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II, \IETODo SE\NOTI(IO Serie di saggi c riccrr:lre diret ta da PaoìoFabbrj Bornbarrlati Llatlennrnagnrì. scrlotli dr "lersL'rìsori occulti'. illusi dai rnila bolanti yrterì retorici di norrc: sono anni. ofrnsi, che dicLiariarro la nostra inrpotenza. ìa lostrn passir.itàdi lìontc al rnondo deììa r.ornunicuziorevisir.a. Ila cosa sappiarlìo dell( ratînrlÌc e:lre p irnl:riegareper agguartarc il pub lrlir:o";rer'le tarlo schierarc dalla propria parteT tÌ:xne 1àr lrorrtr alk csigcnzcdi chiarirnerLtocùc la rostr:r posizione.li sperlatr-'rireclarrra.ogrri giorno di più, nei donrìnidell'artcc tlclla comrrnicazione! \ato a partire rìu qu stc fondan ntali domande. il Tutxrto tlel segto tisio si |ircla Ino dei lrirìirnprrturrticoltri|uti tcoricie appliralivi ru]le itrategi{ dcll"argomr:nttrrionevisiva. FLrrrrerdorrl r:orìsrrrraroreBìi slfonreÌrti arralitici pcr arldcntrarsi neììe regolerìi ul gnx.o tropJn spessodettato da altri. il Tirrttaro fl]ppresenla un prinr{r l)asso\'f].so h cosrflrri.'rìe di orr rnodrllo illtcrlrctativo che.lrrngirlaì riterrcrtlH rctori(r rrnornomentorleìrlir'trlsoo un rncrr arrifìcio dr smascherar:.ne ficoxoscc la fondrìnìenrnleiÌrì1x)r1arìza. lìrtirrrlara narrrla 11igcsrussrxiaìerlre. nfl l)crÌfo rd malo.,là vigoreai latri c *xtiox lc irk'r'. tìr libro che n,rr rrrarrr:her'à di ruslir.uc inrerrs$ in r.|rilra a rlrr, ftrr, rrol Lr sconlinatomorrrIrrlell'irnrnLìililc. rlailli nrri$1iai grrlìri. ,laì rìesigrxr ai crìtici. rlti lilosolìai lrrrlrl,licitari.
l ì r n r r l t rr sir r r 'll ì r vi r l r llirrraclllur'{l{ rrìni s r, llrì lì r.l' í r1 u \ r' rli l, ic g i. 'l{'gli tttr,glio rtotl r:ornr'(irrr11ro 1r."i ò flttrr l,rcslorxrr)slfl'l Iivcllointer.rrazìorrrrì r. p l r I cl nlxr lu zio nr li c rrrrrrrrrLlb rli rcroriclrrllr lir, lt arLs t irrrrro rrrlirc n rrrll rir'lLrsr,n.rrzc rrrrclnssico Srnrl.ssi\rnìcrrrc urrìarìr'. il (irrrpprr1. irrlrri spirtrrrro l. ligrrlcrli Ir'lrrlis l,]rltlirl..,lcln-ùlrrric Klilkcrrlx'rgr' l)hili11rc ]lilgrrr'r.si ì s1 r ' r ' i r rlizzrirr to r r icclr,lrr.iruclrli*iplirruri rr nrttr'r t lrr li, s rr. t ì t tI,n rc o r. ilrI llrr r x r ì r r t ì i cr ìzir )lri r( gu isli(,ul visulh.c Lr sr.nriot irrr. lì a le g rrrI lrlic rrz i, rrri " ru licolrlirrrrrrr //r'torlcrgrrcrrrle(flrrnlriarri. Nliúnr 1()f\0) a llt toriu ú'llu y* ,rr'rr(1\'lrrrsil. IliL'rì,, l()fl;). l)i ,l,air-Nlrrric Klìrrkenlrr.rg lilor.rlilrnoirrir|rt l'opta l'rttt is rlr xinirtriqte aéulnrle (Strtil. Prli. l(xl())
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Gruppo pr
I1 metodo semiotico Seriedi saggie ricerche diretta da Paolo Fabbri Verón' Comitato scientifico:Jean'Marie Klinkenberg' Eliseo Lozano Gianfranco Mamone,JacquesFontanille' Jorge Coordinamento editoriale: Tiziana Migliore
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Trattatodel segnovisivo Per una retoricadell'immagine
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a cura di TizianaMieliore _1 Altri vol-rmidellastessacollana
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Algirdas Julien Greimas,JosephCourtés Semiotìcd Dizionario ragiotato della teoia del linguaggio a curadi PaoloFabbri
O Br.rnoMondadori
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Indice
VII InÚoduzione di Tiziana Migliore
Titolo oilginale Ttaíté da sigxeuisuel O 1992,Les éditionsdù Seùil Klinkenberg Il capitolo8 è trarroda Prè,tsde sèttiotiql'eEènrialr'diJean-Marie A S Larcier er Boeck De Olgir:, Traduzionedalfrancesedi TizianaMigliore e Ilaria Vitali Tutti i didtti riservati O 2007,ParaviaBruno MondadoriEditoti grafiche carrografiche Peri passianrologici,per le cirazioni per le riproduzioni . in quesLbpera' inseriLi di terzl proprietà i alla , . ì""il^fì.r'" "i".i.itent d.sli ,u'nil di'i'to non PoIuri rePerirenoncheper ìiii.1. iìir'J5',r";. e/o errori di attribuzionenei riferimenti .r."Ji "." ""f"," "*issiÀi didattico' È vietatala riproduzione,ancheparzialeo ad usointerno nol attorizzata mezzo, qualsiasi con Le iotocopieper usopersonaledel leLrorepossonoesseretffenuaLe alìast're ia ì lz ai .iascunvolumedieLropagamenro ".;ìì-ii; o8. co-mi q e i dellalegge22 aprile 1e4I n o)r' i.i :;;;; ;.;";;àall"n professionale,' i. a"ì"i"'i"'ir .ff.."ate Perfinalità di caratrere quello personale economicoo commercjaleo comunqueper usodi\erso da rilasciatada AIDRo' a seguitodi specificaautorizzazione r.""it. org "tt.*.f""""," segreteria@aidro e-mail p"ti" Milano' 20122 n. 108, n"t"^., i".*?ì e sitoweb www aidro.otg è riportatanell'ultimapaginadel libro' La schedacatalografica ww\r'.brunomondadod.com
1 1. I fondamenti percettivi del sistema visivo I 0. Introduzione.Ruolo della descrizionedei canaliin semiotica 2 1. Primo confronto tra il linguaggio e la comunicazione visiva 5 2. Dallo stimolo alla forma 11 3. Testuree figure 14 4. Colori e figure 20 5. Comparsadella nozionedi oggetto 21 6. Riepilogo 23 2. Il segno iconico 2J )5 41 46 54
l. problemadeJl'iconicità 2. Modello generaledel segnorconico 3. Tre questionida discutere 4. L'anicolazionedel segnoiconico 5, II sisLema delle rrasformazioni
86 3. Il segno plastico 86 98 I1,2 I28 l5J 1)5 155 158
1. Come descrivereil plastico? 2. Sistematicadella testura i. Sistematicadella forma 4. Sistematicadel colore 5.La sjnresiplasticae Ia suasemantica 4. Retorica visiva fondamentale 1. Programma di una retorica generale 2. Retoricae semiotiche
164 169 t79 183
9. La retoricità dei messaggivmvr 4. La relazioneretorica 5, La relazioneiconoPlastica 6. Effetti e classificazioni
188 5. La retorica iconoPlastica 188 DI 194 200 2O2
1. Il rapporto iconoPlastico 2. Iconoplasticadella testura 1. Iconoplasticadella forma 4. Iconoplasticadel colore 5. Conclusioni
203 6. La stilnzazione 203 206 2IJ 21,1 2I7 278 221 229 2)2
I. Teoia della stilizzazione 2. Analisi di alcuni casi 7. Semiotica e retorica della cornice 1. Semiotica della cornice 2. Piano di una retorica della cornice 3. Figure del contorno 4. Figure del bordo J. Bordo indicante,enunciatoindicato 6. Modelli e tealtà
215 8. Problemi di una semiotica delle icone visive d.iI ean-Mar íe Klin kenber g 235 2t8 242 244
1. QuatÍo elementi 2. Quattro relazioni (doPPie) ). La co-tiPta 4. Perchéun type e non un significato?
247 Bibliografia 265 Indicedeinomi
Introduzione di Tiziana Migliore
Questo lavoro, che riprende e traduce un’opera fondamentale per le ricerche sull’immagine, mira a una rivalutazione della Retorica come disciplina che permetta di osservare i parametri autoctoni con cui le società definiscono la loro economia discorsiva e valoriale. Dire che essa costituisce la teoria dei funzionamenti linguistici e simbolici significa riconoscere che è allo stesso tempo un Metalinguaggio, una Scienza e una Tecnica: parla del modo in cui i linguaggi si interrogano sui valori; è un campo di osservazione delle tipologie discorsive e delle logiche che governano l’interazione; è un insieme di ricette e di tattiche per consentire la comunicazione efficace delle idee nella vita pubblica e privata. Ogni cultura dà di sé un’impressione referenziale estesica che è una conversione della propria episteme e il risultato degli investimenti figurativi realizzati nelle arti e nelle scienze. È una facies, tutt’altro che arbitraria, ricostruibile attraverso gli insiemi dei rapporti e delle associazioni di tropi presenti nei discorsi, artistici e scientifici, che la manifestano. La mappa delle scienze umane e naturali tracciata da René Thom (1991; cfr. Fabbri, a c. di, 2006), con le coordinate cartesiane che portano in ascissa la categoria Vero/Falso e in ordinata la categoria Significanza/Insignificanza, ne è un esempio illustre. Vi figurano, nel diagramma di un territorio, la «cresta dell’ossimoro», il «picco del paradosso», il «sentiero delle metafore» la «fortezza della tautologia»… Tentando il salto da una classificazione d’insieme (Retorica generale, Bompiani 1972) alle regole della retorica in letteratura (Retorica della poesia, Mursia 1985), fino alle maniere con cui l’eloquenza si fa presente nel visibile (Traité du signe visuel, Seuil 1992), il Gruppo μ ha aperto questa strada, ha mostrato le risorse di uno studio sulla figuratività retorica esteso a sostanze espressive diverse. Così, in risposta all’idea che il linguaggio verbale sia l’interpretante supremo di ogni altro sistema semiotico, la scuola di Liegi sottolinea il ruolo giocato dall’immagine nell’argomentazione scientifica: «È sufficiente considerare le opere di VII
Trattato del segno visivo
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fisica, di chimica, di matematica, per constatare che senza schemi e disegni un trattato moderno non può avanzare alcuna di…mostrazione».1 Tecniche come l’inquadratura, la profondità di campo, il filtraggio cromatico, la discretizzazione, l’orientamento di lettura non servono solo a trasmettere informazione, rendono l’oggetto “vigoroso”. La “fedeltà al reale” è sempre innanzitutto una posizione da contendere, tramite dispositivi persuasivi che, interrelando semioticamente parole, figure e cose, favoriscano l’adesione dell’altro all’ideologia che la sostiene. In questa prospettiva, il tropo non è più l’elemento di una delle tante confuse compilazioni, ma «un processo strategico per articolare la significazione» (Fabbri 2001b, p. 21). Anzi, per gli autori del Trattato, i tropi sono il fondamento della formazione di significato in ogni sistema semiotico; la loro traducibilità costituisce la sfida maggiore per la comprensione degli universi del credere. 0.1. La retorica dell’immagine tra Barthes e il Gruppo μ Nel 1956 Émile Benveniste, per primo, aveva ipotizzato l’esistenza di una sola forma retorica, comune al sogno, alla letteratura e all’immagine. Era quello che a nostro parere suggeriva anche Roman Jakobson (1963), prendendo in considerazione la coppia metafora/metonimia e indagandone i funzionamenti in letteratura, in pittura, nel cinema, nella struttura del sogno, nei riti magici.2 Con lo stesso principio, ma volto ad altri fini, Roland Barthes, nel celebre articolo sulla Retorica dell’immagine (1964), auspicava un inventario «massiccio» dei significanti
Cfr. Gruppo μ 1992, p. 52. Anche per Jurij Michajlovicˇ Lotman (1980, p. 148) la retorica discorsiva non è l’espressione di un abbellimento secondario, ma una pratica concreta di costruzione dei fatti. «Tutti i tentativi di costruire degli analoghi concreti di idee astratte, di rappresentare mediante puntini i processi continui nelle formule discrete, nelle costruzioni dei modelli fisici spaziali delle particelle elementari ecc. sono figure retoriche (tropi)». 2 «Come un certo tipo di retorica linguistica ha permesso di osservare la stretta parentela esistente tra metafora e metonimia, così il fatto di prendere sul serio l’ipotesi di una teoria generale dell’immagine visiva porta a far vedere cosa hanno in comune un circuito elettrico e una fotografia, i graffiti di una fontana e l’illustrazione dello stile “a linea chiara”, Piero della Francesca e gli scarabocchi di un bambino, i totem degli indiani e Poussin o Finlay, il Beniye giapponese e le maioliche di Rouen». Cfr. Gruppo μ 1992, p. 14. 1
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di connotazione,3 valido per il suono articolato, l’immagine e il gesto. Nell’ottica dello studioso, la retorica rappresentava il volto mascherato dell’ideologia borghese; l’analisi semiotica, decostruendo e svelando i connotatori linguistici, avrebbe potuto restituire un grado “zero” della scrittura, una forma “innocente” della lingua, e quindi contribuire all’ideale di una società libera, senza classi. Chi deteneva la responsabilità del linguaggio verbale, superiore e repressivo rispetto a tutti gli altri sistemi, orientava la morale di un popolo. L’accezione negativa della dimensione ideologica della società, di matrice brechtiana nel caso di Barthes, non ha mai smesso di nuocere allo status della retorica nella tradizione occidentale. Con il Traité du signe visuel il Gruppo μ tenta di rigenerare proprio questa visione dell’“immagine enfatica” (Barthes 1964). Lo fa attraverso un esplicito rovesciamento delle posizioni del teorico francese, su quattro fronti: l’atto di contestazione della semiotica come trans-linguistica, ovvero come disciplina che pone la verbalità al centro della comunicazione sociale («L’immagine senza parola è senza dubbio riscontrabile, ma a titolo paradossale, in certi disegni umoristici; l’assenza di parola ricopre sempre un intento enigmatico», Barthes 1964, p. 28); il superamento della lacerazione tra denotativo-percettivo e connotativo-culturale attraverso l’elaborazione di un modello di lettura che li semantizzi entrambi («l’immagine denotata naturalizza il messaggio simbolico, rende innocente l’artificio semantico della connotazione, molto denso soprattutto in pubblicità», p. 35); conseguentemente, la rilevanza data alla presupposizione reciproca tra espressione e contenuto nell’articolazione sintagmatica e il rifiuto a considerare le figure retoriche come blocchi erratici e reificati («il mondo discontinuo dei simboli affonda nella storia della scena denotata come in un bagno lustrale d’innocenza», p. 40); la tesi dell’autosufficienza del livello plastico e del suo peso nelle procedure di costruzione e di trasformazione retorica («la fotografia implica una certa organizzazione della scena – inquadratura, riduzione, appiattimento – ma questo passaggio non è una trasformazione», p. 26). Su quest’ultimo punto non va tuttavia dimenticato il risalto che dà Barthes (ibid.) al senso dell’ottuso. Riferendosi ad alcuni fotogrammi 3
Ovvero un catalogo di figure retoriche. Nel quadro di una teoria dello stile il linguista Louis Hjelmslev (1943) definisce la retorica una semiotica «connotativa», perché essa organizza e rimotiva segni esistenti, che hanno già un loro portato «denotativo», facendoli diventare forme dell’espressione di nuovi segni, correlati però a nuove forme del contenuto.
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di Sergej Ejzenštejn, lo studioso separa l’enfasi di accentuazione, che nel caso da lui esaminato appartiene alla significazione “ovvia” della rivoluzione, dall’enfasi ellittica, in cui lo spostamento di piani avviene invece per elusione, per via di smussamenti e di derisioni che non negano però l’informazione. L’ottuso è una sfoglia che annebbia il limite tra superficie e travestimento, una rotondità poco prensile, che non arriva a vuotarsi, che mette a disagio. Eccede l’aneddoto e costringe a un approccio poetico, a un’interrogazione sul significante. A questo livello – ammette Barthes – il sensibile possiede una sua individualità teorica, in quanto espressione di un’emozione-valore. Sovverte non il contenuto, ma la pratica del senso. Anche il pensatore francese rivendica quindi il ruolo giocato nei sistemi semiotici dalla «logica seconda» (Greimas 1987), dall’attività della dimensione plastica, organizzazione di linee, di luci, di colori e di testure che provoca effetti di senso indipendentemente dal riconoscimento di unità lessicalizzabili. L’ipotesi va estesa per intero alle dinamiche dell’ars retorica. Analogamente al soprasegmentale in poesia, la connotazione non è un supplemento di senso che fodera un corpo ontologico già dato, ma un mezzo per intonare e dare vigore alla semiosi, dal suo interno. Per condividere questa visione occorre innanzitutto sbarazzarsi dell’idea che esista una dicotomia tra livello della comunicazione, livello della significazione e livello della significanza. Il discorso, come il linguaggio, è stratificato (Hjelmslev 1954), a pasta sfoglia (Greimas 1970). In esso la contrattazione dei valori è quella falda affidata alla capacità dell’“arte argomentativa” di mettere in tensione forze. Il modello della pasta sfoglia, tipologia particolare di articolazione gerarchica dove due piani si sovrappongono toccandosi e i loro strati qualche volta si compenetrano, ci sembra il più adatto a rendere conto degli imprinting retorici. Lo preferiamo all’opzione dell’inglobamento a matrioska, che distingue segni, testi, pratiche, strategie e forme di vita (Fontanille 2006). La separazione contrasta con il fatto che gesti, azioni e comportamenti quotidiani – le «forme di vita» – sono intrisi di astuzie e sottigliezze per la manipolazione dell’altro,4 nonché per lo studio del loro ethos. Riservando ad altra sede l’indagine sulle forze e le passioni della re-
torica, ci avviamo qui a fornire un resoconto accurato del lavoro svolto dalla scuola di Liegi. 1. Posizione e attività del Gruppo μ nell’ambito della neoretorica
Oltre al bellissimo saggio di Detienne & Vernant (1974) sulla metis, la forma di intelligenza e di pensiero meglio distribuita nel mondo mitologico greco, ricordiamo, a questo proposito, il contributo di Lotman (1975) sul comportamento del decabrista russo, che è interamente dettato, anche nella responsabilità di fronte alla storia, dal filtro di testi letterari eroici.
Nel fervido clima culturale degli anni settanta un’équipe formata da un professore di letteratura, due linguisti, un ingegnere intenditore di pittura e musica, un filosofo e un esperto di cinema elaborava un modello di retorica applicata destinato a diventare un classico delle scienze umane. Spezzando il vincolo dei programmi di ricerca per compartimenti stagno, Jean Dubois, Jean-Marie Klinkenberg, Philippe Minguet, Francis Edeline, François Pire, Hadelin Trinon, meglio noti come “il Gruppo μ di Liegi”, pubblicavano allora un’opera, Rhétorique générale (1970), che adeguava l’antica “arte del dir bene” alle tattiche di persuasione, alle sottolineature ironiche, alle sperimentazioni ortografiche e sonore dei maestri di avanguardia. La retorica, subordinata alle altre discipline del trivium, grammatica e dialettica, specie dai tempi dell’istituzionalizzazione del sapere promossa dall’Enciclopedia francese (1765), tornava a essere rivolta all’analisi delle regole di formazione e di funzionamento del linguaggio, con Chaïm Perelman (1958) e la scuola di Bruxelles per quanto concerne l’argomentazione, poi con il gruppo di Liegi per quel che riguarda i tropi. Tale rinnovamento precluse alla logica la possibilità di sottoporre la retorica ai problemi e ai criteri del vero e impedì alla grammatica di mutarla ancora in una lessicologia utile a distinguere, a livello della singola parola, il senso “naturale” dal senso “figurato”. La diffidenza della linguistica per la trattazione di figure e di traslati cedette il posto a un recupero all’insegna dell’uso creativo del linguaggio. Contro l’idea della retorica come «studio degli equivoci verbali e delle relative correzioni» (Richards 1936, p. 9), vinta la remora forse dovuta alla mancanza di mezzi di investigazione adeguati, cominciarono a fiorire ricerche sul tema dell’originalità retta da regole. Menzioniamo, accanto al lavoro del Gruppo, le proposte di Michel Le Guern (1971), di Umberto Eco (1971b), di Albert Henry (1971). Chi legge queste pagine assocerà il successo di Retorica generale (1976) al ricordo di una scrittura dallo stile vivace, in linea con la moda dei dibattiti del tempo. Già nel 1964, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, Roland Barthes svolgeva un corso sull’analisi della Retorica di Aristotele e nell’ambito di un Colloquio sulla sociologia della letteratura esponeva, per indagini specifiche, nuovi orientamenti di metodo, confluiti
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poi in Barthes (1970); lo stesso anno Gérard Genette, riprendendo il celebre manuale di Pierre Fontanier raccomandato «ai convitti di signorine dove si insegna qualche principio di bello scrivere»,5 offriva su “Tel Quel” un contributo sulla definizione di «spazio del linguaggio», anticipatrice della restituzione delle figure alla dimensione del racconto (1972); poco più tardi Tzvetan Todorov (1967) univa alla lettura sulle Liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos (1782) l’abbozzo di un sistema di figure che comprendeva casi di «occupazione», di «spoliazione», di «pronominalità». 1.1. “Retorica generale” Il Gruppo μ imposta lo studio sulla retorica tentando, fin dall’inizio, di disimplicare procedure e categorie fondamentali. Nella prima fase di sistematizzazione teorica la prospettiva è ancora lessicale e a carattere sostitutivo, incentrata sul rapporto tra lo scarto, ovvero l’infrazione delle regole, e uno sfondo di attese normative che vanno colmate. Ma scarto e sfondo si manifestano insieme, nel consumo della figura. Prendendo in esame l’ipotesi di Fontanier secondo cui «la vera litote, che diminuisce più o meno l’effetto di una cosa – come del resto l’iperbole, ma in senso contrario – […] è uno spostamento lungo una serie intensiva»,6 il Gruppo μ riprende da Quintiliano due tipologie di operazioni «sostanziali»: la soppressione (parziale o totale) e l’aggiunta (semplice o ripetitiva) di tratti semici. E le distingue dalle operazioni «relazionali», che influiscono solo sulla permutazione dell’ordine delle unità, e non sulla loro natura. Vengono classificate metabole (mutamenti) che riguardano il piano dell’espressione – l’aspetto sonoro o grafico delle unità (metaplasmi, es.: sincope, allitterazione) o la struttura della frase (metatassi, es.: zeugma, polisindeto) – e metabole che riguardano il piano del contenuto – i gruppi di semi di un’unità (metasememi, es.: sineddoche, antonomasia) o il valore semantico di una frase (metalogismi, es: ironia, iperbole). Molto importante è l’assunto che mai le figure «inventano» le categorie, né queste ultime presiedono dall’esterno alla costruzione delle configurazioni. Le cariche delle grandezze paradigmatiche sono invece esercitate da dispositivi retorici, i tropi appunto,
che traducono relazionalmente stati di rafforzamento, di indebolimento o di neutralizzazione.7 Delegati a rafforzare lo status delle categorie nel discorso, i tropi lasciano emergere forze e tensioni della semantizzazione, provocando curiose distorsioni degli attori coinvolti nel processo comunicativo. L’idea avrà il suo pieno sviluppo in seguito, quando l’applicazione delle regole individuate ai domini della letteratura e del visibile impegnerà gli autori a passare dalla taglia della parola a quella dell’enunciato. 1.2. “Retorica della poesia” L’elaborazione di un organon per spiegare l’efficacia degli atti linguistici non mancò di suscitare l’interesse dei filosofi di impostazione ermeneutica. Si conoscono le ragioni delle dispute tra i neoretori e Paul Ricœur, che nel suo La métaphore vive (1975) dedica ai fondamenti di Retorica generale pagine penetranti. Prima fra le accuse è l’arresto alla metafora-parola, dovuto alla convinzione che i cambiamenti semantici si limitino a nuclei di termini. Tale scelta viene contestata da Ricœur calcolando formati di significazione più ampi. L’équipe di Liegi accoglie la critica e nella prima fase successiva8 sposa il concetto di isotopia e passa a considerare le figure come insiemi connettivi che permettono il riconoscimento di più livelli di omogeneità del discorso. La retorica provoca rotture di isotopie («allotopie») da valutare retrospettivamente. L’analisi viene estesa ai livelli plastico e fonologico (isoplasmia e isofonia), per esplorare sul piano dell’espressione il fenomeno dei campi aperti dall’iteratività. Al tentativo di sondare su sistemi particolari il modello progettato nel 1970 risponde, dapprima, la stesura di Rhétorique de la poésie (1977). Nell’approccio teorico assunto dal Gruppo μ, qui focalizzato sulla for-
Cfr. Fontanier 1821. A un secolo e mezzo dalla sua apparizione, l’opera ricompare nella collana Science de l’homme curata proprio da Gérard Genette. La riedizione del 1968 comprende il manuale, il libro sulle Figures autres que les tropes e un’introduzione dello stesso Genette. 6 Cfr. Fontanier, ibid., cap. IV, 0.6.3 ripreso in Gruppo μ 1970, p. 205.
7 La concezione che il Gruppo μ ha delle figure ricorda da vicino la teoria sposata da Greimas (1966) nell’approccio alla composizione semica dei lessemi, riassumibile nell’ipotesi che ogni oggetto è un concetto sintattico. Grazie alla lettura delle sue determinazioni, si profilano differenze che fondano i sistemi di valore. Per il semiologo lituano solo la messa in scena sintattica rende conto di come avvenga l’incontro fra l’oggetto e i valori che vi sono investiti. È proprio l’assenza della dimensione discorsiva a provocare la distanza, nello schema di Bernard Pottier (1965), tra il pacchetto dei semi che organizzano metalinguisticamente la rappresentazione di una poltrona e il lessema terminale poltrona: le categorie semiche vengono qui annoverate senza alcun rapporto con il loro svolgimento sintagmatico o con il progetto di un soggetto. 8 Cfr. Gruppo μ 1976 e Minguet 1979.
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ma del contenuto, il testo poetico è «la soluzione di un conflitto attraverso il linguaggio, l’organizzazione coerente di forze opposte» (Gruppo μ 1977, p. 107). Nella sua poli-isotopia esso media, alla stregua del mito,9 l’opposizione tra Anthropos e Cosmos. Consacrando buona parte della trattazione alle manipolazioni operate dai poeti sulla dimensione temporale, l’équipe supera la visione convenzionale della linearità dei processi linguistici e segnala i pregi degli ordinamenti tabulari, ossia dei modi di scrittura che utilizzano la pagina come tabula. È una scelta che deriva, a nostro parere, dalla possibilità, generalmente ignorata, che «antitesi e gradazione delle figure retoriche diano vita ad un’immaginaria stesura geometrica del testo» (Ducrot-Todorov 1972, voce Figura).10 La concatenazione di fatto viene piegata a effetti di simultaneità. Significativamente, gli autori puntano il dito contro la dimenticanza di quelle che chiamano «metabole del supporto», ovvero le variazioni del medium grafico e tipografico del messaggio. Attingono alla poetica delle avanguardie per sottolineare il lavoro condotto, già da Mallarmé, sulla materialità del linguaggio, «trait d’union con la gestualità della scrittura, con la voce, con il corpo» (p. 192) e all’origine del transito dal regime della metafora al regime dei giochi di parole (calembours, indovinelli, mots-valises-, antistrofi…). Questi ultimi instaurerebbero non un’analogia ma un’alterità di senso, in virtù della quale il Logos, elemento mediatore classico, assumerebbe una forma dialettica. Nelle
analisi dei calligrammi di Edward Cummings e delle poesie concrete di Ian Hamilton Finlay gli autori affermano che è il portato di una retorica plastica e figurativa11 ad assicurare la mediazione.
2. Trattato del segno visivo L’arco di tempo che separa l’indagine del linguaggio poetico dalla terza e ultima fatica collettiva trascorre rafforzando il dialogo con gli psicologi della Gestalt e descrivendo testi iconici e astratti, attività che la stabile partecipazione a famose riviste documenta. Il numero dei componenti del gruppo si riduce intanto ai nomi di Edeline, Klinkenberg e Minguet. Nel 1992 esce il Traité du signe visuel. Quadri, fumetti, copertine, vignette satiriche, sculture, installazioni, manifesti pubblicitari, mappe del metrò, piante topografiche, grafi di circuiti elettrici sono esaminati dal Gruppo μ considerando le proposte di trasformazione dei fenomeni del mondo avanzate dall’istanza che produce. Il volume affronta il tema della retorica dell’immagine curando sia la fase produttiva, inerente alle tecniche di organizzazione del discorso, sia la fase ricettiva, in termini di natura e di variabili tensive della dialettica tra grado percepito e grado concepito. L’enunciatario è chiamato a stabilire, di volta in volta, in che modo ciò che percepisce (piano della manifestazione) traspare su ciò che concepisce (struttura di organizzazione immanente, che dipende dalle competenze “grammaticali” dell’interprete) e quali tensioni si generano nella coincidenza tra i due livelli, quando scatta cioè il disinnesco dei meccanismi di combinazione sintattica. Per studiare gli equivalenti visivi della metafora e del paragone, ma anche per introdurre tra l’una e l’altro possibili varianti, gli autori adottano la categoria in absentia/in praesentia; e ritenendo importante sapere se le figure siano sovrapposte o separate, impiegano la coppia congiunzione/disgiunzione. Incrociando le opzioni, ottengono quattro tipologie relazionali. L’interpenetrazione (in praesentia congiunta: i “gatti-caffettiera” di Julian Key per i manifesti del caffè Chat noir), commensurabile per il Gruppo alle parole-valigia della lingua verbale, ci sembra la più interessante. La teoria sul visivo tiene conto dell’esperienza di fruizione dello spettatore, al punto che costituenti, tratti e dimensioni del linguaggio plastico teo-
9 La scuola di Liegi si richiama, tramite Greimas (1966) e la sua ricerca sui modelli di trasformazione nel racconto, all’analisi strutturale sul mito di Edipo compiuta nel 1958 da Claude Lévi-Strauss. Il discorso mitico mette in correlazione, a livello profondo, due categorie semantiche eterogenee, che tratta come fossero i contraddittori di un solo microuniverso. La sua sintassi fondamentale consiste nell’asserirli alternativamente come veri, o meglio, come scrive Greimas (p. 288) «allo stesso tempo come insoddisfacenti ed inevitabili». 10 Avallando l’ipotesi che per percepire il ritmo sia necessario annullare il tempo di lettura tradizionale, gli autori propongono un inventario di figure secondo le diverse forme della strutturazione temporale. Con esempi tratti da liriche d’età moderna, mostrano che l’anagramma è espressione di un «tempo disordinato», che l’enjambement fa cogliere un «tempo discontinuo e disforico», che il palindromo e il chiasmo fanno essere un «tempo reversibile», che l’allitterazione è costitutiva di un «tempo elastico», espanso o contratto, «a riprova dell’aspetto diagrammatico del linguaggio, rivelato a livello del significante e più volte messo in risalto da Jakobson» (Gruppo μ 1977, p. 148). Oltre alla rima, l’anafora e l’onomatopea convocherebbero un «tempo ciclico, ripetitivo». Dal lavoro di analisi deducono che «la poesia è un moto di rimotivazione sistematica non solo del segno linguistico, ma anche della sintassi» (p. 161).
«Si può dunque parlare di iconosintassi, principio organizzativo di tutti i calligrammi». Cfr. Edeline 1977.
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Introduzione
rizzato ricevono globalmente la denominazione di percettemi12 e contemplano stadi di transizione, zone di instabilità, difetti ed eccessi. La grammatica del sistema è modellata su premesse fenomenologiche, che restano però lontane dalle eccedenze del versante soggettale, ovvero dal conferire alle sensibilità del corpo la signoria sul discorso. Perciò, il grado concepito non sorge come autonoma interpretazione della mente del fruitore; è sempre sotteso al testo nell’allestimento dello scarto. È l’isotopia dell’enunciato, dovuta principalmente all’azione del dispositivo plastico, che produce il grado zero locale. Lo vedremo meglio più avanti.
TYPE
stabilizzazione conformità
SIGNIFICANTE
REFERENTE
trasformazioni Figura 1. Triangolo semiotico (detto “di Ogden e Richards”)
2.1. Snodi teorici e metodologici Inquadrato il ruolo del Gruppo μ nel panorama degli studi internazionali, offriamo qui di seguito al lettore un bilancio del lavoro del Trattato, nelle problematiche speculative e nelle formulazioni metodologiche per noi più rilevanti. 2.1.1. Questioni teoriche I) Accezione del rapporto tra percezione e significazione. Rammentando la celebre distinzione che fa Eco (1971a) fra strutturalismo ontologico e strutturalismo metodologico, l’équipe di Liegi mostra di propendere per la seconda linea, senza tuttavia liberarsi dal credo in un’oggettualità e in una fenomenologia “realiste”. Gli autori ritengono, cioè, che al di qua del dominio della conoscenza, prima di ottenere lo status di segni, si diano, nella vita reale, stimoli provenienti da cose e nostre risposte “primarie”.13 In campo metodologico il Gruppo aderisce alla prospettiva fondamentale di Nelson Goodman (1968) del segno come ricostruzione, e non copia, degli entes del mondo. Allo schema a triangolo della tradizione peirciana, dipendente dall’ancoraggio a una referenza esterna (fig. 1), subentra, nel Traité, l’ipotesi di un referente inglobato nel sistema, funtivo di relazioni di trasformazione con il significante. Il manuale di Klinkenberg (1996), del quale riportiamo un estratto in appendice
riconoscimento conformità
Equivalenza Type
Significante
Stabilizzazione Conformità
Riconoscimento Conformità
Referente
Stimolo Trasformazione
Figura 2. Modello semiotico tetradico (Gruppo μ)
Il termine, come gli autori ricordano nel capitolo sul segno plastico, è stato coniato da Max Bense (1969) per la definizione del suo «linguaggio visivo rigoroso». 13 È l’ipotesi che permea la trattazione di Eco (1997) sull’iconismo, basata sulla distinzione tra modalità alfa e modalità beta, cioè sulla differenza tra una fase di percezione degli stimoli e una fase di concettualizzazione.
al nostro volume, presenta infine un modello tetradico (fig. 2). Qui l’accordo tra lo stimolo, nuova componente, e il referente, ora membro di una classe, sottrae il segno, almeno in circostanze epistemiche, al giogo dell’originarietà ontologica. Il modello tetradico, strumento di esercizio speculativo, dà sia elementi che sono «esseri di ragione», sia processi pienamente semiotizzati, culturalizzati. Il referente, «attualizzazione del significato nelle vesti di un oggetto, di una qualità o di un processo», e lo stimolo, «supporto attivo del segno, sua dimensione fisica, percetto», implicano la presenza di filtri creativi e interpretativi. E se il significante viene concepito come insieme di stimoli visivi corrispondenti a un tipo iconico stabile (per cui entrano in gioco sistemi di aspettative), si insiste però nel dire che il tipo, prodotto delle nostre esperienze e conoscenze enciclopedi-
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Introduzione
che, garantisce un’equivalenza tra stimolo e referente che è «di identità trasformata». Insomma, varrebbe forse la pena di considerare la formulazione del quadrato lasciando a latere le supposizioni sul reale. Del resto, presentando come proprietà interne sia il referente sia lo stimolo, il modello confuta le suddette presupposizioni e sussume l’inventario dei comportamenti umani dentro pratiche di significazione.14 Agisce anzi un movimento doppio: da una parte gli stimoli vengono categorizzati nel modello, dall’altra è il modello che prende la forma completa dell’esperienza, a partire dalla fase della percezione. Grande merito va attribuito, per questo, ai lunghi e continuati rapporti che il Gruppo μ intrattiene con la fenomenologia di Merleau-Ponty e con altre scienze: soprattutto l’ottica, la psicologia della forma, la psicologia della visione. Come emerge con chiarezza nelle prime pagine del Trattato, gli studiosi belgi riscoprono il principio di prossimità di Walter Gogel (1978), definendolo «un’ipotesi sui gradi di coerenza del mondo» e le idee di Rudolf Arnheim sulle discriminazioni variabili tra figura e sfondo; ripropongono la coppia di termini accomodazione/assimilazione, resa celebre da Jean Piaget, e le nozioni, sviluppate da Abraham Moles (1971), di forma («prevedibilità parziale»; non esiste mai in se stessa, non è che percepita) e di pregnanza («forza coercitiva che una Gestalt esercita sullo spirito dello spettatore»); valutano la legge cromatica dell’addizione grigia, «quando il mondo si proietta su di noi», e il meccanismo dell’inibizione laterale, «dove è l’uomo a proiettare il proprio schema corporeo sul mondo». Tali aperture permeano di valori del sensibile il funzionalismo simbolico del worldmaking di Goodman e immettono, negli studi sulla significazione, il dinamismo vitale proprio ai fenomeni di intersoggettività. Lungi dal ridurre il tema della creatività all’ambito del problem solving15 e gli atti percettivi a meccaniche procedure di riconoscimento, il dialogo con altri campi del sapere porta la retorica del Gruppo μ a «smettere di guardare le cose con gli occhi dell’abitudine» (Klinkenberg 1996, p. 13). 14 Il vecchio triangolo di Ogden e Richards assegnava invece un posto al referente che non ne variava la natura. Lo status, rispetto al significante e al tipo, rimaneva esterno, extrasistemico. 15 Gli psicologi della forma valutano la costruzione dell’opera d’arte con la teoria del problem solving, o «pensiero produttivo». Tutto ciò che riguarda la ristrutturazione del campo, ovvero il conferimento di un nuovo ordine a dati percettivi e cognitivi già immagazzinati, sarebbe dovuto alla capacità dell’artista di collegare informazioni diverse per arrivare a risolvere un problema.
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II) Messa in scena delle interazioni tra percepire e produrre. L’edizione ori-
ginale del Trattato si apre con una panoramica sulle teorie filosofiche, sui programmi dell’estetica scientifica e sulle principali controversie semiotiche relative al linguaggio visivo. Rispetto all’ipotesi di Jean-Joseph Goux (1978), che pone il figurativo come norma e il plastico a priori come scarto, si afferma, sin da queste pagine, la continuità tra i due linguaggi, dal momento che «il vero progetto del pittore, o del disegnatore, o del cineasta non consiste in un adeguamento al reale […] ma è già e sempre una selezione in rapporto a ciò che viene percepito» (Gruppo μ 1992, p. 23). È una dichiarazione valida specie se consideriamo che la struttura del segno iconico proposta dal Gruppo è l’unica a porre in risalto le interazioni tra percepire e produrre. Che varietà di apparizioni mostra il mondo naturale? E quali cambiamenti intercorrono dal percetto alle procedure di costruzione retorica dell’immagine? Oltre alle categorie della conformità, della stabilizzazione e dell’identificazione, particolarmente interessanti si rivelano, sull’asse stimolo/referente, i casi di trasformazione. La proposta dell’équipe di Liegi nasce dall’incontro con le modalità di produzione segnica del Trattato di Eco (1975), in particolare con la ratio difficilis dell’invenzione. Ma l’ipotesi, rimasta allo stadio potenziale, si fa operativa. Sulla base dell’equivalenza garantita dal tipo, classe a caratteristiche concettuali che si forma per processi che integrano e sedimentano vissuti, lo stimolo, divenendo significante, «narrativizza» il referente. Può accadere attraverso modalità geometriche,16 se il soggetto che produce gioca su cambiamenti di dimensione e/o di orientamento, oppure analitiche, se questi lavora con tecniche di discretizzazione e di filtraggio cromatico e/o di luce; ma l’istanza di produzione si serve spesso anche di variazioni ottiche, relative a fenomeni di riflessione e di rifrazione, alla profondità e alla nettezza di campo, e cinetiche, in grado di inscrivere nell’immagine angolazione e distanza da tenere per una lettura soddisfacente. Così, il type vale in virtù delle metamorfosi che subisce, è – come sostiene a più riprese Rastier – «una famiglia di trasformazioni». Comprende sia semi inerenti, ovvero tratti generici e specifici, sia semi afferenti, che è il contesto a mettere in causa, modulandone il significato. Influenza degli stili di percezione e di ricezione. Nella Neoretorica si afferma che la costituzione del discorso trattiene «qualcosa al tempo
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Come Eco (1975), anche il Gruppo μ non manca di ricordare, a questo proposito, gli studi intrapresi da Volli (1972) sulle corrispondenze topologiche. 16
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Trattato del segno visivo
Introduzione
stesso del soggetto e dell’oggetto, da una parte conservando marche di appartenenza culturale, dall’altra indicando le scelte operate» (Klinkenberg 1996, p. 401). L’organizzazione sintattica di una figura è quindi sempre da pensare attraverso mediazioni dell’istanza enunciante, sia essa individuale o collettiva. Inoltre, come ben mostra la specificità del cinetico, le operazioni di trasformazione non si fermano alla nascita della figura, proseguono nel lavoro di percezione e di interpretazione che ne fa lo spettatore: mediazioni dell’istanza enunciataria. È un punto per noi molto importante. Se si parla da sempre di stile in riferimento ai processi di produzione dell’opera, che cosa ci impedisce di stimare che esistano anche stili di percezione e di ricezione, con elementi di similarità e di contrasto, nuove forme di creazione – quando la testualità li renda linguisticamente pertinenti – che fanno ancora differenza? IV) Rimotivazione culturale del segno. Riprendendo il tema di una disputa tra Göran Sonesson (1989), da un lato, e Jean-Marie Floch e Félix Thürlemann, dall’altro, gli autori si chiedono se le opposizioni plastiche rintracciabili negli enunciati valgano solamente hic et nunc o facciano invece parte di sistemi universali. L’interrogativo risponde alla necessità di attribuire significazione autonoma alla dimensione astratta del visibile, così da superare il fraintendimento che il piano del contenuto sia arbitrario o limitato alla natura referenziale del segno. In generale, la semantica plastica riposa, per il Gruppo, su valori affettivi e su disposizioni fisiche o psichiche. I primi sono chiamati in causa soprattutto a proposito del colore, le seconde vengono menzionate rispetto alla tridimensionalità, alla tattilomotricità e all’espressività della testura, ma anche in merito al potere termico della costituente cromatica. Per quanto riguarda il parametro della forma, l’équipe riconduce gli assi topologici alto/basso, sinistra/destra, davanti/dietro, in essa compresi, a concetti legati alla percezione e all’uso sociale dello spazio.17 Viene ricordata l’analisi delle preposizioni spaziali condotta in linguistica da Claude Vandeloise (1986). Sistemi strutturali tensivi reggono le sottoarticolazioni della forma. La repulsione regola il rapporto posizionale tra figura e sfondo, la dominanza, forte o debole, dà senso ai contrasti di dimensione, l’orientazione fa capo all’equilibrio ed è determinata dalla forza di gravità. Ma il capitale di energia di cui è
provvisto ogni formante ha anche una risonanza enunciazionale. Ammettendo tra i loro elementi il punto focale, definito «luogo geometrico della percezione» (p. 117), e la scala di osservazione, vale a dire il punto di presa dal quale si giudica la taglia degli oggetti, sia la posizione che la dimensione includono come coefficienti semantici gli attributi percettivi dell’interprete. E l’ambito che riguarda propriamente gli aspetti della “manifattura”, o se si vuole le circostanze di interazione tra materia ed energia, inscritti da Fontanille (1999) nell’ordine della «sintassi sensorio-motoria», rileva qui dell’idea della conversione, per efficacia discorsiva, in «suggestioni motorie» (p. 105) indotte nell’enunciatario. Sono movimenti di apostrofe retorica previsti e regolamentati dal testo. L’équipe di Liegi lamenta una mancanza di chiarezza nella descrizione del modo in cui si costituiscono le omologazioni. Gli accoppiamenti stabiliti da Floch (1981) sarebbero macroscopici e lascerebbero fuori troppi residui sul piano dell’espressione, possibilmente validi per il funzionamento di rapporti retorici.
17 È così che possiamo estendere all’ambito del visivo, contro l’idea dell’arbitrarietà dei sistemi, le riflessioni condotte da Lakoff & Johnson (1980) sulla metafora linguistica.
2.1.2. Questioni metodologiche 1) Valutazione della logica plastica. Da valutare nella sua originalità è la teorizzazione del sistema plastico, esplicitamente detto autonomo, solidale al piano figurativo e le cui categorie si formano integrando le riflessioni sull’attività percettiva. Come già accennato, la concezione del segno plastico ha la sua chiave di decifrazione nell’uso del termine percettema, che fa da ombrello alle tre costituenti del linguaggio. Le categorie eidetiche e cromatiche del modello greimasiano diventano, nello schema disposto dal Gruppo μ, formemi e cromemi, e ad essi si affiancano i testuremi, unità percettive della testura. Manca il corrispettivo della dimensione topologica, i cui assi alto/basso, e sinistra/destra vengono però assorbiti nelle sottoarticolazioni della posizione e dell’orientamento che caratterizzano il parametro della forma. Le scuole postgreimasiane hanno a nostro parere ignorato i vantaggi che il punto di vista del Gruppo avrebbe potuto apportare sulla conoscenza delle dinamiche eidetiche e cromatiche. Alludiamo, prima di tutto, alle considerazioni sullo status dello sfondo e sulla distinzione tra campi, limiti e contorni. Così, riconosciuto a Thürlemann il merito di avere predisposto lo schema delle proprietà, Klinkenberg e compagni gli muovono un interrogativo legittimo: che cosa ci permette di decidere, essendo le configurazioni cromatiche costituenti delle eidetiche, quel che si dà come figura e ciò che resta come sfondo? E se quest’ultimo fosse da considerare, alla pari, figura? La componente cromatica, na-
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scendo invece dall’incontro fra uno stimolo, prodotto della luce e della curva spettrale della superficie colorata, e il nostro sistema di percezione, sottende i tratti della dominante, della saturazione e della luminosità, (o brillio),18 include la luce nel suo ruolo costitutivo, più tardi esplorato da Fontanille (1995), prevede il verificarsi di fenomeni di trasparenza. Nell’interesse per le regole di associazione armonica, l’ampia ripresa delle teorie di Henri Pfeiffer (1966), di Johannes Itten (1978) e di Michel Eugène Chevreul (1838) favorisce un’indagine dei cromemi nei loro rapporti quantitativi e qualitativi, nelle loro misure graduate più che discrete. Coerentemente, anche la prima importante sistematica della testura, proprietà imprescindibile del testo artistico, nasce traendo spunti più dalla psicologia che dalla storia dell’arte. La scuola di Liegi considera riconducibili a questo parametro le qualità della materia, i tempi e i modi della manipolazione, le sensazioni in grado di produrre. In dipendenza dalla microtopografia degli elementi che “tessono” la superficie, si creano equivalenze sinestesiche tra percezione visiva e percezione tattile. Il problema viene intelligentemente studiato differenziando grana e macula, e per ciascuna di esse le sotto-componenti supporto, materia e maniera. Conseguenze per le ricerche a venire potrebbe avere la classificazione del pigmento in minerale, naturale, organico e metallico, finora creduta semioticamente non pertinente, ma che invece produce senso sia per un diverso modo di emanare luce, o di relazionarsi a una fonte luminosa, sulla base dunque delle morfologie percepibili nella quotidianità, sia perché legata, a livello più profondo, a una fisica dell’elementale densa di valori. Insistendo infine sulla distanza critica per la discriminazione, il Gruppo μ corrobora il senso del gioco interattanziale che lega opera e interprete e suggerisce la possibilità dell’oscillazione tra attività integratrice e attività disintegratrice, in un duello tra l’apparire della figura e il manifestarsi delle testure.
ciale nella comunicazione retorica, li porta a ragionare sui principi dell’articolazione sintattica. Ora, si dà il caso che l’assetto dato dal Gruppo alla categoria dei formemi – posizione, dimensione e orientamento, retti dai rispettivi assi semantici repulsione, dominanza ed equilibrio – abbia forti analogie con la nota Teoria dei casi di Hjelmslev (1935). La riproponiamo nella schematizzazione di Massimiliano Picciarelli (1999):
1. Direzione
+ 0 ÷
1a 1c 1b
avvicinamento riposo allontanamento
A. Inerenza
+ 0 ÷
2Aa 2Ac 2Ab
interiorità indifferenza esteriorità
B. Aderenza
+ 0 ÷
2Ba 2Bc 2Bb
contatto indifferenza non-contatto
2. Coerenza (o Intimità)
3. Soggettività /Oggettività
+ 0 ÷
3a 3c 3b
soggettività indifferenza oggettività
Figura 3. M. Picciarelli, Schema della teoria dei casi di Hjelmslev
In realtà anche Thürlemann, nella definizione della voce Cromatica (Categoria) in Greimas & Courtés (1986), aveva distinto dai radicali cromatici i tratti del valore (o della luminosità) e della saturazione, ai quali aveva inoltre affiancato la sottocategoria a-cromatica nero vs bianco. Tali articolazioni prescindevano, però, dall’influenza dell’attività percettiva.
Hjelmslev ritiene necessario un modello che valuti i tratti della direzione, con i due poli dell’avvicinamento e dell’allontanamento, della coerenza (o intimità), fattore distinto in Inerenza, potenzialmente interiore o esteriore, e Aderenza, che può manifestarsi nei modi del contatto o del distacco; e della Soggettività/Oggettività. Si parlerà di direzione se la forma si avvicina, se attende o se si allontana; di coerenza, in una diatesi del verbo riflessiva, quando appunto la forma inerisce a sé – e la disposizione sarà in quel caso introspettiva (intransitiva), o impassibile, o estroversa (transitiva) – oppure esplicitamente attiva, aderendo alla presenza d’altri nei modi del contatto, dell’equilibrio, o invece del divario; di posizioni attanziali, quando risulta forza dominante, quando resiste indifferente, o se si lascia sopraffare. In modo non dissimile, Paul Klee (1970, p. 450) formula una preziosa riflessione filosofica sull’etica nei
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2) Principi di articolazione sintattica nell’opera. A differenza delle altre scuole, Klinkenberg e compagni lavorano molto sui rapporti di reciprocità delle figure nei sintagmi, suscettibili di innescare luoghi di convergenza (“poli”) e reti di tensioni. La componente eristica del senso, cru18
Trattato del segno visivo
Introduzione
rapporti sociali, che è parallelamente un precetto per il “benessere” delle sintassi plastico-figurative: Quando dei corpi si toccano, si manifesta una certa sete d’avventura; se questo non avviene, meglio mantenere la distanza, e la distanza dovrà mantenersi armonica. L’avvicinarsi e l’allontanarsi devono essere organici, armonici. Nei punti dove, in seguito alla mescolanza di cose dello stesso genere, insorgono complicazioni, dobbiamo fare particolare attenzione. Qui sta infatti la possibilità della libertà, qui si può uscire fuori dal seminato o raggiungere il massimo risultato artistico. La mancata riuscita può derivare dal fatto che non si è calcolato il reciproco effetto di cose diverse o che i valori non sono stati scelti bene. Questo vale soprattutto laddove le cose siano sovrapposte o accostate.
Proviamo a parafrasare: figura e persona non sono individui, ma membri di collettività che si attraggono o si respingono, combaciano o non si incastrano, intrattengono comunque rapporti di forza. L’elemento esprime innanzitutto piccole sollecitazioni, anche solo stando in guardia. Può quindi integrarsi in rapporti perduranti, continui e stabili, non vincolati alla contiguità spaziale; mantenere coordinazioni deboli, passeggere; spezzarsi e risaltare per urti e dissonanze. Nel convergere poi, caso in cui sia figure sia persone non smettono di agire, gli orientamenti di richiesta e le mosse di risposta devono ancora essere ponderati, sempre che ne valga la pena, e purché non siano stati commessi errori di valutazione. Ma questo accade quando ci si limita al distacco, ad accostamenti o a mere sovrapposizioni, non se si tessono le cose dall’interno. Se ne deduce che le eterogenee dinamiche di organizzazione dei piani di superficie sottendono l’invariante di scenari di intersoggettività, validi principalmente a livello enunciativo, ma sempre per le trasformazioni modali di un fruitore. L’opera più astratta diventa intelligibile in virtù del fatto che le diverse forme adoperate entrano in un ordine che le fa valere, l’una rispetto all’altra, per un potere di espressione essenzialmente vitale.19 19
Vedi anche Thom (“Locale e globale nell’opera d’arte”, 1983, ora in Fabbri, a c. di, 2006), il quale definisce «effetti figurativi» i risultati dei meccanismi interattanziali di regolazione tra le qualità attive delle pregnanze, che investono e si propagano nello spazio, e le forme salienti, che si staccano da uno sfondo continuo. «La combinatoria dei fattori (S – S; S – P; P – S; P – P) genera una tipologia di collisio-
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Le modalità di montaggio interno adottate nella parole visiva, a livello sia figurale che iconico, andrebbero interpretate colmando il divario tra finzione ed esperienza, assegnando alle forme rintracciabili di “allontanamento”, di “armonia”, di “complicazione”, perfino di “libertà”, il portato che esse hanno nelle prassi dell’interagire collettivo. È l’opera, intesa come costrutto del collettivo, a restituirle alla luce. 3) Nozione di iconoplastico (figura-relazione-retorica). La continuità fra i due linguaggi. Alla dicotomia, spesso mantenuta, tra dimensione plastica e dimensione figurativa, la scuola di Liegi risponde formulando la preziosa ipotesi dell’iconoplastico, che verte sulla concomitanza dei due linguaggi: si definisce figura iconoplastica il risultato di operazioni retoriche compiute nella congiunzione dei due piani, a partire dalla manifestazione di una ridondanza enunciativa che può essere plastica o iconica. Anziché separare la valutazione della «logica seconda» (Greimas 1987) dalla lettura dei significanti del mondo naturale, l’analista è chiamato ad apprendere i livelli di omogeneità, le tensioni, i gradi di libertà, i passaggi, le demarcazioni, le irruzioni. Plastico e figurativo sono adiuvanti reciproci, ma si determinano casi in cui i limiti del primo interferiscono con quelli del secondo. Così, se la ridondanza concerne specificamente tratti figurali, si possono ipotizzare in atto deformazioni e cambiamenti dell’iconico (Hokusai, La Grande Vague; Paul Cézanne, La route près du lac); se essa riguarda invece la struttura iconica, è allo scopo di servire l’evoluzione di una logica plastica particolare (un fregio, dove elementi identificabili rientrano in un ordine di ripetizione ritmica). Dagli esempi offerti, attinenti tanto alla categoria della forma che a quelle del colore e della testura, si capisce bene come in causa non sia mai la sterile ricerca di analogie e di estensioni metaforiche. Domina, anzi, l’interesse per la costruzione di un fare ricettivo attivo, con tecniche che inducono principalmente «effetti di oscillazione» e stati di suspence. 4) L’intenzionalità artistica come competenza modale. L’indagine sulle tecniche di geometrizzazione della figuratività (cap. VI) consente di approfondire il tema dell’intenzionalità artistica. Il vuoto che separa il modo di esistenza virtuale dalla realizzazione viene colmato da un parco di soluzioni e di alternative. La scuola belga sottopone a esame ni e di ostacoli, confluenze e scissioni, che strutturano l’intera sfera del simbolico» (Fabbri 2006, p. 15).
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Trattato del segno visivo
Introduzione
una procedura frequentissima nelle attività di produzione, funzionale a migliorare la visibilità, ma spesso spinta talmente oltre da mancare l’obiettivo. La stilizzazione viene definita un «rilevamento retorico delle soglie di uguagliamento» e in quanto tale è perseguibile tramite operazioni di soppressione, ma anche con interventi di aggiunta. Dalle prime discenderebbero figure di sineddoche, i secondi raggiungerebbero al contrario livelli di incisività iperbolica. Come dimostrano gli autori, si tratta di un modus applicabile tanto a grandezze eidetiche, con atti di geometrizzazione, che a configurazioni cromatiche, per esempio attraverso manovre di filtraggio, e testurali, con pratiche di omogeneizzazione, passando dai “difetti” del diagrammatico agli “eccessi” dell’iperreale. Per capire quanto vi corrispondano specifici modelli di universo, l’équipe schiude l’orizzonte di analisi a esemplari di culture e di epoche differenti. La nozione di stilizzazione viene a misurarsi così con le ipotesi formulate a proposito delle piramidi d’Egitto, dei tappeti d’Oriente, della statuaria degli Indiani d’America, del gioco del tangram, di un quadro astratto di Bart Van der Leck. Ragionando in termini di variazioni semantiche, l’impatto con determinati eccessi di presenza, o al contrario con manifestazioni di grande esiguità, porta gli autori del Trattato a calcolare la resa della verosimiglianza rapportandola a “scale”, a gradazioni di senso. È un dibattito che mette in campo la differenza tra il valico di soglie e il raggiungimento di limiti – variabili per periodi, ambiti e sistemi di valori. 5) Figure della cornice. Lo studio del Gruppo μ sulla cornice ha infine la particolarità, a differenza delle altre ricerche sull’argomento, di non riguardare soltanto la funzione dell’oggetto empirico che isola la zona del discorso dallo spazio attorno. Si riferisce, più in generale, all’esercizio della demarcazione, o meglio, all’artificio dell’inquadramento, passibile di essere svolto da operatori di tipo diverso. I teorici del gruppo differenziano il bordo, o cornice propriamente detta, dal contorno, che fa invece parte della figura e la delimita rispetto alle unità concomitanti. Proseguono quindi ritenendo pertinenti per la significazione discorsiva, in sé e nelle relazioni che intrattengono, il dispositivo ad azione inglobante, i tratti morfologici del suo spazio delegati a renderlo figura e i campi ritagliati e inglobati. L’interessante capitolo del Traité deve a nostro parere chiarezza, coerenza ed esaustività alla scelta di criteri rigorosi per la costituzione del corpus. Non sempre accade che la pratica di una teoria e le procedure di organizzazione e di ottimizzazione dell’indagine siano condotte in modo da far essere la struttura un’«entità XXVI
autonoma di dipendenze interne» (Hjelmslev 1943). È vero che tanto Louis Marin (1988) quanto Victor Stoichita (1993) meditano molto più attentamente sul potere presentativo e metapittorico del parergon. Marin insiste sulla cornice come luogo privilegiato di ostensione politica e ideologica, espediente empirico per le istruzioni e le ingiunzioni rivolte allo spettatore; Stoichita lavora invece sulle funzionalità transitiva e riflessiva, sui giochi di sporgenza e di rientranza che contraddistinguono i diversi regimi di visibilità offerti da mappe, nicchie, porte, specchi, finestre, quadri interni. La messa in evidenza del loro status segnico, metodologicamente ottenuta attraverso la selezione e l’accurata analisi di motivemi,20 ruota intorno ad alcune variazioni ottiche enucleate – distorsioni, compatibilità, incompatibilità, accomodamenti – che attualizzano, sul fronte enunciazionale, le competenze dei vari operatori. Ma forse per lo scopo di arrivare a riconoscere tratti comuni, l’approccio del Gruppo μ rende più evidenti norme e meccanismi di classificazione, elaborando, attraverso procedure comparative, una paradigmatica di costanti eterogenee (vedi p. 221). Mostrando in vigore la categoria delle invarianti soppressione/aggiunta, l’équipe di Liegi individua, rispetto al ruolo del contorno, casi di totale mancanza e fenomeni di indebolimento, bilanciati dalla tendenza all’espansione nello spazio. Sulla base della stessa coppia, gli esemplari compresi nel repertorio della cornice vengono distinti se rispondono alla finalità di garantire verifiche ai rapporti fra spazio interno e spazio esterno (retorica del significato), o se invece mettono a fuoco tipologie di manifestazione e mutamenti espressivi del solo frame (retorica del significante). I primi faranno valere esperienze di sconfinamento, di frontiera, di confino, di compartimentazione; i secondi renderanno intelligibili processi di distruzione, di magnificazione, di sostituzione plastica, di iconizzazione.21 Nell’am20 Si intende per motivema la realizzazione nel discorso di un motivo dato, ovvero la tematizzazione di un’unità discorsiva fissa e relativamente autonoma, a carattere migratorio da un testo all’altro, da una cultura all’altra, da un’epoca all’altra, perciò prodotto di traiettorie di tempo segnate dagli usi socioculturali. Cfr. la voce motivo in Fabbri (a c. di) 2007. 21 Una concezione molto simile del rapporto tra retorica del significante e retorica del significato, meglio studiata sul piano dell’enunciazione, è stata offerta da Marin (1988, p. 202): «Ci sono anzitutto le figure di ostentazione, le figure dei bordi ornamentali, fiori e frutti, che tessono le bordure con la loro simmetria e la loro ripetizione programmata: nella sua operazione pura, la cornice mostra; è un deittico, un “dimostrativo” iconico: “questo”. Ma le figure che guarniscono il bordo insistono sull’indicazione, la amplificano: la deixis diventa epideixis, la
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bito, poi, dell’analisi sui livelli di congiunzione e di disgiunzione tra il telaio e l’enunciato, si considerano circostanze di cornice rimata e di cornice rappresentata, nonché situazioni di compenetrazione, osservando, soprattutto per le forme non costrette al supporto bidimensionale, “pretese” e “rinunce” del riquadro nei confronti della scena. Strategie enunciative complesse esplorano le risorse di un mezzo che solo un pensiero a posteriori può condensare come “vettore a potenza e ad intensità variabile” (p. 218). Tali ingredienti assicurano, manipolati negli atti di discorso, l’innesco di trasformazioni cognitive ed estesiche (basterà rievocare, nella categoria delle sostituzioni, gli esempi sull’utilizzo di materiali, formati e colori inconsueti). Per gli autori, tuttavia, la produzione di effetti molteplici non dipende unicamente dalle qualità significanti dell’oggetto e dall’incontro con l’istanza che le prende in carico restituendole poi di nuovo sensibilizzate; riguarda nell’insieme un problema di ethos. Approfondito altrove nel Trattato, il concetto si riferisce alle modalità di apparizione della figura e designa un fenomeno ripartito in tre stadi: nucleare, fase di pura potenzialità, quando l’ethos sarebbe esclusivamente provocato dalla struttura della figura; autonomo, ancora virtuale, perché riguarderebbe soltanto la morfologia e la sostanza espressiva in cui la figura si annuncia; sinnomo,22 stadio finalmente realizzato essendo la figura parte di un contesto, identità riconducibile a un preciso orizzonte culturale che implica giudizi di valore. A nostro parere, però, una reazione etica puramente impressiva, esclusa dai circuiti dialogici della semiosfera, non ha alcun requisito per esistere, se è vero che, come scrive Ricœur (1986, pp. 111-113): «La percezione viene detta, il desiderio viene detto. […]. La lettura è come l’esecuzione di una partitura musicale; segna la messa in atto delle possibilità semantiche del testo, è rendere proprio ciò che prima era estraneo, come vittoria sulla distanza culturale, ma anche come lotta contro l’allontanamento dal sistema dei valori sul quale il testo si stabilisce». Al lettore il piacere di scegliere, adesso, la strada da seguire: se esaminare l’incidenza dei processi percettivi nella significazione o conoscere i passaggi tra percepire e produrre, esplorando la gamma delle tipologie di elaborazione segnica; se distinguere le ragioni del piano
plastico o dare risalto alle specificità di ricezione e di prensione che sorgono a provocare differenze interpretative; se concentrarsi sulla varietà delle combinazioni iconoplastiche, indagare le accezioni visive della cornice o attraversare i processi artistici per valutare gli stili secondo le strategie e i modi di esistenza semiotica interessati. La prodigalità di idee è per noi la risorsa primaria per un buon movimento di ricerca, che richiede germinazione, da terreni fertili, e diffusione.
“mostrazione” diventa di-mostrazione, il racconto di storia rappresentato diventa discorso elogiativo […], articolato con lo spazio dello spettatore». 22 La parola, assente nel dizionario della lingua italiana, traduce un conio francese del Gruppo μ, synnome, evidentemente inteso come termine contrario di autonome. È un aggettivo che designa lo status esistenziale relazionato.
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1. I fondamenti percettivi del sistema visivo
0. Introduzione. Ruolo della descrizione dei canali in semiotica Una vecchia tradizione di studi semiotici classifica i sistemi di comunicazione e di significazione in base al canale fisico utilizzato e all’apparato di ricezione umano interessato. Ma i sistemi vanno al di là di questi canali: pur nella sua unicità il sistema linguistico, per esempio, non pone problemi, dal momento che i suoi messaggi transitano sia attraverso il canale visivo sia attraverso il canale sonoro. La pertinenza del canale dovrebbe quindi essere contestata. In Greimas e Courtés (1979) troviamo la formulazione più netta di questa condanna. La classificazione secondo i canali di trasmissione dei segni, o secondo gli ordini di sensazione, si fonda sulla presa in considerazione della sostanza dell’espressione. Ma è una direttiva non compatibile con la definizione di “semiotica” come, in primo luogo, una forma.1 Se è necessario condividere quest’ultima posizione – senza la quale non potremmo parlare di semiotica – le premesse del ragionamento sono però errate. Derivano dal mancato riconoscimento dei meccanismi di trasmissione del segno, da un’incomprensione riconducibile al quadro di una teoria a volte idealistica. Si può facilmente mostrare che canale e forma sono strettamente legati ricordando che la tradizione classificatrice, per giuste ragioni criticata, non ha solo un valore mnemotecnico o pedagogico, ma epistemologico. Evitando di ricadere nella tesi di McLuhan che “il medium è il messaggio” – la sua era più che altro una formula polemica – è possibile sostenere, anche a rischio di suscitare scandalo, che prendere in considerazione la materia è indi1
Cfr. Fabbri (a c. di) 2007, alla voce Tipologia. Gli autori aggiungono (ivi, voce Canale) che alcuni insiemi significanti molto vasti sono di fatto «luoghi di imbricazione di più linguaggi di manifestazione, fusi in vista della produzione di significazioni globali». È un aspetto innegabile, ma che non invalida la procedura consistente nell’isolare uno di questi linguaggi di manifestazione.
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spensabile nella prima descrizione di qualsiasi sistema. Infatti, per diventare sostanza semiotica, la materia dovrebbe prima essere percepita, e dunque passare attraverso un canale. Molte costrizioni, tanto fisiche quanto fisiologiche, incidono su questo canale e intervengono nella selezione degli elementi materici che saranno resi pertinenti, dunque, in ultima analisi, nella costituzione del sistema. Così, un settore importante della tradizione linguistica – da Saussure a Martinet, passando per Bloomfield – include gli aspetti della dimensione prosodica nella descrizione della lingua. Non è del resto questo fenomeno a imporre al significante linguistico il suo carattere di linearità, la cui importanza è capitale?2 L’analisi semiotica può, e forse tutto sommato deve, fare economia dello studio fisiologico del canale interessato, ma solo dal momento in cui integra, nella descrizione delle forme, quelle qualità che sono effetto delle costrizioni del canale. Così, la linearità dipende oggi in linguistica da un postulato, e non è più necessario aprire un dibattito in questo campo descrivendo, uno dopo l’altro, i fondamenti della percezione temporale. Ma nella fase di approccio a un sistema non ancora studiato nella sua specificità, non si può trascurare questo aspetto. Una semiologia generale dei segni visivi – almeno quella che illustreremo nel cap. 2 – presuppone dunque, per prima cosa, il richiamo ad alcune proprietà del canale visivo. Tali proprietà avranno un’influenza decisiva sul nostro modo di cogliere forme e colori e di costituirle in sistemi semiotici.
1. Primo confronto tra il linguaggio e la comunicazione visiva 1.1. Correlazione tra codifica e canale Tra le proposte or ora avanzate non c’è contraddizione. Rivediamole. Da una parte, il primato del verbale imporrebbe al codice linguistico una delle sue caratteristiche essenziali: la linearità. Dall’altra, l’unità della linguistica non è compromessa dalla possibilità del messaggio linguistico di attualizzarsi sia nella sostanza fonica sia in quella grafica. Se la linearità resta un concetto cardine, il carattere discreto e arbitrario
delle unità del codice consente di fare astrazione dalle condizioni di lettura o di decodifica: la struttura semantica di un messaggio linguistico è praticamente la stessa sia che giunga tramite il canale sonoro che attraverso il canale visivo. I suoi elementi, nella loro trasparenza, servono solo da intermediari, immediatamente accantonati per passare al codice. Certo, la ricerca contemporanea ha arricchito questo schema di presentazione un po’ arido: ha riservato un posto accogliente alle onomatopee, ha sottoposto a revisione il principio di arbitrarietà, ha evidenziato la strutturazione tabulare degli enunciati, ha rilevato con precisione tanto le convergenze quanto le incompatibilità tra suono e senso… I poeti, in particolare, sono da sempre impegnati a “riparare alle mancanze delle lingue”. Ma questo non cambia le cose. Ciò che conta qui – e su questo punto dovremo tornare più volte – è che l’indifferenza alla sostanza è legata all’arbitrarietà, e quest’ultima è a sua volta legata alle costrizioni del codice, dato che, come tutti sanno, il linguaggio è un sistema di trasmissione rigidamente codificato. Oggi nessuno ignora le modalità di funzionamento di questo codice e soprattutto i metodi che impiega per evitare il rumore: stati discreti, posizioni di controllo, ridondanza (Mandelbrot 1957; Cherry 1961). Intuitivamente si può affermare che non è lo stesso per la maggior parte dei sistemi semiotici, alcuni dei quali funzionano tramite il canale visivo. Questi sembrano, rispetto al sistema linguistico, particolarmente poco codificati. Sono sistemi in cui le unità presentano solo di rado un livello di stabilità paragonabile a quello della lingua e dove le relazioni sintattiche restano in genere non commensurabili all’alto grado di elaborazione della lingua.3 Questo ha un certo numero di ripercussioni. La prima è il ruolo ridotto delle relazioni arbitrarie, da cui deriva il carattere incerto del codice. La seconda, connessa alla prima e nel nostro caso di maggiore interesse, è la relativa importanza delle caratteristiche che il canale impone al sistema. 1.2. Potenza e riduzione La prima particolarità del medium visivo, non priva di incidenza sugli scambi di comunicazione tramite questo canale, è la sua potenza: esso permette di inoltrare 107 bit al secondo, sette volte in più dell’orecchio.
2 A questo non nuocciono le ricerche dei semiologi che analizzano separatamente “linguaggio fonematico” e “linguaggio grafematico” (già rivalutati da Gelb e da Derrida). Entrambi sono in condizione di funzionare sia autonomamente, sia in concomitanza in seno a una stessa lingua. Cfr. Catach 1988b.
3 Chiaramente in virtù del fatto che alcuni sistemi ipercodificati, che mobilitano segni arbitrari, possono transitare per questo canale. È il caso del codice della strada, di molti loghi ecc., tutti da considerare simili al linguaggio scritto.
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Tale enorme quantità deve tuttavia essere considerevolmente semplificata e ridotta prima di giungere a quella che viene chiamata coscienza, la quale accetta solo da otto a venticinque bit al secondo (Francke 1977). È in questo contesto che ha luogo tutta l’esperienza della Gestaltpsychologie, prima disciplina ad avere osservato e analizzato i processi grazie ai quali viene compiuto il lavoro di riduzione. Si tratta di un’attività che compete a organi analoghi ai cosiddetti “microprocessori”: processori sensoriali che elaborano i dati prima ancora di inviarli al cervello o ai suoi strati periferici. Le operazioni realizzate riguardano essenzialmente trasformazioni di pattern, selezioni e combinazioni con dati che provengono dalla memoria (caso su cui ci soffermeremo a lungo). Notiamo intanto che le prime trasformazioni hanno soprattutto per effetto di trasformare il continuo in discontinuo. Ci si ricorderà che i neuroni dell’occhio sono di fatto cellule isolate, che dunque possono trasmettere solo punti. Caratteri quali la “linearità” e la “spazialità”, considerati ingenuamente fondamentali in ogni analisi dell’immagine, si rivelano pure costruzioni (semplificazioni) del nostro apparato ricettore.4 Bisogna poi prestare attenzione a una seconda tipologia di trasformazione: se si accetta l’idea che lo “spessore del presente” ha una durata di dieci secondi, la coscienza potrà manipolare solo pacchetti di 160 bits, con il rischio di venire sommersa da un momento all’altro. In caso di flusso di informazione eccessivamente rapido, sono previste speciali routine5 – la cui descrizione è per noi di grande interesse – che riconducono il debito a un valore accettabile. Tra queste rientrano l’astrazione, la selezione o la concentrazione su alcune categorie (per esempio il
colore più che la forma), la gestione in ordine seriale delle informazioni in soprannumero. Quindi, con la visione binoculare, montaggi appropriati consentono la lettura di informazioni tridimensionali. In che modo le trasformazioni che subentrano alla percezione “grezza” degli stimoli visivi sfociano nell’elaborazione di costrutti che sembrano procedere da sé (come la linea, la superficie, il contorno, la forma, lo sfondo) e, al di là di questi, a entità come l’oggetto? Lo scopriremo più avanti.
2. Dallo stimolo alla forma
Di fatto, dovremmo prendere soprattutto lezione dalle tecniche più familiari e quotidiane, come il cinema e la televisione. Tutti sanno che l’immagine dello schermo è immobile al cinema: è la persistenza delle impressioni retiniche – proprietà puramente sensoriale – a permetterci di ricostruire (nei film tradizionali) o di costruire (nei film di animazione) il movimento. Allo stesso modo apprezziamo ogni giorno che uno schermo TV in cui compaiono 625 linee consente di percepire superfici (uno schermo video comporta 30.000 punti o pixel, mentre una diapositiva 24×36 a 100 ASA ne comporta 18.000.000). In questo esempio l’inquadratura dell’immagine non è prodotta dall’uomo. Ma una selezione molto simile la mette in atto anche l’occhio: la trasmissione degli impulsi nervosi lungo gli assoni può avvenire solo in maniera discontinua, perché a ogni train segue un periodo di inibizione che va da 1 a 2 millisecondi. 5 Nel linguaggio informatico routine è una sequenza di istruzioni che consente di eseguire un’operazione la cui esecuzione è frequente. [N.d.T.]
2.1. Il sistema retina + corteccia: un apparato attivo La seconda costrizione imposta dal canale alla percezione visiva è di ordine fisiologico. Anche se sappiamo che uno spettro copre approssimativamente settanta ottavi – dai raggi gamma, di qualche decina di picometri, fino alle onde hertziane, che coprono fino a migliaia di chilometri –, i nostri organi di ricezione visiva sono sensibili solo a una zona intermedia, capace di coprire un solo ottavo (intervallo tra due vibrazioni le cui frequenze stanno in un rapporto di uno a due): è questa banda di stimoli, che va da 390 a 820 nm, a suscitare in noi la sensazione della “luce”, grazie alla mediazione di un apparato ottico che autorizza la proiezione degli stimoli sulla superficie sensibile della retina. Questa è formata, com’è noto, da due tipi di cellule: i bastoncelli, pigmentati di “porpora retinica”, e i coni, entrambi connessi ad altre cellule che costituiscono il nervo ottico, il quale raggiunge il cervello. Si può così parlare di sistema “rétinex”, composto dalla retina e dalla corteccia, o più semplicemente, dall’occhio e dal sistema di decodifica che gli è associato. A questa costrizione qualitativa se ne aggiungono altre due quantitative. La prima è l’intensità sensoriale: rispetto all’eccitabilità visiva si danno una soglia minima e una soglia massima. L’organo recettore non viene eccitato al di sotto di un milionesimo di candela – cd – per metro quadrato, né fortunatamente al di sopra di uno stimolo dieci miliardi di volte più intenso. La seconda è di ordine temporale: l’eccitazione non si verifica se non raggiunge una certa durata nell’emissione dello stimolo, definita “tempo utile”. Sarebbe un errore credere che il sistema retinico sia un apparato che registra punto per punto e passivamente gli stimoli che lo eccitano. A dire il vero, se l’immagine fosse solo un insieme non coordinato di pun-
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ti – e lo è, fino al momento in cui le radiazioni luminose non si proiettano sulla retina –, essa non avrebbe il ruolo che la visione le assegna. Per fare un paragone, diciamo che non susciterebbe più interesse di quanto ne ha, per lo spettatore, uno schermo televisivo quando non ci sono programmi. È dimostrato che già a livello fisiologico viene rielaborato il flusso in circolo per le vie nervose, a ogni giunzione tra le fibre. Tale rielaborazione consiste nell’integrare altri dati a quelli che provengono dall’eccitazione di una specifica terminazione nervosa. A loro volta, questi dati possono avere due fonti: possono provenire infatti o dall’eccitazione di altre terminazioni nervose, o da altre zone dell’organo di percezione. Il sistema “rétinex” funziona pertanto non come una somma di eccitazioni elementari e giustapposte (o successive), ma come un insieme. Si capisce facilmente che la sintesi ha luogo a livello della corteccia, ossia nel sistema nervoso centrale. In realtà, però, è già a livello della retina che si stabiliscono i legami: le cellule multipolari, tra le quali gli assoni formano il nervo ottico, sono, come indica il nome, simultaneamente connesse a molte cellule sensoriali in contatto con i coni e i bastoncelli, e funzionano già da quel momento come un sistema centrale. Inoltre, molte cellule di raggruppamento connettono ancora più strettamente questa rete. Vedremo più avanti la funzione capitale che queste connessioni rivestono rispetto alla percezione.
Notiamo fin da ora che la densità delle cellule sensibili è disuguale: presenta un maximum nella zona centrale, la fovea, che è quella che in effetti dirigiamo sulle forme da esaminare. Le nozioni di centro, di attrazione verso il centro e di periferia sono dunque già predisposte nel sistema oculare.
2.1. Primo percetto: il campo Tutto ciò porta a capire meglio il fenomeno evidenziato in modo eccellente dalla psicologia della forma: la percezione visiva è indissociabile da un’attività integratrice, consistente nel riconoscimento di una qualità traslocale. In altre parole, il nostro sistema di percezione è programmato per cogliere somiglianze. Se tutte le terminazioni nervose vengono eccitate alla stessa maniera, la somiglianza è totale. In termini di teoria dell’informazione anche la ridondanza sarà dunque totale e di conseguenza non si avrà alcuna informazione. È ciò che mostra, tra le altre cose, l’esperienza classica di Metzger (1930), il quale aveva posizionato i suoi soggetti in condizioni tali per cui la luce riflessa da una parete producesse una distribuzione uniforme su tutta la retina. In questo caso l’impressione che si ha non è la percezione di una superficie, come ci si potrebbe aspettare, ma quella di una nebulosa che circonda i soggetti da ogni parte, in uno spazio dalle distanze indefinite. L’angolo diedro che ingloba ciò che è visibile dall’occhio è il campo.
