MANUALI PER L’ ARCHEOLOGIA
Collana diretta da Gian Pietro Brogiolo e Gloria Olcese
MANUALI PER L’ARCHEOLOGIA
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE di
AURORA CAGNANA con premessa di
TIZIANO MANNONI
Editrice S.A.P.
Società Archeologica Padana s.r.l.
“È l’abilità dell’uomo applicata ai prodotti della natura per bisogno, per lusso, per divertimento, o per curiosità, che ha fatto nascere le scienze e le arti (...). Esaminando i prodotti delle arti ci siamo accorti che alcuni sono più opera dello spirito, mentre altri sono più opera della mano. È questa, in parte, l’origine della superiorità che è stata attribuita ad alcune arti su altre e della distinzione che è stata fatta fra arti liberali e meccaniche. Tale distinzione, sebbene fondata, ha prodotto l’effetto dannoso di umiliare persone assai utili e degne della più grande stima e ha fatto nascere in noi il pregiudizio che (...) persino praticare lo studio delle arti meccaniche volesse dire abbassarsi a cose delle quali la ricerca è faticosa, la meditazione poco nobile, l’esposizione difficile, il commercio disonorevole, il numero infinito e il valore minimo (...). È per questo pregiudizio che le città sono piene di tronfi disquisitori e di contemplatori inutili e le campagne di piccoli tiranni ignoranti, oziosi e sprezzanti. Ma non è così che la pensano Bacone, Colbert e gli uomini saggi di tutti tempi(...). Mettete su un piatto della bilancia i vantaggi reali delle scienze più sublimi e delle arti più onorate e sull’altro quelli offerti dalle arti meccaniche e vi accorgerete che sono stati riveriti di più gli uomini occupati a farci credere di essere felici, che non quelli dediti a renderci felici realmente. È davvero un bizzarro pregiudizio! Da un lato pretendiamo che lavorino utilmente e al tempo stesso disprezziamo gli uomini utili.” (Dall’Encyclopédie di M. Diderot e M. D’Alembert, 1772)
2000, © Società Archeologica Padana s.r.l. Via R. Ardigò, 7 - 46100 Mantova Tel./Fax 0376-369611
In copertina: Una scena di abbattimento di tronchi tramite grosse scuri, raffigurata sulla Colonna Traiana
Sul retro:
Il carico di un blocco di marmo su un’imbarcazione
INDICE Premessa (Tiziano Mannoni)
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I. L A PIETRA 1. Genesi e classificazione delle rocce 2. Le pietre scelte per costruire: caratteri di lavorabilità e di resistenza meccanica 3. La coltivazione delle cave col sistema della ‘tagliata a mano’ 4. I trasporti via terra e via acqua 5. Le lavorazioni in cantiere: spaccatura, sbozzatura, riquadratura 6. Modanature e sculture 7. Principali cause di degrado 8. Nota bibliografica II. I
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MATERIALI CERAMICI
1. L’argilla: l’unica roccia plastica 2. Terre alluvionali e caolini 3. L’estrazione, la preparazione, la foggiatura 4. L’utilizzo dell’argilla cruda nelle costruzioni: il pisé e l’adobe 5. La cottura 6. Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici 7. I materiali ceramici usati nell’architettura 8. Principali cause di degrado 9. Nota bibliografica III. I
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LEGANTI , GLI INTONACI , GLI STUCCHI
1. Selenite, calcari e dolomie: le materie prime 2. I sistemi di estrazione 3. Il ciclo di lavorazione del gesso 4. La calce: cottura, spegnimento, impasto, presa 5. Far presa sott’acqua: le malte idrauliche 6. Gli intonaci 7. Gli stucchi 8. Pavimentazioni in ‘signino’ e ‘seminate’ 9. Principali cause di degrado 10. Nota bibliografica
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IV. I COLORI 1. Natura fisica e valutazione oggettiva del colore 2. Colori minerali, terre, ocre: ricerca ed approvvigionamento 3. I pigmenti più usati nell’architettura 4. La tecnica dell’affresco 5. Il fresco secco e la pittura a calce 6. La pittura a tempera 7. Principali cause di degrado 8. Nota bibliografica
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V. IL VETRO 1. I sistemi di approvvigionamento della silice 2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti 3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura 4. La produzione di lastre da finestra 5. Principali cause di degrado 6. Nota bibliografica VI. I
METALLI
1. Formazione e proprietà 2. Ricerca dei giacimenti e pratiche di estrazione 3. Il piombo e il bronzo 4. La metallurgia del ferro 5. L’uso del ferro nell’architettura 6. Principali cause di degrado 7. Nota bibliografica VII. IL LEGNO 1. Elasticità e resistenza: le proprietà dei tessuti legnosi 2. Tecniche di abbattimento 3. Stagionatura e lavorazioni 4. Utilizzo del legno nell’architettura 5. Principali cause di degrado 6. Nota bibliografica BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE ALLA COLLANA
Il volume di Aurora Cagnana è il primo di una nuova collana di manuali, dedicati alla ricerca archeologica e ai suoi metodi. Questa collana, che comprenderà una serie di brevi monografie tematiche, si propone come strumento di orientamento e di studio diretto a studenti di archeologia, a studiosi, ma anche ad un pubblico di non specialisti. Nel panorama dell’editoria italiana che si occupa di archeologia non esistono molti esempi di agili manuali, mirati a dare le informa zioni essenziali su di un tema specifico, molto diffusi invece all'estero, ad esempio nel mondo anglosassone. Il nostro intento è quello di col mare, almeno in parte, tale lacuna. Nella selezione dei temi da trattare, particolare attenzione verrà riservata alle metodologie della ricerca archeologica e agli aspetti interdisciplinari che negli ultimi decenni hanno contribuito ad un mutamento radicale delle prospettive a medio termine. Pur rimanendo inalterato e strettissimo il rapporto con la storia, l’archeologia si avva le sempre più dei metodi di altre discipline, tra cui quelli delle scien ze esatte e naturalistiche giocheranno in futuro un ruolo fondamenta le. Il loro potenziale informativo andrà ad integrare quello dei metodi tradizionalmente adottati in archeologia. Il recente riordino dei settori scientifico-disciplinari dell’Università, con il reinserimento del gruppo Metodologie della ricerca archeologica nell’ambito di Lettere e Filosofia contribuisce a sottolineare – se mai ce ne fosse bisogno - l’importanza di materie tecniche nell’ambito della moderna ricerca archeologica e nella formazione dell’archeologo. In
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seguito a questa scelta l’organizzazione della didattica archeologica subirà necessariamente delle modifiche; saranno quindi necessari nuovi strumenti di sintesi e di supporto alle lezioni universitarie. La nostra collana vorrebbe almeno in parte rivestire anche questa funzione. Ci proponiamo, poi, di lasciare spazio anche ai temi e ai problemi istituzionali: la formazione, i concorsi, gli sbocchi di lavoro, lo stato di salute della ricerca in Italia, in un momento in cui dibattiti e discus sioni sulla disciplina – molto vivaci in altre parti dell’Europa e del mondo – sono nel nostro Paese quasi completamente sopiti. Vorremmo, infine, avviare un confronto con le archeologie di altri paesi europei, aprendo un dibattito sui contenuti, sulle finalità e sui metodi della nostra disciplina, ospitando contributi di studiosi stranieri. GIAN PIETRO B ROGIOLO, GLORIA OLCESE
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PREMESSA
Ciò che colpisce di più delle costruzioni del passato è l’unità architettonica in esse realizzata: l’equilibrio e l’interazione tra materiali e strutture, tra strutture e funzione, tra funzione e forma, tra forma e stile, tra stile e materiali. Qualsiasi prodotto della mente umana diventa oggettivo, ed autonomo dal suo stesso “creatore”, quando sia realizzato in una materia stabile, che nel caso più semplice potrebbe essere la scrittura su fogli di carta raccolti in una biblioteca: il prodotto oggettivo e originale sopravvive finché quei fogli potranno essere conservati. Nelle arti figurative, ai materiali è affidata anche la resa e la conservazione delle forme, del colore e di altre proprietà delle superfici. Le opere architettoniche non sono state costruite, tranne in rari casi, soltanto per oggettivare un pensiero, o una bellezza estetica, ma devono svolgere anche funzioni pratiche, come il difendere dagli agenti atmosferici uomini, azioni e cose. Proprio per questo non sono a loro volta protette; ciò nonostante devono resistere nel tempo. In tutti i casi le scelte dei materiali presuppongono delle precise conoscenze oltre a quelle sulle loro qualità visive: la loro lavorabilità, e quindi le tecniche e gli strumenti adatti, e le loro resistenze agli sforzi ed alle cause ambientali di degrado; conoscenze, queste ultime, che richiedono, a loro volta, altre conoscenze sulle forze e sugli agenti degradanti, di varia natura, che operano in un edificio. Sembra impossibile che conoscenze complesse, che in certi casi sono ancor oggi discusse con l’aiuto della scienza, facessero parte del “saper fare” empirico; eppure l’archeologia dell’architettura, e la ricerca archeo-
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metrica condotta con strumenti scientifici, dimostrano le ottime scelte fatte fin dai tempi lontani per le costruzioni destinate alla lunga durata. Questa realtà non deve, d’altra parte, meravigliare se si tiene conto di come funzioni il sistema evolutivo della cultura materiale, che non vuol dire soltanto il saper fare dei poveri, o delle cosiddette arti applicate, ma che è necessaria per qualunque prodotto oggettivo della mente umana. Come il mondo vivente ha prodotto esseri quasi perfetti, per eliminazione delle varianti dannose, il saper fare, per analogia, registra come negativi tutti i tentativi mal riusciti, e ne trasmette la conoscenza di generazione in generazione, con l’apprendimento che avviene in ciascuna arte. Ciò spiega, per esempio, perché in culture di continenti differenti, ed in epoche diverse, si sia arrivati a scegliere le stesse materie prime, o le stesse lavorazioni e persino le stesse forme, in analoghe situazioni ambientali e funzionali (un esempio tipico è costituito dalle tecniche murarie). La differenza sostanziale tra l’evoluzione culturale di tipo empirico ed il progresso scientifico e tecnologico, come ha detto Francesco Bacone, sta nel fatto che con il primo modo si conosce la scelta migliore, ma non le sue spiegazioni, che solo il metodo scientifico può dare. Ciò che per lo scienziato sono le leggi della natura, per l’empirico sono le regole dell’arte. Questo spiega la lentezza dell’evoluzione della cultura materiale: lentezza che ha tuttavia il vantaggio di verificare nei tempi lunghi eventuali controindicazioni imprevedibili, incidente che si verifica, ogni tanto, con le tecnologie basate sulle più veloci previsioni scientifiche. Proprio alla mancanza di spiegazioni scientifiche sul buon funzionamento delle scelte fatte, si deve però, in buona parte, il prevalente carattere unitario dell’architettura preindustriale. In tale situazione, infatti, non era possibile progettare le forme solo in base alle funzioni ed ai valori estetici, demandando ai calcoli strutturali le scelte e gli impieghi dei materiali. Il costruttore doveva pensare a volumi e forme proporzionate ed armoniose, nelle quali le funzioni richieste venissero soddisfatte da soluzioni strutturali prevedibili con le “regole dell’arte” praticate, i cui materiali e la cui durata erano già ben noti. Contenuti. Avendo insegnato negli ultimi trent’anni le risorse naturali ai geologi, i caratteri costruttivi ed il degrado dei monumenti agli architetti ed agli archeologi, ho constatato la necessità di una guida snella alla conoscenza dei materiali storici da costruzione. Essa
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non deve essere considerata una qualche riduzione della scienza dei materiali, o delle diagnosi del degrado, ma neanche della storia della tecnica. Spesso chi studia e chi restaura, o conserva l’architettura storica, non ha affrontato nessuna di tali discipline, e non può capire la vera storia del monumento e del suo stato attuale, se non ha un’idea di quali e quanti problemi fisici, chimici e culturali, siano contenuti nei materiali con cui entra in contatto. Si tratta quindi di una guida propedeutica, già sperimentata da un po’ di anni sotto la forma di dispense, che rimanda per gli approfondimenti alle singole discipline. Ha il vantaggio, rispetto ai trattati specialistici, di mettere a confronto, per ogni materiale storico, le caratteristiche naturali, la storia del suo sfruttamento, delle tecniche di lavorazione e di messa in opera, le principali cause di degrado alle quali è soggetto. È evidente che l’interazione fra questi diversi aspetti è fondamentale sia per cercare di capire globalmente il monumento così come ci è pervenuto, sia per far sì che, in una visione globale, ciò che si pensa dei singoli aspetti non sia troppo lontano dalla realtà, e inoltre per sapere quali conoscenze sia necessario approfondire. 1. Delle scienze dei materiali ciò che più importa conoscere sono le classificazioni genetiche di quelli storicamente più usati, in rapporto alle loro caratteristiche fisiche e chimiche: lavorabilità ed effetti di superficie; resistenze meccaniche ed al degrado, in modo particolare. È ciò che empiricamente dovevano conoscere anche i costruttori del passato, per compiere scelte adatte ad edifici ben proporzionati, funzionanti e di lunga durata. I meccanismi genetici e le spiegazioni di tali caratteristiche sono spesso contenuti nei corsi delle scuole superiori, quando siano ben condotti. Essi sono comunque più complessi di quanto si possa sintetizzare in questa sede e si rimanda, pertanto, ad una adeguata bibliografia. Anche per le caratteristiche tecniche si mettono in evidenza le differenze, talora enormi, esistenti tra i vari materiali tradizionali, ma per calcoli e progettazioni vere e proprie bisogna ricorrere alle tabelle ufficiali di ogni singolo materiale. 2. Ogni materiale da costruzione, ha, ed ha sempre avuto, un suo ciclo di produzione, prima di essere messo in opera. Ciò perché non esistono in natura materiali da costruzione, ma soltanto risorse natu rali trasformabili in materiali, con processi semplici o complicati, ma ben precisi, dai quali è sempre dipesa una buona parte della qualità del costruito. Si chiama “risorsa naturale” una porzione dell’ambiente
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che, per esperienza accumulata nel tempo, si è dimostrata in grado di fornire materiali o energie utili. Solo per il legno la risorsa naturale può essere rinnovata con la silvicoltura. Ogni ciclo è composto di almeno due fasi, che sono tra loro quasi sempre legate da una interfaccia costituita dal trasporto. La prima fase consiste nella trasformazione della risorsa naturale in materia prima mediante un processo estrattivo, chiamato nella tradizione “coltivazione”, come le produzioni primarie effettuate dall’uomo (agricoltura). Per “materia prima” si intendono porzioni di risorsa scelte e prive di difetti, di dimensioni e forme adatte agli elementi costruttivi da realizzare, compatibilmente con il loro possibile trasporto. I lavoratori specializzati che operano la coltivazione (cavatori, minatori, boscaioli, carbonai, eccetera) fanno le prime scelte (zona dove estrarre, e come operare), fondamentali per il buon esito di tutto il ciclo; devono perciò conoscere le caratteristiche del materiale non meno bene che i lavoratori della fase, o delle fasi successive. La seconda fase consiste nel trasformare la materia prima nel materiale da costruzione, pronto da mettere in opera. Tali trasformazioni cambiano notevolmente da un materiale ad un altro: lavorazioni semplici, o complicate, che trasformano solo la forma della materia prima, ma non la sua composizione, come nelle pietre o nei marmi; oppure sequenze di operazioni che comportano anche trasformazioni nella composizione primaria, come nei laterizi e nelle malte. Ogni trasformazione richiede, oltre alla materia prima, anche energia, che viene fornita dal lavoratore quando si tratti di operazioni manuali; dalla cattura di energie naturali (come quelle idrauliche ed eoliche) quando la forza necessaria sia maggiore; oppure dalla coltivazione di combustibili (legna e carbone di legna), quando occorrano trattamenti termici (fornaci). Le energie derivano anch’esse, quindi, da risorse naturali e, per ragioni economiche, era meglio che fossero disponibili nello stesso territorio. Le scelte di certe risorse rispetto ad altre uguali, dipendevano spesso, per questo motivo, dalla vicinanza di fonti naturali di energia. Un altro fattore variabile, ma sempre più o meno presente, è il trasporto in cantiere di materie prime da lavorare, o di semilavorati, o di materiali già pronti. Si tratta quasi sempre di quantità notevoli, concentrate in unità voluminose, e quindi pesanti, quando non sia possibile lavorarle per aggiunta, come le malte e le argille, ma soltanto per asportazione (pietre, marmi, legno). Perciò il trasporto ha sempre costituito, prima delle ferrovie, un problema che andava calcolato, dal
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punto di vista tecnico ed economico, a priori. Un mulo non porta carichi superiori a 150 chili (due pietre di cm 20x20x70); un paio di buoi può tirare un carro con un carico di 800-1000 chili (un blocco di pietra di cm 100x100x35) su strade con pendenze non superiori al 3%; limiti pratici non ci sono invece per le navi ed i barconi da marmo. Ciò spiega perché le vie d’acqua fossero preferite, e fossero comunque le uniche che permettessero trasporti di blocchi molto grandi, come quelli da 100 tonnellate (obelischi egiziani portati a Roma, cupola monolitica di pietra d’Istria che copre il mausoleo di Teodorico a Ravenna). Di ogni ciclo completo esiste una storia del suo funzionamento globale, degli strumenti e delle tecniche di lavorazione e di trasformazione, dei mezzi di trasporto e della qualità della vita dei lavoratori. Come tutte le storie del “saper fare” vi sono fattori, come le caratteristiche naturali, che non cambiano nel tempo e nello spazio, ed una volta raggiunte le scelte migliori, per evoluzione della corrispondente cultura materiale, gli unici cambiamenti possibili riguardano la scoperta di nuovi materiali per realizzare gli arnesi da lavoro, o di nuove fonti di energia. Queste scoperte, che dipendono dall’evoluzione di altre culture materiali (metallurgia e motoristica, nel nostro caso), non possono in genere migliorare ulteriormente le qualità dei prodotti, ma incidono sui tempi, sui costi e sulla vita dei lavoratori. Nella coltivazione e lavorazione dei marmi, per esempio, gli Egizi avevano già raggiunto la migliore qualità nel terzo millennio avanti Cristo, con strumenti di pietra, di bronzo e di legno, e tale qualità non è migliorata con l’introduzione dell’acciaio, della polvere da sparo, del filo elicoidale, e del filo diamantato, anzi, si è dovuto stare attenti, per ridurre i costi di produzione con i nuovi strumenti, a non perdere anche qualche conoscenza antica che garantiva la qualità. 3. Nessun materiale, antico e moderno, presenta caratteristiche tali che gli permettano di resistere senza limiti agli agenti meccanici, o a quelli chimici e fisici propri dell’ambiente atmosferico (pioggia, vento e sbalzi termici). Per i primi basta imparare ad usare materiale di dimensioni adeguate ai carichi ed alle spinte, ed esso non si deteriora mai. Per quanto riguarda gli agenti ambientali, invece, l’esperienza accumulata nei secoli ha indicato quali materiali entrino in un quasi-equilibrio con tali agenti, nel senso che si hanno perdite di materiale molto deboli in tempi lunghi, e, soprattutto, tale degrado ha un andamento lineare. Tutti i materiali storici, il legno compreso, infatti, non invecchiano
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come avviene per i tessuti degli esseri viventi. Quando si parla di vecchiaia o di malattie della pietra, o di altri materiali da costruzione, si usano delle metafore di tipo antropocentrico; in realtà qualsiasi degrado, fisico o chimico, dipende esclusivamente da cause esterne al materiale stesso: nessun materiale cambia nel tempo le sue caratteristiche per cause sue proprie. La conoscenza degli agenti di degrado è quindi sempre stata una componente essenziale del saper costruire. Essa era inoltre alla base del saper fare la giusta manutenzione e conservazione delle parti che vengono esposte a cause inaspettate di degrado, o che siano giunte alla fine di un quasi-equilibrio (per esempio: intonaco esterno completamente consumato dopo secoli di esposizione). Nelle ricerche che prendono nome di “archeologia del costruito” lo studio dei materiali ricopre una parte importante, come in tutti i metodi archeologici. Al fine di stabilire, per esempio, le diverse unità stratigrafiche murarie di un edificio, i criteri si basano su cinque fattori: natura del materiale, sue tecniche di lavorazione, forma del paramento, misure degli elementi costitutivi e continuità del paramento stesso. Nelle ricerche archeologiche che prendono il nome di “archeometria” le informazioni vengono ricavate da un manufatto mediante analisi condotte con strumenti propri delle scienze naturali. Fra i dati archeometrici rientrano quindi: la determinazione della natura di un materiale, o della sua formula compositiva, se è costituito da un aggregato artificiale; le sue caratteristiche fisiche, chimiche e tecnologiche; il suo comportamento ai vari tipi di degrado. Certe analisi archeometriche possono servire, per molti materiali, a stabilirne anche la provenienza; da quale giacimento naturale cioè sono stati estratti. Questa informazione è utile per la storia costruttiva, ma anche per il restauro. Senza contare che alcuni materiali sono anche suscettibili di datazioni mediante orologi naturali: radiocarbonio e dendrocronologia per il legno, termoluminescenza ed archeomagnetismo per laterizi, terrecotte, forni e focolari. Se queste informazioni vengono inserite al loro giusto posto nell’indagine archeologica del costruito (sequenza stratigrafica, datazioni archeologiche ed analisi delle fasi storiche), confrontando il tutto con i valori estetici e le fonti socioeconomiche, è possibile ricostruire la storia fisica e culturale dell’edificio: passo indispensabile per qualunque progetto di conservazione, o di restauro. Ma è anche possibile accedere a problemi storici più generali, che il ripetersi di certe risposte può rendere meno oscuri. Quando, per esempio, è evidente che un mate-
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riale sia il migliore per essere usato in una certa parte dell’edificio, e in un certo ambiente, ed esso sia stato sistematicamente usato in un certo periodo, non si può pensare al caso, ma ad una sua precisa conoscenza. Certe conoscenze sono divenute addirittura simboliche: da migliaia di anni si usano espressioni come “basato sulla pietra”, “eterno come il granito”, “limpido come il vetro”. Si tratta evidentemente di metafore che fanno uso della cultura materiale: non a caso forse nell’antico Egitto si sceglieva il granito, anche se non lavorabile nel dettaglio come il calcare, per rappresentare le immagini indistruttibili dei Faraoni. Tiziano Mannoni
Aurora Cagnana
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I. LA PIETRA
1. Genesi e classificazione delle rocce Le rocce, componenti essenziali della litosfera, sono aggregati di minerali. Quelle costituite da una specie prevalente vengono definite monomineraliche; ne è un esempio il marmo, formato quasi interamente (98-99%) da cristalli di calcite (CaCO3); oppure la quarzite, costituita quasi unicamente da quarzo (SiO 2). Più frequenti sono però le rocce polimineraliche, formate cioè da diverse specie di minerali. Esistono vari criteri di classificazione, ma il più utile, al fine della conoscenza dei materiali da costruzione, è quello basato sull’origine, da cui dipendono molti caratteri di lavorabilità e di resistenza meccanica; non meno importante è inoltre la classificazione delle rocce in base alla composizione, ovvero alle specie minerali e alla struttura aggregativa, dalla quale dipendono molte caratteristiche chimiche e fisiche. A seconda della loro formazione nella dinamica della crosta terrestre, le rocce si suddividono in tre grandi categorie: magmatiche, sedimentarie, metamorfiche. Le rocce magmatiche, dette anche ‘ignee’, derivano dal consolidamento, in seguito al raffreddamento, di masse rocciose allo stato fuso, o liquido, provenienti da regioni profonde della crosta terrestre, o del mantello sottostante, dove regnano forti pressioni e alte temperature. Tale massa fluida, composta prevalentemente da silicio, ossigeno, alluminio, calcio, magnesio, sodio, potassio e ferro, prende il nome di
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
magma, finché contiene anche gas disciolti; se invece raggiunge la superficie terrestre liberando i gas viene detta lava. A seconda delle condizioni di raffreddamento si distinguono tre gruppi di rocce magmatiche: -intrusive o plutoniche, cioè formate in seguito al consolidamento lento del magma, risalito dalle zone più profonde della terra verso quelle meno calde, ma poste sempre a una certa profondità; -effusive o vulcaniche, che hanno origine per il raffreddamento veloce di magmi o lave, saliti in superficie allo stato pastoso o liquido attraverso i condotti vulcanici; -filoniane, formate dal consolidamento di piccole intrusioni di magma, senza fuoriuscita dalla crosta terrestre e a non grande profondità, in condizioni di raffreddamento intermedie fra le prime due descritte. A seconda del tipo di consolidamento, uno stesso magma può dare origine a rocce appartenenti a questi tre gruppi, distinguibili fra loro dalla struttura e tessitura, vale a dire dal genere, forma, dimensioni e tipo di aggregazione dei componenti minerali. La struttura è visibile a occhio nudo solo nelle rocce costituite da elementi grandi, altrimenti è osservabile al microscopio polarizzatore, oppure al microscopio elettronico. Una prima distinzione della struttura rocciosa dipende dalle dimensioni dei granuli dei minerali. Le rocce originate per lento raffreddamento hanno generalmente una struttura macrocristallina, sono cioè formate interamente da cristalli grandi, visibili a occhio nudo. Se i minerali hanno dimensioni pressoché uguali la struttura si dice anche granulare o pavimentosa. Questo tipo di struttura si trova nelle rocce magmatiche intrusive, come i gra niti; il lento raffreddamento del magma permette infatti una crescita ordinata dei cristalli di ogni minerale, che possono raggiungere anche dimensioni considerevoli. Le rocce effusive, poiché si sono raffreddate rapidamente, sono invece formate da minerali più piccoli; la loro struttura si dice perciò microcristallina se i cristalli sono visibili con una lente e criptocrista lina se essi sono visibili solo al microscopio, come in molti basalti. Un altro tipo di struttura è caratterizzata dalla presenza di pochi cristalli grandi (detti fenocristalli) immersi in una pasta di fondo criptocristallina o vetrosa, cioè amorfa. Questa struttura si dice porfirica ed è tipica dei porfidi, (i quali possono essere sia di origine effusiva, sia filoniana). Alcune rocce effusive (spesso appartenenti al gruppo dei basalti)
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hanno una particolare struttura detta intersertale (o ‘a feltro’), nella quale piccoli cristalli allungati formano un fitto intreccio i cui vuoti sono occupati da pasta criptocristallina o vetrosa. Vi sono infine rocce effusive formate completamente da una massa vetrosa, come le ossidiane, la cui struttura si dice anche ialina, oppure come le pomici, che presentano una particolare struttura detta pomicea, caratterizzata da un aspetto spugnoso, ricco di bolle; esse derivano infatti dal raffreddamento veloce di magma, cioè di materiale contenente anche sostanze gassose. Le rocce magmatiche, qualunque sia la loro struttura, non presentano direzioni di isorientamento dei minerali, o piani di prevalente sfaldabilità, ma soltanto fratture sferico-concentriche, o radiali, dovute a ritiri differenziati della massa rocciosa durante il raffreddamento. Le rocce sedimentarie sono chiamate anche ‘esogene’o ‘secondarie’, in quanto derivano dalle formazioni rocciose primarie, ovvero generate dall’attività magmatica della terra. Le sedimentarie clastiche (o ‘detritiche’) hanno origine dall’accumulo di frammenti provenienti dalla disgregazione di altre rocce più antiche, oppure di resti di esseri viventi. I fenomeni di erosione dipendono dall’atmosfera, e possono essere dovuti a molte cause; quella di tipo meccanico è legata agli sbalzi termici o all’azione dell’acqua, che penetrando nelle spaccature delle rocce ne provoca la frammentazione tramite fenomeni di gelo e disgelo (cfr. I.7.). L’erosione di tipo chimico agisce invece sulle rocce alterando determinati minerali o separandone le componenti solubili in acqua. Dopo il trasporto, che avviene in soluzione chimica o in sospensione nel ruscellamento, il deposito può avere luogo per gravità degli elementi litici distaccati dalla roccia madre, oppure per saturazione delle soluzioni in bacini dove le acque rallentano il movimento (pianure alluvionali, laghi, coste marine). Le rocce sedimentarie clastiche possono corrispondere a sedimenti sciolti, cioè non litificati, e in tal caso prendono il nome di rocce incoe renti; ne sono esempio un deposito morenico, una spiaggia marina, un banco di argilla. Se tali sedimenti vengono ricompattati (o litificati) si trasformano in formazioni rocciose coerenti. Tale processo, detto dia genesi, può avere luogo per costipamento, cioè in seguito alla compressione esercitata dal peso di altre rocce soprastanti, oppure per cementazione, vale a dire per il deposito di minerali (per lo più carbonati, ma talora anche silicati) trasportati in soluzione dall’acqua e ridepositati negli spazi fra i granuli sciolti.
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Sia i sedimenti incoerenti, sia le corrispettive rocce litificate vengono classificati in base alle dimensioni dei clasti che le compongono. Prendono così il nome di ruditi le rocce costituite da elementi di dimensioni superiori ai 2 millimetri; esse si suddividono in brecce, derivate dalla litificazione di clasti angolosi e in conglomerati, formati invece da ciottoli arrotondati. Le areniti (o arenarie) sono invece costituite da clasti di dimensioni comprese fra i 2 millimetri e i 63 micron, e derivano dalla litificazione di sabbie. Le siltiti, originate per diagenesi dei silts, o limi, sono costituite da clasti con dimensioni comprese fra i 63 e i 4 micron; mentre le argilliti, con clasti di dimensioni inferiori ai 4 micron, sono prevalentemente costituite da minerali argillosi. roccia incoerente
roccia derivata per diagenesi
dimensioni clasti
ghiaie, detriti di falda spiagge sabbie silts argille
brecce conglomerati arenarie siltiti argilliti
> 2 mm > 2 mm 2 mm-63 m 63 m - 4 m <4m
-Classificazione delle rocce sedimentarie clastiche-
Le rocce sedimentarie piroclastiche, sono un particolare tipo di rocce clastiche formatesi in seguito alla cementazione, dopo il deposito, di detriti rocciosi prodotti da attività vulcaniche di tipo esplosivo. A questo gruppo appartengono i tufi e le brecce vulcaniche. Tutte queste rocce coerenti hanno una struttura clastica, caratterizzata cioè dalla presenza di minerali e/o frammenti di rocce più antiche, più o meno selezionati per dimensioni (cioè “classati”) e da un cemento che le unisce. Le rocce sedimentarie di origine chimica si formano invece per precipitazione diretta da soluzioni sature derivate dall’alterazione di rocce più antiche. Fra queste si distinguono quelle carbonatiche, formate da carbonato di calcio (CaCO3), che è puro nei calcari, nei tra vertini, nell’alabastro calcareo, oppure combinato con magnesio nelle dolomie e nei calcari dolomitici. Un altro tipo di rocce sedimentarie di
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origine chimica sono le evaporiti, formate in seguito a precipitazione di sali per evaporazione del solvente; oltre al salgemma, vanno ricordate anche l’anidrite e il gesso, di notevole importanza fra i materiali da costruzione. Le rocce sedimentarie organogene derivano invece dall’accumulo di resti animali, quali gusci o scheletri, costituiti da carbonato di calcio oppure da silice. Spesso è difficile distinguere, fra le rocce sedimentarie, quelle di origine chimica da quelle organogene, perché talora le due componenti si alternano, come nel caso assai noto delle dolomie. In base alla composizione le rocce organogene si suddividono a loro volta in carbonatiche (o calcaree), come i calcari conchiliferi, le madre pore, i coralli e in silicee, fra le quali vanno annoverate le radiolariti, le diatomiti e i diaspri. Le rocce sedimentarie presentano sempre, in conseguenza della loro genesi, formazioni stratificate: ogni strato corrisponde infatti a un deposito del ciclo sedimentario; molto spesso i granuli di forma appiattita si presentano isorientati. Le rocce metamorfiche derivano anch’esse da rocce preesistenti -di tipo magmatico o sedimentario- che, in seguito a mutate condizioni di temperatura e pressione, all’interno della crosta terrestre, hanno subito trasformazioni tali da raggiungere una ricristallizzazione dei minerali che le costituiscono. Tale processo può dare origine a minerali nuovi, oppure a diverse forme e dimensioni di quelli già esistenti. Il grado di metamorfismo può essere più o meno elevato, a seconda delle condizioni di pressione e temperatura alle quali è avvenuto. Le rocce metamorfiche sono molto diffuse negli zoccoli continentali e nelle catene montuose, dove si sono verificate tali condizioni. Il metamorfismo provoca anche una variazione nella struttura delle rocce: molte assumono un aspetto scistoso, cioè caratterizzato da un isorientamento dei minerali, soprattutto di quelli lamellari, come le miche, che si dispongono perpendicolarmente alla pressione; da ciò deriva la presenza di piani paralleli, che determinano una notevole sfaldabilità. Fra le più frequenti rocce metamorfichee di aspetto scistoso vi sono: gli gneiss (a grana grossa), originati per metamorfismo dei graniti o di rocce clastiche da essi derivate (come le arenarie) e caratterizzati dalla stessa composizione mineralogica; i micascisti, (a grana più fine) derivati da rocce argillose e composti essenzialmente di quarzo e miche; i calcesicti (anch’essi a grana fine) derivati dal metamorfi-
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smo di sedimenti calcareo-argillosi e gli argilloscisti (a grana finissima) originati da basso metamorfismo di rocce argillose. Fra questi le ardesie liguri, particolarmente importanti fra i materiali da costruzione, sono un tipo di argilloscisto calcareo con forte isorientamento dei minerali. Un grado di metamorfismo più elevato presentano le filladi, anch’esse a grana finissima, particolarmente utilizzate per produrre lastre per le coperture. Piuttosto frequenti sono inoltre gli scisti verdi, derivati dal metamorfismo di rocce a chimismo basico e le quarziti, derivate da arenarie ricche di quarzo. Fra le rocce metamorfiche di aspetto non scistoso vi sono le ser pentiniti, di colore verde, derivate da rocce intrusive molto basiche, tipiche del mantello che si trova sotto la crosta terrestre. Il marmo, dovuto al metamorfismo di calcari puri, presenta invece una struttura pavimentosa, o granulare, simile a quella del granito, anche se, a differenza di quest’ultimo, ha sempre un piano prevalente di sfaldatura. La struttura del marmo viene detta anche ‘saccaroide’, perché caratterizzata dalla presenza di calcite in grossi granuli; essi sono il prodotto della ricristallizzazione completa dei piccolissimi minerali che formavano i calcari originari: a forti pressioni e a temperature attorno ai quattrocento gradi il carbonato di calcio si riorganizza dando origine a individui cristallini di dimensioni più grandi. Nei marmi di Carrara i minerali di calcite sono in media della dimensione di mm 0,2 e raggiungono talvolta i 2 millimetri. I marmi puri, costituiti quasi interamente (98% circa) di calcite, sono bianchi; quelli più lavorabili sono definiti ‘statuari’. Quelli colorati, detti ‘venati’, ‘nuvolati’, ‘bardigli’, ‘arabescati’, ‘mischi’, eccetera, a seconda di quanto e come è esteso il colore, derivano dal metamorfismo di calcari ‘impuri’; tali impurità possono essere costituite da granuli di silice, da argille, da idrossidi di ferro, che conferiscono colori dal giallo al rosa al verde, oppure da sostanze organiche, che danno colori dal grigio al nero. In seguito al metamorfismo tali impurità si trasformano in prodotti stabili: il carbonio delle sostanze organiche, ad esempio, si riorganizza in lamelle nere di grafite; gli idrossidi di ferro in cristalli rossi di ematite; grafite ed ematite possono anche migrare a formare zone di colore, dando luogo a marmi con venature grigie, rosse, gialle. I ‘cipollini’, marmi a base bianca con striature di colore, derivano invece da calcari ricchi in argille, trasformate dal metamorfismo in miche, isorientate in piani paralleli, con colorazioni verdi, grigie, dorate. I ‘mischi’, infine, sono conglomerati o brecce calcaree
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-Classificazione chimica e genetica delle principali rocce Oltre all’origine, anche la composizione chimica delle rocce riveste una notevole importanza, in quanto è alla base delle strutture cristalline dei minerali costituenti, dalle quali dipendono molti caratteri fisici. A seconda della composizione le rocce possono essere suddivise nelle seguenti categorie: - le rocce solfatiche sono costituite in prevalenza da gesso, cioè da solfato di calcio biidrato (CaSO4 2H20). Ne sono un esempio l’alaba stro gessoso di Volterra, facilmente lavorabile, ma poco resistente agli agenti atmosferici e in particolare all’acqua e pertanto più utilizzato per elementi scultorei e decorativi; la pietra da gesso, o selenite, uti lizzata, fin dall’epoca egiziana, per produrre leganti (cfr. III. 1.), ma talora anche come materiale litico; - le rocce carbonatiche sono costituite in prevalenza da carbonato di calcio (CaCO3). Sono abbondanti in natura e molte sono quelle utilizzate nell’edilizia, sia come materiale da costruzione, sia per produrre leganti: i calcari, le dolomie, i marmi, il travertino, l’alabastro calcareo. Le molecole di carbonato di calcio sono tenute insieme da legami ionici, pertanto le rocce carbonatiche sono attaccabili dagli acidi contenuti nelle piogge, siano essi naturali, come l’anidride carbonica, oppure dovuti all’inquinamento atmosferico, come l’anidride solforosa (cfr. I.7.);
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- le rocce silicatiche sono costituite prevalentemente da silice e da silicati. Le più importanti provengono da rocce magmatiche (graniti, sieniti, porfidi, trachiti, basalti) ma vi sono anche molte rocce sedimentarie (arenarie, tufi vulcanici, conglomerati, argille) e metamorfiche (gneiss, micascisti, filladi). In base alla percentuale di silice che contengono si possono distinguere: -rocce acide (SiO 2 > 65%) -rocce intermedie (SiO 2 = 65- 52 %) -rocce basiche (SiO 2 < 52%) La diversa composizione mineralogica delle rocce eruttive dipende dalla composizione chimica dei magmi originari, che si dicono ‘acidi’ se sono più ricchi di silicio e alluminio e ‘basici’ se ne sono meno ricchi, ma con notevoli tenori di ferro e magnesio. Le rocce basiche sono tipiche dei fondi oceanici e del sottostante mantello; quelle acide degli zoccoli continentali. Dalla diversa composizione chimica delle rocce magmatiche dipendono anche alcune caratteristiche macroscopiche quali il colore; quelle più silicatiche (dette anche sialiche) sono infatti costituite da minerali bianchi o comunque chiari (grigio-rosa); al contrario le rocce originate da magmi basici, ricchi di ferro e magnesio, dette mafiche, sono formate in prevalenza da minerali con una colorazione scura (verde-nero). Le rocce magmatiche chimicamente intermedie (o ‘neutre’) sono dovute a magmi basici, che risalendo si inquinano poiché fondono rocce acide della crosta continentale; fra queste vi sono le sieniti e le dioriti (di origine intrusiva) e le trachiti e andesiti ( di origine effusiva). Le rocce silicee sono costituite in prevalenza da silicati, cioè da minerali caratterizzati dalla presenza di tetraedri di atomi di ossigeno con un atomo di silicio al centro (cfr. V.1.). Tali molecole sono unite da legami covalenti, molto resistenti agli attacchi chimici e fisici, che formano tra loro maglie, piani, catene e anelli solidissimi e che inglobano con legami ionici altri elementi (cfr. II.1.). Altrettanto resistenti sono gli ottaedri di allumina, presenti in alcune famiglie di silicati. 2. Le pietre scelte per costruire: caratteri di lavorabilità e di resi stenza meccanica Attraverso lunghi processi di selezione empirica, e dopo ripetute prove di resistenza nel tempo, alcune rocce sono state scelte dall’uomo per essere utilizzate, con scopi diversi, nelle costruzioni. Nel corso dei
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secoli si è compreso che non tutte le pietre possono essere lavorate nello stesso modo e che non tutte possono essere destinate alla stesso scopo, ma che le diverse rocce si possono estrarre e lavorare secondo particolari direzioni di taglio e si prestano a essere impiegate con differenti funzioni; alcune sono più adatte alle strutture portanti degli edifici, altre agli elementi decorativi, altre ai rivestimenti, altre ancora alle coperture. Le possibilità di lavorazione delle rocce, la loro durezza, la resistenza alla compressione o alla trazione, il particolare tipo di degrado che possono subire dopo la messa in opera, dipendono strettamente dai caratteri naturali, vale a dire dalla composizione chimica e mineralogica (già viste prima), e dalle caratteristiche fisiche. La durezza, ovvero la resistenza alla scalfittura, è una caratteristica fisica dei minerali che dipende dalla natura e dalla resistenza dei loro legami chimici. Per misurarla si utilizza una scala empirica, costruita da Mohs in modo tale che ciascuno dei dieci termini che la compongono può scalfire il precedente ed essere scalfito dal successivo: 1. TALCO 2. GESSO 3. CALCITE 4. FLUORITE 5. APATITE 6. ORTOCLASIO 7. QUARZO 8. TOPAZIO 9. CORINDONE 10. DIAMANTE -La scala di Mohs -
Per le rocce la proprietà della durezza è invece più difficile da definire e può comprendere diversi tipi di resistenza meccanica: all’incisione, all’usura, alla segagione. Tali proprietà dipendono soprattutto dalla durezza dei minerali costituenti; le rocce silicatiche, ad esempio, sono generalmente più dure di quelle carbonatiche; è il caso dei graniti, che pur avendo una struttura granoblastica simile a quella dei marmi sono però molto più duri essendo formati da feldspati e da quarzo (minerali con durezza 6-7) e non da calcite (durezza 3) come i marmi.
