La tua birra fatta in casa Terza edizione
Davide Bertinotti Massimo Faraggi
La tua birra fatta in casa 3a edizione Autori: Davide Bertinotti, Massimo Faraggi Collana:
Publisher: Fabrizio Comolli Editor: Marco Aleotti Progetto grafico e impaginazione: Roberta Venturieri Coordinamento editoriale, prestampa e stampa: escom - Milano Immagine di copertina: © Ghenadii Boico | Dreamstime.com ISBN: 978-88-6604-371-3 Copyright © 2013 Edizioni FAG Milano Via G. Garibaldi 5 – 20090 Assago (MI) - www.fag.it Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata in un sistema che ne permetta l’elaborazione, né trasmessa in qualsivoglia forma e con qualsivoglia mezzo elettronico o meccanico, né può essere fotocopiata, riprodotta o registrata altrimenti, senza previo consenso scritto dell’editore, tranne nel caso di brevi citazioni contenute in articoli di critica o recensioni. La presente pubblicazione contiene le opinioni dell’autore e ha lo scopo di fornire informazioni precise e accurate. L’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità in capo all’autore e/o all’editore per eventuali errori o inesattezze. Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive aziende. L’autore detiene i diritti per tutte le fotografie, i testi e le illustrazioni che compongono questo libro.
Introduzione
Gli X-files degli avvelenatori Assaggio birre da quasi trent’anni, sempre con immutata passione e voglia di imparare e soprattutto con il dovuto rispetto per chi, ingenuo principiante con pentola o scaltro ed esperto professionista con impianto ad alta tecnologia, mi propone la sua creatura. Ho dato un’occhiata in cantina e nel frigo, prima di scrivere questa prefazione, e accanto a rarissime vintage impolverate che forse mai aprirò e a nuove luccicanti birre cui far la scheda degustativa per l’ansioso produttore, un ampio spazio è da sempre invaso da bottiglie nude dalle fogge più disparate e strane con un immancabile foglietto bianco con nome della pozione, data di imbottigliamento e a volte uno stile di riferimento più l’indirizzo e-mail dell’avvelenatore di turno. Io li chiamo X files e gli avvelenatori in questione, sono certo che l’avrete capito, sono loro, i deliziosi, maniacali, ossessivi homebrewers dai quali mi lascio torturare, conscio che tra loro si celano tanti futuri bravi birrai professionisti. Così come accadde a Schumacher che iniziando dal go-kart finì in Formula Uno, sono certo che alcuni di loro, iniziando da una pentola, finiranno con l’affermarsi maneggiando impianti professionali. Sebbene ricordi perfettamente la prima birra che assaggiai consapevolmente, come si usa dire oggi (una Windsor Ale britannica, ora estinta), non riesco a ricordare la prima birra casalinga italiana che mi fu affidata. Ricordo però che già negli anni Ottanta qualche X file di provenienza nostrana cominciava a intrufolarsi nella mia cantina e ad attentare al mio fegato. Erano birre clandestine, in quanto fino al 1995 era proibito fare birra in casa (!). A partire dalla metà degli anni Novanta dovetti incrementare il budget delle mance alla portiera, in quanto, con frequenza sempre più assidua, arrivavano decine e decine di bottiglie da tutta la penisola, isole comprese, come diceva un noto imbonitore televisivo. Il fenomeno stava esplodendo grazie soprattutto all’avvento di Internet, che favorì in modo decisivo lo scambio di informazioni e la possibilità di creare una vivacissima community legata al newsgroup it.hobby.birra, che creò sempre maggiori occasioni di incontri e ben presto portò alla realizzazione di concorsi di alto livello per i quali furono a volte ingaggiati anche giudici internazionali. Da tutto questo mi aspettavo certo una crescita rapida di tutto il movimento hb, nei suoi aspetti qualitativi oltre che nell’aumento esponenziale di nuovi birrai casalinghi. Alcuni anni fa, scrissi per il capitolo dedicato all’homebrewing del mio libro “Le Birre” edito da Gribaudo: In Italia sono “ufficialmente” già più di tremila (ma moltissimi non si sono ancora rivelati), nascosti in garage, cantine, ripostigli e altri pertugi come carbonari o rivoluzionari. Alcuni operano in remoti eremi mentre altri hanno nei vicini di casa dei nemici naturali. I più
fortunati hanno mogli consenzienti che condividono la loro passione, mentre altri furtivamente lasciano il talamo nuziale tre volte ogni notte per controllare lo stato della fermentazione. Ma chi sono questi pazzi? Sono gli homebrewers o birrai casalinghi, che nei ritagli di tempo macinano il malto, fanno bollire il mosto, aggiungono luppolo, inoculano lievito e imbottigliano birre che a volte sono dei capolavori e a volte dei veri e propri intrugli, ma che in entrambi i casi sono pur sempre le loro amate “creature”. Scherzi a parte, questi tremila aspiranti birrai rappresentano un fenomeno emergente che, a livello europeo, pone il nostro Paese in una posizione di grande rilievo. Come già detto, mi sarei aspettato, a quei tempi, una crescita rapida, ma non avrei mai immaginato la supersonica ascesa che il mondo della birrificazione casalinga avrebbe compiuto nel nostro Paese. L’homebrewing fu l’elemento-chiave della straordinaria ed esaltante Renaissance americana, e lo è stato e lo è tutt’ora, con le dovute proporzioni, per tutto il nostro movimento della birra artigianale, sia nei fondatori della metà degli anni Novanta, sia soprattutto nei giovani leoni, protagonisti dell’attuale fase post-pionieristica. Non solo assistiamo a sempre più frequenti salti della barricata di ex-homebrewer che coronano il sogno di aprire un proprio birrificio, ma sta affermandosi il nuovissimo fenomeno di imprenditori che cercano tra i più valenti homebrewers il birraio a cui affidare la produzione per la propria attività. Nel bel mezzo di questa nuova ed esaltante scena, un libro in italiano sulla birrificazione casalinga, completo ed esaustivo come solo due padri quali Davide Bertinotti e Max Faraggi possono garantire, arriva puntuale, deflagrante e, oserei dire, doveroso per colmare la sete di conoscenze, informazioni e nozioni che negli ultimi tempi è cresciuta a livello esponenziale. Sono certissimo che questo libro, oltre a rappresentare uno strumento prezioso e irrinunciabile per chi sta facendo birra nelle proprie case, servirà a far avvicinare a questa affascinante arte un numero impressionante di nuovi adepti, il che porterà a un ampliamento della mia cantina e a un incremento delle mance per la mia portiera. Con affetto Lorenzo Dabove in arte Kuaska
Capitolo 1 Introduzione alla birra fatta in casa
Sommario L’homebrewing, hobby e passione La produzione commerciale della birra Tecniche di produzione casalinga Struttura del libro e percorsi di lettura
1.1 Homebrewing: hobby e passione Questo libro vuol parlare di una passione, per alcuni quasi una “malattia”, senz’altro un bellissimo hobby: quello dell’homebrewing, o, più italianamente, produrre la birra in casa. Un hobby relativamente giovane, almeno in Italia, dove la produzione per uso personale è stata completamente liberalizzata dal 1995. Molti, anche fra i non adepti, sono ormai a conoscenza della possibilità di produrre la birra in casa, ma forse non tutti sanno che, con un po’ di pratica e le giuste basi di conoscenza, è possibile realizzare nella propria cucina tutti i tipi di birra, con ottimi risultati qualitativi, partendo dagli ingredienti “originali” e non da preparati, con le stesse tecniche – su scala ridotta – impiegate dalle birrerie… e tutto questo senza necessità di ambienti ad hoc e di costose attrezzature, bensì con un modesto investimento economico e anche nei ristretti spazi di un appartamento. Lo scopo di questo libro è proprio quello di condurre anche il principiante alla produzione di birra artigianale con tecnica “completa”, detta “all grain”. Al tempo stesso non vogliamo trascurare anche chi, per qualsiasi motivo, vuole accontentarsi di produrre birra - comunque di ottimo livello – utilizzando tecniche semplificate, che pre vedono l’uso di appositi preparati: anche in questo caso le informazioni fornite nel nostro libro saranno utili a ottenere i migliori risultati con questi metodi meno impegnativi, che possono rappresentare per alcuni un soddisfacente punto di arrivo, per altri il primo passo verso la produzione con la tecnica all grain.
“L’homebrewing è anche un’occasione per poter riprodurre (e poi degustare!)
stili di birra rari, antichi, scomparsi o addirittura inventati.” Ma perché farsi la birra in casa, invece di comprarla e bersela comodamente? C’è da dire che una cosa non esclude l’altra, e spesso proprio i produttori casalinghi sono (o diventano) anche appassionati degustatori delle birre di qualità presenti in commercio. I motivi per dedicarsi a questo hobby certo non mancano… Fra i più importanti c’è l’aspetto qualitativo, cioè produrre una birra che – se ben fatta – può essere al livello delle migliori birre artigianali commerciali e superiore ai prodotti industriali per quanto riguarda freschezza, genuinità e sapore. Meno importante fra tutti è l’aspetto del costo, seppur non del tutto trascurabile: il prezzo in Italia delle birre di qualità, soprattutto di quelle artigianali, rende appetibile l’homebrewing anche sotto questo aspetto. Calcolando consumi e ingredienti, il costo della birra casalinga è decisamente competitivo – un po’ meno se volessimo inserire nel computo le ore di lavoro… o di divertimento! Per molti appassionati, inoltre, l’homebrewing è anche un’occasione per poter riprodurre (e poi degustare!) stili di birra rari, antichi, scomparsi o addirittura inventati (Figura 1.1).
Figura 1.1 - Con l’homebrewing potete riscoprire stili di birra dimenticati.
Per tutti, infine, la maggior gratificazione di questo hobby è la soddisfazione di realizzare con le proprie mani e secondo i propri gusti un prodotto naturale e godibile come la birra – soprattutto se il risultato è all’altezza delle aspettative! È un hobby in cui tutti gli appassionati trovano la loro dimensione, l’aspetto che più si confà alle proprie attitudini: ci sono i “tecnologi” che si divertono a realizzare attrezzature sempre più efficienti e automatizzate; gli “scienziati”, interessati alle complesse reazioni biochimiche del processo, i “matematici”, che si sbizzarriscono a cercare le formule della ricetta perfetta… il bello è che nessuno di questi aspetti è realmente necessario per la produzione di ottima birra, ma ciascuno può essere di particolare interesse per una parte degli appassionati.
1.2 La produzione commerciale della birra Prima di illustrare le diverse tecniche disponibili per l’homebrewing e poi descrivere la struttura di questo libro, è necessaria una prima, sintetica descrizione del processo di produzione, ovvero: come si fa la birra in una birreria? Sinteticamente, la produzione della birra si sviluppa in queste fasi: (1) trasformazione degli amidi contenuti in certi prodotti derivati dai cereali (detti malti) in zuccheri; (2) aromatizzazione (con luppolo) del mosto zuccherino ottenuto; (3) trasformazione degli zuccheri del mosto in alcol, ad opera del lievito. Le prime due fasi sono effettuate in un tempo dell’ordine di alcune ore, per l’ultima fase si parla di giorni o settimane. Benché i cereali (quali orzo e frumento) contengano amidi, generalmente per la produzione non vengono utilizzati direttamente, bensì sottoposti a una lavorazione (detta “maltazione”) da cui si ottiene il malto. Questo si presenta anch’esso sotto forma di chicchi, ma con caratteristiche più adatte alla produzione della birra: la sua struttura risulta modificata e viene indotta la produzione di alcuni enzimi; inoltre questo processo prevede una fase di tostatura che, a seconda di come viene effettuata, dona al malto aromi e colori differenti. La maltazione non viene solitamente effettuata dalla birreria – e neppure dal birraio casalingo! –, ma da una fabbrica specializzata, la malteria. Nelle descrizioni che seguiranno, quindi, considereremo il malto un semplice ingrediente di acquisto, come avviene per tutte le birrerie di piccole e medie dimensioni e per parte di quelle più grandi.
Fasi della produzione della birra 1. Il processo vero e proprio (Figura 1.2) inizia con la macinazione del malto. Al malto macinato viene aggiunta acqua e il composto ottenuto (dalla consistenza simile a quella di un grosso “minestrone”) viene scaldato in una apposita caldaia e mantenuto a determinate temperature (fra i 45 e i 75 °C) per tempi prefissati. È in questa fase che avviene la trasformazione degli amidi in zuccheri, ad opera degli enzimi presenti nel malto stesso. Questa fase è chiamata “ammostamento”, o mashing. A questo punto è necessario separare la parte liquida (il mosto) da quella solida (le cosiddette trebbie), in pratica le scorze dei grani utilizzati e altre impurità; tutto questo avviene in un apposito tino-filtro. In questa fase le trebbie vengono “risciacquate” con altra acqua in modo da recuperare il più possibile gli zuccheri di
cui sono impregnate (risciacquo delle trebbie, in inglese sparging). 2. Il mosto zuccherino viene bollito, in genere da 1 ora a 1 ora e mezza, in una apposita caldaia; durante questa fase viene aggiunto il luppolo, in più soluzioni, per l’aromatizzazione e l’amaricazione. Il mosto amaricato ottenuto viene fatto raffreddare velocemente, dopodiché possono venir utilizzate alcune tecniche (decantazione, centrifuga, filtraggio) per eliminare eventuali residui di luppolo e sostanze proteiche. Le fasi sopra descritte richiedono in genere dalle 6 alle 9 o 10 ore di lavoro in una birreria. 3. Al mosto viene aggiunto il lievito e, in un apposito contenitore (fermentatore/maturatore), avviene la fermentazione, durante la quale buona parte degli zuccheri si trasforma in anidride carbonica (che viene espulsa) e alcol, producendo al tempo stesso diversi caratteristici aromi. Al termine della fermentazione ed eventuale maturazione, la birra può essere filtrata per eliminare il lievito, oppure semplicemente lasciata decantare per depositare buona parte del lievito stesso; viene poi imbottigliata oppure infustata. La caratteristica frizzantezza può essere ottenuta grazie a una limitata fermentazione di una piccola quantità di zuccheri nella bottiglia chiusa o nel fusto (con produzione di CO2 che rimane disciolta nella birra) oppure per immissione diretta di CO2.
Figura 1.2 – Il flusso di produzione della birra.
La CO2 è la semplice anidride carbonica.
Semplice, no? Abbastanza… anche se, usando una descrizione altrettanto semplificata per il vino, ce la saremmo cavata in una riga: l’uva viene spremuta e fatta fermentare!
1.3 Tecniche di produzione casalinga La tecnica sopra descritta per una birreria commerciale può essere impiegata in modo corrispondente e completo anche in casa – certo, anche con gli spazi limitati di un appartamento, e con limitatissima spesa… quindi non ci sono scuse! Questa tecnica viene solitamente indicata come all grain, ovvero birra prodotta partendo direttamente dal malto in grani.
È possibile, comunque, ottenere buoni risultati con tecniche semplificate. Ci sono, infatti, alcune ditte specializzate che svolgono la fase di lavorazione sopra indicata con 1), ottenendo quindi un mosto zuccherino non ancora amaricato. Questo mosto viene da loro concentrato e liofilizzato (usando tecniche di sottovuoto), ottenendo a seconda della lavorazione uno sciroppo (contenente ancora circa il 20-25% d’acqua) o una polvere con contenuto di acqua vicino a zero. Questi prodotti vengono commercializzati con il nome di estratto di malto, rispettivamente “liquido” o “in sciroppo” e “secco” o “in polvere”. Il birraio casalingo, acquistato l’estratto, lo diluisce (ottenendo nuovamente un mosto) e procede con le fasi 2) e 3), risparmiando così la prima fase, che è più impegnativa come tempi e attrezzatura. Una piccola e non impegnativa variante è l’utilizzo possibile, semplificato e limitato, di alcuni tipi specifici di malti in grani (malti “speciali”) all’inizio della fase 2). Questa tecnica, che rappresenta un buon compromesso fra semplicità e possibilità di personalizzazione della birra, si può indicare come “estratto+grani speciali+luppolo”, spesso abbreviato in “estratto più grani” o “E+G”. Le stesse ditte produttrici di estratto possono svolgere un’ulteriore lavorazione, compiendo per intero anche la fase 2), e concentrando e liofilizzando (più spesso in sciroppo) il mosto già amaricato, ottenendo la tipica latta o kit in vendita in svariati negozi e anche grandi magazzini. La definizione della ricetta viene pertanto quasi del tutto affidata al produttore di kit, acquistando direttamente la “latta” del tipo di birra desiderato. Con questa tecnica il compito del birraio casalingo è ulteriormente semplificato e consiste nella sola fase 3). Nel seguito del libro chiameremo questa tecnica “produzione da kit” o “da estratto di mosto luppolato”.
Tecniche a confronto Possiamo ora confrontare le tre tecniche citate sotto diversi aspetti. Facilità di esecuzione: per quanto sopra detto, la tecnica più semplice è naturalmente quella da kit, seguita dalla E+G (di poco più impegnativa) e dalla più complessa all grain. Semplicità di attrezzatura: in ordine crescente di complessità e spesa, la sequenza è la stessa di cui sopra; anche in questo caso, la differenza fra le prime due è limitata e un certo salto si ha solo passando all’all grain. Costo del prodotto: se non si considerano le ore di lavoro e le spese di attrezzatura, l’all grain è decisamente più conveniente, mentre le due tecniche semplificate sono sullo stesso piano. Versatilità: solo l’all grain consente un controllo completo di tutte le variabili e permette realmente di produrre qualsiasi stile di birra, controllandone a piacimento le caratteristiche. All’estremo opposto, usando i kit ci si affida del tutto alla scelta di un prodotto già messo a punto dal produttore, con possibilità di intervento molto limitate. La tecnica intermedia permette una buona, anche se non assoluta, “personalizzazione” della propria birra, e consente di realizzare una buona parte degli stili in modo soddisfacente. Qualità: parlando molto in generale, la “classifica” sotto questo aspetto è inversa a quella della semplicità, con la tecnica all grain al vertice – naturalmente se eseguita
al meglio; tuttavia, per alcuni stili la differenza fra birre da estratto (E+G se non anche kit) è ridotta e talvolta annullata, e sono numerose le birre da E+G che hanno vinto concorsi di homebrewing surclassando le rivali prodotte dai grani!
1.4 Struttura del libro e percorsi di lettura Organizzare gli argomenti di un libro per homebrewing non è semplice. Uno dei motivi è che si devono affrontare argomenti simili sotto diverse angolazioni (l’ingrediente, il procedimento con cui viene utilizzato, l’attrezzatura necessaria per quel procedimento…). Inoltre, volendo descrivere le varie tecniche di birrificazione sopra illustrate partendo da quelle più semplici, si dovrebbe iniziare, in un certo senso, dal fondo: il principiante si potrebbe cimentare dapprima con la sola fermentazione, per poi impratichirsi con la luppolatura (che nel processo completo viene svolta prima) e infine imparare la tecnica dell’ammostamento, che è la prima fase della produzione! Un testo che volesse condurre il birraio alle prime armi lungo questo percorso di apprendimento dovrebbe seguire il processo produttivo a ritroso… Abbiamo così pensato a un testo fruibile in modo flessibile, suggerendo alcuni percorsi di lettura in funzione dell’esperienza e delle aspirazioni del birraio. In questo modo il libro può essere di immediata utilità sia per chi volesse cimentarsi subito nella tecnica “completa”, sia per chi invece vuol procedere per gradi, ad esempio provando inizialmente un cosiddetto “kit” - ormai diffusamente commercializzato. Ecco quindi i diversi percorsi di lettura relativi a ciascuna delle tecniche utilizzabili.
Per la produzione da kit (estratto di mosto luppolato) Le materie prime 2.1 - Il malto (consigliato ma non indispensabile) 2.2 - Il luppolo (consigliato ma non indispensabile) 2.4 - Il lievito L’attrezzatura 3.1 - Attrezzatura di base 3.3 - La sanitizzazione Il processo di produzione 4.5 - Birra da estratto luppolato (kit) 4.6 - La fermentazione 4.7 - Imbottigliamento e maturazione
Per la produzione da estratto+grani speciali+luppolo Le materie prime 2.1 - Il malto (consigliato ma non indispensabile)
2.2 - Il luppolo 2.4 - Il lievito L’attrezzatura 3.1 - Attrezzatura di base 3.3 - La sanitizzazione Il processo di produzione 4.3 - La tecnica da estratto 4.4 - La bollitura e il raffreddamento 4.6 - La fermentazione 4.7 - Imbottigliamento e maturazione
Per la produzione all grain Le materie prime 2.1 - Il malto 2.2 - Il luppolo 2.3 - L’acqua 2.4 - Il lievito L’attrezzatura 3.1 - Attrezzatura di base 3.2 - Attrezzatura per all grain 3.3 - La sanitizzazione Il processo di produzione 4.1 - La macinazione 4.2 - L’ammostamento e il risciacquo 4.4 - La bollitura e il raffreddamento 4.6 - La fermentazione 4.7 - Imbottigliamento e maturazione
Produzione all grain - altra sequenza possibile L’attrezzatura 3.1 - Attrezzatura di base 3.2 - Attrezzatura per all grain 3.3 - La sanitizzazione Le materie prime e il processo di produzione 2.1 - Il malto 2.3 - L’acqua 4.1 - La macinazione
4.2 - L’ammostamento e il risciacquo 2.2 - Il luppolo 4.4 - La bollitura e il raffreddamento 4.6 - La fermentazione 2.4 - Il lievito 4.7 - Imbottigliamento e maturazione In tutti i casi, il capitolo 4.8 (relativo all’infustamento della birra) e le sezioni successive, possono considerarsi approfondimenti da affrontare in un momento successivo. In tutti i capitoli, alcune parti sono evidenziate da opportuni box e possono essere omesse – almeno durante una prima lettura – senza compromettere la comprensione complessiva del testo. Si tratta, in certi casi, di approfondimenti tecnici, in altri di tecniche alternative o aspetti interessanti ma non essenziali. Il lettore, anche qui, può scegliere se affrontare subito questi argomenti o lasciarli da parte per una lettura successiva. Buona parte di quanto illustrato nella sezione delle materie prime non è indispensabile per chi è interessato alle tecniche semplificate, ma la lettura è consigliabile quantomeno sotto il profilo “culturale”, eventualmente tralasciando i box di approfondimento sopra menzionati. Naturalmente nulla vieta di affrontare la lettura completa anche a chi fosse interessato inizialmente solo alle tecniche semplificate… se non altro per rendersi conto del lavoro che risparmia rinunciando all’all grain (e del divertimento che si perde…) e forse cambiare idea! E ora… buona lettura!
Capitolo 2 Gli ingredienti
Sommario Il malto e le altre sostanze fermentabili Il luppolo L’acqua nella produzione della birra Il lievito Fondamentale, per ottenere una birra di ottima qualità, è la qualità degli ingredienti di partenza. In questo capitolo analizzeremo quindi gli ingredienti che compongono una buona birra.
2.1 Il malto e le altre sostanze fermentabili La birra è per definizione una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di zuccheri provenienti dagli amidi presenti nei cereali. Limitate quantità di zuccheri vengono in taluni casi aggiunte direttamente – sotto forma di zucchero, miele, frutta e così via – ma per la maggior parte le sostanze fermentabili della birra provengono da cereali. Essi in certi casi possono essere introdotti direttamente nella ricetta, ma solitamente vengono prima sottoposti a un processo detto “maltazione”.
L’orzo e il malto L’orzo è da sempre il cereale più usato per la produzione della birra per diverse ragioni: quantità sufficiente di amido, qualità organolettiche, abbondanza di enzimi prodotti nel corso della germinazione, bassa percentuale di grassi, presenza delle glumelle (ovvero le “scorze”) utili non solo a proteggere il chicco e a consentirne una lunga conservabilità, ma anche durante il processo di produzione, in particolare facilitando la filtrazione delle trebbie. Gli orzi “distici” sono quelli che portano sulla spiga solo due file di chicchi e che danno i chicchi più uniformi e di maggiore dimensione; in genere vengono preferiti dal punto di vista qualitativo. Negli Stati Uniti è abbastanza diffuso l’uso degli orzi “polistici”, in particolare gli
orzi “esastici”, che hanno sei file di chicchi: hanno una resa maggiore nella coltivazione, tuttavia a queste varietà i birrai preferiscono di solito quelle distiche. Gli orzi polistici hanno infatti solitamente contenuti proteici elevati che possono creare problemi nella fase di birrificazione. Ecco perché, tradizionalmente, le birrerie americane erano solite aggiungere in ammostamento, ai malti da orzi polistici, anche cereali dal basso contenuto proteico come mais e riso. Un’ulteriore suddivisione è data dal periodo di semina e raccolta: alcune varietà vengono seminate in inverno e raccolte in primavera (Maris Otter, Halcyon, Pipkin), altre sono seminate in estate e raccolte in autunno (Chariot, Alexis, Hana, Ferment, Steffi, Krona, Sissi). La differenza è notevole: le varietà primaverili tendono a essere maggiormente caratterizzate e danno alla birra aromi più decisi adatti alle birre ale, quelle autunnali sono più delicate, e i birrai tedeschi e cechi tendono a preferirle per le proprie pils e helles. L’orzo, tuttavia, non viene usato direttamente nella produzione della birra, ma subisce un processo (detto maltazione) da cui si ottiene il malto d’orzo. Come il cereale, anche il malto contiene ancora amido, non ancora disgregato in zuccheri semplici adatti a essere fermentati. Perché non si usa direttamente l’orzo, per fare la birra? Questi gli scopi della maltazione: sintetizzare alcuni enzimi che serviranno successivamente, durante il processo, a disgregare le grosse catene molecolari dell’amido in zuccheri semplici; disgregare gli amidi stessi rendendoli più solubili e accessibili agli enzimi; produrre sostanze nutritive che favoriranno la fermentazione; dare una tostatura più o meno accentuata ai grani, dalla quale deriveranno il colore e gli aromi della birra; rimuovere alcune sostanze che potrebbero dare aromi poco gradevoli alla birra.
La maltazione Il chicco di orzo è formato da: un involucro semi-impermeabile, composto da tre strati; un corpo farinoso, o endosperma, riserva alimentare amidacea della futura piantina; l’embrione, dal quale deriverà la pianta. Il processo di maltazione comprende le fasi di seguito descritte. La bagnatura dei semi I grani vengono immersi in acqua per alcuni giorni, solitamente tre, sia per lavarli, sia, soprattutto, per aumentarne il grado di umidità e favorire la fase successiva (Figura 2.1). Il livello di umidità del seme viene portato dal 14-15% a circa il 45%.
Figura 2.1 - La bagnatura dei semi di orzo.
La germinazione dell’orzo In questa fase avviene lo sviluppo embrionale di un piccolo “germoglio”, che, nutrendosi delle sostanze dell’endosperma (il “corpo” del chicco, contenente le sostanze amidacee), ne determina la disgregazione e la formazione di enzimi. Il metodo tradizionale prevede che i grani siano stesi su un’ampia superficie, a una temperatura ambiente di circa 18 °C, e rivoltati periodicamente, a mano o con mezzi meccanici. Il germoglio che si sviluppa viene chiamato “piumetta”; contemporaneamente si osserva anche la crescita di una piccola radice detta “radichetta” (Figura 2.2).
Figura 2.2 - Germinazione e modificazione del seme di orzo.
Il risultato di questa fase è la trasformazione dell’orzo in malto, che a questo punto non è ancora utilizzabile (viene detto green malt o malto verde), ma è già modificato e sensibilmente più friabile. A seconda di una germinazione più o meno spinta, si hanno quindi malti più o meno “modificati”, ovvero le cui catene molecolari (amidi, proteine) sono più o meno disgregate. Altrettanto importante è il fatto che, durante la germinazione, si formano i vari enzimi, essenziali alla produzione del mosto di birra. Nel corso di questa fase, il seme consuma parte delle sue riserve; quando si raggiunge una lunghezza della piumetta tra i 2/3 e i 3/4 del seme stesso (a seconda dei tipi di malto), il processo viene interrotto, passando alla fase successiva (Figura 2.3).
Figura 2.3 - La maltazione: la fase di germinazione.
Essiccazione e tostatura Gli scopi di questa fase sono molteplici: interrompere al punto giusto la germinazione; ridurre l’umidità del malto verde, in modo da aumentarne la conservabilità; rendere il corpo più friabile per facilitare la macinazione; fornire al malto l’aroma e il colore desiderati; facilitare l’eliminazione delle radichette. Nella prima fase dell’essiccazione viene mantenuta una temperatura di 50-60 °C, riducendo
l’umidità del seme fino al 10-12%. Al termine di questa fase vengono eliminate meccanicamente le radichette. Successivamente la temperatura viene aumentata, fino a 80-85 °C o anche più, a seconda del tipo di malto che si vuole ottenere. In questa fase, oltre alla ulteriore riduzione di umidità fino al 4%, per effetto del calore si ha la formazione di sostanze aromatiche e coloranti; a seconda di come viene effettuato il ciclo di essiccazione (tempi e temperature), si ottengono risultati diversi per quanto riguarda colorazione e aromi – tenendo conto che con trattamenti termici più spinti, oltre ad aromi più tostati si avrà anche una riduzione o eliminazione degli enzimi. Mediamente un ciclo di maltazione richiede circa sette giorni. I malti tostati I malti tostati (chiamati talvolta anche “malti coloranti”) si possono considerare una categoria a parte, per lavorazione, caratteristiche e impiego. Sono ottenuti sottoponendo il malto a temperature decisamente più alte rispetto ai malti cosiddetti “di base” (oltre i 200 °C), servendosi di appositi tostatori sferici in modo da ottenere una tostatura intensa senza bruciare i chicchi. I malti “caramello” I malti caramello vengono ottenuti riscaldando il seme a circa 60-70 °C per 60-90 minuti, quando questo è ancora umido. In questo modo avviene una vera e propria saccarificazione (vedi il paragrafo relativo all’ammostamento): è come se ciascun chicco fosse una minuscola caldaia dove avviene la trasformazione di amidi in zuccheri. Al contrario degli altri malti, quindi, i malti caramello contengono già zuccheri e non necessiterebbero di un ulteriore processo di ammostamento. Anche questi malti possono poi essere sottoposti a un trattamento termico più o meno intenso, ottenendo diversi gradi di tostatura e caramellizzazione. Alcuni di questi grani caramellati hanno una fermentabilità ridotta e quindi contribuiscono positivamente al corpo della birra. Ciò è vero in particolar modo per il Carapils (detto “malto destrinico”).
Cereali non maltati e fiocchi Dato che il malto chiaro ha un’abbondanza di enzimi, è possibile impiegare accanto a esso anche orzo e altri cereali in forma non maltata (e quindi privi di enzimi), purché siano in percentuale minore rispetto al malto stesso. Fra i cereali più usati in ambito industriale troviamo, ad esempio, il riso e il mais: la ragione del loro impiego è principalmente economica, avendo essi un costo generalmente minore rispetto al malto d’orzo. Il loro apporto in termini di struttura e corpo è limitato e – nel caso siano impiegati in quantità consistente – conferiscono alla birra avvertibili sfumature dolciastre e mancanza di corpo, determinando generalmente un risultato qualitativo inferiore rispetto ai prodotti “tutto malto”.
“L’avena conferisce alla birra un palato morbido e caratteristico.”
Più interessanti per l’homebrewer sono altri cereali, come ad esempio l’avena, che conferisce alla birra un palato morbido e caratteristico; il frumento e lo stesso orzo (non maltati), che possono migliorare la tenuta della schiuma e influire sul palato della birra. A parte l’assenza di enzimi, i cereali non maltati, però, hanno anche lo svantaggio di non aver subito una modificazione strutturale che renda il loro amido sufficientemente solubile. Per questo essi devono essere “gelatinizzati”. In pratica, è necessario “cuocere” il cereale a una determinata temperatura, specifica per ogni tipo di cereale. Questo vale anche per altri ingredienti amidacei, come le castagne. È possibile evitare questo passaggio utilizzando i cereali sotto forma di fiocchi (come i classici fiocchi d’avena che si consumano a colazione), perché questo tipo di lavorazione ottiene anche la citata gelatinizzazione. Ricordiamo che anche sotto questa forma di fiocchi i cereali richiedono ammostamento (vedi il paragrafo 4.2) per trasformare amidi in zuccheri e che, a causa dell’assenza di enzimi, vanno usati a fianco di malti ricchi di enzimi.
Ingredienti fermentabili: caratteristiche e impiego Caratteristiche generali I diversi tipi di malto si caratterizzano anzitutto per il diverso apporto di sostanze fermentabili. Questo viene espresso in “estratto totale”, cioè la percentuale (in peso) degli amidi che sono convertibili in zucchero. Questo arriva all’80% circa nei malti cosiddetti di base (quelli essiccati a minore temperatura e che solitamente costituiscono la maggior parte della composizione di una ricetta). L’estratto totale scende leggermente nei malti via via più tostati. Con l’intensità della tostatura varia anche drasticamente il contenuto di enzimi, che si sono sviluppati durante la germinazione, ma che vengono progressivamente disattivati con l’essiccazione. Come vedremo nel paragrafo 4.2, gli enzimi sono necessari per attivare la conversione di amidi in zuccheri. I malti chiari hanno una sovrabbondanza di enzimi (cioè più di quanti ne servirebbero per la conversione dei propri amidi), malti fino a circa 20 EBC hanno enzimi in quantità sufficiente ad “autoconvertirsi”, mentre malti più tostati ne sono praticamente sprovvisti. I malti si differenziano anche per il loro colore (o meglio, il colore che apportano al mosto), che cresce anch’esso con l’intensità (tempo e temperatura) con cui vengono tostati. Il colore viene misurato in diverse unità, tra le quali le più usate sono gli EBC e gli SRM (o Lovibond). Non vi è una relazione esplicita fra queste unità di misura, in quanto sono determinate con metodologie diverse, anche se una relazione approssimata è EBC=2∗SRM. Il valore di EBC può esser considerato approssimativamente proporzionale alla “quantità di colore” apportata al mosto di birra, e varia in modo molto ampio col variare della tostatura: ad esempio, i malti “di base” sopra citati possono avere un valore dai 3-6 EBC del Pils e Pale ai 20 del più scuro Monaco; malti più tostati partono dai 50 fino a superare i 1000 EBC, come nel caso del Black Malt! Ciò significa che l’”effetto colorante” di quest’ultimo è, ad esempio, ben 50 volte superiore a quello del Monaco – in altri termini, 50 g del primo scuriscono una birra quanto 2 kg e mezzo del secondo. Le differenze fra i vari malti non
sono limitate alle caratteristiche di cui sopra – in qualche modo misurabili –, ma si evidenziano anche e soprattutto nelle loro caratteristiche organolettiche (gusto e aroma apportato alla birra). A seconda dei diversi tipi di tostatura (più o meno intensa, o effettuata in modi diversi), i malti possono apportare tutta la serie di aromi che colleghiamo al “tostato”: dal biscottato al tostato di una fetta di pane o a quello più intenso del caffè, dal caramello al cioccolato, e altri ancora; malti meno tostati possono comunque conferire varie sfumature di dolcezza, dal mielato al fruttato ecc. Gli stessi malti caramello sopra descritti sono in realtà prodotti a diversi gradi di tostatura, e – pur mantenendo un certo carattere caramellato – vanno dall’aroma piuttosto neutro del Carapils all’intenso aroma di cioccolato dello Special B, con tutte le sfumature intermedie presenti fra questi due estremi. Per orientarsi negli approvvigionamenti, è utile sapere che spesso malti con lavorazioni simili sono disponibili sotto nomi diversi (a volte marchi depositati) a seconda del produttore. Ad esempio, una malteria può offrire la sua gamma di malti caramellati sotto i nomi di Carapils, Caramonaco, Caravienna eccetera, mentre un’altra potrebbe commercializzare prodotti simili corrispondenti con il nome di Crystal 20, Crystal 40, Crystal 80 e così via (il numero denota la gradazione di colore). Pur non essendo esattamente equivalenti, fra le due gamme si può riscontrare semplicemente la differenza che notiamo in prodotti analoghi, ma di diverso produttore. Oltre al tipo di lavorazione, una caratterizzazione altrettanto importante è naturalmente data dal tipo di cereale che viene maltato. Nonostante nessun altro cereale sia impiegato al pari dell’orzo, per diversi tipi di birre vengono usati anche altri cereali maltati, primo fra tutti il frumento (ricco di proteine, che conferisce alla birra il tipico palato e una buona tenuta di schiuma). Altri cereali apportano gusti e aromi anche piuttosto intensi (come la segale); in linea teorica, anche questi possono essere maltati secondo i diversi tipi di lavorazione sopra elencati – ad esempio ottenendo un malto caramello di grano, o un malto di segale tipo Monaco – anche se in realtà non tutti i tipi sono disponibili in commercio. Infine, esistono differenze meno eclatanti, ma pur sempre apprezzabili, fra malti dello stesso tipo e dello stesso cereale, ma ottenuti a partire da diverse varietà coltivate, o di provenienza geografica diversa, nonché a seconda del raccolto. Tecnica di impiego Per quanto visto sopra, i grani e gli altri ingredienti (come i fiocchi), che forniscono al mosto materiale fermentabile, si dividono in diverse categorie che determinano la loro tecnica di utilizzo. La prima distinzione è fra ingredienti che necessitano di ammostamento (vedi paragrafo 4.2) e quelli che non ne hanno bisogno. Fra questi ultimi troviamo, ad esempio, i malti caramello prima descritti. Tutti i malti con il nome che inizia per Cara- appartengono a questa categoria, insieme ai malti Crystal (di diverso valore di caramellizzazione); a questi si aggiungono malti intensamente tostati come il Chocolate e il Black. In realtà, questi ultimi hanno un contenuto amidaceo e non zuccherino: questo non è un problema, visto che vengono impiegati non per fornire materiale fermentabile ma solo per il loro intenso contributo in termini di colore, gusto e aroma; inoltre, le piccole quantità
normalmente usate fanno sì che eventuali residui amidacei siano presenti in quantità trascurabile. In questa categoria possiamo inserire anche l’orzo tostato e non maltato – tipicamente impiegato nelle stout irlandesi. Questi malti caramellati e tostati sono interessanti anche per la semplicità di impiego nel metodo di produzione da estratto di malto (vedi paragrafo 4.3). La loro funzione è di aggiungere e/o variare colore, gusto, aroma (e in qualche caso, come nel Carapils, corpo) e non quella di costituire il “grosso” del materiale fermentabile: per questo scopo sono anche utilizzati nella tecnica produttiva all grain; in questo caso subiscono il processo di mashing insieme agli altri grani, ma solo per comodità di uso. Anche fra i grani e gli ingredienti che necessitano di mashing si deve fare una distinzione, infatti: 1. alcuni grani contengono già gli enzimi necessari alla conversione dell’amido in zucchero, anzi in quantità superiore alle loro stesse esigenze; 2. alcuni grani contengono già detti enzimi, ma solo in quantità strettamente necessaria a loro stessi; 3. altri grani o ingredienti ne sono privi, quindi dovranno essere miscelati insieme ai grani di tipo 1.
Zucchero La caratteristica principale degli zuccheri è che, essendo fermentabili in genere al 100%, non portano alcun contributo alla dolcezza della birra, anzi… birre con alte percentuali di zucchero (ad esempio bianco, da tavola) sono meno dolci e soprattutto meno corpose e gustose di birre “tutto malto”. Lo zucchero va quindi usato con parsimonia, accertandosi che sia stilisticamente coerente con il tipo di birra che si prepara: ad esempio, alcuni tipi di ale belghe lo prevedono, proprio per raggiungere un grado alcolico elevato mantenendo un corpo leggero. Alcune Old Ale inglesi comprendono nella ricetta zuccheri scuri, non raffinati, tipo Demerara o anche melassa, che ha un aroma particolare e avvertibile. Ale belghe impiegano lo “zucchero candito” (candy sugar) in grossi cristalli. Lo zucchero candito chiaro non dà risultati molto differenti dallo zucchero bianco, ma lo scuro ha un aroma più interessante e contribuisce anche al colore. Birre di abbazia e trappiste impiegano diverse varietà di zucchero caramellato. In questa categoria ricordiamo anche il miele. Anche questo ingrediente è composto da zuccheri fermentabili al 100% o quasi (quindi in genere non contribuirà a dolcezza e corpo), ma ha un suo aroma e gusto che può essere interessante in certe birre. Va aggiunto verso la fine della bollitura se si vuole esaltarne l’aroma, in caso contrario all’inizio.
Figura 2.4 - Zucchero candito scuro in cristalli.
Malto
Pilsner
Pale Ale
Descrizione/note
Ha Ha % max Necessita enzimi EBC enzimi impiego mashing in sufficient eccesso
Tipico malto di base per pils e per lager chiare tedesche, ma usato ad esempio anche per golden ale e blonde belghe. Un tempo era poco 3-4 100 modificato e richiedeva sempre una sosta per la proteasi; i malti pilsener attuali sono invece di solito sufficientemente modificati. Malto base per ale anglosassoni e buona parte delle belghe (il 5-8 100 pale belga è leggermente più
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
scuro). Malto inglese leggermente più tostato del pale, base Mild per le mild ale e brown ale. Alto potere diastasico (elevata quantità di enzimi). Vienna Impiegati al 100% nelle birre dallo stesso nome, rispettivamente ambrata e bruna; utilizzabili anche come base per birre ambrate Monaco o scure, sempre in purezza oppure miscelati con malti più chiari. Donano un intenso aroma di malto, dolcezza e corpo alla birra. Hanno potere distasico (quantità di Aromatic/Melanoidin enzimi) sufficiente ad autoconvertirsi, ma per la loro intensità vengono utilizzati in quantità limitata. Malti simili, di provenienza inglese e belga, dal tipico aroma leggermente Amber/Biscuit biscottato, impiegati soprattutto in ale ambrate e scure sia inglesi che belghe. Attualmente di non facile reperibilità, un Brown tempo molto utilizzato nelle porter e brown ale. Malto affumicato su
7-8 100
Sì
Sì
Sì
8-10 100
Sì
Sì
No
16100 20
Sì
Sì
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50
20
Sì
Sì
No
50
20
Sì
No
No
150 20
Sì
No
No
legno, in genere faggio. Usato specificamente – e in percentuali spesso Rauch (affumicato) vicine al 100% – nelle 4-8 rauchbier di Bamberg, dà buoni risultati anche in altri tipi di birre affumicate (porter, strong ale ecc). Affumicato su torba, è il malto tipicamente usato per la produzione di whisky. Peated (torbato) L’aroma è molto 5-10 intenso; per questo se ne consiglia un uso più moderato rispetto al Rauch. Malto saccarificato con un’alta percentuale di Carapils destrine, conferisce 3-5 corpo e tenuta di schiuma. Malti caramellati con differenti gradi di tostatura. Apportano Carahell, colore via via più scuro Caravienne, e aromi di diversa 30Caramunich, intensità; tutti 150 Carared ecc. comunque conferiscono corpo e un certo grado di caramellosità. Malto caramellato e saccarificato; anche in questo caso le gradazioni di tostatura (e quindi di colore e aroma) sono diverse, 40Crystal ma il nome rimane lo 200 stesso e viene indicato il livello di EBC. Il tipo
30-100 Sì
Sì
No
30-50
Sì
Sì
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15
No
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20
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20
No
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Chocolate
Special B
Black
Roast barley (orzo tostato)
Malto di grano
Grano non maltato
commercializzato più spesso in Italia è quello 150-200 EBC. Malto a elevato grado di tostatura, nonostante il nome 90010 l’aroma ricorda più il 1200 caffè che il cioccolato (pur avvertibile). Malto caramellato con tostatura particolarmente intensa, tanto che si può considerare a metà strada fra i malti caramellati e quelli 25010 tostati. Aroma intenso 350 di cioccolato e frutta secca. Classico per le belgian dark strong ale, ma utilizzabile in molte ricette di birre brune di grande struttura. Il malto più tostato, apporta un intenso aroma di caffè e un 1600 5 certo grado di acidità. Quasi solo per stout e porter. Orzo non maltato e tostato con la stessa intensità del black, 1600 5 rispetto al quale è forse meno aggressivo come acidità e astringenza. Il frumento (maltato e 3-4 60 non) conferisce il palato tipico di weizen e blanche; usato anche in percentuali minori, 3-4 50 apporta tenuta di schiuma e un certo
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Sì
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Fiocchi (orzo, avena…)
grano di opalescenza Vari tipi di cereali non maltati sono disponibili 3 in questa forma.
20
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No
No
La gradazione della birra Uno dei parametri principali per caratterizzare la “forza” di una birra è la sua gradazione saccarometrica, ovvero la concentrazione zuccherina del mosto. La gradazione alcoolica della birra è dipendente da quella saccarometrica, ma in modo non esattamente proporzionale (questo perché la fermentabilità di un mosto di birra dipende da diversi fattori). L’unità di misura più naturale e comune per esprimere la concentrazione di zuccheri (di qualsiasi tipo e provenienza) nel mosto di birra è la gradazione Plato, cioè la percentuale in peso di zuccheri sul peso del mosto: ad esempio, 100 grammi di zuccheri in un chilogrammo di mosto corrispondono al 10%, ovvero 10 gradi Plato (o gradi saccarometrici in peso). Una scala simile, ma meno usata, fa riferimento al peso di zuccheri per volume di mosto (gradi saccarometrici in volume); può sembrare una grandezza anomala (peso in volume), ma è in realtà comoda e naturale, perché corrisponde in effetti al modo in cui si formulano le ricette di birra. Le due scale differiscono leggermente, in quanto un litro di mosto pesa più di un chilogrammo. Per un birraio il modo più semplice per determinare la gradazione zuccherina del mosto è quello, indiretto, di misurarne la densità. Infatti lo zucchero – se disciolto in acqua – produce una soluzione che ha densità maggiore di quella dell’acqua. Si può dimostrare facilmente che la differenza tra la densità misurata e quella dell’acqua (=1) è direttamente proporzionale alla gradazione saccarometrica in volume. Per esempio, 100 grammi di zucchero purissimo disciolto in un litro di soluzione (corrispondenti, come abbiamo detto, a 10 gradi saccarometrici in volume) darà una densità di 1,038 kg/m3. Usando 50 g per litro (5 sacc. vol.), la densità sarà di 1,019 kg/m3 e così via. Spesso i birrai (in particolare gli homebrewer) usano direttamente proprio la densità (detta OG, Original Gravity) come scala di misura della gradazione, di solito moltiplicata per 1000 (nell’esempio di cui sopra 1038). In particolare sono significative le ultime due cifre (nell’esempio, 38). Si noti che, per ottenere il valore in gradi saccarometrici in volume, è sufficiente dividere le ultime due cifre per circa 3,8 (più esattamente 3,83).
Estratto di malto L’estratto di malto è in pratica un “concentrato” di un mosto ottenuto dal produttore con la tecnica di ammostamento di determinati grani e si può presentare in forma di denso sciroppo (estratto liquido, contenente il 20-25% di acqua) o liofilizzato (secco). Può essere utilizzato per aumentare la gradazione di una birra, ad esempio per ottenere una birra molto forte, quando a causa di limitazioni tecniche risulti difficile realizzarla utilizzando esclusivamente malto in grani. Il suo impiego principale è però nella tecnica da estratto illustrata nel paragrafo 4.3, al quale
si rimanda per ulteriori considerazioni. L’estratto per panetterie – reperibile presso alcuni grossisti – non è un prodotto pensato per l’homebrewing, ma ha permesso a decine di “pionieri” dell’homebrewing di birrificare, spesso con buoni risultati. Si tratta in genere di malto d’orzo al 75-80% e di altri cereali per la restante parte. Le nozioni generali sul dosaggio di malti e zuccheri in relazione alla gradazione della birra sono illustrate nel paragrafo 5.3.
2.2 Il luppolo Botanica e coltivazione Diverse erbe e spezie sono state impiegate per aromatizzare la birra nel corso della sua lunga storia, in particolare per bilanciare la dolcezza della sua componente maltata. Da diversi secoli, però, è prevalso in modo quasi assoluto l’impiego del luppolo, grazie alle sue qualità organolettiche e soprattutto ad alcune sue proprietà, descritte in questo capitolo. Il luppolo (Humulus lupulus L.) appartiene alla famiglia delle Cannabinaceae, che comprende il genere Cannabis (canapa e marijuana). Il luppolo naturalmente non contiene sostanze allucinogene (Tetraidrocannabinolo, THC) anche se gli vengono attribuite blande capacità sedative. Si tratta di una pianta rampicante che si sviluppa notevolmente in altezza (6-8 metri); la coltivazione necessita quindi di apposite strutture di sostegno. La pianta per svilupparsi necessita di un sufficiente numero di ore di luce estive e quindi non può crescere a latitudini troppo basse: la sua zona di coltivazione si trova tra il 35° e il 55° parallelo in entrambi gli emisferi. I maggiori produttori mondiali si trovano in USA, Regno Unito, Germania, Repubblica Ceca, Slovenia, Australia e Nuova Zelanda, con la Cina in grossa recente crescita. L’Italia, pur avendo un clima adatto alla coltivazione del luppolo (tantissimo luppolo selvatico può essere trovato a fine estate in campagna lungo i canali, le strade e le linee ferroviarie!), non ne produce, almeno per il momento, sostanzialmente per l’assenza della catena di trasformazione del prodotto. Esistono innumerevoli varietà coltivate, ognuna con le proprie caratteristiche amaricanti e aromatiche (Figura 2.5). Come nella vite, inoltre, il territorio di coltivazione e le condizioni atmosferiche influenzano enormemente le caratteristiche del raccolto.
Figura 2.5 - Piante di luppolo.
Si tratta di una pianta dioica, che comprende cioè piante maschili e femminili: soltanto queste ultime sono utilizzate per la produzione della birra. Durante la maturazione, alla base dei petali delle infiorescenze nelle piante femminili si sviluppano particelle resinose (luppulina) che contengono i principi attivi utili alla produzione della birra. Poiché il luppolo può essere coltivato per impianto, senza bisogno di impollinazione, non vi è necessità di piante maschili, anzi queste sono considerate dannose in quanto l’impollinazione e lo sviluppo di semi nelle infiorescenze femminili può diminuire la concentrazione di principi attivi; le principali varietà sono quindi fatte sviluppare senza semi. Addirittura in Oregon (USA), Stato in cui la coltivazione del luppolo rappresenta un’importante realtà economica, la legge punisce molto severamente con parecchi anni di prigione chi importa piante maschili! Fanno tuttavia eccezione i luppoli inglesi, generalmente coltivati con presenza di piante maschili e quindi di semi. Subito dopo la raccolta, il luppolo (Figura 2.6) viene portato in essiccatoi dove l’umidità viene ridotta dall’80% a circa l’8-12%, dopodiché viene pressato e confezionato.
Figura 2.6 - La sezione del cono del luppolo.
Proprietà Il luppolo, grazie alla sue proprietà, viene da secoli utilizzato nella produzione della birra per diverse ragioni e funzioni: aromatizzare e amaricare la birra, bilanciando la dolcezza del malto con l’amaro e conferendole il suo tipico aroma; grazie ad alcuni suoi componenti, ha un’azione sanitizzante, antibatterica, antiossidante – in una parola: conservante; favorire la precipitazione di sostanze (proteine), migliorando la limpidezza e la stabilità della birra; migliorare la stabilità della schiuma. La prima di queste funzioni è senz’altro la più conosciuta – se non la più importante – e su questa ci soffermeremo, dopo aver esaminato i componenti che più sono importanti a questo proposito.
Componenti principali Le due categorie di componenti del luppolo più interessanti ai fini della produzione della birra sono: alfa e beta acidi; oli essenziali. Alfa acidi
Gli alfa acidi (nel seguito indicati con AA) del luppolo sono i principali responsabili del sapore amaro conferito al mosto. Sono presenti nel luppolo in quantità molto variabile a seconda di varietà, luogo di coltivazione e raccolto. Sono debolmente acidi e di per sé poco amari e molto poco solubili nell’acqua o nel mosto; grazie però a una reazione, detta isomerizzazione, gli alfa acidi si possono trasformare in iso-alfa-acidi, che hanno la stessa composizione ma una struttura diversa. In questa forma isomerizzata, gli alfa acidi sono solubili e possono apportare il caratteristico gusto amaro. La reazione di isomerizzazione è fortemente favorita dal calore: per questo il luppolo viene principalmente impiegato in bollitura; l’isomerizzazione degli AA e la loro dissoluzione nel mosto (e quindi il grado di amaro conferito alla birra) cresce con il prolungamento della bollitura stessa. La concentrazione zuccherina del mosto, invece, limita l’efficacia dell’isomerizzazione; per questo motivo, a parità di tempo di bollitura, di tipo e quantità di luppolo, il grado di amaro di un mosto molto concentrato sarà minore.
Alfa acidi e beta acidi Gli alfa acidi si possono presentare in forme differenti, con la stessa composizione chimica ma struttura molecolare diversa. Una di queste strutture è denominata cohumulone: questo tipo di alfa acido ha una buona solubilità quando isomerizzato, ma sembra impartire un amaro più “tagliente”. I luppoli cosiddetti nobili presentano una percentuale di cohumulone, rispetto al totale di alfa acidi, generalmente minore della media. Di struttura simile agli alfa acidi, ma meno importanti per la produzione della birra, sono invece i beta acidi; in piccola parte anch’essi possono contribuire all’amaro ma solitamente questo contributo non è significativo. La quantità di sostanze amare (alfa e beta acidi) presenti nel mosto diminuisce costantemente durante il processo produttivo, a causa di filtraggi, precipitazioni e, soprattutto, assorbimento da parte del lievito. Il grado di amaro dipende quindi in una certa misura – difficilmente prevedibile – anche da questi e altri fattori.
Oli essenziali Gli oli essenziali rappresentano in peso una piccola percentuale (0,5-2%) del luppolo, ma hanno una considerevole importanza per le loro proprietà aromatiche. Sono stati identificati centinaia di composti, presenti in percentuale molto variabile nelle differenti varietà di luppolo, le quali ne sono quindi fortemente caratterizzate per quanto riguarda l’aroma.
“Gli olii essenziali hanno una considerevole importanza per le proprietà aromatiche del luppolo.” Al contrario delle sostanze amaricanti, per l’estrazione di oli (e quindi di aromi) dal luppolo non sono necessarie né una bollitura né una prolungata alta temperatura di infusione. Al contrario, anche se inizialmente una temperatura più alta può favorirne l’estrazione, il
prolungarsi della bollitura determina una progressiva volatilizzazione degli olii (a causa della loro elevata volatilità) con conseguente perdita dei relativi aromi. Per esaltare il contributo aromatico del luppolo, questo dovrebbe essere aggiunto nei minuti finali della bollitura, o addirittura solo durante il raffreddamento del mosto.
Impiego del luppolo: amaro e aroma Per quanto riguarda le modalità di impiego del luppolo, ci si trova di fronte a due esigenze contrastanti. Dato che l’estrazione di sostanze amaricanti aumenta con il tempo di bollitura, per ottimizzare l’amaricatura il luppolo dovrebbe bollire nel mosto per un tempo prolungato (tra i 60 e i 90 minuti, oltre i quali l’aumento di estrazione di amaro diventa poco significativo); per l’aromatizzazione l’esigenza è invece quasi opposta. La soluzione normalmente impiegata è quella di aggiungere il luppolo in fasi successive: ad esempio, una certa quantità all’inizio della bollitura per l’amaricatura, seguita da un’ulteriore aggiunta a 5-10 minuti dalla fine per infondere il suo aroma. Anche le aggiunte a 15-20 minuti dalla fine apportano una certa aromatizzazione; inoltre (secondo alcuni) conferirebbero alla birra il sapore dato dal luppolo. Anche se non mancano birre prodotte usando lo stesso luppolo per ciascuna aggiunta, spesso si preferisce invece usare varietà diverse per ognuna delle fasi. Questo tipo di procedura ha portato a una selezione e categorizzazione delle varietà di luppolo a seconda del loro impiego: è ovvio che per l’aromatizzazione sono da preferire luppoli dalle ottime qualità aromatiche, mentre poco importa che abbiano un’alta percentuale di alfa acidi – infatti il contributo di amaro è in ogni caso ridotto a causa del breve tempo di bollitura e, in un certo senso, tali alfa acidi vengono in gran parte “sprecati”. Viceversa, per i luppoli utilizzati nella prima aggiunta, per amaricare, la qualità degli aromi è meno importante, dato che questi verranno quasi del tutto dissipati durante la bollitura; piuttosto, è molto conveniente, da un punto di vista meramente economico, che la loro percentuale di alfa acidi sia elevata. Di qui la distinzione fra luppoli “da amaro” (copper hops) e luppoli “da aroma”, a seconda del loro impiego più tipico; esistono anche luppoli “ambivalenti”, con buon aroma e sufficiente quantità di alfa acidi. Queste distinzioni di impiego non sono assolute: ad esempio, nulla impedisce di usare i luppoli da aroma anche per l’amaro. In questo caso l’unico inconveniente è quello economico – un fattore che per la produzione casalinga è poco significativo – a fronte di un possibile miglioramento qualitativo, tenuto conto che la volatilizzazione degli aromi durante la bollitura è sì elevata, ma non completa. Anche commercialmente, comunque, si possono trovare birre prodotte esclusivamente con luppoli “nobili”, dalle bitter inglesi “tutto Goldings” alle pilsener “tutto Saaz”. In questo caso, un fattore da tener d’occhio può essere l’eccessiva quantità di luppolo da impiegare, non già dal punto di vista economico, ma perché la massa di luppolo necessaria potrebbe in certi casi impartire eccessivi aromi vegetali o astringenti. Il grado di amaro impartito dal luppolo in una birra può essere misurato in laboratorio, in pratica determinando la quantità di iso-alfaacidi effettivamente presenti.
“I luppoli si distinguono in luppoli “da amaro” (copper hops) e luppoli “da
aroma”, a seconda del loro impiego più tipico.” Il valore viene espresso in IBU (International Bitterness Units, o Unità di Amaro). Tale valore può essere calcolato a priori, anche se con un grado di approssimazione piuttosto elevato.
Il dry hopping Un ulteriore metodo per infondere alla birra gli aromi di luppolo è quello del cosiddetto dry hopping, letteralmente luppolatura a secco, anche se in realtà un termine più pertinente sarebbe “luppolatura a freddo”. La tecnica consiste nel mettere in infusione luppolo con buone qualità aromatiche non già nel mosto in fase di bollitura o raffreddamento, bensì in fase di fermentazione (quindi a bassa temperatura). Gli oli essenziali responsabili degli aromi luppolati sono infatti solubili – sia pur lentamente – anche a temperatura ambiente. In questo caso, non essendoci l’azione meccanica della bollitura a espellere gli aromi, entro certi limiti l’aromatizzazione aumenta con il prolungarsi dell’infusione, che può durare per l’intero periodo della fermentazione. Il dry hopping è solitamente efficace, ma produce aromi leggermente diversi rispetto alla luppolatura terminale in bollitura, questo per due motivi: durante la luppolatura a fine bollitura, grazie alle temperature più alte si creano alcuni nuovi composti, non presenti invece in caso di dry hopping; viceversa, altri vengono rapidamente volatilizzati in bollitura ma sono presenti nell’infusione a freddo. L’inserimento del luppolo, ingrediente non sterile né sanitizzato, in un mosto già avviato a diventare birra (che non verrà successivamente bollito né pastorizzato) può suscitare perplessità dal punto di vista delle potenziali infezioni; queste perplessità non sono ingiustificate, ma l’esperienza pratica dimostra che i problemi in tal senso sono piuttosto rari, soprattutto se si effettua il dry hopping durante la fermentazione secondaria (o nella seconda parte di una fermentazione unica), quando il mosto è più immune da infezioni, avendo raggiunto un certo grado alcolico e una maggiore acidità. Una valutazione di rischi e benefici va comunque fatta. Un altro motivo per effettuare il dry hopping nel secondario è che la produzione di CO2, che con la sua azione meccanica può far espellere le sostanze più volatili, è più ridotta. Le quantità impiegate sono solitamente dell’ordine di 1 g/litro, anche se IPA americane estreme raggiungono valori anche dieci volte superiori. Il luppolo può essere inserito sia in forma di pellets che di plugs o fiori, usando o meno il già citato hop-bag. Se questo viene usato è una buona idea inserirvi un piccolo peso, ad esempio un cucchiaino di acciaio, per evitare che il sacchetto con il luppolo galleggi in superficie. Nelle real ale inglesi, il dry hopping è solitamente effettuato non in fermentazione, ma direttamente nel cask (fusto) dal quale viene servita la birra.
Varietà di luppolo Solo a titolo di esempio citiamo alcune delle tante varietà di luppolo disponibili, senza entrare nel dettaglio per distinguere le fini diversità di aroma dei vari tipi; in genere i luppoli europei
hanno sfumature dal floreale allo speziato e quelli USA sono più agrumati e con sentori di pino. Naturalmente è quasi sempre una buona idea usare il luppolo della giusta “nazionalità” nel riprodurre una birra di un determinato Paese. Le percentuali di Alfa Acidi (AA%) non sono qui specificate in dettaglio, anche perché possono variare notevolmente da raccolto a raccolto per la stessa varietà. Luppoli da amaro (copper hops) Hanno un AA che va dal 7% al 10% e oltre. Vengono immessi, di solito, all’inizio della bollitura. Le principali varietà sono: Inghilterra: Brewers’ Gold, Northern Brewer, Target; Germania: Hallertauer Magnum; Australia: Pride of Ringwood; Stati Uniti: Chinook, Galena, Nugget. Luppoli da aroma (aroma o late hops) L’AA non supera di solito il 5%. Vengono usati verso la fine della bollitura. Inghilterra: Goldings, Fuggles, Progress, First Gold, Brambling Cross; Francia: Strisselspalt; Germania: Tettnang, Spalt, Hallertauer (Hersbrucker, Saphir, Mittelfruh, Tradition); Rep. Ceca (Boemia): Saaz; Slovenia: Styrian Goldings, Celeia; Stati Uniti: Cascade, Liberty, Mt. Hood, Willamette. Luppoli ambivalenti Hanno un AA abbastanza elevato (7-8% e più) e al tempo stesso un buon aroma: Inghilterra: Challenger, Northdown; Germania: Perle; Nuova Zelanda: Nelson Sauvin; Stati Uniti: Amarillo, Columbus, Centennial, Simcoe.
Le componenti aromatiche del luppolo Abbiamo visto come le principali varietà di luppolo si differenzino non solo per il loro potenziale di amaro, ovvero la loro AA, ma anche per il diverso profilo aromatico che conferiscono alla birra. I principali oli derivati dal luppolo e responsabili degli aromi si possono suddividere in idrocarburi e idrocarburi ossidati. I primi sono presenti in questa forma direttamente nel luppolo: sottoposti a calore si ossidano rapidamente, dando origine ai secondi. La derivazione ossidata di un idrocarburo può avere un aroma molto diverso dall’idrocarburo originale. Vista la rapidità della trasformazione, gli aromi originali dovuti agli idrocarburi si ritrovano nella birra solo se il luppolo è impiegato in dry hopping o in una luppolatura finale
molto breve. Al contrario, bollendo il luppolo anche solo per pochi minuti, gli aromi rilasciati saranno quelli dovuti agli idrocarburi ossidati. Questo spiega il diverso risultato aromatico ottenuto dallo stesso luppolo con tecniche diverse. Fra gli oli aromatici (idrocarburi) più importanti, troviamo anzitutto il Myrcene, dall’aroma un po’ pungente e considerato non molto raffinato, tipico di alcuni luppoli da amaro europei (Target, Brewers Gold, Bullion), ma anche dell’americano Cascade; ossidandosi si evolve in diversi composti che danno origine ad aromi di tipo floreale. L’Humulene, che di per sé conferisce un aroma considerato “elegante”, è presente in percentuale maggiore soprattutto nei luppoli “nobili”: Saaz, Hallertau, Goldings; con le alte temperature si evolve in composti ossidati dall’aroma speziato o erbaceo. Caryophyllene e Farnesene sono anch’essi componenti importanti, anche se non si è riusciti a definire un’esatta corrispondenza fra la quantità più o meno elevata presente nel luppolo e il tipo di aroma conferito. A ogni modo il tipico aroma di una certa varietà di luppolo dipende non da un singolo componente ma dall’effetto combinato e “sinergico” dei diversi composti. Dati e descrizioni più dettagliate sono riportate in Appendice.