2.2. Secondo percetto: il limite Capace di individuare le somiglianze, il sistema sa ugualmente disimplicare le differenze. La differenza è il primo atto di una percezione organizzata; il sistema, stimolato in modo diverso nelle sue differenti aree, percepisce l’arresto o il cambiamento della qualità traslocale: si passa così, per esempio, dal bianco al grigio. Avremo allora il limite (concetto che separiamo per il momento dalla linea, dal tratto e dal contorno, tutte nozioni definite più avanti). A voler essere precisi, perché vi sia limite non occorre necessariamente che il passaggio da una qualità traslocale all’altra sia brusco, o meglio che le disuguaglianze della stimolazione siano localmente vicine; né occorre che questo passaggio sia violentemente marcato, ovvero che le disuguaglianze della stimolazione siano, quantitativamente, molto rilevanti. Infiniti gradi di mediazione sono possibili tra il campo indistinto e il campo differenziato, capaci di produrre effetti che vanno da un limite netto a uno sfumato (gradazione o chiaroscuro). Se si esamina da vicino un busto di donna di Boucher o anche Après le bain di Renoir, l’incarnato dei personaggi non ha contorni netti, e tuttavia essi assumono per noi l’aspetto di figure distinte. Constateremo inoltre che non è necessario che vi sia “chiusura” per poter parlare di limite di una figura: una certa prossimità è sufficiente perché dei punti dispersi formino un limite. Ciò che la Gestaltpsychologie ha scoperto per mezzo di una sperimentazione esterna, la bionica lo studia oggi attraverso manipolazioni neurochirurgiche estremamente sofisticate. È così che cominciamo a sapere in che modo funzionano i processori sensoriali prima evocati, con la finalità di ridurre il flusso di informazione conservando l’essenziale. In termini di teoria dell’informazione il problema consisteva – lo si ricorderà – nel passare da un debito di 107 bit (capacità del canale visivo) al debito di gran lunga inferiore di 16 bit al secondo (capacità della coscienza). Rispetto alla bionica, la questione è la seguente: come alimentare il milione di fibre nervose del nervo ottico a partire dai cento milioni di cellule fotosensibili della retina? Se l’analisi dettagliata dei processi non è stata ancora compiuta (richiede del resto molti meccanismi distinti), il più importante è tuttavia ben noto: si tratta dell’ini-
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bizione incrociata. Ogni cellula fotosensibile dell’occhio non si limita a trasmettere l’informazione al suo neurone, ma, grazie alle connessioni laterali di cui abbiamo parlato, influenza i neuroni vicini. Questa influenza è una contro-reazione che riduce la sensibilità delle cellule vicine: si parla in questo caso di inibizione laterale. Si è potuto verificare, costruendo degli equivalenti elettrici, che il sistema d’inibizione laterale accentua i contrasti. Siano dati due organi percettori, un occhio umano e una cellula fotoelettrica. Sottoponendoli alla perlustrazione di due plaghe giustapposte, una nera e una bianca, si ottengono due risposte del tutto differenti (cfr. Ratcliff 1972, p. 98):
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Cellula fotoelettrica Risposta estremamente diversa per le due plaghe e restituzione di una frontiera perfetta, con fronte a picco.
Occhio Risposta quasi identica per le plaghe uniformi (che siano chiare o scure) ma forte enfasi della frontiera: si crea la linea.
Lucien Gérardin (1968, p. 120) commenta: «Una superficie illuminata uniformemente non contiene informazioni. Ogni atteggiamento nei confronti del mondo esterno sottintende inevitabilmente la consapevolezza della varietà di questo mondo. Accentuando i contrasti, l’inibizione laterale favorisce la percezione di queste variazioni e rende più ricco l’universo sensoriale». 2.3. Limite, linea, contorno Da parte nostra constatiamo che la struttura percettiva crea la linea e viceversa che la linea disegnata è un analogon della sensazione del limite. Ma ciò mobilita un altro ordine di fenomeni, conosciuti sotto il nome di rassomiglianza, analogia, iconismo o mimesi. È qui che tuttavia deve intervenire la distinzione tra il limite, o la linea, e il contorno. Il limite è un tracciato neutro che divide lo spazio (planare o meno) o il campo, in due regioni, senza stabilire a priori uno status particolare per l’una o per l’altra. Chiamare la prima figura e il 8
secondo sfondo è una decisione basata su altri elementi (di posizione, di dimensione ecc.), che esamineremo più avanti. Questa decisione trasforma la linea in contorno: il contorno è il limite di una figura e fa parte della figura. La linea può dunque avere due status ed essere annessa, in quanto contorno, a ciascuna delle due regioni che essa determina nel piano.6 2.4. Sfondo, figura, forma 2.4.1. Sfondo e figura Quanto detto introduce la nostra analisi a una nuova coppia importante di concetti: figura versus sfondo. L’operazione di separazione costituisce il secondo livello di un’organizzazione differenziata del campo (la prima, come si è visto, è l’apparizione del limite). Sarà figura tutto ciò che sottoporremo a un modo di attenzione che implica un meccanismo cerebrale elaborato di analisi locale (figura non in senso retorico dunque). Sarà sfondo ciò che non sottoporremo a questo genere di messa a fuoco e che quindi analizzeremo con meccanismi meno potenti di quelli impiegati nella discriminazione globale delle testure.7 Gli effetti di questa opposizione sono ben noti. Mettiamone a punto due, non privi di importanza nella costituzione dei codici visivi: 1. lo sfondo fa parte del campo per il fatto di essere indifferenziato e per definizione senza limite; 2. lo sfondo è caratterizzato da un’esistenza soggiacente alla figura che lo fa sembrare, rispetto a essa, più lontano dal soggetto dell’opera. 2.4.2. Dalla figura alla forma Se la distinzione tra figura e sfondo costituisce il secondo livello di organizzazione dello spazio percepito, altre due modalità di questo processo vanno individuate, la seconda delle quali merita un’analisi più approfondita. È qui che distingueremo tra figura e forma, dato che ogni forma è una figura, ma che non vale il contrario. Abbiamo finora definito la figura come il prodotto di un processo sensoriale che tiene in equilibrio zone uguali quanto alla stimolazione. 6
La pertinenza di questa osservazione emergerà soprattutto quando studieremo la retorica della cornice (cap. 7) o anche opere come Madre e figlio di Paul Klee (tav. 6). 7 Ritorneremo sul concetto di testura più avanti (cap. 3). In quel contesto le opposizioni nette sfondo/figura e disamina locale/discriminazione globale saranno relativizzate.
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I fondamenti percettivi del sistema visivo
Sebbene molto sofisticato, questo processo è relativamente primitivo: il cieco dalla nascita, poi operato, o l’animale, riconoscono l’unità percettiva rappresentata da una macchia nera su uno sfondo bianco tanto quanto l’adulto istruito. Parliamo in questo caso di figura. La nozione di forma fa invece intervenire il confronto tra diverse occorrenze successive di una figura e mobilita dunque la memoria. Si sa che un individuo nato cieco e poi operato, pur essendo in grado di percepire un cerchio o un triangolo, non può distinguerli prima di un periodo di apprendimento. Non si dà dunque forma se non quando una figura è ritenuta simile ad altre in precedenza percepite. 2.4.3. Origine delle forme e delle figure Quali sono i principi di elaborazione della figura e della forma? Quelli riguardanti lo stimolo sono ben noti. Uno è per esempio la prossimità. Gogel (1978) ha dimostrato che punti sparsi su una superficie possono essere percepiti come delimitanti una figura se sono relativamente vicini gli uni agli altri; non li percepiamo cioè come figure isolate, fenomeno che è tipico della dispersione. Una seconda legge di elaborazione è data dall’identità degli stimoli: di preferenza sono considerati costitutivi della figura gli stimoli che si somigliano. Lo sottolinea la classica esperienza di Wertheimer oo..oo.. oo..oo.. oo..oo.. oo..oo.. in cui i cerchi e i punti sembrano formare colonne separate. Vedremo più avanti tutti i vantaggi che una retorica del visivo può trarre dalle leggi della prossimità e dell’identità. Ma la nascita della figura non dipende solo dallo stimolo. Del resto, non ci si accorge che prossimità e somiglianza sono nozioni talmente elaborate da non poter risiedere nello stimolo stesso? Bisogna dunque ricercare queste origini dalle parti dell’apparato recettore. Il riconoscimento delle figure, come anche l’attribuzione di una forma stabile a queste figure, è il risultato di un sistema gerarchizzato di processori che elaborano gli stimoli sensoriali retinici: li si definisce estrattori di figure o di motivi (o anche rilevatori di macchie, o rilevatori specifici; in inglese cluster detectors). Si tratta di cellule nervose che entrano in funzione solo se il “campo di ricezione” al quale sono collegate 10
contiene alcune forme. Esistono così estrattori di contrasti, che consentono l’elaborazione del limite, ed estrattori di direzione, che si attivano quando lo stimolo presenta un orientamento specifico (per esempio in verticale o in orizzontale). Si è inoltre a conoscenza di campi concentrici con centro stimolatore e parti periferiche inibitrici (secondo il meccanismo di inibizione incrociata esposto più sopra), di rilevatori di punti e di linee (sottili, spesse, orientate in questo o in quel modo ecc.), di rilevatori di solchi, di rilevatori di bordi. Gli estrattori di motivi sono gerarchicamente disposti in tre livelli – semplice, complesso, ipercomplesso – e convergono tutti nel dispositivo di disamina locale che dà status alle figure e alle forme.8 È all’altezza dell’integrazione fra i rilevatori che si realizza il passaggio dalla figura alla forma. Per svolgere pienamente il loro ruolo, infatti, gli estrattori di motivi devono venire esercitati. La percezione della forma appare così, in linea con quanto detto precedentemente, un fenomeno che chiama in causa la memoria. Nella percezione e nel riconoscimento delle forme i processi cognitivi intervengono molto più di quanto non si pensi.9
3. Testure e figure Se la figura si manifesta grazie al contorno, essa può però anche nascere grazie a un contrasto cromatico o per merito di un contrasto di testura, i quali creeranno a loro volta un contorno. Affronteremo la questione del contrasto cromatico più avanti, nel § 4. Testura viene da un termine latino, che significa letteralmente “tessuto”. Quando pensiamo alla testura, ci riferiamo metaforicamente alla grana della superficie di un oggetto e al tipo di sensazione tattile 8
Una buona sintesi dell’argomento si trova in Frisby (1979). È quel che appare quando si ribaltano le figure – presentandole, per esempio, specularmente o sottosopra – e si esamina, se possibile, il modo in cui viene operata la correzione. Ci si accorge che la percezione delle relazioni ha più importanza dei singoli tratti, della geometria interna alla figura. Le relazioni con lo spazio circostante sono particolarmente importanti: in primis, se i lati dello spazio visivo sono interscambiabili, non lo sono le zone alta e bassa. Si può pertanto dire di una figura che ha tre limiti percettivi principali: un’estremità, una base e dei lati. Si capisce che la semplice descrizione dei contorni non basta a spiegare la percezione della forma: sono necessari, in aggiunta, dei processi mentali di descrizione, tra cui l’attribuzione di un orientamento. 9
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che produce visivamente. Il fenomeno ha un’origine sinestesica.10 La “sensazione” è però qui un concetto semiotico, unità del contenuto che corrisponde a un’espressione costituita da uno stimolo visivo. Più analiticamente, si dirà che la testura di uno spettacolo visivo è la sua microtopografia, costituita dalla ripetizione di elementi. Designarla con il nome di microtopografia implica che si chiarisca la natura dimensionale degli elementi e insieme la legge delle loro ripetizioni: si possono così descrivere sembianze granulose, lisce, tratteggiate, screziate, lucide, pied-de-poule ecc. Ne parleremo nel cap. 3. Le microtopografie possono entrare in contrasto tra loro – e quindi creare la figura – o al contrario fondersi in un continuum – fenomeno che crea la testura. I meccanismi in grado di disimplicare una figura sulla base di testure sono stati studiati da Béla Julesz (1975). I suoi esperimenti, condotti nei laboratori Bell dal 1965 al 1975, riguardavano testure pure, ossia accomodamenti di punti generati al computer che non producevano segni iconici. Si trattava di vedere quali proprietà statistiche attribuire alle reti di punti (che potevano comprendere per esempio diverse varietà di grigio o differenti gamme cromatiche), per capire in base a quali criteri potessero essere differenziati gli uni dagli altri. Alcune considerazioni preliminari sono indispensabili per gli sviluppi della nostra trattazione. Le testure prese in esame sono discrete, nel senso che riducono la continuità dello spazio a una rete di punti o, più esattamente, di piccole celle quadrate. Si semplifica poi l’esperimento selezionando, per queste cellette, un numero ridotto di scale di luminosità (due, tre o quattro): il quadratino sarà, per esempio, bianco, grigio o nero. La testura nasce da un processo markoviano: lungo una sequenza lineare, il contenuto di una cella viene determinato a partire dal contenuto di un numero stabilito di cellette preesistenti, e secondo una formula matematica altrettanto prefissata. Ecco, allora, il grado di semplicità che può avere la formula: su trenta cellette presenti, un terzo deve essere bianco, un terzo grigio e un terzo nero; per il resto, la luminosità di ogni cellula è dovuta al caso. Questo processo determina una statistica di ordine 1. In
aggiunta, è possibile imporre ai punti restrizioni supplementari, riguardanti questa volta coppie di punti: per esempio si impone una distanza minima tra due punti neri. Si tratta in questo caso di una statistica di ordine 2. Dal fatto che si generano testure rispondenti a queste leggi e che si fa testare a un pubblico la possibilità della loro distinzione, emerge: - che le statistiche di ordine 1 definiscono una luminosità media e che qualunque differenza nella luminosità tra due testure permette di distinguerle immediatamente (e dunque di far apparire una figura); - che le statistiche di ordine 2 definiscono una granularità, fattore, in uguale misura, di distinzione immediata. Se ne ricava una “legge” interessante, che nessuno è finora riuscito a invalidare: “È impossibile distinguere due testure che abbiano le stesse statistiche di ordine 2”.11 Il principale interesse di tutti questi esperimenti è mostrare che è possibile la distinzione al di là di qualsiasi forma, unicamente in virtù della testura. Detto ciò, la prospettiva generale che ne trae Julesz appare ai nostri occhi del tutto errata, poiché, opponendo in una dicotomia estrema la percezione globale alla disamina locale, fa della prima lo strumento di distinzione delle testure e della seconda un veicolo di riconoscimento delle figure: da qui la legittimazione ad affermare che la percezione globale concerne lo sfondo e la disamina locale la figura. Se è vero che la figura – e di conseguenza la forma – si presenta in effetti sempre su uno sfondo, non ne consegue però che la testura coincida con la natura percettiva dello sfondo (rendendo testura e sfondo sinonimi, Julesz propone perfino di sostituire al primo termine il secondo). Qualunque oggetto del nostro ambiente può essere percepito come figura o come sfondo in base agli orizzonti della nostra attenzione. Il fatto di osservarlo da vicino non provoca la scomparsa della sua testura, come provano indirettamente tutti quei campioni di testure pure cui la nostra attenzione analitica si rivolge.12 11
Siamo qui a livello del visivo. La sinestesia nasce solo quando si stabiliscono equivalenze tra la percezione tattile e la percezione visiva. E queste equivalenze si producono in seno a esperienze molto elaborate, come quelle della tridimensionalità o dell’“oggetto” – condizione che definiremo più avanti come somma permanente di informazioni provenienti da canali diversi. Cfr. cap. 3, § 3.1.
Va segnalato che se c’è uguaglianza tra le statistiche di ordine n, ve ne è automaticamente tra tutte le statistiche di ordine inferiore. 12 Tutti i processi descritti sono statistiche e riguardano accomodamenti di punti ampiamente aleatori e al di fuori di qualsiasi figurazione. A questi processi possono sovrapporsi ordini non aleatori, come la ripetizione e la simmetria. Infatti è del tutto possibile generare una struttura aleatoria e duplicarla con la sua immagine allo specchio o ripeterla per un numero infinito di volte. Ci si sorprende nel constatare: 1) che la simmetria si rivela immediatamente e soprattutto, a quanto pare, a partire da coppie simmetriche situate nei paraggi dell’asse di simmetria; 2) che la
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4. Colori e figure 4.1. Le dimensioni del segnale colorato La prensione di un messaggio visivo colorato dipende da due fattori: dalla fisica dei colori, ma anche dal meccanismo di percezione dei colori. È questo che distingue colore fisico e colore fenomenologico. In sintesi, si può dire che il colore non è altro che la reificazione della prensione di alcuni stimoli fisici ondulatori da parte del sistema di ricezione. 4.1.1. Il colore fisico di una superficie colorata è definito dal suo spettro. Esso offre, per tutte le lunghezze d’onda alle quali il sistema percettivo è sensibile, il rapporto tra la quantità di luce assorbita e la quantità di luce riflessa. Questo concetto non ha attinenza, dunque, con la composizione della luce di illuminazione, che invece interviene per determinare il colore fenomenologico. La luce del giorno, per esempio, contiene in misura relativamente costante una proporzione di tutte le radiazioni spettrali visibili, cosicché la luce riflessa dagli oggetti è ciò che ci restituisce il loro “colore naturale”. Tale colore ci sembra alterato sotto un’altra fonte di illuminazione: per esempio un’illuminazione artificiale fioca a onde corte offusca la nostra percezione dei blu. Il meccanismo di percezione dei colori pone dunque due elementi in rapporto reciproco: da una parte lo stimolo nella sua globalità, costituito al tempo stesso dalla curva spettrale della superficie colorata e dalla luce d’illuminazione, e dall’altra il sistema percettivo.
D’altra parte, il colore può anche essere considerato una mescolanza tra due percetti: da un lato la luce monocromatica e dall’altro la luce bianca (“bianco energetico”). La proporzione tra queste due luci determina la saturazione dei colori. Una certa “tonalità” corrisponde a una certa proporzione di luce monocromatica nella mescolanza, proporzione che può aumentare fino a un massimo, diverso per ogni colore: si ottiene così la saturazione cromatica. Le varie mescolanze sono state rappresentate nei diagrammi tricromatici proposti a partire dal XIX secolo. In questi grafici i colori visibili si trovano in un triangolo dai lati curvi13 che ha il bianco al centro e il cui contorno racchiude le impressioni colorate prodotte da tutte le lunghezze d’onda dello spettro, dal
ripetizione non viene individuata se l’intervallo periodico non è sufficientemente breve, fenomeno illustrato dall’esempio familiare del tessuto detto pied-de-poule.
13 Perché un triangolo cromatico? Per il fatto che la visione del colore è prodotta dalle cellule coniche della retina e che tutti questi coni contengono uno dei tre pigmenti esistenti: il primo sensibile al blu (picco d’assorbimento a 445 nm), il secondo sensibile al verde (picco a 535 nm) e il terzo sensibile al rosso (picco a 575 nm). Si capisce che a livello fisiologico le tre componenti di qualsiasi impressione cromatica sono il blu, il verde e il rosso (e non il blu, il giallo e il rosso, come ci insegnavano un tempo). Il diagramma triangolare è la rappresentazione logica di un sistema cromatico che si regge sui tre recettori sensoriali. Data la comune mancanza di dimestichezza con tale diagramma, la Commissione Internazionale sull’Illuminazione (CIE) ha optato per un diagramma cartesiano in cui i colori si dispiegano creando una figura simile a una sorta di “lingua”, con il bianco al centro. L’ascissa x rappresenta la porzione (da 0 a 1) del “rosso ideale” e l’ordinata y quella del “verde ideale”, che compone un determinato colore. Il punto di origine (x = y = o) corrisponde al “blu ideale”. Questi tre colori sono detti ideali perché non sono visibili: solo i punti contenuti nella “lingua” corrispondono a colori visibili. Per un determinato brillio è sufficiente conoscere due componenti (la porzione di rosso e la porzione di verde) per trovare, dalla loro differenza, la terza. Si noterà che la linea retta obliqua che unisce i punti y = 1 e x = 1 è tangente alla “lingua” e comprende il giallo esattamente al suo centro. Una luce composta per il 50% di rosso e per il 50% di verde è gialla. Infine il punto o al centro corrisponde al 33,3% di ognuna delle tre componenti: è il bianco. Le cifre indicate lungo il contorno sono le lunghezze d’onda dei rispettivi raggi monocromatici, espressi in nanometri (nm). I punti situati lungo la base della “lingua” corrispondono a colori non spettrali: è la linea dei porpora. Alcuni teorici hanno voluto semplificare il diagramma e attribuirgli la forma di un cerchio o di un cilindro, cosa che non si è potuta fare se non forzando i dati fisici. Ostwald ha proposto un cerchio di ventiquattro sfumature posizionate intorno a quattro colori principali disposti a incrocio (verdegiallo-rosso-blu). Munsell ha presentato un cilindro le cui fasce orizzontali sono cerchi divisi in cento parti, sistemate attorno a cinque colori principali (gli stessi di prima con l’aggiunta del porpora, non spettrale). L’esitazione sul numero dei colori di base mostra la scarsa obiettività di queste suddivisioni.
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4.1.2. È possibile caratterizzare un segnale colorato sulla base di tre dimensioni: la dominante cromatica, la saturazione e la luminosità (o brillio). L’impressione che si ha del colore dipende dalla lunghezza d’onda del segnale. Se è vero che in generale percepiamo una mescolanza di lunghezze d’onda differenti (spettro), la nostra impressione del colore resta monocromatica: infatti, l’impressione prodotta da una mescolanza qualsiasi può sempre essere restituita con esattezza da una specifica lunghezza d’onda, detta luce monocromatica equivalente. È questa a determinare la prima dimensione del segnale colorato, che prende il nome di dominante cromatica.
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14 Ma è una cifra che varia a seconda degli individui e delle condizioni sperimentali cui sono sottoposti: non corre voce che gli addetti alla selezione della lana di Gobelins distinguono fino a quattordicimila tonalità?
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Verde ideale 1,0 0,9 0,8 515
520 530 Muschio Limone Giallo Ocra Arancio Salmone Vermiglio
0,7 Verde
0,3 0,2 0,1 0,0
480
470 450 0,0 0,1
a
0,4
Malv
0,5
560 565 Glauco 570 575 580 Oliva 585 590 Reseda Kaki Smeraldo 595 e g i Turchese 620 Be 650 Rosso Rosa 490 ro i f f 770 Lilla Carminio Za 485 Blu Granata B malu Pr rino ug na
0,6
Indac o Viola Porp ora
blu (420 nm) fino al rosso (70 nm) (vedi fig. 2). Un’impressione di colore identica è dunque quella che si produce nei settori che sorgono dal centro bianco e che si estendono verso le pareti dello spettro: più ci si allontana dal centro e più la luce sarà “pura” o satura, più ci si avvicina a esso e più la tonalità sarà “detersa” o “diluita” dal bianco. In questo schema, che è continuo, l’apparato di ricezione introduce una discontinuità che cambia secondo i limiti delle sue capacità di distinzione. Gran parte degli specialisti dichiara che il numero complessivo delle qualità distinguibili è dell’ordine medio dei centocinquanta.14 Queste centocinquanta sfumature sono raggruppate in alcune grandi famiglie, differentemente elaborate secondo le culture e che autorizzano a parlare di quella che viene chiamata “visione cromatica assoluta”, o capacità di identificare una tonalità isolata grazie a un termine su cui si è raggiunto un accordo. Infine la terza dimensione del segnale è la sua luminosità, che ne misura la quantità di energia radiante. L’occhio è straordinariamente sensibile alla luce e riesce a discernere solo pochi fotoni. Per altro verso, intensità troppo deboli eccitano solo i bastoncelli della visione notturna, in bianco e nero. La visione del colore è possibile per livelli di brillio compresi tra un milionesimo di candela e diecimila candele/m2. Al di là di questa intensità l’occhio viene accecato. È nei brillii medi che la sensibilità alle sfumature è massima. Su queste tre dimensioni del segnale visivo Wright & Rainwater (1962) formulano un’ipotesi interessante. Luminosità e saturazione sono entrambe percepite come variabili lineari, che evolvono ciascuna lungo un solo asse di misura (per esempio dal bianco al nero). Dunque esse sono già fisicamente lineari e qui la percezione coincide con la fisica. Non funziona allo stesso modo per la dominanza cromatica, che è circolare per la percezione (cerchio o anello di colori) e lineare per la fisica (aumento continuo della lunghezza d’onda da 380 a 750 nm). Rispetto alla sensazione cromatica, due sono allora le vie utili a combinare tra loro due colori attraverso transizioni continue. Questa caratteristica deriva dal fatto che esistono tre pigmenti colorati, che obbligano a tracciare diagrammi cromatici triangolari su una superficie a due dimensioni e non su un solo asse. Vi si aggiunge un’altra difficoltà, di non agevole spiegazione: l’im-
330 0,2 0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
0,9
1,0
Rosso ideale
Fig. 2. Designazione dei colori nel diagramma tricromatico della CIE
pressione di semplicità. Se un’impressione cromatica è in generale il risultato dell’eccitazione, per gradi variabili, dei tre pigmenti sensibili (verde, rosso e blu-violetto), ci si aspetterebbe che sia “semplice” l’eccitazione di un solo pigmento. È effettivamente quello che accade nel caso di questi tre colori, ma anche del giallo, che però risulta unicamente dall’eccitazione simultanea di più pigmenti. Sottolineiamo che il verde viene percepito come semplice e che è solo una falsa convinzione a farlo ritenere composto. 4.2. Uguagliamento e contrasto Due caratteristiche del sistema percettivo devono essere messe in evidenza: la funzione di uguagliamento e la funzione di contrasto. Intrattengono tra loro una relazione dialettica.
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4.2.1. In primo luogo il sistema è uguagliante: qualunque complessità mostri la curva spettrale (dove tutte le lunghezze d’onda necessariamente coesistono), l’occhio la percepisce globalmente come una luce monocromatica sensorialmente equivalente. In realtà, tutto nella percezione è affare di soglie. La loro esistenza, nella saturazione, nell’intensità, nel colore, dà inizio alla discretizzazione. Le stimolazioni registrate dai tre pigmenti sono considerate costanti e uguali quando non variano al di là di una certa soglia – di per sé variabile da un individuo all’altro. Si produce dunque uguagliamento spaziale quando delle zone vicine che presentano lievi differenze cromatiche sono percepite come uniformi.
4.3. La figura colorata La coesistenza delle funzioni di uguagliamento e di contrasto ha ripercussioni importanti sulla percezione della figura. La prima funzione crea, infatti, delle zone di uguaglianza nella stimolazione, mentre la seconda determina zone di contrasto. Quando una figura percepita diventa una forma, il che vuol dire se ha conosciuto diverse occorrenze di manifestazione, le disuguaglianze fisiche possono anche essere neutralizzate, come mostra l’esempio che segue: un vaso rotondo dai toni sfumati o un cartoncino piegato, semilucido e a superficie levigata (un bristol per esempio), con una delle facce in
ombra, vengono comunque percepiti come se avessero una colorazione uniforme. Si dirà che «l’osservatore tende a minimizzare i cambiamenti di luminosità registrati su una superficie percepita» (Beck 1975). Questo s’inscrive perfettamente nel postulato gestaltista di un’organizzazione del percetto nel senso della semplicità: la mancanza di uniformità è percepita, ma, anziché essere attribuita a una carenza propria all’oggetto stesso, viene colta come indice di un’informazione esterna (la provenienza della luce, la natura o la posizione della superficie riflettente ecc.). La funzione di contrasto è dunque inibita. D’altra parte, anche la funzione di uguagliamento può in alcuni casi essere inibita e si potrà allora legittimamente parlare di “scissione dei colori”. È quello che capita con la percezione della trasparenza. Gilchrist (1979, p. 95) commenta un’esperienza nella quale un libro rosso è poggiato sul cruscotto di un’auto e si riflette nel parabrezza, dal quale si vede un paesaggio. Gli oggetti verdi visti attraverso il parabrezza restano verdi e il libro rosso: la fusione – che darebbe il giallo – viene respinta in nome della conoscenza che abbiamo degli oggetti. Nel fenomeno in questione il colore della plaga trasparente è tuttavia unico e ce ne accertiamo guardandola separatamente attraverso un riquadro. Tuttavia, quando alcune condizioni in rapporto alle plaghe colorate adiacenti (continuità dei contorni e soprattutto continuità delle zone) sono soddisfatte, si vede questo colore scomporsi in due parti: la prima attribuita alla zona trasparente e l’altra attribuita a una zona opaca posta oltre. Si capisce chiaramente che la scissione non avviene a caso: le due componenti soggettive devono poter rendere, per fusione, il colore “oggettivo” della plaga. I pittori interessati a rappresentare la trasparenza non possono trascurare questo fenomeno. Se dunque, a quanto sembra, le due funzioni principali del sistema di ricezione sono complementari, la complementarità stessa è un insieme di forze rette da regole semiotiche. La più importante tra queste, palesemente presente nei due esempi, è lo scioglimento di un conflitto percettivo a vantaggio della soluzione più semplice. La visione cromatica, con il suo potere di differenziazione, porta in effetti alla distinzione delle figure, secondo lo schema descritto più sopra. Se queste figure sono ricorrenti al punto da diventare forme, la percezione prediligerà questa ricorrenza e l’unicità della forma. È espressamente quel che accade nei casi d’inibizione dei contrasti, che respingono le ipotesi sulla discontinuità o sulla pluralità delle forme: non vediamo due fogli incollati, ma un solo bristol. Ma è anche ciò che si verifica quando la funzione di uguagliamento è inibita: lì la perce-
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4.2.2. Al contrario, quando la soglia viene superata, si ha contrasto cromatico. La seconda proprietà del canale visivo è infatti il suo carattere differenziante, le cui conseguenze sono descritte dai fisici sotto il nome di “antagonismi cromatici”. Dicendo questo, si afferma che il sistema nervoso è particolarmente sensibile ai contrasti. È possibile considerare in primis il contrasto in successione, non concomitante: l’occhio diventa meno sensibile a un colore più volte ripetuto, ma ipersensibile al manifestarsi del colore complementare. Per esempio l’occhio del non daltonico, dopo avere percepito una sequenza di dieci occorrenze di verde, coglierà il minimo segnale di rosso, per quanto fievole e attenuato. Il contrasto può anche essere simultaneo: il colore percepito attorno a una plaga colorata, l’alone, è il suo complementare soggettivo. Questo alone risulta dall’influenza inibitrice della cellula eccitata sulle cellule vicine. Così, una macchia rossa, isolata su una superficie bianca, darà la sensazione dell’esistenza, nelle vicinanze, di un alone verde-blu, e una macchia verde-blu si vedrà circondata da un alone rosso.
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zione minimizza il numero delle forme, anche a rischio di elaborare un’unica forma trasparente dall’unione di due plaghe diversamente colorate o illuminate.
5. Comparsa della nozione di oggetto È a questo punto della trattazione che bisogna convocare la nozione di oggetto. 5.1. L’oggetto: una composizione permanente e funzionale In effetti, tutto quello che abbiamo mostrato riguardo ai meccanismi percettivi fa emergere l’idea che l’attività visiva, presente perfino in alcune delle sue manifestazioni più semplici, sia inseparabile da una programmazione. Questa è già geneticamente codificata nei rilevatori di figure, cosicché, per i casi dei percetti che essi determinano, si può parlare di universali visivi. Ma si è anche visto che la percezione non diventa pienamente attiva se non nel momento in cui interviene l’attività mnemonica. È il passaggio dall’occorrenza alla serie, dal token al type, che permette d’introdurre la nozione di oggetto. Qui ci spostiamo definitivamente nel dominio culturale e dunque del relativistico. Introdurre la nozione di oggetto ci fa avanzare di molto, poiché esso è il più delle volte il prodotto di informazioni che provengono contemporaneamente da più canali sensoriali (visivo, certo, ma anche tattile, olfattivo e cinestesico). Usiamo il termine oggetto a partire dal momento in cui una forma può accompagnarsi a una somma di informazioni, o, in altri termini, quando ci appare come una somma di proprietà permanenti. A detta dei ricercatori, è molto presto, nell’arco di un periodo compreso tra le prime due settimane e i quattro mesi, che si manifesta negli esseri umani la coordinazione tra canali che fino ad allora operavano separatamente. Tale coordinazione – prima caratteristica dell’oggetto – è evidentemente il frutto di un apprendimento. Dire apprendimento significa dire permanenza. L’oggetto acquisisce questa qualità allorché la sua esistenza smette di essere subordinata alla presenza di una stimolazione fisica. La permanenza nel tempo è dopotutto solo un aspetto particolare del fenomeno più generale che è l’estrazione o l’attribuzione di invarianti. Si è perfino arrivati a parlare di «sete di invarianza del sistema nervoso centrale» (Wyszecki & Stiles 1967). L’invarianza è legata a un terzo aspetto dell’oggetto: il suo carattere funzionale e pragmatico. Se la nostra percezione isola delle invarianti 20
nella massa delle informazioni sensoriali, ciò accade evidentemente in funzione di obiettivi pratici: queste invarianti sono una guida all’azione del soggetto. Le proprietà dell’oggetto diventano così fattori decisionali. Riassumendo, è possibile riprendere la formula di Maurice Reuchlin (1979, p. 80), secondo cui «l’oggetto percepito è una costruzione, un insieme di informazioni selezionate e strutturate in funzione di esperienze precedenti, di bisogni, di intenzioni dell’organismo attivamente implicato in una data situazione». 5.2. Dall’oggetto al segno Ma bisogna andare oltre. Visto che gli oggetti sono una somma di proprietà dotate di permanenza e che guidano all’azione, si può ipotizzare che questo concetto si ricongiunga a quello di segno. Il segno è infatti, per definizione, una configurazione stabile il cui ruolo pragmatico consiste nel permettere anticipazioni, richiami o sostituzioni a partire da certe situazioni. Peraltro il segno ha una funzione di rinvio che è impossibile realizzare senza la mediazione dell’elaborazione di un sistema. La funzione percettiva si salda dunque qui alla funzione semiotica. Nei suoi fondamenti la nozione di oggetto non è sostanzialmente separabile da quella di segno. Nell’uno e nell’altro caso è un soggetto percipiente e agente a imporre un ordine alla materia indistinta, trasformandola attraverso l’imposizione di una forma – intesa in senso hjelmsleviano – su una sostanza. Questa forma, dal momento in cui viene acquisita, elaborata e trasmessa per apprendimenti successivi, è eminentemente sociale e dunque culturale. È un sapere – struttura cognitiva e non più solamente percettiva – a garantirci l’unità del foglio piegato in due, come anche la differenza tra il vetro e lo spettacolo che da esso traspare. In sintesi, si vede che la percezione è semiotizzante e che la nozione di oggetto non è oggettiva. Essa è più che altro un compromesso sulla lettura del mondo naturale. Completata l’esposizione, dai fondamenti anatomico-fisiologici della percezione fino alla nozione di oggetto, possiamo ora elaborare un modello generale dell’interpretazione visiva, con l’aiuto di concetti presi in prestito tanto dalla semiotica quanto dalla teoria della percezione.
6. Riepilogo L’attività del sistema visivo (o sistema retinico), nelle sue tre dimensioni della spazialità, della testura e del cromatismo, permette di spiegare la 21
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produzione e la struttura dei percetti elementari. Rende dunque conto, ancor prima che vengano convocate le nozioni di analogia e di mimesi, di alcune caratteristiche dei codici semiotici suscettibili di manifestarsi nel canale preso in considerazione. Questo sistema analizza, integra e organizza gli stimoli, soprattutto attraverso i meccanismi dell’inibizione laterale e dell’estrazione di figure. Sia sul piano topologico sia su quello del colore e della testura, tali meccanismi hanno la funzione di accentuare, a livello della stimolazione, da una parte le uguaglianze (produzione di somiglianze) e dall’altra le disuguaglianze (produzione di contrasti). È così che appaiono il campo, con le sue caratteristiche spaziali (l’indifferenziazione), e il limite: il primo coincide con il riconoscimento di una stessa qualità traslocale (somiglianza), il secondo con una modificazione di questa qualità (contrasto). Tale distinzione sfocia nell’opposizione figura/sfondo, risultato della differenziazione o segregazione, attraverso il limite, di due o più regioni del campo. La comparsa di questo concetto provoca un cambiamento nello status del limite (o del suo analogon, la linea) che, nell’ambito dell’opposizione tra sfondo e figura, diventa contorno (o limite di una figura). La figura stessa cambia a sua volta di status quando smette di essere occorrenza per diventare tipo, innescando così un’attività mnemonica: si parlerà allora di oggetto. Questo può conoscere una complessità crescente quando, non più limitato al solo senso della vista, viene associato a informazioni provenienti da altri canali sensoriali, in vista di obiettivi pratici. Semplificando al massimo, è possibile rappresentare i tre livelli superiori dell’elaborazione percettivo-cognitiva con lo schema seguente: Tabella 1. I tre livelli dell’elaborazione percettiva livello di elaborazione 1 2 3
figura forma oggetto
status semiotico occorrenza tipo tipo
non denominabile denominabile denominabile
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base empirica proprietà visive proprietà visive proprietà visive + proprietà non visive
2. Il segno iconico
1. Il problema dell’iconicità 1.1. Critica della nozione di iconicità Il concetto di iconicità pone diversi problemi, alcuni di ordine logico ed epistemologico, altri di carattere tecnico. Gli uni e gli altri hanno portato a credere, nel tempo, che la nozione stessa di iconismo fosse un’aporia e che, di conseguenza, i sistemi teorici dovessero espungerla. Umberto Eco è stato probabilmente il maggior promotore della critica del concetto, con solidi argomenti; da La struttura assente (1968) a Segno (1973), fino al Trattato di semiotica generale (1975), Eco ha ripreso il tema continuamente. La sua critica riguarda le nozioni naïves presenti in tutte le definizioni del segno iconico, termini quali somiglianza, analogia e motivazione, che insistono sulle similitudini di configurazione tra il segno e l’oggetto che esso rappresenta.1 Così, Peirce parla di «somiglianza primaria» e dice anche che un segno è iconico quando «rappresenta l’oggetto principalmente per la sua similarità» (CP 2.276); per Morris (1946) il segno iconico ha «da un certo punto di vista, le stesse proprietà del denotato»; Ruesch & Kees (1969) vi scorgono «una serie di simboli che, quanto a proporzioni e a relazioni, sono simili alla cosa, all’idea o all’avvenimento che rappresentano»…2 1
Tutte queste definizioni provengono dal concetto di isomorfismo, che è stato sviluppato in particolare dagli psicologi della Gestalt, anche se limitatamente al loro campo di ricerca. Va chiarito che qui, come nei capitoli precedenti, facciamo riferimento all’iconismo che riguarda il canale visivo. Tuttavia non ignoriamo l’esistenza di un iconismo tattile o uditivo – le onomatopee, gli effetti sonori, le canzoni – né la stabilizzazione di queste manifestazioni dentro codici particolari (il linguaggio dei segni, l’Ameslan ecc.). Una parte del dibattito che segue vale, in ogni caso, per tutti i segni iconici. 2 Per i due studiosi l’immagine sarebbe isomorfa all’oggetto tanto quanto lo è l’immagine retinica, il che è falso (cfr. Frisby 1981). Arrivano perfino a postulare
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L’autore ha prontamente evidenziato la debolezza di queste concezioni: una data icona, un ritratto iperrealista per esempio, non possiede affatto le proprietà dell’oggetto che rappresenta (tra le altre, la testura della pelle e la mobilità del soggetto). E tentare di attenuare l’affermazione sull’identità delle proprietà con precauzioni come quella di Morris («da un certo punto di vista») o di Peirce («in linea di principio») equivale a caricaturare il metodo scientifico: si può forse dire che «l’atomo è indivisibile “da un certo punto di vista”?», ironizza Eco (1975, p. 258). Potremmo fornire ancora molti esempi in questo senso. Nondimeno, se anche accidentalmente questo punto di vista potesse essere definito, allora la concezione dell’iconismo come isomorfismo tornerebbe conforme alle esigenze della scienza. È la strada che sembra seguire inizialmente Eco: «Anche a volere rimanere sul piano della percezione, bisogna prendere una precauzione affermando, per esempio, che il segno iconico costruisce un modello di relazioni (tra i fenomeni grafici) omologo al modello di relazioni percettive che costruiamo venendo a conoscenza e ricordandoci dell’oggetto» (Eco 1970, p. 21). Ma anche questa procedura, che di fatto consiste nell’abbinare due modelli di relazioni percettive, apparirà illusoria all’Eco del Trattato, il quale eliminerà sic et simpliciter la nozione di iconismo in nome della coerenza epistemologica. L’iconismo, osserva Eco, sembra infatti definire numerosi fenomeni d’ordine diverso: dall’“analogia” degli strumenti di misura o dei computer, ai casi in cui la somiglianza tra segno e oggetto è il prodotto di regole sofisticatissime, necessariamente da apprendere, fino al caso dell’immagine speculare.3 Tutte queste espeuna ricostruzione cervicale spazialmente isomorfa all’oggetto percepito. Tutte le ricerche più recenti hanno dimostrato l’assurdità di questo assunto. 3 Già Volli (1972) faceva notare che l’aggettivo “iconico” può avere un’accezione estesa o ristretta. In senso largo, designerebbe la somiglianza di configurazione, sempre parziale, tra un segno e il suo referente. Così, a suo parere, la forma che prende la magnetizzazione su un nastro video è un’icona dello spettacolo registrato (e invece si tratta di un indice). In senso ristretto, l’aggettivo andrebbe invece riservato solo alle configurazioni che si manifestano attraverso il canale visivo; perciò si dirà che lo spettacolo visto in tv è iconico degli eventi rappresentati. L’opposizione esteso/ristretto rimanda dunque qui, esplicitamente, a un’opposizione tra il canale visivo e la totalità dei canali possibili, sebbene gli esempi forniti, in primis quelli di Eco, mostrino che essa copre ugualmente, entro un unico canale, diversi tipi più o meno sofisticati di relazioni tra configurazioni. Dovremo quindi riflettere (a) sull’ipotesi dell’applicabilità del concetto di icona ad altri canali oltre quello della visione e (b) sulla possibilità di elaborare un
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rienze non riguarderebbero la semiotica, ma essenzialmente i meccanismi percettivi. Un primo tentativo di chiarimento e di classificazione di fenomeni tanto eterogenei è stato compiuto da Nelson Goodman (1968), il quale, curiosamente, portava esempi molto simili a quelli forniti da Eco nel saggio dello stesso anno. Goodman distingue, all’interno della nozione di icona, due tipi di relazione: da un lato la somiglianza e dall’altro la rappresentazione. Queste relazioni hanno proprietà logiche ben diverse. La somiglianza è infatti riflessiva (A ρ A) e simmetrica (se A ρ B, allora B ρ A), proprietà che la rappresentazione non ha: è assurdo dire che un oggetto si rappresenta da sé (riflessività) ed è di norma assurdo dire che una persona rappresenta il suo ritratto (simmetria). Ragionamenti più empirici mostrano che somiglianza e rappresentazione non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: due oggetti molto simili non sono necessariamente portati a rappresentarsi (chi direbbe che un gemello “rappresenta” il suo Menecmo?) e, d’altra parte, la rappresentazione può essere ottenuta con l’aiuto di oggetti poco somiglianti. Goodman cita l’eccellente esempio di una tela di Constable: rappresenta un castello, ma in realtà ha molti più tratti in comune con qualsiasi altro quadro che non con un qualunque castello; e tuttavia rappresenta quel castello, e non un’altra tela. La conclusione si impone da sola: la rappresentazione, caso in cui un oggetto sta per il suo soggetto, non ha una relazione necessaria con la somiglianza. Al limite, ogni cosa può rappresentare qualsiasi cosa. È così che Goodman riscopre il principio dell’arbitrarietà. L’idea di copia va quindi abbandonata a favore di quella di ricostruzione: come si vedrà, è la posizione che anche noi assumiamo, pur tenendoci lontani dal sopprimere radicalmente il concetto di motivazione.4 modello che renda conto delle differenti tipologie di relazione tra le configurazioni visive. 4 Si deve a Tadeusz Kowzan la differenza tra iconismo e mimetismo. Per Kowzan (1988, p. 221) «il carattere iconico di un segno emerge in fase di fruizione e di interpretazione» e il suo carattere mimetico «in fase di creazione e di trasmissione», cosicché «solo i segni creati ed emessi volontariamente da un soggetto produttore cosciente, quindi solo i segni artificiali, possono essere mimetici» (ibid.). Perciò, il colore della pelle di un neonato è presumibilmente iconico – può darci informazioni sui genitori –, ma non è mimetico. Soprassediamo sull’intenzionalità e sul segno artificiale, come anche sul fatto che l’icona, così definita, diventa sinonimo di indice. Al pari di Kowzan, sottolineiamo l’importanza di tenere conto sia della ricezione sia della produzione dei segni. Se in linea con il suo lavoro continueremo
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Lasciamo Goodman, che ritroveremo in seguito, e torniamo a Eco (1975). La crisi della definizione dell’iconismo è per lui il segno di una crisi più profonda, relativa alla nozione stessa di segno. Questa nozione è condannata a non essere operativa se si tenta di ridurla all’idea di un’unità semiotica sempre in relazione fissa con un significato. Per conservarla, occorre considerare il segno come legame, rimesso continuamente in discussione secondo le circostanze, tra “testure espressive” imprecisate e vaste e inanalizzabili “porzioni di contenuto”. Tirando le somme, Eco conclude: l’ambizione di una semiotica non sarà più quella di elaborare una tipologia di segni, ma piuttosto di studiare le modalità di produzione della funzione semiotica.5 L’atteggiamento spietato della critica spiega quello che è però un errore logico: non si capisce perché il mantenimento della nozione di iconismo comporterebbe necessariamente “una teoria della motivazione profonda del segno”, di qualsiasi segno, sottraendo a quest’ultimo l’arbitrarietà insita nella sua definizione. Vedremo più avanti in che modo, dentro un modello del segno iconico, l’arbitrarietà possa coesistere con la motivazione: nel nostro sistema l’arbitrarietà sarà doppiamente presente, grazie ai concetti di “tipo iconico” e di “trasformazione iconica”. Si può anche essere d’accordo con la maggior parte delle critiche esposte qui a grandi linee, ma che esprimono l’essenza del dibattito sull’iconismo per come si protrae da una quindicina di anni.6 In ogni a parlare di iconismo, dovremo elaborare un modello in grado di chiarire entrambi i processi. 5 Tesi che costituisce il § 3.6. del suo Trattato. 6 La scuola greimasiana condivide la posizione radicale assunta da Eco, anche se per ragioni epistemologiche che ha meno ampiamente argomentato. L’indirizzo greimasiano radicalizza l’autonomia di una semiotica visiva rispetto al mondo della percezione. Per Floch (1982, p. 204) «la semiotica dei linguaggi planari nasce da Hjelmslev e fa dunque proprio il principio d’immanenza che sta a fondamento di una teoria autonoma dei segni». È una teoria che, come abbiamo detto, anche noi sottoscriviamo, senza però escludere ipso facto la possibilità di una relazione di motivazione. Nel più illuminante articolo scritto su questo argomento, Ada Dewes Botur (1985, p. 80) afferma: «L’ipotesi dell’autonomia delle semiotiche visive implica, per definizione, la loro autonomia rispetto al referente, rispetto a quell’oggetto del mondo “reale” di cui si suppone esse siano il simbolo». È una considerazione che ci porta a ridiscutere dell’iconicità delle semiotiche visive e riattualizza la distinzione tra semiotiche “naturali” e semiotiche “artificiali”, problema che ci siamo sforzati di evitare. Va ricordato – come giustamente ha fatto Eco (1973) – quanto il desiderio di reperire segni visivi che rinviino a uno a uno agli oggetti del reale, e di vedere nella pittura una descrizione del mondo, abbia rallentato
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caso nessuno dubiterà che la questione dell’isomorfismo sia stata posta finora in termini che hanno più a che fare con l’empirismo galoppante e col buon senso che non con il metodo scientifico. Ci spingiamo anche oltre, affermando che una definizione fondata su nozioni intuitive come “analogia” o “somiglianza” porta, in extremis, a due dichiarazioni contraddittorie e al contempo ininteressanti: (1) «Ogni oggetto è il segno di se stesso» (visto che ne possiede tutte le caratteristiche, secondo la definizione di Morris!), e (2) «Qualunque cosa può essere il segno di un dato oggetto» (visto che «due oggetti presi a caso avranno sempre qualche proprietà in comune»).7 La prima asserzione arriva a dissolvere la nozione stessa di segno, che presuppone necessariamente la differenza tra espressione e contenuto. La seconda provoca la dissoluzione della prospettiva semiotica stessa. La semiotica ritiene infatti che almeno una differenziazione strutturi il campo del contenuto e che la medesima cosa avvenga sul piano dell’espressione, condizione che non è soddisfatta se tutto rinvia indistintamente a tutto. Una teoria che conservi la nozione di segno iconico e che dia un fondamento scientifico alla “somiglianza tra configurazioni”, rimasta finora solo un’intuizione, dovrebbe quindi conformarsi ad almeno due condizioni. Per risolvere lo spinoso problema della “somiglianza” dovrebbe (1) rispettare il principio di alterità: chiarire che il “segno iconico” possiede caratteristiche che mostrano che non è “l’oggetto”, mettendone così in evidenza la natura semiotica – il che darebbe un fondamento razionale alla vaga formula di Morris: “da un certo punto di vista”; (2) mostrare in che modo funzionano le opposizioni e le differenze o, in altri termini, come è strutturato questo “segno”, l’organizzazione del quale è a dir poco problematica. 1.2. Critica della critica ovvero: bisogna eliminare la nozione di icona? L’insieme delle critiche mosse alla nozione di iconicità obbliga a riconsiderare il problema su nuove basi. Affrontare nuovamente l’indagine significa forse prima di tutto spingere la critica ancora più lontano ed la ricerca. Come il lettore avrà modo di verificare, condividiamo in pieno queste critiche: molti “semiologi dell’immagine” hanno continuato a interpretare iconicamente messaggi visivi ai quali la nozione di segno plastico restituisce autonomia. Le critiche puntano però soprattutto, con Eco, a stabilire una concezione naïve della referenzialità, pur lasciando intatto il problema a livello filosofico. 7 Il che ricorda il gioco surrealista in cui si mima un oggetto dentro un altro, L’un dans l’autre, espressione del trionfo dell’analogia.
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esaminare un concetto che ha attirato l’attenzione meno di quello di “isomorfismo”: il concetto di “oggetto”. A questa riflessione ci dedicheremo più avanti (§ 1.2.2.), dopo aver riformulato il tema della relazione tra il segno e l’oggetto (§ 1.2.1.). Servirà ad accorgersi che è forse possibile trovare una soluzione al problema dell’isomorfismo. Esplicitando la critica più di quanto non abbiano fatto i nostri predecessori, arriveremo, paradossalmente, a una posizione meno radicale della loro. In effetti, ricondurre il tutto a una tipologia dei modi di produzione semiotica, come fa Eco, o sopprimere il problema della referenza, come suggerisce un rappresentante della scuola greimasiana,8 non significa forse praticare la fuga in avanti (per ripicca o disperazione)? In ogni caso ci sembra che il progetto di una tipologia dei modi di produzione, per quanto valido, non elimini il problema dell’isomorfismo. Anzi, costringe a trattarlo. Svilupperemo, da ultimo, i temi della produzione e della ricezione: scopriremo che sono anch’essi fondamentali nella descrizione del segno iconico (§ 1.2.3.).
specie di produzione: è un processo che produce senso. Ma nulla indica a priori che le regole dell’una siano necessariamente le regole dell’altra. Dovendo tenere conto di questa bilateralità, saremo indotti a occuparci delle relazioni che di continuo si stabiliscono tra nebulose dell’espressione e nebulose del contenuto. Per esplorare i modi di relazione bisognerà mettere a punto un modello che renda conto dell’eterogeneità dei fenomeni fin qui classificati come iconici. L’eterogeneità è forse un effetto dello stato attuale della riflessione semiotica e presumibilmente costituisce solo un’intuizione empirica. Ma non è una ragione sufficiente per praticare la fuga in avanti da noi denunciata. Il modello dovrà rendere conto dei processi posti alla base delle definizioni naïves che abbiamo criticato. Dovrà inoltre essere abbastanza potente da permettere di descrivere la ricezione dei segni – e dunque la produzione della referenza – così come la loro produzione. Ecco le caratteristiche del modello che illustreremo più avanti, al momento di elaborare il concetto di trasformazione (§ 5).
1.2.1. Il problema della relazione Una teoria dei modi di produzione segnica non ha ragione di esistere senza una complementare teoria della ricezione di questi segni, equivalente alla prima.9 È vero che la ricezione può essere considerata una 8 Dewes Botur, op. cit. Il discepolo iconoclasta supera qui di gran lunga il maestro. La voce Iconicità del Dizionario di Greimas & Courtés (1979; vedi Fabbri (a c. di) 2007), che contiene una critica poi rielaborata nel saggio più sopra citato, riserva tuttavia un posto all’“illusione referenziale”, concetto che ricorre in maggiore misura nella voce Figurativizzazione. Ricordiamo del resto che Hjelmslev, a cui la scuola greimasiana fa spesso riferimento (cfr. Floch 1982), distingue tra sistemi semiotici e sistemi simbolici, i quali comportano solamente un piano o due legati da una «relazione di conformità» (Greimas & Courtés 1979, vedi Fabbri (a c. di) 2007, voce Semiotica), relazione che non viene chiarita. Per Floch il sistema degli «oggetti planari» è «semi-simbolico», ovvero si stabiliscono correlazioni parziali tra i due piani quando «a due figure del piano dell’espressione Sa e Sb possono essere omologati i due termini di un’opposizione del piano del contenuto» (op. cit., p. 204). Il modello che proporremo fa economia di questa categoria mal definita, stando alla quale «le correlazioni parziali creano, in qualche modo, dei micro-codici». In esso le relazioni che si stabiliscono tra type e significante sono semiotiche, così come una parte delle relazioni tra significato e referente; solo poche tra queste ultime sono di ordine simbolico. 9 Osservazione che fa anche Thürlemann (1982, pp. 63-64). Dal canto nostro abbiamo rilevato la necessità di prendere in considerazione entrambi i processi (nota 4).
1.2.2. L’oggetto Le critiche mosse da Umberto Eco prendono essenzialmente di mira la relazione iconica; tuttavia, non bisogna dimenticare che la loro fondatezza dipende dal valore attribuito agli elementi coinvolti in questa relazione. Se le definizioni naïves dell’iconismo peccano infatti in qualcosa, è anche, e forse soprattutto, per l’ingenuità con la quale descrivono l’oggetto che è chiamato a conoscere gli onori dell’iconizzazione: l’idea di “copia del reale” è ingenua innanzitutto perché è ingenua l’idea stessa di “reale”. Ora, nella maggior parte delle definizioni contestate è insita l’idea che gli oggetti iconizzati siano un dato empirico, un a priori. È questo il loro tallone di Achille. La linguistica ha bandito da tempo la concezione cosale del referente; ma quest’ultima ha vita dura in semiotica visiva (per una ragione che espliciteremo più avanti, e che chiameremo la commensurabilità tra il referente e il significante). È quindi sulla nozione di oggetto rappresentato che deve puntare la critica, tanto quanto, se non di più, che sulla relazione tra l’“oggetto” e il segno. Proprio a questa critica fanno riferimento Greimas & Courtés (1979, vedi Fabbri (a c. di) 2007, voce Iconicità): «Riconoscere che la semiotica visiva […] è un’immensa analogia del mondo naturale, significa perdersi nel labirinto dei presupposti positivisti, dichiarare di sapere che cosa è la “realtà”, di conoscere i “segni naturali” la cui imitazione produrrebbe questa o quella semiotica». Sfortuna vuole che per evitare
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lo scoglio del realismo positivista, si assume una posizione dall’alto e si opta per l’idealismo. Il nostro primo capitolo, che riguardava la percezione del mondo visivo, ha mostrato a sufficienza che gli “oggetti” non esistono come realtà empirica, ma come esseri di ragione; la loro identificazione e la loro stabilizzazione sono soltanto provvisorie, trattandosi di ritagli operati hic et nunc in una sostanza inanalizzabile senza questa partizione. Ripensando alla differenza fondamentale tra «strutturalismo metodologico» e «strutturalismo ontologico» (Eco 1968), quest’ultimo fondato sull’idea che le categorie di un modello siano strutturalmente omologhe alle relazioni che le “cose” intrattengono tra loro nella realtà, si capirà perché aderiamo in toto allo strutturalismo metodologico. Se il segno iconico ha infatti un referente, questo non è un “oggetto” tratto dalla realtà, ma sempre e comunque un oggetto culturalizzato.10 Ci si ricorderà della critica mossa da Nelson Goodman (1968) alla teoria della somiglianza. È chiaro, per lui come per noi, che è impossibile riprodurre esattamente un oggetto; un essere umano è per esempio descrivibile a svariati livelli: come insieme di atomi, come composto di cellule, come un amico ecc. Quello che si copia non è l’oggetto, ma un aspetto selezionato dell’oggetto. E lo si comunica in un enunciato in cui al content (contenuto) si mescola indissolubilmente un comment (commento). Quanto detto ci riporta a una celebre distinzione in semantica: quella che Morris stabilisce tra designatum e denotatum. Solo il designatum – «ciò di cui si ha coscienza» (Morris 1938, p. 11) – fa parte della semiosi, dal momento che il denotatum – l’oggetto reale ed esistente – ne è escluso. È un’opposizione che per quanto chiara e convincente non soddisfa 10
però del tutto: se l’oggetto “reale ed esistente” è senza dubbio da escludere dalla semiosi, la definizione di designatum fa comunque problema e contiene un’ambivalenza. Spieghiamoci meglio. Sappiamo che per Morris (1938, pp. 15-16) «il designatum di un segno è il tipo di oggetto al quale il segno si relaziona, ovvero l’oggetto che possiede proprietà conoscibili dall’interprete grazie alla presenza mediatrice del segno». Non si tratta quindi «di una cosa, ma di una categoria oggettiva, di una classe di oggetti». Tuttavia, se il designatum è una classe, una categoria, questa è de facto attualizzata in atti di enunciazione specifici. Cosa che Morris dichiara qualche riga più sotto: «I segni che si riferiscono allo stesso oggetto non hanno per forza gli stessi designata, perché ciò che si apprende dell’oggetto varia secondo gli interpreti […]. Chiedere cosa sia il designatum del segno in una situazione qualsiasi significa chiedere quali siano le caratteristiche dell’oggetto o della situazione che si conosce solamente in ragione della presenza del veicolo del segno». È da notare che il concetto di designatum copre due accezioni ben diverse: da un lato la classe o la categoria – isolata, più o meno stabilizzata e identificabile culturalmente, ma per principio indipendente dagli atti specifici di enunciazione – e dall’altro l’attualizzazione della classe in una specifica situazione di significazione. Pertanto, nelle pagine che seguono, abbandoneremo il termine designatum e separeremo i due ordini fusi finora nella nozione di “significato iconico”: il type iconico, che ricondurremo alla classe, e il referente. Quest’ultimo costituisce l’attualizzazione del type, ma non è una “cosa” antecedente alla semiosi. Il dibattito sull’oggetto sfocia in una definizione triadica del segno. Sostituisce, cioè, alle tradizionali strutturazioni binarie adottate per il segno iconico – significante/significato, espressione/contenuto –, una relazione fra tre elementi, che specificheremo qui di seguito: il significante, il type, il referente. Essi danno vita a tre tipi di relazione.
A una riflessione di questo genere, ancora oggi insoddisfacente, arriva Volli (1972). A suo avviso il processo di iconizzazione comporta due tappe. Il referente di un segno iconico non è un insieme di stimoli, ma propriamente un «oggetto già semiotizzato». Per creare una relazione motivata tra forma dell’espressione e forma del contenuto, attraverso un’operazione di trasformazione (concetto sul quale ritorneremo, vedi § 5), occorre innanzitutto fissare socialmente gli stimoli, cioè semiotizzarli reperendo i caratteri che giudichiamo pertinenti. È una precisazione preziosa, ma non esaustiva: lascia infatti supporre l’esistenza di oggetti “non semiotizzati”, sorta di “buoni selvaggi” del mondo reale, accanto agli oggetti semiotizzati, confermati dalla cultura. Tutto quello che abbiamo mostrato riguardo ai processi della percezione indica invece che dal momento in cui si fa intervenire la nozione di oggetto (cap. 1, § 5) siamo già in territorio culturale, e quindi nel semiotico.
1.2.3. La produzione e la ricezione Sia M un modello (referente) e I il suo segno iconico. È possibile scomporre I in un insieme di elementi o punti E tali per cui ognuno di essi, oltre alle sue coordinate di posizione, indichi anche il valore dell’elemento rispetto a una delle tre dimensioni visive.11 Per esempio E(x1; y1), situato in x1 e y1 sulla superficie dell’immagine,
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Quanto segue è uno sviluppo e una considerevole rielaborazione del modello proposto da Krampen (1973).
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Il segno iconico
avrebbe un certo valore di luminosità, un certo valore di saturazione e una certa sfumatura: questi tre valori definiscono il vettore colore per quel punto. In linea di principio è una descrizione che dovrebbe bastare.12 Disponendo di una lettura analitica esaustiva di I, possiamo descrivere nella stessa maniera il modello M e mettere a confronto i risultati. Se l’immagine è iconica, alcuni punti della rete dell’immagine corrisponderanno ai punti della rete del modello e altri no. La corrispondenza in questione è generalmente regolata da una o più trasformazioni t. L’insieme degli elementi di I si suddivide quindi in due sottoinsiemi I1 e I2, in modo che I1 + I2 = I e che tra M e I1 ci sia la t1 trasformazione t1: M → I1. Da dove vengono gli altri elementi, quelli del sottoinsieme I2? Possono arrivare soltanto dal produttore dell’immagine, che chiamiamo P e che può essere una macchina o un essere umano. Essendo prodotti da P, questi elementi sono, in senso lato, una trasformazione t2 di P, e t2 abbiamo così P → I1. Lo schema globale del segno iconico e della sua produzione sarà quindi: M
t1 I1
I2
t2
P
Produzione del segno iconico
Questo semplice schema ha il vantaggio di situare immediatamente l’immagine globale I in posizione mediatrice tra M e P. Visto che non c’è ragione di considerare pertinente solo la parte I1, il destinatario valuta e interpreta sia I2 che I1. Può così risalire da I1 a M, invertendo t1, e da I2 a P, invertendo t2. Turner dipinge sia Turner sia le brume di un estuario. Posto di fronte a una struttura mediatrice, l’osservatore O è anch’esso in una posizione mediatrice. Riassumendo, il segno iconico possiede alcune caratteristiche del referente, come predica la definizione classica che a breve emenderemo. Parallelamente, possiede però alcuni tratti che non provengono dal modello, ma dal produttore dell’immagine. Nella misura in cui anche
il produttore è tipizzato, il segno si mette in moto una seconda volta per permetterne il riconoscimento. In conclusione, ostentando altri caratteri rispetto a quelli del referente, il segno si mostra diverso da esso e rispetta il principio di alterità. Il segno iconico è quindi un segno mediatore con una doppia funzione di rinvio: al modello del segno e al suo produttore.13 1.3. Sintesi Per rispondere all’insieme di critiche avanzate sul concetto di iconismo, il modello assunto deve far fronte alle esigenze espresse strada facendo e che ora riprendiamo in modo sistematico: 1. Partire da un referente che (a) non sia “l’oggetto realmente esistente” – il quale è extrasemiotico ed esterno alla teoria – ma (b) un oggetto già modellizzato, (c) senza per questo essere una classe non attualizzabile. 2. Rendere conto dell’alterità del referente rispetto al segno e quindi identificare quest’ultimo in quanto segno. 3. Rendere conto degli effetti di isomorfismo tra il referente e il significante, evitando però la ricaduta in una ontologia ingenua. È un’operazione che peraltro porta a riflettere sulla decisione, tutta culturale, di considerare o meno un fenomeno semiotico come isomorfo a un referente.14 4. Valutare la molteplicità di forme di questo isomorfismo e quindi l’eterogeneità e la fragilità della relazione iconica, come anche il carattere culturale dei codici di riconoscimento che operano nell’identificazione del segno. 5. Esaminare i segni iconici tanto nella loro decodifica – identificando quindi il referente, sia pure assente o irreale – quanto nella loro codifica. 6. Esplicitare le differenze di taglia semiotica (del significante, del 13
12 Ma la grana scelta deve essere inferiore al pennello della fovea, che è di 200 secondi d’angolo. Ne risulta la scomposizione dell’immagine in una rete discretizzata. Linee, contorni e testure saranno definiti da questo sistema indirettamente, dal momento che non costituiscono le componenti ultime del segno visivo.
Facciamo notare, tuttavia, che se la trasformazione t1 è esclusivamente visiva, la trasformazione t2 non lo è affatto, anche se il suo punto d’arrivo è visivo. Definisce, per esempio, la “maniera” di un pittore, tema il cui studio non ha dato ancora risultati entusiasmanti. 14 Un segno, infatti, è tale solo in un atto di semiosi che lo istituisce nella sua qualità. Nel 1962 c’era già chi osservava: «La proprietà che ha la parola “oro” di poter essere grattata con la punta di un temperino non basta a farne un’immagine dell’oro, anch’essa passibile di venire grattata; questa proprietà non appartiene alla parola in quanto segno» (Minguet 1962, p. 46).
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type, del referente), variabili secondo le circostanze degli atti di semiosi, e considerare quindi la relatività della nozione di “unità” iconica.15 L’analisi che segue è divisa in quattro parti. Descriveremo innanzitutto, senza entrare nei dettagli, il modello appena presentato e forniremo la definizione degli elementi che vi si trovano e delle relazioni che si stabiliscono (§ 2). Ci soffermeremo, quindi, su tre diversi problemi che esso pone (§ 3). Il primo, al quale il dibattito sulla semiotica iconica ha tradizionalmente conferito una grande importanza, è quello della motivazione del segno. Il modello triadico permette finalmente di esaminare il concetto in una nuova luce, dando così una risoluzione alle questioni da noi discusse in precedenza. Il secondo problema è quello della semioticità o della non-semioticità dei fatti visivi, di grande portata teorica ma che nasce tuttavia da un pregiudizio, ovvero dalla messa in dubbio dell’esistenza stessa del segno iconico; non è stato mai chiarito per mancanza di mezzi adeguati. Si risponderà infine a una domanda che emerge da subito: che differenza c’è tra il type iconico e il significato linguistico? In seguito lavoreremo più a lungo su problemi che esigono un’esposizione dettagliata: da una parte l’articolazione dei segni e degli enunciati iconici (§ 4), dall’altra la sistematica delle trasformazioni, aspetto anche questo previsto nel modello generale (§ 5). La relativa lunghezza del capitolo si può giustificare in molti modi. In primis l’indagine vuole mantenere un certo livello di generalità, così da valere per l’insieme dei segni della comunicazione visiva. Questo non porterà a sacrificare l’analisi delle tecniche operanti nella comunicazione; sarà utile, anzi, 15
Il lettore avrà capito che stiamo provando a generalizzare il programma proposto da Floch (1982, p. 205): «Come può la semiotica mantenere l’idea dell’“arbitrarietà del segno” e rendere conto del fatto che alcune immagini danno l’impressione di una “fedeltà” al “reale”?». Rifiutare di vedere nella fotografia l’“analogico puro” non dispensa dall’elaborazione di una teoria delle condizioni semiotiche del fenomeno. Diciamo innanzitutto che la “somiglianza” è solo un effetto di senso – un’“illusione referenziale” – e non possiede alcun potere di ri-produzione. L’iconicità va allora ripensata come il risultato di un insieme di procedure discorsive che giocano, da un lato, sulla concezione relativistica di ciò che ogni cultura intende per realtà (quel che è simile per una tale cultura o una tale epoca non lo è per un’altra!) e dall’altro sull’ideologia “realista” assunta dai produttori e dagli spettatori di quelle immagini (soprattutto dagli spettatori). Si può constatare che in questo modo l’iconizzazione non è più una prerogativa esclusiva delle immagini, ma un fenomeno semiotico rintracciabile, per esempio, nei discorsi letterari.
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tenere conto delle condizioni concrete del suo funzionamento. La descrizione sfocerà in una tipologia di trasformazioni, che trova posto accanto alla tipologia dei modi di produzione semiotica proposti da Eco (1975). È un vasto territorio pressoché inesplorato: fino al nostro intervento poche componenti erano state esaminate e bisognava inoltre raccogliere i risultati parziali in un’armonica veduta d’insieme. Infine è stato forse il tecnicismo dei concetti a provocare sviluppi più estesi di quelli che un lettore frettoloso auspicherebbe.
2. Modello generale del segno iconico 2.1. Tre elementi Il segno iconico può essere considerato il prodotto della triplice relazione fra tre elementi. L’originalità di questo sistema consiste nel superamento della relazione binaria tra il “significante” e il “significato”, che fino a oggi ha posto problemi insormontabili. I tre elementi sono il significante iconico,16 il type e il referente. È la distinzione tra le due ultime entità – spesso fuse nel concetto di “segno iconico” – a permettere di eliminare le difficoltà di cui sopra. Fra i tre elementi si stabiliscono tre tipi di relazioni. Queste sono tali per cui è impossibile definire un elemento indipendentemente da quelli che vi sono correlati. Elementi e relazioni sono rappresentati nella fig. 4. TYPE
stabilizzazione conformità
riconoscimento conformità
REFERENTE
SIGNIFICANTE
trasformazioni Fig. 4. Modello del segno iconico
L’analogia con altri triangoli semiotici, e in particolar modo con quello di Ogden-Richards, è evidente. I due triangoli presentano tuttavia 16 Da distinguere di diritto, se non di fatto, dal significante plastico. I due significanti possono avere la stessa materia ma la loro sostanza è diversa, perché le loro forme sono diverse.
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notevoli differenze, soprattutto per lo status conferito al referente e per la relazione tra significato e referente, che ha qui un carattere meno mediato. Ecco perché rappresentiamo questo rapporto con una linea netta e non tratteggiata.17 Ci ritorneremo. 2.1.1. Il referente del nostro modello è un designatum (e non un denotatum, per definizione esterno alla semiosi) attualizzato. In altri termini, è l’oggetto inteso non come somma confusa di stimoli, ma come membro di una classe (il che non vuol dire che non possa essere reale; cfr. Lavis 1971). L’esistenza di questa classe di oggetti è convalidata da quella del type. Type e referente restano tuttavia diversi: il referente è specifico e possiede caratteristiche fisiche; il type, dal canto suo, è una classe e ha caratteristiche concettuali. Per esempio, il referente del segno iconico gatto è un oggetto specifico, di cui posso anche avere esperienza, visiva o di altro genere, ma è un referente solo in quanto l’oggetto viene associato a una categoria permanente: l’essere-gatto. 2.1.2. Il significante è un insieme modellizzato di stimoli visivi corrispondenti a un type stabile, che identifichiamo grazie a tratti del significante e che possiamo associare a un referente anch’esso riconosciuto come ipostasi del type. Mantiene relazioni di trasformazione con il referente (§ 2.2.1.). 2.1.3. Il type è un modello interiorizzato e stabilizzato che, confrontato al prodotto della percezione, sta alla base dei processi cognitivi. In ambito iconico è una rappresentazione mentale frutto di un processo d’integrazione, che può essere ricostruito geneticamente. La sua funzione è di garantire l’equivalenza – o identità trasformata – tra il referente e il significante, equivalenza che non è mai dovuta alla sola relazione di trasformazione. Referente e significante stanno quindi tra loro in relazione di co-tipia. Il type non ha caratteristiche fisiche; può
essere descritto ricorrendo a una serie di tratti concettuali, alcuni dei quali possono corrispondere a caratteristiche fisiche del referente (per esempio, per quel che concerne il gatto, la forma dell’animale sdraiato, o seduto o a quattro zampe, la presenza di baffi, di coda, di striature) e altri no (come il miagolio). Questi tratti costituiscono il prodotto di paradigmi i cui termini stanno in un rapporto di somma logica (per esempio il type “gatto” include il paradigma del colore – nero o rosso ecc. – e quello della posizione). La formula sarà: T = (a1 ∪ a 2 ∪ a3…) ∩ (b1 ∪ b2 ∪ b3…) ∩… Vedremo più avanti che il prodotto dei paradigmi che definiscono un type non comporta un numero fisso di termini: condizione necessaria e sufficiente è che i termini trattenuti autorizzino il riconoscimento del type, secondo un processo di ridondanza. Ogni termine comprende una serie ristretta di varianti, le quali costituiscono un paradigma. Affronteremo altrove (§3.3.) il problema della relazione tra il type così definito e il significato linguistico. 2.2. Tre relazioni (doppie) Fra i tre elementi si stabiliscono relazioni che è possibile ricostruire geneticamente, nel processo di formazione dei segni,18 o sincronicamente, nel funzionamento del messaggio iconico, emesso o ricevuto. Ci accontenteremo qui di esaminare il piano sincronico. 2.2.1. Asse significante-referente Si vede subito che questo asse unisce immediatamente i due termini, il che ci allontana dal modello linguistico. Questi termini, aventi entrambi caratteristiche spaziali, sono infatti commensurabili, peculiarità che non può essere eliminata in nome del radicalismo semiotico prima denunciato. Sulla commensurabilità si fonda quello che i teorici più raffi-
17 Convenzione che è soltanto un artificio grafico a cui non bisognerebbe attribuire significati che non ha, come ha invece fatto Francesco Casetti (1972, p. 44) in quella che potrebbe sembrare una critica anticipata: «Rafforzata la linea nel segno iconico, anzi resa esclusiva, la verità non può più essere data dal posto che l’entità occupa nel tutto, ma dalla realtà oggettuale di cui essa è insieme il sostituto e la rappresentazione. La verità, insomma, non è più la coerenza, ma è ancora l’adeguazione».
18 Nel processo diacronico si potrebbe postulare la priorità dell’asse referente-type: è il referente che produce il type. Detto più precisamente, cioè, le esperienze di ripetuta stimolazione (provenienti da un referente una volta che la semiosi conferisce questo status alla fonte degli stimoli) si stabilizzano in un type elaborato. Di conseguenza il type non ha uno status storico e antropologico ed è stabile solo in quanto rappresenta un modello: non è un’idea platonica. Per di più, non è possibile considerare l’asse referente-type in un senso unilaterale: occorre piuttosto immaginare una relazione dialettica tra il type, elaborato o in via d’elaborazione, e le esperienze del referente. È chiaro che un’esperienza unica può sfociare nell’elaborazione di un type, ma esso avrà allora solo il fragile status di una supposizione.
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nati chiamano nei loro discorsi “illusione referenziale”: alcune caratteristiche dell’oggetto vengono tradotte in segni, mentre alcuni tratti del segno appartengono esclusivamente all’oggetto.19 In termini più rigorosi, Eco parla di omologazione tra due modelli di relazioni percettive. Le relazioni sulle quali si fonda la commensurabilità, o l’omologazione, possono essere definite trasformazioni.20 Alcune di queste sono state descritte da Ugo Volli (1972), che ha tentato di comprendere la nozione di motivazione ricorrendo a concetti geometrici. Ma le trasformazioni geometriche hanno un rendimento molto basso: possono chiarire che il formato ridotto di un’icona in rapporto al referente non impedisce il riconoscimento del suo type, o rendere conto della produzione di icone bidimensionali al posto di referenti tridimensionali, ma non arrivano a spiegare la produzione di icone monocrome, il restringimento del campo di focalizzazione, i giochi di contrasto, o le equivalenze tra pittura e fotografia, foto e disegni di architettura, progetti e mappe. Alle trasformazioni geometriche di Volli occorre poi aggiungere le trasformazioni analitiche (nel senso matematico del termine), algebriche, che si fondano sulla variazione continua di dimensione, e ottiche, che prendono in considerazione le rispettive posizioni dell’emittente e del ricevente da un lato, del prodotto e dello stimolo dall’altro. Sono tutte operazioni che saranno minuziosamente esaminate nel § 5. Chiudiamo con due osservazioni. La prima è che le operazioni di trasformazione devono essere intese nei due versi – significante → referente e referente → significante – a seconda che si prenda in esame la ricezione del segno o la sua emissione. In quest’ultimo caso le regole di trasformazione vengono applicate per elaborare un significante sulla base della percezione di un referente, concreto e presente o postulato. Nel primo si applicano invece per postulare, sulla base della percezione delle caratteristiche del significante, alcune caratteristiche del referen-
te. Questa ricostruzione si fa con l’aiuto dei dati forniti dal type o da un archetipo. Prendiamo l’esempio dell’icona a due dimensioni di un essere sconosciuto ma identificabile in quanto animale: il fatto di conoscere il rapporto tra i disegni di animali e gli animali aiuta a postulare la tridimensionalità del modello. La seconda osservazione va ancora più lontano: occorre notare che le trasformazioni permettono non solo di render conto dell’illusione referenziale – quella che unisce significante e referente – ma anche di valutare l’equivalenza tra due significanti: tra una foto in bianco e nero e una foto a colori, tra una foto e un disegno a matita, tra una mappa e una foto aerea, e così via. Il modello è dunque davvero potente. Ciò che conferisce a un fatto visivo lo status di significante o referente non è il fenomeno della trasformazione in sé: il processo di attribuzione, lo vedremo, si realizza secondo un altro ordine. 2.2.2. Asse referente-type Sull’asse referente-type esiste una relazione di stabilizzazione e di integrazione. Gli elementi pertinenti tratti dal contatto con il referente vengono inseriti nei paradigmi che costituiscono il type. Nel verso opposto, dal type al referente, è possibile isolare un’operazione che consiste in una prova di conformità, i cui meccanismi sono identici a quelli della terza relazione.
Ne consegue una definizione di iconicità – discutibile, lo vedremo – legata al numero di caratteristiche comuni. Se il grado di somiglianza è molto alto e le parti non in comune sono poche, si ha il trompe-l’œil, dove effettivamente lo spettatore non distingue più il segno dall’oggetto: il segno è “preso per” l’oggetto. Al contrario, se la parte in comune è quasi inesistente, il segno diventa sempre meno iconico e tende all’arbitrarietà, come per esempio nel lambello dell’araldica, rappresentazione appena riconoscibile di un lembo di tessuto. 20 Il termine “trasformazione” non è dunque usato con la stessa accezione che ha in linguistica, dove designa il rapporto dinamico che si stabilisce tra strutture profonde, generate dalla base, e strutture di superficie.
