La rappresen rappresentazione tazione dello spazio da
di Luciano Bellosi
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana , I. Mat Materia eriali li e pro problem blemii , 4. Ricerche spaziali e tecnologiche, a cura di Giovanni Previtali, Einaudi, Torino 1979
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Indice 6. La «prospettiva» quattrocentesca: una regola per la rappresentazione dello spazio e il recupero totale della realtà terrena 7. La diffusione della visione prospettica
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6. La «prospettiva» quattrocentesca: una regola per la rappresentazione dello spazio e il recupero totale della realtà terrena.
La nuova visione artistica diffusa da Piero della Francesca e da Donatello era quella elaborata a Firenze tra il secondo e il terzo decennio del Quattrocento, in una opposizione alla cultura artistica circostante molto piú netta di quanto non fosse la pittura di Jan van Eyck, che per numerosi aspetti si richiamava al gotico internazionale e alla pittura del Trecento. I punti di riferimento per i novatori fiorentini sono, semmai, l’antichità classica e Giotto. Si torna a porsi, infatti, il quesito giottesco di trasferire su una superficie a due dimensioni una realtà a tre dimensioni e se ne trova una soluzione non piú empirica, ma ormai perfettamente scientifica, con la scoperta delle regole matematiche della costruzione prospettica1. È noto che tutto ciò si deve all’ingegno di Filippo Brunelleschi: difficile dire quale ne sia stato l’incentivo in un artista che aveva esordito come orafo nel concorso del 1401 per una delle porte del Battistero con un rilievo in cui l’ara del Sacrificio di Isacco era ancora costruita con le facce perpendicolari che recedevano verso la profondità divergendo invece che convergendo. La sua genialità si sviluppa per gradi, ma con una disponibilità mentale del tutto eccezionale. Il suo rilievo per
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il concorso e il suo Crocifisso di Santa Maria Novella sono difficilmente classificabili entro coordinate stilistiche e nemmeno sembrano particolarmente ispirate all’«antico», tanto vi prevale una ricerca di autenticità e di aderenza oggettiva alla storia che rappresentano; in questa propensione a basarsi piú sulla verità offerta dalla natura, o comunque sui dati oggettivi, che su una coerenza di stile è da collocare anche l’esigenza di un’esperienza diretta sul reale quale ci è dato cogliere nel Brunelleschi che si accinge a ricomporre vedute cittadine su di una tavoletta messa ad argento, da usare forse come uno specchio2. Questo evento eminentemente «cittadinesco» della scoperta delle leggi prospettiche si è forse prodotto innanzitutto di fronte alla veduta di una via. Le vie, piú ancora che le piazze, caratterizzano ancora oggi la città di Firenze. Su due quinte si allineano caseggiati di diversa altezza e quindi con le finestre, i cornicioni e le tettoie disposti su livelli continuamente diversificati; ma proprio questa diversità rende piú evidente una costante: che tutte quelle linee sembrano proiettarsi in profondità dirigendosi verso uno stesso punto. Vedere nell’esperienza visiva di una via cittadina uno dei punti chiave della elaborazione delle leggi prospettiche da parte del Brunelleschi sarà forse un’illazione a posteriori, ma la rendono plausibile alcune delle prospettive messe in opera da Masaccio nella Cappella Brancacci o da Domenico Veneziano nella predella della pala di Santa Lucia dei Magnoli. Naturalmente non si potranno dimenticare gli incentivi di fonte umanistica e quindi le letture degli antichi e l’esperienza di misuratore delle architetture classiche, tra le quali, secondo le credenze di allora, andava annoverato lo stesso Battistero fiorentino. Del Battistero fiorentino il Brunelleschi aveva dipinto una veduta prospettica, che Antonio Manetti3 ci testimonia di aver visto coi propri occhi, cosí come una
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veduta di piazza della Signoria. Ma se queste due tavolette erano tutto ciò che rimaneva nella seconda metà del Quattrocento degli esperimenti prospettici brunelleschiani, ciò non toglie che essi iniziarono probabilmente molto prima di arrivare a questi complessi risultati, coinvolgendo anche il giovane Donatello. La consorteria di quest’ultimo col Brunelleschi in rapporto con esperimenti nel campo della scultura è documentata dai pagamenti fatti ad ambedue nel 1415 per un modello in marmo ricoperto di piombo dorato per una scultura da porsi sugli «sproni» dell’abside del Duomo di Firenze4. Probabilmente anche la rinascita di una tecnica antica come quella della scultura in terracotta, scomparsa durante il Medioevo, si deve alle stesse sperimentazioni, dal momento che poco tempo prima, nel 1411, Donatello aveva eseguito per gli stessi sproni una grande figura in terracotta5. Fatto sta che il rilievo che fa da predella al San Giorgio eseguito da Donatello per uno dei Tabernacoli di Orsanmichele intorno al 1416 è direttamente implicato nella ricerca prospettica brunelleschiana e forse ne documenta una fase. Fortemente centralizzato, con la tana rocciosa del drago che fa da quinta irregolare sulla sinistra e una costruzione sulla destra con loggiato e pavimento a mattonelle quadrate le cui linee di fuga convergono verso un centro collocato sul dorso del cavaliere. esso può chiamarsi la prima costruzione scientificamente prospettica dopo l’antichità. L’obiezione in contrario, basata sul fatto che le linee di fuga non concorrono in modo del tutto esatto verso il punto centrico, può venire solo da storici dell’arte dell’era atomica. Nemmeno i rilievi dell’altare del santo a Padova risultano del tutto soddisfacenti a questo riguardo, eppure rappresentano uno dei punti nodali nella storia della diffusione della visione prospettica in Italia. D’altra parte, basterà confrontare il rilievo di Orsanmichele con la produzione fiorentina contemporanea sia nel