Amaro: come stimarlo Per mettere a punto una ricetta di birra, e in particolare stimare la quantità di amaro, è possibile ricorrere a software appositi, ma pensiamo che sia utile per l’homebrewer sapere su cosa si basano queste stime. Il procedimento per stimare le unità di amaro (IBU) nel progettare una ricetta è simile a quello per la gradazione, con qualche complicazione in più. Inoltre, a differenza della gradazione, non vi è un riscontro finale delle proprie stime, perché la misura vera e propria del grado di amaro di una birra prodotta non è normalmente nelle possibilità di un homebrewer. Le IBU sono ovviamente proporzionali alla quantità di luppolo e alla percentuale di alfa acidi (AA%) contenuti nel luppolo stesso; dipendono anche da quanti di questi alfa acidi si riescono effettivamente a “estrarre” (cioè isomerizzare e disciogliere nel mosto), ovvero dalla percentuale di utilizzazione (UTIL%). Quindi la formula è:
È possibile applicare la formula anche in caso di ricette con aggiunte di luppolo a diversi tempi (ad esempio, una certa quantità per 60 minuti, un’altra per 25 e un’aggiunta finale per 5 minuti); bisognerà utilizzare la formula per calcolare il valore di IBU relativo a ciascuna aggiunta di luppolo, e alla fine sommare i vari risultati. Se il valore risultante non è quello voluto, si dovrà ripetere il calcolo variando le quantità di luppolo fino a centrare il valore. La UTIL% dipende principalmente da: durata della bollitura (intuitivamente, più a lungo si bolle, più amaro si estrae, entro
un certo limite); gradazione saccarometrica, ovvero densità del mosto durante la bollitura: con mosti molto concentrati, di alta densità, l’estrazione di amaro viene diminuita (si noti che, facendo una birra da estratto, di densità 1050, ma bollendo solo metà dell’acqua, il mosto avrà densità 1100); altri fattori, tipo l’uso o meno di pellets o del sacchetto per il luppolo e altri ancora. Si può valutare che (in una birra di gradazione media) la UTIL% si aggiri intorno al 25% per il luppolo da amaro, aggiunto a 60 minuti, e al 5-10% per il luppolo da aroma, aggiunto verso la fine della bollitura; sono comunque possibili stime più accurate (vedi nota di approfondimento).
Calcolo dell’utilizzazione Per calcolare la UTIL% esistono diverse formule – proposte da diversi autori –, le quali però si guardano bene dal combaciare minimamente! Ognuno può decidere quella che preferisce e che funziona meglio per il proprio modo di lavorare… Fra le più usate riportiamo le tabelle di Rager, riferite a luppolo in pellets: Tempo di bollitura (minuti) % Util 0-5 5 6-10 6 11-15 8 16-20 10,1 21-25 12,1 26-30 15,3 31-35 18,8 36-40 22,8 41-45 26,0 46-50 28,1 51-55 29,6 56-60 30,5 Il numero della colonna destra va poi modificato a seconda della densità: se questa è maggiore di 1,050, si deve dividere per questo fattore:
Una volta stimato il totale delle IBU come somma di tutte le aggiunte di luppolo, per una stima più corretta si potrà tener conto di questi altri fattori: uso di luppolo in coni/plugs: diminuzione del 10%; uso di hop bags (sacchetti per infusione) durante la bollitura: 10% in meno;
eliminazione della schiuma in fermentazione: 10-20% in meno. Le tabelle originali fornite da Rager arrivano fino a 45 minuti; in questa sede sono state estrapolate fino a 60 minuti. Autori diversi forniscono valori di correzione molto differenti: la differenza tra pellets e coni viene variamente stimata tra il 10% e il 20%, la riduzione causata dall’uso di hop bag viene riportata tra un minimo del 5% (Korzonas) fino al 20% (Mosher).
Conclusioni: a cosa serve stimare le IBU? Una stima precisa delle IBU (calcolandole “a mano” o utilizzando un programma) è difficilmente realizzabile e tutto sommato di importanza relativa, ma una valutazione è pur sempre utile. Facciamo un esempio: abbiamo prodotto una birra che ci sembra troppo amara, e la formula o il programma usato aveva determinato una stima di 46 IBU. Giusta o sbagliata che sia questa stima, ora sappiamo che una birra a 46 IBU calcolate con quel programma è un po’ troppo amara per quello stile o per il nostro gusto, e la prossima volta punteremo magari a un valore di 38-40. Se, per ipotesi, avessimo usato una formula diversa ottenendo (sempre per la stessa birra “troppo amara”) ad es. 35 IBU, d’ora in poi sapremo che 35 IBU con quelle formule sono troppe, e ci regoleremo di conseguenza per il prossimo tentativo. Il vero valore di IBU lo si potrà sapere solo facendo analizzare la birra da un laboratorio! È invece più importante che il programma o le formule tengano conto in modo corretto delle diverse condizioni (densità e tempi di bollitura). Comunque, anche senza dover fare analizzare le proprie birre, ma semplicemente assaggiando prodotti commerciali di cui si conoscono le IBU, si riesce a “tarare” il proprio palato e ad avere un minimo di riscontro sui valori ottenuti. Ma quali sono le IBU “giuste”? Dipende ovviamente dallo stile scelto e anche da gusti personali, ma indicativamente si può dire che una birra è correttamente bilanciata fra dolce e amaro se le IBU sono circa il 5060% dei “punti” di OG (cioè OG -1000) della birra finita. Questa è una approssimazione corretta per birre normalmente attenuate (75%, ovvero densità finale circa 1/4 dell’OG), perché in realtà quelli che si devono bilanciare sono gli zuccheri residui alla fine della fermentazione. Ad esempio, una birra di 1078 OG mediamente attenuata sarebbe correttamente bilanciata con circa 40 IBU. Naturalmente ogni stile ha il proprio bilanciamento verso il dolce o l’amaro: ad esempio, una pils a 1050 e 25 IBU potrebbe anche essere piacevole, ma per essere aderente allo stile deve essere decisamente più amara e arrivare a 40-45 IBU. Un Barley Wine con 1100 OG e 60 IBU risulterà quindi un po’ tendente all’amaro, come è giusto che sia: in realtà il grado di amaro è di per sé molto alto, ma ben bilanciato dall’elevata dolcezza e corposità.
Se stiamo semplicemente seguendo una ricetta già dettagliata (con tanto di tempi di bollitura) non è necessario addentrarsi nei calcoli degli IBU, anche se non si ha a disposizione un luppolo della stessa identica AA% di quella specificata nella ricetta. Sarà sufficiente fare una semplice proporzione: ad esempio, posso sostituire 40 g di luppolo al 6% AA con 60 g di luppolo al 4% AA e così via.
Forme di confezionamento Il luppolo, tranne rare eccezioni, viene fatto essiccare prima del confezionamento e della vendita. Viene offerto in diverse forme (Figure 2.7 e 2.8): coni interi non pressati (raro); coni pressati e confezionati sottovuoto; plug, simili ai precedenti ma suddivisi in “blocchetti” solitamente da 14 g; pellet, luppolo polverizzato finemente e compattato in piccoli cilindretti di 1 cm e pochi mm di diametro; anche questi possono essere confezionati sottovuoto.
Figura 2.7 - Fiori di luppolo.
Figura 2.8 - Il luppolo sotto forma di pellet e di plug.
I pellet, a parità di altri fattori, hanno una “resa” (cioè una UTIL%) del 10-20% superiore rispetto ai coni.
La conservazione del luppolo Più ancora di zuccheri e malti, il luppolo mostra un deterioramento nel tempo delle sue proprietà, dovuto al decadimento dei suoi componenti principali, in primis gli alfa acidi. A temperatura ambiente e in presenza di ossigeno (cioè se il luppolo non è confezionato sottovuoto) la diminuzione degli alfa acidi è molto rapida: tipicamente dopo 6 mesi a 20 °C ed esposto all’aria, il valore di alfa acidi può già risultare dimezzato!
“Il luppolo mostra un deterioramento nel tempo delle sue proprietà.”
Si tratta di un valore tipico, anche se molto variabile a seconda della varietà di luppolo. Come per tutte le reazioni biochimiche, la temperatura ha un ruolo importante: indicativamente il tempo di decadimento raddoppia abbassando di 10 °C la temperatura, quindi un luppolo conservato a –10 °C può durare circa 8 volte più a lungo che non a temperatura ambiente. L’altro fattore decisivo è l’ossigeno. Da notare, però, che il decadimento degli alfa acidi avviene anche in assenza di ossigeno, sebbene circa dieci volte più lentamente, quindi, nell’esempio di cui sopra, il dimezzamento invece che in sei mesi avverrebbe comunque in 4 o 5 anni. Per i beta acidi non sembra esserci decadimento in assenza di contatto con l’aria; in presenza di ossigeno l’andamento sembra simile a quello descritto per gli alfa. Gli aromi dovuti agli oli essenziali presentano anch’essi un deterioramento, influenzato dalla presenza di ossigeno, tempo e temperatura, ma in modo meno prevedibile rispetto agli AA, e questo si può manifestare sia come attenuazione degli aromi che come insorgenza di aromi sgradevoli (es. formaggio). La conclusione è che si debba tener conto di entrambi i fattori di deterioramento, e quindi conservare il luppolo il più possibile in assenza di ossigeno (pacchetto di alluminio o di plastica impermeabile, sottovuoto o almeno richiuso ermeticamente) e a bassa temperatura, in frigo o in freezer, anche quando il pacchetto è ancora perfettamente chiuso. In linea di massima, un pacchetto ben confezionato, non ancora aperto e conservato in frigo o freezer, si può utilizzare anche dopo un anno senza presumere una significativa diminuzione degli AA o degli aromi. Se il tempo è superiore, ad esempio un paio di anni, oppure se il pacchetto è stato aperto da qualche mese e chiuso al meglio ma non sottovuoto, si può presumere una certa diminuzione (10-20%) degli AA, eventualmente cercando di stimarla più precisamente con la formula in appendice; per tempi superiori i risultati sono decisamente aleatori. Per quanto riguarda gli aromi, l’approccio è più empirico: certi luppoli possono aver conservato buona parte del loro aroma, altri averlo semplicemente un po’ attenuato, e solo in certi casi si sviluppano aromi sgradevoli: un esame visivo (colore ormai dorato carico) e soprattutto olfattivo è spesso sufficiente!
2.3 L’acqua nella produzione della birra Questo capitolo dovrebbe essere inserito al primo posto nella sezione “ingredienti”: in fondo la birra è formata al 90-95% di acqua! Si tende tuttavia a sottovalutare l’importanza di questo elemento, anche perché solitamente nella produzione casalinga della birra il processo produttivo viene spesso realizzato senza curarsi troppo dell’acqua e delle sue caratteristiche. È vero però che, se è relativamente facile produrre una birra “discreta”, lo è meno farne una “ottima”: il birraio che punta all’eccellenza deve necessariamente curare tutti gli aspetti legati al processo e l’acqua è uno di questi, forse tra i più importanti. L’acqua (o meglio la sua composizione in termini di sali minerali ed eventuali altre sostanze disciolte) influenza la birra sotto due aspetti: gusto e tecnica di produzione. Il primo aspetto
dovrebbe essere di interesse per tutti i birrai, anche da chi produce birra utilizzando semplici kit di estratti di mosto (luppolati); il secondo è sicuramente importante per chi produce con il metodo all-grain. Per quanto riguarda il gusto, si sostiene che, se l’acqua è gradevole da bere, allora può essere utilizzata senza problemi: in linea generale è vero, tuttavia è bene sapere che i sali minerali disciolti possono “interagire” gustativamente con gli ingredienti della birra, in particolare i sali di magnesio, cloro, zolfo, con le sensazioni date dall’amaricatura del luppolo: una birra tendente a un pronunciato amaro sarà molto “facile” e gradevole con acque “morbide” (con pochi sali minerali), mentre avrà un amaro più “aggressivo” e deciso con acque dure. Basta paragonare una Pils ceca e una Bitter inglese! Se entrambe hanno un livello di amaro teorico simile, la percezione “distorta” dai sali minerali dell’acqua fa sembrare la seconda ben più amara della prima. Se l’acqua è eccessivamente clorata (si sente nettamente al gusto), il cloro può interagire con componenti della birra e formare clorofenoli (che possono apportare un “aroma di medicinale”). Il problema può essere eliminato per mezzo di una breve bollitura dell’acqua prima dell’utilizzo: il cloro evapora con tale trattamento.
“Il birraio che punta all’eccellenza deve necessariamente curare tutti gli aspetti legati al processo e l’acqua è uno dei più importanti.” Questione più complessa è l’influenza dell’acqua sulla produzione, in particolare nell’ammostamento. Abbiamo visto in precedenza (e se ne approfondirà la questione più avanti) che i processi del mashing dipendono anche dal livello di acidità (pH): sopra o sotto i valori ideali gli enzimi possono rallentare o interrompere la propria attività, impedendo le necessarie trasformazioni chimiche del malto.
Figura 2.9 - L’acqua è un ingrediente fondamentale della birra.
I sali minerali dell’acqua influenzano il valore di pH che va a formarsi nell’impasto di ammostamento e, potenzialmente, anche i tentativi fatti dal birraio per riportarlo nei parametri necessari. Vediamo come: la molecola dell’acqua è formata, come tutti sanno, da un atomo di ossigeno e due di idrogeno (H2O): l’acqua, però, è parzialmente dissociata in ioni H+ (idrogeno) e ioni OH- (ossidrile). In un’acqua priva di qualunque tipo di sali minerali disciolti (acqua ultrapura), la concentrazione di ioni H+ e di ioni OH- è uguale ed è pari a 0,0000001 (10-7) moli/litro. Il pH di questa acqua è uguale a 7 (che corrisponde alla neutralità): per definizione, infatti, il pH è uguale a –log [H+]. Con le parentesi quadre, si indica per convenzione la concentrazione in moli/litro. In presenza di sostanze che in soluzione rilasciano ioni H+, la concentrazione di tali ioni nell’acqua aumenta: se la loro concentrazione diventa, per esempio, 0,0001 (10-5) moli/l, si avrà pH = 5 (acido). Se, invece, sono presenti sostanze alcaline, aumenterà la concentrazione di ioni OH- e diminuirà quella di ioni H+: se la loro concentrazione diventa, per esempio, 0,0000001 (10-8) moli/l, si avrà pH = 8 (alcalino). I sali disciolti in acqua possono anch’essi variare questo rapporto, legandosi agli ioni idrogeno H+ o agli ioni ossidrili OH-, modificando così il valore del pH. Se leggiamo un’etichetta di acqua minerale, vediamo la quantità dei sali (o meglio ioni) più comuni espressi in ppm (parti per milione), ossia mg/litro: Ca2+ (ione calcio) Mg2+ (ione magnesio) Na+ (ione sodio) Cl- (cloruri) SO42- (solfati) HCO3- (bicarbonati) Quello che interessa maggiormente il birraio non è quindi il valore del pH originario dell’acqua, bensì ciò che succede al pH dell’acqua durante il processo di ammostamento, quindi la sua interazione con gli zuccheri e gli altri componenti del malto che vanno a disciogliersi nell’acqua stessa. Per esempio, aggiunte di calcio Ca2+ come solfato di calcio (CaSO4.2H2O) (gypsum) tendono ad aumentare la concentrazione degli ioni H+ attraverso la reazione con i fosfati (PO43-) presenti nel mash: lo ione calcio si lega allo ione fosfato, formando il fosfato di calcio (Ca3(PO4)2), secondo le (possibili) reazioni: 3Ca2+ + 2H3PO4 –> Ca3(PO4)2 + 6 H+ 3Ca2+ + 2H2PO4-–> Ca3(PO4)2 + 4 H+ 3Ca2+ + 2HPO42-–> Ca3(PO4)2 + 2 H+
Da notare che il diverso grado di dissoluzione dell’acido fosforico, e quindi il numero di moli di H+ liberate, dipende dal pH iniziale dell’acqua. Il bicarbonato (HCO3-), invece, tende a impedire che il pH scenda, legandosi con gli H+ “liberi” e creando quello che è chiamato effetto “tampone”: in un’acqua con elevato livello di bicarbonati, aggiungere acido citrico o lattico (o utilizzare malto acido) per aumentare l’acidità dell’impasto di ammostamento può essere poco risolutivo. Dal punto di vista della produzione birraria, ecco quindi che il livello di bicarbonati HCO3- è importante e deve essere noto: per un ammostamento ottimale gli HCO3- dovrebbero essere sotto i 50 mg/l (ppm) per birre chiare e 200 ppm per birre scure (si ricorda che i malti scuri abbassano il pH dell’ammostamento in misura maggiore di quelli chiari). Se la nostra acqua ha molti bicarbonati, può essere utile farla bollire 15-20 minuti per eliminarli almeno in parte: i bicarbonati HCO3-si legano con calcio Ca2+ creando il sale CaCO3 (di colore bianco) che precipita sul fondo della pentola. A livello pratico, come fare per conoscere le informazioni relative all’acqua che intendiamo utilizzare per realizzare la birra? La normale acqua di rete è quella utilizzata con maggiore frequenza dai birrai: è bene sapere che ogni Comune ha l’obbligo di effettuare analisi periodiche sul proprio acquedotto e parimenti l’obbligo di rendere pubblici tali dati; basterebbe quindi recarsi in municipio per avere le informazioni necessarie. Nella pratica, tuttavia, le procedure di richiesta non portano sempre a conclusioni positive: se viviamo in una grande città, non sempre è possibile risalire all’esatto pozzo che rifornisce il nostro rubinetto e le caratteristiche delle acque possono variare anche a distanza di pochi chilometri (ad esempio, pozzi di differente età, a profondità diverse). Inoltre, l’esame di potabilità tende a evidenziare la presenza di possibili contaminanti, più che la composizione chimica dell’acqua: le tabelle di analisi riportano infatti voci quali metalli e cariche batteriche e il dettaglio dei sali può non essere sempre citato. Per verificare almeno la quantità di sali di calcio e magnesio disciolti (ossia il valore di durezza dell’acqua) sono disponibili semplici ed economici kit di analisi (dal costo di 5-6 euro) reperibili nei negozi per homebrewing o anche per acquari (Figura 2.10). Altrimenti, come extrema ratio, è sempre possibile acquistare acqua imbottigliata; si tratta di una minima spesa e l’etichetta riporta nel dettaglio tutte le informazioni necessarie.
Figura 2.10 - Un kit per la misurazione della durezza dell’acqua.
Un’altra fase in cui il valore di pH dell’acqua è importante è quella della filtrazione e del risciacquo delle trebbie: anche se abbiamo raggiunto un livello di acidità ottimale nell’ammostamento, dobbiamo fare attenzione al fatto che parte del mosto (tendenzialmente acido) viene separato dall’impasto e acqua nuova vi viene inserita per il risciacquo delle trebbie. Dobbiamo quindi porre attenzione anche all’acqua aggiunta, perché, anche se l’attività degli enzimi è terminata, un livello di pH elevato (sopra i 5,7-5,8) può permettere una eccessiva estrazione dalle trebbie di tannini e polifenoli, che daranno astringenza eccessiva alla birra finita. Il problema si può presentare anche a causa della temperatura troppo elevata dell’acqua di risciacquo (oltre gli 80 °C) e di una filtrazione troppo lunga (oltre due ore). Anche l’acqua di filtrazione dovrebbe quindi essere trattata con sostanze acidificanti. Ma come misurare il valore del pH? Esistono sostanzialmente due metodi: cartine di tornasole o apparecchi a batteria (Figura 2.11).
Figura 2.11 - Si può misurare l’acidità del mosto con un phmetro o con delle cartine di tornasole.
Le cartine sono utilizzate immergendole in un piccolo campione di mosto: a seconda del colore indicato, si può risalire al valore del pH effettivo. Costano pochi euro ed esistono vari intervalli di misura. Quelli utili per homebrewer sono ovviamente nell’ambito dei valori di 5-6 pH (sensibilità al decimo di pH). Gli apparecchi a batteria hanno un costo variabile da 50 euro in su e sono molto comodi e accurati. Gli apparecchi devono però essere tarati periodicamente, quindi è necessario procurarsi anche delle soluzioni tampone a pH noto e certificato per la messa a punto dello strumento. Attenzione che tutte le prove devono essere realizzate con campioni di mosto a 20 °C (altrimenti le misurazioni non sono accurate). Inoltre, è bene sapere che le cartine di tornasole possono rilasciare sostanze tossiche, per cui è fondamentale buttare il piccolo campione di mosto dopo la prova. Come detto, il tipo di acqua influisce sul gusto della birra e stili particolari vorrebbero, almeno secondo scuola, acque particolari. Ecco un esempio delle acque tradizionalmente utilizzate per realizzare pils, dunkel, stout, dort e ales (valori in ppm - mg/l): Tabella 2.2 – Acque utilizzate per la birra in varie città europee. Pilsen Monaco Dublino Dortmund Burton Ca2+ Mg2+
7
75
115
250
295
2
20
4
25
45
Na+
2
10
4
70
55
SO42-
5
10
55
280
725
HCO3-
15
200
200
550
300
Cl-
5
2
19
100
25
Come poter avere la possibilità di utilizzare esattamente tali acque? La situazione ideale è quella in cui si possa avere a disposizione un’acqua molto “morbida” come quella da pils ed eventualmente trattarla con differenti sali per giungere ai livelli desiderati. I sali solitamente utilizzati sono reperibili in negozi di enologia e homebrewing e sono i seguenti: CaSO4.2H2O Solfato di calcio (gypsum) MgSO4 Solfato di magnesio NaCl Cloruro di sodio CaCl2 Cloruro di calcio NaHCO3 Bicarbonato di sodio CaCO3 Carbonato di calcio Ogni sale ha un rapporto definito dei suoi singoli costituenti, in particolare se aggiungiamo 1 grammo di sale otteniamo i seguenti valori degli ioni (per alcuni sali la somma non è esattamente 1 perché il conteggio stechiometrico comprende anche l’eventuale inclusione di acqua di cristallizzazione): 1 CaSO4 = 0,23 Ca2+ + 0,56 SO421 MgSO4 = 0,14 Mg2+ + 0,55 SO421 NaCl = 0,39 Na+ + 0,61 Cl1 CaCl2 = 0,27 Ca2+ + 0,48 Cl1 NaHCO3 = 0,27 Na+ + 0,71 CO321 CaCO3 = 0,40 Ca2+ + 0,60 CO32Supponiamo, ad esempio, di voler realizzare una bitter “burton” avendo a disposizione acqua “pils” (per 23 litri di birra), gypsum e bicarbonato di sodio: per ottenere i valori riportati nella tabella sopra citata, dobbiamo aggiungere circa 700 ppm (mg/l) di solfati SO42-, quindi 700*23 = 16.100 mg (16,1 g). Se aggiungiamo 28 g di solfato di calcio CaSO4 otterremo (secondo lo schema sopracitato) 681 ppm di solfati SO42- e 280 ppm di calcio Ca2+. Inoltre, con 4,2 g di bicarbonato di sodio NaHCO3 aggiungeremo 50 ppm di sodio Na+ (50*23 = 1150 mg = 1,15 g) e 130 ppm di bicarbonati HCO3-. Con questi due sali si otterrà una valida approssimazione dell’acqua “Burton”. Volendo raggiungere un’approssimazione massima (eccessiva forse!), aggiungendo: 17,62 g CaSO4 + 10,94 g MgSO4 + 1,22 g CaCl2 + 4,25 g NaHCO3 + 6,08 g CaCO3 otterremo i seguenti valori (ppm), molto simili a quelli in tabella: 261 Ca2+ + 690 SO42- + 66 Mg2+ + 50 Na+ + 25 Cl- + 290 CO32In realtà non è necessario mettersi a fare tutti questi calcoli, esistono software che calcolano
le aggiunte necessarie.
2.4 Il lievito L’importanza del lievito Il lievito è forse l’elemento più importante nella produzione della birra: più che un semplice ingrediente esso è un attore, un elemento attivo del processo: si può ben dire che il ruolo del birraio è quello di preparare il mosto e di mettere il lievito in condizioni di fare bene il suo lavoro, ma è poi il lievito a fare la birra (Figura 2.12). Tutto ciò ormai è ben conosciuto, ma stupisce un po’ che la vera natura del lievito e il suo ruolo essenziale nella produzione della birra siano stati scoperti da Pasteur solo a metà del diciannovesimo secolo, un’epoca in cui la produzione birraria (anche industriale) era in auge da secoli e con tecniche e conoscenze già sviluppate per quanto riguarda malto, ammostamento e tutto il resto. Eppure, fino a quel momento il lievito era stato considerato una sorta di sottoprodotto del processo di birrificazione, o al più un ingrediente misterioso e un po’ magico che interveniva in qualche modo nella fermentazione. A volte queste misteriose proprietà nel favorire la fermentazione venivano erroneamente attribuite all’ambiente o all’attrezzatura, come nel caso dei “magici” bastoni di legno usati per rimescolare il mosto del finnico sahti – tramandati di generazione in generazione e in realtà incrostati di residui di lievito. Per questo motivo il lavoro di Pasteur è risultato fondamentale ed è tuttora attuale e azzeccata anche la sua definizione di lievito come “la vie sans air”, vita senza ossigeno!
“Il ruolo del birraio è quello di preparare il mosto e di mettere il lievito in condizioni di fare bene il suo lavoro, ma è poi il lievito a fare la birra.”
Figura 2.12 - È il lievito che fa la birra.
Caratteristiche Il lievito è un organismo unicellulare, della famiglia dei funghi (saccaromices, cioè fungo dello zucchero o per lo zucchero). La peculiarità di questo organismo è quella di avere una forma di respirazione sia aerobica (in presenza di ossigeno) che anaerobica: quest’ultima forma di “vita” è proprio quella che è responsabile della fermentazione alcolica, che trasforma gli zuccheri in anidride carbonica e alcol senza intervento di ossigeno. Importante in questi meccanismi è la membrana cellulare, che deve avere determinate proprietà di permeabilità per permettere il passaggio di alcuni tipi di zuccheri, i quali vengono trasformati grazie all’azione di alcuni enzimi presenti nel lievito stesso. Il lievito si riproduce per suddivisione (o gemmazione): una cellula, dopo aver formato una protuberanza, finisce per dividere tutto il materiale fra due entità, dando origine a due nuove cellule e così via (accanto a questa forma di riproduzione asessuata ne esiste una sessuata – che attraverso ulteriori meccanismi può dare origine alla formazione di spore). Affinché la membrana cellulare sia sufficientemente robusta, e in grado di svolgere le sue funzioni, è importante la presenza di alcuni nutrienti (aminoacidi e altre sostanze azotate), grazie ai quali in presenza di ossigeno il lievito può “irrobustire” la sua membrana prima di effettuare la fermentazione anaerobica. La presenza iniziale di nutrienti e ossigeno influenza anche la capacità del lievito di moltiplicarsi: infatti a ogni suddivisione il lievito suddivide anche tutto il suo materiale, quindi, partendo da uno stato iniziale di non sufficiente robustezza strutturale, la riproduzione deve cessare dopo un numero limitato di suddivisioni.
Proprietà del lievito relative alla fermentazione Pur appartenendo tutti a una stessa specie, esistono svariati ceppi di lievito, ognuno dei quali è in grado di svolgere il suo “lavoro”, ovvero fermentare un mosto, ma con modi e risultati diversi. Sotto questo aspetto alcune caratteristiche e proprietà sono di particolare interesse per il birraio, che ne dovrà tener conto per selezionare il ceppo più adatto ai propri scopi. Attenuazione È in generale la capacità di un lievito di fermentare in modo più o meno completo gli zuccheri presenti nel mosto: viene espressa in percentuale (ad esempio, attenuazione del 75% indica che tre quarti degli zuccheri presenti vengono fermentati). È un dato approssimativo, anche perché l’attenuazione ottenuta dipende anche e soprattutto dalla composizione della ricetta e dalle modalità di ammostamento, che determinano le proporzioni nel mosto di zuccheri fermentabili e non. Alcuni zuccheri complessi (come le destrine) non sono attaccabili da nessun ceppo di lievito; i più semplici (mono e disaccaridi) non presentano, viceversa, problemi, ma altri zuccheri intermedi possono essere trasformati o meno a seconda del ceppo di lievito e questo spiega le diverse capacità di attenuazione dei vari lieviti a parità di
ogni altra condizione.
Zuccheri e lievito Più in dettaglio, sono diversi i tipi di zuccheri che possono essere fermentati dal lievito e, per ciascuno, è necessaria l’azione degli opportuni enzimi perché la reazione suddetta possa avvenire. Ad esempio, il saccarosio (un disaccaride, ovvero uno zucchero composto da due molecole di zuccheri semplici) non viene fermentato direttamente, ma deve dapprima essere scisso nei due monosaccaridi (fruttosio e glucosio) a opera dell’enzima invertase; questi zuccheri possono penetrare nella cellula e ivi essere fermentati. Il maltosio, lo zucchero maggiormente presente nel mosto a base di malto, è un altro disaccaride (formato da due unità di glucosio) e, grazie all’enzima permease, può passare attraverso la membrana cellulare, dove verrà scisso grazie a un altro enzima e finalmente fermentato. Un “percorso” simile è seguito dal maltotriosio, che è un trisaccaride. Questo zucchero può essere scisso e fermentato dalla maggior parte dei lieviti, ma non da tutti; ciò spiega le diverse capacità di fermentazione dei diversi ceppi di lievito. I lieviti a bassa fermentazione (vedi dopo) hanno di solito la capacità di fermentare il maltotriosio, ma alcuni di quelli ad alta non hanno questa capacità e sono quindi degli “scarsi attenuatori”; la fermentazione si arresterà a una densità maggiore, ovvero più alto grado di zuccheri non fermentati. Inoltre, questa capacità è determinata da un unico gene del lievito e si può facilmente perdere a causa di mutazioni: questo spiega come mai certi lieviti deteriorano le loro capacità se impiegati per diverse generazioni.
Tolleranza all’alcol Anche questa proprietà influisce sul grado di attenuazione raggiungibile, ma sotto un aspetto diverso: infatti, l’alcol prodotto durante la fermentazione è tossico per il lievito stesso, che quindi può cessare il suo lavoro quando il mosto raggiunge un determinato grado alcoolico. La resistenza all’alcol è diversa fra un ceppo e l’altro e non è correlata alle sue capacità attenuative: ad esempio, in un mosto ad alta gradazione un lievito molto attenuante (perché capace di trasformare zuccheri mediamente complessi) può essere meno efficace di un lievito meno attenuante ma più resistente all’alcol. Lieviti di buona tolleranza alcolica vengono spesso utilizzati per la rifermentazione in bottiglia (vedi paragrafo 4.7). Flocculazione È la tendenza delle cellule di lievito a unirsi fra di loro in grossi “conglomerati” durante la fermentazione. Un lievito molto flocculante si coagula in grossi blocchi marroncini ben visibili, che vengono portati in superficie dall’anidride carbonica nelle fasi iniziali delle fermentazione, per poi precipitare, compattandosi sul fondo, alla fine della stessa. Lieviti poco flocculanti restano invece più “polverizzati” e dispersi nel mosto e hanno maggiore tendenza a rimanere in sospensione. Queste proprietà sono importanti sia per lo svolgimento della fermentazione sia per la limpidezza del risultato finale.
Profilo aromatico Come si vedrà nel paragrafo 4.6, nella fermentazione non vengono prodotti solo alcol e CO2, ma anche altri composti (in particolare esteri e alcoli superiori), responsabili in positivo o in negativo di tutta una serie di aromi presenti nella birra. Questi (e la loro intensità nel prodotto finale) dipendono da un gran numero di fattori – dettagliati nel capitolo relativo – ma è da notare che, a parità di condizioni, ogni ceppo di lievito si comporta in modo diverso con risultati aromatici ben differenziati. Temperatura di lavoro Ceppi diversi hanno comportamenti diversi in relazione alla temperatura di fermentazione, sia per quanto riguarda la capacità di fermentare il mosto, sia per la produzione di esteri e relativi aromi. Ad esempio, un lievito può lavorare senza problemi a una temperatura alla quale un altro ceppo si blocca completamente; lieviti con profili aromatici simili a 20 °C possono diventare due “creature” del tutto diverse a 25 °C.
Alta e bassa fermentazione I lieviti per la produzione della birra presentano una grande varietà di caratteristiche sotto i più diversi aspetti, ma si possono suddividere in due grandi famiglie per quanto riguarda comportamento e condizioni di fermentazione. Alta fermentazione 1.
Durante l’attività fermentativa lavorano vicini alla superficie del mosto, a volte formando un “cappello”. 2. La temperatura ottimale a cui lavorano è fra i 16 e i 24 °C circa; a temperature minori si può verificare il blocco della fermentazione. 3. In generale producono una certa quantità di esteri, che conferiscono alla birra aromi fruttati, floreali o speziati. Bassa fermentazione 1. Durante l’attività fermentativa lavorano vicini al fondo del fermentatore. 2. Sono in grado di lavorare a temperature basse (sotto 14 °C, anche fino a 4 °C), alle quali sviluppano le loro caratteristiche ottimali. 3. In generale producono una quantità limitata di esteri e la birra ha gusto e aroma più puliti, con il malto e il luppolo ben in evidenza. I punti 2 e 3 sono legati; infatti, la minore quantità di esteri prodotta dai lieviti “a bassa” è dovuta proprio alle basse temperature alle quali lavorano. È da notare, inoltre, che la prerogativa dei lieviti a bassa è quella di essere in grado di fermentare a bassa temperatura, ma questo non vuol dire che a temperature maggiori (ad esempio, a temperatura ambiente)
essi rallentino o esauriscano la loro attività: al contrario, la fermentazione sarebbe in tal caso più vigorosa e veloce, ma verrebbero meno le caratteristiche di “pulizia” proprie di questi lieviti e gli esteri sarebbero prodotti in quantità eguale (o anche superiore) ai lieviti ad alta fermentazione. L’inattivazione dei lieviti per eccesso di temperatura avviene solo a 35-40 °C e in maniera simile per entrambe le tipologie di lievito.
Quanto lievito? Per il dosaggio del lievito ci si regola con criteri diversi rispetto agli altri ingredienti. In effetti il lievito non è neppure un “ingrediente”, che apporta al prodotto un suo gusto: il suo ruolo è quello di trasformare gli altri ingredienti contribuendo solo indirettamente (anche se notevolmente) al gusto e all’aroma. In genere, quindi, non si stabilisce una dose precisa di lievito, ma una quantità minima, al di sotto della quale si rischia di avere una fermentazione difficoltosa o problematica sia nello svolgimento sia nel risultato; oltre questa dose minima (ad esempio, raddoppiandola) in generale non vi sono differenze sostanziali e, se vantaggio vi è, non è in proporzione all’aumento del dosaggio. Questa dose minima dipende non solo dalla quantità del mosto, ma anche dalla sua gradazione zuccherina. Nei vari testi di birrificazione si parla di: 1 milione di cellule × ml × grado plato per birre a bassa fermentazione; 0,6 milioni × ml × grado plato per quelle ad alta. Per fare un esempio, 20 litri di pilsen (bassa fermentazione) a 12 gradi plato richiederebbero 240 miliardi di cellule. Una ale belga di 16 plato necessiterebbe di 192 miliardi. C’è da notare che, di fatto, le dosi normalmente usate in ambito di produzione casalinga (anche seguendo le indicazioni sulle confezioni in commercio) sono spesso leggermente inferiori a quelle citate, solitamente senza particolari problemi qualitativi. Il dibattito su questo è ancora aperto, si consiglia in ogni caso di non scendere troppo al di sotto delle dosi di cui sopra… Naturalmente non è richiesto all’homebrewer di armarsi di microscopio e di… pazienza e di contare le cellule del lievito da utilizzare! Le confezioni di lievito in commercio contengono semplici indicazioni su uso e dose che in genere seguono i criteri di cui sopra (anche se in certi casi un po’ ottimisticamente). Il birraio può seguirle tenendo conto che le dosi indicate sono quelle minime e talvolta un po’ risicate. Insomma, se la bustina di lievito che avete comprato è indicata per 20 litri ma dovete produrne 10 o 15, non è necessario suddividere in proporzione il contenuto: usatela tutta, non ci sono problemi, anzi è consigliabile! Nei prossimi paragrafi daremo comunque qualche indicazione più precisa su uso e quantità di lievito delle confezioni commerciali più in uso.
Lievito liquido e lievito secco Il lievito è commercialmente disponibile per l’homebrewer (e in parte in ambito professionale) in due forme: liquido e secco. Nella prima forma si tratta di un ceppo sostanzialmente puro, in una densa soluzione liquida,
in una busta di alluminio ben ermetica o in provetta. Il secondo è lievito liofilizzato, secco, generalmente in bustina (o in confezioni più grandi per i microbirrifici). Viene ottenuto da lievito che viene prima pressato e poi privato di tutto il suo contenuto liquido. Con questo tipo di processo è più difficile ottenere un ceppo puro ed è presente un certo grado – per quanto limitato – di contaminazione. Per questo motivo fino a non molti anni fa i lieviti secchi venivano giudicati qualitativamente inferiori ai liquidi. Attualmente, invece, queste differenze sono state in parte colmate, tanto che alcuni prestigiosi microbirrifici usano quasi esclusivamente lievito secco. Il principale vantaggio dei lieviti liquidi consiste nella maggior varietà e disponibilità di ceppi specifici: anche limitandosi ai due principali fornitori reperibili in negozi italiani, la libreria a disposizione supera il centinaio di ceppi diversi! Per contro un produttore di lieviti secchi offre al massimo una mezza dozzina di alternative. In pratica, limitandosi ai lieviti secchi è possibile selezionare, ad esempio, un generico lievito di stampo belga; fra i lieviti liquidi posso scegliere quello specifico per una ben determinata trappista (o saison, o belgian pale) derivato proprio da quello usato dalla birreria! Il vantaggio del lievito secco è in termini di costo e, in parte, di praticità di uso.
Lievito liquido, uso e propagazione Prima di esaminare le modalità di impiego del lievito liquido, è bene rimarcare il fatto che le sue “prestazioni” e i relativi risultati nell’utilizzarlo dipendono grandemente anche dalla sua “freschezza” e vitalità. Attenzione, quindi, non solo alla data di scadenza, ma anche alla sua conservazione: il lievito va tenuto in frigorifero ed è bene che la catena del freddo non sia mai interrotta; è consigliabile che anche il nostro fornitore presti la dovuta attenzione a questi aspetti sia per quanto riguarda il magazzino che per le spedizioni. Il lievito liquido si presenta in diverse confezioni. La confezione in busta da 50 ml della Wyeast è in commercio da diversi anni. All’interno della busta, oltre a lievito in forma liquida, è presente un sacchettino contenente una soluzione zuccherina con nutrienti. Qualche giorno prima di utilizzare il lievito, è necessario schiacciare e rompere il sacchettino interno premendo con forza col palmo della mano (senza aprire la busta), in modo che il lievito presente possa cominciare a fermentarne il contenuto, in tal modo “attivandosi” e iniziando a moltiplicarsi. Il gonfiarsi della busta nei giorni successivi (ricordarsi di tenerla in un luogo non troppo freddo!) dimostrerà che vi è una fermentazione in corso. Nonostante questa attivazione, il contenuto di cellule di lievito è ancora piuttosto basso (15 miliardi circa) e insufficiente anche per pochi litri di mosto. È quindi necessario propagare il lievito, mediante uno starter: in pratica si tratta di preparare un “mini-mosto” e inocularvi il lievito della busta, che, fermentando, moltiplicherà il suo numero di cellule. Se necessario, si possono eseguire diversi passaggi (step), via via con mosti di dimensioni maggiori, con progressivo aumento del lievito ottenuto. La necessità di diversi passaggi successivi e la dimensione dei relativi starter dipende dalla quantità di lievito e dalla quantità finale di birra.
“Il lievito è commercialmente disponibile per l’homebrewer (e in parte in ambito professionale) in due forme: liquido e secco.”
Indicativamente con una busta da 50 ml di lievito liquido attivato e un mosto di 20 litri di gradazione media (12-13 Plato, ovvero 1048-1052), si reputa sufficiente un singolo step, con uno starter di circa un litro, di gradazione relativamente bassa (7,5-10 Plato, ovvero 1030-1040), in modo da non mettere il lievito in condizioni di stress. Lo starter si prepara semplicemente sciogliendo circa 100 g di estratto liquido (o 5 cucchiai pieni di estratto liquido) in un litro di acqua e facendo bollire per qualche minuto, avendo cura di farlo raffreddare prima di inocularvi il lievito. È importante che tutto quello che andrà in contatto con mosto e lievito sia sanitizzato, dalla bottiglia, ai cucchiai e agli imbuti, persino l’esterno della busta e le forbici con le quali verrà tagliata. È sconsigliabile accontentarsi di uno starter a base di zucchero da tavola, o miele, in quanto privo delle sostanze nutrienti necessarie allo sviluppo del lievito. Va benissimo anche parte di un mosto preparato con tecnica all grain, anche se naturalmente l’uso di estratto è molto più pratico! Lo starter va poi ossigenato (agitandolo, in assenza di mezzi più tecnologici) e fatto fermentare a temperatura abbastanza alta (verso il limite superiore di lavoro del ceppo, indicato nella confezione). Dopo circa 36-48 ore la fermentazione avrà raggiunto e superato il picco di attività e il lievito si sarà moltiplicato a sufficienza: si può stimare che il numero di cellule in quel momento sia dell’ordine del centinaio di miliardi. A questo punto il lievito si potrà inoculare nel mosto. Per farlo vi sono due possibili soluzioni (entrambe con vantaggi e svantaggi): inoculare tutto lo starter, oppure scartarne la maggior parte e utilizzare solo il fondo, dove si sarà depositata la maggior parte del lievito. La prima tecnica dà buoni risultati, ma ha l’inconveniente di dover aggiungere, al mosto principale della birra, una non trascurabile percentuale di altro mosto, preparato con tecnica più sbrigativa e di caratteristiche diverse. La seconda risolve questo problema, ed è da prendere in considerazione soprattutto per starter piuttosto grandi; ha però lo svantaggio di scartare una buona parte di lievito, quello ancora in sospensione (quindi proprio le cellule meno “pigre” e più attive), a meno di non prolungare la durata della fermentazione dello starter e/o facilitare il deposito di lievito sul fondo mediante raffreddamento. In quest’ultimo caso, il limite è che si inocula un lievito non più nel pieno della sua attività, il che secondo alcuni può rallentare l’inizio di una fermentazione altrimenti vigorosa. Secondo le istruzioni della Wyeast, si consiglia di effettuare l’operazione con un anticipo di tanti giorni quanti sono i mesi di età del lievito (rispetto alla data di confezionamento, riportata sulla busta). Si tratta comunque di una indicazione appossimativa: il tempo necessario perché il lievito si attivi e la busta cominci a gonfiarsi dipende anche in larga misura dal tipo di lievito e soprattutto dalle condizioni con cui è stato conservato. In caso di cotte di dimensioni maggiori, lo starter deve essere dimensionato in proporzione: ad esempio, per 50 litri di birra saranno necessari almeno due o tre litri di starter ed è in genere consigliabile raggiungere queste dimensioni (o anche maggiori) con uno step intermedio, in questo caso una buona scelta può essere un primo starter di mezzo litro, seguito da uno di tre. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la quantità di lievito ottimale è proporzionale alla gradazione zuccherina del mosto e quindi lo starter va
dimensionato di conseguenza; la stessa considerazione si può fare per le birre a bassa fermentazione, che richiedono quasi il doppio di cellule e starter dimensionati di conseguenza. Più recentemente sono state messe in commercio, sempre dalla Wyeast, confezioni di maggiori dimensioni (125 ml) e maggior contenuto di lievito: si parla di un numero di cellule fra i 100 e i 130 miliardi. Per cotte non superiori alla ventina di litri e di gradazione media questa quantità può esser sufficiente e quindi non è strettamente richiesta alcuna propagazione. È possibile (ma, secondo le istruzioni, non indispensabile) effettuare una attivazione simile a quella per le buste da 50 ml (schiacciando il sacchettino interno ecc.) ma l’anticipo richiesto per farlo non è più di giorni ma solo di qualche ora. In sintesi, maggiore praticità di uso senza necessità di programmare le attività con giorni di anticipo – a fronte di un costo maggiore. In caso di cotte di dimensioni maggiori, di più alta gradazione e/o a bassa fermentazione, o in caso di confezione non abbastanza fresca, la quantità di cellule può essere insufficiente e uno starter consigliabile se non indispensabile. Il discorso è simile per le confezioni della Whitelab in provetta – che non richiedono neppure l’attivazione. Sono in effetti “pronte per l’uso”, come reclamizzato dal produttore, ma solo nelle condizioni che abbiamo descritto in precedenza per le buste Wyeast da 125 ml, dal momento che hanno approssimativamente lo stesso numero di cellule; prestare particolare attenzione anche alla freschezza del lievito, che non deve essere vicino alla data di scadenza (Figura 2.13). Se le condizioni non sono rispettate è necessario anche per queste confezioni effettuare una propagazione.
“È importante che tutto quello che andrà in contatto con mosto e lievito sia sanitizzato, dalla bottiglia, ai cucchiai e agli imbuti, persino l’esterno della busta e le forbici con le quali verrà tagliata.”
Figura 2.13 - Un lievito liquido.
Lievito secco, uso e propagazione L’uso del lievito secco è generalmente più semplice rispetto a quello della forma liquida (soprattutto paragonato alle confezioni di liquido da 50 ml). In generale, per il lievito secco non si prevedono propagazioni (starter) per diversi motivi: la quantità di cellule in una bustina è piuttosto elevata (dell’ordine dei 100 miliardi di cellule) e adeguata alla fermentazione di una ventina di litri di birra di media gradazione; il costo più basso rende conveniente, in caso di necessità, l’uso di due (o più) bustine, risparmiando la complicazione di uno starter; il lievito secco presenta una contaminazione che, se pur bassa, è maggiore rispetto al liquido, il che può presentare qualche rischio in caso di propagazione con diversi step. Per il lievito secco è invece necessaria – come per tutti i prodotti liofilizzati – una reidratazione. Questa procedura si può effettuare con acqua e a volte viene confusa con lo starter: in realtà si tratta di un procedimento diverso, perché non avviene alcuna fermentazione ma un semplice assorbimento di liquidi da parte del lievito per permettergli di ricostituire la sua forma originaria; il tutto avviene nel giro di qualche decina di minuti - e non di giorni, come nel caso della propagazione. Il modo più semplice e spesso consigliato è quello di scaldare leggermente una tazza di acqua (15-20 cl) a circa 30 °C e versarvi il contenuto della bustina, circa 15-20 minuti prima di quando lo si dovrà inoculare, senza mescolare. Dopo 10-15 minuti si formerà una densa schiuma, non indice di fermentazione, ma semplicemente dell’aspetto originale del lievito, che potrà a questo punto essere immesso nel mosto. Non è consigliabile effettuare la procedura con anticipo maggiore, perché le cellule, una volta ricostituite, devono subito mettersi al lavoro, pena la perdita della loro vitalità. La propagazione con starter può essere richiesta per cotte di dimensioni maggiori dei classici 20 litri e/o per mosti di alta gradazione zuccherina. Secondo alcuni, però, lo starter può essere in certi casi addirittura controproducente: infatti le cellule del lievito, pronte e sufficienti (una volta reidratate) ad affrontare gli zuccheri di una intera cotta, si troverebbero in soprannumero a contendersi i pochi nutrienti e i pochi zuccheri presenti in quel mosto dalle ridotte dimensioni e, col passare delle ore, perderebbero vitalità. Si consiglia quindi la propagazione solo ove necessaria, effettuando uno starter di buone dimensioni (ad esempio 4 litri).
Altri metodi di reidratazione Un altro metodo spesso raccomandato è analogo ma prevede l’uso di mosto tiepido e non di acqua per la reidratazione (anche in questo caso non si parla di inizio di fermentazione!). Ciascuna delle due tecniche è sostenuta da esperti del settore (gli stessi tecnici dei produttori di lievito). I sostenitori della reidratazione in acqua sottolineano che il lievito, prima di essere in grado tramite la membrana di assorbire sostanze nutritive e “gestire” gli zuccheri, deve prima ricostituirsi perfettamente riassorbendo i liquidi. Altri esperti, però, fanno notare i problemi di “stress” per il lievito, dovuti alla differenza di pressione osmotica
tra lievito e acqua pura, suggerendo la reidratazione con mosto, o addirittura la semplice tecnica di inseminare il lievito secco direttamente nel mosto della cotta! All’estremo opposto, sono talora descritte procedure più complicate con inoculi, reidratazioni e rimescolamenti a tempi e temperature precise. Un compromesso sensato consiste nel reidratare in una soluzione di acqua e poco zucchero (1 cucchiaino), aggiunto al solo scopo di equilibrare la pressione osmotica. Se tutte queste considerazioni vi confondono, un metodo affidabile è quello di… seguire le istruzioni del fabbricante di lievito, indicate sulla bustina!
Figura 2.14 – Un lievito secco reidratato.
Principali ceppi disponibili Fra i lieviti liquidi vi è un’ampia disponibilità di ceppi, per gli stili più diversi, in molti casi collegabili (se non identici) ai lieviti impiegati da note birrerie. Facciamo solo una breve panoramica sui lieviti più usati, rimandando ai siti dei produttori per maggiori informazioni. Fra i ceppi più usati per ale di stampo belga, ne ricordiamo alcuni: Wyeast #1214 Belgian Abbey: a quanto pare di provenienza Chimay (anche se potrebbe aver avuto successive mutazioni), dall’inconfondibile aroma fenolico e fruttato (banana). Nonostante i trappisti lo usino fermentando ad alta temperatura, per gli homebrewer è suggerita una fermentazione a temperature meno alte (20-22 °C) per evitare rischi di aromi troppo spinti; Wyeast #3787 Trappist High Gravity (Westmalle): fra i più impiegati, aroma morbido e fruttato, tollerante a diverse condizioni (gradazione, temperatura); Wyeast #1762 Belgian Abbey II (Rochefort): può donare alle birre aromi interessanti e un buon nerbo alcolico, ma attenzione agli aromi di solvente se si fermenta ad alte
temperature; Wyeast #3522 Ardennes (Achouffe): relativamente pulito e maltato per essere un ceppo belga, buon attenuatore; Wyeast #1388 Belgian Strong Ale (Duvel): ottima tolleranza all’alcol, aromi fenolici e alcoli superiori un po’ spinti (ma che si attenuano col tempo) sopra i 23 °C; Wyeast #3724 Saison (Dupont): indispensabile per donare il carattere speziato (senza uso di spezie) tipico di una Saison Dupont, lavora bene a temperature molto alte, può avere tempi lunghissimi di fermentazione! Altri ceppi di stampo non belga (Wyeast #2565 Kolsch; European Ale, German Ale) possono lavorare a temperature relativamente basse, alle quali si comportano in modo meno caratterizzante e più pulito, proprio degli stili a cui sono associati (kolsch, alt). Usati a temperature più alte, alcuni (ad esempio il #2565 Kolsch) possono dare aromi più spinti e interessanti. I ceppi per alta fermentazione di provenienza inglese sono meno caratterizzanti di quelli belgi, producendo aromi fruttati più fini e, in certi casi, sentori legnosi o minerali. Fra i più tipici è il Wyeast #1028 London Ale. Alcuni di essi possono avere requisiti di ossigenazione particolarmente alti e/o avere la tendenza, in certe situazioni, a depositarsi prima del tempo, con una fermentazione ancora incompleta (che potrebbe riprendere in bottiglia), come ad esempio il Wyeast #1968 London ESB, di provenienza Fuller’s. In certi casi è quindi necessario rimescolare il mosto per riportare il lievito in sospensione. Fra i ceppi più caratterizzati, il Wyeast #1728 Scottish Ale, che, oltre a evidenziare il carattere maltato, lascia un suo aroma ben riconoscibile (secondo alcuni, leggermente affumicato). Per la sua tolleranza all’alcol è spesso impiegato per i barleywine. Per ale di stampo americano in cui si voglia evidenziare il luppolo, la scelta spesso ricade su un ceppo più neutro come il #1056 American Ale, che ha anche buone caratteristiche di attenuazione e tolleranza alcolica. Proprio per il suo carattere neutro, può essere sostituito più facilmente di altri, ad esempio dal lievito secco US-05. In questo paragrafo si fa riferimento ai nomi della gamma Wyeast; per i corrispondenti lieviti Whitelab si rimanda alla tabella di pagina 70. La corrispondenza con i lieviti di birrerie commerciali non è ufficiale ed è indicativa - anche se in alcuni casi piuttosto affidabile. Per la fermentazione delle weizen il ceppo più noto è il #3068 Weihenstephan, che può dare aromi più fenolici (chiodo di garofano) o di banana, a seconda della minore o maggiore temperatura. Non sempre è facile tenere sotto controllo questo lievito, che occasionalmente può avere evoluzioni inaspettate e poco gradevoli in bottiglia. Per questo motivo alcuni preferiscono usare il #3333 German Wheat. Nei lieviti a bassa fermentazione la scelta è meno ampia: infatti, proprio per il fatto che nelle lager si cerca un profilo aromatico più neutro, i ceppi sono meno diversificati e caratterizzanti. Si possono differenziare comunque per tolleranza alcolica, attenuazione e per la produzione di diacetile (che è un difetto). Alcuni ceppi possono essere più propensi di altri a produrre diacetile (o a non riassorbirlo), per cui, a meno di esigenze particolari, si
consigliano lieviti meno “rischiosi” come il Wyeast #2124 e #2206, ampiamente usati da moltissime birrerie per una vasta gamma di stili. Gli homebrewer sprovvisti dei mezzi per fermentare a basse temperature e che vogliono comunque produrre vari stili di lager, talvolta ricorrono ai ceppi ad “alta” più neutri (come i citati #2565, #1056), fermentando all’estremo più basso del loro range, per ottenere un profilo aromatico pulito simile a quello delle birre a bassa. I lieviti secchi disponibili in commercio presentano una minore varietà; citiamo qui alcuni dei più usati, prodotti dalla Fermentis. Safale S-04: ben flocculante (si compatta bene sul fondo), conferisce aromi fruttati ma non estremi ed è adatto a una vasta gamma di stili ad alta fermentazione, principalmente inglesi ma anche belgi; Safale US-05: caratteristiche simili al Wyeast 1056, di cui rappresenta un valido sostituto; Safbrew T-58: lievito di stampo belga, produce birre ricche di esteri fruttati e speziati; tollerante all’alcol, spesso impiegato per la rifermentazione in bottiglia di birre prodotte con altri lieviti; Safbrew S-33: altro lievito di stampo belga, con buona tolleranza all’alcol ma meno attenuante del T-58; Saflager S-23: è stato il primo lievito secco per birre a bassa fermentazione che sia apparso sul mercato ed è tuttora il più usato. Produce aromi sulfurei durante la fermentazione, che normalmente scompaiono durante la maturazione e non si ritrovano nel prodotto finito; Saflager W-34/70: famoso ceppo di lievito dalla Weihenstephan in Germania, è quello più utilizzato dai birrifici per le birre a bassa fermentazione. Da poco è disponibile anche in confezioni per homebrewing. Flocculazione alta, attenuazione media.
Cenni sulla coltivazione del lievito Il costo non indifferente dei lieviti liquidi (unito al desiderio di poter disporre di una “libreria” di ceppi ben determinati) rendono desiderabile coltivare e propagare il proprio lievito, in modo da utilizzarlo per cotte successive senza ulteriore spesa. In fondo, come abbiamo visto, il lievito si moltiplica ed è l’unico ingrediente di cui si ha maggiore disponibilità dopo averlo usato! In realtà, la conservazione, la coltivazione e il mantenimento di un ceppo di lievito vitale e non contaminato, pur essendo alla portata dell’homebrewer più appassionato, non è immediata ed esula dagli scopi di questo capitolo. La procedura comporta l’uso di attrezzatura da laboratorio piuttosto semplice e il mantenimento di condizioni il più possibile sterili. A fronte di questo, sono diffuse ed efficaci la conservazione e coltivazione con metodi molto meno sofisticati. In questo caso il prezzo da pagare consiste in un maggiore rischio di contaminazioni e di mutazioni del lievito. In pratica vuol dire che quattro volte su cinque tutto funziona alla perfezione; ogni tanto, però… può accadere semplicemente che il lievito “riciclato” abbia un comportamento diverso (come aromi, attenuazione ecc.) da quello originario, ma con risultato pur sempre accettabile; se si è “meno fortunati” può succedere
che prevalgano dei contaminanti (con conseguente infezione) o che la fermentazione non parta del tutto. Il metodo più semplice per recuperare e riutilizzare il lievito è quello di raccogliere quello depositato sul fondo dopo la fermentazione. Il deposito dopo la fermentazione primaria è più abbondante ma contiene maggiori residui (luppolo, proteine); dal secondario si raccoglie una quantità minore di lievito più puro (ma che in certi casi può essere più “stressato” dal lavoro appena eseguito). Prestando la massima attenzione a sanitizzare tutto quello che entra in contatto con il lievito, lo si può raccogliere in vasetti o bottiglie insieme al poco residuo di birra a cui è mescolato. Il lievito può essere riutilizzato con buona confidenza entro breve tempo (una o due settimane) prima che perda vitalità. Oltre questo periodo, fino a qualche mese, un suo utilizzo è possibile previa l’effettuazione di uno starter. Questo non solo ha la funzione di moltiplicare le cellule (dato che la percentuale di quelle attive decresce rapidamente con il tempo) ma permette anche di sincerarsi delle condizioni del lievito stesso, ovvero se sia sufficientemente vitale e se alcuni contaminanti non stiano prendendo il sopravvento: per controllare ciò basta annusare lo starter, dopo che ha fermentato (e, con un po’ di coraggio, provare ad assaggiarlo). Altro metodo è quello di preparare uno starter di buone dimensioni, e – invece di utilizzarlo per una cotta – suddividerlo in bottiglie o vasetti per un uso successivo (al momento di utilizzarlo, sarà necessario un nuovo starter). Una tecnica più semplice consiste nel concatenare più cotte, versando il mosto di una birra appena preparata sul fondo di lievito di un fermentatore da cui si è appena prelevata la birra precedente da imbottigliare o travasare: la fermentazione partirà vigorosa in brevissimo tempo. È un metodo consigliato per la preparazione di birre molto forti, che necessitano di una grande quantità di lievito; per questo è consigliabile concatenare cotte di birre di gradazione crescente. Tabella 2.3 – Corrispondenza fra lieviti Wyeast e lieviti di altre case. Birra/Birreria/Istituto Achouffe Anchor Steam Boddingtons Brakspear Bitter Budweiser Charles Wells Chimay Coopers De Dolle Duvel Fullers Guinness
Lievito Wyeast 3522 Belgian Ardennes 2112 California Lager 1318 London Ale III 1275 Thames Valley Ale 2007 St. Louis Lager n/a 1214 Belgian Ale (Abbey) n/a 3942 Belgian Wheat 1388 Belgian Strong ale 1968 London ESB 1084 Irish Ale
Lievito Whitelab WLP550 Belgian Ale WLP810 San Francisco Lager n/a WLP023 Burton Ale WLP840 American Lager WLP006 Bedford British Ale WLP500 Trappist Ale WLP009 Australian Ale n/a WLP570 Belgian Golden Ale WLP002 English Ale WLP004 Irish Ale
Hoegaarden Verboden Frucht Hoegaarden/Celis White McEwans Pilsner Urquell PJ Früh, Köln Ringwood Rochefort Saison Dupont Sam Adam’s Sierra Nevada Weihenstephan 175
3463 Forbidden Fruit
n/a
3944 Belgian Witbier 1728 Scottish Ale 2278 Czech Pils n/a 1187 Ringwood Ale 1762 Belgian Abbey II 3724 Belgian Saison n/a 1056 American ale 3638 Bavarian Wheat
Weihenstephan 206
2206 Bavarian Lager
Weihenstephan 34/70
Westmalle Whitbread Worthington White Shield
2124 Bohemian Lager 3068 Weihenstephan Weizen 3787 Trappish High Gravity 1098 British Ale 1028 London Ale
WLP400 Belgian Wit Ale WLP028 Edinburgh Ale WLP800 Pilsner Lager WLP029 German Ale/Kolsch WLP005 British Ale WLP540 Abbey IV Ale WLP565 Belgian Saison I WLP008 East Coast Ale WLP001 California Ale WLP351 Bavarian Weizen WLP820 Octoberfest/Marzen Lager WLP830 German Lager
Zum Uerige
1007 German Ale
Weihenstephan 68
WLP300 Hefeweizen Ale WLP530 Abbey Ale WLP007 Dry English Ale WLP013 London Ale WLP320 American Hefeweizen Ale
Capitolo 3 L’attrezzatura
Sommario Attrezzatura di base Attrezzatura per all grain Pulizia e sanitizzazione
3.1 Attrezzatura di base Uno degli aspetti positivi dell’hobby della birrificazione casalinga consiste nel fatto che ciascuno può fare birra con un approccio adatto alle proprie aspirazioni, alle proprie tasche, alla personale capacità di fare bricolage. Si può infatti iniziare con un minimo investimento di poche decine di euro per un fermentatore in plastica oppure realizzare o acquistare complessi macchinari automatizzati in acciaio inox del valore di alcune migliaia di euro. E i risultati, in termini di qualità del prodotto, non sempre sono correlati all’investimento! Non sono strettamente necessari, insomma, dei costosi macchinari per fare buona birra… A seconda del metodo adottato per fare la birra, si avrà necessità di equipaggiamento per realizzare le fasi di: fermentazione e imbottigliamento; bollitura e raffreddamento (per metodo E+G); macinazione e cottura del cereale e filtrazione del mosto (per metodo “all grain”). Il kit è il sistema con cui la maggior parte degli appassionati comincia, ossia con lattine di estratto di malto in cui il luppolo è già stato inserito (estratto di mosto). L’attrezzatura necessaria è in realtà una semplice attrezzatura per la fermentazione, perché ci si limita a questa fase della produzione. Per tale metodo sono in commercio confezioni che già comprendono tutto il necessario e non si avrà bisogno di altro. In alternativa, i vari pezzi possono essere acquistati separatamente nei negozi di materiale plastico e nei negozi di agraria/enologia, ma probabilmente il costo di acquisto dei pezzi separati non sarà inferiore alla confezione completa. I prezzi attualmente variano dai 60 agli 80 euro, a seconda degli elementi inclusi nella confezione.
“Ciascuno può fare birra con un approccio adatto alle proprie aspirazioni, alle proprie tasche, alla personale capacità di fare bricolage.” Gli elementi fondamentali per iniziare sono i seguenti. Il fermentatore (Figura 3.1). Preferibili sono quelli in materie plastiche apposite che devono avere il marchio e la dicitura “per alimenti”: hanno infatti il vantaggio di essere economici, possono essere chiusi ermeticamente e hanno la possibilità di applicare un rubinetto per i travasi. Il basso peso permette agevoli spostamenti e trasporto, almeno per quelli di capacità di 20-23 litri, e la pulizia.
Figura 3.1 - Un fermentatore.
Alternativamente, l’acciaio inox può essere utilizzato allo scopo, esattamente come viene fatto dai birrifici professionali. Il costo è sicuramente più elevato e la pulizia e sanitizzazione devono essere compiute con metodologie differenti rispetto alla plastica (dettagli nell’apposita sezione). Anche il vetro è un materiale utilizzabile ed adatto allo scopo: le classiche damigiane possono essere utilmente usate così come i fermentatori appositi chiamati carboy, abbastanza diffusi tra gli hombrewer americani. La pulizia di damigiane e carboy risulta tuttavia più difficoltosa per la ridotta imboccatura che non permette di raggiungere facilmente i punti di possibile incrostazione; anche se il problema può essere risolto con efficaci sostanze chimiche, le grosse questioni sull’uso del vetro derivano dalla fragilità dell’attrezzatura e dalla impossibilità di applicare un rubinetto per travasi. Anche dedicando
grandissima attenzione agli eventuali spostamenti e fasi di pulizia, il vetro è soggetto a potenziali danneggiamenti anche semplicemente conseguenti all’inserimento di mosto a temperature diverse da quella ambientale. Un semplice colpetto dato nel punto più debole della damigiana da una spatola o mestolo durante il mescolamento del mosto può essere causa di incrinature fatali. Sorvolando sui pericoli per l’incolumità fisica del birraio, il semplice pensiero di avere riversato per casa 20 litri di mosto appiccicoso dovrebbe fare riflettere sulla eventualità di utilizzo di un fermentatore in vetro. Le bottiglie possono essere acquistate ex-novo, ma dal momento che in Italia quasi tutte le birre commerciali sono vendute con vetro a perdere, vale la pena chiedere a qualche bar di fiducia di tenere da parte i vuoti, che saranno così disponibili gratuitamente (seppur necessitando di un buon lavoro di pulizia). Sono adatti per l’imbottigliamento quasi tutti i formati e le misure, ma ovviamente sono preferibili le bottiglie più robuste. Per maggiore probabilità di rottura, le bottiglie in vetro di acqua minerale e le classiche 66 cl di birra sono meno raccomandabili, perché realizzate con vetro sottile. Ottime quelle da spumante da 37,5 o 75 cl, quelle classiche da weizenbier da 50 cl o le 33 cl di origine belga: tutte di vetro spesso (e quindi più resistente) e con forma del colletto più adatta a certi tappabottiglie. I formati più grossi, solitamente utilizzati per il vino, sono ben utilizzabili anche per la birra: dal magnum (150 cl) a salire in capacità, una birra, soprattutto per gli stili adatti all’invecchiamento, potrà essere utilmente maturata in grosse bottiglie; è infatti opinione comune che vino e birra maturino meglio nei grossi formati rispetto ai piccoli. Anche le bottiglie con tappo “a chiusura meccanica” sono apprezzate da molti homebrewers per la facilità d’uso, tuttavia è buona norma cambiare la guarnizione in plastica con regolarità per assicurare sempre una completa tenuta. Per quanto riguarda il colore del vetro delle bottiglie, è opportuno evidenziare che non tutte le possibilità cromatiche sono equivalenti: i contenitori in vetro di colore marrone sono infatti preferibili, seguiti da quelli in colore verde. Sconsigliabili sono quelli bianchi o trasparenti. La motivazione risiede nel potenziale effetto di determinate lunghezze d’onda della luce sulla birra, in particolare nei confronti di alcuni composti del luppolo che vengono degradati se sottoposti all’effetto luce. Se la luce è quella diretta del sole, bastano pochissimi minuti per rovinare una bottiglia. Tali composti degradati sono infatti responsabili di seri difetti organolettici nella birra (“lightstruck” o “effetto puzzola”). Per alcune birre commerciali vendute in bottiglie trasparenti il produttore ha risolto il problema intervenendo chimicamente sugli estratti di luppolo, cosa impossibile da realizzare (e forse neanche auspicabile) da un produttore casalingo. I tappi solitamente usati per l’imbottigliamento di birra sono quelli a corona (Figura 3.2), nelle misure da 26 e 29 mm; quelli piccoli sono i più diffusi e sono adatti per le bottiglie da 33, 50, 66 cl, mentre il formato 29 deve essere utilizzato per le bottiglie da 75 e 37,5 cc. Si possono usare, per queste ultime, anche i tappi a fungo, generalmente in plastica, assicurati dalla gabbietta metallica; tuttavia, per costo e facilità d’uso, quelli a corona sono forse preferibili. Anche i tappi di sughero sono utilizzati per imbottigliare da qualche produttore, ma esiste ampia discussione sulla eventualità di una possibile contaminazione della birra: non sono facilmente sanitizzabili e, come per il vino, possono causare il classico
problema “odore di tappo”.