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La durezza delle rocce monomineraliche corrisponde generalmente a quella dell’unico minerale costituente, ma piccole quantità di minerali più duri o più teneri possono variare considerevolmente il valore complessivo della roccia. Un calcare puro, ad esempio, interamente costituito da calcite è generalmente più tenero di un’arenaria, la quale, anche se presenta un cemento calcitico, è però comunque costituita da molti granuli di quarzo. Un’arenaria a cemento calcitico è comunque più tenera del granito, perché il cemento abbassa notevolmente il valore complessivo di durezza della roccia. Un granito è, a sua volta, meno duro dei cristalli puri di feldspato o di quarzo, sia perché contiene anche della mica, sia, soprattutto, perché i giunti fra i vari cristalli hanno legami sempre più deboli di quelli cristallini e pertanto riducono la durezza complessiva della roccia. La durezza di una roccia come materiale lavorabile viene considerata corrispondente alla resistenza alla segatura, e in relazione a tale proprietà, si utilizza la seguente classificazione empirica: • -rocce tenere sono considerate quelle facilmente tagliabili con seghe dentate d’acciaio (ad esempio gessi, tufi vulcanici e calcarei) • -rocce semidure sono invece tagliabili con seghe d’acciaio senza denti e con sabbia quarzosa all’80-95% (ad esempio calcari semicompatti, argillosi) • -rocce dure, sono quelle tagliabili solo con seghe lisce cosparse di smeriglio (ad esempio calcari compatti, marmi, serpentiniti, oficalci) • -rocce durissime, infine, sono quelle tagliabili solo con seghe lisce cosparse di diamante in polvere (ad esempio graniti, sieniti). Occorre comunque tenere presente che la maggiore o minore durezza dei minerali, da sola, non determina le possibilità di resistenza generale delle rocce nelle costruzioni. Le mura medievali di Bologna, ad esempio, ancora in buono stato di conservazione, sono realizzate in gesso, il meno duro dei minerali secondo la scala di Mohs. La durezza è però particolarmente importante nelle zone più sottoposte all’usura, quali i selciati stradali, gli scalini o le angolate degli edifici. La tenacità è invece una proprietà fisica delle rocce che consiste nella resistenza all’urto. Non va confusa con la durezza, dato che esi-
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stono rocce molto dure, ma non tenaci, come la selce, composta interamente da silice, ma molto fragile e poco resistente agli urti. In base a prove di laboratorio è stata elaborata una scala di tenacità di alcune fra le rocce più comuni, che pone in alto quelle più resistenti: B ASALTI PORFIDI PORFIRITI E ANDESITI DIORITI E GABBRI QUARZITI GRANITI E S IENITI ARENARIE A CEMENTO SILICEO CALCARI, DOLOMIE E MARMI SERPENTINI ARENARIE A CEMENTO NON SILICEO -Scala di tenacità di alcune rocce Oltre che dalla durezza dei minerali costituenti, la tenacità di una roccia dipende essenzialmente dalla sua struttura e coesione: è evidente dalla scala qui riportata che la tenacità è maggiore nella rocce microcristalline e criptocristalline. Ciò è dovuto al fatto che, a parità di volume, queste ultime hanno un numero maggiore di legami intercristallini, rispetto a quelle formate da cristalli più grandi. La tenacità è inoltre molto alta nelle rocce a tessitura intersertale, che è infatti sempre presente nei primi quattro gruppi. La resistenza alla compressione è quella che i corpi oppongono alle forze che tendono a romperli per schiacciamento. Tale carattere dipende sia dalla durezza dei singoli componenti (cioè dalla resistenza dei legami interni ai minerali), sia dalla struttura delle rocce (cioè dal tipo di contatti esistenti fra i vari cristalli). In genere resistono bene a compressione le rocce formate da cristalli duri, ben impilati fra loro, anche se tenuti insieme da legami deboli, come il granito. La resistenza alla trazione è quella che i corpi oppongono alle forze che tendono a smembrarli per stiramento. Ben di rado le rocce vengono poste in opera in modo da lavorare a trazione; tuttavia la resistenza alla trazione è importante perché determina quella alla flessione, che è invece piuttosto frequente negli elementi litici delle costruzioni.
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È il caso di un architrave, appoggiato sulle estremità e gravato dal proprio peso, oltre che da carichi addizionali; esso sarà soggetto a trazione in prossimità della faccia inferiore. Questo tipo di resistenza meccanica è, nelle rocce, generalmente bassa. MATERIALE
RESISTENZA A COMPRESSIONE
RESISTENZA A TRAZIONE
Basalto Porfido Granito Tufi vulc.
3200 Kg/cm2 1900 Kg/cm2 1800 Kg /cm2 80 Kg /cm2
80 Kg/cm2 60 Kg/cm2 40 Kg/cm2 10 Kg /cm2
Gneiss Ardesia Marmo
1300 Kg /cm2 1100 Kg /cm2 1300 Kg /cm2
120 Kg /cm2 400 Kg /cm2 40 Kg /cm2
Calcare Arenaria Travertino
1100 Kg /cm2 800 Kg /cm2 450 Kg /cm2
50 Kg /cm2 20 Kg /cm2 30 Kg /cm2
Laterizi Malta Legno Ghisa Acciaio
175 Kg /cm2 50-400 Kg /cm2 500 Kg /cm2 8000 Kg /cm2 2000 Kg /cm2
70 Kg /cm2 10-40 Kg /cm2 850 Kg /cm2 1400 Kg /cm2 6000 Kg /cm2
-Valori di resistenza meccanica dei principali materiali da costruzione
Se si osserva la tabella dei valori qui riportata, si nota come la resistenza a trazione è sempre molto inferiore rispetto a quella a compressione e oscilla fra 1/10 e 1/50 di quest’ultima. Ciò è dovuto al fatto che la resistenza a trazione dipende sostanzialmente dai legami intercristallini, che sono sempre più deboli di quelli interni ai singoli minerali. In genere sono più resistenti le rocce a grana fine o, in particolare, quelle microcristalline. Sono le dimensioni dei minerali che determinano lo stato di coesione della roccia: quest’ultimo è maggiore nelle rocce a grana fine perché, a parità di volume, aumentano le superfici dei vari cristalli e quindi i relativi legami, che sono la fonte principale della resistenza alla trazione. Essa è pertanto maggiore in un basalto, piuttosto che in un granito, in un calcare microcristallino, piuttosto che in un marmo
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saccaroide. Inoltre è alta anche nelle tessiture intersertali e in quelle con minerali allungati e isorientati, come gli gneiss e le ardesie. La divisibilità è un requisito fondamentale in relazione alla possibilità di estrarre e lavorare una roccia. Essa dipende dalla presenza di microfratture oppure di piani in corrispondenza dei quali la coesione e la resistenza delle rocce è minore o molto bassa. Le fasi di estrazione e di lavorazione hanno sempre sfruttato l’esistenza di queste superfici la cui presenza e frequenza può favorire o impedire determinati impieghi del materiale lapideo. Una formazione rocciosa potrà fornire blocchi grandi solo se i piani di divisibilità sono abbastanza distanziati; la presenza di un sistema fitto di piani di divisibilità può infatti impedire l’estrazione di grandi blocchi e favorire quella di lastre. La presenza, la disposizione e la frequenza di tali piani, dipende dalla tessitura stessa delle rocce. In quelle magmatiche i piani di divisibilità sono molto rari, e corrispondono essenzialmente alle spaccature naturali createsi per il ritiro durante il raffreddamento. L’estrazione e la lavorazione delle rocce magmatiche, pertanto, non può sfruttare che raramente la presenza di superfici preferenziali di taglio; per contro l’omogeneità della struttura consente una spaccatura precisa in qualsiasi direzione e quindi anche l’estrazione di grandi blocchi uniformi da usare come monoliti; è il caso dei grandi obelischi egizi, ottenuti in blocchi unici di granito, della lunghezza di decine di metri. Le rocce sedimentarie sono invece caratterizzate quasi sempre da formazioni stratificate, nelle quali si nota chiaramente la presenza di strati o di banchi separati fra loro da giunti dovuti a pause del processo di sedimentazione. Queste superfici di giuntura sono caratterizzate da una coesione bassissima o nulla della roccia, che lungo tali piani può essere spaccata ed estratta con poco sforzo. Se in corrispondenza dei giunti la divisibilità della roccia è massima, essa è comunque buona anche nella direzione parallela a quella della stratificazione, a causa dell’isorientamento frequente nei minerali. Nelle rocce metamorfiche caratterizzate da piani di scistosità (ardesie, gneiss, filladi) la maggiore divisibilità corrisponde invece ai piani di scistosità; quando questi ultimi sono molto ravvicinati (nell’ardesia o nelle filladi), le rocce sono più adatte alla produzione di lastre che non di blocchi lapidei. Se invece i piani di scistosità sono meno frequenti l’estrazione di pietra da ridurre in blocchi non è impossibile, purché uno dei piani di lavorazione venga fatto coincidere con quello della scistosità.
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Le rocce metamorfiche carbonatiche, costituite per lo più dai marmi, si presentano invece in grandi banchi omogenei ed è perciò più difficile riconoscere i piani preferenziali di divisibilità, che pure esistono e che sono dovuti al metamorfismo. Nei calcari debolmente metamorfosati, se il piano di scistosità non coincide con quello di sedimentazione, si formano facilmente scagliature a cuneo. I sistemi tradizionali di estrazione e di lavorazione della pietra hanno sempre sfruttato l’esistenza di tali piani, dei quali cavatori e lapicidi avevano una profonda conoscenza. Nel gergo degli scalpellini e dei cavatori, questo tipo di piano viene tradizionalmente indicato come ‘verso’. Il piano separabile più difficilmente viene definito ‘contro’. Spesso esiste una terza direzione di taglio, obliqua o sub-perpendicolare ai primi due, che viene definita ‘secondo’. Qui la divisibilità della roccia presenta valori intermedi fra il verso e il contro. Oltre al verso, o piano di divisibilità preferenziale, esistono nelle rocce altre fessure naturali (o litoclasi), variamente inclinate rispetto al verso. Nel gergo dei lapicidi vengono definite ancor oggi ‘peli’; alcune di queste, ricementate da minerali come calcite o quarzo, non com promettono la resistenza della roccia e non comportano per lo scalpellino il rischio di far deviare il taglio rispetto alla direzione prestabilita; in questo caso vengono indicate come ‘peli buoni’. Quando invece tali fratture rimangono aperte o sono cementate da argilla e rischiano di minacciare la resistenza della roccia, vengono definite ‘peli cattivi’. L’esistenza di tali piani naturali di sfaldabilità, fattore fondamentale per la lavorazione delle rocce, è non meno importante per la posa in opera del materiale. La disposizione delle pietre con il “verso” parallelo alla forza di gravità ne accelera infatti il processo di degrado, mentre la disposizione perpendicolare contribuisce alla buona durata del materiale. La lucidabilità è l’attitudine di alcune rocce ad assumere superfici lisce fino a speculari per fregamento con abrasivi sempre più fini, in maniera che ciascuno elimini le solcature lasciate da quello precedente. Attraverso tale abrasione i cristalli costituenti le rocce vengono tagliati su uno stesso piano, in modo da riflettere la luce nella stessa direzione. Ciò dà quell’effetto di brillantezza che è all’origine del significato etimologico del termine “marmo”, derivato appunto dal verbo greco “marmàiro” = io brillo.
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1- Microfotografie in sezione sottile di alcune delle rocce più usate come materiali da costruzione: 1 calcare (strati di calcite microcristallina); 2 arenaria (clasti e cemento) 3 marmo (struttura granoblastica o pavimentosa) 4) trachite (struttura porfirica) 5) basalto (struttura microcristallina feltrosa) 6) gneiss (struttura scistosa)
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Non tutte le rocce si prestano ad essere lucidate; in generale sono lucidabili le rocce più compatte, non lo sono quelle molto porose e poco coerenti. Anche la durezza è un requisito favorevole alla lucidabilità, ma è soprattutto importante l’omogeneità, cioè che non vi siano differenze eccessive di durezza fra i componenti, perché ciò impedisce una spianatura perfetta; ad esempio sono lucidabili sia il granito sia i marmi, anche se presentano, come si è visto, valori di durezza assai differenti. Non lo sono, invece, le arenarie quarzose a cemento calcareo. Le rocce lucidabili vengono genericamente chiamate “marmi”, nel linguaggio commerciale, e pertanto sotto tale definizione si comprendono anche le serpentiniti, le oficalci, i graniti, e persino certi calcari organogeni, come la cosiddetta “lumachella”. Occorre però ricordare che tale esteso significato non corrisponde a quello della classificazione petrografica delle rocce, che nel gruppo dei marmi comprende solo i calcari metamorfici. Per peso specifico apparente (PV) si intende il peso (espresso in g/cm3 oppure in Kg/m 3) di roccia allo stato naturale, mentre per peso specifico assoluto (PS) si intende il peso della pietra ridotta in polvere, in modo tale cioè da eliminare le porosità naturali. Il grado di compattezza di una roccia (C) è dato dal rapporto fra peso specifico apparente e peso specifico assoluto. Il valore di questo rapporto, sempre inferiore a 1, si avvicina tanto più all’unità quanto meno porosa è la roccia, cioè quanto più è compatta. Esiste anche un indice di porosità (Ip), che indica la percentuale dei vuoti presenti in una roccia: è pari all’1-2% in quelle molto compatte (graniti, calcari), mentre sale al 10-20% nelle rocce porose (tufi). ROCCIA
POROSITÀ REALI
travertini argilloscisti calcari compatti gneiss graniti basalti compatti serpentini
5-12% 0,4-10% 0,4-2% 0,4-2% 0,4-1,5% 0,2-0,9% 0,1-0,6%
-Tabella con i valori di porosità di alcune delle principali rocce
A livello pratico, però, per capire il comportamento dei materiali
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lapidei al degrado, è più importante conoscere il carattere della porosità, poiché sono soprattutto la comunicabilità e le dimensioni dei pori che determinano il tipo di permeabilità delle rocce. La porosità comunicante o di tipo capillare comporta un’alta penetrabilità dell’acqua nelle rocce (per imbibizione o per assorbimento). La porosità non capillare, invece, alleggerisce il peso delle rocce ma non le rende capaci di assorbire l’acqua. Il granito, ad esempio, pur essendo molto compatto, per la sua struttura pavimentosa presenta molti spazi intercristallini piccolissimi e comunicanti fra loro, nei quali l’acqua penetra lentamente. La pomice, invece, la roccia più leggera (l’unica che può galleggiare sull’acqua) e più porosa di tutte, ha però una particolare porosità, costituita da bolle di gas non comunicanti fra loro, e immerse in una massa vetrosa che la rende impermeabile. Dal tipo di porosità e quindi dalle possibilità di penetrazione dell’acqua dipende anche la maggiore vulnerabilità delle rocce al gelo. La gelività è infatti maggiore nelle rocce che presentano abbondanti pori di piccole dimensioni, dove l’acqua, per capillarità, penetra in tutte le direzioni, anche in salita (cfr. I.7.). Fra le caratteristiche termiche è particolarmente importante il coef ficiente di dilatazione dei materiali in seguito al riscaldamento. La presenza di calore crea un’agitazione termica negli atomi, in seguito alla quale aumenta la loro distanza di legame, determinando una dilatazione di tutti i composti cristallini. Si tratta di variazioni piccole, non percettibili, ma che, se esercitate con continuità sui giunti cristallini, finiscono per disgregare la roccia, poiché le dilatazioni e i ritiri differenziati possono vincere i deboli legami di superficie. Questo fenomeno è più forte nelle rocce polimineraliche, costituite da minerali con diversi indici di dilatazione; ma è notevole anche su rocce monomineraliche formate da cristalli, come la calcite, caratterizzati da dilatazioni differenti a seconda degli assi cristallini (cfr. I.7.). I suoi effetti sono accentuati, inoltre, nelle regioni in cui gli sbalzi termici sono veloci, e in certe parti del costruito, come gli spigoli, dove la dispersione del calore (e quindi il raffreddamento) è più veloce che in altri punti. ROCCIA graniti basalti arenarie
COEFFICIENTE DI DILATAZIONE 0,000008 0,000005 0,000004
-Tabella con alcuni valori di coefficienti di dilatazione
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Anche la conducibilità termica è un carattere fisico importante. In genere i materiali molto porosi (come la pomice) sono anche più isolanti. Nelle rocce meno conduttrici le differenze di temperatura tra zona e zona si equilibrano più lentamente, aumentando gli effetti dannosi degli sbalzi termici. La refrattarietà, ossia la resistenza alle alte temperature, è un altro carattere fisico delle rocce, particolarmente importante per la costruzione delle fornaci destinate alla produzione di materiale edilizio come calce, mattoni, ferro, vetro. 3. La coltivazione delle cave col sistema della ‘tagliata a mano’ In tutte le epoche i ‘cicli’ produttivi corrispondono a sequenze di operazioni concatenate fra loro, attraverso le quali la materia diventa manufatto. La prima fase di ogni ciclo è costituita dall’estrazione, che consente di attuare il passaggio dalla risorsa naturale, o materia potenziale, alla materia prima vera e propria. Essa diviene tale solo nel momento in cui viene individuata, selezionata ed estratta per essere sottoposta a processi più o meno complicati di lavorazione. Per le rocce i luoghi dell’estrazione sono le cave, dove si organizza la ‘coltivazione’, attraverso una lacerazione del sottosuolo che permette il prelievo organizzato della materia. La parte superficiale di ogni roccia si presenta alterata dagli agenti atmosferici e dalla vegetazione, che vi si radica succhiando le sostanze nutritive, e, al tempo stesso, rallentando l’erosione. Questo strato, che va eliminato per raggiungere la formazione rocciosa sana, prende il nome di ‘cappellaccio’. Esso è nascosto dal suolo (costituito da sostanze organiche e da una parte della roccia alterata), la cui profondità dipende sia dal tipo di roccia, sia dal clima, (nelle regioni tropicali si trovano anche 200 metri di suolo e di roccia alterata prima di raggiungere la formazione sana). Anche in passato il lavoro di estrazione doveva necessariamente essere preceduto da operazioni di ricerca e di ‘assaggio’ del terreno, al fine di scoprire l’ubicazione dei giacimenti di pietra adatta a essere lavorata. In questa prima fase di prospezione si dovevano anche verificare la consistenza del deposito, le sue caratteristiche di sfruttabilità e l’andamento dei piani preferenziali di divisibilità (o versi), in base ai quali veniva organizzato il taglio della pietra e stabilito l’orientamento della cava. Non è facile ricostruire quali fossero esattamente le operazioni
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seguite per individuare un buon affioramento roccioso, ma è assai probabile che i ‘prospettori’ fossero guidati dall’osservazione di crolli o di franamenti d’erosione che mettevano occasionalmente a nudo porzioni del sottosuolo. L’ubicazione di un giacimento poteva inoltre essere riconosciuta anche in base alla presenza di ciottoli nei corsi d’acqua che lo attraversavano, analogamente a quanto avveniva, ancora in tempi recenti, per la ricerca dei giacimenti metalliferi (cfr.VI.2.). Una volta individuato il deposito di materiale lapideo adatto alle necessità, si provvedeva a organizzarne la coltivazione. Questa era necessariamente condizionata dal tipo di formazione: le rocce sedimentarie, infatti, sono sovente costituite da depositi stratificati più o meno profondi e regolari, mentre quelle intrusive sono rappresentate da ammassi la cui forma deriva dalle cavità naturali riempite dal magma, sono perciò costituite, generalmente, da blocchi tentacolari solidificatisi negli interstizi della crosta terrestre. Il giacimento roccioso può inoltre costituire l’intera struttura di rilievi collinari o montani, modellati dall’erosione, oppure può formare il sottosuolo di aree pianeggianti. Pertanto, a seconda del materiale e dei caratteri geomorfologici del deposito, venivano organizzati diversi tipi di coltivazione. Quando i giacimenti si trovavano a mezza costa sui rilievi, l’estrazione a cielo aperto determinava l’apertura di grandi cave a gradoni, disposte ad anfiteatro lungo i fianchi della montagna. Esse erano adatte allo sfruttamento di rocce caratterizzate da una certa omogeneità su un fronte sufficientemente ampio da permettere di fare avanzare la superficie lavorabile in modo uniforme e progressivo. In genere l’altezza dei gradoni era orientata in base all’andamento naturale della roccia, cioè, laddove possibile, con il piano di distacco corrispondente al verso principale. Per fronte di cava si intende la parete verticale verso monte, perpendicolare alla superficie di distacco; la sua altezza aumentava via via che procedeva la coltivazione e che diminuiva il deposito disponibile. Pertanto, per evitare di esaurire la cava, la zona di coltivazione veniva estesa in senso orizzontale. La base del gradone era in genere costituita da una piattaforma, o ‘piazzale di cava’, sulla quale si facevano ricadere i blocchi staccati, predisponendo appositi cuscini di schegge, che permettessero di attutire i colpi durante la caduta. Nelle zone pianeggianti, le cave a cielo aperto potevano essere invece del tipo a fossa e cioè caratterizzate dall’abbassamento graduale della superficie del suolo, operato con grandi trincee scavate in successione.
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2- Organizzazione di una cava: fronte a gradoni e piazzale antistante (da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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La coltivazione in sotterraneo, tipica delle miniere, era invece molto rara per le rocce ed era utilizzata solo allo scopo di sfruttare affioramenti particolarmente pregiati, una volta esauriti in superficie. Assai noto è l’esempio delle cave romane di Aurisina (Trieste): calcare parzialmente marmificato che veniva coltivato in galleria, lasciando però intatti dei grandi pilastri rocciosi per il sostegno del “tetto”. Anche il marmo dell’isola di Paros, simile a quello di Carrara, ma a grana più grossa, bianchissimo, molto pregiato e adatto alla scultura, era coltivato in galleria: ai tempi di Plinio veniva infatti chiamato lychnìtes, cioè estratto “alla luce delle lampade” (Nat. Hist. XXXVI, 14). L’ardesia ligure, fino ad epoche molto recenti, era coltivata con un sistema di avanzamento nell’estrazione dei blocchi dall’alto al basso, (denominato ‘da tetto a letto’), del quale esiste una straordinaria documentazione iconografica risalente al 1838. Il sistema tradizionale usato per il distacco ordinato dei blocchi, senza il quale era impossibile la coltivazione sistematica della cava, viene definito ‘tagliata a mano’. Esso consisteva nel separare, con appositi strumenti, i sei lati che definivano il parallelepipedo.
3- Operazione di estrazione dei blocchi con picco e cunei (da ADAM 1989 rielaborata)
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Nelle cave a gradoni due lati (quello frontale e quello del piano orizzontale) erano già liberi; per separare gli altri tre lati verticali si operava un solco di delimitazione, a monte e ai fianchi, della stessa altezza del blocco da estrarre. Fino a una profondità di 50-60 centimetri il cavatore poteva lavorare dall’alto, inginocchiato o in piedi, usando picchi a lunga immanicatura (cfr. oltre). Se invece il blocco era di dimensioni maggiori, il solco doveva essere una vera e propria trincea, tanto larga da consentire al cavatore di scendervi. Un esempio eccezionale di quest’ultimo sistema è conservato nelle cave del cosiddetto “tempio G” di Selinunte, in Sicilia, abbandonate in seguito all’interruzione del grandioso cantiere, seguita alla distruzione della città nel 409 a.C.. Anche l’omogeneità del materiale condizionava lo spessore dei blocchi e quindi dei gradoni della cava: per marmi e graniti, caratterizzati da rare spaccature, l’altezza poteva essere scelta con maggior libertà rispetto alle rocce sedimentarie, costituite da formazioni stratificate.
4- L’estrazione dei tamburi destinati al tempio G di Selinunte, rimasti nella cava di Cusa (da ADAM 1989)
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5- La coltivazione ‘a tetto’ dell’ardesia ligure in un disegno del 1838 (da SAVIOLI 1988)
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6- I principali strumenti usati per l’estrazione dei blocchi: picco, cunei, mazza e leva
Per lo stacco definitivo, in corrispondenza della faccia di base, si usava un altro sistema. La cava veniva scelta e organizzata in modo che tale piano corrispondesse al ‘verso’, dove minore era la resistenza della roccia alla trazione. Alla base del blocco si scavavano degli alloggi con sezione a ‘V’, (detti ‘formelle’ dai cavatori di Carrara), ottenuti con punta e mazzuolo e posti a distanze regolari, ma tanto più ravvicinati quanto più resistente era la roccia; in tali alloggi venivano conficcati, a colpi di mazza, dei cunei; dovevano perciò essere abbastanza profondi da evitare che essi raggiungessero il fondo. Il loro scopo era infatti quello di ripercuotere sui lati la forza proveniente dall’alto. Il principio è infatti lo stesso di una macchina semplice, costituita da due piani inclinati contrapposti che trasformano una forza perpendicolare (colpi di mazza) in due forze parallele alla superficie e opposte, tali da vincere la resistenza della roccia alla trazione. Tale
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spinta, se esercitata lungo una fila orizzontale continua di cunei, parallela al piano di sfaldatura, è infatti in grado di provocare una somma di forze che porta il blocco a staccarsi nettamente. Per ottenere tale risultato è necessario battere i cunei con gradualità, fino a portarli contemporaneamente alla stessa pressione, ciò che invece non si può ottenere spingendo un solo cuneo fino in fondo. L’abilità di questo lavoro era basata anche sull’esercizio dell’udito: conficcato nella formella, il cuneo produce infatti un suono che varia man mano che aumentano la profondità e la pressione; il cavatore si regolava perciò in modo da far produrre a ciascuno lo stesso suono, sempre più acuto. Quando tutti i cunei erano “in tiro” il lavoro si fermava, attendendo solo lo stacco della roccia. Per ricostruire la storia degli strumenti utilizzati per l’estrazione (così come per le successive fasi di lavorazione) esistono sia fonti indirette, come quelle iconografiche, sia fonti dirette, o archeologiche, costituite cioè da documenti materiali. Tra questi il ritrovamento di strumenti originali costituisce un caso piuttosto raro (nelle cave di Carrara, ad
7- Tracce di un’antica tagliata presso Botro dei Marmi (Livorno). Si noti la parte superiore costituita da roccia alterata (cappellaccio) e la parte inferiore, con la formazione sana
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8- Schema del meccanismo di spaccatura di un blocco lapideo tramite un cuneo
9- Tracce degli alloggi dei cunei visibili su un blocco del Capitolium di Luni (La Spezia - I sec. a.C.)
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esempio, si sono rinvenuti non più di venti oggetti); più facile è invece analizzare le tracce di lavorazione ancora visibili, sia nei monumenti, sia nelle cave. Tuttavia poiché l’arte della pietra è basata su una progressiva asportazione della materia, ovvero su una lavorazione ‘a levare’, ogni strumento cancella inevitabilmente le tracce di quelli precedenti. Pertanto sono gli scarti di produzione, i pezzi non finiti, le cave abbandonate prima di avere terminato lo sfruttamento, che consentono di trarre le informazioni maggiori. In base a queste diverse fonti sono stati elaborati utili repertori che descrivono i vari strumenti per la lavorazione della pietra e indicano, per ciasscuno, il tipo di tracce che lasciano e la cronologia del loro utilizzo; il più completo è quello curato da Bessac (cfr. I.8.), che abbraccia tutta l’area mediterranea e che copre un arco cronologico compreso fra l’antico Egitto e l’età contemporanea. A seconda del loro uso gli strumenti si possono suddividere in tre principali categorie: quelli a percussione diretta (o lanciata), che scalfiscono direttamente la pietra, e cioè: il picco da cava, la picchetta, la scure (o martellina liscia, molto in uso, ad esempio, in Italia centrale, per la lavorazione dei tufi), la martellina dentata a taglio verticale (o a zappa), (usata ancora di recente per l’ardesia ligure), e infine la bocciarda (o martello a punte), che venne introdotta nel XVII secolo in Francia e successivamente in Italia. Gli strumenti a percussione indiretta, invece, sono costituiti da punte, scalpelli, gradine; denti di cane e per essere usati devono essere battuti da percussori; perciò il loro utilizzo impegna entrambe le mani del lapicida. Le punte possono essere a terminazione grande (se vengono usate per sgrossatura) o fine (se servono alla spianatura delle superfici). Gli scalpelli, oltre ad avere una ricca scala dimensionale, possono essere a taglio curvo o diritto. Fra i primi si distinguono le ‘ugnole’, (cioè unghie), usate per piccole asportazioni, dalle ‘sgorbie’, più grandi e utilizzate soprattutto per il legno. Le gradine sono particolari scalpelli a 3 o più denti. Non vanno confuse col ‘dente di cane’, caratterizzato da un ‘passo’ più grande e che determina un taglio meno fine. I percussori possono essere lignei, lapidei o acciaiosi. La mazzetta in legno, ad esempio, da scultura, era già usata nell’antico Egitto per modellare pietre tenere. I percussori litici, molto usati nella preistoria, divengono sempre più rari dopo l’introduzione dei metalli, mente quelli acciaiosi non compaiono prima del 1000 a.C.
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10- Strumenti a percussione indiretta: la punta. Esempi di varie forme e dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione con la quale va usata (da BESSAC 1986)
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11- Strumenti a percussione diretta: la martellina. Esempi di varie forme e dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione con la quale va usata (da BESSAC 1986)
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12- Strumenti a percussione indiretta: la gradina. Esempi di varie forme e dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione con la quale va usata (da BESSAC 1986)
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13- Strumenti a percussione diretta: la bocciarda. Segno lasciato sulla pietra e inclinazione con la quale va usata (da BESSAC 1986)
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Per il lavoro di estrazione, oltre ai cunei (lignei o acciaiosi), a punte e mazzuoli, necessari per praticare le ‘formelle’, ai percussori, costituiti da bocce litiche o da mazze acciaiose, erano usati strumenti a percussione diretta con lunga immanicatura, necessari per l’incisione dei solchi sui tre lati del blocco e, infine, leve per sollevare i pezzi staccati. Il materiale estratto veniva ribaltato sul piazzale di cava, in attesa di essere trasferito sul cantiere o in laboratorio per essere finito e posto in opera. Sul piazzale veniva spesso avviata già una prima lavorazione; se, ad esempio, erano richiesti blocchi piccoli, era bene provvedere già in cava alla divisione. Inoltre gli elementi appena staccati presentavano spesso forme irregolari, zone diffettose (o lesionate durante il taglio o la caduta) che era bene scartare, anche per diminuire il carico da trasportare. Le iniziali operazioni di preparazione del materiale, in cava, erano compito di artigiani specializzati, che facevano uso di cunei anche per la suddivisione dei blocchi, oppure di seghe a lame non dentate, azionate in modo da penetrare gradualmente nella pietra per oscillazione, con continuo impiego di acqua e sabbia. Un momento importante era costituito dalla eliminazione delle zone difettose, che avrebbero compromesso la lavorazione finale. Le parti da scartare venivano tolte con la mazza, quindi una prima riquadratura era operata con punte grosse e mazzuoli, con i quali si eliminavano le sporgenze e le irregolarità maggiori. Tuttavia la lavorazione giungeva raramente a uno stadio avanzato, dato che le difficoltà del trasporto potevano provocare danni e scalfire il materiale, sul quale si preferiva perciò lasciare uno strato di scarto che, in qualche modo, fungeva da protezione. Le rocce più dure e tenaci, come il granito, rischiavano meno di essere danneggiate durante il trasporto. I sistemi di coltivazione della pietra fin qui descritti sono assai antichi. Attività estrattive per procurarsi la selce, con la quale fabbricare utensili, sono documentate già dalla fine del Paleolitico, quando pare venissero effettuate con picconi di osso, come attestano precisi ritrovamenti in Inghilterra. Tuttavia occorre arrivare al 2800 a.C. circa per avere le prime testimonianze archeologiche di coltivazioni sistematiche, destinate alla produzione di elementi per un’attività un’edilizia monumentale. Le più antiche cave all’aperto attualmente note si trovano nei deserti egiziani; molte risalgono al periodo tolemaico o a quello romano, ma non mancano attestazioni databili
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all’antico Egitto. Particolarmente famosi sono gli studi sull’obelisco di Assuan, la cui estrazione dalla cava, rimasta incompiuta, ha offerto preziosi dati alla conoscenza delle più antiche tecniche estrattive. Gli Egizi erano in grado di coltivare il granito, tramite il sistema della tagliata a mano, molti secoli prima dell’introduzione degli strumenti in metallo acciaioso. Per tracciare i solchi si servivano di percussori litici, costituiti da bocce di dolerite (roccia magmatica intrusiva più tenace del granito), con le quali macinavano progressivamente la pietra. L’utilizzo di questo sistema è dimostrato sia da prove dirette, come la cava di Assuan, dove si sono rinvenuti i resti delle bocce stesse e delle tracce lasciate dal loro uso, sia dall’iconografia, che attesta l’impiego di simili utensili in vari stadi della lavorazione della pietra. Per il distacco definitivo è probabile che si utilizzassero cunei di legno, molto secco, che dopo essere stati inseriti negli alloggi, (predisposti con piccoli percussori o con scalpelli di bronzo) venivano bagnati con acqua, per farli dilatare, in modo da provocare le spinte che causavano il distacco del blocco dalla roccia madre. In questo modo si poteva estrarre e tagliare anche il granito, che, come si è visto, ha una resistenza alla trazione pari a 40 kg a cm2. Il sistema poteva non funzionare se nella roccia erano presenti litoclasi (‘peli’) non visibili dall’esterno, i quali provocavano una deviazione rispetto alla linea di rottura stabilita. È appunto questa circostanza che deve avere determinato l’abbandono dell’obelisco di Assuan, prima che ne fosse portata a termine l’estrazione. L’utilizzo di grandi blocchi lapidei, provenienti dalla coltivazione di cave, è testimoniato inoltre presso le civiltà minoica e micenea, ma è nei grandi cantieri dell’epoca greca arcaica che la tecnica della tagliata a mano conobbe una diffusione notevole e un progressivo perfezionamento. È probabile che, come sostengono alcuni studiosi, i Greci avessero appreso la litotecnica dalla civiltà ittita, piuttosto che dall’Egitto, dove l’uso degli strumenti in ferro pare non sia stato introdotto prima dell’età tolemaica. Al grande sviluppo della stereotomia greca si deve probabilmente l’introduzione della gradina, apparsa verso la fine del VI secolo a.C. e il cui impiego è forse da collegare alla scultura in marmo. Con l’epoca ellenistica la tecnologia della pietra conobbe un’espansione notevole, diffondendosi in tutto il bacino del Mediterraneo e nell’Europa occidentale e adattandosi a svariati tipi di rocce. In epoca romana si generalizzò l’impiego del marmo, esteso anche
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14- Schema cronologico dei principali strumenti per la lavorazione della pietra e tipo di percussori con i quali vanno usati: + di pietra tenace; x di rame o bronzo; O di legno; I di ferro acciaioso (da MANNONI 1993)
all’edilizia privata, tanto che in età imperiale esistevano molte cave, in tutto il Mediterraneo, di marmi bianchi e colorati; le tecniche estrattive erano ancora quelle messe a punto nell’Ellenismo, ma l’organizzazione del lavoro era divenuta più complessa e articolata. Lo studio epigrafico delle sigle che compaiono sovente sui blocchi di marmo, (sia nelle cave sia nei pezzi trasportati nei magazzini di Ostia e Roma) ha permesso di conoscere molti aspetti organizzativi delle cave, che generalmente erano di proprietà imperiale. Nei distretti marmiferi più grandi, ogni area estrattiva era contraddistinta, come unità di lavoro, col termine officina, oppure, come unità amministrativa, veniva definita caesura; al suo interno poteva essere suddivisa in più settori (bracchia), ciascuno con un suo responsabile. I vari procu ratores, posti a capo di una o più cave nelle singole provincie, dovevano far capo a un procurator marmorum, residente a Roma. Essi sorvegliavano anche le concessioni degli appalti, dati su singoli settori, ai
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quali corrispondeva una fitta rete di squadre di lavoro. Queste ultime avevano una struttura sociale composita: accanto a lavoratori di condizione servile comprendevano uomini condannati ai lavori forzati, ma anche artigiani liberi; il loro operato era generalmente sottoposto alla sorveglianza di militari. Con il tardoimpero le attività estrattive registrano una sensibile diminuzione e diverse cave importanti, come quelle africane di Simitthus (Chemtou) o quelle di Luni (Carrara), non presentano tracce di coltivazioni posteriori al IV-V secolo d.C. Recenti indagini archeologiche condotte nelle cave di calcare poste nei pressi di Nîmes, hanno registrato l’esistenza di coltivazioni di età tardoantica condotte ancora con sistemi di tradizione romana, ma assai semplificati e ‘degenerati’; le cave sono infatti caratterizzate da maggiore irregolarità nell’organizzazione, dalla mancanza di tracce di estrazione di blocchi grandi, e inoltre dalla drastica riduzione della gamma tipologica degli strumenti. Nei secoli dell’Altomedioevo si verifica, in tutto il Mediterraneo, una progressiva scomparsa delle attività di estrazione della pietra, fatta eccezione per alcune regioni dell’impero bizantino, quali l’area siro-palestinese e l’Armenia, dove l’antica tradizione della tagliata a mano sembra sia sopravvissuta senza apparenti interruzioni. Una generale ripresa delle attività estrattive interessa il Mediterraneo occidentale a partire dal XII secolo in poi, anche se in talune regioni se ne trova traccia già nei primi decenni dell’XI secolo. Poiché la litotecnica riappare, dopo secoli di abbandono, in maniera improvvisa e in forme tecnologicamente assai mature, è del tutto logica l’ipotesi che la reintroduzione dell’antica stereotomia classica sia avvenuta tramite il contatto diretto con le regioni orientali del Mediterraneo. Conoscere attraverso quali forme ciò avvenne, costituisce attualmente uno dei temi più complessi, ma anche più suggestivi, della storia della cultura materiale. Ciò che pare invece un dato sicuro è il fatto che l’organizzazione delle cave di materiale lapideo, in età medievale, riflette la nuova frammentazione politica, alla quale sono evidentemente dovute le leggere differenze di strumentazioni e di tecniche riscontrabili da una regione all’altra. Lo studio dei resti di alcune tagliate ancora visibili nei giacimenti marmiferi di Carrara, ad esempio, ha permesso di distinguere le tracce delle coltivazioni medievali da quelle di epoca romana; le prime sono caratterizzate da maggiori irregolarità, dalla mancanza di un procedimento a gradoni molto estesi, dalle dimensioni variabili (ma
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15- Funzionamento del taglio tramite filo elicoidale (da L. T. MANNONI 1984)
comunque piccole) delle tagliate, da avanzamenti curvi, o molto inclinati. In generale però le cave di pietra dell’Europa medievale sono molto più conosciute dallo studio delle fonti scritte che non da analisi archeologiche. Solo a partire dal XVIII secolo si registra un tentativo di innovazione nei sistemi estrattivi tradizionali, rappresentato dall’uso degli esplosivi. La carica esplodente, per lo più ‘polvere nera’ (formata da carbone, salnitro e zolfo) veniva inserita entro lunghi fori, ricavati con stretti scalpelli, detti ‘fioretti’. Per ottenerli occorreva che un cavatore tenesse retto lo scalpello sulla pietra, facendolo ruotare di 20-30°, mentre un altro lo batteva con la mazza. Anche se questo sistema (definito ‘varata’ nelle cave di Carrara) consentiva un notevole risparmio di energia muscolare umana, comportava però svantaggi notevoli: la maggior parte del prodotto era infatti inutilizzabile per le ridotte dimensioni o per le numerose incrinature; troppo era lo spreco di materiale, e, non ultimo, enormi quantità di detriti ten-
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16-Le tracce del filo elicoidale visibili in una cava di ‘pietra del Finale’ (Savona)
devano a soffocare le cave. Per tali ragioni l’uso degli eslposivi rimase un fatto molto limitato. Una radicale innovazione fu costituita invece, alla fine del secolo scorso, dall’introduzione del taglio con filo elicoidale. Presentato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1889 e di lì a poco introdotto in molte cave (a Carrara comparve nel 1895) esso era basato sull’utilizzo di tre fili di acciaio, avvolti a spirale. Dovevano essere abbastanza lunghi (1 Km circa) da formare un grande anello, tenuto in tensione da pulegge che lo facevano scorrere, mentre si abbassavano gradatamente sulla roccia. Il filo trascinava una miscela di acqua e sabbia silicea che provocava una progressiva abrasione della pietra. Questo sistema non era adatto per le rocce molto dure, oppure per l’ardesia, troppo fine, e perciò facile a impastarsi. Più recentemente è stato soppiantato dal filo diamantato, una lega metallica che contiene granuli di diamante industriale.
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4. I trasporti via terra e via acqua In ogni epoca il costo del trasporto, in termini di fatica umana e di tempo, era tra i più alti di tutte le operazioni del cantiere. Nei casi in cui la zona di estrazione si trovava in aree montane, la prima fase del trasporto era rappresentata dalla discesa dalla cava verso il piano, tramite percorsi che generalmente si effettuavano su forti pendenze, e lungo i quali i blocchi dovevano essere frenati. Un sistema frequente era l’approntamento di piste costituite da piani inclinati, lungo le quali venivano fatti scendere i blocchi, legati a slitte di legno (‘lizze’) che scorrevano su travicelli disposti trasversalmente, frenate con funi agganciate ai bordi del percorso; il graduale allentamento delle funi consentiva un lento avanzamento dei carichi. Nelle cave greche del marmo pentelico si conservano straordinarie testimonianze di tale sistema, costituito da una via in forte pendenza,
17- La discesa dei blocchi da una cava tramite ‘lizzatura’(da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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ai lati della quale si trovano ancora i fori usati per i pali dove venivano avvolte e fatte scorrere le funi destinate a frenare le slitte. Nelle cave di marmo di Carrara la ‘lizzatura’ è stata in uso fino a epoche recenti. In pianura il trasporto dei blocchi (o dei semilavorati) necessitava invece di sistemi di traino; nell’antico Egitto, essi erano effettuati tramite slitte trascinate dalla forza di centinaia di uomini, mentre nell’antichità classica e nelle epoche successive veniva generalmente impiegata energia animale. Un mulo non può trasportare più di kg. 150 di materiale (vale a dire non più di due blocchi di cm 20x25x50 circa), mentre un paio di buoi è in grado di trainare un carro con un carico di circa 800 chilogrammi; il trasporto di pesi maggiori era reso possibile moltiplicando gli animali aggiogati. Un tale sistema era certamente in uso presso gli antichi greci: 18- Carri per il trasporto del marmo a lo studio della nota epiCarrara, agli inizi del secolo grafe che registra i conti per la costruzione del portico del telesterion di Eleusi (I.G.II, 1673 datata al 333/332 a.C.), ad esempio, documenta l’impiego di 27-40 coppie di buoi per ogni viaggio. Dalle testimonianze iconografiche offerte da modellini in terracotta, è stato possibile ricostruire l’aspetto dei carri per trasporti pesanti usati sia dai greci che dai romani: erano formati da quattro ruote piene e dotati di un piano orizzontale in legno; i carichi potevano esservi posti superior-
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mente, oppure venire sospesi al di sotto. Il traino di grandi blocchi, effettuato aggiogando molte coppie di buoi, è attestato ancora all’inizio di questo secolo, e solo da pochi decenni è stato completamente sostituito dall’introduzione di speciali automezzi. Il trasporto meno costoso era rappresentato, in ogni epoca, dalle vie d’acqua; anzi, si può affermare che non di rado la fortuna commerciale di un materiale da costruzione era legata alla vicinanza di vie marittime o fluviali. L’ampia diffusione dei graniti egiziani in età romana è forse in parte legata alla presenza del Nilo, così come quella dei marmi di Luni alla relativa vicinanza delle montagne marmifere alla costa.