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campo della scultura che della pittura per rendersi conto dell’assoluta novità che esso rappresenta in ordine al problema della rappresentazione dello spazio. In questo senso va considerato, d’altra parte, che nella predella di Orsanmichele la stessa concezione del rilievo si è modificata a tal punto da farlo diventare quasi una superficie piana. Questa tecnica, nota come «stiacciato», che forse ha trovato lo spunto nelle parti marginali dei rilievi ghibertiani per la Porta Nord del Battistero6, è usata da Donatello proprio in rapporto alla necessità della costruzione prospettica, che aveva bisogno di una superficie piana per la sua realizzazione. Donatello può cosí dare l’impressione di uno spazio molto piú ampio rispetto a quello reale7: uno spazio nel quale entra una lontana fila di colline alberate e il cielo su cui passano le nubi. È questo un altro punto che pone il rilievo donatelliano di Orsanmichele in rapporto con gli esperimenti prospettici del Brunelleschi; il Manetti dice, infatti, che nella tavoletta con la veduta del Battistero: «... per quanto s’aveva a dimostrare di cielo, cioè che le muraglie del dipinto stanpassono nella aria, messo d’ariento brunito, acciò che l’aria e cielj naturalj vi si specchiassono drento e cosí e nugolj, che si vegono in quello ariento essere menati dal vento, quande trae»8. Durante tutto il Trecento qualsiasi sperimentazione «spaziosa» aveva avuto come limite simbolico il fondo d’oro nei dipinti su tavola e il corrispondente fondo blu negli affreschi; anche la piú rigorosa costruzione di spazi era sempre ribaltata contro questo invalicabile limite trascendentale (unica eccezione, estremamente significativa, il cielo oltre le finestre dei finti «coretti» di Giotto a Padova). Con la prospettiva si riconquista totalmente lo spazio naturale e mondano, privo di qualunque limite trascendentale e la ricomparsa del cielo atmosferico ne è uno dei segni caratterizzanti. Il fatto che in pittura esso ricompaia per la prima volta nella pre-
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della dell’ Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano del 1423 e non nel campo maggiore della tavola è anch’esso in qualche rapporto col rilievo del San Giorgio che uccide il drago di Donatello, che era appunto una predella. È probabile infatti che non sia una conseguenza delle intenzioni naturalistiche di tipo tardo-gotico del pittore fabrianese, ma dei contatti con l’ambiente fiorentino, dove questi esperimenti avevano già avuto luogo. In effetti, nei pannelli decorativi del polittico di Valle Romita, ora a Brera, o nella predella con la Lapidazione di santo Stefano della Gemäldegalerie di Vienna, Gentile da Fabriano aveva usato l’oro come fondo per le sue narrazioni. Invece, nell’ambiente fiorentino e toscano del terzo decennio del Quattrocento la predella ha sistematicamente il fondo azzurro del cielo atmosferico, anche in artisti non di primo livello quali Giovanni Toscani (si veda il suo pannello nella Galleria dell’Accademia di Firenze con San Francesco che riceve le stimmate e un Miracolo di san Nicola, parte della predella di un polittico quasi certamente risalente agli anni 1424-25)9. Masaccio, nato nel 1401, poteva avere iniziato la sua attività fin dal 1420 circa; i pannelli della predella del suo polittico pisano dei carmelitani del 1426, oggi a Berlino, hanno tutti il cielo con le nubi. A queste date, la nuova visione naturale e prospettica aveva già oltrepassato – anche se di poco – le mura di Firenze. Tra il 1423 e il 1426, infatti, il Sassetta esordisce a Siena col polittico dell’Arte della Lana; nella predella, le «storie» si svolgono in spazi naturali campiti dal cielo atmosferico e segnati da vani puntigliosamente prospettici. Gli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci al Carmine hanno tutti il cielo atmosferico, anche quelli eseguiti in collaborazione con Masolino. La loro rigorosa costruzione prospettica raggiunge l’apice nelle due storie di San Pietro che guarisce con la propria ombra e l’E-
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lemosina di san Pietro, ambedue nel registro inferiore ai