Figura 3.2 - Un tappo corona classico.
Tappabottiglie e tappi sono facilmente reperibili nei brico e negozi di enologia. Esistono diversi tipi di tappabottiglie: a colonna, a due leve, a… martello! L’ultimo citato è meglio forse riservarlo a formati di bottiglie più robusti, ma è comunque funzionale ed economico. L’imbottigliatrice a colonna è probabilmente quella più versatile, dal momento che qualche problema di presa si può verificare con l’attrezzo a due leve su formati di bottiglie da 66 cl e su alcuni da 33; per tutte le tipologie di imbottigliatrice è comunque necessario accertarsi di utilizzare la boccola appropriata al formato di tappo prescelto per evitare una presa instabile dello stesso sulla bottiglia. Verificare di avere quindi l’adattatore da 29 se si desidera utilizzare i tappi da 29 mm. Prodotti per sanitizzare fermentatore, le bottiglie e i tappi: su questa tematica si rimanda al capitolo apposito. Altri accessori non strettamente necessari ma consigliabili sono riportati nell’elenco che segue. Un termometro adesivo da applicare sul fermentatore o di altro tipo per verificare la temperatura di fermentazione. Può essere utilizzato anche un normale termometro da ambiente che misuri il livello di temperatura della stanza in cui è alloggiato il fermentatore, tuttavia è bene sapere che la fase di fermentazione è esotermica, ossia crea calore. Nella fase più attiva, la fermentazione può infatti innalzare la temperatura del mosto di 2-3 gradi rispetto a quella ambientale. Un densimetro (Figura 3.3). Un campione di mosto o birra può essere testato nell’apposita provetta tramite il densimetro, costituito da un’asta graduata in vetro. Il densimetro viene immerso nel liquido, che deve essere in quantità sufficiente a permettere il galleggiamento dello strumento. La cifra indicata sulla linea di galleggiamento del densimetro indica la quantità di zuccheri (iniziali o residui) contenuti nel mosto/birra, consentendo di studiare l’andamento della fermentazione.
Figura 3.3 - Un densimetro.
Scolabottiglie e sciacquabottiglie si trovano nei brico o nei negozi di enologia. Un secondo fermentatore è utile per travasare la birra ed eliminare i sedimenti di proteine e lievito, così da imbottigliare birra più limpida. Ciò permetterà di migliorare l’aspetto della birra, meno torbida, ma soprattutto il gusto della stessa. Per ottenere un valore corretto la misurazione va effettuata alla temperatura per cui il densimetro è stato tarato (solitamente 20 °C). In caso contrario – se non si vuole portare il campione alla temperatura corretta – si possono utilizzare i fattori di correzione riportati in Appendice. La misurazione può essere anche falsata dalla CO2 (le “bollicine”) del mosto in fermentazione: si consiglia quindi di sgasare il campione mediante ripetuti travasi, o per lo meno di agitare l’asticella del densimetro immediatamente prima di effettuare la lettura. Tubi in materiale plastico per alimenti da utilizzare per travasare, nonché ovviamente una spatola o un mestolo per mescolare e aerare il mosto. Se si decide di birrificare con il metodo da estratto di malto non luppolato, oltre all’attrezzatura sopra citata, sarà necessario l’equipaggiamento per affrontare le fasi di bollitura e raffreddamento. Una pentola di discrete dimensioni. Non è strettamente necessario che la capacità della
pentola sia uguale alla quantità di birra da produrre, dal momento che la bollitura può essere effettuata con mosto più concentrato, da diluire prima o dopo il raffreddamento; tuttavia, per diversi motivi è opportuno avvicinarsi a un volume il più possibile simile a quello finale, in particolare per un migliore e più efficiente utilizzo del luppolo e una riduzione della reazione di Maillard, che tende a scurire e caramellizzare il mosto (e quindi la birra finita). La reazione di Maillard si verifica in seguito alla cottura di proteine o zuccheri, ed è quella che dà il caratteristico colore brunastro al caramello, agli arrosti e alla crosta del pane.
Le pentole in alluminio “da conserve” sono leggere, economiche e disponibili in varie dimensioni, anche in grandi formati (oltre 100 litri), quindi rappresentano la soluzione ideale. Alcune fonti mettono in guardia circa (non provati) effetti nocivi sulla salute causati dall’uso dell’alluminio nella cottura di cibi; in particolare vi sarebbe una ipotetica correlazione tra alluminio e sindrome di Alzheimer, tuttavia i numerosi studi in materia non hanno dato indicazioni univoche circa tale correlazione. Inoltre il contatto tra mosto e pentola rimane limitato alla fase di bollitura ed eventualmente a quella di raffreddamento, quindi per un periodo di tempo medio non superiore alle due ore. Per misura prudenziale sarebbe comunque meglio evitare l’uso dell’alluminio al di fuori di queste fasi, come ad esempio nella fase di fermentazione (uso della pentola di alluminio come “fermentatore”), durante la quale mosto/birra e contenitore rimangono a contatto per diversi giorni. Per chi ha timori circa le possibili problematiche sopra citate, la scelta della pentola in acciaio inox risulta più tranquillizzante. L’acciaio, ideale dal punto di vista del contatto con gli alimenti, ha però, rispetto all’alluminio, due aspetti sfavorevoli: un costo sicuramente più elevato (sino a 5-6 volte il prezzo di una pentola di dimensioni equivalenti in alluminio) e una peggiore conducibilità termica. La scelta dell’acciaio necessita quindi di un sovradimensionamento del sistema di riscaldamento di pentola/mosto. Un sistema di riscaldamento per la bollitura. La maggior parte degli homebrewer utilizza il semplice riscaldamento a fuoco diretto, pratico ed economico. Se la quantità di mosto da portare a ebollizione è limitata (approssimativamente sotto i 20 litri), il semplice fornello da cucina a gas oppure elettrico può essere una comoda soluzione. Per volumi maggiori può essere necessario un sistema più potente, come il classico fornellone da salsa, unito a una bombola di gas o a un collegamento alla rete residenziale del metano. Ovviamente è superfluo raccomandare estrema prudenza e attenzione alla qualità dei collegamenti rete/bombola verso il fornellone, nonché prescrivere l’utilizzo dello stesso solo all’aperto! La scelta tra le due soluzioni dipende, come detto, dalle quantità di mosto/dimensioni della pentola con cui il birraio casalingo decide di operare; si dovrà tenere presente che il sistema di riscaldamento deve essere in grado di portare il mosto a una ebollizione vigorosa. Il semplice avvicinarsi ai 100 gradi non è sufficiente per una bollitura ottimale e possibili problemi di qualità nella birra finita possono crearsi in questa fase a causa di una ridotta capacità di riscaldamento. Molto più sicuri, per l’assenza di fiamma, sono i sistemi di cottura a induzione magnetica,
molto efficienti nell’apporto di calore e ideali per l’uso in ambiente chiuso. La nota dolente del sistema è rappresentata dal costo dell’investimento, che richiede anche pentole dalla particolare conformazione e struttura, nonché dall’elevato consumo di energia elettrica. Un sistema di macinazione dei grani speciali: questi dovrebbero essere semplicemente schiacciati/rotti, e la macinazione fine dovrebbe essere evitata, per non creare problemi durante la successiva filtrazione. L’apparecchio ideale sarebbe proprio uno specifico macina cereali, ma soluzioni alternative possono essere approntate, soprattutto se la quantità di materiale da processare è limitata, ad esempio non più di un paio di etti in peso. Non adatti sicuramente sono i classici robot da cucina a lama o i macinacaffè moderni, mentre quelli di vecchia concezione (a manovella) sono ottimi. Anche l’uso di un semplice batticarne può rivelarsi efficace. Un sistema di filtraggio per i grani speciali e il luppolo a fine ebollizione del mosto: possono essere utilmente utilizzati semplici colini oppure sacchetti di tela a trama relativamente grossa entro cui inserire i grani macinati e il luppolo in bollitura. Eliminare assieme ai sacchetti (comunque riutilizzabili dopo un semplice risciacquo con acqua calda) i grani e il luppolo risulta quindi rapido e semplice. Attenzione che, con tale sistema, l’eliminazione di luppolo in forma di pellet (finemente macinato) può risultare poco efficace: si approfondirà la questione più avanti. Un termometro con range da 20 a 100 °C: ottimi sono quelli da laboratorio, utilizzati in genere per la distillazione, ma economici e pratici sono anche quelli elettronici con sonda separata e da cucina.
Figura 3.4 - Un termometro da laboratorio, rapido e preciso ma piuttosto fragile.
Una bilancia sufficientemente precisa per il dosaggio del luppolo: se la quantità di birra prodotta è relativamente bassa, anche un minimo scarto nelle quantità di luppolo previsto dalla ricetta può influire notevolmente sul risultato finale, aumentando o diminuendo il livello di amaro effettivo. Adatte allo scopo sono comunque le bilance da cucina o per la posta con risoluzione di 1-2 grammi.
Figura 3.5 - Una bilancia di precisione, pur non essendo indispensabile, è utile per dosare luppolo e spezie.
Un sistema di raffreddamento del mosto: raffreddare velocemente il mosto al termine della bollitura e prima della fermentazione è molto importante (se ne approfondiranno i particolari più avanti). I sistemi di raffreddamento più efficaci verranno analizzati nel capitolo successivo, ma se la produzione viene comunque limitata al metodo da estratto di malto, è possibile utilizzare metodi semplici ed efficaci allo scopo, soprattutto se la fase di bollitura viene condotta con mosto concentrato. In assenza di attrezzatura specifica è possibile raffreddare a “bagnomaria” il pentolone di bollitura in una vasca di acqua fredda oppure (anzi, meglio: in aggiunta) congelare delle bottiglie d’acqua in plastica da aggiungere direttamente al mosto caldo. Ovviamente è necessario calcolare l’esatta quantità di acqua fredda/congelata da aggiungere in relazione alla concentrazione del mosto bollito e alla quantità finale di mosto da fermentare. Da sottolineare, inoltre, l’attenzione da porre all’aspetto sanitizzazione, ossia alla qualità dell’acqua/ghiaccio che si aggiunge al mosto caldo. Come si ripeterà in più
occasioni, dalla fine della bollitura è necessario porre attenzione ai pericoli di contaminazione del mosto/birra. Per essere certi di non inserire involontariamente nel mosto batteri o lieviti selvaggi assieme all’acqua o ghiaccio, è possibile utilizzare bottiglie di acqua minerale ancora sigillata: nel caso di una bottiglia ghiacciata, sarà opportuno sanitizzare anche il taglierino usato per recidere la base della stessa bottiglia.
3.2 Attrezzatura per all grain Con il passaggio alla produzione “all grain” vi è sicuramente necessità di un maggior investimento in attrezzatura; gli elementi necessari, oltre a quelli sopra citati, sono riportati di seguito. Il mulino per la macinazione del malto (circa 5 kg per 25 litri di birra finita) è forse l’elemento potenzialmente più costoso e la sua scelta deve essere ponderata, sia in relazione alla quantità media di cereale da macinare, sia alla frequenza d’uso. È da ribadire l’importanza di una macinazione adeguata che semplicemente schiacci e non triti troppo finemente i grani: questa è solitamente meglio eseguita da mulini a rulli rispetto quelli a dischi. Se le costose attrezzature professionali possono arrivare ad avere tre coppie di rulli che realizzano una macinazione progressivamente più fine, a livello di produzione casalinga, per quantitativi minimi, anche i mulini più piccoli ed economici a dischi o a due rulli possono essere adatti, per un investimento limitato a circa 60 euro. Modelli più robusti e pratici sono però consigliabili per un utilizzo maggiore e più frequente; l’investimento di 170-180 euro per un modello di media qualità o di 250-300 euro per uno di buona qualità e capacità medio-alta si compie in fondo una volta sola. La possibilità di regolare la distanza tra i rulli di macinazione, la presenza di un terzo rullo per una più accurata macinazione, la possibilità di applicare un motore elettrico, la dimensione della tramoggia, la robustezza del meccanismo, sono tutti elementi da tenere in considerazione per la scelta finale. Una pentola di grandi dimensioni per realizzare la bollitura, che può essere utilizzata anche per la fase di ammostamento (la cottura del malto macinato). Bisogna tuttavia tenere in considerazione il fatto che, nel metodo all grain, diversamente dal metodo con l’estratto, la capacità della pentola per la bollitura deve essere maggiore di circa un quarto della quantità finale di birra prodotta: se lo scopo è ottenere 20 litri di birra finita, la capacità della pentola deve essere di almeno 25 litri. Non si sbaglia poi se si sovrastima tale cifra sino ai 27-30 litri: in alcune fasi della bollitura può essere creata una discreta quantità di schiuma che rischia di tracimare se non si presta la massima attenzione. Alternativamente alla pentola, per la sola fase di ammostamento, può essere utilizzato un mash tun, ossia un contenitore che accolga acqua calda e malto macinato per 60-90 minuti. Le caratteristiche richieste a un mash tun sono sostanzialmente due: che sia sufficientemente coibentato per mantenere il più possibile stabile la temperatura dell’impasto acqua/malto e che sia semplice da pulire. Può essere usato per lo scopo un classico frigorifero da picnic, a condizione che sia in plastica per alimenti e che resista alle temperature necessarie (circa 80 °C). Anche una pentola può essere usata come mash tun, magari coibentata con isolanti (tipo quelli per edilizia come la lana di roccia), oppure semplice polistirolo espanso opportunamente sagomato per adattarsi alla forma della
pentola. È poi necessario un sistema di apporto del calore che consenta di effettuare l’ammostamento a differenti livelli di temperatura. A seconda del tipo di mash tun utilizzato (plastica o acciaio-alluminio) vi sono diverse possibilità: la più semplice è ovviamente il fuoco diretto. Alternativamente si può immettere acqua bollente direttamente nell’impasto: è infatti possibile calcolare la quantità di acqua a 100 °C necessaria a innalzare la temperatura di un richiesto numero di gradi conoscendo il dato della temperatura momentanea e della quantità di acqua e malto presenti nell’impasto. Esistono altri sistemi più complessi, solitamente utilizzati da produttori professionali, come la coibentazione del mash tun con una struttura riscaldante, solitamente per mezzo di olio diatermico o con vapore, riscaldati da una caldaia separata. Tali sistemi sono però abbastanza costosi e poco pratici per la produzione casalinga.
Autocostruzione del mulino Anche nel caso del mulino vi è la possibilità di un utile ed economico fai-da-te: un efficace attrezzo può essere creato partendo da una semplice macchina per tirare la pasta, magari inutilizzata e “posteggiata” da tempo nella credenza; la macchina per la pasta deve essere smontata e i rulli, originariamente lisci, devono essere “rigati” affinché possano fare presa sui grani. Non è facile, perché i rulli non sono massicci e i cilindri hanno pareti piuttosto sottili. Occorre prestare la massima attenzione, quindi, in questa fase per evitare di compromettere irrimediabilmente il lavoro. Rigati i rulli, la macchina può essere rimontata escludendo due lame che - nella parte inferiore - servono a ripulire i rulli dalla pasta. Per rendere pienamente funzionante il mulino è necessario costruire una tramoggia, magari con del semplice compensato di circa 5 mm di spessore, fissata al corpo macchina (ad esempio con due robusti elastici ricavati da camere d’aria di bicicletta). Lo scivolo di uscita del cereale macinato può non essere fissato, in quanto si appoggia nell’incavo sotto la testa della macchina e rimane stabile per semplice gravità (Figura 3.6). Il mulino può essere anche motorizzato, ma il suggerimento è di non eccedere nella velocità di macinazione perché la struttura delle bronzine della macchina per la pasta, pur stabile, non è sufficientemente robusta per reggere un elevato numero di giri/minuto.
Figura 3.6 - Un mulino autorealizzato con una macchina per la pasta.
Tra gli homebrewer americani è abbastanza in auge il sistema detto HERMS (acronimo di Heat Exchange Recirculating Mash System). Il sistema HERMS consente al birraio di rimettere continuamente in circolo la parte liquida dell’impasto dal mash tun verso uno scambiatore di calore esterno, solitamente elettrico e con un controllo elettronico della temperatura. Una pompa riporta, infine, la parte liquida riscaldata nel mash tun: con questo metodo il controllo della temperatura dell’impasto risulta molto preciso. Non si ritiene tuttavia necessario approfondire tale sistema, sia per i non indifferenti costi di realizzazione sia anche per una eccessiva complessità dell’attrezzatura, non strettamente necessaria per la funzione richiesta dalla fase di ammostamento.
Un sistema di filtrazione dell’impasto per separare la parte liquida ricca di zuccheri (estratto) dalla parte solida rappresentata dalle bucce dei grani (trebbie). Il sistema è anche chiamato lauter tun. Esistono molte possibilità di realizzazione di varianti del lauter tun, ma tutti i sistemi adottati dovrebbero avere determinate caratteristiche per assicurare la migliore funzionalità: capacità simile al tino di ammostamento, una coibentazione che consenta il mantenimento della temperatura dell’impasto in filtrazione, un rubinetto di scarico e una base che “sorregga” il letto di trebbie. Come per il mash tun, un frigorifero da picnic, se dotato di un rubinetto di scarico, può essere usato in tal senso. Se il rubinetto non è presente, può essere inserito con un minimo di bricolage. Complessivamente, però, le varie tecniche possono essere riassunte in tre opzioni. Falso fondo (Figura 3.7): si tratta di realizzare una piattaforma filtrante da posizionare a 5-10 cm sul fondo del later tun e sopra il livello del rubinetto di scarico. Può essere in acciaio o plastica rigida per alimenti e deve essere ovviamente delle medesime dimensioni e forma del tino di filtrazione; sarà dotato di numerosi buchi di circa 1-2 mm di diametro distanziati tra loro dai 1-2 cm. I modelli più elaborati (e costosi) sono realizzati in acciaio inox con tagli o fori realizzati al laser dalla forma a imbuto, ossia con la parte inferiore più larga di quella superiore, per assicurare che le parti solide dell’impasto non rimangano incastrate a otturare gli stessi fori. “Zapap” (Figura 3.8): molto pratico ed economico, consiste nell’utilizzare due secchi in plastica per alimenti che hanno la possibilità di incastrarsi uno dentro l’altro. Il secchio esterno viene dotato di un rubinetto di scarico, mentre il secchio interno viene traforato nella parte inferiore con numerosi fori come sopra citato. È opportuno, ovviamente, per la stabilità del secchio interno, non esagerare con il numero e frequenza dei fori, per non rischiare l’incolumità dell’intero fondo che, ricordo, deve essere in grado di sostenere il peso dell’impasto di malto e acqua che deve essere filtrato. L’intero sistema necessiterebbe poi di una coibentazione per mantenere stabile la temperatura dell’impasto. Curiosità: il nome “zapap” deriva da Charlie Papazian, vero guru e decano degli homebrewer americani che pare abbia inventato questo facile ed economico sistema di filtrazione. Collettore/“bazooka” (Figura 3.9): si tratta di inserire nella parte interna del rubinetto di scarico del lauter tun un tubo o una serie di tubi collegati tra loro. Tali tubi dovrebbero essere dotati, nella parte inferiore in direzione del fondo tino, di una serie di fori di circa 1-2 mm distanziati da 1-1,5 cm. Le possibilità sono molteplici, sia per quanto riguarda il materiale da utilizzare (acciaio, plastica per alimenti, rame…) sia per la forma del collettore (semplice dritto, a T, a cerchio, a M…). L’unica accortezza da avere è quella di fissare il collettore al tino di filtrazione, per evitare che si possa spostare o addirittura “galleggiare” sull’impasto e quindi diventare assolutamente inutile. Una semplice soluzione di “bazooka” è rappresentata dai flessibili sottolavabo in acciaio: è sufficiente sfilare la parte interna in gomma e collegare una estremità alla parte interna del rubinetto di scarico.
Figura 3.7 - Falso fondo.
Figura 3.8 - Come realizzare uno zapap.
Figura 3.9 - Un “bazooka”.
È opportuno evidenziare che la forma e il numero sopra suggerito dei fori praticati nel falso fondo, nel sistema zapap o nel collettore/bazooka sono da considerarsi ottimali, ma non rappresentano l’elemento critico per una efficace fase di filtrazione: come si ribadirà in altre occasioni, falsi fondi e collettori hanno la funzione fondamentale di sostegno del letto di trebbie, mentre la vera e propria fase filtrante è realizzata dalle trebbie stesse. Si può anche pensare di unificare in un’unica attrezzatura mash tun e lautern tun, applicando direttamente un sistema di filtraggio alla pentola di ammostamento. In questo caso ovviamente il problema maggiore è assicurare la stabilità della parte filtrante, perché, come si vedrà più avanti, è infatti necessario mescolare frequentemente per mantenere uniforme l’impasto durante la fase di cottura. Ovviamente, se il riscaldamento è realizzato con fuoco diretto sarà necessario utilizzare materiali adatti, come rame o acciaio. Nel caso di uso di falso fondo filtrante in un sistema unificato di ammostamento e filtrazione, il birrario deve affrontare il problema di come miscelare il liquido che rimane sotto il falso fondo, soprattutto se il riscaldamento è a fuoco diretto. Con un falso fondo la parte inferiore non viene raggiunta dal classico mestolo e il liquido zuccherino che “ristagna” rischia caramellizzazioni o bruciature che si coglieranno anche nella birra finita. Il problema può essere risolto con un impianto di mescolamento motorizzato a doppio sistema di pale, uno sopra e uno sotto il falso fondo, ma con discreta complessità e costo dell’attrezzatura; in alternativa si può valutare l’impiego di un sistema tipo bazooka, che non presenta questo genere di problemi. Una seconda pentola per acqua di risciacquo. La capacità di questa seconda pentola può essere inferiore a quella di ammostamento, dal momento che sarà utilizzata solo per riscaldare l’acqua che serve a risciacquare le trebbie dopo la prima filtrazione (2-4 litri per kg di cereale macinato). Tale risciacquo può essere realizzato con diverse metodiche, organizzando un sistema a stadi (batch sparge), ossia aggiungendo una certa quantità di acqua calda in uno o due tempi, dopo avere raccolto parte del filtrato; oppure un sistema “continuo”, inserendo nel tino di filtrazione con continuità l’acqua calda in contemporanea alla raccolta del filtrato. In questo secondo caso, detto fly sparge, è necessario che l’attrezzatura sia opportunamente congegnata: la pentola per l’acqua di risciacquo deve avere un rubinetto di scarico e un sistema di tubi collegati a una doccetta che delicatamente inserisce sul tino filtro la medesima quantità di acqua del filtrato in uscita, mantenendo un livello costante nel tino di filtrazione. Un sistema di raffreddamento del mosto: come sopra citato, nel metodo di produzione con estratto abbiamo la possibilità di diminuire velocemente la temperatura del mosto aggiungendo acqua fredda. Nell’all grain l’intero quantitativo di mosto viene portato a ebollizione e quindi è ovvia la necessità di un sistema di raffreddamento più efficiente. Le attrezzature disponibili sono sostanzialmente di tre tipi. Wort chiller a immersione: si tratta di una semplice serpentina in metallo (solitamente rame, ma si trova anche in acciaio) collegabile all’acqua fredda di rete tramite spezzoni di tubo da giardino collegati agli estremi della serpentina da semplici fascette metalliche. È facilmente realizzabile in proprio usando un tubo in rame
ricotto per impianti idrosanitari di diametro di ½ o ¾ di pollice: il rame è relativamente malleabile e con un po’ di destrezza è possibile dargli la forma di una serpentina (Figura 3.10). La sua lunghezza e il numero di spire necessarie dipende dalla dimensione del proprio sistema di produzione, ma indicativamente per i classici 20-23 litri di birra finita sono sufficienti 8-10 metri di tubo per 7-8 spire. Il sistema è efficiente e inserendo la serpentina direttamente nella pentola di bollitura si riesce ad abbattere la temperatura del mosto a 20 °C in 20 minuti circa. Nel caso in cui la propria acqua di rete non sia particolarmente fredda e nell’ottica di non utilizzare troppa acqua potabile che potrebbe andare sprecata, è possibile aumentare l’efficienza del sistema di raffreddamento concatenando due serpentine: ponendo a monte di quella immersa nella pentola di bollitura una seconda serpentina immersa in un bagno di acqua, sale e ghiaccio, si riuscirà a raffreddare in modo molto efficiente l’acqua di rete prima del passaggio nella pentola di raffreddamento. Sempre nell’ottica di minimizzare gli sprechi d’acqua, è possibile recuperare la prima acqua di raffreddamento, che sarà a una temperatura abbastanza elevata (40-50 °C): potrà essere utilmente utilizzata, ad esempio, per pulire l’attrezzatura dopo l’uso. Scambiatore di calore a controflusso: anche in questo caso la base dell’attrezzatura è rappresentata da una serpentina in rame o acciaio. Diversamente dal sistema precedente, però, il mosto bollente scorre all’interno del tubo. A rivestire lo stesso tubo di metallo vi è un secondo tubo, solitamente in gomma, simile a quello da giardino. Alle estremità dei due tubi un sistema di raccordi permette di fare scorrere il mosto caldo nel tubo interno in metallo, mentre, in senso contrario, l’acqua fredda può scorrere tra il tubo di rame e quello in gomma, assicurando il raffreddamento del tubo metallico e del mosto. Anche questa attrezzatura può essere facilmente realizzata in proprio con un minimo di manualità. Due sono i punti sensibili di questo sistema: l’attenzione da dedicare alla pulizia del condotto interno e la possibile difficoltà di “innesco” del sistema di raffreddamento. Mentre nella serpentina a immersione la pulizia della stessa può essere facilmente realizzata manualmente, più difficile è garantire l’assenza di possibili residui di proteine e luppolo da precedenti raffreddamenti dentro la serpentina a controflusso. Raccomandabile è quindi in ogni occasione una immediata pulizia subito dopo l’uso con acqua bollente e accurato svuotamento da liquido residuo, magari per mezzo di un compressore. In questo caso, l’uso dell’acciaio, seppur molto meno malleabile, è auspicabile: anche se meno efficiente del rame nello scambio di calore, l’acciaio ha meno problemi di potenziale corrosione nel caso di acqua inavvertitamente rimasta nella serpentina. L’altro potenziale problema (l’”innesco”) riguarda il fatto che, mentre l’acqua di raffreddamento è “spinta” dalla stessa pressione di rete, il flusso del mosto deve essere assicurato con un adeguato dislivello tra pentola di bollitura e destinazione finale del mosto (fermentatore). La forza di gravità può non essere sufficiente allo scopo (magari a causa di possibili bolle d’aria rimaste nella serpentina) e una pompa potrebbe rivelarsi necessaria. Scambiatore di calore a piastre (Figura 3.11): è il sistema utilizzato dai birrifici professionali. Solitamente in acciaio, concettualmente simile al metodo dello
scambiatore a controflusso, necessita, come il metodo precedente, di una accurata pulizia e sanitizzazione. Esistono ovviamente anche versioni “mini” per homebrewer.
Figura 3.10 - Una serpentina.
Figura 3.11 - Uno scambiatore a piastre.
Tintura di iodio, comunemente reperibile in farmacia. Il mosto si ottiene dalla trasformazione dell’amido presente nel malto in zuccheri. Poiché la tintura di iodio a contatto con l’amido acquista una colorazione nerastra (cosa che non avviene con gli zuccheri), mettendo una goccia di mosto su un piattino bianco e mescolandola a una goccia di tintura di iodio, potremo verificare se tutto l’amido si è trasformato in zuccheri. Quindi, se il colore rimarrà giallo-rossastro, la cottura del mosto potrà considerarsi conclusa, mentre, se diventerà nerastra, bisognerà continuare la cottura ancora per un po’. Attenzione: la tintura di iodio è tossica, quindi non rimettere nella pentola il contenuto del piattino! Altra attrezzatura non strettamente necessaria ma utile alla birrificazione all grain è riportata di seguito. Una pesa per malto commisurata alla quantità utilizzata. Facendo birra in quantità limitata (15-20 litri finali), anche una semplice bilancia da cucina risulta sufficiente, magari suddividendo il totale in più pesate. Salendo con le quantità di malto, un’attrezzatura dedicata può risultare essenziale. Un test di misurazione del pH: come verrà dettagliato più avanti, un aspetto importante da monitorare durante la fase di ammostamento è la misurazione del livello di acidità dell’impasto. Il valore del pH, ovvero dell’acidità, può essere verificato attraverso un apparecchio chiamato pHmetro: è sufficientemente accurato e preciso, a patto che ne sia curata la manutenzione e sia tarato di tanto in tanto con apposite soluzioni tampone. Alternativamente possono essere usate le classiche cartine tornasole, che, oltre che presso i classici rivenditori di materiale per homebrewing, possono essere reperite anche nei negozi di attrezzatura per acquari. L’importante è scegliere le cartine corrette, quelle che misurano il range opportuno di pH. Esistono infatti cartine ad ampio spettro (1-14), ma quelle che interessano il birraio sono nell’ambito di 5-6 unità di pH, con dettaglio al primo decimale.
Figura 3.12 - Un modello economico di pHmetro.
Un kit per acidificare: se la misurazione del pH indica un livello di acidità non opportuno, questo deve in qualche modo essere corretto, pena grosse potenziali problematiche nella produzione della birra. Nella quasi totalità dei casi, il problema si manifesta sotto forma di pH troppo elevato, ossia impasto troppo alcalino rispetto al livello ottimale. Aggiunte all’impasto di mezzi acidificanti possono risolvere il problema: sono disponibili diverse soluzioni, come acido citrico, acido lattico, acido ortofosforico ecc., tutte tranquillamente utilizzate come innocui additivi alimentari. In presenza di tale problema, ma non avendo disponibilità di tali additivi, può essere usato anche il semplice succo di limone. Un kit per la misurazione della durezza dell’acqua: la conoscenza delle caratteristiche dell’acqua utilizzata per birrificare può essere essenziale per evitare problemi conseguenti a un non corretto livello di acidità dell’impasto durante l’ammostamento. Solitamente questi dettagli sono disponibili presso il proprio comune di residenza, oppure, se viene utilizzata acqua minerale acquistata in bottiglia, è sufficiente leggere l’etichetta. Se non si è sicuri della propria acqua, forse allora vale la pena investire circa 5 euro nel kit di test disponibile dai rivenditori di materiale per homebrewing e negozi di attrezzatura per acquari. Il kit verifica sostanzialmente la presenza di calcio e magnesio nell’acqua e ne misura il livello, solitamente espresso nella scala di gradi francesi. Se la propria acqua ha un grado di durezza inferiore a 14 gradi francesi può essere considerata dolce e quindi poco suscettibile di dare problemi in ammostamento. Sopra i 32 gradi l’acqua è ritenuta “dura” e quindi il livello del pH dell’impasto dovrebbe essere verificato per evitare potenziali problemi.
Un sistema di ossigenazione del mosto: l’ossigeno è fondamentale per lo sviluppo del lievito nella prima parte della fermentazione. La bollitura elimina l’ossigeno disciolto nell’acqua ed è necessario reinserirlo con qualche mezzo. In parte ci si può riuscire attraverso i travasi del mosto raffreddato (4 o 5 travasi consecutivi) o, ancora, agitando il fermentatore (se di dimensioni accettabili) oppure movimentando il mosto con una schiumarola. Il sistema meno impegnativo, dal punto di vista fisico, è quello di utilizzare pompe per acquari o similari, avendo ovviamente l’accortezza di sanitizzare i tubi e le pietrediffusori (per queste ultime forse è meglio utilizzare superalcolici come alcol etilico o vodka, rispetto ad altri sanitizzanti che possono rimanere in parte presenti nel mezzo). Nel caso in cui si voglia realizzare un sistema di birrificazione dalle dimensioni non proprio limitate (sostanzialmente oltre i 30 litri) può essere utile prendere in considerazione anche altre attrezzature. Un mescolatore a motore: la fase di ammostamento dura come minimo 60 minuti e, soprattutto se viene utilizzato un sistema di riscaldamento a fuoco diretto, è importante mantenere l’omogeneità dell’impasto evitando stratificazioni nella pentola con differenti livelli di temperatura. Il classico “olio di gomito” con un robusto mestolo è molto efficace, ma, con grosse quantità di malto e lunghi ammostamenti, può essere più comodo approntare un sistema di mescolamento a motore elettrico. Anche in questo caso il fai da te può essere una soluzione e molti homebrewers hanno risolto il problema con un motorino da tergicristalli recuperato da qualche vecchia auto. Per potenza e numero di giri/minuto può rappresentare la soluzione ideale. Una pompa per travasi: in presenza di una produzione superiore ai 30 litri per “cotta”, lo spostamento dei fermentatori e, soprattutto, delle pentole contenenti impasto caldo o addirittura mosto bollente può risultare faticoso se non estremamente pericoloso. Dotarsi di una pompa per effettuare trasferimenti di mosto o birra diventa quindi una stretta necessità. La pompa da scegliere dovrebbe avere alcune caratteristiche importanti: essere naturalmente conforme all’uso alimentare, di potenza regolabile, adatta a liquidi bollenti, in grado di essere utilizzata con miscele di liquidi e solidi. Ideale se permette anche di effettuare con facilità le fasi di pulizia e sanitizzazione. Il costo della pompa può risultare elevato, ma si sconsiglia di mirare al risparmio attraverso l’acquisto di materiale con caratteristiche differenti da quelle appena elencate. Un sistema di raffreddamento della fermentazione: se si sceglie di realizzare birre a bassa fermentazione, è necessario un frigorifero adattato allo scopo; difficilmente, anche in inverno, si ha infatti a disposizione un ambiente con temperatura costante di 8-12 °C. Adattare un vecchio frigorifero modificandone il termostato può essere la soluzione: potendo contenere un fermentatore di medie dimensioni, sarà possibile mantenere temperature stabili per le basse fermentazioni, ma anche condurre alte fermentazioni senza problemi durante i caldi mesi estivi. Alcuni volenterosi homebrewer, magari in assenza di spazio in casa per un ulteriore frigorifero, hanno realizzato come alternativa ghiacciaie coibentate con polistirolo e raffreddate con semplici bottiglie in plastica di acqua minerale ghiacciata. Si può verificare che le temperature necessarie alle basse fermentazioni possono essere raggiunte con tre-
quattro bottiglie da 1,5 litri opportunamente ghiacciate e sostituite ogni due giorni.
3.3 Pulizia e sanitizzazione Come in ogni attività che comporta la realizzazione di alimenti, anche nella birrificazione è buona pratica porre massima attenzione alla pulizia e alla sanitizzazione. I microrganismi possono infatti avere effetti negativi diretti, ma anche indiretti, sulla birra. Gli effetti diretti possono essere facilmente intuibili, dal momento che il mosto rappresenta un perfetto terreno di coltura per muffe, batteri e lieviti; anche se la presenza del luppolo svolge un’azione antisettica per diverse specie di batteri, il lievito e altri organismi prosperano tranquillamente in sua presenza. Tuttavia, il bravo birraio deve tenere in considerazione anche problematiche legate a contaminazioni indirette, come ad esempio quelle delle materie prime: dall’acqua contaminata, al lievito non conservato in modo sterile, alle “malattie” del malto, come muffe e parassiti, che possono portare nel processo produttivo elementi che influiscono negativamente sulla realizzazione e sulla qualità finale della birra, ad esempio con gusti indesiderati, eccessiva torbidezza, schiuma eccessiva. Riferendoci alle fasi di pulizia e sanitizzazione, possiamo suddividere in tre sezioni l’intero processo produttivo: prima della bollitura con il luppolo, dalla fine della bollitura alla partenza della fermentazione, dalla fine della fermentazione al consumo. La bollitura rappresenta, oltre ad altre importanti funzioni, il momento in cui il mosto viene sterilizzato. Ne segue che l’attenzione alla sanitizzazione nelle fasi precedenti può essere in qualche misura minore: alcune contaminazioni microbiologiche possono essere tollerate. Le fasi seguenti alla fine della bollitura, invece, rappresentano il momento di maggior rischio e quindi la massima attenzione deve essere applicata nell’evitare eventuali contaminazioni: ogni mezzo che viene in contatto con il mosto deve essere pulito e sanitizzato. Il lievito deve essere inserito il prima possibile per permettere l’inizio della fermentazione e il birraio deve operare in modo tale da favorire al massimo il suo lavoro nella “competizione” con altri potenziali concorrenti, anche attraverso un adeguato controllo della temperatura. La birra (al termine della fermentazione possiamo già chiamarla così) rappresenta un terreno di coltura inospitale: il lievito ha processato gran parte dei nutrienti presenti nel mosto; il livello di acidità della birra e la presenza del luppolo garantiscono discrete proprietà antisettiche; l’etanolo (l’alcol) poi aumenta tali proprietà antisettiche. Pur con un certo grado di “protezione” intrinseco, diverse tipologie di batteri e numerose specie di lieviti sono in grado di crescere e replicarsi nella birra, causando torbidezza, aromi indesiderati, muffe (Tabella 3.1). Non essendo quindi possibile a livello casalingo realizzare una pastorizzazione (e invero neanche auspicabile!), anche dopo la fermentazione deve essere posta massima attenzione a tutto ciò che viene in contatto con la birra. Tabella 3.1 - Alcuni batteri contaminanti della birra. Batteri da acido acetico Acetobacter: A. aceti, A. liquefaciens, A. pastorianus, A. hansenii
Crescono in presenza di ossigeno nella birra. Si rivelano, oltre che attraverso l’odore e il gusto, con torbidezze e pellicole opache sulla superficie della birra.
Batteri da acido acetico Gluconobacter: G. oxydans Zymomonas: Z. mobilis Obesumbacterium (Hafnia): O. proteus Enterobacter (Rahnella): R. aquatilis, E. agglomerans Klebsiella: K. terrigena, K. oxytoca Pectinatus; P. cerevisiiphilus Megasphaera: M. cerevisiae Lactobacillus: L. brevis, L. casei, L. Plantarum, L. Fermentum, L. Buchneri, L. delbruckii Pediococcus: P. damnosus, (syn. P. cerevisiae), P. inopinatus
Come sopra. Cresce a circa 25-30 °C, provoca aromi di “mela marcia” per la formazione di acido solfidrico e acetaldeide. Diminuisce l’attenuazione della birra e aumenta la sua acidità. Aromi di DMS (mais in scatola), alcoli superiori (fruttato), diacetile (burro/caramella mou). Elevati aromi di diacetile (burro/ caramella mou). DMS (mais in scatola), alcoli superiori (fruttato). Aromi fenolici (medicinale/chiodo di garofano), simili a quelli prodotti da lieviti selvaggi. Produce acido solfidrico e altri composti solforosi. Cresce in birre a basso livello di alcol (<4%), aromi di “marcio” per acido solfidrico e altri composti solforosi. Produce torbidezza, talvolta filamenti. Aromi aspri e acidi (acido lattico). Produce torbidezza, acidità e alte concentrazioni di diacetile (burro/caramella mou).
Se le contaminazioni batteriche rappresentano un potenziale problema, non deve essere sottovalutato il rischio dato da ceppi di lieviti diversi da quello utilizzato per la fermentazione e scelto dal birraio. Si parla di lievito “selvaggio” forse in modo improprio, dal momento che il problema viene riferito sia a contaminazioni di ceppi presenti liberi in natura (ad esempio in molta frutta) sia a miscele accidentali di lieviti utilizzati in birrificazione, ad esempio residui di fermentazioni precedenti. Questo ultimo caso è forse il più problematico, dal momento che anche con analisi di laboratorio è difficile capire le differenze tra le diverse varietà. Ma il birraio verificherà differenze di comportamento della fermentazione (aromi, attenuazione, flocculazione…). Tabella 3.2 - Alcuni ceppi di lieviti contaminanti della birra. Saccharomyces: S. diastaticus Candida albicans Torulaspora delbruekii Kluyveromyces marxianus
Ha l’abilità di degradare destrine, producendo una birra superattenuata. Aromi fenolici. Pellicole opache, acidità. Aromi di banana e fenolico (medicinale). Talvolta usato per produrre weizenbier. Acidità, aromi lattici.
Pichia
Capacità di produrre sostanze “killer” che eliminano il lievito saccharomyces.
Dekkera/Brettanomyces: B. bruxellensis, B. lambicus
Pellicole opache, acidità. Aroma di cuoio.
È necessario, però, definire la differenza tra pulizia e sanitizzazione: si tratta di due compiti diversi e distinti. La pulizia deve eliminare ogni incrostazione o sporco in grado di arrecare problemi al processo di produzione; la sanitizzazione deve invece ridurre al minimo ogni potenziale contaminazione batterica o di lieviti indesiderati. È intuibile che la seconda non può essere realizzata senza che la prima sia stata portata a termine in modo esemplare: poco può fare anche il più potente sanitizzante su una incrostazione o un film di batteri/lieviti. Parliamo poi di sanitizzazione e non di sterilizzazione, perché lo scopo del birraio non è eliminare le contaminazioni in modo assoluto (pratica che richiederebbe metodi e mezzi simili a quelli delle sale operatorie) ma ridurle a livelli non dannosi per la pratica della birrificazione. Buona prassi è quindi quella di pulire e sanitizzare tutto il materiale appena prima che venga in contatto con mosto o birra. L’unica eccezione è per il materiale che deve essere bollito, ad esempio i sacchetti per il luppolo o il mestolo per la pentola di bollitura. Ma è buona pratica anche pulire tutto il materiale appena dopo l’uso, dal fermentatore alle bottiglie, riducendo il rischio di creazione di incrostazioni poi difficili da eliminare in un secondo tempo. I mezzi utilizzati per pulire e sanitizzare sono abbastanza vari e con diversa efficacia. In linea di principio per l’attrezzatura che non presenta incrostazioni è sufficiente usare acqua calda, anche senza sapone. Se necessario, usare sapone non profumato. Alcuni homebrewer sono soliti sanitizzare usando acqua bollente o vapore, ad esempio per mezzo di lavastoviglie con il ciclo a massima temperatura o addirittura vaporetti. Se da un lato la lavastoviglie può essere efficace per alcuni oggetti, vi può essere qualche dubbio per la efficace sanitizzazione delle bottiglie, che sicuramente non ricevono una pulizia interna adeguata. Inoltre residui di sapone o brillantante possono sempre “contaminare” il materiale. Quanto al vaporetto, pensando all’energia necessaria per sanitizzare adeguatamente, ad esempio, un parco bottiglie, penso sia ben più semplice, meno costoso e con minor impatto ambientale globale utilizzare altri mezzi. Di seguito sono dettagliati alcuni prodotti chimici utili al birraio.
Mezzi di pulizia alcalini Idrossido di sodio NaOH, la classica soda caustica. Professionalmente viene usata in soluzione acquosa calda, ma, se lasciata a contatto per qualche ora con l’attrezzatura, è in grado di eliminare le incrostazioni derivanti da malto/mosto anche a temperatura ambiente. Ottimo per bottiglie incrostate. È altamente caustico, per cui è opportuno utilizzarlo usando guanti e occhiali protettivi. Dosaggio di 1-4 cucchiai per 20 litri. Può lasciare residui solidi di sali di calcio.
Dopo l’uso è necessario un abbondante risciacquo con acqua calda. Carbonato di sodio Na2CO3, chiamato anche soda Solvay, anche questo usato in soluzione acquosa calda. Molto meno efficace rispetto alla soda caustica. Dosaggio di 1-4 cucchiai per 10 litri. Ottimo per sgrassare bicchieri ed elementi in vetro. Anche la soda Solvay deve poi essere risciacquata con abbondante acqua calda. Il bicarbonato di sodio NAHCO3 (quello classico da cucina) è simile per efficacia alla soda Solvay.
Mezzi di pulizia acidi Acido fosforico H3PO4, utilizzato in soluzione al 2-3%, dissolve bene i depositi di calcare. Protegge l’acciaio dalla corrosione attraverso l’effetto di “passivazione”. Da risciacquare con abbondante acqua calda.
Sanitizzanti alcalini Ipoclorito di sodio NaClO è la comune candeggina/varechina. È un sanitizzante molto efficace ed economico. Si utilizza lasciando a contatto l’attrezzatura per 20-30 minuti in una soluzione allo 0,2% ossia circa un cucchiaio ogni 10 litri. A concentrazioni maggiori può essere utilizzato anche come mezzo di pulizia. Da risciacquare con abbondante acqua calda. Per eliminare gli eventuali residui, molto fastidiosi all’olfatto, è possibile utilizzare una soluzione di acqua e metabisolfito. Attenzione: NON miscelare la candeggina assieme ad altri composti acidi, per il pericolo di creazione di cloro gassoso! Amuchina® Seppur a base di ipoclorito di sodio, l’Amuchina® differisce dalla semplice candeggina per la minor “invadenza” al naso. L’utilizzo suggerito per sanitizzare è di una soluzione di 20 ml per litro d’acqua con contatto per almeno 20 minuti. Anche con Amuchina® è indicato un abbondante risciacquo con acqua calda.
Sanitizzanti acidi Iodophor È una combinazione di iodio e di acido fosforico. Richiede un tempo di contatto di soli 2-3 minuti; il dosaggio è di circa 5 ml per 10 litri. Si risciacqua con acqua fredda, anche se qualcuno ritiene non sia strettamente necessario.
Perossido di idrogeno H2O2, la classica acqua ossigenata. In una soluzione al 2 o 3% sanitizza, ma il rapporto costo/efficacia non risulta molto favorevole. Può non essere risciacquato. Acido peracetico CH3COOOH: è il prodotto solitamente utilizzato dai birrifici professionali. Nell’uso si decompone a formare acido acetico e acqua ossigenata. Il dosaggio è minimo, in soluzione all’1%. Massima attenzione nel maneggiare l’acido peracetico concentrato perché corrosivo! Sviluppa ossigeno e un caratteristico fastidioso odore, per cui cautela nell’utilizzo al chiuso. Metabisolfito di potassio K2S2O5: non è molto efficace come sanitizzante (è piuttosto un antifermentativo). Si utilizza in una soluzione di 3-4 cucchiaini in un litro d’acqua. Rilascia biossido di zolfo, particolarmente efficace contro batteri gram-positivi. Può non essere risciacquato. Il metabisolfito di sodio Na2S2O5 è molto simile al metabisolfito di potassio. Chempro È un prodotto a base di cloro fornito in polvere. Si utilizza in soluzione di acqua calda con dosaggio di 1 g ogni litro. Si risciacqua con acqua calda dopo un contatto di 20 minuti circa. Alcol etilico O anche più banalmente superalcolici come vodka, whisky, brandy ecc.; sanitizza non diluito grazie a un contatto relativamente lungo (diverse ore) e può utilmente essere usato per quella attrezzatura di piccole dimensioni che ha potenziale difficoltà di risciacquo, come ad esempio la pietra porosa del sistema di ossigenazione.
Scegliere il prodotto per la propria attrezzatura Non tutti i prodotti per la pulizia e la sanitizzazione sono adatti per ogni elemento della propria attrezzatura: ad esempio la candeggina non è adatta per l’acciaio perché tende a intaccarlo. Una utile indicazione valida per ogni materiale è quella di evitare spugne o prodotti di pulizia che possano rigare o creare graffi all’attrezzatura: questi possono diventare potenzialmente difficili da sanitizzare e sede di potenziali contaminazioni. Di seguito alcuni esempi di abbinamenti suggeriti. Acciaio: per la pulizia soda caustica, per la sanitizzazione acido fosforico, iodophor o acido peracetico. Plastica: per la pulizia una blanda soluzione di soda caustica, per la sanitizzazione candeggina, iodophor, chempro oppure (meno efficace) metabisolfito. Alluminio: blanda soluzione di acido fosforico.
Vetro o ceramica: quasi tutto può essere utilizzato con il vetro, tranne l’acido fosforico che tende a intaccarlo. La soda è adatta per la pulizia, la candeggina per la sanitizzazione. Rame: solitamente l’unico elemento in rame è la serpentina di raffreddamento, che viene sanitizzata con pochi minuti di immersione in bollitura. Per la pulizia in genere è sufficiente acqua calda. Legno: sarebbe meglio evitare di utilizzare legno nell’attrezzatura, per la sua naturale porosità, possibile sede di contaminanti. Si può usare acqua bollente per la sanitizzazione; se assolutamente necessaria una pulizia approfondita, una blanda soluzione di soda caustica o carbonato o bicarbonato di sodio può essere utilizzata ma è necessario risciacquare parecchie volte con acqua calda e fredda.
Consigli pratici Pulizia e sanitizzazione sono fasi importantissime per l’ottenimento di una buona birra e per il mantenimento della costanza del processo produttivo. Non deve però diventare una ossessione e portare l’homebrewer a realizzare camere sterili, utilizzare maschere da sala operatoria o inquinare l’ambiente con l’uso indiscriminato di prodotti chimici per la pulizia e la sanitizzazione. Per secoli i birrifici hanno realizzato egregie produzioni con fermentazioni “aperte” senza l’ausilio dei prodotti chimici disponibili oggi. È anche vero, tuttavia, che le piccole produzioni hanno maggiori potenziali problemi di contaminazione rispetto alle grandi produzioni dei birrifici professionali: anche intuitivamente, si comprende come l’impatto di un contaminante (pensiamo a uno starnuto!) su un batch di pochi litri sia differente da quello su alcuni ettolitri. Con la pratica si imparerà a porre attenzione ai punti effettivamente critici, ossia quelli che rappresentano più frequentemente fonti di contaminazioni e infezioni. Ad esempio, è inutile sanitizzare le pentole o il mulino (ma è opportuna una adeguata pulizia) o la serpentina di raffreddamento a immersione, visto che viene sanitizzata dal mosto stesso in ebollizione. Oppure è intuibile come maggiore attenzione e cura debbano essere poste alla sanitizzazione del fermentatore rispetto alle bottiglie: una contaminazione nel primo obbligherà a buttare via un’intera cotta, mentre una singola bottiglia infetta può essere spiacevole ma non è un dramma. Alcuni elementi di attrezzatura possono infine risultare irrecuperabili e talvolta è preferibile sostituire il singolo pezzo che correre inutili rischi. È il caso, ad esempio, del rubinetto del fermentatore: questo elemento dovrebbe essere smontato e verificato a ogni uso e, in caso di dubbio di potenziali incrostazioni, sostituito con uno nuovo. Il medesimo approccio va utilizzato con le guarnizioni del coperchio del fermentatore, che parimenti devono essere smontate e verificate a ogni fermentazione.
“Scopo del birraio è ridurre le contaminazioni a livelli non dannosi per la birrificazione.”
Capitolo 4 Il processo di produzione
Sommario La macinazione Ammostamento e filtrazione La tecnica da estratto e grani speciali La bollitura del mosto La birra da estratto luppolato (kit) La fermentazione Imbottigliamento, carbonazione e maturazione Altri metodi di servizio e maturazione Note pratiche sulla produzione
4.1 La macinazione I grani di malto d’orzo e di altri cereali eventualmente utilizzati devono essere macinati prima della cottura (Figura 4.1) per poter mettere a disposizione il loro contenuto amidaceo. Questa operazione, in apparenza banale, riveste in realtà una notevole importanza: una non appropriata macinazione può essere causa di problemi di vario tipo sia sotto l’aspetto tecnico-produttivo sia per potenziali gusti e aromi indesiderabili nella birra finita.
Figura 4.1 - Malto macinato correttamente.
Delle varie tipologie di mulino abbiamo parlato nella sezione dedicata alle attrezzature. In questa sede è importante ribadire alcuni concetti: innanzitutto evidenziare che la macinazione ottimale è quella che “schiaccia” i grani di cereale causandone l’apertura e permettendo al contenuto amidaceo di sciogliersi nell’acqua calda di mash per poter essere utilmente “aggredito” dagli enzimi nella fase di ammostamento; deve poi essere evitata la produzione di un eccessivo quantitativo di “farina” fine che causerebbe problemi nella successiva fase di filtrazione. Parimenti, la macinazione dovrebbe preservare in modo ottimale le glumelle (scorze) che ricoprono i grani d’orzo; le motivazioni per tale necessità sono sostanzialmente due: dal punto di vista tecnico, l’integrità di tali scorze rappresenta un elemento fondamentale nella successiva fase di filtrazione: l’insieme delle scorze è infatti il vero elemento filtrante necessario a ottenere un mosto limpido e privo di trebbie residue; dal punto di vista organolettico, lo “sfarinamento” delle scorze non permette una filtrazione efficace e quindi si corre il rischio di allungare eccessivamente i tempi della stessa filtrazione oppure di permettere il passaggio di parte delle glumelle alla successiva fase di bollitura. Entrambe le eventualità potrebbero causare un rilascio di tannini e altre sostanze amare nella birra finita, provocando indesiderati gusti astringenti (l’effetto è simile a quello provocato dalla masticazione dei semini d’uva). Per un risultato ottimale, malti e cereali diversi dovrebbero essere macinati separatamente, adattando le regolazioni del mulino alle caratteristiche fisiche dei malti: dimensione, durezza, grado di umidità influiscono sul risultato finale. Anche a occhio nudo, ad esempio, è evidente la differenza di forma e dimensione tra un chicco di malto d’orzo e un chicco di malto di
frumento, così come è differente la consistenza (e quindi la resistenza alla macinazione) tra un malto pils e un malto crystal. Inoltre è bene considerare anche che i cereali che non hanno glumella (la scorza) possono essere teoricamente macinati con minore attenzione e a una grana più fine. Alcune birrerie (e anche birrai casalinghi) trattano il cereale qualche minuto prima della macinazione irrorandolo con l’acqua (2-4% in peso sul totale) attraverso un sistema spray; lo scopo di tale pratica è molteplice: si rendono più flessibili le glumelle: durante la fase di macinazione le glumelle umide risultano meno fragili rispetto a quelle asciutte e possono superare il “trauma” del mulino in migliori condizioni (sino a +30% di glumelle integre); si riduce la polvere di amido creata dalla macinazione; alcuni sostengono che l’efficienza della fase di ammostamento e saccarificazione venga migliorata, dal momento che l’acqua aggiunta aiuterebbe la successiva “solubilità” degli enzimi del malto. Questa tecnica deve necessariamente essere applicata appena prima della macinazione, per non permettere che l’umidità aggiunta transiti dalla parte esterna del chicco ed entri nel cuore dello stesso andando a renderlo più “soffice” ed elastico e quindi più difficile da macinare in modo ottimale. Il mulino, ovviamente, dovrà essere maggiormente curato nella fase di pulizia dopo aver processato del malto umido: non deve essere permesso lo sviluppo di muffe indesiderate causate dalla presenza di amidi residui imbevuti d’acqua.
4.2 Ammostamento e filtrazione Ammostamento Nella fase di ammostamento il cereale macinato viene miscelato con acqua calda per permettere l’attivazione degli enzimi contenuti nel malto; questi saranno responsabili, oltre che di altri processi chimico-fisici, della trasformazione dell’amido in zuccheri. Nel capitolo che segue verranno dettagliati aspetti teorici collegati a questa fase. Ma è proprio strettamente necessario conoscere tutti questi particolari? In realtà nelle normali condizioni la fase di ammostamento è un processo sostanzialmente semplice e si conclude quasi sempre in modo positivo anche senza particolari attenzioni da parte del birraio circa step di temperatura, livelli di acidità, contenuti salini dell’acqua. La natura sembra avere creato l’orzo proprio a tale scopo! Tuttavia il birraio preparato deve essere in grado di affrontare gli eventuali imprevisti: a tale scopo è opportuno conoscere cosa “si nasconde” nella fase di cottura del malto. Teoria Gli enzimi sono proteine che fungono da catalizzatori di reazioni chimiche, ossia ne accelerano la velocità senza venire “consumate” durante il processo: avvenuta la trasformazione, l’enzima ritorna a essere disponibile per una successiva reazione. Nel malto
esistono diversi enzimi, ognuno con una differente azione, che operano in maniera ottimale a temperature e livello di acidità (pH) diversi. Al di fuori di queste “finestre” gli enzimi non operano o lo fanno con intensità ridotta. In particolare, al di sotto delle temperature ideali o al di sopra o al di sotto dei livelli di acidità specifici, gli enzimi rimangono “dormienti” o con attività molto rallentata. Al di sopra delle temperature indicate, invece, gli enzimi vengono in breve tempo irrimediabilmente degradati e distrutti (Figure 4.2, 4.3); per questo motivo le “soste” che verranno descritte nel seguito vanno sempre effettuate in successione ascendente di temperatura.
Figura 4.2 – Denaturazione delle alfa-amilasi a diversi livelli di temperatura.
Figura 4.3 – Denaturazione delle beta-amilasi a diversi livelli di temperatura.
Come sopra citato, l’acidità dell’impasto si posiziona solitamente e in modo automatico a livelli corretti per le reazioni chimiche necessarie alla fase di ammostamento (Figura 4.4): all’incirca da pH 5,5 a 6,0. Tuttavia i malti scuri tendono a rendere l’impasto leggermente più acido rispetto ai malti chiari: test di laboratorio hanno mostrato che un malto pils in acqua distillata attesta il pH tra i 5,7 e i 6,0, un malto Vienna o Monaco tra i 5,5 e i 5,7; livelli di 4,0, 4,2 si hanno invece per un malto Black.
Figura 4.4 – Intervalli di temperatura e pH dei vari enzimi.
Nel dettaglio, alcune delle più importanti reazioni chimiche che avvengono nell’ammostamento fanno riferimento ai seguenti enzimi: Fitasi (30-52 °C per 20-40 min): ha la funzione di abbassare il livello di pH dell’impasto, agendo sulla fitina, un fosfato contenuto soprattutto nei malti chiari. Oggi in realtà tale sosta di ammostamento non viene più realizzata dai birrai, dal momento che risulta più pratico e rapido intervenire con altri mezzi, come acido lattico, solfato o cloruro di calcio o semplicemente con aggiunte di malto acido, opportunamente trattato dal maltatore con batteri lattici. ß-glucanasi (37-46 °C per 15-20 min): degrada i ß-glucani costituenti le pareti cellulari del malto che “trattengono” gli amidi del cereale. Anche questa fase viene solitamente saltata nella produzione birraria moderna (se non vengono utilizzate alte percentuali di cereali non maltati), dal momento che tali enzimi vengono attivati anche nella fase di maltazione. Peptidasi e proteasi (46-58 °C per 20-30 min): degradano le proteine del malto in aminoacidi che costituiscono anche una fonte di nutrimento per il lievito. Un eccesso di proteine può dare problemi di torbidità alla birra finita, tuttavia queste sono anche responsabili della tenuta della schiuma e – parzialmente – del “corpo” della birra. Un’azione protratta di tali enzimi su malti ben “modificati” può portare a birre “acquose” e senza corpo e con schiuma evanescente. Diastasi: degradano gli amidi del cereale in zuccheri. Possiamo affermare che sono gli enzimi più importanti della produzione della birra; ne esistono due tipi:
- ß-AMILASI (54-68 °C per 20-40 min): degradano gli amidi creando principalmente maltosio (zucchero formato dall’unione di una coppia di molecole di glucosio), altamente fermentabile dal lievito. Una più intensa azione di tali enzimi porta a mosti maggiormente fermentabili e quindi a birre più alcoliche, secche e con minor corpo. - α-AMILASI: (63-76 °C per 20-40 min e oltre): degradano gli amidi creando zuccheri complessi detti destrine, non fermentabili dal lievito, almeno nel breve periodo. I due enzimi sono spesso attivi contemporaneamente e le ß-amilasi possono così scomporre anche parte delle destrine prodotte dalle α-amilasi; per questo motivo il prolungarsi della sosta di ammostamento oltre il tempo necessario per la conversione potrebbe determinare una diminuzione delle destrine e una eccessiva fermentabilità del mosto.
Aree di azione ottimale degli enzimi del malto La reazione chimica più evidente è, come detto, quella di diastasi. A seguito di tale processo, gli amidi vengono trasformati in zuccheri (Figura 4.5) e mediamente il mosto risultante conterrà circa il 90-92% di carboidrati (principalmente zuccheri fermentabili e destrine) e circa il 6-7% di altri composti responsabili di colore, aromi, tenuta di schiuma ecc1.
Figura 4.5 – Scomposizione degli amidi da parte di alfa e beta amilasi.
Gli enzimi agiscono solo in soluzione acquosa ed è quindi importante miscelare il malto macinato in acqua per permettere che enzimi e amidi vengano “disciolti” nell’impasto e avvengano le reazioni sopra citate. Il bilanciamento acqua/cereale dell’ammostamento ha un rapporto ideale e viene solitamente fissato nella finestra dei 2-4 litri d’acqua per kg di macinato: una miscela troppo densa o troppo liquida non consentirebbe l’attività ottimale degli enzimi. Un concetto che spesso viene citato dai birrai è quello di efficienza dell’attrezzatura o della singola cotta di birra. In sostanza, questo dato rappresenta la quantità di zuccheri estratti dal malto che viene impiegata nella produzione. Esistono naturalmente dei limiti teorici di riferimento: ad esempio, nelle migliori condizioni di laboratorio, da un chilogrammo di malto vengono estratti circa 800 grammi di zuccheri. In un mosto con 10 litri d’acqua risulterebbero quindi 8% di zuccheri in volume, cioè circa 8 Plato, e il densimetro segnerebbe 1030. Ovviamente tali risultati non vengono ottenuti con i normali impianti di birrificazione e rimangono solo come punti di riferimento ideali; solitamente poi il birraio (e in particolare il birraio casalingo) ha più interesse a massimizzare
la qualità del prodotto, meno il bilancio economico del processo. Industrialmente, nei grandi impianti, l’efficienza di produzione raggiunge e supera il 90%, ossia da ogni kg di malto si estraggono circa 720 grammi di zuccheri. Impianti professionali artigianali arrivano a efficienze dell’85-90%, mentre dal punto di vista casalingo il 75% di efficienza può essere considerato un buon risultato. L’attrezzatura o il processo richiedono invece di essere affinati se tale valore scende sotto il 60%.
Gli zuccheri del mosto Gli amidi contenuti nell’orzo, così come quelli di altri vegetali come patate, castagne, fagioli, zucche…, sono detti polisaccaridi, ossia costituiti da catene formate da più unità di zuccheri semplici, principalmente glucosio. E proprio dal glucosio prendono origine, attraverso le numerose reazioni del metabolismo, tutti i composti organici delle piante e, di conseguenza, degli animali. Il glucosio è però anche la molecola energetica per eccellenza: si può dire che tutti gli organismi traggono l’energia per i loro processi vitali dalla demolizione del glucosio. Le catene di amidi devono essere immaginate come una ramificazione elaborata simile a rami di alberi, più che come una sequenza unica e lineare. Gli enzimi della diastasi scompongono le catene di amidi in diverse componenti e il prodotto principale è il maltosio (circa il 42% del totale degli zuccheri finali del mosto), un disaccaride costituito da una coppia di molecole di glucosio, seguito da maltotriosio (15%, formato da tre molecole di glucosio). Altre tipologie di zucchero create nell’ammostamento sono glucosio e fruttosio (9%), maltotetraosio (6%, formato da 4 molecole di glucosio), saccarosio (5% costituito da una molecola di glucosio unita a una di fruttosio). Tutti gli zuccheri citati sono processabili dal lievito, alcuni immediatamente, altri (maltotriosio e maltotetraosio) più lentamente o solo da alcune varietà di lievito. La percentuale rimanente degli zuccheri del mosto è costituita da destrine, ossia da complessi di glucosio non attaccabili dal lievito.