19- Il carico di un blocco di marmo su un’imbarcazione (da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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Per i trasporti pesanti erano necessarie imbarcazioni speciali denominate naùs lithagogoì dai greci e naves lapidariae dai romani. L’archeologia subacquea ha permesso di individuare numerosi relitti affondati, con carichi di marmo del peso di 100-200 tonnellate. Il ritrovamento, nei grandi porti fluviali di Ostia, di molte centinaia di blocchi di marmi e pietre pregiate provenienti dalla Sardegna, dalla Grecia, dall’Africa, dall’Asia Minore, ecc., attesta l’entità del traffico marittimo che convergeva su Roma. Dai magazzini posti presso i bacini portuali, attraverso canali artificiali, i blocchi di cava o i semilavorati risalivano il Tevere, probabilmente con apposite imbarcazioni fluviali. Anche per l’età postclassica è attestato un notevole movimento di pietre da costruzione tramite le vie d’acqua: nel periodo delle Crociate circolavano carichi di marmi provenenti dalla depredazione di monumenti classici, mentre, nei secoli seguenti, le fonti scritte (contabilità di cantieri, atti notarili, ecc.) informano dell’esistenza di apposite imbarcazioni per il rifornimento dalle cave, come nel caso degli approvvigionamenti per l’Opera del Duomo di Firenze (XIV secolo) o di quello di Milano (XV secolo). Lo sfruttamento dei calcari prealpini dell’area lombarda e veneta era dovuto, in larga misura, alla presenza di vie fluviali e lacustri che permettevano di rifornire i grandi cantieri delle città padane. Assai significativa è inoltre, a questo proposito, la varietà lessicale utilizzata nei documenti notarili di Carrara (secc. XV-XVI) per indicare diversi tipi di barche con i relativi carichi: “leuti”, “saette”, “naviglioni” per il traffico costiero, oppure scafi a fondo piatto per risalire l’Arno. 5. Le lavorazioni in cantiere: spaccatura, sbozzatura, riquadratura Prima della posa in opera, gli elementi destinati alle strutture murarie ricevevano, generalmente in cantiere, una preparazione finale che poteva essere più o meno complessa. Lo stadio più semplice era costituito dalla lavorazione detta a ‘a spacco’, che consisteva nel fratturare la roccia con uno o più colpi, eseguiti a percussione diretta, con un martello tenuto leggermente inclinato. Il colpo emette infatti onde elastiche a compressione e rilasciamento, parallele alla direzione di trasmissione; la parte della materia
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20 (a/b)- La lavorazione a spacco, effettuata con strumenti a percussione diretta, consente di ottenere con poco impegno due superfici piane
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direttamente a contatto col percussore si comprime e si rilascia trasmettendo l’onda alla materia posta a fianco. Nelle rocce tenere un solo passaggio può rompere subito tutti i legami, mentre in quelle tenaci e poco sfaldabili una buona parte di essi resiste alla percussione. Di conseguenza quanto maggiore è la tenacità delle rocce, tanti più colpi, ripetuti nello stesso punto, saranno necessari per spaccarla. Poiché le rocce sedimentarie e quelle metamorfiche sono caratterizzate dalla presenza di piani preferenziali di divisibilità (cfr. I.2.), la lavorazione a spacco più conveniente è sempre quella parallela a tali piani. Le murature identificabili con l’opus incertum descritto da Vitruvio (che, anche dopo l’età augustea, dovevano essere molto più diffuse di quanto non si creda), erano formate da pietre lavorate a spacco, in corrispondenza del ‘verso’ o di un ‘pelo’. Tale operazione non richiedeva un lapicida specializzato, ma poteva essere svolta anche da un semplice garzone; essenziale era invece l’abilità del muratore per il lavoro di posa in opera, quello cioè che garantiva la statica del muro. Le strutture in pietre lavorate a spacco tornarono ad essere assai in uso in età postmedievale, anche perché erano solide, pur essendo prive di qualità estetiche; l’aspetto ‘disordinato’ dei muri era generalmente nascosto da rivestimenti intonacati e affrescati. Oltre che per le pietre da muro la lavorazione a spacco era adatta anche per la produzione di lastre; nell’ardesia ligure, ad esempio, un solo colpo, provocato (nella direzione del verso) con una sbarretta di ferro su una lama d’acciaio detta “scalpella”, era sufficiente a dividere la roccia in un blocco di cm 60 x 60. La citata immagine del 1838 che riproduce fedelmente le operazioni di estrazione dell’ardesia (cfr. Fig. 5), mostra che, in questo caso, la lavorazione a spacco era effettuata in cava, forse per ridurre il peso del trasporto. Anche le tessere dei mosaici venivano ottenute spaccando con colpetti decisi piccole lastre, precedentemente tagliate nella direzione del verso. Con una lavorazione a spacco si poteva anche frantumare la pietra per ottenere pietrisco, da utilizzare per la produzione di calcestruzzo, oppure come inerte nelle malte (cfr. III. 4). La sbozzatura rappresenta uno stadio di lavorazione più complesso. Può essere effettuata con strumenti a percussione diretta, come mazzuoli o picchi dal manico corto, usati al posto delle punte, oppure da strumenti a percussione indiretta, per lo più punte, battute da
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21- Muratura ‘da scalpellino’ formata da conci regolari, con angoli di 90°
23- Muratura ‘da muratore’, formata da elementi non lavorati o, al massimo, spaccati
22- Muratura ‘da sbozzatore’, costituita da elementi che tendono alla regolarità, pur non essendo riquadrati
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mazzuolo: una mano percuote, l’altra aggiusta il tiro. I colpi non devono essere perpendicolari, per non provocare onde di compressione che non fuoriescono più dalla pietra, e ne rompono alcuni legami interni i quali, col tempo, possono provocare nella roccia fratture parallele alla superficie. È una lavorazione che procede gradualmente, con piccoli colpi molto inclinati, tali da provocare fratture localizzate; ciascuno fa partire una scheggia di pochi centimetri. In cava il lavoro di sbozzatura poteva essere effettuato per regolarizzare i blocchi estratti (che comunque mantenevano superfici irregolari) ed eliminare spigoli troppo a rischio nei trasporti. Oppure poteva servire ad adeguare la geometria a quella del manufatto finale. In cantiere venivano invece preparati tramite sbozzatura i blocchetti lapidei da impiegare nelle murature a corsi orizzontali. Rientrano in questa categoria i blocchetti costituenti le murature che gli archeologi francesi definiscono petit e moyen appareil, a seconda delle dimensioni. Questo tipo di lavorazione era in uso sia in età classica (opus reticulatum, e vittatum) sia in età medievale (cosiddetto ‘filaretto’). In questo caso la lavorazione delle pietre doveva essere compito di appositi ‘sbozzatori’ che dovevano disporre di materiale estratto da cava, oppure di sistematiche raccolte di ciottoli, di grandezza ben selezionata. La squadratura è invece un’operazione assai complessa, che richiede una specializzazione artigianale maggiore. Permette di ottenere blocchi, anche di grandi dimensioni, della forma di regolari parallelepipedi; la loro realizzazione necessita di apposite forniture di cava e pertanto, a differenza delle prime due, non può essere effettuata su materiale raccolto, soprattutto quando si tratta di grandi quantità. Per la squadratura si usano per lo più strumenti a percussione indiretta, che consentono di praticare una scheggiatura localizzata; con le rocce tenere si possono usare però anche strumenti a percussione diretta. Per la riquadratura delle pietre sono necessarie delle righe, con le quali si misurano e si individuano le superfici, e delle squadre, indispensabili per produrre elementi con angoli di 90°. Ciò spiega perché proprio questi oggetti sono sovente rappresentati nelle lapidi funerarie di scalpellini. Questi ultimi dovevano evidentemente conoscere, oltre ai caratteri delle rocce e all’uso degli strumenti, anche alcune regole empiriche di geometria.
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24- Successione delle operazioni necessarie per la riquadratura di un blocco: realizzazione del primo spigolo con scalpello e mazzetta; traguardo (dopo aver individuato il secondo spigolo con la squadra da 90°) per l’individuazione del terzo e quarto spigolo; spianatura della faccia così delimitata (con punta, o gradina, o martellina); ribaltamento del blocco e individuazione del secondo spigolo della seconda faccia con la squadra da 90° (disegno di Zanella 1999)
È significativo constatare come, nella terminologia usata per indicare le murature in conci squadrati, venga appunto sottolineato, in ogni epoca, l’aspetto della regolarità geometrica: saxum quadratum è infatti la definizione data da Vitruvio (De Arch. I,V, 8) e quadrato lapi de è l’espressione che ricorre in età medievale. La squadratura di ogni singolo concio è una lavorazione piuttosto lunga, che nelle rocce semidure o dure può richiedere anche sei-otto ore di tempo. La prima operazione consiste nel realizzare il bordo della prima faccia, usando scalpello e mazzuolo, in modo da ottenere
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25- Una scena di cantiere, tratta da un manoscritto del XIII secolo, nella quale sono raffigurati, alla base del muro in costruzione, alcuni scalpellini intenti a squadrare dei blocchi (da BINDING, NUSSBAUM 1978)
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il tipico ‘nastrino’ di contorno. Il secondo bordo viene quindi scolpito a 90° rispetto al primo, servendosi di una squadra. Il terzo spigolo, che deve essere ortogonale e complanare agli altri, viene individuato con esattezza ponendo un’asticella di legno in orizzontale sul bordo già pronto e ‘traguardando’ poi la superficie, cioè osservandola in posizione leggermente scostata, in modo che l’asticella guidi l’occhio nell’individuazione del punto giusto. La superficie verrà poi spianata con altri strumenti: punta, oppure gradina, e mazzuolo. Una volta finito il primo piano il blocco viene ribaltato per ottenere la seconda faccia: un primo lato viene individuato con la squadra a 90°, mentre il secondo lato della seconda faccia, oltre a essere ortogonale al primo, dovrà anche essere parallelo al lato del primo piano. Le operazioni di rifilatura degli altri bordi e di spianatura delle altre facce procederanno poi nello stesso modo. La lavorazione più facile è, ovviamente, quella della faccia corrispondente al verso, mentre in quella coincidente con il ‘contro’ la disponibilità della roccia a rompersi è assai minore. Generalmente gli scalpellini preparavano i conci a piede del muro, come attesta la documentazione scritta e iconografica, anche per meglio collegare il loro lavoro con quello dei ‘posatori’, cioè dei muratori che ponevano in opera le pietre; tuttavia non mancano casi in cui la squadratura dei conci veniva operata già in cava, o comunque lontano dalla zona del cantiere. Un simile procedimento è stato utilizzato per la fornitura dei blocchi ai cantieri di alcune cattedrali gotiche del Nord della Francia. Lo hanno dimostrato specifiche ricerche, dalle quali sono emersi singolari fenomeni di standardizzazione nelle misure dei conci utilizzati sia per le murature, sia per i pilastri, sia per le volte. Tale procedimento rendeva indipendente il lavoro degli scalpellini e dei muratori, (che per la posa in opera erano talora guidati da piante o schemi di montaggio), e, soprattutto, consentiva ai lapicidi di lavorare anche durante i mesi invernali, quando il cantiere era fermo. In definitiva, da quanto fin qui esposto, si comprende come lo studio delle opere murarie non possa essere disgiunto da quello della litotecnica; l’aspetto esteriore dei muri, infatti, dipende strettamente dal grado di lavorazione delle pietre e quest’ultima non è che il prodotto finale di un ciclo produttivo, più o meno complesso, nel quale entrano in gioco diverse figure artigianali, come è schematizzato nella seguente tabella.
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Cicli produttivi e gerarchie delle varie figure artigianali dell’arte della pietra (da MANNONI, 1993)
6. Modanature e sculture Lavorazioni più complesse sono alla base degli elementi più elaborati: architravi, stipiti, cornici modanate, capitelli, rilievi, oppure vere e proprie sculture a tutto tondo. Gli strumenti necessari per la realizzazione di tali pezzi non sono molto diversi da quelli utilizzati per l’estrazione e per la squadratura delle pietre: scalpelli, punte, gradine e relativi percussori; la differenza è però costituita dalla loro vasta gamma dimensionale, necessaria per ottenere anche i dettagli più piccoli. Altri strumenti utilizzati per la scultura sono il tornio (impiegato per la pietra a partire dal XVII secolo) e il trapano. Quest’ultimo era già in uso nella preistoria, per forare vaghi (o perline) da collana: era costituito da affilate punte di selce, opportunamente fissate su un’asticciola che veniva fatta girare velocemente fra le due mani. Sfruttando questo principio in età classica vennero realizzati il trapano ad arco (o violino) e il trapano a corda, leggermente diversi per il sistema di trasmissione del movimento. Entrambi erano infatti costituiti da una punta fissata su un’asta; nel primo caso però il movimento veniva prodotto arrotolando la corda attorno all’asta e muovendo l’arco avanti e indietro; nel secondo, invece, il trapano era tenuto da un artigiano, mentre i capi della corda erano retti da un aiutante e mossi velocemente avanti e indietro; questo sistema richiedeva
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26- Tracciamento di un capitello corinzio sul pavimento antistante il Mausoleo di Augusto a Roma (da HASELBERG 1994)
l’impiego di due persone anziché di una, ma permetteva una maggiore libertà di movimento. In età medievale venne introdotto il trapano ad asta, costituito ancora da uno scalpello inserito su un’asta di metallo o legno, ma azionato con una traversa inserita orizzontalmente, mossa dall’alto verso il basso. Più tardi venne introdotta la cosiddetta ‘trivella gallica’, costituita da una manovella ad angoli retti, tenuta con due mani. Per la levigatura delle superfici si usavano invece raspe e materiali
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abrasivi, come le arenarie e la pietra pomice; mentre la lucidatura finale era generalmente ottenuta con abrasivi più fini, come l’ematite macinata, detta anche ‘rossetto’. Le tracce degli strumenti si possono riconoscere sia in opere incompiute, sia in quelle che presentano zone non finite, magari sul retro o comunque nelle parti destinate a non essere viste. In generale, nei lavori di scultura, la prima fase era eseguita con punta grossa, tramite la quale si operava una preliminare aggressione della materia, per arrivare a una sbozzatura del pezzo. In una seconda fase si procedeva a una definizione maggiore della forma, utilizzando strumenti più fini (scalpelli a taglio diritto e rotondo, gradine, trapano) che asportavano piccole porzioni di materia. In una terza fase si usavano strumenti a taglio ancora più piccolo, per rendere la modellatura dei particolari. Nella politura, infine, la pietra, che aveva raggiunto ormai le forme definitive, interessava soltanto come superficie, e veniva progressivamente lisciata e lucidata, cancellando i segni degli strumenti usati in precedenza. Come nelle operazioni estrattive e nelle altre lavorazioni, i caratteri della roccia e dei piani di divisibilità, erano il presupposto fondamentale per ogni scultore; di conseguenza la direzione in cui la lavorazione era maggiore veniva fatta coincidere con quella del ‘verso’. Nelle rocce dure, come quelle magmatiche, silicatiche, (cfr. I.1.) non è possibile realizzare una lavorazione di dettaglio, che dia il senso del movimento: tali pietre sono state scelte quando si volevano ottenere opere scultoree caratterizzate da una notevole rigidità, e tali da dare il senso della durata nel tempo; è il caso, ad esempio, delle statue dei faraoni dell’Antico Egitto o di quelle degli imperatori dell’età tetrarchica, realizzate in granito o in porfido. La scelta di tale materiale ben si prestava alle raffigurazioni frontali, più adatte a esprimere la ieraticità e il distacco dal mondo terreno dei personaggi-simbolo del potere; meno interessava, evidentemente, la resa realistica dei tratti del volto, impossibile da ottenere con tali rocce, che impediscono di realizzare un distacco netto dal piano di fondo. La conquista della raffigurazione umana realistica, con la scultura di età greca e romana e, più tardi, gotica e rinascimentale, è necessariamente legata a un notevole sfruttamento delle rocce calcaree e dei marmi carbonatici, caratterizzati da una minore durezza. Sia nell’antichità che nel Medioevo, o nelle epoche successive, i lavori di scultura potevano avvenire in cantiere, oppure in apposite
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botteghe, anche se non mancano testimonianze (soprattutto per l’età romana) di lavorazioni portate a uno stadio assai avanzato già in cava. Numerose fonti iconografiche attestano la presenza di modanatori e scultori intenti a produrre elementi architettonici o capitelli nei pressi di un edificio in costruzione, all’aperto o protetti sotto apposite tettoie. Esistono anche suggestive prove archeologiche del loro operato, quali i ‘graffiti di cantiere’: disegni tracciati sul pavimento, oppure sulle pareti, che riproducono timpani, archi, capitelli, 27- La sagoma di mezza finestra gotica tracelementi di finestre, ciata in scala 1:1 sul pavimento della terrazgeneralmente in scala za superiore della cattedrale di Clermont1:1. Questi tracciamenti Ferrand (da CLAVAL 1988) erano in uso sia in età classica, come attesta quello assai famoso relativo al cantiere del Pantheon, realizzato a terra, sia in età medievale, come provano quelli celebri rinvenuti a Reims, su una parete. A Limoges, Narbonne, Clermot-Ferrand graffiti in scala reale relativi a profili di finestre, portali, guglie, pinnacoli, ed ad altri elementi architettonici modanati, erano stati riprodotti, sul pavimento della terrazza superiore, negli spazi rimasti liberi fra gli archi rampanti. È assai probabile, come sostengono alcuni studiosi, che essi rappresentassero il disegno di base sul quale venivano costruite le sagome lignee utilizzate dai lapicidi.
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28- Esempi di trapani da scultura: ad arco, ad asta, a corda e ‘trivella gallica’ (disegno di Zanella 1999).
L’uso di modelli in argilla o in gesso era indispensabile per la scultura a tutto tondo; ripensamenti, ritocchi, trasformazioni, impossibili da realizzarsi con la pietra, erano invece permessi con questo genere di materiali. Solo quando il modello era pronto poteva essere trasferito nella pietra, con le stesse dimensioni o in scala maggiore. Era questo un lungo lavoro che si basava su sistemi di misurazione tridimensionali, necessari a riportare le proporzioni e le fattezze del modello con precisione. Leon Battista Alberti, ad esempio, descrive un sistema complesso per ricopiare il prototipo di una figura a tuttotondo, basato su una ruota graduata, da porre sopra la statua, per poi misurare tutti gli angoli e le distanze fra i punti salienti.
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29- Uno scultore in atto di effettuare le scanalature di un sarcofago strigilato, usando un trapano a corda azionato dal garzone (da ADAM 1989)
Esistevano però anche sistemi più semplici, basati su rapportatori costituiti da ‘sonde’, posizionate su tre punti fissi di riferimento, in base ai quali si trasferivano misure e proporzioni dal modello alla pietra. Spesso questa parte più ripetitiva del lavoro veniva eseguita da apprendisti e aiutanti, mentre i ‘maestri’, dopo avere eseguito il modello, si limitavano a completare le rifiniture e a curare i dettagli dell’opera terminata. Rari erano gli artisti che, come Michelangelo, non usavano modelli, perché dotati di una straordinaria capacità di realizzare il progetto direttamente nella pietra. 7. Principali cause di degrado Finché una roccia non viene scelta e prelevata dall’uomo, continua a far parte della litosfera e, in quanto tale, resta sottoposta alle lente
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trasformazioni geologiche e agli equilibri che regnano nella crosta terrestre. È solo dopo la sua estrazione e il suo impiego nell’architettura che inizia ad essere eposta a modificazioni molto veloci, dovute a vari agenti antropici o naturali. Ciò equivale a dire che l’impiego di una roccia dà avvio alla storia del suo degrado, e che tale processo risulta inscindibile dalla storia di ogni edificio. Lo studio del degrado dei materiali lapidei può essere di due tipi: uno semplicemente descrittivo, finalizzato soprattutto a interventi pratici e uno più propriamente conoscitivo, volto a comprendere le cause dei vari tipi di degrado e a classificarne i vari agenti. Per la descrizione degli effetti e della morfologia dei fenomeni di degrado si utilizzano definizioni elaborate dal NORMAL, unicamente allo scopo di unificare la termiologia e non per dare una spiegazione delle cause dei vari tipi di degrado. Si consideri infatti che molti fenomeni sono dovuti a un concorso di più cause, oppure che le stesse cause sono all’origine di fenomeni diversi, pertanto è parso più utile mettere a punto una classificazione basata sull’aspetto fenomenologico del degrado, tale da aiutare gli operatori o gli studiosi a fornire una descrizione universalmente riconosciuta. Le definizioni Normal possono essere così suddivise: 1)Fenomeni che producono apporto di materiale estraneo, i quali possono: - non trasformare i materiali originali - trasformare i materiali originali 2)Fenomeni che producono asporto di materiale originale 3) Fenomeni che non producono né asporto né apporto di materiale. Il degrado per apporto, senza alterazione dei materiali originali avviene nei casi seguenti: - deposito superficiale di polveri (particellato atmosferico); - concrezioni, formate per azione dei carbonati trasportati in soluzione dall’acqua e ridepositati in superficie. In questi casi l’acqua evapora e i carbonati cristallizzano all’esterno della muratura; si tratta perciò di un degrado essenzialmente estetico; - macchie, dovute soprattutto alla vicinanza di metalli. Esse sono originate dal deposito, nei pori superficiali, di idrossidi di ferro, o carbonati di rame, trasportati in soluzione dall’acqua, ma che non alterano la roccia;
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- la scialbatura, effettuata in passato per proteggere il materiale e in particolar modo il marmo, può causare la formazione di pellicole di carbonato di calcio; - anche le patine organiche, non portano alterazioni. Sono dovute alla presenza di proteine o di grassi (oli dati in passato, ad esempio, oppure derivati dal grasso delle mani). In alcuni casi possono essere pulite con solventi chimici, ma poiché non alterano i materiali, possono anche essere lasciate sui monumenti, dei quali manifestano lo spessore degli anni. Gli ossalati, ad esempio, di colore marroncino, sono dovuti alla reazione del carbonato di calcio con l’acido ossalico. Quest’ultimo costituisce il tipo più semplice di acido organico, ed è molto stabile. La sua formazione può essere legata a tre tipi diversi di cause: presenza di composti organici (proteine od oli protettivi) degradati in ambiente atmosferico, al contatto con i carbonati; degrado di licheni; presenza di ossalati dati nel secolo scorso come protettivi. Nel degrado per apporto che causa anche alterazioni dei materiali originali, rientrano invece i seguenti casi: - formazione di patine biologiche (soprattutto in aree umide), costituite da colonie di batteri o da alghe monocellulari. La loro azione sul materiale lapideo è molto lenta, mentre sono invece più dannose sui legni; - incrostazioni di licheni, funghi o muschi, che sono spesso causa di aggressioni maggiori alle rocce, specialmente attraverso la soluzione chimica di alcuni minerali, e in quanto trattengono le acque piovane; - presenza di vegetazione costituita da piante superiori, dannosa per la penetrazione delle radici nelle fratture; - alterazione cromatica, che si verifica soprattutto su rocce carbonatiche e che è dovuta alla presenza di ferro non ossidato, che in ambiente atmosferico si ossida e passa dalla colorazione grigia a quella gialla-arancione-rossastra. È un fenomeno che interessa solo la parte superficiale della pietra, per uno spessore di pochi millimetri; - la solfatazione dei carbonati, è invece un pericoloso tipo di degra do chimico, riconoscibile dalla nota crosta nera, che si comporta come una sorta di ‘spugna’ esterna la quale trattiene l’acqua e sintetizza acido solforico, producendo solfato di calcio a spese del carbonato, con grande velocità: si pensi che da un millimetro di carbonato si possono formare anche 5 millimetri di solfato. Pertanto è ben diversa dalla cosiddetta ‘patina del tempo’: è un vero e proprio laboratorio distruttivo, che disgrega i materiali lapidei carbonatici. Il gesso (o solfato di
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calcio biidrato) che si forma è inoltre un sale solubile e può produrre danni se trasportato dall’acqua all’interno del materiale, e se ricristallizza poi nei pori; - le efflorescenze sono depositi superficiali di sali solubili trasportati dalle acque circolanti nei muri; Il degrado per asporto di materiale originale ha luogo nei seguenti casi: - quando l’alterazione chimica della roccia crea composti solubili, come il bicarbonato di calcio, o asportabili, come i minerali argillosi, l’acqua piovana provoca una corrosione delle superfici; - quando certi vegetali, come i licheni, scavano con il tallo le rocce carbonatiche, si verifica una corrosione puntiforme, chiamata pitting; - se le acque circolanti nei muri depositano sali solubili all’interno della roccia, disgregandola, il vento e la pioggia battente possono asportare le particelle separate creando una alveolizzazione, o una polverizzazione; - i sali solubili o il gelo possono invece agire nelle microfratture prodotte da sbalzi termici o da lavorazioni, creando esfoliazioni e sca gliature. Anche azioni meccaniche dovute all’uomo producono, per urti violenti, delle mancanze di parti di roccia, o, per attrito, l’usura delle superfici; - il vento può provocare un’abrasione del materiale lapideo, la cui gravità dipende anche dal tipo di roccia, o meglio, dalla resistenza dei minerali che la compongono e dal tipo di aggregazione esistente fra i cristalli (cfr.I.2.); - gli sbalzi termici, come si è visto, possono produrre in certe rocce una disgregazione che interessa lo strato superficiale: caratteristica è quella dei marmi carbonatici che dà luogo al cosiddetto “marmo cotto”; - qualsiasi degrado chimico o fisico con asporto di materiale originale può avvenire in modo differenziato, se la roccia presenta zone con resistenza maggiore di altre al degrado stesso. Il degrado senza asporto né apporto di materiale avviene, infine, nei seguenti casi: - fratturazioni, che possono essere prodotte da agenti fisici naturali o dall’uomo, senza che nulla venga asportato; - rigonfiamenti dello strato esterno possono essere prodotti da percussioni perpendicolari alle superfici, che causano microfratture interne, che con il tempo possono dare luogo a distacchi;
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- deformazioni possono verificarsi con il tempo nei materiali litici tagliati in lastre sottili ed esposti agli agenti atmosferici. Più complesso è invece lo studio delle varie cause del degrado. Gli agenti naturali possono provenire dall’ambiente atmosferico (come i venti e le piogge) o dal sottosuolo (come le infiltrazioni d’acqua) e agiscono, rispettivamente, sulle coperture e sulle pareti, oppure sulle fondazioni degli edifici. Se si eccettuano gli agenti detti parossistici (frane, vulcani, terremoti, alluvioni, cicloni) che provocano distruzioni improvvise e che possono essere contrastati soltanto da un’adeguata prevenzione, le altre cause del degrado provengono, per lo più, da agenti che esercitano un’azione lenta, ma continua. Possono essere di tipo fisico, chimico, biologico, e per comprendere come agiscono sui materiali lapidei è necessario conoscere i caratteri delle varie rocce. Esistono poi gli agenti antropici che possono essere lenti, come l’usura, oppure avere un effetto violento, come gli incendi, le demolizioni, i danni bellici di vario tipo. Tra quelli naturali gli agenti fisici, rivestono un’importanza maggiore di quanto non si creda comunemente; anzi, si potrebbe forse affermare che in molti casi la loro azione apra la strada al degrado chimico consentendogli di penetrare più profondamente. Il vento, cioè aria compressa che viaggia a forte velocità, non è in grado di asportare parti di una roccia sana, ma solo materiale già disgregato; per contro può alzare o spostare parti delle coperture. Poiché ha un movimento parallelo al suolo, può sollevare granuli duri e trasportarli a velocità anche elevate. Si calcola che i venti che viaggiano a 80/100 km/h siano in grado di portare minerali della grandezza di due millimetri. Fra questi il quarzo, presente in quasi tutti i suoli, è fra i minerali più duri; se trasportato a lungo da forti raffiche può consumare per abrasione le superfici esterne. Il vento può inoltre favorire l’evaporazione dell’acqua circolante nei muri creando disgregazioni di materia dovute alla cristallizzazione, dentro i pori, dei sali trasportati dall’acqua stessa. Gli sbalzi termici, soprattutto se si ripetono senza interruzioni per un’intera stagione, possono provocare microfratturazioni di alcune parti lapidee, e particolarmente degli angoli. Ciò è dovuto al fatto che il calore causa, in tutti i materiali, una leggera dilatazione (cfr. I.2.); nelle zone d’angolo, però, quando scende bruscamente la temperatura,
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viene dissipato con una velocità maggiore che altrove. Se ciò si ripete per anni tali microfratture possono essere tali da favorire la penetrazione dell’acqua e quindi da provocare il distacco delle porzioni di pietra corrispondenti alle zone più esposte alle differenze di temperatura. Se agiscono su rocce costituite da minerali con un diverso indice di dilatazione, nell’ambito dello stesso cristallo, gli sbalzi termici possono provocare un degrado differenziato. Ciò accade, ad esempio, nei marmi con venature grigie, dovute alla presenza di grafite (cfr. I.1); una superficie di questo materiale può presentarsi disgregata nella parte bianca, ma con le venature grigie in rilievo. Ciò è dovuto al fatto che mentre i cristalli di calcite (che ha diversi indici di dilatazione) possono venire staccati dagli sbalzi termici, la grafite (caratterizzata invece da una dilatazione termica uguale in tutte e tre le direzioni dello spazio) è in grado di resistere di più. L’aspetto assunto in seguito alla disgregazione per sbalzi termici viene definito dai cavatori di Carrara ‘marmo cotto’. I calcari a grana finissima resistono di più agli sbalzi termici a causa della minore differenza di dilatazione dei singoli cristalli. I fenomeni di gelo-disgelo sono all’origine di altri tipi di degrado fisico, collegati all’azione dell’acqua. Poiché allo stato solido essa aumenta leggermente di volume, se gela all’interno di una piccola frattura, può provocare delle spinte che tendono ad aumentarne le dimensioni. Talora la microporosità (sia essa naturale o dovuta alla lavorazione o ad azioni di degrado) può generare fenomeni di gelività. L’azione degli agenti chimici del degrado dà luogo a risultati differenti a seconda della composizione delle rocce. La maggior parte di essi proviene dall’atmosfera, la cui composizione naturale comprende: ossigeno (O2) prodotto dagli esseri vegetali; anidride carbonica (CO2) emessa dai vulcani e dall’ossidazione di combustibili e di sostanze organiche; azoto (N); idrogeno (H) e, nelle fasce più esterne, ozono (O3), che tende a scindersi in ossigeno molecolare (O2) e atomico (O), molto attivo. Di fondamentale importanza per il degrado chimico è l’anidride carbonica (CO2), che combinata con acqua (H 2O) dà luogo all’acido carbonico (H2CO3). L’acqua è l’agente di degrado più importante e pericoloso, sia a livello fisico che chimico. In quest’ultimo caso può essere considerata il più diffuso solvente che esista in natura. Oltre a favorire importanti reazioni, (bicarbonatazione, solfatazione, deposito di sali), la sua natura eteropolare è alla base di altri fenomeni: i legami idrogeno
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delle sue molecole possono scomporre i composti ionici con i quali viene a contatto. L’azione dell’acqua è di tale rilevanza che neppure in natura esistono rocce sane in superficie, ma sempre alterate. Se presente nelle fondazioni, l’acqua può dare luogo a fenomeni di risalita per capillarità, dovuti alla porosità, presente in tutti i materiali da costruzione, eccetto il vetro. Tale meccanismo si verifica in presenza di pori molto piccoli; in tal caso le polarità elettriche delle molecole d’acqua vengono attratte da quelle di segno opposto presenti nelle pareti dei pori e riescono a sollevare (anche per alcuni metri) un piccolo volume d’acqua. Infiltrazioni, falde del terreno, o inefficienti sistemi di smaltimento delle piogge, possono causare una immissione costante di acqua nelle fondazioni; in tal caso la risalita può superare anche i quattro metri da terra. A tale altezza fuoriesce dalle pareti ed evapora depositando in superficie tutti i sali portati in soluzione. Questi ultimi possono causare danni di lieve entità, soprattutto di carattere estetico, come le efflorescenze. Se però l’evaporazione dell’acqua avviene in maniera veloce, i sali trasportati cristallizzano non solo all’esterno del muro, ma anche all’interno, provocando disgregazioni. Questo fenomeno dà luogo ad alveolizzazioni, esfoliazioni, o distacchi di materiale. Nelle rocce carbonatiche l’azione chimica più importante è la bicar bonatazione. La pioggia, poiché contiene CO2, trasforma il carbonato di calcio in bicarbonato, composto sul quale l’acqua esercita una veloce azione solvente. Per rendersi conto dell’importanza di questo tipo di degrado, basti pensare che tale fenomeno è lo stesso che produce il carsismo. Pertanto tutti i materiali costituiti da carbonato di calcio, se l’acqua non scorre ma ristagna, sono esposti, in caso di pioggia, a tale degrado. Sempre questo fenomeno è causa, ad esempio, dell’asportazione della frazione carbonatica delle ardesie, formate sia da argille (silicati), sia da carbonato di calcio. Tuttavia la patina argillosa che si viene a formare in superficie è in grado di proteggere dall’alterazione i carbonati sottostanti. Infatti quando l’argilla viene attraversata dall’acqua, lo strato più superficiale si satura; non è più in grado di riceverne e quindi agisce da impermeabilizzante. I tetti di ardesia non vanno perciò inclinati troppo, in modo da evitare che l’acqua scorrente porti via lo strato superficiale di argilla, il quale permette alle sottili lastre di durare anche cento o duecento anni.
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I sali solubili che producono le efflorescenze possono essere disciolti nel suolo, come i nitrati, o nei materiali stessi delle murature, come i solfati. Nell’atmosfera si trovano anche radicali liberi (ad esempio di cloro, nelle zone vicine al mare); la pioggia sulle rocce carbonatiche può portare alla formazione di cloruro di calcio, ma si tratta di un fenomeno molto lento, che tutt’al più agisce sulle tinte a calce. Le rocce silicatiche sono invece soggette a un tipo particolare di alterazione chimica, che viene definito ‘caolinizzazione’ (cfr. II.1). In questo caso l’acqua agisce come solvente chimico sui feldspati; non è in grado di sciogliere i legami covalenti che uniscono la silice e l’allumina, e che sono molto resistenti, ma può asportare gli atomi di sodio (Na) e di potassio (K), uniti agli atomi di ossigeno attraverso legami ionici. Se una molecola di silicato cede un atomo di sodio o di potassio e lo sostituisce con un ossidrile dell’acqua (OH), si forma un nuovo silicato: la caolinite, un minerale argilloso, dotato di minore resistenza meccanica (cfr. II.1). La formazione della crosta nera non è dovuta ad agenti naturali, ma all’inquinamento, che ha incrementato il fenomeno delle piogge acide. Come è noto, l’atmosfera contiene quantità sempre maggiori di CO2, prodotte dai combustibili, che sono per lo più generati da sostanze organiche fossili. Oltre alla CO2 il carbone fossile e il petrolio emettono nell’atmosfera anche eccessive quantità di zolfo, originato anch’esso dalla fossilizzazione di antichi esseri viventi. L’elevata quantità di CO2 dà luogo alla formazione di acido carbonico (H2CO3), mentre l’anidride solforosa (SO 2), combinandosi con un atomo di ossigeno,produce anidride solforica (SO 3). Quest’ultimo composto può reagire con l’acqua e dare origine all’acido solforico (H2S04), che è altamente corrosivo. Tale reazione non può avvenire, però, nell’atmosfera, poiché, anche per produrla in laboratorio, è necessaria la presenza di catalizzatori, costituiti per lo più da metalli. Dunque l’acido solforico che attacca i materiali lapidei carbonatici, non può provenire direttamente dall’atmosfera. La sua reazione col carbonato di calcio produce il solfato di calcio biidrato (cioè il gesso), che di per sé è bianco. Il colore nero della crosta sembra quindi essere dovuto alla presenza di carbonio non ossidato e di metalli dovuti all’inquinamento atmosferico. Pertanto la formazione dell’acido solforico non pare avere origine sul materiale stesso, ma sembra favorita dai metalli, che agirebbero da catalizzatori. Si è inoltre osservato che la formazione
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della crosta nera non avviene nelle zone sottoposte alla pioggia battente; infatti l’azione fisica dell’acqua (che ha un peso di un chilo a litro) asporta il solfato e impedisce il ristagno, il quale consente le reazioni chimiche di solfatazione. Tra i più comuni tipi di agenti biologici si trovano invece batteri, alghe, funghi e licheni. Alcune specie di licheni sono dannose, soprattutto per i carbonati; l’azione di altre specie, invece, si limita alla formazione di patine superficiali (verdi, nere) che però non alterano eccessivamente la materia. Oltre a licheni ed alghe i materiali litici sono soggetti anche all’attecchimento di muschi, muffe, piante erbacee e addirittura arboree. Le piante superiori invece provocano problemi meccanici con il loro ancoramento, dovuto alla penetrazione progressiva delle radici che poi ingrossano producendo fratture. 8. Nota bibliografica Alle rocce e alla loro estrazione e lavorazione viene dedicato ampio spazio in vari manuali dedicati alla storia dei materiali da costruzione, come quello classico di DAVEY 1965, o i più recenti e aggiornati di POLATI, SACCO 1990 e di MENICALI 1992 (il primo più incentrato sui caratteri chimico-fisici e il secondo sugli aspetti storici). Per la classificazione genetica e composizionale delle rocce, oltre ai manuali correnti di Scienze della Terra, è assai utile la lettura del breve saggio di MANNONI 1986. Sui caratteri di durezza e tenacità, lavorabilità, resistenza meccanica, peso specifico, indici di porosità, dilatazione termica, è ancora consigliabile la consultazione del classico manuale di litologia applicata di CALVINO 1963. Sui litotipi utilizzati tradizionalmente nell’edilizia in Italia si veda il volume di RODOLICO 1953. Della vastissima bibliografia riguardante le attività estrattive indichiamo qui solo alcuni dei lavori più utili per acquisire una conoscenza di base. Un panorama generale delle più antiche testimonianze di coltivazione della pietra si può trovare in BROMEHEAD 1961; per le cave dell’antico Egitto si vedano gli studi di ENGELBACH, CLARKE 1930; WAELKENS 1990; WAELKENS, HERZ, MOENS, 1992; per la Grecia antica è ancora assai valido il testo di MARTIN 1965. Un esempio di diffusione dell’opera quadrata di età ellenistica nel Mediterraneo occidentale è stato magistralmente studiato da BESSAC 1980. Per l’epoca
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romana, nel ricco panorama di lavori disponibili, si segnalano il manuale di ADAM 1989 e il volume di PENSABENE 1995, dove si possono trovare le notizie essenziali circa i caratteri tecnici e amministrativi delle cave; per un maggiore approfondimento è invece utile consultare BRAEMER 1986. Un corpus dei marchi di cava di Ostia e Roma, fonte ricchissima di informazioni sugli aspetti amministrativi del lavoro di estrazione, si trova in BACCINI LEOTARDI 1979. Fra i numerosi contributi monografici dedicati allo studio di singole cave, si ricordano inoltre: D’A MBROSI 1955, sul calcare di Aurisina (Trieste); DOLCI 1980 e L.T.MANNONI 1984 sul marmo lunense; LAMBRAKI 1980 sul cipollino di Karysto; R AKOB 1993 sul ‘giallo numidico’ di Chemtou; BESSAC 1996, sulle cave romane e tardoantiche dei calcari di Nîmes. Un po’ meno numerose sono invece le ricerche che riguardano l’estrazione della pietra in età postclassica; si segnalano comunque i saggi di WARD P ERKINS 1971, sull’età altomedievale, quello di MANNONI 1992 sulle cave medievali di Luni e di MANNONI, R ICCI 1992, sulla cava di calcare bioclastico di S. Antonino di Perti; i sistemi di estrazione del calcare di Nîmes in età medievale sono inoltre esaminati accuratamente nel citato volume di BESSAC 1996; sull’ardesia ligure si veda infine SAVIOLI 1988. Più numerose sono invece le ricerche d’archivio (atti notarili, capitolati di costruzioni, contabilità di cantieri) dai quali sono stati ricavati dati sull’estrazione e la fornitura della pietra in età medievale. Molti aspetti storico-economici dell’estrazione del marmo di Carrara nel Medioevo sono trattati nella monografia curata dalla KLAPISCH ZUBER 1969, sulla base di un’accurata analisi delle fonti archivistiche e in particolare di quelle notarili. Un contributo più recente è invece offerto, ad esempio, dal saggio di ALEXANDER 1995, dove si esaminano le cave poste nel sud est dell’Inghilterra, che rifornirono importanti cantieri come quello della cattedrale di Lincoln. Per gli strumenti utilizzati nelle varie lavorazioni della pietra è assai utile il manuale di ROCKWELL 1989, ma imprescindibile, per chiunque voglia affrontare uno studio sulla litotecnica dell’antichità o del periodo postclassico, è il repertorio raccolto in B ESSAC 1986, che ricostruisce (sulla base di fonti dirette e indirette di vario tipo) la storia di tutti gli strumenti utilizzati nel bacino del Mediterraneo, dall’antichità fino all’industrializzazione; per ciascuno di essi viene descritto il modo di utilizzazione e vengono riprodotte le tracce lasciate sulla pietra. La trattazione è corredata da un diagramma cronologico riassuntivo che evidenzia, per ogni strumento, l’epoca di apparizione e il periodo d’uso. Analoghi diagrammi sono stati elaborati su base
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regionale; si veda M ANNONI 1993 per la Liguria e B IANCHI, PARENTI 1991, per gli strumenti attestati nel Medioevo in area toscana. Una utilissima raccolta di tutte le fonti iconografiche relative al cantiere di età medievale si trova in BINDING, NUSSBAUM 1978. Per i problemi legati al trasporto molti dati si trovano nei testi più sopra citati concernenti le fasi estrattive. Si segnalano comunque, fra i lavori dedicati a situazioni specifiche, il volume di HEIZER FLEMING 1989, incentrato sui trasporti pesanti nell’ antichità; il saggio di CHAPELOT 1975, sui cantieri borgognogni in età bassomedievale e quello di BOATO 1991, relativo all’edilizia genovese del XVI e XVII secolo. Notizie sui problemi di trasporto in età medievale, soprattutto per l’Italia centrale, si trovano in PARENTI 1995. Circa le lavorazioni della pietra finalizzate alle opere murarie è fondamentale la lettura del saggio di MANNONI 1997, dove si analizza accuratamente il rapporto fra litotecnica e tessiture murarie. Sulla standardizzazione nella produzione delle pietre squadrate (e delle modanature architettoniche) in alcuni cantieri di cattedrali gotiche, cfr. KIMPEL 1977. Per le tecniche e gli strumenti usati dagli scultori, il manuale più esaustivo è quello di ROCKWELL 1989. Per l’uso dei graffiti di cantiere si vedano il saggio di HASELBERGER 1994, relativo al cantiere per la costruzione del Pantheon; quello, sempre utile, di DENEUX 1925, sulla cattedrale di Reims e il più recente studio di CLAVAL 1988, incentrato sul cantiere della cattedrale gotica di Clermont-Ferrand. Per il degrado dei materiali lapidei si vedano le pubblicazioni del NORMAL, comitato nazionale formato dal CNR e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per la normalizzazione delle analisi diagnostiche sulla natura e sul degrado dei materiali lapidei.