lati dell’altare. Queste scene memorabili, ambientate per vie fiorentine forse perfino riconoscibili, sono unificate dal punto di fuga in comune che si colloca nel centro della parete di fondo, al di fuori delle superfici su cui sono dipinte10. Ovviamente, la costruzione prospettica piú rigorosa e sistematica messa in opera da Masaccio è nell’affresco con La Trinità in Santa Maria Novella. In esso si attua un’interpretazione estremamente mondana e naturale di un argomento cosí trascendente, i cui precedenti iconografici sono nelle numerose versioni tardo-gotiche del cosiddetto Tronum Gratiae. L’impegno prospettico e la cultura anticheggiante messi in opera nella impaginatura architettonica di questo affresco gli conferiscono un aspetto piú intellettualistico di quanto non ci si sarebbe aspettato dalle altre opere del pittore e in questo senso va considerata l’ipotesi avanzata da piú parti di una collaborazione del Brunelleschi11. L’opera e certo una sorta di manifesto della pittura prospettica a venire, probabile punto di riferimento per Leon Battista Alberti e per il suo trattato Della Pittura del 1436, dedicato – guarda caso – al Brunelleschi. Perfettamente razionale in tutte le sue parti, La Trinità di Santa Maria Novella è costruita collocando la linea dell’orizzonte allo stesso livello dell’occhio dell’osservatore e cioè in corrispondenza del piano della mensa del finto altare, cosicché il vano in cui le figure hanno il loro spazio è visto dal sotto in su. L’illusionismo spaziale si attua così perfettamente, giustificando l’entusiasmo del Vasari («pare che sia bucato quel muro»)12. L’impressione sui contemporanei, abituati a dipinti che al meglio potevano essere quelli di Lorenzo Monaco, doveva essere enorme e quasi dissacrante doveva apparire la terrenità delle figure sacre, abitanti nello stesso spazio e figurate con gli stessi
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corpi e le stesse dimensioni dei due committenti riconoscibilissimi. Perfettamente organica, la visione artistica di Masaccio riguarda un’umanità del tutto terrena. La «bruttezza» fisica dei volti, impietosamente segnati da occhiaie vistose, da rughe profonde, deformati dall’urgenza di darne una definizione tridimensionale attraverso lo scorciare degli occhi, è ribaltata in eroica fierezza dalla gravità dei gesti, dall’intensa concentrazione degli sguardi, dalla fatalità degli atteggiamenti, dalle solenni cadenze dei panni. In confronto a una visione cosí severa e senza concessioni, la generazione successiva elabora una concezione della pittura piú serena, luminosa e colorata, che trova uno dei suoi momenti paradigmatici nella pala di Santa Lucia dei Magnoli di Domenico Veneziano, oggi agli Uffizi. Fra il 1430 e il 1440, mentre fuori Firenze Masolino ricorda i suoi contatti con Masaccio in erte e improbabili prospettive, anche in ambiente fiorentino, dopo la morte precocissima del grande novatore, si ha una notevole stasi. Molti pittori continuano a comportarsi come se Masaccio non fosse mai esistito; altri ne rimangono fortemente impressionati, senza tuttavia che il loro «sbalordimento»13 si traduca in un coerente linguaggio. È la pittura di cassoni ad accoglierne in modo piú vistoso certi suggerimenti; sarà forse perché uno dei piú prolifici artisti in questo campo era suo fratello, Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia con cui deve identificarsi il gruppo anonimo noto come «Maestro del Cassone Adimari»14; sta di fatto che lo spazio come ritratto delle vie e delle piazze cittadine messo in opera da Masaccio al Carmine trova in questa attività artistica i suoi riflessi piú diretti e il volto quattrocentesco di molti degli antichi luoghi storici della città di Firenze ci è offerto soprattutto dalla pittura dei cassoni. Ma il piú intelligente aggiornamento a Masaccio è
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compiuto dall’Angelico e in un momento assai precoce. Non c’è forse nella storia dell’arte occidentale un altro caso in cui cosí evidentemente traspaia dalle opere eseguite la condizione di religioso di chi le eseguí. Eppure, proprio il primo artista che crea un’arte «devota» e che quindi fa risaltare, per contrapposto, la connotazione laica dell’arte di Masaccio, è anche il primo a dialogare con il grande novatore: «pochi dipinti mostrano al pari [dell’Imposizione del nome al Battista nel Museo di San Marco] l’intuizione geniale da parte dell’Angelico del momento piú sottilmente prospettico di Masaccio, come si legge nel desco da parto di Berlino»15. E cosa dire dell’ Annunciazione di Cortona, delle Storie di san Francesco negli Staatliche Museen di Berlino o dell’Incoronazione della Vergine del Louvre? In quest’ultimo dipinto, la «storia» è collocata in un ambiente che sarà di certo una sala del Paradiso, ma non molto diversa da un vano chiesastico di questo mondo, sul cui pavimento, realizzato secondo i principi di un impressionante illusionismo prospettico, i santi stanno inginocchiati scandendo mirabilmente lo spazio. Bisogna riconoscere che, in confronto a questi risultati, il successivo altare dei Linaioli (1433) segna una sorta di regresso. Nello stesso decennio, nemmeno l’esordio di Filippo Lippi porta dei contributi positivi: intorno alla sua Madonna di Tarquinia del 1437 cresce uno spazio di nuovo quasi rampante. Ancora una volta, le voci piú seriamente interessate alla ricostruzione prospettica della realtà fanno capo a Filippo Brunelleschi. È in nome suo che l’Alberti pubblica, nel 1436, il trattato Della Pittura, in cui sembra che il mondo visibile non sia altro che un insieme di quantità sistemate in uno spazio: «vedendo qualcosa, diciamo questo essere cosa quale occupa uno luogo»16. È nella brunelleschiana Sagrestia Vecchia di San Lorenzo che Donatello sperimenta il primo sottinsú della sto-