Pratica L’ammostamento è quindi una fase importantissima nella realizzazione della birra e, unitamente alla scelta delle tipologie e della quantità dei diversi malti e cereali, rappresenta il momento in cui il birraio impone al prodotto finito le caratteristiche basilari desiderate: corpo, beverinità, alcol, schiuma ecc. Tradizionalmente esistono tre metodi di ammostamento: ammostamento a infusione: la miscela acqua/cereale viene progressivamente portata a determinati livelli di temperatura tramite riscaldamento diretto dell’impasto (il classico pentolone sul fuoco); ammostamento a infusione “inglese”: in un recipiente/tino solitamente coibentato, acqua bollente viene aggiunta al cereale; calcolando il rapporto acqua/malto, con precise e successive aggiunte di acqua, la temperatura dell’impasto viene portata ai livelli desiderati; decozione: parte dell’impasto viene separata e portata a ebollizione e successivamente riunita alla miscela principale, consentendo l’aumento di
temperatura voluto. La scelta del metodo era un tempo dettata dalle particolari caratteristiche dei malti disponibili localmente: questi venivano macinati e “cotti” in modo diverso per massimizzare la produttività (più birra con meno malto…). Ad esempio, i metodi di maltazione realizzati in Gran Bretagna consentivano un uso “semplice” del malto, con un ammostamento a un unico step di temperatura e tempi di cottura più brevi. Di converso, in Germania, la maltazione meno precisa imponeva un trattamento più complesso del malto e ammostamenti più lunghi e complicati. Oggi la qualità della materia prima è tale da non dover necessariamente imporre al birraio un particolare metodo, tuttavia è innegabile che infusione e decozione donino alle birre caratteristiche differenti: con la decozione si ottengono in genere birre con il malto in maggiore evidenza e un gusto più “pieno” e complesso. Mash-in Qualunque metodo si scelga di utilizzare, la prima fase dell’ammostamento prevede la miscelazione del cereale con l’acqua(mash-in) per rendere omogeneo l’impasto e consentire la diffusione nel liquido di enzimi e amido. Nell’ammostamento a infusione inglese, tradizionalmente si sceglie un impasto iniziale più denso (vicino ai 2 litri d’acqua per kg di cereale) per permettere l’eventuale successiva aggiunta di altra acqua bollente al fine di poter aumentare la temperatura dell’impasto, mentre nella decozione questo è più liquido (circa 4 litri/kg) per poterlo spostare più agevolmente da/verso la caldaia di cottura. Una media di 3 kg/litro è un valore spesso adottato, ma la scelta fondamentalmente dipende, oltre che da impostazioni “filosofiche” del singolo birraio, da molte variabili oggettive, come la tipologia di attrezzatura per l’ammostamento, per la filtrazione e il risciacquo. La temperatura di ingresso di mash-in, ossia a quanti gradi è portata l’acqua che viene miscelata con il malto, dipende dalla ricetta e dalla scelta del birraio di effettuare tutte o solo alcune soste di attivazione di determinati enzimi. Tenendo presente che solitamente il malto viene stoccato a temperatura ambiente, la temperatura iniziale desiderata dell’impasto può essere ottenuta utilizzando l’acqua a 5-7 °C sopra il target atteso. Infusione multistep Nella pratica della birrificazione con infusione multistep, un esempio con diverse soste potrebbe essere il seguente: Mash-in: miscelazione malto macinato (18 °C) con 3 litri/kg di acqua a 45 °C. L’impasto si omogeneizza a 40 °C. Acid rest: si mantiene l’impasto a 40 °C per 20-40 minuti, verificando il livello del pH che dovrebbe scendere di 0,3 - 0,5 punti. Il valore finale dipenderà da numerosi fattori, dalla tipologia di malto alla qualità dell’acqua. Protein rest: l’impasto viene portato a 50 °C circa per altri 10-20 minuti. Tale sosta viene solitamente utilizzata quando una discreta dose di cereali non maltati viene
impiegata in ricetta allo scopo di evitare una torbidità indesiderata nella birra finita. Se effettuata quando non strettamente necessaria, si rischia di ottenere una birra con schiuma evanescente e corpo eccessivamente lieve. Sosta ß-amilasi: l’impasto viene portato a 60 °C per 25-30 min, allo scopo di facilitare la creazione di zuccheri fermentabili. Sosta α-amilasi: l’impasto viene portato a 70 °C per 25-30 min, per la creazione di destrine non fermentabili. Effettuando entrambe le soste con le durate sopra indicate, si favorisce l’azione successiva di entrambi gli enzimi, ottenendo un mosto di media fermentabilità. La percentuale di zuccheri fermentabili può essere controllata variando la durata delle due soste. Ad esempio, per realizzare birre più dolci e corpose si potrà ridurre la sosta a 60 °C a non più di 20 minuti, prolungando la sosta a 70 °C a 40 minuti circa. Viceversa, per realizzare birre più secche e con minor corpo, la sosta a 60 °C potrà essere allungata a 40-45 minuti e fatta seguire da una sosta a 70 °C di durata conseguentemente ridotta. Sosta di saccarificazione: dal momento che i due enzimi di diastasi hanno range di lavoro parzialmente sovrapposti, è possibile unificare le due soste precedenti in una sosta unica a temperatura intermedia. Solitamente, per comodità gestionale, è proprio questa la scelta adottata nella maggior parte dei casi. Scegliendo, ad esempio, una temperatura di 65 °C (per 45-60 min) si favorirà nella stessa misura il lavoro di entrambi gli enzimi ottenendo un mosto di media fermentabilità; aumentando o diminuendo la temperatura della sosta unica (ad esempio, portandola a 68 °C oppure a 62 °C), si favoriranno rispettivamente gli alfa- o i betaamilasi, ottenendo un mosto di minore o maggiore fermentabilità. Mash out: verificata con il test della tintura di iodio la completa trasformazione degli amidi in zuccheri, l’impasto viene portato a 78 °C per 15 minuti allo scopo di degradare in modo irreversibile gli enzimi ß-amilasi. Grazie a questa sosta, il rapporto tra zuccheri fermentabili e destrine scelto dal birraio per mezzo delle soste precedenti viene in un certo modo cristallizzato e rimane immodificabile nelle fasi successive. Inoltre, a questa temperatura, la parte liquida dell’impasto diventa più fluida, facilitando la fase di filtrazione.
Test tintura di iodio Il birraio deve verificare con attenzione che la fase di diastasi venga portata a termine sino alla trasformazione completa degli amidi presenti nell’impasto: una eventuale presenza di questi nelle fasi successive può causare problemi nella birra finita, come ad esempio torbidità o infezioni causate da batteri/lieviti selvaggi particolarmente “ghiotti” di sostanze amidacee. Come descritto in un altro capitolo, la tintura di iodio a contatto con l’amido acquista una colorazione nerastra (cosa che non avviene con gli zuccheri); mettendo una goccia di mosto su un piattino bianco e mescolandola a una goccia di tintura di iodio, potremo verificare se tutto l’amido si è trasformato in zuccheri (Figura 4.6). Quindi, se il colore rimarrà giallo-rossastro, la cottura del mosto potrà considerarsi conclusa, mentre, se
diventerà nerastra, bisognerà continuare la cottura ancora per un po’. Attenzione: la tintura di iodio è tossica, quindi non rimettere nella pentola il contenuto del piattino!
Figura 4.6 - Il test con la tintura di iodio.
Infusione inglese Nell’infusione inglese le soste sono molto più semplici, ridotte a una o due. Come precedentemente detto, questo tipo di ammostamento si può utilmente realizzare quando non vengano effettuate aggiunte di cereali non maltati; ad esempio: Mash-in: miscelazione malto macinato (18 °C) con 2 litri/kg di acqua a 73 °C. L’impasto si omogeneizza a circa 65 °C. Si mantiene l’impasto a tale temperatura per almeno 40-60 minuti miscelando ogni tanto con un mestolo. Nel caso in cui il tino di ammostamento non abbia una capacità isolante sufficiente, si può controbilanciare il raffreddamento dell’impasto con aggiunte successive di acqua bollente, avendo l’accortezza di mescolare sempre per mantenere omogenea la temperatura dello stesso in ogni sua parte. Mash out: verificata con il test della tintura di iodio la completa trasformazione degli amidi in zuccheri, l’impasto viene portato a 78 °C per 15 minuti per mezzo di una ulteriore aggiunta di acqua bollente. Teoricamente tale sosta potrebbe essere evitata (alcuni birrifici tradizionali la saltano), ma riteniamo che i vantaggi superino di gran lunga l’impegno da essa richiesto.
Quando si vogliono utilizzare grandi quantità di cereali non maltati o amidi derivati da altre fonti (es. patate, zucca o castagne), oppure si ha a disposizione un malto di qualità inferiore “poco modificato”, oppure ancora si vogliono ricreare stili continentali utilizzando i metodi tradizionali di ammostamento (come pils, weizen, dunkel, bock…), allora il metodo indicato è quello detto decozione. Decozione Il metodo è lungo, almeno un paio d’ore in più di un ammostamento a infusione multistep, faticoso e con qualche rischio, visti i travasi di impasto bollente. Da molti birrai è però ritenuto fondamentale per conferire alcune caratteristiche particolari alla birra finita. Inoltre, grande attenzione deve essere posta nella cura della misurazione del livello di acidità dell’impasto; valori di pH troppo elevati (oltre 5,7-5,8) possono portare, nella fase di bollitura dell’impasto stesso, all’estrazione di un eccesso di sostanze tanniniche e quindi a difetti qualitativi della birra finita. Dal punto di vista concettuale, il sistema a decozione è simile a quello di infusione multistep, nel senso che gran parte dell’impasto subisce pause a diversi e determinati livelli di temperatura. La differenza risiede nel fatto che, nel sistema a infusione, gli aumenti di temperatura sono realizzati tramite semplice apporto di calore diretto (l’accensione del gas, per intenderci); nella decozione, una parte dell’impasto (circa 1/3 del totale) viene separata e portata a ebollizione, per poi essere riunita all’impasto principale comportando un aumento di temperatura complessivo. A seconda del numero di volte che viene compiuto questo passaggio, ossia considerando il numero di aumenti di temperatura previsti, si può parlare di decozione a uno, due o tre stadi. Solitamente nella decozione a tre stadi vengono effettuati aumenti di temperatura corrispondenti alle soste detti di proteolisi (proteasi o protein rest), saccarificazione (diastasi) e mash-out (lauter rest). Ma come calcolare la parte di impasto da separare e da portare a ebollizione? Una pratica formula è la seguente:
I% è la percentuale di impasto che si deve portare a ebollizione. TM è la temperatura di bollitura del mash (si può considerare per comodità 100 °C). T0 è la temperatura di partenza. T1 è la temperatura richiesta. X dipende dall’attrezzatura (principalmente dalla coibentazione e dalle perdite di calore): una buona approssimazione è 10 °C. Come accennato, I% si avvicina nella pratica solitamente alla cifra di 30. Nella decozione è sempre consigliabile portare a ebollizione una quota tendenzialmente più “solida”, lasciando la parte più liquida nel tino di ammostamento principale. Tale scelta ha una doppia motivazione: innanzitutto gli enzimi del malto vengono disciolti nella porzione acquosa e, portandone meno a ebollizione (e quindi a distruzione), favoriamo la preservazione della maggior parte della potenzialità enzimatica dell’impasto.
In secondo luogo, la fase di ebollizione ha una funzione di degradazione della quota di malto e – soprattutto – dei cereali non maltati: si hanno una maggiore solubilizzazione della parte amidacea, una riduzione della dimensione e della complessità della parte amidacea e proteica, una migliore dissoluzione dei ß-glucani che “incapsulano” gli amidi. Oltre a ciò, i fautori dell’ammostamento con decozione segnalano ricadute positive sulla “deossigenazione” del mash (ipotetici minori rischi di ossidazione a caldo) e una migliore fase di filtrazione per la minor presenza di proteine “gommose” degradate in ebollizione. Sicuramente migliorerà l’efficienza, che potrà salire a percentuali dell’85-90%. Questo fatto dovrà essere tenuto in considerazione nella scelta delle dosi di luppolo da utilizzare per riequilibrare la ricetta complessiva. Per esemplificare, ecco qualche caso.
Decozione singola Mash-in: miscelazione malto macinato (18 °C) con 4 litri/kg di acqua a 56 °C. L’impasto si omogeneizza a circa 50 °C. Protein rest: si mantiene l’impasto a tale temperatura per circa 15-20 minuti miscelando ogni tanto con un mestolo. Decozione: dopo avere verificato il valore del pH, estrarre dall’impasto circa un terzo del volume totale (parte tendenzialmente più solida) e portarlo a circa 70 °C per 20 minuti, per favorire una prima fase di saccarificazione, poi a ebollizione per altri 20 minuti. La temperatura della parte rimasta nel tino di ammostamento dovrà rimanere il più possibile stabile: scegliere quindi un tino coibentato o riaggiustare il livello con accensioni del gas o aggiunte di acqua bollente. Saccarificazione: la riunione delle due parti di impasto, che deve essere compiuta gradualmente e sempre mescolando (per non “scottare” gli enzimi), porta la temperatura complessiva a circa 65 °C. Qui possiamo rimanere per almeno 40 minuti circa o più sino al test della tintura di iodio negativo.
Doppia decozione Medesimo programma precedente della decozione singola, ma, a circa 20-30 minuti dall’inizio della fase di saccarificazione, viene estratta una seconda quota di impasto (medesime caratteristiche precedenti) e portata a ebollizione per 20 minuti circa. La riunione delle due parti di impasto, che deve essere compiuta gradualmente e sempre mescolando, porta la temperatura complessiva a circa 75 °C. Qui possiamo rimanere per almeno ulteriori 20 minuti circa o più fino al test della tintura di iodio negativo.
Tripla decozione, generalmente considerata quella più tradizionale Mash-in: miscelazione malto macinato (18 °C) con 4 litri/kg di acqua a 46 °C. L’impasto si omogeneizza a circa 40 °C. Sosta glucanasi/acido: si mantiene l’impasto a tale temperatura per circa 20 minuti, miscelando ogni tanto con un mestolo. Prima decozione: estrarre dall’impasto circa un terzo del volume totale (parte tendenzialmente più solida) e portarlo a circa 70 °C per 20 minuti, per favorire una prima fase di saccarificazione, poi a ebollizione per altri 20 minuti. La parte rimasta nel tino di
ammostamento dovrà rimanere il più possibile a temperatura stabile: scegliere quindi un tino coibentato o riaggiustare il livello con accensioni del gas o aggiunte di acqua bollente. Protein rest: la riunione delle due parti di impasto, che deve essere compiuta gradualmente e sempre mescolando, porta la temperatura complessiva a circa 50 °C. Qui possiamo rimanere per almeno 20 minuti circa. Seconda decozione: estrarre dall’impasto circa un terzo del volume totale (parte tendenzialmente più solida) e portarlo a circa 70 °C per 20 minuti, per favorire una prima fase di saccarificazione, poi a ebollizione per altri 20 minuti. La parte rimasta nel tino di ammostamento dovrà rimanere il più possibile a temperatura stabile: scegliere quindi un tino coibentato o riaggiustare il livello con accensioni del gas o aggiunte di acqua bollente. Saccarificazione: la riunione delle due parti di impasto, che deve essere compiuta gradualmente e sempre mescolando, porta la temperatura complessiva a circa 65 °C. Terza decozione: a circa 20-30 minuti dall’inizio della fase di saccarificazione, viene estratta una terza quota di impasto (medesime caratteristiche precedenti), che viene portata a ebollizione per 20 minuti circa. La riunione delle due parti di impasto, che deve essere compiuta gradualmente e sempre mescolando, porta la temperatura complessiva a circa 75 °C. Qui possiamo rimanere per almeno ulteriori 20 minuti circa o più fino al test della tintura di iodio negativo.
Filtrazione Verificata l’azione degli enzimi della diastasi, ossia dopo che gli amidi sono stati completamente trasformati in zuccheri, è necessario filtrare l’impasto: separare la parte liquida (mosto) da quella solida (trebbie). Le varie possibilità tecniche per effettuare questa fase sono state analizzate nel capitolo dedicato all’attrezzatura; qualsiasi impostazione venga scelta, la filtrazione è sempre concettualmente divisa in due parti: una prima fase di puro recupero del primo mosto e una seconda di risciacquo. Running off La prima fase è detta running off e si effettua semplicemente aprendo con estrema delicatezza il rubinetto di scarico del tino di filtrazione. Se si è travasato l’impasto dal tino di ammostamento, è opportuno lasciarlo decantare per almeno 5 minuti per permettere alle parti solide di depositarsi e costituire il letto filtrante. Se si usa un sistema combinato tino di ammostamento/filtrante è opportuno aprire il rubinetto di scarico almeno 5 minuti dopo l’ultima rimescolata dell’impasto. Il mosto zuccherino deve defluire in modo “gentile” con un flusso lieve e possibilmente agevolato da un tubo per alimenti: il flusso limitato ha lo scopo di evitare un compattamento del letto di trebbie e quindi il blocco della fase di recupero del mosto. Dobbiamo infatti immaginare questo processo come una gentile “percolazione” della parte liquida attraverso la parte solida e non come una rapida setacciata dell’impasto, come ad esempio con gli spaghetti nello scolapasta! In un sistema delle dimensioni di 25-30 litri, il flusso deve essere di circa un litro al minuto: filtrazioni più rapide potrebbero portare a una serie di problemi,
come un mosto carico di impurità che, se portate a bollitura, possono portare a un eccesso di tannini nella birra finita. Un altro effetto di una filtrazione troppo rapida può essere il compattamento del letto di trebbie e la conseguente impossibilità di continuare la fase di filtrazione: questo caso, incubo di ogni birraio, si può risolvere solo ritravasando l’impasto in un contenitore separato, pulendo bene il mezzo filtrante e ricominciando da capo. Se il compattamento è avvenuto solamente nella parte di tino filtro vicino al rubinetto di scarico, o se la filtrazione si è interrotta per una semplice bolla d’aria nel rubinetto (può capitare!), può valere la pena di provare a soffiare nello stesso rubinetto sperando di risolvere la situazione. Anche in assenza di problemi evidenti, una filtrazione troppo veloce ha, nella migliore delle ipotesi, effetto sull’efficienza del processo, ossia meno zuccheri sono recuperati nel mosto. È stata citata l’utilità di un tubo che accompagni il flusso di mosto dal rubinetto di scarico verso la pentola di bollitura perché, come verrà rimarcato più volte nel corso del libro, è buona pratica evitare in ogni fase (tranne una, appena prima della fermentazione) ogni possibile ossigenazione del mosto. In particolare, l’ossigenazione del mosto caldo, che sicuramente avviene nel caso si faccia “splashare” con una caduta dal rubinetto di scarico alla pentola, sarebbe causa di alcuni evidenti difetti della birra finita. La hot side aeration, come viene tecnicamente chiamata, sarebbe responsabile dell’ossidazione di alcuni composti del malto chiamati melanoidi e causa di torbidità e aromi stantii nella birra finita. Paradossalmente, anche una filtrazione eccessivamente lenta può avere conseguenze negative: se per scelta o per un eccessivo compattamento del letto di trebbie, il flusso di scarico risulta essere molto lieve e la fase di filtrazione prosegue per troppo tempo (in genere oltre i 90 minuti), le trebbie possono cedere al mosto sostanze tanniniche, soprattutto se il livello di pH non viene adeguatamente controllato e risulta troppo elevato. Inoltre, similmente a una filtrazione veloce, ci sono degli effetti sull’efficienza: col passare del tempo il sistema impasto/tino di filtrazione perde calore e con la diminuzione di temperatura il mosto diventa più denso e meno fluido, quindi più difficilmente separabile dalla parte solida. Per una più efficace azione, il primo filtrato (più torbido) viene riportato delicatamente nel tino filtro per sottostare a una ulteriore filtrazione. Solitamente per sistemi da 25-30 litri, il filtrato diventa limpido dopo 4-5 litri, se il tino filtro non viene “disturbato” con inopportuni spostamenti.
Figura 4.7 - Inizio della fase di ricircolo e filtrazione, utilizzando una pentola con rubinetto e “bazooka” come tino di ammostamento e di filtraggio.
Risciacquo - sparging Estratto il primo mosto, rimane imprigionata nelle trebbie una notevole quantità di zuccheri. Per recuperarli e quindi aumentare l’efficienza del sistema di birrificazione, i birrai sono soliti aggiungere acqua alle trebbie, recuperando nuovo mosto attraverso ulteriori fasi di filtrazione. Questa seconda fase viene chiamata risciacquo o sparging. L’acqua aggiunta deve essere ovviamente calda per facilitare l’estrazione degli zuccheri ancora presenti, ma la temperatura non deve essere eccessiva per scongiurare il già citato rischio di estrazione di sostanze tanniniche. Un buon compromesso è rappresentato dal livello dei 78-80 °C. È poi importante considerare il fatto che, durante il risciacquo, viene tolto dall’impasto mosto con pH di circa 5,4 – 5,6 e aggiunta acqua con pH di circa 7: il livello complessivo di acidità dell’impasto rischia quindi di scendere ed è consigliabile, per i motivi già sopra citati, intervenire o quanto meno monitorare il mosto che esce dal rubinetto: se il pH di questo sale sopra il livello 6, è conveniente interrompere la fase di risciacquo. Per evitare possibili problemi si ritiene comunque consigliabile acidificare l’acqua di risciacquo con acido citrico o
lattico (mezzo cucchiaino da tè, o anche meno, per 10 litri). Ma quanta acqua utilizzare in questa fase e quando interrompere il recupero di mosto? La risposta non è univoca perché molto dipende da diversi fattori, come l’efficacia del sistema di filtrazione, i particolari di ricetta ecc. A grandi linee, si può dire che un risciacquo richiede circa 3-4 litri d’acqua per kg di malto in ricetta, ma utilizzando un programma informatico per la gestione delle ricette è possibile essere più precisi. Con un approccio più pratico, si può affermare che è opportuno aggiungere acqua ed estrarre liquido zuccherino sino a quando la gravità del mosto non sia inferiore a circa 1010 (testata con campione raffreddato a temperatura ambiente): ciò testimonierebbe che rimangono pochi zuccheri da estrarre dall’impasto o, nella peggiore delle ipotesi, che la filtrazione a un certo punto sia diventata poco efficiente, magari a causa della creazione di “percorsi preferenziali” da parte dell’acqua di risciacquo. In questo caso ci dovremmo comunque rassegnare a interrompere il processo e ad accettare una minore efficienza del sistema: per le cotte successive sarà opportuno riverificare metodologie e geometrie del tino di filtrazione. In certi casi, ad esempio per birre ad alta gradazione, il metodo sopra descritto può diventare poco pratico: infatti, usando sempre le stesse quantità d’acqua - a prescindere dal tipo di birra da produrre - si ricaverà un mosto sempre con la medesima diluizione e, in caso di birre forti, questo richiederebbe una bollitura molto prolungata per ottenere un mosto della gradazione zuccherina desiderata. Un approccio più pratico è quello di calcolare il mosto da ottenere prima della bollitura - tenendo conto dell’evaporazione – e interrompere il risciacquo al momento in cui si raggiunge la quantità desiderata di mosto: ad esempio, volendo produrre 20 litri di birra, ci si fermerà dopo aver raccolto circa 24-25 litri di mosto. Nel caso di birre di gradazione medio-alta o alta (sopra i 1055- 1060 OG), le condizioni sopra esposte (OG non troppo bassa e pH non troppo alto del mosto raccolto) sono in genere automaticamente verificate; nel dubbio si consiglia comunque di tenerle sotto osservazione. Utilizzando questo metodo – come pure quello di terminare lo sparge quando il mosto spillato scende sotto certi valori di densità – non è strettamente necessario conoscere a priori la quantità d’acqua da utilizzare; può comunque essere utile farne una stima approssimativa, per regolarsi con l’acquisto, e/o l’eventuale trattamento. Per farlo basta tener presente che per ogni kg di grani si perdono da 0,8 a 1 l di mosto, che va a inzuppare le trebbie, e tenere in considerazione la quantità di mosto lasciata sul fondo del tino al di sotto del rubinetto. Facciamo un esempio: 20 litri da produrre con 6 kg di grani; 24-25 litri in bollitura + 5,5 litri persi nelle trebbie + 1 litro perso sul fondo = 30 litri di acqua totale; Supponendo di utilizzare 16,5 litri di acqua per l’ammostamento, possiamo quindi stimare che saranno necessari 13-14 litri per il risciacquo. Dal punto di vista pratico, esistono vari metodi per realizzare la fase di risciacquo, ma sostanzialmente si possono suddividere in due approcci chiamati fly e batch. Fly sparge
Nel sistema di “risciacquo volante” il livello del liquido nel tino di filtrazione viene sostanzialmente mantenuto costante: contemporaneamente all’estrazione del mosto dal rubinetto di scarico, viene immessa nel tino di filtrazione acqua calda per mezzo di una doccetta che delicatamente, senza disturbare il letto di trebbie, aggiunge liquido mantenendo inalterato il volume complessivo dell’impasto. La logica del processo risiede nel fatto che liquidi con differente densità non si miscelano: avviene quindi una stratificazione del mosto con la parte più densa e zuccherina nella parte bassa del tino, la prima a essere scaricata dal rubinetto. L’acqua di nuova immissione, scendendo verso lo scarico, estrae ulteriori zuccheri dalle trebbie. Un potenziale elemento negativo del fly sparge, soprattutto se associato a un sistema di filtrazione a collettore/bazooka, è dato dall’eventualità che vengano a crearsi delle “canalizzazioni” preferenziali che favoriscono il veloce passaggio di acqua di risciacquo attraverso poche vie, evitando così che le trebbie vengano efficacemente lavate dagli zuccheri residui. Sarebbe quindi preferibile associare attrezzature con collettore/bazooka alla tecnica del batch sparge, sotto illustrata. Il fly sparge è comunque il sistema che solitamente viene utilizzato dalle birrerie professionali; se, “ingegneristicamente” parlando, è l’approccio più logico, esso ha in sé alcune difficoltà di ordine pratico e la necessità di specifica attrezzatura, come l’esigenza di posizionare il tank dell’acqua calda a un livello più alto rispetto al tino di filtrazione (cosa che potrebbe presentare anche aspetti pericolosi, oppure risolvere con una pompa ad hoc), installare la doccetta e soprattutto coordinare i due flussi di entrata e di uscita dal tino di filtrazione. Batch sparge Probabilmente più facile da mettere in opera, il batch sparge (risciacquo a lotti) si effettua dopo il completamento della fase di run-off, ossia lo scarico del primo mosto, senza aggiungere nuova acqua. Completata la fase, il rubinetto di scarico viene chiuso e nuova acqua viene aggiunta in una unica soluzione, rimescolando l’impasto. Si tratta sostanzialmente di ripetere quanto avvenuto nella fase precedente, ossia attendere cinque minuti per il deposito delle parti solide e la ricostituzione del letto di trebbie, riaprire il rubinetto di scarico e riportare nel tino di filtrazione i primi litri di filtrato torbido. Il batch sparge può essere ripetuto anche più volte. Un vantaggio del batch sparge è quello di non risentire di possibili problemi di canalizzazioni: dopo aver rimescolato, il mosto si trova tutto alla medesima densità e, in pratica, non vi è un vero risciacquo “meccanico”, ma una semplice raccolta del mosto – raccolta che può essere effettuata a velocità maggiore rispetto allo sparging “continuo”. Per questo motivo, la tecnica è spesso utilizzata nel caso di attrezzature (come il bazooka) che risultano meno efficienti se usate con la tecnica tradizionale. Inoltre, dato che non vi è una progressiva e continua diluizione del mosto, i problemi sopra descritti relativi a bassa densità a elevato pH del mosto spillato sono minori e più facilmente controllabili. Una possibile controindicazione del batch sparge deriva dal fatto che le trebbie bagnate dal mosto, alla fine della prima “raccolta”, rimangono esposte per un breve periodo all’aria, prima che sia effettuata la successiva aggiunta di acqua: questo avrebbe conseguenze negative sulla qualità del mosto;2 l’eventualità non ha comunque riscontri pratici certi in campo homebrewing. Una
variante dell’approccio di batch sparge consiste nell’effettuare due-tre aggiunte di acqua calda prima del termine della fase di run-off, ossia quando il livello del liquido nel tino di filtrazione raggiunge quello del letto di trebbie. Nuova acqua (circa due litri per kg di malto) deve essere inserita delicatamente, con l’aiuto di una schiumarola, in modo tale che questa possa “rompere” il getto del liquido e mantenere intatte e indisturbate le trebbie. Questa variante riunisce alcuni dei punti positivi dei due sistemi precedentemente illustrati: semplicità di attrezzatura, sfruttamento del concetto della stratificazione dei liquidi di differente densità e diminuzione del tempo necessario alla filtrazione, visto che non è necessario attendere la ricostituzione del letto di trebbie, né effettuare ulteriori ricicli di mosto torbido. Tuttavia, poiché dopo le aggiunte di acqua non vengono rimescolate le trebbie, si perdono alcuni dei vantaggi del b.s. sopra elencati.
No-sparge In talune occasioni il birraio sceglie di non effettuare la fase di risciacquo (no-sparge), ad esempio perché sta realizzando un mosto dalla concentrazione zuccherina molto elevata e quindi una birra potenzialmente molto alcolica, come ad esempio un barley wine. In questo caso il recupero di ulteriori zuccheri dalle trebbie sarebbe controbilanciato dall’aggiunta di una quantità eccessiva di acqua che non permetterebbe di raggiungere la densità zuccherina richiesta dalla ricetta. Ma esiste anche una scuola di pensiero che supporta la scelta di non effettuare risciacquo per altri motivi: minore attrezzatura (non serve una seconda pentola per scaldare l’acqua di risciacquo), minore tempo da dedicare al processo (un’ora circa risparmiata), migliore qualità della birra finita. Su quest’ultimo motivo, invero, chi scrive ha qualche dubbio: se è vero che una fase di risciacquo mal condotta può comportare rischi di estrazione di tannini e polifenoli dalle trebbie, è sufficiente porre un minimo di attenzione nel processo per scongiurare tali rischi. D’altro canto il sistema nosparge è, come detto, sicuramente meno efficiente e la ricetta deve essere modificata aumentando i malti di circa il 30-50%. Anche il rapporto iniziale acqua/malto dovrebbe essere modificato di conseguenza, a seconda della ricetta e della concentrazione zuccherina ricercata. Alternativamente, il birraio può scegliere di effettuare il risciacquo ma di non miscelare il secondo con il primo filtrato, portando avanti la contemporanea realizzazione di due birre differenti, con un grain bill (tipologia di fermentabili) uguale ma ovviamente dal differente grado zuccherino e alcolico. Questa scelta, pur impegnativa perché si duplicano tutte le operazioni (bollitura, fermentazione…) dalla fase di risciacquo, può essere un compromesso per la realizzazione di una birra molto zuccherina/alcolica e di una maggiore efficienza nell’utilizzo dei malti. Curiosamente questa era proprio l ´impostazione che storicamente viene riportata come prassi nei conventi in cui la birrificazione era pratica consolidata: la realizzazione di una birra di pregio, detta prima melior, con il primo filtrato e di una successiva “di recupero” detta secunda per il consumo giornaliero dei monaci. E talvolta anche di una tertia da dare ai poveri!
4.3 La tecnica da estratto e grani speciali La tecnica da estratto Con il nome “Estratto+Grani” (più esattamente sarebbe “Estratto+Grani+Luppolo”), a volte abbreviato in E+G, si indica una tecnica di produzione della birra semplificata rispetto al normale procedimento all grain. La caratteristica principale è l’uso di estratto di malto, un prodotto che si ricava per concentrazione dal mosto ottenuto dalla saccarificazione di malto d’orzo (o altri cereali). In pratica il produttore di estratto effettua un ammostamento a partire dal malto in grani, convertendo tutti gli amidi in zuccheri (come illustrato nel paragrafo 4.2) e poi concentra il prodotto rimuovendo il contenuto di acqua in gran parte o totalmente, ottenendo rispettivamente estratto liquido (detto anche sciroppo) e secco. L’uso di estratto evita quindi al piccolo produttore di dover effettuare il procedimento stesso di ammostamento e relativo filtraggio delle trebbie: è sufficiente diluire il prodotto (“ricostituendo” quindi un mosto con opportuno contenuto zuccherino), effettuare la bollitura con il luppolo per amaricare e procedere con la fermentazione. I tempi di preparazione sono all’incirca dimezzati rispetto alla tecnica all grain. Sono anche disponibili in commercio i cosiddetti “estratti luppolati” (detti anche KIT). Nel caso di questi prodotti, prima di effettuare la concentrazione in estratto, il mosto viene anche amaricato; il prodotto, quindi, in linea generale non richiede né bollitura né impiego di luppolo e il procedimento di preparazione è ridotto all’osso, poiché si riassume nella cura della fase di fermentazione e nell’imbottigliamento. Suggerimenti e informazioni relativi all’uso dei KIT sono dati nel capitolo successivo.
Limiti e vantaggi Rispetto alla tecnica tradizionale, quella E+G presenta alcuni vantaggi in termini di praticità: il tempo di preparazione è decisamente più ridotto; l’attrezzatura è più semplice, dato che non richiede l’equipaggiamento necessario per l’ammostamento e il risciacquo delle trebbie; anche l’attrezzatura per la bollitura (pentola, fornello, chiller), pur essendo richiesta, può essere più semplice e meno dispendiosa, specie se si effettua una bollitura “concentrata” (vedi paragrafo sulla quantità di acqua). La tecnica presenta inoltre un miglioramento rispetto all’uso di kit in termini di versatilità. Infatti è possibile personalizzare la propria birra, principalmente: scegliendo quantità e qualità del luppolo; usando i cosiddetti “grani speciali” (vedi paragrafi successivi), in aggiunta all’estratto. In termini di facilità di esecuzione e semplicità di attrezzature, l’E+G è solo di poco inferiore al kit (nel senso di meno facile). Esistono comunque dei limiti per questa tecnica rispetto all’all grain:
qualità: anche se esistono ottimi estratti di malto, il processo di concentrazione/diluizione non è del tutto indolore e può portare a trasformazioni delle caratteristiche organolettiche del prodotto. Per fare un paragone, è difficile trovare un caffè solubile o un succo di frutta da concentrato che siano qualitativamente alla pari del prodotto “fresco”; in particolare, il processo di produzione provoca un certo grado di modifica del colore, per cui è difficile trovare estratti che permettano la produzione di birre molto chiare; in termini di versatilità, rimane difficile produrre alcuni stili di birra fortemente caratterizzati dall’uso di un malto di base particolare (ad es. Vienna, Monaco), a meno di non procurarsi il corrispondente estratto, di limitata reperibilità. Sono comunque sempre possibili buone approssimazioni con opportuni accorgimenti nella ricetta.
I grani speciali L’aspetto più interessante di questa tecnica è la possibilità di caratterizzare la ricetta della birra anche con l’uso dei cosiddetti “grani speciali”. In generale, infatti, il malto in grani richiede per il suo impiego la più complessa tecnica di infusione (mash) e relativo risciacquo (sparge), descritta nei capitoli precedenti. Esistono però tipi di grani che non richiedono questo tipo di trattamento e quindi ben si adattano a chi usa la tecnica semplificata mediante estratto. Questi grani, comunque, non sostituiscono l’estratto di malto, ma vanno usati in aggiunta (in genere in quantità limitata) allo scopo di contribuire a colore, aromi e sapori e, in generale, alle caratteristiche organolettiche e qualitative del prodotto; danno anche un contributo al contenuto zuccherino del mosto (e, di conseguenza, al grado alcolico della birra), ma in misura limitata: la maggior parte degli zuccheri è sempre fornita dall’estratto di malto. La caratteristica di questi malti, detti in genere “caramellati”, è di avere già subito una trasformazione della loro componente amidacea in zuccheri. Come descritto nel paragrafo 2.1, la produzione di questi tipi di malto prevede un trattamento del grano non disseccato (quindi contenente acqua) a una temperatura intorno ai 60-70 °C. Durante questa fase avviene una sorta di “micro-ammostamento” (come se ogni chicco di malto fosse un piccolo tino di infusione) con la relativa trasformazione di amidi in zuccheri. Per impiegare questo genere di malti è quindi sufficiente far disciogliere in acqua questi zuccheri e tutte le sostanze aromatiche presenti nel malto. Il processo di produzione di questi malti, oltre a quanto sopra, comporta altre caratteristiche di rilievo: tutti questi malti danno in varia misura un gusto un po’ caramellato alla birra; contribuiscono al colore (con effetto da neutro ad ambrato scuro); influenzano corpo e dolcezza della birra, visto che le reazioni di caramellizzazione danno origine a una percentuale di zuccheri non fermentabili (in genere!) maggiore che non nel caso di malto non caramellato e sottoposto a normale ammostamento. Un altro gruppo di malti utilizzabili è quello dei malti tostati (chocolate, black), nonostante, nel loro caso, il contenuto di amido non sia stato trasformato in zucchero; tuttavia, dato che
vengono solitamente utilizzati in quantità moderata, i potenziali problemi dati dall’amido (principalmente torbidità permanente) sono piuttosto ridotti e, anche nel caso di quantità più consistenti, la possibile torbidità sarebbe nascosta dal colore scuro o nero della birra stessa. Il fatto che il contributo zuccherino di questi malti sia trascurabile non è altresì un problema, visto che il loro impiego è finalizzato all’estrazione di aroma e gusto tostato e al colore della birra. Le stesse considerazioni sono valide anche per l’orzo non maltato e tostato. L’infusione dei grani (steeping) La produzione di birra con la tecnica E+G comincia appunto dai grani speciali sopra descritti. Si inizia con il portare la quantità di acqua prescelta alla temperatura desiderata, utilizzando in genere una normale pentola. La temperatura consigliata è tra 70 °C e 75 °C. Non è assolutamente importante che la temperatura raggiunga un valore stabile e accurato, come per la produzione all grain. In questo caso è solo necessario far disciogliere gli zuccheri e le sostanze aromatiche presenti nei grani e questo può avvenire anche a temperature decisamente più basse di quelle indicate, sia pure molto più lentamente. L’unica avvertenza è di non superare i 77-78 °C, per evitare l’estrazione di sostanze indesiderate (tannini). Una temperatura fra i 70 °C e i 75 °C è quindi un buon compromesso pratico. Raggiunta la temperatura, i grani speciali macinati vanno immessi nella pentola. È piuttosto pratico utilizzare dei sacchetti di mussola o materiale simile (grain bag) per contenere i grani da immergere nell’acqua – in tal modo sarà semplice rimuovere i grani stessi alla fine di questa fase. I grani vanno lasciati in immersione per circa 30-40 minuti (di più non è necessario); non è fondamentale mantenere una temperatura costante, si può partire dalla temperatura consigliata e accettare che scenda di qualche grado durante questa fase. Nel caso, è comunque possibile riaccendere il fuoco per breve tempo, prestando molta attenzione a non superare i 75 °C. Passati 30-40 minuti, rimuovere i sacchetti contenenti i grani, lasciandoli sgocciolare nella pentola. Si possono anche schiacciare con un mestolo, ma è meglio non strizzarli troppo - piuttosto si possono lasciar sgocciolare ancora su un piatto o terrina per poi aggiungere il liquido alla pentola. Se non si usano grain bag, sarà necessario servirsi di un semplice sistema di filtro (colapasta) per rimuovere i grani recuperando tutto il liquido. Una volta rimossi i grani, si può accendere il fuoco e portare il liquido a ebollizione. Raggiunta l’ebollizione, è il momento di aggiungere l’estratto di malto. L’unica avvertenza (valida ogni volta che si aggiunge al mosto in bollitura un ingrediente zuccherino) è di spegnere il fuoco e di mescolare mentre si versa l’estratto per evitare che questo si attacchi sul fondo e si caramellizzi.
Note sulla bollitura Per la bollitura e le relative aggiunte di luppolo e altri ingredienti, si veda il capitolo relativo più avanti: la procedura è essenzialmente identica al procedimento all grain. Rispetto a essa, una possibile variante può essere quella del tempo di bollitura: l’estratto di malto, infatti, dà in genere alla birra un colore leggermente più scuro rispetto a quello che si può
ottenere usando malti in grani, rendendo spesso difficile la produzione di birre chiare. Visto che proprio durante la bollitura il mosto tende a scurirsi, si può ovviare in parte al problema riducendo tempo e intensità di bollitura rispetto allo “standard” consigliato per la produzione all grain. La formazione di coaguli proteici (uno degli scopi della bollitura, come si vedrà in seguito) è in genere minore negli estratti e avviene di solito nei primi 10-20 minuti, permettendo da questo punto di vista di accorciare i tempi; in questo caso, però, viene ridotto il tempo di bollitura del luppolo da amaro e quindi l’estrazione di sostanze amaricanti. Basterà compensare questo fatto aumentando la quantità di luppolo. In pratica, si può consigliare per birre chiare una bollitura limitata a 30 o 40 minuti, aumentando il luppolo rispettivamente del 70% e del 30% circa.
L’acqua: quantità e qualità Uno dei possibili vantaggi di questa tecnica è l’impiego di un’attrezzatura meno dispendiosa rispetto all’all grain, anche per le fasi di bollitura. Infatti, poiché si parte da un prodotto concentrato, una scelta possibile è quella di diluire l’estratto solo parzialmente (ad es. in 8-10 litri di acqua quando la quantità finale desiderata sia 20 litri), effettuare lo steeping e la bollitura con questa quantità ridotta e diluire solo al momento di iniziare la fermentazione. Questo permette di utilizzare una pentola di volume più ridotto e un fornello meno potente rispetto a quanto richiesto dall’all grain e di fare eventualmente a meno di un sistema di raffreddamento. Ci sono, però, due possibili problemi se si procede in questo modo: resa del luppolo: l’estrazione di sostanze amare decresce all’aumentare della densità del mosto: tanto più questo è concentrato (usando meno acqua in questa fase), tanto minore è l’amaro che si estrae; qualità: l’idea è che un prodotto concentrato sia in generale inferiore a quello originale (diluito) e che quindi sia meglio invece “ricostituire” il prodotto originale quanto prima nel corso della preparazione. Per quanto riguarda il primo punto, è facilmente risolvibile aumentando opportunamente la quantità di luppolo! Per capire come varia l’estrazione di alfa acidi (cioè di sostanze “amaricanti”) del luppolo in funzione della densità del mosto – e quindi come variare la quantità di luppolo – si può far riferimento alle formule presenti in Appendice. Se si sta seguendo una ricetta E+G, è necessario anzitutto capire se essa sia stata pensata per una bollitura totale o parziale e, in quest’ultimo caso, quale sia la concentrazione del mosto; se si aumenta o diminuisce la concentrazione, si deve di conseguenza aumentare o diminuire la quantità di luppolo. Queste si possono determinare calcolando i rispettivi fattori di correzione (vedi paragrafo 2.5) o immettendo i dati in un software come Promash. In pratica, si possono omettere i calcoli e tener conto di aumentare il luppolo “da amaro” di circa il 40-50% se si dimezzano i litri (o diminuirlo del 30-35% se, viceversa, si raddoppia l’acqua in bollitura), con variazioni minori per situazioni intermedie. Per quanto concerne le differenze qualitative tra bolliture parziali o totali, chi scrive non ha verificato sostanziali
differenze, né ha trovato riferimenti teorici e pratici che confermino risultati organolettici diversi fra i due approcci in tutte le situazioni, salvo che per un aspetto: nel caso di bolliture con poca acqua e mosto molto concentrato, gli effetti di caramellizzazione e di scurimento (detti “reazioni di Maillard”) avvengono in misura maggiore, in quanto essi aumentano con la concentrazione di zuccheri. In pratica, il rischio è quello di avere una birra più scura del previsto e con aromi e gusto più caramellati. Se queste caratteristiche sono indesiderate, si possono attenuare con un tempo di bollitura più breve e una intensità di fiamma più moderata, ma si dovrà anche prevedere di usare più acqua al fine di ottenere una minore concentrazione. In conclusione: una bollitura totale è la scelta più sicura dal punto di vista qualitativo ed è consigliabile se l’attrezzatura (pentola, fornello, chiller) lo permette, ma non è assolutamente indispensabile; in genere si può scendere sino al 50% di acqua utilizzata senza particolari problemi. Un ulteriore vantaggio pratico di una bollitura parziale è quello di poter utilizzare l’acqua da aggiungere nel fermentatore (eventualmente raffreddata in frigo o freezer) per velocizzare il raffreddamento. L’esatta quantità di acqua e il calcolo preciso delle perdite per evaporazioni e assorbimento da parte dei grani e del luppolo non rivestono particolare importanza: infatti, anche nel caso di bollitura più diluita, all’atto pratico la cosa più semplice è utilizzare una quantità di acqua leggermente minore per poi aggiungere nel fermentatore acqua fino a raggiungere il livello desiderato. Le caratteristiche dell’acqua sono molto importanti nella preparazione all grain, ma un po’ meno se si usano gli estratti. In questo caso è sufficiente che l’acqua non abbia evidenti difetti organolettici e che sia priva di ogni traccia di cloro.
Varianti al procedimento Esistono diverse piccole variazioni possibili rispetto al procedimento enunciato. Una di queste è la seguente: si divide l’acqua da impiegare in due pentole. In una (che può essere di dimensioni ridotte) si mettono in infusione i grani speciali, alla temperatura già indicata (70 °C-75 °C), in una quantità di acqua ridotta. Indicativamente si possono usare 400-500 ml di acqua per ogni 100 grammi di grani speciali. Nel frattempo si inizia a scaldare il resto dell’acqua nell’altra pentola. Come nella tecnica “standard”, passati 30-40 minuti, si rimuovono i grani speciali e si unisce il liquido all’acqua dell’altra pentola (che sarà arrivata a bollire) e si procede con la bollitura. Il primo motivo per cui si consiglia questa variante riguarda il livello di pH (l’acidità) che viene raggiunto durante l’infusione. È un fattore che ha maggiore importanza per la produzione all grain, ma che, secondo certi autori,1 non va trascurato anche in questo caso. Un pH non abbastanza basso (troppo poco acido, o addirittura neutro) potrebbe facilitare l’estrazione di sostanze indesiderate (tannini) dai grani. Nella produzione all grain, fortunatamente, la presenza stessa di grani con un certo livello di tostatura provoca alcune reazioni chimiche che abbassano automaticamente il pH in maniera sufficiente. Nella tecnica da estratto+grani, questo non avviene perché in genere la quantità di grani è troppo bassa
(poche centinaia di grammi di grani in diversi litri di acqua). Se, invece, l’infusione avviene in poca acqua, la concentrazione è sufficiente a far abbassare il pH. L’altro vantaggio è di ordine pratico: risparmio di tempo. Scaldare diversi litri d’acqua prima a 70 °C e poi (dopo l’infusione) a temperatura di ebollizione può richiedere parecchio tempo. Con questa tecnica si sfrutta il “tempo morto” dell’infusione per scaldare con tutta calma nel pentolone la quantità maggiore di acqua fino all’ebollizione. Lo svantaggio di questa tecnica consiste in una minor resa zuccherina: infatti i grani assorbono sempre una certa quantità di liquido; dato che essi sono infusi in una minor quantità d’acqua, alla fine questo liquido (sia quello recuperato che quello “perso”) è più ricco di zuccheri. Un’altra variante, consigliata soprattutto per la produzione di birre di colore chiaro, è quella – dopo l’infusione – di effettuare la bollitura e luppolatura solo con una parte minore dell’estratto, ad es. il 20%, aggiungendo il restante 80% solo durante gli ultimi minuti della bollitura, evitando così la caramellizzazione della maggior parte dell’estratto impiegato; questo in considerazione del fatto che gli estratti per homebrewing in realtà non necessitano di per sé di una prolungata bollitura. Quantità anche piccole di cloro, infatti, si possono legare con alcuni composti del luppolo dando luogo alla formazione di clorofenoli, dallo sgradevole aroma e dal gusto medicinale. La durezza e la composizione chimica non hanno grande importanza, anche se in genere è bene orientarsi verso acque dal residuo fisso non eccessivo.
Risultati qualitativi A parte ogni altra considerazione (praticità, flessibilità, soddisfazione), ci si può chiedere se le birre prodotte con la tecnica E+G siano o meno di qualità inferiore a quelle all grain. Supponendo (anche se non è del tutto scontato) che un estratto concentrato sia in qualche modo “inferiore” all’ingrediente originale (mosto da malto in grani), la risposta dipende dal tipo di birra: infatti si va a sostituire solo una delle componenti (per quanto molto importante) e l’effetto dipende anche dall’importanza che hanno le altre componenti (lievito, luppolo, malti speciali) nel profilo della birra. La differenza sarà quindi minore nelle birre molto caratterizzate da: fermentazione ricca di aromi complessi (quindi meglio le ale rispetto alle birre a bassa fermentazione); elevata luppolatura e grado di amaro; presenza di grani speciali, caramellati, tostati; alta gradazione (e quindi corpo, alcol ecc.). Si possono quindi produrre buone bitter ale (alta fermentazione e buona luppolatura), anche se con lievi differenze nel “background” del malto rispetto alle all grain; stout e barleywine (tre fattori su quattro fra quelli sopra elencati) possono rivaleggiare con le versioni realizzate dai grani; le imperial stout, caratterizzate da tutti i fattori elencati, sembrano infine la scelta ideale per una ottima E+G. All’estremo opposto, una hell maltata, delicata e non molto luppolata, potrebbe deludere se
prodotta da estratto.
4.4 La bollitura del mosto Funzioni della bollitura La bollitura è una fase importante del processo produttivo. Le sue funzioni (e i suoi effetti) sono: estrazione delle sostanze aromatiche e amare dal luppolo, che viene inserito in questa fase e quindi bollito insieme al mosto; formazioni di coaguli di proteine e altri elementi, la cui rimozione influisce sulla trasparenza e stabilità della birra; sterilizzazione del mosto; formazione ed eliminazione di alcuni composti volatili che altrimenti potrebbero dare caratteristiche spiacevoli al gusto e all’aroma della birra; concentrazione del mosto stesso a causa dell’evaporazione; caramellizzazione più o meno accentuata del mosto e relativo aumento della sua colorazione. Per i punti da 1 a 4 si può parlare di funzioni, essendo fenomeni positivi o addirittura essenziali per la preparazione della birra; gli ultimi due punti (in particolare l’ultimo) si possono considerare come effetti positivi, o negativi, a seconda del tipo di birra. Amaricatura La funzione più nota della bollitura è quella della amaricatura con il luppolo, o “luppolatura”. È in questa fase, infatti, che viene inserito il luppolo e, grazie alla bollitura, ne vengono estratte le sostanze che determinano il grado di amaro, oltre a quelle che contribuiscono a gusto, aroma, stabilità della schiuma e proprietà di conservazione. Responsabili dell’amaro sono i cosiddetti alfa acidi, difficilmente solubili in acqua o nel mosto, i quali, proprio grazie alla bollitura, vengono isomerizzati. In questa forma di iso-alfa-acidi essi sono solubili nel mosto. La bollitura, quindi, è essenziale perché al tempo stesso provvede alla isomerizzazione e al discioglimento degli acidi isomerizzati nel mosto stesso. Non è comunque possibile disciogliere nel mosto tutti gli alfa acidi presenti nel luppolo immesso in bollitura, ma solo una percentuale di essi. Questa percentuale, detta “utilizzazione”, dipende da vari fattori, il più importante dei quali è il tempo per il quale il luppolo viene bollito: al crescere del tempo, cresce l’utilizzazione. Un altro fattore che influenza il processo è la densità del mosto in bollitura: quanto più questa è maggiore, tanto più diminuisce l’utilizzazione (per approfondimenti riguardo a questi argomenti vedi il paragrafo 2.2 sul luppolo). Per quanto riguarda le componenti aromatiche, descritte nel paragrafo 2.2, la situazione è per certi versi opposta a quella degli alfa acidi, infatti non è necessaria una bollitura vivace: l’estrazione avviene in breve tempo e, anzi, prolungare la bollitura ha l’effetto di disperdere
gli aromi rilasciati dal luppolo. Da questo punto di vista, una bollitura ermetica impedirebbe la dispersione degli aromi, ma questa non è consigliabile per i motivi che vedremo nel seguito. Nella pratica si ovvia con aggiunte di luppolo in tempi diversi, in modo da bollire più a lungo il luppolo destinato a fornire la maggior parte delle sostanze amare e per breve tempo quello utilizzato per rilasciare l’aroma. Il luppolo, se sotto forma di fiori o plugs, può essere semplicemente immesso nel mosto bollente e facilmente filtrato alla fine della bollitura; in alternativa è comodo mettere il luppolo in piccoli sacchetti di tela sottile (detti hop bag) che si potranno facilmente rimuovere a fine bollitura (Figura 4.8). L’impiego di hop bag è possibile sia per luppolo in coni che in pellets.
Figura 4.8 - Uso di hop bag durante la bollitura del mosto.
Lo svantaggio è una minore utilizzazione del luppolo (approssimativamente il 10% in meno). Formazione coaguli La formazione dei coaguli durante la bollitura è un fenomeno importante e abbastanza complesso, non solo per il suo meccanismo, ma anche perché gli effetti di queste sostanze (e quindi la necessità o meno di rimuoverle) non sono ancora del tutto compresi, o per lo meno su alcuni aspetti non vi è un consenso generale degli studiosi. Si tratta per la maggior parte di agglomerati di proteine, che si combinano principalmente con polifenoli (tannini). Questa “aggregazione” avviene principalmente in due diversi momenti della produzione: durante la bollitura (si parla, in questo caso, di “hot break”, traducibile con “formazione a caldo”) e durante il raffreddamento, specie se questo è rapido
(“cold break”, ovvero “formazione a freddo”); i composti che si formano in queste due fasi hanno caratteristiche diverse, in particolare per quanto riguarda la dimensione delle catene di proteine. Questo fenomeno è importante perché la presenza di alcuni composti proteici nella birra può dare luogo a inconvenienti e problemi riguardo alla sua qualità. Il fatto che si formino dei coaguli durante la bollitura è un vantaggio perché questo permette di asportarli. L’eliminazione dell’hot break (cioè degli agglomerati che si formano durante la bollitura) è solitamente molto consigliata per diversi motivi. Il principale riguarda la torbidità (haze) della birra. Quando la birra si raffredda, le proteine in essa presenti, in particolare quelle coinvolte nell’hot break e non rimosse, non sono più perfettamente solubili nella birra stessa e “compaiano” in sospensione rifrangendo la luce e causandone così una velatura o un’apparenza torbida. Il problema si verificherà principalmente a freddo (chill haze), mentre una forte torbidità di una birra non raffreddata è di solito sintomo di altri problemi. Non è detto che una torbidità a freddo del prodotto finito sia un problema grave, in quanto dipende dal tipo di birra e anche dalla valutazione personale; certamente ha più peso in genere per un prodotto industriale che non per uno artigianale. Va anche detto che la mancata rimozione dell’hot break e la conseguente presenza di questo tipo di composti può dar origine anche ad altri problemi: sembra che questa, infatti, possa influenzare il metabolismo e il comportamento del lievito e quindi la fermentazione, in senso non facilmente predicibile, ma potenzialmente negativo. Nel prodotto finito, oltre ai problemi di torbidità, le proteine possono anche compromettere la stabilità della birra e la sua conservazione nel tempo. Per quanto riguarda il cold break e la necessità della sua rimozione, il discorso può essere diverso: i composti che si coagulano in questa fase sembrano avere un impatto minore sulla torbidità e sulla stabilità della birra. Per quanto riguarda poi l’influenza sul lievito e sulla fermentazione, sembra che possa essere addirittura positiva, fornendo al lievito sostanze nutritive che favoriscono il suo lavoro.3 Insomma, sembrano in generale assodati i benefici dell’eliminazione dell’hot break (anche se forse non al punto da essere una necessità assoluta), mentre la rimozione del cold break è meno importante, se non (forse) persino controproducente. A nostro giudizio non è quindi indispensabile fare eccessivi sforzi in tal senso – a meno di non optare per sistemi di rimozione contemporanea dei due tipi di coaguli. L’ultima considerazione è che i coaguli che non vengono rimossi durante la fase di bollitura continuano a depositarsi anche durante la fermentazione e maturazione: in pratica, anche se non si è stati particolarmente attenti a eliminare questi depositi durante la bollitura e il raffreddamento, si formerà comunque un sedimento sul fondo del fermentatore che si potrà con facilità evitare di trasferire nella birra confezionata. Questo in teoria risolve solo in parte i problemi (il break sarebbe comunque presente durante la fase di fermentazione, con i relativi possibili problemi), ma in pratica permette spesso di raggiungere risultati soddisfacenti.
Figura 4.9 - Rimozione dell’“hot-break” durante la bollitura.
Evaporazione Durante la bollitura avviene una riduzione di volume del mosto (con relativa sua concentrazione) dovuta all’evaporazione. Questo non rappresenta generalmente un problema: al contrario, di solito la quantità raccolta durante lo sparge è superiore a quella finale – per permettere un miglior risciacquo delle trebbie e l’estrazione degli zuccheri – e l’evaporazione permette proprio di raggiungere il volume desiderato. Nel caso in cui, per effetto di un’eccessiva evaporazione, il volume dovesse essere inferiore alle attese, è sempre possibile aggiungere acqua alla fine della bollitura. In certi casi, poi, si fa affidamento proprio sull’evaporazione e sul conseguente aumento di concentrazione zuccherina del mosto se si devono ottenere birre di elevata gradazione: alcune birre molto forti, come certi barley wine e old ale inglesi, sono realizzate grazie a bolliture di diverse ore che giungono anche a dimezzare il volume del mosto raddoppiandone il contenuto zuccherino. Anche se spesso si parla di evaporazione in termini percentuali (ad esempio: 20% di evaporazione in un’ora, con volume finale che è l’80% di quello originale), in realtà, a parità di tutte le condizioni (“fiamma”, dimensioni della pentola ecc.), la quantità di volume che evapora è fissa e non in percentuale al mosto. Ad esempio, se in determinate condizioni in un’ora il mosto perde due litri per evaporazione, passando da 20 a 18 litri, a parità di potenza del fornello si avrebbe sempre la stessa perdita di due litri anche partendo da 6 litri (arrivando in tal caso a 4) e così via. La percentuale di evaporazione è comunque un indice dell’intensità di calore alla quale viene sottoposto il mosto. In condizioni “casalinghe” è
comune avere perdite dell’ordine del 15-20%. Nelle produzioni industriali moderne questa percentuale è invece in genere molto ridotta, circa il 4 o 5%, sia per ragioni di ordine economico, sia per non sottoporre il mosto a eccessiva caramellizzazione e “inscurimento”. Caramellizzazione/colore Durante la bollitura, infatti, avvengono una serie di reazioni – dette “di Maillard” – che provocano una colorazione più scura del mosto e una serie di aromi e sapori che possono andare dal caramellato fino, in casi estremi, al “bruciaticcio” (insomma, quello che avviene normalmente in cucina durante la preparazione del cibo… dire “durante la preparazione dell’arrosto ci sono state reazioni di Maillard molto spinte” suona meglio che non “ho bruciato l’arrosto!”). Come sopra accennato, la loro entità è in relazione al carico termico al quale è sottoposto il mosto in bollitura e, indicativamente, alla percentuale di evaporazione. Nell’esempio del paragrafo precedente, un mosto che in un’ora passa da 4 a 2 litri (perdendo metà del volume) risulterà più scuro e caramellato che non se passasse da 20 a 18 litri. In generale, si cerca di controllare le caratteristiche di colore e gusto a livello di ricetta (impiegando l’opportuna tipologia di malti) e di limitare gli effetti della bollitura in questo senso. Si tratta quindi di mantenere un livello di bollitura vivace ma non eccessivo, verificando che alla fine il livello di evaporazione sia ragionevole. Altre volte, invece, certe caratteristiche della birra sono ottenute tradizionalmente proprio mediante una caramellizzazione più o meno accentuata in bollitura: è il caso di alcune scottish ale, che risultano in tal modo ambrate e leggermente caramellate pur impiegando malti caramellati e tostati in quantità limitata o nulla. Per ottenere questo effetto senza sobbarcarsi lunghe ore di bollitura, si può dirottare una parte (pochi litri) del mosto in una pentola più piccola e sottoporlo a una bollitura intensa, controllando il grado di caramellizzazione voluto, per poi riunire il liquido al resto del mosto. Sanitizzazione La bollitura, infine, è un metodo molto efficace di sanitizzazione (o sterilizzazione) del mosto stesso. Questo fatto ha anche una importanza storica: in epoca medievale la birra, grazie proprio al fatto che la sua preparazione imponeva una fase di bollitura, era molto più pura batteriologicamente che non la stessa acqua! La cosa da sottolineare dal punto di vista pratico è che prima di questa fase non è richiesta nessuna attenzione particolare alla sanitizzazione di ingredienti e attrezzatura – salvo le più elementari norme igieniche –, mentre dal momento della fine bollitura e del raffreddamento del mosto tutta l’attrezzatura che andrà a contatto con il mosto e la birra andrà opportunamente sanitizzata; per questo si rimanda al capitolo specifico. Basta qui ricordare che si può approfittare della bollitura stessa per sterilizzare elementi di attrezzatura che si useranno da lì a poco, ad esempio un chiller a immersione, un mestolo o un termometro. Composti volatili Un’altra funzione della bollitura è l’eliminazione di alcuni composti che possono conferire
aromi sgradevoli alla birra finita – in particolare il dimetil solfuro, o DMS, da cui derivano aromi più o meno accentuati di cereali e vegetali bolliti (cavolo).
Il DMS Il DMS deriva da un “precursore”, ovvero un composto già presente che durante una fase successiva si trasforma nel composto derivato. Nel caso del DMS il precursore è la S-metilmetionina (SMM), da cui il DMS deriva quando il mosto viene riscaldato. La SMM si forma durante la maltazione e viene ridotta in caso di tostatura del malto; per questo il problema è di entità maggiore nelle birre preparate dai malti più chiari e minimamente tostati. Tradizionalmente nelle lager chiare questo difetto è più tollerato, e secondo alcuni perfettamente accettabile, a patto che non sia eccessivo. Forse questo discorso stilistico deriva dal fatto di “far di necessità virtù” di un difetto difficile da eliminare… Il DMS viene generato quindi durante la bollitura (e, più in genere, nei momenti in cui il mosto è caldo); fortunatamente è la bollitura stessa a facilitarne l’eliminazione per la sua azione “meccanica”, per cui il composto è spinto fuori dal mosto e dalla pentola dai vapori che si producono. Questo può avvenire, però, se la bollitura avviene in un contenitore aperto: per questo è consigliabile bollire senza coperchio, in caso contrario gran parte del DMS verrebbe riassorbito nel mosto invece di essere eliminato. Ne consegue anche che le fasi più rischiose per la generazione e la non-eliminazione del DMS sono quelle in cui il mosto è caldo ma non in ebollizione.
Note pratiche sullo svolgimento della bollitura Fatte le premesse dei paragrafi precedenti, la bollitura nella pratica è un processo abbastanza semplice; basterà tener conto delle varie indicazioni sopra esposte. La durata in genere è compresa tra 60 e 90 minuti, a seconda dell’attrezzatura, di necessità particolari legate al tipo di birra, e anche di abitudini e preferenze. Naturalmente la durata minima è quella prevista nella ricetta per la bollitura del luppolo da amaro; se si desidera una durata maggiore (per esempio, dovendo concentrare un mosto molto diluito da un risciacquo prolungato), in genere si aumenta il tempo di bollitura prima dell’inserimento del primo luppolo (da amaro). Ad esempio, se la ricetta prevede bollitura del luppolo per 60 minuti e si vuole bollire per 75 minuti, si inizierà la bollitura senza luppolo, si inserirà questo dopo 15 minuti e si proseguirà per altri 60. In caso di necessità (per esempio, se ci si accorge che il tasso di evaporazione è troppo basso rispetto a quello preventivato) si può anche prolungare la bollitura dopo l’aggiunta del luppolo: in tal caso vi sarà una maggiore estrazione di alfa acidi – visto che il luppolo viene bollito più a lungo del previsto – ma la differenza non sarà in genere eccessiva, dato che non vi è grande estrazione di sostanze amare oltre i 60 minuti. Prolungare troppo la bollitura dopo l’aggiunta dei luppoli da aroma non è invece consigliabile, visto che comporterebbe la dispersione di buona parte dei loro aromi, vanificandone in parte l’effetto. Una volta raggiunta la bollitura, questa va mantenuta a un livello vivace (per favorire la formazione del break, l’utilizzazione del luppolo e la dispersione del DMS) ma non
esagerato, sia per evitare effetti di eccessiva caramellizzazione sia per non provocare il temuto “boil-over”: il mosto di birra, infatti, può presentare un comportamento simile a quello che si ha bollendo il latte… ma decisamente amplificato visti i litri in gioco! Insomma, può succedere che un mosto in ebollizione apparentemente tranquillo decida di colpo di uscire tutto insieme dalla pentola con effetti che si possono immaginare. Un’altra caratteristica comune con il fenomeno del “pentolino del latte” è la tendenza a manifestarsi negli unici momenti in cui non lo si sta controllando! Insomma, quello che serve è una giusta regolazione della fiamma (o di qualsivoglia sistema di riscaldamento) e un’attenzione per quanto possibile costante alla pentola, organizzando i lavori in modo da non doversi assentare per un periodo prolungato. La tendenza al boil-over può manifestarsi particolarmente durante le aggiunte di luppolo o altri ingredienti – quindi prestare attenzione! Ricordiamo ancora che nelle ricette i tempi di bollitura del luppolo sono riportati a ritroso a partire dalla fine della bollitura stessa. Ad esempio, se una ricetta prevede il luppolo “tipo A” per 60 minuti, il “tipo B” a 15 minuti e il “tipo C” a 5 minuti, questo significa che bisogna inserire per primo il tipo A (ad esempio) alle ore 13.00, alle 13.45 (cioè a 15 minuti dalla fine) si aggiungerà il tipo B (senza ovviamente rimuovere il precedente!), alle 13.55 il luppolo tipo C, e alle 14.00 si spegnerà il fuoco. L’indicazione di luppolo a “0 minuti” (end boil, o finishing hops) significa che esso va aggiunto al momento di spegnere il fuoco e potrà rilasciare il suo aroma durante il periodo di raffreddamento. Per quanto detto a proposito del DMS, la bollitura andrebbe effettuata senza coperchio. Se la potenza del nostro fornello non fosse adeguata a ottenere, in queste condizioni, una bollitura abbastanza vivace, si può lasciare il coperchio parzialmente appoggiato – sorvegliando con attenzione il livello di ebollizione. Durante la bollitura vedremo il formarsi di un sottile strato di schiuma marroncina: si tratta di coaguli di proteine, per l’appunto l’hot break, già menzionato; rimuovere questa schiumetta (ad esempio con un mestolo forato o qualcosa di simile) non dà la certezza di eliminare completamente l’hot break ma è senz’altro utile e opportuno. Quando mancheranno 15 minuti circa alla fine della bollitura, se si prevede di usare un chiller a immersione, è consigliabile immergerlo già nella pentola, in modo da sanitizzarlo (allo stesso scopo si possono inserire, in questa fase, anche altri strumenti da sanitizzare, naturalmente che sopportino i 100 °C!).