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II. I MATERIALI CERAMICI
1. L’argilla: l’unica roccia plastica Le argille sono rocce sedimentarie clastiche, incoerenti (cfr. I.1.), presenti in natura in grandi estensioni. La proprietà fondamentale, che costituisce una caratteristica esclusiva delle argille è la plasticità dopo un’opportuna bagnatura con acqua. Essa consiste nella capacità di assumere una determinata forma, in seguito a una pressione, e di mantenere tale forma anche quando la pressione viene a cessare. La plasticità dell’argilla, che consente di foggiare vasi e vari materiali da costruzione (mattoni, mattonelle, tegole, coppi ecc.) con misure e forme prestabilite, è dovuta appunto alla struttura lamellare dei minerali argillosi e ai legami di superficie che si vengono a costituire fra loro. I minerali argillosi appartengono al gruppo dei silicati e si formano in seguito a un processo, definito caolinizzazione, di alterazione chimica di altri silicati, detti feldspati. Il termine deriva dalla caolinite, uno dei più importanti minerali argillosi. I feldspati fanno parte dei tectosilicati: nel loro reticolo cristallino ogni tetraedro è collegato ad altri quattro attraverso i quattro vertici, e ciò da luogo a una impalcatura tridimensionale. L’acqua piovana asporta dalla struttura dei feldspati gli atomi di sodio (Na), potassio (K), calcio (Ca) per sostituirli con ossidrili (OH). Ciò determina la formazione di nuovi minerali definiti “silicati idrati di alluminio”, diversi dai minerali di partenza. Essi presentano infatti una forma tabulare, che permette di classificarli tra i fillosilicati (da fyllos = foglia). Tale
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30- Struttura molecolare e abito cristallino di due diversi tipi di silicati: un feldspato (a sinistra) e un minerale argilloso (a destra)
forma è dovuta al reticolo cristallino, caratterizzato dalla sovrapposizione di strati di tetraedri di silice (SiO 2), strati di ottaedri di alluminio (Al 2O3) e strati di ossidrili (OH). L’alternanza di strati e interstrati si ripete periodicamente e caratterizza il reticolo cristallino dei vari minerali argillosi, che si distinguono per lo spessore di strati e interstrati e per piccole differenze degli elementi che li costituiscono. I minerali argillosi presentano inoltre dimensioni piccolissime, inferiori ai due micron, a causa del fatto che il processo di caolinizzazione avviene contemporaneamente e in maniera diffusa su ampie superfici; la ricristallizzazione in seguito all’azione dell’acqua agisce perciò su piccole porzioni di materia, creando piccoli individui cristallini. I più frequenti minerali argillosi sono la caolinite, la montmorillo nite, l’illite. Le argille diventano plastiche al contatto con limitate quantità d’acqua, la quale penetra nei ‘pacchetti’ di cristalli piani e sostituisce i suoi legami polari a quelli intercristallini dei minerali. Di conse-
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guenza fa gonfiare i pacchetti e distacca i cristalli che rimangono separati da cuscini d’acqua, i quali permettono loro di slittare gli uni sugli altri. Se l’acqua è presente in quantità non troppo basse né eccessive, le molecole mantengono la posizione che assumono, vale a dire che il composto è plastico. Se invece l’acqua è eccessiva, la posizione assunta non si mantiene, in quanto i cristalli si disperdono in essa; se è insufficiente, gli slittamenti sono parziali. Quando l’argilla secca, per evaporazione dell’acqua intercristallina, i minerali argillosi, se hanno ancora legami liberi, si legano fra loro e formano pacchetti ormai privi di plasticità, ma rigidi, e dotati di una certa resistenza alla compressione. Per tornare plastici devono essere messi nuovamente a contatto con opportune quantità d’acqua. Esiste un sistema empirico di valutazione della giusta plasticità dell’argilla, che consiste nel plasmare un salsicciotto e piegarlo poi di 180°; se si strappa l’argilla non è sufficientemente plastica, se invece, dopo essere stato piegato, non mantiene la stessa posizione, significa che l’argilla è eccessiavamente plastica, cioè troppo ricca di acqua intercristallina. Un’altra importante caratteristica è l’impermeabilità. Essa è dovuta al fatto che lo strato superficiale dei minerali argillosi, dopo essersi saturato di acqua per imbibizione, non ne riceve più e protegge quelli sottostanti. È facile notare, dopo le piogge, la presenza, nei terreni molto argillosi, di uno strato superficiale scivolosissimo, sotto il quale, però, dopo alcuni centimetri, il terreno è asciutto. È questa caratteristica di impermeabilità che ha sempre fatto dell’argilla cruda un buon materiale da costruzione. Altre caratteristiche importanti sono quelle termiche: la refratta rietà, vale a dire la possibilità di resistere a temperature elevate (950°-1100°) senza deformarsi; la bassa conducibilità, ovvero i tempi di accumulo e di restituzione del calore. Il grado di refrattarietà può essere ulteriormente alzato con aggiunta di altri componenti ricchi di silice, come ad esempio il quarzo, composto che ha un alto punto di fusione (1710°); la conducibilità può invece essere abbassata con aggiunta di calcite e plagioclasi. L’argilla, essiccata, presenta anche una buona resistenza mecca nica, dovuta al fatto che i minerali, come si è visto, sono di dimensioni ridottissime e i legami intercristallini sono molti, dato il forte sviluppo delle superfici dei cristalli stessi, in rapporto al volume di argilla.
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2. Terre alluvionali e caolini Occorre ricordare che tutti i minerali argillosi sono bianchi, ma i sedimenti di argille si trovano, in natura, generalmente colorati (giallo, grigio, rosa, rosso) e molto raramente bianchi. Ciò è dovuto alle diverse modalità di formazione dei sedimenti; solo le argille dette pri marie o residuali, sono caratterizzate dal colore bianco. Si tratta, infatti, di depositi (dovuti alla caolinizzazione di rocce contenenti feldspati e prive di ferro) che non hanno subito un trasporto, ma che sono rimasti, nel luogo stesso di formazione, sulla roccia madre. Fanno parte di queste i caolini, che sono piuttosto rari in natura. La maggior parte dei depositi argillosi è invece costituita da sedimenti alluvionali, o lacustri o marini, formati cioè in seguito al trasporto dei minerali argillosi dalla roccia madre in nuovi bacini di sedimentazione. I cristalli che formano i minerali argillosi sono polari, cioè hanno cariche residue periferiche, pertanto se durante il trasporto essi vengono portati in sospensione nell’acqua, (cosa resa possibile dalle ridotte dimensioni) si combinano facilmente con ioni di ferro o manganese
31- La sedimentazione alla foce di un fiume: successione di livelli sabbiosi (1) livelli sabbiosi più fini (2) deposizioni limose (3) e argillose (4) (da CUOMO DI CAPRIO 1988)
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e, una volta ridepositati, danno luogo a giacimenti argillosi colorati: giallo, arancio, rosso o violaceo, a seconda del metallo presente. In natura le argille alluvionali, colorate, sono molto più frequenti di quelle prive di ferro, cioè dei caolini. Quando sono ricche di certi metalli, le argille prendono il nome di “terre” e possono essere usate come coloranti (cfr. IV.1.). Per contro solo quelle prive di metalli coloranti hanno la proprietà di “cuocere in bianco”, poiché i minerali argillosi, che di per sé sono bianchi, lo restano anche cuocendo. Se invece nelle argille si trovano anche ossidi metallici, (di ferro o di manganese) in cottura assumono, in modo particolare, una colorazione viva. Le argille, sia primarie che alluvionali, hanno anche uno scheletro, costituito da feldspati non alterati e da minerali non soggetti all’alterazione, quali quarzo, miche, e, in certi casi, anche carbonato di calcio. I sedimenti argillosi utilizzabili per foggiare manufatti ceramici devono contenere almeno il 40% di minerali argillosi. Insieme ad essi e allo scheletro si trovano anche sostanze organiche (resti vegetali, humus); le terre agricole, molto organiche e con pochissimi minerali argillosi, sono inadatte alla realizzazione di manufatti. 3. L’estrazione, la preparazione, la foggiatura Le argille sono rocce incoerenti, la cui estrazione non è particolarmente complessa, anche perché la pezzatura della materia prima non riveste alcuna importanza per le lavorazioni successive. Un sistema usato nelle regioni fredde è quello dell’ibernazione, che consiste nello sfruttamento delle crepature che si formano a causa del fenomeno di gelo-disgelo. Affinché un’argilla sia lavorabile è necessario che ci sia un giusto rapporto tra scheletro e minerali argillosi, dato che questi ultimi, da soli, non si possono foggiare, in quanto sono troppo plastici e il prodotto che ne deriverebbe avrebbe un ritiro eccessivo in seguito all’essiccamento e alla cottura. La granulometria del dimagrante, inoltre, va messa in rapporto con il prodotto che si vuole ottenere: per i laterizi o le tubature, ad esempio, la presenza di uno scheletro troppo grossolano non va eliminata; se invece si vogliono ottenere prodotti più fini (mattonelle, laggioni, ceramiche da mensa), è necessario operare una “decantazione” in apposite vasche. Per poter foggiare l’argilla è comunque indispensabile conferirle la
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giusta plasticità; ciò si può ottenere attraverso due sistemi: uno è quello della macerazione, che consiste nel tenerla a lungo in mucchi, continuando ad aggiungere piccole quantità di acqua. Questa tecnica era molto usata in Cina per produrre la porcellana; il caolino veniva fatto macerare anche per due anni, in ambienti umidi, in modo da far penetrare lentamente l’acqua necessaria, in tutti i pori. Un altro sistema consiste nella manipolazione, con graduale aggiunta di acqua, in modo da accelerarne la penetrazione. Il grado di plasticità dell’argilla dipende anche dalla quantità di minerali argillosi presenti in un sedimento: qualora essa sia eccessiva, l’impasto dovrà essere dimagrito con l’aggiunta di altro scheletro, costituito generalmente da sabbia. Infine le argille vanno depurate della eventuale presenza di sostanze organiche, che altrimenti, bruciando in cottura, lascerebbero dei vuoti e aumenterebbero la porosità dei prodotti; nei mattoni ciò ridurrebbe anche la resistenza alla compressione. La modellazione dell’argilla, a differenza della lavorazione della pietra, è una tecnica ‘a mettere’, cioè basata sulla possibile aggiunta di materiale e sulla progressiva modificazione della forma. Pertanto la modellazione avveniva soprattutto con le mani, aiutate da spatole di varie dimensioni. Nel più complesso lavoro di foggiatura dei conteni-
32- Depurazione di un’argilla tramite decantazione in acqua corrente (da CUOMO DI CAPRIO 1988)
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tori ceramici era invece utilizzato il tornio, lento oppure veloce, cioè azionato da un pedale. I mattoni, le mattonelle, le tegole e i coprigiunti (o ‘coppi’) e i mattoni sagomati venivano invece foggiati a stampo, utilizzando appositi telai di legno, privi del fondo, in modo da agevolare l’estrazione dell’oggetto modellato. L’impasto di argilla veniva premuto a mano entro lo stampo e la superficie superiore veniva poi spianata. Per la produzione di tegole occorreva applicare due fasce di argilla lungo i lati lunghi, premendole e modellandole poi a mano in modo da ottenere le ‘alette’ laterali rialzate. I ‘coppi’ erano invece ottenuti appoggiando le lastre rettangolari di argilla su un pezzo di legno semicilindrico, dal quale prendevano la forma. I laterizi decorati erano ottenuti attraverso stampi o matrici in ceramica, che recavano il disegno in negativo. Una volta foggiato, il prodotto doveva essere fatto essiccare in ambienti asciutti, ma necessariamente all’ombra: mai al sole (contrariamente a quanto spesso si legge), perché ciò avrebbe provocato un
33- Il banco per la formatura a mano dei mattoni, effettuata utilizzando un ‘mucchio’ di argilla precedentemente preparata (da MENICALI 1992)
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34- Vari tipi di cassette lignee, prive del fondo, usate per la foggiatura di mattoni di diverse forme (da MENICALI 1992)
ritiro differenziato tra le parti esterne e quelle interne, e avrebbe causato crepature nel prodotto. Con l’essiccazione l’argilla perde l’acqua posta fra le microlamelle, detta di imbibizione, che evapora, e subisce pertanto un ritiro di volume. Tale acqua, necessaria -come si è scritto- per conferire la plasticità dell’argilla, ne causa infatti un aumento di volume fino al 30%; aumento che può però essere limitato (entro il 15%) dalla presenza dello scheletro. In seguito all’essiccazione i pacchetti di minerali argillosi, compattati fra loro, consentono al materiale di raggiungere una discreta resistenza alla compressione, non diversa da quella di certe malte. La perdita dell’acqua di imbibizione è un processo reversibile, in quanto essa può essere nuovamente addizionata all’argilla.
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4. L’utilizzo dell’argilla cruda nelle costruzioni: il pisé e l’adobe Le buone caratteristiche di impermeabilità e di resistenza alla compressione dell’argilla essiccata, ne spiegano l’abbondante uso come materiale da costruzione. Le tecniche di impiego sono due: l’adobe (dall’arabo ‘at tub’=zolla), ovvero la produzione di mattoni crudi, essiccati per alcune settimane prima
35- Formatura a mano di coppi e tegole (da MENICALI 1992)
36- Operazioni di formatura a mano di elementi per la decorazione architettonica templare: foggiatura del prototipo; creazione della matrice con i motivi decorativi in negativo; formatura a stampo della copia e sua colorazione (disegno di Zanella 1999)
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della posa in opera, e il pisé. Quest’ultimo sistema (dal francese = schiacciato) consiste nel costruire cassoni lignei entro i quali viene compressa dell’argilla umida, non troppo fine, ma piuttosto ghiaiosa; una volta tolte le casseforme, resta un grande blocco, che seccando indurisce; la costruzione della muratura procede pertanto a blocchi sovrapposti. Benché opere di questo tipo fossero in grado di resistere anche senza intonaco, generalmente si preferiva proteggere la superficie dei muri con un rivestimento di argilla cruda, mista a 37- Realizzazione di un muro in pisé paglia tritata. Questo tipo (da ADAM 1989) di intonaco, usato ancor oggi in Marocco, è menzionato già da Vitruvio (De Arch. II,3), che lo definisce torchis, (da torquere= spezzettare). L’uso dell’argilla per pareti ad armatura vegetale è attestato fin dalla Preistoria, ma è a partire dal terzo millennio a.C. che, in Medioriente e in Egitto, questo materiale viene impiegato per realizzare la struttura portante dei muri. Dalla fine dell’età del Bronzo opere realizzate interamente in terra cruda sono attestate anche nel Mediterraneo occidentale (Marocco, Andalusia, Aragona, Catalogna, Francia meridionale, Italia del centro-sud). Pressoché sconosciute nell’Europa temperata, almeno fino all’età romana, la tecnica del pisé e quella dei mattoni crudi risultano impiegate, sulle coste del Mediterraneo, anche per tutta l’Età del Ferro. In Grecia la costruzione di murature in argilla è documentata con continuità fino all’epoca bizantina. L’importanza rivestita dalla produzione dei mattoni crudi emerge, oltre che dalle prove archeologiche, anche da numerose fonti
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38- Resti di muratura in adobe, dagli scavi della città romana di Lepida Celsa, presso Saragozza
letterarie ed epigrafiche: ad Eleusi, ad esempio, l’amministrazione del santuario provvedeva all’acquisto della terra e controllava le operazioni di preparazione dell’argilla e di formatura dei mattoni. Anche in età romana l’ampio utilizzo di queste tecniche è provato sia dai dati archeologici sia dalle fonti letterarie: Plinio, descrivendo i muri in pisé (parietes formacei), ne sostiene la durata “nei secoli”, e ne ricorda la diffusione, ai suoi tempi, in Africa e nella penisola iberica (Nat. Hist. XXXV, 48). Informazioni anche maggiori riguardano i mattoni crudi (o lateres) la cui produzione viene descritta da Vitruvio con abbondanza di particolari (De Arch. II, 3) e ricordata da molti autori successivi, fino alla tarda antichità; il fatto che nell’editto dei prezzi di Diocleziano (302 d.C.) venga fissato il compenso per i produttori di mattoni crudi costituisce una prova ulteriore del loro ampio utilizzo in tutto l’Impero. Murature “de loto” (= di fango) sono ricordate in numerosi testi scritti di età altomedievale, epoca in cui esse dovettero essere usate non solo per le case, ma anche per le fortificazioni e per le chiese.
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Edilizia abitativa in pisé e in adobe è inoltre documentata per tutta l’età Medievale e postmedievale, sia sulle coste del Mediterraneo, sia nelle regioni dell’Europa temperata: resti archeologici di edifici con muri in argilla su bassi zoccoli di pietra, databili al XII-XV secolo, sono stati posti in luce da scavi archeologici in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Italia. In Marocco la tecnica del pisé registra una straordinaria continuità fino ai giorni nostri, essendo ancora utilizzata per costruire monumentali edifici a più piani. Meno noti sono altri casi di lunga durata della costruzione di muri di terra, come quello della pianura alessandrina, dove si conservano numerosi edifici abitativi e annessi rustici realizzate sia in pisé, sia in mattoni crudi, che sono stati oggetto, in anni recenti, di accurate indagini archeologiche. Lo studio delle date scritte e dei reperti ceramici rinvenuti all’interno dei muri ha provato che le costruzioni più antiche risalgono al XVII secolo e si trovano ancora in buono stato di conservazione; si è registrato, infatti, che lo strato esterno delle murature non protette si è ridotto di circa 10 centimetri in un periodo di oltre quattro secoli. Questi dati aiutano a comprendere perché gli autori antichi apprezzassero tanto le opere in argilla, attribuendo loro una durata anche maggiore di quelle in blocchetti lapidei. È forse sulla base di simili osservazioni che il celebre architetto Cointeraux propose, alla fine de XVIII secolo, l’utilizzo del “nouveau pisé”, da realizzarsi con presse meccaniche, per la costruzione di case rurali economiche e di qualità. Benché l’idea dell’architetto lionese (regione in cui il pisé era allora ampiamente diffuso) non abbia prodotto il successo sperato, la pubblicazione della sua opera, nel 1793, costituisce comunque una fonte preziosa di informazioni per la conoscenza di questo antichissimo materiale da costruzione. 5. La cottura Anche se l’utilizzo della terra cruda ha rivestito un’importanza storica notevole, l’impiego maggiore dell’argilla è però avvenuto in seguito alla cottura, operazione attraverso la quale l’oggetto foggiato perde, in maniera irreversibile, la sua plasticità e diventa un prodotto ceramico. Secondo la studiosa Cuomo di Caprio, la fase della cottura era “il banco di prova dell’intero ciclo di lavorazione” dell’argilla, dato che ogni manufatto “soltanto quando esce dalla fornace diventa corpo ceramico, solido, dotato di tali caratteristiche di resistenza da sfidare i secoli”.
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Gli ambienti destinati alla cottura erano le fornaci: costruzioni spesso molto modeste, ma realizzate sempre in modo da garantire il migliore funzionamento in termini di calore prodotto e di tiraggio. La loro introduzione ha sostituito, (in tempi diversi a seconda delle regioni e dei contesti storici) l’uso dei più rudimentali “forni all’aperto”, in cui i manufatti, posti a contatto diretto col combustibile incandescente, presentavano, dopo la cottura, chiazze di colori diversi, dovute alla disomogenea distribuzione dell’ossigeno e della temperatura. Se si eccettuano alcune esperienze di età micenea, l’introduzione di vere e proprie fornaci avvenne, in Grecia e in Etruria, nell’Età del Ferro. Divenute costruzioni fisse, esse assunsero forme e tipologie svariate, ma contraddistinte da alcune caratteristiche funzionali costanti; in primo luogo la presenza di una camera di cottura separata dal combustibile, nella quale penetravano i prodotti di combustione (gas caldi, fumi, fiamme), attraverso un sistema di tiraggio, ossia di circolazione dell’aria comburente. In genere le fornaci venivano costruite entro una fossa, in modo che il piano di combustione risultasse seminterrato. Tale accorgimento consentiva di resistere ai fortissimi sbalzi di temperatura (che in una sola settimana poteva raggiungere i 900°C/1000°C e poi tornare a quella ambiente) e impediva inoltre che una parte del calore venisse dispersa per dissipazione. Oltre ad aumentare l’isolamento termico la costruzione seminterrata permetteva anche di ridurre la manutenzione dei muri in elevato. La documentazione archeologica ha dimostrato l’ampia diffusione di un tipo di forno caratterizzato da una pianta ‘a otto’, attestato anche per la produzione della calce o del vetro (cfr. III.4. e V.3.). Per garantire il passaggio del calore veniva scavata nella parte antistante una fossa più piccola, chiamata dai romani ‘prefurnium’, che corrispondeva a uno dei due cerchi dell’’otto’. La strozzatura esistente tra il prefornio e la camera di combustione produceva l’effetto di un mantice, dato che, per la legge di Bernulli, i gas aumentano la loro velocità se nel percorso incontrano una strettoia che li comprime, e ne accresce la pressione. Si può dunque affermare che i fornaciai del passato applicassero empiricamente una precisa legge fisica, molti secoli prima che la scienza moderna ne fornisse le spiegazioni. In questo sistema, detto ‘a fossa’, la camera di combustione veniva a trovarsi nella parte più bassa, mentre il materiale da cuocere veniva collocato nella parte superiore, dove la temperatura raggiungeva i massimi valori. La presenza del prefurnium, della strozzatura e del-
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39- Fornace per laterizi di epoca romana (da MC WHIRR 1979)
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l’apertura nella parte alta del forno garantivano perciò un ottimo tiraggio e consentivano una buona cottura. Già a 600°C il materiale argilloso abbandona la plasticità in maniera irreversibile; infatti questa temperatura causa la perdita dell’acqua che fa parte dei cristalli dei minerali argillosi; si determina cioè un cambiamento chimico dell’argilla, che muta radicalmente la sua struttura: essa diviene un materiale non più cristallino, ma organizzato in maniera disordinata, e definito ‘argilloide’. Alzando ancora la temperatura (tra gli 800°C e i 900°C) la silice e l’allumina si riorganizzano in nuovi silicati (di calcio, ad esempio), simili a quelli che costituiscono alcune rocce magmatiche; questa trasformazione fa ritirare ulteriormente l’impasto che diventa più rigido, più resistente e meno poroso; ciò causa anche l’annerimento dei prodotti argillosi. A temperature ancora superiori comincia la fusione del quarzo, ovvero i prodotti ceramici subiscono una semivetrificazione, mentre l’argilla si compatta e perde ulteriormente volume. È questo il caso dei mattoni scuri la cui presenza si osserva non di rado nelle murature o nelle pavimentazioni di età medievale e postmedievale. Lo studio della documentazione archivistica genovese ad esempio, ha permesso di capire che tali mattoni più scuri, molto cotti, venivano definiti, nei capitolati di costruzione dal XVI al XVIII secolo, ‘ferrioli’; i censori della Repubblica di Genova avevano stabilito che per tali laterizi si pagasse un prezzo più alto che per gli altri, proprio perché erano più impermeabili e resistenti. Temperature ancora maggiori danno luogo alla fusione del prodotto ceramico, che perde definitivamente la propria forma. Quest’ultimo caso avveniva di frequente in passato, per la non omogeneità termica delle fornaci; in generale però i ceramisti erano in grado di controllare la temperatura ottenuta nella camera di combustione attraverso strumenti empirici, come il colore raggiunto dai prodotti, procedimento definito nel gergo dei fornaciai “cuocere al rosso”, “cuocere al bianco”, ecc. Ciò permetteva loro di intervenire sul processo di cottura aumentando la quantità di combustibile oppure regolando le aperture dei tiraggi. Una grande trasformazione nella produzione dei laterizi è stata portata dall’introduzione delle fornaci Hoffmann, avvenuta nel secolo XIX. Questo tipo di impianti venne studiato e messo a punto per superare i limiti delle fornaci tradizionali e cioè la dispersione del calore e
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40- Pianta, sezione e schema di funzionamento di una fornace Hoffmann: la zona del fuoco è situata nelle camere 12 e 13; i nuovi mattoni da cuocere sono posti nella 4; quelli già cotti vengono scaricati dalle camere 5 e 6. L’aria entra dalla zona 4, raffredda i laterizi cotti delle camere 5 e 6 riscaldandosi essa stessa; aumenta perciò la resa termica delle camere 12 e 13; quindi passa a preriscaldare i mattoni crudi posti nelle camere da 14 a 3 (da MENICALI 1992)
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il funzionamento ‘intermittente’, ovvero basato sulle quattro fasi di carico, cottura, raffreddamento e scarico. Le fornaci Hoffmann furono il primo tentativo di realizzare un ciclo di produzione ininterrotto e senza spreco di calore. Erano formate da una galleria anulare continua, che costituiva un grande canale di cottura, diviso in celle per mezzo di paratie. La cottura si sviluppava in due vani per volta, ubicati in posizione opposta alla zona di carico, che era invece adiacente, ma separata da quella di scarico. L’aria entrava fredda nella cella con i mattoni appena cotti, li raffreddava e si surriscaldava lei stessa, in modo che, una volta raggiunte le celle di cottura, ne aumentava la resa termica; infine fuoriusciva per preriscaldare le stanze dove si trovavano i laterizi crudi. La zona di cottura veniva continuamente spostata e così le altre di carico, scarico, ecc. Questo sistema era in grado di produrre dai 15000 ai 20000 laterizi in 24 ore. Le fornaci Hoffmann sono state successivamente sostituite dai forni a tunnel, a fuoco fisso. 6. Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici I prodotti ceramici presentano una grande varietà e vengono classificati in base al tipo di argilla, alla presenza o meno di rivestimento e ai caratteri di quest’ultimo. Prima di analizzare i manufatti usati nell’architettura, è perciò necessario premettere una classificazione tecnologica di tutti i tipi ceramici, basata, per lo più, su caratteri visibili macroscopicamente. La prima distinzione riguarda l’impasto che può essere bianco o colorato, in relazione, come si è scritto, alla presenza o meno di ossidi metallici nell’argilla. In secondo luogo i corpi ceramici (bianchi o colorati che siano) possono essere porosi oppure impermeabili. La porosità è dovuta alle caratteristiche del corpo argilloso, che, se viene cotto a temperature non eccessive, non raggiunge la semifusione degli impasti. In tal caso, per ottenere l’impermeabilità, è necessario aggiungere un rivestimento. Quest’ultimo (detto anche coperta) veniva applicato sia per scopi estetici, sia per motivi di funzionalità. Le ceramiche a corpo colorato, poroso, che non ricevono alcun rivestimento, vengono definite ‘nude’ (grezze o depurate a seconda della granulometria dell’inerte) o ‘terrecotte’. Una sorta di impermeabilità può essere ottenuta lisciando a crudo la superficie, oppure pennellan-
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dola con un ulteriore strato di argilla fine, molto diluita. Queste operazioni consentono di aumentare la resistenza all’acqua e di ridurre la porosità esterna, dopo la cottura.
-Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici La maggior parte dei prodotti ceramici utilizzati nelle costruzioni (mattoni, tegole, coppi, terrecotte architettoniche) appartiene a questa categoria. L’ingobbio (dal francese engobe) è il tipo di rivestimento più antico, essendo noto già nella Preistoria. Veniva realizzato con un materiale della stessa natura del corpo ceramico, vale a dire con argilla, più diluita e depurata di quella con la quale era stato foggiato il vaso. Pertanto di per sé non attribuiva l’impermeabilità, ma soltanto se era lisciato o lucidato poteva rendere il vaso meno poroso. I greci usarono per primi, su vasi di argilla rossa, un tipo di ingobbiatura bianca, a base di caolino, stesa su coppe (kylikes) o su vasi a forma chiusa (lékitoi) allo scopo di ottenere superfici bianche, da decorare con vivaci policromie. Nel Medioevo l’ingobbio bianco a base caolinica veniva steso, sempre su corpi ceramici rossi, sotto al rivestimento vetroso, per fare risaltare meglio la decorazione policroma presente nella vetrina. La vernice sinterizzata non va confusa con la vetrina, è infatti costituita anch’essa da un’argilla, che prende il nome di barbotina, e che veniva depurata fino a ottenere una eliminazione totale dello scheletro, lasciando solo i minerali di grandezza inferiore al micron, ricchi di ioni di ferro. Una volta stesa (a pennello o a immersione) sul
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vaso essiccato, la cottura doveva raggiungere temperature tali da sinterizzare i minerali della vernice stessa, ovvero a portarli a una temperatura compresa fra gli 800°C e i 900°C, in seguito alla quale la barbotina cambiava colore. Essa poteva assumere un rosso corallino (dovuto alla trasformazione del ferro delle argille in ematite, o ossido ferrico; Fe2O3), oppure nero, (dovuto alla trasformazione del ferro delle argille in magnetite, o ossido ferroso-ferrico FeOFe2O3). La varietà di tale esito dipendeva dal tipo di cottura, che, se ossidante, dava luogo alla formazione dell’ossido ferrico, se riducente, dava origine alla magnetite. In altre parole le barbotine sinterizzavano nel senso che il ferro si riorganizzava in cristalli lucenti di magnetite oppure di ematite. L’abilità dei ceramisti consisteva nel saper controllare l’atmosfera di cottura, ovvero la quantità di ossigeno presente nel forno ad alte temperature. Le superfici esterne dei vasi acquistavano così una lucidità che le rendeva riflettenti e impermeabili, anche in assenza di un vero e proprio rivestimento vetroso. Queste tecniche erano già conosciute dai Cretesi e dai Micenei, ma vennero particolarmente perfezionate dai greci di età storica. Se è relativamente facile comprendere come si potessero ottenere superfici interamente rosse o interamente nere, attraverso i meccanismi descritti, più difficile è riuscire a capire come si ottenessero superfici con due diverse colorazioni, vale a dire come si producessero i vasi a figure nere su sfondo rosso, oppure i famosi vasi attici a figure rosse su sfondo nero, nei quali era evidente una perfetta padronanza di questo tipo di tecnica. Di recente si è compreso che i ceramisti greci dell’età classica giocavano molto sui diversi tipi di cottura (ossidante e riducente) applicati su uno stesso vaso; per poterla controllare meglio cuocevano un vaso per volta. Se si cercava il fondo rosso, si faceva una prima cottura ossidante e quando questa era ultimata si dipingevano, col pennello immerso nella barbotina, le figure; queste ultime diventavano nere con la seconda cottura in ambiente riducente. Quando il ferro cristallizza in ematite o in magnetite si creano composti stabili, che non cambiano subito, anche se entrano in un nuovo ambiente. Pertanto, se il fondo del vaso era già sinterizzato in rosso (cioè se si erano già formati cristalli di ematite), la seconda cottura riducente non faceva in tempo a riorganizzare i cristalli per trasformarli in quelli di magnetite. Di conseguenza se la seconda cottura avveniva velocemente, non era in grado di alterare gli esiti della prima. Con le vernici sinterizzate si otteneva un ottimo risultato estetico, ma anche una buona impermeabilità del vaso.
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Dopo i greci questa tecnica passò ai romani, i quali la usarono soprattutto per produrre vasi con rivestimenti monocromi (neri in età repubblicana, rossi in età imperiale, arancio in età tardoimperiale). Con la fine dell’Impero la tecnica dei rivestimenti sinterizzati è tramontata, e non è stata più reintrodotta nel Medioevo. L’aggiunta di coperte vetrose, per rendere impermeabili i manufatti ceramici porosi, avveniva invece con applicazione al corpo ceramico di materiali che fondessero in cottura. Ciò poteva avere luogo attraverso due procedimenti: la monocottura e la biscottatura. Il primo consisteva nello stendere sul corpo ceramico, foggiato ed essicccato, una polvere di vetro, (precedentemente macinata) finissima, che veniva sospesa in acqua e data a pennello o per immersione. In cottura, la polverina rimasta in superficie dopo l’assorbimento giungeva al rammollimento. Il vetro, non avendo uno stato cristallino, non ha un preciso punto di fusione, ma comincia ad essere molle attorno ai 500°C (cfr. V.1.). Perciò la fluidità del vetro avveniva in superficie mentre l’interno del vaso non aveva ancora ultimato la cottura, di conseguen za i gas che si liberavano da dentro, non trovavano in superficie vie di sfogo, in quanto i pori della ceramica erano già impermeabilizzati dal rivestimento. Cercavano perciò di fuoriuscire dal vetro, nel quale spesso rimanevano imprigionati, lasciando bolle, rigonfiamenti, piccoli crateri, mentre la vetrina veniva in parte riassorbita dal corpo ceramico. Ne risultavano superfici irregolari, benché l’adesione del vetro al corpo ceramico fosse molto alta. Nel sistema della biscottatura, invece, il manufatto ceramico veniva cotto due volte. La prima riguardava il vaso appena essiccato e non rivestito; con la seconda, a temperatura più bassa, l’oggetto era cotto insieme alla polvere vetrosa del rivestimento. In questo modo non si formavano bolle e la superficie rimaneva più regolare, perfettamente speculare. Questa tecnica era già usata in epoca romana imperiale, per decorare oggetti prodotti a stampo, con motivi che imitavano quelli dei vasi bronzei a sbalzo. Il colore giallo della vetrina rendeva ancora più simile il contenitore ai prodotti metallici. Le proprietà di impermeabilizzazione del rivestimento vetroso vennero sfruttate, soprattutto in epoca postclassica, per la produzione di pentolame da cucina, particolarmente utile nella preparazione dei cibi liquidi. Nel Medioevo la tecnica dell’invetriatura venne molto perfezionata, sia nel mondo bizantino, sia in Europa, ed estesa alle piastrelle da
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rivestimento (cfr. II.7.). In particolare venne utilizzata per la produzione di ceramiche policrome, nelle quali la decorazione colorata, ottenuta con l’aggiunta di ossidi metallici alla vetrina, veniva valorizzata per la presenza, tra vetrina e corpo ceramico, di un ingobbio bianco, caolinico, applicato sull’oggetto crudo. Questo sistema era usato anche per ottenere le ceramiche graffite, diverse dalle ingubbiate e dalle invetriate policrome, in quanto decorate (oltre che col colore) anche mediante incisioni praticate sull’ingobbio a crudo, prima dell’invetriatura. In entrambe i casi l’ingobbio bianco sottostante rivestiva unicamente una funzione estetica. Le terraglie sono invece prodotti ceramici a corpo bianco, realizzato cioè con caolino e con scheletro bianco (calcite, generalmente) che mantiene tale colore anche in seguito alla cottura. A differenza della porcellana, caratterizzata anch’essa da corpo bianco, ma vetrificato, la terraglia non subisce una cottura superiore ai 900°C, anche perché a tali temperature la calcite si scomporrebbe e perderebbe il suo stato cristallino. Di conseguenza non si raggiunge la fusione del quarzo, e il prodotto non è impermeabile, ma dotato di un rivestimento applicato, vetroso e trasparente, detto ‘cristallina’, che lo rende impermeabile. La terraglia venne prodotta per la prima volta in Inghilterra, nel 1745-47, allo scopo di mettere in commercio un prodotto molto simile alla porcellana, ma molto più a buon mercato. Inizialmente veniva decorata con pittura a mano. Nel corso del XIX e del XX secolo, quando queste ceramiche conobbero una grande diffusione, ricevettero una decorazione applicata a decalcomania, ottenuta con un procedimento meccanico molto più veloce. I motivi decorativi venivano infatti realizzati su matrici e quindi stampati su fogli di carta, con pigmenti a base metallica. La carta veniva applicata al biscotto, rivestito della polvere della cristallina, che era poi mandato in seconda cottura, dove bruciava, lasciando aderire al prodotto il pigmento. La terraglia è stata utilizzata in architettura per produrre piastrelle, bianche o decorate, e per i servizi igienici. Le ceramiche smaltate, o maioliche, sono caratterizzate dalla presenza di un rivestimento vetroso, reso opaco con l’aggiunta di ossido di stagno nella vetrina, secondo un procedimento usato anche nella decorazione dei metalli, soprattutto per i prodotti di oreficeria. Per opaco si intende, in ceramologia, un corpo non trasparente, cioè che non lascia passare la luce, anche se lucido in superficie.
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La presenza di una vetrina non trasparente e bianca permetteva di evitare la stesura dell’ingobbio sottostante, onde evidenziare bene i colori. Fra i prodotti opacizzanti, il più antico a essere utilizzato era l’antimoniato di calcio, costituito da granelli piccolissimi, che creavano una nuvola bianca nel vetro. Successivamente, già dall’età romana, ma poi soprattutto da parte degli Arabi (a partire dal X-XI secolo) venne usato il biossido di stagno, che si trova in natura sotto forma di un minerale detto cassiteri te, oppure si poteva produrre artificialmente, surriscaldando con un mantice lo stagno metallico, che assumeva così l’aspetto di una polvere bianca. La smaltatura è stata molto usata dagli arabi e, in Europa, è stata introdotta nel Medioevo e si è diffusa in particolare modo a partire dal Rinascimento, per piastrelle policrome, decorate e figurate (cfr. II.7). L’unico manufatto ceramico a corpo bianco e impermeabile è la por cellana. Prodotta in Cina in epoca corrispondente al I secolo d.C., era già nota ai romani, ma è stata importata nei paesi Mediterranei in misura maggiore a partire dal Medioevo. In Europa si è imparato a produrla solo nel 1720, in Sassonia. Nell’architettura la porcellana è stata usata, limitatamente ai servizi igienici, a partire dall’Ottocento. Per la produzione della porcellana è necessario il caolino, l’unica argilla, come si è visto, completamente priva di ferro, e che perciò cuoce in bianco (cfr. II.2). Se era necessario aggiungere lo scheletro, per mantenere il colore del corpo ceramico, si sceglievano soltanto minerali bianchi, e cioè quarzo fine e feldspati, che in cinese venivano detti petunzé. L’impermeabilità del prodotto è dovuta al fatto che esso presenta un corpo ceramico molto duro, formato da quarzo vetrificato. Questo minerale fonde a 1770°C, temperatura impossibile da ottenere in tutte le età preindustriali: in Europa si sono costruite molto tardi fornaci in grado di superare i 1100°C, mentre in Cina, tramite piccoli forni molto coibentati, si ottenevano temperature che al massimo oscillavano fra i 1200°C e i 1400°C. Per provocare la fusione del quar zo in tali condizioni era necessaria la presenza di fondenti, costituiti dagli alcali (sodio, potassio) contenuti nei feldspati che venivano aggiunti allo scheletro. In presenza di tali fondenti i tetraedri di silice si possono staccare, poiché il sodio o il potassio riescono a sostituirsi all’ossigeno, causando la separazione tra due tetraedri, ovvero disorganizzano lo stato solido cristallino e ne provocano la fusione (cfr.
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V.3.). Pertanto, sfruttando la presenza dei petunzé, nell’antica Cina si riusciva a fondere il quarzo, che costituiva lo scheletro del caolino. L’impermeabilità della porcellana è dunque legata alla vetrificazione della silice, dato che il vetro è l’unico materiale assolutamente non poroso. Il gres è un altro tipo di manufatto ceramico impermeabile, realizzato però con argilla alluvionale, cioè colorata dalla presenza di ossidi metallici. Analogamente alla porcellana semivetrifica in cottura, perché il manufatto viene foggiato con un’argilla contenente anche elementi fondenti (sodio, potassio, o calcio); la loro presenza permette così la fusione del quarzo già a 900°-1000°C, secondo un processo che viene appunto definito greissificazione. I primi, in Europa, a sfruttare questo fenomeno furono i Paesi Bassi, la penisola scandinava, e soprattutto le città baltiche della lega anseatica. In queste regioni la produzione del grés prese avvio già nel bassomedioevo; in età moderna tale sistema venne usato anche per produrre piastrelle colorate da pavimento. La greissificazione dei prodotti ceramici poteva avvenire anche non intenzionalmente; non di rado, ad esempio, si osserva nelle murature la presenza di mattoni parzialmente vetrificati. Evidentemente sono stati cotti eccessivamente, fino a temperature tali da raggiungere la vetrificazione della silice. Ciò li ha resi più duri e impermeabili, e pertanto particolarmente adatti a essere impiegati nelle cisterne o nelle pavimentazioni stradali. È interessante ricordare come nei documenti scritti genovesi del XVI e XVII secolo ricorra l’espressione “mat toni da carroggio”, (cioé ‘da vicolo’) che con ogni probabilità si riferisce proprio a laterizi greissificati, (forse non intenzionalmente) ma comunque resi particolarmente resistenti e adatti alle pavimentazioni stradali. 7. I materiali ceramici usati nell’architettura Le proprietà plastiche dell’argilla erano certamente conosciute già nel Paleolitico, quando si iniziarono a fabbricare i primi manufatti, ma dovettero trascorrere diversi millenni prima che la produzione di oggetti ceramici si estendesse dall’ambito domestico all’industria edilizia; le più lontane testimonianze sembrano risalire alle civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto.