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ria dell’arte moderna nel tondo in stucco con l’ Assunzione di san Giovanni Evangelista. È un uomo molto vicino al Brunelleschi, Antonio Manetti, ad attuare le prime tarsie prospettiche nella sagrestia del Duomo di Firenze17, molto probabilmente sotto gli occhi stessi del Brunelleschi. Arriva poi a Firenze, nel 1439, Domenico Veneziano, con accanto in qualità di giovane aiuto Piero della Francesca, a eseguire un ciclo di affreschi nella chiesa di Sant’Egidio. La distruzione di questi affreschi18, ci ha probabilmente privati della piú alta testimonianza pittorica che la generazione successiva a Masaccio fosse in grado di offrire. Ce lo fa supporre quanto Domenico Veneziano ha realizzato nella pala di Santa Lucia de’ Magnoli, oggi agli Uffizi. In essa trovano un trattamento inimitabile gli spazi, i volumi, la luce, i colori, come in uno spettacolo meraviglioso, intonato da una luminosità chiarissima e primaverile. La prospettiva sembra qui diventata un congegno stupendo, che permette incastri di spazi e di volumi di una precisione stupefacente: si veda come i piedi poggiati sul pavimento in scorcio misurino lo spazio occupato dai quattro santi, o come il volume del busto di santa Caterina sia definito dal girare dello scollo, che cade a vu nel centro, preciso come una lancetta. Placata la polemica masaccesca con la cultura contemporanea, hanno di nuovo cittadinanza il colore prezioso, la cadenza ritmica e perfino l’arco a sesto acuto. La tersa luminosità, che rende perfettamente trasparenti anche le ombre e conferisce alle campiture cromatiche lo splendore delle pietre preziose, è un effetto che doveva essere stato sperimentato ormai da qualche tempo, se già nel 1432 il senese Domenico di Bartolo ne mostrava un riflesso in quell’affascinante capolavoro che e la Madonna dell’Umiltà della Pinacoteca di Siena. E a Siena, il Vecchietta continuerà da par suo su questa strada.
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È singolare che a Firenze, invece, un pittore come Paolo Uccello, talvolta assai vicino a Domenico Veneziano e impegnatissimo nella sperimentazione prospettica, sembri muoversi in un’atmosfera ancora memore dei notturni gotici di Gentile da Fabriano, perfino nelle tre grandi tavole con la Battaglia di San Romano. I suoi studi sulla «dolce prospettiva» dànno spesso nel bizzarro; il Diluvio Universale nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella, quasi senz’acqua, è ricostruito in una via cittadina ottenuta con l’accostamento di due arche di Noè piramidali – come quella del Ghiberti nella Porta del Paradiso – una vista di fronte e una di fianco, che stanno a indicare due episodi successivi della stessa «storia»: durante il diluvio, quando l’arca è ermeticamente chiusa, e verso la fine del diluvio, quando Noè si affaccia a una apertura dell’arca per liberare la colomba. E che dire della finta Battaglia di San Romano in cui le picche spezzate sono cadute disponendosi in modo da fornire le stesse indicazioni prospettiche di un pavimento ammattonato? Di Andrea del Castagno, che sembra pensare le sue figure come fossero scolpite nel bronzo o nel sasso, è memorabile il vano prospettico in cui si svolge l’Ultima Cena nel Refettorio di Santa Apollonia a Firenze. Anche per lui lo spazio in prospettiva acquista una connotazione spettacolare, come in Domenico Veneziano e come sarà in Piero della Francesca. In parallelo con l’attività fiorentina di Domenico Veneziano, la pittura dell’Angelico si rinnova, illuminandosi di una trasparenza cristallina e di un maggiore impegno umanistico. La pala per l’altar maggiore della rinnovata chiesa di San Marco, consacrata nel 1443, doveva costituire, quando si poteva vederla in condizioni molto diverse da quelle disastrose in cui è oggi ridotta, uno dei punti di riferimento per la pittura prospettica e rinascimentale, e probabilmente per lo stesso
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Piero della Francesca. Inoltre, dallo stupendo affresco di Madonna col Bambino e santi nel corridoio del Dormitorio di San Marco al polittico di Perugia ai tardi affreschi della Cappella Niccolina in Vaticano, la ricerca dell’evidenza delle cose si fa cosí sottile da far pensare a una precoce conoscenza della pittura fiamminga, con risultati talvolta sorprendentemente affini a quelli di Jean Fouquet, il grande pittore e miniatore francese che ha certamente visitato l’Italia prima del 144719. 7. La diffusione della visione prospettica. L’esperienza prospettica fiorentina viene riassunta dalla grande figura di Piero della Francesca, a un livello non solo operativo, come era stato per Domenico Veneziano, ma anche di profonda coscienza teorica. L’entusiasmo per la scoperta della prospettiva è ancora tale che gli fa addirittura identificare la pittura con la prospettiva: «la pictura non è se non dimostrationi de superficie et de corpi degradati o accresciuti... secondo che le cose vere vedute da l’occhio socto diversi angoli s’appresentano»20. La sua Flagellazione di Urbino è forse il piú rappresentativo teorema prospettico elaborato dalla pittura del Quattrocento. L’articolazione dello spazio vi appare assai complessa, ma senza alcuna forzatura o artificiosità. E del resto l’incredibile trasparenza luminosa riscatterebbe da sola qualsiasi esibizionismo di dottrina prospettica; cosí come la solennità delle figure non rischia mai di disumanizzarsi, rivestita com’è di una gamma cromatica calda e preziosa insieme. La manifestazione piú complessa e impegnata dell’arte di Piero della Francesca sono per noi, oggi, gli affreschi nel coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo, eseguiti negli anni ’50. Ma bisognerebbe sapere com’erano le sue opere dipinte a Ferrara e a Roma, o altre che non sono arrivate fino a