Aggiunta di altri ingredienti Alcune ricette prevedono l’aggiunta, durante la bollitura, di altri ingredienti, oltre al luppolo: zuccheri, miele, estratti, erbe, spezie… per capire il momento migliore per inserire questi ingredienti teniamo presenti due considerazioni: può essere necessario che certi ingredienti siano sterilizzati, quindi sottoposti comunque a un tempo minimo di bollitura che può essere di 10 o 15 minuti; un tempo di bollitura superiore può favorire l’estrazione delle sostanze (zuccherine, aromatiche ecc) dell’ingrediente, ma anche la dispersione delle componenti aromatiche più volatili.
Figura 4.10 - Miele, estratti di malto, sciroppi di frutta e spezie sono ingredienti aggiuntivi non indispensabili, ma a volte presenti nella ricetta di alcune birre.
L’aggiunta di miele, ad esempio, si può effettuare a 15 minuti dalla fine se vogliamo sterilizzarlo ma mantenere gran parte del suo aroma; oppure si può aggiungere a inizio bollitura, se vogliamo “nascondere” il suo aroma e siamo interessati solo al suo contributo in termini di zuccheri. Erbe amaricanti possono richiedere un certo tempo di bollitura, ma se aggiungiamo spezie delle quali ci interessa l’aroma è meglio inserirle negli ultimi 10 minuti, come se fossero luppoli da aroma.
Raffreddamento Ci sono quattro ragioni (più o meno importanti) per le quali è auspicabile un rapido raffreddamento del mosto dopo la bollitura; Alcune di esse sono state evidenziate nei capitoli precedenti: il mosto a temperatura di ebollizione è sterile, ma a temperature inferiori può essere suscettibile di infezioni. Come gran parte dei fenomeni chimici, anche quelli relativi alle infezioni sono accelerati dalla temperatura; ne consegue che temperature tra i 50 e i 70 °C sono le più delicate sotto questi aspetti e il mosto deve rimanere in questa fascia di temperatura il meno possibile; un raffreddamento veloce favorisce la formazione e il deposito del cold break (vedi sopra); nel mosto caldo, ma non più bollente, si continua a formare del DMS, che non può più venir allontanato dai vapori della bollitura e quindi rischia di essere assorbito; risparmiare tempo! Dopo una giornata passata tra macinazione, infusioni, risciacqui e bollitura, una lunga ulteriore attesa prima di concludere le operazioni può essere snervante!
Per ottenere un raffreddamento rapido, il semplice metodo di immergere la pentola in un lavello o vasca da bagno piena di acqua fredda è applicabile solo in mancanza di metodi migliori. I metodi e i sistemi di raffreddamento si possono dividere in due categorie: sistemi in cui il liquido di raffreddamento scorre in un tubo/serpentina per raffreddare il mosto; sistemi in cui è il mosto a scorrere in un tubo/serpentina e viene raffreddato (ad esempio da un “controflusso” di acqua fredda). Il primo sistema viene realizzato con l’uso di un immersion chiller (raffreddatore a immersione): esso viene immerso nel mosto, collegato a un rubinetto, e acqua fredda viene fatta scorrere dentro di esso. Il secondo metodo prevede l’uso di un’attrezzatura un po’ più elaborata, ovvero un raffreddatore a controflusso. Si realizza mediante un tubo di rame inserito in uno di plastica: l’acqua fredda scorre nel tubo interno, il mosto nello spazio fra quello interno e quello esterno. Un altro metodo possibile è quello di usare una serpentina semplice (come un immersion chiller), immergerla in acqua gelata o meglio ancora ghiaccio triturato, e farvi scorrere il mosto all’interno. In questo caso, anche se si usa un immersion chiller, il sistema rientra piuttosto nel secondo tipo. Come si può notare, in alcuni casi la fase di raffreddamento coincide con il travaso; descriveremo entrambi nel prossimo paragrafo.
Travaso del mosto e separazione dei residui La modalità con cui si travasa il mosto separandolo dal trub (residui costituiti da coaguli proteici, luppolo e altre sostanze depositate) può variare a seconda del sistema di raffreddamento. Nel caso si usi un raffreddamento con sistema a controflusso, spesso prima di compierlo si effettua un whirlpool (centrifuga) del mosto caldo. Nella sua versione meno tecnologica ma efficace, si tratta di mescolare il mosto con movimento rotatorio fino a innescare una veloce rotazione. Dopo qualche minuto, si formerà al centro un cono di residui proteici e (se non si sono usati gli hop bag) di luppolo. Si può quindi procedere con il travaso del mosto caldo nel sistema a controflusso, “pescando” con rubinetto o sifone dal fondo della pentola ma più verso l’esterno (rimanendo vicini alla parete della stessa). In questo modo si eliminerà solo l’hot break: infatti, essendo il mosto ancora caldo, il cold break non si è ancora potuto formare, cosa che avverrà proprio durante il passaggio nel chiller a controflusso, dove avviene il raffreddamento. A questo punto la scelta sarà fra: rinunciare a eliminare il cold break; raccogliere il mosto in uscita in un contenitore intermedio, lasciar depositare il cold break e travasare nuovamente nel fermentatore; implementare un sistema di filtro per il cold break all’uscita del controflusso.
Un semplice sistema utilizza i residui stessi di luppolo in fiore (recuperati in precedenza) quale filtro: si possono appoggiare su un colino attraverso il quale si dirige il flusso di mosto, o costruire una sorta di “scatola”, un contenitore da riempire di luppolo “usato”, inserito all’uscita del controflusso (hop back). Questo sistema si può usare anche con luppolo “nuovo”, per conferire ulteriore aroma; l’estrazione di sostanze aromatiche, però, è più efficace con mosto caldo, per cui a volte si usa questo sistema a monte del raffreddamento; esso quindi servirà a filtrare principalmente l’hot break, e rende non indispensabile l’uso di un whirlpool. Il whirlpool è meno usato in presenza di raffreddamento a immersione: oltre a essere più difficoltoso a caldo per la presenza della serpentina, il fatto che il raffreddamento si effettui nella pentola fa sì che comunque si possa formare un deposito sul fondo con i coaguli formati a caldo e a freddo ed eventuali residui di luppolo. A questo punto effettuare un whirlpool potrebbe essere poco utile, o addirittura di disturbo al deposito che si è già formato. Anche in questo caso si possono poi usare gli stessi sistemi di blando filtraggio attraverso il luppolo già visti prima, al limite anche un semplice colino riempito in parte con uno strato di luppolo “usato”. Il travaso può avvenire mediante rubinetto, sifone o (ancora più rudimentale) mestolone. Alcuni homebrewer ottengono buoni risultati con un approccio davvero minimale: uso di hop bag (e quindi assenza di residui di luppolo), eliminazione di parte dell’hot break durante la bollitura, raffreddamento a immersione e raccolta del mosto tramite il rubinetto nella pentola (o con sifone) senza whirlpool né filtraggi. Il sedimento che viene trasferito nel fermentatore, in maggior parte cold break – quindi meno problematico – viene poi lasciato depositare nel fermentatore.
4.5 La birra da estratto luppolato (kit) Le birre in kit L’uso dell’estratto di mosto luppolato (o kit, anche se con questo termine si indica a volte l’attrezzatura di base per la produzione) rappresenta il modo più semplice e diffuso per produrre birra in casa e solitamente è quello usato per iniziare. Si tratta in pratica di un mosto concentrato, che, a differenza del normale estratto, risulta già amaricato e aromatizzato con il luppolo; il processo di produzione della birra con questo metodo consiste quindi quasi esclusivamente nella fermentazione. In questo capitolo ci limitiamo ad alcuni cenni sull’uso del kit e a consigli per ottenerne buoni risultati; il resto del procedimento per la produzione (fermentazione, imbottigliamento) non differisce dalla tecnica tradizionale, e quindi viene trattato più avanti. Se il kit garantisce maggior semplicità di uso rispetto alle altre tecniche, il rovescio della medaglia è costituito da una minore versatilità e da un inferiore grado di soddisfazione: la birra è già stata in gran parte formulata e “creata” dal produttore di estratto e la possibilità di personalizzare il risultato è limitata. Per quanto riguarda la qualità della birra prodotta, seguendo alcuni accorgimenti indicati più avanti, il risultato è comunque accettabile. Per certi stili di birra la qualità può rivaleggiare con quella ottenibile con le tecniche più complete, ad esempio nel caso di tipi di birra nei quali le tostature, l’amaro, la gradazione, oppure gli
aromi particolarmente intensi ottenuti durante la fermentazione mettono in secondo piano il contributo del malto di base: stout, barley wine, IPA, belgian strong… In altri casi, invece, la differenza tra usare un “concentrato” rispetto al malto in grani si fa sentire maggiormente, in particolare negli stili di birra in cui la componente fondamentale è il malto di base (hell, pilsen, lager in generale) e nelle birre di grano come blanche e weizen.
Tecnica di produzione È consigliabile preriscaldare la lattina di estratto del kit in acqua calda per 10 minuti, in modo tale da rendere maggiormente fluido il composto. L’estratto di malto è infatti molto viscoso (come e più del miele) se lasciato a temperature sotto i 20 °C, quindi è più complicato travasarlo. Aperta la latta, si versa il contenuto in una pentola con 4-5 litri di acqua calda (avendo cura di recuperare il prodotto rimanente con acqua calda) aggiungendo lo zucchero, se previsto nella nostra “ricetta”. A questo punto solitamente si effettua una breve bollitura (5 minuti); questa operazione non è comunque indispensabile, tanto che alcuni autori suggeriscono di ometterla, limitandosi a disciogliere l’estratto nell’acqua calda.4 C’è anche chi, al contrario, consiglia bolliture più prolungate (fino a un’ora),5 ma questa pratica non è raccomandabile: non solo perché di dubbia utilità, ma anche perché può comportare un’eccessiva caramellizzazione del mosto. È poi necessario raffreddare il mosto il più velocemente possibile, ad esempio nel lavello a bagnomaria (è sufficiente che il mosto diventi tiepido, se poi sarà diluito con acqua fredda) per poi versarlo nel fermentatore, aggiungendo acqua fredda fino a raggiungere la quantità prevista. Procedere poi con la fermentazione come illustrato nei paragrafi successivi.
Zucchero e sua sostituzione I kit in commercio molto spesso prevedono l’aggiunta di notevoli quantità di zucchero. Lo zucchero è fermentabile in genere al 100%, quindi non apporta alcun contributo alla dolcezza e al corpo della birra, anzi: birre con alte percentuali di zucchero (bianco semolato o miele) sono meno dolci e soprattutto meno corpose e gustose di birre “tutto malto”. Lo zucchero va quindi usato con parsimonia, accertandosi che sia stilisticamente coerente con il tipo di birra che si prepara: ad esempio, è del tutto fuori luogo, sia come risultato che come tradizione, nelle birre di stile tedesco; per altri stili è accettabile in moderate quantità e in casi particolari. Un ulteriore potenziale problema per le ricette con alte percentuali (oltre il 25%) di zucchero è il “blocco” della fermentazione: il lievito tende infatti a consumare prima gli zuccheri semplici (zucchero bianco) e poi i più complessi (maltosio). Se possibile, quindi, è consigliabile sostituire lo zucchero con estratto di malto, liquido o secco. La sostituzione con il miele, invece, è solo leggermente migliorativa (sempre che l’aroma di miele sia quello che si vuole ottenere), ma, essendo anch’esso fermentabile quasi al 100%, nulla si risolve per quanto riguarda corpo e bilanciamento della birra. Per quanto riguarda la proporzione con cui sostituire, è da tenere in considerazione che l’estratto liquido ha circa il 20% di acqua (quello secco, invece, consta quasi totalmente di zuccheri) e che in entrambe le versioni l’estratto è fermentabile al 60-65% circa.
Per questo motivo, effettuando la sostituzione non sarà possibile ottenere una birra che abbia sia la stessa concentrazione zuccherina iniziale, sia lo stesso grado alcolico finale (ma questo non rappresenta un problema: in fondo, il nostro scopo è proprio quello di non avere una birra identica a prima!). Possiamo scegliere quale di queste due caratteristiche mantenere. Il consiglio è di realizzare una birra che abbia la stessa concentrazione iniziale di zuccheri (ovvero stessa OG, stesso grado saccarometrico), anche se ne risulterà un contenuto alcolico leggermente minore: in questo modo otterremo una birra più gustosa e corposa, ma senza sbilanciarla troppo rispetto alla formulazione originale, dato che piccole variazioni della quantità di alcol sono meno caratterizzanti che non variazioni sugli zuccheri residui. In questo caso le sostituzioni consigliate risultano: 100 g zucchero da tavola = 105 g estratto di malto secco; 100 g zucchero da tavola = 125 g estratto di malto liquido; 100 g zucchero da tavola = 130 g miele. Nel caso si voglia, invece, ottenere lo stesso grado alcolico della formulazione originale, è necessario tener conto della diversa fermentabilità di estratto e zucchero; si ottengono in tal caso i seguenti valori: 100 g zucchero da tavola = 160 g estratto di malto secco; 100 g zucchero da tavola = 190 g estratto di malto liquido; 100 g zucchero da tavola = 130 g miele. Naturalmente è possibile effettuare la sostituzione con quantità maggiori o minori a seconda che si voglia una birra più o meno forte ed è anche possibile sostituire solo parte dello zucchero. Nel caso non si avesse a disposizione estratto di malto, la semplice eliminazione di tutto lo zucchero porterebbe ad una drastica riduzione della gradazione (già di partenza modesta, nei kit). Ridurre drasticamente l’acqua e quindi la quantità di birra prodotta permetterebbe di mantenere la giusta gradazione anche senza lo zucchero, ma in tal caso aumenterebbe eccessivamente l’amaro. La soluzione migliore (non potendo procurarsi l’estratto di malto) è optare per un compromesso, eliminando 1/3 o metà dello zucchero e producendo circa 3/4 della quantità prevista di birra.
Altri miglioramenti Una possibilità per migliorare la qualità della birra da kit e, in qualche misura, personalizzare il risultato, è l’impiego di un lievito (secco o liquido) diverso da quello presente nella confezione, in genere di qualità inferiore (o, perlomeno, non accertabile!). Un altro consiglio è quello di seguire le procedure indicate non solo in questo capitolo, ma anche in altre parti di questo libro, ad esempio per quanto riguarda fermentazione, imbottigliamento e sanitizzazione. Le istruzioni presenti nei kit sono infatti spesso semplificate per facilitare l’uso da parte del principiante – e anche per non scoraggiare l’acquisto!
4.6 La fermentazione La fermentazione si può ben considerare la fase più importante e significativa della produzione della birra. Un detto tradizionale recita: “Il birraio fa il mosto, ma è il lievito a fare la birra” e questo rende l’idea non solo di come questo processo sia importante, ma anche di come sia sempre stato il più difficile da controllare perfettamente da parte del birraio. Semplificando, la fermentazione è una reazione biochimica (in realtà una sequenza di reazioni) che, a partire dagli zuccheri presenti nel mosto, porta alla formazione di alcol etilico e anidride carbonica. In realtà la catena di reazioni è ben più complessa e i suoi prodotti non si limitano a CO2 e alcol – per fortuna, visto che i composti che ne derivano sono responsabili di tutti gli aromi che vorremmo trovare nella birra (e a volte anche di quelli che non vorremmo trovare!). A grandi linee, il processo si può dividere in tre fasi: quella cosiddetta di preparazione, o lag time, in cui le cellule di lievito utilizzano sostanze presenti nel mosto per preparare la parete cellulare alle funzioni che seguiranno; la respirazione (o fermentazione) aerobica, che coinvolge l’ossigeno e si protrae in genere fino all’esaurimento dell’ossigeno stesso; la fermentazione (detta anche fermentazione anaerobica), che è quella effettivamente responsabile della produzione di alcol. Queste fasi si possono in parte sovrapporre, per cui non è possibile una netta divisione temporale del processo nel suo complesso, ma a livello di singole cellule questa distinzione è effettiva e si riferisce a funzioni differenti del lievito. Da notare l’importanza di una adeguata quantità di ossigeno nelle prime fasi del processo, affinché la fermentazione nel suo complesso si svolga nelle condizioni ottimali.
Fasi della fermentazione – Approfondimento Lag time e respirazione: durante il periodo iniziale, l’attività delle cellule riguarda la preparazione della parete cellulare attraverso la secrezione degli opportuni enzimi. La parete cellulare del lievito deve acquistare le opportune caratteristiche di permeabilità, cioè la capacita di permettere il passaggio all’interno della cellula dei vari tipi di zuccheri che subiranno la fermentazione. Una parete cellulare adeguata richiede la presenza di proteine (sintetizzate a partire dagli aminoacidi) e una quantità sufficiente di steroli, composti che fanno parte della classe dei lipidi, che vengono sintetizzati in presenza di ossigeno. Viene anche immagazzinata energia (che sarà richiesta dal meccanismo di moltiplicazione cellulare) sotto forma di glicogeno, una sostanza di tipo amidaceo. Queste fasi sono importanti per la successiva riproduzione cellulare, che permette la moltiplicazione delle cellule ed è quindi essenziale per la buona riuscita della fermentazione. La presenza di una adeguata quantità di sterolo rappresenta un fattore importante affinché la riproduzione cellulare non sia limitata: a ogni sdoppiamento cellulare, infatti, la percentuale di sterolo si dimezza. In assenza di ossigeno, quindi, senza riuscire a produrre sterolo si possono avere fino a quattro generazioni di cellule, dopodiché la percentuale di sterolo sarebbe troppo bassa per un successivo sdoppiamento. Per questo motivo la percentuale di sterolo, e indirettamente quindi quella di ossigeno nel mosto (che ne permette la sintesi), è un fattore fondamentale per la riproduzione cellulare e, di conseguenza, per una fermentazione vigorosa e completa. Importante è anche la presenza di aminoacidi, che è comunque solitamente garantita in un mosto composto
principalmente di malto (piuttosto che di semplice zucchero). Da notare che, in un mosto ricco di ossigeno e di sostanze “nutritive”, l’effetto positivo non sarà in genere quello di una partenza più rapida della fermentazione, ma piuttosto quello di avere una fermentazione regolare, con minor rischio di “blocchi” e un livello di attenuazione (percentuale di zuccheri fermentati in alcol) adeguato. Prima di passare alla fermentazione alcolica (o “respirazione anaerobica”), contestualmente alla fase di crescita il lievito passa per la fase di “respirazione aerobica”, durante la quale da zuccheri e ossigeno vengono ricavate acqua e anidride carbonica:
In realtà la reazione non è così semplice e avviene attraverso diversi passaggi intermedi. È una reazione molto efficiente dal punto di vista energetico e di conseguenza viene preferita dal lievito fino a quando è presente ossigeno. Fermentazione alcolica: in assenza di ossigeno, ovvero quando questo è stato consumato del tutto, il lievito passa alla fermentazione alcoolica. Vale la pena di riportarne la formula:
Da questa formula possiamo vedere che da una molecola* di zucchero si ricavano due molecole di alcol e due di anidride carbonica. Un dato più pratico si può ottenere considerando i pesi molecolari delle varie componenti: si ricava che da ogni grammo di zucchero fermentato si ottengono circa 0,5 grammi di alcol e 0,5 di anidride carbonica (per l’esattezza rispettivamente 0,49 e 0,51 grammi). La fermentazione non avviene in modo così diretto, ma in alcuni passi: dapprima lo zucchero viene convertito in acido piruvico; successivamente, questo viene ridotto ad acetaldeide, con la contemporanea perdita di uno degli atomi di carbonio insieme all’ossigeno, cioè con il rilascio di CO2. Infine l’acetaldeide viene ridotta ad alcol. * Più propriamente, si tratta di una mole
Aromi prodotti dalla fermentazione La fermentazione è un processo più complesso di quanto sopra descritto e porta alla formazione di diversi “sottoprodotti” oltre ad alcol e anidride carbonica, i quali sono molto importanti dal punto di vista pratico perché responsabili degli aromi (alcuni desiderati, altri considerati difetti) presenti nella birra. I composti forse più importanti per la caratterizzazione aromatica della birra sono gli “esteri”, formati dalla combinazione degli acidi grassi con alcoli (superiori e non). Mentre gli alcoli superiori (vedi box sotto) provocano generalmente sensazioni olfattive e gustative poco gradevoli, solitamente considerate come difetti, buona parte degli esteri hanno invece connotazioni “positive”, in genere associate ai vari aromi fruttati; la loro presenza è quindi gradita per certi stili di birra, mentre per altri costituiscono un elemento meno gradito, se non inaccettabile. Da notare che, per quanto
detto, è possibile che alcoli superiori di impatto sgradevole possano “evolvere” durante la fermentazione o la maturazione in esteri fruttati che possono essere, a seconda dei casi, molto ben accetti. Esistono decine di esteri diversi; il tipo e la quantità di esteri dipendono (oltre a diversi altri fattori) dal ceppo di lievito e ne rappresentano una delle caratteristiche fondamentali. Tre sono comunque gli esteri più importanti: acetato di etile - aroma fruttato con sottofondo solvente; acetato di isoamile - aroma di banana; esanoato di etile - aroma di mela. Il secondo di questi ha una soglia di percezione molto bassa, per cui è facilmente identificabile anche se presente in quantità minimali.
Fattori che influenzano il profilo aromatico Tra i fattori che influenzano positivamente la fermentazione (intesa per ora esclusivamente come produzione di alcol: quindi velocità, andamento regolare, attenuazione finale), il primo è la temperatura: una temperatura maggiore velocizza la fermentazione e un suo rialzo dopo la fase iniziale può favorire una più completa attenuazione degli zuccheri (la temperatura è in generale un fattore che aumenta anche la produzione di qualsiasi “sottoprodotto”). Un altro fattore che incide generalmente su tutti gli aspetti della fermentazione è ovviamente il ceppo di lievito. La quantità di lievito è altrettanto importante, sia quella iniziale (quantità di lievito inseminato, o pitching rate), sia quella a valle della riproduzione, quindi indirettamente la quantità di ossigeno introdotta. Il pitching rate consigliato è dell’ordine di un milione di cellule per millilitro per grado Plato; questo è un livello non sempre facilmente ottenibile a livello di homebrewing. In questo ambito il consiglio in linea generale è di “abbondare”, nel senso che è raro incorrere in problemi di eccessiva quantità di lievito inseminato, mentre è frequente il contrario. Lo stesso discorso vale per l’ossigeno: anche qui, mentre esiste un livello minimo necessario di O2 (che dipende dal ceppo di lievito), non vi è in genere un livello massimo da non superare (anche perché in ogni caso il mosto ha un livello di saturazione oltre il quale, se si cerca di immettere ulteriore ossigeno, questo non verrà trattenuto e verrà dissipato entro breve tempo). Anche qui, l’indicazione è quella di ossigenare il meglio possibile, con le tecniche che verranno descritte nel seguito. Riassumendo, i fattori che influenzano l’attività fermentativa sono: ceppo di lievito; temperatura (e suo rialzo durante la fase intermedia della fermentazione); quantità di lievito inseminata; ossigenazione.
Altri prodotti della fermentazione Oltre agli esteri, altri prodotti importanti sono i composti stessi da cui essi derivano, ovvero
gli “acidi grassi” (che si formano a partire dagli aminoacidi) e soprattutto gli “alcoli superiori” (o fusel alcohols). Questi sono di struttura più complessa rispetto all’alcol etilico; hanno aromi e gusto in genere poco gradevoli (aspri, dolciastri) e in certi casi anche di solvente o medicinale. Uno degli alcoli superiori è invece tollerato, anzi ben accetto, in un tipo di birra (le weizen): si tratta del 4-vinil-guaiacolo, responsabile dell’aroma di “chiodo di garofano”, tipico di questo stile di birra. La produzione di alcoli superiori aumenta con la temperatura e la gradazione zuccherina del mosto e, a parte il caso particolare citato, rappresenta un difetto spiacevole della nostra birra. Fra gli altri sottoprodotti menzioniamo dapprima i “dichetoni”, in particolare quello noto come “diacetile”: questo elemento ha una soglia di percezione piuttosto bassa e viene avvertito come aroma “burroso”, o peggio di burro rancido, ed è quasi sempre considerato un difetto (tranne che a livello moderato per certi tipi di ale). Il diacetile si forma principalmente durante le prime fasi della fermentazione, per via di reazioni che avvengono con l’ossigeno - purtroppo proprio nelle fasi in cui la presenza di O2 è necessaria e inevitabile. La buona notizia è che il lievito stesso è in grado di riassorbire il diacetile durante le fasi successive della fermentazione: in effetti, quando si parla di tipi di lievito più o meno propensi alla formazione di diacetile, in realtà si tratta di ceppi aventi una maggiore o minore capacità di riassorbirlo. Infine l’acetaldeide - che, come abbiamo visto, fa parte della catena “principale” di reazioni che portano alla trasformazione degli zuccheri in alcol - se non è totalmente convertita in alcool e rimane presente anche a livelli molto bassi nel prodotto finito, si può percepire come un aroma di mela verde. Anche la formazione di alcoli superiori e di esteri è incentivata dal tipo di lievito e dalla temperatura alta. Inoltre per entrambi un altro fattore è la gradazione saccarometrica del mosto: più è alta, maggiore è la quantità di alcoli superiori ed esteri: raddoppiando, ad esempio, la gradazione del mosto, questi “sottoprodotti” aumentano in proporzione più che doppia. Una birra prodotta fermentando un mosto concentrato e poi diluita, avrà quindi un contenuto di alcoli superiori e di esteri maggiore di una birra di eguale gradazione finale prodotta tradizionalmente. Un fattore specifico che aumenta la produzione di alcoli superiori è la crescita riproduttiva del lievito: questa è maggiore quando si ha un basso pitching rate e un’elevata ossigenazione.
Per quanto riguarda gli esteri, è stato accertato che in genere il loro sviluppo, al contrario, aumenterebbe in caso di scarsità di ossigeno. È anche vero, però, che una alta ossigenazione porta all’aumento degli alcoli superiori, i quali sono precursori degli esteri, quindi anche in questo caso ci potrebbe essere un aumento degli esteri stessi. In conclusione, l’andamento degli esteri in funzione dell’ossigeno non è facilmente predicibile. Anche l’influenza del pitching rate non è ben chiarita. Riassumendo, i fattori (normalmente da evitare o ridurre) che portano a un aumento degli alcoli superiori sono: temperatura maggiore; alta gradazione del mosto; bassa quantità di lievito inseminato; alta ossigenazione. I fattori che portano a un aumento degli esteri (desiderabili o meno a seconda del tipo di birra) sono: temperatura maggiore; alta gradazione del mosto; bassa ossigenazione (ma in certi casi anche alta). Da quanto visto sopra, giocando su una riduzione dei livelli di ossigeno, il controllo di alcoli superiori ed esteri sarebbe per certi versi possibile, anche se piuttosto difficile. È invece più semplice e consigliabile: effettuare inseminazione e ossigenazione in maniera ottimale (cioè a livelli alti, per quanto possibile) per la “salute” e la regolarità della fermentazione; controllare esteri e alcoli superiori mediante la selezione del ceppo di lievito opportuno e il controllo della temperatura di fermentazione.
Tecniche di ossigenazione Le tecniche utilizzate dagli homebrewer per dissolvere l’ossigeno nel mosto sono diverse: da un semplice scuotimento del contenitore fino all’utilizzo di ossigeno puro attraverso le cosiddette “pietre porose” (Figure 4.11, 4.12, 4.13). Queste sono alcune delle tecniche possibili: travasi da un recipiente all’altro, da circa un metro di altezza; agitazione, ovvero “scuotimento” vigoroso di un fermentatore (tino, damigiana di vetro) mezzo pieno; aria compressa fatta gorgogliare con una pietra da aerazione; ossigeno fatto gorgogliare con una pietra da aerazione.
Figura 4.11 - Rimescolare energicamente è un metodo semplice ma efficace per ossigenare il mosto.
Figura 4.12 - Anche un minipimer può essere utile per ossigenare!
Figura 4.13 - Uso di ossigeno puro con pietra porosa per l’ossigenazione
Anche con le tecniche meno sofisticate è possibile ottenere una discreta ossigenazione, posto che siano effettuate a puntino: ad esempio, non un solo travaso ma almeno 4 o 5, non qualche secondo di blanda rimescolata ma 5 minuti di energico lavoro… Chi scrive ha potuto notare che, dopo aver migliorato la propria tecnica di ossigenazione, non ci sono state particolari differenze sul tempo di inizio della fermentazione, ma si sono potute ottenere sempre attenuazioni piuttosto soddisfacenti (da un minimo di 75% a oltre l’80%) e mediamente superiori a quelle ottenute in precedenza, con fermentazioni vigorose e senza problemi. Analisi delle tecniche di ossigenazione Al di là dell’esperienza empirica, c’è anche chi ha misurato i livelli raggiunti con le varie tecniche (comprese le più semplici e comuni). Le misurazioni sono tratte dal libro di A. Korzonas che, a sua volta, si rifà ad alcuni esperimenti di A.J. De-Lange da lui descritti sulla celebre mailing list HBD.6 I risultati sono in termini di percentuale (%) di saturazione, ovvero la % del massimo ossigeno possibile (livello che varia con la temperatura); si è partiti da acqua deossigenata (14% di O2 per la prima prova, 7% nelle altre). Vediamo con un po’ di sorpresa che la tecnica “rustica” dello scuotimento (come quella dei travasi) è comparabile alla più sofisticata aerazione e leggermente inferiore solo per tempi superiori a cinque minuti (probabilmente per intervenuta stanchezza dello scuotitore!). Anche la tecnica dei travasi può essere accettabile: un solo travaso è insufficiente, ma già con quattro o cinque si ha un risultato equivalente a sei minuti di aerazione.
N. Travasi % Saturazione 0 14 1 49 2 71 3 82 4 91 5 96 Solo l’ossigeno puro è nettamente superiore come risultato (dalla tabella si nota che dopo due minuti si va in sovrasaturazione, ma in breve tempo - se il fermentatore non è chiuso - si scenderà al 100%). In un ulteriore esperimento è stato provato un tubo sifone aeratore (con alcuni forellini che risucchiano aria nel tubo mentre vi passa il mosto, in questo caso l’acqua). La tecnica è usata con buoni risultati pratici da diversi homebrewer, ma nell’esperimento i risultati sono stati poco soddisfacenti: partendo, in questo caso, da acqua non de-ossigenata (22%), si è arrivati solo al 49%.
Tempo (min) 1 2 3 4 5 6 8
% Saturazione Agitazione Aerazione Ossigeno puro 55 40 85 70 62 145 75 75 80 82 82 90 84 92 87 98
Non ci sono dati per l’aerazione mediante energico rimescolamento con paletta (che da noi è fra le più usate, meno in USA, dove invece dei nostri tini di plastica si usano damigiane, carboy, di vetro). Possiamo immaginare che siano simili rispetto a quelli ottenuti con l’“agitazione”, se non addirittura migliori. Gli esperimenti sono stati condotti con acqua e non con mosto; parlando di quantità assoluta di ossigeno, il mosto ha un livello massimo di saturazione inferiore, specialmente mosti ad alta OG (cioè anche raggiungendo il 100% avremo meno O2 per litro).
Preparazione del lievito
Per quanto riguarda l’uso e la preparazione del lievito, si veda il paragrafo 2.4.
La conduzione della fermentazione Fermentazione aperta/chiusa La fermentazione si può effettuare in modo “chiuso” oppure “aperto”. Nel primo caso (più comune fra i produttori casalinghi), il tino di fermentazione viene chiuso in modo ermetico da un coperchio, provvedendo però a una via di uscita per la CO2 prodotta. Questo si ottiene con l’impiego di un gorgogliatore, una sorta di “valvola” che permette l’uscita delle bolle di CO2 attraverso il liquido contenuto in un piccolo sifone, mantenendo allo stesso tempo l’isolamento rispetto a possibili agenti contaminanti presenti nell’atmosfera (oltre che, naturalmente, a insetti e simili). Il liquido può essere semplicemente acqua (scelta che, personalmente, reputo adeguata). Per maggior sicurezza rispetto a possibili contaminazioni, c’è chi preferisce usare una soluzione sanitizzante, ma in questo caso si rischia che – a causa di variazioni di volume del mosto – la soluzione stessa venga risucchiata nel fermentatore: per questo allora è ancora meglio usare nel gorgogliatore alcol al 95% o superalcolici. Se si è sprovvisti di gorgogliatore, oppure nel caso si preveda una possibile fuoriuscita della schiuma (ad esempio, perché il fermentatore è quasi totalmente riempito), una soluzione equivalente al gorgogliatore è quella di inserire un tubo nel foro previsto per il gorgogliatore, il cui secondo capo sia immerso in un piccolo recipiente pieno di acqua (o soluzione sanitizzante). L’uscita della CO2 avverrà attraverso il liquido (come nel gorgogliatore), e si avrà lo stesso tipo di isolamento rispetto alle contaminazioni; la schiuma in eccesso percorrerà il tubo e si depositerà nel recipiente stesso. Questo sistema è denominato blow-off (Figura 4.14).
Figura 4.14 - Quando la schiuma è abbondante si può sostituire il gorgogliatore con un blow off.
Viste le attenzioni di cui sopra per l’isolamento rispetto a possibili contaminanti, può stupire che la fermentazione possa anche essere condotta in modo aperto. Invece è proprio quello che fanno alcune birrerie, anche prestigiose; e non si pensi che nel loro caso l’ambiente in cui si effettua la fermentazione sia particolarmente asettico. Il fatto è che la presenza di contaminanti nell’atmosfera è una possibilità, ma non una certezza: dipende dall’ambiente, dalla zona in cui si opera. Inoltre il cappello di schiuma presente nel mosto (specie nel caso di alta fermentazione) e lo strato di maggiore densità di CO2 sopra la superficie formano una barriera protettiva abbastanza efficace. Uno dei motivi principali della fermentazione aperta nelle birrerie è quello di facilitare il recupero del lievito (cosa che in questa fase può essere o meno di interesse per il birraio casalingo). Le differenze dal punto di vista organolettico – quando ci sono – sono incerte: è comunque ragionevole che alcuni lieviti, in prevalenza inglesi, che si siano “abituati” a lavorare in fermentatori aperti, diano risultati migliori in questa situazione. Anche se non si sceglie una fermentazione aperta, quanto sopra può far capire come non sia necessario essere “maniacali” nel perseguire una ermeticità assoluta e costante, e come (ad esempio) sia perfettamente accettabile, in caso di necessità, il fatto di aprire temporaneamente il fermentatore senza pensare di andare incontro a danni irreparabili. Ovviamente, nel caso si adotti una fermentazione aperta e si verifichino ripetute infezioni non riconducibili ad altri motivi, sarà logico passare a una fermentazione chiusa!
La schiumatura La schiumatura o skimming è una pratica talvolta consigliata in testi di homebrewing (in particolare inglesi) e consiste nel rimuovere il cappello di schiuma a intervalli regolari (ad esempio per due volte, dopo 24 e 48 ore dall’inizio della fermentazione). In genere si effettua in combinazione a una fermentazione aperta e, nelle birrerie (per lo più inglesi) che la effettuano, lo scopo è il recupero del lievito. A livello casalingo, i sostenitori di questa pratica la motivano con la rimozione di sostanze (resine del luppolo, coaguli) che se non asportate precipiterebbero nel mosto apportando gusti aspri e sgradevoli. Al Korzonas (come documentato nella mailing list HBD e nel suo libro Homebrewing, vol I) ha però verificato con analisi e assaggi alla cieca che l’unica differenza consisterebbe nella perdita di una certa percentuale (circa il 10%) di unità di amaro in caso di rimozione, senza alcun miglioramento avvertibile dal punto di vista organolettico. In definitiva, la si può ritenere un’operazione non necessaria. Se comunque si decide di effettuare la schiumatura, si può impiegare un mestolo forato sanitizzato; in alternativa, utilizzando la tecnica del blow-off già descritta e riempiendo il fermentatore fin quasi al limite, durante le prime fasi della fermentazione la schiuma uscirà dal tubo di blow-off ottenendo un risultato equivalente alla schiumatura. Monitorare la fermentazione Un segno inequivocabile (e ansiosamente atteso!) della fermentazione è il borbottio del gorgogliatore, dovuto alla fuoriuscita di bolle della CO2 prodotta. Bisogna però considerare il gorgogliatore per quello che è: un sistema per mantenere l’isolamento del mosto, non un “monitor” della fermentazione! Capita spesso che, nonostante le apparenze, la tenuta del coperchio del fermentatore non sia perfettamente ermetica e quindi la CO2 trovi una via di uscita alternativa: in questo caso il gorgogliatore è silenzioso, ma la fermentazione sta procedendo perfettamente. La non perfetta ermeticità (e il “silenzio” del gorgogliatore) non è assolutamente un problema, perché quello che conta è la fermentazione! Per controllare che la fermentazione sia iniziata e sia in atto, oltre al controllo visivo (ovvero la presenza di schiuma), lo strumento apposito è il densimetro: se la densità è in diminuzione rispetto al valore misurato prima dell’inseminazione, la fermentazione è in atto! A parte i casi in cui si hanno i dubbi di cui sopra, non è in genere necessario controllare la densità giornalmente, ma solo all’inizio e verso la fine, quando si vuole verificare che la fermentazione sia conclusa e si possa imbottigliare senza problemi. Fine della fermentazione Un segno della fine della fermentazione è la scomparsa della schiuma e l’assenza di emissione di CO2, cioè in pratica il fatto che il gorgogliatore smetta di “borbottare”. Come abbiamo detto, questo non è un metodo affidabile per controllare la fermentazione e la sua eventuale conclusione: è invece necessario affidarsi alla misura della densità con un densimetro (oppure con altri strumenti, come il rifrattometro).
Perché la fermentazione si possa dire conclusa è necessario verificare entrambe queste condizioni: densità stabile (cioè misurazione sempre uguale) da almeno 2 o 3 giorni; densità misurata vicina al valore previsto. Infatti, se la densità fosse stabile ma a un valore molto distante da quello previsto, potrebbe essere un caso di fermentazione bloccata per diverse ragioni, la prima delle quali è la salute e la qualità del lievito. Imbottigliando correremmo il rischio che la fermentazione riprenda in bottiglia con effetti letteralmente esplosivi; inoltre, anche se ciò non avvenisse, ci ritroveremmo con una birra con molti zuccheri non fermentati e quindi con caratteristiche diverse da quelle che volevamo ottenere. Viceversa, se la densità fosse sì nell’intervallo previsto ma dalle misurazioni risultasse ancora in fase discendente, vorrebbe dire che la fermentazione è ancora in atto e quindi naturalmente bisogna aspettare che essa sia del tutto terminata – sempre per evitare che continui nelle bottiglie al di fuori di ogni controllo. In tutti i casi, è bene ricordare che - nel dubbio - è meglio prolungare la permanenza nel fermentatore per qualche giorno in più piuttosto che affrettare l’imbottigliamento! Molte volte è anzi consigliabile prolungare la permanenza nel fermentatore per diversi giorni, non solo per avere la certezza assoluta che la fermentazione sia terminata, ma anche per permettere un maggior deposito dei lieviti (in modo di averne una minor presenza in bottiglia) e un inizio di maturazione del prodotto. Non vi sono particolari problemi a mantenere la birra per alcuni giorni in un fermentatore ermetico e sanitizzato, salvo il fatto che la permanenza prolungata della birra a contatto con il cospicuo fondo di lieviti potrebbe alla lunga comprometterne qualità e gusto per il fenomeno dell’“autolisi” dei lieviti stessi. Nel caso, quindi, si scelga di prolungare la fermentazione oltre le due settimane, è consigliabile l’adozione di una fermentazione a due stadi. Dryhopping Durante la fermentazione è possibile aromatizzare la birra con aggiunta di luppolo, preferibilmente durante la fermentazione secondaria, o nella seconda parte di una fermentazione a un solo stadio. La tecnica è nota come dryhopping ed è stata illustrata nel paragrafo 2.5.
Fermentazione secondaria Motivazioni Nonostante alcuni esperti homebrewer sostengano di aver lasciato la birra nello stesso fermentatore iniziale per diverse settimane senza riscontrare alcun problema, è buona norma, nel caso si voglia prolungare la fermentazione, effettuare un travaso in un cosiddetto “fermentatore secondario”. Lo scopo è separare il mosto dalla gran parte dei lieviti depositati, in modo da poter poi prolungare la fermentazione secondaria anche per settimane senza il rischio di comprometterne il gusto per eccessivo contatto con i lieviti e per
l’autolisi degli stessi. Anche se si parla di fermentazione secondaria, in realtà non si tratta di un processo nuovo e distinto dalla fermentazione primaria (in cui intervengono agenti e meccanismi diversi), ma di un semplice prolungamento della fermentazione in un secondo fermentatore; spesso, anzi, l’attività fermentativa si è già praticamente conclusa al momento del travaso e la permanenza nel secondario può essere vista come una semplice maturazione del prodotto. In ogni caso, prolungare questa fase per un certo tempo (ad esempio, un paio di settimane) non va considerata una “perdita di tempo”, neppure nel caso si desideri avere la birra pronta in tempi piuttosto rapidi, proprio perché la birra comincia ad affinarsi e a maturare già nel fermentatore e quindi necessiterà in proporzione di un periodo leggermente più breve di affinamento in bottiglia. Tempi Il momento migliore per effettuare il travaso dal fermentatore primario al secondario è quando la fase visibile e più attiva della fermentazione è terminata (ovvero quando la fermentazione ha effettuato la gran parte del suo lavoro). Questa è una indicazione di massima e non vi sono problemi a variare di qualche giorno: è accettabile anche un anticipo, cioè travasare quando la fermentazione, pur a ritmi ridotti, è ancora in corso – in tal caso proseguirà nel secondario; viceversa, non c’è problema se la birra rimane qualche giorno in più nel primario a fermentazione del tutto conclusa – lo scopo del travaso è infatti quello di liberarsi del fondo di lieviti per prolungare il processo di affinamento. Tipicamente, comunque, il travaso si effettua dopo circa 7-10 giorni. La durata tipica della fermentazione secondaria è di una o due settimane, anche se alcuni homebrewer reputano sufficiente un periodo di pochi giorni e altri invece lo prolungano a diverse settimane, in particolare per le birre a maggiore gradazione zuccherina/alcolica. Tecnica Il travaso va effettuato con la maggiore attenzione possibile a non “splashare”, cioè cercando di evitare schizzi o agitazione del mosto in modo da non introdurre aria (e quindi ossigeno); è quindi indispensabile usare un tubo di plastica che arrivi a toccare il fondo del fermentatore secondario, sia che lo si colleghi a un rubinetto del fermentatore primario, sia che si usi la tecnica del sifone. Naturalmente bisognerà interrompere il travaso appena si vede che stiamo iniziando a risucchiare il lievito sul fondo, rinunciando a raccogliere qualche decilitro di birra in più; non è nemmeno il caso di esagerare nel senso opposto – se si dovesse inavvertitamente travasare un po’ più di lievito non ci sono problemi. Naturalmente, prima di effettuare l’operazione è necessario sanitizzare il nuovo fermentatore, il tubo e tutto quello che andrà a contatto con la birra. Crash cooling o raffreddamento finale Una tecnica efficace per far precipitare maggiormente il lievito e farlo compattare alla fine della fermentazione secondaria (o della fermentazione unica, se non si effettua la
secondaria) è quella di trasferire il fermentatore per un paio di giorni in un luogo freddo, o meglio ancora in un frigo. Una temperatura di 4 °C o meno è ottimale, ma anche 8 °C sono sufficienti. Prima di imbottigliare, volendo si può riportare il fermentatore a temperatura ambiente. Questa tecnica contribuisce a minimizzare il fondo di lievito nelle bottiglie e permette di travasare dal fermentatore al tino di imbottigliamento (o alle bottiglie) raccogliendo quasi tutta la birra, visto che il residuo di lievito sarà ben compattato sul fondo del fermentatore.
La bassa fermentazione Per quanto riguarda la produzione a bassa fermentazione, valgono in generale gran parte delle indicazioni esposte sopra: si tratta comunque di un procedimento che richiede un’attrezzatura più avanzata (ovvero un frigo o un sistema di refrigerazione con controllo di temperatura) e anche alcuni accorgimenti e attenzioni che si acquisiscono con l’esperienza e che possono richiedere una trattazione più estesa. In questo paragrafo ci limitiamo ad alcune indicazioni. Andamento della temperatura La temperatura ottimale per un lievito a bassa fermentazione può variare dai 4-5 °C ai 1214 °C a seconda del ceppo, con un valore tipico di circa 10 °C. Ci sono due diversi approcci sul modo in cui raggiungere questa temperatura. Una opzione è quella di raffreddare il mosto fino alla temperatura di fermentazione (o di poco superiore) e inseminare il lievito a questa temperatura. Nel caso di lievito liquido, lo starter stesso avrà fermentato e si troverà ancora alla giusta temperatura. Altri suggeriscono invece di inseminare a temperatura ambiente, per poi (a fermentazione innescata) portare il mosto alla giusta temperatura: in questo caso è consigliabile scendere gradualmente (circa 2-3 °C al giorno). La prima opzione è quella “purista”, che garantisce cioè che il lievito lavori sempre alla sua temperatura ideale e quindi la sua produzione di aromi non appropriati sia ridotta al minimo. La seconda tecnica privilegia invece la sicurezza di avere un inizio di fermentazione sufficientemente rapido. In ogni caso, è necessario che il lievito (nello starter o nel mosto) non sia sottoposto a repentini abbassamenti di temperatura. Per quanto riguarda i tempi, in genere una bassa fermentazione procede più lentamente rispetto a un’alta fermentazione; non ci si deve stupire se per arrivare alla densità finale non si impiegheranno pochi giorni ma occorreranno due settimane e oltre! La sosta per il diacetile Come abbiamo visto in precedenza, durante la fermentazione viene prodotto diacetile, che viene in seguito riassorbito dal lievito stesso. La produzione del diacetile avviene anche nelle fermentazioni a bassa, ma in questo caso la bassa temperatura diminuisce il suo riassorbimento da parte del lievito: è quindi consigliabile, alla fine della fermentazione, e prima del successivo ulteriore abbassamento della temperatura per la lagerizzazione, riportare il mosto a una temperatura prossima o eguale a quella ambiente (ad esempio 20 °C) e mantenerla per un paio di giorni. Questo può anche essere utile nel caso che la
fermentazione a bassa temperatura si sia bloccata o sia stata estremamente rallentata e non abbia raggiunto l’attenuazione (densità) prevista: in tal caso l’aumento di temperatura può aiutare a “risvegliare” il lievito permettendogli di completare il suo lavoro. La lagerizzazione Il procedimento di produzione delle birre a bassa fermentazione prevede in genere un periodo di maturazione a temperature ancora più basse, in genere sui 2-4 °C. Proprio questa procedura dà il nome generico di lager a queste birre: il verbo tedesco lager indica infatti la conservazione in magazzini (sottinteso: refrigerati). La durata di questo periodo va da poche settimane a qualche mese (diversi mesi per birre forti come bock e doppelbock). Un metodo tradizionale è quello di effettuare la lagerizzazione in un apposito tino di maturazione, che può essere lo stesso fermentatore principale o meglio un secondo fermentatore/maturatore. Alla fine della lagerizzazione si procede con l’infustamento e l’imbottigliamento (vedi capitoli successivi). Un procedimento alternativo, meno tradizionale ma spesso impiegato dai produttori casalinghi, è semplicemente quello di imbottigliare (dopo la fermentazione e l’eventuale sosta per la riduzione del diacetile) e di effettuare la lagerizzazione in bottiglia, mantenendo le bottiglie alle temperature e per il periodo sopra indicati.
Filtrazione e chiarificazione Al termine della fermentazione solitamente la birra risulta naturalmente limpida e senza problemi di eccessiva torbidezza. La decantazione di quanto può rimanere in sospensione avviene quasi sempre in modo naturale e automatico semplicemente grazie al tempo concesso alla fase di maturazione e, se possibile, a una diminuzione della temperatura della birra. L’homebrewer solitamente non si cura di affrontare soluzioni di filtrazione o di chiarificazione se non per risolvere situazioni particolarmente problematiche. Sia la filtrazione che la chiarificazione sono invece pratica comune nei birrifici professionali e soprattutto industriali. Per questi, infatti, devono combinarsi le esigenze di marketing per prodotti molto limpidi, la massima “stabilizzazione” della birra e la necessità di ridurre al minimo i tempi di produzione (il tempo è denaro!). Nella birra la torbidezza può avere una causa biologica oppure non biologica. Nel primo caso ci si riferisce a un eccesso di lievito in sospensione oppure a infezioni/eccessiva presenza di organismi (batteri e lieviti selvaggi) indesiderati. Se il lievito in eccesso può essere rimosso abbastanza facilmente, il – seppur più raro – caso di velatura della birra per infezione è irrisolvibile; per di più il problema dovrebbe coinvolgere non solo l’aspetto della birra ma anche il suo gusto. Nel secondo caso più frequentemente la causa è dovuta all’interazione tra alcune proteine e alcuni polifenoli (tannini) contenuti nella birra. Questi vengono comunemente eliminati attraverso una bollitura vigorosa e nella sedimentazione a freddo, ma talvolta possono passare nella birra finita, formando quella che tecnicamente si chiama “chill haze”, ossia una forma di torbidezza temporanea che si manifesta solo portando la birra a bassa temperatura (circa 0 °C) ma che scompare rialzando la temperatura oltre i 15 °C. La torbidezza
temporanea può tuttavia diventare, con una più lunga maturazione, anche definitiva. Altre cause di torbidezza non biologica possono derivare dalla presenza di amidi nella birra (quindi per errori nella fase di ammostamento), oppure anche, più raramente, da ossalato formatosi per la carenza di calcio nel mosto. Il miglior metodo per evitare un’eccessiva torbidezza è quindi preventivo: materie prime appropriate con un bilanciamento proteico corretto, ammostamento e bollitura senza errori e precipitazione da raffreddamento al termine della fermentazione. Alternativamente si può intervenire con diverse soluzioni che sostanzialmente si suddividono in sistemi filtranti o aggiunta di chiarificanti. Sistemi di filtrazione I sistemi di filtrazione si realizzano costringendo il passaggio della birra per mezzo di una pompa attraverso una base filtrante che trattiene i particolati; i sistemi sono sostanzialmente di due tipi: a farina fossile o a fogli filtranti. I filtri a farina fossile sono realizzati con elementi metallici solitamente in acciaio (orizzontali, verticali o a tubo) che rappresentano la base di sostegno della fase filtrante; tuttavia l’azione vera e propria è condotta dalla farina fossile. Questa è una polvere formata quasi interamente da residui fossili di microscopiche alghe della famiglia delle diatomee, depositatesi per lo più nel corso dell’era cenozoica. La farina fossile è di solito molto fine, di colore bianco o grigio, ed è sostanzialmente costituita da biossido di silicio (silice). Si utilizza aggiungendola prima della filtrazione alla birra in dosi da 0,8-1 grammi/litro. I filtri a fogli filtranti agiscono imponendo il passaggio della birra attraverso una serie di fogli di materiale fibroso, solitamente composti da cellulosa. I sistemi di filtrazione hanno però un latente pericolo di contaminazione della birra e sono infatti più comunemente usati nell’industria, che fa seguire la pastorizzazione alla filtrazione. Anche per questo rischio, sono stati ultimamente messi in commercio sistemi di microfiltrazione, ossia filtri con dimensione dei pori inferiore a quelle dei batteri (0,45 nanometri). Tali sistemi sono tuttavia molto costosi e inoltre, per evitare l’intasamento dei microfiltri, questi devono essere solo l’ultimo anello di una catena di sistemi successivi di filtrazione a dimensioni via via minori. Sistemi di chiarificazione A differenza dei sistemi di filtrazione, quelli di chiarificazione non agiscono attraverso l’uso di “barriere” per trattenere le parti solide, ma per mezzo di additivi che si “legano” elettrostaticamente alle particelle in sospensione responsabili della torbidezza. L’eliminazione degli additivi avviene poi per semplice precipitazione. Tali additivi sono: Gel di silice: aggiunto in fase di maturazione con la birra a bassa temperatura (0-2 °C) in dosi di 0,5–0,8 grammi/litro agisce molto rapidamente (meno di tre minuti) legandosi alle proteine contenute nella birra e precipitando con esse sul fondo del fermentatore. Alcuni segnalano, nell’uso dei gel di silice, il pericolo di una diminuzione della schiuma della birra, ma pare accertato che esso agisca solamente sulle proteine responsabili della torbidezza (idrofile) e non su quelle responsabili della schiuma (idrofobe). Bentonite: simile al gel di silice nel funzionamento e frequentemente usata in
enologia (0,6 – 1,5 g/l), ha però un impatto negativo sulla schiuma, agendo in modo indiscriminato su tutte le tipologie di proteine. PVPP: di utilizzo simile a quello del gel di silice, il PVPP (polyvinylpolypyrrolidone) è un polimero che si lega ai polifenoli precipitando con essi in circa 10 minuti. In dosi di 0,15 – 0,25 g/l ha inoltre la particolarità di poter essere trattato e riciclato. Isinglass: derivato dalle vesciche natatorie di alcuni pesci (di solito storioni). Viene aggiunto alla birra in maturazione in dose da 1-5 ml per litro di birra. Per un corretto utilizzo è meglio miscelare bene l’isinglass in un litro di birra prima di aggiungerlo nel tino di maturazione. La temperatura della birra, per una ottimale attività dell’isinglass deve essere tra 13 e 15 °C e non salire mai oltre i 20 °C. Svolge la sua funzione di chiarificazione soprattutto sul lievito in sospensione ed agisce nell’arco di 3-12 ore dall’aggiunta nel fermentatore. Per non perdere il proprio potere chiarificante, dovrebbe essere conservato in frigorifero a 4-10 °C. Attenzione alle dosi utilizzate: in caso di aggiunte eccessive, l’effetto chiarificazione non avviene e, anzi, si rischia di rendere la birra più torbida di quando già non sia. Gelatina: derivata dagli zoccoli del bestiame bovino, meno efficace dell’isinglass, ha però una migliore stabilità di conservazione. Si utilizza aggiungendo in acqua calda 0,6-0,8 grammi di gelatina per litro di birra da chiarificare; è necessario poi raffreddare, miscelare con un litro di birra e aggiungere poi al tino di maturazione. La sua azione ha effetto in qualche giorno. Irish Moss: derivato dall’essiccazione di un’alga marina (Chondrus cripus); a differenza degli agenti chiarificanti dettagliati precedentemente, viene aggiunto a fine bollitura e ha lo scopo di aiutare l’aggregazione delle proteine e la formazione dei coaguli (hot break). La dose di utilizzo è di circa 0,5 grammi per litro.
4.7 Imbottigliamento, carbonazione e maturazione La carbonazione naturale Terminata la fermentazione, è il momento di imbottigliare o infustare il prodotto, che è a tutti gli effetti già una birra, ancorché giovane e “piatta”, cioè non frizzante. È infatti necessario, a questo punto, fare anche in modo che la birra imbottigliata o infustata possa sviluppare naturalmente l’anidride carbonica necessaria a produrre la sua caratteristica “frizzantezza”. Questo processo si indica di solito con il termine “carbonazione naturale”. Invece di essere sviluppata naturalmente in fusto o in bottiglia, l’anidride carbonica può anche essere aggiunta direttamente, mediante attrezzature opportune: si tratta, tuttavia, di un procedimento più tipico di una produzione industriale che non casalinga e, sebbene non sia escluso a livello di homebrewing, in questo ambito lo tralasceremo per concentrarci sui vari metodi di carbonazione naturale per le birre imbottigliate. Tutte le tecniche di carbonazione si basano sulla fermentazione di piccole quantità di zucchero da parte dei lieviti, con conseguente produzione di una controllata quantità di CO2. Poiché questo avviene nell’ambiente ermetico del fusto o della bottiglia, la CO2 non può che disciogliersi nella birra,
causandone l’effervescenza al momento dell’apertura. Gli zuccheri da fermentare in bottiglia possono essere introdotti direttamente come zuccheri semplici: in tal caso si parla di priming; si possono altresì introdurre sotto forma di mosto non fermentato, o di birra parzialmente fermentata, come nella tecnica del krausening; oppure possono essere zuccheri residui di una fermentazione non ancora conclusa, ma giunta a un dato valore di attenuazione, come nel caso della tecnica del cosiddetto spunding. Più esattamente: la CO2 prodotta nella rifermentazione si discioglie nella birra fino al livello massimo possibile in quelle condizioni di pressione e temperatura. La bottiglia chiusa determina un aumento di pressione con conseguente aumento del livello di saturazione e possibilità di ulteriore discioglimento della CO2 nella birra. Quando la bottiglia viene aperta, la pressione si riduce istantaneamente al livello della pressione atmosferica, e la birra diviene una soluzione sovrasatura di anidride carbonica che viene quindi rilasciata.
Priming: quantità e tipo di zuccheri La quantità di zuccheri da aggiungere per il priming è proporzionale al livello di carbonazione voluto: differenti stili di birra (nonché diversi gusti personali) richiedono livelli di frizzantezza diversi. La tabella seguente suggerisce i valori tipici di alcuni tipi di birra. Stile di birra Volumi di CO2 British Ale American Ale Porter, Stout Belgian Ale Lager Birre di grano
1,5 - 2,0 2,2 - 2,6 1,6 - 2,2 2,4 - 3,2 2,4 - 2,7 3,0 - 3,5
I valori sono stati ricavati da diverse fonti: oltre ad alcuni libri di homebrewing, si vedano anche: Brew Your Own, http://www.byo.com/ resources/carbonation e il libro di Stan Hyeronimus, Brew Like a Monk, Brewers Publications. Alcuni valori presenti in ambito commerciale sono stati riconsiderati tenendo conto dell’ambito homebrewing e dell’esperienza personale degli autori.
Lo zucchero necessario si può ricavare dal dato per cui ogni grammo di zucchero, se completamente fermentato, dà origine - oltre a circa 0,5 grammi di alcol - a 0,5 grammi di CO2, equivalenti a circa 0,25 litri; quindi, per ottenere un volume di CO2 (un litro di gas
disciolto in un litro di birra), sono necessari 4 grammi di zucchero. A complicare le cose c’è però il fatto che nella birra, a fine fermentazione, è già presente una certa quantità di CO2: infatti la gran parte di essa fuoriesce tramite il gorgogliatore o all’apertura del fermentatore, ma una parte minore si discioglie nella birra fino a raggiungere il livello di saturazione, cioè la percentuale massima che la birra può contenere stabilmente a una data temperatura; tale livello cresce alla diminuzione di temperatura. La temperatura da considerare per determinare il livello di saturazione, e quindi la CO2 presente, è il valore più elevato fra la temperatura alla quale si è svolta la parte finale della fermentazione e quella alla quale si sta imbottigliando: ad esempio, se si è terminata la fermentazione a 10 °C, portando poi la temperatura a 20 °C per imbottigliare, si dovranno considerare 20 °C. Lo stesso accade se, viceversa, si è fermentato a 20 °C e si sta imbottigliando a 10 °C. La ragione di questo sta nel fatto che, innalzando la temperatura, la birra non è più in grado di mantenere disciolta la CO2, che verrà espulsa fino a raggiungere il nuovo livello di solubilità; viceversa, abbassando la temperatura, la birra non ha più la possibilità di aumentare la CO2, a meno che non ci sia una fermentazione in atto. Il livello di solubilità della CO2 a seconda della temperatura si può rilevare dalla tabella che segue. Gradi °C Volumi di CO2 Gradi °C Volumi di CO2 0 1,69 13 1,06 1 1,62 14 1,03 2 1,56 15 0,99 3 1,50 16 0,96 4 1,45 17 0,93 5 1,40 18 0,90 6 1,35 19 0,88 7 1,31 20 0,85 8 1,26 21 0,83 9 1,21 22 0,80 10 1,17 23 0,78 11 1,13 24 0,75 12 1,09 25 0,73 I volumi di CO2 che si dovranno sviluppare mediante il priming sono la differenza fra i volumi desiderati e quelli già presenti ed è quindi possibile calcolare i grammi di zucchero per litro sapendo che per ogni volume sono necessari 4 g/l. Ad esempio, per carbonare una ale fermentata a 20 °C a un valore di 2,5 volumi, dovrò come da tabella aggiungere 2,5-0,85 = 1,65 volumi di CO2, per i quali serviranno 1,65*4 =
6,5 grammi circa di zucchero per litro di birra. Se si producono abitualmente birre ad alta fermentazione a temperatura ambiente e si mira a ottenere un livello di carbonazione di questo livello (abbastanza tipico), la quantità di cui sopra (tra i 6 e i 7 g/litro) è quindi un valore affidabile e per questo raccomandato da testi e istruzioni semplificate. Per quanto riguarda il tipo di zucchero, quello solitamente consigliato è il normale zucchero bianco da tavola. Alcuni birrai preferiscono usare zuccheri scuri, di canna, miele o anche estratto di malto.
Krausening e spunding Il priming è una tecnica di carbonazione semplice ed efficace che non va assolutamente considerata una semplificazione e un ripiego per adattarsi ai limiti della produzione casalinga: basti pensare che questa tecnica viene, ad esempio, impiegata per tutte le ottime e prestigiose birre rifermentate in bottiglia di provenienza belga, nonché per le ale inglesi “bottle conditioned”. Per altri stili di birra a livello commerciale (anche artigianale) vengono a volte utilizzate altre tecniche, che potrebbero interessare al birraio intenzionato ad attenersi scrupolosamente alle relative tradizioni. Rimarchiamo comunque che il priming è del tutto accettabile anche per queste birre senza compromessi qualitativi noti. La tecnica del krausening prevede l’aggiunta di mosto quale sorgente di zuccheri per la rifermentazione in bottiglia. In genere si utilizza una parte del mosto prodotto per la stessa birra e conservato a parte senza essere fermentato, ad esempio in una bottiglia chiusa con tappo o eventualmente con gorgogliatore (a titolo prudenziale, nel caso avvenisse una fermentazione indesiderata). È necessario prestare la massima attenzione alla sanitizzazione proprio per evitare contaminazioni da lieviti selvaggi che renderebbero inutilizzabile il mosto, sia a causa di una prematura fermentazione sia per i danni eventuali provocati dalla contaminazione stessa. Il calcolo della quantità di mosto necessaria per il krausening è simile a quello per il priming, ma in questo caso si dovrà tener conto della percentuale di zuccheri presenti nel mosto (cioè della sua OG). È possibile ricavare la seguente formula:
dove vk è il volume del krausen (mosto da aggiungere), VolCO2 i volumi di CO2 da aggiungere (vedi paragrafo sul priming) e vm la quantità finale di birra. La tecnica cosiddetta dello spunding consiste invece nell’imbottigliare (o infustare) prima che la fermentazione sia del tutto terminata, ovvero quando la densità è a un valore predeterminato al di sopra della FG (densità finale) prevista: gli zuccheri residui presenti saranno fermentati dal lievito nella bottiglia o nel fusto chiusi ermeticamente, sviluppando la carbonazione. Si tratta di un procedimento poco consigliabile in ambito homebrewing, in quanto è necessaria la massima accuratezza sia nel monitoraggio della densità sia, soprattutto, nella predizione della FG finale che verrà raggiunta. Questo è più semplice in ambito industriale o per lo meno professionale, sia per il maggior controllo del processo sia per il fatto che in genere si ripetono ricette già ben sperimentate.
Inoltre la tecnica è in generale applicata in caso di infustamento o maturazione in tank, nel qual caso si ha la possibilità di controllare con manometri la pressione sviluppata ed eventualmente di alleggerirla tramite le opportune valvole. In ambito casalingo, e in particolare per quanto riguarda l’imbottigliamento, il rischio di ottenere livelli di carbonazione non desiderati (che possono anche provocare, in casi estremi, esplosioni di bottiglie) non è bilanciato da concreti e dimostrati vantaggi qualitativi. Per chi volesse cimentarsi è consigliabile che la tecnica sia applicata in presenza di una ricetta ben collaudata di cui si possa prevedere con precisione la FG; un possibile accorgimento è anche quello di effettuare una “fermentazione forzata”, ovvero mettere da parte un campione di mosto, inseminarlo con abbondante lievito e farlo fermentare a temperatura elevata, in modo che la fermentazione si concluda rapidamente: in questo modo sapremo in anticipo la FG che potrebbe raggiungere, più lentamente, la birra fermentata a temperatura normale. L’imbottigliamento dovrà avvenire quando la densità misurata sarà superiore alla FG prevista di un valore DELTA, eguale a Delta = 1,87*VolCO2 Riprendendo l’esempio fatto per il priming, si avrà: Delta = 1,87*1,52 = 2,84, ovvero si dovrà imbottigliare quando la densità sarà poco meno di tre punti superiore alla FG prevista. Raggiunto questo valore, prima di imbottigliare può essere consigliabile raffreddare velocemente la birra a temperature di poco superiori allo zero, in modo da bloccare immediatamente la fermentazione e favorire il deposito di lieviti (anche in considerazione del fatto che la tecnica impone fermentazioni piuttosto brevi e senza travaso nel secondario).