2.2.3. Asse type-significante Essendo il type un insieme di paradigmi, gli stimoli visivi possono essere sottoposti a una prova di conformità, che rende o meno queste manifestazioni sensoriali ipostasi del type. Preliminarmente, bisogna però assumere una prospettiva che escluda lo studio della genesi del significante. Da questo punto di vista potremmo parlare di realizzazione del type, operazione mirata a selezionare un elemento dentro i paradigmi del type. La realizzazione non deve essere confusa con la trasformazione: in parole povere, un type non si può mai disegnare (o dipingere). Percorrendo l’asse nella direzione opposta, nel verso significantetype, ha luogo il riconoscimento del type. La prova di conformità consiste qui nel porre a confronto un oggetto (particolare) con un modello (generale, per definizione). Poiché il modello è strutturato sotto forma di paradigmi, molti oggetti possono corrispondere a un unico type, a titolo di significante o di referente. I criteri di riconoscimento sono di natura quantitativa e qualitativa: se il numero di tratti che autorizzano il riconoscimento ha indub-
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biamente un ruolo, la natura di questi tratti non è meno importante. Così, riconosceremo facilmente il type “gatto” se sono presenti tratti che riconduciamo ai type “baffi” e “orecchie triangolari”, senza che necessariamente si presentino insieme. La questione può essere così riformulata: se non c’è uno standard fisso per i tratti di identificazione, è necessario però raggiungere un tasso di identificazione minimo, che si ottiene tramite l’associazione libera di elementi i cui type sono in numero limitato. Il problema della relazione tra type e significante è di grande rilievo in semiotica. Edeline (1972) ha mostrato che nella semantica generale l’unità di articolazione può manifestarsi linguisticamente in un sintagma minimo, suscettibile di prendere forme sia predicative (la terra è rotonda) sia verbali (l’acqua scorre).21 La riflessione è interessante soprattutto perché mette in risalto l’origine percettiva di questo sintagma 22 e il modello 21 Esaminiamo, alla luce di questo dato, il processo di analisi che porta all’identificazione di un type e che si schematizza come segue: presenza del tratto I1→ implica D2…D3…→ verifica di questa presenza → accettazione o rifiuto. Consideriamo l’enunciato “L’oro luccica”, che contiene un’entità e una qualità, un type e un determinante, un soggetto e un predicato. Questo enunciato è deduttivo, perché va dal type all’occorrenza, dall’estensione alla comprensione. Ha la forma di una funzione preposizionale e può essere trattato alla stregua di un calcolo dei predicati. Lo si può anche ricavare sulla base di un calcolo delle classi. Per Blanché (1957, p. 143) «L’appartenenza a una classe è assimilabile a una funzione predicativa […]. Il calcolo delle classi è un semplice doppione del calcolo dei predicati […]. Un predicato (monadico) comprende una proprietà e si estende a una classe […]. L’inclusione di una funzione predicativa è il suo senso». Sia dato: «Oro ∈ [oggetti luccicanti]». Per passare da un’occorrenza al type – posizione nella quale si trova il fruitore, con la riserva espressa nella nota 36 – occorre invertire il sintagma. Ma la relazione contenuta nel sintagma minimo non è simmetrica, non si tratta per esempio di un’equivalenza. La saggezza popolare la traduce infatti con l’espressione “Non è tutt’oro quel che luccica”. La presenza del determinante “brillio” non basta a inferire l’oggetto “oro”: al massimo, un oggetto brillante è forse d’oro. La procedura è questa volta di tutt’altro ordine e si capisce che, nel caso in questione, il risultato è sempre ipotetico, che si tratti di un’induzione o di un’abduzione (la specie più immediata e più ipotetica del ragionamento per inferenza, che Peirce collegava, d’altra parte, al processo percettivo. Cfr. Eco 1988, pp. 174-177). 22 Va notato che un sintagma possiede una dimensione lineare, il che lo rende ortogonale a ogni immagine. Ma qui il sintagma traduce sia le operazioni del produttore dell’immagine, il quale lavora solo a partire dal type, sia quelle dello spettatore.
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gestaltista dell’isolamento di un’entità (soggetto) a partire da una qualità traslocale (predicato). Ogni atto di riconoscimento di un type a partire da un significante è quindi necessariamente congetturale, in virtù dello status logico di concetti, di reazioni e di processi implicati nel funzionamento del segno iconico. Lo si verifica facilmente di fronte a uno spettacolo naturale. 2.3. Per riassumere, è possibile definire l’emissione di segni iconici come la produzione, sul canale visivo, di simulacri del referente, grazie a trasformazioni applicate in modo tale che il loro risultato sia conforme al modello proposto dal type corrispondente al referente (co-tipia). Quanto alla ricezione dei segni iconici, essa identifica uno stimolo visivo come se procedesse da un referente che gli corrisponde, sfruttando trasformazioni adeguate; entrambe sono da ritenere corrispondenti, perché conformi a un type che rende conto della particolare organizzazione delle loro caratteristiche spaziali.
3. Tre questioni da discutere 3.1. La nozione di “motivazione” è ancora valida? Una conseguenza forse sorprendente della strutturazione ternaria del segno iconico è la perdita di valore del concetto di motivazione, che negli anni ha animato lunghi dibattiti (firmati Peirce, Morris, Goodman, Greimas, Eco ecc.). Questa nozione ha in sé un’ambiguità irritante, dovuta al fatto che si è voluto trovare una definizione unitaria. In realtà, è importante distinguere la sua attuazione sull’asse significante-referente da quella sull’asse significante-type. Solitamente, per motivazione si intende infatti allo stesso tempo una parziale identità fisica del significante con il referente, descrivibile tramite il sistema di trasformazioni, e una conformità ai caratteri del type. È per l’errore di non avere distinto i due assi se Eco può affermare che il segno iconico non ha elementi materiali in comune con le cose: il che è vero per il secondo asse, ma costituisce una semplificazione illecita per il primo. Rivisitiamo il concetto di motivazione per come lo presentano i nostri predecessori, e cioè attraverso due enunciati, incomprensibili se pensati separatamente. (a) Rispetto al referente, un significante è motivato quando su di esso si applicano trasformazioni che permettono di restituirne la struttura – in condizioni che descriveremo in seguito. Non è soltanto questo legame a fare però dei due elementi un significante e un 41
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3.2. Quando un fatto visivo è un’icona? Affrontiamo ora l’ultimo e importante problema, che nello specifico si può formulare così: data una serie di stimoli visivi, che cosa provoca il processo di associazione di un referente e di un type che li rende un segno? Domanda che ci si pone raramente, ma che è tuttavia indispensabile. L’associazione, infatti, non è necessaria a priori. Come osservava Goodman, se vedo un gatto, in genere non dico a me stesso «ecco l’icona della fotografia di un gatto». Goodman, però, trasformava in regola quello che invece è soprattutto un fatto esperienziale. Invero, di diritto, nulla predispone dall’interno gli oggetti ad assumere il ruolo di significante o di referente, mentre è possibile il contrario: un corpo umano può essere un segno, come nella Body Art. Il feticismo sfocia talvolta in fenomeni di perversione semiotica (?), al punto che l’ogget-
to vero e proprio della passione diventa quello che la maggior parte di noi continua a scambiare per il sostituto – eventualmente iconico – di una persona, la quale, per il feticista, è solo la pallida icona di ciò che realmente scatena la sua passione. Infine, un oggetto socialmente classificato come segno, un quadro per esempio, può essere il referente di un altro segno… La sola trasformazione non può creare la relazione iconica. Vedremo che le regole di trasformazione cui si è accennato rendono conto sia delle relazioni che si stabiliscono tra i significanti di due icone (la foto aerea e la mappa, la pittura e il disegno a matita ecc.), sia di quelle che si creano tra il referente e il significante. Sono due relazioni di cui non bisogna tuttavia sopravvalutare la differenza: da un lato, il referente di cui si parla è già un modello visivo, il prodotto di un’elaborazione percettiva codificata; dall’altro, in qualsiasi sistema semiotico, il significante è non una realtà fisica, ma un modello teorico, anch’esso elaborato da un codice percettivo, che rende conto di stimoli fisici. La letteratura semiotica abbonda, del resto, di esempi in cui uno stesso oggetto empirico riceve di volta in volta lo status di referente o di significante: dagli oggetti esposti in vetrina, squalificati come oggetti nel momento in cui diventano segni, e che avevano già attirato l’attenzione di Abraham Moles, fino ai segni definiti da Eco «occasionali», perché costituiti solo fortuitamente della stessa sostanza del referente, come la bottiglia vuota che, al ristorante, indico per chiederne una piena. In definitiva, il problema della non necessaria semioticità degli stimoli visivi, o in termini più semplici della distinzione tra oggetti e segni, è soltanto pragmatico. Per riprendere un esempio reso celebre da Eco, il bicchiere di birra il cui contenuto mi disseta e la cui temperatura rinfresca il palmo della mia mano non dovrà essere considerato un segno, ma un oggetto. Al contrario, avremo a che fare con un segno se si può utilizzare l’oggetto solo attribuendo a esso una somma di proprietà diverse da quelle percepite: le mie papille non percepiscono né il sapore né la temperatura di una birra fotografata, e tuttavia le proprietà assenti – gusto, freschezza – correlate nell’oggetto alle proprietà percepite – i colori, per esempio – possono farmi salivare (nel cap. 1, § 5 si è visto che questa correlazione è una parte della definizione dell’oggetto). A volte perciò si esita: posso essere allettato da un segno, ma a quel punto esso non è più per me il segno di un oggetto quanto piuttosto l’oggetto stesso. Globalmente, è possibile ipotizzare l’esistenza, in certe forme di comunicazione, di un’indicazione notificativa, secondo l’accezione data
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referente. E fuori dalla relazione semiotica l’idea di motivazione perde tutta la sua pertinenza. (b) Rispetto al type, un significante può dirsi motivato se è conforme a esso e ne autorizza il riconoscimento. Ma questa conformità e questo riconoscimento hanno luogo sulla base di una definizione enciclopedica. Trattandosi di un modello astratto, il type non ha, di per sé, caratteristiche fisiche e non è commensurabile con il significante. A rigor di logica, non si può rappresentare un type. Come aveva suggerito Goodman (1968), la relazione tra type e significante è dunque arbitraria. Da quel che si può vedere, soprattutto con il ragionamento per assurdo che chiude l’enunciato (a), la motivazione esiste solo quando le due condizioni, di trasformazione e di conformità, vengono simultaneamente rispettate. Oltre a essere solidali, queste sono anche gerarchiche: la prima, la trasformazione, è subordinata alla seconda, la conformità. Per potere infatti parlare di motivazione sul primo asse, è necessario che le trasformazioni siano applicate in modo tale che il trasformato e il trasformante risultino conformi allo stesso type. Preveniamo così la seguente plausibile obiezione: se è possibile applicare qualsiasi sequenza di trasformazioni a una configurazione spaziale, allora qualsiasi oggetto può dirsi motivato rispetto a un altro (davanti al disegno di un chepì, sarebbe possibile affermare: “questa è una pipa”). Va dunque sottolineato – e la precisazione è fondamentale – che le trasformazioni devono preservare la co-tipia, cioè lasciare al significante una struttura tale che quest’ultimo resti identificabile come ipostasi del type, il referente del quale è anch’esso un’ipostasi.
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da Prieto. In molti casi l’indicazione è chiara, perché esplicitata da un codice. Risiede, nel senso lato del termine, nella “cornice”. La cornice è dell’ordine dell’indice: zoccoli, siti particolari, modi di esecuzione particolari, tracce linguistiche. Una scatola di fiammiferi non è il segno di un’altra scatola. Ma se ignoro cosa sia una scatola di fiammiferi e me ne mostrano una, l’oggetto esibito diventa il segno della sua classe, per la selezione di alcune caratteristiche (la scatola della marca Gauloises vale, nel contesto scelto, per qualsiasi altra scatola, Belga o Dunhill). Quando mostro un oggetto per farne un segno, lo spoglio quindi di alcune delle sue funzioni e riorganizzo il repertorio delle sue caratteristiche: è un contesto dato, in cui intervengono regole linguistiche, sociali, gestuali… a operare la modifica. Perciò l’iconismo dipende dalla conoscenza delle regole d’uso degli oggetti, regole che istituiscono alcuni di questi in segni. La notifica può non essere esplicita come nel caso della cornice. L’ultimo esempio lo ha dimostrato. Occorre dunque generalizzare l’ipotesi esplicativa. Si può ritenere che ogni stimolo visivo sia inizialmente sottoposto a un test di semiosi, il cui risultato è influenzato da considerazioni pragmatiche, fondate su caratteristiche dell’oggetto non necessariamente spaziali. Il bicchiere di birra del manifesto, che comprende una serie di tratti appartenenti all’oggetto, può far salivare, ma alcune sue caratteristiche indicano l’impossibilità di sottoporlo a uno qualsiasi degli usi sociali per cui sono prescritti i bicchieri di birra, rivelandone così la semioticità. Tutte queste ragioni giustificano il titolo dato da H. Van Lier a un’opera che fa dell’uomo L’Animal signé (1980): la nostra riflessione non lo mostra forse impegnato in una costante e ansiosa ricerca di semiosi?23
23 La nozione di type è valida anche per gli oggetti del mondo naturale: Madonna corrisponde al type “donna”. Detto questo, qui il type non è interno alla relazione triangolare che abbiamo descritto e pertanto l’oggetto non è un referente.
va Saussure (cfr. Godel 1957), «la testa di ponte di tutta la semiologia», ma anche che la lingua, unico metalinguaggio universale, sussumeva per questo, sul piano del contenuto, tutti gli altri sistemi di segni. Abbiamo a più riprese richiamato l’attenzione sui rischi dell’imperialismo linguistico e criticato la posizione dei teorici che pretendono di ricondurre i sistemi di comunicazione e di significazione alla lingua verbale: la si ritrova di frequente perfino in coloro che si occupano di analisi dell’immagine. Avanzano la stessa critica anche Greimas & Courtés (1979: voce Iconicità), che legano esplicitamente l’imperialismo linguistico alla nozione di motivazione: vedere nella semiologia visiva «un’immensa analogia del mondo naturale» vuol dire negarla in quanto tale: «L’analisi di una superficie piana articolata consisterà, in questa prospettiva, nell’identificare i segni iconici e nel lessicalizzarli in una lingua naturale; non v’è da stupirsi, allora, se la ricerca dei principi di organizzazione dei segni così riconosciuti sia portata a confondersi con quella della loro lessicalizzazione, e che l’analisi di un quadro, per esempio, si trasformi in un’analisi del discorso sul quadro». Mantenendo la nozione di motivazione, con tutti i limiti riscontrati, dovremo ora rispondere a una domanda che il lettore non avrà mancato di porsi a proposito del type iconico, ovvero: quanto è stato descritto sotto questo nome non è, in fondo, il significato linguistico? Rispondiamo di no, invocando due argomenti: il primo è suggerito dall’esame delle relazioni rispettivamente stabilite dal type iconico e dal significato linguistico; il secondo nasce dall’esame del ruolo svolto dal metalinguaggio universale. Il primo argomento è di ordine metodologico e, per essere precisi, di tipo strutturalista. Il type non intrattiene, nella struttura del segno iconico, lo stesso tipo di relazioni con il significante e il referente che ha nel segno linguistico: lì esso serve da garante per un contratto che si stipula tra un significante e un referente commensurabili (è quello che abbiamo chiamato “co-tipia”). Se dunque il type non occupa lo stesso posto nella struttura, vuol dire che non ha la stessa natura strutturale. La seconda riflessione verte sull’argomento metalinguistico invocato da Barthes. Un “concetto percettivo”, per riprendere l’espressione di Arnheim, può sempre evidentemente produrre un significato linguistico, con quella mobilità che caratterizza il mondo del contenuto: chi fa l’analisi di un manifesto può decidere di eliminare il significato di “italianità”, come i teologi hanno potuto manipolare il concetto di “transustanziazione”.
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3.3. Type iconico e significato linguistico: dove sta la differenza? Ci si ricorderà dello scandalo suscitato da Roland Barthes quando, nel 1965, tentò di ribaltare la tesi di Saussure: mentre quest’ultimo concepiva la linguistica come parte di una scienza più ampia chiamata semiologia, Barthes era stato indotto, a seguito della fortuna della linguistica, a invertire il rapporto di subordinazione. Con quell’atto lo studioso arrivava a dire non soltanto che la linguistica doveva essere, come prevede-
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Di fatto, può esservi sovrapposizione tra type e significato linguistico nella misura in cui la percezione, legata alla cognizione, è soggetta a essere verbalizzata e perché, d’altra parte, il linguaggio verbale può suggerire dei ritagli alla nostra percezione. Ma se ne può dedurre che ogni significato di una semiotica qualsiasi ha di diritto il suo corrispondente nel linguaggio? L’atto di parafrasi, sempre possibile, dipende in realtà dall’analista. L’osservazione mostra bene che il piano del contenuto è strutturato diversamente in ogni singolo individuo a seconda che si abbia a che fare con il linguaggio o con la percezione visiva: Arnheim (1969), che ha affrontato il tema, ricorda a giusto titolo che si può padroneggiare il type “rotondità” anche senza conoscere la parola /rotondo/. Peraltro, il fatto che il type iconico sia sempre verbalizzabile non deve farci dimenticare che non è vero il contrario: non tutti i significati linguistici sono iconizzabili. Molti argomenti invitano dunque ad andare oltre l’idea superficiale che ci fa dire che il type iconico “gatto” è il significato linguistico “gatto”, per pensare invece che le due semiotiche ritagliano in modo diverso il piano del contenuto. Le due strutture del contenuto si ricongiungono, evidentemente, nell’enciclopedia di ogni cultura. È solo a questo livello che si può risolvere il conflitto, inveterato, sul primato del linguistico o del percettivo. Alcuni si schierano con le posizioni radicalmente verbaliste sostenute da Sapir e Whorf, e che ha assunto anche Barthes; altri ipotizzano che i ritagli linguistici provengano da avventure concettuali, sonore o visive. Per le ragioni elencate, noi continuiamo a prediligere la tesi dell’interazione fra strutture cognitive e stimoli. Tale interazione crea quella rappresentazione del mondo che è l’enciclopedia, alla quale sono subordinati tanto la semantica linguistica, quanto i repertori dei type iconici.
4. L’articolazione del segno iconico Il nostro approccio all’articolazione dei segni iconici e plastici si fonda su un modello di relazioni gerarchiche tra le unità. Chiamiamo determinanti le unità che forniscono il loro valore ad altre unità. Lo schema che segue mostra l’applicazione di questo sistema gerarchico al segno iconico, con una serie di concetti che definiremo più avanti.
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Tabella 2. Articolazione del segno iconico livello n+1 n n–1
significante
type
sovraentità
segno segno segno
sopra-type
ENTITÀ
TYPE
sotto-entità
sotto-type
Il principio saussuriano di solidarietà tra significato e significante ha qui applicazioni tali che, pur esaminando separatamente il significante e il type, a volte ci troveremo alle prese con problemi comuni a entrambe le categorie. 4.1. Struttura del significante 4.1.1. Entità, sotto-entità, sovraentità Il type si manifesta dentro significanti articolabili in unità di rango inferiore. L’articolazione può realizzarsi in due modi diversi. Nel primo si arriva a unità che sono esse stesse il significante di un segno iconico (una /testa/ che si scompone in /occhi/, /orecchie/, /naso/); nel secondo le unità ottenute non corrispondono a un type, ma si lasciano descrivere come semplici caratteristiche formali che autorizzano il riconoscimento del type (una /testa/ descritta come l’organizzazione di curve e di rette che intrattengono questa o quell’altra relazione). Nel primo caso parliamo di una scomposizione in sotto-entità, nel secondo di una scomposizione in marche;24 entrambe costituiscono i determinanti del significante iconico. Le nostre marche corrispondono alle proprietà globali di Palmer (1977), mentre le unità della famiglia delle entità corrispondono alle sue unità strutturali. Definendo entità 25 il significante di un type situato a un livello n, chiameremo allora sotto-entità le unità di livello n – 1 provenienti dalla scomposizione del suo significante, nel caso in cui non corrispondes24
Il termine non ha qui il senso che assume in fonologia, dove designa il tratto pertinente che, per la sua assenza o presenza, differenzia due serie di tratti a loro volta distintivi. 25 Questa parola va intesa secondo la definizione che ne dà il Robert: «Oggetto concreto dotato di unità materiale e di individualità e la cui esistenza oggettiva si fonda solo su relazioni».
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sero esse stesse a un type. La sotto-entità di un’entità determinata corrisponde così a un referente ascrivibile, in maniera stabile, a un altro referente che corrisponde a un type stabile. Il significante /testa/ è articolato in modo tale che /occhio/ e /naso/ lo determinano rinviandolo a referenti ascrivibili al referente testa e conformi a tratti costitutivi del type “testa”. Se ogni sotto-entità può a sua volta articolarsi, al livello n – 2, in nuove sotto-entità, la prima entità può, secondo l’altra procedura, associarsi ad altre entità per creare, al livello n + 1, nuovi significanti che chiameremo sovraentità: la /testa/ è costitutiva del /corpo/, il quale è costitutivo di /coppia/ o di /gruppo equestre/ o di /reggimento/ (n + 2), e così via. 4.1.2. Determinanti e determinati: uno status incerto Va da sé che gli status di determinante (la sotto-entità rispetto all’entità) e di determinato (l’entità rispetto alla sotto-entità) non sono mai fissi; la stessa osservazione vale anche sul piano del type. In un messaggio iconico o nella descrizione di questo messaggio – chiamiamoli contesto A –, un elemento significante è designato come determinato e da quel momento gli elementi che gli sono subordinati in quel contesto vengono descritti come determinanti (per esempio, un disegno in cui la /testa/ è un’entità e gli /occhi/ e la /bocca/ sotto-entità). In un altro contesto (B) un significante che rinvia all’oggetto subordinato nel contesto A può essere determinato e articolarsi a sua volta in determinanti (per esempio un primo piano su un occhio, in cui l’/occhio/ è un’entità e /ciglia/, /pupilla/ ecc. sono sotto-entità). In un altro contesto ancora (C) il significante che era determinato nel contesto A ha uno status subordinato e diventa allora determinante (per esempio la /testa/ in una /silhouette/). I rispettivi status dei determinanti e dei determinati sono fissati, come si vede, sulla base di un’istanza primaria: l’organizzazione specifica del messaggio iconico e dell’informazione che in esso è codificata.26
Subentra tuttavia una seconda istanza, quella delle costrizioni culturali che influiscono sulla “tipoteca” (riserva dei type). Infatti, se in linea di principio la fragilità dell’articolazione in determinati e determinanti non conosce limiti, né a monte né a valle, nella realtà dei fatti il processo è frenato dall’organizzazione stessa della riserva dei type. Così, per continuare con lo stesso esempio, se /naso/ è determinante di /testa/ nel contesto A, nulla vieta che possa diventare, nel contesto B, un determinato i cui determinanti sono /piramide del naso/, /ala del naso/ ecc. Si capisce, tuttavia, che è difficile, al di fuori di contesti assai specifici (un trattato di medicina o di fisiognomica, un album di primi piani), spingere l’analisi molto avanti e rendere, per esempio, l’/ala del naso/ un determinato. Questo significante non corrisponde infatti, nella competenza comune, a un type stabilizzato e sufficientemente autonomo (la stessa denominazione linguistica dell’oggetto “ala del naso” suggerisce un’assenza di autonomia). A fortiori, la stessa cosa accade ai significanti che ipoteticamente rispondano a un’analisi più dettagliata del referente. 4.1.3. Determinanti e determinati: una relazione dialettica Al fatto che la delimitazione tra determinante e determinato è incerta e fragile va aggiunto che la loro relazione è dialettica. Due sono i casi possibili. Nel primo, un insieme di tratti viene identificato come il significante di “testa”, perché vi si identificano gli /occhi/ e il /naso/; nel secondo, visto che si è identificato il type “testa” e che si sa che è organizzato in “occhi” e “naso”, i significanti corrispondenti a questi type vengono isolati, sono riconosciuti come conformi e ricevono da quel momento lo status di sotto-entità. È possibile dunque fissare due principi: un determinato può essere identificato in quanto tale o perché prima sono stati identificati i type corrispondenti ai suoi determinanti, o perché esso viene direttamente ricondotto a un type, il che autorizza l’identificazione dei suoi sotto-type, manifestati da determinanti conformi. Nella realtà dei fatti questi processi sono estremamente complessi e quasi sempre simultanei. Accontentiamoci di notare che tra determinanti e determinati è in gioco una semantizzazione reciproca, descrivibile in termini di ridondanza.
26 Si può notare che in qualsiasi tipo di enunciato iconico lo status assegnato dagli utenti agli stimoli è il più delle volte identico. Esiste quindi un consenso culturale, che stabilisce un modello di gerarchizzazione delle entità, delle sovraentità e delle sottoentità, in modo che il margine di dubbio sia relativamente ridotto. Così la rappresentazione di un cavaliere viene percepita a volte come una sola entità – il gruppo equestre – e altre come due entità – “cavallo” e “cavaliere” – ma è raro che risulti costituita, perlomeno al primo impatto, da tre o da quattro entità – “cavalie-
re”, “cavallo” e “sella” o ancora “cavaliere”, “uniforme”, “cavallo” e “sella”. Riprenderemo la questione al momento dell’analisi della struttura del type (§ 4.2.)
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Il segno iconico
4.1.4. Marche L’articolazione del significante in determinanti è circoscritta. Oltre un certo limite, le entità che corrispondono a dei type cessano di articolarsi in sotto-entità corrispondenti a type subordinati. È tuttavia possibile descriverli come il risultato dell’articolazione di manifestazioni iconiche complesse. Chiamiamo marche tutte le manifestazioni definite dall’assenza di corrispondenza con un type. Così, nell’ipotesi in cui non esistesse un type “piramide nasale”, la manifestazione significante leggibile come /linea verticale/ o /linea obliqua/, secondo il contesto, sarà detta marca. Per rendere chiaro quanto segue, i nostri esempi di marche saranno costituiti da forme. Ma va da sé che le marche possono anche essere cromatiche e testurali. L’opposizione tra marche ed entità suggerisce evidentemente un parallelismo con la distinzione linguistica tra unità di prima e unità di seconda articolazione: alle entità, provviste di significato, corrispondono i type, mentre le marche hanno solo una funzione distintiva. Attenzione, però: l’analisi per marche non è necessariamente successiva all’analisi per sotto-entità, ma può al contrario essere compiuta simultaneamente.27 In altri termini, è sempre possibile fare economia di un’analisi del significante per entità: lo si può direttamente analizzare per marche. Così, nello schema di “testa”, l’entità /testa/ può certo ar-
ticolarsi nelle sottoentità /occhi/ e /naso/, ma può anche essere direttamente scomposta in marche (/contorno circolare/ + /superatività/, per esempio). È possibile completare la definizione di marca precisando che è uno stimolo descrivibile indipendentemente dalla sua eventuale integrazione in un significante iconico, ma che concorre all’identificazione di un type e dunque all’elaborazione di un significante iconico globale, cosa che le dà una finalità.28
27 Altra differenza con il modello fonologico: non solo la lista delle marche non è descrivibile in modo esaustivo, ma queste, soprattutto, non hanno un valore fisso. È infatti possibile associare a un type diversi significanti, essendo questi ultimi costituiti da insiemi di marche che possono variare: il type “viso” è identificabile a partire da significanti costituiti da /segmenti di rette/ o da /segmenti di curve/, o di /colore bianco/, o /rosa/ ecc. La commutazione dei determinanti /rettilineo/-/curvilineo/ non è quindi necessariamente pertinente. E non serve obiettare affermando che commutazioni del genere dovrebbero essere considerate pure variazioni fono-stilistiche, in cui le diverse esecuzioni di una forma sono le ipostasi di un unico modello teorico, cosa che lascerebbe intatto il parallelismo. Questa commutazione potrebbe infatti, in altri enunciati, persino modificare le entità e, di conseguenza, i type. In termini più semplici, e per riprendere l’esempio, la commutazione /retto/-/curvo/ può a volte modificare la natura del type identificato. Ne discende che se l’entità è davvero una forma (nel senso hjelmsleviano del termine), questa non è data prima dell’enunciato, come accade nel sistema linguistico: la si conferisce all’entità e ai suoi elementi costitutivi, le marche, solo attraverso l’identificazione di un type. Contrariamente a quel che accade con il significante linguistico, non si può dire che il continuum delle realizzazioni sia segmentato in modo stabile attraverso classi teoriche di unità.
28 Non bisogna confondere la marca con l’unità plastica. Il concetto ha una natura iconica, perché la selezione di una marca in un enunciato è soggetta all’identificazione dell’entità: poiché abbiamo identificato l’entità /naso/ o l’entità /viso/ in quel determinato enunciato, uno stimolo (una curva, per esempio) riceve lo status di marca (/curva/ costitutiva del naso, o di uno zigomo). Quindi non si tratta, di diritto, di un’unità plastica, anche se a volte è possibile descrivere le manifestazioni fisiche della marca iconica e dell’unità plastica nello stesso modo. Lo prova il fatto che in un enunciato la ripartizione delle marche può non coincidere con la ripartizione delle unità plastiche. Per esempio, sul piano iconico, è possibile distinguere, attraverso il riconoscimento del type “testa”, solo una marca cromatica, riferibile alla sotto-entità /capigliatura/, mentre sul piano plastico nulla vieta di distinguere due o tre unità plastiche. Il critico d’arte potrebbe così parlare della “gradazione” di questa stessa capigliatura. 29 Questa lista di sottoentità e di marche nasce da un’indagine condotta nel 1983 su un campione di studenti universitari. È stato chiesto loro, senza precisazioni di sorta, di disegnare una testa. I risultati ottenuti rivelano una coerenza stupefacente: nella maggior parte dei casi la testa è isolata, frontale, asessuata o maschile e molto schematica. La doppia lista contiene le sottoentità e le marche presenti in più della metà dei disegni e in più della metà delle analisi che su questi sono state successivamente svolte.
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4.2. Struttura del type 4.2.1. Riconoscimento del type Quanto detto permette di tornare sul tema del riconoscimento del type (§ 2.2.3.) e di precisare che cosa bisogna intendere per “tasso minimo di identificazione”. Riprendiamo l’esempio dell’unità /testa umana/. La sua identificazione è assicurata nel momento in cui si compie un’operazione di integrazione per sotto-entità e/o per marche. Le liste di sotto-entità (s) e di marche (m) non sono chiuse, perché la lista dei sotto-type di un type costituisce un insieme incerto, come la lista delle forme che corrispondono a un dato referente. Di esse è però possibile proporre un esempio29:
Trattato del segno visivo
(a) /testa/
(b) /testa/
= s1 s2 s3 s4 = m1
m2'
m2"
Il segno iconico
(/occhi/) (/orecchie/) (/naso/) (/bocca/) (/superatività/; posizione rispetto a un’entità integrata a una sovraentità conforme al type “corpo umano”) (/curvatura/; o, più precisamente, linea curva che tende alla chiusura) (/circolarità/; o, più precisamente, contorno inscrivibile in un cerchio o in un ellissoide)
Test empirici dimostrano che l’identificazione ha luogo, in maniera costante, quando avviene il confronto con alcuni abbinamenti di s e/o di m; in altri casi, è impossibile. Così, l’identificazione si realizza per (s1 + s2' + m2") ma non per (m2") o (m2'). Da ciò emerge l’esistenza di una gerarchia tra determinanti, corrispondenti a una gerarchia di sotto-type. Alcuni sono molto pregnanti, consentono un’agevole identificazione del type e sottolineano con forza il grado di ridondanza del messaggio. Il produttore di messaggi iconici può quindi scegliere fra strategie fondate su tratti molto o poco pregnanti, così da raggiungere o da superare la soglia d’identificazione. Va notato infine che l’identificazione è dovuta anche molto alla posizione dei determinanti. Così, un tratto rettilineo che viene identificato come occhio quando è situato in una data porzione di spazio e delimitato da un contorno che è la marca del significante /testa/, non lo è più se collocato in un’altra porzione dello stesso spazio. Può allora essere identificato, per esempio, come bocca. 4.2.2. Type, sotto-type, sopra-type Il type, che come abbiamo detto non ha caratteri visivi, può però essere descritto tramite una serie di caratteristiche, di cui alcune visive e altre no, che entrano in un insieme di paradigmi i cui termini stanno in relazione di somma logica. Esaminiamole con più rigore. Cominciamo con l’osservare che non esiste una definizione sostanziale di che cosa è un’entità e di che cosa è una sotto-entità (sono qualità che scaturiscono dalle relazioni reciproche e dal livello di analisi in cui 52
ci si situa), né esistono oggetti che in sé sarebbero type: ogni singolo type può essere percepito sia come parte di un insieme, sia come ciò che costituisce un insieme. Si potrebbe allora parlare di sopra-type – il “cavaliere” sarebbe per esempio parte del sopra-type “gruppo equestre” – e di sotto-type – “occhio” come sotto-type di “testa”. I tre status del type, del sotto-type e del sopra-type sono quindi funzione del livello di analisi. In linea di principio i livelli di analisi sono in numero illimitato, tanto verso l’alto quanto verso il basso: se un’entità è riconosciuta vuol dire che la si identifica per la sua appartenenza a un type. Questo implica il suo appartenere a tutti i sopra-type che inglobano il type, come nella seguente catena: “Julie”, “pezzata nera”, “mucca”, “bovino”, “ruminante”, “quadrupede”, “essere animato”, ogni anello della quale è collegabile ad altri sopra-type: “bestiame”, “animale domestico” ecc. Tuttavia, non diversamente dall’analisi in sotto-determinanti che, in linea di principio illimitata, nei fatti si ferma però entro un certo limite – cosa che ci ha spinti a riconoscere l’esistenza di una certa stabilità percettiva –, anche il processo che porta a costituire i sopra-type e i sottotype in type non può in pratica proseguire all’infinito: lo frenano alcune constatazioni. Solo gli specialisti percepiscono, per esempio, il type (ben stabilizzato) di una “cornamusa” come un sopra-type composto dall’unione dei type “canna”, “sacca”, “bordone grande”, “bordone piccolo”, “ancia”. La selezione di un dato livello dell’analisi sembra essere determinato da tre fattori: (a) la presenza di determinanti particolari (la lunghezza di un naso induce a stabilizzare la lettura al livello “Cyrano” o “de Gaulle”, piuttosto che al livello “umano”); (b) il contesto iconico (la presenza di un pennacchio determina l’identificazione “Cyrano”); (c) il contesto pragmatico (la presenza dell’immagine di una mucca in un enunciato che sappiamo afferente al codice della strada ce la fa leggere come “bestiame” e non come “vacca charolais” o “essere animato”). Identificati i type, i sopra-type emergono spesso come raggruppamenti di type che intrattengono tra loro relazioni instabili, o semplicemente provvisorie. Con tutta evidenza, è l’ideologia a fissare i livelli ideali di stabilità tipica, sempre rivedibili. Non va dimenticato che nella nostra civiltà domina una concezione antropocentrica, per la quale “l’uomo è la misura di tutte le cose”. 4.3. Type e usi Abbiamo definito il type come una somma di paradigmi. Precisiamo adesso che alcuni di questi corrispondono a un sotto-type, il quale corrisponde a sua volta a una sotto-entità sul piano del significante. La pre53
- spostamenti del contrasto - filtraggi sostitutivi - proiezioni - trasformazioni topologiche
- traslazioni - rotazioni - spostamenti - congruenze
Sostituzione (±)
Permutazione (~)
- integrazioni - anamorfosi
- attenuazioni di contrasto - contrazioni di profondità - restringimenti del campo di nitidezza - filtraggi negativi - differenziazioni - discretizzazioni - omotetie negative
- inversioni (negativo)
- accentuazioni di contrasto - dilatazioni in profondità - ampliamenti del campo di nitidezza - filtraggi positivi - indifferenziazioni - continuità - omotetie positive
Ottiche
−
Cinetiche
cisazione acquisterà piena importanza quando affronteremo i problemi posti dalla retorica iconica. Altri paradigmi, tuttavia, non si lasciano descrivere come sotto-type. Rispecchiano il più delle volte relazioni che il type mantiene con type provenienti dall’enciclopedia. Chiamiamo queste relazioni usi. La proprietà che ha la mucca di dare il latte, che è un tratto del type, è per esempio descrivibile come una relazione funzionale tra i type “latte” e “mucca”. Gli usi danno l’impressione che i referenti dei segni possano entrare in configurazioni che corrispondano, al limite, a sopra-type. Ma la stabilità di questi sopra-type fa problema: il fatto che i pesci stiano preferibilmente in acqua non impedisce che li si possa facilmente immaginare, anche vivi, non in relazione con l’acqua. Ciò che è in causa qui è dunque il grado di coesione delle rappresentazioni nell’enciclopedia.30
−
Il segno iconico
−
Trattato del segno visivo
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Soppressione (-)
Aggiunta (+)
Geometriche Operazioni
Queste riflessioni ci liberano dalla distinzione che una retorica iconica poco rigorosa potrebbe avanzare. Sarebbe possibile infatti postulare l’esistenza di una “retorica degli oggetti” da un lato, dove il grado zero sarebbe il type per come esiste nell’enciclopedia, e di una “retorica delle relazioni tra gli oggetti” dall’altro, in cui il grado zero sarebbe il modello delle relazioni intrattenute dai type, sempre per come esiste nell’enciclopedia. Si tratta, in realtà, di una differenza non di natura, ma di grado: nel primo caso, si percepiscono relazioni tra sotto-type, data la forte pregnanza del modello integrativo che costituisce l’entità; nel secondo, nessun modello impone la percezione degli stimoli come sotto-type integrati a un type ed è allora legittimo parlare di “relazioni” tra type.
Famiglia di trasformazione
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Tab. 6. Sistema delle trasformazioni
5.0. I problemi tecnici posti dalle trasformazioni ci impegnano a far uso di una certa raffinatezza. Non è nostra intenzione liberarcene facendo esclusivamente appello a nozioni di geometria elementare. Nondimeno, bisognerà partire proprio da lì, seguendo l’esempio di Ugo Volli (1972) e di René Thom (1973), i quali hanno stilato un inventario delle trasformazioni geometriche presenti nella relazione d’iconicità. Il ricorso alla geometria è infatti inevitabile nella misura in cui l’immagine, e anche il suo modello, «sono necessariamente forme estese nello spazio» (Thom). Vedremo subito che le trasformazioni geometriche sono solo la parte più semplice dell’insieme di operazioni che portano al segno iconico.
Analitiche
5. Il sistema delle trasformazioni
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La nozione di segno iconico, osservava Eco (1973), «ricopre una grande varietà di operazioni produttive fondate su convenzioni e operazioni precise; classificare e analizzare queste operazioni è il compito di una teoria più sviluppata di quella che conosciamo e ancora a venire». Nel nostro approccio consideriamo quattro famiglie di trasformazioni: geometriche – cui abbiamo appena fatto riferimento – ma anche analitiche, ottiche e cinetiche. Sono operazioni condotte su unità e variano a seconda della famiglia di trasformazione. Possiamo descriverle con l’aiuto di quattro operatori logici fondamentali, che sono l’aggiunta (+), la soppressione (–), la soppressione-aggiunta (±) e la permutazione (~). Il tutto fornisce una matrice generale a 16 caselle, che presentiamo qui a titolo di piano di lettura delle pagine che seguono. Per spiegare nel modo migliore possibile tutte queste tecniche, ricorreremo a esempi concreti come il contrasto in fotografia, il carboncino o la vetrata, senza entrare tuttavia nel dettaglio. Lo scopo finale, lo abbiamo già detto, non è definire la specificità delle quattro famiglie. 5.1. Trasformazioni geometriche L’inventario di Volli (1972) è più completo di quello di Thom (1973), ma per le nozioni di geometria elementare ci serviremo anche del trattato di Bouligand (1951), più dettagliato. 5.1.1. Accoppiamenti semplici Si definiscono figure accoppiate quelle in cui si passa dall’una all’altra secondo una certa legge. Sia F la prima e F' la seconda. È possibile allora definire diverse leggi, ognuna delle quali genera la nascita di un type di trasformazione. Elenchiamo di seguito questi type, cominciando dalle trasformazioni più semplici.31 a) Traslazione Tutti i punti di F danno tutti i punti di F' attraverso vettori equipollenti, dunque paralleli: l’operazione provoca la nascita di segmenti uguali. Nel linguaggio corrente diremo che la figura si ritrova, identica, in un altro punto dello spazio. La produzione del segno iconico comporta, in questo caso, una traslazione. b) Rotazione Tutti i punti di F' si ottengono a partire dai punti di F tramite la 31 Per chiarezza d’esposizione, tutti gli esempi di trasformazioni geometriche sono dati a partire da disegni a matita. Ma non era obbligatorio: le operazioni esaminate valgono altrettanto bene per le figure ombreggiate o sfumate.
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rotazione di un angolo attorno a un centro O. La legge che caratterizza questa trasformazione è la conservazione degli angoli e delle lunghezze. In parole povere, la figura resta identica, ma cambia il suo orientamento sul piano. c) Simmetria Nella simmetria relativa a un centro O, si passa da tutti i punti M di F al punto corrispondente M' di F' tramite un segmento a destra tale che O sia sempre il centro di MM'. Nella simmetria relativa a una retta D, si passa allo stesso modo da M a M' con un segmento tale che la retta D sia sempre la mediana di MM'. In entrambi i casi, si conservano ancora le lunghezze e gli angoli. La figura è identica, ma “rovesciata”. d) Omotetia Le omotetie non conservano più le lunghezze. Per esempio, in una omotetia che ha per centro O rapportato a K, si passa da M a M' in modo che OM' ––– = K. (La figura risulta ridotta o ingrandita; v. fig. 6). OM
La caricatura è allora un esempio di trasformazione retorica geometrica, perché il suo sviluppo consiste nel non adottare un rapporto di riduzione (fattore di omotetia) costante. In Grandville (ill. 1) i sei personaggi e il cane hanno infatti teste sproporzionate rispetto al resto del corpo e, limitatamente alla testa, fronti troppo alte e lontane dal mento.
1. Jean-Jacques Grandville, La meilleure forme de gouvernement, 1844
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5.1.2. Accoppiamenti complessi Le diverse trasformazioni elementari possono comporsi secondo operazioni di somma geometrica (+), di sottrazione (-) o di uguaglianza geometrica (::). Alcune famiglie di trasformazioni generano, così, gruppi interessanti, come per esempio gli spostamenti, che sono la composizione di una traslazione e di una rotazione, le similitudini, prodotto di uno spostamento e di una omotetia, o le congruenze, composizioni di traslazioni, rotazioni e riflessioni. Torniamo ora sui principali type di trasformazioni e sulla loro disposizione a formare segni iconici. Si noterà così che la congruenza mantiene le proprietà metriche, proiettive, eidetiche e topologiche delle figure, ma non il loro orientamento. Rende conto perciò dell’affermazione secondo cui «due entità che abbiano la stessa forma sono segni iconici possibili l’uno dell’altro». È il caso del calco o anche dell’impronta, per lo meno se si prescinde dalla differenza di materiale tra l’impronta e l’oggetto che l’ha prodotta, differenza di ordine indicale. I riflessi, o immagini allo specchio, sono anch’essi congruenze. Ecco un semplice grafo che illustra la congruenza:
Queste trasformazioni, benché apparentemente semplici, possono complicare notevolmente il riconoscimento dei type. L’esperienza mostra che è facile essere portati a considerare le variazioni che riguardano il significante come differenze di referente: uno stesso disegno, in scala diversa, sembra rinviare a volte a un “bicchiere”, a volte a un “vaso”, a volte ancora a un “secchio”. Con le proiezioni ci si allontana ancor di più da quello che appare intuitivamente come un puro raddoppiamento della figura. Le trasformazioni proiettive sono molteplici: possono essere polari, piane, cilindriche, sferiche ecc. Esempi: M
M’ M O
O N F
N’
M’ N’ R’
F’
F’
N R F
Fig. 7. Proiezione F
F’ Fig. 5. Congruenza
Anche le omotetie meritano attenzione: sono trasformazioni che mantengono alcune proprietà della figura, in particolare gli angoli, ma non le lunghezze né l’orientamento. Rientrano in questa tipologia i noti “triangoli somiglianti” o in generale le “similitudini” di figure. Rendono conto dell’idea secondo cui il plastico di un immobile è un segno iconico di quest’ultimo. È possibile includere, nello stesso ambito, l’ingrandimento o la riduzione, siano le trasformazioni fotografiche o di altro genere. Esempio:
F
F’ Fig. 6. Omotetia 58
È il caso di quei numerosi segni, soprattutto foto e disegni, che proiettano su una superficie piana oggetti tridimensionali.32 Le proiezioni sono generalmente deformanti e delle figure conservano soltanto alcune proprietà proiettive – per esempio “essere una linea retta” o “una curva di secondo grado”, ma non “trovarsi nello stesso piano” – e topologiche – per esempio “stare all’interno di”. Qui sono in gioco tutti i sistemi prospettici classici, e molti altri, per esempio quelli utilizzati per preparare le carte geografiche. Se «la mappa non è il territorio», ne è però il segno iconico, per il tramite della proiezione.33 32
L’ombra è allora una proiezione affine. L’interesse pragmatico per sistemi di proiezione diversificati è evidente. Così, gli artiglieri traggono vantaggio dallo studio comparato dei diversi sistemi di proiezione cartografica, come Mercator, UTM, Lambert-Nord de Guerre, Peters… Alcuni mantengono gli angoli, altri le linee rette o i rapporti di lunghezza. Mercator, per esempio, proietta a partire dal centro della terra tutti i punti del globo su un cilindro tangente all’Equatore. La posta in gioco delle proiezioni non è però soltanto pragmatica. Se si è potuto gridare “Demercatorizziamoci!” e di recente proporre un planisfero secondo la proiezione di Peters, rispettando la superficie relativa dei paesi, è accaduto perché le trasformazioni possono, in un clima di 33
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Un esempio più banale e meno sofisticato di trasformazione per proiezione è la freccia o la scritta dipinta sull’asfalto di una strada malamente anamorfosizzata (emissione), ma che l’automobilista vede nelle proporzioni conformi al type atteso (ricezione). Agli occhi di chi vede la freccia anamorfosizzata (dalla parte alta di un edificio, per esempio) quella è l’icona di una freccia non anamorfosizzata. Di qui emerge però soprattutto il limite dell’anamorfosi, che accentua la polisemia dell’icona, potendo l’iconizzante rinviare a un numero illimitato d’iconizzati. Esempio:
F
F’
Fig. 8. Anamorfosi per proiezione
Le trasformazioni topologiche34 conservano soltanto alcune proprietà molto elementari, come la continuità delle linee, l’interno e l’esterno, l’ordine. La linea retta può allora diventare curva, gli angoli possono scomparire, le superfici e le proporzioni cambiare. In questo modo, a livello topologico, un triangolo, un cerchio e un quadrato, mantenendo tutti invariabilmente l’opposizione interno vs esterno, non sono diversi, mentre lo sono una curva aperta, una griglia o un intreccio. Esempio:
L’ingresso di queste trasformazioni nel nostro universo è storicamente recente, almeno nel loro utilizzo più pieno, cosa che nota bene Saint-Martin (1980): coincide con gli schemi, con i diagrammi, gli organigrammi ecc. Tra gli esempi particolarmente significativi ricorderemo: la mappa del metrò, che non è una mappa propriamente detta – basta esaminare la mappa del metrò di Londra, in cui le equivalenze puramente topologiche sono molto più evidenti di quelle della mappa parigina (ill. 2); le riproduzioni dei circuiti elettrici (ill. 3); alcune carte stradali o mappe di città.35 Ma pensiamo anche alle trasformazioni operate da Miró nei suoi quadri (ill. 4). In alcune opere della Optical Art, soprattutto nelle composizioni in bianco e nero di Vasarely (ill. 9), troviamo inoltre configurazioni che mettono bene in risalto l’equivalenza topologica tra i cerchi e i quadrati.36 5.2. Trasformazioni analitiche A dispetto dell’opinione comune, l’inventario delle trasformazioni non si ferma alle manipolazioni geometriche. Queste, infatti, non sono in grado di spiegare fenomeni lampanti quali la differenza tra un disegno a matita, un dipinto su una superficie piana e una fotografia in rilievo. Intervengono qui altre trasformazioni, più raffinate e difficili da notare, forse proprio perché sembrano andar da sé. Noi descriveremo la differenziazione e il filtraggio, con alcune delle loro modalità. Le chiamiamo trasformazioni analitiche perché dipendono da un’altra branca della matematica, l’analisi.37
consapevolezza o meno, impregnarsi di senso: Peters dà spazio ai paesi in via di sviluppo, cosa che Mercator non aveva fatto. 34 Le strutture topologiche formalizzano le nozioni intuitive di vicinanza, prossimità, interno, esterno, frontiera, ispirate alla nostra percezione dello spazio (Delachet 1949).
35 Per contestare la tesi dell’iconismo, Eco si è servito anche dell’esempio della mappa del metrò, che ha per lui soltanto un valore «simbolico», in quanto risultato di una convenzione che «traduce» il tracciato reale sinuoso in linee rette inscritte sul piano, e il dedalo di corridoi delle stazioni in un cerchio colorato. Il lettore avrà riconosciuto in questo preteso processo “simbolico” una trasformazione topologica: la mappa conserva l’ordine delle stazioni, una sua proprietà – la chiusura – e una proprietà della strada – la continuità. 36 Appartengono alle trasformazioni geometriche anche gli effetti ottenuti con obiettivi fotografici speciali, come il fish eye, e quelli di alcune delle «trappole visive» di Escher, come le chiama Vasarely (1978). 37 I concetti matematici utilizzati sono tra i più elementari dell’algebra e della geometria analitica. Li spieghiamo con estrema semplicità pensando ai lettori ai quali non sono familiari.
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F
F’
Fig. 9. Trasformazione topologica
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4. Joan Miró, Al sorgere del sole, 1959, illustrazione per le Costellazioni di André Breton
2. Piano della metropolitana di Zurigo
5.2.1. La differenziazione Questa parola va intesa in senso strettamente matematico, cioè come disamina delle differenze. Sia data una curva, che rappresenti graficamente una funzione, la quale esemplifichi a sua volta un fenomeno. Per l’ambito delle immagini consideriamo, per esempio, una grandezza fisica come la luminosità, 38 che varia da un punto all’altro di un campo di visione. Se tracciamo un asse OX su una zona qualunque del campo e muoviamo lungo quest’asse uno strumento sensibile alla luminosità – e quel che più conta: di una sensibilità identica a quella dell’occhio –, lo strumento darà un segnale che potremo registrare graficamente. La fig. 10 illustra le tappe del nostro ragionamento. Se A è lo spettacolo percepito inizialmente – chiamiamolo il “tra3. Circuito elettrico
38 Ricordiamo che luminosità e brillio sono, in fisica, sinonimi. I trattati moderni tendono ad abbandonare il termine “brillio” a vantaggio di quello di “luminosità”.
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sformato” – B è un’immagine di esso conforme al punto di vista della luminosità. Sottoponendo l’immagine B a una trasformazione per differenziazione, otteniamo C, che è una “derivata”. Si vede che qui il tracciato dà zero per tutte le zone di B in cui il segnale è costante. Quando il segnale aumenta, si ha una derivata positiva, che passa da un massimo per il punto in cui la caduta è massima (per esempio nel punto M). Questo massimo sarà tanto più elevato quanto più la caduta è forte. È possibile ottenere dei picchi molto accentuati sulla derivata, anche per i cambiamenti deboli di L; è sufficiente che i cambiamenti siano repentini (per esempio nel punto N). Inversamente, quando il segnale diminuisce in B, la derivata prende valori negativi.39 L’aspetto interessante della differenziazione è che il segnale derivato torna sempre a zero quando si trova tra due picchi, e che in qualche modo l’informazione che contiene è localizzata nelle bande strette. È un trasformato. È possibile far subire una seconda differenziazione al tracciato B, il che comporta la differenziazione di C. Si ottiene allora la curva D (in cui il simbolo d2L/dx2 si spiega da solo), dove ogni picco di C si sdoppia in due picchi, uno positivo e l’altro negativo: è un po’ come se, scavando un fossato, utilizzassimo la terra per costruire una diga proprio accanto. Le transizioni dall’immagine originale emergono così ancora più intensamente.40 Questi commenti sulla geometria analitica permettono di cogliere la natura profonda del disegno al tratto. Esso costituisce una trasformazione differenziale del campo percepito: ogni picco corrisponde a un punto nel tratto, e tra i tratti non c’è nulla, o per essere più precisi, c’è uno spazio neutro in quanto vettore d’informazione. La trasformazione analitica è apprezzabile per il suo interesse economico e strumentale, perché consente di rappresentare uno spettacolo complesso attraverso interventi del tutto locali. Allo stesso tempo, però, attiva un modello di lettura o di decifrazione secondo il quale il massimo dell’informazione si concentra nelle transizioni.41 Ciò che si 39
X
A. Scorrimento dell’immagine O
Luminanza
B. Luminanza reale
L(x)
N M O X dL dX
C. Prima differenziazione
M
X
O
N d2L dX2
D. Seconda differenziazione
M N
X
Figura 10. Differenziazione
ottiene è una lettura del trasformato, e più precisamente una semiotizzazione.42
Il simbolo dL/dx fa semplicemente riferimento al fatto che si confrontano le differenze di intensità luminosa (dL) registrate per spostamenti infinitamente piccoli lungo l’asse OX (dx). 40 Ci si imbatte in una doppia differenziazione ne La colazione di Paul Signac. 41 È un dato che innumerevoli esperienze confermano, sia nel campo del linguaggio sia in quello dell’immagine. È vero per la linea come transizione tra due
zone vicine e lo è anche lungo la linea stessa, lì dove cambia più bruscamente di direzione. 42 Il funzionamento del sistema nervoso negli organi percettivi è stato oggetto di esame nel cap. 1; chiaramente, è essenziale sottolineare che il cervello è fisicamente predisposto a realizzare differenziazioni, grazie alle connessioni nervose che innescano l’inibizione laterale.
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5.2.2. Il filtraggio e la discretizzazione È possibile pensare l’informazione visiva come una rete di punti esplorabili con atti di perlustrazione.43 Tutta l’informazione concentrata in un “punto” si fonde inevitabilmente in uno stimolo medio che raggiunge il nostro occhio, il quale analizza e produce in risposta un segnale nervoso s, sotto forma di un vettore a tre componenti:
Filtraggi
[]
dove L = luminosità (o brillio) S = saturazione formano un sottoinsieme D = dominante cromatica
}
Ogni segnale s è quindi un punto in uno spazio a tre dimensioni, come lo è, per esempio, lo spazio dei colori nella rappresentazione di Munsell (v. cap. 1, fig. 2). Ora, è plausibile ignorare una o due componenti del vettore e operare così una proiezione di punti su un piano (se si sopprime una componente) o su una retta (se ne sopprimiamo due). Chiameremo questa trasformazione filtraggio. A dire il vero, la componente non è soppressa, viene semplicemente fissata: mantiene un valore costante e smette di essere una variabile. Allo stesso modo, invece di selezionare per una componente un solo valore fisso, si può decidere di attribuirgli due o più valori discreti, escludendo ogni variazione continua del parametro considerato. Si ottiene, in questo caso, una tipologia meno radicale di filtraggio, più o meno intermedia tra lo sfumato illimitato e la fissazione arbitraria di un valore unico. Chiameremo questa nuova trasformazione, che è un filtraggio incompleto, discretizzazione. Sulla base di questi due concetti diventa possibile classificare le diverse varietà di filtraggio ed esaminarne le modalità di impiego nella pratica delle immagini. Sopprimendo ogni volta una delle tre componenti, così come ognuna delle tre ipotetiche coppie di due componenti, avremo sei possibilità teoriche, esposte nella tab. 7.
DISCRETIZZATI
DIFFERENZIATI
FS/ –› D, L
- sul piano - plaghe uniformi
- offset o serigrafie a due valori
- riserve - smalti cloisonnés - linea chiara
FD/ –› S, L
- monocromie - cammeo - sanguigna - seppia - blu
policromie ristrette: - uso dei soli colori primari - incisioni su legno Beniye ceramiche di Rouen
non sfruttato
FL/ –› S, D
Inutilizzato
Idem
Idem
FS/ –› L
- bianco e nero - grigio - acquarello
- tratteggi - trama - incisione a 2, 3, 4 intagli
- disegno a matita
FS/, L/ –› D
Inutilizzato?
Idem
Idem
FL/, D/ –› S
Inutilizzato?
Idem
Idem
SEMPLICI
L S D
COMPLETI
DOPPI
s (L, S, D), o anche
Tabella 7. Sistema dei filtraggi
43 Il termine “punto” non deve essere inteso qui nel senso geometrico di inestensione, ma come zona del campo corrispondente all’angolo solido minimo distinguibile dall’occhio, vale a dire rispetto al potere di discriminazione umano (circa 200 secondi d’arco).
5.2.3. Combinazioni e usi tecnici Le cose si complicano quando si realizzano combinazioni tra il filtraggio e la differenziazione, o quando il filtraggio si ferma alla discretizzazione. È per ottenere la discretizzazione che si impiegano, per esempio, soltanto due valori di saturazione o che si decide di usare solo colori primari (es. Van der Leck, Mondrian, Matisse, ecc). Siamo debitori a M. Guillot (1978) di alcuni apprezzabili esempi tradizionali di policromie a due colori. Il primo è quello delle ceramiche di Rouen con decorazione a raggiera (inizio del XVIII secolo), limitate di
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solito al blu e al rosso arancio. Il secondo è quello del Beniye, tipologia di incisione su legno giapponese, praticata soprattutto da Harunobu, il quale utilizza solo due pigmenti, il rosa pallido e il verde pallido. Il caso più frequente di filtraggio doppio è quello che porta al bianco e nero.44 Ma la discretizzazione può anche essere il prodotto di altri parametri e qui ci riferiamo chiaramente a uno dei meccanismi della stilizzazione, che esamineremo in dettaglio nel cap. 6. Combinato a una differenziazione, il filtraggio completo F → L dà il disegno a matita, mentre il filtraggio parziale F → D, L, che elimina solo la saturazione, dà origine alla tecnica delle riserve e della compartimentazione, ben nota per gli smalti. Un tempo questa procedura era quasi universalmente utilizzata per il fumetto e definita “a linea chiara” da Hergé. Le plaghe colorate hanno prevalentemente un valore di ridondanza distintiva rispetto al tratto. Si pensi al maglione blu del capitano Haddock, ai golf rossi di Tintin, al pelo bianco di Milou. Osserviamo ora le diverse forme del disegno a matita. I picchi delle figure 10C e 10D sono resi analogicamente da tracciati lineari ottenuti per mezzo di strumenti diversi. Il loro numero è sorprendentemente ridotto nei codici accademici: mina di piombo con i suoi diversi gradi di durezza, carboncino, sanguigna, gesso (su lavagna nera o verde), pennellata (su ardesia), inchiostro applicato al pennello, alla penna, al pennino e alla penna stilografica. In sintesi si può dire che una schiacciante maggioranza di tecniche preferisce il nero su fondo bianco o il bianco su fondo nero e che queste autorizzano tutte il filtraggio doppio F → L. Una tecnica assai diffusa di matita colorata è la sanguigna. La fig. 11 tenta di mostrare che la matita morbida o il carboncino restituiscono un segnale molto simile ai picchi della derivata della fig. 10c. Gli altri strumenti producono al contrario un segnale quadrato, non sfumato ai bordi, ovvero un segnale a due valori. Si tratta dunque di una trasformazione per discretizzazione, che si aggiunge alla differenziazione. Ma le soglie della discretizzazione non sono sempre massime o nulle; al contrario, si può cercare di suggerire anche parzialmente il modellato,
Carboncino
L
Matita dura 3H
L
Tiralinee
L
X
X
X
Fig. 11. Discretizzazione e differenziazione
Per ragioni percettive e non solo (a dispetto di quel che si crede) strumentali: è solo perché i bastoncelli dell’occhio permettono una visione soddisfacente in condizioni di crepuscolo che abbiamo potuto sviluppare, parallelamente all’immagine a colori, l’immagine in bianco e nero. Le ragioni strumentali intervengono anche nella fotografia, sovradeterminandola.
ristabilendo una parte del segnale non differenziato. Se il carboncino non è sufficiente, si può fare ricorso alla sfumatura o ad altre attenuazioni o al tratteggio e al suo sistema estremamente complesso, discreto o codificato (particolarmente elaborato nell’incisione). Il tratteggio è simile alla trama fotografica: entrambi sono trasformazioni della luminosità per discretizzazione ed hanno un impatto sulle testure. La discretizzazione arriva dunque a stabilire un certo numero di soglie – non necessariamente due – nella grandezza dell’una o dell’altra componente del vettore immagine: il bianco e nero, i colori primari, l’orientamento dei tratti ecc. Oltre a un particolare sistema di tratteg-
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44
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gio, l’incisione ha messo a punto un sistema discretizzato di rappresentazione di mezze-tinte: l’incisione a due taglie, a tre taglie, a quattro taglie. L’orientamento dei tratti viene invece soprattutto discretizzato con multipli di 45° da Van der Leck, nella sua Natura morta con bottiglia, da Cézanne, in La strada vicino al lago (tav. 1), da Juan Gris, in Natura morta con lampada a olio, e da molti altri.45
un contrasto equivalente per il positivo e il negativo). Chiamiamo γ il rapporto di trasformazione del contrasto, misurato dal rapporto log. del contrasto del negativo γ = –––––––––––––––––––––––––– log. del contrasto del soggetto
5.3.1. La trasformazione La tab. 7 fa emergere, in modo molto interessante, lo sfruttamento di tutte le possibilità, eccetto quelle che implicano la fissazione della componente L (brillio o luminosità). A prima vista, però, non sembra che queste siano irrealizzabili: si tratta solo di produrre un’immagine uniformemente luminosa. La nostra capacità di controllo su questo fattore non è probabilmente tanto forte da ottenerla, a meno che non si ritenga, in fondo, che il risultato non abbia importanza. Ma se l’uomo non è in grado, ci saranno delle macchine che potranno, basta solo tentare. Tutti siamo sensibili al fattore luminosità, tanto è vero che il fotografo dispone di tutta una vasta gamma di lastre, rigide o flessibili, che permettono di modificare il contrasto di un’immagine. Per il fotografo il contrasto è il rapporto di luminosità tra le zone periferiche del “negativo” e il “soggetto così com’è percepito dall’occhio”. Questi deve infatti tenere conto dei contrasti, non necessariamente equivalenti, tra il soggetto, il negativo e il positivo (più avanti svilupperemo l’ipotesi di
Quindi γ è l’attenuazione (se γ<1) o l’accentuazione (se γ>1, come per i negativi ultra-rigidi detti “a tratto”, in cui γ può raggiungere un valore che va da 2 a 9) data al contrasto del soggetto. I negativi comuni sono sviluppati con 0,7< γ<1 e quindi sono per lo più attenuati rispetto ai soggetti: i contrasti di questi negativi (in logaritmi) variano da 1 a 1,4 (dettaglio che ci consente di farla finita con l’idea che la fotografia sia il grado massimo “naturale” dell’iconicità). La soppressione totale del contrasto si esprime con γ=0: non è certo possibile nel bianco e nero (avremmo un grigio indifferenziato), ma solo nell’immagine a colori,46 in cui equivarrebbe al filtraggio F S, L→ D. Siamo qui di fronte a un criterio logaritmico, quello dei decibel, che rinvia alla legge di Fechner. Che ne è, per altro verso, del contrasto offerto dagli spettacoli naturali e dai quadri dei musei? Ci riferiamo, in proposito, alle misure pionieristiche adottate da Lapicque (1958), che restano tuttora valide. Il contrasto fra gli estremi offerti in natura può spingersi fino a 300 000 000 (8,5 in unità logaritmiche), ma questi estremi non si presentano mai simultaneamente: di fatto, i rapporti di luminosità, dentro quello che Lapicque chiama “angolo solido pitturale”, percepito dall’occhio immobile, variano da 6 a 15 (ovvero da 0,8 a 1,2 in unità logaritmiche). Per limitare al massimo questo scarto, il pittore dispone di colori-pigmenti commerciali tali per cui, dal bianco più bianco al nero più nero, il contrasto è pari a 50. Il contrasto prodotto dagli artefatti umani è quindi maggiore di quello che si trova in natura. Con esperimenti di controllo al museo del Louvre, Lapicque ha dimostrato che il pittore riduce in realtà il contrasto disponibile riportandolo esattamente al livello della sua resa negli spettacoli naturali.47 Propone un certo numero
45 La nostra tabella prevede anche “filtraggi positivi”. Sono delle aggiunte. Ci chiediamo, però, a cosa possa corrispondere “un’aggiunta di colore”. Bisognerà allora ricordare che una delle proprietà delle trasformazioni è di essere simmetriche (vi ritorneremo nel § 5.5.1.). È perciò possibile rivestire di colori uno spettacolo in bianco e nero. Su questa opportunità contavano i fabbricanti di filtri rifrangenti, che davano l’illusione del colore ai poveri possessori della tv in bianco e nero, nel tempo in cui il technicolor era fuori portata, se non un sogno.
46 I contrasti si misurano con l’aiuto di un densitometro o fotometro mobile. Oltre al polo teorico dove γ=0 (soppressione totale dei contrasti), esiste un altro polo teorico dove γ=∞ (“nero assoluto” e “bianco assoluto”). 47 Nel valutare questo fatto non bisogna dimenticare che a luminosità elevate la sensibilità dell’occhio alle sfumature diminuisce. La “lingua” della fig. 2 (cap. 1) si riduce alla fine a una “linguetta”, che va dal bianco al giallo. È a luminosità medie che un pittore può giocare al meglio con le sfumature. Pierre Getzler fa notare che,
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5.3. Trasformazioni ottiche Questo gruppo di trasformazioni influisce sulle caratteristiche fisiche dell’immagine nel senso ottico del termine. L’ottica geometrica – come si sa – è la scienza che ha per oggetto le leggi della riflessione e della rifrazione. Le nostre trasformazioni sono tutte ben conosciute dai fotografi e riguardano i raggi luminosi, nella loro intensità e nella loro convergenza spaziale.
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di raggruppamenti all’interno di una classificazione poco rigorosa, ora completata da noi con dati più recenti. Nella tabella che segue le misure di Lapicque sono contrassegnate da un asterisco.
Spettacoli naturali Massimo possibile con i pigmenti del pittore Massimo possibile nella stampa e nella fotografia
* Pittura impressionista e affine (Cézanne, Pissarro, Sisley, Monet, Guillaumin) * Pittura “antica” (Van Eyck, Memling, Vermeer, Velázquez, Zurbarán, El Greco, Corot) Trattamento normale delle foto * Pittura “classica” (Ingres, David) Stile noir (Fumetti 1938)
contrasto
γ
da 6 a 15
–
50
1,74
?
9?
da 3 a 6
0,64
da 6 a 12 da 1,5 a 15 da 10 a 20 ≈100
0,95 da 0,7-1,0 1,18 ≥2
5. Harold Foster, Prince Valiant, 1937
prese su tele antiche, le misure di Lapicque possono essere state falsate da ombre o alterazioni di pigmenti e di vernici. Queste alterazioni porterebbero però a sottostimare il γ reale delle opere, tanto più perché sono antiche. Il ventaglio dei γ reali, corretto, sarebbe allora più ampio e le nostre conclusioni ne uscirebbero rafforzate.
Esiste però un’altra categoria di immagini che presenta «un’applicazione volontariamente brutale del chiaroscuro pittorico» (Couperie 1967): è lo stile noir dei fumetti, apparso intorno alla fine degli anni 1938-40 negli Stati Uniti e reinterpretato oggi da Hugo Pratt. Questo stile impiega il contrasto massimo disponibile nella stampa, ovvero il γ≥2. In qualche rara occasione lo si porta a una discretizzazione estrema delle luminosità: solo due livelli nello stile noir contro i quattro nel procedimento del double-tone. Quest’ultimo permette di avere, oltre al bianco e nero, due grigi, con il gioco di due reti di tratteggi incrociati e prestampati su una carta speciale. Le reti si manifestano grazie a due rilevatori diversi, il primo dei quali fa vedere la rete dei tratteggi, l’altro i tratteggi incrociati (ill. 5). Osserviamo che è del tutto possibile mantenere la gradazione di un referente in un significante, anche spostandolo “in blocco” verso valori scuri o chiari: anche questa è una trasformazione. Esempi illustri del primo caso provengono dalle incisioni di Goya e di Bresdin, in cui l’“oscuramento” sistematico è evidentemente carico di significato. Per finire, con la pura e semplice inversione delle luminosità si ottiene il negativo. È un effetto familiare ai fotografi, per forza di cose, ma che si incontra anche nei disegni a matita chiara su carta scura e nelle silhouette. In sintesi scopriamo che la luminosità, pur non essendo propriamen-
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Tabella 8. Gioco sulla trasformazione γ
Le ultime osservazioni portano a pensare che i pittori, pur lavorando generalmente con un γ pari a 1, possono però distaccarsi significativamente da questo valore. È l’aspetto che ha caratterizzato l’arte degli impressionisti, i quali hanno assunto un γ attenuante: γ=
log (3 a 6) –––––––––– log (6 a 15)
=
log √3×6 ––––––––– log √6×15
= 0,64
Bisognerebbe infine riprendere gli studi di Lapicque applicandoli al chiaroscuro, procedimento che consiste nel localizzare ed esagerare i contrasti. Rilevamenti su un pittore come Georges de La Tour otterrebbero, a questo riguardo, risultati euristici.
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te filtrata – in questo caso, infatti, non si sopprime nulla, si modifica piuttosto una scala – è tuttavia l’oggetto di una trasformazione che è necessario includere nella definizione di iconismo. Proponiamo di chiamarla trasformazione γ. 5.3.2. Nitidezza e profondità di campo Dai fotografi mutuiamo non solo il concetto di contrasto luminoso per la trasformazione γ, ma anche quelli di nitidezza e di profondità di campo, per farne la base di una nuova trasformazione. Nella visione normale (Déribéré 1959) esiste un angolo di visione solido (±140°) nel quale si distinguono più zone concentriche. Al centro (1°) si situa la “zona di visione nitida o foveale”, che possiede il massimo di discriminazione delle forme e dei colori. Allontanandoci verso la periferia, troviamo in successione un “campo centrale” di 25°, poi un “contorno” di 60°, mentre il resto costituisce il “campo periferico”. È chiaro che l’occhio, non essendo fisso, può scorrere l’immagine e spostare la sua zona di visione nitida su qualsiasi punto del campo. Ciò nonostante, gli è impossibile vedere simultaneamente tutta l’immagine con la stessa nitidezza: ritroviamo quindi la dimensione temporale che, contrariamente all’opinione comune, non è per nulla assente nella comunicazione e nelle arti visive. Infine, la visione binoculare permette di apprezzare la distanza di un punto nel campo, aggiustandosi su di esso. Solo questo punto appare allora nitido, mentre il resto, che sia più vicino o più lontano, risulta sfocato. Ora, a partire da questa visione fisiologicamente normale, è possibile esplorare alcune trasformazioni interessanti dell’angolo di visione, della zona di visione nitida e della profondità di campo. I fotografi sono abituati a cambiare la lente dell’obiettivo e quindi l’angolo di visione, grandangolare o a lunga focale. Si passa così da 18 a 35 mm nel primo caso e da 85 a 200 mm (addirittura a 1200 mm per alcuni teleobiettivi) nel secondo.48 La zona di visione nitida, come faceva notare Vasarely in un passo allo stesso tempo lungimirante e tagliente,49 ha indotto gli artisti alla sperimentazione di “trucchi” e di
“inganni”. Nei casi in cui l’intero piano dell’immagine presenta una nitidezza costante, come nella pittura antica e classica o nella fotografia comune, l’occhio percepisce questa nitidezza solo localmente, nel corso del suo movimento, lasciando il resto sfocato. Questo tipo d’immagine è dunque fruibile come fosse uno spettacolo del mondo naturale e tutti i suoi punti offrono una visione stabile. Per contro, se si esamina un dipinto il cui centro è nitido e i bordi sfocati (per esempio, un Renoir), l’occhio troverà una visione fisiologicamente soddisfacente solo fissandone il centro. Tutti gli altri punti, a differenza di quanto avviene negli spettacoli naturali, forniscono una visione sfocata. Un dispositivo del genere riesce evidentemente ad attirare lo sguardo verso il centro in modo efficace. La profondità di campo può invece essere fortemente ridotta da un obiettivo a lunga focale poco diaframmato o viceversa notevolmente aumentata da altri dispositivi. I pittori medievali e moderni attribuivano di solito la stessa nitidezza agli oggetti vicini e lontani, il che crea uno scarto per l’occhio sensibile, che si adatta alla distanza unica della tela e non alle presunte distanze degli oggetti in essa rappresentati.50
Un pittore può ottenere lo stesso effetto senza difficoltà, ma nessuno ha mai condotto studi sui musei in questa prospettiva. Ci sarebbe materiale per una ricerca interessante. 49 «A partire dal XVI secolo la maggior parte dei pittori ha trascurato la verità del piano per fare dell’occhio la misura suprema. Stabilendo una stretta correlazione tra il campo visivo e il quadro, gli artisti hanno incontrato difficoltà insormonta-
bili. Per loro, infatti, il più grande difetto della percezione è quello di non essere rettangolare. Poiché è lo sguardo umano a perlustrare il campo visivo, il pittore è costretto a conferire uno status artificiale all’occhio. Guardando un personaggio o un oggetto, percepiamo allora un’immagine precisa, ma circondata da un alone sfumato. Come iscrivere questa sensazione incerta nei contorni netti di un rettangolo o di un ovale? Per rispettare la verosimiglianza del campo visivo i pittori del passato, pur continuando a dipingere fino ai bordi della tela, si sono cimentati nell’uso di innumerevoli trucchi e di inganni incredibili: oggetti e personaggi principali sono immersi in un bagno artificiale e appaiono circondati da scuri drappeggi, mentre nelle zone d’ombra si ammassano comparse poco illuminate. L’elemento plastico del motivo centrale fluttua dunque in uno spazio superfluo, come un riempimento che non ha alcun interesse pittorico» (Vasarely 1978, p. 20). 50 Il gioco sulla distanza focale è una trasformazione molto ben studiata già da Ejzenštein, nel 1927. L’effetto ottenuto da un obiettivo di 28 mm «deriva da un assottigliamento prospettico della profondità, considerevolmente più marcato e fluido che nell’occhio normale» (Ejzenštein 1980). In altri termini, produce un’esagerazione dell’impressione di profondità. Ejzenštein definisce anche l’ethos di questa trasformazione, che è «l’oggetto estatico», capace di riunire in una sola percezione entità otticamente disgiunte: si rende «simultaneamente visibile l’estremamente lontano e il molto vicino». Ora, secondo lui, questo effetto è caratteristico degli stati fisici di narcosi o di estasi. Lo studioso chiama in causa i disegni di oppiomani come Cocteau o alcune tele di El Greco come Il Cristo nel Giardino
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5.4. Trasformazioni cinetiche Raggruppiamo sotto questa voce trasformazioni di tutt’altro genere, che a differenza delle altre non presuppongono un rapporto statico tra l’osservatore e l’immagine, ma implicano lo spostamento dell’osservatore rispetto a essa. È tale spostamento a modificare il rapporto tra il significante e gli altri elementi del segno. Parleremo essenzialmente di integrazione e di anamorfosi, casi che portano direttamente alla multistabilità. In una visione riduttrice e accademica del problema si potrebbe pensare che i tratteggi di un’ombra siano tracciati non per essere visti in sé, ma per costituire un espediente volto a colmare le lacune del disegno a matita. Questo espediente sarebbe, al contempo, possibile grazie alle peculiarità del nostro sistema percettivo e annullato dal suo funzionamento. Si tratta, tuttavia, di una petizione di principio, che rifiutiamo per sostenere, al contrario, che il funzionamento delle trame e dei tratteggi poggia su alcune proprietà del nostro sistema sensoriale, le quali, essendo prevalentemente proprietà di integrazione, attirano l’attenzione sui concetti di ordine vicino e di ordine lontano, ben noti nell’estetica informazionale (Moles 1971). Basta distanziarsi da un’immagine per veder emergere l’ordine lontano, perché il pennello visivo abbraccia a quel punto zone sempre più ampie, nelle quali tutta l’informazione è automaticamente sommata e mediata. Si ottiene lo stesso effetto socchiudendo le palpebre (contraendo cioè il globo oculare e interponendo la cortina delle ciglia, che, come una rete di diffrazione, mescola gli stimoli provenienti da aree vicine). L’esistenza, dentro una stessa immagine, di un ordine vicino e di un ordine lontano, implica quella delle due distanze e offre una percezione stabile. Lo dimostra l’esempio di un’immagine non troppo accuratamente tramata – il belinogramma – ma altrettanto chiari sono i casi della pittura impressionista o puntinista. Questi fenomeni riguardano in parte la cosiddetta testura, terza componente del segno visivo dopo la forma e il colore. Nelle testure l’ordine vicino non ha significato iconico e costituisce una sorta di microtopologia dell’immagine. Ma ci sono casi (Arcimboldo, Dalí…) in cui la prossimità rivela una seconda immagine iconica. Siamo sicuri che l’integrazione sia una trasformazione allo stesso titolo del filtraggio o della differenziazione? A questa domanda bisogna
rispondere affermativamente, precisando però che se il filtraggio e la differenziazione sono trasformazioni in absentia (ci è dato di vedere solo il trasformato), l’integrazione è per così dire una trasformazione a vista, in praesentia, come l’anamorfosi, che gioca a sua volta sull’angolo di visione piuttosto che sulla distanza. Già studiata sul piano geometrico, l’anamorfosi presenta peraltro due funzionamenti distinti. Il primo è basato sulla multistabilità e fa vedere alternativamente due immagini in una sola; il secondo è invece basato su un effetto cinetico: da qualsiasi punto osserviamo la Gioconda, lei continua a guardarci. 5.5. Trasformazione, iconismo e retorica Soffermiamoci ora su tre questioni di diversa importanza relative alla trasformazione. La prima riguarda alcune proprietà che la nostra classificazione non fa emergere forse a sufficienza. La seconda verte sull’ipotesi di una “scala d’iconicità”, formulata a più riprese e in parte evidentemente legata alle trasformazioni. La terza verte sul carattere possibilmente retorico di ogni trasformazione.
degli Ulivi. La prospettiva estatica esercita sullo spettatore un potente effetto di attrazione e «lo immerge all’interno della tela».
5.5.1. Alcune proprietà delle trasformazioni Si è mostrato che l’iconismo stabilisce una certa distanza tra il referente e il significante, distanza descrivibile con una serie di trasformazioni di cui abbiamo stilato un primo inventario e sviluppato alcune proprietà generali. Ma c’è un altro fattore da prendere in considerazione: quello dell’omogeneità delle trasformazioni. Si può dire che una trasformazione è omogenea o eterogenea se incide o meno sulla totalità del campo da trasformare. Fin qui abbiamo lavorato solo sulle operazioni in sé, relative al livello della competenza. Passando al livello della performanza, e considerando la produzione degli enunciati, ci si aspetterebbe forse che le operazioni agissero in essi uniformemente. Di fatto, però, una piena omogeneità si ottiene soltanto negli enunciati realizzati con mezzi di riproduzione specifici, come la camera oscura o la camera chiara. E poi, quale fotografo non si preoccupa di eliminare le anamorfosi che compaiono ai margini delle sue foto? Gli enunciati iconici procedono molto spesso per serie eterogenee di trasformazioni. È un dato sul quale lavorano, come vedremo, parecchi enunciati retorici. I trattati di geometria ci insegnano che le famiglie di trasformazioni formano un gruppo quando contengono ogni trasformazione e il suo contrario e due trasformazioni con la loro risultante. Così, costituiscono gruppi le trasformazioni lineari, gli spostamenti, le similitudini.