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Nella grande varietà di manufatti ceramici usati, nel corso dei secoli, come materiali da costruzione, occorre fare una distinzione fra quelli prodotti per scopi indipendenti e il cui impiego nell’architettura è di carattere secondario, anche se tutt’altro che occasionale, e quelli destinati esclusivamente per l’edilizia e utilizzati su scala tanto vasta da aver alimentato un fiorente mercato manifatturiero, sottoposto al rispetto di precise normative emesse dalle autorità pubbliche, come nel caso dei mattoni. Rientrano fra i manufatti ceramici impiegati nell’architettura per usi secondari le anfore da trasporto romane, che dal punto di vista tecnologico sono classificabili fra i prodotti a corpo colorato, poroso, privi di rivestimento o, al massimo, impermeabilizzati con un ingobbio argilloso. A partire dalla tarda antichità esse sono state utilizzate ampiamente per le costruzioni di volte. L’impiego di tali contenitori, che dopo essere svuotati delle derrate alimentari diventavano inutili, risultava economicamente vantaggioso poiché costituiva una sorta di riciclaggio di rifiuti che permetteva di evitare produzioni apposite di materiale da costruzione. D’altro canto le anfore ben si prestavano, per la forma cilindrica e per la vuota cavità interna, all’utilizzo per costruzione di volte, offrendo il duplice vantaggio di essere materiali resistenti e al tempo stesso leggeri. Fra i diversi esempi noti nell’ambito dell’architettura tardoantica dell’Impero d’Occidente è molto interessante, per il buono stato di conservazione, quello del sacello milanese di San Simpliciano, con una copertura costituita da anfore poste a strati ora perpendicolari, ora paralleli alla volta, annegate in abbondante malta. Un altro fenomeno di utilizzo secondario di manufatti ceramici è costituito dall’impiego, a scopi decorativi, di grandi piatti da mensa, rivestiti di coperte vivacemente colorate, che venivano collocati sulle superfici murarie dei principali monumenti romanici dell’Italia centro-settentrionale e della Sardegna. Lo studio di questi oggetti, che vengono chiamati “bacini”, utilizzando la definizione che ne diede il primo studioso che se ne occupò, alla metà del XVIII secolo, ha dimostrato, ormai da anni, la straordinaria ricchezza dei motivi decorativi, delle tecniche, e la varietà dei circuiti di approvvigionamento. Roma, Pavia, Bologna e Pisa, sono i centri più ricchi di tali testimonianze, e proprio in quest’ultima città, nel Museo Nazionale di San Matteo, si conserva la più vasta raccolta di bacini, formata da oltre 600 esemplari, realizzati in ceramiche invetriate, graffite, smaltate, uscite da botteghe artigiane di tutto il Mediterraneo, e risalenti a un arco cro-
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41- L’uso delle anfore nella copertura del sacello milanese di San Simpliciano (sec. V d.C.)(da BOCCHIO 1990)
42-Bacini ceramici inseriti nella muratura della chiesa di S.Martino a Pisa (da BERTI, TONGIORGI 1981)
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nologico compreso fra X e XVI secolo. I vari metodi di inserimento nella muratura (senza alcun dubbio contemporanei alla costruzione) sono stati studiati in occasione della rimozione, attuata per scopi con servativi. Un caso di studio particolarmente interessante è rappresentato dalla chiesa duecentesca di San Romano di Lucca, dove è stata evidenziata con precisione la tecnica di inserimento: essa prevedeva un ancoraggio dei ‘bacini’ tramite legatura, attorno al piede, di una cordicella in cotone, che è stata in parte ritrovata; tale legamento permetteva di fissare il vaso ad un mattone interno alla muratura. La maggior parte dei manufatti ceramici che interessano il costruito è stata però realizzata appositamente per essere utilizzata negli edifici, sia nelle strutture, sia nelle decorazioni interne o esterne. La produzione più vasta è quella dei laterizi destinati alle murature, agli archi, alle volte, agli impianti idrici, alle coperture, alle pavimentazioni. I primi mattoni (sovente segnati con un marchio o un’iscrizione) vennero realizzati, già nel 3000 a.C., presso le civiltà urbane del medio-oriente, anche se il loro impiego era marginale rispetto a quello dell’argilla cruda e limitato alle parti degli edifici che richiedevano maggior protezione (rivestimenti, canalizzazioni, bacini). Anche nell’antica Grecia la produzione principale era destinata alle coperture: tegole (keramìs) e coprigiunti da porre sul colmo dei tetti (kaluptér). Documentate fin dall’epoca arcaica in due diversi tipi (corinzio e laconico) tegole e coprigiunti dovevano essere commerciati attivamente, se negli scavi dell’agorà di Atene, si è rinvenuto un modello destinato al controllo delle dimensioni dei pezzi da fornire ai cantieri, che erano venduti a numero, come provano molti testi epigrafici. Decisamente più scarse sono invece le testimonianze dell’impiego di mattoni, documentati sporadicamente e solo a partire dall’età ellenistica, come nel caso della produzione di laterizi bollati attestata nella colonia focese di Velia. Anche nell’architettura romana di età repubblicana l’impiego di laterizi fu indirizzato quasi esclusivamente alla realizzazione delle tegole o delle parti ornamentali dei tetti. È significativo che Vitruvio dedichi un intero capitolo alle strutture in argilla e non faccia riferimento ai mattoni, ma solo alle tegole (De Arch. II, 8), delle quali consiglia la riutilizzazione nei muri, secondo un sistema ampiamente attestato dall’archeologia. È dopo Augusto e soprattutto dall’età nero-
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niana che si sviluppa una manifattura laterizia su larga scala, finalizzata a realizzare intere opere portanti. Da questo momento in poi gli edifici in mattoni sono destinati a moltiplicarsi, in molte regioni dell’Impero Romano. Realizzati in argilla alluvionale, porosa, priva di rivestimento, i mattoni romani erano cotti in ottime fornaci, spesso (anche se non sempre) ben distinte da quelle per la produzione di vasi. Anche se il modulo rettangolare non era sconosciuto e se tutt’altro che rari erano i pezzi triangolari o circolari, quelli quadrati erano decisamente prevalenti e le loro misure corrispondevano a multipli o sottomultipli del ‘piede’; fra le pezzature più diffuse erano il pedale (col lato di un piede, cioè cm 29,6 X 29,6 ) il bipedale (col lato di due piedi, cioè cm 59,2 X 59,2), il sesquipedale (col lato di un piede e mezzo, cioè
43- Le diverse pezzature dei laterizi romani, caratterizzati dalla generale adozione del modulo quadrato (da ADAM 1989)
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cm 44,4 X 44,4) e il bessale (col lato di due terzi di piede, cioè cm 19,7 X 19,7). La forma quadrata rendeva necessaria la posa in opera con due mani (e talora richiedeva anche due operai) per ciascun mattone; in compenso le grandi dimensioni consentivano di usare i laterizi come elementi passanti da parte a parte nel muro e perciò tali da “legare” le strutture troppo disomogenee, come quelle in blocchetti lapidei, dove i lati esterni erano generalmente scollegati rispetto al nucleo interno. In età imperiale una vasta produzione di manufatti per l’edilizia in ceramica colorata, porosa, priva di rivestimento, è ben attestata sia da resti di edifici messi in luce dagli scavi, sia dall’architettura sopravvissuta. In tale epoca l’uso dei laterizi si estende ad altre parti degli edifici, come le pavimentazioni e le tubature, in virtù delle proprietà di tenuta idraulica e di resistenza termica dei materiali ceramici. Assai frequenti sono i resti di tubature, definite fistulae, incassate nelle pareti e destinate allo smaltimento delle acque. Per gli impianti termali era invece in uso un sistema di intercapedini, poste sotto i pavimenti, che servivano a far circolare l’aria calda e che erano sostenute da pilastrini realizzati in apposite mattonelle (quadrate o circolari) dette suspensurae. L’uso di imprimere iscrizioni sui laterizi, dopo la foggiatura e prima della cottura, è attestato, con maggiore o minore intensità, dal I secolo a.C. al VI sec. d.C. Lo studio delle migliaia di tipi di ‘bolli’noti, avviato già dall’Ottocento, costituisce un campo d’indagine di notevole importanza per comprendere l’organizzazione della produzione, che era basata su officine (figlinae) gestite da officinatores (imprenditori, per lo più di condizione libera) e da domini (proprietari delle cave di argilla o, secondo alcuni studiosi, anche degli impianti). Molte figline appartenevano al fisco imperiale o erano proprietà personale degli imperatori, che sovente figurano come domini nei bolli. Con i secoli dell’Altomedioevo la produzione di laterizi subisce un vistoso tracollo: l’archeologia dimostra infatti che anche gli edifici più importanti venivano sovente realizzati in mattoni o tegole di recupero, provenienti dal crollo o dallo smantellamento di edifici più antichi. Alle manifatture in impianti permanenti, saldamente regolamentate dalle autorità pubbliche, si sostituirono rare produzioni occasionali, spesso legate a cantieri monastici; ne sono esempio i mattoni altomedievali fabbricati nei cenobi di Novalesa (Torino), Montecassino (Frosinone), Farfa (Rieti), San Vincenzo al Volturno (Isernia), casi
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piuttosto isolati all’interno di un panorama dominato, anche nelle aree urbane, dalle pratiche di recupero. A partire dalla prima metà del XII secolo si registra, in diverse città europee, la ripresa, più o meno simultanea, di produzioni sistematiche di laterizi. Per i caratteri tecnologici i mattoni medievali non si differenziano da quelli romani, se si eccettua il fatto che non sono più segnati da bolli. Importanti differenze riguardano invece le dimensioni: i laterizi medievali sembrano infatti avere definitivamente abbandonato il modulo quadrato di epoca classica, per assumere quello nuovo, rettangolare, più piccolo e perciò tale da consentire il sollevamento di un pezzo con una sola mano. Recenti indagini archeologiche hanno provato che le misure di cm 30 x 15 x 7,5 circa (cioè un piede x mezzo piede x un quarto di piede) sembrano accomunare le prime produzioni di mattoni medievali anche in aree molto lontane fra loro (da
44- Lapide con indicazione in scala 1:1 delle misure imposte ai produttori di mattoni dal comune di Assisi (1349)
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Genova a Savona, a Milano, a Venezia, alla Lucchesia, e persino alle città tedesche come Lubecca). Le ragioni di questa iniziale corrispondenza delle misure non sono ancora del tutto note, ma è probabile che siano da ricercare in una uniformità legislativa (e quindi metrologica) che affonderebbe le sue radici nell’amministrazione imperiale, oppure nell’universalismo dei cenobi monastici. Proprio lo studio delle dimensioni dei laterizi costituisce, da diversi decenni, un campo d’indagine assai importante per l’archeologia medievale e postmedievale, sia per le notevoli ripercussioni che tali ricerche hanno in ambito storico-economico, sia perché, in molti casi, l’esame delle misure dei mattoni si è rivelato un ottimo strumento di datazione per l’architettura. La men siocronologia, o datazione dei mattoni in base alle dimensioni, si basa infatti sull’analisi matematica delle misure dei laterizi, supportata dal confronto con la documentazione scritta relativa alle norme che ne regolamentavano la produzione e lo smercio. Poiché i mattoni erano venduti a numero, le autorità pubbliche prescrivevano le misure alle quali i fornaciai dovevano attenersi e in base alle quali venivano effettuati severi controlli. Oltre che da fonti archivistiche questa prassi è documentata dai numerosi esempi, ancora conservati, di modelli in
45- Rappresentazione assonometrica della diminuzione delle misure dei mattoni genovesi dal XII al XIX secolo (da MANNONI , MILANESE 1988)
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pietra che venivano apposti sui muri dei palazzi pubblici e che recavano, in scala reale, le sagome e le misure che dovevano avere le cassette per la foggiatura dei laterizi messi in commercio. La validità di tali norme era limitata ai confini dei vari stati territoriali, e tale rimase fino alla fine dell’Antico Regime. Tuttavia, se si esaminano le dimensioni dei mattoni di una muratura omogenea, provenienti cioè da un’unica fornitura, si riscontra un notevole divario di dimensioni (nello spessore, nella larghezza, nella lunghezza) che possono presentare differenze anche superiori a un centimetro. Ciò è dovuto a vari fattori, fra i quali il più importante è il diverso ritiro dell’argilla, durante la cottura, che causa le differenze visibili nei prodotti finiti, provenienti da un’unica infornata. Tali differenze non potevano né essere previste né essere eliminate dai fornaciai. La lettura dei testi legislativi dimostra come vi fosse una precisa conoscenza di questo fenomeno: alcuni capitoli della corporazione dei produttori di mattoni di Savona del 1598, ad esempio, fanno riferimento alle frodi commesse ‘nella bontà’, ossia in buona fede, e sembrano riferirsi proprio ai problemi del ritiro dell’argilla durante la cottura. È stato provato che se si dispongono su un grafico i valori delle dimensioni dei mattoni di un’unica produzione, le differenze di misure dei singoli pezzi tendono a formare una curva ‘a campana’, o ‘gaussiana’ che è appunto caratteristica delle variazioni che non dipendono da interventi volontari, ma dal caso. Il vertice della curva, corrispondente alla media, è la misura cui tendevano i produttori, quella imposta dalla legge e alla quale il fabbricante cercava di attenersi, nonostante le piccole variazioni, indipendenti dalla sua volontà. Lo studio delle 46- La curva a campana, o ‘gaussiana’, che dimensioni dei mattoni rappresenta le piccole differenze di misure ha inoltre provato che riscontrabili su mattoni coevi, dovute a tali medie tendono a variazioni casuali
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ridursi continuamente dal XII al XVIII secolo. Questa riduzione è più o meno accentuata e più o meno continua a seconda delle diverse città e dipende da motivi di carattere economico. A Genova, per esempio, si è registrata una diminuzione piuttosto drastica delle misure nei momenti di più intensa attività costruttiva (fra XII e inizi XIV secolo e poi fra XVI e XVII secolo) e una riduzione più graduale nei secoli di maggiore stasi dell’attività edilizia. È evidente che tale riduzione delle dimensioni è da ricondurre non più a fenomeni casuali, ma a cause volontarie, legate all’andamento del mercato edilizio e che operavano molto lentamente nel tempo, mascherate dalle variazioni involontarie. Tali diminuzioni volute sono perciò diverse da città a città, da stato a stato e determinano un notevole particolarismo nelle misure dei laterizi, (esclusa, come si è visto, la fase iniziale, dove il panorama pare assai omogeneo). In Italia a una vera e propria uniformità delle misure dei mattoni si giunse solo nel secolo scorso, parallelamente al processo di unificazione nazionale, che portò all’introduzione dei mattoni ‘UNI’. Accanto alla produzione di mattoni, anche l’uso di tegole dai bordi rialzati, e dei relativi coprigiunto, riprese su larga scala nel Medioevo, soprattutto nelle città. Tuttavia in alcune aree montane, come l’Appennino ligure, o l’arco alpino, l’uso delle tegole sembra essere cessato con la caduta dell’Impero Romano; successivamente in queste zone si generalizzò l’impiego di lastre da copertura in pietra scistosa (filladi, ardesie, ecc.), più abbondanti in loco e più facili da produrre e da trasportare. Le mattonelle da pavimento, conosciute già in epoca romana, vennero anch’esse prodotte diffusamente a partire dall’età bassomedievale. Spesso, quando una pavimentazione usurata doveva essere rifatta, non veniva rimossa, ma vi si sovrapponeva direttamente quella nuova. Nelle indagini archeologiche effettuate a Genova in occasione dei lavori per il recupero del Palazzo Ducale, ad esempio, si sono rilevate, in diversi ambienti, più pavimentazioni sovrapposte, frutto di successivi rifacimenti, avvenuti nel corso del tempo, che hanno conservato un’ampia casistica di laterizi. Le cosiddette “chiappelle”, mattonelle rettangolari fabbricate in ceramica a corpo colorato, poroso, senza coperta, appositamente per pavimenti, sono state rinvenute soprattutto nei fondi, nelle cantine, nei vani di servizio. Esse presentavano dimensioni inferiori rispetto ai coevi mattoni e soprattutto spessori molto bassi (cm 2,0-2,5), che ne riducevano notevolmente la resisten-
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za all’urto. È forse per questo che non compaiono mai nelle pavimentazioni degli esterni, dove si usavano invece i mattoni e soprattutto quelli più refrattari e duri, come si è visto. Nei piani nobili si è notata una maggiore ricercatezza delle pavimentazioni, ottenuta intervallando mattonelle ottagonali con laterizi più piccoli, quadrati, talvolta rivestiti di coperte colorate in smalto verde, blu, o nero. L’impiego di materiale ceramico per i pavimenti era spesso preferito al marmo poiché offriva un maggiore isolamento termico. Anche l’uso di tubature incassate nei muri riprende in piena età medievale, quando, soprattutto nelle aree urbane, vengono prodotte appositamente a questo scopo condutture in ceramica a corpo colorato, poroso, impermeabilizzate con una coperta costituita da vetrina piombifera, stesa solo sulla superficie interna e di colore verde o bruno. A Genova questo sistema rimane in uso anche in età moderna, quando si moltiplica l’impiego delle tubature invetriate, definite trom bette nei documenti d’archivio e costituite da varie parti, incastrabili fra loro, grazie alle misure decrescenti del diametro. Accanto ai diversi tipi di laterizi finalizzati alle parti strutturali, fin qui descritti, non minore importanza riveste la produzione di manufatti ceramici destinati alle decorazioni dell’architettura, che hanno una storia altrettanto antica. Fregi di terrecotte figurate ornavano i principali edifici greci ed etruschi fin dall’epoca arcaica. Singole lastre foggiate a matrice venivano applicate con chiodi in ferro alle travature e avevano il duplice scopo di proteggere le strutture lignee del tetto e di costituire lunghe fasce decorate. Lo studio di alcuni contesti di terrecotte architettoniche dell’Etruria ha dimostrato l’uso di due tecniche artistiche: una detta ‘a ritaglio’ (usata in particolare per gli acroteri di epoca arcaica) che consisteva nel modellare i pezzi a crudo uno ad uno, utilizzando un coltello in modo da praticare dei motivi a traforo; un’altra tecnica, più veloce, era invece basata sull’uso di matrici in ceramica. Dopo l’essiccazione i pezzi venivano rivestiti con un ingobbio di argilla depurata e diluita, stesa a pennello e quindi sovradipinti in bianco, (con caolino), in rosso, in marroncino, in nero (con argille ricche di ferro) e quindi mandati in cottura. Anche le statue acroteriali collocate sul colmo dei tetti venivano ottenute con l’uso di stampi, erano svuotate internamente in modo da essere più leggere. La produzione di ceramiche per la decorazione architettonica (o coroplastica) di tradizione etrusca continuò per tutta
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l’età romana repubblicana e scomparve a partire dall’età augustea per essere sostituita dall’uso massiccio di marmi e pietre colorate. Un rinnovato impiego di laterizi decorati con motivi a rilievo si registra a partire dall’età tardoantica a Cartagine e nell’area nordafricana, da dove sembra essersi diffuso alla Spagna visigota e alla Gallia merovingia, verosimilmente attraverso le isole Baleari. Questi mattoni, murati nelle pareti interne o esterne degli edifici, erano decorati con motivi geometrici, vegetali, figurati, oppure con simboli cristiani; presentano una forma quadrangolare o rettangolare e misure ancora basate sul modulo romano. La loro produzione continua per tutto l’Altomedioevo ed è ampiamente attestata anche in Italia, come provano, ad esempio, i celebri casi di San Salvatore di Brescia, di Cividale, di Canosa di Puglia. Benché non manchino i prodotti sicuramente ottenuti a stampo, è però certo che, in molti casi, le decorazioni venivano scolpite a cotto, spesso utilizzando mattoni romani di recupero, come è stato provato dalle differenze e irregolarità riscontrate in occasione di specifiche analisi archeologiche. Le ragioni di una tale pratica vanno ricercate, ancora una volta, nel panorama storico ed economico dell’età altomedievale, nella quale tutte le produzioni manifatturiere conobbero un drastico ridimensionamento e la ‘cultura del reimpiego’ si affermò sotto varie forme. Col XIII e XIV secolo si registra un recupero della produzione di terrecotte ornamentali, ottenute a stampo entro madreforme negative, generalmente realizzate in ceramica, ma talora anche in gesso. Con l’affermarsi del gusto rinascimentale tale produzione conobbe una diffusione maggiore, soprattutto in area padana e toscana; nelle decorazioni vennero introdotti motivi nuovi (ovuli, perline, dentelli, candelabre), ispirati al mondo classico. Cornici ornamentali erano spesso composte mediante l’assemblaggio di elementi modulari prodotti serialmente; stampi particolari permettevano di realizzare balaustre e mensole con modanature complesse. Non sempre tali decorazioni mantenevano il colore rosso vivo dell’argilla: sono documentati, infatti, casi in cui sulla superficie delle terracotte è stata stesa una tinteggiatura grigia, allo scopo di imitare il materiale lapideo. Accanto alla tecnica a stampo ne esisteva anche un’altra, effettuata a crudo sui laterizi essiccati, che venivano graffiti e scolpiti sulla base di precisi disegni preparatori. Doveva essere particolarmente usata nella produzione dei mattoni destinati agli archi, dove l’andamento del motivo decorativo veniva stabilito, sui pezzi montati a
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terra, attraverso linee guida segnate col compasso. Un caso simile è stato documentato, attraverso una meticolosa analisi archeologica, sul portale in cotto della chiesa di San Bartolomeo di Bologna. Un altro gruppo di manufatti ceramici prodotti appositamente per l’edilizia, a scopi decorativi, è quello delle mattonelle rivestite da coperte vetrose o smaltate. Già conosciute nell’architettura dell’antico oriente (si pensi ai celebri mattoni invetriati della strada processionale di Babilonia, della fine del VII secolo a.C.) le mattonelle rivestite da coperte vetrose conobbero una rinnovata importanza nel Medioevo, quando vennero utilizzate sia per i rivestimenti parietali interni o esterni, sia per le pavimentazioni, sostituendo i mosaici in pietra e marmo, decorati a motivi geometrici, usati nei secoli precedenti. Si tratta di prodotti nei quali la foggiatura del corpo ceramico richiama metodi propri della produzione dei laterizi (uso di stampi), mentre le coperte vetrose sono applicate secondo gli stessi procedimenti usati per il vasellame. Nel Mediterraneo orientale la produzione di laterizi rivestiti prende avvio con la fine del IX-inizi del X secolo. A da partire tale periodo le regioni del mondo bizantino iniziano a produrre mattonelle e placche ornamentali con invetriature moncrome o policrome, mentre nel mondo arabo si dà avvio alla produzione di manufatti smaltati. Nell’Europa nord-occidentale mattonelle invetriate policrome vennero usate, a partire dal XII secolo, soprattutto negli edifici religiosi; nel corso del XIII e del XIV secolo il loro uso si estese anche ai castelli e alle residenze laiche. Più rare, soprattutto all’inizio, erano invece le mattonelle smaltate. Una ricca produzione istoriata è attestata nel XIV secolo nella sontuosa residenza papale di Avignone. Recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce, nel sottosuolo di Marsiglia, i resti di fornaci ceramiche che, oltre a vasellame domestico, producevano anche mattonelle in maiolica, decorate con motivi a croce, forse copiati da analoghi prodotti ingobbiati e invetriati del nord della Francia. Erano state fabbricate in serie, modellando l’argilla con forme lignee quadrangolari prive del fondo, e quindi rifinite (una volta essiccate) con un coltello che ne ritagliava i bordi in modo da ottenere angoli fortemente inclinati, utili per facilitare la posa in opera. La vera difficoltà tecnica era però rappresentata dal rivestimento in smalto (applicato in seconda cottura), con decorazione dipinta in verde (ramina) e bruno (manganese). In Italia, se si escludono alcuni casi isolati di laterizi rivestiti data-
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bili al XII secolo, la diffusione di questi prodotti comincia ad essere più significativa a partire dalla prima metà del XIII secolo. Piastrelle semicircolari rivestite da una coperta verde ornano i campanili duecenteschi di San Francesco e Santa Chiara ad Assisi; sempre in Umbria la facciata della chiesa di San Francesco di Perugia è decorata da losanghe bicolori bianco-verdi. Risalgono invece ai primi decenni del XIV secolo i quadrelli monocromi blu posti nel secondo ordine del campanile di Giotto a Firenze, per i quali non è ancora stata chiarita la natura del colorante utilizzato, anche se pare da escludersi l’ossido di cobalto. Fra gli esempi più celebri è la serie delle 27 formelle ancora collocate nelle murature esterne del duomo di Lucca; si tratta di elementi di forma romboidale, con lato di cm 28 circa, realizzate in ‘maiolica arcaica’, cioè rivestite di uno smalto bianco e dipinte con pigmenti bruno-manganese e verde-ramina. Queste ceramiche, databili ai primi decenni del XIV secolo, presentano decorazioni geometriche, ma anche istoriate, copiate sia dai motivi intarsiati attestati nel duomo stesso, sia desunti dall’area francese meridionale, come suggerirebbero alcune somiglianze con i pavimenti avignonesi (più sopra citati) ad essi contemporanei. Un interessante contesto di mattonelle smaltate destinate ad ambienti interni è stato rinvenuto (in giacitura secondaria) negli scavi condotti nell’abbazia benedettina di San Fruttuoso di Camogli (Genova). Si tratta di 170 piastrelle a forma di croce e di stella a otto punte, con smalto monocromo (bianco, verde ramina, bruno manganese), databili al XIV secolo, che dovevano incastrarsi a formare una composizione geometrica e forse erano state impiegate in un pavimento. È interessante osservare come la forma sia chiaramente derivata da esemplari di area islamica, mentre l’impasto del corpo ceramico e i colori delle coperte provano che i pezzi sono usciti da botteghe liguri, forse savonesi. In tutti i casi fin qui descritti si tratta di manufatti di lusso, prodotti su committenza specifica, generalmente di ambito ecclesiastico, e destinati a monumenti religiosi o comunque a raffinate élites sociali. Meno rare erano invece le mattonelle quadrate o rettangolari, rivestite da coperte monocrome, prodotte nel XIV e XV secolo in varie regioni italiane e spesso definite ‘quadretti’.’ Nei secoli finali del Medioevo la Spagna araba divenne la maggiore produttrice di piastrelle smaltate, (dette azulejos), che venivano distribuite in tutte le maggiori città Mediterranee: a Genova, ad esempio, ne veniva importato un tipo assai elegante, con decorazione a intreccio realizzata in bianco, su fondo blu, caratteristica di botteghe valenzane della
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47- Piastrelle a forma di croce e stella (sec. XIII) rinvenute negli scavi del monastero di San Fruttuoso di Camogli (Genova)
metà del XV secolo. È significativo il fatto che in questa città italiana le piastrelle da rivestimento in maiolica decorata vengano definite ‘laggio ni’, con un termine derivato dall’arabo ‘zullaygiun’, che significa appunto mattonella. I genovesi non solo le importavano per consumo interno, ma, nel XV secolo, dovevano essere fra i principali mediatori commerciali delle ceramiche spagnole, come attestano, ad esempio, i registri portuali di Southampton (Inghilterra), che menzionano una “gene pots” (ceramica genovese), che era probabilmente maiolica spagnola. Fra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo veniva importato dalla Spagna un tipo di laggioni eseguiti con una tecnica definita ‘a cuenca’. Essa consisteva nel riprodurre a stampo, sulle piastrelle ancora crude, i motivi decorativi (geometrici o vegetali) i contorni dei quali rimanevano in rilievo, mentre la parte centrale si infossava, formando, appunto, delle ‘conchette’. Dopo la prima cottura ogni cavità riceveva uno smalto di colore diverso (bianco, azzurro, verde, bruno, giallo); in seguito alla seconda cottura si otteneva così una decorazione a rilievo, policroma. Si trattava comunque di una produzione piuttosto seriale, che consentiva di ottenere grandi quantità di merce con una certa velocità.
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48- Laggioni policromi decorati ‘a cuenca’, di produzione spagnola (sec.XVI), rinvenuti a Genova
A partire dalla fine del XV secolo la tecnica di produzione delle maioliche italiane conobbe profonde innovazioni: il rivestimento di smalto divenne più spesso e migliorò nel colore e nella qualità; tale cambiamento era dovuto sia all’aumento della percentuale di stagno, sia all’introduzione di fornaci dette ‘a muffola’, nelle quali i manufatti venivano protetti dal contatto diretto col fumo. Queste innovazioni tecnologiche, oltre ai nuovi motivi decorativi, distinguono le maioliche rinascimentali da quelle medievali; le prime ad adottare i nuovi sistemi furono le manifatture dell’Italia centrale (Toscana, Marche, Umbria) e della val Padana (Faenza). Una interessante produzione di laggioni smaltati di tipo rinascimentale è attestata a Genova a partire dagli anni 1530-40, in seguito a scavi archeologici condotti in un quartiere allora suburbano (via San Vincenzo). In tale zona si sono evidenziati i resti di una cava d’argilla e un curioso ‘tappeto’ di piastrelle rinascimentali, tutte realizzate con lo stesso disegno, ma con diverse tonalità di colore. La loro sistemazione (senza uso di malta) ha fatto pensare a un campionario, oppure a un
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reimpiego, per un pavimento posticcio, di ‘prove’ di cottura scartate. Ciò che è certo è che si tratta della più antica traccia di una produzione genovese a ‘smalto pesante’, cioè di tipo rinascimentale. È assai probabile che l’impianto di questa manifattura sia da collegare all’insediamento, avvenuto proprio all’inizio del XVI secolo (stando alle fonti scritte), dei Da Pesaro, famiglia di ceramisti marchigiani, i quali avrebbero introdotto a Genova le innovazioni tecniche della maiolica rinascimentale. Occorre però notare che i motivi decorativi dipinti sullo smalto non derivano dal repertorio dell’Italia centrale, ma imitano prodotti arabi, turchi, persiani, ripresi a loro volta dalle porcellane cinesi. Evidentemente la scelta della decorazione, con tipici motivi mediterranei, era stata imposta dai committenti (verosimilmente ricchi mercanti) in vista di uno smercio di tali prodotti a vasto raggio. Questa ipotesi risulta confermata dal ritrovamento di simili manufatti in Egitto, in Spagna (dove le produzioni locali erano decadute dopo la ‘riconquista cattolica’) e persino oltre Atlantico, a Città del Messico. 8. Principali cause di degrado Le costruzioni in argilla cruda sono soggette a deterioramento da parte delle acque piovane; in primo luogo la pioggia battente può causare danni meccanici, dilavare e portare via lo strato superficiale (quello impermeabile), mettendo a nudo la parte più interna. Se però le piogge sono modeste e senza venti, questo danno non è particolarmente veloce; pertanto, se il muro è stato costruito con uno spessore maggiore del necessario, oppure se ha un buon intonaco, può durare molto a lungo, come si è verificato nello studio dell’architettura in terra dell’alessandrino (cfr. II.4). La presenza della ghiaia all’interno dell’argilla consente di ridurre l’eccessiva plasticità e di resistere più a lungo all’erosione dell’acqua battente, rallentando il degrado superficiale. I laterizi sono invece soggetti, talvolta, a fenomeni di efflorescenza (cfr. I.7.) dovuti all’impiego di argille provenienti da depositi marini o lacustri, ricche di sostanze solfuree provenienti da residui organici che, sotto forma di solfuri di ferro (piriti) rimangono nelle argille. Durante la cottura i solfuri si ossidano, lo zolfo si lega al calcio e forma solfato di calcio. In presenza di acque circolanti all’interno dei muri, il solfato viene trasportato in soluzione e depositato poi in superficie con la fuoriuscita. I laterizi sono inoltre soggetti allo stesso tipo di degrado che interessa le rocce silicatiche porose.
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I rivestimenti vetrosi e le decorazioni a base di ossidi metallici sopradipinte, invece, offrono il grande vantaggio di non alterarsi mai nel tempo. Le piastrelle policrome sono soggette a usure meccaniche, ma non ad alterazione dei loro colori originali, che possono durare, praticamente intatti, per molti secoli. 9. Nota bibliografica Sulla formazione dei minerali argillosi e sui caratteri delle argille molte notizie si trovano nel volume di CUOMO DI CAPRIO 1985, dove si esaminano accuratamente anche i sistemi tradizionali di preparazione e di foggiatura. Su questi ultimi aspetti si veda inoltre il manuale di CARUSO 1983, che contiene anche molti esempi di ‘archeologia sperimentale’ sulle varie tecniche di lavorazione dell’argilla. Le principali fasi del ciclo di produzione dei manufatti ceramici sono inoltre descritte nel volume di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996 (pp. 78-88). Per le costruzioni in argilla cruda si segnala l’opera curata da LASFARGUES 1985, che contiene gli atti di un importante convegno tenutosi a Lione nel 1983 e incentrato sull’architettura in terra e legno (soprattutto del Mediterraneo occidentale) dalla protostoria al Medioevo, con particolare attenzione all’età romana. All’interno del volume si segnala, in particolare, il saggio di ARCELIN, BUCHSENSCHUTZ 1985, dedicato a un’esauriente disamina delle fonti antiche che menzionano o descrivono in vario modo le costruzioni in terra e legno. Sull’uso dell’argilla cruda nell’architettura greca antica è ancora molto valida la già citata opera di MARTIN 1965 (pp. 46-63) che pone a confronto dati epigrafici e archeologici. Per quanto concerne l’Altomedioevo, interessanti esempi di case di terra di area abruzzese vengono esaminati nel saggio di S TAFFA 1994, (corredato di un’utile bibliografia e arricchito da confronti etnografici); case realizzate in terra vengono inoltre considerate nella classificazione di FRONZA, VALENTI 1994 (tipo AVIII). Per le case di terra di età medievale si veda PESEZ 1985, con un succinto ma essenziale quadro della realtà europea; interessanti esempi documentati in area toscana attraverso l’archeologia sono trattati nel saggio di FRANCOVICH, GELICHI, PARENTI 1980; mentre i risultati delle ricerche sulle case di terra dell’alessandrino sono raccolti in PAGELLA POGGIO 1992. Sull’utilizzo del pisé in età medievale e postmedievale in area toscana cfr. inoltre PARENTI 1995, p. 378. Alla cottura della ceramica è dedicato ampio spazio nel citato volu-
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me di CUOMO DI CAPRIO 1985 (pp. 125-149) e alla stessa Autrice si deve un’esaustiva tipologia delle fornaci per mattoni e vasellame in area italiana, dalla preistoria a tutta l’epoca romana (cfr. CUOMO DI CAPRIO 1971/72). Per la classificazione tecnologica dei prodotti ceramici è sempre fondamentale la lettura del volume di MANNONI 1975; il testo di ALIPRANDI, MILANESE 1986, di carattere più divulgativo, contiene comunque essenziali informazioni sui caratteri tecnologici e sulla sto ria delle principali categorie di prodotti ceramici dall’antichità all’epoca contemporanea. Sull’uso dei bacini ceramici nell’architettura esiste una vastissima bibliografia, ci si limita pertanto a segnalare solo le opere principali: per la situazione pisana BERTI, TONGIORGI 1981 con il catalogo di tutti i bacini e BERTI 1997, per una breve guida al Museo di San Matteo. Molti articoli si trovano in due Convegni svoltisi, a distanza di tempo, ad Albisola e dedeicati, il primo, all’impiego della ceramica nell’architettura (AA.VV. 1983) e il secondo specificamente ai bacini murati medievali (A A.VV. 1996); di quest’ultimo si segnala, in particolare, il contributo di BERTI, GABBRIELLI, PARENTI 1996 incentrato sulle tecniche di inserimento dei bacini nelle murature. Lo studio del caso di San Romano di Lucca, più sopra citato, si trova invece in BERTI, PARENTI 1994. Sulla produzione di laterizi nella Grecia antica cfr. MARTIN 1965, p. 63 e segg.; per i laterizi bollati prodotti a Velia si veda MINGAZZINI 1954. Sui laterizi di epoca romana le notizie essenziali si trovano nei più noti manuali sulle tecniche costruttive come ADAM 1989, (p. 65 e segg.); per una raccolta di contributi specifici su singole ricerche si veda inoltre MC WHIRR 1979. Sui bolli dei laterizi romani la bibliografia è vastissima e si rimanda perciò ai principali lavori di sintesi quali BLOCH 1947; STEINBY 1974-75 e STEINBY 1986. Per i problemi relativi alla produzione di laterizi durante l’altomedioevo cfr. FIORILLA 1985/86; FIORILLA 1986 per l’area lombarda ed ARTHUR, WITEHOUSE 1983 per l’Italia centro-meridionale. Sulla produzione laterizia di età medievale e postmedievale e sulla mensiocronologia dei mattoni cfr. MANNONI, MILANESE 1988; GHISLANZONI, PITTALUGA 1989; PITTALUGA, GHISLANZONI 1991; PITTALUGA, GHISLANZONI 1992; QUIROS CASTILLO 1996; RECCHIONE 1996; ROTA, SARTORI 1996; P ITTALUGA, QUIROS CASTILLO 1997; QUIROS CASTILLO 1997; PARENTI, QUIROS CASTILLO c.s.; CASOLO GINELLI 1998. Interessanti spunti sulla produzione di tegole nell’Inghilterra meridionale fra la fine del XIII e l’inizio del XVI, scaturiti da un’analisi delle fonti d’archivio, si trovano in HARE 1991. Un sistematico spo-
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glio della documentazione archivistica genovese del XVI e XVII secolo concernente le pavimentazioni in laterizio è contenuto nel saggio di BOATO, DECRI 1992, dal quale sono tratte le sporadiche citazioni riportate nei precedenti paragrafi. Per quanto concerne gli aspetti tecnologici delle decorazioni architettoniche greche ed etrusche, la bibliografia è tutt’altro che abbondante, oltre al citato MARTIN 1965, p. 87 e segg. (per l’area greca), utili notizie sono riportate in AA.VV. 1986, p. 93 e segg. (per l’area etrusca). Sulla produzione di laterizi a stampo in età tardoantica e altomedievale cfr. NOVARA 1994, con un ricco apparato bibliografico. Sui mattoni decorati di epoca medievale e rinascimentale esistono numerosi saggi incentrati sullo studio di singoli contesti; ottimi lavori di sintesi, che comprendono una rassegna delle principali tecniche attestate sono stati curati da G ABBRIELLI, PARENTI 1992 e P ARENTI 1997, ai quali si rimanda anche per l’amplia bibliografia riportata. Il caso del portale di San Bartolomeo di Bologna, citato più sopra, è stato esaminato in D I CARLO ET ALII 1985. Sui mattoni decorati di età medievale è inoltre fondamentale la lettura del poderoso lavoro storico-archeolgico curato recentemente da B ARACCHINI, GELICHI , PARENTI 1998, relativo all’area lucchese, ma di valore metodologico più generale. Per le piastrelle smaltate e invetriate di epoca medievale si segnala il recente volume curato da GELICHI, NEPOTI 1999, con contributi che abbracciano l’intera area mediterranea. Per l’area francese si segnalano il volume curato da DERŒUX 1986, che raccoglie gli atti di un convegno specifico svoltosi nel 1985. Assai utile è inoltre il catalogo della mostra svoltasi ad Avignone nel 1995 (AA. VV. 1995); per lo scavo delle fornaci marsigliesi di mattonelle smaltate cfr. MARCHESI, THIRIOT, VALLAURI 1997, p. 307 e segg. Una puntuale rassegna delle mattonelle maiolicate impiegate nell’architettura medievale dell’Italia centrale si trova inoltre in BERTI, CAPPELLI 1994, dove vengono esaminate in particolare le formelle del Duomo di Lucca (p. 169 e segg.). Per quelle del campanile di Giotto a Firenze, più sopra citate cfr. MOORE VALERI 1986 oltre alla scheda specifica contenuta in GELICHI, NEPOTI 1999, p. 104. Per le piastrelle medievali rinvenute negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso, più sopra citate, una scheda specifica si trova ancora in GELICHI, NEPOTI 1999, pp. 90-91. Per le mattonelle maiolicate rinascimentali, molti saggi si trovano negli Atti dei Convegni Internazionali di Albisola; per il caso della manifattura genovese di via S.Vincenzo, cfr. MANNONI 1994, pp. 88-111.
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III. I LEGANTI, GLI INTONACI, GLI STUCCHI
1. Selenite, calcari e dolomie: le materie prime Il primo legante impiegato dall’uomo è stato l’argilla, e il suo uso è durato a lungo, soprattutto nell’edilizia rurale, anche in epoche recenti. Tuttavia per ottenere costruzioni solide ed elevate in altezza (soprattutto con pietre piccole o non squadrate) l’uso di leganti più tenaci era di fondamentale importanza, onde consentire di aggregare fra loro gli elementi delle murature e aumentarne la resistenza alla compressione; materiali più durevoli vennero perciò prodotti con trasformazioni di tipo chimico dovute, principalmente, alla cottura di rocce particolari. I leganti preindustriali sono costituiti da gesso e calci; il loro uso non era limitato alle strutture portanti (malte e calcestruzzi), ma si estendeva ai rivestimenti (intonaci), alle decorazioni in rilievo (stuc chi), alle pavimentazioni. I leganti vengono definiti anche materiali ‘litoidi’, dato che derivano da quelli litici, ad essi assomigliano e come tali si comportano. Si ottengono per trasformazione di alcune rocce sedimentarie di origine chimica, sia solfatiche, sia carbonatiche (cfr. I.1.). La selenite o pietra da gesso ha una composizione solfatica, è monomineralica, essendo costituita prevalentemente da cristalli di gesso, o solfato biidrato di calcio (Ca SO4 2H2O), il quale si trova in natura in formazioni stratificate, dovute a depositi originati per evaporazione di bacini d’acqua chiusi. Per la produzione di calci si usavano invece rocce sedimentarie car-
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bonatiche, ovvero calcari. Molto adatti erano quelli puri, cioè con alto contenuto di carbonato di calcio, costituito per lo più dalla calcite (CaCO3), che in alcune formazioni può anche trovarsi in quantità pari al 95%. In alcune circostanze vennero utilizzati anche i marmi, originati dal metamorfismo dei calcari (cfr. I.1.), e nei quali il carbonato di calcio può rappresentare il 98-99% della roccia; tuttavia essi sono poco adatti alla produzione di calce, perché macrocristallini. Anche i calcari meno puri, contenenti cioè piccole quantità di quarzo, ossidi di ferro, o minerali argillosi, venivano utilizzati, in passato, per la produzione di leganti. Un altro litotipo calcareo molto usato era la dolomia, anch’essa roccia sedimentaria di origine chimica, costituita da carbonato di calcio e magnesio (CaMg (CO3)2). Non molto diversi sono i calcari dolomitici, rocce ‘intermedie’ fra i calcari e le dolomie, nei quali, a differenza della dolomia, il rapporto calcio-magnesio non è sempre pari a 1:1, ma la quantità di calcio è maggiore; in pratica si tratta di litotipi formati da calciti, dove il magnesio sostituisce una parte del calcio. 2. I sistemi di estrazione Rispetto alle cave di pietra da taglio, che dovevano fornire blocchi grandi, regolari e senza difetti, quelle per la pietra da calce, erano basate su procedimenti assai meno complessi. Le cave erano sempre organizzate a gradoni, con un fronte e un piazzale, ma per l’estrazione non si operavano i faticosissimi e regolari solchi delle ‘tagliate a mano’, ma si cercava di sfruttare ogni difetto, ogni crepatura o fratturazione naturale. I massi potevano essere distaccati dalla roccia madre con picconi e leve o con cunei infissi a martello nelle fessure. Dopo il distacco le pietre venivano fatte rotolare sul piazzale, per essere ridotte in frammenti minori. Appena estratte avevano perciò forme irregolari; le dimensioni potevano essere diverse, tuttavia non troppo piccole, né troppo grandi, in modo da agevolare le operazioni di trasporto: la lunghezza idea le non superava i 20-30 centimetri. Dalla fine del XVII secolo nelle cave per pietra da calce è stato introdotto massicciamente l’uso di esplosivi, proprio perché non vi erano precauzioni di rovinare il materiale e tutto il prodotto estratto poteva essere utilizzato.
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3. Il ciclo di lavorazione del gesso Il gesso veniva ottenuto in seguito alla cottura della selenite, a temperature relativamente basse. Già a 130° C, infatti, questa roccia subisce una trasformazione chimica, dovuta alla parziale disidratazione, che dà luogo al solfato di calcio semiidrato: 2(Ca SO 4 2H2O) + 130° = (Ca SO4)2 H2O + 3 H 2O Si tratta del cosiddetto gesso a presa rapida, utile solo per interventi veloci. A questo stadio la trasformazione è reversibile, in quanto il semiidrato, se impastato, può riprendere acqua e quindi tornare rapidamente biidrato, ovvero a una forma abbastanza resistente. Con una cottura a 160°-180° C si ottiene il gesso da stuccatori, che impiega pochi minuti per fare presa. Se invece la selenite viene cotta a temperature di 400°C o superiori ha luogo una completa disidratazione (gesso cotto) e si ottiene il solfato di calcio anidro. 2 (Ca SO 4 2H2O) + 400°C = (Ca SO4)2 + 4H2O Questo materiale, impastato con acqua ed esposto all’aria, ricristallizza più lentamente, diventando prima semiidrato e poi biidrato. La scagliola deriva invece dalla miscela di gesso da stuccatori e selenite macinata finissima, unita a colla animale. Ha una presa normale ed è perciò adatta a essere utilizzata per la produzione scultorea, ad esempio nei modelli per la statuaria in pietra, oppure negli altari e paliotti, realizzati a imitazione del marmo. Se la cottura avviene a temperature comprese fra i 600° e i 900°, si ottiene il cosiddetto gesso morto, o cotto a morte. È un materiale assai stabile e poco idratabile. Poiché è il più facile da produrre, potendo subire trasformazioni reversibili già a basse temperature, il gesso è la più antica sostanza legante prodotta artificialmente. Quello a presa lenta, infatti, è molto plastico, adatto a essere modellato, e solidificandosi non cambia volu-
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me, perciò non ha bisogno di inerti. L’unico inconveniente che presenta è quello di essere molto igroscopico, vale a dire che allo stato microcristallino è assai poroso e perciò assorbe acqua la quale tende, col tempo, a polverizzarlo. Per questo il suo uso era maggiormente adatto nelle regioni con climi caldi, oppure negli interni. Come legante fu utilizzato dagli Egizi, dal terzo millennio a.C., (si trova ad esempio nelle piramidi di Gizah e nelle tombe di Saqqara) e in età minoica. In seguito venne utilizzato assai più per gli intonaci e per gli stucchi (cfr. III.7.) che per l’allettamento delle pietre nei muri. 4. La calce: cottura, spegnimento, impasto, presa Le malte sono miscele costituite da legante di calce, sabbia aggiunta come aggregato (un tempo chiamato inerte) e da acqua. Al contatto con la CO2 dell’aria il legante indurisce, diminuendo di volume e diventando consistente, pertanto è un materiale particolarmente adatto come impasto per l’allettamento delle pietre nei muri. Nella classificazione tecnologica, la distinzione fondamentale va fatta fra malte aeree, nelle quali il legante fa presa con l’aria, e malte idrauliche, che possono far presa anche in assenza di aria, come sott’acqua (cfr. III.5.). Un’altra distinzione viene fatta, in base alla composizione chimica dei leganti, fra calci grasse e calci magre: le prime si ottengono dalla cottura di calcari, le seconde dalla cottura di dolomie o di calcari dolomitici, e perciò vengono dette anche calci magnesiache. Occorre non confondere il concetto di calce grassa o magra con quello di malta grassa o magra: le malte grasse contengono infatti maggiori quantità di legante, mentre quelle magre ne hanno percentuali minori. Si possono così avere, ad esempio, malte grasse di calce magra, o viceversa. La preparazione delle calci aeree grasse si ottiene in seguito alla cottura a 900°C di pietre calcaree. A tale temperatura il carbonato di calcio si trasforma tutto in ossido di calcio (CaO) o calce viva, con emissione di anidride carbonica, che si disperde nell’atmosfera. CaCO3 + 900° = CaO (calce viva) + CO2
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La calce viva è un composto molto caustico, poiché il calcio (come il magnesio) fa parte degli elementi alcalino-terrosi, i quali, ossidati, sono basi molto aggressive, in quanto tendono a idratarsi velocemente, cioè a catturare idrogenioni e quindi a disidratare i tessuti organici. Per tali motivi la calce viva era molto usata in passato come disinfettante. Prima di essere impiegata nelle murature deve essere spenta con acqua. Il sistema tradizionale di spegnimento consisteva nella preparazione del grassello. Le zolle di calce viva venivano messe a bagno con quantità d’acqua poco superiore a quella necessaria per idratarsi chimicamente. Questa operazione dà luogo, con abbondante emissione di calore, alla calce spenta (Ca (OH)2), cioè all’idrossido di cal cio. Durante lo spegnimento la calce viva veniva molto impastata, oppure lasciata macerare a lungo, affinché la reazione fosse completa. È questo grassello che veniva impastato nei cantieri, insieme a sabbia e acqua, per ottenere miscele pronte a essere poste in opera nei muri. Oggi sappiamo che l’idrossido di calcio ha una struttura cristallina, essendo costituito da individui di forma tabulare che esistono anche in natura, con il nome di portlandite. È interessante osservare come questo composto, a differenza della calcite di partenza e dell’ossido di calcio, con una aggiunta limitata di acqua diventi plastico, analogamente all’argilla (cfr. II.1.). È molto probabile che tale plasticità sia dovuta alla forma cristallina della portlandite, che, analogamente ai minerali argillosi, ha un abito lamellare. Anche l’idrossido di calcio è un prodotto caustico, come la calce viva. Una volta impastato e allettato nelle murature, l’idrossido viene a contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera e provoca una carbo natazione, con altra emissione di calore, che causa la ricristallizzazione della calcite, di conseguenza ritorna alla durezza del calcare originario. CaO + H 2O = CaOH 2 (idrossido di calcio o portlandite) CaOH2 + CO2 = Ca CO 3 (calcite) + H 2O La calce viva poteva essere prodotta nei cantieri, oppure acquistata da fornaci poste in prossimità delle cave, fuori dagli abitati, in aree boscose, dove era più facile l’approvvigionamento di legna.