Non vi è alcun vantaggio dal punto di vista della carbonazione, mentre le possibili differenze a livello organolettico sono in ogni caso limitate, viste le esigue quantità in gioco. Chi volesse provare queste alternative tenga conto che: il miele contiene circa il 25% di acqua, quindi la quantità va aumentata in proporzione (il 30% in più); l’estratto secco contiene quasi il 100% di zuccheri, i quali sono però solo parzialmente fermentabili, quindi ne occorre circa il 50% in più; l’estratto liquido (comunque di impiego meno pratico) va usato in quantità raddoppiata per entrambi i motivi di cui sopra.
Priming e imbottigliamento in pratica Un metodo piuttosto semplice per effettuare il priming – spesso riportato nelle istruzioni degli estratti luppolati – è quello di introdurre piccole quantità di zucchero da tavola bottiglia per bottiglia. Questa procedura presenta alcuni svantaggi: imprecisione di dosaggio, specie nel caso di bottiglie di capacità diverse;
maggiore presenza di lievito nelle bottiglie riempite per ultime; mancata sterilizzazione dello zucchero (problema forse più teorico che effettivo). Un metodo più consigliabile per introdurre gli zuccheri per la rifermentazione è invece quello del bulk priming, ovvero: calcolare la quantità totale di zucchero necessaria e discioglierla in poca acqua, ottenendo uno sciroppo da bollire brevemente; travasare il mosto in un tino apposito; aggiungere lo sciroppo di zucchero raffreddato e procedere con l’imbottigliamento. A fronte di questi vantaggi, si ha l’inconveniente di un possibile aumento del rischio di ossidazione, essendo necessario un travaso in più; è un rischio limitato, a patto di osservare le opportune cautele. Vediamo il procedimento in dettaglio. 1. Travasare dal tino di fermentazione a quello di imbottigliamento. Si può fare usando un tubo di plastica con la tecnica del “sifone”, oppure utilizzando il rubinetto del fermentatore. In tal caso, per evitare di ossigenare la birra è necessario applicare al rubinetto un tubo che arrivi sul fondo del tino di imbottigliamento. Se si è usato il metodo della fermentazione a due stadi e dell’abbassamento finale della temperatura, il lievito sarà ben compattato sul fondo: in tal caso è possibile inclinare il fermentatore per raccogliere una quantità maggiore di birra senza disturbare il sedimento di lievito. Interrompere il travaso prima di cominciare a raccogliere il lievito stesso. 2. Preparare uno sciroppo sciogliendo la giusta quantità di zucchero in 200-500 ml di acqua e bollirlo per pochi minuti. 3. Aggiungere lo sciroppo raffreddato alla birra; mescolare la birra molto dolcemente per evitare di ossigenarla. Non è consigliabile omettere del tutto di mescolare, perché birra e sciroppo zuccherino hanno densità e, probabilmente, temperature differenti e si può correre il rischio di avere una stratificazione dei due liquidi nel fermentatore, con il potenziale pericolo di ottenere bottiglie con diverse percentuali di sciroppo (e quindi carbonazione molto differente). 4. Procedere al riempimento delle bottiglie, evitando anche in questa fase lo “splashing”, ovvero schizzi e formazione di schiuma. È consigliabile usare – se presente – il rubinetto del tino di imbottigliamento, applicando un tubo di plastica per alimenti che raggiunga il fondo della bottiglia. Molto pratico è l’utilizzo di una “asta di travaso” applicata alla fine del tubo (Figura 4.15): l’erogazione avviene solo premendo la punta dell’asta sul fondo della bottiglia, arrestandosi immediatamente quando si cessa di premere. Le bottiglie vanno riempite fino a circa 2-3 cm dall’orlo per quanto riguarda quelle da 33 cl e in proporzione per gli altri formati. Questo livello, comunque, non è critico ai fini della giusta carbonazione ed è sufficiente evitare di riempire le bottiglie molto al di sotto di tale livello o fino all’orlo.
5. Tappare le bottiglie!
Figura 4.15 - Imbottigliamento con asta da travaso collegata con un tubo al rubinetto del tino.
Nel caso di birre ad alta gradazione alcolica, il lievito residuo potrebbe non essere in grado di rifermentare efficacemente in bottiglia: infatti la fermentazione primaria potrebbe essersi arrestata non per esaurimento degli zuccheri fermentabili, ma perché il livello alcolico è divenuto tossico per il lievito stesso, che quindi non sarà più in grado di svolgere alcun lavoro. In ogni caso la fermentazione di un mosto ad alta gradazione sottopone qualsiasi lievito a notevole stress. Per questa ragione è pratica frequente, nel caso di birre molto forti, l’aggiunta di una piccola quantità di lievito fresco, che può essere lo stesso della fermentazione primaria oppure un lievito diverso, più tollerante all’alcol e adatto alla rifermentazione in bottiglia. Fra i più usati troviamo il lievito secco Fermentis T-58. La dose indicata è dell’ordine di circa 1 grammo su 30 litri. Pur essendo una pratica consigliabile, non è strettamente indispensabile in quanto molti ceppi di lievito sono in grado di rifermentare ottimamente in bottiglia anche dopo aver effettuato la fermentazione primaria di mosti a gradazione molto alta.
La maturazione Dopo l’imbottigliamento, è consigliabile mantenere le bottiglie a temperatura ambiente - se possibile anche a 25 °C - per un paio di settimane, in modo da favorire la rifermentazione in bottiglia: infatti alcuni lieviti ad alta fermentazione potrebbero rallentare o arrestare la loro
attività a temperature di “cantina”, ovvero sotto i 15-16 °C. Altri ceppi di lievito possono lavorare - sia pure lentamente - anche a basse temperature, ma poiché questo non è sempre garantito, meglio non rischiare. Dopo questo periodo le birre si dovrebbero conservare al riparo dalla luce e a temperature dell’ordine dei 10-15 °C, ma in generale non soffriranno alcun danno dalla conservazione a temperatura ambiente, se non una evoluzione (maturazione e invecchiamento) più rapida. Può comunque essere utile un periodo iniziale di conservazione al freddo, per favorire un migliore deposito del lievito sul fondo delle bottiglie. I fattori che influenzano positivamente la conservazione della birra sono: gradazione alcolica; abbondante luppolatura; acidità; presenza di malti scuri. Birre diverse hanno quindi tempi di maturazione diversi, ma sono accomunate da una evoluzione simile: un periodo di affinamento; un periodo - anche lungo - in cui la birra è al meglio delle sue caratteristiche organolettiche, e un successivo graduale deterioramento, a parte rari casi di birre sufficientemente alcoliche che possono assumere caratteristiche ossidative interessanti (anche se non sempre prevedibili). In genere è necessario aspettare un paio di mesi dall’imbottigliamento della birra per poterne apprezzare le caratteristiche; alcune (in genere ad alta gradazione) possono richiedere anche diversi mesi. Normalmente anche i tipi di birra meno adatti a una lunga maturazione si mantengono in buona forma per almeno 9-12 mesi, prima che sopravvengano sentori ossidati o da autolisi del lievito; alcune possono conservarsi ottimamente anche per 2, 3 o più anni.
4.8 Altri metodi di servizio e maturazione L’imbottigliamento della birra è la prassi di maturazione e servizio solitamente utilizzata dagli homebrewer di tutte le latitudini, tuttavia, per diversi motivi, si possono scegliere soluzioni alterna tive. Per alcuni stili birrari la scelta del tipo di maturazione e servizio influisce enormemente sulle proprietà organolettiche della birra: se il birraio vuole avvicinarsi il più possibile alla metodologia produttiva tradizionale dello stile, la bottiglia può non essere la scelta opportuna. Per citare alcuni esempi, helles e pilsner esaltano le proprie caratteristiche attraverso un servizio alla spina o addirittura direttamente dal maturatore, senza una vera e propria rifermentazione stimolata dall’aggiunta di ulteriori zuccheri fermentabili. Stili inglesi come bitter, mild, stout e porter mettono in risalto le proprie tradizionali particolarità per mezzo della spina o meglio con servizio tramite la classica pompa inglese. Idealmente poi la maturazione e il servizio in fusto consentono di sfruttare alcuni teorici vantaggi dati dalla maggiore dimensione del contenitore rispetto alle bottiglie: un maggiore volume complessivo e quindi maggiore inerzia termica che compensa possibili sbalzi della temperatura ambientale; un miglior rapporto volume/superficie esposta ad aria/gas e quindi
minore pericolo di potenziale ossidazione; una più favorevole formazione e gestione di eventuali sedimenti, consentendo il servizio di birra più limpida. Inoltre il fusto di metallo meglio protegge il contenuto dalla luce rispetto al vetro. Alternativamente la scelta di evitare l’imbottigliamento è semplicemente dovuta a motivazioni pratiche: nel caso in cui la quantità finale prodotta sia di discrete dimensioni, il processo di pulizia e sanitizzazione delle bottiglie e del processo di imbottigliamento in senso stretto può diventare molto noioso e richiedere parecchio tempo. La scelta di effettuare imbottigliamento o infustamento e, in seconda battuta, di quale metodo di servizio adottare, deve dipendere anche dalla tipologia di consumo prevista: mentre una bottiglia può essere agevolmente aperta e terminata da una singola persona, un fusto necessita, per lo meno, di alcuni volontari assetati! Una volta aperto, la vita del fusto varia infatti da un minimo di poche ore a un massimo di pochi giorni, pena il rapido decadimento qualitativo della birra.
Servizio dal maturatore Prima di illustrare i contenitori alternativi alle bottiglie e, successivamente, i vari metodi di servizio, è opportuno almeno riferire di un metodo che è solitamente utilizzato dai brew pub, ossia da birrifici che servono la birra nel medesimo luogo in cui la producono: il servizio direttamente dal maturatore. Seppur utilizzato per diversi stili birrari, tale approccio, per l’assenza di rifermentazione tipica della bottiglia, è particolarmente adatto per stili tedeschi/cechi a bassa fermentazione. Per assicurare una adeguata carbonazione (gasatura) della birra è tuttavia necessaria una apposita e particolare attrezzatura che permetta, da un lato, di portare a termine l’ultima fase della fermentazione in pressione e che poi abbia la possibilità di effettuare lo spurgo della maggior parte del lievito depositato. Tutto ciò si può fare con un fermentatore in acciaio “tronco conico” ossia con una particolare conformazione della parte inferiore “a cono rovesciato”. Un rubinetto di spurgo permette in questi fermentatori la raccolta e l’eliminazione della maggior parte del lievito, potenzialmente dannoso per la qualità della birra se lasciato in gran quantità a contatto con la stessa durante la maturazione. Parallelamente, una adeguata carbonazione viene assicurata dalla chiusura ermetica del fermentatore e dalla presenza di una valvola a pressione regolabile: questa fa sì che l’anidride carbonica creata dalla fermentazione venga mantenuta con un livello di pressione desiderato. L’eccesso di CO2 viene lasciato spurgare. Il sistema, tuttavia, necessita anche un sistema di servizio con CO2, ossia un metodo per mantenere il livello di pressione costante nel fermentatore e che vada sostanzialmente a sostituire la birra spillata con nuova anidride carbonica.
Fusti e fustini I fusti sono normalmente realizzati in alluminio o, più frequentemente, in acciaio. Qualunque tipologia di fusto venga utilizzata, questo dovrebbe essere riempito in modo tale da minimizzare l’ossigenazione della birra, come in ogni altro travaso. Inoltre minimo spazio d’aria deve essere lasciato all’interno del fusto; questo per tre motivi: minore pericolo di
ossidazione della birra, più veloce processo di sedimentazione del lievito, minore perdita di carbonazione già presente nella birra. Nei fusti la carbonazione della birra può essere effettuata attraverso l’usuale priming o con saturazione di anidride carbonica, o con un sistema di infustamento a pressione costante (isobarico). Il priming, ossia l’aggiunta di zuccheri che stimolino una rifermentazione e la conseguente gasatura della birra, viene effettuato nel fusto come nel semplice imbottigliamento. Solitamente, tuttavia, a parità di volume di birra la quantità degli zuccheri aggiunti nell’infustamento è inferiore rispetto all’imbottigliamento. È opinione comune che la medesima carbonazione venga ottenuta con un terzo/la metà dello zucchero aggiunto in bottiglia (2 o 3 grammi/litro in luogo di 6 grammi/litro); questo perché, in relazione al rapporto tra liquido e aria/gas, presente nel contenitore, le bottiglie hanno complessivamente una maggiore presenza di spazio non occupato da liquido (tra birra e tappo) rispetto al fusto. La saturazione di CO2, ossia la carbonazione forzata della birra per mezzo del collegamento a una bombola di anidride carbonica, permette di evitare la rifermentazione e quindi la produzione di ulteriore lievito nel fusto. Meno deposito e birra potenzialmente più limpida. Per contro, l’infustamento senza attrezzatura professionale aumenta i rischi di ossidazione della birra, dal momento che l’eventuale ossigeno portato nel fusto non può venire “consumato” da una riattivazione del lievito. Inoltre è opinione comune che il perlage, ossia la qualità della carbonazione sia migliore con una carbonazione non forzata: più fine e delicata, con bollicine piccole. La carbonazione forzata si realizza collegando il fusto pieno a una bombola di CO2, imponendo per qualche ora una pressione di almeno 30 PSI, meglio se mantenendo il fusto a bassa temperatura (il gas satura più facilmente il liquido). Infine, lo citiamo giusto per completezza, l’ultimo metodo di infustamento è quello a pressione costante: la birra viene saturata di anidride carbonica nei maturatori a pressione e infustata attraverso un sistema chiuso (isobarico), senza perdita di CO2. Ovviamente tale opzione è riservata a birrifici con attrezzatura professionale. Fusti Esistono fusti di diverse dimensioni: 20, 30, 50 litri sono le misure solitamente utilizzate. I fusti sono forniti di una valvola utilizzata per la pulizia, il riempimento e il servizio. L’utilizzo del fusto dal punto di vista dell’homebrewer è differente rispetto a quello dei birrifici professionali, soprattutto per la mancanza di attrezzatura professionale e macchinari che permettano di pulire e riempire il fusto in modo automatizzato senza smontare la valvola. Per questo scopo è necessaria una chiave apposita e soprattutto si deve essere assolutamente certi che la pressione interna del fusto sia uguale a quella esterna: residui di pressione possono infatti essere molto pericolosi durante lo smontaggio della valvola, che può essere così “sparata” con potenziali gravi danni. Gli standard delle valvole sono sostanzialmente di due tipi: a “baionetta”, in cui l’attacco è inserito con un quarto di giro in senso orario, e a “scivolo”. Ovviamente per completare il proprio sistema di spillatura è necessario procurarsi la “testa” di collegamento corrispondente allo standard dei fusti. Anche fusti generalmente usati per bibite (detti Cornelius keg) possono essere utilizzati per il servizio della birra (Figura 4.16); hanno attacchi (detti “Jolly”) differenti da quelli sopra citati
(Figura 4.17): nei fusti la valvola svolge una doppia azione (inserimento di CO2 ed estrazione della birra); nel Cornelius keg ci sono due valvole distinte per i due scopi. Inoltre il riempimento del fusto è sicuramente più facile, con una terza apertura più ampia e più facile da aprire rispetto al classico fusto.
Figura 4.16 - Fusti (kegs) in cella frigorifera.
Figura 4.17 - Attacchi tipo Jolly.
Merita una citazione, infine, il “cask” inglese che, seppur poco usato in Italia, è un pezzo di storia della birra (Figura 4.18). Il cask, in alluminio o acciaio (una volta in legno), ha solitamente 4,5 o 9 galloni di capacità (21 o 41 litri) e, diversamente dal fusto, viene utilizzato “sdraiato”, ossia il cilindro viene coricato su appositi sostegni che ne impediscano il rotolamento accidentale. Il cask ha due aperture, una sulla base circolare, usata per il servizio, e una al centro del corpo, per la ventilazione. La carbonazione avviene rigorosamente per rifermentazione, senza inserimento di CO2 neppure durante il servizio, che viene effettuato per gravità (a “caduta”) o con la classica pompa a mano.
Figura 4.18 - Real ale servita “a caduta”.
Fustini da 5 litri Per il limitato costo, la facilità di utilizzo, la possibilità di recupero e la dimensione adatta a un consumo che permetta di esaurire l’intero contenuto in tempo limitato, il fustino da 5 litri è forse quello favorito degli homebrewer (Figura 4.19).
Figura 4.19 - Fustino da 5 litri.
Esistono due tipologie di fustino da 5 litri: il primo con una unica valvola nella parte alta del fusto, utile per le fasi di riempimento e di pulizia e collegabile a un semplice ed economico sistema di spillatura con pompetta a mano oppure con minibomboletta da CO2 (simile a quella per il sistema selz). Il secondo ha un rubinetto nella parte inferiore del fustino e il consumo avviene per gravità. Durante il servizio, quando la pressione interna diminuisce (solitamente dopo il primo bicchiere), viene aperta la valvola superiore, permettendo la ventilazione e la mescita. Le valvole superiori sono usa e getta (il rubinetto, invece, è fisso) e devono essere rimpiazzate a ogni riempimento. Con un minimo di attenzione è possibile riutilizzare le valvole dei fustini “a caduta”, ma, dato il costo limitato, è consigliabile usarne una nuova ogni volta. Botti in legno Anche se un tempo il legno era il materiale principe di conservazione e trasporto della birra, oggi è usato solamente da pochi produttori come recipiente intermedio per apportare al prodotto determinate caratteristiche. La difficoltà di pulizia, la complicata manutenzione (non dovrebbe mai rimanere vuota per un lungo periodo per il pericolo di deformazione del legno) e i pericoli di cessione alla birra di lieviti e batteri indesiderati sono elementi che fanno sconsigliare l’uso delle botti in legno per la produzione “di tutti i giorni”.
Metodi di servizio Il servizio della birra è una fase molto importante per permettere a chi degusta di
apprezzare in pieno le caratteristiche che emergono dal bicchiere. Un servizio scorretto può infatti rovinare la birra quanto un errore di produzione. In particolare, il servizio di una birra non filtrata e non pastorizzata è ancora più delicato perché la quantità di lievito che viene portato nel bicchiere influisce enormemente sul gusto percepito. Prima di dettagliare i diversi metodi di servizio alternativi alla bottiglia, è sicuramente utile evidenziare come la stessa bottiglia debba essere adeguatamente gestita per massimizzare il piacere della produzione casalinga (e anche non casalinga!). A monte delle strette fasi di servizio, è utile ribadire due indicazioni utili per l’homebrewer: la prima è quella di evitare di portare in bottiglia fondi di lievito dal fermentatore durante la fase di imbottigliamento. Come già segnalato, i travasi durante la fermentazione e maturazione sono utili, anzi indispensabili, allo scopo. La seconda è di maturare e conservare le bottiglie sempre in piedi; anche se durante l’imbottigliamento la birra ci sembra limpidissima, i residui di lievito presenti non visibili a occhio nudo e la replicazione dello stesso lievito indotta dalla rifermentazione per la carbonazione in bottiglia andranno a depositarsi formando un lieve strato bianco. Tale compattazione sul fondo della bottiglia ci consentirà di non portare nel bicchiere troppo lievito. Chi ha visitato il Belgio, patria delle birre rifermentate in bottiglia, avrà sicuramente notato l’arte che emerge dai gesti che i publican sono soliti fare durante il servizio. Tali gesti sono tesi a permettere il migliore apprezzamento della birra, ed essendo essenzialmente un’arte, vi sono diverse scuole di pensiero, in particolare sulla gestione dei fondi di lievito della bottiglia. Qualunque metodo di servizio vuole che il bicchiere sia pulito e appena lavato, quindi umido d’acqua. La mescita dalla bottiglia deve essere fatta inizialmente inclinando il bicchiere a 45 gradi, versando delicatamente la birra mantenendo il più possibile stabile la bottiglia per non disturbare il fondo di lievito. A due terzi il bicchiere deve essere raddrizzato per “violentare” la mescita e permettere da un lato una minima ossigenazione e l’emersione degli aromi racchiusi nella birra, dall’altro l’espulsione dell’anidride carbonica in eccesso con la formazione di un buon cappello di schiuma. Da qui le diverse opinioni divergono: alcuni consigliano di effettuare con le ultime dita di birra rimasta in bottiglia una decisa rotazione per recuperare il deposito di lievito e di versare il tutto nel bicchiere. Altri fanno la stessa cosa ma versano i fondi in un bicchierino separato. Altri ancora non recuperano del tutto i fondi di lievito che verranno gettati. È opinione di chi scrive che la birra debba essere degustata senza fondi di lievito che potrebbero portare nel bicchiere gusti e aromi troppo decisi e non sempre apprezzabili. Se la bottiglia non è infatti maturata nelle migliori condizioni oppure se ha diversi mesi (e quindi il lievito potrebbe essere andato incontro a possibili degenerazioni), si rischierebbe di rovinare la degustazione della birra. Il fondo di lievito potrebbe essere comunque gustato a bicchiere ormai vuoto oppure in bicchiere separato.
Spillatura a CO2 La spillatura con anidride carbonica è quella utilizzata nella quasi totalità dei casi quando la birra è infustata. Nonostante l’ampia diffusione, approntare un sistema di spillatura a CO2
non è economico né facile nella gestione. Diversi elementi sono infatti necessari, oltre al fusto: una bombola di anidride carbonica, tubi, raccordi e fascette, innesti, riduttori di pressione e manometri. E, naturalmente, rubinetti di spillatura. Attrezzatura da acquistare una tantum, certo, ma per un investimento da diverse centinaia di euro. Il sistema viene assemblato in modo tale che la CO2 della bombola “spinga” la birra verso il rubinetto di spillatura. Concettualmente semplice, ma è necessario regolare in modo preciso sia la pressione dell’anidride carbonica, sia la temperatura di tutto l’impianto. La birra, che nel fusto ha una propria carbonazione, è infatti suscettibile di perdita (o anche acquisto) di CO2, soprattutto se il fusto non viene esaurito in tempi rapidi, nel giro di poche ore. E possono così emergere seri problemi nella spillatura. Se, in rapporto alla temperatura del fusto e del sistema in generale, la pressione è insufficiente, la birra perderà gas che andrà a riempire la testa del fusto o i tubi. Si avrà quindi una birra sgasata. Al contrario, se la pressione dalla bombola è troppo elevata, la CO2 andrà a disciogliersi nella birra, causando sovracarbonazione ed eccessi di schiuma. Nel sistema di spillatura la temperatura rappresenta quindi l’elemento più critico che deve essere tenuto sotto controllo per poter conseguentemente regolare la pressione; la cosa più importante è quindi mantenere la temperatura a livello costante in ogni sezione del sistema. Uno dei problemi più frequenti, infatti, è dato dai tubi di raccordo dal fusto al rubinetto, che spesso fanno sì che la temperatura della birra in essi contenuta sia anche diversi gradi più alta di quella nel fusto. La CO2 “esce” quindi dalla birra e causa una schiuma eccessiva durante il servizio. Casi simili possono verificarsi se i tubi di raccordo sono molto lunghi oppure se devono affrontare un importante dislivello dalla “cantina” al rubinetto. Questi sono generalmente problemi di tipo professionale che si trovano ad affrontare brew pub e locali e che vengono risolti con metodi altrettanto professionali, come l’utilizzo di sistemi di spillatura interamente refrigerati (compresi i tubi di raccordo - detti “Pitone”) o con pompe per consentire la “spinta” della birra verso il rubinetto. A livello casalingo, un sistema che possa prevenire tali problemi è rappresentato dall’utilizzo di un frigorifero che contenga fusti, tubi di raccordo e bombola di CO2 e mantenga tutto il sistema a temperatura costante. Ad esempio, i piccoli frigoriferi da 120 litri sono perfetti per crearsi un vero e proprio “banco di spillatura”, installando nella parte superiore i rubinetti a colonna (Figura 4.20). Se il mantenimento della temperatura a livello costante è un problema non risolvibile, l’utilizzo di un altro gas, accanto all’anidride carbonica, può essere la soluzione: l’azoto (N2), infatti, a differenza della CO2 non si discioglie nella birra e l’uso di un mix (ad esempio 80% CO2 e 20% N2) tra i due gas permette di aumentare la pressione di esercizio dell’impianto senza sovracarbonare la birra. L’uso dell’azoto, tuttavia, influisce sul servizio anche in altri modi: favorisce innanzitutto la tenuta della schiuma e la sua compattezza, arrivando a creare quei favolosi cappelli di schiuma tipici delle famose stout irlandesi. Ma influisce anche sulla percezione del gusto, soprattutto se la percentuale di azoto nel mix sale (nella famosa Guinness il mix è 30% CO2 e 70% N2): il risultato è un “ammorbidimento” del gusto, per alcuni addirittura un “appiattimento”.
Figura 4.20 - Un banco frigo per la spillatura casalinga.
Esistono diversi metodi di servizio della birra alla spina, ciascuno in grado di valorizzare alcuni aspetti particolari della birra in mescita. Tradizionalmente si riconoscono tre scuole: Spillatura belga/olandese, in cui il rubinetto viene aperto sopra un bicchiere bagnato con una pressione di servizio abbastanza elevata. Il bicchiere viene riempito in una unica rapida fase, creando un ampio cappello di schiuma che viene “tagliato” con una spatola, eliminando quella parte che presenta bolle grosse e irregolari. Lo scopo è quello di “violentare” la birra per far emergere gli aromi della stessa e di eliminare buona parte della CO2 in eccesso, rendendo la birra così più gradevole e digeribile. Spillatura inglese, effettuata con bicchiere asciutto, in una unica fase, mantenendo inclinato il bicchiere in modo tale da creare minor “turbolenza” nel servizio e creando un cappello di schiuma minimo. Diversamente dalla spillatura belga, qui non vi è necessità di eliminare l’anidride carbonica in eccesso con una mescita violenta, dal momento che tradizionalmente gli stili inglesi prevedono già una carbonazione lieve. Spillatura tedesca, realizzata in due-tre fasi, con una mescita delicata in un bicchiere bagnato e inclinato: dopo un primo lento riempimento del bicchiere, per minimizzare la formazione di schiuma, si attende che questa cali per effettuare un nuovo riempimento ed eventualmente un terzo successivo per completare il servizio. Tale metodo è adatto per preservare i delicati aromi di helles e pils.
Spillatura a “caduta” Il sistema di spillatura ad anidride carbonica o misto CO2-azoto, applicato a un fusto, permette per alcuni giorni il mantenimento della birra in buone condizioni e di effettuare successive spillature senza notare differenze apprezzabili. La birra spillata viene infatti sostituita dall’anidride carbonica, che è, per i nostri scopi, sostanzialmente un gas inerte. Nel sistema a caduta o manuale la birra viene spillata per semplice gravità (e quindi il fusto deve prevedere una valvola di sfogo che permetta l’ingresso di aria che subentri alla birra spillata) o attraverso pompe che spingano il liquido per mezzo di semplice aria invece di anidride carbonica. Ovviamente è intuibile che con questo metodo la conservabilità del fusto di birra è ben più limitata e che l’ossigeno che viene in contatto con il liquido ossida in poco tempo l’eventuale contenuto del fusto avanzato. Inoltre nel sistema a caduta il fusto perde immediatamente pressione al momento dell’apertura, quindi l’anidride carbonica contenuta nella birra si disperde, rendendo la birra sgasata in pochissimo tempo. Fondamentale, quindi, è prevedere il veloce esaurimento del fusto se viene scelto questo metodo di spillatura! Pompa inglese Il metodo tradizionale di servizio delle real ale in Gran Bretagna prevede - accanto alla spillatura a caduta, oggi meno frequente - l’uso della pompa inglese (Figura 4.21). Questa è fondamentalmente costituita da un semplice cilindro in acciaio, vetro o plastica (un tempo in ottone) del volume di 150-300 ml, con un pistone che, azionato a mano, “aspira” la birra dal fusto verso il rubinetto. Il fusto, come per la spillatura a caduta, deve prevedere una valvola di ingresso per l’aria e similmente deve essere terminato in tempi molto brevi per evitare ossidazioni della birra. Alcuni inseriscono al termine della bocca di spillatura un tappo (solitamente rosso), chiamato sparkler, che ha un certo numero di piccoli fori da cui la birra fuoriesce con una certa violenza. Il sistema sparkler ha l’effetto di aerare pesantemente la birra, facendo emergere una schiuma compatta simile a quella del servizio con l’azoto. Questa violenta manovra espelle dalla birra una percentuale di anidride carbonica, modificando il gusto della birra stessa, rendendola più “morbida”; per alcuni, tra i quali chi scrive, l’effetto complessivo è tuttavia negativo perché si traduce in un notevole affievolimento e appiattimento di aromi, soprattutto di quelli legati al luppolo.
Figura 4.21 - Spillatura a pompa di real ale.
Qualsiasi metodo di spillatura adottato, fondamentale importanza deve avere il processo di pulizia e sanitizzazione del sistema e delle vie. Anche la migliore birra, se spillata con attrezzatura sporca e incrostata (o peggio, infetta), risulterebbe imbevibile.
4.9 Note pratiche sulla produzione In questa sezione pratica vedremo una procedura passo dopo passo per produrre una birra all grain, riportando principalmente le notazioni pratiche; per la teoria si vedano i capitoli relativi alle varie fasi della produzione. Per praticità di spiegazione si fa riferimento a una ricetta e a una attrezzatura specifica, ma è facile estendere la procedura ad altre ricette ed equipaggiamenti, come riportato nella descrizione e nelle note. L’attrezzatura impiegata è semplice: pentola (in questo caso da 22-25 litri) usata sia per il mashing che per la bollitura; tino filtro tipo zapap per lo sparge; chiller a immersione; 2 tini di plastica per la fermentazione; sanitizzazione con candeggina.
Ricetta La ricetta utilizzata è quella di una birra bionda ad alta fermentazione, nello stile delle Belgian Blonde. Gli ingredienti sono indicati per 15 litri. Acqua: usare un tipo di acqua con basso residuo fisso (inferiore alle 150 ppm, parti per milione). Se il contenuto di calcio non è sufficiente, è possibile che sia necessaria una
correzione con solfato di calcio (gypsum), vedi paragrafo 2.3 e punto 9. Tabella 4.1 – Ricetta base per Belgian Blonde – 1060 OG. Ingredienti Tipo Grammi × 15 litri Tempo Malto pils 3750 Carahell 180 Estratto di grano 180 Styrian Goldings AA 5% 45 60 min Luppolo Saaz AA 4% 12 20 min Saaz AA 5% 15 5 min Fermentis T-58 Lievito Wyeast 3787 Trappist 125 ml Ammostamento Mash-in acqua a 58 °C, temperatura assestata a 52 °C Protein rest a 52 °C per 15 minuti Salire a 65 °C in 10-15 minuti Sosta a 65 °C per 60 minuti Fermentazione Fermentazione a 22 °C 7-10 gg. primario 7-10 gg. secondario
Macinazione 1. Pesare i grani previsti dalla ricetta, senza mescolare fra loro i vari tipi. 2. Macinare tutti i grani, verificando di tanto in tanto la correttezza della macinatura per ciascuno dei tipi di malto.
Ammostamento (mashing) 3. Nel frattempo, versare la quantità di acqua prevista dalla ricetta (indicativamente 2,8 litri per kg di grani), nel nostro caso 11 litri, e accendere il fuoco. 4. Portare l’acqua a una temperatura di circa 6-7 °C superiore a quella prevista nella ricetta per la prima “sosta” e spegnere il fuoco: portiamo cioè la temperatura a 58 °C per la prima sosta a 52 °C. Una formula più esatta dipende dal rapporto acqua/grani; se si mantiene questo rapporto nei valori indicati, si può calcolare 6 °C se il mash-in viene effettuato fra i 50 e i 55 °C (inizio con sosta per proteasi) o 7 °C se si inizia direttamente con la sosta di saccarificazione, tra i 60 e i 70 °C. È consigliabile – sia in questa che in ogni altra fase di riscaldamento – spegnere il fuoco un paio di gradi al di sotto della temperatura da raggiungere, perché l’”inerzia termica” della pentola può far sì che l’acqua continui a riscaldarsi. 5. Versare tutti i grani nella pentola, mescolare e verificare che la temperatura sia
quella prevista (in questo caso 52 °C). In caso contrario, accendere brevemente il fuoco (mescolando) per rialzare la temperatura, o aggiungere acqua fredda per abbassarla (Figura 4.23). 6. Sosta per la proteasi. Mantenere la miscela a questa temperatura (52 °C) per la durata prevista dalla ricetta (15 min.) Per la sosta per la proteasi si consiglia in genere di non eccedere i 15-20 minuti. 7. Al termine della sosta di 15 minuti, accendere il fuoco e (mescolando) portarsi alla temperatura prevista per la sosta successiva, cioè 65 °C. Spegnere e iniziare la sosta (Figura 4.24). 8. Se si dispone di pH-metro o di cartine tornasole, dopo 5 min. prendere una piccola quantità di mosto e misurare il pH. Se la ricetta è corretta, il pH dovrebbe essere automaticamente al valore giusto (tra 5,0 e 5,8). 9. Se si è misurato il pH ed esso è troppo alto (risp. basso), aggiungere piccole quantità di solfato di calcio (risp. carbonato di calcio), mezzo cucchiaino alla volta; mescolare e misurare nuovamente dopo pochi minuti. 10. Mantenere la miscela alla temperatura prefissata (65 °C) per tutta la durata prevista dalla ricetta. Indicativamente, nel caso di sosta unica la durata dovrebbe essere di circa un’ora. Periodicamente è necessario rimescolare e verificare la temperatura. Nel caso che questa sia diminuita di 2 gradi o più, accendere brevemente il fuoco (mescolando) per rialzarla (Figura 4.27). Nel frattempo, occorre cominciare a scaldare l’acqua che sarà necessaria per lo “sparging” - punti 14 e seguenti. Al termine della durata prevista per la sosta, se vi è una sosta successiva accendere il fuoco (mescolando) per portarsi alla temperatura prevista per essa. 11. Al termine della durata prevista (60 minuti), se non sono necessarie altre soste effettuare il test della tintura di iodio, già descritto nel paragrafo 4.2: prendere un cucchiaino di liquido della miscela, versarlo in un piattino e depositarvi sopra alcune gocce di tintura di iodio. Se si ottiene un colore bluastro, occorre prolungare la sosta, mantenendo ancora la stessa temperatura ed effettuando nuovamente il test ogni 10 o 15 minuti. Quando il test darà un colore rossiccio, sarà possibile proseguire al punto successivo. 12. Riaccendere il fuoco e – mescolando – portare la miscela a una temperatura di 77 °C circa. Questa sosta è chiamata “mash out”, e il suo scopo è duplice: inattivare gli enzimi detti “beta amilasi” (in modo che questi non possano rendere il mosto troppo fermentabile - vedi parte teorica) e rendere il mosto più fluido per la successiva filtrazione. Mantenere questa temperatura per 10 minuti prima di passare al punto successivo. Se si teme di non riuscire a cogliere le differenze di colorazione per il test allo iodio, è consigliabile per le prime volte effettuare il test anche subito all’inizio dell’infusione, per rendersi conto della colorazione in presenza di amido non convertito.
La conversione può avvenire anche in un tempo minore di un’ora, ma in questo caso per diverse ragioni si consiglia di prolungare la sosta per tutto il tempo previsto.
Non superare mai la temperatura di 80 °C.
Filtrazione delle trebbie (sparging) 13.
14.
15.
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19.
Versare nello zapap alcuni litri di acqua a 80 °C in modo tale da riempire completamente l’intercapedine fra il fondo del secchio interno e quello esterno, fino a farla appena affiorare nel secchio interno forato. Assicurarsi che il rubinetto sia chiuso! Con un mestolo o con una brocca trasferire tutta la miscela (sia la parte liquida che quella solida) nello zapap. Cominciare a trasferire prima prevalentemente i solidi (le cosiddette “trebbie”), cercando di formare un fondo uniforme ma senza pressare, evitando di formare buchi. Trasferire poi tutto il rimanente mosto e le trebbie, cercando di non ossigenare (cioè senza schizzare o causare dello “splashing”) (Figura 4.28). Finito il travaso, chiudere lo zapap con un coperchio o altro (straccio ecc.) e lasciar riposare per 10-15 minuti. Nel frattempo, se si desidera utilizzare la pentola per infusione anche per la raccolta del mosto e la successiva bollitura, approfittiamo di questo tempo per sciacquarla e ripulirla dagli eventuali residui. Aprire il rubinetto dello zapap per lasciar defluire lentamente il liquido in una brocca, e richiuderlo prima che sia riempita. Quasi sicuramente il mosto ottenuto in questa fase iniziale sarà torbido con particelle in sospensione. Rimettere il liquido ottenuto nello zapap, versandolo attraverso un mestolo forato, o con altro dispositivo, in modo da spezzare il flusso e ottenere una sorta di “gocciolamento”. L’importante è che non vi sia un flusso troppo forte e brusco che creerebbe delle “canalizzazioni” nel letto delle trebbie. Riaprire il rubinetto e ripetere la procedura di cui sopra, fino a che il mosto che esce dal rubinetto sia del tutto privo di impurità. Non è necessario che sia perfettamente limpido (in questa fase è impossibile), basta che non vi siano troppe particelle in sospensione. In genere è sufficiente effettuare l’operazione due o tre volte (Figura 4.29). Quando il livello del liquido nello zapap è a circa 3 o 4 cm sopra il letto di trebbie, si può cominciare lo “sparging” vero e proprio. Con una brocca prendere l’acqua che nel frattempo abbiamo scaldato a 80 °C e versarla lentamente nello zapap come descritto nel punto 17. A mano a mano che si raccoglie il mosto nella pentola, si continua ogni tanto a versare l’acqua calda nello zapap in modo da mantenere sempre uno strato di liquido di pochi centimetri sopra il letto di trebbie. Questa tecnica di sparging è chiamata “fly sparging” (Figura 4.30). Raggiunta una quantità di 18 litri nella pentola (ovvero, il 20% in più della quantità
finale desiderata), chiudere il rubinetto: la fase di sparging è terminata! Per altre considerazioni su quanta acqua utilizzare e quando terminare lo sparge, vedere i capitoli tecnici.
Bollitura 20. Accendere e portare a bollitura. Nel frattempo, pesare i 45 g di luppolo Styrian Goldings e inserirlo nell’apposito sacchettino (hop bag). 21. Quando il mosto inizia a bollire aggiungere l’hop bag contenente il luppolo Styrian Goldings (in questo caso usato come luppolo “da amaro”). Il tempo preciso di bollitura è importante solo per il luppolo; zucchero ed estratto (se presenti) devono solo sciogliersi e bollire per qualche minuto. Conviene quindi aggiungere prima il luppolo e prendere il tempo dal questo momento, poi inserire con calma gli eventuali ingredienti rimanenti (aggiungere quindi l’estratto di grano della ricetta durante la bollitura, ad es. dopo 40 minuti). 22. Lasciar bollire, mescolando ogni tanto per far sciogliere zucchero ed estratto e per far affondare il luppolo. Il coperchio va tolto o tenuto solo parzialmente. Bollire vivacemente ma fare molta attenzione: a volte il contenuto del pentolone cerca di fuoriuscire dallo stesso quando meno ve l’aspettate! Nel frattempo, pesare l’estratto di malto di frumento, e le quantità di luppolo Saaz da aggiungere successivamente, inserendole negli appositi sacchetti. 23. Aggiungere l’estratto di malto di grano, mescolando affinché non si attacchi sul fondo della pentola. 24. Dopo 40 minuti dal punto 21, cioè 20 minuti prima di spegnere, aggiungere l’hop bag contenente i 12 grammi di luppolo Saaz. 25. Se si usa un “chiller” (raffreddatore) a immersione, è il momento di inserirlo nella pentola in modo che la bollitura lo sterilizzi. 26. Dopo 55 minuti dal punto 21, cioè 5 minuti prima di spegnere, aggiungere l’hop bag contenente i 15 grammi di luppolo Saaz. Attenzione! Durante i primi momenti l’acqua che esce dal tubo è molto calda… assicuratevi che il getto del tubo non possa inavvertitamente dirigersi verso di voi. Se sprovvisti di chiller, mettere la pentola in una vasca piena di acqua fredda (anche se si tratta di una soluzione meno efficace). 27. Dopo 60 minuti dal punto 21, spegnere e far raffreddare il più in fretta possibile. L’uso di un chiller a immersione con i suoi due tubi di raccordo è semplice ed efficace. Collegare il capo di uno dei tubi al rubinetto dell’acqua di rete (se provvisto di filettatura), usando il raccordo apposito, e l’altro capo alla serpentina stringendo bene la fascetta. Collegare poi un capo dell’altro tubo alla serpentina, lasciando l’altro capo (da cui uscirà l’acqua) nel lavello (Figura 4.31).
Se si usa lievito liquido, omettere il punto 28. 28.
Se si usa il lievito secco T-58, nel frattempo, aprire la bustina e versare il contenuto in una tazza contenente 200 ml circa di acqua, senza mescolare (se non si è sicuri della qualità della propria acqua di rete, bollirla precedentemente oppure usare acqua minerale in bottiglia). 29. Durante il raffreddamento, oppure già durante le fasi di bollitura sopra descritte, si può procedere con la sanitizzazione. Oltre al tino di fermentazione, va sanitizzato tutto quello che andrà a contatto con il mosto: eventuali tubi, imbuti, mestoli, densimetro, termometro, gorgogliatore, coperchio del tino e così via. Riempire il tino di acqua, aggiungere mezzo bicchiere di candeggina, mescolare e (se possibile) inserire nel tino stesso i vari oggetti da sanitizzare. Lasciare per circa 10 minuti e sciacquare bene. Naturalmente si possono usare gli altri metodi di sanitizzazione descritti nel relativo capitolo. 30. Quando il mosto ha raggiunto la temperatura di 22 °C, travasarlo nel tino di fermentazione, usando il rubinetto se presente, altrimenti un pentolino o grosso mestolo. Procedere fino a lasciare sul fondo della pentola il deposito di proteine, in genere circa un dito di mosto; volendo recuperare una quantità maggiore di mosto, si può effettuare un grossolano filtraggio, usando un colino a trama sottile contenente un po’del luppolo usato, in modo che questo faccia da filtro. 31. Verificare la quantità prodotta e, con il densimetro, la OG (gradazione zuccherina). Se l’efficienza del processo è stata stimata correttamente, entrambe le misure dovrebbero essere approssimativamente in linea con le previsioni (15 litri, OG 1060). Una quantità minore e/o una OG troppo alta possono essere corrette con l’opportuna aggiunta di acqua fredda: ad esempio, se abbiamo prodotto 15 litri a 1064 (“64 punti di OG”) per portare la OG a 1060, la quantità deve essere 15∗64/60=16 litri, e si dovrà quindi aggiungere un litro di acqua. Una quantità maggiore, in genere, non è certo un problema, mentre una OG troppo bassa può essere corretta con una aggiunta di zucchero (preferibilmente bollito in pochissima acqua) oppure serenamente accettata! Mescolare bene il mosto per una corretta misurazione della OG! 32. Se si sono effettuate aggiunte di acqua o zucchero, misurare nuovamente la OG. Il valore rappresenta la gradazione saccarometrica della nostra birra, e servirà a determinarne il contenuto alcolico. 33. Mescolare vigorosamente il mosto per qualche minuto per ossigenarlo; in alternativa usare le tecniche di ossigenazione indicate nel relativo capitolo. 34. Nel frattempo la bottiglia con il mosto e il lievito dovrebbe aver cominciato a sviluppare una densa schiuma (dovrebbe essersi “reidratato”). Quando ciò sarà avvenuto, versare il lievito reidratato nel tino e mescolare (Figura 4.34).
35. Chiudere il tino con un coperchio, sistemarvi un gorgogliatore e portare il tino nel luogo scelto per la fermentazione. Nel caso di lievito liquido in confezione da 50 ml, si sarà proceduto nei giorni precedenti alla propagazione mediante uno starter che andrà inoculato nel mosto. Se si è usata una fiala Whitelab da 150 ml, aprirla in questo momento e inocularla nel mosto. Lo stesso per una busta Wyeast attivata da 125 ml, con l’avvertenza di sanitizzare sia l’angolo della busta che verrà tagliato che le forbici.
Fermentazione La fermentazione di questa birra dovrà avvenire tra i 20 °C e i 22 °C di temperatura ambiente; la quasi totalità degli zuccheri verrà fermentata nel giro di 4-7 giorni circa. 36. Dopo qualche ora dall’aggiunta del lievito, il mosto dovrebbe iniziare a produrre una schiuma densa sempre più consistente; questo avviene normalmente dopo 5 - 15 ore dall’aggiunta del lievito, a seconda del tipo di lievito impiegato. Se ciò non avvenisse entro 24 ore, provare a rimescolare, verificare se l’ambiente è troppo freddo e, se necessario, ripetere l’attivazione/reidratazione e l’aggiunta del lievito (punti 28 e 34). Un altro indizio della fermentazione è il classico “borbottio” del gorgogliatore, ma accade spesso che questo non si verifichi (ad esempio per una chiusura non perfettamente ermetica del coperchio) nonostante la fermentazione sia attiva. Prima di concludere che la fermentazione non è partita, verificare la presenza di schiuma! 37. Dopo circa 7 giorni dall’inizio della fermentazione, verificare che essa abbia terminato la sua fase più intensa (schiuma ridotta, riduzione o assenza del passaggio di bolle nel gorgogliatore) e si sia svolta per la sua maggior parte (densità inferiore eguale o di poco superiore a ¼ della OG registrata al punto 3132). Nella ricetta che stiamo illustrando, verificare che la densità sia inferiore a 1020. 38. Verificato il punto precedente, travasare in un secondo fermentatore, utilizzando un sifone oppure tramite il rubinetto; in questo caso collegare al rubinetto un tubo che arrivi a toccare il fondo del tino nel quale si vuole travasare, per evitare di schizzare e creare schiuma, con il rischio di ossidare la birra. Trasferire più birra possibile lasciando sul fondo il solo sedimento di lievito. Ricordarsi di sanitizzare il secondo fermentatore, il tubo e tutti gli oggetti che andranno a contatto con la birra. Il passaggio al secondo fermentatore è consigliabile ma non indispensabile: è quindi possibile omettere i punti 37 e 38 e condurre tutta la fermentazione nello stesso tino. In tal caso si consiglia di non prolungare eccessivamente la durata della fermentazione, passando al punto 39 dopo non più di 10 giorni dall’inizio della stessa.
39. Dopo altri 7 giorni circa, verificare che la fermentazione sia del tutto terminata, controllando l’assenza di schiuma e di attività del gorgogliatore, e soprattutto la densità. Controllare che questa abbia raggiunto un valore minore, eguale o di poco superiore alla densità finale prevista (che in questo caso è intorno ai 1014, quindi indicativamente la densità non dovrà essere superiore ai 1018) e che tale valore sia rimasto costante negli ultimi due o tre giorni. Importante: non avere fretta di imbottigliare! 40. Verificato il punto precedente, lasciar riposare il mosto per almeno un paio di giorni (meglio se in un luogo freddo, ad esempio in frigorifero) per lasciarlo decantare fino a perdere gran parte della sua torbidezza. L’uso di un coperchio ermetico e di un gorgogliatore è consigliabile, specie per ridurre i fattori di rischio nelle prime produzioni; non è tuttavia tassativo, dato che è possibile condurre la fermentazione anche in modo “aperto”, se si è sicuri che l’ambiente di lavoro non sia contaminato. Se si sceglie la fermentazione ermetica, è comunque possibile, senza rischi significativi, rimuovere occasionalmente il coperchio per controllare la presenza di schiuma, prelevare mosto per il densimetro ecc.
Imbottigliamento 41.
Sanitizzare bottiglie e attrezzatura. Oltre al tino di imbottigliamento, anche in questa fase va sanitizzato tutto quello che andrà a contatto con il mosto: tubi, imbuti, mestoli, densimetro… (Figura 4.35). Riempire il tino di acqua, aggiungere mezzo bicchiere di candeggina, mescolare e (se possibile) inserire nel tino stesso i vari oggetti da sanitizzare. Lasciare per circa 10 minuti e sciacquare bene. Naturalmente si possono usare gli altri metodi di sanitizzazione descritti nel relativo capitolo. Con lo stesso metodo vanno sanitizzate anche le bottiglie da utilizzare e i relativi tappi e guarnizioni. 42. Calcolare 6 grammi di zucchero per litro di birra (in questo caso, 90 grammi) e disciogliere in non più di mezzo litro di acqua. Far bollire e raffreddare. 43. Travasare la birra nel tino di imbottigliamento, utilizzando un sifone oppure tramite il rubinetto; in questo caso collegare al rubinetto un tubo che arrivi a toccare il fondo del tino nel quale si vuole travasare, per evitare di ossidare la birra. Trasferire più birra possibile lasciando sul fondo il sedimento di lievito. Non filtrare la birra. Molto pratico l’impiego di un’asta da travaso applicata all’estremità del tubo. La birra fluisce solo premendo con la punta dell’asta contro il fondo della bottiglia, e si interrompe immediatamente quando si smette di premere.
44. Versare l’acqua zuccherata nella birra e mescolare delicatamente. 45. Collegare al rubinetto del tino di fermentazione un tubo di plastica sufficientemente lungo da arrivare sul fondo delle bottiglie utilizzate. Aprire il rubinetto e imbottigliare lasciando circa 3 cm di aria tra birra e tappo se si usano bottiglie da 33 cl., o in proporzione per bottiglie diverse. 46. Tappare le bottiglie. 47. Lasciare le bottiglie per dieci giorni in un luogo abbastanza caldo (20-25 °C). 48. Dopo dieci giorni, trasferire se possibile la birra in un luogo più fresco (10-15 °C), comunque non troppo caldo e al riparo dalla luce. 49. Dopo altre 1 o 2 settimane la birra sarà già limpida con il lievito depositato sul fondo, ma dovrà maturare ancora per essere buona. Indicativamente: - birre leggere: 3-4 settimane almeno, meglio 2 mesi, fino a 6 mesi; - birre di media gradazione: 6 settimane almeno, meglio 3 mesi, fino a 8-10 mesi; - birre forti: almeno 3-4 mesi, fino a oltre 1 anno.
Ossigenazione e ossidazione In tutte le fasi di preparazione, in particolare durante i vari travasi, cercare di non introdurre aria (e quindi ossigeno) nel mosto, tranne che al punto 33, ovvero immediatamente prima della fermentazione. Questo per minimizzare i rischi di ossidazione (e in parte anche di infezione). Per evitare confusione: ossigenazione = introduzione di ossigeno, volontaria o meno ossidazione = reazione (indesiderata) causata dall’ossigeno in certe situazioni splashing = indica introduzione involontaria di aria e quindi ossigeno Il rischio di ossidazione è particolarmente alto a partire dal momento in cui la fermentazione più vivace è finita, quindi durante i vari travasi successivi e l’imbottigliamento. Infatti la ridotta attività del lievito non permette un rapido assorbimento dell’ossigeno, e il periodo di maturazione in bottiglia è abbastanza lungo perché possano avvenire eventuali reazioni di ossidazione. Al contrario, all’inizio della fermentazione l’ossigeno è essenziale per la salute del lievito e quindi per una buona fermentazione, e dato che l’O2 stesso verrà rapidamente consumato dal lievito, i rischi di ossidazione sono minimi. Più controverso è il fatto che ci sia grave rischio di ossidazione nelle fasi precedenti la bollitura: in teoria questo è possibile, anche perché le temperature alte velocizzano qualsiasi reazione. È però anche vero che in questo caso non ci sono giorni a disposizione per l’ossidazione, ma solo ore; inoltre sono noti diversi casi di birrerie che durante le fasi di mashing e sparging permettono che molta aria si introduca nel prodotto, senza che questo ne risenta. Le stesse considerazioni si possono fare per i rischi di ossigenazione durante le fasi iniziali del raffreddamento: il rischio c’è, ma se il raffreddamento è veloce i danni sono relativi, oltretutto immediatamente dopo l’ossigeno sarà invece necessario.
Figura 4.22 - Macinazione con mulino a dischi.
Figura 4.23 - Il mash in, ovvero l’inserimento dei grani e l’inizio dell’ammostamento.
Figura 4.24 - Inizio dell’ammostamento.
Figura 4.25 - Misurazione del pH con le apposite cartine.
Figura 4.26 - Misurazione del pH.
Figura 4.27 - Alla fine dell’ammostamento il mosto risulta più limpido.
Figura 4.28 - Il travaso di mosto e trebbie nello zapap.
Figura 4.29 - Il primo mosto raccolto in un pentolino, per essere poi reinserito nello zapap.
Figura 4.30 - Risciacquo (sparge) effettuato manualmente.
Figura 4.31 - Raffreddamento con serpentina inserita nella pentola.
Figura 4.32 - Reidratazione del lievito secco.
Figura 4.33 - Misura della OG con densimetro.
Figura 4.34 - L’inseminazione del lievito.
Figura 4.35 - Sanitizzazione del tino di imbottigliamento e di tutto quello che verrà utilizzato per imbottigliare.
Figura 4.36 - Il travaso nel tino di imbottigliamento.
1 Dennis Briggs et al., Brewing Science and practice, ed. Woodhead Publishing Limited, Abington (UK), 2004. 2 S. Holler, Sparging: A Comparison of Batch and Continuous Sparging, Brew Your Own Vol. 14 N.2. 3 John J. Palmer, How to Brew, Defenestrative Pub Co, p. 111. 4 C. Colby, Extract Method to your Madness, Brew Your Own, Vol. 12 N. 5. 5 C. Papazian, The New Complete Joy of Home Brewing, edizoni Avon Books. 6 A. Korzonas, Homebrewing vol. 1, ed. Sheaf & Vine, p. 115-117.
Capitolo 5 Approfondimenti
Sommario Problemi e difetti Progettare la propria birra Degustare una birra Postfazione La mia birra ha un problema: devo buttare tutto? Risposta alla domanda: MAI! Spesso si può rimediare! Non sempre va tutto liscio nella produzione birraria casalinga: per inesperienza, distrazione o sottovalutazione delle procedure possono emergere problemi nel processo produttivo oppure cattiva qualità nel prodotto finale. Alcuni problemi sono virtuali e semplicemente dovuti all’ansia dell’homebrewer, altri sono ben evidenti, altri ancora possono esserci senza che ce ne rendiamo conto! Qui di seguito alcune delle questioni più comuni.
5.1 Problemi e difetti Il classico grido di dolore di un neofita è: il gorgogliatore non gorgoglia! Nella metà di questi casi il fermentatore non è a tenuta stagna e, benché la fermentazione proceda vigorosa, il classico accessorio di plastica trasparente non dà segni di vita. È sufficiente verificare, quindi, la presenza della schiuma di fermentazione sulla superficie del mosto: se non si udirà il “blub” poco male, ci sarà meno poesia ma la birra riuscirà comunque! La seconda metà dei casi di apparente assenza di fermentazione è dovuta a una cattiva preparazione del lievito: se quello secco non viene reidratato in acqua tiepida 25-30° C con il dovuto anticipo (15-20 min) o quello liquido non viene attivato correttamente, ci possono essere ritardi nella fermentazione. Per una buona birra il lievito dovrebbe lavorare sempre al meglio e quindi essere inserito nel mosto in condizioni sane e vitali: verificare quindi sempre che ci sia evidente attività e agevolarlo nella prima fase con una sufficiente ossigenazione del mosto. Paragoniamo sempre il lievito a una persona che si sveglia al mattino presto a cui prepariamo un pranzo di Natale: diamogli il tempo di adeguarsi all’ambiente prima che inizi a
mangiare con appetito!
“Il classico grido di dolore di un neofita è: il gorgogliatore non gorgoglia!” Un errore tipico degli homebrewer agli inizi della propria carriera è quello di inserire il lievito quando il mosto non è ancora stato raffreddato adeguatamente: “scottare” il lievito con mosti a 50-60° C significa condannarlo a morte certa. Idealmente il lievito dovrebbe essere immesso nel mosto alla temperatura consigliata di fermentazione o al limite di due-tre gradi superiore. Altre cause di fermentazione ferma o rallentata possono infine essere identificate nella temperatura troppo bassa del locale di fermentazione (sotto i 16°C circa) o nella sanitizzazione eccessiva, con un cattivo risciacquo del fermentatore: in questo caso il sanitizzante potrà anche inibire l’attività del lievito. Se necessario, qualora il lievito non dia proprio segni di vita, si può tentare di recuperare la situazione mescolando il mosto per riportare in circolo il lievito già presente, oppure aggiungendo nuovo lievito secco opportunamente reidratato. Un altro tipo di problema è invece la fermentazione che parte bene ma che improvvisamente si interrompe; l’ipotesi della temperatura troppo bassa è sempre valida, ma spesso il problema è solo apparente: la lettura del densimetro può essere inaccurata oppure abbiamo utilizzato degli ingredienti meno fermentabili (es. estratto di malto al posto dello zucchero) rispetto alla ricetta originale. In altri casi il problema è dato dal lievito “stanco” o quantitativamente insufficiente a fermentare un mosto ad alta OG: qui la cura è la… prevenzione, inserendo la opportuna quantità di lievito ben attivo. Un altro caso classico è dato dall’utilizzo di una grossa quantità di zucchero da tavola nel mosto: in questo caso il mosto contiene meno sostanze nutrienti per il lievito (che lo zucchero non è in grado di fornire) e in più il lievito tende ad “abituarsi” a consumare gli zuccheri semplici e poi si “addormenta” nel momento di aggredire il maltosio. Evitiamo quindi, in genere, grosse aggiunte di zucchero!
Problemi nell’imbottigliamento Le bottiglie possono dare due tipi di problemi. Assenza di carbonazione, dovuta quasi sempre alla fretta dell’homebrewer nell’assaggio; appurato che è stata opportunamente inserita la giusta quantità di zuccheri per la carbonazione appena prima dell’imbottigliamento, non ha senso aprire una bottiglia prima di almeno due settimane di maturazione effettuata alla medesima temperatura della fermentazione primaria. In alcuni casi particolari, con birre molto alcoliche (come, ad esempio, i barley wine), il lievito fa fatica a risvegliarsi e a effettuare la rifermentazione in bottiglia: qui è necessario attendere qualche ulteriore settimana oppure prevenire il problema e imbottigliare inserendo lievito fresco e ben tollerante all’alcol. La mancata/insufficiente carbonazione può anche essere causata dalla conservazione delle bottiglie a temperatura troppo bassa immediatamente dopo l’imbottigliamento: in tal caso alcuni lieviti possono risultare incapaci di avviare la rifermentazione (se non in tempi molto lunghi). Un’altra ovvia (ma più rara) causa è la scarsa tenuta del tappo che ha causato
perdita di CO2; per le bottiglie con tappo meccanico si consiglia a tale proposito una periodica sostituzione delle guarnizioni. Eccesso di carbonazione sino alle vere e proprie fontane di birra! In questo caso le cause possono essere di tre tipi: 1. troppi zuccheri aggiunti per la carbonazione in bottiglia; 2. imbottigliamento a fermentazione non ancora conclusa: MAI avere fretta di imbottigliare; meglio lasciare sempre la birra nel fermentatore qualche giorno in più del necessario; 3. infezioni: esistono batteri e lieviti selvaggi che riescono a metabolizzare zuccheri complessi che il lievito selezionato non aggredirebbe: la rifermentazione in bottiglia viene quindi realizzata oltre le nostre attese. Spesso tali infezioni non sono evidenti al gusto e ce ne accorgiamo solo per la elevata carbonazione, unita a una inaspettata carenza di corpo della birra. Nel caso 3) non ci sono soluzioni (salvo, naturalmente, curare meglio la sanitizzazione nelle cotte successive), mentre negli altri due si possono evitare le fontane (o peggio: le esplosioni delle bottiglie!) aprendo le bottiglie e lasciandole sgasare per qualche ora. In alcuni casi si ha un effetto fontana non dovuto a eccessiva carbonazione: è come se tutta la CO2 presente nella birra cerchi di uscire dalla soluzione (e dalla birra…) quasi istantaneamente, con effetti a dir poco spiacevoli, ma senza che la birra stessa sia particolarmente frizzante. Le cause di questo fenomeno non sono del tutto chiare, ma vengono generalmente attribuite alla scarsa qualità del malto, o alla presenza di piccole impurità nella birra (ad esempio nel caso di birre aromatizzate con frutta e simili o di residui di luppolo da dry hopping). Anche in questo caso l’unica cura è “a priori”, ovvero nella selezione di malto di buona qualità e nella cura del filtraggio in caso di aggiunte (ad es. di frutta) in fase di fermentazione.
Problemi nell’aspetto della birra Talvolta la birra homebrewed non appare secondo le aspettative del birraio. Scarsa tenuta della schiuma: naturalmente una testa di schiuma molto scarsa o assente può essere causata da una carbonazione insufficiente o nulla. Se invece la birra è frizzante al punto giusto, ma la schiuma si forma con difficoltà e/o ha una tenuta (durata) troppo breve, le cause possono essere diverse. Una sosta per le proteasi (protein rest) troppo prolungata può causare una eccessiva demolizione delle proteine e conseguente scarsa tenuta della schiuma. Birre molto alcoliche e/o con alta percentuale di zuccheri semplici possono in certi casi presentare questo problema, come pure birre realizzate con aggiunta di ingredienti ricchi di grassi (cacao, noci ecc.). Una causa più banale è la presenza di grassi o di residui di brillantante nel bicchiere! Eccessiva torbidezza: il fatto che una birra artigianale o casalinga sia torbida in quanto “naturale” e non filtrata non è una giustificazione: è possibile e abbastanza facile produrre birre perfettamente limpide (almeno a temperatura non troppo
bassa) senza ricorrere né a filtraggi, né a centrifughe o chiarificanti! Una leggera torbidezza in una birra servita a temperatura molto bassa è abbastanza normale e accettabile (considerato che, in ogni caso, una birra non andrebbe mai servita troppo fredda), ma se questo problema (chill haze) è troppo accentuato, le cause vanno rintracciate generalmente nell’uso di malti poco modificati o di cereali non maltati, in cui si sia omesso del tutto il protein rest. Prevedere quindi una sosta, non troppo prolungata, tra i 50 e i 55 ° C, se si usa, ad esempio, un malto pils non eccessivamente modificato. A volte anche lotti particolari di malti solitamente “sicuri” (come il pale ale) possono dare questi effetti. Problemi ancora maggiori si possono verificare usando malti che necessitano di ammostamento (cioè la maggior parte) senza effettuarlo, ad esempio usandoli nella tecnica estratto+grani: la conseguenza è una torbidità da amido (starch haze). Da notare che, secondo alcuni, anche certi malti carapils necessiterebbero di ammostamento. Altre cause di una torbidità persistente a tutte le temperature possono ricercarsi in infezioni (vedi sotto) o nell’uso di un lievito poco flocculante (cioè che rimane “polveroso” senza depositarsi), nel caso di particolari ceppi o a causa di mutazioni di un ceppo solitamente ben flocculante. Colore diverso dal previsto: fatte salve errate formulazioni di una ricetta, un colore troppo scuro (o meglio, troppo poco chiaro in una birra che si voleva bionda) può essere causato da una bollitura troppo prolungata o intensa del mosto, o dall’ossidazione di ingredienti vecchi e mal conservati (ad es. estratto di malto, che tende a scurirsi col tempo).