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Chiamiamo equivalenze le trasformazioni che sono simmetriche, riflessive e transitive: l’uguaglianza, la similitudine e la congruenza. Sotto la stessa definizione annoveriamo la trasformazione specifica di quella particolare branca della geometria che è la topologia: è la cosiddetta omeomorfia, che si contraddistingue per il fatto di essere biunivoca e bicontinua (quindi anche ordinata). L’aspetto interessante di queste teorie è che forniscono una descrizione estremamente rigorosa di due osservazioni intuitive concernenti le immagini, cui si è accennato al momento di affrontare il problema dell’iconizzazione (§ 3.2.): a) le trasformazioni iconiche sono reversibili o meglio simmetriche. Nelle figure accoppiate F e F' si può dire che F è l’immagine di F' e viceversa. Questo in effetti può creare esitazioni. Occorre a un certo punto distaccarsi dalla teoria delle trasformazioni per distinguere l’immagine dal suo modello; b) le trasformazioni iconiche sono componibili tra loro o meglio transitive: Carlo V può essere dipinto e il suo ritratto può a sua volta essere fotografato; la fotografia è sempre una trasformazione del referente. Si possono mettere in atto operazioni retoriche giocando sia sulla prima, sia sulla seconda di queste proprietà e di tutte resterà traccia nell’immagine finale. È anche possibile intervenire combinandole, caso in cui può accadere che la seconda trasformazione annulli del tutto la prima (un ingrandimento seguito da una riduzione, per esempio). 5.5.2. Trasformazione e scala di iconicità Nella nostra teoria la trasformazione è un’operazione che riguarda un insieme di tratti spaziali attribuibili a un referente. Gli stimoli subiscono, al momento della produzione di un significante che intrattiene con essi una relazione di co-tipia, un cambiamento sia nella loro natura (valore, colore, luminosità…) sia nelle loro relazioni (proporzioni, contrasti, orientamenti…). Ma, come si è più volte sottolineato, ogni modifica lascia sussistere un’invariante, che in sostanza costituisce il supporto fisico dell’iconismo: è in termini approssimativi “ciò che resta dell’originale nella copia” e che giustifica (cfr. § 3.1.) il mantenimento del concetto di motivazione. La trasformazione cambia e conserva allo stesso tempo, e la parte conservata, se si vuole assicurare il riconoscimento, deve restare superiore a un livello minimo, variabile del resto da individuo a individuo. Al di qua di questo minimo la ridondanza si perde e il type non può più assicurare la co-tipia. Ecco dunque riaffacciarsi il concetto di ridondanza, capitale nella teoria retorica, la quale
implica, come vedremo più avanti, enunciati percepiti con cui costruire altri enunciati, detti “concepiti”. Una ricostruzione del genere può evidentemente avere luogo solo grazie alla ridondanza. Ma il concetto di trasformazione rende conto dell’immagine nella sua integrità? A prescindere dall’esigenza di una ridondanza minima, c’è relazione tra la quantità e la qualità delle trasformazioni e l’esistenza dell’iconismo? Nelle pagine precedenti si citavano affermazioni secondo le quali, per esempio, la fotografia sarebbe “più iconica” del disegno, il disegno “più iconico” dello schema ecc. Riconosciamo qui l’idea di una “scala di iconicità”, avanzata da numerosi teorici, tra cui Ugo Volli. L’ipotesi di una scala lascia pensare che sarebbe possibile ordinare tutte le trasformazioni in funzione di una grandezza data, quella di “iconicità”, quantificabile. In seno a un determinato gruppo di trasformazioni (geometriche, per esempio), il numero di proprietà conservate potrebbe costituire una grandezza del genere. Non accade però quasi mai che due trasformazioni che mantengano lo stesso numero di proprietà siano iconicamente uguali. Ci sembrerà forse più importante, “più iconico”, conservare gli angoli anziché le lunghezze. Ma un piccolo cambiamento d’angolo è davvero più iconico di un grande cambiamento di dimensione? Il problema si complica quando occorre decidere se è più iconico conservare i colori e la testura o la forma. Che cosa bisogna pensare di questi ragionamenti, che allo stato attuale delle nostre conoscenze rimangono notevolmente astratti? Volli (1972) sottolinea che la teoria delle trasformazioni geometriche costituisce una base formale per la descrizione dell’iconicità. A questo proposito fornisce anche una scala fondata sulla potenza delle trasformazioni: a suo dire l’iconicità si indebolisce man mano che si passa dalla congruenza alla proiezione e di qui alla trasformazione topologica. Pur fermandosi al quadro delle trasformazioni geometriche, si rende però perfettamente conto dell’inadeguatezza dell’analisi, che non arriva a spiegare perché una semplice silhouette (debolmente iconica secondo i criteri formali adottati) permetta comunque il riconoscimento efficace di un oggetto o di una persona. Ciò infatti mostrerebbe che questi segni restano empiricamente molto iconici! La contraddizione, valida per tutte le trasformazioni e non solo per quelle geometriche, ci pone di fronte a una delle grandi difficoltà dell’analisi dell’immagine. Certo, si può sempre ricorrere alla formula dell’“illusione referenziale”. Ma significa, all’occorrenza, prendere alla larga il problema.
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Occorre dunque nuovamente interrogarsi sull’ipotesi di una scala di iconicità fondata solo sulla potenza delle trasformazioni. Bisogna fare intervenire le loro qualità e quantità e così anche la natura dei tratti che esse influenzano (nella misura in cui questi tratti corrispondono a tratti del type). Una prima soluzione al problema della silhouette consiste nell’ammettere che in un’immagine l’informazione non è uniformemente ripartita.51 È quanto avevamo già appreso dallo studio dei meccanismi percettivi: si è visto, per esempio, che attribuiamo più importanza ai contorni che alle superfici, il che equivale a una differenziazione. Si sa, inoltre, che sempre nei contorni i cambiamenti di direzione sono più importanti delle linee rette o degli archi regolari, cosa che equivale nuovamente a una sorta di differenziazione attraverso la linea. Questo mostra che non c’è correlazione stretta tra la potenza delle trasformazioni e il modo in cui leggiamo le figure. Occorre dunque valutare le trasformazioni anche sul piano qualitativo e prendere in considerazione i type iconici a cui le figure corrispondono. Queste possono avere, nel repertorio dei type, status geometrici più o meno costrittivi. La rappresentazione di un uomo implica, per esempio, non solo una specifica configurazione di angoli, ma anche uno specifico orientamento (i segni che rinviano alla testa stanno nella parte superiore del corpo). Quanto più questi status sono pregnanti, tanto più una data modificazione inciderà sul riconoscimento dell’oggetto. È noto, così, che è assai arduo identificare una rappresentazione fotografica – per quanto la fotografia sia collocata molto in alto nella scala di iconicità – quando una testa è mostrata alla rovescia,52 come effetto di una semplice rotazione. 51
Un fattore tra tutti spiega allora, per intuito, la scala di iconicità, ed è la dimensione pragmatica delle trasformazioni. Si può infatti osservare che le operazioni che forniscono segni marcatamente iconici alla luce di un criterio formale non sempre soddisfano l’uso al quale sono destinati: i trattati di medicina, che un tempo utilizzavano costantemente la fotografia, tendono oggi a tornare agli schemi, ritenuti più chiari. Di conseguenza, le trasformazioni che producono una debole iconicità sul piano formale possono anche essere considerate filtri. Questi selezionano alcuni tratti secondo criteri pragmatici, così da non annegarli in un eccesso d’informazioni non pertinenti all’uso che se ne fa. Da questo punto di vista “l’ipericonicità” risulta essere non un’informazione, ma un rumore. Passando adesso alla seconda osservazione di Volli, quella relativa a una classificazione fondata su criteri geometrici, emerge un altro fattore di iconicità. A suo parere, infatti, bisognerebbe aggiungere, a un’iconicità descritta secondo criteri geometrici, un criterio statistico. Empiricamente, il “riconoscimento” avrebbe l’aspetto più di una probabilità che non di una decisione per un sì o per un no. Secondo questo parametro si dovrebbero considerare simili linee aventi “quasi” la stessa lunghezza, figure aventi “quasi” lo stesso orientamento, superfici aventi “quasi” lo stesso colore, essendo i criteri scelti in larga misura arbitrari.53 Volli ritiene che il doppio meccanismo (criteri formali + criteri statistici) renda perfettamente conto del modo in cui riconosciamo lettere stampate in diversi caratteri (una A in Garamond e una A in Times), cosa che ne comproverebbe il carattere operativo. È un’ipotesi che non possiamo accettare, perché torna a sostenere che esiste una “vera” A di cui tutte le altre non sarebbero che copie approssimative e falsate. In realtà, non è necessario invocare un criterio statistico per rendere conto del processo di riconoscimento, perché il type della A (così come il type del tavolo, del gatto, del liocorno…) specifica solo alcune relazioni visive astratte, lasciando tutto il resto allo stato di varianti libere.
Non bisogna tuttavia trascurare le critiche mosse ad Attneave per avere pedissequamente applicato all’immagine la teoria dell’informazione (cfr. Green & Courtis 1966). Il concentrarsi dell’informazione agli angoli potrebbe essere, per esempio, solo un artificio che deriva dal taglio dell’immagine. Qualunque peso abbiano gli esperimenti di Attneave (1971), sosteniamo, ed è il nostro punto di vista, che il successo del disegno a matita, nelle sue innumerevoli versioni, sia in se stesso la dimostrazione sperimentale che l’informazione di un’immagine non è uniformemente ripartita. 52 È una sottolineatura ricorrente nelle tesi dei neurologi. Ma riconduce a quello che Thom chiamava «il caso più perfetto d’iconismo» e che definiva come una relazione di congruenza metrica! Su questa risorsa qualitativa del nostro sistema di type si basa il fumetto The incredible upside downs. Ogni pagina è composta, come di consueto, da una serie di strisce in cui si trovano oggetti e personaggi. Giunto all’ultima vignetta, il lettore è chiamato a rovesciare la pagina. Appaiono
così ai suoi occhi nuovi disegni, che, fino ad allora non percepiti, costituiscono il seguito della storia. Le difficoltà di interpretazione aumentano quando significanti già identificabili a fatica si integrano in enunciati retorici. Il cuoco e L’ortolano di Arcimboldo sono vere e proprie nature morte. Occorre rovesciarle se vogliamo vedervi le celebri figure umane. 53 È quello che nelle pagine dedicate alla stilizzazione (cap. 6) chiamiamo «soglia di pertinenza». I fenomeni di somiglianza per approssimazione sono dovuti a interferenze tra il sistema percettivo (uguagliante, come sappiamo) e il brusco risultato delle trasformazioni.
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Ecco quindi un altro fattore: il grado di socializzazione dei tratti del type rispetto a cui i tratti del significante devono essere conformi. Ciò spiega perché significanti che sulla base di criteri formali giudicheremmo poco iconici risultano invece i più facilmente leggibili. Una forma estrema di stilizzazione è suscettibile di essere largamente accettata.54 In conclusione, per funzionare in modo soddisfacente, la teoria dei type deve fissare unità strutturali gerarchizzate a molteplici livelli. La teoria delle trasformazioni, se non basta dunque a spiegare il fenomeno dell’iconicità, permette però di descrivere con precisione uno dei suoi parametri.55 5.5.3. La trasformazione è retorica in sé? Rivisitata in questi due punti, la nozione di scala di iconicità suscita altri nuovi interrogativi. Si è visto, percorrendo i gradi di potenza della scala, che ogni nuovo type di trasformazione rinuncia a conservare alcune proprietà. Queste rinunce sono scarti? E bisogna allora considerarli retorici? La mappa della metropolitana è “retorica”? E se sì, rispetto 54 È anche possibile che esista una relazione diretta tra la stabilità del type e il numero delle trasformazioni possibili. I type più stabili autorizzano la produzione di significanti ottenibili dalle serie più numerose di trasformazioni. Sono segni che rinviano spesso a classi di oggetti con una ricca estensione. Quelli che corrispondono a type meno stabili conoscerebbero invece trasformazioni più ridotte, così da mantenere alto il livello di ridondanza. 55 L’analisi concreta dei principali type di trasformazione porta inevitabilmente a considerazioni di fondo ispirate a Cassirer (1925). Per alcuni, ogni creazione artistica è una copia che per sua natura è necessariamente inferiore all’originale. Ritroviamo qui la teoria del difetto fondamentale delle lingue, che percorre tutta la filosofia occidentale (cfr. Eco 1984) e che è a maggior ragione sostenibile nel caso dell’immagine. Lambert (1980) esprimeva questo dilemma in termini poetici: «Come scegliere, diceva, tra il SEMPRE TROPPO delle parole e il loro MAI ABBASTANZA?». È vero che, trasformando le strutture del referente, il significante rinvia contemporaneamente ad altro da sé, e quindi lo supera. Volli cita il bellissimo esempio delle colorazioni delle cellule, in cui, mediante l’applicazione di coloranti scelti ad hoc, si cerca di rendere comprensibili preparati microscopici inintelligibili. Creiamo senso perché le trasformazioni iconiche non sono affatto il risultato di una carenza di strumenti, rimediabile con la ricerca di mezzi migliori. Sono operazioni con le quali si rendono meno pertinenti gli elementi che provengono dagli stimoli visivi prodotti dall’oggetto, per aumentare la pertinenza di elementi visivi elaborati dall’enunciatore. Per questo l’icona costituisce la testimonianza di una mediazione. Le trasformazioni sono quindi semiotizzanti: sono esse a conferire un senso all’immagine, mostrando allo stesso tempo il loro carattere segnico.
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a che cosa? E il bianco e nero? Gli esempi forniti, che mettono tranquillamente sullo stesso piano la riproduzione di un circuito elettrico e una composizione di Miró, potrebbero far nascere delle perplessità al riguardo. La prima reazione, semplice ma drastica, sarebbe quella di dire che ogni trasformazione è retorica e come tale vede l’implicazione di un ethos. Così, la trasformazione geometrica più comune,56 che consiste nel proiettare uno spettacolo a tre dimensioni su un supporto a due dimensioni, sarebbe di per sé retorica.57 È una trasformazione che necessita inevitabilmente di un riaggiustamento della nostra prassi di lettura, sotto forma di uno scarto che costringe l’occhio a ricostruire la terza dimensione a partire da indici diversi da quelli offerti dagli spettacoli del mondo naturale. La percezione dello scarto, data la sua estrema generalità, tende certo ad atrofizzarsi, ma non smette per questo di essere reale. Lo provano gli studi condotti sulle culture che non fanno uso di immagini, in cui il riconoscimento del type richiede a volte uno sforzo notevole. La questione del conflitto tra modello a tre dimensioni e immagine bidimensionale è centrale in tutta la pittura. A nostro parere è francamente assurdo immaginare che tutti i pittori di arte figurativa siano illusionisti che ricercano unicamente la profondità. Gregory (1966) ha ragione quando ricorda che la testura obbliga a percepire la planarità di un supporto, ma non siamo d’accordo con le conclusioni che ne trae, ovvero con l’idea che questo effetto, ostacolando l’impressione referenziale di profondità, fa sì che «il pittore sia in larga misura vinto dalla sua tela». Al contrario la ricerca di effetti di testura, volendo non necessaria, mostra che il pittore accetta la planarità del supporto e intende inoltre metterla in risalto. La contraddizione relativa alla terza dimensione, illusoriamente affermata dalla prospettiva e allo stesso tempo negata dalla testura, è una manovra retorica simile all’ossimoro. La sua onnipresenza è un argomento di valore per la tesi della panretoricità.58 56 È diffusa al punto che la scuola greimasiana, come si è visto, ha ipostatizzato l’esito delle sue teorie dando vita alla «semiotica planare». 57 Ne dà una definizione spassosa Ambrose Bierce, nel suo Dizionario del Diavolo (1906): «Quadro (s.m.). Rappresentazione in due dimensioni di una cosa che in tre dimensioni stanca». 58 A quanti dubitano dell’effetto profondo della trasformazione 3D → 2D ricordiamo una delle sue più rilevanti conseguenze. Esplorando la testa di Nefertiti
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Avevamo poi citato altri due esempi molto eloquenti: la mappa del metrò e il disegno a matita. La mappa della metropolitana è un caso di trasformazione topologica. Da un certo punto di vista risponde bene alle esigenze di un utente dei sotterranei, che non vede i paesaggi che attraversa, non ha la cognizione delle distanze, percepisce appena le curve e non avverte i dossi. Il pedone terrestre, che vede il paesaggio canalizzato nelle strade fiancheggiate di case, ha una prensione del viaggio completamente diversa: conosce tutte le deviazioni da compiere per evitare un pantano, passare un valico o attraversare un guado; il legame tra un punto e l’altro presenta per lui una continuità visiva. Si può sostenere che l’utilizzo della mappa del metrò implichi la percezione di un viaggio astratto costituito da una sequenza di stazioni allineate, equidistanti, che peraltro è possibile contare e identificare tramite quei segni pienamente localizzati e socializzati che sono i cartelli indicatori. Retorica o scelta compiuta, per ragioni pragmatiche, tra diverse trasformazioni possibili? Il disegno a matita è uno dei casi più ingannevoli, perché realizza una trasformazione per differenziazione già inscritta nei neuroni del sistema retinico. A questo titolo, ma anche in ragione della grande comodità pratica che c’è nell’impiego della matita rispetto a strumenti come il rullo, il pennello, l’aerografo, il disegno è generalmente considerato “naturale”. Perciò, propendiamo a essere insensibili all’idea della chiaroveggenza che esso aprirebbe alla nostra percezione. Non esistono se non zone lineari di informazione concentrata, separate da bianchi che sono vuoti. L’irruzione del vuoto negli oggetti costituisce, tutto sommato, un’operazione straordinaria, e solo attraverso un allenamento duraturo e costante restituiamo ai bianchi il loro carattere di sostanze vuote. Anche qui si potrebbe difendere la tesi della dimensione retorica della trasformazione, aggiungendo però che, come nella catacresi, lo scarto non è più avvertito.
Altri argomenti non vanno tuttavia troppo a favore della retoricità delle trasformazioni. Banalmente, infatti, queste apportano nel segno un principio di alterità. Ma a voler vedere del retorico in tutto ciò che fa sì che “la cartina non sia il territorio” si corre il rischio di diluire per intero in esso il carattere semiotico del segno. D’altra parte, la nozione di retoricità presuppone che lo scarto sia posto in rapporto a una norma. Ora, si è visto a sufficienza che il referente percepito, il quale costituirebbe la norma se si aderisse totalmente alla tesi della panretorietà, non è stabile. Pensare che la traslazione sia un’operazione retorica implica che ci sia una posizione spaziale data una volta per tutte. Fare lo stesso con l’omotetia implica che ci siano dimensioni fisse, esistenti a priori, mentre si sa che una dimensione è sempre relativa e dipende dall’enunciatore che mette in atto le trasformazioni, tanto in fase di codifica quanto nella decodifica. Bisognerà dunque nuovamente riprendere il tema del ruolo delle trasformazioni negli enunciati retorici. Lo faremo nel cap. 4, dove il lettore troverà una definizione rigorosa di che cosa bisogna intendere per retorica. In questa sede limitiamoci a notare che sulle trasformazioni si articolano alcuni scarti propriamente retorici e che è dunque possibile considerare le prime come potenziali produttrici dei secondi.
a 360 gradi in 3D, il nostro sistema percettivo compensa con precisione il movimento di rotazione. Lo dimostra il fatto che il suo sguardo sembra allontanarsi o avvicinarsi a noi. Tutti sanno che invece la Gioconda continua a guardarci negli occhi anche se ci muoviamo davanti al quadro (cfr. Wallach 1985). L’illusione della terza dimensione non è più in causa e tuttavia i meccanismi di compensazione continuano a giocare con gli elementi ridotti che sono loro forniti: il viso smagrito percepito a partire da una visione obliqua è riportato alle sue proporzioni normali e non sembra anormale. Pensiamo all’effetto grottesco che provocherebbe la trasformazione opposta, dove il volto sarebbe al contrario allargato: la compensazione sarebbe in questo caso impossibile.
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1. Come descrivere il plastico? 1.1. La semioticità del plastico: un problema La nozione di segno plastico è necessaria per sviluppare una retorica della rappresentazione visiva che non si limiti alla figuratività, ma che possa prendere in carico il non figurativo. Ci riferiamo non solo a ciò che l’arte del XX secolo ha prodotto sotto questa sigla, ma anche, per fare altri esempi, alle piombature delle vetrate cistercensi, agli intrecci delle miniature irlandesi, ai manufatti in macramé delle signore ecc. Molto probabilmente, i limiti precisi tra la figuratività e la non figuratività sono difficili da stabilire nella pratica. Qualcosa che nelle arti decorative appare inizialmente “astratto” risulta poi essere, a una percezione più fine, un oggetto stilizzato (una figura floreale, minerale ecc.), e viceversa, in mancanza di adeguate istruzioni, le immagini identificate come icone dai soggetti di una data cultura appaiono illeggibili agli occhi di altri osservatori. Gli esempi in questo senso abbondano: tappeti orientali, pitture degli Indiani dell’Ovest… La retorica dell’immagine dovrebbe poter trarre profitto dall’insieme di riflessioni sedimentate in tempi presemiotici. In numerosi studi di storici dell’arte, di pittori, di critici, di psicologi, si trovano in effetti molti elementi di utile analisi. La difficoltà resta quella di riconoscere il carattere semiotico delle relazioni puramente plastiche, indipendenti di diritto, se non di fatto, dalle relazioni a carattere iconico. Nella celebre opera dal titolo L’arte del colore (1961) Johannes Itten fa notare che Ingres prolunga la curva del braccio destro della sua grande odalisca in una piega della tenda che arriva fino al bordo superiore della tela. Si tratta – scrive l’autore – di una «pura linea pittorica astratta». Bisognerebbe escludere la possibilità di interpretare questo fatto plastico ricorrendo subito allo “sta a significare che”: pensiamo invece che il braccio della donna è tanto aggraziato quanto la terza piega del tendaggio. Tantomeno è il caso di attribuire al legame tra il corpo del86
la donna e la tenda il senso di un inglobamento in rapporto al fondo scuro che, così incorniciato, appare più “misterioso”. Un’osservazione del genere non è forse futile, ma ricade nell’interpretazione iconica. Si tratta invece davvero di interrogarsi sulla qualità semantica di questo tratto pittorico. Può darsi che convocando il termine “circolarità” non si guadagni granché. Ma è su questo minimum che si gioca la posta semiotica. A riguardo, possono essere assunte tre posizioni. Innanzitutto, si può semplicemente eliminare questo tipo di esperienza dal dominio semiotico: in musicologia, è la posizione radicale assunta da Boris de Schloezer. È possibile, d’altro canto, contrapporre alle scarse competenze dell’osservatore una buona lettura visiva, come quella compiuta su Mondrian da Michel Butor, che subentra all’analisi di Seuphor e di molti altri. Esclusione o recupero: ecco l’aut aut che emerge dinanzi a queste ostiche manifestazioni. Ma possiamo considerare una terza posizione, ed è la seguente: rifiutare qualsiasi lettura dell’enunciato plastico basata su commenti mirati a ritrovare a ogni costo un’icona nel non figurativo1 e in ogni caso porvi un veto per quanto più tempo possibile. La domanda è dunque: il plastico ha in sé una funzione semiotica? Per rispondere, saremo costretti a compiere una deviazione. Nella retorica visiva la riflessione sulla differenza tra plastico e iconico è stata di fatto inficiata, sin dall’inizio, da un’ipotesi di base: quella che voleva che si avesse a che fare con due domini distinti, certo, ma legati da una relazione di analogia. Ora, che cosa accade esattamente? Poniamo la questione facendo riferimento alla concezione semiotica di manifestazione sensoriale. Constatiamo: a) che dal mondo (oggetti naturali o artefatti) giungono degli stimoli; b) che tra questi stimoli alcuni possono avere lo status di segno, per quanto (b1) l’analisi non li consideri oggetti autonomi, e (b2) valgano per la loro funzione di rinvio a elementi a essi esterni. Dove si colloca il plastico secondo questo schema? Ciò che di solito si definisce in questo modo è tanto una descrizione fisica degli stimoli (livello a), quanto un vero e proprio segno (livello b). Ma un fenomeno può essere fisicamente descrivibile senza avere necessariamente una funzione semiotica, mentre, al contrario, non si può concepire un pro1
D’altronde non si tratta di un rifiuto dogmatico, ma metodologico. Tiene conto dei grandi vantaggi che i test proiettivi hanno assicurato agli psicologi.
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cesso semiotico che non sia preliminarmente fondato su un substrato sensoriale. Per maggiore concretezza forniamo un esempio. Vedo un fiore. Esso ha caratteristiche formali che mi permettono di identificare il type “fiore”, sempre che io sia portato a considerare questi tratti come significanti di un segno iconico /fiore/. Accorderò al colore e alla testura una funzione diversa da quella che autorizza il riconoscimento? È difficile dirlo da subito. Ed è altrettanto difficile nel caso dei volumi di un oggetto tridimensionale o per i suoni di un linguaggio, che non chiameremmo semiotici se una forma non attribuisse loro una finalità e se non si stabilisse una correlazione tra il sistema delle forme dell’espressione e quello delle forme del contenuto. In alcuni messaggi si è spesso portati a privilegiare la sostanza, fino a riservarle uno status semiotico. Ma non funziona così per tutte le tipologie. Sul plastico nella lingua verbale, per esempio, si è creato un tabù. È una posizione sempre e indiscutibilmente legittima? Tutti coloro che hanno inneggiato al cratilismo, in una forma o nell’altra, in sostanza non hanno fatto che erigere a sistema il “plastico linguistico”. La procedura che hanno intuitivamente seguito è illuminante. Il linguaggio poetico, poiché sfocia, tramite diversi dispositivi, in un effetto di autotelismo, ha una materia significante e riceve uno status semiotico in sé, anche a prescindere dall’uso che se ne fa in diversi contesti. Riapriamo dunque nuovamente la questione: il plastico ha una funzione semiotica propria, che sia generalizzabile? E se è così, in che modo può essere descritto? Nelle pagine che seguono tenteremo di rispondere a queste domande.
Il caso più frequente è quello in cui ci si trova di fronte a un sintagma di forme e colori. Presto ci si accorge che i significati risiedono nelle relazioni e molto meno nelle forme o nei colori in sé. In prima analisi, il significato si rivela relazionale e topologico, essendo le unità strutturate innanzitutto dal sistema più che da un codice. Per essere efficace, l’analisi del linguaggio plastico richiede tuttavia l’impiego di una batteria di opposizioni strutturali che rendano conto delle forme, dei colori e delle testure. Menzioniamo, tra queste opposizioni, le coppie /alto/-/basso/, /chiuso/-/aperto/, /semplice/-/composto/, /chiaro/-/scuro/, /liscio/-/granuloso/. Risultano essere, dal momento che le ritroviamo in diversi enunciati e che svariate analisi le utilizzano concretamente, l’attualizzazione, nel sintagma, di strutture esistenti nel paradigma.2 Questa constatazione entra apparentemente in conflitto con il fatto che nessun significato può essere attribuito in modo costante ai termini delle coppie fuori dalla loro attualizzazione. E il conflitto ha lasciato allora prevalere la tesi di strutture sui generis, ogni volta da ricreare.3
1.2. Metodo di descrizione 1.2.0. Le nostre risposte avranno un alto grado di generalità, avendo già fornito spiegazioni con letture applicative in altri studi (Gruppo μ 1979a; 1987). La posizione è difficile, dal momento che il codice plastico, nella misura in cui esiste, mobilita valori estremamente variabili. Descrivendoli perciò fuori da qualsiasi attualizzazione, ci si condanna a restare a un livello di astrazione molto alto. Un enunciato plastico può essere esaminato dal punto di vista delle forme, dei colori e delle testure, quindi da una prospettiva d’insieme delle tre componenti. Non bisogna dimenticare, poi, che queste dimensioni sono compresenti, cosicché l’immagine è al primo impatto potenzialmente tabulare. La si paragonerà alle arti del tempo (poesia, musica…), in cui la tabularità viene raggiunta solo per costruzione.
2 Per essere definitivamente accertata, questa idea richiederebbe una prova di commutazione, in cui alle stesse unità, poste in sintagmi differenti, venissero attribuiti significati sempre differenti. 3 In alcuni lavori precedenti (Gruppo μ 1979c) abbiamo sviluppato la nozione di graduazione, fondata sull’ipotesi che non può esistere una forma (in senso hjelmsleviano) dell’espressione plastica perché non è possibile avere una strutturazione generale della materia in sostanza, la prima offrendosi come un continuum. È vero che il continuum è segmentabile, è vero che emergono differenze – chiunque può percepire sfumature nei blu – ma questa apparente strutturazione non è affatto sufficiente per parlare di una forma dell’espressione. Caratteristiche del genere ha, per esempio, un contrasto di blu classificabile secondo un lessico stabile, investito di valori prefissati per ciascuna unità, tanto da far pensare che nessun messaggio potrebbe realizzarsi se non in ragione della previa esistenza di un sistema astratto. Ma, evidentemente, un sistema di questo tipo non esiste nel caso dell’immagine. Ipotizziamo che se alcune opposizioni sembrano talvolta articolarsi, esse in realtà non valgano mai se non in funzione di un dato messaggio o di un gruppo di determinati messaggi: per esempio il gioco dei colori “puri” che fa sistema nell’insieme delle opere del Mondrian classico. Se ne deduce, forse un po’ frettolosamente, che non esiste una grammatica del significante plastico preesistente alle occorrenze particolari, e che il sistema plastico si limita a contrattazioni comunicative locali, circostanziate e contingenti, microcodici che al di fuori del messaggio si dissolvono. Come si vedrà, questo volume rende obsoleto il concetto di graduazione, che ha costituito solo una tappa della nostra ricerca.
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Il metodo assunto si fonda sull’ipotesi che ci troviamo in tutto e per tutto di fronte a oggetti semiotici e che in essi si possa quindi riconoscere la relazione tra un’espressione e un contenuto. Nel verificarla, ricorderemo che implica l’esistenza di una sistematizzazione adeguata dei due piani e la costituzione di un particolare tipo di rapporto tra gli elementi di ciascun piano. Per poter descrivere con la massima precisione la strutturazione interna del significante plastico, ricorreremo alla triade hjelmsleviana che mette in gioco, l’una rispetto all’altra, una forma, una sostanza e una materia, dell’espressione ma anche del contenuto. Confronteremo questo schema con l’espressione del segno plastico. Per quel che riguarda la pertinenza della materia non sembra vi siano problemi: nel significante plastico, come in quello linguistico, la materia è di sicuro esistente. Lo è per esempio, e soprattutto, nel caso della luce non ancora organizzata in un sistema di differenze. La sostanza sarebbe invece la categoria di impressioni visive che la luce fa emergere nelle sue attualizzazioni: per esempio il blu per come viene percepito in opposizione al rosso. Lo spettro dei colori sarebbe la forma dell’espressione se costituisse un repertorio generale fisso, valido per tutti i messaggi e a cui tutti questi attingerebbero per attualizzarsi. Ma si coglie da subito il problema: di fatto un sistema del genere esiste solo nella verbalizzazione, la quale varia del resto da una lingua all’altra, come anche un neofita in antropolinguistica sa. La questione va dunque ripresa su altre basi, facendo a meno dei privilegi che i grandi schemi culturalizzati offrono attraverso le lingue e che sono a fondamento del simbolismo dei colori. Ci occuperemo, in successione, del sistema del significante e del sistema del significato. In entrambi i casi si tratterà di vedere se è possibile convocare la nozione hjelmsleviana di forma. Questo filo conduttore, e la riflessione che ne segue, troveranno applicazione tanto in seno alla dimensione cromatica quanto in quelle della forma (in senso non hjelmsleviano) e della testura.4
1.2.1. L’ingresso del sistema del significante Sul piano del significante constatiamo prima di tutto che le unità semplici non esistono mai isolate, fuori da ogni attualizzazione. Un certo /chiarore/, una /ruvidità/, un’/apertura/ non sono tali che in funzioni di opposizioni che si trovano non solo nel paradigma, ma anche nel sintagma. La realizzazione effettiva dei rapporti strutturali si fa dunque nel e attraverso il messaggio. Ma per il fatto che essa cristallizza esperienze precedenti, in cui stimoli tra loro confrontabili si sono già strutturati, ogni forma riconosciuta trova posizione in coppie di termini opposti, che diventano allora gli elementi di un sistema.5 Le relazioni che questi elementi intrattengono non sono però univocamente definite in anticipo. Per esempio una plaga /rossa/ può entrare a far parte di un’opposizione come /acceso/-/spento/ (caso in
4 I sistemi plastici vanno infatti studiati tenendo conto di tre parametri. Una versione più raffinata del percettema di Bense è stata proposta dalla scuola greimasiana (Thürlemann 1982). Interrogandosi sugli «elementi» – è il nome dato alle unità plastiche che è possibile isolare – questa scuola elabora un inventario di categorie pertinenti valide per effettuare la distinzione. Secondo Thürlemann il colore «costituisce» la forma (nella sua terminologia, le «categorie cromatiche» costituiscono le «categorie eidetiche») e pertanto è sufficiente la
sola opposizione cromatica. L’autore aggiunge che la testura – da lui definita «grana» o «materia» – riveste un ruolo analogo al colore nel costituire la forma. È un dato di fatto che la testura, essendo come il colore una proprietà estesa a una superficie, può mostrare opposizioni dello stesso status, come /liscio/-/ruvido/. Questa teoria presenta il vantaggio di distinguere colore e forma, evitando il concetto sincretico di percettema. Non è esente, però, da difficoltà. Infatti un’opposizione cromatica si compone in realtà di due elementi, separati da una linea in comune. Bisognerebbe allora elaborare le procedure in base alle quali si crede di essere in diritto di decidere che l’una sia l’elemento e l’altra lo sfondo, o che siano entrambi elementi, e questo senza allontanarsi dal piano plastico, il che significa, senza attribuire agli elementi uno status “cosale” che ne farebbe delle specie di oggetti. Ma qui basterebbe insistere sul carattere contrastivo di ciò che costituisce la forma a partire dal colore. Estenderemo la portata di questo concetto affermando che tutte le suddivisioni di un’entità plastica (forma, colore o testura, sul piano del significante o del significato) hanno natura contrastiva. I lati di un quadrato possono essere isolati grazie al contrasto delle loro linee, mentre nessuna suddivisione è possibile nel caso del cerchio; allo stesso modo, non è possibile alcuna suddivisione in un segmento rettilineo. I contrasti di cui abbiamo parlato finora sono discreti, ma nulla impedisce di renderli graduati: nei corpi femminili di Renoir si assiste a un cambiamento progressivo del colore, in una parabola si ha un cambiamento progressivo di curvatura. I contrasti graduati fanno insorgere limiti sfumati, posti tra due estremità e non in un punto preciso. 5 Diciamo sistema e non codice: un sistema è un insieme di valori strutturati su un solo piano (l’esempio canonico è /verde/ vs /rosso/ nel codice della strada). Un codice è la messa in relazione termine a termine di opposizioni che strutturano sistemi di piani differenti (il codice della strada mette a confronto l’opposizione /verde/-/rosso/, valida per un piano, e l’opposizione “concesso”-“vietato”, valida per l’altro piano).
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cui essa occuperebbe il polo /acceso/), di un’opposizione del tipo / semplice/-/composto/, e via di seguito; si può anche prevedere che in funzione di altri elementi del sintagma, lo stesso elemento possa occupare a volte l’una a volte l’altra delle posizioni di una coppia (il rosso di cui sopra occuperà così la posizione /spenta/). I colori sono dunque trattati qui non in quanto oggetti empirici, o come token di un determinato type, ma perché prendono una determinata posizione in un enunciato. Poiché inoltre questo status produce opposizioni trasferibili, si è legittimati a parlare di forma, sempre in senso hjelmsleviano. In primis, l’enunciato riveste perciò questa importante funzione: inibisce o stimola l’identificazione di una data coppia in potenza nel sistema. Così, è possibile immaginare un enunciato in cui si manifestino le opposizioni /chiaro/-/scuro/ ma non quelle /liscio//granuloso/ o /molto saturo/-/poco saturo/ o ancora /continuo/-/discontinuo/. Il messaggio non presenta evidentemente stimoli che si differenziano secondo questi criteri e di riflesso tali opposizioni non hanno luogo: esse non appartengono che al discorso metavisivo che si sforza di inventariarle tutte nella loro esaustività. Non esiste dunque un equivalente della struttura nei codici. In essi, per il fatto stesso di enunciarsi, un valore evoca immediatamente quelli che gli sono correlati: nella lingua è sufficiente pronunciare /piccolo/ perché /grande/ venga convocato. Nel dominio plastico l’equivalente di /piccolo/ non esisterebbe se anche /grande/ non fosse manifesto, e viceversa. L’enunciato gioca anche un secondo ruolo: oltre a stabilire i sistemi, dà in essi un posto agli elementi. Come già detto, si può attribuire a un elemento /giallo/ un valore /chiaro/ solo nella misura in cui gli altri elementi riconosciuti si trovano più lontano di lui nell’asse /chiaro/-/scuro/. In un altro enunciato lo stesso giallo potrebbe occupare il polo /scuro/.
Alcuni sarebbero propensi a sostenere che i significati nascono solo nell’incontro dei sistemi plastici con i segni iconici.6 Ci si accorge in ogni caso, passando in rassegna la letteratura sul “segno visivo”, che molti propositi su un eventuale significato plastico rinviano in realtà all’iconico, per il tramite dell’identificazione di determinanti.7 È ciò che accade quando si arriva a commentare una stampa giapponese convocando il significato “tristezza” per il significante /curva/. Esistono mille curve senza tristezza, e se la malinconia è qui visibilmente presente, è perché si tratta non della “curva” in generale, ma di curve particolari: quelle del collo dell’airone e di un ramo d’albero, che, da tempo divenute oggetto di un’identificazione iconica, vengono associate in sé al contenuto “tristezza”.8 In altri contesti sarebbe 6 Al punto da descrivere il “segno visivo completo” come una matrice a quattro caselle,
Significante
Significato
Iconico
A
B
Plastico
A'
B'
1.2.2. L’ingresso del sistema del significato Ci siamo finora limitati al sistema del significante plastico. Resta adesso da vedere in che modo si stabilisce la relazione semantica, dato che manipoliamo altrettanto frequentemente significati cromatici, significati posizionali ecc. Quanto detto fin qui offre parecchi spunti per capire che non si possono assegnare valori prestabiliti a un elemento isolato, fuori da una relazione sintagmatica.
in cui il posto del significato plastico (B') sarebbe occupato da ciò che sembra essere l’esito di una doppia proiezione. 7 Per non parlare delle macchie di Rorschach, in cui è il type stesso a venire riconosciuto. 8 Ma perché di un albero che pende verso il basso si dice che è “piangente” e si ritiene giusto dire che l’airone è un uccello “triste”? È evidente che qui la questione del rinvio si complica e che comporta almeno due livelli: il primo di rinvio dal plastico all’iconico; il secondo di rinvio dall’iconico al simbolico, in cui interviene una filosofia ilozoista della natura, la quale presta i nostri stati d’animo agli oggetti del mondo sensibile… Esaminando con attenzione migliaia d’immagini del 10001500 a.C., senza proiettarvi significazioni sorte dal testo che le accompagna, o dal bagaglio culturale di un uomo moderno, François Garnier (1982) ha messo in risalto numerose attitudini o relazioni tipiche dell’iconografia medievale: le posizioni delle mani, dei piedi, della testa ecc., determinano tutte attitudini non equivoche, leggibili senza esitazione perché codificate. Queste significazioni, specifiche e ricorrenti, sono sia idee, sia sentimenti, sia relazioni sociali tra le persone. Contro la tesi dell’ambiguità dell’immagine, un elenco di 146 lemmi, come abbandono, benevolenza, collera, sfida, sgomento, fermezza, umiltà, debolezza, diffidenza, orgoglio, raccoglimento, tradimento, licenziosità, raccoglie queste significazioni e mostra la tendenza molto forte del sistema di rappresentazione figurativa alla
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possibile (ma non indispensabile) omologare l’opposizione /curvilineo/ vs /rettilineo/ ad altre opposizioni del piano del contenuto, come “maschile” vs “femminile” o “attivo” vs “passivo”.9 Un meccanismo analogo è stato proposto in linguistica, quando Fónagy (1963) e Chastaing (1958) hanno analizzato e descritto la componente plastica del linguaggio come un sistema semiotico. Qui la natura del legame tra espressione e contenuto è tanto ardua da delineare quanto lo è per il segno plastico visivo. Delbouille (1961) concludeva affermando che se il significante ha un ruolo semantico, ciò avviene unicamente nella misura in cui rafforza il significato colto preliminarmente. Nel caso della lingua verbale i significati plastici sono stati identificati empiricamente, tramite interviste (utilizzando opposizioni polari presentate sotto il titolo di differenziali di Osgood). Si capisce quanto sarebbe facile domandare a un campione di studenti (pubblico di prima scelta per esperienze del genere) di posizionare il /rosso/ sull’asse differenziale “caldo”-“freddo”. I risultati avrebbero un peso statistico indubbio, ma non darebbero comunque spiegazione del fenomeno, neanche per sommi capi. E pur scoprendo che l’origine di tutte queste associazioni è una cosa del tipo “il sangue è rosso”, non ci sarebbe posto per alcun significato plastico in sé: il plastico non sarebbe nient’altro che una proprietà dell’icona (allo stesso modo in cui il valore locale dei suoni non sarebbe che un corollario del loro valore semantico). Queste riflessioni alimentano molti interrogativi sull’esistenza di una relazione tra espressione e contenuto in materia di plastico. L’interpretazione iconizzante o iconocentrica è l’unica valida? Per Odin (1976) la semiotica plastica comporta in larga misura significati stabili, che costituiscono un repertorio. Sempre che lo si possa elaborare,10 questo repertorio susciterebbe però delle reticenze, dal codificazione discreta. Beninteso, il più delle volte questa codificazione non fa che tradurre nell’immagine un codice preesistente di gesti e di attitudini. La ricerca di univocità e di chiarezza è un fatto di ideologia. In altre epoche la chiarezza sarà messa al bando e si ricercherà piuttosto la polisemia o il mistero. 9 È appurato che la scelta cade in preferenza su opposizioni del dominio antropico (per la nozione di Anthropos vedi Gruppo μ 1977a, cap. II). Il complesso di opposizioni antropiche costituisce una riserva di significati potenziali o “fluttuanti”, nel senso dato da Lévi-Strauss a questo termine. Si tratta dunque di isotopie “proiettate” (ibid.). 10 Si potrebbero in effetti ritenere significati plastici specifici quelli che si ricavano da osservazioni del tutto generali e astratte. Ian Hamilton Finlay ha per esempio ragionato sull’opposizione /linea retta/-/linea ondulata/: «La presenza della
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momento che, per essere inattaccabile, un sistema di significati plastici deve evitare il ricorso a elementi iconici, o per lo meno stabilire con esattezza il ruolo di questo ricorso al momento dell’ingresso del significato plastico. È possibile, a titolo di ipotesi, indicare i tre seguenti livelli di investimento semantico: (A) Semantica sinnomo plastica Alcune opposizioni plastiche ricorrono di frequente e sono sempre investite degli stessi valori semantici, in virtù di associazioni contratte ai livelli (B) e (C). Il cielo è blu, l’erba è verde, il sangue è rosso ecc. Nelle culture queste ripetizioni possono legare in maniera stabile opposizioni del piano dell’espressione e opposizioni del piano del contenuto. È il caso della coppia /nero/-/bianco/, associata a concetti come /vita//morte/. I valori sinnomi si stabilizzano fino a poter sfociare in valori autonomi, che in questo modo sarebbero anteriori ad (A): è l’origine del simbolismo cromatico, che vuole che la manifestazione del /nero/, al di là di ogni opposizione, abbia sempre un valore preciso. Sappiamo in realtà che questa è una visione ingenua e che la semantica non raggiunge mai un livello di autonomia così radicale. Ma vale la pena notare che rendendo stabili dei valori semantici al di fuori di ogni enunciato, si giunge all’elaborazione di un sistema arbitrario che sembra del tutto allontanarsi dalle leggi che reggono i sistemi plastici (arriviamo così al livello (C)). (B) Semantica sinnomo iconoplastica L’elemento plastico può coesistere con segni che sono iconici, dando vita a interpenetrazioni variamente efficaci: può coincidere con essi, dominarli, inglobarsi o intersecarli. I valori, attualizzati o meno, associati per via del codice al sistema iconico, possono omologarsi agli linea retta è dominante nella serpentina, le cui ondulazioni derivano ugualmente dall’idea di retta. Non si può guardare una linea ondulata senza formarsi l’idea di una retta, mentre una retta non induce il pensiero di una serpentina ma appare completa in sé. La stessa proprietà si ritrova nella linea concettuale come anche in natura, nei prati e nelle aiuole di alberi» (More Detached Sentences on Gardening in the Manner of Shenstone, in “Poetry Nation”, 42, 1984, p. 20). Allo stesso modo si potrà forse mantenere, sempre a proposito della linea retta, la definizione geometrica che la considera come “il più breve tragitto da un punto all’altro”. Si intuisce che i significati plastici di questo tipo non sono una legione e che il loro inventario è lontano dall’essere costituito.
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elementi del sistema plastico secondo molti modelli, determinati dal particolare modo di interpretazione. (C) Semantica extra-visiva In seguito alle esperienze riportate nel livello (B) o ad altre contingenze storiche si possono attribuire valori permanenti sia a un elemento al di fuori della sua attualizzazione in un sintagma – acquisisce dunque un valore autonomo –, sia a una certa coppia di elementi attualizzati – il valore è allora sinnomo. Come si può intuire, è quello che accade in tutti i casi di simbolismo (per come lo intende Todorov 1972 e 1986). Simbolismo dei colori, per esempio, che evidentemente varia in dipendenza dal contesto pragmatico dell’enunciato: anche all’interno di una sola cultura le strutture create dal simbolismo nei casi del carteggio amoroso, dell’araldica, della propaganda politica o dell’abbigliamento liturgico cristiano non sono le stesse. Si tratta di sistemi simbolici, e anche linguistici, comunque equivalenti, perché non si accontentano di strutturare la percezione dei colori… In entrambi la relazione è arbitraria e mette in rapporto due tipologie astratte.11
Come si vede, è assai difficile collocare il segno plastico in una tipologia di segni: tende infatti a volte verso il simbolo, a volte verso l’icona. Ma la sua specificità è forse un’altra e nella più semplice delle ipotesi andrebbe riconosciuta nella nozione di traccia o di indice, spesso messa in risalto a proposito della fotografia (Dubois 1983). I tratti della forma, il colore o la testura possono infatti essere interpretati come il prodotto di una particolare disposizione psichica o fisica presupposta. L’artefatto diventa così il segno tangibile di questa disposizione:12 una traccia plastica è leggibile come ciò che rinvia alla “rapidità”, alla “fluidità dei sentimenti e delle percezioni”; una plaga di colore uniforme può rinviare alla “stabilità”…13 I significati plastici equivalgono dunque a un sistema di contenuti psicologici postulati dal destinatario, e che non hanno necessariamente un corrispettivo nella psicologia scientifica. Il tipo di rinvio tra indice e referente è qui di tutt’altra natura che nell’iconismo, in cui è ternario, e nel simbolismo, in cui è arbitrario. Il rinvio indessicale è binario e motivato. Binario perché si tratta di un semplice legame tra ciò che indica e ciò che viene indicato;14 motivato in virtù di una struttura causale, come l’impronta dei passi al posto dei passi, o il fumo che sta per il fuoco. Come accade in ogni paradigma semiotico, la relazione tra i sistemi evidenziata dal codice è dialettica: il sistema del contenuto si stabilizza solo per il fatto di essere significato da un sistema dell’espressione in
11 È vero, non solo e chiaramente, per il significato del simbolo, ossia per ciò che viene simbolizzato, ma anche per il simbolizzante. I simboli spirituali si presentano il più delle volte sotto forma di schemi astratti (la croce, il mandala, il triangolo). Anche quando il “simbolizzante” sembra iconico (con un po’ di buon senso), il meccanismo propriamente simbolico è di altra natura. Seguiamo il ragionamento di Dietrich Seckel (1976) quando sostiene che la civilizzazione indiana ha fatto ricorso fin dalle origini a un simbolismo aniconico, non derivato dunque da atti di iconoclastia. I simboli da lui trattati sono in numero di cinque: l’orma dei passi, l’albero incendiato, il trono di diamanti, la ruota della saggezza e lo stupa. Si dirà che sono tutti indiscutibilmente icone. Eppure, nel loro rinviare ad attributi del Buddha, diventano immagini aniconiche. La ruota della saggezza, descritta come una ruota messa in movimento dal Buddha al tempo della sua prima predicazione, potrebbe essere in effetti nient’altro che un cerchio (e va ricordato che è questo il primo significato del termine mandala), ossia «un simbolo particolarmente impressionante della verità suprema, tanto per la sua perfezione totalizzante che per la sua vacuità senza inizio né fine». E «nella terminologia buddista concetti come “illuminazione rotonda”, “verità rotonda”, “frutto rotondo” (il Nirvana) e anche “Buddha rotondo” giocano un ruolo importante, perché esprimono una perfezione insuperabile e compiuta, ma anche un “vuoto” radicale […] che trascende dialetticamente tutte le determinazioni pensabili e tutti i contrari». Riportiamo questa lunga citazione al solo scopo di mettere in mostra il vocabolario concettuale e astratto impiegato per definire il significato simbolico del cerchio, il quale non è altro che il suo significato plastico. Anche lì, tuttavia, la derivazione
iconoplastica potrebbe non essere assente, almeno sul piano storico, vale a dire, in qualche maniera, etimologicamente. Un esponente del nostro gruppo ha raccolto, in un’analisi semiotica del mandala (Edeline 1984a), tutte le metafore associate al cerchio e al quadrato, da cui emerge l’origine, altamente motivata, di un simbolo ritenuto oggi assolutamente arbitrario. 12 Su un’ipotesi del genere si basano la fisiognomica e la grafologia, con la sola riserva di essere “scienze” che postulano l’esistenza presemiotica di tali disposizioni. 13 Evidentemente, non si pretenderà di ritrovare l’autenticità di questi valori nell’esperienza di vita dell’enunciatore. Uno come Dotremont, per esempio, può tracciare molto lentamente tratti che l’osservatore percepirà come rapidi. E poi anche una scrittura può essere contraffatta. Senza risalire fino al paradosso del commediante, di cui parla Diderot, segnaliamo che Eco (1973, pp. 38-42) ha trattato con cura tutti i casi figurativi in cui variano l’intenzione e il presunto grado di coscienza dell’autore. 14 È la ragione per la quale abbandoniamo, in definitiva, il termine “significato”: lo si confonderebbe con il referente.
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cui le opposizioni risaltano, e vengono anche differenziate con precisione, unicamente perché possiedono funzioni sul piano del contenuto. 1.3. Prospetto Descriveremo ora il funzionamento di ciascuna delle grandi famiglie del segno plastico: i colori, le forme e le testure. In ognuno dei tre casi, tenteremo di fornire una grammatica dei significanti e di mostrare come a essi possano essere correlati dei significati. Cominceremo dalla testura, che come abbiamo visto è rimasta fino a oggi, nella descrizione dei fenomeni visivi, la componente più trascurata. In questo ambito lo sforzo di innovazione sarà perciò probabilmente più grande. Procederemo poi con la forma. Di essa si è molto discusso, ma raramente in maniera sistematica: la sua funzione è stata studiata più di frequente dentro analisi di enunciati specifici, impedendosi però in questo modo di osservare i meccanismi generali della sua semantica. Ci accosteremo infine al problema del colore. La situazione è a questo proposito molto diversa: il dibattito sul cromatismo pecca piuttosto in eccesso, al punto che il ricercatore che volesse riassumere lo stato delle cose non saprebbe a che sema votarsi… Il problema della relazione del segno plastico con il segno iconico sarà invece esaminato in seguito (cap. 5).
Quando una superficie che presenta una testura A si trova all’interno di un’altra superficie di testura B, il colore resta uguale ma può nascere un contorno, il quale crea dapprima una figura e poi una forma. Ma gli elementi testurali non costituiscono una forma essi stessi? È ciò che potrebbe far credere la nostra definizione, che dobbiamo ora precisare. Caratteristica dell’elemento testurale è la sua dimensione ridotta, che non permette di determinare una forma, dal momento che, in rapporto a questi elementi, la percezione individuale cessa di esercitarsi a partire da una certa distanza ed è rimpiazzata da una prensione globale grazie a un’operazione di integrazione. Questo implica una distanza standard tra lo spettacolo e lo spettatore.15 La testura del soffitto di Sant’Ignazio, vista da trenta metri, è determinata da elementi ben più grandi di quelli di un timbro postale osservato con una lente. La distanza critica che determina la percezione di ogni testura in quanto microtopografia è dunque quella che è necessaria perché cessi la percezione degli elementi isolati, i quali stanno al di sotto della soglia di discriminazione. Essi restano comunque percepiti, ma globalmente e
2.1. I significanti della testura 2.1.1. Primo testurema: gli elementi Nel cap. 2 si è visto che la testura può, come il colore, generare la forma.
15 Per assurgere a unità semiotica l’elemento testurale dovrebbe avere un’esistenza stabile; esso è invece altamente variabile anche all’interno di uno stesso enunciato. Occorre dunque modellizzarlo: l’unità testurale non è una superficie elementare, ma un angolo solido di visione (cosa che rende la sua effettiva superficie dipendente dalla distanza tra lo spettatore e l’immagine). L’unità non può affatto essere l’angolo solido minimo di differenziazione oculare, perché tutto ciò che è contenuto in questo angolo è sottoposto a mediazioni, senza alcuna possibilità di analisi. Si tratterà dunque di un angolo solido più grande, indefinito e molto probabilmente variabile. Notiamo in ogni caso che la testura e la distanza di focalizzazione interagiscono: tutte le superfici lisce, messe su scala, sembrano non avere testura (cosa che ci fa provvisoriamente definire il liscio come non-testurale), ma nella misura in cui la risoluzione aumenta, cioè man mano che l’osservatore si avvicina, la superficie acquista una testura all’inizio sottile, poi via via più spessa. Verso questo problema hanno rivolto la loro attenzione alcuni estetologi, ma sotto tutta un’altra prospettiva. Si è trattato, in special modo, di stabilire la distanza ideale della visione di un quadro. Homer (1964) ha tentato di misurarla a proposito di La grande Jatte di Seurat, opera in cui rintraccia quattro distanze critiche. A 0,3 metri si distinguono isolatamente gli elementi; a 1,8 metri (o tra 1,5 e 2,1 metri) si percepisce l’ effetto di “lustro”; a 4,5 metri si ha l’impressione di un grigio “neutro e mesto”; a 0,6 metri si verifica la fusione integrale degli elementi con la sintesi ottica. Beninteso, la distanza ideale varia in dipendenza dal quadro (oscilla tra i 4 e i 4,5 metri per La Parade e sarà di 1,8 metri per Les poseuses, dello stesso Seurat). Da Pissarro in poi la distanza ideale è tre volte la diagonale del quadro, regola verosimilmente accettata da tutto il gruppo neoimpressionista.
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2. Sistematica della testura 2.0. Introduzione Ricordiamo che la testura di un’immagine è la sua microtopografia, costituita dalla ripetizione di elementi. Si tratta di una proprietà della superficie, allo stesso titolo del colore. La definizione proposta mette in evidenza che la testura, pur ridotta a un modello teorico (l’unità testurale), non costituisce un tutto inanalizzabile. Qualificarla sulla base alla microtopografia implica in effetti l’intervento di due parametri, che potremmo denominare testuremi (come ci sono formemi e cromemi): il primo riguarda gli elementi ripetuti, che sono figure, il secondo è relativo alla legge della loro ripetizione, per natura, dimensione e qualità.
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sotto forma di una qualità traslocale: l’informazione che eventualmente contengono passa per un canale subliminale. Si può dunque concludere che ogni immagine trasmette due flussi di informazione indipendenti, e non è detto che questi interagiscano.16 La nozione di integrazione potrebbe anche scoraggiarci dal descrivere la natura degli elementi ripetuti, essendo le loro caratteristiche destinate ad abolirsi nella percezione integratrice. Ma la natura dei suddetti elementi determina in parte l’informazione subliminale. Per chi non ne fosse convinto, ricorderemo una delle conseguenze del principio di distanza critica: esiste sempre, di fatto, un punto di visione tale per cui lo spettatore può percepire una testura sia come una pura superficie, sia come un insieme di singoli punti. Pensiamo alle tele impressioniste, destinate a una percezione integratrice che è all’origine dei noti effetti di luce tipici di questa scuola, ma in cui le macchie (punti circolari o quadrati, forme orientate ecc.) possono essere anche percepite individualmente e far parte del progetto dell’opera. La seconda percezione, disintegratrice, abolisce evidentemente la testura a vantaggio delle forme. È chiaro, tuttavia, che è una possibilità di oscillazione17 a gestire il rapporto tra il significato di queste forme (giudicabile a partire dall’analisi condotta nel § 3) e quello della testura, che ne trae parte delle sue qualità.
La natura degli elementi testurali è quindi un criterio di classificazione afferente alle testure. 2.1.2. Secondo testurema: la ripetizione Una superficie uniforme è composta di elementi integrati tra loro e necessariamente ripetuti secondo una legge percepibile. In termini più semplici, è il ritmo che fa la testura. La nozione di ritmo fornisce così una prima legge, quantitativa, della ripetizione testurale. Non esiste ritmo, in effetti, se non quando si trovano riuniti almeno tre elementi.18 Esso non richiede perciò troppa elaborazione, come dimostrano per altro gli esperimenti di Julesz (1975) commentati nel cap. 1: le testure si generano grazie a semplici selezioni statistiche di elementi che, rispetto all’ordine esatto della loro apparizione, sono disposti in maniera aleatoria. Possono però emergere anche articolazioni ritmiche più complesse, quindi più strutturate, e la loro natura è tale da modificare lo status dell’unità testurale.19 2.1.3. L’unità testurale Essendo la testura una proprietà della superficie, l’unità testurale non può essere considerata un’unità con una propria estensione: un piedde-poule di 4 cm2 o di 2 m2 resta un pied-de-poule.20 Diremo dunque che le unità testurali sono qualità e che sono nomi di qualità a permetterci di designarle e di classificarle. Così facendo, seguiremo apparentemente la tradizione della critica d’arte e della psicologia dell’arte. Le pagine che Arnheim (1966, pp. 185-197) dedica ai pittori della testura (Pollock e Tobey soprattutto, che eliminano ogni rappresentazione e cercano, a discapito della forma, di sprigionare qualità testurali; tav. 1) contengono per esempio una lista di tali qualità: «aggrovigliamento», «eccitazione», «viscosità», «flessibilità», «rigidezza meccanica», «pastosità»… È da notare, sin da ora, che la critica ne
16 La possibilità di due trasmissioni simultanee è già stata mostrata nella pubblicità subliminale studiata da Vance Packard. Si trattava in quel caso di scene concatenate secondo l’asse temporale: il messaggio subliminale ha sede nei segmenti più marginali del messaggio esplicito. Per quanto concerne la testura, il messaggio subliminale risiede qui negli interstizi di una superficie. È legittimo chiedersi se un segnale subliminale, per definizione inconscio nel fruitore, dipenda di diritto dalla condizione semiotica. Significherebbe forse accordare al criterio della coscienza un valore che in questa disciplina esso non ha, nonostante ciò che ne hanno detto alcuni (come Mounin 1970). Accanto ad altri artifici in generale classificati come stimoli, Eco (1975, p. 306) considera segni le eccitazioni subliminali, nella misura in cui «possono essere noti all’emittente come stimolatori di un determinato effetto: pertanto l’emittente ne possiede una conoscenza semiotica perché per lui a un dato stimolo non potrà che conseguire un dato effetto. In altre parole si ha funzione semiotica quando lo stimolo rappresenta il piano dell’espressione e l’effetto previsto il piano del contenuto». Aggiunge poi: «Tuttavia l’effetto non è totalmente prevedibile, specie quando viene inserito in un contesto assai complesso». Quando, tra le righe di questo capitolo, ci capiterà di parlare di effetto, non bisognerà dunque dimenticare che si tratta di un contenuto semiotico. 17 Si parla di oscillazione dal momento che le due percezioni, integratrice e disintegratrice, non possono essere simultanee.
Sul ritmo e sulle sue leggi rinviamo ancora una volta a Gruppo μ 1977a, pp. 149-160. 19 Le regioni locali elementari fanno parte di repertori (per esempio quello delle macchie dei pittori impressionisti) e appaiono agli occhi dell’osservatore come insiemi di pixel connessi che possiedono una data proprietà tonale. La dipendenza spaziale tra gli elementi può essere aleatoria (testure deboli) o strutturata (testure forti). Le testure forti, dotate di una legge di ripetizione approssimativa parziale, o anche totale (caso del pied-de-poule), sono legate al ritmo. 20 Un eventuale contrasto fra questa superficie e il suo sfondo non è in sé un problema di testura, ma di forma.
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parla come di forme che rappresentano i significati delle unità testurali. Per quanto ci riguarda, nel definire l’unità testurale come una qualità, prenderemo in considerazione tanto il suo significante quanto il suo significato.
mantica, ma nessun enunciato può essere compreso se i rapporti tra i suoi elementi non formano un tutto organizzato». A voler disconoscere che la testura sia un’organizzazione di elementi, non resta che escluderla per intero dal progetto. Ma se si affronta il problema con serietà, non la si potrà considerare a lungo una componente aleatoria. Numerosi esempi, tra cui quello già citato degli impressionisti, mostrano che la testura può assumere un ruolo pari a quello delle altre categorie, ed Ehrenzweig (1967) segue certo una pista più seria quando vi scopre un significato emozionale. Visto da vicino, un autoritratto di Rembrandt rivela tracce di pennello «non prive di somiglianza con la scrittura febbrile del Tachismo»; nel ritratto di Vilana Windisch eseguito da Dürer emerge una «tecnica del disegno […] controllata e deliberata», mentre le microforme dei tratteggi incrociati «rivelano l’indipendenza della loro significazione formale ed emozionale».21 Possiamo dunque convalidare l’ipotesi dell’esistenza di un significato globale del segno testurale. Tale significato comporta a nostro avviso tre tratti, fra loro correlati: la tridimensionalità, la tattilo-motricità, l’espressività. Se finora abbiamo descritto quasi sempre immagini a due dimensioni, la testura chiama ora in causa, direttamente o indirettamente, la terza dimensione. Essa può infatti giocare autonomamente con la profondità, sebbene in scala molto ridotta (poco più di una decina di millimetri); ma soprattutto, può suggerire impressioni tattili, volte verso l’illusione realista: il segno (plastico o iconico) si presenta allo spettatore come un oggetto manipolabile. Le impressioni tattili possono peraltro precisarsi in impressioni motrici (“flessibilità”, “viscosità” ecc.), che sono modalità delle prime.22 Non si ignora, ovviamente, che tali impressioni siano dovute alle culture e abbiano dunque un fondamento semiotico: la testura /x/ è un’espressione che rinvia a un contenuto, «tattile» per esempio. Sull’opposizione tra visivo e tattile si trovano commenti a perdita
2.2. I significati della testura Prima di compiere una classificazione dei segni testurali, comprensiva dei parametri di base che sono la natura degli elementi e la legge della loro ripetizione, occorre probabilmente chiedersi se la testura non abbia, di per sé, un significato globale, o, per essere più precisi, se non esista una modalità generale di produzione dei significati testurali. La questione è tanto più urgente in quanto i dibattiti sul segno plastico hanno spesso taciuto sulla dimensione della testura. La storia dell’arte, per esempio, ha soprattutto trattato delle forme e dei colori e si è dovuto attendere Waldemar Januszczak (1980) per assistere a un’opera destinata al grande pubblico che prestasse un’attenzione più elevata al ruolo della testura in pittura. Le riserve degli storici dell’arte si ritrovano anche in semiotica. Così Félix Thürlemann (1982) annovera tre categorie plastiche: cromatica, eidetica (che noi esaminiamo sotto il nome più semplice di forma) e topologica (ambito relativo al risultato delle prime due categorie). Göran Sonesson (1989), che commenta Thürlemann, si occupa del “colpo di spugna”: lo ritiene pertinente, ma non può evidentemente associarlo a nessuna delle categorie di un sistema che ignora la testura. La gravità di questo silenzio è tale che al suo riguardo numerosi teorici entrano in contraddizione con se stessi. Arnheim (1969), che pure, come abbiamo notato, mette una cura particolare nel definire gli effetti testurali, sembra curiosamente ritenere che la testura in pittura sia piuttosto un «accumulo di accidenti» dovuti a colpi di pennello incontrollati, involontari e non costruiti. Queste tre caratteristiche portano Arnheim ad assimilare la testura all’aleatorio. Lo studioso ricorda così la difficoltà che abbiamo nel simulare il caso con gesti umani e insiste poi sulla mancanza di diversità, e dunque di interesse, delle testure. Punti disposti a caso suscitano monotonia (benché, per definizione, non si verifichi tra essi alcuna ripetizione). Accorda nondimeno alla testura «il fascino dell’imperfezione», «del contingente» e avanza l’idea che «vi sia una grande soddisfazione nello sfuggire fortuitamente alla significazione». Ma vi si sfugge davvero? A infastidire Arnheim è in fondo il fatto che egli non sappia come inquadrare la testura nella sua definizione di opera d’arte, la quale deve «ricoprire una funzione se-
21 In tempi più vicini a noi Max Ernst ha pubblicato, nel 1926, una raccolta di 34 tavole dal titolo Storia naturale. L’artista, affascinato dalla materia del legno, dalle trame delle cortecce, dalle nervature delle foglie, ne ha riprodotto le testure con un semplice frottage a matita e le ha ritagliate e assemblate in immagini insieme misteriose e suggestive. 22 Cosa che non sempre hanno recepito i teorici della «semiomotricità» (secondo la bella espressione di Parlebas), tutti dediti alla loro descrizione di movimenti complicati – essenzialmente di oratori e di sportivi.
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d’occhio: essa sembra specificarsi in maniera particolarmente chiara nell’opposizione pittorico/testurale. Il pittorico riguarda un’immagine rigorosamente bidimensionale e che si coglie con lo sguardo. Il piacere di toccare e di prendere tra le braccia un’immagine che rappresenta figure (per esempio una Grande Odalisca o una foto di “Penthouse”) è suscitato in noi non direttamente ma attraverso una mediazione di tipo iconico. Il testurale concerne un’immagine in cui è presente la terza dimensione. La si coglie con lo sguardo (i custodi del museo proibiscono severamente di accarezzare i dipinti), ma rinvia a un’esperienza tattile per mezzo di una suggestione sinestesica. Il visivo implica un rapporto che la nostra cultura qualifica come freddo e una certa distanza intellettuale rispetto al soggetto, mentre il tattile implica al contrario un contatto fisico stretto e una distanza minima. Il primo mobilita l’intelletto, il secondo il corpo. Evitando di perderci in divagazioni che in questo ambito fanno presto a diventare pericolose, ci limiteremo a segnalare che l’equilibrio raggiunto in un’immagine tra visivo e tattile risulta esclusivamente dal ruolo che vi gioca la testura, tra i due estremi dell’assenza assoluta e dell’invasione totale, come avviene nella pittura di Pollock. Per completare infine il quadro dei nostri obiettivi sulla tridimensionalità e sulla tattilomotricità, noteremo soprattutto quanto segue. Si è detto che gli elementi costitutivi della testura sono di ridotte dimensioni; è per questa ragione che solo difficilmente diventano oggetto di un controllo motorio rigoroso da parte di colui che li traccia. Il che non significa che essi siano aleatori: la loro produzione, meno inibita dal controllo razionale e dalle forme generali dell’enunciato, li rende in grado di tradurre valori espressivi o emozionali di origine profonda.23 Riconosciamo che è difficile stilare un repertorio completo delle 23
Lo conferma la citazione che segue, tratta dal Klee di Marcel Brion (1955, p. «Se Klee attribuisce un’importanza così grande alla tecnica pittorica e alle sue diverse possibilità, è per il fatto che i suoi mezzi tecnici rispondono a qualcosa che non può essere espresso altrimenti. La graffiatura del vetro, gli “effetti di merletto”, i tratteggi e le rette parallele, lo spessore ineguale del supporto, il disegno e la pittura a olio abbinati all’acquerello, le spazzolature e le raschiature, l’impiego di ogni sorta di strumento per dipingere, perfino della pistola a spruzzo, non sono il sintomo di un’inquietudine o di un’insoddisfazione, ma al contrario la manifestazione di un desiderio di pienezza e del sapere supremo che esiste una sola maniera per esprimere una certa cosa e che più l’artista esplora un campo del visibile e dell’invisibile vasto, più le risorse plastiche messe a disposizione della sua volontà creatrice devono essere numerose». Un corollario molto importante, XXI):
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testure, soprattutto nella forma di un dizionario. Il prossimo paragrafo rappresenta però un tentativo in questa direzione. 2.3. Classificazione delle testure 2.3.1. Criteri di classificazione Finora la testura non è mai stata oggetto di studi sistematici. Il nostro sforzo sarà dunque quello di rinnovare e di proporre alcuni criteri esplorativi di classificazione delle unità testurali. Come si è detto, saranno gli elementi della microtopografia a fornire una delle due basi di questa classificazione. Gli elementi saranno però a loro volta il prodotto di due sottoelementi: il supporto del segno plastico e la sua materia. In alcuni casi i due sottoelementi si presentano distinti (in pittura, per esempio), in altri coincidono (per esempio nella scultura e nelle immagini televisive). Il secondo testurema è la legge di ripetizione degli elementi. Anche la ripetizione è il prodotto di due variabili: ancora una volta il supporto, che impone alla ripetizione alcune costrizioni, e il tipo di comportamento gestuale che la produce e che in qualche misura costituisce l’enunciazione dell’enunciato testuale. Chiameremo questa seconda variabile maniera. Ogni famiglia di unità testurali è dunque descrivibile da tre angolazioni: il supporto, la materia e la maniera. “Supporto”, “materia” e “maniera” sono termini che designano in generale concetti tecnici, e del resto non potremo evitare di impiegare anche qui il linguaggio tecnico degli storici dell’arte (“grana”, “tratteggio”, “impasto” ecc.). Va da sé che ci serviamo di questi termini solo per designare significanti che rinviano a un determinato significato. L’esistenza di questi significati deve essere attestata dalla cultura ed essi devono poter entrare in sistemi di opposizioni, anche relativamente laschi. Un esempio di microsistema a due valori è fornito dall’opposizione liscio/ruvido. Nel concetto di /liscio/ presento qualcosa di puramente visivo; in quello di /ruvido/ ciò che presento nasce sia dal tattile sia dal visivo. Assumendo il criterio della tridimensionalità, che come si è visto è il significato globale preminente nella testura, è possibile distinguere altre due famiglie di segni testurali. Avremo così: (a) i segni che fanno intervenire la terza dimensione direttamente (li rubricheremo sotto la ma che teorici dell’interpretazione o psicologi dovranno chiarire, è se queste significazioni emozionali sfuggano al pittore, o siano dissimulate da lui in virtù del canale subliminale, o siano infine pienamente coscienti ed esplicitamente incorporate nell’immagine.
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voce grana); (b) i segni che fanno intervenire la terza dimensione solo per via indiretta (li chiameremo macule).24 2.3.2. La grana 2.3.2.1. Il supporto La scelta del supporto gioca evidentemente un ruolo determinante nella testura granulare. Anche quando non permette alcuna libertà di esecuzione, il supporto non è indifferente alla significazione del segno plastico. E, a ogni modo, la concessione di queste libertà è frequente. A fare della tela il supporto prediletto dai pittori non sono né il caso né ovvie condizioni tecniche. La tela consente di ottenere effetti che restano preclusi alla pittura su legno; se un pittore come Klee, particolarmente sensibile alla testura, ha spesso dipinto «sotto vetro» (o meglio su una placca di vetro, ma rivolta verso il pubblico),25 è stato di certo per ottenere il massimo di levigatezza e l’assenza totale di profondità reale; allo stesso modo, il disegnatore, l’incisore e l’acquarellista scelgono con cura i loro tipi di carta. In un disegno come Le Nœud de cinture, Seurat utilizza una carta Michallet granulosa e una matita Conté morbida, che usa delicatamente e in modo inclinato per ottenere effetti di ondulazione: è essenziale per lui che la mina di piombo non raggiunga a pieno i vuoti della carta, salvo forse nei neri più profondi. Realizza così un’alternanza di micro-zone bianche e nere, simile a una trama fotografica, in cui il nero assume pressappoco l’aspetto di una griglia.26 Come possiamo vedere da questo esempio, nella pratica supporto e maniera sono sempre interdefiniti. Non si distinguono che nella teoria. Le significazioni più generali dei supporti riguardano le loro relazioni con l’ambito di riferimento: il monitor televisivo rinvia all’universo tecnologico, la tela all’universo delle arti istituzionali ecc. 24 Intenderemo questi termini con un significato preciso: così la pretesa «grana» della carta fotografica è in realtà di pertinenza della macula. Adottiamo questo termine anziché il suo sinonimo macchia non per volere utilizzare a tutti i costi il latino, ma per evitare ambiguità. La macchia, infatti, può essere unica – e la parola è allora sinonimo di forma –, mentre la macula è più spesso colta come molteplice. 25 Questa tecnica, particolarmente utilizzata per le icone, prende il nome di églomisé. 26 I rapporti tra questa tecnica spontaneamente “proto-puntinista” e il successivo puntinismo di Seurat sono stati accuratamente studiati da Homer (1964), così come la combinazione ottica del nero e del bianco che ne deriva.
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2.3.2.2. La materia Per ragioni tecniche, i produttori di pigmenti cercano di ottenere uno stato di divisione massima così da farli sfuggire alla capacità di differenziazione dell’occhio più acuto: i grani di un pigmento minerale come il cinabro o il bianco di titanio misurano così generalmente 0,25 μm (Rossotti 1983); le terre devono essere altrettanto macinate e raggiungono finezze considerevoli; per quanto concerne i coloranti sintetici, essi tendono da subito alla dimensione molecolare, che viene di molto ridotta, e sono solubili nel medium che fa loro da supporto; la stessa cosa accade per le componenti dell’immagine fotografica. Su queste basi si potrebbe pensare che il carattere minerale, naturale, organico o metallico del pigmento non sia pertinente per uno studio sui colori. Un semiologo frettoloso accelererebbe il passo: facendo coincidere il concetto di materia, nel senso in cui lo utilizziamo qui, con la materia hjelmsleviana, avrebbe subito il diritto di contestare la semioticità della prima. Occorre tuttavia ricordare che ogni classe materiale di pigmenti si caratterizza per una specifica maniera di riflessione della luce, immediatamente percepibile con l’esperienza e che non è altro che una modalità estremamente raffinata della microtopografia. Ora, questo tipo di percezione è soggetta a essere semiotizzata. Sulla propria tavolozza, senza esitazione, ogni artista raggruppa i suoi pigmenti per famiglie: minerali (giallo di cromo, blu di Prussia, bianco di zinco…), naturali o terre (d’ombra, di Siena, d’ocra…), organici (feci, sangue, porpora, garanza…), metallici (dorato, argentato, bronzo).27 È una classificazione tra tante altre disponibili, che non coincide con le classificazioni stabilite in altri campi, nella chimica per esempio. Tali classificazioni sono produttrici di senso.28 Sappiamo, in particolare, che gli impressionisti bandivano le terre dalle loro tavolozze a causa del significato «terroso» che queste avevano, così come inorridivano di fronte all’aspetto «melmoso», simile alla nicotina, dei pigmenti puri mescolati. 27 L’araldica mostra una classificazione dello stesso tipo, perché distingue già di base gli smalti, i metalli, i tessuti e le pelli. Questa classificazione, testurale ma anche tecnica, ha dato luogo a un’intensa attività semiotica (in parte descritta da Mounin 1970), a sua volta produttrice di regole che oggi non hanno più alcuna giustificazione tecnica: la regola “mai smalto su smalto”, seguita all’inizio, con i pigmenti moderni non è più rispettata. 28 Altre suddivisioni come olio vs gouache vs acquarello trascendono la prima: l’olio può essere il tramite delle terre così come dei minerali.
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2.3.2.3. La maniera Sul piano terminologico, occorre distinguere con cura l’impasto dal colpo di spazzola o dal tocco, ricordando che il primo designa lo spessore e la regolarità delle masse testurali depositate nel supporto e il secondo si riferisce invece alla forma stessa degli elementi. Avendo a disposizione tutta una panoplia di spugne, diverse per forma, dimensione e ruvidità, di coltelli, di tavolozze e di spatole, il pittore può dar vita a una vasta gamma di impasti, dal rifinito levigato della pittura antica fino agli accumuli estremi del tardo Tiziano o di Mathieu.29 In questi ultimi casi non sono rari scarti di tre millimetri fra il concavo e il convesso. D’altronde il pittore non ha il controllo totale sugli effetti di rilievo: nei mosaici bizantini per ottenere gli smalti, bisogna fissarli in verticale. La percezione dei rilievi dipende in larga misura dalla lucentezza della superficie e da un’illuminazione incidente obliqua. Negli impasti più generosi la microforma del rilievo resta molto irregolare. Comporta generalmente una salienza finale, che si ottiene, per esempio, al momento in cui il pennello lascia il supporto (il «divellere», preceduto da una serie di solchi eseguiti con le setole della spazzola). Gli effetti che ne risultano («disordine», «energia») vanno schedati sotto il significato di «materia», mentre all’opposto un effetto liscio (lo schermo televisivo, l’icona su vetro, la carta lucida fotografica…) afferma la supremazia del supporto planare, e dunque della bidimensionalità, rinviando, pertanto, al pittorico. 2.3.3 La macula Si intende per macula la discretizzazione più o meno spinta dell’elemento testurale, quando esso si inscrive unicamente nella bidimensionalità. 2.3.3.1. Il supporto Ribadiamo tutto quello che è stato detto del supporto a proposito della grana, con la differenza che qui, per definizione, esso non ha un ruolo determinante nell’elaborazione della tridimensionalità. Talvolta acqui-
sisce però un altro ruolo, come fondo subliminale della macula subliminale. Si noterà per esempio che l’esistenza di macule elementari è facilmente percepibile nella pittura impressionista e neoimpressionista, in cui esse sono disgiunte e lasciano apparire il supporto. Lo stesso fenomeno si manifesta nelle foto sgranate, nel belinogramma, negli schemi ottenuti con una stampante ad aghi, nelle lettere dei giornali luminosi, e così via. Il supporto diventa allora uno sfondo continuo situato dietro macule discontinue. Si è appena visto che la scelta di macule, al contrario della grana, ha l’effetto di consolidare il carattere semiotico. L’adozione di macule separate è un’evoluzione nella stessa direzione, perché rende visibile, insieme all’immagine, il modo della sua produzione. Il contenuto generale di questo tipo di espressione è dunque l’aspetto tecnico del messaggio visivo proposto. 2.3.3.2. La materia La macula può dunque essere definita sulla base della discretizzazione della superficie, che in dipendenza delle dimensioni è impercettibile o invece si rivela. Le dimensioni sono dovute, in parte, alla tecnica impiegata: un regista alle prime armi non ha evidentemente nessun potere sulla maggiore o minore precisione nella definizione dell’immagine, non più dell’informatico con il suo monitor. Ma se è vero che ogni dipinto è il risultato di piccoli tocchi, il pittore, per il fatto stesso di stendere la materia in piccole macule omogenee con l’aiuto di diversi strumenti, può scegliere spazzole a setola molto fine e ridurre al massimo la dimensione delle macule elementari o al contrario lavorare per grandi cellule. Quando ciò accade, la discretizzazione è una trasformazione altamente percepibile. Ne consegue che un’icona il cui significante è discretizzato in cellule di grande dimensione apparirà molto diversa e perderà il suo realismo. 2.3.3.3. La maniera La forma della macula non ha meno importanza del suo senso manifestato. Il repertorio di queste forme è evidentemente ampio e aperto. Si può trattare di rettangoli, di virgole, di piccoli cerchi – le tre forme che si ottengono più facilmente con dei pennelli –,30 ma anche di forme più
29 Sutton (1960, p. 4) precisa così quella che definisce «la principale innovazione tecnica di Nicolas de Staël»: «Ottiene l’effetto desiderato usando di un raschietto come quelli adoperati per scrostare la tappezzeria. Stende il colore e lo schiaccia come se fosse una formina di sabbia. Alla potenza della massa dà risalto con un bordo di colore fiammeggiante». Si sa che l’interesse per il tocco e per l’impasto in pittura sorge nel Rinascimento e che ha assunto un’importanza reale solo nel XVIII secolo.