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Il grassello invece, essendo pastoso e bagnato, non poteva essere commerciato facilmente, pertanto veniva prodotto direttamente nei cantieri. Quello che non era usato subito veniva conservato in fosse, coperto con acqua, (talvolta anche con pelli) per proteggerlo dal contatto con l’aria e per impedirne la reazione con l’anidride carbonica che avrebbe causato la carbonatazione prima del tempo. Nel secolo scorso, con l’industrializzazione e con la nascita della scienza dei materiali è stato introdotto un altro sistema di spegnimento, di tipo stechiometrico, cioè basato sulla combinazione di molecole di ossido di calcio e molecole di acqua, in quantità calcolate in base al peso. Ciò dà luogo a un idrossido di calcio che non si presenta in forma plastica, perché non ha acqua in sovrabbondanza, ma in forma di polvere ed è perciò più facilmente commerciabile. Se viene mantenuto sigillato, in modo da non carbonatarsi al contatto con l’anidride carbonica e con l’umidità dell’atmosfera, può essere anche conservato. Se invece i sacchi sono di carta e traspirano, la parte esterna della calce spenta viene progressivamente a contatto con l’anidride carbonica dell’aria e, in presenza di umidità, avviene la reazione di carbonatazione, che porta alla formazione della calcite. Poiché l’idrossido di calcio in polvere non può essere distinto, a vista, dal carbonato di calcio, se è commerciato nei sacchetti va usato fresco, prima che avvenga la carbonatazione a contatto con l’aria. La preparazione delle calci aeree magre ha luogo in seguito alla cottura di rocce magnesiache (calcari dolomitici o dolomie); la presenza del magnesio (sopra al 10%) dà meno plasticità e una presa più lenta al legante. Con temperatura pari a circa 900°C si ottengono ossido di calcio e ossido di magnesio (CaO e MgO), entrambe caustici, anche se il magnesio è meno aggressivo perché più lento è il suo processo di idratazione rispetto a quello del calcio. Ca Mg (CO 3)2 + 900° = CaO + MgO (calce viva) + CO2 Lo spegnimento della calce viva magra con acqua produce un grassello costituito da idrossido di calcio (Ca(OH)2) e idrossido di magnesio (Mg(OH)2). Come la portlandite anche l’idrossido di magnesio esiste in natura e viene definito brucite; essa ha un abito cristallino fibroso, non soggetto a comportamenti plastici.
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CaO MgO +2 H 2O = Ca(OH) 2 (portlandite) Mg(OH)2(brucite) Ca(OH)2 + CO2 = CaCO 3 (calcite) Mg(OH)2 + CO2= MgCO 3 (magnesite) Lo spegnimento dell’ossido di calcio e dell’ossido di magnesio avviene con emissione di molto calore, è cioè una reazione esotermica. La formazione degli idrossidi e della plasticità causa anche un notevole aumento di volume, che poi con la carbonatazione viene perso. A contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera l’drossido di calcio si trasforma in calcite, mentre l’idrossido di magnesio o resta tale o, più difficilmente, si trasforma in magnesite. Mentre l’idrossido di calcio non lega finché non ha compiuto la carbonatazione, l’idrossido di magnesio, invece, è un composto già molto resistente. Ciò spiega perché le calci magnesiache fanno presa anche con poca anidride carbonica. L’aggregato, che viene impastato col grassello prima della posa in opera, è il componente della malta che non reagisce e non cambia stato né volume, impedisce perciò al legante di spaccarsi durante la carbonatazione. Quest’ultima, infatti, causa nel legante un ritiro di volume, e poiché ciò avviene in tempi differenti per le parti esterne e per quelle interne, può provocare la spaccatura del materiale. È per tale motivo che si rende necessaria l’aggiunta dell’aggregato, ovvero di altro materiale litico fine, che non ha ritiro. Esso ha inoltre una funzione di dimagrante, in quanto riduce la plasticità della calce, che è molto alta. Generalmente la miscela migliore consiste nel combinare 1 parte di calce e 3-4 parti di inerte. Queste proporzioni variano però a seconda dello spessore della malta: quanto più è maggiore tanto più aumenta il ritiro ed è necessario l’aggregato. Le percentuali in rapporto allo spessore sono indicate nella tabella seguente: SPESSORE MALTA > cm 2,0 cm 1-2 mm 1-2
% AGGREGATO 75-80% 65-70% 50%
L’aggregato più usato è la sabbia, ma era frequente anche l’uso di rocce macinate. Se si dovevano ottenere composti di colore bianco, si frantumavano minerali selezionati, come ad esempio la calcite. Talora certi elementi dell’aggregato reagiscono chimicamente con il grassel-
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lo, aumentando la resistenza della malta: perciò si preferisce oggi il temine ‘aggregato’ a quello di inerte. Le caratteristiche più importanti sono la granulometria (che deve raggiungere dimensioni tanto più grandi quanto più abbondante è l’inerte) e la resistenza dei litotipi costituenti. In genere non venivano usate sabbie a granulometria omogenea, (ovvero ‘classate’), sia perché in natura sono rare (e si potevano ottenere solo con una doppia setacciatura) sia perché sono meno buone, in quanto lasciano più spazi vuoti, non avendo materiale fine in grado di riempirli. Le sabbie fluviali generalmente sono poco classate e presentano granelli con dimensioni varie, che vanno dall’ordine del micron ai clasti ben visibili a occhio. Esse potevano perciò fornire un aggregato in grado di riempire anche i vuoti minuti della malta, lasciando al legante solo il compito di saldare fra loro i granuli. Le sabbie con frazioni grossolane, cioè con granulometria molto estesa, richiedono minor quantità di legante e permettono perciò di ottenere una malta più magra in grandi spessori. Le elevate dimensioni granulometriche non riducono la resistenza alla compressione, soprattutto se i granelli sono costituiti da rocce dure e tenaci. Questo principio è alla base del cal cestruzzo, una miscela di ciottoli o schegge di pietra, sabbia e calce. Se il materiale fine delle sabbie è in grado di riempire tutti i vuoti lasciati da quello grossolano e la durezza dei clasti maggiori è alta, il calcestruzzo ha una resistenza pari a quella di un’arenaria con cemento calcareo. Fra la calce e l’inerte sono possibili legami fisici e chimici; i primi sono costituiti dall’eventuale penetrazione del legante nei pori dell’aggregato, mentre i secondi si stabiliscono in superficie fra i cristalli di calcite e i minerali che formano gli inerti. Come nelle rocce, questi legami hanno una resistenza più bassa di quelli interni ai cristalli stessi. In pratica si crea artificialmente un materiale che ha le stesse caratteristiche delle arenarie, formatesi in seguito alla litificazione, attraverso cemento calcareo, di sabbia marina (cfr. I.1.). Nella scelta delle sabbie è dunque importante che i costituenti abbiano una durezza uguale o maggiore rispetto a quella del carbonato di calcio. Per il prelievo della sabbia generalmente sono migliori le spiagge lacustri o gli alvei dei fiumi non torrentizi, dove cioè l’argilla viene separata durante la sedimentazione. La presenza di poca argilla cruda nelle malte è infatti dannosa, mentre per ragioni non ancora note, si è osservato che, al contrario, la presenza di poca calce in grande quantità di argilla cruda ha dato buoni risultati. L’uso della sabbia
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marina era sconsigliato anche nella trattatistica antica: per poter essere impiegata quest’ultima doveva essere lavata accuratamente, in modo da togliere il sale, la presenza del quale alterava la presa. Un altro tipo di inerte era il pietrisco, o pietra macinata. La produzione di questo materiale, laddove non era disponibile sabbia, era un lavoro non particolarmente specializzato, ma che richiedeva molta fatica fisica. Fra l’inerte costituito da pietrisco macinato ve ne è un tipo ottenuto da pietre scelte e selezionale intenzionalmente: la calcite o il marmo. Questi materiali, dopo essere stati macinati e setacciati venivano utilizzati soprattutto negli intonaci esterni (cfr III.6.), il loro impiego era dovuto non solo alla necessità di ottenere il colore bianco, ma anche al fatto che, per motivi non ancora chiariti, rendono più resistente il rivestimento. La calcinazione delle rocce calcaree richiede, come si è visto, temperature maggiori rispetto alla cottura del gesso e quindi maggiori quantità di combustibile e impianti di cottura più complessi; pertanto, alcuni studiosi sostengono che la sua scoperta sia da ritenersi più tarda rispetto ai leganti a base di gesso, anche se la sua origine non è ancora del tutto certa. Secondo N. Davey in Egitto vi sarebbero poche prove di un impiego della calce prima del periodo tolemaico. L’uso delle calci nelle costruzioni era certamente noto ai Minoici, ai Micenei e ai Greci dell’epoca arcaica, anche se l’uso principale che ne veniva fatto era per i rivestimenti (cfr. III.6.) e, in misura assai minore, per le malte. È solo con l’età romana che questo materiale venne utilizzato sistematicamente per le murature; la sua introduzione nell’architettura si data attorno alla fine del III sec. a.C. e a partire da questo momento il suo impiego si generalizza sempre più. Alcuni archeologi hanno proposto una spiegazione assai convincente di questo fenomeno, osservando che l’enorme afflusso di ricchezze e di manovalanza servile, seguito alla conquista militare del Mediterraneo, aveva determinato forti investimenti nell’industria edilizia, nella quale veniva impiegata abbondante mano d’opera schiavistica, poco specializzata; ciò avrebbe reso necessario adottare sistemi costruttivi più standardizzati e veloci rispetto alla costruzione di muri in pietra squadrata e avrebbe reso conveniente un uso generalizzato dei muri pietra a spacco e malta. La prima descrizione del funzionamento di un forno da calce si deve a Catone (De Agr. XLIV, 38) e risale al 160 a.C. circa. Lo scritto-
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re latino descrive un impianto dotato di una o due bocche e di un foro di sfiato posto nella parte alta della cupola, che doveva essere caricata con pietre bianche, accendendo il fuoco in basso e facendo fuoriuscire il fumo dall’apertura superiore. Della preparazione di malta parlano estesamente, in seguito, anche Vitruvio (De Arch. II,5) e Plinio (Nat. Hist.XXXVI). L’impiego sistematico della calce permise il perfezionamento delle malte idrauliche (cfr. III.5.) e l’utilizzo su ampia scala del calcestruzzo (detto caementum, da caementa = scaglie lapidee) per costruire volte di dimensioni eccezionali. Una organizzazione produttiva assai articolata è attestata, per l’epoca tardoimperiale, dal Codice Teodosiano, dove si apprende che per la cottura della calce esisteva una speciale corporazione di calcarien ses, sorvegliati da un praepositus calcis. Quando, nel 365, l’imperatore Valentiniano dispose la fornitura alla città di Roma di 3000 carrettate annue di calce, destinate alla manutenzione degli edifici pubblici, il trasporto venne affidato a un’apposita corporazione di vecturarii, anch’essi sottoposti alla sorveglianza del praepositus calcis. L’industria della calce non tramontò nei secoli dell’Altomedioevo, quando la sua produzione è ancora attestata sia da prove archeologiche sia da fonti scritte. Interessante è a tale proposito la scoperta, a Roma, negli scavi della Crypta Balbi, di una fornace databile fra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Costruita a ridosso di murature di età augustea, era costituita da una grande struttura cilindrica scavata nel terreno; le pareti erano di laterizi reimpiegati, legati da argilla. La pianta presentava la strozzatura di collegamento fra la camera di cottura e il praefurnium, caratteristica anche delle fornaci da ceramica (cfr. II.5). Nei pressi si è rinvenuto un deposito di materiale chiaramente destinato alla cottura, costituito da elementi architettonici di recupero (soprattutto travertini e, in misura minore, marmi bianchi, oltre a rari frammenti di marmi colorati). Assai interessante era inoltre la presenza di una risega interna, sporgente di 40 centimetri, che seguiva l’intero perimetro della camera di cottura, (tranne che in corrispondenza del prefurnio), interpretabile come un piano d’appoggio destinato a sostenere la ‘volta’ che veniva realizzata con i blocchi da calcinare. Tale risega corrisponderebbe al fórtax descritto da Catone, caratteristico dei forni da calce di età romana, poi scomparso in epoca medievale; l’esempio della Crypta Balbi testimonierebbe perciò la sopravvivenza di questo elemento in un periodo assai avanzato. Nei forni di età successiva, fino a quelli descritti nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, la ‘volta’ formata dai blocchi da calcinare,
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veniva costruita direttamente sul fondo, come indicano numerose prove archeologiche e iconografiche. Alcuni impianti postmedievali di questo tipo, ancora ben conservati nella periferia occidentale di Genova, sono stati oggetto di studi recenti; il confronto fra analisi dei manufatti e lettura delle fonti archivistiche ha permesso di conoscere molti dettagli sulla produzione e sul mercato della calce fra XVII e XIX secolo. Ogni unità produttiva era composta da una fornace e dall’attigua casa del calcinarolo, che lavorava alle dipendenze del fab bricante, il quale era proprietario degli impianti, dei boschi che fornivano il 49- La fornace da calce altomedievale combustibile, dei mezzi di rinvenuta a Roma, negli scavi della trasporto (muli e imbarcaCrypta Balbi (da SAGUì 1986) zioni) e persino di piccoli scali costieri. Ogni cottura richiedeva da quindici a venti giorni; il fornaciaio poteva controllare continuamente l’andamento delle ‘cotte’ dalla propria casa, collegata alla fornace tramite un apposito vano. L’operazione di carico, tramite la costruzione del ‘volto’, era assai delicata, poiché da essa dipendeva il buon esito della cottura; perciò richiedeva la presenza di uno specialista (maestro), aiutato da alcuni fornacini. Per sapere se la ‘cotta’ era ultimata si prelevava una piccola porzione di materiale inserendo nel ‘volto’ lunghe aste uncinate (panferri). Non appena raffreddata, la calce viva veniva immagazzinata in botti di legno, fatte scendere a valle tramite muli e quindi con-
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dotte presso i cantieri, oppure trasportata su piccole imbarcazioni fino al Ponte Spinola, nel porto di Genova, dove era venduta al minuto. La Magistratura dei Censori, dotata di specifiche competenze in materia edilizia, regolamentava tutte le fasi della produzione e dello smercio. La fornace, ad esempio, poteva essere caricata, ma non si poteva avviare la cottura prima del controllo e della verifica della qualità del combustibile e del tiraggio. La cottura stessa non poteva poi essere ultimata senza un’ulteriore ispezione: nel caso in cui si fosse riscontrata la presenza di materiale ancora crudo, la vendita di tutta l’infornata sarebbe stata vietata. Solo per la calce riuscita “di perfezione”, veniva autorizzato lo smercio, ma il prezzo, le unità di misura adotta te, il luogo della vendita erano sottoposti a ulteriori normative. Tutte le fornaci descritte sino ad ora sono di tipo intermittente, ovvero basate sulle tre distinte fasi di carico, cottura, scarico. Più rare erano quelle a fuoco continuo, certamente esistenti già in età bassomedievale e descritte anche nell’Encyclopédie di Diderot-D’Alembert; in questi impianti la cottura veniva eseguita tramite la sovrapposizione di strati alterni di calcare e di combustibile. Se lo studio storico e archeologico degli impianti per la cottura della calce e delle successive fasi del ciclo produttivo delle malte sono abbastanza sviluppati e ci forniscono, perlomeno, una vasta casistica, ancora molto problematica è invece la conoscenza del comportamento chimico delle sostanze leganti; campo d’indagine che richiederebbe un vasto programma di ricerche archeometriche mirate e puntuali. La scarsa conoscenza della chimica delle malte è anche dovuta al fatto che, dopo l’introduzione del cemento Portland (cfr. III. 5), l’uso dei leganti tradizionali è stato abbandonato e con esso anche l’analisi scientifica dei loro comportamenti; si pensi che solo da poco si conoscono le dinamiche della reazione di carbonatazione dell’idrossido. Un caso particolarmente significativo di questo vuoto di conoscenze è rappresentato dal problema delle calci magnesiache, in passato molto usate, ma sulle quali si sono acquisite solo di recente le prime conoscenze scientifiche. Nei manuali sui materiali da costruzione contemporanei esse vengono spesso definite poco plastiche, a presa lenta e, in definitiva, scadenti. Le ricerche condotte da diversi anni sui leganti del centro storico di Genova (e in particolare sulle infrastrutture portuali) hanno invece permesso di constatare come in questa città l’uso di calci magre sia
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50- Fasi di carico (costruzione del ‘volto’), cottura e scarico in una fornace da calce del XVIII secolo del genovesato (da VECCHIATTINI 1998)
stato sistematico, dal XII secolo in poi, e non solo per le murature, ma anche per i rivestimenti esterni e per le opere idrauliche. Il loro ottimo stato di conservazione, che contrasta con i giudizi negativi dei manuali, ha fatto supporre che la scelta dei calcari dolomitici non sia stata casuale, ma dettata da una precisa volontà. Si consideri, ad esempio, che l’area tradizionale per la produzione delle calci, (descritta più sopra), è posta in corrispondenza dell’unico affioramento di calcari magnesiaci esistente nei dintorni di Genova. Si può persino ipotizzare che a introdurre l’uso della calce magnesiaca siano stati i Magistri Antelami, (corporazione di costruttori lombardi attiva a Genova fino alla caduta dell’Antico Regime) esplicitamente citati nel più antico atto notarile relativo alla produzione di calce, redatto nel XII secolo. Che i maestri lombardi prediligessero la dolomia è d’altra parte emerso da un recente studio condotto sulle cave medievali della zona dei laghi di Varese, dove, fra le varie formazioni calcaree presenti
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51- Operazione di spegnimento della calce viva con acqua e formazione del grassello (da una miniatura del XV secolo conservata a Vienna, Österreichische Nationalbibliothek)
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nella zona, veniva sistematicamente scelta la dolomia ladinica, anche in presenza di calcari puri. Tutti questi indizi sembrano dunque indicare che l’utilizzo di rocce magnesiache per la produzione delle calci non fosse casuale, ma intenzionale. Evidentemente l’avversione per il magnesio è iniziata fra la fine dell’Ottocento secolo scorso e gli inizi del Novecento, contemporaneamente al diffondersi del cemento Portland, in sostituzione delle malte tradizionali. 5. Far presa sott’acqua: le malte idrauliche Esistono alcuni particolari tipi di materiali leganti che possono indurire e fare presa in ambienti molto umidi, oppure sott’acqua, cioè in assenza di aria; di conseguenza essi permettono la costruzione delle opere marittime e idrauliche in generale. In passato erano in uso diversi sistemi per costruire nell’acqua: -tramite additivi idraulicizzanti che venivano aggiunti all’inerte e quindi impastati con le normali calci aeree. Durante la carbonatazione essi reagivano con la calce, creando composti più resistenti all’umidità di quanto non sia il carbonato di calcio; -cuocendo calcare marnoso, ovvero rocce contenenti argilla in percentuale variabile fra il 10 e il 25%; -usando calce aerea, meglio se magnesiaca, senza additivi e costruendo all’asciutto, entro palancolate e attendendo la presa, prima di immettere l’acqua. L’uso di additivi doveva essere il più frequente fra i leganti idraulici del passato. I Greci utilizzavano, ad esempio, la pietra pomice dell’isola di Santorino, macinata e mescolata all’inerte, oppure la terra vulcanica, di colore scuro, dell’isola di Thera, o ancora frammenti di laterizi pestati. Questi ultimi due sistemi vennero particolarmente sviluppati in età romana, quando si impiegò abbondantemente la terra di origine vulcanica dei colli Albani e del golfo di Napoli, che venne detta pozzolana dalla città di Puteoli-Pozzuoli. Anche l’aggiunta di frammenti di laterizi o di altri prodotti ceramici, che conferiscono alla malta il tipico colore rossastro e che le valgono la definizione di ‘cocciopesto’, data dagli archeologi, fu molto in uso, sia per i pavimenti, sia per gli intonaci, soprattutto nelle cisterne e negli acquedotti.
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Tutte queste sostanze usate come additivi sono ricche di silice e allumina attive, le quali permettono la formazione di silicati e alluminati di calcio, composti più resistenti all’acqua di quanto non sia il carbonato di calcio. La pozzolana è infatti una terra di origine vulcanica e perciò è in larga misura costituita da silico-alluminati, così come la pomice, anch’essa di origine vulcanica. Il cocciopesto è costituito da frammenti di ceramica, derivata, come si visto, dalla trasformazione in seguito a cottura di minerali argillosi, che sono appunto silicati idrati di alluminio (cfr. II.1.). Durante la cottura, poiché perdono l’acqua di cristallizzazione, la silice e l’allumina si trovano allo stato libero, non cristallino, e pertanto possono facilmente combinarsi col calcio. Se si osserva al microscopio a luce polarizzata una sezione sottile di cocciopesto, si nota che attorno ai frammenti di mattone macinato, l’aderenza della calce è maggiore che non attorno ai granuli di sabbia. Alcune particolari analisi chimiche effettuate al microscopio elettronico in corrispondenza dei granelli di ceramica, hanno dimostrato, in questa zona, l’avvenuta reazione chimica dell’allumina e della silice con il calcio, il quale non forma, in questo caso, carbonato di calcio con l’anidride carbonica. Resta comunque problematico comprendere come mai il cocciopesto (che solo in parte è costituito da silicati e alluminati di calcio e in parte da carbonati di calcio) sia talora più resistente, soprattutto in acqua, persino del cemento Portland, costituito interamente di silicati e alluminati di calcio. Un altro tipo di calci rese idrauliche con l’aggiunta di additivi erano quelle a base di argilloscisto macinato e cotto, oppure di scorie di fabbro, sempre mescolate all’inerte. Queste sostanze, pur molto diverse fra loro, hanno in comune il fatto di essere anch’esse ad alto contenuto di silice e allumina attive: l’argilloscisto deriva infatti dal metamorfismo di argille, mentre le scorie di fabbro sono costituite da vetro e, dunque, da silice attiva. A differenza della pozzolana, del cocciopesto, delle scorie di fabbro, che possono essere aggiunti direttamente all’inerte, l’argilloscisto oltre che macinato deve anche essere cotto. Questo è dovuto al fatto che la silice e l’allumina si trovano nella roccia combinate chimicamente, all’interno dei reticoli cristallini dei minerali argillosi; solo attraverso la cottura questi ultimi perdono gli ossidrili e si trovano allo stato libero, non cristallino, pertanto si possono legare al calcio in modo da formare silicati e alluminati. Interessanti dati sulle malte idrauliche medievali e moderne sono stati raccolti grazie alle accurate ricerche archeologiche condotte sui
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moli del porto di Genova, purtroppo demoliti in occasione delle manifestazioni colombiane del 1992. Indagini sul costruito, effettuate parallelamente all’esame delle fonti archivistiche e alle analisi di laboratorio dei leganti, hanno dimostrato che a Genova l’impiego della pozzolana, come additivo per ottenere malte idrauliche, non è attestato prima del XVII secolo. Anche nella documentazione scritta, la prima citazione di questo materiale si trova in un documento del 1612, proveniente dall’Archivio dei Padri del Comune. Prima di tale epoca le malte per la costruzione dei moli e delle banchine erano ottenute, nella maggioranza dei casi, con aggiunta di caolino, argilla primaria bianchissima (cfr. II.2.). Si pensi che nelle fasce di battigia dei ponti del XIV-XV, dove cioè il degrado del muro era particolarmente avanzato, a causa dell’azione chimica, fisica e meccanica del mare e dei molluschi litofagi, i giunti di malta idraulica a base di caolino hanno resistito meglio della stessa pietra calcarea. Il caolino veniva importato a Genova, insieme all’allume, dai giacimenti laziali della Tolfa, dei quali i genovesi avevano il monopolio nei secoli XV-XVI. Malte di questo tipo sono state rinvenute in molte opere idrauliche, fra le quali l’acquedotto pubblico, e sembra che il suo impiego, protrattosi fino agli anni ‘30 del Novecento, abbia potuto competere con la stessa introduzione del cemento Portland. Questa lunga tradizione spiega perciò la sopravvivenza del ricordo di tale materiale presso alcuni costruttori genovesi che avevano appreso il mestiere secondo i metodi tradizionali. Tali malte idrauliche venivano da loro definite “alla porcellana”, forse perché quest’ultima, come si è visto, è prodotta appunto con il caolino (cfr. II.6). Come l’argilloscisto, questo materiale doveva essere aggiunto all’inerte dopo la cottura, in modo da favorire la disgregazione dei cristalli dei minerali argillosi e quindi la combinazione di silice e allumina con il calcio. Se l’impiego di un’argilla bianca al posto di additivi che conferiscono un colore rosato è comprensibile, per motivi estetici oltre che funzionali, negli intonaci delle facciate, (per le quali l’uso della malta alla porcellana è ben documentato) più problematico è comprenderne il significato nelle strutture marittime, destinate a non essere viste. Non vi sono ancora spiegazioni accettabili sulle ragioni di una tale scelta, così come non è dato conoscere quali origini abbia questa particolare formula, alternativa a quella delle malte alla pozzolana, tipiche della tradizione romana. È stata avanzata l’ipotesi di una sua origine orientale, ma troppo scarno è il panorama degli studi e delle analisi per poter formulare spiegazioni sicure.
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Una simile trasformazione chimica del calcio si poteva ottenere anche cuocendo calcare marnoso, cioè contenente argilla, al posto del calcare puro o del calcare magnesiaco; in questo caso la formazione di silicati e alluminati di calcio, che conferiscono l’idraulicità, è propria della calce stessa, e non dovuta all’aggiunta degli additivi. Calci di questo genere erano chiamate ‘selvatiche’ in Liguria (perché prodotte nelle campagne); ‘forti’ in Lombardia e vennero dette ‘idrauliche’ a partire dall’Ottocento. Infine, il terzo sistema per ottenere opere idrauliche è assai meno noto, ma altrettanto antico di quelli fino ad ora descritti; esso consiste nella costruzione dei muri all’asciutto, con l’impiego di palancolate, usando malte senza alcun addittivo. Questo metodo viene descritto nel Codice 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, datato fra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e si è fatta l’ipotesi che esso rappresenti la sopravvivenza di una tecnica precedente, già usata in età romana. Pochi sono i riscontri archeologici attualmente noti del suo utilizzo; è stato adottato, ad esempio, nella costruzione del primo molo del porto di Genova, quello di San Marco, realizzato all’inizio del XII secolo. L’esame archeologico e archeometrico ha infatti dimostrato che tale poderosa struttura è stata costruita all’asciutto, con robustissimi muri esterni, in conci perfettamente squadrati, legati da calce priva di additivi, la quale ha resistito in ottimo stato, sebbene immersa per novecento anni nell’acqua marina. Le analisi di laboratorio della malta hanno rivelato la presenza di idrossido di magnesio, o brucite, e ciò prova che è stata usata calce magra. Tuttavia non si conoscono ancora i procedimenti empirici né i meccanismi chimici che hanno reso questo materiale tanto resistente all’azione dell’acqua. È però interessante ricordare che un metodo per la preparazione di malta idraulica senza addittivi venne descritto, alla metà del XVIII secolo, dal noto ingegnere francese Loriot, appassionato studioso delle calci di età romana; egli propose un sistema per la costruzione di opere idrauliche con calce aerea, che consisteva nell’aggiungere a un grassello “spento da parecchio tempo e conservato in tutta la sua freschez za” un terzo di calce viva in polvere. Secondo il Loriot, raggiungendo il “giusto accordo” dal quale “deriva la perfezione”, si poteva ottenere un composto con l’”eminente qualità di restare impermeabile all’acqua”. Con la rivoluzione industriale venne introdotto, fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, il primo cemento, che venne detto
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Portland, per distinguerlo dal caementum romano. Il nome deriva dalla penisola meridionale della Gran Bretagna dove veniva estratta la roccia utilizzata. Si prepara cuocendo miscele di calcare e argilla a temperature molto alte (1450°C) le quali permettono la completa combinazione della calce con la silice e con l’allumina allo stato fuso. Il materiale di cottura, detto clinker, viene poi raffreddato e quindi macinato con l’aggiunta di piccole quantità di gesso, necessario a rallentare la presa. 6. Gli intonaci La preparazione degli intonaci, per il rivestimento e la rifinitura delle superfici murarie, era basata sulle stesse regole viste per le malte: miscela di calce aerea con sabbia, acqua, ed eventuali additivi, e successiva presa a contatto con l’aria. Per evitare il problema del ritiro di volume dell’idrossido, dopo la carbonatazione, non si potevano realizzare intonaci di grande spessore; pertanto, quando si volevano ottenere rivestimenti particolarmente robusti, si applicavano più strati sovrapposti, di spessore via via più sottile, con inerte in proporzioni sempre minori e di granulometria più fine. Per garantire l’aderenza dei vari strati occorreva applicarli quando quello sottostante non era più plastico, ma non era ancora asciutto; di conseguenza, quando avveniva la carbonatazione, si verificava una cristallizzazione comune dei diversi strati che così aderivano fra loro in maniera perfetta. Ciò richiedeva una procedura veloce, dato che lo strato superiore doveva essere steso prima che quello sottostante fosse asciutto, cioè cristallizzato. Lo strato più profondo, posto a contatto col muro, viene detto rin zaffatura o arriccio e presenta uno spessore di alcuni centimetri. Quello superiore, più sottile, è l’intonaco vero e proprio, o arenino, con spessore da 1 a 2 centimetri e con inerte costituito da sabbia più fine. Per ottenere poi una superficie liscia e resistente si applica, sempre a fresco, un terzo strato: l’intonachino, dello spessore di 1-2 millimetri, costituito da un dimagrante a granulometria finissima. Generalmente è formato da una malta molto grassa, in quanto contiene solo il 50% di scheletro. Per motivi estetici veniva utilizzato, generalmente, un aggregato bianco, costituito da marmo o da calcite macinati; per tale ragione questo strato prende anche il nome di mar -
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52- Operazione di impasto della calce spenta (o grassello) con sabbia e acqua (da ADAM 1989)
morino. Fra questi due materiali la calcite macinata era migliore, perché, a differenza del marmo, è costituita da cristalli tabulari. L’uso di rifinire le superfici murarie con diversi strati di intonaco a base di calce e sabbia è attestato con certezza in alcune città dell’antica Grecia: a Delo si sono riscontrate pareti rivestite da due, tre, quattro e talora cinque strati di intonaco; spesso nel rinzaffo si trovava anche del cocciopesto. A Priene vi sono attestazioni dell’uso di tre strati di intonaco, l’ultimo dei quali presentava un inerte costituito da polvere di marmo. Dei rivestimenti parietali parla diffusamente anche Vitruvio (De Arch. VII, 3), che raccomanda l’uso di ben sette strati, indicazione che però non pare aver trovato riscontri archeologici, dato che, generalmente, i rivestimenti di epoca romana sono costituiti da 3 a 5 strati e solo eccezionalmente se ne sono riscontrati sei. Alcuni cantieri incompiuti, come quello celebre della casa del Criptoportico di Pompei,
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hanno permesso di capire che l’applicazione del rivestimento era fatta a fasce orizzontali, partendo dall’alto e proseguendo verso il basso, all’evidente scopo di evitare di macchiare le zone sottostanti. Il lavoro progrediva a ‘giornate’ successive, nelle quali su una determinata fascia di superficie venivano stesi arriccio, arenini, intonachino, e persino l’affresco (cfr. IV. 4.). L’uso di intonaci non sembra essersi interrotto nel corso dell’Altomedioevo: i Magistri Comacini, ad esempio, fissano un prezzo particolare per realizzare un muro albato, (cioè intonacato); tuttavia il riscontro con i dati archeologici sembra indicare che, in molti casi, il rivestimento si limitava semplicemente a un rinzaffo delle pareti, senza ulteriori rifiniture. L’utilizzo di più strati di intonaco riprende nei secoli seguenti, soprattutto per le superfici interne. Dal XV-XVI secolo in poi, con il decadere del gusto per le murature in pietre squadrate a vista, aumenta massicciamente l’impiego di intonaci, anche per gli esterni. Oltre a quelli affrescati si sperimentano numerosi altri tipi di rivestimento: con decorazioni in rilievo, a imitazione di bugnati, graffiti. L’esame sistematico degli atti notarili che riguardano i cantieri edili genovesi fra il XVI e il XVII secolo, ad esempio, ha permesso di
53- Esempio di ‘infrascatura’; a sinistra la parte originale, a destra la parte restaurata dove le righe sono ottenute con pezttine di legno
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54- Microfotografia dove sono evidenti i successivi strati di preparazione: intonaco e intonachino al marmo (o marmorino) (Genova, Palazzo Ducale)
evidenziare una straordinaria ricchezza lessicale per indicare i vari tipi di rivestimenti parietali allora in uso: (imboccare, indarbare, indarbusare, infrascare). Fra queste operazioni, l’infrascatura era un tipo particolare di intonachino, rifinito da rigature leggermente in rilievo, quasi parallele fra loro. Non si conosce in dettaglio il sistema col quale questo intonaco veniva realizzato, ancora negli anni ‘30 di questo secolo, ma da testimonianze orali si è potuto apprendere che per praticare le righe si usavano rami (‘frasche’, da cui il nome) di alloro o di lentischio, piante con foglie piuttosto untuose e quindi tali da scivolare bene sull’intonaco ancora bagnato. Attraverso le analisi di laboratorio di alcuni campioni genovesi del XVI e XVII secolo si è talvolta riscontrata, al posto dell’intonachino, la presenza di una superficie liscia e ben levigata, costituita da una fine stuccatura di grassello puro, che viene definita ‘pasta’. Oltre che per i rivestimenti parietali l’intonaco venne utilizzato anche per speciali rifiniture, che fingevano la presenza di marmi lucidi, bianchi o colorati, lavorati a rilievo, o di conci a bugnato realizzati in pietre particolari. Questi rivestimenti, che costituiscono talora delle superfici piane e talora degli elementi modanati o delle finte architetture, sono costituiti da un marmorino esterno levigato e, nelle superfici piane, anche lucidato a caldo. Tale uso è ben attestato dal XVI secolo in poi, in Italia settentrionale. Alla conoscenza delle tecniche di realizzazione hanno contribuito anche le testimonianze orali di alcune famiglie di artigiani liguri, eredi di un mestiere che trova le sue lontane origini nella tradizione dei maestri lombardi. Ciò ha permesso di conoscere che la realizzazione degli strati di base non è diversa rispetto agli altri intonaci, poiché prevede la
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serie di arriccio, arenino, intonachino, ciascuno steso su quello sottostante quando è ancora fresco, ma non più malleabile. La coloritura e lucidatura delle superfici piane si praticano sull’ultimo strato (l’intonachino a fresco), e prevedono una decorazione dipinta a finto marmo, con pigmenti sciolti in acqua, una passata di sapone di Marsiglia sciolto anch’esso in acqua, e infine una lucidatura fatta con una piastrina di metallo (scaldata a 65-70°C), posta a contatto con la superficie dell’intonachino e continuamente mossa. La temperatura del metallo viene misurata empiricamente col dorso della mano e raggiunge il calore adatto quando, a breve contatto con la pelle, permette di avvertire il caldo senza scottarsi. Questa operazione rende la superficie sottostante lucida e riflettente, al punto che è difficile distinguerla dal marmo. Un sistema simile è documentato anche per la produzione dei “marmorini lucidi” di Venezia, realizzati, analogamente a quelli di tradizione lombarda, passando sull’intonachino saponato dei ferri d’acciaio caldi, definiti “ferri da stiro”. Se il procedimento tecnico è ora sufficientemente noto, la spiegazione chimico-fisica di questo meccanismo non è invece altrettanto chiara; è probabile che il calore della piastra acceleri la carbonatazione dell’intonachino e impedisca ai cristalli di crescere oltre un certo limite; in questo senso il metallo caldo bloccherebbe la crescita dei romboedri della calcite, ottenendo tante facce complanari poste sulla superficie esterna, che diventa perciò riflettente. 7. Gli stucchi Col termine ‘stucco’ si indica un particolare tipo di decorazione parietale in rilievo, realizzata in materiale plastico bianco, eventualmente colorato con pigmenti, che indurisce all’aria. È importante ricordare che tale definizione non si riferisce a un materiale preciso, dato che gli stucchi possono essere realizzati con leganti derivati da rocce solfatiche oppure carbonatiche; solo con adeguate analisi di laboratorio è pertanto possibile stabilire l’esatta natura geologica e chimica di ogni manufatto. Le tecniche di lavorazione del materiale possono essere di due tipi: modellamento a mano oppure formatura entro stampi; in entrambe i casi i particolari vengono aggiunti successivamente, adoperando spatole di varie dimensioni.
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La realizzazione di rilievi in stucco è attestata già nell’antico Egitto, oltre che nell’architettura minoica e micenea. Impiegati presso i Greci di età classica, furono particolarmente diffusi dal IV sec. a.C. per la decorazione di case o di monumenti funerari. Nell’architettura domestica di Delo sono attestate decorazioni parietali in stucco a imitazione delle murature in conci, mentre motivi particolarmente raffinati caratterizzavano invece la produzione degli stucchi alessandrini. Pare che i Greci utilizzassero prevalentemente rocce calcaree e, in misura minore, solfatiche. Secondo alcuni studiosi la tecnica dello stucco si sarebbe estesa, tramite la Grecia ellenistica, all’Asia Minore e quindi al Medio Oriente, dove prese avvio una tradizione artigianale particolarmente ricca presso i Parti e, successivamente, presso i Sassanidi. Decorazioni in stucco sono documentate anche nell’architettura funeraria etrusca, come attesta il celebre esempio della “Tomba dei Rilievi” di Cerveteri. Analisi dettagliate hanno dimostrato che i numerosi oggetti quotidiani raffigurati sulle pareti sono stati realizzati in un impasto di calce e sabbia; formati singolarmente, con apposite matrici, i singoli motivi sono stati poi saldati alla parete, sopra uno strato di intonaco dalla superficie ruvida, sul quale erano stati preventivamente incisi i contorni. A partire dal I secolo a.C. la diffusione di stucchi si moltiplica: nelle città campane, a Roma, nel Lazio, si fanno numerose le testimonianze di decorazioni in rilievo sulle pareti e sulle volte; cornici o motivi annessi a pitture murali si diffondono inoltre nelle provincie romane occidentali, come la Gallia, la Bretagna e anche il Norico e la Pannonia. Un’accurata indagine condotta negli anni Settanta sugli stucchi di queste regioni ha permesso di comprendere molti aspetti della loro realizzazione. Gli elementi modanati o le cornici erano non di rado modellati in più strati: quelli inferiori costituiti da calce e sabbia e quello superficiale da malta grassa e marmo macinato. Le cornici in rilievo potevano essere realizzate soltanto nello strato esterno, oppure, se avevano molto aggetto, venivano abbozzate anche nei sottostanti livelli di malta. Per ottenere i singoli motivi decorativi si utilizzavano piccole matrici a forma allungata, che portavano, in negativo, uno o più soggetti giustapposti e che venivano premute sulla pasta ancora umida. L’esame comparativo di cornici rinvenute in aree anche molto lontane fra loro ha dimostrato l’identità di molti motivi e di conseguenza ha indicato la grande circolazione delle matrici. L’esistenza di artigiani itineranti,
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55- Tectores romani intenti a realizzare una decorazione in stucco in un ambiente interno; il disegno ricostruisce tre diversi tipi di operazioni: realizzazione di una modanatura liscia; di una cornice decorata a stampo; modellazione di soggetti a mano libera (da ADAM 1989)
addetti alla preparazione di intonaci e stucchi (tectores), è stata d’altra parte dimostrata anche da specifiche ricerche di epigrafia; evidentemente questi artigiani portavano con loro anche gli stampi. Per realizzare decorazioni meno stereotipate, più aggettanti o per vere e proprie scene figurate si ricorreva invece al modellamento a mano con spatole. L’analisi chimica di oltre settanta campioni di stucchi prelevati in varie città delle provincie romane occidentali ha dimostrato che uno
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solo era costituito in prevalenza da solfato di calcio, mentre tutti gli altri erano stati realizzati con rocce carbonatiche; ciò ha portato a supporre che nelle provincie occidentali dell’Impero gli stucchi venissero realizzati con calce e sabbia, a differenza delle regioni orientali dove l’uso di gesso doveva essere prevalente. Tutt’altro che rare dovevano essere le decorazioni in stucco durante l’Altomedioevo, soprattutto per gli interni dei principali edifici religiosi; l’uso di questo materiale costituiva forse un surrogato della pietra e del marmo, la cui fornitura era divenuta sempre più costosa, dato l’abbandono progressivo delle cave (cfr. I.3.). La esecuzione di decorazioni ornamentali, ma anche di veri e propri elementi architettonici (fregi, archetti, pilastrini, capitelli, ecc.) e persino di manufatti non connessi al supporto della parete (plutei, transenne, altari) è ampiamente attestata anche nei secoli XI e XII. Le tecniche di lavo-
56- Rivestimento in stucco di una superficie muraria in mattoni (da DONATI 1990, rielaborata)
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razione sono ancora lo stampo entro matrice, oppure il modellamento a mano, con spatola e stecca, spesso colando l’impasto su un’armatura di canne o su un nucleo in argilla. Generalmente i motivi richiamano il repertorio orientale: bizantino, sassanide o islamico. Questo dato è di particolare importanza se lo si confronta con i risultati delle analisi condotte su diversi campioni di stucchi prelevati da vari monumenti altomedievali d’Europa, che hanno dimostrato, nella quasi totalità dei casi, l’impiego di gesso pressoché puro. L’esame della materia prima sembrerebbe pertanto confortare l’ipotesi di una tradizione artigianale diversa da quella tardoromanana e legata invece alla cultura greco-bizantina o addirittura araba o sassanide. Un ricchissimo contesto rinvenuto di recente a Gerace (RC), costituito da oltre 180 frammenti appartenenti a pilastrini, formelle, archetti, fregi, pulvini, datati ad epoca normanna, è stato probabilmente realizzato da artigiani arabi, forse provenienti dalla Sicilia, come attesterebbe l’analisi dei motivi decorativi. L’ipotesi della presenza di maestranze orientali, forse bizantine, è stata avanzata anche per le transenne in stucco rinvenute recentemente negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso di Camogli (GE) e datate fra X e XI secolo. In questo caso, mirate analisi archeometriche hanno rivelato la presenza di un legante misto, a base di calce aerea e di gesso e di un inerte la cui composizione petrografica, estranea al territorio ligure, potrebbe essere di provenienza egea. Se così fosse ci troveremmo in presenza di maestranze itineranti che avrebbero portato con sé, oltre alle conoscenze tecniche, anche il materiale necessa rio alla realizzazione dei manufatti. Nei secoli successivi, la riaffermazione dei materiali lapidei, e quindi delle decorazioni scultoree, sembra aver causato (tranne che nell’area tedesca) una diminuzione nell’uso degli stucchi. Una rinnovata importanza di questo materiale per la decorazione architettonica si registra invece a partire dal XVI secolo, sia per gli esterni, sia, soprattutto, per gli ambienti interni. Forse la causa è da ricercare nel generalizzato tentativo di imitare l’architettura classica; ornamentazioni fastose in stucco, talora alternate alla pittura, come nell’arte romana antica, vengono realizzate da celebri artisti rinascimentali; da questi ultimi traggono origine scuole di stuccatori che esportano la loro tradizione artigianale in tutta Italia, in Francia, in Germania e persino nell’Europa orientale. Questa ricca produzione, che perdura anche per tutto il XVII e il XVIII secolo, sembra essersi basata soprattutto sulla cottura di rocce
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calcaree: il Vasari, descrivendo la composizione dello stucco romano raccomanda l’impiego di calce fatta “o di scaglie di marmo o di traver tino” impastata con “marmo pesto (...) mettendo due terzi calce et un terzo marmo pesto”. Dello stuccatore Giovanni da Udine, allievo di Raffaello, lo stesso autore scrive che “fatto pestare scaglie del più bian co marmo che si trovasse, ridottolo in polvere sottile e stacciatolo, lo mescolò con calcina di travertino bianco, trovò che così veniva fatto senza dubbio niuno il vero stucco antico”. Le analisi di laboratorio effettuate su diversi campioni genovesi hanno dimostrato che essi sono stati realizzati prevalentemente con calci magnesiache, mentre il gesso prima del XIX secolo è stato usato pochissimo, e misto a calce. Nelle cornici modanate e nelle finte architetture la modellazione non si limitava all’ultimo strato, ma doveva essere fatta anche in quelli sottostanti, fino all’arriccio, onde mantenere un intonachino grasso e molto sottile. Pertanto la realizzazione prevedeva necessariamente la preparazione preliminare di cartoni e la foggiatura di ogni sporgenza delle modanature in tutti gli strati inferiori. I dettagli più fini venivano poi elaborati solo nel marmorino. Quando i motivi decorativi presentavano spessori notevoli, come nei mascheroni o nei putti, al posto del marmorino si usava uno stucco a base di calce e gesso, con poco inerte finissimo, che non presentava ritiri dannosi e che poteva resistere anche negli esterni, come attesta lo stato di conservazione di molte di queste decorazioni plastiche. 8. Pavimentazioni in ‘signino’ e ‘seminate’ Fin dall’antichità le malte sono state utilizzate ampiamente per le pavimentazioni, non solo per l’allettamento delle tessere di mosaico o delle lastre per intarsi marmorei, ma anche come finitura definitiva. Con ogni probabilità furono ereditati dall’architettura ellenistica i pavimenti di età romana realizzati in malta resa idraulica da abbondante cocciopesto, dal caratteristico colore rosso, che presero il nome di opus signinum, derivato dalla città laziale di Signia, l’attuale Segni. Essi potevano ricevere anche una semplicissima decorazione in scaglie di marmo o in tessere colorate, disposte in maniera molto spaziata, a formare motivi geometrici o cornici a meandri. Assai diffusi in tutta l’antichità classica, soprattutto per i vani di servizio, i pavimenti in cocciopesto vennero utilizzati, in età altomedievale, anche nelle chiese e negli edifici pubblici.