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noi. Fatto sta che l’ampio raggio d’azione di Piero della Francesca, attivo in Toscana, in Emilia, nel ducato di Urbino e a Roma, fa sí che la figurazione prospettica esca dalle mura di Firenze e diventi italiana. Per la diffusione della visione prospettica la sua attività fu determinante, cosí come lo fu il soggiorno padovano di Donatello. I rilievi in bronzo con le Storie di sant’Antonio per l’altare del santo sono le composizioni prospetticamente piú impegnate che Donatello ci abbia lasciato. Questo impegno si traduce, anzi, in una tensione ossessiva che caratterizzerà l’arte figurativa – e soprattutto la pittura – dei decenni immediatamente seguenti alla metà del secolo, tra Veneto, Lombardia ed Emilia. Mentre perfino artisti di tradizione tardo-gotica, come Pisanello, Antonio Vivarini o Jacopo Bellini, si cimentano in esercitazioni prospettiche infiorandole di citazioni dell’antico, Andrea Mantegna realizzerà nella Cappella Ovetari agli Eremitani di Padova i primi affreschi settentrionali organicamente costruiti secondo le regole della prospettiva. Come negli affreschi della parete di fondo della Cappella Brancacci, anche quelli Ovetari hanno un punto di fuga in comune al di fuori della singola «storia» e dànno l’illusione di una spazialità perfettamente naturale e vera. La figurazione del Mantegna, fitta di riferimenti colti e archeologici – da Donatello all’antico – trova nella pala di San Zeno a Verona il modo di conciliare la struttura del polittico con i laterali di tradizione gotica, ancora viva nel Veneto, con una costruzione rinascimentale in cui gli elementi della cornice diventano la facciata della struttura architettonica aperta, dipinta illusionisticamente nella tavola e abitata dalle figure protagoniste. È un’idea nata probabilmente con l’altare del santo di Donatello e che avrà una larga fortuna nell’Italia settentrionale, dalle pale di Giovanni Bellini ai polittici architettonici lombardi della fine del Quattrocento.
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Va ricordato che verso la metà del secolo, e in qualche caso anche oltre, gran parte dell’Italia è ancora legata agli sviluppi del gotico internazionale, come la favolosa Lombardia degli Zavattari e di Bonifacio Bembo, o è conquistata dalla cultura fiamminga, come la Liguria del grande Donato de’ Bardi21, le Marche di Antonio da Fabriano, o l’Italia meridionale di Colantonio e del giovane Antonello da Messina. Ma proprio la vicenda artistica di Antonello è emblematica dell’inversione di rotta della pittura italiana sotto la spinta delle novità prospettiche diffuse da Donatello e da Piero della Francesca. Il grande pittore messinese comincia infatti con opere come la Crocifissione di Sibiu, dove la natura è scrutata con l’occhio di Jan van Eyck; continua col San Girolamo nello studio della National Gallery di Londra, dove la penombra dei dipinti fiamminghi si annida entro strutture architettoniche ancora gotiche, ma già tradotte con il linguaggio prospettico; finché, col San Seba stiano di Dresda del 1476, Antonello produce una delle opere paradigmatiche della concezione prospettica italiana. Qui, infatti, come nella Trinità di Masaccio, nella pala di Santa Lucia de’ Magnoli o nella Flagellazione di Urbino, l’uomo celebra se stesso, trasferendo la realtà corporea di cui si riveste e il mondo in cui vive nella immutabile razionalità delle forme geometriche. Bisogna riconoscere, tuttavia, che diffondendosi, la visione prospettica tende ad allentare la tensione che caratterizzava le opere dei grandi prospettici attivi fino a poco oltre la metà del secolo. Non è piú un modo di concepire la pittura, ma tende a diventare una nozione scientifica che, se pone l’artista su di un piano piú alto di quanto non fosse fino al secolo precedente, entra semplicemente a far parte del suo bagaglio di conoscenze. Certamente, cosí è nella Firenze della seconda metà del Quattrocento, dove maturerà anzi una coscienza antiprospettica che avrà le sue incarnazioni in Leonar-