30 Gli impressionisti hanno avuto bisogno di colpi di spazzola brevi e irregolari: più di frequente a virgole, a tratti corti, a tratteggi e a macchie più indefinite (cfr. Homer 1964). Alla fine degli anni settanta dell’Ottocento, Monet utilizza, per esempio, soprattutto una virgola irregolare. Al contrario Pissarro, negli anni ot-
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complesse, come nel caso del pied-de-poule. Ogni nuova tecnica, dalle macchine per tessere agli aerografi ai computer, produce nuove varietà di macule. Si possono tuttavia distinguere, a livello del significato, macule senza effetto direzionale, o macule propriamente dette, e macule a effetto direzionale, o tratteggi. È la loro debole o forte estensione a farle ascrivere alla prima o alla seconda di queste categorie. (a) La conseguenza più evidente delle macule non direzionali è la composizione ottica, ossia la composizione, nell’occhio, delle luci che le macule riflettono. Come sappiamo, questa sintesi è additiva ed ha un significato totalmente diverso dalla mescolanza dei pigmenti e dei coloranti, che è all’origine, invece, di una sintesi sottrattiva e di tinte che risultano più dense (cfr. § 4.1.1.). Quanto alla sintesi additiva, impressionisti, neoimpressionisti e divisionisti l’hanno ricercata perché è molto più luminosa. Non è il caso di mettersi a descrivere tutte le composizioni ottiche possibili. Rispetto a questo significato testurale, ci limiteremo a un solo esempio: quello relativo al lustro. È un effetto che è stato accuratamente descritto dal fisico tedesco H.-W. Dove: «Quando due masse luminose svolgono un’azione simultanea sull’occhio, si percepisce il lustro, a condizione di essere allo stesso tempo consapevoli, in qualche modo, che le masse di luce sono effettivamente due» (cit. in Homer 1964). L’effetto che si ottiene è un brillio più o meno tenue, una qualità di luce vibrante e scintillante, una trasparenza che dà l’illusione di vedere attraverso l’opera. Fénéon spiega il significato del lustro nei seguenti termini: «L’atmosfera sembra vacillare […], la retina, prevedendo con anticipo raggi distinti, […] percepisce in rapida alternanza contemporaneamente gli elementi separati e la mistura che ne risulta». Questa descrizione richiama quella del cubo di Neisser e delle figure multistabili in generale, nelle quali è possibile riconoscere solo uno stato per volta, e che variano repentinamente. Il lustro non provoca tuttavia né disturbo né disagio all’occhio e può essere ricercato per il significato della “variabilità”.31
(b) Le macule direzionali – che tendono verso il tratto32 – presentano un grado maggiore di complessità: esse aggiungono nuovi significati agli effetti di composizione ottica. Non stiamo parlando di tratteggi isolati, ma al contrario di una rete di tratteggi. Si possono quindi distinguere due tipologie fondamentali: i tratteggi paralleli e i tratteggi incrociati o intrecciati. I tratteggi, in particolare quelli paralleli, hanno un effetto direzionale marcato. Nel caso in cui si manifestino insieme in un’immagine iconica, questo effetto appartiene alla testura e può essere del tutto estraneo al type presentato: lo si vede molto bene in un cielo di van Gogh. Più precisamente, i tratteggi possono essere paralleli ai contorni degli oggetti, che rafforzano, ma possono anche trovarsi in conflitto con essi, o addirittura estraniarsene, come in van Gogh. Si capisce facilmente che questa fibrillazione della superficie e della materia, nelle sue relazioni con gli oggetti rappresentati, provoca effetti di senso. Studieremo il fenomeno nel momento in cui affronteremo il tema del rapporto tra segno plastico e segno iconico, o relazione “iconoplastica”. Poiché la macula, direzionale o meno, ha già di per sé uno status semiotico, nuovi significati possono nascere dall’interazione tra il significato testurale globale e i significati relativi a essa. Un caso interessante è quello offerto da una testura che deriva dalla scrittura. Jírˇ i Kolarˇ compone le sue immagini come un collage di piccoli frammenti 32
tanta, ha fatto ricorso a spazzolature ampie e delicate, anche incrociate. Il pittore classico, con le sue spazzole a setole fini, ottiene invece il “laccato”. 31 Nel quadro della teoria delle trasformazioni il lustro, così come le percezioni che caratterizzano le altre distanze critiche, risponde alla descrizione di un tipo particolare di trasformazione ottica.
Tratto e non linea. La teoria delle trasformazioni spiega la nascita della linea come differenziazione rispetto al punto. Ma quest’operazione sfocia in una linea ideale, senza spessore né testura, che è opportuno opporre al tratto, dotato di una testura e di uno spessore. Considerando il tratto non come una differenziazione puntuale, ma come una zona di differenziazione, la teoria cinese della pittura (Cheng 1979) permette di comprendere la testura a partire dal tratto. Questa teoria si fonda, di fatto, su quattro concezioni, che riformuliamo nella maniera seguente: (a) il contorno appartiene all’oggetto e ogni tratto è un contorno; (b) il tratto fornisce i confini degli oggetti per differenziazione; (c) il tratto dà un’indicazione di testura, più o meno codificata, in base al suo spessore differenziato; (d) il tratto proietta la validità della sua testura verso l’interno dei tracciati. Le scuole di pittura cinese hanno anche sistematicamente descritto tutte le modalità di quello che essi chiamano il tratto increspato o tornito, mostrandone tutte le associazioni tattili dentro varianti metaforiche. Queste varietà sono le «nuvole avviluppate», il «taglio ad ascia», la «linea dorata», la «canapa sparpagliata », il «bianco volante», il «pennello secco», la «faccia di diavolo», il «cranio di scheletro», il «fagotto ingarbugliato», l’«oro e la giada», il «frammento di giada», la «ronda corta», la «pietra di allume», il «disossato».
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cartacei di libri e di giornali stampati. Dom Sylvester Houédard fa lo stesso utilizzando i caratteri della sua celebre macchina da scrivere Olivetti Lettera 22.
3. Sistematica della forma 3.0. Introduzione Troveremo, nelle pagine che seguono, l’abbozzo di una semiologia della forma. La coglieremo nella sua “purezza”, priva cioè di qualsiasi caratteristica cromatica o testurale (cosa che non accade, evidentemente, nel quadro della comunicazione visiva pratica, cfr. Bense 1971), e con un grado di luminosità ideale e stabile. Va da sé che così considerata la forma è un oggetto teorico. Al fine di giungere da un livello semplice a uno più complesso, sempre per via di ipotesi, esamineremo in principio una forma unica, all’interno di un enunciato visivo. Questo enunciato sarà dunque innanzitutto costituito da due elementi: lo sfondo e la forma che da esso emerge. È a tutti noto che una forma può costituire lo sfondo su cui si situa una nuova forma, e così di seguito. Ma almeno su questo punto, optiamo per una situazione ideale in cui una sola forma si colloca su uno sfondo stabile e unico. Avviando da qui la nostra riflessione, ci avviciniamo alle posizioni di Bertin (1967) e di Odin (1976), che riconoscono nella «macchia» l’unità elementare dell’immagine. Ma anche riducendola alla sua forma pura, la macchia non costituisce un’unità ultima, inanalizzabile. Può essere invece articolata secondo tre parametri. La loro descrizione, ovvero la descrizione dei formemi, sarà oggetto del prossimo paragrafo. Il secondo sarà dedicato a una semantica delle forme. Il terzo supererà l’analisi della forma presa isolatamente per considerare, in un enunciato, la relazione tra diverse forme.
generis.33 Di fatto, quando si mettono a confronto alcune forme, è possibile notare delle regolarità. È lo stesso procedimento di comparazione a dar nascita alla forma propriamente detta, a partire dalla percezione di figure (cap. 1, § 2.4.2.): la nozione di forma presuppone delle caratterizzazioni invarianti. Il confronto può avvenire o all’interno di un singolo enunciato, quando esso comprende più forme, o mettendo in rapporto due enunciati. Per descrivere le regolarità individuate c’è bisogno di un metalinguaggio di descrizione: i nostri formemi sono gli elementi di questo linguaggio. Per esempio, se l’analisi plastica dell’opera di Dubuffet farà emergere il tratto /verticalità/, da quella condotta sull’opera di Pollock emerge il tratto /non chiusura/. Allo stesso modo, si avranno /verticalità/ e /orizzontalità/ in Mondrian, e via di seguito. Questa procedura è solo un ampliamento di quella che si può applicare a enunciati complessi che manifestano più forme simultaneamente. L’indagine di un’opera di Vasarely farà emergere i tratti della /chiusura/ e della /concentricità/. Resta vero che questi formemi hanno una fortissima tendenza a variare rispetto alla possibilità che si ha di sistematizzarli. Vilches (1983) propone opposizioni come /vicino/ vs /lontano/ (con il termine mediatore /in mezzo/), o /verticale/ vs /orizzontale/ (con il termine mediatore /obliquo/). Ma Sonesson (1989) fa ragionevolmente notare che una forma può essere benissimo /verticale/ ma non per questo /vicina/. Formemi del genere prendono posto in una scala di intermediari, ogni polo dei quali potrebbe costituire una «buona forma». Ci si allontana da queste «buone forme» verso altre che deviano di poco o di molto, passando attraverso una zona neutra «di indecisione» o «di equilibrio».34 Ciò non toglie che si possa continuare a parlare di forme, in senso hjelmsleviano e gestaltista: ognuna delle posizioni della scala può infatti essere considerata come facente parte di un insieme non ben determinato.
3.1. I significanti della forma 3.1.1. Lo status dei formemi Ogni forma può essere definita sulla base di tre parametri: la dimensione, la posizione e l’orientamento. Ognuno di essi può assumere un gran numero di valori, numero che non è tuttavia così elevato da indurre a escludere definitivamente l’ipotesi di un repertorio finito. L’articolazione in tre tratti e l’ipotesi di un registro finito di valori sembrano entrare in contraddizione con la tesi secondo cui i segni plastici si costituiscono ogni volta in un enunciato secondo regole sui
33 È una delle questioni più spinose della semiotica visiva. Con ragione, Sonesson (1989) rimprovera ai più illustri rappresentanti della scuola greimasiana – Floch e Thürlemann – di non stabilire con chiarezza se le opposizioni plastiche che si ricavano dagli enunciati analizzati valgano solamente hic et nunc o facciano parte di un sistema universale. 34 Pur essendo rilevanti, i due concetti non trovano posto nella teoria di Sonesson. L’equilibrio può essere paragonato a ciò che chiamiamo “mediazione”, mentre l’indecisione è affine alla nostra “multistabilità”.
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E tuttavia, in quanto strutture semiotiche, i formemi sono in numero finito. Non esistono in sé, sono delle forme (nel senso questa volta hjelmsleviano del termine). Ora, queste strutture semiotiche costituiscono, senza alcun dubbio, una proiezione delle nostre strutture percettive, le quali sono a loro volta determinate dai nostri organi e dal loro esercizio, che è fisiologicamente ma anche culturalmente determinato. Si può dire lo stesso dell’organizzazione dello spazio percepito in tre dimensioni, che sia dritto o curvo. Siamo soggetti alla gravità: da qui la nascita delle nozioni di alto e di basso e quella di un asse semiotico della verticalità. Ci mettiamo in movimento, per andare a caccia, per fuggire, per nutrirci, per avviare relazioni sessuali: da qui la nascita di un’opposizione davanti/dietro fra il soggetto e l’oggetto e quella di un asse semiotico della frontalità. I nostri organi sono simmetrici: da qui la nascita della coppia sinistra/destra e di un asse della lateralità. La linguistica ha dimostrato, nell’analisi dell’uso complesso delle preposizioni spaziali (cfr. Vandeloise 1986), che la manipolazione semiotica dello spazio non dipende da un sistema logico o geometrico, ma dal rapporto con concetti funzionali legati alla percezione e all’uso sociale dello spazio.35 Svariati parametri creano le forme, che superano dunque la somma delle loro componenti. Due figure della stessa dimensione e della stessa spazialità, ma diverse per orientamento, vengono considerate forme distinte. Pensiamo, per esempio, al fatto che una stessa figura può avere denominazioni diverse – come “quadrato” e “losanga” – quando è differentemente orientata. 3.1.2. Lo status dello sfondo Prima di procedere, sottolineiamo ancora una volta che in questa sede diamo allo sfondo uno status particolare, diverso da quello che aveva nella nostra esposizione sui fondamenti percettivi del linguaggio visivo. 35
Lì lo sfondo era un percetto indifferenziato, per definizione non sottomesso a un processo elaborato di indagine. Sempre per definizione, questo sfondo ideale è privo di contorni precisi (cfr. Arnheim 1986), cosicché l’espressione «sfondo delimitato» costituisce una contraddizione in termini, poiché uno «sfondo» del genere equivarrebbe a una figura in rapporto a uno sfondo esterno al contorno. Qui partiremo dall’ipotesi di uno «sfondo delimitato» e tuttavia da considerare in quanto sfondo, che chiameremo «paradossale». Per quale ragione possiamo farlo? Le nostre abitudini culturali ci spingono a neutralizzare alcune figure che finiamo per considerare sfondi. Il primo esempio che ci viene in mente è con tutta evidenza quello della cornice in rapporto al muro. Ma ricordiamo anche quello del foglio di carta, di un piano rispetto ad altri piani percepiti, dello schermo luminoso in rapporto alle zone scure che lo circondano, del piedistallo della scultura, e via di seguito. Tutti elementi in cui riconosciamo facilmente degli sfondi e che da quanto detto assumono un carattere paradossale: sono sfondi che hanno una forma! La «forma dello sfondo» interviene per imporre le sue leggi alle altre forme che da esso si staccano: pensiamo alle diverse influenze che esercitano sulla percezione della figura una cornice rettangolare poco o molto spessa, un quadrato posizionato su una delle sue punte, un quadro ovale ecc. 3.1.3. Primo formema: la posizione Una figura ha innanzitutto una posizione, componente che diverse teorie dell’arte hanno spesso menzionato.36 È chiaro, infatti, che emergono significazioni differenti se la forma è collocata al centro di uno sfondo o in un altro punto dello spazio. Poiché sfondo e figura possono essere percepiti sia in quanto volumi sia in quanto superfici, il parametro in questione non si limita a rendere conto della posizione in un piano. Una figura percepita come volume sarà considerata in possesso di una posizione in uno spazio a tre dimensioni; una figura percepita come superficie avrà una posizione in un piano, eventualità in cui potrà occupare in esso posti diversi nel piano. È il caso delle forme percepite davanti allo sfondo o, più di rado, dietro a esso (quando la forma sembrerà fare un buco – della stessa forma, evidentemente – nello sfondo).
Vandeloise (1986, pp. 22-30) ricava cinque gruppi di tratti universali che, stando al dizionario della spazialità, svolgono un ruolo nell’analisi dello spazio. Si tratta: 1) della forma del corpo umano, 2) della fisica naïve, che vuole, per esempio, che una relazione come portante/portato intervenga nella descrizione delle preposizioni sopra/sotto; 3) dell’«accesso alla percezione», che riveste un ruolo nella descrizione delle preposizioni dietro e sotto); 4) dell’«incontro potenziale» tra entità, movimento descritto, per esempio, dalle preposizioni prima/dopo; 5) dell’orientamento generale e dell’orientamento laterale (che, oltre alle tre dimensioni determinate da (1), fanno intervenire la linea dello sguardo e della direzione del movimento).
36 In particolare, Kandinskij ne ha avanzato un’interpretazione nel linguaggio che è il suo proprio [1926 (1972)] e Lindekens (1971a) ha poi tentato di sistematizzarne la proposta.
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Per definizione, una posizione è relativa. Nel caso della forma la relatività è duplice, perché funziona in rapporto allo sfondo37 e quindi in relazione a un centro. Chiamiamo fuoco il luogo geometrico della percezione, punto nodale di un sistema di assi da cui provengono formemi quali la /centralità/, l’/alto/, il /basso/… Sono le relazioni tra questi tre elementi – centro, forma, sfondo – a determinare percetti posizionali già molto elaborati come /sopra/ e /davanti/.38 Il primo esempio corrisponde alla messa in relazione tra una forma e la massa costituita dallo sfondo lungo un asse verticale. Questa relazione è percepita, a partire da un fuoco, parallelamente al piano che passa in verticale da esso e tale che la forma sia alla sommità dell’asse. Il secondo caso corrisponde alla messa in relazione tra due elementi lungo un asse frontale che passa per il centro, tale per cui la forma sia più vicina al centro. Si possono descrivere nella stessa maniera le relazioni /sotto/, /dietro/, ma anche /sinistra/, /destra/, così come casi più complessi ancora, come /a fianco di/, quando le forme sono numerose. Tutto questo non deve essere valutato in senso geometrico stretto: l’insieme dei punti situati /sopra/ costituisce un insieme comunque vago. Le relazioni fra i tre elementi possono essere conflittuali. Consideriamo un enunciato posto su un piano orizzontale (tappeto o mosaico): lo si potrà leggere in senso orizzontale o in senso verticale. Nel primo caso la visione “raddrizza l’enunciato” e fa trionfare la logica del centro; nel secondo prevale invece la logica dello sfondo. La prima opposizione che struttura il formema della posizione sarà dunque una tripartizione /sfondo che s’inscrive su un piano verticale/, /sfondo che s’inscrive su un piano orizzontale/ e /sfondo che s’inscrive su un piano obliquo/. A partire da qui, un punto dato può essere descritto ricorrendo ad assi semiotici; è un vettore a due coordinate, indifferentemente polari o rettangolari (essendo il punto di riferimento molto probabilmente una proiezione del fuoco al centro della coppia sfondo/forma). 37
/perifericità/
/centralità/
/elevazione/
/alto/
/lateralità/
/basso/
/sinistra/
/destra/
Un punto dato può essere definito attraverso molte di queste descrizioni per volta (per esempio: /alto/ e /a destra/), cosa che spesso crea complicazioni. Così, si può dire che un punto situato perpendicolarmente al piano dello sfondo, nel caso in cui il centro non si trovi su questo asse, sia “davanti” allo sfondo? Questa complessità è risolta dalle convenzioni culturali: nel caso citato, occorre ricordare che anche guardando un quadro di sbieco, crediamo di mantenere rispetto a esso una posizione frontale. 3.1.4. Secondo formema: la dimensione Anche qui è banale sottolineare che si tratta di un parametro relativo: un elemento isolato, che sia una linea o una superficie, non possiede dimensioni. Bisognerà, una volta di più, fare intervenire la triade forma-sfondo-fuoco. Nel plastico, infatti, gli oggetti sono grandi o piccoli in funzione di due fattori: il primo è la scala di osservazione, che sappiamo dipendere da un angolo di prensione a partire dal quale si calcola la taglia degli oggetti. Il secondo è la taglia dello sfondo, anch’esso paradossalmente provvisto di una dimensione. Il parametro della dimensione si riduce, fondamentalmente, a un asse che presenta ai due estremi la /grandezza/ e la /piccolezza/. In teoria dovremmo però raddoppiare questo asse a seconda che /grandezza/ e /piccolezza/ si misurino rispetto allo sfondo o al fuoco: Sfondo
A
Cosa che avviene solo per il “carattere paradossale” dello sfondo: in uno spazio indifferenziato non esistono coordinate né, di conseguenza, posizioni individuabili. 38 Si potrà notare, a proposito della posizione, che un asse come quello della frontalità implica anche il movimento (in avanti/all’indietro), che si rivela del resto capitale per l’analisi di numerose espressioni verbali della spazialità (cfr. Vandeloise 1986).
Inoltre una forma può situarsi dappertutto nello spazio. A' è grande in rapporto al punto focale, ma piccolo rispetto allo sfondo: è il caso di
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O
A’ Fuoco
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una macchia sperduta in un quadro enorme. A è piccolo in rapporto al fuoco, ma grande rispetto allo sfondo: è il caso della macchia che in una miniatura ha la funzione di un volto. L’opposizione di base /piccolo/ /grande/ si specifica in opposizioni più sottili. Distinguiamo: /lungo/ e /corto/ e /largo/ e /stretto/ sull’asse della monodimensionalità, con la prima coppia relativa all’ordinata dell’altezza, della prospettività, la seconda relativa all’ordinata della larghezza; /vasto/ ed /esiguo/ nella bidimensionalità; /spazioso/ e /angusto/ nella tridimensionalità. 3.1.5. Terzo formema: l’orientazione L’ultima delle nostre tre categorie è il risultato della combinazione dei due poli del vettore posizione. L’orientazione è dunque una proprietà del contorno delle forme asimmetriche, che non concerne soltanto i fenomeni osservati negli spazi bidimensionali. Ogni figura è orientata in rapporto a due punti di riferimento, il fuoco e lo sfondo paradossale. Quando parleremo del significato di questo terzo formema, introdurremo la nozione di movimento e potremo allora descrivere l’orientazione come il prodotto di un movimento virtuale (e reversibile) nello o sullo sfondo, lungo una traiettoria che sarà possibile modellizzare. I concetti con cui abbiamo descritto il sistema della posizione tornano utili per definire quello dell’orientazione. Basta infatti soltanto aggiungere il tratto della /direzione/. Avremo così: /verso l’alto/ vs /verso il basso/, /centrale/ vs /periferico/, che a seconda dei movimenti innescati diventa /centripeto/ vs /centrifugo/, e via dicendo. Ecco il quadro dettagliato delle possibili attualizzazioni:
/centripeto/
/orizzontale/
/centrifugo/
/orizzontale/
/verticale/
/verticale/
/a sinistra/ /ascendente/ /a sinistra/ /ascendente/ /a destra/ /discendente/ /a destra/ /discendente/
ma con modalità di lettura molto diverse. Si può ipotizzare, per esempio, che la fig. 12, a semicerchio, sia orientata in verticale e verso l’alto (OA) se B teniamo conto della parte concava del disegno, o O in verticale e verso il basso (AO) se teniamo conto Fig. 12 della sua parte convessa. Considerando l’asse che prosegue il diametro del cerchio parzialmente disegnato, potremo anche leggere la figura orizzontalmente (OB e BO). La pertinenza delle interpretazioni dipende ovviamente dal contesto. L’impossibilità di fornire un quadro esaustivo del problema non è sintomo di una debolezza del sistema. Dipende semplicemente dal fatto che ogni contorno è un oggetto complesso, paragonabile, quindi, alla presenza di svariate forme situate sullo (o nello) sfondo. È impossibile immaginare un “contorno semplice”: non sarebbe altro che un punto geometrico, il quale, per definizione, non ha contorno.39 A
3.2. I significati della forma Per come l’abbiamo fino a ora esaminata, la forma appare un’espressione correlabile al piano del contenuto in diverse maniere. Definire la semantica della forma è per forza di cose disagevole. Innanzitutto, abbiamo a che fare con un dominio che non è governato da quella che Eco (1975) chiama la ratio facilis, o in altri termini in un dominio non rigorosamente codificato. Ma soprattutto, non ci è dato di comprendere la forma se non attraverso un percorso teorico: nella realtà – ne abbiamo parlato – non esistono forme sprovviste di colori e di testure. Ciò significa che dovremo diffidare di tutti quegli inventari di contenuti che ci vengono propinati dalla critica d’arte e dalla psicologia sperimentale. Delle due discipline, la prima intende la forma solo nel quadro delle relazioni instaurate nell’intero enunciato, ma che fa fatica a estrapolare, condannandosi dunque a fare economia del metodo analitico. La seconda, che consente di assumere questo metodo e che potrebbe all’occasione ricercare la forma sotto le altre varianti plastiche, è troppo impegnata a osservare il legame tra il contenuto plastico e le strutture del suo produttore (come nell’analisi di Rorschach), tanto da
Non aspiriamo a essere esaustivi: l’orientazione è un problema di contorni e i tipi di contorno sono probabilmente innumerevoli. La fragilità di questo percetto ci autorizza, d’altronde, a decodificare la stessa for-
39 Segnaliamo inoltre, di passaggio, che l’orientazione è anche una proprietà della testura, come abbiamo avuto modo di vedere (§ 2.3.3.3.). Poiché la testura, al pari del colore, può separare le figure dallo sfondo, dovremo altresì considerare il rapporto fra l’orientazione delle forme e quello delle testure.
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arrivare a trascurare l’analisi del sistema di questo contenuto. Il suo contributo all’indagine di una semiotica plastica – che d’altronde non distingue con precisione dalla semiotica iconica – rischia quindi di essere del tutto minimo.40 Per queste ragioni non riteniamo utile né auspicabile stilare qui un inventario esaustivo dei possibili contenuti delle forme attualizzate. Esamineremo inizialmente questo contenuto al livello teorico delle forme pure e isolate e ciò che ne ricaveremo sarà piuttosto un insieme di significati di volta in volta manifestati o occultati dai contesti, i quali, in ogni caso, li mettono ampiamente in prospettiva. Affronteremo d’altronde la questione della forma in contesto nel § 3.3. Dal momento che la forma si lascia descrivere secondo tre parametri – la posizione, la dimensione e l’orientazione – ed essendo che il linguaggio plastico non possiede, per definizione, la doppia articolazione, distingueremo una semantica dei formemi (§ 3.2.1.) e una semantica delle forme (§ 3.2.1.). Nel rapporto fra i due livelli la seconda, che assume su di sé la prima, organizza i contenuti in maniera estremamente singolare. Prenderemo in considerazione anche una terza semantica (§ 3.3.) che riguarda i rapporti di combinazione tra forme semplici.
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Ritroviamo l’analisi del sistema del contenuto plastico, allo stato embrionale, nelle indagini sperimentali che presentano assi semantici graduati secondo le scale di Osgood. Sfortuna vuole che chi le compie non solo non si preoccupa di isolare la variante della forma dalle altre varianti plastiche, ma non la separa neanche dal quadro dei sistemi iconici, o dei sistemi fortemente codificati. È la critica principale che andrebbe rivolta allo studio di Lindekens (1971b) sulle diverse caratteristiche morfologiche delle famiglie tipografiche (spessore, corpo e massa per quanto riguarda le dimensioni, opposizioni del tipo corsivo-tondo che chiamano in causa differenze di orientazione…). I valori rintracciati non possono essere che tendenziosi: i caratteri tipografici sono già in partenza investiti di molti valori culturali. Nei casi in cui l’analisi scende al livello della semplice forma, la si considera di solito non analizzabile e le si assegnano frequentemente tratti che provengono da un solo formema. L’aumento di complessità che deriva dall’integrazione tra i formemi crea i presupposti per un discorso sull’ineffabilità del sistema. Quante elucubrazioni sulle “leggi di proporzione”, tra cui la meno nota non è sicuramente la “sezione aurea”! In mancanza di una riflessione sul contesto, la resa matematica del progetto, cara, tra gli altri, a Matila Ghyka, rischia davvero di restare un sotterfugio a copertura del suo carattere non scientifico. Più serie ci sembrano le sperimentazioni plastiche condotte da Bru (1975), esplicitamente fondate sulla distinzione degli “elementi pittorici”, tra cui risaltano la posizione, la direzione, la dimensione, analoghe ai nostri tre formemi.
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3.2.1. Il contenuto dei formemi 3.2.1.1. La repulsione L’asse semantico che corrisponde alla /posizione/ è la “repulsione”. Presupponendo che ogni forma assuma posizione solo in rapporto a uno sfondo (paradossale, perché ha comunque un limite), chiamiamo repulsione la tensione tra questi due percetti, cioè la forma e il limite dello sfondo, colti simultaneamente. Il limite dello sfondo tende a respingere e di conseguenza a centralizzare qualsiasi forma si stagli su di esso. L’asse semantico in questione è dunque già di per sé organizzato (altrimenti non parleremmo di asse). Si articola innanzitutto secondo l’opposizione centrale/periferico, conformemente allo schema commentato più sopra. Così si può dire che la posizione centrale, dove la tensione è più debole (le forze si esercitano sulla forma in maniera simmetrica e dunque si annullano reciprocamente), è “forte” e “stabile”. È quello che Arnheim definisce il potere del centro, potere che i mistici orientali hanno saputo illustrare con raffinatezza nelle loro teorizzazioni sul mandala, di cui si sono occupati anche studiosi occidentali.41 La presunta analisi ideologica alla quale è stato sottoposto il “centro-centrismo” rappresenta essa stessa una conferma di questo potere. Al contrario, la posizione periferica è ritenuta “debole” e “instabile”. Corrisponde a un grado di tensione superiore. D’altronde, si raggiunge la massima tensione quando la forma è tangente al limite dello sfondo.42 La /non centralità/ articola il suo contenuto in /superiore/ vs /inferiore/ – categoria che corrisponde alle espressioni /sopra/ e /sotto/43 – e /sinistra/ vs /destra/, cui è correlata l’opposizione culturale /prima/ vs /dopo/. 3.2.1.2. La dominanza L’asse semantico che corrisponde al terzo formema, cioè alla /dimensione/, è la “dominanza”. Rispetto ai punti di riferimento esaminati, una 41
Cfr. Edeline 1984a. Del resto, si dice di solito in questi casi che la forma fuoriesce dal campo, constatazione che vale solo quando alla posizione subentra l’orientazione e si percepisce il simulacro di un movimento centrifugo. 43 Troviamo una buona analisi di questo fenomeno in Bru (1975, pp. 247-255), che fornisce una base quantificabile alla nozione di “peso” spaziale, peso che è l’equivalente della nostra tensione. 42
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dimensione rilevante sarà detta, sul piano del contenuto, “dominante” o di “forte presenza”, mentre una dimensione ridotta sarà detta “dominata” o di “debole presenza”. 3.2.1.3. L’equilibrio L’asse semantico che corrisponde al secondo formema, cioè all’/orientazione/, è l’“equilibrio”. Nasce esclusivamente per la proiezione, nel segno plastico, delle abitudini psico-fisiologiche determinate in noi dalla forza di gravità. A sua volta l’equilibrio si sottoarticola in due varianti, la “potenzialità del movimento”44 e la “stabilità”. Si raggiunge il massimo dell’equilibrio quando l’orientazione è /orizzontale/: lì la potenzialità del movimento è prossima a 0 e la stabilità è elevata; la /verticalità/ è segno di un “equilibrio minimo” (“forte stabilità” ma “potenzialità di movimento più elevata”). Quanto all’/obliquità/, essa rinvia allo “squilibrio”: “forte potenzialità di movimento” e “stabilità nulla” (Bru 1975, pp. 175-177).
mantiche. Va da sé che questa semantica viene però modalizzata dalla forma composta con l’aiuto del formema. Per esempio un triangolo isoscele molto allungato metterà in evidenza il suo formema /orientazione/. Quanto più forte è l’allungamento (rapporto fra la lunghezza e la larghezza), tanto più la componente dell’orientazione sarà marcata. Il cerchio, che non gode di questa proprietà, non possiede orientazione nel piano. L’asse semantico operativo sarà di conseguenza l’“equilibrio”. Al contempo, se nel triangolo la lunghezza si sviluppa in verticale, la stessa figura potrà mettere in atto il significato “minimo equilibrio” del formema. Nel caso (b) sarà corretto in “equilibrio stabile”, nel caso (a), in “equilibrio instabile”.
a
b Fig. 13
3.2.2. Il contenuto delle forme Questa seconda semantica è più complessa, perché si stabilisce in due modi. Le forme, infatti, che da un lato possono mettere in evidenza uno qualsiasi dei formemi che le costituiscono, dall’altro superano però la somma delle loro componenti, sebbene il loro significante sia descrivibile come un’organizzazione di formemi: possiedono proprietà sui generis, alle quali occorre ricollegare una specifica semantica.
La modalizzazione è dovuta all’oggettivazione delle forme: a dare l’impressione di un equilibrio instabile nel caso (a) è evidentemente la nostra conoscenza del comportamento dei solidi a punta in giù sottoposti alla legge di gravità.
44 Il movimento cui ci riferiamo qui è evidentemente un movimento semantizzato, e non reale. La stessa cosa si può dire per il “peso” e l’“equilibrio”. L’ipotesi del dinamismo plastico, unita alla mobilità dello sguardo, che è un dato di fatto a tutti noto, ha indotto molti estetologi a cadere in gravi contraddizioni, come quella che ha recato danno al pregevole saggio di Ch.P. Bru (1955, p. 87): «In effetti i limiti, rettilinei o curvilinei, diventano linee solo se li seguiamo con lo sguardo. Ed è proprio nel movimento dello sguardo che risiede la specificità della linea: di per sé, essa non è altro che un movimento determinato». Fatta eccezione per i ciechi, tutti sanno che lo sguardo non segue il contorno degli oggetti che percepisce. Il dinamismo che presiede alla creazione della linea non coincide con quello dei movimenti muscolari dell’occhio: è invece il movimento degli estrattori di motivi descritto nel cap. 1.
3.2.2.2. Quanto detto ci conduce al secondo principio della semantica delle forme: il loro carattere integrante. Sebbene possa essere descritta attraverso i suoi formemi, la forma ha una propria individualità e, per derivazione, una semantica a due dimensioni, nella misura in cui la percepiamo in quanto enunciato o nella sua enunciazione. Come enunciato, può apparire più o meno fedele a un tipo di forma culturalizzata. Il cerchio, il quadrato, il triangolo, il punto, l’ellisse, la stella, sono esempi di tali forme. Dobbiamo dunque presumere che più una forma data si avvicina a un type culturalizzato, più la semantica plastica che proviene dai suoi formemi sarà modalizzata dal significato che la cultura in questione ha investito in questo type (è ciò che abbiamo definito nel § 1 come semantica extra-visiva). Il cerchio è una delle forme a più forte carica simbolica: “perfezione”, “divinità”, “negazione” sono alcuni dei significati disponibili che gli si possono associare. Il ruolo del contesto è chiaramente determinante nella selezione di questi significati, che sia interno all’unità plastica (colore e testura, che si alleano con la forma) o esterno (altre forme a essa vicine, unità iconiche).
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3.2.2.1. Soffermiamoci brevemente sui principi della semantica della forma. Alla messa in risalto di un formema in una forma corrisponde, sul piano del contenuto, l’esaltazione delle sue specifiche proprietà se-
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3.3.1. Primo fattore: le relazioni tra i formemi Poiché una forma è il prodotto di tre formemi e dato che su uno stesso sfondo coesistono più forme, la relazione che i formemi instaurano tra loro è del tipo dell’accoppiamento. Per non complicare le cose, considereremo innanzitutto solo i casi di concomitanza tra due forme. Il reciproco posizionamento delle forme e le loro dimensioni rendono più complesso il rapporto posizionale che già ognuna di esse intrattiene con lo sfondo. Ogni forma detiene, infatti, nella sua singolarità, un capitale di energia: è la sua capacità di attirare lo sguardo su di sé. A generare questa tensione è non solo la dimensione della forma sullo sfondo, ma anche la sua posizione. Rispetto alla dimensione, una forma molto grande, o una al contrario molto piccola, sarà poco contrastata ed eserciterà allora una tensione debole. Rispetto alla posizione, la tensione emersa quando abbiamo esaminato il ruolo dell’asse /centrale/ vs /periferico/, si complica quando ci troviamo dinanzi a due forme. La tensione reciproca, che risulta solo parzialmente dal rapporto tensivo che ogni singola forma stabilisce con lo sfondo, può essere forte o debole. Otterremo una tensione debole, o anche l’equilibro, quando
due forme non saranno né troppo vicine né troppo lontane. La tensione sarà invece forte quando due forme saranno relativamente lontane. Osserveremo casi di neutralizzazione della tensione quando due forme intrattengono rapporti di estrema vicinanza o, al contrario, se sono estremamente lontane. Evidentemente, questi valori non sono arbitrari. L’equilibrio è l’esito della tendenza universale, studiata nel cap. 1, a integrare i fatti isolati in fatti di ordine superiore. Quando c’è tensione, anche debole, le forme conservano la loro individualità e creano un’unità superiore che è la costellazione. La tensione si annulla quando la percezione abolisce l’individualità delle forme (cosa che dà adito alla testura…) e quando un’estrema distanza permette di conservare l’individualità, ma elimina la costellazione. Fino a ora abbiamo osservato la semantica tensiva solo nella messa in gioco dei due formemi della dimensione e della posizione. L’orientazione interviene completando la rete di tensioni da essi generate. La produzione di nuovi fattori di tensione, che si aggiunge dunque a quelli già esistenti provocati dal centro geometrico, dal contorno dello sfondo e dal luogo geometrico delle forme, complica ulteriormente la scena. Gli assi delle forme orientate convergono verso un determinato punto dello sfondo, il polo. È un punto virtuale costruito dalla lettura dell’enunciato, che diventa così più coerente. La sua forma espressiva più nota è il punto di fuga (utilizzato nell’arte iconica occidentale per garantire l’unità prospettica, ma anche nell’arte astratta, da Trotskaya Petrova per esempio). Esistono, però, altri modi di manifestazione del fenomeno di orientazione: la concentricità, per esempio, può produrre un polo, come possono crearlo anche l’intersezione, la tangenza ecc. Non è nostra intenzione fornire qui un resoconto esaustivo delle tecniche produttrici di polarità: ci basta dimostrare che i poli sono il risultato dei tre formemi e che organizzano la semantica delle forme modalizzandone gli aspetti semantici primari e secondari. Quanto esposto vale per le relazioni diadiche. Ma evidentemente gli enunciati plastici sono soprattutto enunciati poliadici, ancora più complessi! Un caso particolare di relazione poliadica è il ritmo, fenomeno che attiva la ripetizione di almeno tre segmenti comparabili (Cfr. Gruppo μ 1977, pp. 128-132). Questi, di natura molto varia, possono non riguardare esclusivamente la forma: esistono ritmi cromatici – lo si vede nelle serie di quadri di Ellsworth Kelly – e testurali, come in Di chioma in chioma di Manuel Casimiro. Nel caso della forma, è da notare che
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Al livello dell’enunciazione, il formema messo in evidenza dalla forma può essere considerato una traccia, al pari della testura (cfr. § 2). Indica, e dunque significa, una processualità che si proietta nell’enunciato: per esempio una forma allungata, dall’orientamento deciso e rettilineo, sarà associata alla “rapidità di esecuzione” (come in Georges Mathieu). 3.3. La sintagmatica delle forme e la loro semantica 3.3.0. Introduzione Abbiamo sottolineato da subito quanto sia determinante, nel caso di una semantica aperta come quella del segno plastico, il ruolo del contesto. Non ci occuperemo qui della contestualizzazione della forma in seno al segno plastico completo, colore + testura + forma, o nell’enunciato iconico (obiettivo che perseguiremo nei capitoli 4 e 5). Affronteremo invece la questione dell’organizzazione sintagmatica delle forme. Se la semantica della singola forma e dei suoi formemi dipende dalla relazione che la forma intrattiene con lo sfondo paradossale, a maggior ragione la presenza di altre forme sullo stesso sfondo la modalizzerà. È quello che abbiamo definito il terzo aspetto semantico della forma. Si regge su due principi di interazione: il primo concerne il rapporto tra i formemi delle forme, il secondo il rapporto tra le forme semplici.
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i ritmi sono sempre relativi ai formemi: ritmi di dimensione, ritmi di posizione, ritmi di orientazione. Il ritmo di dimensione dispone le figure secondo una legge che influisce su questo formema: aumento progressivo dei volumi, alternanze ecc. Il ritmo di posizione riguarda le rispettive distanze tra le figure e può disporle in alternanza attorno a un asse (per punti, per linee, a dama, a scacchiera). Il ritmo di orientazione permette di alternare le figure secondo una misura regolare (cosa che si verifica per esempio in una sequenza di quadrati che poggiano alternativamente sulla loro base e sulla loro punta). Gran parte dei motivi decorativi dipende da un’accurata concatenazione di questi ritmi. La greca, per esempio, è caratterizzata da un ritmo di dimensione (segmenti uguali), da un ritmo di orientazione (angoli retti determinati dai segmenti) e da un ritmo di posizione (stessa distanza tra le figure). Rileveremo quattro aspetti importanti a proposito del ritmo. Innanzitutto, si può facilmente ricondurre la sua definizione alla misura del tempo, così come l’orientazione al movimento. Dal problema del segno plastico discende dunque quello dell’iscrizione del tempo nello spazio, tempo che peraltro, come sottolineava Bergson, è percepibile solo nello spazio (da cui è tuttavia assente). Secondariamente la ripetizione rende possibile la percezione di figure di ordine superiore, che inglobano le figure ritmate. Così, la ripetizione regolare di punti forma una linea, la giustapposizione di figure che aumentano di dimensione lungo un asse rettilineo forma un angolo ecc. Le figure sovraordinate hanno a loro volta una dimensione, una posizione e un’orientazione. Creano nuovi poli, e dunque nuove tensioni. In questo senso si comprende la complessità cui arrivano le analisi plastiche a carattere empirico condotte fino a ora da ricercatori di scuole tanto differenti come Damisch, Floch, Paris o Thürlemann. La terza osservazione deriva direttamente dalla seconda: nel creare una nuova figura di ordine superiore, il ritmo ha un significato sui generis. Così, nel caso di una sequenza rettilinea di cerchi che crescono di dimensione, avremo i significati di “espansione” o di “annullamento”, a seconda del movimento che l’osservatore proietta sull’asse. I formemi della nuova figura possono coincidere o meno con quelli delle figure di base. Nel caso in cui coincidano, diremo che il significato delle figure di ordine superiore esalta i contenuti delle figure di base. Un buon esempio è fornito da una serie di cerchi concentrici. La figura ritmica che ne risulta inscrive la concentricità e perciò i significati che le sono associati. Nel caso in cui i formemi delle figure di ordine superiore non 126
coincidano con quelli delle figure di base, il significato delle nuove figure può entrare in contraddizione con la prima e la seconda semantica. Per esempio, una serie di segmenti rettilinei corti, che presentano il tratto della /verticalità/, può organizzarsi secondo l’asse dell’/orizzontalità/. In questo caso la prima semantica si indebolisce, addirittura si annulla. La terza semantica può essere infine non identica rispetto alla prima e alla seconda, né contraddittoria. Ecco infine una quarta osservazione rilevante: essendo il ritmo fondato su una regolarità, le regole delle figure di ordine superiore forniscono criteri per definire l’isotopia plastica. Creano un’attesa che può essere soddisfatta o delusa. Per esempio, un poligono in una sequenza di cerchi è quell’“intruso” che i giochi di bambini e i test psicologici invitano a cercare e che costituisce il fondamento stesso dell’attività retorica. 3.3.2. Secondo fattore: le relazioni tra le forme Questo esempio ci permette di passare dalla relazione tra i formemi alla relazione tra le forme, che in effetti offrono caratteristiche tali da poterle considerare simili o dissimili.45 È possibile descrivere il rapporto qualitativo tra le figure in termini di trasformazione (vedi cap. 3, § 5) visto che, nel caso considerato, trasformato e trasformante sono compresenti. Così due forme possono presentare contorni molto differenti e avere in comune solo alcune proprietà topologiche: un cerchio e un quadrato condividono la proprietà della chiusura. Ammetteremo che l’una è il prodotto di una trasformazione geometrica applicata all’altra. Due forme dai contorni identici quanto alla loro orientazione, ma diverse rispetto alle dimensioni di questi contorni, possono essere considerate il prodotto di una reciproca trasformazione geometrica. Queste trasformazioni mostrano l’esistenza di archiforme. E per contrasto, fanno riaffiorare l’individualità delle forme trasformate. Un caso particolare di somiglianza è la simmetria che offre numerose varianti: simmetrie ravvicinate, simmetrie assiali, simmetrie radiali… 45
Non vuol dire che sia la relazione del tutto e del niente: alcune figure sono molto simili, altre lo sono totalmente o poco, e queste somiglianze possono riguardare un formema oppure un altro: un cerchio, un triangolo e un quadrato possono avere la stessa dimensione; una linea, un’ellisse, un rombo possono avere la stessa orientazione.
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La somiglianza tra le forme induce una relazione che si sovrappone a quella che intrattengono i formemi. La terza semantica non è esclusivamente riconducibile al fenomeno del tensione. Anche l’oggettivazione delle forme, come vedremo, vi gioca un ruolo non indifferente. I quadri senza titolo di Laszlo MoholyNagy o di Nicolai Mikailovitch Suetine, realizzati negli anni trenta, sono basati su rette che sono diagonali rispetto alla posizione del fuoco e ai contorni dello sfondo, ma spesso ortogonali tra loro. Basta una configurazione del genere per mettere in evidenza l’orientazione e produrre il significato di “disequilibrio”. La presenza di cerchi e di dischi più o meno tangenti alle rette e in contrasto con esse dà a sua volta risalto a questa significazione. Inizialmente privo di orientazione, il cerchio riceve così un movimento, e dunque un’orientazione, di carattere cinetico, in cui dovremo evidentemente riconoscere un effetto dell’oggettivazione della forma: la forma circolare “ruota” sul suo supporto diagonale…
4. Sistematica del colore 4.0. Introduzione Il colore è l’ultima componente del segno plastico. Come è accaduto per gli altri due parametri di questo segno, lo prenderemo in considerazione in quanto oggetto teorico. Lo stato della questione è tuttavia ben diverso: se rare sono state finora le indagini sulla forma pura e se la testura è stata pressoché dimenticata, quando si tratta del colore, è piuttosto di revisione che bisogna parlare. Non si possono scartare di colpo, per purismo semiotico, i molteplici approcci che nel tempo sono stati elaborati. Al contrario, dovremo trarre vantaggio dall’inquadramento che la prospettiva semiotica dà a queste ricerche, peraltro facilmente raggruppabili in due famiglie. Le prime esplorano il sistema del significante cromatico: tendono a motivare, con considerazioni fisiche o fisiologiche, l’esistenza di un sistema che discretizza lo spettro dei colori. In termini semiotici, diremo che studiano il funzionamento delle unità del piano dell’espressione. Le seconde studiano l’associazione tra le unità cromatiche e le impressioni o le immagini mentali. In termini semiotici, associano porzioni del piano dell’espressione a porzioni del piano del contenuto. Il nostro sforzo di riformulazione semiotica è abbastanza indicati128
vo del percorso che seguiremo: esamineremo innanzitutto le unità del piano dell’espressione e osserveremo poi, in un secondo tempo, il loro legame con il piano del contenuto. A quel punto, come abbiamo fatto per le forme, passeremo dallo studio dei singoli colori alle loro combinazioni. L’indagine del piano del contenuto si estenderà dunque a un terzo tempo, riguardante la sintagmatica dei colori. Anche in questo caso il lettore incontrerà, strada facendo, un numero notevole di teorie pre-semiotiche formulate all’insegna dell’armonia dei colori. Il colore isolato è un modello teorico. Non ha esistenza empirica se non si associa, in seno al segno plastico, a una forma e a una testura. Ma, anche isolato da una presa di posizione teorica, il colore non è un oggetto semplice. Sul piano dell’espressione si lascia articolare in tre componenti, che occorre distinguere – operazione non sempre compiuta dai nostri predecessori – tanto sul piano dell’espressione quanto su quello del contenuto. Alle tre varianti, che qui chiameremo cromemi, si è già accennato nel cap. 1 (§ 4.1.) e soprattutto nel 2 (§ 5.2.2., relativamente alle trasformazioni cromatiche). Sono la dominanza (sintesi di tutto ciò che il profano chiama “gradazione”, “tinta”, ovvero, come sineddoche del tutto per la parte, il “colore” propriamente detto: blu, rosso ecc.), la luminosità, o il brillio, e la saturazione. Ogni unità cromatica, o “colore totale”, si definisce dunque per la sua posizione in uno spazio a tre dimensioni e per una struttura che presenta queste tre coordinate. 4.1. I significanti del colore 4.1.0. Generalità Non avendo ancora avanzato un approccio coerente alla problematica del colore, il lettore crederà che abbiamo preso per buone la fisiologia dei pigmenti visivi (Young), la fisica dei raggi (Munsell), la manipolazione dei pigmenti (Chevreul) e la psicologia dei colori (Bachelard, Rousseau…), come anche le strutturazioni intuitive forniteci da Goethe, Itten, Kandinskij, Birren e tanti altri. È un elenco al quale bisogna peraltro aggiungere i lavori degli psicologi di laboratorio e di linguisti comparativi come Berlin e Kay. Tutti questi orientamenti e approcci offrono una formalizzazione dell’universo del colore tanto sul piano dell’espressione (/puro/ vs /composto/) quanto su quello del contenuto (“caldo” vs “freddo”). Operare una sintesi di tutte queste teorie è rischioso. Se il nostro obiettivo fosse stato quello di redigere un trattato sulla fruizione dei colori – non è il nostro caso –, avremmo potuto osservare che alcuni 129
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sono in possesso di nozioni che altri non hanno. Per esempio la nostra analisi di un quadro di Jo Delahaut (Gruppo μ 1986) sembra poggiare pienamente sulla manipolazione dei pigmenti. È infatti difficile fare astrazione dalle conoscenze che si hanno sull’uso del colore da parte di un artista, anche se questo sapere può mancare a una fetta di pubblico. Lo stesso pubblico è in ogni caso libero di ignorare le teorie di Young e di Land e darsi verosimilmente a una fruizione delle immagini a colori ai nostri occhi ingenua. Le associazioni che stabilirà dipenderanno allora da un sapere enciclopedico riconducibile soprattutto a quei basic color terms che Conklin (1973) riprende da Berlin & Kay (1969). È un insieme di saperi la cui acquisizione è remota e superata, archiviata nell’enciclopedia allo stesso titolo di quella della cosmogonia del sole che gira intorno alla terra e della volta stellata. I sette colori del prisma, teorizzati da Newton,46 sono un altro esempio di queste problematiche eredità… Il semiologo non deve effettuare una scelta tra le diverse strutturazioni. Sono infatti tutte compresenti in un’enciclopedia globale della società e ognuna di esse può essere attualizzata, a seconda delle circostanze, da una data parte del corpo sociale. Alcune, le più stabilizzate, funzionano in modo generale e intuitivo (è il caso della classificazione in colori puri, da un lato, e composti dall’altro); altre sono note solamente ad alcuni individui e presentano un alto grado di elaborazione cosciente. Sono strutturazioni per così dire disponibili: la persona che sa che una luce gialla è il risultato della combinazione di una luce rossa con una verde può comunque anche trattare – e percepire – il giallo come un colore puro. Il semiologo assolverà dunque il suo compito se offrirà un prospetto dei risultati raggiunti da alcuni degli approcci appena menzionati. Avrà però soprattutto bisogno, strada facendo e per chiarire le sue posizioni, di riformulare questi modelli in termini semiotici. 4.1.1. Le principali teorie 4.1.1.1. Fisiologia Le nozioni della fisiologia e le concezioni a esse correlate derivano dagli esperimenti e dai ragionamenti particolarmente illuminanti di
Young. Fin dal 1801 questi aveva intuito, e poi dimostrato con prove di laboratorio, che era possibile ottenere tutti i colori, a eccezione del marrone, del dorato e dell’argentato, a partire da tre luci: è la sintesi additiva. Young stabilì che doveva corrispondervi nell’occhio una sensibilità a tre colori: il /rosso/, il /verde/, e il /viola/ (e non il /rosso/, il /giallo/ e il /blu/, come aveva in principio creduto). In effetti un’infinità di triadi di questo tipo porta alla ricostituzione di questi colori: basta che i loro elementi siano ben differenziati nello spettro e che si regoli correttamente la loro intensità. La fisiologia ha finito per isolare tre pigmenti in tre tipi di cellule coniche. Questi pigmenti hanno rispettivamente un massimo di sensibilità al blu (440 nm), al verde (535 nm) e al rosso (575 nm).47 In seguito si è dimostrato che anche il cervello gioca un ruolo nell’assegnazione dei colori e che non si tratta dunque solamente di una questione di sensibilità dei pigmenti. In altri termini, la semplicità della sensazione non ci deve far dedurre che i processi siano semplici. Essendo questi del tutto inconsci, non sarà affatto opportuno fare affidamento sulla fisiologia per stabilire un sistema psicologico dei colori. 4.1.1.2. Tecnologia dei pigmenti La teoria dei colori cui facciamo riferimento qui non è né fisica né fisiologica, ma pedagogica e pratica, così come i pigmenti che esamineremo non saranno più quelli della retina, ma i pigmenti delle materie colorate. La loro manipolazione produce, rispetto al trattamento delle luci, una sintesi sottrattiva.48 L’insieme di queste esperienze, trasmesse a scuola, forma un sistema pratico solidamente ancorato nella memoria e la cui validità è ritenuta assoluta. A fortiori gli artisti di opere astratte, quasi tutti intenti a raffinare negli anni le tecniche di manipolazione, fanno a gara per codificare e decodificare le immagini secondo questo sistema: Leonardo da Vinci annotava nei suoi taccuini che la mescolanza del giallo e del blu dà come risultato il verde; i pittori impressionisti e i puntinisti sostenevano che giustapponendo una macchia blu e una gialla si crea a distanza la sensazione del verde. 47
È noto che Newton, il quale ha per primo studiato la scomposizione della luce effettuata dal prisma, ha inizialmente stilato una lista di cinque colori, non comprensiva né nell’indaco né dell’arancione. Ha aggiunto questi colori due anni più tardi, con lo scopo – almeno sembra – di assicurare una corrispondenza con le sette note della scala musicale (cfr. Conklin 1973).
Scoperta che ha dimostrato che il giallo, più volentieri ritenuto un colore semplice, risulta dalla combinazione sensibile dei recettori del rosso e del verde. 48 Ogni materia ha un colore che non è il suo proprio, ma che rappresenta la somma delle radiazioni incidenti da essa non assorbite. Il colore che risulta dalla mescolanza di due pigmenti sarà dunque la somma delle radiazioni non assorbite. Ecco perché chiamiamo questa sintesi “sottrattiva”.
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La sintesi dei pigmenti primari è sottrattiva
de anche criteri psicologici e fisici.49 Da questa sintesi nasce lo schema più completo a tutt’oggi pubblicato. Vi rientrano in una prima fase quattro colori “psicologicamente” primari (ovvero che noi percepiamo come “semplici”): il /verde/ in questo sistema è primario, perché la sensazione che provoca non lo fa essere simile né al /blu/ né al /giallo/; l’/arancione/ e il /viola/ sono chiamati complessi, perché è possibile avere un /giallo-arancione/ e un /viola rossiccio/, mentre non esiste il /blu giallastro/. Va notato inoltre che il / rosa/ è in realtà un /rosso desaturato/ e che il sistema dei quattro colori primari è “ciclico”. Otterremo allora la seguente figura:
G A
V
R
V
R
G
B
A La sintesi delle luci primarie è additiva
V C
M B
B Desaturazione
Le sensazioni visive primarie non sono né additive né sottrattive
G A
G-V
V
B-V
R
Rosa
V PRIMARI
V
B
B
R
G
V
C COMPLESSI
G: giallo; A: arancio; V: verde o violetto; R: rosso; B: blu; M: magenta; C: ciano
Violetto
Arancio
Fig. 15a Figura 14. Tre descrizioni del colore (secondo Birren, 1969)
Sembra che la teoria dei tre colori primari sia stata diffusa per la prima volta da Le Blon nel 1756 e poi ripresa da innumerevoli scienziati e artisti. Probabilmente è però il cerchio di Chevreul (1839) ad avere esercitato la massima influenza, prima sui pittori, poi sui maestri di scuola. Troviamo in Birren (1969) una cronaca illustrata di queste teorie, da cui prendiamo in prestito la figura qui riportata, utile a evitare al lettore qualsiasi tipo di confusione. La terza parte della figura riprende il cerchio di Hering (1878): i suoi quattro colori (quattro diverse sensazioni) ritornano di fatto nel sistema semiotico proposto da Thürlemann (vedi § 4.1.1.3.). 4.1.1.3. Tentativo di sintesi semiotica Félix Thürlemann (1982), uno degli allievi più produttivi della scuola di Greimas, ha mantenuto una base etnolinguistica per la costituzione del suo sistema dei colori e ha dato vita a una strutturazione che ripren-
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È uno schema molto regolare, che mette in evidenza il ruolo centrale del /rosso/ (precisato dagli antropologi, vedi § 4.2.1.2.) e incorpora il massimo di dati pertinenti sul piano dell’espressione. Il /nero/, il /grigio/ e il /bianco/ trovano comodamente posto, dal canto loro, in un insieme definito “a-cromatico” (di fatto è dove il parametro della dominanza si neutralizza), in cui il /grigio/ figura come termine complesso. In questa sintesi ingegnosa il posto del punto debole sembra essere verosimilmente occupato dal /marrone/, che è sistemato, a parte, all’interno di una categoria “semi-cromatica”.50 Suggeriamo di riportare il /marrone/ nell’insieme cromatico, tra i colori a pieno titolo, e di farlo figurare come un /arancione ipersaturo/ (così come il /rosa/ è un /rosso desaturato/). La fig. 15a diventa allora:
49
Cita soprattutto Hering (1874!) e Heimendahl (1969). Ipotesi suggerita da Heimendahl (1969), il quale l’aveva evidentemente avanzata per giustificare la nascita dell’intera teoria. 50
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Desaturazione
PRIMARI
COMPLESSI
Rosa
V
B
Violetto
R
G
V
Arancio Bruno
Sovrasaturo Fig. 15b
La simmetria dello schema non appare troppo danneggiata da questa aggiunta, che indirettamente rafforza la centralità del /rosso/. Disponiamo ora invece di un pendant di ipersaturazione al /rosa desaturato/, mentre scompare la categoria “semi-cromatica”. Nonostante le correzioni apportate, lo schema è esposto ad alcuni rischi che descriveremo più avanti (§ 4.1.2.2.) 4.1.2. Principi di strutturazione del piano dell’espressione 4.1.2.1. Tre premesse al sistema del colore Prima di passare alla disamina critica delle varie teorie, è essenziale sottolineare che in esse i colori vengono considerati come unità inanalizzabili, perché non differenziate secondo le tre componenti del segno cromatico, cioè dominanza, brillio e saturazione.51 Ora, possiamo descrivere il colore come un’unità del piano dell’espressione solo se lo pensiamo costituito dai tre cromemi. Tenere conto di questa composizione è la prima condizione per la strutturazione di un sistema del colore (condizione a). Descrivere il colore nella sua interezza significa anche acquisire gli strumenti per spiegare il contrasto tra due plaghe dello stesso /blu/ a due differenti livelli di luminosità o di saturazione. Opposizioni di questo genere formano di diritto coppie di segni cromatici. In termini semiotici parleremo quindi di un’articolazione di unità le prime delle quali si manifestano (i colori), mentre le seconde restano 51
Solo Thürlemann fa intervenire la saturazione.
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virtuali (i cromemi). Sarà meglio, tuttavia, non forzare il paragone con la linguistica al punto da fare equivalere i colori con le unità dotate di significato e i cromemi con i tratti distintivi. Al pari dei formemi, i cromemi sono già unità significanti: alle opposizioni che determinano nei loro repertori corrispondono infatti opposizioni del piano del contenuto. Ma non siamo ancora giunti a questa fase. La strutturazione del piano dell’espressione prevede altre due tappe preliminari, che vanno necessariamente chiarite: (b) percepire il colore in quanto manifestazione in sé, vale a dire non aderente a un oggetto;52 (c) avviare un processo di discretizzazione di ogni continuum, le cui fasi trovano infine posto, cristallizzate, nel vocabolario. La delimitazione delle unità fa evidentemente problema, perché in quanto fenomeni fisici i cromemi hanno una natura continua. Non potremo parlare di unità se le tre condizioni (a), (b) e (c) non si trovano riunite.53 4.1.2.2. Un sistema di insiemi sfumati Al termine della nostra panoramica sulle “strutturazioni” del campo cromatico avanzate da varie discipline, si impone un tempo di riflessione. Lo schema di Thürlemann, che saremmo propensi a considerare il più soddisfacente, non è privo di insidie. Parte innanzitutto da un sistema di descrizione dei colori, e non da un sistema propriamente cromatico: ciò che viene descritto è un sistema linguistico. Ora, sebbene il metalinguaggio dell’immagine non possa che essere necessariamente verbale – e il nostro libro sembrerà in questo senso ridondante –, occorre cercare di evitare la ricaduta nelle trappole linguistiche già molte volte denunciate. In secondo luogo, anche se lo schema pretende di indicare, con i suoi triangoli, il carattere continuo delle colorazioni intermedie possibili, l’obiettivo principale resta però quello della discretizzazione, ovvero il tentativo di attirare i colori in un sistema di insiemi rigidi, mentre 52 Differenza ancora oggi problematica in filosofia: la fenomenologia husserliana, per esempio, distingue a fatica l’oggetto dalle sue proprietà. Cfr. Eco 1973, p. 114. 53 Infine non dobbiamo mai dimenticare che la strutturazione del piano dell’espressione è l’effetto del taglio di una sostanza e sfocia in un sistema. Siamo ancora molto lontani dal codice, che presuppone l’omologazione del piano dell’espressione e del piano del contenuto.
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tutto l’interesse dovrebbe consistere nel trattare il continuum colorato all’interno di un sistema di insiemi sfumati (Volli 1979). D’altronde, solo pochi artisti utilizzano i colori puri, che nondimeno sono posti al centro di tutti i triangoli dello schema. A parte Matisse e Mondrian – i quali peraltro li adoperavano per reazione –, non si ignora che i verdi di El Greco sono ben diversi da quelli di Veronese o di Cézanne, differenza di cui difficilmente il modello di Thürlemann può rendere conto. Perciò lo schema costituisce solo un primo passo, che permette di trattare immagini semplici: Thürlemann ha scelto, del resto, di applicarlo a una delle ultime tele di Klee, intitolata Il rosso e il nero. Noi abbiamo invece commentato un’opera di Jo Delahaut (Gruppo μ 1986), per l’analisi della quale il sistema di Thürlemann non è sufficiente, nonostante il rispetto del repertorio di base. Nella Delahaut il verde è indiscutibilmente trattato come un colore composto, come confermano i seguenti indizi: la simmetria della composizione e la presenza del verde tra il giallo e il blu. Che cosa attendersi allora da un modello di strutturazione dei colori? Un sistema di colori basato sui pigmenti colorati dell’occhio è allo stesso tempo solido e universale, ma del tutto inutile: essendo fondato su processi subliminali, non rende affatto conto dei fenomeni di comunicazione e di significazione. L’altro sistema, empirico, che trae le sue origini dalla pratica e che abbiamo indicato con il nome di tecnologia del pigmento, ha maggiore stabilità semiotica, perché si regge su un sistema fortemente culturalizzato, aspetto che impedisce viceversa di attribuirgli l’universalità ricercata in molte classificazioni. Quanto al sistema di Thürlemann, esso dovrà essere considerato una sorta di scheletro o di intelaiatura del doppio cono di Ostwald. In questo senso riconduce alla fisica dei colori per i criteri di organizzazione e alla psicologia della percezione dei colori per la scelta dei termini di base. Consiste forse in questo la sua originalità. La stessa sua strutturazione aiuta a formulare con precisione concetti come quelli di “opposizione”, di “equilibrio”, di “ciclo”, di “antonimo”.
di Osgood fornisce un comodo strumento per investigare le relazioni tra il piano del contenuto e il piano dell’espressione, ma i risultati della ricerca dovranno poi essere semiotizzati. Servendosi di procedure simili, Wright & Rainwater (1962) hanno infine ricondotto le associazioni di colore a cinque proprietà qualificative: “felicità”, “energia”, “calore”, eleganza”, “ostentazione”. Sembrano termini relativamente ortogonali, assai poco collegati l’uno con l’altro. L’interesse di un lavoro del genere risiede nel fatto di tenere conto della distinzione fra le tre dimensioni del segno cromatico (dominanza, luminosità, saturazione). Vengono fissate infatti le seguenti associazioni: /colore brillante e saturo/-“felicità”, /colore saturo/-“ostentazione”, /colore poco brillante ma molto saturo/-“energia”, /colore blu saturo/“eleganza”, /colore rosso scuro e saturo/-“calore”. Non è irrilevante notare che i coefficienti di correlazione tra lo stimolo e il termine sono molto alti per la /luminosità/ e la /saturazione/ e molto bassi per la /dominanza/. Questo vuol dire che la tonalità di un colore, che si percepisce e che si verbalizza più frequentemente, è anche ciò che è meno spontaneamente codificabile, mentre la saturazione, per esempio, molto meno familiare e a cui si è riconosciuto un nome solo di recente, esercita un’influenza massima sulle associazioni. Dovendo interpretare questa importante osservazione, diremo che /luminosità/ e /saturazione/ inducono una risposta semiotica profonda, generale e intersoggettiva, mentre la /dominanza/ sembra maggiormente legata a esperienze personali, solo una parte delle quali è comune a tutti: in questa misura essa costruisce idioletti.54 È chiaro che esperimenti del genere vincolano le scelte, proponendo ai soggetti scale di termini che essi forse non suggerirebbero. L’elenco dei termini lascia un po’ a disagio, per il suo carattere vago e quasi assurdo (non tutte le combinazioni sono state provate). Ma soprattutto, si perde di vista l’aspetto rilevante della natura dei legami che conducono dallo stimolo alla risposta. Gli autori chiamano i termini affettivi the 54
4.2. I significati del colore 4.2.1. Le principali teorie 4.2.1.1. Psicologia sociale Gli psicologi non hanno mancato di studiare le associazioni provocate dai colori, nello stesso modo in cui linguisti del calibro di Chastaing e di Fónagy hanno ricercato il simbolismo dei fonemi. Il differenziale
Lévi-Strauss (1983, pp. 170-171) osserva anche che i cromemi L e S sono quelli più adatti a strutturarsi in sistemi. Commentando il lavoro di Berlin & Kay (1969), sul quale ritorneremo, scrive: «È sorprendente che il loro primo triangolo che include il bianco, il nero e il rosso, messo a confronto con i triangoli consonantici e vocalici, non richieda più la tinta, ossia il parametro più “etico” dei tre (nel senso che possiamo individuare la tinta solo con un criterio fattuale: la lunghezza d’onda). Al contrario, per decidere se un colore è saturo o insaturo, se ha un valore chiaro o scuro, è sufficiente metterlo in relazione con un altro colore: la prensione del rapporto, atto logico, ha la meglio sulla conoscenza del singolo elemento».
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meanings of color; ma perché il significato di un colore dovrebbe essere affettivo? Kanzaku (1963) lavora invece su accoppiamenti di colore e non su colori isolati. Si dimostra inoltre anche più prudente, perché parla solo di valori affettivi dei colori, badando a far variare, nelle sue coppie, solo una dimensione del segno cromatico. Rileva così quattro fattori di valutazione, che concordano notevolmente con quelli di Wright & Rainwater: “piacere”, “illuminazione”, “forza” e “calore”. I risultati sono di questo genere: - quanto maggiore è in una coppia lo scarto di dominanza, tanto più c’è “dinamismo”, “vivacità”, “forza”, “chiarezza” ecc.; e quanto più lo scarto si riduce, tanto più c’è “debolezza”, “leggerezza”, “indeterminazione”, “mitezza”, “inespressività” ecc.; - quanto maggiore è lo scarto di luminosità, tanto più c’è “armonia”, “eleganza”, “piacere” ecc. Le nozioni di psicologia sperimentale sembrano possedere la generalità da noi auspicata, ma sono formulate in un vocabolario affettivo difficile da utilizzare. È come se fossero stati classificati non i colori in sé, ma solamente le condizioni affettive che sono loro più o meno fortemente correlate. Così facendo, dunque, i colori non sono stati presi in considerazione in quanto segni, perché avendo descritto isolatamente uno stimolo e la sua risposta, si è continuato a ignorare del tutto la relazione che unisce colore e valore. Pur sapendo che questa relazione può non essere arbitraria, l’hanno trattata come una scatola nera.55
55
La psicologia analitica, che non è esattamente una psicologia sperimentale, si fonda comunque su un corpus di documenti, soprattutto iconografici. Jung ha così distinto quattro tipi psicologici e ha mostrato che a ognuno di essi poteva essere associato un particolare colore. Emerge che i quattro colori di Jung sono proprio i colori “puri” nel senso intuitivo del termine: “pensiero”-/blu/ “intuizione”-/giallo/ “sentimento”-/rosso/ “sensazione”-/verde/ Ricorderemo solo la teoria di Jung, che è senza dubbio la più seria, e non daremo credito a quelle innumerevoli teorie, alcune bizzarre, altre approssimative, che tentano di raffinare questa suddivisione arrivando per esempio a /marrone/“radicamento”, “sicurezza”, /viola/-“misticismo”, “sacrificio”, “segreto”, “nobiltà”, “elevazione”…
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4.2.1.2. Antropologia La linguistica comparativa, applicata a un’enorme quantità di dati disponibili nei documenti etnolinguistici, ha prodotto l’opera memorabile di Berlin & Kay (1969), di cui Conklin (1973) ha fornito un’interessante sintesi critica. È noto che i due autori hanno identificato undici termini cromatici di base nelle lingue del mondo. Sono, in ordine di presenza: il nero, il bianco, il rosso [il verde – il giallo], il blu, il marrone, [il viola, il rosa, l’arancione, il grigio].56 Il vocabolario cromatico delle lingue ritenute primitive è più povero (sebbene ciò non significhi che chi le parla non percepisca altre distinzioni) e le distinzioni cromatiche appaiono dunque qui come una successione quasi perfettamente regolata secondo l’ordine dell’elenco: solo i termini tra parentesi si trovano talvolta invertiti. La formula che segue esprime con efficacia la forza di questa legge: se i nomi dei colori che una lingua possiede sono solamente tre, questi saranno il bianco, il nero e il rosso. Tale strutturazione inconscia è carica probabilmente di simbologie e di esperienze di vita: il verde non è più “difficile” da percepire del rosso (abbiamo anche due pigmenti deputati a farlo: il clorolabio e l’eritolabio), dal momento che la tonalità dei prati e della vegetazione è in genere fortunatamente più diffusa del colore del sangue sparso. Dovremmo allora credere che per quasi tutte le culture sia più importante definire il rosso che il verde e non si fatica a indovinare perché. 4.2.1.3. Sinestesia L’opposizione “caldo”/“freddo” dipende da una risposta soggettiva molto generale, alla quale si è potuto attribuire un carattere quantitativo. L’esperienza più sorprendente in proposito dimostra che la vicinanza di un blu-verde provoca la stessa sensazione termica della vicinanza con un rosso arancione che obiettivamente sarebbe di tre o quattro gradi più freddo…57 56
Per stilare questo elenco sono state fissate regole severe, tra cui soprattutto quella di non inserirvi se non colori designati da un unico termine (cosa che ha portato a escludere, per esempio, il blu cobalto). Liste del genere non attingono all’analisi in cromemi, che pure Berlin & Kay non ignorano. In un suo commento Lévi Strauss (1983, pp. 170-171) osserva che poiché due dei primi tre colori non implicano la dominante, il terzo – il rosso – diventa ai suoi occhi semplicemente un sinonimo di qualcosa di colorato! 57 Si arriva perfino a immaginare che il blu-verde rallenti la circolazione sanguigna, mentre il rosso-arancione la acceleri. L’intervento inaspettato di una dimensione termica nel sistema dei colori suscita molto imbarazzo.
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4.2.2. I principi di strutturazione del piano del contenuto Le teorie che abbiamo appena presentato fanno appello a legami stabili tra piano del contenuto e piano dell’espressione e a fenomeni che è possibile rilevare con la legge dei grandi numeri (è la ratio facilis di Eco). Tutti sanno, però, che a partire da esperienze individuali o che riguardano gruppi ristretti possono generarsi infiniti altri legami, più o meno fragili (ratio difficilis). E poiché nulla lo vieta o lo impedisce, essi sono pienamente attivi e liberi di essere contraddittori o di venire sopravvalutati, tanto dai produttori che dai fruitori di immagini. In qualunque caso, dal momento in cui si attribuisce un contenuto a un colore, siamo in presenza di un codice, ossia della messa in corrispondenza di una grandezza del sistema dell’espressione e di una grandezza del sistema del contenuto. Esempio classico di codice è quello del semaforo, dove l’opposizione /verde/ vs /rosso/ è omologabile all’opposizione semantica “permesso” vs “vietato”. Nel campo del colore incontreremo tutti gli stati intermedi tra i codici rigorosi e le associazioni connotative individuali. Studieremo queste omologazioni, spesso formulate in termini sinestesici, prima al livello dei cromemi, poi al livello dei colori nella loro totalità. 4.2.2.1. Cromemi Esaminando le tre dimensioni del colore isolatamente, è possibile reperire gli assi semantici primari. Non c’è da stupirsi se il cromema della dominanza (D) è quello che convoca il maggior numero di omologazioni. Si noterà che a essere scelte sono sempre le opposizioni semantiche che consentono una successione infinita di gradi intermedi, come “caldo” vs “freddo”: non capita mai di incontrare disgiunzioni esclusive del tipo “permesso” vs “vietato”, indizio supplementare del fatto che siamo lontani dai codici in cui queste opposizioni sono la regola. Tra i contrasti sinestesici la separazione più attestata è insindacabilmente quella tra colori “freddi” (/blu/, /verde/) e colori “caldi” (/rosso/, /arancione/).58 Sebbene fortemente correlati nei test sperimentali, gli altri cromemi formano spesso strani accoppiamenti in cui non è solo la dominanza a intervenire. In particolare, la saturazione (S) si abbina al polo “positivo” di cinque differenziali semantici: “felicità”, “ostentazione”, “energia”, “eleganza”, “calore”. Questo ci permette di assegnare un
contenuto specifico al cromema Saturazione, che potremmo formulare come: /insaturo/ vs /saturo/ “catatonico” vs “tonico”. La luminosità (L) non esprime lo stesso contenuto, perché se si omologa alla “felicità”, è però antitetica rispetto all’“energia”,59 e indifferente agli altri tre differenziali. Ci si stupisce del resto di osservare che nei test solo l’“eleganza” e il “calore” postulano un preciso valore di D: rispettivamente il /blu/ e il /rosso/. Per gli altri tre differenziali D è indifferente. Abbiamo già avanzato le nostre critiche su queste tipologie di termini. È possibile tuttavia provare a strutturare l’elenco, lasciando da parte l’opposizione “caldo” vs “freddo” oramai documentata. I quattro termini rimasti possono essere presumibilmente riuniti in due coppie: “eleganza” e “ostentazione” da un lato, “felicità” ed “energia” dall’altro. Giudicando vistosi tutti i colori /saturi/, è normale che l’eleganza, forma evoluta di ostentazione, richieda gli stessi parametri con l’aggiunta di una precisa dominanza. In fondo si è capito da tempo che l’eleganza è fra l’altro un metodo per farsi notare con l’aiuto del colore. Ricorderemo, di passaggio, che sia l’araldica sia la vessillologia adottano colori molto saturi. Anche la seconda coppia ha un fondamento semantico. Senza che il suo intervento nella prima coppia venga pregiudicato, un colore /saturo/ può infatti significare “energia” e “forza”, forse perché rimanda al concetto di “concentrazione”. Se oltre a ciò il colore è anche /brillante/, rinvierà a quella particolare forma di energia che del resto volentieri diciamo essere “raggiante”: la felicità. Gli assi semantici primari non si fermano tuttavia ai risultati dei test di Wright & Rainwater, né alla reinterpretazione che ne abbiamo proposto. Come vedremo, sono possibili altre omologazioni, anche attestate.
Dire che la termicità dei colori è una qualità psicobiologica non risolve affatto il problema (Pfeiffer 1966, p. 11).
59 Sarebbe evidentemente interessante testare questa ipotesi su un genere antico interamente fondato sulla saturazione: il cammeo. Sufficientemente codificato nella nostra tradizione, il cammeo conosce sette livelli di saturazione del verde, scelti in base a una equipartizione. La progressione nella scala è dunque regolata secondo una legge interna alle accademie: “Il cammeo, per essere armonioso, deve essere equipartito”. Un qualsiasi scarto rispetto a questo sistema sarebbe subito percepito, ma sarebbe retorico, ovvero riducibile e semantizzabile?
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Un’opposizione che ricorre di frequente è “puro”/“impuro” o “semplice”/ “complesso”). Tutti i pittori che optano per i colori puri (Mondrian, Matisse, Van der Leck…) finiscono per utilizzare lo stesso repertorio di dominanti con un alto grado di saturazione.60 Esistono due modi per ottenere colori impuri a partire da colori puri: la desaturazione, che si esegue mescolando i colori con il bianco, cioè con tutti i colori, e la mescolanza con qualsiasi altro colore. Il termine “colore complesso” è quindi molto più appropriato a descrivere questa operazione di quanto non lo sia il termine “impuro”, che pur essendo palesemente attivo ha un contenuto morale sospetto. Relativamente al cromema della luminosità, anche qui molte coppie di concetti sono disponibili per omologazioni. Tra le tante è possibile selezionare, alla maniera di Bachelard, coppie come: “notturno”/“diurno” “inquietante”/“rassicurante” “misterioso”/“intelligibile”. Che si giochi con i significati della luminosità è fuori dubbio se si pensa alle opere di Bresdin e di Matisse e se ci si interroga sul chiaroscuro come dispositivo semantico: non opera esso indipendentemente da ogni dominante cromatica? Facendo intervenire la dimensione antropologica si potrebbe inoltre aggiungere il concetto di “primitività”: alcune opposizioni cromatiche sono alquanto arcaiche o vicine ai modelli fondamentali (quelle che giocano, per esempio, su bianco, nero e rosso), mentre altre appaiono più evolute (per esempio quelle che giocano sul magenta e sull’indaco). Si tratta di prendere in carico il carattere progressivo dell’apparizione delle opposizioni di dominanza. Allo stato attuale delle conoscenze, tuttavia, non è possibile decidere se questa dimensione sia pertinente o meno, né possiamo eliminarne il portato ideologico. Tutti i concetti evocati finora, “eleganza”, “energia”, “felicità”, “arcai60
Ma che cosa si intende per colore “puro”? Non si sta parlando della “purezza” dello spettro (che è più giusto chiamare monocromatismo), ma di purezza a livello percettivo e nella manipolazione dei colori. Un modello sensoriale darà maggiori risultati: chiameremo colore puro quello che suscita una risposta sensoriale semplice, corrispondente alla massima sensibilità di ciascuno dei tre pigmenti retinici (ossia il blu 440 nm, il verde 535 nm e il rosso 575 nm). Abbiamo già segnalato che il giallo rimane fuori da questo modello, pur dando l’impressione di essere un colore semplice… La selezione finale di quattro colori “semplici” deriva dunque da un modello ibrido, allo stesso tempo fisiologico e intuitivo.