Problemi nell’assaggio Una birra mal riuscita può avere numerosissime cause, dalla non buona qualità delle materie prime, al cattivo lavoro del lievito, alle infezioni: l’importante è farsi un’idea sulle cause per porvi rimedio nella successiva birra! Un problema molto comune e facilmente risolvibile è il cosiddetto aroma invadente di lievito/crosta di pane. Le cause sono quasi sempre da ricercarsi nell’utilizzo di lievito di non buonissima qualità e/o di una quantità eccessiva di lievito in bottiglia. Uno o due travasi verso un secondo fermentatore prima dell’imbottigliamento permetteranno di risolvere il problema. I problemi più comuni, evitando di parlare qui di estratti di mosto luppolati o di ricette non equilibrate, sono riconducibili sostanzialmente a due cause: cattivo lavoro del lievito e infezioni. Cattivo lavoro del lievito: anche se la sua maggiore produzione consiste per il 99% in alcol etilico e CO2, il lievito sintetizza in minima parte anche altre sostanze (come alcoli superiori ed esteri) che hanno una bassissima soglia di percezione. La produzione di tali sostanze è in relazione al ceppo di lievito (sappiamo, ad esempio, che il lievito weizen produce aromi fenolici e di banana), ma soprattutto alla modalità del suo utilizzo, principalmente temperatura e quantità di zuccheri da processare. Spesso solventi e fruttati eccessivi sono dovuti a temperature di fermentazione
troppo alte: non di rado dimentichiamo, infatti, che il processo di fermentazione è esotermico, ossia produce calore, alzando di 2-3 gradi la temperatura del fermentatore. Se partiamo già al limite superiore suggerito per quel particolare lievito, con la fermentazione raggiungiamo livelli inopportuni. Curare bene la temperatura di fermentazione, quindi! Il secondo aspetto da curare è il rapporto quantità di lievito/quantità di zuccheri da fermentare: se le cellule di lievito sono troppo poche rispetto al lavoro atteso (in birre di alte OG, ad esempio), queste sono costrette a fare un “superlavoro”, sottoponendosi a uno stress che ne influenza le “prestazioni”. Empiricamente, quindi, una bustina da 50 ml di lievito liquido ben attivo può essere sufficiente per 20 litri di birra OG 1040, ma, salendo di gravità, è necessaria una sua efficace replicazione (starter): mezzo litro di starter per OG 1055, 1 litro per OG 1080. Per le basse fermentazioni, empiricamente, la quantità del lievito deve essere doppia rispetto alle alte fermentazioni. Infezioni: pur curando la sanitizzazione dell’attrezzatura, un’infezione può capitare a tutti. Talvolta anche ai più attenti, magari per una partita di lievito non corretta. Dal punto di vista statistico, i maggiori problemi emergono quando gli homebrewers trascurano, in particolare, due punti delicati: il rubinettino e la guarnizione del tappo del fermentatore. Nel primo si ritrovano talvolta sedimenti interni che sfuggono a una prima occhiata, mentre la guarnizione (che parecchi homebrewers non tolgono quasi mai dal tappo) nasconde muffe e incrostazioni. Dopo ogni utilizzo è bene, quindi, smontare questi due elementi, ispezionarli e pulirli bene: nel caso che il rubinettino mantenga macchie scure in aree non raggiungibili, deve essere lasciato qualche ora in soluzione di soda o addirittura sostituito. Le infezioni possono essere sostanzialmente identificate da questi problemi: Sapore acido: se ricorda yogurt o limone, si tratta di batteri lattici; se l’acidità si sente anche in gola, allora probabilmente si tratta di batteri acetici. Oltre a questi batteri, più comuni, la birra può essere rovinata da lieviti selvaggi (pediococcus o brettanomices) che si manifestano con acidità elevata e aromi di cuoio, muffa ecc. Viscosità eccessiva: alcune infezioni possono rendere torbida la birra o anche viscosa e gelatinosa (infezione “filante”). Spesso si forma anche il “colletto” alla bottiglia, ossia un deposito sul vetro a livello della superficie del liquido. Assenza di corpo e carbonazione eccessiva: come citato precedentemente, alcuni lieviti selvaggi (pediococcus o brettanomices) possono metabolizzare anche zuccheri complessi. Ulteriori frequenti problemi nel gusto non dipendenti da infezioni possono essere: Sidroso: (assaggiare un sidro per provarlo) può avere molte cause, ma spesso è il risultato di un’aggiunta eccessiva di zuccheri semplici, sia di canna che normale, ma anche di miele nella ricetta. Tende comunque a decrescere con la maturazione. Astringenza: è caratterizzata da una “legatura dei denti”, simile a quella che si avverte mangiando un caco acerbo o succhiando una bustina di tè. È una nota secca, un qualcosa di polveroso, ed è spesso il risultato di un
ammostamento/filtrazione troppo lunghi con valori di pH dell’impasto oltre 5,6-5,8, oppure ancora dell’uso di acqua troppo calda nella sciacquatura delle trebbie. Sapore di medicinale: è spesso causato dalla presenza di cloro. Questo non solo perché esso ha di per sé un aroma sgradevole, ma soprattutto perché, combinandosi con alcuni composti derivanti dal luppolo, dà origine ai clorofenoli, composti la cui soglia di percezione è molto bassa e che hanno uno sgradevole aroma di medicinale. La presenza di cloro può essere dovuta alla composizione dell’acqua di rete utilizzata per la produzione, o all’uso di sanitizzanti a base di cloro (varechina o candeggina mal risciacquate). Nel primo caso si può ovviare con una declorazione (raccogliendo preventivamente l’acqua necessaria e lasciando che il cloro evapori naturalmente o mediante bollitura) o con l’uso di acqua minerale in bottiglia; nel secondo con abbondante risciacquo dopo la sanitizzazione (vedi paragrafo 3.3). Aroma burroso: è dovuto a un composto chiamato diacetile. Un lieve sentore burroso non è inappropriato in alcune ale, ma diventa un difetto in altri stili e, in ogni caso, se è troppo intenso e tendente al burro rancido. Il diacetile si forma durante la fermentazione (vedi paragrafo 4.6), ma in genere viene riassorbito dal lievito stesso: se ciò avviene in modo insufficiente si può avere un eccesso di questa sostanza. Se si riscontra questo difetto, è consigliabile verificare i tempi di fermentazione (evitando, ad es., fermentazioni troppo brevi), introdurre una “sosta per il diacetile” nel caso di basse fermentazioni e considerare l’uso di un ceppo di lievito diverso. Altre cause più rare sono legate a problemi di ossidazione e di sanitizzazione: in tal caso è necessario rivedere il proprio processo produttivo per ridurre questo tipo di rischi. Sapore di vegetale cotto, ad esempio di cavolo bollito: è dovuto al DMS (dimetilsolfuro). Questo composto viene prodotto quando il mosto viene bollito o scaldato. L’azione meccanica della stessa bollitura fa sì che questo venga espulso dal mosto stesso; altro DMS eventualmente ancora presente viene espulso durante la fermentazione (specie nel caso di alta fermentazione). La quantità di DMS dipende da quella dei suoi “precursori”, che variano a seconda del tipo e della qualità del malto. Questo difetto si può presentare nel caso di bollitura con coperchio (il DMS generato non viene espulso) o di raffreddamento troppo lento del mosto (il mosto ancora caldo continua a produrre DMS, che non viene più espulso dato che la bollitura è terminata). Anche in questi casi, comunque, il difetto si presenta in concomitanza con l’uso di determinati malti e prevalentemente nelle basse fermentazioni. Aroma di cartone bagnato, gusto marsalato, sentori di vecchio: sono difetti legati all’ossidazione. La causa più banale è l’età della birra: anche una birra prodotta a regola d’arte prima o poi subisce gli effetti del tempo e certe evoluzioni ossidate sono accettabili (se non gradite) solo in particolari tipi di birra. Se i fenomeni si manifestano troppo presto, la causa è da ricercarsi nell’introduzione di ossigeno in qualche momento del processo di produzione (a esclusione dell’ossigenazione prima della fermentazione).
Aroma di zolfo (fiammifero, uova marce). Alcuni ceppi di lievito, soprattutto quelli a bassa fermentazione, possono produrre, durante la fase di fermentazione primaria, sgradevoli aromi di zolfo. Questo fatto può essere normale e la fase di maturazione provvederà a eliminare tale caratteristica. In altri casi, tuttavia, il problema è dato da infezioni batteriche o da autolisi del lievito. Per risolvere, provare ad allungare la maturazione, se il lievito è a bassa fermentazione, o a travasare per eliminare i sedimenti di lievito problematico. Aroma di… puzzola (skunky). È dovuto all’azione della luce, che causa la fotodecomposizione di alcuni composti del luppolo in sostanze (mercaptani) responsabili di questo aroma sgradevole. La causa di un aroma del genere non è solitamente da ricercarsi nella produzione, ma nella conservazione della birra: bottiglie troppo trasparenti e/o esposte a luce troppo diretta e intensa sono quindi a rischio. Usare preferibilmente bottiglie di vetro marrone scuro e tenerle al riparo dalla luce diretta (il consiglio vale anche per le birre acquistate!).
Prevenzione Nell’homebrewing, come in altri campi, la migliore cura dei problemi è la loro… prevenzione! È opportuno, quindi, che l’aspirante birrificatore casalingo tenga buona nota dei seguenti “comandamenti”: pulire tutta l’attrezzatura, soprattutto le bottiglie, appena dopo l’uso per evitare la creazione di incrostazioni poi più difficili da eliminare; sanitizzare tutta l’attrezzatura che viene in contatto con mosto e birra dopo la bollitura; porre massima attenzione ai punti critici (rubinetti, guarnizioni); se parti in plastica hanno graffi evidenti, sostituirle appena possibile; mantenere i lieviti secchi o liquidi in frigo a 4 °C; mantenere i luppoli ermeticamente chiusi in freezer a –18 °C; tenere sempre a disposizione del lievito secco “generico”: se si hanno dubbi sulla vitalità del lievito da utilizzare (o se lo si “cuoce” inavvertitamente per l’inserimento in mosto non ancora freddo), può rappresentare la salvezza della “cotta”; MAI far partire l’effetto sifone durante i travasi con la bocca: utilizzare una bottiglia d’acqua sigillata; raffreddare il mosto il più velocemente possibile; mai aggiungere ghiaccio al mosto (a meno che non si tratti di bottiglie di plastica ancora sigillate); MAI ossigenare mosto o birra tranne nel seguente caso: ossigenare SEMPRE appena prima o appena dopo l’immissione del lievito nel mosto; utilizzare preferibilmente un fermentatore chiuso e gorgogliatore, soprattutto nel caso di luoghi di fermentazione di dubbia pulizia (cantine, garage); mantenere il più possibile stabile la temperatura di fermentazione. Se la temperatura è troppo bassa di 4-5 gradi, anche una semplice coperta di lana può essere sufficiente a riportare la temperatura a livelli corretti;
MAI avere fretta di imbottigliare a fine fermentazione: nel dubbio, meglio attendere qualche giorno in più; bollire sempre con acqua lo zucchero per il priming; fare proprio il motto del celebre Charlie Papazian: “Relax, don’t worry, have a homebrew”.
5.2 Progettare la propria birra Per molti homebrewer lo scopo e la maggiore soddisfazione di questo hobby risiedono nell’affinare le proprie tecniche in modo da essere in grado di ottenere un risultato ottimale seguendo una ricetta buona e affidabile. Per molti altri produttori casalinghi, invece, buona parte del divertimento deriva dalla messa a punto della ricetta per ottenere la birra desiderata, che può essere di formulazione del tutto personale oppure aderente a uno stile con il proprio tocco personale. Anche chi preferisce affidarsi a una ricetta già affinata e collaudata da altri homebrewer dovrà comunque avere almeno qualche nozione di base circa la corretta “progettazione” di una birra: infatti le ricette reperibili soprattutto sul web sono tantissime, ma non tutte affidabili e collaudate, ed è bene essere in grado di valutarne la correttezza!
La ricerca delle informazioni Il primo passo per progettare una birra è ovviamente quello di definirne le caratteristiche. È possibile realizzare una birra del tutto personale, progettata “a tavolino”, svincolata da qualsiasi stile, scegliendone a priori la gradazione, il grado di amaro e le caratteristiche organolettiche. Per farlo è necessario avere già una collaudata esperienza produttiva, che ci metta in grado di quantificare i nostri obiettivi per comparazione (si può, ad esempio, decidere di fare una birra che abbia un grado di amaro più o meno elevato rispetto a determinate birre prodotte in passato, e così via) e naturalmente è necessario avere una conoscenza diretta e approfondita degli ingredienti. Se invece ci si prefigge di produrre una birra in un determinato stile – eventualmente personalizzato – ci sono diverse strade da percorrere per raccogliere un po’ di informazioni. La prima è quella di trovare e confrontare ricette di varia provenienza relative al tipo di birra che vogliamo fare: anche se si vuole mettere a punto una propria ricetta, è sempre meglio dare un’occhiata al lavoro e alle esperienze di centinaia di homebrewer! Si può fare una sorta di analisi statistica e comparata delle varie ricette, privilegiando quelle che abbiano avuto riconoscimenti, ad esempio, in occasione di concorsi.1 A questo scopo si può consultare www.hobbybirra.info: nelle pagine relative ai concorsi di homebrewing sono riportate le ricette delle birre vincitrici e meglio piazzate. Per inquadrare i parametri caratteristici di uno stile di birra, il documento base è quello del BJCP (Beer Judge Certification Program, www.bjcp.org): tutti gli stili sono catalogati con precisione tipicamente USA. Da notare che lo scopo del BJCP non è studiare il panorama birrario internazionale (le birrerie non si basano certo sul BJCP!), ma fornire parametri precisi per valutare le birre durante i concorsi di homebrewing; non è quindi certo al 100% che le descrizioni corrispondano sempre ed esattamente alle birre in commercio esistenti – ma è pur sempre il
miglior riferimento che abbiamo a disposizione. Per approfondire ulteriormente un determinato stile di birra, sotto gli aspetti non solo tecnici, ma anche culturali e storici, è utile la lettura di alcuni libri non necessariamente rivolti alla produzione, come ad esempio il Beer Companion di Michael Jackson o altri suoi testi sulla birra: fra le varie notizie storico-culturali su birre e birrerie fanno spesso capolino utili informazioni su malti, luppoli utilizzati e tecniche e temperature di fermentazione. Esistono poi (in lingua inglese e al momento non tradotti in italiano) intere collane di libri monografici su determinati stili di birra, sia sugli aspetti storici e degustativi sia, soprattutto, su quelli produttivi.2 A fianco della conoscenza teorica di uno stile è senz’altro opportuna (e piacevole!) la conoscenza pratica: è infatti limitativo accingersi a formulare una ricetta e produrre una birra di uno stile che non abbiamo mai assaggiato! E, anche se conosciamo lo stile, un approfondimento è sempre utile: si possono confrontare le varie versioni commerciali, artigianali o meno, di un determinato tipo di birra, cercando di coglierne i caratteri più significativi e mettendoli per quanto possibile in relazione agli ingredienti e alle tecniche produttive da noi conosciute. Si tratta di un “lavoro” di ricerca fra i più soddisfacenti!
Malto e zuccheri, tipi e quantità Tipi di malto La prima scelta che si affronta nel progettare una birra riguarda i tipi di malto da utilizzare. Un aiuto ci può venire dalla lettura dei testi sopra raccomandati, unitamente allo studio delle caratteristiche dei vari tipi di malto riportate nel paragrafo 2.1 e nei siti dei produttori e rivenditori. In genere nella composizione di una birra interviene un malto di “base” (a volte due o più), di colore relativamente chiaro, che costituisce la gran parte della quantità; in aggiunta vi può essere una serie di malti speciali, molto caratterizzanti, da usare in quantità moderate. Quanti tipi di malto si possono impiegare? Esistono ottime e classiche birre prodotte impiegando un unico malto, altre che ne usano una dozzina! Realizzare birre “monomalto”, o comunque con poche varietà di malti, è senz’altro “istruttivo” perché ci permette di imparare a conoscere le caratteristiche di ciascun tipo. Spesso, però, è più consigliabile usare – in quantità complessiva non esagerata – una miscela di più malti: questo apporta equilibrio e complessità alla birra ed evita il rischio che un singolo malto usato in grande quantità possa dominare eccessivamente il gusto. Proporzioni Per quanto riguarda le proporzioni di impiego, l’insieme di malti speciali (malto aromatico, biscuit, amber e i vari caramellati) non dovrebbe in genere superare il 20-25% (nel caso di birre molto caratterizzate), con un valore più tipico intorno al 10%. I grani tostati (malti chocolate, black, carafa, e orzo tostato) possono raggiungere nell’insieme l’8-10% solo nelle stout più nere e intense, ma in altre birre scure fanno ben sentire la loro presenza anche in percentuali sotto il 3%. L’1% di malto black o orzo tostato in una base di malto chiaro è già avvertibile e dona alla birra una sfumatura rossastra. Altri ingredienti, come zuccheri e fiocchi, sono in genere da usare solo se compatibili con lo
stile della birra, e comunque non superando la quantità del 15-20% e 10% rispettivamente (e del 15-20% complessivamente). Come si è già visto, la funzione dello zucchero (totalmente fermentabile) è quella di attenuare il corpo nel caso di birre ad alta gradazione, tipicamente belghe. Quantità La quantità esatta di grani nella ricetta dipende dalla gradazione che si vuole ottenere: dobbiamo quindi capire prima di tutto come stimare la gradazione stessa a partire dagli ingredienti. Ciascun ingrediente apporta un suo contributo, in base alla quantità utilizzata e al suo “potenziale” zuccherino (percentuale di zuccheri, oppure di amidi convertibili in zuccheri). Ad esempio, lo zucchero raffinato ha un contenuto di zuccheri vicino al 100%; il miele, contenendo il 25% di acqua, ha circa il 75%. Il malto pale contiene circa l’80% in peso di amidi convertibili in zuccheri, ma quelli che si ottengono in pratica sono solo il 55-60% a causa della non perfetta efficienza dell’ammostamento. In ambito homebrewing solitamente questi “potenziali” sono espressi in “punti di gravità”, cui abbiamo accennato alla fine del paragrafo 2.1. 1000 grammi di zucchero purissimo disciolti in 10 litri di mosto portano la densità a 1,038, convenzionalmente espressa come 1038: si dice allora che il potenziale teorico dello zucchero puro è di 38 punti (riferiti a 1 kg x 10 l). Tornando agli esempi di cui sopra, lo zucchero da tavola è vicino a questo valore (36 punti), il miele è del 25% inferiore (circa 27) e il malto pale, tenendo conto dell’efficienza, raggiunge i 20-22 punti. La gradazione si ottiene sommando i singoli contributi: ad esempio, limitandoci ai tre ingredienti appena menzionati, per una birra che abbia 3 kg di malto pale, 220 g di zucchero e 300 g di miele su 10 litri, si ha: Malto pale 3 kg × 21 (potenziale) = 62 Zucchero 0,22 kg × 36 = 7,9 Miele 0,3 kg × 27 = 8,1 Totale 62+7,9+8,1=78 ==> OG=1078 Il valore è riferito all’impiego in 10 litri di mosto. Se le stesse quantità sono impiegate in un quantitativo diverso, occorre fare una proporzione: ad es., se i litri fossero 20, i punti di OG diventerebbero 78x(10 litri/20 litri)= 39 (OG 1039 circa), ovvero la gradazione è dimezzata, come ci si poteva aspettare. Viceversa, volendo mantenere la stessa gradazione di 1078 su 20 litri di birra, le quantità degli ingredienti vanno moltiplicate per (20 litri/10 litri), cioè raddoppiate. Questo tipo di calcoli può essere effettuato manualmente o utilizzando programmi o fogli di calcolo. In tutti i casi, per centrare la gradazione obiettivo si procede in buona parte a tentativi, aggiustando le quantità fino a che il valore stimato non sia quello voluto. È possibile, comunque, fare una stima iniziale abbastanza centrata. Esempio: Scopo: birra basata su malto pale, OG 1080, con il 10% di zucchero e il 10% di miele (la
percentuale si riferisce al contributo zuccherino totale). Punti OG forniti da zucchero: 10% di 80= 8 Quantità : 8/36=0,22 kg Punti OG forniti da miele: 10% di 80= 8 Quantità : 8/27=0,3 kg Punti OG che devono essere apportati dal malto pale: 80-8-8=64 Quantità: 64/21= 3,05 kg In alternativa, avremmo potuto scegliere a priori arbitrariamente le quantità di zucchero e miele, e procedere in questo modo: Quantità scelta di zucchero: 0,22 kg Punti OG forniti da zucchero: 36x0,22= 8 Quantità scelta di miele: 0,3 kg Punti OG forniti da miele: 36x0,3= 8 Punti OG che devono essere apportati dal malto pale: 80-8-8=64 Quantità: 64/21= 3,05 kg Colore Il colore della birra può venire “calcolato” in modo simile alla gradazione, infatti di ciascun ingrediente è noto il “potenziale” in termini di apporto colore (espresso in EBC), e sommando i contributi di ogni ingrediente secondo la sua quantità si può determinare il colore che avrà la birra. La stima, in questo caso, è molto approssimativa, sia per il contributo di altri fattori sia perché il modo in cui gli ingredienti apportano colore non è in realtà così semplice e lineare. Di solito, quindi, si determinano le quantità e il tipo di ingredienti secondo i parametri sopra esposti (caratteristiche organolettiche, gradazione) e poi si verifica, tramite foglio di calcolo o programma, il colore stimato. Se questo è decisamente lontano dal valore desiderato (ad es. quello indicato dal BJCP per lo stile di birra), si possono ritoccare le quantità dei malti tostati (se presenti) o variare il tipo di malto di base. Da tenere presente che una bollitura intensa produce un inscurimento del mosto, e che il fenomeno è più intenso per le piccole quantità prodotte dagli homebrewer rispetto alle birrerie commerciali.
Temperature di ammostamento La messa a punto di una ricetta, nel caso di birre all grain, prevede anche di determinare durata e temperature delle soste in ammostamento. La sosta della proteasi (tra i 50 °C e i 54 °C circa) è indicata solo per malti di base non molto modificati, per evitare che la birra possa presentare una torbidità a freddo. Tradizionalmente viene quindi omessa se la base è di malto pale ed effettuata per i malti pils; anche questi ultimi, grazie alle moderne tecniche di maltazione, sono spesso modificati in modo più che sufficiente: per capire se la sosta delle proteasi possa essere omessa si possono esaminare i dati tecnici del lotto di malto acquistato, in particolare verificando che l’indice di Kolbach non sia inferiore a 42-44. Nel dubbio, per questi malti si può comunque prevedere questa sosta, non superando i 15 minuti in modo da non avere effetti negativi sulla schiuma.
Per quanto riguarda le soste di saccarificazione, per birre in stile inglese è frequente la scelta di una sosta unica, tra i 65 °C e i 68 °C a seconda che si voglia ottenere una birra più attenuata oppure con un maggior residuo di zuccheri non fermentabili. A conversione avvenuta, si può effettuare il mash-out a 77 °C. Nulla impedisce di usare questo sistema anche per altri stili di birra. Una tecnica usata talvolta per birre belghe è quella di effettuare una sosta abbastanza prolungata a temperature basse (62-63 °C per 40 min) per ottenere un’alta fermentabilità, seguita da una sosta a 72 °C-73 °C fino a terminare la conversione.3 In questo caso il mash-out non è strettamente necessario.
Luppolo, tipi e quantità Scelta del tipo di luppolo La scelta più importante riguarda il luppolo da aroma: possiamo farci aiutare dalla lettura di siti e libri e da considerazioni stilistiche e geografiche, ma in primo luogo sta a noi decidere che tipo di aroma vorremmo ritrovare nella nostra birra: speziato, floreale, agrumato…? La conoscenza delle caratteristiche aromatiche dei luppoli si acquisisce con l’esperienza, ma un aiuto ci viene dalle letture consigliate, dalle informazioni trovate sui siti dei rivenditori nonché nella Appendice A di questo libro. Il luppolo da amaro ha un minore impatto sul gusto e sull’aroma della birra, e nel dubbio possiamo, a maggior ragione, farci aiutare dal criterio geografico, utilizzando ad esempio un Target per birre in stile inglese, un Hallertauer Magnum per quelle tedesche o un Chinook per quelle in stile nordamericano. Nulla vieta, poi, di usare anche per amaricare varietà tipicamente aromatiche, soprattutto se il grado di amaro non è elevato. Dosaggio del luppolo da aroma Per quanto riguarda il dosaggio del luppolo da aroma, non esistono regole precise né molti calcoli da fare, anche perché l’intensità dell’aroma fornito varia da raccolto a raccolto, dipende da diversi componenti del luppolo e non è ricavabile dai dati forniti dal produttore. In linea di massima, per l’aggiunta a fine bollitura si usano da 0,5 a 1,5 g di luppolo per litro di mosto, e una quantità simile nel caso di dry-hopping, ma alcuni produttori artigianali e casalinghi per certi tipi di birra arrivano a 10 g/litro e oltre! Le aggiunte di luppolo da aroma avvengono in genere dai 15 minuti prima della fine bollitura fino a 0 minuti (il che significa aggiungere il luppolo al momento di spegnere il fuoco e lasciare che aromatizzi il mosto durante il raffreddamento), e possono essere più di una. Ad esempio, si può effettuare un’unica aggiunta di luppolo da aroma a 5 o 10 minuti dalla fine, oppure un’aggiunta a 15 min e una a 0 min, usando due diverse varietà di luppolo oppure la stessa (i diversi tempi di bollitura possono dare risultati leggermente diversi anche con lo stesso tipo di luppolo). Il dry-hopping può essere usato sia in sostituzione dell’uso di luppolo da aroma, sia in abbinamento; le due tecniche danno risultati differenti (soprattutto come tipo di aroma) senza che una sia migliore dell’altra. Dosaggio del luppolo da amaro Il primo passo per calcolare la quantità di luppolo da amaro è naturalmente quello di
decidere quanto amara vogliamo che sia la nostra birra, ovvero quante IBU dovrà avere. La prima cosa da tenere presente è che la sensazione di amaro dipende in realtà dal bilanciamento della quantità di amaro (IBU) con la quantità di sostanze dolci e corpo della birra: una leggera bitter da 35 IBU è ben amarognola, una doppelbock con le stesse IBU tende al dolce. Quello che conta, quindi, è il rapporto tra IBU e “forza” della birra, solitamente espressa in punti di OG. Possiamo considerare che una birra sia bilanciata quando questo rapporto è fra 0,5 e 0,6: ad esempio, una blonde ale con 25-30 IBU e 1050 OG (50 “punti”) e una triple con 40 IBU e 1075 OG non sono avvertibili né come troppo dolci né come decisamente amare. Non è detto che la birra che andremo a produrre debba essere bilanciata in questo modo: se puntiamo a una ale americana ben luppolata e amara, possiamo raggiungere anche il rapporto 1 (come in una IPA da 1070 e 70 IBU), viceversa possiamo scegliere di scendere sotto lo 0,4 se vogliamo far risaltare altre caratteristiche della birra, come ad esempio particolari aromatizzazioni. Per il calcolo delle IBU e il relativo dosaggio del luppolo si procede in modo simile a quanto descritto per il malto; in questo caso l’ulteriore complicazione è data dal fatto che la “resa” del luppolo dipende anche da fattori quale la OG del mosto in ebollizione e il tempo di bollitura, come si è dettagliato nel paragrafo 2.2. Anche qui si dovranno sommare i singoli contributi di IBU di ogni aggiunta di luppolo. Per arrivare a determinare le quantità di luppolo necessarie, si può cominciare con il fissare le dosi di luppolo da aroma, stimarne il contributo di IBU (in genere moderato, ma non del tutto trascurabile), ricavare le rimanenti IBU che si devono ottenere, e infine calcolare il luppolo da amaro necessario per ottenere dette IBU. Per questo si può usare la formula seguente (relativa, ricordiamo, a una singola aggiunta di luppolo):
La cosa più semplice è inserire in un foglio di calcolo o in un programma le quantità di luppolo da aroma e modificare le quantità di luppolo da amaro fino a ottenere il valore desiderato.
Lievito e fermentazione Tipo di lievito Anche per la scelta del lievito è necessaria una certa conoscenza delle caratteristiche dei singoli ceppi, sia che derivi dall’esperienza diretta che da informazioni ricavate da testi, siti e naturalmente dalle descrizioni fornite dai produttori. Nel caso si voglia riprodurre per quanto possibile una birra commerciale nota, è di aiuto anche la tabella con l’elenco “ufficioso” dei ceppi usati da alcune note birrerie. Ottenere precisi risultati organolettici mediante l’opportuna scelta del ceppo di lievito non è cosa immediata, dato che - come si è visto - durante la fermentazione intervengono diversi
altri fattori. Una scelta di massima è quella di selezionare un lievito piuttosto “neutro” nel caso si vogliano ben evidenziare alcune caratteristiche della nostra birra, come il carattere maltato o luppolato o particolari aromatizzazioni; puntare su un lievito più “vivace” se abbiamo optato per una ricetta meno caratterizzata e vogliamo renderla più interessante grazie all’apporto del lievito. Temperatura di fermentazione Calcolare “a tavolino” il profilo di temperatura durante la fermentazione è molto difficile. Soprattutto le prime volte che si usa un tipo di lievito, è consigliabile rimanere entro l’intervallo di temperatura suggerito dal produttore, mantenendosi più vicini al limite inferiore nel caso si voglia ottenere un profilo aromatico più pulito, verso quello superiore nel caso si vogliano maggiormente evidenziare gli aromi fruttati, speziati e alcolici dovuti a esteri e alcoli superiori. Una scelta effettuata da diverse birrerie, in particolare di stampo belga, è quella di cominciare la fermentazione a temperatura più bassa – in modo da non eccedere con la formazione di esteri e alcoli superiori – e poi lasciarla aumentare nei giorni successivi per garantire una buona attenuazione.4 L’homebrewer che non fosse attrezzato per un controllo della temperatura può ottenere un effetto simile raffreddando il mosto fino a qualche grado sotto la temperatura ambiente, per poi lasciare naturalmente salire la temperatura raggiungendo quella ambiente o anche superandola di poco, a causa del calore stesso generato dalla fermentazione.
5.3 Degustare una birra Questo è un argomento che richiederebbe lo spazio di un libro, non di un semplice capitolo! Ma è comunque importante, dal nostro punto di vista, che un homebrewer si crei una minima base cognitiva sulla degustazione della birra: come fare altrimenti a valutare il proprio lavoro di produzione? È vero che alcuni birrificatori casalinghi non si curano più di tanto della finezza e della qualità delle proprie opere dal momento che amici e parenti pronti al consumo poco consapevole si trovano sempre! (“basta che sia birra… e sia potabile”). Ma, probabilmente, quei birrificatori casalinghi non acquisterebbero un libro sull’homebrewing. Degustare una birra richiede il medesimo approccio e impegno richiesto per produrla: qualche nozione, un po’ di tecnica, dedizione, voglia di imparare e la maggiore esperienza possibile (molti assaggi, quindi!). Chi già ha imparato a degustare il vino può avere sicuramente qualche vantaggio in termini di approccio e metodo, ma gli aromi e i gusti che la vasta platea di stili birrari può offrire è sicuramente più ampia e variegata rispetto a quella del fermentato d’uva. Per l’homebrewer il compito di valutazione è poi ancora più difficile e complicato rispetto a quello di un semplice degustatore: oltre a imparare a riconoscere e giudicare aromi e birre, egli deve - possibilmente - tentare di identificare l’origine di quanto colto nel bicchiere e rapportarlo a una precisa fase produttiva per eventualmente modificare ricetta o processo nelle cotte successive. Questo è un aspetto non banale, che mette in difficoltà anche i più validi ed esperti birrai professionisti: anche se la produzione della birra
si basa su pratiche secolari e su solide basi scientifiche, molto ancora, soprattutto nel comportamento del lievito durante la fermentazione, deve essere definitivamente chiarito.
Soggettivo e oggettivo Innanzitutto, un bravo degustatore deve avere la capacità di distinguere in una birra gli aspetti oggettivi (aromi, gusti, difetti, equilibrio… ) da quelli soggettivi (mi piace, non mi piace). Se poi il degustatore è anche il produttore della birra, allora il compito è sicuramente più difficile, se non altro per motivazioni sentimentali: “ogni scarrafone…”. Il bravo degustatore è quindi quello che è in grado di affermare, ad esempio, che la birra degustata è senza difetti, di carattere e molto valida, ma contemporaneamente che… non gli piace perché magari è caratterizzata da aromi lontani dal proprio gusto personale. Possiamo comunque dire, in generale, che anche chi non ha tecnica ed esperienza di degustazione, coglie la qualità assoluta di una birra: non saprà identificare a cosa corrisponde nel dettaglio il bouquet di profumi che emerge dal bicchiere, avrà difficoltà a spiegare perché quella particolare birra gli è gradita oppure sgradita, ma generalmente tutti, avendo olfatto e gusto, capiscono la differenza tra un prodotto di eccellenza e uno con qualche difetto. È anche giusto rimarcare che la degustazione è un’arte che si impara col tempo, ma anche che non tutti hanno la medesima sensibilità o capacità innata di cogliere aromi che hanno bassi livelli di percezione; anche per chi non è particolarmente dotato, comunque, impegno e pratica possono far sviluppare buone doti di giudizio.
Il servizio Prima di entrare nel dettaglio di come correttamente degustare una birra, è importante evidenziare che una grande influenza sul giudizio complessivo è data da due aspetti: il luogo di assaggio e il servizio della birra. Sul primo punto, forse banale, è opportuno spendere poche righe: la tranquillità e la concentrazione è fondamentale per riuscire a cogliere le più piccole sfumature che emergono dal bicchiere; è quindi opportuno evitare di assaggiare in luoghi fumosi, rumorosi e bui. Non è quindi consigliabile una cucina dove si stanno preparando pietanze saporite, o una cantina poco illuminata e che odora di muffa. Non è nemmeno adatto un bar affollato con musica ad alto volume. Del servizio abbiamo accennato nel capitolo appositamente dedicato, anche se l’approccio è stato maggiormente orientato verso l’aspetto tecnico: qui è importante evidenziare che chi assaggia una birra deve essere conscio della grande influenza che il servizio ha sulla degustazione. La medesima birra servita in modo diverso può infatti risultare totalmente differente, quasi un altro prodotto. Il bicchiere Il bicchiere deve essere sempre ben pulito e lavato con detergenti adatti. Tracce di sporco e grasso (ad esempio, di rossetto), oltre ad apportare gusti indesiderati alla birra, possono degradare e “smontare” il cappello di schiuma in pochissimi secondi. Analogamente, la pratica del lavaggio in lavastoviglie sarebbe da evitare, sia perché col tempo il vetro viene rovinato dal detersivo altamente alcalino, ma soprattutto per il brillantante, che può avere lo
stesso deleterio effetto sulla schiuma sopra citato. Il bicchiere deve poi essere sciacquato in acqua fredda e mantenuto umido prima dell’uso, sia per diminuirne la temperatura, sia per limitare l’attrito della birra in mescita e agevolare quindi una corretta formazione della schiuma. La scelta del bicchiere dovrebbe poi essere decisa in relazione allo stile degustato, ossia a quali elementi della birra dovrebbero essere posti in evidenza. Una pils, ad esempio, dovrebbe essere degustata in un bicchiere alto e stretto, che evidenzi il fine perlage e i delicati aromi floreali e di malto, mentre un’alcolica belgian ale vuole un’ampia coppa per far esplodere tutti gli aromi e non concentrare verso il naso l’etilico dato dall’alta gradazione alcolica. Una semplice prova che dimostri quanto conta la forma del bicchiere può essere fatta da tutti, versando la medesima birra in due bicchieri dalla diversa forma: un assaggio comparato sarà illuminante! L’homebrewer che voglia approfondire la tematica assaggio si dovrebbe dotare quindi di alcuni basilari bicchieri (Figura 5.1), quali ad esempio: un bicchiere alto e stretto - flute, altglas; un bicchiere ampio e standard - pinta, tumbler; un bicchiere basso e ampio - coppa; un bicchiere ampio che chiuda e che concentri gli aromi - balloon, sniffer; un bicchiere alto e panciuto che contenga una abbondante schiuma - weizenglas.
Figura 5.1 - Da sinistra: altglas (koelschglas), tumbler, weizenglas, coppa, pinta americana, sniffer, mezza pinta inglese.
Purtroppo non esiste un bicchiere “universale” che possa adeguatamente svolgere la migliore funzione per tutti gli stili di birra, tuttavia, se proprio è necessario sceglierne uno, il
calice a chiudere (il bicchiere “iso” per il vino, ad esempio) può essere il migliore compromesso. In Italia è stato creato da Lorenzo Dabove (Kuaska), noto degustatore e divulgatore, e da Teo Musso, titolare del Birrificio Baladin di Piozzo (CN), un bicchiere dalla particolare forma chiamato Teku (Figura 5.2): gli autori hanno cercato di realizzare uno strumento di degustazione specifico per la birra e sostanzialmente hanno ottenuto il loro scopo. Attenzione, però: il bicchiere non è un calice “universale” adatto a esaltare tutti gli stili birrari, ma, al contrario, è uno strumento di analisi adattissimo a evidenziare ogni minimo difetto della birra in esso contenuta. Anche in questo caso è possibile fare delle prove e verificare la nostra affermazione. Paradossalmente il Teku, per la nostra esperienza, è un oggetto utile, ma, da un certo punto di vista, controproducente se utilizzato ogni qual volta assaggiamo qualcosa: corretto per analizzare nel dettaglio le nostre e altrui produzioni, ma, quando si vuole godere appieno di una birra, è meglio usare un bicchiere che ne esalti le doti, non i difetti!
Figura 5.2 - Il bicchiere da degustazione Teku.
La temperatura La temperatura di servizio è un altro elemento molto importante per apprezzare e degustare al meglio una birra; spesso i publicans italiani tendono a servire birra a temperature eccessivamente basse, ma, così facendo, il freddo tende ad anestetizzare le nostre papille e quindi ci impedisce di cogliere tutti gli aromi presenti. Certo all’estero non sempre la situazione è migliore: negli Stati Uniti, ad esempio, è spesso un vanto mescere in bicchieri
appena tolti dal congelatore! A casa propria si può però ovviare e scegliere una temperatura di servizio più adatta: se non abbiamo la possibilità di avere un frigorifero appositamente dedicato alla birra o una cantina fresca e con temperatura stabile, allora dobbiamo avere l’accortezza di togliere dal frigorifero le birre da degustare con ampio anticipo, in modo da permettere alla bottiglia di raggiungere la temperatura adatta. Ma qual è la temperatura adatta? Dipende dallo stile della birra: alcuni stili come helles, pils, birre alla frutta sono consigliati a temperature leggermente più basse degli altri: 7-8 °C sono il livello ritenuto ottimale. Birre di stile inglese come bitter, stout, ales in genere sono tradizionalmente servite attorno ai 10-12 °C; le strong ales evidenziano il proprio meglio attorno ai 12-14 °C, mentre birre più alcoliche e da “meditazione”, come i barley wine, vanno degustate quasi a temperatura ambiente (16-18 °C). Gli stili Quando degustiamo una birra è utile sapere a che stile ha fatto riferimento il birraio che l’ha prodotta. Questo non solo per le motivazioni sopra citate, legate alla necessità di scelta ottimale di una temperatura di servizio e di un bicchiere adatto, ma anche per avere un’idea di cosa aspettarsi dall’assaggio. Taluni aromi e caratteristiche sono tipici di alcuni stili (e quindi qualità auspicate), ma non di altri: ad esempio, un lieve diacetile (aroma burroso) in una ale può rappresentare una caratteristica che completa il bouquet di aromi, mentre in una pils rappresenta un evidente difetto. Il degustatore, quindi, dovrebbe sapere che tipo di aromi aspettarsi dai vari stili, anche se poi, spesso e volentieri, i birrificatori casalinghi trascendono dalle linee guida standard tradizionali per avventurarsi in territori (e stili) inesplorati!
I cinque sensi Come accennato in un altro capitolo, l’homebrewer deve imparare a utilizzare i cinque sensi in ogni fase della produzione e, naturalmente, anche nella degustazione. Vista, udito, olfatto, gusto e tatto possono essere tutti validi aiuti per identificare aspetti produttivi da affinare. Charlie Papazian, il “padre” di tutti gli homebrewers americani (e non solo!), identifica poi un “sesto senso” che è quello del piacere del degustare, la beverinità, l’impressione generale. L’impatto emotivo che ha una birra durante la degustazione. Il volerne, in fondo, un altro bicchiere! Da un certo punto di vista, questo sesto senso può essere una sommatoria degli altri cinque o forse qualcosa di non definibile che va oltre la stretta analisi di degustazione. Ma, in fondo, possiamo pensarlo come lo scopo ultimo per il quale assaggiamo una birra! Lasciamo, tuttavia, questo aspetto poetico della degustazione per entrare più prosaicamente nell’analisi oggettiva dei cinque sensi. Vista Si può dire molto di una birra anche dalla semplice vista della bottiglia chiusa! Uno spazio eccessivo occupato dall’aria nel collo della bottiglia può far supporre che il contenuto di ossigeno sia eccessivo e quindi ci sia possibilità di essere davanti a una birra ossidata. Se la bottiglia è trasparente e non di vetro marrone o verde potrebbe avere subito un effetto
lightstruck, per cui la birra potrebbe avere tale difetto. Un tappo mal posizionato può far supporre una birra sgasata, mentre birra torbida o un deposito sul colletto farebbe ipotizzare un’infezione. Un eccesso di deposito di lievito potrebbe far supporre un evidente aroma di “crosta di pane”. All’atto dell’apertura, prima della mescita, un effetto fontana (gushing) può far supporre un’infezione o una eccessiva carbonazione, dando per scontato che la temperatura della bottiglia sia corretta e non troppo elevata. Con la mescita nel bicchiere abbiamo la possibilità di analizzare innanzitutto la schiuma secondo tre elementi: tipologia (Assente, Scarsa, Presente, Abbondante), colore (Panna, Rosata, Crema, Cappuccino) e dimensione delle bolle (Fini, Medie, Grossolane). Il mantenimento della schiuma nel tempo è poi descritto come Evanescente, Mediamente Persistente o Persistente. Passiamo poi a osservare il liquido: innanzitutto il colore (Giallo Paglierino, Dorato, Ambrato, Mogano, Bruno, Nero), con tutte le ovvie sfumature intermedie, e la limpidezza (da Brillante, Limpida, Mediamente Limpida, Velata, a Torbida). Per birre particolarmente alcoliche, come strong ales e barley wines (che hanno solitamente una schiuma minore ed evanescente), è talvolta possibile osservare, similmente al vino, gli archetti nel bicchiere: questi testimoniano il grado alcolico elevato. Udito Anche l’udito può essere utile a cogliere degli elementi dalla nostra birra: all’atto dell’apertura della bottiglia lo sfogo dell’anidride carbonica ci può dare indicazioni sul grado di carbonazione della birra, mentre, avvicinando l’orecchio alla schiuma appena montata nel bicchiere, possiamo intuire se questa sarà persistente o evanescente: un effetto sonoro tipo “cola” indicherà con alta probabilità una schiuma evanescente. Olfatto Possiamo affermare che l’olfatto è il senso più importante e rappresenta forse l’80% dell’intera fase di degustazione. Può essere diretto, e riguardare gli aromi colti prima di portare la birra alla bocca, o retrolfattivo, ossia coinvolgere gli aromi che emergono dopo avere bevuto e che risalgono dalla bocca alla cavità nasale. Si analizzano gli aromi e i profumi di una birra in termini sia quantitativi che qualitativi. Le caratteristiche quantitative fanno riferimento all’intensità olfattiva (Poco Intensa, Intensa, Molto Intensa) e alla persistenza (Breve, Media, Lunga) dell’impatto aromatico. Le caratteristiche qualitative possono essere invece delineate con un vasto elenco di descrittori (il danese Morton Meilgaard li ha organizzati in una “ruota dei sapori” negli anni Settanta) che variano da frutti a fiori sino a improbabili aglio o puzzola. Ovviamente la presenza di tali aromi non significa che nella birra sia stato inserito effettivamente quello che stiamo cogliendo al naso: sono frutto di composti che derivano dalle materie prime (malto o luppolo) o dall’opera del lievito (o di batteri) in fermentazione. È importante, nella tecnica di degustazione, evidenziare che i recettori dell’olfatto sono certamente molto sensibili, ma anche che tendono velocemente a adattarsi agli aromi: dopo pochi istanti il naso diventa “anestetizzato” ai profumi appena sentiti. Un degustatore allenato è quindi in grado di cogliere sia gli aromi che emergono in prima battuta (profumi primari), quasi sempre riconducibili al malto o al luppolo, sia quelli che compaiono
successivamente, quando il naso si adatta (profumi secondari). Il metodo migliore da adottare per “estrarre” dal bicchiere di birra tali profumi è quindi quello di avere la birra a una temperatura che consenta ai composti aromatici di passare dal liquido all’aria: pazientare, quindi, che il bicchiere si scaldi se la birra è troppo fredda. Roteare per un secondo o due il bicchiere mezzo pieno può inoltre facilitare l’emersione degli aromi: l’anidride carbonica che viene espulsa dal liquido in seguito al movimento trascina fuori dal liquido anche i composti aromatici. Gusto Come per l’olfatto, il gusto viene analizzato sia in termini quantitativi con l’intensità (Poco Intensa, Intensa, Molto Intensa) e la persistenza (Breve, Media, Lunga), sia in termini qualitativi: Dolce, Salato, Acido, Amaro. La soglia di percezione del gusto è molto diversa da quella dell’olfatto: i gusti sono più facilmente identificabili e permangono in bocca per più tempo. La loro percezione avviene grazie alle papille gustative presenti sulla lingua: queste sono altamente specializzate e ciascuna famiglia coglie un gusto particolare: le papille fungiformi per il dolce (principalmente poste sulla punta della lingua), papille filiformi per il salato (parte anteriore laterale), papille foliate per l’acido (parte centro-laterale) e papille circumvallate per l’amaro (parte posteriore). La birra dovrebbe quindi essere assaggiata facendo roteare un sorso in bocca in modo che il liquido venga a contatto con ogni parte della lingua, del palato e anche dei denti. Solitamente è il gusto dolce che viene colto per primo (malto o miele), mentre l’amaro tende a emergere dopo aver deglutito. Tatto Anche il tatto è una parte importante della fase di degustazione: in bocca, infatti, non vengono colti solamente i gusti sopra citati, ma anche ulteriori sensazioni legate all’astringenza (“legatura” dei denti), frizzantezza, calore dato dall’alcol o anche “freddo” (come in una caramella al mentolo) e, naturalmente, quelle dipendenti dalla effettiva temperatura del liquido. Un importante elemento di giudizio di una birra è poi il corpo, ossia la struttura, l’impatto fisico che la birra ha in bocca: questa può essere Acquosa, con corpo Esile, Piena, Viscosa.
LUPPOLO
FLOREALE ACETALDEIDE
AROMATICO FLOREALE FRUTTATO Olio di luppolo Luppolo secco Luppolo in bollitura fiori di campo, camomilla, malva, acacia, sambuco, Fiori freschi mughetto Fiori caldi gialli orchidea, iris, giglio, gladiolo Fiori caldi rossi rosa, viola, garofano Acetaldeide limone, arancio, cedro, clementina, pompelmo, Agrumi
FRUTTATO
ESTERI
SOLVENTE
ALCOL
Frutta bianca Frutta gialla Frutta rossa Frutti di bosco Frutta tropicale Acetato di etile Esanoato di etile Isoamilacetato Acetone Alluminio (lattina) Plastica Vinoso Speziato
Erba tagliata Paglia Noce Noce di cocco FRUTTA SECCA Legumi secchi Mandorla RESINOSO Legno ERBACEO
GRANI MALTO MOSTO
Grani crudi Malto Mosto
bergamotto mela, pera albicocca, melone, pesca prugna, ciliegia, amarena, susina lampone, mirtillo, cassis, ribes ananas, kiwi, litches, mango, frutto della passione aceto mela banana
FRUTTA SECCA foglie, erba medica, sottobosco fieno
fagioli secchi, fave secche
CEREALE pula, gritz di mais, farina
FENOLICO
FENOLICO
Catrame Bakelite Antisettico Clorofenolo Iodoformio
ACIDI GRASSI
Acido caprilico Formaggio Acido isovalerico Acido butirrico
base vecchie lampade acido fenico o fenolo clorofenolo iodio, tintura di iodio GRASSO unto grasso, sego luppolo vecchio burro rancido
DIACETILE RANCIDO
Diacetile Olio rancido
burro, “caramella scozzese” (fudge)
OLEOSO
Olio minerale Olio vegetale
benzina, kerosene, olio di automobile TORREFATTO
CARAMELLO
BRUCIATO
LIEVITO
VERDURA BOLLITA
SOLFIDRICO
SOLFITICO
Zucchero caramellato Melassa Liquirizia Crosta di pane bruciata Malto torrefatto Affumicato Bruciaticcio Carne bollita Crosta di pane Lievito fresco Cipolla bollita Pomodoro bollito Mais dolce bollito Cavolo bollito DMS, dimetilsolfuro Pastinaca, sedano Gamberetto Gomma bruciata Autolisi Colpo di luce Aglio Mercaptano Acido solfidrico Solfitico
caramella sciroppo nero
malto cioccolato sensazione boccale secchezza, acre marcato SULFUREO
mais dolce
lieviti in putrefazione puzzola, sudore fogna, gas-città uova marce anidride solforosa, fiammifero
Equilibrio complessivo Al termine della degustazione si… tirano le somme e si valutano tutti gli aspetti, da quello visivo a quello tattile: tutti gli elementi concorrono al carattere generale della birra, che può essere giudicata complessivamente Equilibrata, Abbastanza Equilibrata o Squilibrata a
seconda che si evidenzi un’armonia generale delle varie componenti oppure un fastidioso emergere di qualche caratteristica che sovrasti tutte le altre.
5.4 Postfazione Abbiamo imparato a fare birra in casa: i risultati ci soddisfano e amici e parenti ci fanno i complimenti. Forse perché siamo ipercritici, ma riteniamo di non essere ancora al livello desiderato e vogliamo fare un ulteriore miglioramento. Come fare? Certo, l’esperienza è un elemento fondamentale in questo hobby: l’affinamento di alcune ricette, il comportamento di certi lieviti, l’impatto di alcuni ingredienti si capiscono a fondo solo con diverse prove e molti assaggi. Ma esistono metodi per “velocizzare” l’apprendimento dato dall’esperienza di birraio casalingo.
Conoscere gli ingredienti Il primo, e forse il più importante, è quello di coinvolgere tutti i propri sensi durante la fase di produzione della birra e nella conoscenza delle materie prime: non limitarsi a una preparazione semplicemente meccanica o “ingegneristica” delle fasi brassicole, ma sempre assaggiare, annusare, osservare e persino… ascoltare! Iniziando dalle materie prime: odorando e assaggiando il malto, ad esempio, si riescono a intuire molti aromi (di cereale, tostati, caramellati) che andiamo poi a ritrovare nella birra finita. Lo stesso malto durante le fasi di ammostamento è sottoposto a modificazioni chimiche e fisiche che possono essere colte, sia dai cambiamenti di colore dell’impasto (da un bianco lattiginoso a un ambrato più limpido), sia dall’aroma che pervade la “sala cottura” (che da farinaceo diventa dolce e caramellato/biscottato). Con un minimo di esperienza, i birrai possono, con la semplice osservazione e l’assaggio dell’impasto, capire quando la trasformazione degli amidi in zuccheri nel mashing è arrivata a compimento. Analogamente, le caratteristiche organolettiche del luppolo possono essere intuite con una analisi olfattiva dei coni (o dei pellet) a “crudo”, prima dell’utilizzo, ma anche durante la fase di bollitura. Per non parlare dell’attenzione che si deve necessariamente avere alle varie fasi di fermentazione e maturazione: a parte la possibilità di cogliere in anticipo eventuali problematiche date da inattese e inopinate infezioni, la sequenza di assaggi di una birra giovane permette di capire molto bene come le varie caratteristiche della bevanda vengano ad armonizzarsi col tempo, soprattutto nell’integrazione della parte amara del luppolo e del dolce del malto, sino al raggiungimento di un corretto equilibrio complessivo.
Imparare a degustare Un secondo “tassello” per una utile crescita come homebrewer, forse è inutile dirlo, consiste nell’imparare a degustare una birra! È fondamentale riuscire a cogliere i difetti di una propria creazione per potervi ovviare nelle produzioni successive.
Scambiare esperienze Spesso in passato l’homebrewing è stato un hobby quasi “carbonaro”, se non
semplicemente solitario. Abbiamo accennato al fatto che l’attività è stata completamente liberalizzata solo dal 1995 e forse è rimasto in molti appassionati questo approccio “riservato”: di quanti amici si scopre quasi per caso una esperienza di produzione casalinga di birra! Negli ultimi anni, fortunatamente, grazie anche a Internet, le informazioni su come farsi la birra in casa sono state diffuse ampiamente e numerosi centri e momenti di aggregazione per gli appassionati di homebrewing sono stati creati. L’incontro con altri produttori, lo scambio di esperienze e di assaggi e, perché no, gli acquisti in comune per ottenere condizioni migliori nel reperimento di attrezzature e materie prime, sono fondamentali per la crescita qualitativa (e quantitativa!) degli appassionati.
Figura 5.3 - Homebrewers impegnati nella degustazione reciproca delle proprie creazioni.
Ad oggi esistono numerosi gruppi locali e associazioni che fanno dell’hombrewing o, più in generale, dell’apprezzamento della birra di qualità, il proprio oggetto sociale: dalla Lombardia alla Sicilia, dalla Sardegna alla Toscana, questo è un hobby diffuso in tutta Italia. Ogni homebrewer desideroso di crescere tecnicamente dovrebbe verificare, quindi, se vicino a casa già esistono club o associazioni. Internet a questo scopo è sempre fondamentale: si può verificare su Usenet al gruppo di discussione it.hobby.birra, su siti specializzati come www.mondobirra.org oppure direttamente sul sito e sul forum del neonato MoBI – Movimento Birrario Italiano, www.movimentobirra.it, prima associazione nazionale nata da consumatori e produttori casalinghi. Al momento della messa in stampa di questo libro, alcuni gruppi che fanno dell’apprezzamento della birra e della produzione casalinga il proprio “oggetto sociale” sono:
Associazioni nazionali MoBI Movimento Birrario Italiano www.movimentobirra.it Unionbirrai www.unionbirrai.it Associazioni locali ARS BIRRARIA - Lucca www.arsbirraria.org BEER EMOTION - Reggio Calabria www.beeremotion.com CERERE - Palermo www.associazionecerere.org CONFRATERNITA DELLA GRANDE SCHIUMA - Pasturana (AL) www.grandeschiuma.it FERMENTO SARDO - Olbia (SS) www.fermentosardo.it HOME-BREWERS SARDI - Selargius (CA) www.hbsardi.it IL CIRCOLO DEL LUPPOLO - Tripoli di S. Giorgio (MN) www.circolodelluppolo.net LA COMPAGNIA DEL LUPPOLO - Zogno (BG) www.birrabelga.org LA COMPAGNIA DELLA BIRRA - Genova www.compagniadellabirra.it PINTA MEDICEA - Firenze www.pintamedicea.com LUPPULIA - Acquaviva delle Fonti (BA)
www.luppulia.it Nella tua zona non ci sono associazioni o gruppi di homebrewer? Allora può essere l’occasione per crearne uno! Non è particolarmente complicato fondare un’associazione (basta uno statuto che funga da “contratto” tra soci) e la sua sola presenza e, pubblicizzata, può essere un momento di coagulazione di appassionati e curiosi della zona. Un bar o un ristorante con gestore “illuminato” o un microbirrificio oppure anche un beershop (spesso rivendono anche materiale per homebrewers) ne possono diventare la sede. Poi le attività possono essere innumerevoli, ecco alcuni spunti: acquistare e mantenere attrezzatura in comune (bollitori, pentole…); scambiare ricette; organizzare assaggi di birra casalinga; organizzare seminari sull’homebrewing; realizzare cene di abbinamenti cibo-birra; assaggiare, comparare e giudicare le birre commerciali; organizzare assaggi con altri club; pubblicare una fanzine; promuovere feste, incontri, banchetti; organizzare visite a microbirrerie; organizzare concorsi per homebrewers locali; creare una biblioteca tecnica comune; organizzare sessioni brassicole parallele tra più soci, cambiando magari solo un ingrediente: luppolo, lievito, malto ecc.
Partecipare a concorsi Da quasi dieci anni vengono organizzati concorsi aperti a tutti i birrificatori casalinghi, per un lungo periodo organizzati da Unionbirrai, ora promossi da MoBI, Movimento Birrario Italiano. Ve ne sono di vario tipo, da quelli aperti a tutti gli stili a quelli monotematici o addirittura con ricetta già predefinita. Solitamente non vi è obbligo di presentazione di birre realizzate con un determinato metodo produttivo (non è affatto scontato il poter riconoscere una birra da estratto rispetto a una all grain, soprattutto per alcuni stili), per cui anche chi produce con E+G o addirittura con kit di estratti di mosto luppolati ha la propria chance di partecipare. Ovviamente lo spirito di queste “competizioni” non consiste solamente nel raggiungere il primo premio (che comunque fa sempre piacere ottenere…!), ma nel ricevere utili indicazioni dall’assaggio della propria produzione. L’homebrewer può infatti avere utilissime indicazioni dai feedback della giuria, composta spesso da esperti assaggiatori e da validi birrai professionali, che testa le birre alla cieca e in comparazione con altre simili, riportando in una scheda di degustazione tutti i commenti del caso. Inoltre, a ogni concorso viene spesso associato un raduno di appassionati, che quindi può rappresentare una ulteriore platea di potenziali assaggi, comparazioni, scambi di opinioni. Nello scorrere le classifiche dei vecchi concorsi (ancora disponibili sul sito www.hobbybirra.info) si possono riconoscere diversi
nomi di birrai che hanno proficuamente “compiuto il salto” verso la professione.
Corsi per homebrewing Riteniamo che il partecipare a un corso di questo tipo (o anche, semplicemente, assistere a una “cotta” di un homebrewer esperto) sia di estrema utilità. È ovvio che non si diventa birrai in un giorno: numerose sono le nozioni e i dati di esperienza che non si possono certo acquisire in un corso di 4-8 ore, ma la manualità, i particolari che necessariamente sfuggono ai testi di produzione birraria, i piccoli segreti dei birrai esperti possono essere colti solo assistendo di persona a una giornata di produzione.
Il sito di questo libro Per quanti sforzi si possano fare per realizzare un testo accurato e completo, è quasi inevitabile che siano presenti – speriamo in quantità limitata – imprecisioni, errori o omissioni. Inoltre l’arte della birrificazione è in continua evoluzione ed è sempre possibile che emergano nuovi aspetti, approcci, tecniche e qualità di ingredienti. Per questo abbiamo pensato a un sito che possa riportare le Errata Corrige e gli aggiornamenti tecnici e raccogliere le relative segnalazioni, i commenti e i suggerimenti dei lettori. Il sito ospiterà anche recensioni e notizie sul libro e la sua reperibilità, nonché un elenco dei siti web più utili relativi all’homebrewing (compresi quelli dei fornitori di ingredienti). L’indirizzo del sito è: www.latuabirra.com
1 Un’analisi di questo genere è effettuata, ad esempio, nel libro di Ray Daniels, Progettare Grandi Birre, edizione italiana a cura di MoBI, Lampi di Stampa, 2012. 2 Fra i testi più utili e interessanti citiamo anzitutto la “trilogia” sulle birre belghe edita da Brewers Publications (Brew Like a Monk, Farmhouse Ales e Wild Brews, vedi Bibliografia); la collana Homebrew Classics edita dal CAMRA, particolarmente incentrata sugli aspetti storici e sulle relative ricette e tecniche dell’epoca; e la collana Classic Beer Style Series, un po’ più datata ma ricca di informazioni, edita da Brewers Publications. 3 Una sosta a queste temperature sembra anche giovare alla ritenuta della schiuma; si veda ad es. in George Fix, Principle of Brewing Science, edizioni Brewers Publications, pag. 47-48. 4 Si vedano ad es. le temperature di fermentazione impiegate da alcune birrerie Trappiste, riportate in Stan Hyeronymus, Brew Like a Monk, edizioni Brewers Publications.
Appendice A Ricette
Sommario American Pale Ale (AG) American Strong Ale (AG) Barley Wine (E+G) Bavarian Weizen (AG) Belgian Blonde (AG) Belgian Strong Ale (AG) Bohemian Pilsner (AG decozione) Munich Dunkel (AG) Extra Special Bitter (AG) Smoked Ale (AG) Traditional Porter (AG) Triple (AG) Traditional Bock (AG decozione) Tobac (AG) Gose (AG) Luppolo!! (AG) Riportiamo, in questo capitolo, un numero di ricette limitato ma già sufficiente per una panoramica su stili e tecniche diverse. Le prime dodici ricette descritte nel seguito sono state personalmente provate dagli autori, alcune anche più volte e sempre con buoni risultati. Per le ultime quattro ricette (delle quali garantiamo egualmente la qualità) ringraziamo gli esperti e premiati homebrewers che ce le hanno gentilmente fornite. In alcune ricette all grain viene anche descritta la variante per la tecnica semplificata E+G (estratto+grani). Si tenga conto che, in tal caso, il risultato non è sempre sovrapponibile a quello con la tecnica all grain, soprattutto per quanto riguarda il colore delle birre più chiare (che con la tecnica E+G risulteranno leggermente più scure). Le dosi indicate sono relative ai litri di birra indicati nella ricetta. Nel caso si voglia produrre una quantità di birra diversa, è sufficiente scalare proporzionalmente tutte le dosi riportate. La sostituzione fra i due tipi di estratto (da secco a liquido o viceversa) è sempre possibile, tenendo conto che 1000 g di estratto liquido equivalgono a circa 800 g di estratto secco.
È possibile anche la sostituzione di forme diverse di luppolo (ad esempio, fiore con plug). La quantità rimane invariata passando da fiore a plug e viceversa, mentre i pellet hanno una resa maggiore del 10% circa rispetto ai fiori o ai plug: per questo motivo, sostituendo pellet con fiori o plug, si dovrà aumentare la dose del 10%, viceversa per la sostituzione opposta. Ricordiamo, infine, che nelle ricette i tempi di bollitura del luppolo sono riportati a ritroso a partire dalla fine della bollitura stessa (vedi paragrafo 4.4).
A.1 American Pale Ale (AG) La festa del luppolo: agrumato, pino e resine, taglio amaro ma controbilanciato da corpo e caramello dei malti. Scaldare 14 litri d’acqua a 57 °C e versare i grani macinati. Portare la temperatura in rampa unica (un grado al minuto) sino ai 67 °C, dove rimanere per 40-60 min. Test tintura di iodio e portare lentamente a 78 °C. Fare lo sparging con 12 litri d’acqua a 78 °C. Portare a ebollizione e inserire il luppolo. Se si usano pellets dopo il raffreddamento effettuare il whirlpool. Inoculare il lievito. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore dove lasciare ancora una settimana. Imbottigliare con 4 g/l di zucchero. Maturare per 3 settimane a 20 °C. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,050 Gravità finale: 1,012 Alcol (Vol): 5% Amaro (IBU): 65 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 3800 g Malto pale (Maris Otter) 200 g Malto crystal 30 g Columbus (pellets) 14% AA 60 min 15 g Columbus (pellets) 14% AA 3 min Lievito Fermentis Safale S-04
A.2 American Strong Ale (AG) Robusta e amara, ispirata alla americana Arrogant Bastard Ale. Scaldare 14 litri d’acqua a 73 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 67 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C.
Fare lo sparging con circa 12,5 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo secondo i tempi indicati, e l’estratto 20-30 min. prima della fine della bollitura. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore, inserire il luppolo per il dry hopping e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 5 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno due mesi. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,074 Gravità finale: 1,018 Alcol (Vol): 7,5% Amaro (IBU): 85 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 2000 g Malto pale 2000 g Malto monaco 1000 g Estratto di malto di frumento, secco 360 g Malto aromatic 270 g Malto special b 360 g Malto biscuit 27 g Chinook (pellets) 12% AA 60 min 18 g Columbus (pellets) 12% AA 50 min 18 g Centennial (pellets) 9% AA 30 min 9g Centennial (pellets) 9% AA 0 min 11 g Centennial (pellets) 9% AA (dry) Lievito Fermentis Safale Us-05
A.3 Barley Wine (E+G) Denso, caldo, alcolico… quasi un Porto. Portare 10 litri di acqua a 70 °C e immergere i grani crystal macinati. Lasciare a questa temperatura per 30 min. Togliere i grani e sciogliere l’estratto portando a ebollizione. Aggiungere il luppolo nei tempi indicati. Aggiungere il lievito dopo aver realizzato un grosso starter; meglio se si utilizza il fondo di fermentazione di una birra appena imbottigliata. Dopo una settimana di fermentazione a 20 °C, travasare la birra in un secondo fermentatore aggiungendo il luppolo in fiore per il dry hopping. Imbottigliare dopo due settimane senza
zucchero per il priming. Lasciare maturare per almeno 6 mesi (meglio un anno o più) a temperatura di cantina e al buio. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 15 Gravità iniziale: 1,110 Gravità finale: 1,030 Alcol (Vol): 11% Amaro (IBU): 60 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 5500 g Estratto malto liquido 200 g Malto crystal 50 g Target (fiore) 10% AA 60 min 5g Kent Goldings 7,4% AA dry Lievito Wyeast 1028 London Ale
A.4 Bavarian Weizen (AG) Un classico: acidula, fenolica, leggeri aromi di banana. Birra decisamente estiva. Scaldare 15 litri d’acqua a 50 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto ad un equilibrio a 46 °C. Rimanere alla temperatura di 46 °C per 10 minuti, poi, sempre mescolando, fare questi step di temperatura: 51 °C per 15’ 54 °C per 10’ 63 °C per 30’ 68 °C per 20’ Mashout a 78 °C per 15’ Filtrazione e sparging con 12 litri di acqua a 78 °C. Bollitura 60 minuti con il luppolo, raffreddare e fermentare a 20 °C. Imbottigliare con 8 g/l di zucchero. Maturare almeno 3 settimane. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,052
Gravità finale: 1,015 Alcol (Vol): 5% Amaro (IBU): 15 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 2100 g Malto pils 2100 g Malto frumento 17 g Hallertauer Hers 4,5% AA 60 min Lievito Wyeast Weihenstephan 3068
A.5 Belgian Blonde (AG) Ale dorata in stile belga, ben luppolata. Scaldare 13,5 litri d’acqua a 58 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 53 °C. Verificare che il pH non sia superiore a 5,6 e in caso contrario aggiungere gypsum, mezzo cucchiaino alla volta, mescolando e misurando nuovamente dopo qualche minuto, fino a che il pH si sia abbassato entro il 5,6. Rimanere a questa temperatura per 15 minuti, poi salire lentamente a 65 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 12,5 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo secondo i tempi indicati. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 21-22 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 7 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno 6 settimane. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,055 Gravità finale: 1,013 Alcol (Vol): 5,6% Amaro (IBU): 42 Cosa serve: Quantità 4400 g
Tipologia Malto pils
Caratteristiche Tempo Bollitura
300 g Fiocchi di frumento 225 g Malto carahell 54 g Stiryan Goldings (fiore) 32 g EK Goldings (fiore) Lievito Wyeast 3522
5% AA 5% AA
60 min 10 min
Variante E+G Sostituire il malto pils, il carahell e i fiocchi con 3,25 kg di estratto di malto liquido e 350 g di estratto di malto di frumento secco, e aumentare a 65 grammi la dose di luppolo a 60 min. Portare a ebollizione 10 litri di acqua, aggiungere l’estratto ed inserire il luppolo secondo i tempi indicati. Dopo il raffreddamento aggiungere acqua fino a ottenere 18 litri e procedere come sopra descritto.