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do e in Michelangelo. Si continuano certo a produrre opere in cui appare evidente la sapienza prospettica degli artisti che le eseguono; e il caso piú vistoso in questo senso sono le tavolette di san Bernardino compiute nel 1473 dal Perugino e compagni in stretto rapporto con la bottega del Verrocchio; ma perfino qui si ha il sospetto di una esibizione letteraria e ricercata che mette sullo stesso piano questo tipo di elaborazione prospettica e opere del tutto antiprospettiche come La Primavera del Botticelli. Fanno eccezione dipinti quali il San Rocco del Museo di Arezzo eseguito nel 1479 da Bartolomeo della Gatta, il grande pittore educatosi a Firenze nella bottega del Verrocchio ma attivo soprattutto nell’Aretino, in una zona, cioè, dove ancora era fresco il ricordo di Piero della Francesca. Il San Rocco è una figura umana che abita lo spazio di una veduta cittadina, quella della piazza di Arezzo sulla quale si affaccia l’Oratorio della Misericordia, committente del dipinto. Tuttavia, in confronto ai risultati della prima meta del Quattrocento, la libertà di impostazione e la diffusa inquietudine che sottende la figura asciutta del santo, conferiscono a questo dipinto un significato decisamente piú moderno. Nella seconda metà del Quattrocento tutta l’arte italiana, piú o meno, mostra di aver fatto propria la visione prospettica. A Siena, lo stanno a testimoniare le opere tarde del Vecchietta o i dipinti di Francesco di Giorgio, ben presto attivo soprattutto come architetto. Nell’Umbria, i passaggi di Domenico Veneziano, dell’Angelico e di Piero della Francesca creano un clima culturale intensissimo, il cui prodotto memorabile è rappresentato dagli affreschi del Bonfigli nella Cappella del Palazzo dei Priori a Perugia. Le Marche hanno in Camerino un grande centro di civiltà figurativa, crocevia tra la cultura fiorentina e quella padovana, dove operano Giovanni Boccati e Girolamo di Giovanni. A Roma e
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nel Lazio sono Antoniazzo Romano e Lorenzo da Viterbo le grandi voci rinascimentali. Per il Meridione, abbiamo già detto di Antonello, ma sarebbe ingiusto limitarsi a lui soltanto: dipinti come quelli dell’anonimo «Maestro di san Giovanni da Capestrano», attivo tra Roma, l’Abruzzo e la Campania, sono tra le testimonianze piú alte della diffusione della visione prospettica22. In Romagna nasce uno dei piú famosi pittori prospettici, Melozzo da Forlí. Urbino sembra diventare, negli anni settanta, la punta di diamante della speculazione prospettica italiana. In Emilia, i Lendinara traducono nella tarsia l’esempio memorabile di Piero della Francesca, cui si rifanno a Modena anche i fratelli Degli Erri. Dei celebrati ferraresi è soprattutto Francesco del Cossa – e si veda la sua Annunciazione nella Pinacoteca di Dresda – ad avere approfondito i problemi pierfranceschiani di accordo fra spazio prospettico e luminosità. E anche la Lombardia ha nel Foppa, se non un vero e proprio prospettico, un grande rinnovatore in senso rinascimentale della figurazione lombarda23. Nel Veneto, dopo i clamorosi inizi padovani del Mantegna, è Giovanni Bellini a riassumere l’esperienza donatelliana e quella pierfranceschiana, in contatto con l’arte di Antonello da Messina, che soggiornò a Venezia per qualche anno intorno al 1475. Se è soprattutto l’aspetto colorato della pittura di Piero a interessare Giovanni Bellini, il padre del cromatismo veneto – che prima di lui non esisteva – alcune delle sue opere sono tra i grandi esempi della pittura prospettica italiana, come la pala di Pesaro o la Sacra allegoria degli Uffizi. Ma si ha l’impressione che, procedendo nel tempo, le preoccupazioni prospettiche diventino solo uno dei modi di rappresentazione del mondo naturale e umano che entra nei suoi dipinti con un respiro caldo e immenso. Chi invece, a Venezia, fa della prospettiva l’aspetto fondamentale della propria visione pittorica, bruciandosi
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per una passione estremistica in un momento assai tardo del Quattrocento, è Vittore Carpaccio. Nelle sue opere tarde, eseguite quando ormai Giorgione e il giovane Tiziano stavano proponendo ideali artistici ben diversamente orientati, la sua visione appare troppo radicale per trovare la forza di rinverdirsi, come accadeva al vecchio Bellini. Ma i dipinti eseguiti prima dello scadere del secolo, i primi teleri di Sant’Orsola, ad esempio, esprimono una convinzione prospettica impressionante. Le figure si dispongono negli spazi come solidi regolari su di una scacchiera rasa; si ricostruiscono lontananze incredibili ma perfettamente misurabili. Le scenografie architettoniche ci restituiscono in modo spettacolare il senso delle vedute cittadine della Venezia di fine Quattrocento. Negli anni settanta di quel grande secolo, il centro italiano dove vengono condotte le sperimentazioni prospettiche piú avanzate è Urbino. La corte di Federico da Montefeltro era stata uno dei punti di riferimento per l’attività di Piero della Francesca. Là erano nate le bellissime tavole Barberini. A Urbino aveva fatto capo, quasi certamente, dalla vicina Forlí, Melozzo, il grande pittore prospettico attivo poi a Roma. Vi insegnò Luca Pacioli, il teorico della prospettiva allievo di Piero della Francesca. Vi si producono le celebri vedute di pura prospettiva divise tra i musei di Baltimora, di Berlino e di Urbino. Qui Pedro Berruguete, venuto per collaborare con Giusto di Gand, rimarrà conquistato dalla prospettiva italiana che introdurrà in Spagna; i risultati piú impressionanti della sua attività urbinate sono da vedere nel doppio Ritratto di Federico e di Guidobaldo in Palazzo Ducale, nella Conferenza di Windsor Castle e nelle Allegorie delle Arti liberali divise tra i musei di Berlino e la National Gallery di Londra; nel loro accordo tra cultura fiamminga e prospettiva italiana trovano un parallelo solo nel San Girolamo nello studio di Antonello.