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La tradizione dei pavimenti in signino conobbe una curiosa continuità a Venezia, dove, dalla fine del XV secolo, essi presero il nome di terrazzi, forse perché realizzati in preferenza nelle logge esterne delle ville. La loro posa in opera, arte in cui i veneti rimasero a lungo degli specialisti, è ricordata dalle fonti trattatistiche rinascimentali e dai commentatori veneziani di Vitruvio; essa prevedeva la preparazione di un impasto ben battuto di calce, cocciopesto, ghiaia, talora arricchito con scaglie di marmi. A partire dal XVI secolo e soprattutto nel corso del XVII e del XVIII secolo la tecnica dei terrazzi alla veneziana, detti anche seminati, si diffuse fuori dell’area veneta, in tutta l’Italia settentrionale e anche in Francia, come provano numerose fonti scritte e diverse testimonianze materiali. 9. Principali cause di degrado Sugli intonaci l’acqua piovana battente esercita un’azione meccanica: può infatti asportare particelle superficiali e provocare solcature o fenomeni di ruscellamento. In corrispondenza di ganci di ferro, può causare la formazione di macchie e, se i ferri si gonfiano per la ruggine, può provocare vere e proprie rotture. L’erosione superficiale dell’intonaco è invece dovuta alla bicarbonatazione del legante. Questo tipo di degrado chimico avviene quando l’acqua piovana, contenente anidride carbonica, non scorre, ma ristagna. Molto dannosa è anche l’azione dell’acqua che, per cause varie, circola all’interno dei muri. Essa fuoriesce in superficie per capillarità e, se negli stucchi o negli intonaci esterni si trovano piccolissime cavillature (provocate dal ritiro del materiale), l’acqua li attraversa e ne aumenta le dimensioni causandone, col tempo, il distacco. L’acqua che risale per capillarità dalle fondazioni del muro crea distacchi ad altezze precise, dove cioè fuoriesce ed evapora; la sua risalita raramente supera i 4 metri di altezza. Talvolta si osserva sulle superfici intonacate la presenza di frattu razioni, non dovute a crepature originali, provocate cioè dal ritiro del materiale durante la presa, ma avvenute in un secondo tempo, e spesso dovute ai sali solubili, trasportati dalle acque circolanti nei muri e depositati sotto l’intonaco, provocandone lentamente il rigonfiamento e poi il distacco. Se i sali vengono depositati in superficie si verificano soltanto efflorescenze bianche.
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Analogamente a quanto descritto per i materiali litici (cfr. I.7.) il ristagno di acque contenenti anidride solforosa (dovuta alle piogge acide) provoca la solfatazione dei leganti costituiti da calce aerea; tale degrado è riconoscibile per la presenza della tipica “crosta nera”, a base di solfato che, se ricristallizza anche all’interno dell’intonaco, aumenta di volume e finisce per disgregare il materiale. Dove la pioggia batte o ruscella non si forma la crosta nera, e l’intonaco mantiene il suo colore, o, al massimo, subisce l’abrasione meccanica della pioggia. La presenza di una corrosione a meandri; infine, è indice dell’azione di colonie biologiche (alghe o batteri), che attaccano le superfici dei carbonati. 10. Nota bibliografica I caratteri dell’estrazione delle pietre da gesso e da calce e le reazioni chimiche che avvengono durante la cottura sono trattati nei manuali sui materiali da costruzione più volte citati: DAVEY 1965, pp. 100-118; ADAM 1989, pp. 76-84; MENICALI 1992, pp. 126-176. In particolare sul gesso si veda il recente volume di TURCO 1990. L’utilizzo della malta nell’architettura greca antica è esaminato nel manuale di MARTIN 1965, pp. 422-439. Per lo studio di malte e intonaci di epoca romana è fondamentale l’opera di FRIZOT 1975, ricca di analisi archeometriche e di dati quantitativi, oltre che corredata di un’accurata disamina delle fonti letterarie e dei dati archeologici. Assai utile è inoltre il saggio di B ARBET, ALLAG 1972, incentrato sulla pittura, ma con approfondite analisi anche dei supporti delle decorazioni pittoriche. Sugli aspetti storici e sociali legati all’introduzione massiccia dei muri in calce in epoca romana repubblicana si veda COARELLI 1977. Uno studio esaustivo della fornace descritta da Catone, basato su concreti confronti etnografici raccolti in varie regioni mediterranee si trova in ADAM, VARENE 1982. Sulla corporazione romana dei calca rienses alcune notizie si trovano in WALTZING 1968, p. 116 e segg. Per la fornace della Crypta Balbi cfr. SAGUÍ 1986. Un interessante saggio sulla produzione della calce nei cantieri medievali, basato sul confronto tra fonti archeologiche, iconografiche e letterarie si trova in BARAGLI 1998. Sugli intonaci e sulle calci di epoca medievale e postmedievale una serie di utili contributi, sia di carattere metodologico,
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sia incentrati su singole ricerche si trova in SAPIN 1991. Lo studio archeologico ed archivistico della produzione e del commercio delle calci a Genova è trattato nel saggio di VECCHIATTINI 1998. Per i problemi chimici di calci e intonaci, sulla base delle analisi condotte principalmente su campioni genovesi, è indispensabile la lettura di MANNONI, 1984; MANNONI, RICCI, SFRECOLA, 1988; MANNONI 1990, raccolti nel volume MANNONI 1994/a. Una rassegna dei vari tipi di inerti utilizzati nelle malte e negli intonaci dell’edilizia storica ligure, basata su analisi minero-petrografiche, si trova in R ICCI 1989 e RICCI 1998. Sulle calci idrauliche greche e romane cfr. i citati lavori di MARTIN 1965 e F RIZOT 1975. Sulle calci idrauliche rinvenute nelle strutture portuali di Genova cfr. MANNONI 1988; BOATO, MANNONI 1993; CUCCHIARA ET ALII 1993 (saggi raccolti in MANNONI 1994/a) e inoltre MANNONI 1996. Sul cosiddetto ‘metodo Loriot’ interessanti considerazioni si trovano in FIENI 1997. Un’ampia casistica di ricerche sugli intonaci (composizione, degrado, esperienze di restauro) è stata presentata al convegno svoltosi a Bressanone gli Atti del quale sono stati curati da BISCONTIN 1985. Sul lessico degli intonaci genovesi del XVI e XVII secolo cfr. BOATO, DECRI 1990. Sugli intonaci lucidati a caldo cfr. MANNONI 1993/a per la situazione genovese e FOGLIATA, S ARTOR 1995 (p. 149 e segg.) per i dati su Venezia. Sugli stucchi greci cfr. MARTIN 1965; su quelli romani è fondamen tale la lettura di FRIZOT 1977, incentrato sulle provincie occidentali dell’Impero romano, ma che contiene una ricca disamina dei procedimenti esecutivi, basata anche su accurate analisi di laboratorio. Utili anche i lavori di LING 1972 e MIELSCH 1975, sebbene più incentrati sull’evoluzione stilistica dei motivi. Interessanti contributi di storia sociale sulla figura artigianale di intonacatori e stuccatori di epoca romana si trovano in BLANC 1983. I dati sulla tomba dei rilievi di Cerveteri, più sopra riportati, sono tratti da BLANK, PROIETTI 1986. Le analisi chimiche di stucchi altomedievali sono state pubblicate in SALVI 1962 e riportate in FRIZOT 1977, pp. 48-49. Per gli stucchi di Gerace (Reggio Calabria) cfr. DI GANGI 1995 e DI GANGI, LEBOLE DI GANGI, SABBIONE 1991; per gli stucchi di San Fruttuoso di Camogli (Genova) cfr. FRONDONI 1998/99 e, per le analisi sui materiali, CAPELLI, MANNONI, RICCI 1998/99. Un interessante convegno sugli stucchi altomedievali, molto incentrato anche sugli aspetti tecnologici, si è tenuto recentemente a Hildesheim (EXNER 1996). Sugli stucchi rinascimentali, barocchi, neoclassici, una sintesi di carattere storico-artistico si trova in BEARD, 1983; mentre per gli aspetti riguardanti le tecni-
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che di lavorazione è assai utile il lavoro di F OGLIATA, SARTOR 1995, incentrato sulle tradizioni veneziane. Per i pavimenti in signino di epoca romana cfr. MORRICONE 1971; per i ‘terrazzi alla veneziana’ cfr. CROVATO 1989; un interessante studio sulle famiglie di terrazzieri friulani che operavano a Venezia dal XVI al XX secolo si trova in COLLEDANI, PERFETTI 1994; dove si analizzano puntualmente i vari procedimenti utilizzati per la stesura dei ‘terrazzi’ e l’organizzazione del lavoro all’interno delle maestranze. Per la diffusione dei terrazzi in Italia settentrionale cfr. inoltre MOR, MUSSO, PITTALUGA 1993; BOATO 1998.
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IV. I COLORI
1. Natura fisica e valutazione oggettiva del colore Il colore è una sensazione prodotta sul cervello, tramite l’occhio, da un corpo opaco colpito dalla luce; tale apparenza cromatica è dovuta essenzialmente a particolari proprietà di riflessione dei raggi luminosi da parte di certi materiali. Se la luce incontra un corpo opaco, una parte vi penetra, cioè viene assorbita, e una parte viene riflessa. La riflessione è di tipo speculare, come nelle pietre lucidate, se la superficie è levigata, altrimenti è di tipo diffuso. Se un corpo assorbe tutta la luce incidente, apparirà nero; se, al contrario, la luce incidente, policromatica, non viene assorbita, ma è completamente riflessa, l’oggetto apparirà bianco; appaiono colorati solo i corpi che riflettono un particolare e limitato intervallo di lunghezze d’onda. Se ad esempio un oggetto colpito da luce bianca, solare, riflette solo onde elettromagnetiche con valori λ caratteristici della componente verde dello spettro solare, apparirà verde. Ciò significa che il colore di un oggetto è il risultato dell’insieme delle radiazioni non assorbite dalla superficie dell’oggetto stesso. Il particolare colore assunto da un oggetto opaco colpito da un fascio di luce dipende dalla composizione della luce incidente e dalla struttura fisica, a livello molecolare, dell’oggetto stesso. Nei corpi trasparenti, invece, la riflessione della luce è bassissima, mentre avviene il fenomeno della rifrazione: i raggi luminosi attraversano il corpo, anche se vengono deviati dal loro cammino secondo leggi ben precise. Esiste anche il fenomeno della rifrazione doppia, o biri -
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frangenza, tipico della maggior parte dei corpi solidi cristallini, i quali, se penetrati da un raggio di luce lo sdoppiano, secondo due diverse direzioni; vale a dire che ad ogni angolo incidente corrispondono due angoli rifratti. Il minerale con più alta birifrangenza è la calcite e tale proprietà è la causa del fenomeno per cui se un oggetto viene osservato attraverso un cristallo di calcite, se ne vedono due immagini. Si calcola che l’occhio umano sia in grado di distinguere circa quattromila colori; per poterli valutare e descrivere in maniera oggettiva sono state elaborate, negli ultimi decenni, delle “carte del colore” che consentono di definire ogni tonalità con un preciso codice. Si tratta di ‘libri’ costituiti da tavole, da utilizzare come termine di confronto, sulle quali sono stati applicati dei colori ben precisi prodotti in laboratorio. Le tavole sono state elaborate in base al principio che ogni colore è definito da tre attributi: -la tinta, che indica i colori base (giallo, rosso, verde, ecc.), ovvero le lunghezze d’onda della luce riflessa; l’occhio umano ne distingue quaranta; -la chiarezza, che indica la quantità di bianco e di nero presente nel colore: fra il bianco e il nero assoluti è possibile riconoscere una scala di otto grigi; -la saturazione, che indica la quantità di tinta presente in un dato colore, in rapporto al bianco, al nero, o al grigio stabilito dal valore di chiarezza: a seconda del valore di chiarezza e della tinta base, si possono riconoscere da cinque a undici livelli di saturazione. Tutte le variazioni che l’occhio umano è in grado di registrare si possono classificare in base a queste tre variabili. Nelle carte di colore sono riportate, per ogni tinta, tutte le possibili variazioni, incrociate e progressive, di chiarezza e saturazione, e ciascuna di esse è contraddistinta da un codice alfanumerico. Il più usato è il Munsell Book of Color nel quale le dieci tinte più importanti sono state divise in cinque principali (rosso; giallo; verde; blu; porpora) e cinque intermedie (giallo/rosso; verde/giallo; blu/verde; porpora/blu; rosso/porpora); a loro volta queste dieci tinte sono divise in quattro intervalli uguali, raffigurabili su un cerchio. Il codice che identifica un determinato colore è composto da tre parti: numero+sigla alfabetica /numero /numero La prima indica la tinta, la seconda la chiarezza, la terza la satu-
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razione. Ad esempio il colore 5YR/6/8 permette di individuare una tonalità collocabile al centro dell’intervallo della tinta giallo-rosso (yellow-red); con chiarezza 6 e con grado di saturazione 8. 2. Colori minerali, terre, ocre: ricerca ed approvvigionamento Le sostanze coloranti più usate in passato erano i pigmenti, ovvero composti non solubili in acqua, già colorati in natura e in grado di colorare altri materiali per applicazione. Potevano essere di origine organica o inorganica (cioè minerale), naturali o artificiali. I primi provenivano, ad esempio, da estratti animali, come la cocciniglia, o il gasteropode detto porpora emastoma, oppure potevano essere estratti da vegetali, come l’indaco, o da sostanze organiche fossili, come il bitume. I neri erano molto spesso ottenuti da pigmenti di origine organica, quali carboni, sia fossili che artificiali, prodotti con vegetali o con resti di animali (ossi, corna). Tutti i pigmenti organici, particolarmente adatti per tingere le fibre vegetali o animali, erano invece meno usati nelle coloriture dei muri, per le quali erano preferibilmente impiegati pigmenti minerali costituiti da composti dei metalli (ferro, manganese, rame, piombo, zinco, cromo, ecc.). Il fatto che i metalli siano ottimi coloranti si spiega con la loro particolare struttura atomica. Gli elementi della tavola periodica considerati “metalli” sono infatti caratterizzati da una notevole mobilità elettronica; gli elettroni dell’orbitale esterno hanno una spiccata tendenza a combinarsi con altri atomi, (specialmente con l’ossigeno) e, di conseguenza, vengono ceduti o possono circolare tra atomi diversi dello stesso metallo. Gli elettroni dell’orbitale sottostante possono occupare più livelli energetici rispetto al nucleo. Gli spostamenti verso l’esterno avvengono con assorbimento di onde elettromagnetiche, caratterizzate da lunghezze d’onda ben precise, corrispondenti alle quantità di energia necessaria per compiere un determinato “salto”. Pertanto la mobilità degli elettroni è collegata alla possibilità di assorbire particolari onde elettromagnetiche di luce e di rifletterne altre, corrispondenti a precisi colori. I metalli, anche se portati alla massima sottigliezza, non sono mai trasparenti, ma assorbono e riflettono sempre un po’ di luce; fa eccezione l’oro, il più malleabile, il quale, se viene ridotto allo spessore di millesimi di millimetro, si lascia attraversare dalla luce, ovvero assume un comportamento simile ai corpi traslucidi.
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L’instabilità dell’assetto elettronico spiega anche la varietà strutturale dei metalli: il ferro, ad esempio, può essere bivalente o trivalente; nel primo caso riflette lunghezze d’onda corrispondenti al colore verde, nel secondo al colore rosso. A seconda dei composti che forma con l’ossigeno, inoltre, può assumere colori ancora differenti: nero è l’ossido ferroso-ferrico (magnetite); rosso l’ossido ferrico (ematite); verde l’ossido ferroso; varie tonalità di giallo-arancio-bruno sono date invece dall’ossido ferrico più o meno idrato (limonite). Il bianco, oltre che con la calce stessa (carbonato di calcio) poteva essere ottenuto col carbonato di piombo (biacca). Altri minerali piuttosto usati erano la manganite e la pirolusite (ossidi di manganese), che danno un rosso scuro violaceo, e il cinabro (solfuro di mercurio), che da un rosso vermiglio, differente da quello del ferro. Più rari erano i materiali dai quali ottenere il blu, che si poteva ricavare dall’azzurrite (carbonato basico di rame), dagli ossidi di cobalto, o dal rarissimo lapislazzuli (silicato di sodio, calcio e alluminio), minerale assai pregiato che si trovava principalmente in Afganistan e che, per la sua lontana provenienza, veniva definito ‘blu oltremare’. Fra tutti questi pigmenti minerali quelli più facili da ottenere erano i composti del ferro, metallo piuttosto abbondante (rappresenta circa il 5% della crosta terrestre), che si trova, oltre che nei giacimenti minerari, anche in altri composti, ad esempio in molti silicati che costituiscono le rocce magmatiche basiche (cfr. I.1.). In seguito alla loro alterazione, dovuta al fenomeno di caolinizzazione dei feldspati che dà origine ai minerali argillosi, il ferro finisce nelle terre alluvionali, trasportato dall’acqua insieme alle argille. È proprio il ferro, combinato con l’ossigeno e accompagnato talora da altri metalli (come il manganese), la causa della colorazione dei depositi argillosi che altrimenti sarebbero bianchi (cfr. II.2.). Pertanto, per ottenere sostanze coloranti, era più facile sfruttare queste concentrazioni di ferro contenute nei depositi alluvionali, che non estrarre il minerale. Ciò spiega perché, tradizionalmente, molti colori venissero indicati col termine “terra”. La presenza del 10-12% di ferro in un’argilla è già sufficiente per ottenere ottimi coloranti. A seconda dei composti del ferro che contengono, le terre possono fornire i colori rosso (dato dall’ematite), giallo arancio marroncino (dato dalla limonite) e, assai più raramente, verde (dato dalla glauconite e dalla celadonite).
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Le terre particolarmente ricche di ossidi metallici (in quantità superiori al 10-12%) vengono dette ocre (dal greco ochrós = giallo) oppure boli (dal greco bôlos = zolla). Non sono invece utilizzabili i depositi che contengono sostanze coloranti in quantità inferiori al 10%. In alcune regioni si trovavano terre particolarmente famose: il bolo armeno, ad esempio, con elevati tenori di ferro e manganese; oppure le ocre del Roussillon (Francia) dai vivaci colori gialli, rossi, viola, particolarmente ricche di ferro, manganese e titanio. Ma buone terre a base di ossidi di ferro per ottenere pigmenti rossi o gialli si potevano trovare quasi dovunque: nel corso di una ricerca sperimentale condotta nel genovesato, ad esempio, è stato possibile raccogliere, con relativa facilità, trenta tipi di pigmenti differenti, compresi nella fascia cromatica dei rossi e dei gialli. I materiali raccolti sono stati utilizzati per prove di decorazione ad affresco; si è così riscontrato, ad esempio, che con trenta cc. di polvere è possibile tinteggiare un metroquadrato di superficie muraria; ciò ha permesso di calcolare che con un metrocubo di terra grezza si può ottenere una quantità di pigmento sufficiente a colorare circa 10.000 metriquadrati di superficie. Il confronto tra le tonalità dei pigmenti raccolti e quelle dei coloranti utilizzati tradizionalmente nella decorazione degli intonaci del genovesato (definite tramite il sistema Munsell) ha permesso di constatare una sostanziale corrispondenza delle varie quantità, e ciò ha confermato un ampio utilizzo di terre locali nella tinteggiatura dell’edilizia storica. Se l’approvvigionamento dei rossi e dei gialli tramite la raccolta di terre a base di ferro era piuttosto semplice, data la loro relativa diffu sione, più complesso e costoso era invece rifornirsi di quei colori che non si trovano nelle terre, ma che necessitano di una vera e propria estrazione in miniera. Tutti i composti del piombo, rame, mercurio, cobalto, antimonio, eccetera, sono piuttosto rari in natura, sia sotto forma di minerali, sia in superficie; si trovano generalmente concentrati in particolari filoni metalliferi che si sono formati nelle spaccature interne delle rocce e sono perciò assai complessi da trovare e da estrarre (cfr. VI.1.). Particolarmente difficile era procurarsi gli azzurri, che non esistono in alcuna terra. Data la rarità di minerali con questo colore, si imparò assai presto a ottenerli artificialmente; fra i pigmenti inorganici prodotti a bottega il più noto è il cosiddetto ‘blu egizio’, che si ricavava fondendo quarzo, calcite e rame ad alte temperature e lasciando
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poi raffreddare lentamente il composto; in tal modo si poteva provocare la cristallizzazione di silicati di calcio e rame, ottenendo così un minerale artificiale dal colore blu vivo. Completamente diversi dai pigmenti, descritti fino ad ora, sono invece le tinture, le quali provengono sempre da sostanze organiche naturali e sono in grado, dopo essere state sciolte in acqua, di rendere colorate le fibre naturali con cui vengono a contatto: cellulosa, legnina, cheratina, eccetera. Si usavano pertanto per colorare i tessuti, le pelli, o per dipingere su carta, ma non nelle costruzioni, perché, se applicate a materiali inorganici, non coloravano ed erano instabili alle radiazioni solari. 3. I pigmenti più usati nell’architettura Lo studio dei pigmenti impiegati nelle pitture murali antiche ha preso avvio da almeno due secoli, in seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei, e inizialmente era rivolto soprattutto alla identificazione dei vari materiali usati in passato. È con la ricerca archeologica più recente che tali analisi sono state finalizzate anche a considerazioni di carattere cronologico ed economico, tese a chiarire, ad esempio, la provenienza, la diffusione sociale oppure i periodi di comparsa, utilizzo e abbandono delle varie sostanze coloranti. I ritrovamenti sui quali si possono basare indagini di questo tipo sono costituiti sia dalle pitture murali, manufatti relativamente frequenti, sia dai pigmenti stessi, che, in casi piuttosto eccezionali, si sono rinvenuti in sepolture, oppure negli scavi di botteghe o di cantieri antichi. I primi pigmenti usati per la pittura parietale furono le ocre e il carbone, il cui impiego è attestato fin dal Paleolitico Superiore, come dimostrano le indagini condotte nelle grotte di Altamira e di Lescaux, risalenti a 15.000 anni fa. Più tardi, con la formazione delle prime civiltà urbane in Mediooriente e in Egitto, aumentò la varietà dei pigmenti organici e minerali e venne introdotto l’uso di quelli artificiali: la produzione del blu egizio, ad esempio, comparve nel terzo millennio a.C. La recente scoperta, a Karnak, del laboratorio di un pittore vissuto nel XV secolo a.C., ha permesso di riconoscere l’utilizzo di diversi pigmenti: oltre
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all’ocra gialla e rossa e al blu egizio, si sono individuati un verde ottenuto con la cottura di silicati e di ossidi di rame e un bianco prodotto con la macinazione di conchiglie. Recenti analisi effettuate su campioni di pitture murali provenienti da Cnosso e Micene hanno attestato anche qui l’impiego del blu egizio, di terre a base di ossidi di ferro, di minerali locali, e di carbone. Nella pittura greca la tavolozza dei pigmenti sembra essersi arricchita ulteriormente: per la decorazione delle tombe macedoni del IV secolo a.C., ad esempio, sono stati utilizzati un bianco formato da calcite e caolino, il blu egizio e dei rossi ottenuti sia da ematite sia dal più pregiato cinabro, del quale parla anche Teofrasto, e che sembra essere stato impiegato a partire dal VI secolo a.C. Esso compare anche nella decorazione pittorica di alcune tombe etrusche di età ellenistica, accanto all’uso dei più comuni ossidi di ferro, provenienti da ocre o terre. È però in epoca romana che il cinabro venne impiegato su larga scala; Plinio (Nat. Hist. XXXIII, 118) ricorda che veniva estratto da miniere spagnole e importato a Roma, dove esistevano apposite officine per il lavaggio e la preparazione e afferma che la sua vendita era regolamentata e il prezzo stabilito da un’apposita legge. Plinio e Vitruvio ricordano anche la produzione del blu artificiale, denominato “caeruleum aegyptium” del quale esisteva una celebre manifattura a Pozzuoli. I verdi, invece, potevano essere realizzati con materiali omogenei (malachite o terre verdi), oppure tramite la sovrapposizione di blu e giallo. Dei colori utilizzati in età romana alcune fonti antiche forniscono anche i prezzi di mercato e in base a tali indicazioni sono state compilate utili tabelle, che permettono di quantificare i diversi costi di produzione per i vari coloranti. Alcuni archeologi hanno dimostrato che l’uso più o meno abbondante di pigmenti ricercati e costosi può costituire un importante indicatore sociale nello studio dell’edilizia privata. In questo senso è interessante richiamare i risultati di una ricerca effettuata su una domus del I. sec. d.C., posta in luce Aix en Provence, nella quale si è cercato di quantificare i tipi di pigmenti usati per la decorazione ad affresco di due stanze e di compararne il costo. È emerso che, a parità di quantità di materiale, la spesa per i pigmenti di una sala, affrescata con ampie campiture in rosso cinabro separate da bande blu, deve essere stata da dodici a sedici volte più alta rispetto a un’altra, decorata a pannelli rosso ocra, separati da bande nere. La differenza di investimento si spiegava evidentemente con la diversa funzione dei due vani: aperto su un’entrata a portico il primo e su un giardino interno il secondo.
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L’incidenza del costo delle diverse sostanze coloranti emerge inoltre nello studio delle pitture murali dell’Altomedioevo, periodo in cui la varietà dei pigmenti sembra essersi decisamente ridotta; tale fenomeno può essere osservato, ad esempio, per le tonalità azzurre, che in relazione alle nuove tematiche religiose avevano acquistato un’importanza maggiore rispetto al passato. Se l’impiego del blu egizio è stato accertato per gli affreschi di S.Maria Antiqua a Roma, o per i dipinti carolingi dell’abbazia di San Giovanni di Müstair, esistono casi, come quello del Tempietto sul Clitumno, presso Spoleto, in cui la tavolozza è decisamente scarna e il pigmento azzurro è addirittura assente. In altri casi si è riscontrato invece l’impiego di un miscuglio di bianco (calcite), di nero (carbone) e pochissimo rosso (ocra) che dà l’impressione di un colore blu grigiastro, utilizzato al posto dei pigmenti azzurri e che viene denominato ‘falso blu’. Un simile espediente, per far fronte alla mancanza di coloranti rari, è stato recentemente riscontrato nei dipinti murali della cripta carolingia di Saint Germain d’Auxerre; in questo caso si è osservato che la presenza di pochissimo cinabro, (che non compare invece nelle parti rosse, eseguite con ocre) è evidentemente dovuta alla precisa esigenza di mescolarlo con il bianco e il nero per ottenere il ‘falso blu’. La decorazione della chiesa campana di S. Angelo in Formis, edificata alla fine dell’XI secolo, costituisce uno dei più antichi esempi di uso del pregiatissimo “oltremare”. Questo minerale, già noto ai romani e ai bizantini, si diffuse più tardi anche nell’Europa occidentale e finì per soppiantare l’antico blu egizio. A partire dal XIII e dal XIV secolo la gamma cromatica delle sostanze coloranti torna ad essere molto ricca; oltre al lapislazzuli il blu era anche ottenuto dall’azzurrite, proveniente dalle miniere di rame della Slesia e della Boemia e definita “azzurro di Alamagna”. Anche per i verdi erano particolarmente impiegati i minerali di rame, peraltro già noti ai romani. Per i rossi, oltre alle onnipresenti ocre, riprese ad essere usato stabilmente il cinabro. Nel Libro dell’Arte di Cennino Cennini, della fine del XIV secolo, si trovano elencati e descritti i numerosi pigmenti allora in uso, per i quali si precisa anche il miglior modo di applicazione. In diversi casi i colori, essendo molto costosi, erano forniti al pittore dai committenti e venivano indicati con precisione nei contratti scritti, come in quello piuttosto famoso con cui si ingaggiò Gentile da Fabriano per la decorazione della cappella del Broletto di Brescia, all’inizio del XV secolo.
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Poche sono le variazioni registrate nell’uso dei pigmenti nel corso dei secoli successivi; per la produzione dei bianchi sembra sia aumen tato l’impiego di gusci d’uovo cotti e macinati, mentre per i blu l’uso dell’azzurrite diminuì progressivamente dopo la metà del XVII secolo, a causa dell’invasione dell’Ungheria da parte dei Turchi. Dal XVIII secolo in poi venne particolarmente usato un altro pigmento artificiale, detto ‘giallo di Napoli’, che si otteneva riscaldando ad alte temperature ossido di piombo e ossido di antimonio, i quali producevano un antimoniato di piombo. Con il progresso della chimica, fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, le preparazioni artificiali finirono per sostituire progressivamente l’uso dei minerali naturali. All’inizio dell’800 si riuscì persino ad elaborare un metodo per produrre artificialmente il rarissimo blu oltremare. Più recentemente l’uso dei colori minerali è stato definitivamente soppiantato dalla produzione di quelli sintetici. 4. La tecnica dell’affresco Una volta raccolte, le terre venivano sottoposte a successive operazioni (lavaggio, filtratura, essiccazione) e quindi macinate, come pure i minerali, in modo da ottenere polveri costituite da granelli della grandezza di pochi micron. Tali dimensioni permettevano alle particelle di pigmento di essere così leggere da restare in sospensione nell’acqua. La tecnica di tinteggiatura definita ‘affresco’consisteva nel far aderire alle pareti i colori ad acqua applicandoli sull’intonaco ancora bagnato, cioè sull’idrossido di calcio. In questo modo il colore si mescolava all’idrossido e successivamente il contatto con l’aria determinava l’evaporazione dell’acqua e la carbonatazione dell’idrossido di calcio, che passava a carbonato di calcio, il quale cristallizzava in calcite secondo la reazione già descritta per le malte (cfr. III.4.). I granuli di pigmento restavano perciò ‘imprigionati’ fra quelli di calcite, che, essendo un minerale trasparente, permetteva di vedere i colori senza alterarli, creando superfici brillanti. Inoltre, la sua altissima birifrangenza rendeva i colori cangianti, a seconda del punto di osservazione. È solo questo processo fisico-chimico che viene definito affresco e che veniva utilizzato sia nelle coloriture, sia nelle decorazioni e nelle pitture vere e proprie, tanto per gli interni, quanto per gli esterni; è il
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sistema di decorazione parietale più bello da vedere, ma anche più duraturo, poiché, a differenza delle tinture, i pigmenti non sono solubili nell’acqua e sono generalmente molto stabili. Prima dell’applicazione sul muro la tonalità presente in una terra o in un’ocra poteva comunque essere schiarita per diluizione in latte di calce, ovvero in un grassello molto liquido. I minerali puri, macinati, erano invece utilizzati nei casi in cui si volevano ottenere tinte più vivaci, cioè più sature. Gli esempi più antichi di affresco risalgono alla seconda metà del terzo millennio a.C. e sono attestati in Mesopotamia e nell’Egeo (Cnosso, Thera). Le pitture, infatti, come dimostrato da opportune analisi, sono state applicate su un intonaco di calce; le impronte di impressioni eseguite a cordicella, o di linee incise con un oggetto a punta per segnare le partizioni della decorazione, sono parsi chiari indizi del fatto che il colore è stato steso sull’intonaco ancora plastico, ovvero ‘fresco’, sfruttando il fenomeno della carbonatazione. La tecnica dell’affresco dovette essere impiegata ampiamente nell’antica Grecia e in particolare in età ellenistica, quando vennero sperimentati diversi procedimenti (uso di più strati di intonaco, linee di contorno dipinte) che si diffusero poi anche nel Sud Italia e in Etruria. Le conoscenze maggiori sono però relative all’epoca romana e ci sono note, soprattutto, attraverso lo studio delle città vesuviane. È assai probabile che per eseguire una decorazione affrescata i pittori romani seguissero le indicazioni di un disegno preparatorio, concordato con il committente, nel quale dovevano essere indicate, in scala ridotta, le partizioni della parete, la presenza di cornici, l’ampiezza delle zone destinate alle figure, eccetera. Un chiaro indizio di ciò è rappresentato dal celebre bassorilievo, rinvenuto a Sens (Francia), che riporta una scena di decorazione parietale eseguita da un gruppo di artigiani, fra i quali si scorge un personaggio intento a osservare un rotolo svolto, posato sulle ginocchia. La decorazione procedeva dall’alto verso il basso, per successive fasce orizzontali, corrispondenti alle pontate, sulle quali venivano stesi, a fresco, i diversi strati di intonaco; sull’ultimo, costituito dall’intonachino ancora umido, veniva quindi inciso il disegno; con il filo a piombo, posto in tensione e intriso di colore, si determinavano le partizioni verticali dello spazio, mentre con righe e compassi si costruivano le suddivisioni orizzontali. Il disegno veniva praticato utilizzando una punta, oppure una cordicella impregnata di terra rossa; i segni
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lasciati da questi strumenti sono stati riscontrati in diversi casi a Pompei e a Ercolano. Dopo aver inciso le linee guida veniva applicato il colore. La ‘giornata’ successiva ricominciava, dalla fascia sottostante, con la stesura dei vari intonaci, fino alla decorazione affrescata. In alcuni esempi di pitture murali di Ercolano e Pompei, dove il degrado della pellicola pittorica aveva messo a nudo la superficie dell’intonaco, è stato possibile ricostruire con esattezza il procedimento seguito per tracciare il disegno preparatorio; per ottenere il noto motivo dei “cubi in prospettiva”, ad esempio, si praticava l’incisione di una quadrettatura ortogonale (eseguita con righe e squadre) che serviva da guida per la successiva applicazione dei colori. Analogamente venivano tracciate le sequenze di ‘scaglie’, o le cornici a greche. Per i motivi ‘a candelabre’, oppure per le girali vegetali, si praticavano, a distanze regolari, incisioni con il compasso, in base alle quali
57- Alcuni sistemi di preparazione della parete ricostruiti in base alle tracce di graffito ritrovate sotto la decorazione ad affresco: quadrettaturaguida per l’opus scutulatum (Pompei) e per il motivo a scaglie (Ercolano); cerchi realizzati col compasso per ottenere il motivo ‘a candelabra’ (da BARBET ALLAG 1972)
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58- Procedimento ‘a pontate orizzontali’, seguito in epoca romana e continuato in età medievale per la realizzazione di un affersco parietale (da ADAM 1989)
venivano poi dipinte le volute, che potevano riprendere l’intera circonferenza, oppure ricalcarla solo in parte. I paesaggi, le nature morte entro ‘quadretti’, o le grandi composizioni a tema nilotico non sembrano invece essere state precedute da disegni preliminari, ma paiono piuttosto essere state eseguite a mano libera. I grandi pannelli figurati erano invece dipinti su porzioni murarie appositamente lasciate in bianco durante la decorazione della parete; in questi casi è attestato l’uso di disegni preparatori costituiti da linee di contorno dipinte con fini pennelli intinti di ocra. Questo sistema, che secondo alcuni studiosi sarebbe derivato dalla tradizione greca, sembra essere riservato soltanto alla realizzazione di tali quadri. Esso può essere messo in relazione con le sinopie, delle quali parla anche Plinio (Nat. Hist.
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59- Procedimento di suddivisione della parete in ‘giornate’ di diversa forma ed estensione, seguito in età rinascimentale (da RUFFA 1990)
XXXV, 6), il quale ricorda come il nome prenda origine dalla città pontica di Sìnop, celebre per le sue terre coloranti. Ciascuna delle diverse figure artigianali menzionate nei testi antichi doveva essere specializzata in una sola operazione: il dealbator, era forse l’addetto alla stesura dell’intonaco; il pictor parietarius, realizzava probabilmente le cornici formate da motivi ripetitivi, mentre l’imaginarius, doveva curare l’esecuzione delle scene figurate. Nel corso dell’Altomedioevo la tecnica dell’affresco non venne abbandonata, ma semplificata: gli strati preparatori, ad esempio, si ridussero di numero, già a partire dalla tarda antichità. Dallo studio delle decorazioni ad affresco conservate, soprattutto nei luoghi di culto, sembra potersi desumere una sostanziale persistenza delle tecniche
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tradizionali romane. Si continuò, ad esempio, a suddividere le giornate di lavoro secondo fasce orizzontali, ricalcate sulle pontate, ovvero sulle porzioni murarie raggiungibili dal piano dell’impalcatura. Un’importante innovazione nella tecnica dell’affresco si registra invece dal XIII secolo, quando le ‘pontate’ orizzontali, di uguale altezza, iniziano ad essere sostituite da ‘giornate’ di diversa estensione; a seconda della complessità esse potevano comprendere un’ampia porzione del fondo, oppure una sola figura, o anche un solo particolare, ad esempio una testa. Generalmente la suddivisione partiva in alto a sinistra e terminava in basso a destra. Nei grandi cicli della basilica di Assisi sono attestati, accanto a partizioni più tradizionali basate ancora sulle pontate, i primi esempi di ‘giornate’ suddivise col nuovo sistema, destinato ad avere un notevole seguito nella grande decorazione parietale del Rinascimento. Dall’inizio del XIV secolo il disegno di base divenne più particolareggiato: al semplice contorno schematico si sostituì un disegno a carbone, più curato, ripassato poi con un pennello intinto nella ‘terra di Sinope’. A differenza dell’affresco romano, tali “sinopie” venivano realizzate nello strato di intonaco sottostante l’intonachino definitivo, sul quale erano poi riprodotte a pennello, oppure a incisione, prima della stesura del colore. Non sono rari i casi in cui il distacco dell’affresco ha posto in luce, nella sinopia, la presenza di modifiche o ‘pentimenti’. Questo sistema richiedeva un impegno costante del maestro, il quale doveva curare personalmente, in ogni ‘giornata’ di lavoro, la preparazione del soggetto da affrescare. Nel corso del XV secolo il disegno diretto sul muro venne progressivamente sostituito con quello eseguito su ‘cartoni’e poi riportato sull’intonaco mediante lo ‘spolvero’. Esso consisteva nel praticare una fitta serie di fori lungo i contorni del motivo da dipingere; una volta appoggiato all’intonaco, il cartone veniva ripassato con una stoffa impregnata di ocra o carbone; cadendo attraverso i fori, il pigmento lasciava sul muro fresco la traccia del disegno. Questo sistema, che finirà per sostituire definitivamente l’uso delle sinopie, si prestava a una maggiore suddivisione del lavoro fra maestro (addetto alla preparazione dei cartoni) e aiutanti, ai quali era affidato il più ripetitivo e faticoso compito di riportare il disegno sul muro. Quest’ultimo poteva anche essere eseguito con incisione indiretta, seguendo i contorni del cartone; inoltre poteva essere ripreso, o completato, tramite ulteriori incisioni con punta metallica, corda battuta, tracciamento con pigmento, eccetera.