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cità”), così come la circolarità e l’antinomia utilizzate da Thürlemann, hanno una forza di generalità che supera di gran lunga l’universo dei colori. Sono significati che possono essere veicolati da altre componenti dell’enunciato, quali, per esempio, le forme, le testure, lo stesso soggetto iconico, cosicché diventa quasi impossibile attribuire contenuti alle espressioni cromatiche univocamente. Bisogna accettare che l’immagine plastica non è codificata a priori e che sceglie liberamente le sue determinazioni cromatiche. In questo senso, tutte le grandezze qui rubricate sono ugualmente e simultaneamente disponibili. Se ne arguisce che è impensabile costruire per il colore un sistema gerarchizzato come quello della forma o della testura. Anche se accogliamo l’ipotesi di un sistema generale dei colori (lo hanno articolato sia Munsell che Thürlemann), il messaggio continua a instaurare il suo proprio sistema locale, in una determinata rete di opposizioni cromatiche. Tra le varie grandezze, dunque, l’una o l’altra o molte domineranno, per ragioni che, nonostante i nostri sforzi teorici, rimangono ignote. In dipendenza dal messaggio considerato, una data grandezza sarà soggetta all’attualizzazione o alla neutralizzazione, così come in linguistica è possibile dare precedenza agli ipotetici significati del gruppo /FL/ se sono funzionali alla significazione (per esempio in fluido, flauto…) o lasciarli ai margini se non lo sono. 4.2.2.2. Il colore come unità Quando si passa a considerare il colore nella sua globalità, caratterizzato da specifici valori di cromemi L, S e D, bisogna cominciare a parlare di assi simbolici piuttosto che di assi semantici primari. Vi ritroviamo in effetti una profusione di determinazioni personali e/o culturali, talmente vasta da escludere l’ipotesi della costituzione di un dizionario di colori. Le ragioni di questa profusione sono state spiegate: mentre i cromemi L e S possono essere ascritti a codici relativamente rigorosi, il cromema D ridesta, al più alto grado, associazioni personali, idiolettali. L’apice in questa direzione è stato forse raggiunto da Malcolm de Chazal che, in Senso-plastico, raccoglie innumerevoli considerazioni sui colori, la maggior parte delle quali altamente improbabili e inattese ma allo stesso tempo straordinariamente poetiche. 4.3. La sintagmatica dei colori e la loro semantica 4.3.1. Le principali teorie Disporre di un modello paradigmatico della strutturazione fisica del piano dell’espressione del colore è ben poco utile, anche se si associa143
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no i colori nella loro globalità – di per sé molto complessi – a porzioni di contenuto. Permette tutt’al più di tracciare alcuni assi e di reperire grazie a questi delle opposizioni cromatiche, anche eventualmente con un metodo quantitativo. Un siffatto modello di individuazione non costituisce però in alcun modo una guida per l’impiego sintagmatico dei colori: comprendendo tutti i colori possibili e non contemplando l’adozione di regole di ordine sintagmatico, non impone restrizioni al loro uso. Ora, chi mira invece a elaborare una retorica del colore non può che trovarla in una serie di scarti a regole che esigerebbero un certo tipo di manifestazione del campo cromatico negli enunciati. Essendo il nostro caso, bisognerà provare l’ipotesi dell’esistenza di queste regole. Sono comunemente note come regole di armonia. Storicamente, le ricerche sulle regole di associazione si sono sviluppate secondo due preoccupazioni principali: (a) edificare su fondamenti stabili e sicuri, come la fisiologia della visione e la matematica; (b) mettere a punto una descrizione sempre più fine delle combinazioni cromatiche “armoniose” (si noti, di passaggio, che il termine è connotato positivamente. Ogni volta che ci capiterà di utilizzarlo per i nostri fini, resti inteso che non ha sfumature: al semiologo interessa elaborare un insieme di regole di associazione, qualunque sia il risultato psicologico cui si perviene). Il dibattito sull’armonia dei colori è forse tanto futile quanto quello sull’armonia degli intervalli musicali. Il terzetto, che oggi giudichiamo banale e cediamo volentieri ai cori degli scout, un tempo era ritenuto disarmonico. Jacques Chailley (1967; vedi anche Barraud 1968) ha descritto in maniera eccellente la progressiva riduzione delle dissonanze e dimostrato una volta per tutte l’inesistenza di una regola assoluta ed eterna. La stessa cosa accade evidentemente per il colore. Ma nella misura in cui una teoria dell’armonia rappresenta la sensibilità di un’epoca, possiamo riconoscerle uno status sufficientemente stabile perché gli scarti rispetto a essa siano percepiti. Se poi, di conseguenza, questi scarti si rivelano riducibili, allora vorrà dire che la retorica del colore esiste. Esaminiamo dapprima alcune teorie sull’armonia dei colori, mettendo in campo ogni volta coppie di concetti diversi.
di elaborare una teoria dell’associazione cromatica che si vuole al tempo stesso fisiologica e matematica. Parte dalla tetralogia dei colori di Hering (blu – verde – giallo – rosso) e distingue con cura la combinazione delle luci colorate nell’occhio dalla mescolanza materiale dei coloranti. Comincia quindi a costruire una scala di valori neutri dal bianco più bianco (il bianco di zinco, che riflette l’89% della luce) al nero più cupo (l’inchiostro tipografico, che riflette il 5% della luce). Sul piano matematico, la sua teoria produce un amalgama incoerente e spesso errato di nozioni di media aritmetica, armonica e geometrica, alle quali va ad aggiungersi la sezione aurea. La media armonica deriva dal calco, evidente in ogni pagina, di una teoria musicale in cui essa si erige a legge universale e fondamentale dell’armonia. Quanto alla media geometrica, essa trae ispirazione dalla legge fisiologica di WeberFechner. Se l’aspetto eterogeneo, la poca pertinenza, gli innumerevoli errori e una manifesta ingenuità61 potrebbero indurci a respingere in toto questa teoria integralista e normativa, un insieme di concetti molto elaborati e le questioni aperte sulla nozione di armonia ci dissuadono dal farlo. L’armonia è definita in più modi. Quella consonante è il risultato di due toni «che tendono verso la stessa tonalità intermedia».62 Il colore intermedio ideale sarebbe allora una “media”63 ottica, vale a dire un colore che produce la stessa sensazione della combinazione ottica di due colori posti alle estremità di un disco in movimento. Rinvierebbe a un 61
4.3.1.1. Consonanza/dissonanza Henri Pfeiffer (1966), in passato studente al Bauhaus, si è dato la pena
Aspetto eterogeneo: questa teoria è allo stesso tempo speculativa ed empirica. Pfeiffer si serve sistematicamente di piccoli dischi girevoli in cui lo spazio occupato dalle plaghe di colore varia considerevolmente. Sono insomma una variante del disco di Maxwell. Poca pertinenza: la tecnica del disco in movimento porta a tenere conto soprattutto della composizione ottica dei colori, problema che in pittura ritroviamo soltanto con gli impressionisti e i divisionisti. Solo raramente l’autore si sforza di rintracciare le equivalenze tra le mescolanze dei pigmenti e le combinazioni ottiche. Ingenuità: la scala dei valori neutri, o “gamma”, è costruita secondo una progressione geometrica originata dalla sezione aurea, cosa che permette di ottenere esattamente sette gradi, come nella scala musicale. Si dimentica però che gli intervalli non sono proprio gli stessi… Quanto al valore normativo della sezione aurea, esso è estraneo al sistema e niente affatto stabilizzato. 62 In altre pagine si legge che l’armonia nasce tra i colori «che si susseguono a catena per interposizione di parti comuni alla loro combinazione ottica». Comporterebbe dunque, in questo caso, tre colori e non due. 63 Non serve specificarne la formula matematica…
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fenomeno di mediazione. La descrizione dell’armonia dissonante, sorta di contraddizione in termini, suscita maggiore imbarazzo, perché qui nessuno dei due colori tende verso una stessa e terza tonalità (non esiste infatti un rosso-verde né un blu-giallastro). Pfeiffer nota giustamente che il colore di mediazione tra i complementari è un grigio neutro (osservazione che rinvia ancora una volta al fenomeno dell’addizione grigia). Ritiene quindi che i complementari siano dissonanti e stridenti, ma che la dissonanza sia nondimeno necessaria all’armonia. L’espediente trovato per “armonizzare” i complementari consiste nel dar loro una saturazione equivalente. Dovendo semiotizzare queste diverse definizioni, assumeremo dunque che per Pfeiffer due colori non possono formare un’armonia se non possiedono, in praesentia o in absentia, un elemento mediatore comune.64 Questa considerazione ci fornisce un criterio per dividere in due classi le coppie di colori: (a) quelle che vengono mediate da un colore e che pertanto sarebbero armoniose; (b) quelle che hanno un termine mediatore grigio, ovvero non colorato, e che pertanto sarebbero dissonanti. 4.3.1.2. Tensione/neutralizzazione Nei suoi corsi al Bauhaus Johannes Itten ha avuto la pretesa di evitare i giudizi soggettivi sull’armonia dei colori ricorrendo alla sperimentazione. La prova fondamentale è stata, per lui, quella del contrasto progressivo: dopo aver fissato un quadrato rosso e chiuso gli occhi, riaprendoli si percepisce un fantomatico quadrato verde. L’esperienza dimostra che l’occhio, per ristabilire l’“equilibrio”,65 “chiami a sé” un colore complementare. L’unico colore che non ne convoca un altro, e che può quindi essere chiamato neutro, è il grigio medio. Ne consegue che nelle composizioni cromatiche in cui il termine mediatore è il grigio la tensione è minima:
ritroviamo la nostra addizione grigia, che qui va però considerata armoniosa, a differenza della teoria di Pfeiffer, in cui i complementari erano ritenuti dissonanti. Itten (1978) integra queste due osservazioni e costruisce, alla stregua dei romantici tedeschi, una sfera di colori, disposti a circolo lungo l’equatore. Il bianco e il nero vi fanno da poli, mentre il grigio medio occupa la zona centrale.66 La sfera fornisce un metodo semplice per descrivere l’armonia di due o più colori. Ogni colore va abbinato al suo antitetico, in modo che il termine mediatore sia sempre il grigio centrale. Ai colori non situati sull’equatore, perché insaturi, corrisponderanno colori ipersaturi: la compensazione si raggiunge non appena si mettono in rapporto le due dimensioni. Per armonizzare più colori, basta sceglierli lungo uno qualsiasi dei grandi cerchi che uniscono due antipodi. A dispetto della sua pretesa, il sistema di Itten non offre una vera e propria alternativa ai giudizi soggettivi, perché lascia comunque presumere che questi ultimi risultino dall’esperienza dei contrasti stessi. Inoltre l’armonia consiste per lui nell’abolizione delle tensioni tra i colori nell’occhio, realizzata grazie all’equilibrio delle componenti cromatiche. Che l’ideale dell’armonia dei colori sarebbe quello di abolire il colore nel grigio è un’affermazione paradossale la cui portata non ci sembra sia stata fino a oggi sottolineata. Sarebbe come se il colore fosse uno scarto rispetto al grigio, scarto dolente che bisogna sforzarsi di annullare: una specie di legge del minimo sforzo percettivo. Nelle pagine successive l’esposizione di Itten diventa ancora più speculativa. Raccomanda di dividere il cerchio equatoriale in dodici parti e ritiene che le combinazioni più interessanti nascano quando si inseriscono nel cerchio figure regolari: un triangolo equilatero, un quadrato, un esagono, un rettangolo… Di due colori diversi si dice che “contrastano” e Itten distingue sette tipi di contrasto, che noi riduciamo a quattro: 1. C. del colore in sé: tra colori “puri”, non alterati, molto luminosi. 2. C. chiaro-scuro: tra il bianco e il nero, o tra saturo e insaturo. 3. C. caldo-freddo: il polo freddo è il blu-verde, il polo caldo il rossoarancione.
64 È una definizione che nella maggior parte dei casi si autodistrugge, perché tutte le coppie di colori, compresi i complementari, possiedono a livello fisiologico un termine mediatore e sono di conseguenza armoniose. L’unico caso in cui la definizione funziona è quello dell’armonia a tre tonalità con un tono che fa da mediatore (sulla mediazione vedi più avanti, cap. 4, § 6). 65 Ad avere fatto di questa osservazione la base dell’armonia del colori è stato per primo un fisico, Rumfort, nel 1797.
66 È una rappresentazione isomorfa al doppio cono di Ostwald, dove intervengono due delle tre dimensioni del segno cromatico: la dominante e la saturazione.
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4. C. di complementari: la cui mescolanza dà il grigio. 5. C. simultaneo: l’occhio esige simultaneamente il complementare. 6. C. di qualità: tra colori spezzati con il nero o il bianco, o mescolati con il loro complementare. 7. C. di quantità: per la dimensione delle macchie. Ci sembra che i casi 1, 2, 4, 5 e 6 possano essere considerati non separatamente, ma come dosaggi diversi dei due tipi di opposizione che le dimensioni della sfera manifestano: di dominanza cromatica e di saturazione. Restano altri due criteri di contrasto: il contrasto di quantità e l’opposizione caldo/freddo, esterna al sistema del colore e di cui si è parlato più sopra.67 Il sistema di Itten ha anche una rilevanza epistemologica. Si sarà notato che si fonda pienamente sul concetto – familiare allo strutturalismo – di opposizione binaria. Ogni colore si definisce per la sua posizione in un asse e il suo spostamento avviene in modo continuo, senza discretizzazioni;68 ma a ogni posizione così definita corrisponde una posizione inversa (a quel blu molto saturo corrisponde quel rossoarancione molto insaturo), cosicché, di colpo, si delinea un sistema del piano dell’espressione. Postulare l’esistenza di opposizioni paradigmatiche suggerisce l’idea che ogni attività di manipolazione dei colori, anche isolata, è un sintagma in potenza che presenta al tempo stesso il colore e il suo inverso. Qui, infatti, a differenza di altre semiotiche dove non si osa dire che ogni paradigma è un sintagma in potenza, meccanismi fisiologici suscitano nell’organismo reazioni suscettibili di produrre manifestazioni cromatiche complementari: la presentazione di un quadrato rosso può, lo ribadiamo, produrre un alone verde (è ciò che Itten chiama il contrasto simultaneo). 4.3.1.3. Complementarietà/somiglianza I due ultimi termini, insieme al germe di tutta la teoria di Itten, erano 67 Dalla costruzione teorica di Itten discende – cosa che però egli non dice esplicitamente – che l’addizione grigia neutralizza anche automaticamente l’effetto termico dei colori. Il grigio neutro al centro è non solo il luogo di abolizione dei colori considerati come tensioni, ma anche un’impressione cromatica “che non fa né caldo né freddo”. 68 È pressappoco quello che intendevamo un tempo con il termine di graduato (Gruppo μ 1979c).
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già contenuti nell’opera di Michel-Eugène Chevreul, autore di una celebre legge sul “contrasto simultaneo dei colori” (1838). Non possiamo descrivere questi contrasti senza prendere in considerazione anche la reciproca posizione dei colori, che in Chevreul si trovano disposti lungo una circonferenza. Per calcolare i contrasti, lo studioso, come ha fatto Itten ma senza giustificarne il numero, divide la sua circonferenza in dodici settori: tre colori vengono detti primari – il blu, il rosso, il giallo –, tre secondari – l’arancione, il verde, il viola –, e sei intermedi. I raggi che uniscono il centro alla circonferenza rappresentano la saturazione: al centro sta il bianco, sulla circonferenza sta il massimo di saturazione. Questo asse è diviso arbitrariamente in venti gradi. Si ha dunque un sistema a due dimensioni: la tinta (dominanza) e la gamma (saturazione). Su questa base Chevreul imposta le leggi di armonia, che sono empiriche: tendono a svincolare le regole dagli accordi più “piacevoli” all’occhio, così per come sono “generalmente percepiti” (ma Chevreul non si interroga sulle eventuali origini culturali del fenomeno). Vengono distinte due tipologie: le “armonie di colori analoghi” e le “armonie di contrasto”. Nella prima categoria rientrano le armonie di gamma e le armonie di tinta. Si parla di armonia di gamma quando si percepiscono simultaneamente due attualizzazioni della stessa dominanza a due gradi differenti, ma vicini, di saturazione; si parla invece di armonia di tinta quando si percepiscono simultaneamente due dominanti diverse, ma simili, che presentano lo stesso grado di saturazione. Queste armonie mettono quindi in campo forme di manifestazione affini, che arrivano a differenziarsi maggiormente per la loro giustapposizione.69 È il senso stesso dell’espressione “contrasto simultaneo”. Le “armonie di contrasto” entrano in gioco quando si percepiscono simultaneamente due tonalità molto distanti l’una dall’altra e dello stesso livello di saturazione (contrasto di tinta), o simili tra di loro ma diverse per grado di saturazione (contrasto di gamma), o ancora – caso che nasce dalla combinazione tra i primi due contrasti – quando si presentano due diverse dominanti con saturazioni molto differenti. È chiaro che mentre le “armonie di colori analoghi” lavorano sulla prossimità, 69
Chevreul menziona anche un terzo tipo di armonia dei colori analoghi. È quello che si ottiene giustapponendo due colori diversi, prescelti secondo la legge dei contrasti, uno dei quali domina sull’altro, come se guardassimo il tutto attraverso dei vetri colorati. Facendo intervenire la nozione di luce colorata, questa armonia si distacca dalle tipologie fin qui trattate.
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le “armonie di contrasto” giocano sulla distanza (e qui la condizione ottimale di armonia è raggiunta dai complementari). In entrambi i casi il contrasto ne esce rafforzato. Chevreul traduce la differenza in termini di qualità: i contrasti tra colori lontani “abbelliscono” i colori attualizzati mentre due colori analoghi “si insultano”.70 Per come moltiplicano i casi di armonia, le leggi di Chevreul sembrano onnipotenti. Si avverte nondimeno la mancanza dei casi, teoricamente prevalenti, relativi a qualsiasi colore: sono infatti armonici solo (1) i colori che compaiono in una stretta zona del diagramma (armonia degli analoghi), (2) quelli diametralmente opposti o quasi (contrasto di tinta), o (3) quelli che si separano in relazione all’efficacia della luce radiante, maggiore o minore (contrasto di gamma). La teoria di Chevreul fornisce più che altro un criterio unico di armonia: quello di ordine. Due colori tra i quali non è possibile individuare alcuna relazione non sono in armonia, e viceversa. La relazione cui si fa riferimento è tanto la prossimità o la somiglianza (quasi un’identità di tinta o di saturazione) quanto la massima opposizione (complementarità). Al disordine si oppongono due tipi di ordine. Chevreul ha così formulato quello che più di altri si può considerare un criterio plastico universale.71 70
4.3.2. Principi di strutturazione dei colori in sintagma Le poche teorie esaminate, probabilmente le più degne e anche quelle che hanno avuto un maggiore impatto sul mondo degli artisti e dei critici europei, convergono tutte su due punti: (a) cercano, come si è già sottolineato, di fondare nel campo del colore un ordine che non sia arbitrario ma che riposi su dati scientifici; (b) manifestano allo stesso tempo una tendenza a discretizzare il continuo. Resta da discutere in quale misura esse soddisfino pienamente il criterio scientifico messo in risalto in (a).72 Essenzialmente, si tratta sempre di disimplicare i principi di un ordine, di distinguere l’ordinato dal disordinato. Perché l’ordine in questione si manifesti, è necessario che si diano almeno due colori; quindi l’ordine può consistere in una vicinanza o in una complementarità. In presenza di tre colori, potrà accadere che uno di essi sia la media armonica degli altri due. E i teorici menzionati non esitano a sottintendere, o anche ad affermare articolandole, le seguenti omologazioni: “ordinato” vs “disordinato” “leggibile” vs “illeggibile” “comprensibile vs “incomprensibile” “armonioso” vs “discordante”. Ci sembra, ma è un nostro parere, che la nozione di ordine non possa essere associata ad altre se prima non sono state adottate alcune precauzioni. La nostra teoria delle trasformazioni (cap. 2, § 5) ha mostrato che tutti i produttori di immagini manipolano il colore per strutturarlo
Questa magnificazione del contrasto tra due colori non sfocia in forme di “contrasto assoluto”. Lo si evince chiaramente dalla legge di Schönfelder (1933), stando alla quale la differenza tra due colori aumenta se essi compaiono insieme in uno spazio che si accorda alle loro tonalità intermedie. 71 Tra le altre classificazioni di colori possiamo menzionare anche la circonferenza di Henry – uno dei mentori di Seurat in materia di idee scientifiche –, non priva di analogie con quella di Chevreul. Ma le leggi di armonia da lui disimplicate sono totalmente arbitrarie: per Henry l’armonia è legata al “ritmo”, inteso però non come ciò che dà risalto a un insieme di macchie colorate su una tela, ma piuttosto come la regolarità di successione dei punti sulla circonferenza che serve a descrivere i colori. Sarebbero allora ritmiche le scansioni del cerchio in 2, in 2n, in un numero primo formato da 2n + 1… Questa ritmica dei metacolori è priva tuttavia di qualsiasi fondamento, sia fisiologico sia fisico. Le smanie per la norma e le pretese di un’irruzione totale della scienza nel mondo istintivo degli artisti vengono spinte all’estremo in Henry, che arriva perfino a mettere sul mercato un “goniometro”, ovvero un piccolo disco graduato a uso dei pittori, che Seurat utilizzerà nel suo Le Chahut (1889-1890). Questa specie di regolo da calcolo introduce il concetto di ritmo allo stesso tempo nei colori e nelle disposizioni all’azione: l’artista è invitato a sceglierli unicamente tra i sottomultipli semplici di 360°. È la misura dell’altezza alla quale le ballerine di cancan levano le loro incantevoli gambe: 72°=360°:5! Soprassediamo sul fatto che si tratta di una equipartizione spaziale piuttosto che di
un ritmo nel senso temporale del termine. In questo Henry mostra di continuare il lavoro di Chevreul, il quale aveva introdotto la nozione di ordine (prossimità o distanza), e di anticipare la tesi di Itten, preconizzando l’inserimento di figure “semplici” (triangolo, quadrato, esagono) nel cerchio dei colori. Di fatto il rifiuto del continuo è un’ossessione del codice, i cui sforzi di discretizzazione appena descritti sono una logica conseguenza. Guardiamoci bene dal promuovere un metodo del genere, come anche dal condannarlo in prima istanza. Ciò che risulta inaccettabile non è tanto la ricerca di discretizzazione delle forme e del campo cromatico quanto il fatto di connetterli, sotto la forma di un imperativo estetico, a un ideale di bellezza. 72 Come abbiamo visto, dati totalmente intuitivi (il giallo…) sono stati captati strada facendo. Anche per gli scienziati puri e duri, dunque, tutto può portare acqua al proprio mulino: sezione aurea, dividendi integrali… Si assiste anche, a proposito di quest’ultimo punto, a un fenomeno di rinascita pitagorica veramente curioso.
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a loro piacimento, servendosi di varianti libere – e in questo caso il loro intervento è impercettibile –, o trasgredendo i dati contenuti nel repertorio di type della cultura di riferimento. L’atto di trasgressione non ha niente a che vedere con l’armonia, concetto da subito intrappolato nel suo contenuto estetico e normativo. Palesemente, infatti, il nocciolo della questione non è dire che l’armonia secondo Itten o Chevreul deve essere “raccomandata” agli artisti: innumerevoli capolavori non rispondono a questa accezione di armonia. Dunque conserveremo solamente la prima delle quattro coppie di contrasti elencate più sopra (“ordinato” vs “disordinato”), e lo faremo tanto più volentieri quanto più i criteri di ordine e di disordine sono relativi al colore. Essendo la struttura più generale del campo cromatico, l’opposizione ordine/disordine può conoscere un numero infinito di manifestazioni: esistono, per esempio, infinite tonalità e ognuna di esse ha il suo esatto complementare. È possibile, al di là di questa strutturazione generale, attribuire un significato alle scelte cromatiche fatte dal produttore di immagini? La risposta è sì, ma i significati in questione emergono solo all’interno dell’enunciato. Quanto detto lascia sufficientemente intendere che non effettueremo una scelta tra i modelli proposti. Ognuno di essi costituisce un approccio, legato a un metodo scientifico preciso, di un sistema semiotico globale che sussume verosimilmente sistemi particolari differenti, anche antitetici. In conclusione, il colore in sintagma, che è la regola nell’immagine, integra i tre livelli finora studiati. Va analizzato in rapporto agli assi di strutturazione specifici di ogni livello: (a) ogni colore, in quanto unità del piano dell’espressione, occupa un posto preciso in ciascuna delle tre scale di Luminosità, di Saturazione e di Dominanza cromatica. La sua manifestazione convoca virtualmente tutte le gradazioni possibili sulle tre scale; (b) ogni colore, in quanto unità del piano del contenuto, prende singolarmente posto in uno o in più di uno tra i numerosi assi semantici disponibili. Alcuni di essi sono condivisi da più istanze, altri sono strettamente individuali, senza alcun ordine di priorità; (c) ogni colore entra in una rete di relazioni con gli altri colori manifestati nell’enunciato. Alcune di queste creano tensioni, altre generano un’impressione di equilibrio; (d) l’insieme delle determinazioni (a), (b) e (c) viene messo a confronto con le altre componenti del segno plastico – forme e testure – ed eventualmente con quelle del segno iconico. Questo porta al rafforza-
mento di alcuni contenuti e alla messa in aspettativa di altri, in maniera ogni volta nuova e diversa per ogni enunciato.
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5. La sintesi plastica e la sua semantica Se si è potuto descrivere il significante delle forme come un’integrazione di quello dei formemi che le costituiscono, e se una sintesi affine ha avuto luogo anche a proposito delle testure e dei colori, dobbiamo ora aspettarci che globalmente il segno plastico realizzi a sua volta un’integrazione delle sue tre componenti: forma, colore e testura. Ciò implica innanzitutto che i significati del colore possano formare, per esempio, con i significati delle testure, opposizioni significative. Un altro tipo di interazione è d’altronde prevedibile, e inscritto nella fisiologia della visione: la disamina sottile delle forme è estremamente difficile se la si fa partire dai colori e in condizioni di omogeneità di luce (Humphreys 1990). Troviamo un riflesso dei significati più spesso registrati per l’opposizione colore/forma in una affermazione di Suarès (1946): «Il colore è il segno della vita; la linea è il segno specifico dello stile […] passare dalla linea al colore, dalla materia allo spirito». Arnheim (1966), dopo aver ripreso a grandi linee questa opposizione, prova ad approfondirne l’origine. La forma – sostiene – è un mezzo di comunicazione più efficace del colore. La sua struttura riflette lo spirito che “organizza attivamente” e testimonia di un’attività razionale che può essere qualificata come “classica”. Il colore è per contro superiore alla forma in quanto veicolo di espressione. Ha effetto soprattutto sugli spiriti ricettivi e passivi e sarebbe in maggior misura legato a un atteggiamento “romantico”. È possibile interrogarsi a lungo su questa opposizione, anche se i ragionamenti proposti rischiano di restare ancora per molto tempo mere ricostruzioni speculative. È vero che i colori si presentano spesso in natura sotto forma di grandi masse (il blu del mare o del cielo, il verde delle foglie, il giallo della sabbia e della luce solare…), suscettibili di essere associate a sensazioni (freddo, caldo, rifugio sicuro) o anche ad avvenimenti tragici (il sangue sparso). Ma è altrettanto vero che abbiamo affidato i nostri alfabeti, latori di significati razionali, ai sistemi della forma e non a quelli del colore. Altri autori (Growe 1984) rilevano un’ulteriore interessante opposizione. L’atto principale del disegno consiste nel segnare una superficie e
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nel lasciarvi una traccia che diventa così la manifestazione di un movimento. La pittura, invece, non ha, o comunque lo presenta molto meno, questo carattere di “legame processuale della visione e dell’attività della mano”. Veniamo così ricondotti al primo problema, questa volta con un accenno di risposta. Il disegno inizia con una linea che, se chiusa, marca un esterno e un interno. Ma chiusa o meno, la linea afferma una differenziazione del mondo, una discontinuità, e di conseguenza un luogo di concentrazione dell’informazione: non sorprende, allora, se è preferibilmente associata all’attività razionale. Influenzati dal libero movimento di un tracciato che opera differenziazioni, si giunge a paragonare il disegno alla creazione del mondo: il disegno al tratto sta all’immagine come la parola sta all’atto di fonazione. Se il disegno al tratto è riservato all’esterno, e fornisce solamente contorni, il disegno delle zone interne è più simile alla pittura, per via della realizzazione di transizioni: ombre, modellati, tratteggi. È una pittura senza colore, ma ugualmente volta a riempire le zone delimitate dai tratti, e pertanto a conferire loro una corporeità, una presenza fisica sensibile, che può inoltre convocare passioni e sensazioni. Sottolineiamo che questa corporeità può nascere da una qualsiasi delle due proprietà della superficie del segno plastico: colore e testura, quest’ultima preposta d’altronde a suggerire impressioni tattili. Un solo punto rimane per noi oscuro in questa disamina per il resto coerente: è l’emergenza di un’illusione di materialità nelle zone interne di un disegno al tratto che tuttavia, obiettivamente, mostra solo una rete a giorno.
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4. Retorica visiva fondamentale
1. Programma di una retorica generale L’obiettivo di una retorica generale è quello di descrivere i funzionamenti retorici dei sistemi semiotici con operazioni che siano potenti e dotate di una certa forza di generalizzazione. Descrizioni di tal sorta sono state adottate con successo in campo linguistico e per alcune strutture transemiotiche, come il racconto. In tutti questi ambiti, figure molto diverse quali la suffissazione argotica e il flashback cinematografico possono essere descritte con operazioni di soppressione, di aggiunta, di soppressione-aggiunta e di permutazione. Quel che cambia, indipendentemente dalle circostanze, sono le unità cui si applicano tali operazioni: semi per i tropi, indici per alcune figure del racconto, e così via. Pertanto, il primo compito di una retorica particolare (del senso lessicale, del racconto, del plastico, dell’iconico ecc.) è quello di individuare i sotto-sistemi omogenei che definiscono e isolano le unità prese in carico dalle operazioni retoriche (nel racconto, per esempio, si differenziano i sotto-sistemi dei personaggi, degli indici, dei nodi). Distinguendo i segni plastici e i segni iconici che si trovano integrati nelle immagini, si isolano sistemi diversi e si fornisce allo studioso di retorica un nuovo programma: dovrà prima di tutto interrogarsi sulla maniera con cui la retorica investe i domini iconico e plastico, per poi chiedersi se nei due casi agisce o meno diversamente. Dal nostro punto di vista, la retorica è la trasformazione regolata degli elementi di un enunciato, tale per cui spetta al fruitore sovrapporre dialetticamente, al grado percepito di un elemento manifestato in un enunciato, un grado concepito (Gruppo μ 1970a, 1976a, 1977a). Globalmente l’operazione retorica presenta le seguenti fasi: produzione di uno scarto, che chiamiamo allotopia, identificazione e rivalutazione dello scarto. Sono azioni che non avvengono a caso ma che rispondono, al contrario, a leggi molto rigide, da definire al momento opportuno. 155
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Chiariamo il nostro proposito con un esempio linguistico. Nell’enunciato: “Il letto rifatto da sabbie fluenti” di Saint-John Perse (Edeline 1972) si percepisce un’allotopia tra “letto” e “sabbia”. Il contesto impone la sovrapposizione del grado concepito “spiaggia” a quello percepito “letto”. Ed ecco un esempio iconico: nel noto collage di Max Ernst (ill. 6) percepiamo un’allotopia tra la “testa d’uccello” e il “corpo umano” che la sostiene. La si può risolvere considerando la testa d’uccello come il grado percepito iconico e la presumibile testa dell’essere il cui corpo è manifestato come il grado concepito. Occorre dunque innanzitutto interrogarsi sulle regole all’opera negli enunciati plastici e iconici, regole che portano il fruitore (1) a considerare un enunciato, o la parte di un enunciato, come non accettabile grammaticalmente e (2) a proiettarvi un grado concepito. In ambito linguistico queste regole hanno cominciato a diffondersi: le leggi di combinazione sintattica e semantica vengono oggi descritte in maniera sempre più raffinata e la descrizione migliora con l’intervento di concetti di natura pragmatica. Il secondo compito di uno studioso di retorica consiste nell’osservare la relazione che si stabilisce tra il grado concepito e il grado percepito. È questo legame a contraddistinguere la figura retorica e a conferirle, in definitiva, effetto ed efficacia in un enunciato. La natura stessa della relazione dipende da due variabili, che sono: (a) le regole del dominio al quale si applica l’operazione retorica e (b) l’operazione in sé. Esplicitiamole qui di seguito. Rispetto al punto (a), una soppressione nella classe dei metaplasmi porta all’apocope o all’aferesi. L’effetto di una manovra del genere è ben diverso da quello prodotto da una soppressione nella classe dei metasememi, dove l’operazione può per esempio provocare una sineddoche generalizzante. Rispetto al punto (b), in uno stesso dominio due operazioni diverse, come la soppressione e la sostituzione, hanno potenzialità diverse. D’accordo con Paul Ricœur (1975), abbiamo potuto dimostrare, per esempio, che l’efficacia specifica della metafora in ambiti tanto diversi quali la pubblicità, la poesia e la filosofia, proviene dal suo potente carattere mediatore. Lo si deve all’operazione di sostituzione che la genera. Ecco allora un chiaro disegno del programma completo di una retorica delle immagini, all’interno di un programma di retorica generale: 1. Elaborare le regole di segmentazione delle unità che saranno oggetto delle operazioni retoriche, sul piano plastico e su quello iconico. 2. Elaborare le regole di lettura degli enunciati, plastici e iconici. 3. Elaborare le regole di lettura retorica degli enunciati.
4. Descrivere le operazioni retoriche che sono in atto in questi enunciati. 5. Descrivere le diverse relazioni possibili tra gradi percepiti e gradi concepiti e ricavare da qui una tassonomia di figure. 6. Descrivere gli effetti di queste figure. I punti 1 e 2 del programma, sviluppati nelle pagine lette finora, devono necessariamente precedere la specificità della prospettiva retorica. Dedicheremo il resto del nostro studio agli altri quattro punti. Se in fase di realizzazione bisognerà distinguere tra livello plastico e livello iconico, in questo capitolo ci è parso comunque stimolante radunare considerazioni di carattere generale, che valgano per entrambe le famiglie di messaggi e che insieme illustrino chiaramente ciò che è proprio all’uno o all’altro tipo di retorica. In un primo momento proveremo a rendere conto della diversità dei due domini rispetto alla retorica. Molti studiosi hanno finora parlato di “retorica dell’immagine” – tema che si ritrova tanto in Barthes quanto
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6. Max Ernst, Rencontre de deux souris, 1922
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in Kerbrat-Orecchioni –, limitandosi però esclusivamente a una retorica del segno iconico. Vuol dire che una retorica del segno plastico non esiste o che non può esistere? No, e lo dimostreremo. Ma è vero che il senso retorico ha miglior presa in un enunciato i cui segni dipendono da un codice molto formalizzato. Ci soffermeremo dunque, prima di tutto, sull’opposizione generale “semiotica fortemente codificata” vs “semiotica debolmente codificata”, da noi esposta in opere precedenti e che spiega la differenza in questione: mostra infatti che esiste, nel caso della semiotica plastica, debolmente codificata, una difficoltà nella definizione di “grado zero”. È una tesi che fa discutere, ma indispensabile per descrivere i meccanismi di funzionamento di una retorica, a condizione di riformularla in termini adeguati. In questa prospettiva, la riflessione sui due tipi di sistemi dovrà essere completata da una riflessione sul funzionamento del grado zero. La distinzione che proporremo tra grado zero generale e grado zero locale ci aiuterà in seguito a capire perché una retorica plastica è possibile. I molti esempi linguistici di cui ci serviremo nelle prossime pagine non devono essere ritenuti incongruenti, perché rispondono invece a una doppia volontà. Colmano dapprima un’esigenza di chiarezza: è più facile illustrare concetti generali con fatti conosciuti, come lo sono le figure della retorica linguistica. Vanno quindi incontro a una necessità metodologica: il nostro scopo è dimostrare l’applicabilità dei concetti sviluppati nelle scuole di semiotica. Dovremo però anche interrogarci sui criteri di applicazione dei concetti generali nei messaggi visivi. In altri termini, i messaggi visivi hanno tutti i requisiti per essere luogo di manovre retoriche? E più precisamente, soddisfano la condizione di esistenza di una retorica del visivo, ovvero la possibilità di discernere in alcuni messaggi un grado concepito coesistente con un grado percepito, e di creare nel messaggio quella tensione che è costitutiva della retorica? Al dibattito in questione è dedicato questo capitolo. L’analisi del problema non sarebbe tuttavia completa se non esaminasse in dettaglio il preciso legame che si stabilisce tra il grado percepito e il grado concepito. Tale disamina porterà a una prima classificazione delle figure della retorica visiva.
che del tipo 1, presentano due caratteristiche, non automaticamente legate l’una all’altra: (I) la segmentazione dei piani dell’espressione e del contenuto è in esse abbastanza rigida: la formalizzazione della sostanza produce unità dai contorni relativamente stabili e facilmente identificabili; gli insiemi che si configurano sono solidi; (II) la relazione tra le unità di ogni piano è fortemente stabilizzata. In ragione del loro essere ipercodificate e culturalmente stabilizzate e dal momento che i rapporti tra piano dell’espressione e piano del contenuto tendono alla biunivocità, le unità acquisiscono nel sistema un valore che prescinde dalla loro attualizzazione nei messaggi. In altre parole questi sistemi, con l’aiuto di un dizionario e di una sintassi,1 possono essere oggetto di una prima descrizione esterna agli enunciati. 2.1.2. Le semiotiche debolmente codificate, o semiotiche del tipo 2, hanno caratteristiche inverse a quelle del tipo 1. (I) La formalizzazione del piano dell’espressione e del piano del contenuto è di solito precaria: gli insiemi che vi si configurano sono insiemi sfumati; (II) il legame tra gli insiemi dei due piani è instabile, difficile da fissare. Poiché le relazioni tra espressione e contenuto sono qui meno legittimate e quindi plurivoche, il valore dei segni che le producono varia secondo i contesti. È a proposito di tali sistemi che Eco (1978, pp. 178191) parlava di «galassie espressive» e di «nebulose del contenuto».2 Facciamo notare che le caratteristiche (I) e (II) delle semiotiche del 1
2.1. Due tipi di semiotiche 2.1.1. Le semiotiche fortemente codificate, che chiameremo semioti-
Di una sintassi nel caso in cui i segni che costituiscono un sistema siano combinabili (il che non accade sempre e necessariamente: esistono sistemi a segno unico). 2 In questi codici «l’espressione è una sorta di GALASSIA TESTUALE che veicola porzioni imprecise di contenuto, ovvero NEBULOSE DI CONTENUTO […]. Si tratta di situazioni culturali in cui non è ancora stato elaborato un sistema di contenuto precisamente differenziato le cui unità segmentate possano corrispondere esattamente a quelle di un sistema d’espressione. In tali situazioni, l’espressione deve venir prodotta secondo ratio difficilis e frequentemente non può venir replicata perché il contenuto, pur essendo espresso, non può venire analizzato né registrato dai suoi interpreti. Allora la ratio difficilis regola operazioni d’istituzione di codice» (Eco 1978, p. 248). Non sempre il ragionamento di Eco è rigoroso, visto che il termine ratio è impiegato a volte per il rapporto contenuto/forma, a volte per quello type/ token. Rispetto a queste semiotiche, altri autori chiamano in causa enunciati che costituiscono essi stessi il proprio codice. Al limite si dovrebbe quindi parlare di “sistemi a-sistematici”. Regole precise, addirittura severe, possono probabilmente spiegare il funzionamento incerto di questi sistemi, ma si tratta di regole a essi non immanenti, per esempio determinazioni socioculturali.
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2. Retorica e semiotiche
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tipo 2 non sono necessariamente correlate. E soprattutto, il carattere sfumato degli insiemi può riguardare solo uno dei piani, dell’espressione o del contenuto. Così, in una composizione di Vasarely, si riconoscono unità espressive facilmente separabili e molto organizzate tra loro, tanto che l’enunciato sembra corrispondere a una semiotica del tipo 1. E tuttavia, nessuno dei contenuti forniti al destinatario proviene da un dizionario preesistente all’enunciato, fatto che ci riconduce al secondo tratto caratteristico delle semiotiche del tipo 2. In questo caso, il destinatario svolge un ruolo decisivo nel conferimento di contenuti alle unità dell’enunciato e all’enunciato nel suo insieme. L’attribuzione di contenuto non ha alcun carattere di necessità. Se non ha luogo, non ci sono segni. Quando invece si determina, alcune porzioni di contenuto, siano esse rigide o fluide, possono venire associate alle forme dell’espressione.3
formalizzata + contenuto rigidamente formalizzato + legame instabile; (C) espressione debolmente formalizzata + contenuto debolmente formalizzato + legame instabile.4 Tra gli esempi di semiotica vicini al tipo 1, possiamo citare il bastone bianco del cieco, le frecce direzionali, i più rinomati logotipi, gli stereotipi iconici, la fumata dell’elezione papale. La lingua tende a conformarsi a questo modello (anche se è noto che la biunivocità dei suoi segni è un’illusione) e così anche il dominio iconico. I segni plastici costituiscono, invece, una semiotica del tipo 2. 2.2. Strategie retoriche Osserviamo ora come intervengono i concetti retorici nelle due diverse semiotiche. Nei sistemi del tipo 1, produrre, identificare e rivalutare gli scarti è un’operazione relativamente semplice. Per produrre lo scarto, basta
Tabella 9. Due tipi di semiotica
Tipo di semiotica
I. Segmentazione delle unità
II. Relazione contenuto/espressione
1. Fortemente codificata
Rigida
Stabile
2. Debolmente codificata
Fluida
Instabile
2.1.3. Quanto detto dimostra che non esiste, nella realtà, una semplice polarizzazione “semiotiche del tipo 1 vs semiotiche del tipo 2”, ma piuttosto un continuum, che ci fa passare da quello che Eco chiama la più pura ratio facilis fino alla più pura ratio difficilis: (A) espressione rigidamente formalizzata + contenuto rigidamente formalizzato + legame stabile; (Ba) espressione rigidamente formalizzata + contenuto debolmente formalizzato + legame instabile; (Bb) espressione debolmente
4 Le combinazioni del tipo “contenuto (o espressione) debolmente formalizzato” e “legame instabile” sono impossibili. Saint-Martin (1987, p. 105) rimprovera a Eco anche un eccessivo binarismo: «Si potrebbero riassumere queste ratio nella tabella seguente:
ratio facilis
{
a) espressione codificata b) contenuto noto, segmentato a) espressione codificata b) contenuto vago, non segmentato
ratio difficilis
{
a) espressione non codificata b) contenuto non codificato, non segmentato, vago
3 Eco (1973, p. 147) ha riscontrato l’esistenza di questo tipo di codice, dove entrano in gioco quelle che definisce pseudounità combinatorie: «È così per le linee di un quadro di Mondrian o delle note di una partitura: è difficile determinarne il significato, offerte come sono a diverse interpretazioni, e private come sono di un legame rigoroso con un contenuto preciso. Si potrebbe dire che si tratti di unità pronte a diventare funzioni senza che il loro destino sia predeterminato». Ma nel momento stesso in cui comincia l’opera di interpretazione il legame individuato può risultare rigoroso.
È un peccato che Eco non abbia adottato un termine specifico per il secondo caso di ratio facilis, che partecipa allo stesso tempo del “facile” e del difficile”. Questa mancanza ha provocato alcune ambiguità nella sua dimostrazione. Ponendosi dal punto di vista del locutore, Eco porta come caso di ratio difficilis quello che ci sembra piuttosto un “facilis” del secondo tipo. Si tratta di Piero della Francesca alle prese con la raffigurazione dell’incontro di Salomone con la regina di Saba. Anche se tassativamente l’avvenimento appartiene a un testo e a un contesto culturale ben noti, la Bibbia, il “contenuto culturale” dell’avvenimento non è mai stato davvero analizzato, segmentato e verbalizzato: «Quando il pittore ha cominciato il suo lavoro, il contenuto che voleva esprimere (secondo la natura di nebulosa che esso aveva) non era ancora sufficientemente segmentato. Ha quindi dovuto INVENTARE. ‘Inventare’ un contenuto, prima di tutto». Ma Saint-Martin non considera l’esistenza della nostra combinazione (Bb).
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allontanarsi da una delle regole del sistema, e ciò sarà tanto più facile quanto più il sistema è chiuso. La compresenza di un corpo e di una testa è costitutiva di un’isotopia, perché questi due determinanti si integrano in un segno di rango superiore. È quindi facile per Max Ernst sovvertire questa regola. Nel sistema linguistico, si potrà utilizzare un termine che possiede il sema non-x in un contesto che richiede un classema x, come in “bere il calice fino alla feccia”,5 in cui x=“liquidità”; ancora nel dominio iconico, è possibile produrre un enunciato in cui una caffettiera è munita di occhi, o un gatto di una coda fumante (Gruppo μ 1976a), e così via. In sintesi, per codificare o decodificare una figura retorica in un sistema del tipo 1, basta conoscere le regole prefissate dal sistema: /bere/ implica una distribuzione lessicale tale per cui il significato del termine-oggetto include il sema “liquidità”; le caffettiere non hanno occhi; i tronchi umani sono sormontati da teste umane. I sistemi del tipo 2 (cui afferisce il segno plastico) non hanno, per definizione, un codice preesistente. La conoscenza delle regole non può quindi avere luogo. Di conseguenza non si produce scarto e chiaramente non può esserci identificazione e rivalutazione di scarti che non esistono né, pertanto, retorica. È un assetto che va senza dubbio rivisto. Lo faremo tenendo conto delle osservazioni formulate in precedenza a proposito del modello teorico che abbiamo scelto di contrapporvi. La rettifica avverrà individuando soprattutto, dietro l’espressione “grado zero”, del quale abbiamo a più riprese rilevato le ambiguità, due concetti distinti. Bisogna infatti parlare di grado zero generale e di grado zero locale, dentro cui individuiamo inoltre una tipologia particolare, che è il grado zero pragmatico (§ 3.3.).
5 L’espressione adoperata nell’edizione originale è boire la honte, che però non ha un equivalente in italiano. L’esempio scelto, “bere il calice fino alla feccia”, ha il vantaggio di mantenere il sema della liquidità sempre associandolo a un classema a carattere timico-passionale. [N.d.T.]
Quanto al grado zero locale, esso è fornito dall’isotopia di un enunciato. Apriamo qui una parentesi per ricordare che il concetto di isotopia è stato introdotto in semantica strutturale per dare un fondamento all’idea di “tutto di significazione” postulata per un messaggio o addirittura per un testo intero. Un discorso si definirebbe, così, non solo per le regole logiche di concatenazione delle sue sequenze, ma anche per l’omogeneità di un dato livello dei suoi significati. Subito ci si è accorti dell’importanza di questo concetto per lo studio dei messaggi appartenenti a discorsi particolari (umorismo, pubblicità, mito, poesia), caratterizzati, per semplificare, dalla nozione di “ambiguità” o di “polisemia” o ancora di “polifonia”, ma che potrebbero essere definiti più rigorosamente come discorsi poli-isotopici. Il concetto di isotopia è stato trasferito nel dominio del visibile (e in questa direzione spingeva almeno l’etimologia del termine, dalla radice topos), nella misura in cui i messaggi visivi presentano dei semi, cioè, nell’accezione data da Prieto (1975), dei segni il cui significato corrisponde a un enunciato (Minguet 1979; Odin 1976). In entrambi i casi l’isotopia è dovuta a una ridondanza: di semi, in senso greimasiano questa volta, nel sistema linguistico (Klinkenberg 1973; Rastier 1987), di determinazioni o di trasformazioni nel dominio del visibile. Ne riparleremo (§ 3.2.). È il grado zero locale, indotto dall’isotopia, che è produttore di retoricità, mentre il grado zero generale è solo una delle sue condizioni di esistenza. Riprendiamo il nostro esempio linguistico: è perché l’enunciato /bere il calice fino alla feccia/ appare in un contesto di isotopia morale che identifico “bere” come unità retorica e vi sovrappongo un grado concepito. Ma se si sta parlando invece di un ubriaco che non conosce limiti, sono portato a riconoscere come unità retoriche “calice” o “feccia” e non più “bere”. In sostanza, quindi, il grado zero locale è l’elemento inatteso in un punto dato di un enunciato in virtù della particolare struttura di quell’enunciato. Nei sistemi del tipo 2, anche se per definizione non esiste un grado zero generale, resta possibile identificare gradi zero locali. Ciò avviene quando enunciati visivi plastici generano regolarità interne (come in Mondrian o Vasarely). Queste, una volta elaborate, possono venire infrante e quindi essere sottoposte a rivalutazione. È il caso del paesaggio di Folon intitolato Frustrazione, che assume la forma di un puzzle in cui manca una tessera: sappiamo quali sono la forma, la testura e il colore del pezzo assente.
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2.3. Gradi zero generali e locali Come si è detto nella premessa di questo capitolo, il grado zero generale è fornito dalla conoscenza preliminare del codice: la definizione di “bere” nella competenza lessicale, i modelli del corpo umano o della caffettiera nella competenza enciclopedica. In realtà, il processo è più complesso. Riprenderemo il discorso per dimostrare che esistono due tipi di grado zero generale.
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Più avanti analizzeremo in dettaglio alcune di queste figure. Notiamo fin da ora che il modo in cui si stabiliscono i gradi zero locali nei sistemi del tipo 1 e nei sistemi del tipo 2 è abbastanza diverso; le figure funzioneranno quindi in essi differentemente. Nel primo caso il grado zero locale, benché indotto da meccanismi contestuali, dipende dall’esistenza del grado zero generale: se posso riconoscere l’enunciato /bevo dell’acqua/ come isotopo e l’enunciato /bere il calice fino alla feccia/ come allotopo, è perché alcune reti distribuzionali sono organizzate dal codice (in cui “bere”, da una parte, e “acqua”, “vino”, “pastis” dall’altra hanno i loro rispettivi campi). L’isotopia induce i gradi zero locali e permette inoltre di determinare il luogo preciso della produzione dell’allotopia (/bere/ o /calice+feccia/, secondo i casi), cosa che non è possibile con l’ausilio del solo grado zero generale. Nei sistemi del tipo 2 il grado zero locale non è affatto subordinato all’esistenza di un grado zero generale. Spetta unicamente all’enunciato il compito di indicare le isotopie e le allotopie. In questi sistemi una semplice rottura di continuità non crea automaticamente una figura: un enunciato plastico è retorico non perché in esso una non ben definita macchia rossa si staglia su una superficie blu. Lo è solo se presenta l’esperienza del rosso – grado percepito – in un punto in cui lo spettatore è in diritto di attendersi l’esperienza del blu – grado concepito. E perché ciò avvenga è necessario che un dispositivo plastico qualsiasi abbia introdotto nell’enunciato una regolarità, una regola.
3. La retoricità dei messaggi visivi 3.1. Base, elemento figurato, invariante Ricordiamo che in un enunciato con figure è possibile distinguere teoricamente due parti: quella che non è stata modificata, o base, e quella che ha subito operazioni retoriche, o elemento figurato, riconoscibile grazie ad alcune marche. La parte che ha subito operazioni, ossia il grado percepito, mantiene un certo rapporto con il suo grado zero, o grado concepito. Questo rapporto prende il nome di “mediazione” e si fonda sul mantenimento di un’area in comune tra i due gradi, detta invariante. Se si parla di area in comune è perché è possibile scomporre l’elemento figurato in unità di ordine inferiore. È questa possibilità di articola164
zione che permette di identificare l’invariante, attraverso una valutazione delle compatibilità tra la base e l’elemento figurato. 3.2. Ridondanza Calcoliamo la compatibilità grazie alla ridondanza dell’enunciato, che consente allo stesso tempo di diagnosticare e di rivalutare lo scarto. La ridondanza è l’esito della sovrapposizione di diverse regole su una stessa unità dell’enunciato. Nel dominio linguistico, dove queste nozioni sono familiari, si incrociano, per esempio, in uno stesso morfema, regole fonetiche, sintattiche, morfologiche e semantiche. Il tasso di ridondanza globale del francese scritto è stimato al 52% e perciò è possibile individuare e correggere parecchi scarti rispetto a una di queste regole grazie all’insieme degli altri. Nel dominio del visibile le cose si complicano, benché inizialmente tutto risulti altrettanto chiaro. Qui però è indispensabile distinguere, in via preliminare, gli enunciati iconici dagli enunciati plastici. 3.2.1. Nei primi è il repertorio dei type a fare da codice, catalogando per ogni unità una serie di sotto-unità che sono le determinazioni (cfr. cap. 2), classificate dalla più imperativa alla più contingente o alla più polivalente. Chiunque può facilmente fornire un elenco dei criteri che permettono di riconoscere il type “testa”: anche se all’interno di un determinato enunciato la /testa/ non li presenta tutti e se numerose sono le trasformazioni che si manifestano (bianco e nero, disegno a matita ecc.), ciò non ne impedisce il riconoscimento. La ridondanza del visivo, che con gli attuali metodi non sembra intelligibile, è certamente di gran lunga superiore a quella del linguistico. Sul piano delle qualità essa, mettendo in gioco type dalle determinazioni molto diverse, moltiplica le strategie retoriche possibili. 3.2.2. Lo status del type è invece molto diverso nell’immagine plastica, che per definizione non ha nessun referente e non può dunque, per principio, essere interpretato alla luce di un codice. Se ne potrebbe dedurre, in conclusione, che l’enunciato plastico non possiede ridondanza e che, di conseguenza, non può essere la sede di procedimenti retorici. Più sopra abbiamo però stabilito che il plastico è semiotico, perché associa forme dell’espressione a forme del contenuto. E ora vedremo soprattutto che gli enunciati plastici possono produrre un proprio codice, sufficientemente stabile perché gli scarti siano in essi percepiti e ridotti. 165
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La ridondanza così creata è appena sufficiente per permettere funzionamenti retorici, e certo corre il rischio di non essere molto stabile né intersoggettiva, ma ci autorizza a rispondere affermativamente alla nostra prima domanda, che era: l’immagine visiva soddisfa le condizioni per la manifestazione del retorico? 3.3. Contesto pragmatico Come si è visto, lo scarto nasce da una non-pertinenza rispetto a una regola del sistema (grado zero generale) o rispetto a una regola dell’enunciato (grado zero locale). La non-pertinenza può però anche provenire da un contesto più ampio, di ordine pragmatico, che fornisce un particolare tipo di grado zero locale. Partiamo da un esempio banale. La totalità di un campione di popolazione maschile adulta ha riconosciuto senza esitazioni le marche del sesso femminile nel disegno molto stilizzato esposto nei bagni pubblici. Lo stesso disegno, una volta riprodotto su un foglio ed esaminato da un campione equivalente, non ha mai ricevuto la stessa interpretazione. È quindi il luogo (i luoghi) in cui si è verificato l’incontro fra il messaggio e lo spettatore che, aumentando il livello di ridondanza, ha agito come rivelatore: trovandoci in un WC, un graffito può essere solamente scatologico, sessuale o politico. L’effetto retorico nasce all’istante: quello che sulla carta è solo una pura forma plastica, nel bagno pubblico diventa un significante iconico. Volendo offrire un esempio più nobile, rinviamo al celebre Bacio di Brancusi, riprodotto sull’omonima porta a Tirgu-Jiu, in Romania. Si tratta, a prima vista, di un semplice motivo geometrico. Ma questa lettura può essere integrata da un’altra, allegorica e determinata dalle conoscenze che abbiamo delle regole di stilizzazione peculiari dell’arte popolare della regione e dei codici in possesso dello scultore rispetto alla struttura romena. Per concludere, la tensione tra i due poli di un’unità retorica può nascere da quelle che altrove (Gruppo μ 1976b) abbiamo definito isotopie proiettate, dovute agli usi che una cultura fa dei grandi campi che ritaglia. Esistono infatti enunciati che diventano figure solo in rapporto a situazioni o a realtà esterne al messaggio. Nella lingua verbale funzionano così tutti i proverbi: in /tanto va la brocca alla fontana che alla fine si rompe/, dove però non si verificano scarti interni, brocca è un uomo che non pensa ad altro.6 6
A dipendere dal contesto pragmatico non è però soltanto la produzione dell’atto retorico. Il contesto può infatti anche determinare il tipo di legame che si istituisce tra i due poli dell’unità retorica, come vedremo in maniera sistematica nei §§ 4 e 6. Proviamo ora a esplicitare l’argomento con un esempio rigoroso, preso in prestito dalla pittura orientale e di cui Cheng (1979) ha fornito una buona analisi. Lo spazio della nostra percezione è “semplicemente connesso”: tra le diverse porzioni di ciò che viene percepito non c’è soluzione di continuità. Questo aspetto, pressoché costante nell’arte occidentale, manca nella pittura orientale, cinese o giapponese: qui emergono al contrario isole di percezione, separate da bianchi in cui si vede solo il supporto planare e che possono occupare fino ai due terzi dell’enunciato. Così, è possibile trovare due plaghe iconiche contrastanti (per esempio “mare” e “montagna” tra le tante coppie topiche disponibili) non solo disgiunte, ma totalmente separate da una zona non dipinta, vuota o che rappresenta il vuoto. Questo /vuoto/ è suscettibile di diverse interpretazioni e uno sguardo occidentale ne farà allora il segno dell’isolamento degli elementi del mondo (il nostro universo sarebbe composto di isole, senza comunicazione possibile). Potremo anche scorgervi un enunciato retorico: la zona non ricoperta di colore creerebbe quello che analizzeremo più avanti (cap. 7) come una retorica dei bordi. Nelle zone iconiche regna l’illusione della profondità, in altre si afferma la planarità del supporto: senso retorico, quindi, perché in uno stesso enunciato coesistono la bidimensionalità e la tridimensionalità. Vi si aggiunge una retorica della discontinuità: i bianchi percepiti possono essere rivalutati iconicamente come porzioni di paesaggi concepiti (/bianco/ in quanto “cielo”, “neve” o “nebbia”) o, inversamente, i frammenti manifestati vengono considerati artifici. La lettura orientale, benché ugualmente retorica, è del tutto diversa e dipende da un altro tipo di accoppiamento dei poli della figura (modo di presentazione che più avanti, in 4.2.3., definiremo in praesentia disgiunta). Nella lingua verbale il suo più chiaro equivalente è il paragone. Qui non c’è disordine ma solo ordine: nessuna discontinuità ma, al contrario, fusione. Il /vuoto/ è questa volta una sorta di zona istolitica, una nebbia feconda, il luogo di una metamorfosi dei contrari. Tra quelle immaginabili costituisce indubbiamente la forma più estrema di ciò che chiameremo il terzo mediatore (v. § 6.2.).
Il proverbio è dunque interamente figurato pur non offrendo di per sé una coppia base-elemento figurato: lo scarto si realizza tra l’enunciato e il contesto.
Sulla grammatica del proverbio confronta il sempre attuale articolo di Greimas 1960, ripreso in Greimas 1970.
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Ecco dunque ancora una volta un’isotopia proiettata, fornita dalla cultura. Si proietta per la necessità di procedere a una congiunzione retorica quando c’è il /vuoto/ e il senso dato a questo /vuoto/ è molto generale: lungi dall’acquisire le precise funzioni che gli attribuisce la lettura occidentale, il vuoto riveste il senso che l’algebra dà a x o la lingua corrente alla cosa. 3.4. Concomitanza del plastico e dell’iconico In un enunciato in cui segni iconici e segni plastici sono compresenti, il grado zero è una regola generale di concomitanza. Con ciò vogliamo dire che le unità di un piano, quando sono separate nell’insieme dell’enunciato, coincidono con unità o con parti di unità dell’altro piano. In altre parole, i significanti di un’entità iconica coincidono generalmente con i significanti di un’entità plastica e viceversa. La regola di concomitanza nasce dallo sguardo portato sugli spettacoli naturali. Lì il plastico è presente solo per giovare al riconoscimento, poi viene interamente riassorbito nello spettacolo. Gli artefatti mutuano questo modo di lettura. Quella macchia rossa sembra trovarsi in quel determinato punto per permettere l’identificazione della giacca del personaggio; quell’impasto di colore sembra essere lì per incidere sul viso dell’altro.7 Con tutta evidenza la regola di concomitanza iconoplastica è pertinente solo nel caso di un enunciato costituito da segni plastici e iconici. Per definizione, essa perde di senso negli enunciati unicamente plastici. In questi, tuttavia, entra in gioco un’altra regola di concomitanza, relativa ai parametri del segno plastico. A un’omogeneità di forma corrisponderà un’omogeneità di colore. È il modo di produzione delle figure, in termini percettivi, a spiegare l’attesa della concomitanza: una figura che il contorno rende sempre differenziata dallo sfondo nasce tanto dal riconoscimento di zone omogenee per il colore o per la testura, quanto dal riconoscimento di vere e proprie forme. L’evidenza delle figure è quindi favorita dalla ridondanza dei ritagli osservati nei tre ordini del plastico. Il fatto che la regola di concomitanza iconoplastica si arricchisca di 7
una seconda regola di concomitanza, puramente plastica, è ragguardevole. Nel caso di un enunciato iconoplastico, la concomitanza sarà quindi quella di un’unità iconica da un lato, di una forma, di un colore e di una testura dall’altro. Gli scarti retorici saranno spesso tentativi di contraddire la necessità della concomitanza.8 3.5. Evidentemente non abbiamo ancora detto tutto sul funzionamento degli enunciati plastici e iconici e sulle ridondanze che vi operano. Approfondiremo questo esame nelle sezioni dedicate alla retorica iconica (dove ritroveremo la nozione di isotopia), alla retorica plastica (dove vedremo, per esempio, che la ridondanza può essere prodotta da regolarità come ripetizioni e allineamenti) e alla retorica iconoplastica. Qui ci siamo invece limitati a porre in evidenza i meccanismi comuni ai diversi tipi di retorica.
4. La relazione retorica 4.1. Quattro modi di relazione tra il grado concepito e il grado percepito Volgiamo ora l’attenzione alle diverse modalità di avvicinamento del grado concepito e del grado percepito. Come si manifesta la loro invariante? Che rapporto hanno con essi, se logico o di altro tipo, gli elementi esterni a questa invariante? Il nostro studio permetterà di elaborare una prima classificazione delle figure di retorica visiva. Per farlo, ci avvarremo ancora una volta del paragone con la retorica linguistica. 4.1.1. Metafora e paragone sono state molte volte contrapposte, con la motivazione che, nel paragone, l’enunciato fornisce allo stesso tempo il grado percepito e il grado concepito. Sappiamo per certo che questa opposizione è forzata, perché tra le due figure esistono tutti gli intermediari. Ciò nonostante, abbiamo a che fare con due posizioni polari, che ci è sembrato utile designare con le espressioni in praesentia e in absentia. Non appena si cerca di applicare questa opposizione nel do8
Se il ruolo di un enunciato è permettere il riconoscimento dei type iconici, è allora normale che, da un segno iconico all’altro, i mezzi plastici utilizzati siano diversi. Allo stesso modo, nella lingua verbale la produzione di un’isotopia di contenuto ha per corollario la varietà delle forme dell’espressione, presente unicamente a titolo di veicolo.
Alcuni grandi pittori hanno esplicitamente definito la concomitanza come una schiavitù di cui è necessario liberarsi; menzioniamo, a mo’ di esempio, questa affermazione di Braque: «La messa a punto del colore è arrivata con i papiers collés […]. Il colore agisce simultaneamente con la forma, ma non ha niente a che vedere con essa» (citato in Leymarie 1961, p. 56).
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4.1.2. La categoria principale comporta quindi quattro termini e non
Tabella 10. Modalità di manifestazione dell’invariante retorica Modo Campo
In absentia congiunta (IAC)
In praesentia congiunta (IPC)
In praesentia disgiunta (IPD)
In absentia disgiunta (IAD)
Tropi
Parole-valigia
Paragoni, rime
Proverbi
Iconico
Tropi iconici
Interpenetrazioni iconiche
Accoppiamenti iconici
Tropi iconici proiettati
Plastico
Tropi plastici
Interpenetra- Accoppiazioni plastiche menti plastici
Tropi plastici proiettati
Linguistico
Visivo
minio del visibile, emergono difficoltà. Le abbiamo incontrate quando si è trattato di studiare alcune immagini retoriche, come quella “caffettiera”9 di cui abbiamo parlato più sopra (Gruppo μ 1976a). Per chi non lo ricordasse, è un manifesto realizzato per una marca di caffè che mostra un oggetto composito, contemporaneamente caffettiera e gatto. In questo caso, non si può parlare semplicemente di rapporto in praesentia puro o di rapporto in absentia puro: la relazione tra grado percepito e grado concepito è allo stesso tempo di compresenza (i type “gatto” e “caffettiera” si manifestano simultaneamente) e di assenza (nessuno dei due type è autonomo o in sé completo). La particolare modalità di produzione di un’invariante dipende, ancora una volta, dalla specificità del visivo, che consente la simultaneità laddove il linguistico permette solo la successione.10 Alla coppia in praesentia vs in absentia dovrà quindi integrarsi un’altra opposizione, che renda conto della possibilità che hanno due insiemi di significanti iconici di manifestarsi in uno stesso luogo dell’enunciato (e più precisamente grazie agli stessi determinanti) o in zone giustapposte. Nel primo caso, diremo che gli insiemi sono congiunti, nel secondo che sono disgiunti. Anche l’analisi di alcuni fenomeni linguistici rileva di questa modifica che deve essere apportata all’opposizione in praesentia vs in absentia. Si rammentava più sopra che enunciati linguistici perfettamente isotopi possono essere letti retoricamente, grazie all’entrata in gioco di un determinato contesto; lo abbiamo dimostrato con l’esempio del proverbio. Le isotopie proiettate fanno sì nascere un tipo di figura in absentia, ma in esse il grado concepito, lungi dall’emergere dalla ridondanza dell’enunciato stesso, viene indotto da fattori pragmatici. Si può quindi affermare che la fonte di questo grado concepito è esteriore all’enunciato.
due. E il suo grado di astrazione è tale che essa può essere impiegata altrettanto efficacemente nei domini iconico e plastico e in quello linguistico, fornendoci la struttura di base della messa in correlazione delle entità e permettendoci di sviluppare la nozione di terzo mediatore, essenziale in retorica. Distingueremo quindi quattro tipologie di presentazione delle entità che si raffrontano: (1) Il modo in absentia congiunta (IAC): le due entità sono congiunte, cioè occupano lo stesso luogo dell’enunciato,11 per sostituzione totale dell’una con l’altra. (2) Il modo in praesentia congiunta (IPC): le due entità sono congiunte in uno stesso luogo, ma con sostituzione solo parziale. (3) Il modo in praesentia disgiunta (IPD): le due entità occupano luoghi diversi, non c’è sostituzione. (4) Il modo in absentia disgiunta (IAD): una sola entità è manifestata, mentre l’altra, esterna all’enunciato, si proietta su quest’ultimo.
9 Gioco di parole tra il termine chat, “gatto”, e il termine chafetière, “caffettiera”. Il risultato è una cosiddetta mot-valise, fusione di due parole che hanno in comune un fonema. [N.d.T.] 10 Sempre che la simultaneità della manifestazione possa esistere a livello linguistico. Alla luce di queste “caffettiere”, se così possiamo dire, siamo ritornati alla lingua verbale, per renderci conto che la parola-valigia è una sorta di “caffettiera” linguistica, caso interessante che probabilmente, in Retorica generale, abbiamo preso troppo alla leggera.
11 La nozione di luogo, un po’ vaga, potrebbe causare fraintendimenti: due elementi disgiunti in un quadro, come un cielo e un personaggio, non sono nello stesso luogo? Precisiamo quindi che intendiamo il termine in senso rigoroso: perché si possa parlare di un “identico luogo”, occorre che il significante del grado concepito si manifesti negli stessi sotto-determinanti del grado percepito. Nell’immagine della “caffettiera” (IPC) è un’unica /figura troncoconica/ a manifestare i type “corpo di gatto” e “corpo di caffettiera”, è un’unica /figura sinuosa/ che manifesta i type “coda di gatto” e “becco di caffettiera”. Nel caso di un volto in cui gli occhi siano sostituiti da bottiglie (IAC), il significante corrispondente al grado percepito (“bottiglie”) ha gli stessi sotto-determinanti /carattere interno/, /duplicità/, /simmetria/ del type “occhi”.
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La tab. 10, che come è facile notare include anche il dominio linguistico, permette di schematizzare le riflessioni condotte sulle categorie prima di passare all’analisi dettagliata dei diversi casi. Le quattro tipologie sono presentate secondo la progressione IAC > IPC > IPD > IAD, allo scopo di segnalare la distanza sempre più grande tra il grado percepito (per definizione sempre manifestato) e i fattori che inducono il grado concepito (sempre più esterni all’enunciato via via che ci si sposta verso destra).12 Non siamo davanti a una tabella delle figure, che invece differiscono tra loro per le operazioni che le generano: è, al limite, una tabella dei campi in cui si producono le figure. Per non rimanere arido, ogni caso richiede di essere illustrato. Occorre quindi affinare la descrizione delle quattro relazioni nei domini iconico e plastico. 4.2. I quattro modi nella retorica iconica 4.2.1. In absentia congiunta (IAC): i tropi Lo scarto si presenta qui, in un segmento dell’enunciato, sotto forma di un conflitto tra i fasci di determinazioni esterne e quelli di determinazioni interne. Un esempio è la testa del capitano Haddock con delle bottiglie là dove ci aspetteremmo le pupille (ill. 7). Non inneggiamo troppo presto alla “metafora”: le bottiglie non hanno affatto elementi di rassomiglianza con gli occhi, anche se, come questi, sono fatte di un involucro trasparente che trattiene un liquido. Nondimeno, è giustificabile che Hergé abbia messo bottiglie al posto degli occhi più che al posto delle orecchie. Volendo a tutti i costi stabilire un parallelismo con un tropo linguistico, la figura sarebbe piuttosto dell’ordine della metalepsi: è un’allucinazione provocata dalla sete che fa sì che l’infelice ubriacone “veda” delle bottiglie, al punto da far prendere all’oggetto della visione il posto del suo agente. Ma a prescindere dalla natura che esso può avere, il legame esiste e produce senso. Non è arduo reperire altre figure di questa categoria confrontabili con un equivalente linguistico (metafora, metonimia). Questo fatto ci spinge a battezzare le figure del tipo IAC con il nome di “tropi iconici”. Essendo il più radicale della serie, il modo IAC produce un effetto che non sempre è facile disambiguare. Generi come il fumetto se
7. Hergé, Le Crabe aux pinces d’or, 1940
8. Julian Key, Locandina del Café Chat Noir, 1966
ne servono più spesso della pittura di paesaggio. L’effetto può anche sfiorare il ridicolo e in questo senso vale la pena di richiamare l’osservazione che facevamo sulle metafore visive in Retorica generale: si può anche lodare il “collo da cigno” di una ragazza senza cadere nel ridicolo, ma il pittore che la raffigurasse con il lungo collo bianco del volatile otterrebbe proprio quell’effetto. Ciò accade perché nella lingua verbale le determinazioni troppo concrete si sospendono più facilmente.
12 Avremmo anche potuto congiungere le colonne 1 e 4, che hanno in comune il tratto in absentia: comprendono quindi le figure che richiedono al destinatario la massima collaborazione per produrre il grado concepito.
4.2.2. In praesentia congiunta (IPC): le interpenetrazioni Collocheremo qui tutte le “caffettiere”, cioè i casi in cui l’immagine presenta un’entità incerta il cui significante possiede tratti di due o più tipi distinti; qui i significanti sono non sovrapposti, ma congiunti. Se per autorizzare la sostituzione di Hergé non era necessario che le bottiglie somigliassero agli occhi, è al contrario indispensabile che i gatti (ideali) somiglino a caffettiere (ideali) perché Julian Key possa proporre il suo noto manifesto del caffè Chat noir (ill. 8). Del resto abbiamo già analizzato questa chafetière (Gruppo μ 1976a) e osservato che il suo significante presenta tratti che riconducono univocamente ora all’uno ora all’altro type, e anche tratti riconducibili a entrambi. Si verifica dunque una rottura dei legami intrasegmentali solidi, e conseguente-
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mente si ha la percezione di uno scarto violento. Chiameremo queste figure interpenetrazioni. Volendo ricercarne l’equivalente linguistico, lo troveremmo sicuramente nella parola-valigia.13 4.2.3. In praesentia disgiunta (IPD): gli accoppiamenti Rientra in questo gruppo ogni immagine visiva iconica in cui due entità disgiunte possono essere percepite secondo una relazione di similitudine. Citeremo l’esempio dell’ingegnosa tela di René Magritte (Le passeggiate di Euclide, tav. 2), che svela gli artifici della prospettiva mostrando due coni d’ombra (triangoli con la punta rivolta verso l’alto, dello stesso colore e delle stesse dimensioni): uno corrisponde al tetto conico di una torretta, l’altro alla “fuga” di un grande viale. 4.2.3. In absentia disgiunta (IAD): i tropi proiettati In queste figure i type identificati a una prima lettura danno un senso soddisfacente all’enunciato, che abbiamo però tendenza a reinterpretare alla luce delle isotopie proiettate. Molto spesso queste isotopie sono sessuali, essendo l’ossessione libidinosa alla base della nostra mente, che di continuo è indotta in tentazione. Non vi sfugge nemmeno l’immagine visiva, in cui abbondano le allusioni falliche e vaginali. Si è già segnalato che paesaggi come quello della scogliera dell’isola di Rügen, dipinta da Caspar David Friedrich, avessero tutte le caratteristiche delle pudenda femminili. Un professore di estetica e di filologia romanza, Arsène Soreil, amava mostrare ai suoi allievi che in tutte le pitture di valli in cui la vegetazione circonda uno specchio d’acqua c’è un richiamo vulvare, e nell’Isola dei morti di Böcklin una penetrazione più o meno spinta. Ma altrettanto pregnanti ed efficaci sono le associazioni del tipo foresta-cattedrale, o quelle che avvolgono lo “sguardo rivolto verso il cielo”. Qui il meccanismo non è più fondato sulla ridondanza ma sull’inammissibile banalità del messaggio, banalità che ci sforziamo di negare
caricandola di significati proiettati. Intervengono poi altri meccanismi pragmatici per suscitare la proiezione di un’isotopia esterna al messaggio: titoli (sappiamo quanto a Magritte piacessero gli enigmi), sequenze di immagini, particolari ambientazioni, conoscenze condivise sull’autore delle opere, e così via. 4.3. I quattro modi nella retorica plastica Nel dominio puramente plastico il problema sembra fin da principio più delicato. Che senso ha qui il concetto di figura? L’immagine plastica possiede entità formali percepibili grazie ad attributi differenziali. In un primo tempo esse appaiono distinte, non intercambiabili, contrapposte. Alcuni enunciati plastici giocano del resto su queste opposizioni e creano effetti di conflitto più o meno diffusi. Altri, al contrario, cercano di mostrare che le entità distinte non sono irriducibilmente opposte e che esistono passaggi tra l’una e l’altra. L’efficacia di tali procedure si rivela tanto più grande quanto più le unità mediate sembrano all’inizio inconciliabili. Il cerchio e il quadrato, per esempio. È a partire da questo estremo che porteremo avanti la nostra riflessione. Presumibilmente, infatti, ammettendo l’esistenza di un rapporto retorico tra cerchio e quadrato, sarà superfluo ripetere il ragionamento per casi in cui la tensione è minore. Le immagini che convocheremo hanno tutte in comune di proporre un’attenuazione dell’opposizione tra cerchio e quadrato.14 4.3.1. In absentia congiunta (IAC): i tropi In questo primo caso il grado percepito è totalmente conforme a un type e regole contestuali portano a sovrapporre a questa manifestazione un altro type, che costituisce allora il grado concepito. Illustreremo il processo in esame servendoci di un’opera di Vasarely, Bételgeuse, in cui si vedono file di cerchi perfetti (ill. 9). All’intersezione di due allineamenti di 14 e 22 cerchi sorge un quadrato. L’immagine non è figurativa, ma presenta il quadrato e il cerchio, che rinviano però a due type solidamente stabili quanto potrebbero esserlo l’“uomo” o la “mucca”. Abbiamo visto infatti che i type sono delle astrazioni: se implicano molti determinanti, si associano meglio alle
13 Una sorta di caso-limite di queste figure per interpenetrazione potrebbero essere le opere di Klee (Madre e bambino) o di Escher (Sole e Luna), in cui, sebbene l’entità globale non sia incerta, i due type congiunti condividono lo stesso contorno: il bambino è il complemento della madre (e viceversa), l’uccello diurno è il complemento dell’uccello notturno. Questo tipo di figura retorica trae inoltre grande vantaggio dall’esclusione dello sfondo dalla figura, così come dall’avanzamento di quest’ultima rispetto allo sfondo.
14 Gli esempi verteranno quindi solo su una delle dimensioni del segno plastico: la forma. Ma si capisce che la classificazione qui proposta vale anche per il colore e per la testura.
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10. Mandala
9. Victor Vasarely, Betelgeuse, 1963 manifestazioni concrete; se ne comportano pochi (come per il cerchio e il quadrato), diventano molto generici. Ma se esistono dei type che prescrivono la configurazione dei quadrati e dei cerchi, non c’è invece nessun type che prescriva che il posto vuoto in mezzo a 22 cerchi debba essere obbligatoriamente occupato da un cerchio. L’aspettativa di un cerchio nasce unicamente hic et nunc, nell’opera, e dal dispositivo spaziale regolare immaginato da Vasarely. È l’evidenza di queste regole, manifestate attraverso rigorosi allineamenti e moduli formali uniformi, a suscitare l’aspettativa del cerchio. Abbiamo quindi un grado zero locale. La rottura consiste nel rimpiazzare un cerchio con un quadrato che occupa la stessa superficie. E la rivalutazione dello scarto potrebbe consistere, per esempio, nel concludere che il cerchio e il quadrato, per quanto polarmente opposti, sono tuttavia forme fortemente simmetriche e topologicamente equivalenti.