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A Urbino si educò negli anni ’70 il giovane Bramante, esordiente come pittore prima che come architetto. Il suo momento urbinate ci è attestato dalla Flagellazione dipinta su tela per l’Oratorio dei Disciplinati di san Francesco a Perugia24. Trasferitosi a Milano, prepara il disegno per la celebre incisione del 1481, firmata Bramantus fecit in Mediolano ma eseguita dal Prevedari. È soprattutto questa complicata figurazione che ci dà l’idea dell’impegno prospettico del Bramante. Siamo ben lontani dalla tranquilla e sicura convinzione di Piero della Francesca che la prospettiva sia un modo perfettamente legittimo di concepire la pittura e addirittura di vedere il mondo: qui essa appare come uno splendido artificio, come un esercizio letterario, in un’accezione che figlierà in quel surreale mondo prospettico messo in opera dal grande allievo lombardo del Bramante, Bartolomeo Suardi, detto – appunto – il Bramantino. Alle soglie dell’«alienazione» manieristica, la sua lucida geometrizzazione del mondo assume un tono allucinato. Al Bramante sembra comunque da ricollegare tutta quella ondata di infatuazione prospettica che, alla fine del Quattrocento investe l’Italia settentrionale dalla Lombardia all’entroterra veneto, dall’impaginazione del polittico di Treviglio del Butinone e dello Zenale alle opere giovanili di Pellegrino da San Daniele, e che interessa perfino la scultura, come dimostra la fase tarda dell’Amadeo: si veda in particolare il rilievo con Sant’Imerio che distribuisce le elemosine del Duomo di Cremona (1481-84), tanto singolare nella sua impostazione prospettica da richiamare immediatamente il finto rilievo sotto l’ Argo del Bramantino nel Castello Sforzesco di Milano. L’ultimo grande esito delle speculazioni prospettiche urbinati è da vedere, probabilmente, nella Stanza della Segnatura in Vaticano, decorata da Raffaello tra il 1508 e il 1511 forse in contatto con lo stesso Bramante, il cui
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ritratto vi compare almeno due volte. Certamente La Scuola d’Atene è il grande canto del cigno della concezione prospettica italiana, che qui, sia pure a cosí grande distanza temporale e mentale dalle implicazioni geometrizzanti che aveva per un Piero della Francesca, ancora sopravvive in un miracoloso equilibrio con le nuove esigenze cinquecentesche di libertà figurativa, che significavano anche insofferenza per qualsiasi precettistica. La concezione prospettica si sta intanto diffondendo in Europa. In Francia, dopo Jean Fouquet sono i pittori provenzali a farsene i portatori piú appassionati con in testa il bellissimo «Maestro delle Storie di san Sebastiano», da identificare probabilmente con Josse Lieferinxe25; mentre sul piano teorico è Jean Pélerin, il Viator, a elaborare un trattato di prospettiva, pubblicato a Toul nel 1505, che sembra aver dato il via a una serie di sperimentazioni pittoriche di effetto quasi metafisico, come la Discesa in cantina dello Pseudo-Félix Chrétien (1537) conservata nello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte26. In Germania, Albrecht Dürer, oltre ad applicare i principî prospettici italiani ai suoi dipinti, si occupa anch’egli del problema a livello teorico nei suoi scritti27. In Spagna, al caso ricordato di Pedro Berruguete fanno seguito altri, come quello di Juan de Borgoña. Nel Tirolo, è soprattutto Michael Pacher a introdurre precocemente la concezione prospettica italiana con dipinti memorabili, come i pannelli dell’altare dei Padri della Chiesa dipinto tra il 1480 e il 1483, ora nella Alte Pinakothek di Monaco.