A.6 Belgian Strong Ale (AG) Ale scura e aromatica, simile ad alcune delle più forti birre di abbazia e trappiste. Scaldare 17 litri d’acqua a 69 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 63 °C. Rimanere a questa temperatura per 40 minuti, poi salire lentamente a 73 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo). Fare lo sparging con circa 11 litri d’acqua a 80 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo secondo i tempi indicati, e lo zucchero 20-30 min prima della fine della bollitura. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 22 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 6,5 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno due mesi. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,081 Gravità finale: 1,015 Alcol (Vol): 8,8% Amaro (IBU): 28 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 5400 g Malto pale (belgian) 500 g Malto weizen (frumento) 300 g Malto special B 650 g Zucchero candito scuro
20 g 20 g 11 g 11 g Lievito
Styrian Goldings (fiore) Hallertauer Hers. Styrian Goldings (fiore) Hallertauer Hers. Wyeast 1214
5% AA 5% AA 5% AA 5% AA
60 min 60 min 10 min 10 min
Variante E+G Sostituire il malto pale con 4 kg di estratto di malto liquido, il malto weizen con 500 g di estratto secco di malto di frumento, e aumentare a 24+24 g le dosi di luppolo a 60 min. Portare 10 litri di acqua a 70 °C e immergere i grani Special B macinati. Lasciare a questa temperatura per 30 min, poi rimuovere i grani, portare all’ebollizione, aggiungere l’estratto e inserire il luppolo secondo i tempi indicati; aggiungere poi lo zucchero 20-30 min prima della fine della bollitura. Dopo il raffreddamento aggiungere acqua fino a ottenere 18 litri e procedere come sopra descritto.
A.7 Bohemian Pilsner (AG decozione) Corpo pieno, equilibrata nell’amaro, miele e floreale in aroma. Mettere in infusione i grani macinati in 12 litri d’acqua a 59 °C, portando così il tutto subito a 53 °C - protein step - mantenuti per 20 min. Verificare l’acidità dell’impasto per evitare problemi nella successiva saccarificazione e nella estrazione di tannini. Primo step: Applicando la formula per decozione: F% = (65-53)/(100-53-10) = 32% travaso il 32% del totale (4,8 litri) in una seconda pentola portata a 72 °C per 20 min per una prima saccarificazione e poi a bollitura per altri 20 min. Riportare l’impasto bollito nella prima pentola e la temperatura sale ai 65 °C desiderati step beta amilasi - dove si rimane per 20 min. Secondo step: Riapplicando la formula F% = (72-65)/(100-65-10) = 28% travasare il 28% del totale (circa 4 litri) nella seconda pentola e portare a bollitura per 20 min. Riportare l’impasto bollito nella prima pentola e la temperatura totale sale ai desiderati 72 °C - step alfa amilasi. Qui rimanere per altri 20 minuti. Travasare l’impasto direttamente nel tino di filtrazione senza mash out. Effettuare il risciacquo delle trebbie con ulteriori 12 litri di acqua a 78 °C (6 + 6 litri) raccogliendo circa 20 litri totali. Effettuare la solita bollitura vigorosa di 60 minuti aggiungendo il luppolo nelle dosi indicate. Raffreddare e travasare nel fermentatore circa 15 litri. Aggiungere quindi un litro di krausen con il lievito e mettere il tutto in cantina a 12 °C. 2 settimane di fermentazione primaria, travaso e lagerizzazione a 2 °C per 4 settimane. Imbottigliamento con 5 g/l zucchero.
Maturazione in bottiglia per circa un mese. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 16 Gravità iniziale: 1,052 Gravità finale: 1,015 Alcol (Vol): 5% Amaro (IBU): 40 Cosa serve: Quantità 3500 g 100 g 35 g 10 g
Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura Malto pils Malto acido Hallertauer Hers. 5,5% AA 60 min Saaz 3,5% AA 5 min Acqua poco mineralizzata 1 litro di starter del Lievito Wyeast Czech Pils n° 2278 oppure secco Fermentis 34/70 (1 g/l)
A.8 Munich Dunkel (AG) Gran caramello, amaro equilibrato. Mettere in infusione i grani macinati in 12 litri d’acqua a 59 °C, portando così il tutto subito a 53 °C - protein step - mantenuti per 20 min, poi sempre mescolando fare questi step di temperatura: 63 °C per 30’ 70 °C per 20’ Mashout a 78 °C per 15’ Effettuare il risciacquo delle trebbie con ulteriori 15 litri di acqua a 78 °C (7 + 7 litri), raccogliendo circa 20 litri totali. Effettuare la solita bollitura vigorosa di 60 minuti aggiungendo il luppolo nelle dosi indicate. Raffreddare e travasare nel fermentatore. Aggiungere quindi un litro di krausen con il lievito e mettere il tutto in cantina a 12 °C. 2 settimane di fermentazione primaria, travaso e lagerizzazione a 2 °C per 4 settimane. Imbottigliamento con 5 g/l zucchero. Maturazione in bottiglia per circa un mese. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18
Gravità iniziale: 1,052 Gravità finale: 1,013 Alcol (Vol): 5,2% Amaro (IBU): 22 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 4200 g Malto Monaco 300 g Malto Caramonaco 40 g Roast Barley 15 g Hallertauer Hers. 5,5% AA 60 min 10 g Hallertauer Hers. 5,5% AA 30 min 10 g Hallertauer Hers. 5,5% AA 5 min 1 litro di starter del Lievito Wyeast Munich Lager n° 2308 oppure secco Fermentis 34/70 (1 g/l)
A.9 Extra Special Bitter (AG) Classica strong bitter inglese ben bilanciata tra luppolo e malto. Scaldare 12 litri d’acqua a 73 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 67 °C. Aggiungere l’eventuale gyspum (vedi sotto) e rimescolare. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 14 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore, inserire il luppolo per il dry hopping e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 3,5 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per un mese. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,055 Gravità finale: 1,013 Alcol (Vol): 5,5% Amaro (IBU): 36 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 4000 g Malto pale (maris otter)
200 g 150 g 50 g 20 g 20 g Lievito
Malto crystal Malto carahell Fuggle (fiore) Fuggle (fiore) Fuggle (fiore) Fermentis Safale S-04
5% AA 5% AA 5% AA
60 min 10 min (dry)
Usare acqua simile a quella di Burton indicata nel paragrafo 2.3 (o almeno con il 60% delle quantità di ioni indicate) oppure acqua oligominerale con aggiunta in ammostamento di 3 cucchiaini di gypsum (solfato di calcio).
Variante E+G Sostituire i 4 kg di malto pale con 2,9 kg di estratto di malto liquido, e aumentare a 60 g la dose di luppolo a 60 min. Portare 10 litri di acqua a 70 °C e immergere i grani crystal e carahell macinati. Lasciare a questa temperatura per 30 min, poi rimuovere i grani, portare all’ebollizione, aggiungere l’estratto e inserire il luppolo secondo i tempi indicati. Dopo il raffreddamento aggiungere acqua fino a ottenere 18 litri e procedere come sopra descritto.
A.10 Smoked Ale (AG) Affumicato ben avvertibile ma non invadente; corposa ma non stucchevole. Scaldare 16 litri d’acqua a 73 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 67 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 12 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 22 litri di mosto. Portare a ebollizione e dopo 20 minuti inserire il luppolo. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 5 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno due mesi. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,072 Gravità finale: 1,020 Alcol (Vol): 7% Amaro (IBU): 40 Cosa serve:
Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 3500 g Malto pale (Maris Otter) 1500 g Rauch malz 360 g Fiocchi di frumento 270 g Malto crystal 270 g Malto amber o biscuit 125 g Malto brown 180 g Zucchero scuro 30 g Target (fiore) 10% AA 60 min 20 g Goldings (fiore) 5% AA 15 min Lievito Wyeast 1728
A.11 Traditional Porter (AG) Bruna, secca e tostata; l’uso del brown malt si ispira a ricette del XIX secolo. Scaldare 12 litri d’acqua a 73 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 67 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 14 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 4 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno due mesi. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,050 Gravità finale: 1,014 Alcol (Vol): 4,8% Amaro (IBU): 33 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 3100 g Malto pale (maris otter) 300 g Fiocchi di frumento 400 g Malto crystal 480 g Malto brown
100 g 45 g 13 g Lievito
Malto chocolate Goldings (fiore) 5% AA 60 min Goldings (fiore) 5% AA 10 min Wyeast 1318 o Fermentis Safale S-04
A.12 Triple (AG) Ale dorata e forte in stile belga, leggermente aromatizzata. Scaldare 15 litri d’acqua a 58 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 53 °C. Verificare che il pH non sia superiore a 5,6 e in caso contrario aggiungere gypsum, mezzo cucchiaino alla volta, mescolando e misurando nuovamente dopo qualche minuto, fino a che il pH si sia abbassato entro il 5,6. Rimanere a questa temperatura per 15 minuti poi salire lentamente a 66 °C. Rimanere a questa temperatura fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 11 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo e il coriandolo secondo i tempi indicati, e l’estratto e il miele 20-30 min prima della fine della bollitura. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 22 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 6,5 g/l di zucchero. Maturare in bottiglia per 2 settimane a 20-25 °C e poi in luogo più fresco per almeno due mesi. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,050 Gravità finale: 1,015 Alcol (Vol): 8,7% Amaro (IBU): 40 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 5200 g Malto pils 500 g Estratto di malto di frumento, secco (*) 200 g Malto carahell 720 g Miele 60 g Stiryan Goldings (fiore) 5% AA 60 min 22 g Saaz (fiore) 3% AA 20 min 22 g Saaz (fiore) 3% AA 5 min 7g Coriandolo macinato 5 min
Lievito
Wyeast 3787
(*) L’estratto di frumento si può sostituire con 800 g di malto weizen, da aggiungere insieme agli altri grani. In tal caso usare un litro di acqua in più nell’ammostamento.
A.13 Traditional Bock (AG decozione) Ricetta di Egidio Latronico “Ken75” Una ricetta, in realtà, non del tutto tradizionale per l’impiego di una notevole quantità di luppolo in aroma, fatto che non le ha impedito di essere premiata nei concorsi di homebrewing! Mettere i grani macinati in infusione in 17 litri d’acqua a 70 °C, portando così il tutto, subito, a 64 °C - step beta amilasi - dove si rimane per circa 25 minuti. Travasare un terzo del mosto (circa 5,5 litri) nella seconda pentola e portare a 72 °C. Dopo una sosta di 30 minuti, portare a ebollizione per 15 minuti. Riportare l’impasto bollito nella prima pentola in modo che la temperatura totale salga ai desiderati 72 °C - step alfa amilasi. Qui rimanere per altri 20 minuti. Travasare l’impasto direttamente nel tino di filtrazione senza mash out. Fare il risciacquo delle trebbie con ulteriori 11 litri di acqua a 78 °C, raccogliendo circa 21 litri totali. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito, reidratato 15 minuti prima dell’inoculo, poi mettere il tutto in cantina a 12 °C. La fermentazione primaria deve durare 2-3 settimane, poi si fanno il travaso e la lagerizzazione a 2 °C per 4 settimane. Imbottigliare con 5 g/l di zucchero. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,072 Gravità finale: 1,021 Alcol (Vol): 6,8% Amaro (IBU): 30 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 3650 g Malto Monaco 170 g Malto Pils 400 g Caramunich 250 g Malto di frumento 170 g Sauer Malz (malto acido) 85 g Carahell 12 g Hallertauer Northern Brewer 9% AA 60 min 15 g Hallertauer Hersbrucker 3% AA 30 min
30 g 30 g 15 g Lievito
Hallertauer Tradition Hallertauer Tradition Hallertauer Hersbrucker W34/70 (2 bustine)
8% AA 8% AA 3% AA
10 min 5 min 2 min
A.14 Tobac (AG) Ricetta di Mauro Queirolo “Edstark” Una Porter al tabacco ispirata alla KeTo RePorter del Birrificio del Borgo. Le foglie di tabacco Kentucky sono ottenute da un sigaro Toscano. Scaldare 12,5 litri d’acqua a 71 °C e versare i grani, in modo da portare il tutto a un equilibrio a 65 °C. Rimanere a questa temperatura per 60 minuti e fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C. Fare lo sparging con circa 14 litri d’acqua a 78 °C, fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo e il cacao amaro, poi la vaniglia e il tabacco secondo i tempi indicati. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito, reidratato 15 minuti prima dell’inoculo. Fermentare a 20 °C per una settimana, poi travasare in un secondo fermentatore e lasciare ancora per 7-10 gg. Imbottigliare con 4 g/l di zucchero. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,048 Gravità finale: 1,011 Alcol (Vol): 4,9% Amaro (IBU): 33 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 3000 g Malto pale (Maris Otter) 560 g Malto Peated 225 g Fiocchi d’avena 115 g Malto crystal 120 150 g Malto roasted (o orzo ostato) 265 g Malto chocolate 12 g Green Bullet (o Magnum) 14% AA 90 min 12 g Goldings 5% AA 30 min 12 g Willamette 5% AA 5 min
15 g 1 5g Lievito
Cacao amaro Bacca vaniglia Foglie di tabacco Fermentis Safale US-05
90 min 10 min 5 min
A.15 Gose (AG) Ricetta di Marco Traverso Un’interessante e riuscita riproduzione della Gose, rara birra acida con un tocco di salato, prodotta solo a Lipsia e dintorni… e ora anche in casa! Il malto acido viene a volte usato in piccole quantità per abbassare il pH durante l’ammostamento; in questa ricetta viene impiegato in dose maggiore anche per conferire acidità alla birra, e la gran parte viene inserita solo alla fine dell’ammostamento in modo da non abbassarne troppo il pH. Scaldare 12,5 litri d’acqua a 40 °C e inserire tutto il malto Pilsener, il malto di frumento e solo 150 g di malto acido, poi portare la temperatura a 52 °C, effettuando una sosta per 10 minuti. Portare la temperatura a 65 °C e rimanere a questa temperatura per 60 minuti e fino a conversione (test tintura di iodio negativo). Inserire il resto (500 g) del malto acido e rimanere a 65 °C per altri 45 minuti, poi portare a 78 °C per 15 minuti. Fare lo sparging con 14 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 18 °C, scendendo gradualmente fino a 14-15 °C. Imbottigliare con 7,5 g/l di zucchero. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,043 Gravità finale: 1,011 Alcol (Vol): 4,3% Amaro (IBU): 11 Cosa serve: Quantità
Tipologia
1300 g 2000 g
Malto pils Malto di frumento
Caratteristiche
Tempo Bollitura
225 g 650 g 12 g 7g 14 g Lievito
Fiocchi d’avena Sauer Malz (malto acido) Perle Coriandolo Sale German Ale Wyeast 1007 o White Labs Dusseldorf Altbier
8% AA
60 min 10 min 5 min
A.16 Luppolo!! (AG) Ricetta di Andrea De Maldè “demus” Una collaudata e ormai classica interpretazione di Belgian Ale ben luppolata. Usare, se possibile, luppoli di provenienza belga. Scaldare 16,5 litri d’acqua a 40 °C e inserire i grani, poi portare la temperatura a 50 °C, effettuando una sosta per 20 minuti. Portare la temperatura a 64 °C e rimanerci per 60 minuti e fino a conversione (test tintura di iodio negativo), poi portare a 78 °C per 15 minuti. Fare lo sparging con 10 litri d’acqua a 78 °C fino a raccogliere circa 21 litri di mosto. Portare a ebollizione e inserire il luppolo. Dopo il raffreddamento inoculare il lievito. Fermentare a 21-22 °C. Imbottigliare con 4,5 g/l di zucchero. Cosa si ottiene: Litri realizzati: 18 Gravità iniziale: 1,054 Gravità finale: 1,013 Alcol (Vol): 5,5% Amaro (IBU): 65 Cosa serve: Quantità Tipologia Caratteristiche Tempo Bollitura 4000 g Malto pils 750 g Frumento crudo (o in fiocchi) 250 g Carapils 45 g Brewer’s Gold (pellets) 6,7% AA 60 min 36 g Challenger (pellets) 6,6% AA 30 min 12 g Brewer’s Gold (pellets) 6,7% AA 10 min 12 g Challenger (pellets) 6,6% AA 10 min 28 g Challenger (pellets) 6,6% AA 0 min
Lievito
Fermentis S-33
Appendice B Varietà di luppolo
Varietà
AA% Amaro Aroma
Provenienza
Premiant
8-10
Sladek
4-6
X
Saaz
3-5
X
Repubblica Ceca
Hallertauer Mittelfruh
3-5
X
Germania
Hallertauer 3-5 Hersbrucker
X
Germania
Hallertauer Herkules Hallertauer Saphir Hallertauer Tradition
1719
X
Repubblica Ceca
X
Repubblica Ceca
X
Germania
3-5
X
Germania
4-6
X
Germania
Descrizione Luppolo dall’elevato grado amaricante, con buon profilo aromatico. Simile al Saaz come aroma, utilizzabile anche da amaro. Tradizionale luppolo da aroma per Lager Boeme, ma di più ampio impiego per il suo pregiatissimo aroma: delicato, floreale e piuttosto speziato. Varietà di luppoli da aroma prodotti nella regione tedesca dell’Hallertau. Sono tutti luppoli di aroma “nobile”, floreale, elegante; il più pregiato è forse il Mittelfruh, ma anche Tradition e Hersbrucker sono di impiego tradizionale in diversi stili di lager tedesche; il Saphir è un’interessante varietà di più recente sviluppo.
Recente varietà da amaro sviluppata in Germania. Discreto ed equilibrato impatto aromatico.
Perle
6-8
X
Spalt
3-6
X
Tettnanger
3-5
X
Northern Brewer
7-10
(X)
(Hallertauer) 16Magnum 18
X
X
X
Sorachi ACE
1012
Admiral
1316
Bramling Cross
5-7
X
Goldings
4-6
X
First Gold
6-8
X
Fuggle
4-6
X
X
X
X
(X)
Spesso impiegato per l’aromatizzazione delle Lager tedesche e americane, a volte Germania usato anche per l’amaro. Aroma molto piacevole, leggermente speziato. Luppolo “nobile” dall’aroma fine, Germania floreale e leggermente speziato. Il Select è la qualità più pregiata. Altro classico e ottimo luppolo da aroma proveniente dalla Baviera. Germania Aroma nobile, delicato, floreale, leggermente speziato. Originario della Gran Bretagna, ma largamente coltivato in Germania. Germania/Inghilterra Amaro pulito e secco, aroma fine e non molto intenso. Il luppolo da amaro più usato in Germania/USA Germania, coltivato anche negli USA. Luppolo ambivalente, con caratteristiche aromatiche Giappone particolari: limone, citronella, coriandolo. Luppolo da amaro, possibile Inghilterra sostituto del Target, del Pilgrim o del Challenger. Aroma morbido con sentori di ribes Inghilterra nero. Il più classico luppolo da aroma inglese: aroma fragrante, floreale e Inghilterra anche un po’ pepato. (East) Kent Goldings non denota una varietà, ma una delle regioni di produzione. Simile al Goldings, è una varietà “nana” che si sviluppa poco in Inghilterra altezza ed è quindi più facile da coltivare. Dopo il Goldings è il più tradizionale luppolo inglese da aroma e dryInghilterra hopping. Morbido, piacevole,
Pilgrim
9-10
X
Inghilterra
Progress
5-7
X
Challenger
6-8
X
X
Inghilterra
Northdown
7-9
X
X
Inghilterra
Inghilterra
Brewers Gold
7-8,5
X
Inghilterra
Target
7-10
X
Inghilterra
Strisselspalt 3-5
X
Francia
Marinka
7-11
X
X
Polonia
Aurora
8-10
X
X
Slovenia
Bobek
4-6
X
X
Slovenia
Celeia
3-5
X
Slovenia
Styrian goldings
4-6
X
Slovenia
floreale e leggermente speziato. Sostituto del Target o del Challenger, con qualche nota citrica. Resinoso e leggermente speziato, con alcune caratteristiche simili al Goldings e al Fuggles. Sviluppato come sostituto del Goldings, rispetto al quale è simile come aroma, ma con maggiore AA%. Luppolo da amaro e aroma sviluppato dal Northern Brewer. Buon aroma, usato spesso per Stout e Porter. Conferisce un amaro un po’ pungente, l’aroma è più neutro. Il luppolo più prodotto in Inghilterra, essenzialmente da amaro. L’impiego per aroma è talvolta sconsigliato, ma alcune birrerie lo hanno usato con buoni risultati sia per aroma sia per dry hopping. Tradizionale varietà alsaziana; aroma simile al Mittelfruh con un sentore di limone. Elevato AA%, ma con pregevoli doti aromatiche di erbaceo, terroso. Conosciuto anche come Super Styrian, ha caratteristiche simili ma con elevato AA%. Varietà derivata dal Northern Brewer, adatta sia alle Ale sia alle Lager. Caratteristiche e impiego sono simili allo Styrian Goldings. Fuggles coltivato in Slovenia. Anche se il nome deriva da un errore, è effettivamente piuttosto simile al Goldings; per il suo ottimo aroma è impiegato in una grande
Ahtanum
5-6
X
X
USA
Amarillo
7-9
X
X
USA
Cascade
5-7
X
(X)
USA
Centennial
8-11
X
X
USA
Citra
1113
X
X
USA
Columbus
1215
X
X
USA
Chinook
1114
X
USA
X
USA
Galena
Liberty
3-6
X
USA
Mt. Hood
3-6
X
USA
varietà di Ale, sia inglesi sia belghe, principalmente per aroma e dry hopping. Floreale e agrumato, simile al Cascade. Eventuale sostituto per Amarillo. Floreale e agrumato (mandarino), varietà recente ma sempre più impiegata in American Ales e IPA. Il più classico dei luppoli americani, con il suo carattere un po’ floreale e soprattutto agrumato (pompelmo); tipicamente da aroma e dry hopping, ma usato anche per amaro. Simile al Cascade dal punto di vista aromatico, è più intenso sia come aroma sia come amaro, una sorta di “super-Cascade”. Luppolo ad alto AA sviluppato per le sue capacità amaricanti ma anche per il suo profilo aromatico particolare, intenso e agrumato: pompelmo, melone, lime, litchi. Luppolo ad alto AA% sviluppato per le sue capacità amaricanti ma molto apprezzato anche per il suo profilo aromatico, intenso e agrumato; ottimo anche per dry hopping. Utilizzato principalmente da amaro, adatto per IPA, American Barleywine; aroma agrumato e resinoso (pino). Tradizionali luppoli da amaro americani, ora messi un po’ in secondo piano dalle nuove varietà più caratterizzate. Luppoli americani derivati dall’Hallertauer, dal profilo aromatico classico ed “europeo”. Derivato dal Mittelfruh.
Nugget
X
USA
Palisade
6-9
X
X
USA
Simcoe
1114
X
X
USA
Warrior
1517
X
USA
Willamette
4-6
X
USA
Motueka
6-7
X
X
Nuova Zelanda
Nelson Sauvin
1113
X
X
Nuova Zelanda
Pacifica
5-6
X
X
Nuova Zelanda
Pacific Gem
1315
X
Nuova Zelanda
Pride of Ringwood
7-10
X
Australia
Elevato AA%, ma con un buon profilo aromatico erbaceo. Derivato dal Tettnanger, floreale e fruttato. Recente varietà da amaro, ma dall’ottimo profilo aromatico, agrumato e resinoso (pino). Varietà da amaro con un aroma neutrale, con qualche nota agrumata e resinosa. Luppolo da aroma di provenienza USA, ma piuttosto simile al Fuggle. Ottimo per dry hopping. Profilo aromatico agrumato: lime, frutta tropicale. Luppolo da amaro con un aroma molto particolare, intensamente fruttato (uva). Varietà ambivalente di Mittelfruh coltivata in Nuova Zelanda, con note agrumate/citriche. Varietà derivata da Cluster e Fuggle. Il più tipico luppolo australiano, con aroma intenso, legnoso e un po’ pungente.
Appendice C Tabelle
Carbonazione e Priming Stile di birra British Ale American Ale Porter, Stout Belgian Ale Lager Birre di grano
Temp. fermentazione 20
g/litro zucchero 2,5-4,5
g/litro miele 3,2-5,8
g/litro estratto di malto 3,7-6,7
20
5,3-7,0
6,9-9,1
7,9-10,5
20 22 10
3,0-5,3 6,3-9,5 4,8-6,0
3,9-6,9 8,2-12,3 6,3-7,9
4,5-7,9 9,4-14,2 7,3-9,1
20
8,5-10,5
11,0-13,6
12,7-15,7
Correzione lettura densimetro Temp. Correz. Temp. Correz. Temp. Correz. 0 -1,6 30 2,5 60 14,8 2 -1,7 32 3,1 62 15,8 4 -1,8 34 3,7 64 16,9 6 -1,7 36 4,4 66 18,0 8 -1,6 38 5,1 68 19,1 10 -1,5 40 5,9 70 20,3 12 -1,3 42 6,6 72 21,4 14 -1,1 44 7,4 74 22,6 16 -0,8 46 8,3 76 23,8
18 20 22 24 26 28
-0,4 0,0 0,4 0,9 1,4 1,9
48 50 52 54 56 58
9,1 10,0 10,9 11,8 12,8 13,8
78 80 82 84 86 88
25,0 26,3 27,6 28,9 30,2 31,5
Stima delle IBU - fattore di utilizzazione Valori riferiti a: luppolo in coni o plugs, senza hop bag; luppolo in pellets, con hop bag; in caso di luppolo in pellets, senza hop bag il fattore aumenta del 10%, in caso di luppolo in coni o plugs, con hop bag il fattore diminuisce del 10%.
Lieviti Wyeast Informazioni dal sito del produttore, www.wyeastlab.com. Traduzione a cura di www.mrmalt.it.
Tipologia
Descrizione
Ricco, gusto vigoroso e pulito, con una leggera produzione di diacetile. Con un modesto residuo di diacetile e fruttato; ideale per Irish Ale n.1084 le Stout. Pulito, liscio, morbido, dalla corposità piena. Dal ceppo Whitbread. Conferisce un gusto secco e British Ale pulito, leggermente aspro, n.1098 fruttato e ottimamente bilanciato. Fermenta bene anche al di sotto dei 18 °C. Dalla tradizione birraria londinese. Vero lievito ad alta fermentazione, lavora in London Ale III superficie; fruttato, molto n. 1318 delicato, ben bilanciato e con un retrogusto leggermente dolce. Il suo ampio range di temperatura permette di produrre diversi stili. Fermentando a bassa temperatura (13 °C) produce German Ale n. caratteristiche da Lager e la 1007 birra risulta secca e fresca. A temperature più elevate (2124 °C) può produrre un leggero fruttato. Basso diacetile, elevata tolleranza all’alcol. Aroma molto pulito. Poco fruttato e con una delicata produzione di esteri. Leggermente citrico se usato American Ale n. a temperature basse (15-19 1056 °C). Lievito versatile, che London Ale n.1028
Temperatura Flocculazione Attenuazione consigliata 15,5-22 °C
media
73/77%
16,5-22 °C
media
71/75%
18-22 °C
media
73/ 75%
18-21 °C
alta
71/77%
13-20 °C
bassa
73/77%
15-22 °C
da bassa a media
73/77%
Scottish Ale n.1728
Kolsch n.2565
Belgian Strong Ale n.1388
Belgian Ale (Abbey) n. 1214
Belgian Abbey II n.1762
Belgian Ardennes n. 3522
Belgian Lambic Blend n. 3278
permette di produrre molti stili birrari facendo dominare il carattere maltato e luppolato nel profilo aromatico. Ideale per le Ale di stile scozzese e per tutte le Ale ad 13-21 °C alta gradazione. Un ibrido delle caratteristiche Ale e Lager. Questa varietà sviluppa un eccellente sapore 13-18 °C maltato e tenuemente fruttato, con una finitura fresca. Forte gusto di lievito con una tolleranza all’alcol medio-alta. 18-24 °C Gusto e profumo fruttato, secco, con finale aspro. Lievito ad alta fermentazione stile Abbazia, ideale per le birre ad alta gradazione. 14-24 °C Ricco di esteri e con una grande complessità aromatica. Lievito per birre ad alta gradazione. Leggermente 18-24 °C fruttato con un retrogusto secco. Uno dei grandi lieviti per produrre le classiche Ale belghe. Le sostanze fenoliche aumentano incrementando la 18-29 °C temperatura di fermentazione. Fruttato delicato e complesso carattere speziato. Selezione dei più rappresentativi ceppi Saccharomyces cerevisiae, 17-24 °C dai ceppi Brettanomyces agli acido lattici, ai lieviti sherry e di belgian White.
alta
69/73%
bassa
73/77%
bassa
73/77%
media
72/76%
media
73/77%
media
72/76%
da bassa a media
65/75%
Classico lievito da Saison dall’aroma complesso e speziato. Molto acido e secco Belgian Saison sul palato con un leggero 21-29 °C n. 3724 fruttato. Finisce fresco e leggermente acido. Richiede elevate temperature di fermentazione. Normalmente lento ad attenuare. Da un’antica birreria belga per la produzione di Blanche Forbidden Fruit e classiche Grand Cru. Profilo 17-24 °C n. 3463 fenolico con fruttato leggero. Profilo di esteri ben bilanciato. Carattere fenolico e tolleranza all’alcol fino a 12%. Trappist High Ideale per la Bière de Garde. 18-25 °C Gravity n. 3787 Profilo di gusto ricco di esteri e maltato. Dal carattere aspro e leggermente fenolico, capace Belgian Witbier di produrre le tipiche Bière 16-24 °C n.3944 Blanche e le Grand Cru. Tollerante all’alcol. Lievito ricco di esteri, poco fenolico, da una piccola Belgian Wheat birreria belga. Aromi di mela, 18-23 °C n.3942 menta e prugna con un finale secco ma fruttato. Unico lievito ad alta fermentazione che produce il carattere speziato tipico della Weihenstephan Weizen con sfumature al 18-21 °C Weizen n.3068 chiodo di garofano, vaniglia e banana. I migliori risultati si ottengono con fermentazioni a 20 °C. Profilo di gusti molto delicato German Wheat per birre con malto di grano. 17-24 °C n. 3333 Aspro, frizzante e fruttato
bassa
76/80%
bassa
73/77%
media
75/80%
media
72/76%
bassa
73/77%
alta
70/76%
con sentori di ciliegia. Lievito Weizen con aromi Bavarian fruttati e fenolici complessi e 18-24 °C Wheat n. 3638 bilanciati di banana e menta, litchi e mela/prugna. Miscela di lieviti ad alta Bavarian fermentazione e lieviti da Wheat Blend Weizen con produzione 18-23 °C n.3056 moderata di esteri e sostanze fenoliche. Mantiene le caratteristiche delle Lager fino alla California temperatura di 18 °C e 14-20 °C Lager n. 2112 produce birre dal gusto maltato e molto limpide. Un lievito Pilsner dalla Bohemian Weihenstephan. Gusto pulito 8-12 °C Lager n. 2124 e maltato. Usato da molte birrerie Bavarian Lager tedesche per produrre birre 8-14 °C n. 2206 maltate e corpose. Ideale per Bock e Doppel-Bock. Classico ceppo dalla patria Czech Pils n. delle Pils, indicato per una 10-14 °C 2278 birra secca con retrogusto maltato. Classica varietà Pilsner americana, armoniosa dal Pilsen Lager gusto maltato. Si ottiene una 9-13 °C n.2007 birra secca a carbonazione fine. Ceppo unico capace di Munich Lager produrre ottime Lager. Molto 9-13 °C n. 2308 liscio e amabile, dal corpo pieno. Specifico per sidro e perry Cider n.4766 (vino di pere), con un gran 15-25 °C finale fruttato.
Sweet Mead
Ceppo specifico per la produzione di Idromele dolce.
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n.4184
Dry Mead n.4632
Lascia il 2-3% di zuccheri residui. Profilo aromatico ricco e fruttato. Ceppo specifico per la produzione di Idromele secco. Produce poca schiuma e pochi composti solforati.
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13-24 °C
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Lieviti Whitelab Informazioni dal sito www.birramia.it.
Tipologia
del produttore,
Descrizione
www.whitelab.com.
Traduzione
a
cura
di
Temperatura Flocculazione Attenuazione consigliata
Questo lievito è famoso per il suo gusto pulito, il suo bilanciamento e la WLP001 California possibilità di essere 19-23 °C Ale utilizzato per qualsiasi tipo di ale. Accentua i profumi del luppolo ed è estremamente versatile. Un classico ceppo inglese da una delle più importanti birrerie indipendenti d’Inghilterra. Questo WLP002 English Ale lievito si adatta bene per 19-23 °C le classiche Ale inglesi tipo le milds, le bitter, le porter e le stout in stile inglese. Lascia una birra estremamente limpida. Questo lievito proviene da una delle più antiche birrerie nel mondo che producono stout. Produce un leggero sentore di diacetile, bilanciato da un leggero
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WLP004 Irish Ale
fruttato e un gusto 18-19 °C leggermente asciutto. L’ideale per produrre Irish Ale, stouts, porters, browns e pale particolarmente interessanti.
Questo lievito è leggermente più attenuante rispetto al WLP002. Come la maggior parte dei ceppi inglesi, produce birre dal WLP005 British Ale 18-21 °C gusto particolarmento maltato. Eccellente per tutte le tipologie di ale inglesi comprese bitter, pale ale, porter e brown ale. Dà un prodotto dal gusto asciutto e fioccuta molto bene. Produce un caratteristico profilo WLP006 Bedford estereo. La scelta giusta 18-21 °C British Ale per la maggior parte delle ale inglesi, comprese bitter, pale ale, porter e brown ale. Pulito, ad alta flocculazione e alta attenuazione. È simile al WPL002 per quanto riguarda il profilo aromatico, ma ha WLP007 Dry un’attenuazione 18-21 °C English Ale maggiore del 10%. Questo permette di eliminare la dolcezza residua e rende il lievito adatto per ale ad alta OG. Il nostro “Brewer Patriot”
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può essere utilizzato per riprodurre molti degli stili classici in versione americana. Ha un WLP008 East Coast carattere neutro simile al 19-23 °C Ale WPL001 ma un’attenuazione minore e minor capacità di esaltare l’amaro del luppolo. Ha una flocculazione maggiore e una leggera acidità. Produce una birra chiara e maltata. Piacevole carattere estereo che può essere definito come “crosta di pane”. Riesce WLP009 Australian a fermentare ad alte 18-21 °C Ale Yeast temperature pur mantenendo il suo carattere pulito. Combina una buona flocculazione con un’altrettanto valida attenuazione. La White Labs ha iniziato nel 1995 con 5 ceppi disponibili per gli homebrewers: WLP001, WLP002, WLP004, WLP300 e WLP810. Volevamo una miscela contenente tutti e cinque i ceppi ma il WLP300 non WLP010 10th si integrava bene con gli 18-21 °C Anniversary Blend altri e alla fine è stata ottenuta una miscela che mette alla prova l’immaginazione degli homebrewers. Contiene specifiche proporzioni di WLP001, WLP002, WLP004 & WLP810 ed è
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disponibile solo per un periodo limitato. Lievito con gusto maltato, di origine nordeuropea. La bassa produzione di esteri consente di ottenere una birra dal profilo pulito WLP011 European grazie anche alla ridotta 18-21 °C Ale o nulla produzione di solfuri. La bassa attenuazione contribuisce al carattere maltato. Indicato per Alt, Kolsch, ale inglesi e birre alla frutta. Lievito ale con carattere secco e maltato. Conferisce un complesso carattere “legnoso” alla birra. L’amaro del luppolo si WLP013 London distingue bene e questo 18-22 °C Ale ceppo è indicato per le classiche British pale ale, bitters e stouts. Presenta una minore capacità di flocculazione rispetto al WLP002 e al WLP005. Proviene dalla famosa città brassicola Burton upon Trent, in Inghilterra. Questo lievito conferisce un delizioso e WLP023 Burton Ale leggero sentore di frutta 19-23 °C come mela, pera e miele di trifoglio. Eccellente per tutti gli stili inglesi come le IPA, le bitters, le ales e le porters. La Scozia è famosa per
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le sue ales forti e maltate. Questo lievito WLP028 Edimburgh riesce a riprodurre i 18-21 °C Ale complessi aromi delle ale in stile scozzese senza alterare il carattere del luppolo così come il WLP002. Proveniente da un piccolo birrificio di Colonia, in Germania, questo lievito produce eccezionali Kölsch e Alt. Indicato anche per birre bionde leggere e al WLP029 German miele. Accentua gli aromi 18-20 °C Ale/Kolsch del luppolo in maniera simile al WLP001. Il leggero sentore sulfureo prodotto durante la fermentazione scompare poi durante il periodo di maturazione. Dal nord della California questo ceppo risulta più fruttato rispetto al WLP001 e leggermente WLP051 California più flocculante. 18-21 °C Ale V Yeast L’attenuazione è inferiore, il che si traduce in birre più corpose rispetto a quelle prodotte con il WLP001. Il nostro ceppo più popolare è il WLP001California Ale. Questa miscela celebra le caratteristiche del California, pulito, neutro e versatile, associate ad altri due lieviti con le stesse caratteristiche,
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WLP060 American che conferiscono però 19-23 °C maggiore complessità Ale Yeast blend alla birra avvicinandola alla tipologia lager in misura maggiore rispetto al WLP001. Gli aromi e l’amaro del luppolo sono accentuati ma non all’estremo come con il WLP001. Durante la fermentazione viene prodotto un leggero sentore sulfureo. Lievito inglese che riesce WLP099 Super a fermentare fino a un 19-23 °C High Gravity Ale 25% di contenuto alcolico. Da una delle birrerie trappiste, questo lievito produce un carattere fruttato distintivo di uva WLP500 Trappist passita. Eccellente lievito 18-22 °C Ale per birre ad alta gradazione come Belgian Ales, Dubbels e Tripels. Utilizzato da due birrerie trappiste, questo lievito produce un carattere fruttato e il sentore caratteristico di uva WLP530 Abbey Ale passita. Eccellente lievito 18-22 °C per birre ad alta gradazione come Belgian Ales, Dubbels e Tripels. Saisons, Belgian Ales, Belgian Reds, Belgian Browns, e White beers sono solo alcuni degli stili classici belgi che
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WLP550 Belgian Ale
WLP565 Belgian Saison I Yeast
WLP570 Belgian Golden Ale
WLP575 Belgian Style Ale Yeast Blend
possono essere 19-25 °C riprodotti con questo ceppo di lievito. Aromi fenolici e speziati predominano nel profilo con un sentore di fruttato inferiore rispetto al WLP500. Un classico ceppo Saison dalla Vallonia che produce note speziate, pepate e “terrose”. Leggermente dolce. Con Saisons a elevata OG il mastro birrario può 19-23 °C decidere di conferire un carattere più secco alla birra, aggiungendo, dopo che è avvenuto il 75% della fermentazione, un lievito aggiuntivo. Dalle Fiandre un lievito versatile per produrre sia Light Belgian Ales che Belgian Ales ad alta gradazione (12% ABV). Una combinazione di fruttato e fenolico che 19-23 °C dominano sul profilo aromatico. Durante la fermentazione si possono sviluppare composti solforati che poi scompaiono con la maturazione. Una miscela di due lieviti “Trappisti” e uno tipico per le Belgian Ale. Questo permette di ottenere un lievito adatto 19-23 °C sia per le birre di tipo trappista sia per tutte
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WLP800 Pilsner Lager
quelle birre che rientrano nella tipologia delle birre belghe. Classico ceppo tipo Pilsner dal principale produttore di pilsner della Repubblica Ceca. Secco ma con un finale 9-13 °C maltato, questo lievito si adatta bene per la produzione di birre pilsner di tipo europeo.
Lievito pilsner dalla Repubblica Ceca. WLP802 Czech Produce lager secche 9-13 °C Budejovice Lager con una bassa produzione di diacetile. Questo lievito è utilizzato per produrre birre in stile californiano. Un ceppo lager unico che ha la capacità di fermentare WLP810 San fino a 18 °C pur 8-13 °C Francisco Lager mantenendo le caratteristiche lager. Può fermentare anche fino a 10 °C per la produzione di marzen e pilsner. Questo lievito produce birre estremamente maltate in puro stile bock. A differenza del WLP830, non ha un finale secco ed è molto WLP820 meno forte come prima Octoberfest/Märzen generazione rispetto al 11-14 °C Lager WLP830, per cui si suggerisce di utilizzare un buon starter nella prima generazione o di considerare tempi più
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WLP830 German Lager
lunghi di lagerizzazione. Questo è uno dei lieviti più utilizzati al mondo per la produzione di lager. Estremamente maltato e 9-13 °C pulito, ideale per tutte le lager tedesche, pilsner, oktoberfest e marzen.
Dalla Baviera, questo lievito produce birre che sono ben bilanciate tra il carattere del malto e quello del luppolo. WLP833 German L’eccellente profilo 8-13 °C Bock Lager Yeast maltato lo rende adatto per la produzione di Bocks, Dopplebocks, e Oktoberfest. Lievito lager estremamente versatile. Lievito caratterizzato da un finale maltato e un aroma ben bilanciato. WLP838 Southern Fermenta molto bene 9-13 °C German Lager producendo bassi livelli di diacetile e pochi solfuri. È utilizzato per la produzione delle classiche lager WLP840 American americane. Secco e 9-13 °C pulito con un leggero Lager Yeast fruttato di mela. La produzione di solfuri e diacetile è minima.
WLP300
Questo famoso ceppo tedesco viene utilizzato per la produzione delle tradizionali birre di frumento. Conferisce i classici sentori di banana
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Hefeweizen Ale
e chiodo di garofano 19-22 °C tradizionalmente associati con le birre di frumento tedesche, lasciando la caratteristica torbidezza di questo stile di birra.
Questo lievito viene utilizzato per riprodurre le Hefeweizen secondo lo stile americano dell’Oregon. A differenza WLP320 American del WLP300, produce 18-21 °C Hefeweizen Ale molto meno sentore di banana e chiodo di garofano e una leggera nota sulfurea. Per il resto è un lievito pulito a bassa flocculazione. Evidente carattere fenolico e di chiodo di garofano, mentre è minimo quello di banana. Note rinfrescanti di albicocca e agrume. WLP380 Produce delle 18-21 °C Hefeweizen IV Ale hefeweizen secche e piacevoli. Flocculazione inferiore rispetto al WLP300 e con una maggiore produzione di solfuri.
WLP400 Belgian Wit Ale
Leggermente fenolico e acidulo, questo è il lievito originale utilizzato per 19-23 °C produrre le birre in stile Wit in Belgio. Lievito a basso carattere “Brettanomyces”, originariamente isolato da birre inglesi ad alta gradazione agli inizi del
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WLP645 Brettanomyces Claussenii
XX secolo. Gli aromi tipici del Brettanomyces prodotti sono più delicati N/A °C rispetto al WLP650 e al WLP653. Contribuisce più all’aroma (fruttato e simile all’ananas) che al gusto. Il B. claussenii è strettamente correlato al B. anomalus.
Lievito a medio carattere “Brettanomyces”. Classico ceppo utilizzato nelle fermentazioni secondarie per le birre in WLP650 stile belga e Lambics. Brettanomyces N/A °C Una birreria trappista Bruxellensis utilizza questo ceppo in fermentazione secondaria e in bottiglia per produrre il gusto caratteristico. Lievito con elevato carattere “Brettanomyces”; definisce il carattere “Brett”. Sentori di affumicato e speziato. Come lo stesso nome WLP653 Bretta suggerisce, questo N/A °C nomyces Lambicus ceppo è spesso ritrovabile nelle birre in stile Lambic, che sono a fermentazione spontanea. Si ritrova anche in altre tipologie di birre acide (sour brown beers).
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Lieviti Secchi Tipologia
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consigliata Lievito Ale inglese, selezionato Fermentis per fermentare rapidamente e Safbrew S- formare un sedimento molto 04 compatto. Fermentis Safbrew US-05 Fermentis Safbrew S33 Fermentis Safbrew WB-06
Lievito Ale americano, neutro e bilanciato.
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Per birre ad alta fermentazione. 15-24 °C Da blanche a strong belgian.
Lievito Ale, produce aromi speziati tipici delle birre di 15-24 °C frumento. Specifico per rifermentazioni, Fermentis resiste a elevati livelli di alcol. 15-25 °C Safbrew F2 Utilizzo: 2 g per 100 litri. Fermentis Lievito Lager, produce leggere Saflager S12-15 °C note fruttate. 23 Fermentis Lievito Lager, dal famoso ceppo Saflager 12-15 °C Weihenstephan. W34-70 Lallemand Lievito Ale inglese, può essere Nottingham 12-21 °C usato anche per produrre lager. Ale Lallemand Lievito Ale inglese, produce note 17-21 °C Windsor Ale fruttate. Lallemand Lievito Ale americano, neutro e 17-22 °C BRY 97 ben attenuante. Specifico per le rifermentazioni, Lallemand resiste a elevati livelli di alcol. 17-22 °C CBC 1 Utilizzo: 2 g per 100 litri. Lievito ale belga, produce note Lallemand speziate e fruttate, tipiche delle 17-21 °C Belle Saison Saison. Lievito Ale tedesco, ha aroma di Lallemand esteri con tipiche note di banana, 17-21 °C Munich per produrre birre Weizen. Lievito per produrre il tipico
Brewferm Blanche
aroma di frumento. Indicato per Witbier e birre di frumento.
Brewferm Lager
Lievito Lager neutro con basse componenti di zolfo.
18-24 °C
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10-15 °C
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Appendice D Conversioni e formule
Definizioni e abbreviazioni D=densità (es: 1,050) OG=densità × 1000 (es: 1050) OGp (“punti” di OG) = OG-1000 (es: 50) Plato= gradi saccarometri in peso (gr. di zuccheri in 100gr di birra) Svol= gradi saccarometri in volume ( gr. di zuccheri in 100ml di birra) FG = densità finale della birra moltiplicata per mille: FG=Df*1000 Alcvol = % alcool per volume Alcpeso = % alcool per peso
Conversioni e formule Plato= Svol/D Svol= Plato*D
OGp= 3.83*Svol OG= 3.83*Svol + 1000
Approssimazione: Plato=OGp/4 (imprecisa per valori alti) Esempio: Dato: OG=1050 (D=1,050 OGp=50) 50/3,83=13,05 (gr. sacc. in volume) 13,05/D=13,05/1,050=12,4 (gr. sacc. in peso. ovvero Plato) (facendo direttamente 50/4=12.5 si ottiene una discreta approssimazione)
Alcool L’alcool si misura in % sul peso o sul volume, si intende rispettivamente in un Kg. o un litro di birra. Tenendo conto della densità dell’alcool (circa 0,8) e della densità finale (Df) della birra si ha: alcvol=alcpeso*1.25*Df alcpeso=alcvol*0.8/Df
Gradazione alcoolica e attenuazione
La “percentuale di discesa” dalla OG alla FG dà un’idea di quanto una birra è “attenuata” ovvero quanta % di zuccheri è stata fermentata (AA=Attenuazione Apparente) :
Esempio: OG=1080 FG=1020 AA=(80-20)/80 =0.75 =75% L’AA non coincide con la percentuale di zuccheri fermentati, a causa della presenza di alcool che determina un ulteriore abbassamento della densità misurata. La % effettiva di zuccheri fermentati (RA= Attenuazione Reale) è: RA = AA/1,22
Glossario
AA - alfa acidi: principio attivo del luppolo responsabile dell’amaro. Dato espresso in percentuale (AA%), indica il potenziale amaricante della varietà / raccolto cui il dato si riferisce. AG - all grain: metodo di produzione della birra che parte dagli ingredienti di base (malto d’orzo in grani, luppolo) e realizza ogni fase produttiva, dalla macinazione alla filtrazione dell’impasto, alla bollitura con il luppolo. ale: tecnicamente al giorno d’oggi il termine è sinonimo di birra di alta fermentazione; tuttavia alcune birre ad alta (stout, porter, birre di grano) non sono quasi mai chiamate ale. ammostamento: in inglese mashing, rappresenta la fase di cottura in acqua del malto d’orzo macinato, a precisi livelli di temperatura e con pause temporali definite, durante la quale avviene la saccarificazione. aroma: insieme delle sensazioni olfattive provocate da una birra. Alcuni degustatori differenziano la terminologia (naso, aroma, bouquet) a seconda degli elementi che da cui l’aroma è determinato (luppolo, malto, esteri). attenuazione: espresso in percentuale, indica la capacità di un lievito di fermentare in modo più o meno completo gli zuccheri presenti nel mosto (attenuazione del 75% indica che tre quarti degli zuccheri presenti vengono fermentati). carbonazione: anidride carbonica presente nella birra… in parole povere le “bollicine”. Ogni stile prevede un appropriato livello di carbonazione più o meno elevato, e solo poche birre ne sono del tutto prive. Può essere ottenuta per semplice iniezione di CO2 o con metodi naturali come la rifermentazione in bottiglia.
corpo: caratteristica di una birra che si presenta all’assaggio come un mix di sensazioni gustative e tattili, riconducibili a: concentrazione, densità, pienezza, ecc. Il corpo è in relazione alla quantità di zuccheri non fermentati (estratto residuo) e a diversi altri fattori (ad es. le proteine). E+G: acronimo di “estratto più grani (speciali)” è un metodo semplificato di produzione della birra che permette di saltare le fasi di ammostamento e filtrazione per mezzo dell’utilizzo di estratto di malto liquido o secco in sostituzione della gran parte del malto d’orzo in grani. Viene utilizzata in semplice infusione in acqua calda solo una minima parte di grani “speciali” che apportano tostature e aromi caratterizzanti. estratto residuo: contenuto zuccherino della birra finita, dopo la fermentazione: una buona parte degli zuccheri del mosto infatti non viene trasformata in alcool. Viene espresso nelle stesse scale usate per la gradazione saccarometrica. EBC, SRM: scale di misurazione relative al colore della birra. Si ha EBC=2xSRM fermentazione secondaria: completamento della fase di fermentazione realizzata dopo avere eliminato fondi e residui dal fermentatore principale, solitamente per mezzo del travaso della birra verso un secondo fermentatore (detto appunto secondario). flocculazione: la tendenza delle cellule di lievito a unirsi fra di loro in grossi “conglomerati” durante la fermentazione. Un lievito molto flocculante si coagula in grossi blocchi marroncini ben visibili, che vengono portati in superficie dall’anidride carbonica nelle fasi iniziali delle fermentazione, per poi precipitare, compattandosi sul fondo, alla fine della stessa. Lieviti poco flocculanti restano invece più “polverizzati” e dispersi nel mosto e hanno maggiore tendenza a rimanere in sospensione glumelle: il chicco di orzo è rivestito da un involucro a più strati, tendente al colore marrone o giallo, detto appunto glumella. Si potrebbe definire come la prima pelle del chicco. Le glumelle sono molto importanti sia per la protezione del chicco d’orzo che ne consente una lunga conservabilità, sia per l’importante funzione di “materiale filtrante” nella fase di filtrazione dell’impasto a fine ammostamento. gradazione saccarometrica: quantità di zuccheri presenti nel mosto di birra. Possono essere usate diverse scale, a seconda che si consideri il peso o il volume degli zuccheri e della birra e altri fattori. Vedi Plato e OG. IBU: acronimo di International Bittering Units è la misurazione dell’effettivo livello di amaro dato dal luppolo di una birra. Se gli AA alfa acidi rappresentano il “potenziale” amaricante del luppolo, IBU misurano quanto di questo potenziale amaricante è effettivamente stato trasferito alla birra.
lager: birra di bassa fermentazione, di qualsiasi colore o gradazione (quindi non solo chiara e leggera!). Il termina deriva più precisamente dal periodo di maturazione (in tedesco lager) a freddo previsto dal procedimento. lauter tun: o tino di filtrazione. Recipiente dove avviene la separazione tra il mosto zuccherino e le parti solide del malto d’orzo in grani dopo la fase di ammostamento. luppolatura: fase in cui il mosto viene portato a ebollizione con il luppolo per la cessione della componenti amaricanti e aromatiche. malto: il cereale che viene stimolato alla germinazione e poi essiccato e tostato per sviluppare una serie di enzimi importanti per la fase di produzione della birra è detto malto. Può essere maltato l’orzo ma anche altri cereali come il frumento o il farro. mash tun: o tino di ammostamento. Recipiente dove avviene la cottura del malto e dei cereali in acqua. mashing: vedere ammostamento mash out: fase terminale della fase di ammostamento in cui la temperatura dell’impasto viene elevata a circa 78 °C per completare la degradazione degli enzimi ß-amilasi e stabilizzare il rapporto di zuccheri fermentabili e non fermentabili del mosto; serve anche a rendere il mosto più fluido in vista della filtrazione. OG: acronimo di Original Gravity, è una misura della densità del mosto, ossia della quantità di zuccheri disciolti in una data quantità di acqua. Nel dettaglio la OG è legata alla percentuale in peso di zuccheri sul volume del mosto. pellets: forma di confezionamento del luppolo in cui questo viene finemente tritato e compattato in piccoli cilindretti di 1 cm di altezza e pochi mm. di diametro. plato: misura della densità del mosto, ossia della quantità di zuccheri disciolti in una data quantità di acqua. Nel dettaglio il grado plato è la percentuale in peso di zuccheri sul peso del mosto. plug: forma di confezionamento del luppolo in cui questo viene compattato in cilindri di circa 5 cm di diametro e 2 di altezza e con peso predeterminato (solitamente 14 grammi). priming: fase in cui alla birra giovane viene addizionata una determinata quantità di zuccheri fermentabili (solitamente il classico saccarosio - zucchero bianco da tavola) appena prima dell’imbottigliamento o infustamento. Tale zucchero aggiunto consentirà una
nuova fermentazione e la saturazione (gasatura) della birra con anidride carbonica. real ale: termine usato prevalentemente nel Regno Unito. Una real ale non è filtrata né pastorizzata; deve contenere ancora i lieviti vivi, e la sua carbonazione deve avvenire naturalmente, per rifermentazione nel contenitore dal quale viene servita. Tecnicamente il termine si applica anche alle birre rifermentate in bottiglia; in genere però per real ale si intende quasi sempre la birra in fusto (cask) che rispetti queste caratteristiche. rifermentazione in bottiglia: tecnica tradizionale e naturale per ottenere la carbonazione (“gasatura”) di una birra in bottiglia. La birra non viene filtrata né pastorizzata e quindi contiene ancora lieviti vivi (in certi casi vengono aggiunti lieviti appositi). Questi lieviti provocano una lenta fermentazione degli zuccheri ancora presenti nella birra (oppure aggiunti di proposito, vedi priming), producendo in tal modo l’anidride carbonica responsabile delle “bollicine”. saccarificazione: trasformazione degli amidi del malto d’orzo (o di altri cereali) in zuccheri fermentabili o non fermentabili ad opera degli enzimi diastatici (α e ß amilasi) del malto. sparging: fase di risciacquo delle trebbie al fine di recuperare ulteriori zuccheri ancora presenti nella parte solida dell’impasto durante la filtrazione starter: processo di replicazione delle cellule del lievito al fine di raggiungere la disponibilità di un numero sufficiente ad affrontare una corretta ed adeguata fermentazione, trebbie: parte solida residuale alla fase di filtrazione. Sostanzialmente costituite dalle glumelle (bucce) del malto d’orzo.
Bibliografia
Un elenco di alcuni dei libri e articoli a cui si fa riferimento in questo libro o comunque utili per approfondimenti.
Libri in italiano Ray Daniels, Progettare Grandi Birre, edizione italiana a cura di MoBI, Lampi di Stampa, 2012. Randy Mosher, Degustare le Birre, edizione italiana a cura di MoBI, Edizioni FAG, 2013.
Libri in inglese Dennis Briggs, Chris Boulton, Peter Brookes, Roger Stevens, Brewing Science and Practice, Woodhead Publishing Limited, Abington (UK), 2004. George Fix, Principle of Brewing Science, Brewers Publications, Boulder - Colorado (USA), 1999. Stan Hieronymus, Brew Like a Monk, Brewers Publications, Boulder - Colorado (USA), 2005. Michael Jackson, Beer Companion, Running Press, Philadelphia (USA), 1993. Al Korzonas, Homebrewing vol. 1, Sheaf & Vine, Paolos Hills - Ilinois (USA), 1997. Michael Lewis, Tom Young, Brewing, Kluwer Academic/Plenum Publisher, New York (USA), 2001. Phil Markowski, Farmhouse Ales, Brewers Publications, Boulder - Colorado (USA), 2004. Dave Miller, Homebrewing Guide, Storey Publishing, Pownal - Vermont (USA), 1995. Gregory Noonan, New Brewing Lager Beer, Brewers Publications, Boulder - Colorado (USA), 1996. John J. Palmer, How to Brew, Defenestrative Pub, Monrovia - California (USA), 2001.
Charlie Papazian, The New Complete Joy of Home Brewing, Avon Books, New York (USA), 1991. Jeff Sparrow, Wild Brews, Brewers Publications, Boulder - Colorado (USA), 2005. Graham Wheeler, Home Brewing, Camra Books, St Albans (UK), 1997.
Articoli C. Colby, Extract Method to your Madness, Brew Your Own, Vol. 12, N. 5. S. Holler, Sparging: A Comparison of Batch and Continuous Sparging, Brew Your Own, Vol. 14, N. 2.
Siti consigliati Un elenco dei siti web più utili relativi all’homebrewing (compresi quelli dei fornitori di ingredienti) è disponibile sul sito www.latuabirra.com.
Ringraziamenti Davide Arzarello, Giuliano Cardinali, Lorenzo Dabove (Kuaska), Monica Dapiaggi, Andrea De Maldè, Severino Garlatti Costa, Rosalba Gelardi, Egidio Latronico, Daniele Merli, Mauro Queirolo, Gianluca Rossi, Marco Traverso, Eliano Zanier
LE MIE RICETTE Nome ricetta: ___________________________________________________ Tecnica: ________________________________
All Grain
Estratto
Stile: _________________________________________________________ Litri finali: _____________ IBU: _____________ SRM: _______________ Original Gravity: _______ Final Gravity: _______ Alc.Vol.%: ________ Note ammostamento: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Note fermentazione: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Malti:
Varietà malto Grammi
Luppolo:
Varietà luppolo Grammi AA% Minuti
Extra:
Varietà extra Grammi Minuti
Lievito: _________________________________________________________
Nome ricetta: ___________________________________________________ Tecnica: ________________________________
All Grain
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Stile: _________________________________________________________ Litri finali: _____________ IBU: _____________ SRM: _______________ Original Gravity: _______ Final Gravity: _______ Alc.Vol.%: ________ Note ammostamento: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Note fermentazione: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Malti:
Varietà malto Grammi
Luppolo:
Varietà luppolo Grammi AA% Minuti
Extra:
Varietà extra Grammi Minuti
Lievito: _________________________________________________________
Nome ricetta: ___________________________________________________ Tecnica: ________________________________
All Grain
Estratto
Stile: _________________________________________________________ Litri finali: _____________ IBU: _____________ SRM: _______________ Original Gravity: _______ Final Gravity: _______ Alc.Vol.%: ________ Note ammostamento: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Note fermentazione: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Malti:
Varietà malto Grammi
Luppolo:
Varietà luppolo Grammi AA% Minuti
Extra:
Varietà extra Grammi Minuti
Lievito: _________________________________________________________
Nome ricetta: ___________________________________________________ Tecnica: ________________________________
All Grain
Estratto
Stile: _________________________________________________________ Litri finali: _____________ IBU: _____________ SRM: _______________ Original Gravity: _______ Final Gravity: _______ Alc.Vol.%: ________ Note ammostamento: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Note fermentazione: ___________________________________________ ______________________________________________________________ Malti:
Varietà malto Grammi
Luppolo:
Varietà luppolo Grammi AA% Minuti
Extra:
Varietà extra Grammi Minuti
Lievito: _________________________________________________________
Indice Copertina Frontespizio Colophon INTRODUZIONE 1. INTRODUZIONE ALLA BIRRA FATTA IN CASA 1.1 Homebrewing: hobby e passione 1.2 La produzione commerciale della birra Fasi della produzione della birra 1.3 Tecniche di produzione casalinga Tecniche a confronto 1.4 Struttura del libro e percorsi di lettura 2. GLI INGREDIENTI 2.1 Il malto e le altre sostanze fermentabili L’orzo e il malto La maltazione Cereali non maltati e fiocchi Ingredienti fermentabili: caratteristiche e impiego Zucchero Estratto di malto 2.2 Il luppolo Botanica e coltivazione Proprietà Componenti principali Impiego del luppolo: amaro e aroma Il dry hopping Varietà di luppolo Amaro: come stimarlo Forme di confezionamento La conservazione del luppolo 2.3 L’acqua nella produzione della birra 2.4 Il lievito L’importanza del lievito Caratteristiche Proprietà del lievito relative alla fermentazione Profilo aromatico Alta e bassa fermentazione Quanto lievito? Lievito liquido e lievito secco Lievito liquido, uso e propagazione Lievito secco, uso e propagazione
Principali ceppi disponibili Cenni sulla coltivazione del lievito 3. L’ATTREZZATURA 3.1 Attrezzatura di base 3.2 Attrezzatura per all grain 3.3 Pulizia e sanitizzazione Mezzi di pulizia alcalini Mezzi di pulizia acidi Sanitizzanti alcalini Sanitizzanti acidi Scegliere il prodotto per la propria attrezzatura Consigli pratici 4. IL PROCESSO DI PRODUZIONE 4.1 La macinazione 4.2 Ammostamento e filtrazione Ammostamento Aree di azione ottimale degli enzimi del malto Filtrazione 4.3 La tecnica da estratto e grani speciali La tecnica da estratto Limiti e vantaggi I grani speciali Note sulla bollitura L’acqua: quantità e qualità Risultati qualitativi 4.4 La bollitura del mosto Funzioni della bollitura Note pratiche sullo svolgimento della bollitura Aggiunta di altri ingredienti Raffreddamento Travaso del mosto e separazione dei residui 4.5 La birra da estratto luppolato (kit) Le birre in kit Tecnica di produzione Zucchero e sua sostituzione Altri miglioramenti 4.6 La fermentazione Aromi prodotti dalla fermentazione Fattori che influenzano il profilo aromatico Tecniche di ossigenazione Preparazione del lievito La conduzione della fermentazione Fermentazione secondaria
La bassa fermentazione Filtrazione e chiarificazione 4.7 Imbottigliamento, carbonazione e maturazione La carbonazione naturale Priming: quantità e tipo di zuccheri Priming e imbottigliamento in pratica La maturazione 4.8 Altri metodi di servizio e maturazione Servizio dal maturatore Fusti e fustini Metodi di servizio Spillatura a CO2 4.9 Note pratiche sulla produzione Ricetta Macinazione Ammostamento (mashing) Filtrazione delle trebbie (sparging) Bollitura Fermentazione Imbottigliamento 5. APPROFONDIMENTI 5.1 Problemi e difetti Problemi nell’imbottigliamento Problemi nell’aspetto della birra Problemi nell’assaggio Prevenzione 5.2 Progettare la propria birra La ricerca delle informazioni Malto e zuccheri, tipi e quantità Temperature di ammostamento Luppolo, tipi e quantità Lievito e fermentazione 5.3 Degustare una birra Soggettivo e oggettivo Il servizio I cinque sensi 5.4 Postfazione Conoscere gli ingredienti Imparare a degustare Scambiare esperienze Partecipare a concorsi Corsi per homebrewing II sito di questo libro
APPENDICE A - RICETTE A.1 American Pale Ale (AG) A.2 American Strong Ale (AG) A.3 Barley Wine (E+G) A.4 Bavarian Weizen (AG) A.5 Belgian Blonde (AG) Variante E+G A.6 Belgian Strong Ale (AG) Variante E+G A.7 Bohemian Pilsner (AG decozione) A.8 Munich Dunkel (AG) A.9 Extra Special Bitter (AG) Variante E+G A.10 Smoked Ale (AG) A.11 Traditional Porter (AG) A.12 Triple (AG) A.13 Traditional Bock (AG decozione) A.14 Tobac (AG) A.15 Gose (AG) A.16 Luppolo!! (AG) APPENDICE B - VARIETÀ DI LUPPOLO APPENDICE C - TABELLE Carbonazione e Priming Correzione lettura densimetro Stima delle IBU - fattore di utilizzazione Lieviti Wyeast Lieviti Whitelab Lieviti Secchi APPENDICE D - CONVERSIONI E FORMULE Definizioni e abbreviazioni Conversioni e formule Alcool Gradazione alcoolica e attenuazione GLOSSARIO BIBLIOGRAFIA