste più onda rifratta. Questo fenomeno può avvenire nel passaggio da un mezzo più denso a uno meno denso (ovvero, n1 > n2) e l'angolo θi tale per cui non esiste onda rifratta è detto angolo critico:
Quando θ > θcrit non appare alcun raggio rifratto: la luce incidente subisce una riflessione interna totale ad opera dell'interfaccia. Si genera un'onda di superficie, o onda evanescente (leaky wave), che decade esponenzialmente all'interno del mezzo con indice di rifrazione n2. La formula precedente è stata ottenuta ponendo nella legge di Snell
L'angolo di incidenza del raggio blu θ2 è maggiore dell'angolo critico: il raggio di luce viene riflesso
perché
.
Un diottro è un sistema ottico costituito da due mezzi omogenei, trasparenti e con diverso indice di rifrazione; se la superficie di separazione tra i due mezzi è una porzione di sfera, il diottro si dice sferico. Più in generale si dice "diottrico" un sistema ottico costituito da sole superfici rifrangenti (lenti, ecc.) mentre si dice "catottrico" un sistema ottico costituito da sole superfici riflettenti (specchi, ecc.). Quando un sistema ottico fornisce di un punto luminoso P un immagine puntiforme P', cioè quando tutti i raggi uscenti da P si incontrano in P', dopo aver subito rifrazioni o riflessioni imposte dal sistema ottico, esso è detto stigmatico. Dato un sistema ottico, la conoscenza di pochi punti, detti punti principali, permette di costruire l'immagine di un qualsiasi oggetto. Per il diottro i punti principali sono il centro C della curvatura ed i fuochi del diottro: il centro di curvatura C ha la proprietà che qualsiasi raggio di luce proveniente dallo spazio oggetto e passante per C non subisce deviazioni nell'attraversare la calotta sferica; il secondo fuoco F2 del diottro è invece il punto in cui convergono tutti i raggi luminosi provenienti dallo spazio oggetto parallelamente all'asse ottico. Il secondo fuoco è quindi l'immagine di un punto posto all'infinito; il primo fuoco F1 è il punto sull'asse ottico nello spazio oggetto, la cui immagine è il punto posto all'infinito; Le distanze focali f1 e f2 di un diottro dipendono dunque dalle sue caratteristiche. La formula che lega le distanze focali di un diottro agli indici di rifrazione costituenti i due mezzi del diottro stesso è: , dove n1 e n2 sono gli indici di rifrazione assoluti per i due mezzi. Il tipo più comune è rappresentato dalle lenti sferiche, caratterizzate dall'avere le due superfici opposte costituite idealmente da porzioni di una sfera di dato raggio, R1 ed R2. Ciascuno di questi parametri è il raggio di curvatura della corrispondente superficie. Il segno di R1 determina la forma della superficie: se R1 è positivo la superficie è convessa, se negativa la superficie è concava, se R1 è infinito la superficie ha curvatura zero, ovvero è piatta. Lo stesso vale per la superficie opposta lungo il cammino ottico, ma con i segni invertiti. La linea passante per i centri delle sfere ideali e generalmente passante anche per il centro geometrico della lente è detto asse. Le lenti sono classificate secondo la curvatura delle due superfici: biconvessa o semplicemente convessa se entrambe sono convesse, biconcava o concava se entrambe sono concave, piano‐convessa se una è piatta e l'altra convessa, piano‐concava se una è piatta l'altra è concava, concavo‐convessa se sono una concava ed una convessa. Nell'ultimo caso, se le superfici hanno uguale raggio la lente si definisce menisco, anche se il termine è a volte usato per indicare una generica lente concavo‐convessa. Se la lente è biconvessa o piano‐convessa un fascio di luce collimato o parallelo all'asse che attraversa la lente viene fatto convergere (o focalizzare) su un punto dell'asse, ad una certa distanza oltre la lente nota come distanza focale. Questo tipo di lente è detta positiva.
Se la lente è biconcava o piano‐concava, un fascio collimato è fatto divergere e la lente è perciò detta negativa. Il raggio uscente dalla lente sembra provenire da un punto dell'asse antecedente la lente. Anche questa distanza è chiamata distanza focale, ma il suo valore è negativo rispetto ad una lente convergente. Nella lente concavo‐convessa, la convergenza o divergenza è determinata dalla differenza di curvatura delle due superfici. Se i raggi sono uguali il fascio luminoso non converge né diverge. Il valore della distanza focale può essere calcolato con l'equazione: dove: n è l'indice di rifrazione del materiale con cui è costituita la lente, n' è l'indice di rifrazione dell'ambiente in cui la lente è immersa, d è la distanza tra le due superfici o spessore della lente. Se d è piccolo rispetto a R1 e R2, si ha la condizione di lente sottile e f con buona approssimazione dato da: Il valore di f è positivo per le lenti convergenti, negativo per le divergenti e infinito per le lenti a menisco. L'inverso della distanza focale (1/f) è detto potere diottrico, è espresso in diottrie con dimensioni metri−1. Le lenti sono reversibili, ovvero le distanze focali sono le stesse sia che la luce le attraversi in un senso sia nell'altro (alcune particolari proprietà come le aberrazioni non sono reversibili). Formazione delle immagini [modifica] Come si è detto una lente positiva o convergente focalizza un fascio collimato parallelo all'asse in un punto focale, a distanza f dalla lente. Specularmente, una sorgente luminosa collocata nel punto focale produrrà attraverso la lente un fascio di luce collimato. Questi due casi sono esempio di immagini formate dalla lente. Nel primo caso un oggetto posto a distanza infinita è focalizzato in una immagine su un piano posto alla distanza focale, chiamato piano focale. Nel secondo caso un oggetto posto nel punto focale forma una immagine all'infinito. Date le distanze S1 tra lente ed oggetto e S2 tra lente e immagine, per una lente di spessore trascurabile vale la formula: da cui deriva che se un oggetto è posto a distanza S1 sull'asse della lente positiva di focale f, su uno schermo posto a distanza S2 si formerà l'immagine dell'oggetto. Questo caso, che vale per S1 > f è alla base della fotografia. L'immagine così formata è detta immagine reale.
Si noti che se S1 < f, allora S2 diviene negativo, e l'immagine si forma apparentemente dallo stesso lato dell'oggetto rispetto alla lente. Questo tipo di immagine, detta immagine virtuale, non può essere proiettata su uno schermo, ma un osservatore vedrebbe attraverso la lente una immagine in quella posizione. Una lente da ingrandimento genera questo tipo di immagine ed il fattore di ingrandimento M è dato da: se |M|>1 l'immagine è più grande dell'oggetto. Si noti che il segno negativo, come è sempre per le immagini reali, indica che l'immagine è capovolta rispetto all'oggetto. Per le immagini virtuali M è positivo e l'immagine è diritta. Nel caso speciale in cui S1 = ∞, si ottiene S2 = f ed M = −f / ∞ = 0 Questo corrisponde ad un fascio collimato focalizzato in un punto alla distanza focale. La dimensione del punto non è nulla nel caso reale, poiché la diffrazione impone un limite minimo alla dimensione dell'immagine. (vedi Scattering Rayleigh) La formula precedente può essere applicata anche a lenti divergenti indicando la distanza focale con segno negativo, ma queste lenti possono dare solamente immagini virtuali.