Non è intenzione di questo scritto trattare del problema teorico della prospettiva, ma solo di tracciare una rapida storia delle conseguenze di questa scoperta nel campo delle arti figurative. Chi voglia approfondire il problema può partire da d. gioseffi, voce Prospettiva 1
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in Enciclopedia universale dell’arte, XI, Venezia-Roma 1963, cc. 11659. L’invenzione della prospettiva è attribuita al Brunelleschi dal suo biografo e contemporaneo A. Manetti (Vita di Filippo Brunelleschi, a cura di D. de Robertis e G. Tanturli, Milano 1976) e tutto sembra confermarlo. L’Alberti nel trattato Della Pittura del 1436 non si accredita l’invenzione della prospettiva, ma descrive soltanto un «modo ottimo» per metterla in pratica. 2 Vedi, a questo proposito, d. gioseffi, Perspectiva artificialis, Trieste 1957, pp. 74 sgg. 3 «... e io l’ho avuto in mano e veduto piú volte a’ mia dí, e possone rendere testimonianza» (manetti, Vita di Filippo Brunelleschi cit., p. 59). 4 g. poggi, Il Duomo di Firenze, Berlin 1909, p. 77, doc. 423. 5 Ibid., p. 76, docc. 414 e 415. 6 Si vedano, ad esempio, le vesti degli angeli in secondo piano nel Battesimo di Cristo o nella Tentazione della Porta Nord del Battistero di Firenze. 7 j. pope-hennessy, Italian Renaissance Sculpture, London 1958, p. 16. 8 manetti , Vita di Filippo Brunelleschi cit., p. 58. 9 Vedi l. bellosi, Il Maestro della Crocifissione Griggs: Giovanni Toscani, in «Paragone», 1966, 193, pp. 44-58. 10 Vedi a. parronchi, Masaccio, Firenze 1966, pp. 28-29. 11 Vedi soprattutto p. sanpaolesi, Brunelleschi, Milano 1962, pp. 49-50. 12 vasari , Vite, ed. Della Pergola-Grassi-Previtali, vol. II, Milano 1962, p. 229. 13 r. longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in «La critica d’arte», 1940, p. 172. 14 Non ho ancora avuto modo di riprendere in mano l’argomento relativo a questa identificazione da me proposta in una comunicazione presso l’Istituto Tedesco di Storia dell’Arte di Firenze che risale al 1969. Rimando perciò a una scheda del catalogo della Mostra d’arte sacra della Diocesi di San Miniato, 1969, pp. 56-57, n. 42. 15 longhi, Fatti cit., p. 175. 16 l. b. alberti, Della Pittura, a cura di L. Mallé, Firenze 1950, p. 81. 17 Una vasta e documentata ricerca sulle tarsie della Sagrestia delle Messe del Duomo di Firenze è quella condotta da m. haines, The Intar sias of the North Sacresty of the Cathedral of Florence, Ph. D. Thesis, Courtauld Institute, University of London, 1975, di prossima pubblicazione presso la Oxford University Press. 18 Gli affreschi di Sant’Egidio furono probabilmente distrutti nei lavori di rifacimento che la chiesa subí alla fine del Cinquecento;
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qualche frammento fu riscoperto nel 1938 dalla Soprintendenza di Firenze (vedi m. salmi, Contributi fiorentini alla storia dell’arte: Ricerche intorno a un perduto ciclo pittorico del Rinascimento, in «Atti e memorie dell’Accademia Fiorentina di Scienze Morali “La Colombaria”», n. s., i, 1947, pp. 422-33. 19 Vedi c. sterling, La peinture française. Les primitifs, Paris 1938, pp. 74 sgg. 20 piero della francesca, Il trattato «De prospectiva pingendi», a cura di G. Nicco Fasola, Firenze 1942, pp. 128-29. 21 Questo straordinario pittore, noto per quel capolavoro che è la firmata Crocifissione di Savona, ha riacquistato una fisionomia artistica di grande rilievo dopo che F. Zeri ( Quaderni di Emblema, Bergamo 1973, pp. 35 sgg.; Diari di lavoro 2, Torino 1976, pp. 47 sgg.) ne ha identificato l’attività giovanile con il piccolo gruppo di dipinti che passavano sotto il nome di Donato Bragadin. 22 Vedi f. bologna, Il Maestro di San Giovanni da Capestrano, in «Proporzioni», iii, 1950, pp. 86-98. 23 Si sa che il Foppa aveva scritto un Trattato di prospettiva. Tuttavia, sul suo aggiornamento alla prospettiva rinascimentale si vedano le riserve di r. longhi, Aspetti dell’antica arte lombarda, prefazione al catalogo della mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, Milano 1958. 24 Vedi l. bellosi, Una «Flagellazione» del Bramante a Perugia, in «Prospettiva», 1977, 9, pp. 61-68. 25 Vedi m. laclotte, L’école d’Avignon, Paris 1960, pp. 110-19. 26 Vedi a. châtelet e j. thuillier, La pittura francese da Fouquet a Poussin, Lausanne 1965, pp. 114-15. 27 Vedi e. panofsky, The Life and Art of Albrecht Dürer, Princeton 1943 [trad. it. La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano 1967].
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