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4.3.2. In praesentia congiunta (IPC): le interpenetrazioni I termini opposti si presentano qui sotto una forma di mediazione più o meno equivoca, che possiede tratti riconoscibili di ognuno dei contrari. L’opposizione tra il cerchio e il quadrato è restituita con efficacia da due celebri esempi: la Sergel Torg di Stoccolma e l’arte degli Indiani della costa occidentale (Kwakiutl, Haida ecc.). In entrambi i casi, il procedimento è intenzionale ed esplicito. Le forme proposte non appartengono a type stabili15 e tuttavia rinviano inevitabilmente ad altre forme vicine: non ci si può impedire di vederle come cerchi un po’ appiattiti o come quadrati con angoli più o meno arrotondati. Queste entità, inclassificabili se non come miste, sono quindi delle “caffettiere plastiche”. Esaltano la comproprietà di alcuni formemi delle due forme. 4.3.3. In praesentia disgiunta (IPD): gli accoppiamenti Nella terza tipologia le due entità, ciascuna conforme a un type, sono simultaneamente manifestate, ma dispositivi contestuali e/o pragmatici portano a considerarle come la trasformazione l’una dell’altra. Sotto questa modalità, dunque, si suppone che il cerchio e il quadrato siano entrambi presenti. Lo illustra bene il caso del mandala 15
Oppure sono in via di costituzione di un tale type, ma sempre più debole del cerchio o del quadrato.
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(ill. 10).16 Qui, contrariamente al quadro di Vasarely, non c’è nessuna norma locale che permetta di dire che il cerchio è messo al posto di un quadrato e viceversa. Il conflitto è assoluto e in apparenza irriducibile. Tuttavia, la relazione tra cerchio e quadrato è resa possibile per il fatto che le due figure occupano lo stesso centro (anche se il punto in questione è virtuale e non si materializza) e sono tangenti. Al fattore contestuale si aggiunge un fattore pragmatico – il ben noto simbolismo indiano che ascrive il cerchio all’ordine cosmico e il quadrato all’ordine umano. Quest’ultimo completa e rende soddisfacente il senso dell’intera struttura.17
5. La relazione iconoplastica
Anch’esso studiato in dettaglio altrove. Cfr. Edeline 1984a. La sua caratteristica essenziale, capitale per il nostro ragionamento, è di funzionare visivamente. È stata chiamata, a giusto titolo, psico-cosmogramma (Tucci 1949).
5.1. Descrizione generale Tutte le figure finora considerate funzionano su un solo piano: a volte quello dell’icona, a volte quello del segno plastico. Nel tropo iconico (per esempio, gli occhi-bottiglia), è una ridondanza iconica (la nostra conoscenza del type “viso”) a permetterci di postulare dietro un grado percepito iconico (“bottiglia”) un altro type iconico che costituisce il grado concepito (“pupilla”). Nel tropo plastico (il cerchio-quadrato di Vasarely) è una ridondanza plastica (il ritmo) che ci fa postulare la sovrapposizione di un type plastico concepito (“cerchio”) a una forma plastica percepita (“quadrato”). In entrambi i casi, è dunque possibile parlare di retorica omogenea, perché tutto avviene su un unico piano, sia il riconoscimento dei due gradi, sia la ridondanza che permette di fissare la loro relazione, sia infine la relazione stessa. Esistono invece figure per le quali è necessario prendere in considerazione i due piani simultaneamente. Le chiameremo figure iconoplastiche. A spiegarle è un fatto già osservato (§ 3.4.). I segni iconici di un’immagine non possono materialmente manifestarsi in maniera autonoma: devono per forza attualizzarsi attraverso segni plastici, e questa coesistenza tende a seguire una legge che abbiamo definito di concomitanza. Si ha figura iconoplastica quando nella relazione retorica che si stabilisce tra due elementi di uno stesso piano, la ridondanza è ottenuta sull’altro piano. Ecco un primo esempio. Prendiamo il disegno di un corpo umano, dettagliato e realistico. Immaginiamo che la testa abbia la forma di un quadrato. Questo quadrato non risulterebbe affatto anormale in un disegno schematico, ottenuto attraverso una trasformazione topologica in cui la flessione delle membra è stata resa con angoli e le membra stesse con segmenti di retta. Ma per ragioni di compatibilità il nostro contesto richiedeva piuttosto un disegno plastico, se non circolare, almeno curvilineo, corrispondente ai sotto-determinanti del type “testa”. Siamo dunque davanti a un tropo plastico, uno di quelli che rende possibile l’accordo del rettilineo percepito e del curvilineo concepito, prodotto e ricevuto però grazie a una ridondanza di ordine iconico. Su queste basi possiamo tentare una classificazione delle figure iconoplastiche, con criteri leggermente diversi da quelli adottati più sopra: se la coppia in absentia vs in praesentia è qui ancora valida, lo
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4.3.4. In absentia disgiunta (IAD): i tropi proiettati Per l’esistenza di questa categoria si deve supporre che il termine plastico disgiunto e assente possa essere evocato con intensità tale da entrare in interferenza con gli elementi plastici manifestati. Ora, abbiamo visto che le norme e le regolarità che strutturano l’universo plastico sono immanenti all’enunciato e non possono proiettare le loro determinazioni al di fuori di esso. Al limite si potrebbe ammettere un’attesa intertestuale, proiettata da un enunciato all’altro: un corpus di quadri di uno stesso pittore o una sequenza di dettagli architettonici possono creare questo genere di intertesto. La debolezza di tali legami li renderebbe scarsamente efficaci se non intervenissero in massa determinazioni esterne, afferenti ad altre semiotiche (verbali o di altro tipo) e in grado di proiettare sull’enunciato plastico una nuova isotopia. Per rimanere nella nostra famiglia di esempi, un quadrato su una tela che recasse il titolo “cerchio” sarebbe un caso perfetto di tropo proiettato, come lo sarebbe un autentico Mondrian costituito solo da cerchi. Da quel che possiamo vedere, man mano che avanziamo verso la parte destra della tabella, la figura, per potersi pienamente manifestare, ha sempre più bisogno che le caratteristiche interne dell’enunciato siano sostituite da un discorso esterno: enunciato linguistico, codice simbolico ecc.
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stesso non si può dire per l’opposizione congiunzione vs disgiunzione. Qui infatti, grazie alla ridondanza dell’enunciato, i due gradi sono sempre congiunti. Per definizione, la ridondanza agisce in questo caso su un piano diverso da quello delle unità retoriche. In altri termini, quando le unità sono di natura plastica, la loro congiunzione avviene grazie a un enunciato iconico; quando sono di natura iconica, è grazie a un enunciato plastico che sono congiunte. Il caso particolare degli accoppiamenti iconoplastici mette in gioco due coppie di unità compresenti, di cui una qualsiasi può essere rivalutata in rapporto all’altra. Qui la reversibilità, per principio sempre presente in una figura, ma spesso bloccata dal contesto, è garantita: se ne ricava un effetto di oscillazione. Otteniamo così una matrice a quattro caselle. Tabella 11. Figure iconoplastiche Luogo di congiunzione
Iconico
Plastico
Modo In absentia
Tropo plastico nell’iconico
Tropo iconico nel plastico
In praesentia
Accoppiamento plastico nell’iconico
Accoppiamento iconico nel plastico
Forniamo un esempio che della dimensione plastica attiva la variante della “forma”: il nostro uomo con la testa quadrata di prima. E un esempio che concerne la variante del “colore”: Leloup, che nella serie di disegni che hanno per protagonista Yoko Tsuno inventa una ragazzina venuta dal pianeta Vinea, le dà tutti i tratti somatici di un’europea, ma le pigmenta la pelle di blu. Tenta di certo in questo modo di istituire il type “vineano”, che comporta una sotto-determinante /blu/, ma il lettore non può che oscillare tra il riconoscimento di questo nuovo type e la lettura antropocentrica, retorica: il /blu/ (Pp) sarà allora percepito nella sua tensione con il /rosa carne/ (Pc).18 5.2.2. Accoppiamento plastico nell’iconico Per illustrare il caso di questa figura in praesentia – dove due entità plastiche entrano in relazione retorica per effetto di una ridondanza iconica –, potremmo ricorrere all’immagine seguente. Il soggetto è un uomo, cosa che già assicura una notevole ridondanza iconica; in particolare, gli occhi, le orecchie, le braccia, le gambe dovranno essere simili e simmetrici. Ma se l’autore rispettasse solo in parte questa simmetria e dipingesse, per esempio, una gamba rossa e l’altra verde, la ridondanza iconica (EI) ci costringerebbe a giudicare pertinente l’accoppiamento di queste due unità plastiche (una plaga rossa e una plaga verde, che sono a volte Pp e a volte Pc) e a interpretarlo come indice della complementarietà, e non certo della somiglianza, tra le due gambe. EI Pp
5.2. Classificazioni Il funzionamento di queste categorie di figure è illustrabile con uno schema. I e P stanno per ordine iconico e ordine plastico, p e c per percepito e concepito, ed E per enunciato.
Pc Fig. 16b
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Fig. 16a
È un ragionamento valido anche per la raffigurazione di alcune divinità indù, nel caso in cui il lettore europeo ignorasse il significato religioso della loro trasformazione cromatica. L’operazione è resa possibile soprattutto grazie a un fenomeno che chiameremo di coestensività. Ci riferiamo alla sovrapposizione, in qualsiasi spazio, di tre componenti coestensive: la forma, il colore e la testura, che arrivano così a essere perfettamente congiunte. Ognuna di esse, presa isolatamente, è plastica e non riesce in genere a dar vita all’iconico, che nasce invece dalla loro sovrapposizione. È dunque possibile manipolare una delle componenti plastiche lasciando sempre intatte le altre e senza immettere forzatamente la ridondanza iconica: ecco in che cosa consiste l’operazione iconoplastica. Ricordiamo che nella
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5.2.1. Tropo plastico nell’iconico Le due unità dipendono dal livello plastico e sono sostituibili in virtù di una ridondanza di ordine iconico. EI Pp
Pc
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5.2.3. Tropo iconico nel plastico In questo caso l’omogeneità dell’enunciato è di ordine plastico (EP). Vi rientrano tutti i ritmi dei fregi, delle sequenze dei capitelli nei chiostri ecc. Anche se gli elementi ripetuti sono di ordine iconico, l’ordine della loro ripetizione è plastico – sempre che non sia motivato da un type iconico, come nelle rappresentazioni dei millepiedi, delle colonne vertebrali, dei raggi della bicicletta e dei reggimenti. Se un insieme di capitelli fonda il suo ritmo sulla ripetizione di figure umane e in un punto della sequenza appare una figura animale, siamo in diritto di riconoscervi una sostituzione iconica, che instaura un rapporto tropico tra l’animale (Ip) e l’umano (Ic). EP Ip
Ic Fig. 16c
5.2.4. Accoppiamento iconico nel plastico È forse la combinazione più frequente nella pittura occidentale. Parleremo più avanti della rima plastica a partire da alcuni esempi di Hokusai e di Pirenne (cfr. cap. 5, § 4). Senza anticipare nulla di queste analisi, descriviamo brevemente un’opera dell’ultimo autore citato: si tratta di un paesaggio che rappresenta congiuntamente un altopiano di campagna e, più in basso, un agglomerato urbano, con fabbriche e abitazioni (tav. 3). Il tratto saliente dell’insieme è la dominante gialla, che unisce l’altopiano e le costruzioni. Nessuna retorica dei type qui: i pistoni delle fabbriche possono essere gialli! Ma la forte dominante cromatica porta, in virtù della legge di concomitanza (vedi § 3.4.), a formulare l’ipotesi di un type iconico unico. È un type dalla stabilità minima. L’oscillazione si verifica qui tra questo type iconico che non ha nome e la coppia dei due type cristallizzati nella nostra enciclopedia e spesso presentati come antitetici: città e natura, messi a confronto nell’opera di Pirenne in modo simmetrico (Ip → Ic, dove la variabile p è tanto la città quanto
la campagna). Il paragone è possibile in virtù dell’uniformità cromatica (EP).19 EP Ip
Ic Fig. 16d
6. Effetti e classificazioni 6.1. Il fenomeno dell’ethos Qualsiasi figura produce un effetto. Anzi, il più delle volte è sotto questo profilo che le figure vengono descritte, analizzate e classificate. Il metodo che abbiamo adottato dall’inizio dei nostri studi di retorica è stato del tutto diverso: si è evitato di parlare di effetti, che facilmente portano a fantasticare, fino al momento in cui non sono stati descritti i dati oggettivi sui quali si fonda il fenomeno dell’effetto, o dell’ethos, come altrove l’abbiamo chiamato (Gruppo μ 1979a, pp. 145-156). La produzione dell’ethos è un fenomeno complesso, psicologico, che concerne quindi la singola persona, e fondato allo stesso tempo su una struttura mitica collettiva – la cultura – e su stimoli semiotici specifici: la figura e ciò che la circonda. L’ethos si complica ulteriormente se si fa intervenire il giudizio di valore, il quale si sovrappone così bene alla descrizione dell’effetto da diventarne assai spesso indissociabile. Preferendo mantenerli separati di diritto – è la posizione che intendiamo assumere – dovremo ammettere che fra struttura semiotica e giudizi di valore si insinuano parecchie variabili, come tra il sasso e la zuppa che un grande chef pretenderebbe di estrarne.20
lingua verbale tutte le unità manifestate sono mutuamente esclusive: non si possono disporre due fonemi in uno stesso punto della catena. Solo i tratti distintivi sono coestensivi, perché virtuali. Quanto detto autorizza una retorica fondata su questa proprietà – cfr. il capitolo sui “metaplasmi” in Gruppo μ 1970a e l’esempio di un imitatore dell’accento tedesco che in una frase come /io la tetesto/ – sopprimerebbe la sonorità.
19 L’analisi de La grande onda di Hokusai (cap. 5, § 3.2.) attira la nostra attenzione su un altro fenomeno: l’artista può, tra le due entità accoppiate (qui il vulcano e l’onda che si infrange), utilizzare un termine intermedio come terzo mediatore; è il ruolo svolto dalla seconda onda, la cui forma è esattamente a metà-strada fra gli estremi, ed è del resto collocata tra essi. È difficile decidere se si tratti di un adiuvante ottico che permette di condurre meglio la lettura, o di un’entità funzionale destinata a segnalare le tappe di un processo di trasformazione. Sapendo che l’opposizione tra mare e montagna è un topos eterno nella pittura orientale, propendiamo piuttosto per la seconda ipotesi. 20 Aspetto che lo strutturalismo trionfante non ha voluto considerare, deciso com’era a credere che le poche forme che era in grado di descrivere costituissero
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Fatto complesso, dunque, ma in ogni modo da affrontare senza praticare quella fuga in avanti che troppo spesso caratterizza il linguaggio della critica d’arte. Piuttosto che rispondere d’acchito alla domanda “Che effetti produce una figura plastica?”, procederemo considerando l’ethos come un risultato di processi rigorosamente distinti e gerarchizzati. Separeremo tre livelli: 1. L’ethos nucleare, che produce la struttura stessa della figura. Si può infatti concepire una figura vuota, che esista solo come pura struttura, senza che alcun materiale venga ad attualizzarla. Pur essendo senza dubbio solamente teorica, la figura nucleare non va tralasciata: è chiaro che un’operazione di soppressione non ha lo stesso effetto di un’operazione di aggiunta o di una di sostituzione. 2. L’ethos autonomo. È funzione allo stesso tempo dell’ethos nucleare e della natura dei materiali utilizzati per realizzare la figura. In Gruppo μ 1970a fornivamo a questo proposito l’esempio di due metafore che attingono una all’argot, l’altra alla lingua tradizionale. Nel dominio plastico, per esempio, l’effetto di una figura dipende dalla rappresentazione culturale del tema della figura: forme, colori e testure non hanno gli stessi valori, e tanto meno li hanno una forma, un colore e una testura particolari. L’effetto autonomo è ancora un modello, non possiede esistenza reale: se per definizione la figura scaturisce soltanto dal discorso in cui opera, quella in questione risulta in concreto isolata (ecco perché “autonoma”) e priva di contesto. È dunque necessario far intervenire un terzo livello, che è: 3. L’ethos sinnomo. È l’ethos come fatto realizzato, a differenza degli altri due, che esistono solo in potenza. L’ethos sinnomo è contemporaneamente funzione della struttura della figura, dei materiali che la attualizzano e del contesto nel quale si inserisce. La produzione degli effetti varia secondo la tipologia di figura interessata. Valido per i tre casi è tuttavia un processo che dipende dal livello nucleare e che sfrutta la relazione tra percepito e concepito. È il processo della mediazione, su cui dovremo soffermarci. 6.2. La mediazione Nella tendenza a semiotizzare l’universo le nostre percezioni stabilizzano coppie di opposti. Questo metodo strutturalista polarizza il percetto
secondo diversi assi. Siamo portati a credere che le opposizioni elaborate in fase percettiva si trovino in natura e che ci limitiamo a estrarle.21 In realtà, il percetto stesso si presta altrettanto bene a un’analisi in termini di fusione, perché gli opposti sono sempre situati su uno stesso asse semantico: estraendo coppie di opposti, ci dotiamo allo stesso tempo di mezzi per la loro conciliazione, o, se si preferisce, per la loro mediazione. Di fronte a uno spettacolo del mondo naturale si può optare per una lettura che semiotizzi al massimo, che estenda cioè in lungo e in largo la rete delle differenze che lo descrivono; o si può, al contrario, chiudere un occhio, e prediligere l’oceano, rinunciando a un gran numero di distinzioni. Una lettura raziocinante si oppone così a uno sguardo a panoramica: se la prima può fornire un’immagine troppo frazionata, troppo divisa dell’universo, la seconda può risultare informe e confusionaria. La scelta del tipo di lettura dipende da criteri che vanno determinati localmente, di natura forse psicologica e pragmatica. Abbiamo esaminato in altra sede (Gruppo μ 1984a) svariati strumenti di mediazione, tanto per il discorso retorico quanto per quello narrativo.22 Ipotizziamo ora l’esistenza di una mediazione visiva, di cui tentiamo di sviluppare le varie modalità. Prima, però, occorre osservare che il processo di mediazione si ripercuote sull’ethos nella sua interezza. Sottolinea o impone, infatti, una coerenza nell’enunciato, secondo i casi. Si dice perciò che ogni mediazione è euforizzante, perché neutralizza le differenze. Annotiamo dunque la formula generale del processo di mediazione: Termine A
→
Terzi mediatori
→
Termine B
Il terzo mediatore è un elemento complesso che partecipa in qualche misura dei termini A e B. È l’invariante. Lo ritroveremo nei vari ambiti in cui si applica la retorica. Ma occorre prima di tutto precisare che si possono avere diversi modi di presentazione, qualunque sia la semioti21
il fondamento stesso di qualsiasi valore estetico (cfr. Gruppo μ 1977a, pp. 193200).
Fatto che si riscontra in tutti i campi e non solo nel visivo: dionisiaco e apollineo, onde e corpuscoli, cerchio e quadrato, san Giorgio e il drago. In una recente trasmissione della BBC un single ha dichiarato che le donne si dividono in due gruppi: i tipi San Giorgio e i tipi Drago… 22 Ad avere egregiamente studiato i processi di mediazione è stato Lévi-Strauss. Richiamandosi a lui, Sonesson (1989) tenta di adattarli al dominio visivo.
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ca in causa: a volte si manifestano tutti gli elementi; a volte compaiono solo i termini opposti, essendo il termine mediatore implicito; a volte, infine, solo il terzo mediatore è manifestato e si sdoppia al momento della lettura.23 Ma ogni sistema semiotico impone evidentemente al processo le sue specificità e quello visivo non sfugge alla regola. La differenza osservata pagine addietro fra la semiotica della lingua verbale e la semiotica visiva – linearità vs simultaneità – è all’origine di tali specificità. Nella lingua verbale abbiamo individuato strategie testuali come la “mediazione postuma” (una messa in relazione retorica tra due campi semantici che opera però solo a posteriori, grazie a un meccanismo connettore, il più delle volte una metafora, che agisce successivamente alla costituzione dei due campi) e la “mediazione progressiva” (Gruppo μ 1977a). Queste, evidentemente, non si possono realizzare negli enunciati iconici, dove la mediazione agisce simultaneamente alla costituzione degli elementi dell’enunciato. Presentiamo qui di seguito le diverse tipologie reperite. 6.2.1. La trasformazione mediatrice Si è visto che nel dominio iconico l’immagine visiva, grazie alla trasformazione, trattiene qualcosa del soggetto e dell’oggetto (cap. 2). La trasformazione pone dunque l’immagine stessa come mediatrice tfra il suo produttore e il suo modello. Ne costituiscono un esempio gli idioletti dei pittori e i processi di stilizzazione in atto nelle accademie. La trasformazione incide su tutte le proprietà delle unità strutturali.24
6.2.3. La mediazione iconica Questa mediazione passa invece attraverso i type iconici, facendo intervenire la nostra competenza enciclopedica, sia nei significati linguistici sia nei type iconici. La mediazione può dunque consistere in una relazione logica che proiettiamo sull’enunciato e in cui possiamo scorgere relazioni di causalità, di somiglianza ecc. Un esempio di causalità è dato dai processi dinamici della narrazione, in modo particolare negli enunciati non retorici: uno spettatore con qualche nozione in materia di pratiche militari sa subito interpretare come una scena di conquista un’immagine che mostra un esercito e una cittadella. 6.2.4. La mediazione iconoplastica La mediazione iconoplastica è forse la tipologia più diffusa nella pittura figurativa. Utilizza un termine mediatore puramente plastico, che non corrisponde cioè a un type iconico, per unire due entità figurative, o viceversa. È una mediazione che induce allora effetti di senso sulle entità mediate. In questo ricorda molto una struttura che in retorica linguistica va sotto il nome di parallelismo fonetico-semantico, o metaplasma. Il termine mediatore può essere dato da una testura, da un colore o una forma (Hokusai), può essere il contorno (Klee, Escher), ma può anche essere costituito, come abbiamo visto, dal “vuoto”, dallo spazio non dipinto della pittura cinese…
6.2.2. La mediazione plastica Comprendiamo sotto questa denominazione le mediazioni che strutturano le opere non figurative. È possibile ottenere mediazioni attraverso giustapposizioni (il mandala), per sintesi (la Sergel Torg), per transizioni (Vasarely), per cromatismi intermediari o complementari (Mondrian). 23
L’interesse della questione va ben oltre i confini della retorica e riguarda la produzione stessa del senso. Se quando si percepiscono tre termini, due dei quali in opposizione, si cerca fermamente di collocare il terzo in posizione mediatrice, come abbiamo sottolineato più di una volta (cfr. gli studi di Thürlemann e di Sonesson), è perché la struttura triadica T1 – TM – T2 è lo schema più frequente della generazione del senso. Anche i contrari, apparentemente non mediati dal contesto, lo sono attraverso l’asse semantico sul quale si oppongono, che è loro comune. 24 Diversamente dagli altri tipi di mediazione, non mette in relazione due zone dell’immagine.
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5. La retorica iconoplastica
1. Il rapporto iconoplastico 1.1. Dal plastico all’iconico Nella maggior parte dei casi si intende la relazione tra i due segni nella direzione che va dal plastico all’iconico: quando descriviamo il processo d’identificazione di un type iconico, balza in primo piano, infatti, la percezione di una manifestazione plastica. Il significante plastico è tuttavia solo potenziale e tende a scomparire a favore dell’iconismo. Bisogna reintrodurre, a questo punto, la distinzione tra spettacolo del mondo naturale e spettacolo artificiale. La lettura di un enunciato o di uno spettacolo non funziona allo stesso modo se la manifestazione è plastica o iconica, dal momento che i presupposti dell’operazione sono diversi. È possibile reperire però alcune convergenze. Si presume innanzitutto che l’enunciato, tanto in una dimensione quanto nell’altra, obbedisca a una coerenza interna, abbia in sé una ragione sufficiente e presenti una struttura regolata. Sono inoltre all’opera apparati percettivi periferici, che estraggono motivi, individuano allineamenti, orientamenti, contorni, plaghe colorate uniformi ecc. In una prima fase di lettura i fasci di stimoli bruti vengono dunque annullati per cogliere le regolarità; smettono, a partire da questo momento, di essere una materia informe. Nella seconda fase, semiotica, i motivi vengono confrontati con il repertorio di type e nella maggior parte dei casi identificati. Molti spettatori si fermano qui, trascurando la forma dell’espressione per interessarsi soltanto alla forma del contenuto.1
In presenza di uno spettacolo naturale il processo può comunque considerarsi concluso: la lettura è completa avendo identificato tutti gli oggetti senza lasciare residui. In uno spettacolo del genere, infatti, non ci sono che oggetti, anche se alcuni di essi, come le costellazioni,2 possono rivelarsi ingannevoli. Ma di fronte a uno spettacolo semiotico, anche iconico, le cose cambiano. Non è più necessario che tutti gli stimoli visivi, riuniti a formare oggetti plastici, si risolvano in oggetti iconici; si riconosce invece lo stesso diritto di esistenza ai segni plastici e ai segni iconici, che alcune volte coincidono, altre rimangono distinti. A partire dall’assioma secondo cui “in uno spettacolo naturale ci sono solo oggetti”, un osservatore impassibile potrà dedurre i corollari “in questo tipo di spettacolo non c’è il plastico” e “non può nascervi alcuna attività retorica”. Ma se si è sensibili alla bellezza della natura, sarà inevitabile percepirvi aspetti plastici come se essa fosse uno spettacolo semiotico. Questa propensione è frequente, ma è tuttavia con lo spettacolo semiotico che emerge, in modo specifico, una relazione alternativa tra segno plastico e segno iconico, che definiamo iconoplastica. Un enunciato può sottendere una strategia plastica volta a far percepire segni plastici i cui limiti non coincidano con quelli dei segni iconici. Nel primo caso, lo spettatore si sforza di accettare la differenza, ipotizzando che essa abbia il compito di modificare il significato iconico. Nel secondo, l’enunciato iconico è configurato in modo da sottostare a una particolare logica plastica. 1.2. L’iconoplastica come retorica Poiché viola costantemente la legge di concomitanza tra i significanti plastici e iconici, che come abbiamo visto (cap. 4) costituisce la norma, questo processo può a buon diritto essere considerato retorico. Ma prima di procedere alla disamina delle grandi famiglie di figure iconopla-
1 La sociologia della fruizione ne deduce, cosa in sé banale, che alcuni spettatori sono sensibili alla produzione di senso iconico e altri alla produzione di senso plastico. Questa prospettiva dicotomica ha dato vita a molti celebri malintesi nella storia dell’arte – da quelli relativi a La colazione sull’erba di Manet ad alcuni ready
made. L’esteta disprezza il gusto dei turisti di una certa età (e di solito di sesso femminile) per il David di Michelangelo o il gusto dei borghesi di fine Ottocento per le cineserie. Le masse considerano molto singolare il gusto degli intenditori per le monocromie di Klein o per le ricerche del gruppo dell’Art Brut. È il caso di dire che prendendo posizione – cosa inevitabile –, il semiologo smette di essere semiologo? 2 Sono raggruppamenti di stelle dai tratti talmente marcati che è impossibile non vederli: Orione, Cassiopea, l’Orsa maggiore e minore…Si tratta di oggetti plastici cui si è conferito lo status di oggetti iconici per l’impossibilità di verificarne l’esistenza.
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nipolazioni che lo istituiscono. Vedremo, con alcuni esempi, che questo significato assume un livello autonomo e si specifica secondo le entità iconiche convocate di peso nel progetto plastico. Gli enunciati complessi possono esaltarne o meno gli effetti.
stiche, occorre valutare le condizioni di possibilità di questi fenomeni, ossia la ridondanza e le varianti libere. In ambito iconico il funzionamento degli enunciati dipende dal riconoscimento dei type, che essendo però sovradeterminati nelle loro strutture, implicano parecchie determinazioni ridondanti. La semplice esistenza del disegno a matita prova che è possibile fare a meno sia del colore sia della rappresentazione di vaste superfici. Ma è solo un esempio. L’analisi dimostra che le trasformazioni possono essere numerose e profonde, senza che ciò impedisca il riconoscimento, dato che la ridondanza interviene per riparare alle alterazioni. Del resto, i type ai quali ci riferiamo hanno un certo livello di generalità, che implica come corollario l’esistenza di varianti libere: una “casa” può essere dipinta di /blu/, /bianco/, /giallo/, senza per questo smettere di essere una casa. Un pittore potrà, per esempio, modificare i colori e le forme del suo soggetto, senza per questo fargli perdere la figuratività, dal momento che il carattere iconico non è mai valutato a partire dalla conformità dell’immagine al modello, ma per la conformità del significante al type. Dall’insieme di questi fattori nascono le strategie iconoplastiche, che occupano semplicemente i gradi di libertà resi disponibili dalla ridondanza e dalle varianti libere. Questa azione è chiaramente retta da un progetto plastico che si impone al progetto iconico e ne modifica il significato. In un’ottica genetica si può pensare che il progetto plastico preesista all’enunciato e che l’iconico si limiti a conformarvisi. Da ciò si evincerebbe che il plastico, lungi dall’essere suddito dell’iconico, lo influenza e lo modella. Ma l’interazione non si ferma qui, perché l’iconico, identificato, aiuta a sua volta a identificare il progetto plastico. Il fenomeno è però di natura retorica. L’enunciato plastico è un segno e in quanto tale ha un significante, che consiste in ripetizioni, parallelismi, simmetrie ecc.: ora, queste sono aggiunte o soppressioni dell’ordine rispetto a un grado zero figurativo. Quanto all’effetto degli scarti retorici, esso è legato alle due categorie di scarti possibili sull’asse dell’ordine: un aumento di ordine rafforza la coesione dell’enunciato e traduce una concezione regolata del mondo rappresentato (non necessariamente armoniosa né euforizzante). Un eccesso di disordine traduce, al contrario, una concezione caotica del mondo, il cui senso è sempre destinato a sfuggirci, o di un mondo semplicemente sprovvisto di senso. È chiaro che si tratta di un significato nucleare di ordine molto generale, valutabile in base alle generiche ma-
Un commento di R.W. Oxenar spiega che «in questo modo Cézanne esclude il lato personale e sensibile della propria “scrittura”», affermazione che sembra a prima vista contraddire la teoria del canale emozionale subliminale. In realtà, è il contrario: inibendo se stesso con il controllo delle pennellate, l’artista riconosce nello stesso tempo la sua capacità di veicolare emozioni.
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2. Iconoplastica della testura La tela di Cézanne dal titolo La strada vicina al lago (1885-1890, tav. 4) ci ha già fornito un esempio interessante di discretizzazione dei tratteggi e dei colpi di spazzola. Qui l’artista ricorre solo a linee orizzontali, verticali e diagonali, queste ultime “in salita” di 60°. La lunghezza e la larghezza delle pennellate sono sensibilmente costanti. L’esame quantitativo dell’opera in questione rivela una forte predominanza del tratteggio obliquo (79%) sul tratteggio orizzontale (16,5%) e verticale (4,5%). Mostra inoltre che tutte le tipologie di tratteggio interagiscono: non c’è progressione del tratto obliquo né dominano zone lisce. Ogni type iconico si manifesta tramite una specie omogenea di tratteggi (il sentiero è per esempio composto da tratteggi orizzontali), ma una stessa specie può estendersi da un type a quello a lui più prossimo: il /tratteggio obliquo/ rimane per esempio invariato passando dal pendio ai cespugli, al fogliame e al cielo. Constatiamo, da qui, che l’effetto di differenziazione della testura è debole – se non nullo – sul piano iconico, perché è invece forte il suo effetto unificante sul piano plastico e in grado di contraddire la divisione del campo in entità colorate. Sempre nel quadro di Cézanne un’altra contraddizione è quella che riguarda l’orientamento naturale degli oggetti rappresentati. Avendo il tratteggio un significato direzionale (cfr. cap. 3, § 2.3.), sembra “normale” destinare a type come il selciato della “strada” o “l’acqua del lago” tratti orizzontali. Lo è di meno il destinare tratti obliqui a “tronchi d’albero” e non è affatto pertinente destinarli al “cielo”. Si tratta dunque di scarti che senza esitazione definiremo retorici, perché in queste zone ci saremmo aspettati tratteggi con un orientamento diverso (verticali per i tronchi) o del tutto assenti (per il cielo).3 3
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Nella seconda fase del procedimento retorico la riduzione dello scarto potrebbe dare adito all’ipotesi dell’obliquità dei raggi solari come principio unificatore e produttore dei tratti obliqui, ma resta un’interpretazione soggettiva,4 facilmente rimpiazzabile da altre giustificazioni iconiche come l’effetto del vento, che fa piegare tutti gli esseri viventi o l’inclinazione dei fianchi della collina.5 A prescindere dal caso in questione, che vede del resto coesistere diverse interpretazioni, soffermiamoci sull’influenza iconoplastica dominante del tratteggio obliquo. A che cosa servono allora il 16,5% dei tratti orizzontali e il 4,5% di quelli verticali? Semplicemente a fornirci gli assi allo stesso tempo razionali e fisici della percezione degli angoli. Convocando la pesantezza e l’orizzontalità dell’acqua e del suolo, Cézanne incamera le direzioni di riferimento del quadro e attenua gli effetti di disequilibrio e di fragilità provocati dalla grande quantità di oblique. “Inquadrando” la diagonale tra la verticale e l’orizzontale, in qualche modo la neutralizza, o ancora la attenua, non solo rispetto alla cornice della tela, ma anche rispetto ai muri e alle sale in cui inevitabilmente essa si trova, a meno che non venga a mediare le opposizioni tra orizzontale e verticale. Cézanne si è interessato per tutta la vita alla testura. Negli anni giovanili (1862-1868), da lui stesso definiti il suo «periodo couillarde», “virile”, si distingueva per la «generosità di un impasto spesso, che accumula con il coltello in strati sovrapposti» (Aa.Vv., s.d., p. 1353). È tuttavia per l’uso che fa del tratteggio se lo stesso artista attira nuovamente la nostra attenzione verso il celebre quadro Tre bagnanti. Nella tela, che pure non è completamente tratteggiata, si manifesta ancora una volta un effetto iconoplastico. Sono presenti tratteggi con due inclinazioni: /obliqua/, a 38° nella parte alta della tela, ovvero per gli alberi e per la bagnante principale, e /orizzontale/ nella parte bassa, ovvero per l’acqua e per l’erba sulla 4
In realtà i tratti obliqui sono perpendicolari alla direzione dei raggi del sole, come indicato dalle ombre. Anziché simulare, quindi, la luce e i suoi riflessi, mostrano l’ortogonalità del fogliame, composto da numerose masse opache che interrompono il passaggio dei raggi. 5 Quest’ultima interpretazione non è affatto debole. In un’opera giustamente celebre l’artista scozzese I.H. Finlay ha infatti appositamente scelto le opposizioni orizzontale/obliquo a 120° e blu/marrone per contraddistinguere il paesaggio marino e quello terrestre (sea/land). L’immagine fornisce un esempio straordinario e probabilmente rarissimo di un paesaggio ricondotto alla sua testura, essa stessa manifestata sotto la modalità del “tratteggio”.
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riva. Le superfici occupate da questi tratteggi sono tra loro diverse e le zone a tratteggio obliquo hanno la meglio, ma non tanto radicalmente quanto ne La strada vicina al lago. D’altra parte qui il tratteggio non è sistematico e ci sono zone non tratteggiate o indefinite, come quelle riservate ai corpi delle altre due bagnanti. Di nuovo la distribuzione dei tratteggi contravviene al principio di variazione concomitante e viola anche quello della figurazione delle testure naturali. Il sistema di tratteggi da conferire all’erba non è infatti orizzontale e se le bagnanti nude delle nostre spiagge fossero tratteggiate, le baceremmo meno volentieri. I tratteggi adottati da Cézanne sono dunque degli scarti, resi possibili dalla ridondanza della testura rispetto ai colori e riducibili grazie alle informazioni contenute nel repertorio dei type. È ovvio, però, che la riduzione non è un puro e semplice annullamento, né rappresenta la soluzione di un enigma; implica, al contrario, la percezione di effetti di senso. Qui l’effetto è doppio: da un lato, l’erba viene negata in quanto sostanza vegetale e assimilata all’orizzontalità del suolo che la supporta: l’obiettivo, come ne La strada del lago, è forse prima di tutto quello di fornire un assetto percettivo al quadro, una direzione di riferimento. Si noterà che il tratteggio rende molto più solida la percezione di questo riferimento, in virtù dell’effetto di sovra-linearizzazione di cui abbiamo già parlato. Dall’altro, la grande bagnante, la cui postura è leggermente inclinata, viene assimilata dal tratteggio al mondo vegetale che la circonda: è in qualche modo vegetalizzata, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano semantico e poetico. Ma l’opera ha ancora molto da dire, come fa egregiamente notare l’autore del commento seguente: «In questa composizione, come in quelle dedicate allo stesso tema, Cézanne accorda alle pennellate visibili un valore essenzialmente ritmico, conferendo loro un orientamento determinato, obliquo, verticale, o orizzontale» (Aa.Vv., s.d., p. 1359). Effettivamente il tratteggio, attraverso il suo sistema ripetitivo, ritaglia lo spazio in modo ritmico. Qui l’effetto è doppiamente ritmico perché comporta ripetizioni infraseriali (tratteggi paralleli tra loro) e ripetizioni interseriali (zone tratteggiate secondo scarti angolari fissi). La strategia plastica messa in atto produce nell’enunciato un effetto di senso generale e diffuso. Non è più iconoplastico per il fatto che modifica il senso di questa o quell’altra unità figurativa ma, discretizzando lo spazio e gli orientamenti, impone una griglia razionale al paesaggio, riduce la sua estraneità o la sua imprevedibilità e ne aumenta, al contrario, la leggibilità.
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3. Iconoplastica della forma
6 L’espressione “rima plastica” presenta l’inconveniente di rinviare soltanto ad accoppiamenti positivi. Nella strutturazione plastica degli enunciati sono possibili anche altri accoppiamenti, e tutti hanno un’efficacia iconoplastica. Ecco perché preferiamo l’espressione “accoppiamenti plastici”.
iconoplastica. Illustreremo questo punto con esempi chiari e ben documentati, tratti da Trentasei e Cento vedute del Fuji di Hokusai. Analizzeremo soprattutto la più celebre incisione di quest’ultima serie, nota come La grande onda e che rappresenta il monte Fuji innevato, ripreso, tra onde schiumose, dalla costa di Kanagawa (tav. 5). Nell’enunciato in questione è facile reperire, grazie anche al titolo della serie, due occorrenze del type “onda” e una del type “montagna”. Individuiamo, con altrettanta facilità, tre occorrenze del type “barca”. Chiamiamo O1 la grande onda schiumosa, O2 l’onda in formazione e F il Fuji-Yama. I significanti dei tre segni iconici mostrano una grande somiglianza, che riguarda le tre varianti del segno plastico: la forma, il colore (/blu/, /macchiato di bianco/ e /sormontato da una sommità bianca/), e probabilmente anche la testura, per chi fosse in condizioni di valutarla. Sebbene le tre varianti intervengano tutte nel reperimento iconico, limiteremo intenzionalmente la nostra analisi alla forma. Le tre forme si somigliano per le seguenti caratteristiche: /limitato da due diagonali simmetriche pressoché curvilinee/ e /determinante un angolo con la punta verso l’alto/. Tutti conoscono il meccanismo percettivo chiamato «costanza di taglia» (Pirenne 1972, p. 23), che compensa autonomamente gli effetti dell’allontanamento. Qui, tuttavia, le trasformazioni dovute al punto di vista conferiscono ai significanti O1, O2 e F una dimensione apparentemente confrontabile (ed anche inversa rispetto alle dimensioni dei referenti). Tale scelta disturba l’identificazione iconica, tanto che potremmo benissimo leggere F come un’onda lontana (se non fosse per il titolo della serie di stampe). È una prospettiva che se in un certo senso compromette la differenziazione, favorisce però in cambio la confusione dei type e la percezione degli accoppiamenti plastici. Questi tendono a stabilire tra i type una relazione sopra-segmentale e ci spingono a formulare l’ipotesi, seppur debole, dell’esistenza di un archetipo che li includa tutti e tre e di cui essi non sarebbero che le manifestazioni particolari. La giustificazione di un siffatto type è solo plastica, ma la sua percezione coinvolge nondimeno un fascio di relazioni semantiche che connettono i type particolari. La stessa cosa accade per l’accoppiamento plastico offerto dalle barche, le cui traverse sposano così bene le onde che è indispensabile il colore per distinguerle. Occorre ora esaminare in dettaglio il fenomeno dell’integrazione plastica, insieme alle sue conseguenze. Le diverse manifestazioni dei type, separate nello spazio, continuano a mantenere la loro identità.
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3.1. Generalità La linea, a differenza della testura e del colore, non è una proprietà della superficie. Fa invece intervenire meccanismi diversi che, come si è visto nel cap. 1, sono estrattori di motivi specializzati nel reperimento delle linee e delle loro caratteristiche (linea retta, curva, spezzata, puntinata…). Questi estrattori funzionano a breve distanza e in contiguità, riguardano cioè dei continuum di punti adiacenti. In quanto variante plastica, la linea rientra in una teoria più generale, che la sistematizza in un insieme secondo alcune regole (le linee, per esempio, “si toccano” o “costituiscono un tracciato chiuso”), dando così determinazione alla forma. Questa, a sua volta, contribuisce all’identificazione dei type tramite la consultazione del repertorio, e se si registra una quantità sufficiente di punti di conformità al type (per la forma come per il colore e la testura), si passa a formulare un’ipotesi iconica (v. cap. 2). Non ci dilungheremo di nuovo su come quest’ipotesi possa sviluppare una lettura retorica. Ci occuperemo invece del caso in cui gli scarti riguardino insiemi di almeno due type e siano quindi soprasegmentali. Accade quando i significanti di due type si manifestano in modo congiunto in una sola forma plastica, sia che il primo significante continui nel secondo (la caffettiera presa in esame nel cap. 4, § 2.2.), sia che i due significanti presentino caratteri morfologici talmente somiglianti da formare un segno plastico omogeneo (parallelismo, similitudine, complementarietà, ovvero quelle che vengono generalmente definite da André Lhote, nel saggio del 1967, «rime plastiche»).6 Il repertorio non fornisce tuttavia type che consentano di vedere, in queste nuove manifestazioni, significanti iconici, se non creandoli, cosa che a volte fa del resto lo stesso osservatore, come con la caffettiera. L’ipotesi da lui formulata in quel caso è che le strategie individuate siano intenzionali e che si possa proiettare sull’immagine il significato ritenuto più opportuno. 3.2. Analisi di un corpus di accoppiamenti plastici Negli spettacoli artificiali gli accoppiamenti fanno spesso parte del progetto plastico con cui l’enunciatore intende avviare una manovra
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Eppure, si influenzano reciprocamente. Com’è possibile? Sul piano della percezione, il lettore ricorderà il principio di prossimità di Gogel (1978), che mostra l’esistenza di un limite nell’apprensione degli accoppiamenti plastici: li percepiamo meglio quando si manifestano in zone dell’enunciato tra loro vicine. Sempre in Hokusai, troviamo così delle “rime incassate” facilmente percepibili: ne costituisce un esempio lo stesso monte Fuji scorto attraverso il sostegno triangolare dei segatori di assi (Vista delle montagne nella provincia di Totomi). Ma il rischio che gli accoppiamenti ci sfuggano è tanto più grande quanto più i termini di paragone sono distanti gli uni dagli altri e di dimensioni non simili. Un metodo per evitarlo è quello di ricondurre gli oggetti a una dimensione comparabile, come ne La grande onda, dove il punto di vista restituisce un effetto prospettico davvero particolare. Un altro metodo consiste nel produrre il paragone con simmetrie o allineamenti. È così che O1 e O2 realizzano un equilibrio reciproco, situati su una verticale praticamente simmetrica all’asse di F rispetto al centro geometrico del quadro. Allo stesso modo la disposizione di F al centro dell’incavo semi-circolare della grande onda O1 crea nel suo apice un secondo centro rispetto al quale si definiscono inoltre alcune simmetrie. In rapporto a questo nuovo centro, O1 e O2 hanno una posizione marginale e F una posizione centrale. Infine, gli apici dei tre oggetti sono disposti su una curva virtuale della stessa famiglia dei contorni delle onde e questo allineamento pertinente porta a considerarli in sequenza. Qui, nello specifico, le tre immagini di oggetti si presentano secondo una dimensione crescente F
“prodotto di un’eruzione”). È una strategia che abbiamo già incontrato nell’analisi della caffettiera (Gruppo μ 1976a). Nella stampa di Hokusai emergono dunque due gradi diversi di integrazione tra le isotopie manifestate dall’enunciato. Chiamiamo queste isotopie oros e thalassa.7 Le onde O1 e O2 non possiedono affatto i tratti di una montagna e F ha solo alcuni tratti di un’onda. Al contrario, le piccole /macchie bianche/ appartengono tanto all’isotopia oros quanto all’isotopia thalassa, visto che si inseriscono tutte in entrambe le isotopie. La coposessione di determinanti, parziale o totale, e la doppia isotopia delimitano in modo molto preciso una figura: la metafora. La configurazione appena analizzata è infatti retorica. La figura è per principio reversibile, dal momento che nessuna isotopia pretestuale accorda la preferenza a una delle due letture: il Fuji, onda immobile; l’onda, montagna in movimento… Ciò che conta è capire che il processo retorico di sovrapposizione delle due isotopie è messo in moto da un fenomeno di lettura bi-isotopa diretta. Lo stesso discorso si può fare per sviluppare l’accoppiamento plastico tra le barche e gli incavi delle onde, essendo la loro cresta il luogo di un’altra metafora. Vedremo, infine, che in un progetto plastico opposizioni e complementarietà sono importanti quanto le similitudini. La stampa in cui scorgiamo il Fuji triangolare attraverso un barile rotondo (Vista di Fujimigahara nella provincia di Owari) è probabilmente un esempio di opposizione elementare, ma è indubbio che i due oggetti incassati esercitano reciprocamente un’influenza iconoplastica. Accade lo stesso nella celebre Vista dalla baia di Noboto, dove il Fuji appare attraverso il portico trapezoidale di un tempio. La nostra Grande onda fornisce un esempio più sofisticato di questo processo. Qui, sul piano plastico, è possibile raggruppare facilmente gli elementi in due triadi: le tre barche e le tre onde (calcolando per un istante il Fuji come un’onda). Queste triadi sono distinguibili secondo l’opposizione /cresta/ vs /incavo/, sono cioè allo stesso tempo complementari (ogni onda comporta necessariamente una cresta e un incavo contigui) e contrarie (la cresta /appuntita e convessa/ si oppone all’incavo /curvo e
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Per comodità, e la scelta è facilmente comprensibile per il fatto che la presenza dei due domini marino e terrestre è alle origini della semantica iconica della pittura orientale (cfr. Cheng 1979) quanto lo è nella semantica linguistica l’opposizione interocettivo/esterocettivo, collocata da Greimas (1966) in cima al suo sistema ad albero.
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concavo/). La lettura potrebbe concludersi qui, limitandosi a registrare questi giochi di similitudine e di opposizioni plastiche. Potrebbe anche, a discrezione personale dell’osservatore, proiettare elementi semantici omologando all’opposizione /apice/ vs /incavo/, un’opposizione come “potenza” vs “sottomissione”, che i type iconici identificati avvalorerebbero a pieno: c’è infatti compatibilità tra la sottomissione e l’immagine della barca-in-balia-dei-flutti. Lo stesso polo della “potenza” può precisarsi in “potenza minacciosa” per la grande onda che si infrange e in “potenza stabile e protettiva” per il Fuji. “Stabilità” è qui un contenuto iconico che costituisce un tratto del type “montagna”, messo in risalto da un contesto che oppone montagna “stabile” e onda “instabile”. Ora, questa stabilità iconica è rafforzata da una stabilità plastica. Abbiamo visto (cap. 3, § 3.2.) che all’opposizione dei significanti /centrale/ vs /periferico/ può corrispondere un’opposizione di contenuto “stabile” vs “instabile”. In questo modo i due contenuti si consolidano (all’opposto, la semantica iconica contraddice l’ipotesi dell’omologazione tra il contrasto “forte” vs “debole” e quello /centrale/ e /periferico/, che viene quindi scartata a favore della prima). Procedere fino a giungere all’opposizione “maschile” vs “femminile” vorrebbe dire chiamare in causa un’isotopia proiettata, dal momento che nessuna figura porterebbe a pensarlo.8 Si intuisce che la procedura adottata è quasi la stessa in tutta la serie di stampe. Nella Vista di Surugacho a Edo, per esempio, il vulcano non appare più tra due onde, ma tra due tetti triangolari, variante che autorizza la seguente lettura: “Il Fuji protegge come il tetto di una casa”. Un comune denominatore è rappresentato inoltre dall’identico metodo prospettico con l’uso del primo piano (molto cinematografico), grazie al quale l’enorme montagna è ricondotta alle dimensioni di un oggetto quotidiano: un’onda, un tetto, un portico, una botte… 8 Come frutto di queste operazioni semantiche, sono nate sulle Litanie del Fuji, divagazioni butoriane al di là del loro ethos nucleare di fusione: «Se andrete a Mishima, capirete fino a che punto è simile al cielo; Se la vedrete durante i temporali estivi, saprete che è simile a un fulmine. […] Vedendola attraverso il sostegno di un segatore di assi, che è il fondamento del mondo attraverso un barile rotondo, che è il focolare del Giappone attraverso il portico del tempio di Nabotura, che è esso stesso un tempio e una divinità. Sappiamo che ci protegge come il tetto di una casa. […] E per il vento del sud e il cielo chiaro qualche volta si rivela rosso, come un enorme riserva di sangue». Cfr. Butor 1968.
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Resta da chiedersi che cosa svolga, nell’enunciato iconico, il ruolo che ha il come nell’enunciato linguistico. Nella retorica linguistica la metafora in praesentia, o paragone, è un tropo di mediazione, figura intraducibile nel dominio visivo, dove non esistono marche di comparazione. Qui, in realtà, un ruolo simile è svolto automaticamente dagli estrattori di motivi, operanti sul piano plastico. L’immagine fa economia del come, essendo questo incorporato già all’origine nei meccanismi percettivi. Ma se lo strumento del paragone è prestabilito, la giustificazione degli accoppiamenti non lo è e necessita da parte del destinatario di un lavoro di interpretazione notevole e personale. Concordiamo qui con le osservazioni di Kibédi Varga (1989; 1990). Si potrebbero commentare altri esempi di mediazione iconica attraverso il plastico. Pensiamo al Cimitero arabo di Kandinskij (1919): il turbante che corona la stele rinvia senza esitazione, con le sue bande oblique e i suoi colori, all’acconciatura della donna: le posizioni delle due figure sono inoltre simmetriche all’asse verticale. Un ultimo esempio è quello offerto da Madre e figlio di Klee (1938, tav. 6). Vi si coglie dapprima una policromia ristretta: a parte una plaga gialla che allude ai capelli della madre, e che è probabilmente il solo colore a valore iconico nel quadro, ci troviamo di fronte a due colori che appartengono alle categorie terra d’ombra e turchese. Non presentano punti di contatto e sono invece ben differenziati da spessi contorni marrone scuro.9 Le due tinte, liberamente scelte fuori da qualsiasi preoccupazione iconica, sono complementari e la loro somma dà come risultante un grigio. Questa complementarietà rafforza evidentemente il tema. Risalta, in secondo luogo, l’imbricazione completa dei due personaggi, innestati l’uno dentro l’altro come i tasselli di un puzzle. La complementarietà dei colori è quindi duplicata da una complementarietà di figure, la cui somma forma una mappa senza lacune né sovrapposizioni. Il tutto è sostenuto da un ordine equilibrato tra verticali e orizzontali, rispetto ai nasi, all’asse dei volti, alle mani della madre… Ma una figura plastica in particolare viene impiegata con audacia, ed è il contorno. Sappiamo che esso è sempre considerato percettivamente come facente parte della figura. Ora, qui il contorno del volto e del 9
Si può dubitare della pertinenza di questo marrone, perché spesso il colore delle linee “non si vede”.
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Anche il colore può essere implicato in una relazione iconoplastica e questo vale chiaramente per ognuna delle sue dimensioni: dominante cromatica, saturazione e luminosità. Ideare un enunciato iconico in “colori desaturati” vuol dire sottoporlo a un progetto plastico. Tale progetto può spesso essere caratterizzato da restrizioni imposte alla libertà dei colori: rispetto alla componente cromatica abbiamo suddiviso gli artisti in “coloristi” e “valoristi”. Parlare di “una tela dai toni fauves” significa definire l’opera nella sua plasticità e balza subito agli occhi dell’osservatore meno accorto che tra pittori come Matisse, Mondrian o Van der Leck, i quali lavorano con colori puri molto saturi, e pittori come Boucher, Constable, Turner o Dubuffet, la differenza è profonda. Constateremo ancora una volta che il progetto plastico è indipendente dal progetto iconico e percepibile prima di qualsiasi identificazione figurativa. È anche vero, però, che i due progetti interferiscono, come vedremo a breve in un pastello di Maurice Pirenne, Paesaggio industriale (tav. 3). L’opera mostra una vallata industriale con quartieri operai e fabbriche, vicino a un paesaggio rurale. Sul piano cromatico una forte stratificazione orizzontale oppone i blu e i rosa del cielo all’insieme della vallata e delle colline, con le sue case, le fabbriche e i campi di fieno. I tetti delle case sono gialli, dello stesso giallo dorato dei campi, e l’occhio percepisce quindi innanzitutto un oggetto plastico giallo, che non
corrisponde a nessun type iconico. Se l’enunciato è interamente iconico, occorre però in ogni caso distinguere accuratamente il doppio status del giallo che costituisce l’oggetto plastico. In quanto colore dei campi di fieno essiccato, questo giallo è iconico e appartenente a un modello archiviato nel repertorio dei type; per contro, in quanto colore dei pistoni e della facciate, il giallo è una variante libera, non registrata nel repertorio. Pirenne non era libero di scegliere il colore del fieno, ma non aveva restrizioni rispetto a quello delle case. Decidendo di dipingerle della stessa dominante cromatica, si distacca del tutto da qualsiasi referente reale che avrebbe potuto servirgli da fonte ma non smette per questo di essere figurativo. Per garantire la formazione di un oggetto plastico unico i cui limiti coincidano solo parzialmente con le delimitazioni iconiche, fa subire al referente una trasformazione (parziale) di filtraggio cromatico. L’oggetto è percepito ma non porta a nessun riconoscimento globale: è solo gradualmente e a partire da altri indizi come la forma che si riconoscono da un lato le costruzioni e dall’altro i campi coltivati (la strategia descritta a proposito del giallo si ritrova anche con il verde. Ai pistoni gialli si mescolano infatti tetti verdastri e l’accoppiamento cromatico associa questa volta i tetti e i fianchi delle colline). Ma il senso del progetto plastico rimane del tutto impenetrabile finché non ha luogo, prima di tutto, il riconoscimento dei type e poi un’attività di elaborazione a partire dagli oggetti. Lo spettatore non può allora restare inattivo e noi ci accingiamo qui a riprendere il procedimento che deve compiere per rendere conto dell’immagine in tutti i suoi aspetti. Il percorso non è codificato e comporta qualche incertezza nei risultati. Nondimeno, poiché è essenzialmente semantico, esso consente di annettere, alle componenti visive dell’immagine, significati molto elaborati, a volte facendo intervenire concetti impliciti, la cui rappresentazione visiva è impossibile e che solo il linguaggio verbale chiarisce. Nel caso del pastello di Pirenne il paesaggio unisce un universo industriale a un universo agricolo; il primo si colloca decisamente dal lato dell’artefatto umano, cioè del culturale, mentre il secondo, se non è propriamente naturale, vi si avvicina. Sul piano iconico abbiamo quindi l’opposizione “natura”/“cultura”, mentre sul piano plastico i poli di questa opposizione tendono a unificarsi in uno stesso oggetto. Termine mediatore è in tal modo il colore. Risulta ora possibile fornire una giustificazione al progetto plastico e attribuire all’opera un significato che renda giustizia tanto agli elementi plastici che agli oggetti iconici: “l’opposizione tra natura e cultura è vana, si scioglie alla luce del sole…”.
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collo della madre è in realtà una linea comune ai due personaggi, tale da rendere l’immagine sede di un’oscillazione: contorno della madre o contorno del bambino? Come nella ben nota figura di Rubin – un vaso o due profili? – è impossibile vederli contemporaneamente. Si può dire che questa linea realizza una mediazione plastica tra i due type iconici e suggerisce al lettore la loro consustanzialità. Infine, alcuni indizi potrebbero far pensare che la madre stessa sia imbricata in un corpo più grande posto fuori dall’inquadratura e di cui si scorgerebbe la spalla in alto a destra e il mento in alto a sinistra. Tra la madre e questa ipotetica figura inglobante è in atto lo stesso gioco ambiguo di linee. Tutta l’opera appare dunque come una gerarchia di figure incastonate, in un movimento generalizzante che lo spettatore è chiamato a proseguire e in cui si riconosce facilmente il concetto di maternità (vedi le matrioske) o di filiazione.
4. Iconoplastica del colore
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Veniamo alla questione della retoricità del procedimento. Perché vi sia retorica, è necessario che si manifesti uno scarto percepibile e riducibile. Ora, una casa gialla è sempre una casa, come un tetto coperto di muschio è sempre un tetto, e se scarto ci deve essere, lo ritroveremo nell’improbabilità di vedere così tante case gialle e tetti verdi tutti nella stessa zona… Anche la riduzione dello scarto è incerta, perché non esiste un colore “normale” per una casa né si hanno combinazioni “normali” di colori per le facciate di città. Se siamo in cerca di una retorica inattaccabile, la ritroveremo in quelle opere ardite che rinunciano agli esercizi sulle varianti libere e non temono l’alterazione dell’iconicità. Nella serie di tavole pubblicate dal Collegio della Patafisica Dubuffet ha permutato i quattro colori della tetracromia: Mucca in un prato verde assume così successivamente ogni sorta di colore, pochi soltanto dei quali sono accettabili secondo il type della mucca. Qui lo scarto è fuor di dubbio, come lo è la sua riduzione. Il progetto plastico è altrettanto chiaro.
5. Conclusioni La relazione iconoplastica è probabilmente una delle più importanti strategie tra quelle sfruttate dall’arte figurativa. L’abbiamo vista all’opera nelle tre componenti del segno plastico: testura, colore e forma, con una sceneggiatura che rimane immutata. Abbiamo anche visto che questa relazione, nel suo introdurre aggiunte di ordine e di disordine, ha di fatto una natura retorica. Si è del resto dimostrato quale fosse l’ethos nucleare delle figure così prodotte e in diversi esempi sono stati messi in evidenza l’ethos autonomo e l’ethos sinnomo che una figura produce in un determinato enunciato. Occorre anche segnalare un risultato teorico trasversale molto importante: l’esistenza della relazione iconoplastica fornisce una prova dell’autonomia del plastico in rapporto all’iconico. In realtà, plastico e iconico si sostengono l’un l’altro: il plastico, essendo a livello fenomenologico il significante del segno iconico, ne consente l’identificazione. A sua volta l’iconico, una volta identificato, permette di attribuire un contenuto agli elementi plastici estranei ai type iconici. Quest’ultimo processo dimostra ancora una volta che il segno plastico è davvero un segno, e più precisamente l’unione di un’espressione e di un contenuto.
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6. La stilizzazione
1. Teoria della stilizzazione 1.1. I tre parametri della stilizzazione Nel cap. 2 abbiamo descritto la formazione del segno iconico utilizzando la nozione di type, di cui abbiamo subito mostrato l’aspetto generalizzante, dal momento che i type si stabilizzano a diversi livelli d’astrazione. Si è visto, d’altra parte, che il significante di questo segno, pur possedendo tratti sufficientemente conformi al type per permetterne il riconoscimento, possiede allo stesso tempo tratti che impediscono di confondere significante e referente. Questi tratti provengono dal produttore dell’immagine, il cui intervento non è mai innocente: prende avvio, a livello periferico, dagli estrattori di motivi e continua nel cervello con gli algoritmi che l’intelligenza artificiale cerca di imitare, ovvero con la levigatura e la schematizzazione. Viene infine elaborata l’icona, in condizioni materiali precise (supporto, strumenti, pigmenti…) che lasciano anch’esse traccia nel prodotto finale, che è il significante. Nell’affrontare qui di seguito le nozioni di stilizzazione, di limatura e schematizzazione, dovremo tenere conto di tre aspetti basilari: (a) il processo è generalizzante; (b) l’icona reca traccia del suo produttore e (c) delle condizioni della sua produzione. Questi tre fattori rendono possibile la stilizzazione. Se l’obiettivo degli artisti fosse solo quello di ottenere il riconoscimento delle icone, il grado zero degli enunciati iconici corrisponderebbe pressappoco alla legge di Estoup-Zipf: la pigrizia e l’economia dell’enunciatore tenderebbero a ridurre il numero di determinanti e il fruitore esigerebbe, dal canto suo, un numero-soglia di tratti, se non addirittura una riserva di sicurezza (senza bisogno di annegare, tuttavia, in un eccesso di determinanti ridondanti). Presumibilmente, in ogni situazione comunicativa regnerebbe l’equilibrio. 203
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La stilizzazione
1.2. La stilizzazione come retorica 1.2.1. Le operazioni Gli enunciati retorici non perseguono tuttavia il semplice scopo del riconoscimento delle icone e il loro produttore può, invece, sopprimervi sistematicamente dei tratti a favore di altri, che può eventualmente arricchire: così, se la soppressione generalizzante di tratti dà adito alla sineddoche, la loro accentuazione ha un effetto iperbolico. Rafforzando la relazione segnale/rumore, le due operazioni concorrono a rendere l’immagine più comprensibile e strutturano quel particolare tipo di trasformazione che va sotto il nome di stilizzazione. Ogni atto di stilizzazione è infatti un’operazione retorica sull’immagine, che spesso comporta una geometrizzazione dei dati attraverso espedienti quali: - ricondurre le linee a un numero ristretto di type, come la retta, l’arco di circonferenza, una qualsiasi curva; - ricondurre gli angoli a valori discreti e distinti, con una certa preferenza per l’angolo retto; - rendere il disegno il più continuo possibile; - aumentare le simmetrie. Descriveremo con cura l’operazione di soppressione, parte costitutiva della stilizzazione, ritornando sul tema, discusso nel cap. 1, dei tratti fondamentali della percezione visiva. La percezione tende a stabilire delle soglie di variazione, al di qua delle quali propendiamo a uguagliare e oltre le quali facciamo subentrare alla transizione una rottura. Le soglie di cui abbiamo tenuto conto per elaborare la nostra semiotica visiva svolgono essenzialmente una funzione pratica e di grande utilità, ma è anche possibile metterle in gioco nella retorica, elevarle o abbassarle in modo non utilitario. Potremmo allora definire la stilizzazione come un innalzamento retorico delle soglie di uguagliamento. Non è quindi soltanto un processo di soppressione:1 è una soppressione-aggiunta. Nello specifico, il fattore dell’aggiunta è un modello di universo interamente prodotto dall’enunciatore. Un primo esempio, banale, ci aiuterà a capire fino in fondo il problema della stilizzazione. Di solito, per descrivere un albero, ricorriamo a espressioni come “a palla” o “a cono”. Ora, la linea che definisce una 1 Se è giusto ritenere, come fa Le Guern (1981, p. 218), che l’incisione permette più astrazione della pittura – «L’epurazione delle linee di un disegno ne aumenta il valore di generalità» –, è però affrettato vedere in ogni processo di stilizzazione una tendenza univoca alla semplificazione della lettura.
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palla o un cono è proprio l’unica che gli alberi definiti in questo modo non hanno. Anzi, si può dire che ne siamo ben lontani, essendo questa linea, che spesso troviamo nelle icone d’albero, praticamente perpendicolare a tutte le altre appartenenti all’albero reale. È un caso in cui, con chiarezza, la stilizzazione non è nella cosa. Si può anche ritenere, tuttavia, che questo involucro curvilineo sia virtuale nell’albero percepito e che traduca una modalità precisa della legge allometrica di crescita. Stilizzare consisterebbe dunque nel rendere attuale ciò che è virtuale? O esplicito ciò che è implicito? A ben guardare, la stessa nozione relativa al contorno di un albero è tanto sfumata quanto quella del contorno di un litorale e porta inevitabilmente al concetto, fissato da Mandelbrot (1975), di oggetto frattale. Il contorno normalizzato di un albero a palla è il luogo delle estremità di tutti i rami possibili. Ciò che qui appare come un eccesso di limatura può altrove manifestarsi come un eccesso di schematizzazione, suggerendo, di conseguenza, che esistono due possibilità di normalizzazione delle forme: dall’esterno e dall’interno. In questo caso è l’eccesso a essere retorico: individuandolo e rivalutandolo, provoca effetti di senso. L’abitudine di credere che la stilizzazione riguardi unicamente le forme non deve impedirci di pensare che possa essere stilizzazione il procedimento di filtraggio dei colori – in Matisse, Mondrian e Van der Leck, per esempio, che utilizzano soltanto colori puri e primari – o di resa uniforme delle testure. In altri termini, la stilizzazione verte globalmente sulle tre proprietà della forma, del colore e della testura, che sono sottoposte a operazioni di soppressione-aggiunta. 1.2.2. Ethos della stilizzazione: la semplificazione della lettura? Tutte le stilizzazioni hanno un comune denominatore: riducono i gradi di libertà dell’enunciato, lo rendono descrivibile con un numero minimo di equazioni e di costanti, accentuano l’interdipendenza dei suoi diversi elementi e gli conferiscono, per ciò stesso, una maggiore uniformità. L’oggetto stilizzato è facilmente percepibile e dà anche l’impressione di essere facilmente intelligibile, perché sembra risultare da un principio formatore chiaro. Il passaggio dal disegno di una foglia di acanto a quello di una foglia di vite, compiuto grazie a una serie continua di intermediari formali,2 2
Vanno anche bene un disegno ottenuto al computer, che fornisce parecchi tracciati intermedi tra un viso e un quadrato (citato in Moles 1971, p. 127) o la
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è tutto sommato impercettibile. A partire da quale punto stabiliremo però di essere passati dall’una all’altra? La stilizzazione risolve questo problema e aumenta la leggibilità (o diminuisce il rischio di errore). Semiotizzando, essa discretezza e costituisce la prima tappa di un processo costante in tutte le culture, quello della formazione di repertori codificati (e infine di alfabeti), quello di una semiotizzazione sempre più accentuata. Attribuirle un unico ethos appare tuttavia esageratamente riduttivo, anche perché il processo, portato avanti oltre certi limiti, finisce per distruggere la leggibilità. L’analisi empirica ci orienta verso un secondo ethos che potrebbe consistere nell’“estrazione di tratti poco rilevanti”. 1.2.3. Stilizzazione e stili È banale sottolineare che uno stesso oggetto può essere stilizzato in modi diversi. Un fiore o una foglia si prestano a stilizzazioni romantiche, fantastiche, tecnologiche, infantili, meccaniche, psichedeliche ecc. A ogni tipo di stilizzazione è sotteso un modello dell’universo,3 contraddistinto da caratteri specifici, e ogni oggetto può essere sottoposto a un procedimento adeguato di selezione/rifiuto. D’altra parte, le coppie costanti di soppressione e di aggiunta in cui consiste uno stile contribuiscono a renderlo riconoscibile tra gli altri. Quello sumero non potrebbe essere confuso con l’ashanti, né il kwakiutl con l’egiziano. E lo stesso accade per gli stili individuali.4
2. Analisi di alcuni casi Rilevati, in modo forse un po’ astratto e teorico, i tratti fondamentali serie di J.-J. Grandville dove si passa, in sette fasi, da un efebo greco a una rana. 3 La stilizzazione praticata nelle accademie non è l’unico caso di emergenza di una lettura degli oggetti secondo un modello di universo. Ogni artista si differenzia anche in base agli scarti sistematici che compie e la tendenza alla geometrizzazione, per esempio, è molto consueta. Per un Rodolfo Bresdin che “accresce” il brulichio delle forme, quanti sono i Cézanne che lo semplificano? L’opera di Van der Leck (vedi § 2.5.) offre la possibilità di percorrere con grande chiarezza le fasi grafiche di questo processo. 4 In particolare per quello di Cézanne, che esortava i pittori a trattare la natura attraverso il cono, il cubo e la sfera, o per quello di Monet che affermava: «Ho trascorso tutta la vita a lavorare a maglia prismi». Per una riformulazione semiotica del concetto di stile (tramite i concetti di enunciazione, di pragmatica e di variante libera), si veda Klinkenberg 1985a.
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della stilizzazione, è ora il momento di esaminarli con alcuni esempi. Per mostrare, come d’abitudine, la forza di estensione del nostro metodo e il suo carattere operativo, la scelta cade su un corpus alquanto eterogeneo: la montagna sacra, l’arte degli indiani della Colombia britannica, il gioco del tangram, i tappeti anatolici ecc. Ognuno di questi casi non sarà considerato in sé, ma in quanto rappresentativo di un aspetto del fenomeno generale della stilizzazione.5 2.1. La pluralità delle stilizzazioni: la piramide È stato dimostrato che le piramidi d’Egitto erano montagne stilizzate (Samivel 1976) e si è affermato lo stesso per la ziggurat, lo stupa, la mastaba, il Borobudur e tanti altri templi (Hautecœur 1954). Emerge con chiarezza che è possibile stilizzare una montagna in modi che si escludono reciprocamente. A loro volta, il triangolo e la piramide possono essere fiamme stilizzate… Come ha dichiarato Lévi-Strauss (1979, p. 40): «[La significazione] risulta allo stesso tempo dal senso che il termine che avremo scelto racchiude, e dai sensi, che la nostra scelta ha escluso, di tutti gli altri termini che gli si potrebbero sostituire». La scelta è quindi rivelatrice dell’intenzione dell’artista, che riproduce una “lettura” della montagna e non una sua “veduta”. Le piramidi d’Egitto hanno conservato i versanti obliqui, la cima a punta, le proporzioni massicce, gli ampi fianchi rocciosi. Altre, eliminando i versanti, i fianchi e la cima, manterranno la forma a cupola o a campana e opteranno per una base circolare e non quadrata. Dobbiamo credere che tratti così mutuamente esclusivi siano tutti “accidenti organizzatori fondamentali” (AOF) così come li intende René Thom (1973)? D’altra parte, se chiamiamo AOF i tratti comuni a tutte le rappresentazioni stilizzate di una montagna, ne restano fuori solamente due (che, detto di passaggio, nella rappresentazione dell’albero “a palla” non vengono materializzati): - l’asse verticale; - la sezione che va dalla base alla cima. 2.2 La stereotipia: l’arte della costa occidentale Lungi dall’essere solamente un’operazione di soppressione, la stilizzazione sostituisce e aggiunge. L’arte grafica e statuaria della Colombia britannica lo illustra alla perfezione.6 5 Il nostro studio permette, d’altra parte, di testare l’universalità dei concetti sviluppati, perché si estende alle culture più diverse. 6 Questa presentazione dell’arte della costa occidentale d’America è piuttosto
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Inizialmente, in questo territorio, si sono imposte in particolare unità di figurazione come l’ovoide e la U tagliata. La loro origine figurativa è innegabile, dato che la parola Haida per /ovoide/ in questa cultura serve anche a designare le grandi macchie scure sulle ali della passera di mare, e la stessa tribù chiama piuma ondeggiante (flicker-feather) la forma a U sbarrata che corrisponde in effetti alla parte estrema della piuma del picchio dorato o picchio rosa (red-shafted flicker).7 Le due forme, molto astratte, possono rientrare in numerose occorrenze, senza per questo richiamare obbligatoriamente il pesce o l’uccello. Beninteso, questo non significa che gli abitanti del mondo degli abissi e degli spazi aerei siano, all’opposto, del tutto dimenticati nelle composizioni finali.8 Si può anche pensare che l’applicazione sistematica di due forme in innumerevoli rappresentazioni iconiche sia vicino alla classe della metafora plastica generalizzata. La geometrizzazione, che sembra essere obbligatoriamente costitutiva di ogni stilizzazione, è certo presente anche qui, ma sottende un’icona più che una mera razionalizzazione. Il suo impiego rende uniforme il campo visivo e dà una grande coerenza al mondo percepito, comunicandone, ovviamente, la dimensione ideologica. Successivamente, gli Indiani della costa occidentale hanno elaborato alcune regole semplici, benché non triviali, per la rappresentazione degli esseri viventi. La prima è una sorta di prospettiva conosciuta sotto il nome di “rappresentazione sdoppiata”. La seconda è un principio di riempimento che vuole che l’interno di una figura non comporti parti vuote, ma sia al contrario colma di elementi figurativi diversi. Questo porta a un’informazione equipartita: piuttosto che lasciare vuoto lo spazio accanto all’animale, vi si collocherà un volto. Il principio di riempimento può conoscere aumenti di grado quando il disegno si deforma fino a riempire l’intera superficie del supporto (un cofanetto, un cappello, una piastrina di rame, un abito). Sembrerebbero regole anche il libero arbitrio nella scelta delle proporzioni e l’insistenza sulle giunture del corpo (in fase finale alcune creazioni sono molto simili al nostro fantoccio).
Date queste regole, il loro sfruttamento consiste nel rappresentare esseri reali o immaginari a partire da un repertorio limitato costituito da ovoidi e da U sbarrate. Vi si aggiungono severe restrizioni cromatiche, come anche diverse rappresentazioni stereotipate o motivi quali la “testa di trota salmonata” (essa stessa fatta di ovoidi). Lungi dal rendere l’insieme confuso e poco riconoscibile, queste tecniche ne migliorano al contrario la leggibilità: con un po’ di allenamento identifichiamo senza fatica esseri mitici, anche ibridi, come il Serpent Dancer, mezzo lupo, mezzo uomo e allo stesso tempo serpente…9 2.3. Il ruolo delle costrizioni geometriche: il tangram Un venerabile gioco solleva nuovamente il problema della stilizzazione e della doppia articolazione: è quello del tangram. Le regole sono ben note: si tratta di ottenere, a partire da sette pezzi tutti diversi, la silhouette di un essere qualsiasi, reale o immaginario. I pezzi hanno forme semplici: cinque triangoli, un rombo, un quadrato, che possono essere assemblati, a loro volta, in un quadrato, in un rettangolo o in un triangolo. I pezzi principali formano in questo senso un repertorio di base limitato e la regola di assemblaggio consiste nell’obbligo di incastrare tutti i pezzi sullo stesso piano, senza ripetizioni, mancanze o sovrapposizioni. È sorprendente vedere come, analogamente al gioco surrealista de L’un dans l’autre, sia possibile rappresentare in modo più o meno credibile quasi qualunque cosa. Nel tangram, però, considerando il risultato come “stilizzato”, non possiamo più dire che la stilizzazione sia guidata dal sistema percettivo e psichico di un artista: è piuttosto la regola del gioco a imporre arbitrariamente dall’esterno le direttive, che al limite manifestano il sistema percettivo di una cultura qui formulato in termini astratti e geometrici, mentre per gli Indiani della costa occidentale questo avveniva in termini iconici e mitici.
scarna. Trae la sua documentazione da Stewart (1979) e da Lévi-Strauss (1979). 7 Lat. Colaptes cafer (picidae). 8 Se ogni composizione grafica si rivelasse, in ultima istanza, un puzzle equilibrato di parti retoriche dei due mondi – la piuma per l’uccello, la macchia per il pesce: sineddoche; l’uccello per lo spazio aereo, il pesce per lo spazio acquatico: metonimia –, apparirebbero nuove tipologie dal funzionamento mitico. La congettura, interessante, va però sottoposta a verifica.
Sempre riservandoci il tempo per una verifica meticolosa e con il rischio che l’accostamento sia un po’ forzato, ci sembra di poter dire che l’evoluzione del materiale grafico segue le stesse vie del linguaggio, cioè tendenzialmente: equipartizione dell’informazione; rafforzamento della ridondanza; codifica delle unità di primo livello e formazione di repertori chiusi; regole di assemblaggio per il secondo livello.
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b a
c
d e
f
g
Figura 19. Motivi di tappeti orientali: a) cavallo; b) uccello; c) “boteh” (pigna); d) pettine; e) stella; f) insetto; g) cimitero.
11. Van der Leck, Composizione 1917, n. 4, 1917
2.4. Il ruolo delle costrizioni tecniche: il tappeto Un altro esempio di costrizioni esterne è offerto dalle stilizzazioni tipiche dei tappeti anatolici, o kilim. È noto che i tappeti intrecciati si dividono in due famiglie, a seconda che siano realizzati con il nodo senneh o persiano, o con il nodo ghiordes o turco. Quest’ultimo – probabilmente il vero e proprio nodo gordiano – è un nodo doppio che avvolge il filo di lana attorno a due fili di catena e che pertanto non si presta alla realizzazione di linee curve: con esso si tracciano solo linee rette o linee a digradare, altrimenti tra i fili della catena si creerebbero dei buchi. La ristrettezza dei vincoli rende difficile la rappresentazione di soggetti animali o floreali e spiega in parte l’abbondanza dei temi geometrici. Nondimeno, sui kilim si trovano numerosi motivi come i bordi a viticcio, i fiori, le foglie, l’albero di vite, le rosette, le palmette, i recinti, le farfalle, gli scorpioni, i ragni, gli insetti ecc. Questi hanno subito una stilizzazione così spinta che, pur testimoniando dell’immaginazione e del gusto degli autori (generalmente si tratta di ragazze), ne rende a volte incerta l’identificazione. È il caso, per esempio, della bordura detta del “cane che corre”, che potrebbe derivare dalla rappresentazione… della cresta delle onde. La fig. 19 mostra alcuni di questi pregevoli motivi. Nel sistema di coordinate di un tappeto anatolico gli assi sono ortogonali e lo spazio discontinuo: è consentita solo l’occupazione dei punti equidistanti della rete, cosa che forma un’immagine composta da punti colorati che sono in realtà pixel.
2.5. Una scala di stilizzazione? L’esempio di Van der Leck Tutti conoscono le ultime tele di Seurat (Le Chahut, Il circo). Abbiamo visto in che modo esse illustrino le riflessioni (o le elucubrazioni) di Charles Henry il quale, avendo concepito una trasposizione pittorica dell’armonia musicale, si è visto costretto a discretizzare le dimensioni del segno visivo, almeno per quanto riguarda la forma e il colore. In particolare, la trasposizione della nozione di ritmo, che implica la ripetizione e la riproduzione di intervalli, lo ha portato a concepire ritmi plastici e “linee dinamogene”, ottenute utilizzando unicamente linee oblique con angoli multipli di 15°. Non si tratta d’altro che di un modello di lettura armonica del mondo naturale – onirico e mitico nel suo genere, come lo sono l’ovoide e la U sbarrata degli Indiani della costa occidentale –, una semiotizzazione semplificatrice servita come base per una stilizzazione pitturale. È tuttavia al pittore olandese Bart Van der Leck che chiediamo una
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Le costrizioni tecniche non bastano tuttavia a spiegare perché le forme siano talmente semplificate. Due fattori possono entrare in gioco: la necessità di memorizzare un modello, almeno per i tappeti tradizionali fatti a mano, e il desiderio di arrivare a una leggibilità che escluda l’esitazione o l’errore. Di nuovo, secondo questa ipotesi, l’immagine iconica evolverebbe verso la rappresentazione codificata, con lo stadio ultimo di un vero e proprio alfabeto.
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dimostrazione dell’idea secondo cui la stilizzazione è parente prossima del processo della sineddoche generalizzante del modo Π (ill. 11). In una stilizzazione le forme diventano percettivamente sempre più semplici: le curve complesse sono sostituite da curve regolari o da rette; gli angoli sono portati a 30°, 45°, 60° o 90°; i colori diventano uniformi; le sfumature diminuiscono numericamente e sono infine ricondotte al nero, al bianco e a pochi altri colori detti “primari”. È proprio questo il processo che Van der Leck fa subire alle sue tele, peraltro già abbastanza minimali: personaggi sempre visti di fronte o di profilo, volti inespressivi e uniformi (benché rappresentativi dell’olandese medio), prospettiva egiziana. Nel 1916 e nel 1918 il pittore ha ripreso molte delle sue tele per sottoporle a un’ultima trasformazione generalizzante, verso quelle che definiva “immagini matematiche”. Si tratta, in realtà, di blocchi, molto spesso rettangolari, di colore nero, rosso, blu o giallo disposti separatamente su uno sfondo bianco. Riprendono le masse cromatiche delle sue tele precedenti. Alcuni disegni e tempere permettono di valutare tutto il percorso. Tenendo presente l’origine “figurativa”, cosa che provoca l’aumento del livello di ridondanza, è possibile identificare silhouette di oggetti o di persone in composizioni apparentemente del tutto astratte. Quel che colpisce è la cura straordinaria con cui i blocchi sono stati scelti: preservano in modo sorprendente l’equilibrio delle masse e delle tinte e la loro disposizione, che raramente comprende linee oblique, fa uso di proprietà assai stabili nel sistema visivo: poiché le linee manifestate tendono a essere prolungate dall’occhio, ogni allineamento è percepito come significativo. La stessa cosa accade per le simmetrie. Giocando a completare le figure su questa base, possiamo ricostituire senza troppa fatica la silhouette degli oggetti di partenza, il che prova che il pittore si è divertito a distruggere in buona parte la ridondanza dei type lasciando sussistere solo ciò che basta a consentire la lettura. In alcuni casi, forse i più riusciti, questa ricostruzione è al limite del possibile – per esempio in Composizione no 4, del 1917, revisione di una tela precedente dal titolo Uscita dalla fabbrica (1910).
7. Semiotica e retorica della cornice
1. Semiotica della cornice La questione della cornice preoccupa da molto tempo i ricercatori in semiotica visiva.1 È nota la definizione che Meyer Shapiro (1982, p. 19) ha dato di questo oggetto empirico: si tratterebbe della «chiusura regolare che isola il campo della rappresentazione dalla superficie circostante». La definizione è sopravvalutata se teniamo conto della sua ristrettezza: sembra infatti postulare che la nozione di cornice sia applicabile solo ai messaggi iconici (alle “rappresentazioni”), in un universo a due dimensioni (come “superficie circostante”) e che si limiti solo ad alcune forme fra altre possibili (quelle “regolari”). 1.1. Contorno e bordo Ma c’è di più: la nozione di cornice, per come la si trova in Shapiro e in altri, definisce unicamente l’oggetto empirico. Ora, essa riguarda invece diversi fenomeni semiotici, che d’ora in poi distingueremo sotto le due denominazioni di contorno e di bordo. Il contorno è il tracciato immateriale che divide lo spazio in due regioni, dando vita allo sfondo e alla figura (termine da intendere non in senso retorico). Si differenzia dal semplice limite per il fatto che se quest’ultimo definisce topologicamente, ossia in maniera neutra, un interno e un esterno,2 il contorno appartiene invece, percettivamente, alla 1
Segnaliamo il saggio di Louis Marin presentato al Convegno Internazionale di Estetica a Bucarest, nel 1972 (Marin 1976). Ma vedi anche Marin 1988 e una raccolta curata dall’Università di Digione, Aa.Vv. 1987, cui occorre aggiungere, in virtù del buon corpus fornito dal catalogo, l’importante Esposizione di Torino del 1981 (Aa.Vv. 1981a). Per la fase riguardante la “preistoria” della semiotica, apprezzabili sono anche le raffinate osservazioni di H. Wölfflin (1915) e l’articolo di M. Shapiro che nel 1969 ha fatto tremare i critici d’arte parigini. 2 È un’invariante in tutte le possibili rappresentazioni dello spazio, non solo euclideo (cfr. Saint-Martin 1980).
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figura che individua. È quindi un percetto che interviene nella delimitazione delle unità e degli insiemi iconici e/o plastici. Il contorno può essere più o meno marcato, a seconda che l’opposizione tra figura e sfondo si manifesti su una o su più dimensioni (cromatica, testurale ecc.). Il bordo è l’artificio che, in uno spazio dato, designa un enunciato di ordine iconico o plastico come unità organica. A darne manifestazione materiale possono essere una bacchetta, un insieme di listelli, un disegno quadrangolare tracciato a matita sul muro ecc. Ciò nonostante, il bordo non deve la sua definizione al suo aspetto materiale, ma piuttosto alla sua funzione semiotica. È un segno, della famiglia degli indici, il cui significato può essere commentato così: (a) Tutto ciò che è compreso nei limiti del bordo riceve necessariamente uno status semiotico. (b) Questo insieme di segni costituisce un enunciato omogeneo, differenziato da quelli che potrebbero essere percepiti nello spazio esterno a questo limite. (c) È su questo insieme che deve focalizzarsi l’attenzione dello spettatore.3 La funzione di indicazione potrebbe essere racchiusa in una delle tante direzioni del quadro e arricchita di svariati contenuti grazie a procedure particolari, come il bordo rimato, che studieremo più avanti.4 Il significante di tale indice può variare. Può essere materializzato da una “cornice”, nel senso artigianale del termine, ma anche da un basamento, da una vetrina, da una inferriata, e via dicendo. Tutti questi artifici organizzano lo spazio in modo che vi si possano identificare e delimitare gli enunciati. A essere definito non è solo lo spazio interno, ma anche quello esterno: è dal bordo che esso riceve il suo status di esteriorità. 3 Ritroviamo qui la nozione di enunciato, di cui sappiamo quanto sia difficile, nell’ambito della semiotica visiva, fissare la definizione. Sottolineiamo che in assenza di una piena ridondanza dei segni di demarcazione, si ha il diritto di esitare sul senso da conferire a un enunciato. Molte opere, come vedremo, sfruttano a loro vantaggio questa esitazione. Al principio (a) vanno aggiunti due importanti corollari: 1. Anche il “vuoto” può, per effetto del bordo, assumere uno status semiotico (cfr. ancora una volta Cheng 1979); 2. Il bordo può svolgere il ruolo di “induttore d’icona”. Toglie a un oggetto del mondo – una scarpa, un portabottiglie, un corpo umano… – la sua qualifica e lo fa diventare segno. 4 Non è forse un caso se il titolo delle opere appare spesso sul bordo. Il referente di un’etichetta può essere identificato solo se regole pragmatiche specifiche consentono l’embrayage. E uno degli embrayeur è proprio il bordo.
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1.2. La relazione tra contorno e bordo La relazione tra contorno e bordo è complessa. A una rapida occhiata si potrebbe dire che può esserci contorno senza bordo, ma che non è vero il contrario, perché il bordo crea sempre automaticamente un contorno; si potrebbe anche affermare che i due concetti non abbiano nulla a che vedere l’uno con l’altro, dato che il contorno delimita segni isolati, mentre il bordo delimita enunciati. Vediamo che cosa accade esattamente. Cominciando dall’unità visiva plastica (ma la stessa cosa vale evidentemente anche per l’unità iconica), il suo status di figura deriva dal fatto che essa si distingue dallo sfondo grazie a un contorno. Ma la figura e il suo sfondo più imminente possono costituire a loro volta una nuova figura rispetto a un altro sfondo: è sufficiente che i primi due oggetti siano separati da questo nuovo sfondo con un nuovo contorno che li integri entrambi. Nel processo in questione definire l’enunciato e distinguerlo da ciò che chiamiamo unità non è certo facile. Per farlo occorre identificare parecchie unità ed è necessario, inoltre, che si manifestino alcuni segni demarcativi. Nella maggior parte dei casi otterremo la demarcazione produttrice dell’enunciato grazie alla ridondanza dei contorni in uno stesso punto dello spazio. Prendiamo il caso di un dipinto appeso a un muro di gesso bianco: il quadro si distingue dal muro per i colori, la forma, la testura, la posizione prospiciente nello spazio. Basterebbe una sola di queste differenziazioni a creare un contorno, ma esse, in gioco nello stesso punto, si rafforzano a vicenda. Perciò siamo legittimati a considerare il quadro un enunciato omogeneo, anche se non è monocromo, anche se comporta un intrico di figure, o per meglio dire un incassamento di contorni. La nozione di contorno concerne dunque tanto gli enunciati quanto le unità isolate o i gruppi di unità all’interno di un enunciato.5 A qualsiasi livello di integrazione lo si consideri, esso non ha mai bisogno di essere materializzato in un bordo. Quest’altro segno indessicale ha la funzione di confermare l’esistenza del contorno dell’enunciato, o in mancanza di esso, di stabilizzare la proliferazione costante di contorni inglobanti. Il bordo ha però anche valore di segno plastico, valore che non può venire riassorbito nel messaggio indicato. 1.3. Spazi indicati, artifici indicanti La nostra definizione di bordo non sarebbe completa se non la preci5
Distingueremo così, nelle pagine che seguono, il contorno dell’unità e il contorno dell’enunciato, o contorno ultimo.
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sassimo con tre osservazioni. Le prime due riguardano lo spazio indicato (o piuttosto gli spazi indicati: l’esterno e l’interno), l’ultima riguarda invece l’artificio indicante. 1.3.1. Il lettore a cui fosse richiesto di fornire un esempio di bordo addurrebbe probabilmente per primo quello della “cornice” classica: modanatura che delimita un piano rettangolare. Questo modello potrebbe portare a credere che il bordo delimiti uno spazio rigorosamente definito. Ma il bordo come segno non “delimita” nulla in modo rigoroso: piuttosto indica, che non è la stessa cosa. Quattro tratti, rapidamente tracciati con il gesso sul muro, e più o meno paralleli a due a due, indicano bene uno spazio, ma non lo delimitano con precisione estrema. Anche lo zoccolo indica uno spazio, delimitandolo però solo con i contorni dell’oggetto sotto cui è posto. L’indicazione può inoltre essere considerata un vettore, la cui intensità è, di conseguenza, variabile. Il concetto di indicazione rende dunque conto di fenomeni che complicano notevolmente il modello della cornice classica, come l’ugnatura, la filettatura e il passe-partout: un bordo concentrico indica lo spazio situato nella sua sfera d’azione, ma le indicazioni in esso date si rafforzano a favore dello spazio centrale. In termini psicologici, diremo che si assiste alla focalizzazione di questo spazio.6 1.3.2. Occorre infine interrogarsi sullo spazio occupato dal bordo stesso. Fa parte dello spazio indicato o ne è escluso? Concepire la cornice come una delimitazione porterebbe evidentemente a optare per la seconda ipotesi, ma avendo invece immaginato la funzione dell’indice come un vettore, ed essendo lo spazio centrale quello prioritariamente indicato, possiamo affermare che il bordo indichi il suo proprio spazio. D’altronde è quello che accade con i bordi concentrici, di cui abbiamo appena parlato. Il bordo è quindi allo stesso tempo incluso ed escluso dallo spazio indicato, al punto che possiamo considerarlo contemporaneamente un limite e un luogo di passaggio. È, per meglio dire, uno strumento di mediazione tra lo spazio interno, occupato dall’enunciato, e lo spazio esterno.
Nel privilegiare lo spazio interno, le teorie sulla cornice hanno però in gran parte trascurato una relazione rilevante: capita spesso che gli appassionati d’arte si prendano gioco delle signore che acquistano quadri “perché si abbinano bene alle tende di casa”. Anche loro, tuttavia, accordano una certa importanza alla disposizione e alla compatibilità plastica delle opere nelle gallerie. 1.3.3. Se il bordo è un indice a intensità variabile, deve esistere forse un “dizionario” in cui a ogni bordo corrisponde una forza indicante specifica. Ed è bene così. Non tutti gli oggetti hanno un valore di bordo fortemente stabilizzato nel sociale. Se nel XVIII secolo nessuno metteva in dubbio lo status di una cornice dorata, oggi, al contrario, l’apertura di una scatola non ha la funzione di bordo (sappiamo a che cosa servono normalmente le scatole) e non è suscettibile di acquisirla se non in particolari circostanze pragmatiche. Come ogni sistema semiotico, quello del bordo varia dunque in dipendenza dei tempi e della società. Siamo sicuri, per esempio, che le pitture rupestri preistoriche non avessero bordo? All’epoca funzionavano forse indici ai quali oggi siamo meno sensibili: la luce di una lampada, per esempio, era perfetta per creare un bordo che indicasse uno spazio dai limiti naturalmente sfumati. Secondo il momento storico e le circostanze pragmatiche un oggetto dato può quindi avere una potenza indessicale più o meno grande. Non varia, per contro, l’esistenza stessa di questa funzione.
2. Piano di una retorica della cornice
Una domanda plausibile potrebbe essere: perché il bordo focalizzerebbe l’attenzione sullo spazio interno e non su quello esterno? Se esso delimita due spazi, non c’è infatti alcuna ragione di privilegiarne uno a priori. Qui bisogna però richiamare alla memoria il ruolo della fovea, che permette di opporre uno spazio scrutato a uno indifferenziato. Il bordo è un analogon della fovea.
La retorica della cornice presuppone, come ogni retorica, la stabilizzazione di una norma. Avendo scisso la nozione di cornice in quelle di contorno e di bordo, dovremo ora distinguere una retorica del contorno e una retorica del bordo. Quest’ultima sarà oggetto di una sottoarticolazione. Se il bordo è un segno, la retorica che lo caratterizza riguarderà il suo significato e il suo significante. Vedremo allora figure che simulano la funzione principale del bordo – l’indicazione di uno spazio interno – e figure che ne simulano la morfologia. Nel secondo caso le figure si stabilizzano rispetto a una norma di massima, che varia nel corso della storia: è la norma fissata dagli usi in materia di cornice. Fino a questo punto abbiamo però considerato separatamente lo spa-
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Sostituzione plastica – deformazione e privazione di orientamento – privazione di testura Bordo iconico – semplice – ostensivo
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Aggiunta
Soppressioneaggiunta
Confine – indotto – induttore Confinamento Soppressione 219
Compartimentazione – semplice – con aperture
Distruzione Sconfinamento Espansione – semplice – multistabile
Iperbole
Occultamento del bordo Norma
7 Nell’ambito del limite le operazioni di aggiunta non vengono prese in considerazione. Rafforzando la ridondanza che costituisce il limite dell’enunciato, l’aggiunta di limite non fa infatti che confermarne ulteriormente l’esistenza, senza creare figure.
Concomitanza dello spazio bordato e dello spazio dell’enunciato
3.2.1. La prima è la soppressione totale del contorno, figura retorica in cui l’enunciato è come in espansione nello spazio.
Figure del contorno
3.2. In seno a questa ipotesi emergono due tipologie di figurazione, entrambe derivate dall’abbassamento del livello di ridondanza (quindi da un’operazione di soppressione).7
Tabella 15. Figure della retorica della cornice
3.1. Come abbiamo visto, il contorno è un percetto e in quanto tale può non essere visibile. Su queste basi non si dà retorica del contorno: come immaginarne un altro oltre a quello che si offre alla mia percezione? Obiezione sciocca, che in parte abbiamo già confutato nelle pagine precedenti, dal momento che in uno stesso spazio sensoriale possono coesistere segni visivi diversi e che tra segni iconici e segni plastici possono manifestarsi conflitti di contorno. Qui, però, non stiamo parlando del contorno dell’unità (plastica o iconica), ma di quello dell’enunciato, in merito al quale vige una norma stilistica di massima: quella che ci spinge a riconoscere un enunciato solo dove vediamo un insieme di segni separato dal mondo circostante per mezzo di un fascio ridondante di contorni, a prescindere dal fatto che la demarcazione sia sottolineata da un bordo o meno.
Figure del bordo A. Significato
3. Figure del contorno
Ridondanza delle demarcazioni
Figure del bordo B. Significante
Figure della relazione bordo-enunciato
zio bordato e l’oggetto bordo. Ora, va da sé che lo spazio bordato, come abbiamo visto, non è vuoto. Lo sarebbe, anche fenomenologicamente, se il vuoto si costituisse in oggetto semiotico, se fosse un enunciato, proprio per il fatto di essere designato da un indessicale. Ma nella maggior parte dei casi lo spazio bordato è il luogo di un enunciato (iconico o plastico) esplicitamente messo in forma. Si instaura così una relazione tra il bordo e l’enunciato bordato: l’enunciato, e non più solamente lo spazio. Questa relazione può dar luogo a una quarta famiglia di figure retoriche. Troviamo le quattro famiglie nella tab. 15 qui sotto, che poi commenteremo in dettaglio.
Bordo rimato – iconico – plastico Bordo incluso
Semiotica e retorica della cornice
Disgiunzione (eteromaterialità) e congiunzione (pertinenza)
Trattato del segno visivo
Trattato del segno visivo
Semiotica e retorica della cornice
È il tipo di figura che i nostri contemporanei riconoscono nelle pitture rupestri. Sprovvisti dei codici indessicali che permetterebbero loro di considerare adeguatamente l’enunciato, sono disturbati dall’evanescenza dello spazio che circonda le unità rappresentate. Ritenendole figure, provano verosimilmente lo stesso disagio del bambino che in spiaggia disegna una cornice attorno al quadro di conchiglie che ha appena terminato e si accorge di non poter delimitare la sua opera. 3.2.2. L’indebolimento della ridondanza del contorno induce lo spettatore a interrogarsi sulle demarcazioni dell’enunciato e quindi sulla sua effettiva estensione spaziale (figura che chiameremo espansione multistabile). Un esempio del genere ci è offerto dal Giardino di Stonypath di I.H. Finlay. L’immagine mostra una pietra, su un prato verde, sulla quale è inciso il monogramma di Albrecht Dürer. Proponiamo due letture. Nella prima l’enunciato è costituito unicamente dalla pietra e l’erba costituisce lo sfondo su cui essa si staglia. È un’interpretazione che nasce dall’abitudine irriflessa di opporre l’artefatto umano alla cornice naturale: l’erba diventa allora solo un frammento della natura inglobante. È l’opposizione antropologica natura vs cultura a demarcare essenzialmente lo spettacolo offerto. Nella seconda lettura l’enunciato è l’insieme costituito dalla stele e dall’erba che le sta attorno. La demarcazione è fornita non da una rottura antropologica, ma da un sapere intertestuale: chi ricorda l’acquarello dell’artista tedesco (e il titolo scelto da Finlay è La Grande Motte de Dürer) non avrà alcuna difficoltà nel collegare l’erba al resto dell’enunciato. Ma allora è lo stesso problema che si incontra nel caso dell’incisione parietale o del graffito urbano: esiste una demarcazione che isola dal mondo circostante l’enunciato pietra+erba? L’unica è fornita dall’enunciato di Dürer, che senza cambiamenti si sovrappone a quello di Finlay. Manca la ridondanza e l’insieme delimitato è impreciso: non ci sono ragioni sufficienti per arginare la produzione di contorni inglobanti. È quindi tutto il co-testo a essere contagiato dall’enunciato di Finlay.8 8
Potremmo addurre un altro esempio della stessa figura, tratto sempre da Finlay (cfr. Edeline 1977) e anch’esso riguardante la semiotizzazione della natura. Qui, però, viene messo in atto un procedimento diverso. Si tratta di una lastra trasparente che porta iscritte le parole rock e wave. Attraverso la lastra percepiamo un paesaggio fatto di colline e di stagni. La natura è convocata nell’enunciato, ma il fatto stesso di non offrire da sé demarcazioni autorizza lo spettatore a ritenere che
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4. Figure del bordo 4.1. Retorica del significato: A. Il dentro e il fuori 4.1.1. La norma Prendiamo ora in considerazione il significato del bordo. La sua funzione è quella di mettere a fuoco uno spazio, creando una distinzione tra interno ed esterno. La norma è evidentemente, come altrove (cfr. cap. 5), la concomitanza: spazio bordato e spazio occupato dall’enunciato9 devono essere sovrapposti. Un modo per violarla è sistemare il bordo così da farlo essere in conflitto con il contorno dell’enunciato. 4.1.2. Figure per soppressione: sconfinamento Si ottiene una soluzione immediata con un’operazione di soppressione: è lo sconfinamento. L’enunciato, iconico o plastico, “fuoriesce” in questo caso dal bordo: sconfina. In Ritmo plastico del 14 luglio (1913, tav. 7), per esempio, Gino Severini oltrepassa i limiti della tela: i tratti colorati sconfinano sulla cornice grigio neutro in una decina di punti. L’effetto di questa figura retorica è ben noto: lo spazio esterno al bordo, di cui l’enunciato si appropria, garantisce un dinamismo cinetico rilevante. Il procedimento è soprattutto adottato dai disegnatori di fumetti, che non si fanno scrupoli nell’infrangere i limiti della vignetta con un personaggio o un oggetto in movimento. È stato largamente impiegato da artisti molto diversi, come César Domela con i suoi Rilievi neoplastici, o Niele Toroni con Tela-muro (1976), un’opera fatta di impronte di pennello ripetute a intervalli di 30 cm sulla tela e sul muro che la circonda. Ottengono questa figura anche performance quali quella del gruppo giapponese Gutai (nel 1957; foto in Aa.Vv., 1981a, p. 95), in cui il “distruttore-creatore” appare ai nostri occhi passando attraverso i buchi praticati in una serie di grandi fogli di carta su cornice. 4.1.3. Figure per aggiunta: confine e confinamento Nella costruzione del confine i limiti che ci aspetteremmo di vedere nell’enunciato vengono ridotti dal bordo. l’enunciato non si limiti solo a ciò che viene percepito nella lastra, ma comprenda anche lo spazio circostante. 9 O, più precisamente, lo spazio compreso all’interno del contorno dell’enunciato.
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Magritte ne offre un buon esempio ne La rappresentazione (ill. 12), in cui è raffigurato un bacino di donna. Il bordo traccia due rette orizzontali che tagliano il corpo femminile in vita e all’altezza delle cosce – cosa che non ha nulla di anomalo – ma che aderisce anche fortemente alla linea sinuosa dei fianchi. Trascuriamo momentaneamente il fatto che il prodotto, così come si presenta, non è conforme alle nostre abitudini (tratteremo questo tipo di figura più avanti, § 4.2.) per osservare piuttosto che qui il bordo interviene in un contorno di unità che non ne aveva bisogno. Ma non è la prima volta che incontriamo limiti rafforzati da bordi, e dunque l’aspetto saliente della figura non consiste neanche in questo. Risiede invece nell’alterazione che caratterizza l’abituale rapporto tra sfondo e figura: come da cliché, ci saremmo aspettati di trovarci dinanzi alla rappresentazione di uno spazio in cui viene a inscriversi il bacino. L’aggiunta del bordo interrompe lo sviluppo dello spazio, o, detto altrimenti, nega il contorno dell’enunciato. Ritroviamo una figura simile ne L’annunciazione di Alberto Savinio (tav. 8). Il trapezio rettangolare della cornice sembra attenersi alla convenzione di quanto è rappresentato: è infatti possibile scorgervi un richiamo alla struttura del solaio in cui si svolge la scena. Ancora una volta, l’autonomia dello spazio di rappresentazione è negata a profitto dello spazio rappresentato. In altri casi la delimitazione fa di ogni singola parte uno spazio rappresentato. Negli esempi appena offerti spazio e delimitazione coincidono, tanto che è possibile distinguere la delimitazione indotta – la forma del bordo del quadro di Magritte è indotta da quella del bacino femminile – dalla delimitazione induttiva. Qui ricorderemo la Coppia con la testa sulle nuvole di Salvador Dalí (1936). Il dipinto rappresenta due paesaggi desertici, sotto cieli nuvolosi, e in primo piano due tavoli colmi di oggetti misteriosi. L’insieme non avrebbe nulla di così clamoroso se gli spazi rappresentati non fossero tagliati da un bordo che dà forma a due sagome umane. Esso induce così un significante iconico, che, come ne La rappresentazione, non è affatto inscritto nello sfondo rappresentato. L’aggiunta può così portare al confinamento, esatto contrario dello sconfinamento. Se quest’ultimo denuncia una carenza di spazio enunciativo, il confinamento ne segnala l’eccesso. Lo si nota quando lo spazio bordato non è occupato per intero dall’enunciato. È il caso delle pitture o dei frammenti di tela che restano vergini, non ricoperti dallo strato dello sfondo (riserve).10 10
Il livello massimo di riserve consentite varia con le culture: la pittura cinese,
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12. René Magritte, La rappresentazione, 1937, olio su tela, 46,5 × 41,5 cm
Sono a volte complesse strategie enunciative a rendere sensibile l’effetto di sconfinamento. Ci riferiamo a quegli enunciati in cui la mancanza di un elemento si avverte in modo palese, in virtù della legge sulla costante di manifestazione già incontrata nell’analisi dell’opera di Vasarely. Per fare un altro esempio, in Car disaster Andy Warhol ripete la stessa scena per sei volte su due colonne, ma lascia vuota l’ultima casella.
per esempio, ne fa un uso più ampio rispetto alle arti occidentali. Lo spazio della pittura cinese non è “semplicemente connesso” (data una topologia spaziale S: S, la definiamo “semplicemente connessa” se ogni strada chiusa di S, che comincia e finisce con x, può ridursi a x, cioè se possiamo deformare questo tragitto in modo continuo senza uscire da S. È il caso di un cerchio, di un rettangolo, di qualsiasi spazio euclideo, dello spazio delle nostre percezioni). Nella topologia cinese ci sono punti dell’immagine che non è possibile congiungere limitandosi ai percorsi offerti dall’immagine, cosa che raramente accade nelle arti occidentali. Non c’è dubbio che l’orizzonte di attesa creato da una cultura sia determinante, come in ogni retorica; pensiamo solo al fatto che i danni arrecati alle opere innescano a volte, per alcuni spettatori, questo tipo di figura: possiamo ritenere casi di confinamento i numerosi frammenti di affreschi della pittura romana o del Rinascimento a noi pervenuti.
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13. Max Klinger, Il giudizio di Paride, 1887, 320 × 720 cm
4.1.4. Figure di soppressione-aggiunta: compartimentazione La terza famiglia di figure è la compartimentazione. Per renderne conto esamineremo il Giudizio di Paride di Max Klinger (ill. 13). Il quadro a olio, che si estende molto in lunghezza (misura circa tre metri per sette), rappresenta un’unica scena, in un paesaggio omogeneo. La coerenza iconica dell’enunciato è confermata dalla presenza di un unico contorno, a sua volta sostenuto da un bordo di legno scolpito. Al suo interno l’enunciato si presenta tuttavia suddiviso da bordi interni, che rendono l’insieme somigliante a un polittico. Lo spettatore viene così messo di fronte a due tagli tra loro concorrenti: una prima lettura gli dà come l’impressione di vedere uscire i motivi dei pannelli laterali dal bordo centrale – il che ci riporta allo sconfinamento, primo tipo di figura studiata –, un’altra gli mostra uno spazio omogeneo, semplicemente segmentato da bordi interni, in parte privati della loro funzione indessicale per la forza del bordo esterno.11 11
Un caso particolare di compartimentazione, ovvero la compartimentazione con esplosione, si ottiene quando svariati bordi giustapposti in un dato spazio presentano i frammenti dispersi di quello che appare chiaramente come un unico enunciato. A differenza del caso precedente, però, tra gli elementi disgiunti si inseriscono spazi scoperti. La stessa tecnica ritorna in L’eterna evidenza di Magritte, in L’inca Pisco B di Gilbert & George e nei numerosi fumetti che ritagliano uno stesso paesaggio in diverse vignette. Nella maggior parte dei casi la coerenza iconica12 assicura l’unità dell’enunciato. È per merito di questa ridondanza se continuiamo a vedere un unico corpo di donna in Magritte, sebbene le sezioni del corpo siano rappresentate su scala diversa (sono state oggetto di trasformazioni differenti secondo le parti dell’enunciato), o anche se possiamo percepire un solo paesaggio in un fumetto, anche se le vignette rappresentano momenti narrativi successivi (per esempio in Régis Franc). Ancora una volta, coesistono e confliggono due tipologie di taglio: quella del bordo e quella dell’enunciato. 4.2. Retorica del significante: B. L’oggetto 4.2.1. Le norme Le figure di cui discuteremo ora riguardano non più la funzione indessicale del bordo – il suo significato –, ma il bordo proprio in quanto oggetto significante. Come abbiamo detto, la norma è qui dettata dalla storia: ci sono usi reali, storicamente datati, che fanno sì che ci aspettiamo un bordo realizzato in un certo materiale (come il legno o l’alluminio), con una data forma (rettangolare, ovale), presentata in una determinata posizione, con determinati colori ecc. A dire il vero, la norma storica è andata nella direzione dell’occultamento dei bordi. In epoca classico-barocca si è avuta una banalizzazione del bordo, che nella maggior parte dei casi era molto lavorato. Nel XIX secolo, malgrado la ribellione degli impressionisti, questo tipo di cornice continua a dominare. Sono stati probabilmente i cubisti, nel XX secolo, a prendere davvero sul serio il problema, favorendo la nascita di bordi con modanature rovesciate, che sottolineano come il messaggio iconoplastico si origini da un piano
Un’analisi approfondita dell’opera, che non pretendiamo di portare a termine qui, fornirebbe una giustificazione di ordine iconico alle due letture. I personaggi del quadro si muovono su un suolo pianeggiante (in contrasto con lo spazio circostante naturale) all’interno di quella che con tutta evidenza è una scena teatrale. Lo confermano le figure scolpite nel basamento del bordo, che sostengono la scena. A partire da questa ipotesi i bordi interni diventano colonne e gli spazi laterali quinte (uno dei personaggi è del resto appoggiato contro una delle colonne). Esempi affini si trovano nei fumetti, dove possiamo vedere personaggi che si appoggiano a bordi di vignette incomplete. Più facilmente percepibile è l’affinità con veri e propri polittici, come Giorno e notte di Max Ernst: enunciati di vario
tipo sono inclusi in uno stesso spazio, che un bordo esterno rilevante designa, e in esso semplicemente separati da sottili listelli. Per effetto di questa ripartizione, i piccoli enunciati sembrano parti di un enunciato più ampio. 12 La frammentazione di un enunciato puramente plastico porterebbe più facilmente alla sua dissoluzione.
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4.2.3. Figure per aggiunta: l’iperbole Più diffuse sono invece le figure per aggiunta. Uno spettatore del XX secolo non può che rimanere colpito da opere in cui la superficie del bordo rappresenta il quadruplo o il quintuplo di quella del quadro (che il periodo storico sia il Rinascimento o l’epoca di Khnopff), o da sculture come quelle di Brancusi, dove spesso lo zoccolo è costituito da una composizione astratta dal materiale più prezioso della scultura che sorregge. Al limite, il bordo può “soffocare” l’enunciato al punto da farlo scomparire. È in questa categoria di figure, prossime all’iperbole, che vanno inseriti i famosi impacchettamenti di Christo: nel 1969, imballando il Museo di Arte Contemporanea di Chicago, questi ha cambiato per sempre lo status del palazzo, da quel momento designato da una tela cerata che ha un ruolo indessicale; ma nell’attimo stesso in cui però esibisce questo ruolo, lo fa scomparire alla vista, lasciando alla memoria il compito di ricostituire l’insieme. Sul piano degli effetti ottenuti, l’iperbole del bordo genera altri due fenomeni che esamineremo separatamente: il bordo rappresentato e il bordo iconico ostensivo (§ 5.2. e § 4.2.4.).
4.2.4. Figure per soppressione-aggiunta: sostituzione, iconizzazione Le operazioni per soppressione-aggiunta, o sostituzioni, sono più complesse da descrivere. Per farlo, occorrerà ancora una volta ricorrere all’opposizione iconoplastica. Primariamente, le sostituzioni trasgrediscono infatti l’aspetto plastico del bordo: influiscono sulla sua forma, posizione o testura, facendo subentrare nuove caratteristiche rispetto a quelle attese (opposizione concepito/percepito). Le chiameremo sostituzioni plastiche. Un secondo procedimento consiste nel fare del bordo un segno iconico. Costituendo di per sé un enunciato autonomo, il bordo indebolisce la propria funzione indessicale (ecco perché si tratta di una soppressione parziale), a favore di una nuova funzione di rappresentazione (da cui la nostra descrizione della figura come ciò che risulta da un’aggiunta). Le sostituzioni plastiche possono influenzare la forma del bordo. La Compenetrazione iridescente no 7 di Balla deriva da un’operazione del genere: il bordo che circonda il campo quadrato è così sottile da scomparire in mezzo a tutti gli altri. L’insieme suggerisce allora l’immagine di una stella a quattro punte. D’altronde, lo stesso Balla aveva sperimentato svariate forme nuove: per Le mani del violinista (1912), per esempio, un triangolo con la punta verso il basso. La figura può inoltre influenzare la posizione del bordo. Che questo sia rettangolare, ovale, o triangolare, essa s’inscrive infatti comunque nel sistema orizzontalità-verticalità. La decisione di Segantini di inserire L’Angelo dell’amore (1894-1897) in un ovale diagonale produce quindi sicuramente, per effetto, una figura retorica. Anche la testura del bordo può essere interessata. La norma prevede una grande libertà di esecuzione in questo campo (liscio, opaco, granuloso, ecc), ma non legifera sull’uso dei materiali: questi sono allora suscettibili di innescare figure. È il caso di Pascali, quando alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma esibisce una cornice fatta di fasci di fieno sostenuti da un telaio. Può verificarsi, infine, una sostituzione cromatica. Non che la cornice abbia un colore fisso, ma di certo, rispetto alla preferenza della norma per la monocromia, composizioni cromatiche come quelle di Seurat, di Severini, di Russel e di Delaunay producono uno scarto. In tutti questi casi di sostituzione lo scarto è reso particolarmente sensibile dalla rima plastica che si stabilisce tra il bordo e ciò che è bordato. La figura viene così richiamata nello spazio dell’enunciato. È un fenomeno che abbiamo avuto modo di incontrare a proposito della forma della cornice, capace di suscitare la percezione di un type iconico
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immaginario per giungere di fronte allo spettatore. Volendo comunque preservare la bidimensionalità della pittura, un semplice listello di legno o di metallo, spesso sottile e a volte combaciante con il bordo del telaio, è diventato la regola. La norma dell’occultamento del bordo è stata inoltre rafforzata dalla consuetudine di vedere le opere solo attraverso le loro riproduzioni. Il visitatore di un museo che ha sempre e solo frequentato gli Skira prova sempre grande stupore dinanzi alle cornici di Seurat. La storia della scultura registra lo stesso andamento rispetto alla progressiva scomparsa dello zoccolo. 4.2.2. Figure per soppressione: la distruzione Nella nostra epoca ci attenderemmo che la figura per soppressione passi inavvertita: da tempo la semplice assenza del listello non è più una figura retorica. Ma la messa in scena dell’operazione di soppressione, realizzata tramite un bordo incompleto, o spezzato, o ancora sottratto alla superficie che ne esibisce le tracce, rimane retorica. Il Décollage di Man Ray (1917), incorniciato solo parzialmente, deriva da un’operazione di questo genere. Chiameremo la figura ottenuta distruzione. L’assenza di un bordo eteromateriale può essere resa manifesta dalla pratica che consiste nel dipingere il bordo direttamente sulla tela, artificio che studieremo a breve.
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5. Bordo indicante, enunciato indicato
(l’esempio fornito era la forma poligonale del quadro di Savinio, che simulava l’architettura di un solaio). Al limite, se il contesto iconico lo autorizza, un bordo rettangolare o un gioco di travi possono anche assumere l’aspetto di una porta. Un’opera come Die Tochter des Künstlers in der Veranda di Fritz von Uhde moltiplica a tal punto le cornici, le finestre, gli specchi che siamo portati a credere che lo spazio di rappresentazione sia anche uno spazio rappresentato. Quanto detto conduce inevitabilmente al bordo iconico, altra tipologia che procede per soppressione-aggiunta. Dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento queste pratiche sono state innumerevoli, dagli zinchi colorati di J.-F. Willumsen alle cornici istoriate di Klimt, dalle stampe giapponesi di van Gogh fino alle sculture arborescenti di Lévy-Dhurmer. Nella maggior parte dei casi l’iconizzazione del bordo riprende il tema dell’enunciato bordato (fenomeno che ritroveremo più avanti con il bordo rimato), senza dare adito tuttavia a relazioni conflittuali tra indicante e indicato. La scultura scelta da Dhurmer per inquadrare i suoi Uccelli acquatici in un paesaggio (1880), con i suoi rami pendenti, simula il primo piano di una scenografia teatrale che rimane nell’ombra, mentre la scena sullo sfondo è vivamente illuminata. Con tutto ciò, il ruolo devoluto al bordo nella rappresentazione può diventare talmente importante da renderne problematico lo status. Da questo punto di vista, magistrale è il ritratto di Empedocle di Luca Signorelli, collocato nel duomo di Orvieto. È un’immagine complessa in cui il filosofo volge lo sguardo verso la parete ornata ivi raffigurata, mentre il busto emerge da un occhio di bue; ma qui è anche possibile soffermarsi sulla complessità del bordo, che circondando il medaglione all’interno del quale è rappresentato Empedocle, instaura con il soggetto un intenso dialogo. Un caso particolare di bordo iconico è quello che mette iconicamente in scena altri segni ostensivi della propria famiglia: personaggi che indicano lo spazio bordato, braccia che sostengono lo spazio della rappresentazione, scenografie teatrali (come in Salvador Dalí), e via dicendo. In tutti questi casi la funzione indessicale viene iperbolizzata (effetto che si può ugualmente ottenere con l’aggiunta semplice). Chiaramente la stessa figura può finire per essere assorbita da una convenzione di genere, cosa che ci fa smettere di percepire in essa l’effetto retorico; funziona così nei tenenti, nei supporti e nei sostegni araldici o, per spostarci su un altro registro, nei galli-cuoco porta-menù che si trovano nelle friggitorie e nei bistrot. Chiameremo questa figura bordo iconico ostensivo.
13 Prima di esplorare questa ambigua relazione, facciamo notare che l’appartenenza completa del bordo allo spazio indicato è inconcepibile. Se è vero che indica uno spazio interno, il bordo non può fondersi totalmente con esso, a meno di non scomparire in quanto indice, quindi come bordo.
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5.1. Un rapporto instabile Abbiamo ora tutti gli elementi per studiare il problema del rapporto tra il bordo e l’enunciato inscritto nello spazio indicato. È probabilmente qui che lo status paradossale dell’oggetto bordo, esterno allo spazio che indica pur facendone parte,13 entra pienamente in gioco. Considerando bordo ed enunciato come elementi distinti, vedremo che il loro rapporto abituale è allo stesso tempo di disgiunzione e di congiunzione. Di disgiunzione per necessità, poiché un indice non può fondersi interamente con lo spazio che indica. Il bordo deve quindi differenziarsi plasticamente dall’enunciato bordato, sul piano del colore, della testura e della forma. È ciò che chiamiamo la sua eteromaterialità. Per principio essa non è iconica, se si eccettua l’utilizzo di motivi che l’elemento storico della cornice ha incluso nella sua norma: foglie, fronde, tralci di vite ecc. La relazione di disgiunzione, fondamentale, è tuttavia mitigata da una relazione di congiunzione: il bordo deve essere pertinente all’enunciato bordato, come deve esserlo rispetto allo spazio esterno. Da qui deriva la scelta di listelli dalle tonalità complementari alla dominante cromatica del quadro, o di forme che riprendono un determinato formema dell’enunciato. Wölfflin (1915) mostra così che nelle cornici del Rinascimento si hanno accoppiamenti plastici tra la quadrangolarità (o la circolarità) della cornice e le composizioni che in essa si inscrivono. Il tondo de La vergine della seggiola di Raffaello ci mostra la Vergine e il Bambino interamente a spirale. Le leggi di queste congruenze, soprattutto quelle relative agli accordi di colore (la cui norma sembra essere la disgiunzione), sono state poco studiate. In qualunque forma esse si enuncino, non invalideranno però questa constatazione: le figure dell’ambito in esame comportano sempre un abbassamento del livello di disgiunzione e un innalzamento del livello di congiunzione, e non l’inverso. Aumentare la disgiunzione significa semplicemente confermare il bordo nel suo ruolo indessicale. Qui avremo quindi, come nell’ambito del contorno, soltanto figure per soppressione.
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5.2. Figure: bordo rimato, bordo rappresentato Le due figure che abbassano il livello di disgiunzione sono da un lato il bordo rimato, dall’altro il bordo rappresentato. Nella prima figura è l’enunciato a conferire al bordo alcune delle sue caratteristiche (colori, motivi ecc.). Nella seconda è il bordo che fornisce le sue caratteristiche all’enunciato, perché quest’ultimo lo riproduce iconicamente. Potremo dunque affermare che il bordo rimato funziona con un andamento centrifugo e il bordo rappresentato con un andamento centripeto. In realtà, non sempre i due procedimenti sono facilmente distinguibili. Più sopra abbiamo considerato il fogliame e i grappoli d’uva di Dhurmer come esterni all’enunciato, cosa che senza difficoltà ci farebbe scorgere una rima. Ma il bordo è in un accordo così forte con l’enunciato che un appassionato di paradossi decreterebbe che la tela rappresenta solo il bordo. A dominare è l’affinità di funzione tra le due figure: la compenetrazione del bordo e dell’enunciato. 5.2.1. La rima del bordo può essere iconica o plastica. Con Dhurmer abbiamo appena fornito un esempio di rima iconica. Se “rima” ci suggerisce l’idea di equivalenza, il rapporto istituito non è sempre di questo tipo. Ritratto da Munch, che aveva disegnato sul bordo un corpo di donna stilizzato, Strindberg scrisse al pittore: «Sai fino a che punto detesto le donne ed è proprio per questo che ne hai messo una nel mio ritratto» (in Aa.Vv. 1981a, p. 53). La rima plastica può entrare in gioco su tutti i parametri del segno plastico. I bordi costeggiati di punti di Seurat costituiscono un buon esempio di accoppiamenti di colore e di forma insieme. Le linee a zigzag che, in Munch, circondano il ritratto di Strindberg costituiscono una rima di forma. In Sono io che faccio musica, di G. Van Elk (ill. 14), la cornice triangolare, inconsueta, dà risalto alla struttura del soggetto, mentre la coda del frac del pianista e il pianoforte a coda deformato creano l’ampia base di un triangolo ottusangolo. Esito di un movimento centrifugo, l’effetto raggiunto dalla figura della rima può essere paragonato a quello dello sconfinamento: lo spazio del bordo è invaso dallo spazio centrale. Ma la specificità della rima consiste nell’arricchire il valore indessicale del bordo. Esso non soltanto indica uno spazio, ma commenta il messaggio che vi è inscritto attraverso un altro messaggio iconico o plastico. Tutte le rime vengono infatti associate a contenuti ricchi e dettagliati: le linee spezzate di Munch sembrano un commento al carattere tormentato dell’opera di Strindberg; e van Gogh, quando disegna ideogrammi di fantasia sul 230
14. Ger Van Elk, Sono io a fare la musica, 1973
bordo delle sue cineserie, o quando le contorna con icone che riprendono stereotipi orientali (bambù ecc.), produce un effetto di pastiche ecc. 5.2.2. Riflettere sul carattere paradossale del bordo ha a volte portato gli artisti a esplicitarne la funzione indessicale rappresentandolo. In questi bordi inclusi è dunque possibile riconoscere uno sforzo per riorganizzare gli spazi presenti: il bordo ha la pretesa di installarsi pienamente nello spazio bordato. Di certo, questo cambiamento accentua una precisa proprietà del bordo: quella che fa dello spazio che esso occupa un luogo di mediazione tra l’interno e l’esterno. Appartenendo solo debolmente allo spazio interno, il bordo viene ora risolutamente convocato da pittori, disegnatori e scultori. Paul Ranson circonda il suo dipinto delle domestiche intente a sbucciare patate con un bordo i cui arabeschi suggeriscono delle bucce. Un bordo dunque, ma che viola la regola dell’eteromaterialità. Le ripercussioni sulle forme di rappresentazione sono variabili e dipendono dal contesto. Quando il bordo omomateriale è completato da un bordo eteromateriale (un “vero bordo”), si ottiene un effetto simile a quello prodotto dall’iperbole. Se, al contrario, non ci sono bordi eteromateriali, il bordo rappresentato può benissimo farsi sintomo del bordo che è stato distrutto… La rappresentazione del bordo, infatti, sottrae valore al bordo esterno.14 14
Come nelle composizioni di Gérard Titus-Carmel, dove la distanza tra il bor-
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Ma essa può progredire fino ad arrivare, al limite, all’esclusione di qualsiasi altra rappresentazione: il bordo stesso, con tutte le significazioni che vi sono associate, diventa allora l’unico oggetto del messaggio iconico. Possiamo evocare qui i trompe-l’œil del XVII secolo e confrontarli con opere contemporanee come una tela di Jasper Johns (1976), in cui è incollata una cornice, o la copertina di Roy Lichtenstein per il catalogo di Art about art. Osserviamo lo stesso procedimento, ironico, in tutti coloro che rappresentano gli elementi dell’attività di messa in cornice: Le clou di Braque è rimasto celebre. Più nuovi e ricchi sono i Campi limite di Rudy Pijpers, che pur con l’uso di altre tecniche, ottengono ugualmente l’abolizione di qualsiasi forma di rappresentazione eccetto quella del bordo: i listelli intelaiati rappresentano la porzione di un quadro visto di profilo. Rinviando a enunciati comunque identificabili (si riconoscono le geometrie di Mondrian, i tratti ripresi da van Gogh), l’artista esibisce in realtà il punto in cui un enunciato si ferma, cioè i suoi contorni, e mostra il bordo stesso come luogo di mediazione tra lo spazio indicato interno e lo spazio indicato esterno. Sottolineiamo che il bordo incluso può fornire un’icona di tutte le figure del bordo, a qualunque famiglia esse appartengano. Così la Madonna di Munch presenta un bordo dipinto, di colore rosso, che però si interrompe in due punti: è un caso di distruzione. Il bordo dipinto ne Le sbucciatrici di patate di Ranson, già menzionato, offre un esempio di bordo incluso rimato. La moltiplicazione di bordi inclusi non è più rara dei casi di compartimentazione rappresentata: da L’autunno di Larionov ai fumetti, in cui, a volte, le vignette si suddividono in caselle più piccole.
sono state ancora concretamente sfruttate da pittori, da disegnatori di manifesti, da autori di collage ecc. Spostando l’attenzione verso i fenomeni empirici, dovremmo presto confrontarci con due ordini di problemi: quello della compenetrazione delle figure e quello della produzione degli effetti. 6.2. Se ogni figura ha i propri meccanismi, va da sé che, nei fatti, essa possa essere condizione materiale della produzione di un’altra. Così, il limite osservato ne L’Annunciazione di Savinio (figura del significato del bordo che risulta da un’aggiunta) va di pari passo con la produzione di un bordo trapezoidale (figura del significante del bordo, che si avvale di una soppressione-aggiunta). Allo stesso modo, la rima plastica di Sono io che faccio musica, quadro citato più sopra, va di pari passo con la produzione di un bordo triangolare; le rime iconiche vanno di pari passo con l’iconizzazione del bordo. Concretamente, nessuna di queste figure può scindersi dalla sua compagna: non si può dire che una sia la conseguenza dell’altra. Ma questo non mette minimamente in dubbio l’esistenza della figura isolata in quanto modello.
6.1. Dobbiamo ora ribadire che la descrizione delle figure della cornice concerne modelli, e non fatti empirici; essendo i casi riportati soltanto esempi che attualizzano meccanismi generali, il proposito realizzato in ognuno di essi non esaurisce, evidentemente, la totalità del messaggio che comunicano. Peraltro, non tutte le figure da noi trattate
6.3. Relativamente alla produzione degli effetti, conosciamo la complessità del problema. Sappiamo anche – tutta la storia della retorica antica lo dimostra – che nessuna classificazione degli effetti poggia su basi solide. Tali classificazioni hanno piuttosto come conseguenza di disperdere il soggetto dentro sistemi di distinzioni ad hoc, per principio infinite (o perlomeno dello stesso numero degli oggetti incontrati). Quelle fondate sui procedimenti materiali utili per ottenere le figure risentirebbero della stessa mancanza di pertinenza: ci farebbero perdere nel dedalo delle “specialità” individuali, dagli impacchettamenti di Christo all’inimage di Passeron, dal décollage di Man Ray al crozermitage di Dubidon)…15 Richiameremo perciò alla mente del lettore la nostra proposta di approccio al fenomeno dell’ethos. Distinguiamo un ethos nucleare, che dipende esclusivamente dalla struttura della figura e che è pura virtualità; un ethos autonomo, che prende in considerazione il primo ethos e il materiale nel quale si attualizza realmente la figura (ethos che è ancora virtuale poiché, per astrazione, tiene conto della figura a prescindere dal suo contesto); e infine un ethos sinnomo, che comprende
do dell’enunciato e il bordo rappresentato varia sensibilmente: caratteristica rivelativa del fatto che lo spazio situato tra i due bordi non ha affatto lo stesso status dello spazio interno al secondo tipo di bordo.
15 Includere tutte queste specialità in una classificazione modellizzata vorrebbe dire cedere alla foga tassonomica che contraddistingue alcune fasi della retorica classica.
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6. Modelli e realtà
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il contesto e in particolare altre figure che vi si manifestano, che siano della cornice o di altra specie. Abbiamo definito l’ethos nucleare che è in causa in ogni figura: indistinzione per le figure della relazione bordo-bordato, movimento centrifugo per lo sconfinamento ecc. Va da sé che sul piano degli effetti esistono affinità tra figure che riguardano campi diversi. Così, a raggiungere l’effetto di esaltazione del bordo possono essere le figure del significante, che sono tanto di aggiunta (iperbole) quanto di soppressione-aggiunta (bordo iconico ostensivo), ma anche le figure della relazione bordo-bordato. L’effetto di cancellazione dell’enunciato rappresentato è suggerito altrettanto bene dai bordi iperbolici (Christo) e dal bordo rappresentato (Pijpers). Otteniamo l’espansione dell’enunciato verso l’esterno con operazioni di soppressione che si producono nei tre campi del contorno (Finlay), del significato del bordo (lo sconfinamento) e del rapporto bordo-bordato (rima). Lungi dal ridurre i fatti a uno schema di scarso interesse, la presa in considerazione dei diversi livelli di pertinenza retorica attira al contrario la nostra attenzione sulla straordinaria ricchezza dei prodotti della comunicazione visiva.
Problemi di una semiotica delle icone visive di Jean-Marie Klinkenberg
1. Quattro elementi Questo capitolo1 affronta il tema delle icone visive. Limitandoci all’accezione più semplice del termine icona, è il senso di questo visibile che tenteremo di indagare. Per far questo, cominceremo dalla descrizione della struttura del segno iconico. Nella nostra prospettiva il segno iconico acquista piena articolazione all’interno di uno schema tetradico che fa intervenire quattro elementi: lo stimolo, il significante, il significato e il referente. Il segno può dunque essere considerato il prodotto di relazioni a due termini tra quattro elementi (vedi Schema ?). Equivalenza Type
Significante
Stabilizzazione Conformità
Riconoscimento Conformità
Referente
Stimolo Trasformazione
Fig. ***. Struttura del segno iconico
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È l’ultima sezione, la più significativa, del Précis de sémiotique générale (1992) di Jean-Marie Klinkenberg.
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Trattato del segno visivo
Problemi di una semiotica delle icone visive
L’originalità di questo sistema consiste nel riuscire a espandere la relazione binaria tra il significante e il significato, relazione assai spesso utilizzata per descrivere il segno iconico ma che ha ingenerato, nel tempo, questioni ancora oggi irrisolte. I quattro elementi del segno iconico sono: lo stimolo, il significante iconico – nettamente distinto dal significante plastico – il type e il referente. Supereremo le difficoltà di cui sopra mostrando la differenza che esiste tra le ultime due entità, il più delle volte inglobate, senza distinzione, nel concetto di “significato iconico”. Poiché nessuno di questi elementi può essere definito indipendentemente dal rapporto con gli altri, la comprensione di ogni definizione implicherà la rilettura, a posteriori, delle altre. Riguardo alle relazioni, esse conteranno, nelle definizioni che forniremo, tanto quanto gli elementi stessi. Riportate tutte nello schema in alto, queste relazioni sono: la trasformazione, la conformità, il riconoscimento e la stabilizzazione. Saranno oggetto di analisi nel § 2. 1.1. Il referente Nella nostra concezione, come in altre, il referente è l’oggetto preso in carico dal segno visivo. È l’oggetto inteso non come insieme confuso di stimoli ma come membro di una classe, così come può essere rapportato a un modello. Se ne deduce che se il referente fosse uno stimolo visivo (ma non è necessario: ci si può facilmente creare un’icona di qualcosa che non si è mai visto), si tratterebbe di uno stimolo già semiotizzato. L’esistenza di questa classe di oggetti è avvalorata dal modello, cioè dall’esistenza del type. A ogni modo, type e referente restano distinti: il referente è singolare (è un token) e presenta proprietà spaziali (in senso lato, che include anche caratteristiche cromatiche). Il type, dal canto suo, è una classe e presenta proprietà concettuali. Per esempio il referente del segno iconico gatto è un oggetto singolare, del quale posso avere un’esperienza visiva (è grigio e bianco sotto la gola, non molto grosso e con orecchi piuttosto grandi; ha inoltre una ferita dietro la zampa sinistra e si chiama Chipie, nome che però non gli si addice) ma che in quanto oggetto può essere ascritto a una categoria stabile, quella dell’essenza del gatto.
funzionano qui a prescindere dal fatto che il loro aspetto rinvii a un type. Sdebitandosi dall’onere del rinvio, lo stimolo si trasforma in significante. Lo stimolo e il referente sono entrambi attualizzazioni del type e intrattengono tra loro relazioni di trasformazione, come vedremo meglio più avanti. Il disegno di un gatto ha un bel dire a essere molto stilizzato, e solo sommariamente abbozzato, e può farsene un baffo delle osservazioni che circolano riguardo al referente. Nel mio disegno ho trascurato la ferita alla zampa, non sono stato molto bravo a riprodurre le orecchie e non sono stato neanche capace di rendere i grigi: esso è tuttavia conforme ad alcuni tratti dell’idea che mi faccio di un gatto (ha i baffi, una coda…). Posso inoltre spiegare le corrispondenze che esistono tra i baffi disegnati e il referente dei baffi, anche se le due cose non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, essendo i primi fatti di polvere di grafite e i secondi di peli. 1.3. Il significante Il significante è un insieme modellizzato di stimoli visivi che rimandano a un type stabile, un insieme dovuto alla stessa azione dello stimolo. Il type viene identificato grazie ad alcuni tratti del significante e può essere ricondotto a un referente condiviso.
1.2. Lo stimolo Lo stimolo è il supporto materiale del segno: macchie nere su fondo bianco, masse tridimensionali, tratti, curve. Tutti questi elementi
1.4. Il type Il type è una rappresentazione mentale. Si forma per via di un processo di integrazione e di stabilizzazione di esperienze anteriori, realmente vissute o finzionali. Al pari di qualsiasi significato, è dunque un prodotto dell’enciclopedia. Ho già visto dei gatti e so che hanno i baffi, che graffiano e che miagolano, specie in alcune notti di primavera in cui i loro miagolii somigliano a singhiozzi. Oppure non ne ho mai tenuti in casa (e d’altronde quand’ero piccolo li detestavo), ma ne ho sentito parlare molto: alcuni amici ne hanno e ne parlano parecchio, ho letto Alice nel paese delle meraviglie e perciò ho conosciuto il gatto del Cheshire, sono rimasto affascinato dalla lettura del Gatto con gli stivali e dei Gatti di Baudelaire e conosco buona parte dei commenti che li riguardano. So dunque che sono «potenti e teneri» e graditi agli innamorati ardenti e ai saggi austeri. So anche che gli si dà spesso il nome di Pussi o di Minù, che si dice “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”, che una canzone che cantavo da piccolo diceva che non si dovevano tirare i baffi al gatto. Inoltre, dalle mie parti, la ditta di caffè più rinomata si chiama Chat Noir. In
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2.1. Asse stimolo-referente: le trasformazioni Si sarà notato che nello schema più sopra riprodotto questo asse è contraddistinto da un tratto unico. Si è voluto in tal modo suggerire l’idea dell’unione diretta tra i due termini. È un dettaglio che ci allontana dal modello linguistico tradizionale: nel triangolo semiotico classico si rappresenta infatti la base con un tratto discontinuo, a indicare il carattere di mediazione proprio del rapporto tra il significante e il referente. Per passare dall’uno all’altro bisogna cioè passare attraverso il significato.
Qui esiste invece un legame particolare tra stimolo e referente. I due termini sono commensurabili, perché entrambi hanno proprietà spaziali (ognuno di essi presenta una testura, una forma e un colore), o per meglio dire, possono essere descritti in termini spaziali. Le relazioni che stanno alla base di questa commensurabilità prendono il nome di trasformazioni. Lungi dal voler dire che si prende un referente e che lo si frantuma per ricavarne uno stimolo (credenza tuttavia abbastanza diffusa, specie tra molti di quelli che non vogliono essere fotografati), la trasformazione è una categoria che rende conto delle somiglianze e delle differenze riscontrabili confrontando stimolo e referente relativamente ai tratti (di forma, di colore ecc.). L’elaborazione di queste ipotesi è resa possibile in virtù dell’esistenza di una commensurabilità. Forniamo, sin da ora, l’esempio di una classe di trasformazioni. Sia data una carta d’identità con foto in bianco e nero. Guardandola, noteremo che la foto è bidimensionale – mentre il referente ha tre dimensioni – che è in bianco e nero – laddove il referente si presenta a colori –, che le forme della foto sono rimpicciolite rispetto a quelle del referente… Chiamiamo trasformazione il rapporto fra la tridimensionalità e la bidimensionalità, il rapporto fra la taglia x e la taglia x' in quanto x' < x, il rapporto cromatico tra la foto e il suo referente: la prima ha conservato le proprietà luministiche specifiche del secondo, perdendo però le dominanti cromatiche che lo caratterizzano. Segnaliamo che le operazioni vanno concepite nei due versi, ossia dallo stimolo al referente e dal referente allo stimolo. Si seleziona l’uno o l’altro in dipendenza della messa a fuoco sulla fruizione del segno o sulla sua produzione. Se in quest’ultimo caso le regole di trasformazione vengono applicate per elaborare uno stimolo in base alla percezione di un referente (concreto e tangibile o frutto di invenzione), nel primo esse sono invece applicate per provare a ricavare, sulla base delle caratteristiche dello stimolo, alcune proprietà del referente. Tale ricostruzione non avviene a caso, ma è guidata dai dati forniti dal type o dal prototipo. Ricostruisco, per dire, la tridimensionalità a partire dal disegno di un soggetto sconosciuto perché, avendolo riconosciuto come essere animale, so che gli animali hanno tre dimensioni. In linea di principio, dunque, la relazione di trasformazione è simmetrica. All’atto pratico non lo è però del tutto. Confidando nell’ausilio del type, la trasformazione stimolo → referente diventa infatti rischiosa: se non si incontrano difficoltà nel postulare la tridimensionalità di un animale a partire da uno stimolo bidimensionale, l’ostacolo nasce invece quando si vuole ricavare il colore esatto di un oggetto che si
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sostanza, la so lunga sui gatti, e questo mio sapere fa parte del type. La funzione iconica del type è quella di garantire l’equivalenza tra il referente e lo stimolo, un’equivalenza che è di identità trasformata. Referente e stimolo intrattengono dunque una relazione di co-tipia, sulla quale avremo modo di tornare. Come si è già detto, il type, non avendo una natura propriamente spaziale, è descrivibile tramite una serie di caratteristiche concettuali. Alcune di queste possono coincidere con proprietà spaziali del referente (per esempio, per quanto riguarda il gatto, la forma dell’animale raggomitolato, oppure steso, o sollevato sulle zampe; la presenza dei baffi, della coda, di striature…). Altre invece non presentano le stesse caratteristiche (come il miagolio o il fatto di essere «potenti e teneri» e l’“orgoglio della casa”). Questi tratti costituiscono il prodotto di paradigmi i cui termini si trovano in un rapporto di addizione logica. Per esempio il type “gatto” chiama in causa il paradigma del colore – nero, o rosso, o bianco… – e quello della posizione – raggomitolato o su due zampe, e via dicendo. Ribadiamo che è impossibile definire con esattezza i quattro elementi del segno senza farli intervenire in coppia. Vediamo dunque le relazioni che essi instaurano vicendevolmente.
2. Quattro relazioni doppie Tra i quattro elementi or ora definiti si stabiliscono relazioni descrivibili da due punti di vista: sia in senso genetico, ovvero sul piano diacronico – nel processo di formazione dei segni – sia anche sul piano sincronico – considerando il funzionamento del messaggio iconico, nella sua trasmissione e nella sua ricezione. Ci accontenteremo, in questa sede, di prendere in esame il piano sincronico.
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presenta nella fattispecie di una foto in bianco e nero. Al massimo se ne può dedurre che è colorato. 2.2. Asse referente-type: stabilizzazione e conformità Sull’asse che va dal referente al type esiste una relazione di stabilizzazione e di integrazione. Sappiamo che la struttura dei nostri codici è modellata sulle esperienze del passato, che il reperimento di alcune qualità permette di isolare delle entità e che la memoria permette di stoccare tali entità all’interno di classi. Applicando questa regola generale al type, si può dire che gli elementi pertinenti ricavati dal contatto attivo con il referente entrino, in aggiunta, nei paradigmi che costituiscono il type. La pratica dei gatti, nella realtà come sui libri, ha reso stabili nella mia enciclopedia i tratti “baffi” e “orecchi triangolari”. Chiaramente, la composizione di questo type può sempre essere rispecificata, integrandovi nuovi tratti, defalcando o sostituendo un tratto con un altro. Se si avverasse, per esempio, che i gatti emanassero fumo, che i baffi fossero una leggenda o che la coda fosse a spirale, la struttura del type dovrebbe essere revisionata. Nel verso opposto, dal type al referente, è possibile individuare un’operazione costituita da una prova di conformità, operazione i cui meccanismi sono identici a quelli messi in gioco nella terza relazione (type → stimolo), che esamineremo a breve. La relazione esistente tra la stabilizzazione e la conformità è evidentemente di natura ciclica. Le nostre rappresentazioni degli oggetti del mondo sono diventate stabili grazie alle norme culturali: “gli uccelli volano”, “i gatti hanno i baffi”. Queste rappresentazioni creano però in noi delle attese, che proiettiamo su ciò che percepiamo: se mi capita di incontrare un essere le cui principali caratteristiche riconducono all’idea del gatto, mi attendo che abbia gli orecchi. Potrei sbagliarmi nel caso in cui l’animale, vittima di un sadico fanciullo, avesse perso tale attributo. A dispetto di ciò, ci sono molte probabilità che, interrogato su questo argomento, io giuri solennemente di aver visto i famosi baffi. È quello che la psicologia della percezione chiama “buone forme” (Gestalten), riserva di type passibili di essere proiettati sulla realtà percepita.
identificabile come composto di /corpo/, /orecchi/ e /baffi/ consente di rappresentare un gatto. Con tutta probabilità si tratta di una relazione simmetrica.
2.3. Asse type-significante: la semiosi È l’asse della funzione semiotica. Si stabilisce qui l’equivalenza convenzionale tra un insieme modellizzato di tratti spaziali e un insieme modellizzato di tratti semantici. Diremo per esempio che l’insieme
2.4. Asse significante-stimolo; conformità e riconoscimento Anche nell’ambito di questo asse bisogna distinguere due relazioni con direzione reversibile: significante → stimolo e stimolo → significante. Nel primo verso – dal significante allo stimolo – gli stimoli visivi sono sottoposti a una prova di conformità. Questa prova, sulla quale ritorneremo, decide se le manifestazioni sensoriali sono propriamente rappresentazioni del type oppure no. Trovandomi davanti a un disegno che è suscettibile di essere quello di un gatto, posso dire: “Ma sì, si tratta di un gatto: vedi che ha i baffi?” – ipotesi confermata; ma anche: “No che non è un gatto: anche le tigri hanno i baffi. E poi queste zanne non possono essere quelle di un gatto” – ipotesi respinta. Nel verso opposto, sull’asse stimolo → significante, si parlerà di riconoscimento o di identificazione del significante. La prova di conformità consiste nel confrontare un oggetto (particolare) con un modello (generale, per definizione). Si formula un’ipotesi relativa a una coppia type-significante e si mette a confronto lo stimolo con questa coppia: per essere più precisi, si verifica se gli elementi che figurano nel paradigma del type, e che hanno i loro corrispettivi nel significante, coincidono con i tratti dello stimolo. Poiché il modello è strutturato sotto forma di paradigmi, molti oggetti possono corrispondere a un unico type, a titolo di significante o di referente. Per rappresentare un gatto, per esempio, godo di una grande libertà d’azione: posso raffigurarlo sdraiato o raggomitolato, nero o tigrato, con o senza vibrisse, in stile iperrealista o estremamente stilizzato. I criteri di riconoscimento sono di natura quantitativa e qualitativa. In altri termini, giocano sicuramente un ruolo tanto il numero di tratti riconosciuti e conformi quanto la tipologia di questi tratti: alcuni infatti sono prototipici, altri no. Riconosciamo facilmente il type del gatto se sono presenti tratti pregnanti come i “baffi” e le “orecchie triangolari”. Questa presenza non è tuttavia una condizione imprescindibile, nel senso che per il riconoscimento del type non è indispensabile trovare nello stimolo l’uno o l’altro tratto: basta semplicemente raggiungere un tasso d’identificazione minimo, cosa che si ottiene grazie all’associazione libera di elementi i cui type sono in numero limitato. Chiunque abbia mai giocato a Pictionary è a conoscenza di questo funzionamento.
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A questo tasso di identificazione corrisponde un certo livello di ridondanza, un minimo del quale, nel corso delle trasformazioni, deve essere preservato. È la legge che si viola nei piccoli indovinelli come questi:
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Figura ***. Icone con debole tasso di ridondanza
Che cosa rappresenta il disegno 1? Il collo di una giraffa. E il 2? Vediamo, potrebbe trattarsi del passaggio di un reggimento, baionette in canna, dietro un muro. Quanto al 3, rappresenta, come tutti sanno, un messicano in bicicletta visto dall’alto. Nel primo caso l’inquadratura ha talmente abbassato il livello di ridondanza da rendere l’immagine non codificabile, se non con l’aiuto di una didascalia verbale. Tale inquadratura è stata messa in funzione al livello dell’enunciazione, ossia al livello della produzione del messaggio. Nel secondo caso è di nuovo una modalità di messa a fuoco ad abbassare la soglia della ridondanza, mostrando così il valore capitale assunto dal ruolo del punto di vista: una foto alla rovescia ci mette in crisi anche rispetto all’identificazione di un soggetto familiare.
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Indice dei nomi
Arcimboldo, G. 76, 81n. Arnheim, R. XVIII, 45, 46, 101, 102, 115, 121, 153 Attneave, F. 80n. Bachelard, G. 129, 142 Balla, G. 227 Barraud, H. 144 Barthes, R. VIII-XII, 44-46, 157 Baudelaire, Ch. 238 Beck, J. 19 Bense, M. xvi, 90n., 112 Benveniste, E. VII Bergson, H. 126 Berlin, B. 129, 130, 137n., 139 e n. Bertin, J. 112 Bierce, A. 83n. Birren, F. 129, 132 Blanché, R. 40n. Bloomfield, L. 2 Böcklin, A. 174 Boucher, F. 7, 200 Bouligand, G. 56 Brancusi, C. 166, 226 Braque, G. 169n., 232 Bresdin, R. 73, 142, 206n. Brion, M. 104n. Bru, Ch. 120n., 121n., 122 e n. Buddha 96n. Butor, M. 87, 198n.
Casetti, F. 36n. Casimiro, M. 125 Cassirer, E. 82n. Catach, N. 2n. Cézanne, P. XXV, 70, 72, 136, 191193, 206n. Chailley, J. 144 Chastaing, M. 94, 136 Chazal, M. de 143 Cheng, F. 11n. 167, 197n., 214n. Cherry, C. 3 Chevreul, M.E. XXII, 129, 132, 149 e n., 150 e n., 151n., 152 Christo 226, 233, 234 Cocteau, J. 75n. Conklin, H. 130 e n., 139 Constable, J. 25, 200 Corot, J.-B. C. 72 Couperie, P. 73 Courtés, J. XXIIn., 1, 28n., 29, 45 Courtis, M.C. 80n. Dalí, S. 76, 222, 228 Damisch, H. 126 David, J.-L. 72 Delachet, A. 60n. Delahaut, J. 130, 136 Delaunay, R. 227 Delbouille, P. 94 Déribéré, M. 74 Derrida, J. 2n.
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Indice dei nomi
Franc, R. 225 Francke, H.W. 4 Friedrich, C.D. 174 Frisby, J.P. 11n., 23n.
Detienne, M. X Dewes Botur, A. 26n., 28n. Diderot, D. 97n. Domela, C. 221 Dove, H.-W. 110 Dubidon 233 Dubois, J. xi Dubois, Ph. 97 Dubuffet, J. 113, 200, 202 Ducrot, O. XIV Dürer, A. 103, 220 Eco, U. XI, XVI e n., XIX e n., 2330, 35, 38, 40n., 41, 43, 56, 61n., 82n., 97n., 100n., 119, 135n., 140, 159 e n., 160 e n., 161n. Edeline, F. XI, XV e n., 40, 97n., 121n., 156, 178n., 220n. Ehrenzweig, A. 103 Ejzenštejn, S. X, 75n. El Greco 72, 75n., 136 Empedocle 228 Ernst, M. 103 n., 156, 157, 162, 224n. Escher, M.C. 61n., 174n., 187 Estoup, J.B. 203 Fabbri, P. VII, VII, XXIVn., XXVn., XXVIIn., 1n., 28n., 29 Fechner, G.T. 71, 145 Fénéon, F. 110 Finlay, H. VIIIn., XV, 94n., 192n., 220 e n., 234 Floch, J.-M. XX, XXI, 26n., 28n., 34n., 113n., 126 Folon, J.M. 163 Fónagy, I. 94, 136 Fontanier, P. XII e n. Fontanille, J. X, XXI, XXII Foster, H. 73
Garnier, F. 93n. Gelb, I.J. 2 Genette, G. XII e n. Gérardin, L. 8 Getzler, P. 71n. Ghyka M. 120n. Gilbert & George 225 Gilchrist, A. 19 Godel, R. 45 Goethe, J.W. 129 Gogel, W.C. XVIII, 10, 196 Goodman, N. XVI, XVIII, 25, 26, 30, 41, 42 Goux, J.-J. XIX Goya, F. 73 Grandville, J.-J. 57, 206n. Green, R.T. 80n. Gregory, R.L. 83n. Greimas, A.J. X, XIIIn., XIVn., XXIIn., XXV, 1, 28n., 29, 41, 45, 132, 167n., 197n. Gris, J. 70 Growe, B. 153 Gruppo μ VII-IX, X-XXII, XXVIXXVIII, 88, 89n., 94n., 101n., 125, 130, 136, 148n., 155, 162, 166, 170, 173, 182n., 183, 184186, 197 Guillaumin, A. 72 Guillot, M. 67 Haddock, 68, 172 Harunobu, S. 68 Hautecœur, L. 207 Heimendahl, E. 133n.
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Henry, A. XI Henry, Ch. 150n., 151n., 211 Hergé 68, 172, 173 Hering, E. 132, 133n., 145 Hjelmslev, L. IXn., X, XXIII, XXVII, 26n., 28n. Hokusai xxv, 182, 183n., 187, 195197 Homer, W.I. 99n., 106n., 109n., 110 Houédard, D.S. 112 Humphreys, G.W. 153 Ingres, J.-A.-D. 72, 86 Itten, J. XXII, 86, 129, 146-149, 151n., 152 Jakobson, R. VIII, XIVn. Januszczak, W. 102 Johns, J. 232 Johnson, M. XXn. Julesz, B. 12, 13, 101 Jullien, F. Kandinskij V. 115n., 129, 199 Kanzaku, J. 138 Kay, P. 129, 130, 137n., 139 e n. Kees, W. 23 Kelly, E. 125 Kerbrat-Orecchioni, C. 158 Khnopff, F. 226 Kibédi Varga, A. 199 Klee, P. XXIII, 9n., 104n., 106, 136, 174n., 187, 199 Klein, Y. 189n. Klimt, G. 228 Klinger, M. 224 Klinkenberg, J.-M. XI, XV, XVI, XVIII, XX-XXII, 163, 206n., 235n. Kolarˇ, J. 111
Kowzan, T. 25n. Krampen, M. 31n. Lakoff, G. XX Lambert, J.-C. 82n. Land, 130 Lapicque, Ch. 71, 72 e n. Larionov, M. 232 La Tour, G. de 72 Lavis, G. 36 Le Blon, J.C. 132 Le Guern, O. XI, 204n. Leloup, R. 181 Leonardo da Vinci 131 Lévi-Strauss, C. XIVn., 94n., 137n., 139n., 185n., 207, 208n. Lévy-Dhurmer, L. 228 Leymarie, J. 169n. Lhote, A. 194 Lichtenstein, R. 232 Lindekens, R. 115n., 120n. Lotman, J.M. VIIIn., Xn. Mandelbrot, B. 3, 205 Manet, É. 188n. Marin, L. XXVII e n., 213n. Martinet, A. 2 Mathieu, G. 108, 124 Matisse, H. 67, 136, 142, 200, 205 Maxwell, J.C. 145n. McLuhan, M. 1 Memling, H. 72 Mercator, G. 59 Metzger, W. 6 Michelangelo 189n. Milou 68 Minguet, Ph. XI, XIIIn., XV, 33n., 163 Miró, J. 61, 63, 83 Moholy-Nagy, L. 128
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Moles, A. XVIII, 43, 76, 205n. Mondrian, P. 67, 87, 89n., 113, 136, 142, 160n., 163, 178, 186, 200, 205, 232 Monet, C. 72, 109n., 206 Morris, Ch. 23, 24, 27, 30, 31, 41 Mounin, G. 100n., 107n. Munch, E. 230, 232 Munsell, A.H. 15n., 66, 129, 143 Neisser, U. 110 Newton, I. 130 e n. Odin, R. 94, 112, 163 Ogden, C.K. XVII, XVIIIn., 35 Osgood, C.E. 94, 120n., 137 Ostwald, W. 15n., 136, 147n. Oxenar, R.W. 191n. Packard, V. 100n. Palmer, S. 47 Paris, J. 126 Parlebas, P. 103n. Pascali, P. 227 Passeron, R. 233 Peirce, Ch.S. 23, 24, 40n., 41 Perelman, Ch. XI Peters, A. 59n., 60n. Petrova, T. 125 Pfeiffer, H. XXII, 140n., 144-147 Picciarelli, M. XXIII Piero della Francesca VIIIn., 161n. Pijpers, R. 232, 234 Pirenne, M.-H. 182, 195, 200, 201 Pissarro, C. 72, 99n., 109n. Plantin, C. 256 Pollock, J. 101, 104, 113 Pottier, B. XIII Pratt, H. 73 Prieto, L. 44, 163
Indice dei nomi
Raffaello 229 Rainwater, L. 16, 137, 138, 141 Ranson, P. 231, 232 Rastier, F. XIX, 163 Ratcliff, F. 8 Ray, M. 226, 233 Renoir, A. 7, 75, 91n. Reuchlin, M. 21 Richards, I.A. XI, XVII, XVIIIn., 35 Ricœur, P. XIII, XXVIII, 156 Rorschach, H. 93n., 119 Rossotti, H. 107 Rousseau, R.L. 129 Rubin, E. 200 Ruesch, J. 23 Rumfort, 146n. Russel, D. 227 Saint-John Perse 156 Saint-Martin, F. 61, 161n., 213n. Salomone 161 Samivel 207 Saussure, F. de 2, 44, 45 Schloezer, B. de 87 Schonfelder, W. 150n. Seckel, D. 96n. Segantini, G. 227 Seurat, G.-P. 99n., 106 e n., 150n., 211, 226, 227, 230 Severini, G. 221, 227 Signac, P. 64n. Signorelli, L. 228 Sisley, A. 72 Sonesson, G. XX, 102, 113 e n., 185, 186n. Soreil, A. 174 Staël, N. de 108n. Stewart, H. 208n. Stiles, W.S. 20 Stoichita, V. XXVII 264
Strindberg, A. 230 Suarès, A. 153 Suetine, N.M. 128 Sutton, D. 108n. Thom, R. VII, XXIV, 54, 56, 80n., 207 Thürlemann, F. XX, XXI, XXIIn., 28n., 90n., 102, 113n., 126, 132, 134-136, 143, 186n. Tintin 68 Titus-Carmel, G. 231n. Tiziano 108 Tobey, M. 101 Todorov, T. XII, XIV, 96 Toroni, N. 221 Tucci, G. 178n. Turner, W. 32, 200 Uhde, F. von 228 Van der Leck, B. XXVI, 67, 70, 142, 200, 205, 206n., 211, 212 Van Elk, G. 230, 231 Van Eyck, J. 72 Van Gogh, V. 111, 228, 230, 232 Van Lier, H. 44
Vandeloise, C. XX, 114 e n., 116n. Vasarely, V. 61 e n., 74, 75n., 113, 160, 163, 175, 176, 178, 179, 186, 223 Velázquez, D. 72 Vermeer, J. 72 Vernant, J.-P. X Veronese, P. 136 Vilches, L. 113 Volli, U. XIXn., 24n., 30n., 38, 54, 56, 79, 81, 82n., 136 Wallach, H. 84n. Warhol, A. 223 Weber, E.H. 145 Wertheimer, M. 10 Willumsen, J.-F. 228 Windisch, V. 103 Wölfflin, H. 213n., 229 Wright, B. 16, 137, 138, 141 Wyszecki, G. 20 Young, J.Z. 129-131 Zipf, G.K. 203 Zurbarán, F. de 72
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