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60- Cartone forato (o spolvero) con il disegno-guida di un motivo vegetale da riprodurre sulla parete da affrescare
Un interessante esempio di questo procedimento è stato rilevato di recente nel ciclo di affreschi eseguiti dal Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze. L’osservazione ravvicinata, a luce radente, compiuta in occasione dei restauri, ha permesso di ricostruire la suddivisione in giornate e di riconoscere l’impiego di vari sistemi per eseguire il disegno preparatorio: spolvero, uso della corda battuta, incisione, nonché utilizzo di chiodi quali centri di rotazione nel tracciamento di archi tramite corde. Le tecniche messe a punto nella grande stagione rinascimentale continuarono anche successivamente, senza sostanziali modifiche, fino all’Ottocento, periodo nel quale le decorazioni affrescate vengono riscoperte su larga scala. Dopo l’Unità d’Italia, in particolare, si registra la nascita di una diffusa committenza privata, di estrazione borghese, che affida la decorazione della propria dimora all’operato di artigiani, formatisi per lo più nelle accademie d’arte. Queste maestranze avevano ereditato, e tramandavano a loro volta, un patrimonio di conoscenze che affondavano le loro radici nella tradizione rina-
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cimentale o manieristica del ‘buon fresco’. Molte notizie su questa particolare organizzazione artigianale sono state raccolte nel corso di una ricerca basata sulla testimonianza orale di un anziano decoratore di facciate genovesi, Giuseppe Noli, il quale aveva appreso le regole del mestiere, a partire dall’età di dieci anni, dal padre e dal nonno. Nel suo laboratorio aveva conservato circa quattromila cartoni, in parte suoi e in parte posseduti dalle due precedenti generazioni. Si è potuto apprendere che lo schema d’insieme della parete veniva progettato a terra, in scala ridotta, dato che sui ponteggi era impossibile avere una visione globale. I disegni preparatori dei singoli motivi erano invece realizzati in scala reale; i contorni venivano forati fittamente con un ago, di solito nelle ore serali. Alcuni soggetti erano copiati, non senza adattamenti, dal Trattato di Sebastiano Serlio, del quale il nonno, formatosi presso l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, possedeva una ‘preziosa’ copia. Ogni cartone conteneva solo la metà di un motivo: per realizzare il disegno intero era infatti sufficiente ribaltare il cartone sulla parete.
61- L’anziano affrescatore Noli insegna ad applicare i colori su un campione di intonaco fresco, con successive stesure, secondo il metodo tradizionale
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Lo spolvero veniva eseguito con un sacchetto di tela contenente del pigmento, in genere “terra di Siena bruciata”. Il contorno veniva poi rinforzato con un segno graffito nell’intonaco, secondo una tecnica ampiamente attestate nella decorazione delle facciate genovesi fin dal XVI secolo. Anche la stesura del colore avveniva in base a precise regole: per prime erano applicate le tinte di fondo, poi i contorni dei motivi, quindi i vari gradi delle ombre e infine le lumeggiature. Una precisa tonalità poteva essere ottenuta, in poche decine di secondi, mescolando i pigmenti con acqua. Poiché i disegni dovevano essere visibili a distanza, i dettagli non venivano curati. Nel genovesato si conservano circa una trentina di case decorate dai Noli, secondo due diversi stili: uno eclettico costituito da modanature dipinte in giallo su fondo rosso, e uno liberty, basato più sulla policroma. La profonda conoscenza delle ‘regole dell’arte’ aveva persino consentito a Giuseppe Noli, l’ultimo di questa famiglia di artigiani, di adattare alla decorazione ad affresco i colori acrilici, che nel corso degli anni ‘70, avevano finito per soppiantare definitivamente l’uso delle tradizionali terre. 5. Il fresco secco e la pittura a calce Con il termine ‘fresco secco’ si intende un tipo di pittura parietale nella quale i pigmenti vengono stesi sull’intonaco asciutto, o quasi. Ciò poteva accadere nei casi in cui la decorazione non era ancora stata terminata ma l’intonaco aveva già iniziato la carbonatazione, ovvero era già ‘secco’, oppure quando si doveva ritornare sulle parti ormai asciutte, per completare alcuni dettagli. Anche se la carbonatazione non era ancora avvenuta del tutto, ma era in uno stadio avanzato, i pigmenti avevano comunque pochissime possibilità di mescolarsi con l’idrossido di calcio e di aderire alla calcite. Perciò in questi casi si stendeva sul muro una scialbatura, cioè un sottile strato di latte di calce, sul quale si applicava il colore in fretta, prima che l’acqua evaporasse. Un sistema analogo consisteva nel miscelare i colori minerali con latte di calce, talora addizionato con latte vaccino, che ne migliorava l’aderenza e la coesione; quando l’idrossido asciugava, avveniva, come nell’affresco, la carbonatazione, e quindi la formazione dei cristalli di calcite. Questo sistema, definito ‘pittura a calce’ può essere considerato una variante della tecnica ad affresco; veniva utilizzato soprattutto
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quando si dovevano ottenere composizioni complesse, con ombreggiature e velature sovrapposte, che difficilmente potevano essere completate in un’unica, veloce stesura. Una delle più antiche descrizioni di questa tecnica si trova nell’opera del monaco Teofilo, Diversarum Artium Schedula, composta fra XI e XII secolo. Le documentazioni materiali, invece, sono assai più antiche; risalgono almeno all’epoca greca e accompagnano tutti i secoli successivi, parallelamente alle testimonianze di decorazioni affrescate. 6. La pittura a tempera Per applicare il colore su un intonaco asciutto e senza utilizzare il latte di calce, cioè senza sfruttare la carbonatazione, occorreva ricorrere all’uso di collanti, i quali venivano aggiunti ai pigmenti e ne garantivano l’adesione al muro. Il colore applicato direttamente sulla parete, con l’uso di un medium organico, viene definito tempera. In passato si usavano collanti di vario tipo: l’olio, pur adatto per la pittura su tela o su legno, lo era molto meno per i muri. Più usati erano i collanti ottenuti da proteine animali (chiara d’uovo, caseina del latte) che potevano essere aggiunti al colore anche quando l’intonaco era in stato avanzato di carbonatazione. Essi erano però poco resistenti al calore: già a 25°C, ad esempio, la caseina inizia a trasformarsi in ossalato di calcio. Altri collanti organici di origine animale venivano ottenuti dai collageni: le fibre delle ossa, delle pelli, delle cartilagini, delle unghie, potevano essere estratte facendo marcire le altre parti. Molto usata era ad esempio una colla ottenuta dalla pelle di coniglio. Esistevano anche collanti di natura vegetale, come le resine, estratte dalle conifere o da altre piante, oppure la gomma arabica e la colla dragante. In ogni caso i colori applicati a tempera hanno una durata decisamente inferiore a quella dell’affresco; ciò è dovuto al fatto che il fissaggio della tinteggiatura, invece di essere garantito dalla cristallizzazione della calcite, è dovuto essenzialmente ai leganti i quali, essendo di natura organica, sono soggetti ad alterazioni nel tempo. Anche la resa cromatica è inferiore, poiché la necessità di mescolare il pigmento al collante ne determina una bassa trasparenza e una tonalità meno pura.
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La tempera è una tecnica assai più antica dell’affresco; rappresenta infatti il primo sistema di applicazione dei pigmenti alle pareti, attestato già nel Paleolitico, a Lescaux e ad Altamira. Certamente fu usata anche nella pittura greca e romana, anche se è difficile ritrovarne tracce certe; anch’essa viene descritta nel trattato di Teofilo, il quale sembra considerarla come un completamento della pittura a calce, da utilizzarsi nella definizione dei dettagli. Nel più tardo Libro dell’Arte del Cennini si riporta, accanto a un breve elenco dei colori adatti all’affresco, una nutrita serie di quelli che dovevano essere usati a tempera, fra i quali erano l’azzurrite, l’oltremare, la biacca, il cinabro. Nel Medioevo si fece un ampio uso della tempera murale, che fu particolarmente apprezzata dalla scuola senese e, soprattutto, da Simone Martini; questa tecnica si prestava bene, infatti, alla raffinatezza delle velature, all’uso di colori rari e di materiali ricercati, che conferivano alla pittura un tono aulico e fastoso. Anche nella grande stagione dell’affresco, fra XV e XVI secolo, si attribuiva una grande importanza alla tempera, soprattutto per le finiture. Essa fu usata da diversi artisti e in particolar modo da Leonardo, il quale amava poco la tecnica dell’affresco, poiché la velocità di esecuzione che richiedeva si conciliava male con la sua pittura molto basata sullo studio grafico. Per tale motivo era solito sperimentare l’impiego di collanti, come fece nel celebre caso dell’Ultima Cena di Milano, dove usò una tempera a base di uova. 7. Principali cause di degrado In seguito a naturali processi di alterazione chimica, solo alcuni pigmenti minerali, sottoposti alla luce e all’aria, tendono a cambiare abito cristallino e quindi a mutare la tinta: è il caso, ad esempio, dell’azzurrite, che col tempo tende a trasformarsi in malachite e a mutare colore da azzurro a verde, oppure del cinabro, che tende ad ossidarsi e di conseguenza ad annerirsi. Altri tipi di degrado possono essere subiti dalle decorazioni affrescate, non per alterazione chimica, ma per i danni meccanici procurati dall’acqua. Se esposti a lungo alla pioggia battente i colori degradano per asportazione dei pigmenti; nel caso in cui la calcite venga resa solubile dall’anidride carbonica disciolta nell’acqua, anche i granelli dei pigmenti possono venire asportati. Via via che diminuisce la quan-
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tità di pigmento anche il colore tenderà perciò a schiarirsi. Attraverso i sistemi di valutazione oggettiva più sopra descritti (cfr. IV.1.) è possibile quantificare in che misura il colore originario si sia spostato verso il bianco e calcolare la percentuale di pigmento mancante. Questo tipo di degrado può essere contrastato bloccando il processo di asportazione. Spesso, in un affresco degradato dalla perdita di colore, ciò che si conserva meglio sono i contorni del disegno, perché lì i pigmenti vengono trattenuti più a lungo dalla presenza del graffito. Non sono infrequenti i casi di degrado differenziato degli affreschi, vale a dire di zone in cui manca una quantità maggiore di pigmento. Ciò avviene con più frequenza nelle parti che erano state realizzate per ultime e dove perciò i colori erano applicati sull’intonaco già asciugato. Dove l’azione dell’acqua battente non ha asportato la superficie, l’affresco resta invece brillante, perché i colori minerali nella maggior parte dei casi non sono alterabili. Come gli altri materiali a base carbonatica anche gli affreschi sono soggetti alla solfatazione, con conseguente formazione della crosta nera, per azione delle piogge acide. Altre cause di degrado possono essere dovute a interventi moderni, quali l’applicazione di silicati su pareti bagnate, o l’esfoliazione per mancanza di traspirabilità dei colori polimerici. 8. Nota bibliografica Per uno studio completo dei pigmenti usati nella pittura si veda il volume AA. VV. 1986/a, che contiene un’analisi approfondita delle sostanze coloranti utilizzate dall’Antichità al secolo scorso; di ciascuna di esse vengono descritti i caratteri naturali e viene ricostruita la storia dell’utilizzo nel corso dei secoli. Per lo studio sperimentale condotto nel genovesato sulle modalità di approvvigionamento delle terre coloranti a base di ossidi di ferro cfr. FANTONI, G ATTI 1994. L’analisi dei pigmenti rinvenuti nel laboratorio del pittore egizio di Karnak si trova in ROUCHON ET ALII 1990. Un quadro completo (anche se aggiornato solo ai primi anni ‘80) dello stato delle conoscenze sui pigmenti utilizzati nella decorazione parietale dell’architettura greca, etrusca, romana, si trova in FRIZOT 1982. Per un aggiornamento su alcune ricerche posteriori si consiglia la let-
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tura di A A.V V. 1990, che contiene gli Atti di un Convegno Internazionale svoltosi in Francia sul tema dei pigmenti e coloranti impiegati dall’Antichità al Medioevo; fra gli altri contributi si segnala quello di BARBET 1990, dove viene descritto l’esempio della domus di Aix en Provence più sopra citato. Per le analisi del ‘falso blu’ di S.Germain di Auxerre cfr. COUPRY, SAPIN 1994. Sulla tecnica dell’affresco si vedano inoltre CAMERON, JONES, PHILIPPAKIS 1977 per le analisi di alcuni esempi di pittura parietale minoica; VLAD B ORRELLI 1984 per la pittura etrusca; BARBET, ALLAG 1972 e BARBET 1985 per gli affreschi di epoca romana. Una utile e chiara sintesi di tutti i sistemi di pittura parietale dell’antichità si trova in CAGIANO DE AZEVEDO 1961. Per le tecniche di esecuzione delle pitture parietali in età medievale e rinascimentale cfr. NEGRI ARNOLDI 1980; MORA L. P., P HILIPPOT 1977; B ENSI 1990. L’esempio del ciclo di affreschi di Santa Maria Novella (Firenze) di Domenico Ghirlandaio è trattato nel saggio di RUFFA 1990. Le ricerche di storia orale sulla famiglia dei decoratori Noli si trovano in CAPURRO, GUGLIELMI 1991/92. Interessanti considerazioni sulla pittura a calce e sulla esegesi del testo di Teofilo si trovano in C OSTANZI COBAU 1985.
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V. IL VETRO
1. I sistemi di approvvigionamento della silice Anche il vetro può essere considerato un ‘litoide’, in quanto si ottiene per trasformazione di materiali litici. È rigido, ma oltre certe temperature acquista una plasticità che lo rende modellabile. Non ha una struttura cristallina, ma amorfa, vale a dire che non è caratterizzato da un reticolo ordinato che si ripete con regolarità in tutte le direzioni, ma si può considerare piuttosto un liquido altamente vischioso, sopra-raffreddato. Come tutti i solidi amorfi, non ha un punto di fusione preciso, che separa lo stato cristallino da quello fuso, ma un’ampia fascia termica, all’interno della quale la sua viscosità tende a diminuire, via via che si alza la temperatura. A 1000°C il vetro è molto molle e non mantiene la forma conferitagli; tra 800°C e 600°C presenta la plasticità maggiore. Se si diminuisce la temperatura l’agitazione termica si riduce ulteriormente e aumenta la viscosità, finché sotto ai 500° C si presenta rossiccio, non è più mobile e non si deforma più; a temperatura ambiente, infine, ha raggiunto la sua stabilità di materiale rigido ma amorfo. La materia prima fondamentale per la produzione del vetro è la silice, la cui forma cristallina più diffusa è il quarzo (SiO2), minerale costituito interamente da tetraedri formati da quattro atomi di ossigeno per ogni atomo di silicio; ogni ossigeno stabilisce un legame covalente con due atomi di silicio adiacenti, creando una struttura regolare e molto resistente. Queste unità tetraedriche sono anche l’elemento che costituisce i minerali detti ‘silicati’ (cfr. II.1.); benché siano piut-
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62- Confronto fra lo stato cristallino della silice, costituita da un reticolo ordinato di tetraedri, e lo stato amorfo del vetro, dove i tetraedri sono ammassati senza alcuna regolarità (da CUOMO DI CAPRIO 1988)
tosto abbondanti sulla crosta terrestre non è da essi che si poteva estrarre la silice per produrre il vetro, dato che quest’ultima vi si trova combinata con altri elementi. I sistemi di approvvigionamento tradizionali erano piuttosto basati sulla ricerca di rocce nelle quali la silice si trovasse pressoché pura. Si potevano ad esempio praticare estrazioni mirate di filoni quarziferi contenuti in altre formazioni silicatiche, oppure, con più semplici sistemi di raccolta, selezionare ciottoli di quarziti, rocce derivate dal metamorfismo di arenarie e composte quasi unicamente da quarzo. Altrettanto adatti erano i ciottoli di selce, una varietà di silice criptocristallina presente in forma di noduli all’interno di rocce sedimentarie; infine si potevano sfruttare le sabbie ricche di quarzo. Questo minerale ha infatti una durezza molto elevata (cfr. I.2.) e perciò è in grado di resistere maggiormente agli agenti abrasivi; di conseguenza, la lunga elaborazione naturale finisce per consumare gli altri minerali e per selezionare il quarzo fino al punto da renderlo il componente principale, se non esclusivo. Le sabbie desertiche o quelle di spiagge di età geologiche, ad esempio, sono costituite al 98% di quarzo e possono perciò essere considerate un vero e proprio deposito di silice, che si trova pura e già ridotta in granelli finissimi grazie al trasporto eolico. La raccolta di sabbie quarzifere è chiaramente ricordata dalle
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fonti antiche come sistema di approvvigionamento della materia prima per la produzione del vetro. Plinio menziona ad esempio la sabbia del fiume Belus, in Palestina (Nat. Hist. V, 75) e quella del fiume Volturno, (Molise), che definisce alba emollissima, assai adatta per ottenere vetro trasparente e incolore (Nat. Hist. XXVI, 66, 8). In altri casi la ricerca archeologica ha invece rilevato le tracce di estrazione di filoni quarziferi con piccole piccozze di ferro acciaioso, come nella vetreria medievale di Monte Lecco (Genova), ubicata in un’area montuosa dell’Appennino ligure, lontano da spiagge o da alvei fluviali (cfr. V.2.). 2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti Per ottenere il vetro occorre fondere, cioè rendere liquido, il quarzo. Il passaggio dallo stato solido a quello liquido richiede una forte quantità di energia, tale che l’agitazione termica degli atomi superi le forze di legame. Tutti i solidi cristallini hanno una temperatura di fusione ben precisa, a partire dalla quale passano dallo stato solido a quello liquido. Nel quarzo, data la sua struttura molto stabile, è necessaria un’alta temperatura (1710°C) per spezzare alcuni dei legami fra i tetraedri e renderli mobili tra loro, ovvero per passare allo stato liquido. La temperatura di fusione del quarzo era irraggiungibile con i sistemi produttivi preindustriali, sia per i caratteri dei forni, sia per il tipo di combustibile, costituito dal carbone di legna. In Europa, fino alla rivoluzione industriale, non era possibile superare i 1200°1300°C; in Cina esistevano particolari fornaci in grado di raggiungere temperature pari a 1400°C, usate per la produzione delle porcellane (cfr. II.6.); soltanto in India, già in un’epoca corrispondente alla nostra età romana, si riuscivano a toccare i 1500°C, in piccoli forni a riverbero che fondevano il ferro per fare la ghisa in crogiolo. In ogni caso nessun impianto era in grado di arrivare alla temperatura necessaria per ottenere la fusione del quarzo. Si è però imparato a riconoscere le proprietà fondenti di alcuni materiali, in grado di abbassare tale soglia fino a 1100°C circa. Vi sono infatti elementi come il sodio, il calcio, il magnesio, il potassio, il piombo, che a una temperatura di 1000°-1100°C, e cioè in condizioni di agitazione molto alta delle molecole di silice, possono catturare alcuni legami dell’ossigeno, spezzando alcuni reticoli di tetraedri. A seconda
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delle sostanze fondenti utilizzate il vetro viene perciò definito sodico, potassico, alcalicalcico o piombifero. Il primo era prodotto nell’Antichità, soprattutto nelle regioni mediterranee; Plinio e Teofrasto parlano di una sostanza chiamata natron, identificabile con il carbonato di sodio (Na2CO3), molto abbondante nelle aree desertiche. L’erosione chimica delle montagne che circondano i deserti, infatti, è alla base del fenomeno, già descritto, di caolinizzazione dei feldspati (cfr. II.1.), che si trasformano in minerali argillosi perdendo sodio e potassio; questi ultimi, allo stato di carbonati, vengono trasportati in soluzione durante le piogge. Poiché nei deserti i corsi d’acqua tendono a prosciugarsi prima di giungere al mare, l’evaporazione fa depositare i sali. Ciò spiega la frequente formazione di croste di sale, spesso costituite da strati differenti, dovuti alla diversa concentrazione necessaria per depositarsi. Il carbonato di sodio si poteva perciò trovare con molta facilità. Nell’Europa centro-settentrionale si usava invece prevalentemente la potassa, (K2CO3) contenuta nelle ceneri di piante (felci o faggi); per tale motivo il vetro che si otteneva veniva chiamato in Francia ‘verre de fougère’ (vetro di felce) e in Germania ‘waldglas’ (vetro di bosco). Nelle ceneri, oltre al potassio e al sodio sono più o meno presenti anche il magnesio e il calcio, il quale è importante in particolare modo, perché rende il vetro più stabile nel tempo e lo preserva dalla tendenza alla devetrificazione (cfr. V.5.). L’uso del piombo, piuttosto raro nell’antichità, si è affermato nel Rinascimento. 3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura I più antichi esempi di fusione della silice, per produrre manufatti, risalgono alla metà del II millennio a.C. e provengono dall’area egiziana e mediorientale, regioni dove le materie prime necessarie (sabbie desertiche ricche di quarzo e natron) erano facilmente disponibili; si calcola che, con un fuoco ad alta temperatura, anche il 18% di sodio fosse sufficiente a fondere l’82% di silice. Il materiale che si ottiene dalla prima fusione del quarzo, di aspetto filamentoso e opaco, viene definito fritta e il suo modellamento permette di ottenere oggetti in pasta vitrea. Una delle più antiche tecniche di lavorazione, utilizzata per produrre piccoli contenitori (per lo più unguentari), viene detta ‘a nucleo
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friabile’; essa consisteva nel plasmare, sulla parte terminale di un’asticella metallica, un nucleo di argilla, sabbia e altre sostanze organiche leganti, intorno veniva poi avvolto uno spesso filamento di fritta, piuttosto viscoso, che formava il corpo del vaso. Estratta l’asticella e frammentato il nucleo di argilla per liberare l’interno, si otteneva il vaso; esso poteva essere completato con l’applicazione di orlo, fondo, anse, ed eventualmente decorato con l’aggiunta di altri filamenti di colori diversi, disposti a festoni, a piume, a zigzag. Talora la fritta poteva essere modellata anche a stampo; in ogni caso si trattava di sistemi piuttosto lenti, che permettevano di ottenere oggetti di piccole dimensioni, e che non consentivano una grande varietà di foggiature. È con l’epoca ellenistica che la diffusione dei contenitori in pasta vitrea, come quella di molti altri manufatti artigianali, aumentò notevolmente e, di conseguenza, si moltiplicarono i centri di produzione. Fra questi assunsero una notevole importanza le officine dell’area costiera siro-palestinese, come Sidone, ricordata anche più tardi da Plinio quale artifex vitri. In seguito alla conquista romana dei regni ellenistici si determinò nel Mediterraneo occidentale un imponente afflusso di ricchezze e con esse di beni e di maestranze artigianali specializzate, fra le quali anche molti maestri vetrai. È in questo panorama di accresciuta domanda e di grande circolazione di manufatti e di tecniche che si registra, in età augustea, una innovazione tecnologica di portata vastissima: la soffiatura. Questo nuovo sistema prevedeva di sottoporre la ‘fritta’ a una seconda cottura in speciali contenitori troncoconici, realizzati in ceramica refrattaria, definiti crogioli. Insieme alla fritta, macinata, si mescolavano frammenti di vetro pestati. Se si voleva ottenere un prodotto colorato, si aggiungevano anche pigmenti metallici; a seconda dei composti (per lo più di rame, ferro, manganese) e dell’ambiente di cottura (che poteva essere riducente oppure ossidante) si potevano ottenere colori diversi, dal blu al rosso al giallo al verde. Il prodotto della cottura, non più filamentoso, ma fluido e trasparente, veniva prelevato in piccole quantità e soffiato entro una canna in ferro; con l’aiuto di pochi strumenti (pinze, cesoie, ecc.) si potevano foggiare in brevissimo tempo svariati oggetti, di diverse forme e dimensioni, e con spessori anche molto sottili. Grazie alla soffiatura il vetro conobbe una diffusione sociale decisamente maggiore. Diverse decine di coppe realizzate in vetro soffiato, rinvenute a Roma e risalenti all’età augustea, sono caratterizzate dalla presenza di bolli,
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con i nomi, in greco, degli artigiani che le hanno fabbricate, seguiti dal termine Seidónios (= di Sidone). Spesso i nomi sono ripetuti anche in latino, allo scopo di essere compresi dalla clientela di Roma che, evidentemente, riteneva il marchio sidonio una garanzia di buona qualità. Secondo alcuni archeologi ciò proverebbe il trasferimento dall’Oriente a Roma di specialisti del vetro ai quali si deve, con ogni probabilità, l’introduzione della soffiatura; va comunque ricordato che anche nel Mediterraneo orientale essa compare nello stesso periodo. Questa innovazione tecnologica ha permesso al vetro di diventare un prodotto ad amplissima diffusione e ha aperto molte possibilità nuove: gli oggetti potevano essere allungati, modificati, soffiati entro stampi e quindi rilavorati. Moltiplicatesi velocemente in tutto l’Impero romano (comprese le aree nordiche, come la Renania) le manifatture vetrarie divennero un poco più rare nell’altomedioevo. La produzione aumentò nei secoli seguenti, quando in Italia vennero aperte nuove fabbriche, basate ancora sull’uso di fondente prevalentemente sodico, mentre nel resto dell’Europa settentrionale si andava sviluppando quello potassico. Un importante esempio di un impianto produttivo medievale è stato fornito dallo scavo di una vetreria risalente alla seconda metà del XIV secolo, posta a 830 metri s.l.m., su una montagna dell’Appennino, nell’entroterra del porto di Genova. Con ogni probabilità era gestita da vetrai provenienti da Altare, nel Savonese (zona tradizionale di manifatture vetrarie) che fabbricavano soprattutto bicchieri e bottiglie, molte delle quali recavano un bollo con l’indicazione della misura di capacità e la sigla del maestro. La fornace aveva pianta a ‘8’, come quelle per ceramiche o per calce (cfr. II.5.; III.4), ma in questo caso la strozzatura aveva la caratteristica di essere regolabile attraverso la disposizione di pietre che, all’occorrenza, potevano ridurne o aumentarne l’ampiezza. Il forno era costituito da una suola rialzata rispetto al canale di tiraggio. Il suo funzionamento è stato ricostruito in base ai resti rinvenuti e al confronto con alcuni dati iconografici. Doveva essere a riverbero, cioè costituito da una cupola che faceva convergere il calore dall’alto verso il basso; un foro superiore doveva garantire il tiraggio. La silice era estratta da vene quarzose ubicate poco lontano, come attestavano consistenti tracce di coltivazione. Le analisi chimiche dei prodotti hanno inoltre indicato l’uso di potassio, sodio, magnesio e calcio (estratti da ceneri di piante), quali fondenti. La silice veniva finemente frantumata e portata a fusione assieme
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63- La soffiatura del vetro in una fonte iconografica del 1590, nella quale si riconoscono chiaramente le varie fasi della lavorazione: preparazione del combustibile, soffiatura, trasferimento dell’oggetto finito nella zona ‘della tempera’ (da MANNONI, GIANNICHEDDA 1996)
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al fondente per ottenere la fritta, la quale veniva poi lasciata raffreddare e quindi ulteriormente macinata e mescolata a polvere di vetri rotti, riciclati. Il miscuglio veniva nuovamente portato a cottura entro crogioli, di forma troncoconica, realizzati in ceramica refrattaria. Di notevole interesse sono risultati i dati emersi dall’analisi mineropetrografica di tre diversi tipi di crogioli: si è potuto infatti stabilire che le ottime caratteristiche di refrattarietà erano dovute all’alta percentuale di quarzo, utilizzato come inerte nell’impasto ceramico, e alla presenza di caolinite, minerale argilloso caratterizzato da un’alta temperatura di fusione (cfr. II.1.). La seconda esposizione al calore, detta bollitura, richiedeva un certo periodo di tempo; il materiale doveva essere controllato tramite finestrelle appositamente aperte nelle pareti della fornace, le quali permettevano anche di attingere direttamente dai crogioli; le bolle di gas erano espulse e venivano schiumate le impurità che salivano a galla. Solo quando il vetro aveva raggiunto la limpidezza necessaria veniva prelevato, allo stato fluido, con le canne di ferro, sempre tramite le finestrelle, per essere modellato a fiato. Dopo la foggiatura si doveva evitare il raffreddamento improvviso, che rischiava di creare tensioni interne le quali, con piccoli urti, avrebbero potuto provocare lo sgretolamento dell’oggetto. Per farlo assestare, perciò, esso veniva tenuto a lungo in un ambiente, detto ‘stanza della tempera’, con temperatura attorno ai 200° - 400°C. È probabile che in questo caso tale zona si trovasse nella parte superiore del forno, a giudicare dalla forma degli speciali mattoni refrattari che formavano la cupola, e come suggerirebbe il confronto iconografico con impianti analoghi. Nei caratteri tecnologici essenziali, la fornace medievale dell’Appennino genovese, fin qui descritta, non sembra molto diversa da quelle più tarde, illustrate, ad esempio, nelle tavole dell’Encyclopédie. 4. La produzione di lastre da finestra Il vetro è particolarmente importante nelle costruzioni per le sue caratteristiche di materiale impermeabile e trasparente, in grado di creare un sufficiente isolamento termico, e al tempo stesso di lasciar passare la luce e le immagini. L’introduzione della soffiatura e le innovazioni tecnologiche dell’arte vetraria hanno influenzato notevolmente, soprattutto nelle regioni a clima rigido, l’evoluzione tipologica delle finestre.
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In epoca romana vi erano, come si è visto, manifatture vetrarie assai fiorenti, tuttavia sono molto più conosciuti gli oggetti da mensa che non i vetri da finestra. Le più antiche attestazioni di lastre in vetro riguardano edifici pubblici e solo successivamente l’edilizia privata, dove iniziano a essere più frequenti a partire dall’età neroniana. Uno dei primi sistemi di fabbricazione era basato sulla colatura in uno stampo dalla superficie liscia; ciò consentiva però di ottenere oggetti di dimensioni limitate e di notevole spessore. La produzione di manufatti di qualità migliore fu resa invece possibile dalla soffiatura. Un sistema piuttosto diffuso, soprattutto dal III secolo in poi, doveva essere quello definito ‘a cilindro’. Esso consisteva nella preliminare realizzazione di una bolla; continuando poi a soffiare nella canna e facendola alternativamente rotolare su una base di marmo, si otteneva un cilindro molto allungato. Quando aveva raggiunto le dimensioni volute, si provvedeva a tagliare a caldo, con un ferro rovente, le due estremità, e quindi lo si apriva in senso longitudinale, in modo da ricavarne una lastra rettangolare. Per tagliare il cilindro si usava una sorta di cesoia, detta ‘grossarium’, che produceva un profilo affilato, il 64- Realizzazione di lastre da finequale però tendeva ad arrostra tramite il sistema ‘a cilindro’: tondarsi a causa del calore. soffiatura di una bolla e suo allungaIl grisatoio era invece uno mento; taglio delle estremità, apertustrumento metallico, ricurra a caldo (da MENICALI 1992, rielavo alle due estremità, che borata da Zanella, 1999)
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65- Realizzazione di lastre da finestra tramite il sistema ‘a corona’: soffiatura di una ‘bolla’; appiattimento della base; distacco della canna e collegamento a un’asticciola, modellamento della lastra per forza centrifuga e stacco dell’asticciola (da MENICALI 1992, rielaborata da Zanella, 1999)
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serviva per scheggiare finemente i bordi, quando le lastre erano di dimensioni poco più grandi rispetto alla cornice. Un’altra tecnica era detta invece “a corona” e consisteva nel realizzare una bolla larga e appiattita alternando il riscaldamento al modellamento su una base in pietra. Quando la bolla aveva raggiunto le dimensioni volute, veniva collegata alla base con un’asticella di ferro, detta “pontello”, e staccata dalla canna da soffio; l’apertura veniva quindi dilatata con apposite spatole, in modo da renderla troncoconica. Facendola ruotare rapidamente tramite il pontello, finiva per assumere la forma di un disco. Lo stacco del pontello lasciava al centro della lastra il caratteristico addensamento di vetro definito ‘occhio di bue’, mentre il bordo presentava un tipico ispessimento. Secondo alcuni studiosi questo sistema sarebbe originario del Mediterraneo orientale; per tre dischi rinvenuti ad Aquileia si è infatti ipotizzato che si trattasse di importazioni, oppure di prodotti realizzati sul posto da maestranze venute dall’Oriente. A partire dall’età tardoantica sono attestati nelle province occidentali altri ritrovamenti di lastre realizzate ‘a corona’: uno, in un contesto di IV secolo è stato rinvenuto, ad esempio, a Chichester, la romana Regnum. Celebri sono poi i dischi in vetro rinvenuti a San Vitale di Ravenna, databili al VI secolo. Presentano diametri con dimensioni di cm 17/26; alcuni sono colorati (blu, verde, giallo, rosa) altri sono invece incolori e conservano tracce di una decorazione sovradipinta in rosso. Si è fatta l’ipotesi che in origine fossero fissati su telai lignei oppure che fossero incastrati, tramite stucco, in appositi spazi di transenne marmoree. Questi sistemi sembrano comunque caratteristici della tradizione bizantina, mentre in occidente doveva essere maggiormente diffusa la produzione di lastre rettangolari, mediante il sistema a cilindro. È stato osservato infatti che, nella stessa Ravenna, tutte le raffigurazioni di edifici di culto che si trovano sui mosaici, presentano finestre con lastre rettangolari. Due intelaiature di legno, destinate a fermare lastre di questo tipo, sono state rinvenute a Sant’Apollinare in Classe, nella tamponatura di due finestre. Per la conoscenza delle lastre di periodo altomedievale un ritrovamento di eccezionale interesse è stato effettuato durante gli scavi del monastero di San Vincenzo al Volturno (Isernia). Nelle imponenti ricostruzioni operate fra il 780 e l’830, questo complesso venne ingrandito e ricostruito, tanto da diventare, con i suoi sei ettari di estensione, uno dei più grandi cenobi d’Europa anteriormente al Mille. La distru zione operata nell’881 da parte di un gruppo di armati arabi ne ha
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sigillato i resti nel sottosuolo. Gli scavi archeologici hanno così reso possibile ritrovare, nei pressi della chiesa abbaziale di San Vincenzo Maggiore, completata nell’808, una serie di impianti produttivi costituiti da fornaci per laterizi, per campane, per smalti e per vetri, tutti destinati a rifornire i materiali per questo grandioso cantiere. Una parte delle officine, a carattere provvisorio, venne installata in un’area antistante l’edificio di culto. Con il progressivo ampliamento della chiesa gli impianti vennero spostati presso il fianco meridionale e sistemati all’interno di strutture edilizie permanenti, costituite da cellette rettangolari affiancate. In una di esse sono stati rinvenuti i resti di due fornaci da vetro, che producevano lastre vitree colorate, delle quali si sono rinvenuti circa 7000 frammenti (delle misure massime di cm 12 x 15), destinate a finestre di notevoli dimensioni. Le analisi chimiche hanno rilevato l’utilizzo di fondenti alcalini (soprattutto sodio) secondo la tradizione tecnologica romana. Di notevole interesse il fatto che meno dell’1% dei frammenti è risultato eseguito col sistema a corona, mentre oltre il 99% è stato realizzato a cilindro. Benché frammentarie, è stato possibile individuare la forma originaria delle lastre: quelle della parte bassa erano rettangolari, mentre quelle poste in alto erano a 66- Ricostruzione di una finestra profilo curvilineo. Si è peraltomedievale con lastre rettangolatanto ipotizzato che tali panri, in base ai ritrovamenti archeolonelli fossero inseriti su telai gici di San Vincenzo al Volturno (da lignei simili a quelli rinvenuDELL’ACQUA 1996)
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ti a Sant’Apollinare in Classe, più sopra ricordati; le vetrate di San Vincenzo dovevano perciò rifarsi a quelle dei grandi edifici pubblici della tarda Antichità. Si sono inoltre rinvenuti alcuni frammenti di listelli in piombo, a sezione ad “H” o ad “U”, verosimilmente destinati al fissaggio delle lastre. Un altro interessante esempio di un impianto di produzione vetraria, ubicato nei pressi di un cantiere edilizio, è stato rinvenuto negli scavi della Torre Civica di Pavia. In origine essa fu infatti utilizzata come officina per produrre materiali edilizi da impiegare nell’edificazione delle due cattedrali romaniche di Santo Stefano e Santa Maria del Popolo, ricostruite attorno al 1100. In questo caso, però, tale ambiente non ospitava una vera e propria fornace, della quale non si sono rinvenute tracce; secondo alcuni archeologi vi sarebbe avvenuta soltanto una lavorazione secondaria, consistente nel taglio dei vetri e nel montaggio delle finestre; secondo altri, invece, il luogo avrebbe ospitato un temporaneo deposito di lastre di scarto, già smontate e lì raccolte per un’eventuale rifusione. In ogni caso tali frammenti, databili attorno al 1100, rappresentano una delle più antiche attestazioni di vetrate romaniche. Nei secoli successivi tali testimonianze si moltiplicano; il sistema a corona risulta ampiamente documentato anche nel resto d’Europa: dal XIII secolo in poi esso è particolarmente diffuso in Normandia, tanto che fino a poco tempo fa si riteneva che fosse originario di questa regione. Parallelamente continuò ad essere in uso anche il sistema a cilindro. Un contesto di alcune centinaia di frammenti di vetro da finestra è stato rinvenuto a Genova, nel corso di scavi archeologici, in una fossa databile alla fine del XVI secolo. Poiché quest’ultima era ubicata nei pressi della chiesa di Santa Maria di Castello, la cui abside venne rifatta appunto nel 1589, si è giustamente ipotizzato che i vetri provenissero dalla demolizione della precedente fase tardo quattrocentesca. Fra essi si trovavano numerosi esempi di dischi realizzati con la tecnica “a corona”, ben riconoscibili dalla presenza della caratteristica protuberanza centrale dovuta allo stacco dell’asticella. Altre lastre a forma di triangoli, pentagoni, tasselli quadrati, lunette e rettangoli erano invece state prodotte con la tecnica del cilindro. Una serie di lastre presentava una decorazione bruno violacea applicata con ossidi di manganese, sulla quale erano ottenuti, a risparmio, motivi decorativi vegetali. Tutti questi elementi, di dimensioni comprese entro i 10-15 centimetri, dovevano essere uniti per mezzo di profilati di piombo (che però
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67- Frammenti di lastre da finestra tardomedievali rinvenuti a Genova, in una fossa scavata presso Santa Maria di Castello: tipologia delle forme attestate; ricostruzione di un motivo geometrico a rombi e ottagoni allungati; ricostruzione di una finestra con lastre circolari impiombate (da GARDINI, MILANESE 1976)
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non sono stati rinvenuti) a formare disegni geometrici, come nelle vetrate fisse ancora esistenti in molte chiese medievali. I vetri medievali erano spesso decorati con una pittura a base di ossidi, che veniva fissata con una seconda cottura in fornace; i contorni del disegno potevano essere disegnati in positivo, oppure realizzati a risparmio, asportando la pellicola colorata, come nel caso genovese. Le grandi vetrate gotiche, con decorazioni istoriate a vivaci colori, fissate alle pareti attraverso telai di ferro, non potevano essere completamente realizzate con collages di vetri piombati, poiché sarebbero state troppo pesanti; inoltre i profilati di piombo non avrebbero permesso di ottenere una grande ricchezza di dettagli. Le decorazioni minute (volti, mani, monili) venivano pertanto eseguite con un sistema definito grisaille, che consisteva nel dipingere le lastre con polvere di vetro colorato, misto a collanti. In seguito a una ulteriore cottura, praticata a temperature basse, in modo da evitare la deformazione delle lastre, solo la polvere di vetro fondeva, rimanendo aderente al supporto. Se la realizzazione di vetrate fisse non poneva problemi particolari, quella delle finestre con ante mobili, che potessero essere aperte e chiuse era decisamente più complessa. Nelle polifore delle più ricche case mercantili, poiché non era possibile rendere apribili le vetrate (unite da elementi in piombo e perciò troppo pesanti) si utilizzavano telai lignei che venivano agganciati alla parete ogni giorno (uno per archetto) e smontati ogni sera per essere sostituiti da scuri di legno. Nelle case meno ricche, al posto dei telai con lastre di vetro si utilizzavano invece tele cerate, o carta oleata. Telai e scuri venivano tenuti fermi da paletti inseriti internamente, entro appositi alloggi ricavati sugli stipiti e sulle pareti. Si trattava comunque di un sistema molto scomodo, che aveva anche una tenuta termica bassissima. La sostituzione delle polifore con finestre a croce, avvenuta a partire dalla fine del XV secolo, permise di adottare un sistema più funzionale: solo la parte superiore venne infatti dotata di vetrate piombate, fisse, mentre nella parte bassa vennero poste due ante lignee apribili. Infissi di questo tipo sono ampiamente attestati dalle fonti iconografiche e, molto più raramente, da resti materiali. Un caso di grande interesse è costituito dalla serie di finestre del palazzo duecentesco dei Fieschi, a Cogorno (Genova). Grazie all’ottimo stato di conservazione sono ben riconoscibili le tracce della trasformazione delle polifore medievali in finestre a croce. Nella parte superio-
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68- Testimonianza archeologica di finestre tardo-quattrocentesche costituite da vetrate fisse in alto e da ante mobili di legno in basso. Tali infissi rettangolari sono stati ricavati nello spazio delle più antiche polifore medievali (San Salvatore dei Fieschi Genova) (da MANNONI 1999/b)
re si conservano i resti delle vetrate fisse, mentre all’interno si individuano chiaramente, negli stipiti, gli alloggi utilizzati per i paletti lignei che tenevano ferme le ante poste nella parte bassa. La realizzazione di grandi finestre con ante apribili, costituite da lastre di vetro rettangolari, montate su telai di legno, si diffuse invece più tardi: nei palazzi nobiliari soppiantò definitivamente le finestre a croce a partire dal XVII secolo. Le lastre erano prevalentemente prodotte col sistema a cilindro, nel quale vennero introdotte alcune modificazioni tecnologiche, non sostanziali: per il taglio delle lastre, ad esempio, dal XVII secolo si cominciò a fare uso del diamante. 5. Principali cause di degrado La tendenza del vetro, sostanza amorfa, a riassumere col tempo una struttura cristallina, è un fenomeno naturale, che ne causa la
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devetrificazione. Questo processo è collegato alla perdita progressiva delle sostanze fondenti; il sodio, in particolare, tende a staccarsi dal vetro per lisciviazione dell’acqua. Rimasta senza alcali, la silice tende a riorganizzarsi secondo una struttura cristallina; tuttavia i tetraedri di SiO 2 non riformano più i cristalli di quarzo, ma la presenza di altri elementi (ferro, magnesio, calcio) determina la formazione di nuovi silicati fra i quali il più comune è la clorite, dal tipico colore verde. Le colorazioni iridescenti assunte da molti vetri romani, a base sodica, sono appunto dovute alla perdita degli alcali e alla formazione di silicati. Questo fenomeno esiste anche in natura; molte colate laviche di basalti, ad esempio, che in origine erano ricoperte da strati vetrosi, dovuti al veloce raffreddamento in superficie, col tempo si sono trasformate completamente in clorite. 6. Nota bibliografica Sul ciclo di produzione del vetro una utile sintesi si trova in MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 89-92; sulla vetrificazione del quarzo un essenziale richiamo dei principali meccanismi chimici si trova in CUOMO DI CAPRIO 1985. Sulle tecniche di lavorazione, dalla pasta vitrea alla soffiatura, si consiglia l’agile volumetto di SAGUÍ 1998 e il testo di TAIT 1991, quest’ultimo particolarmente utile dal punto di vista didattico, per le numerose esemplificazioni sperimentali. Sulla vetreria medievale scavata nell’Appennino genovese, studiata con grande attenzione e con il supporto di accurate analisi archeometriche cfr. FOSSATI, MANNONI 1975; CASTELLETTI 1975; CALEGARI, MORENO 1975. Sui metodi a cilindro e a corona per la soffiatura di lastre da finestra cfr. SINGER ET ALII 1961-66. Sull’uso di lastre da finestre nell’architettura romana cfr. HARDEN 1969 e HARDEN 1971; una essenziale sintesi delle principali problematiche relative alla storia del vetro da finestra nell’architettura romana viene tracciata in margine allo studio dei 2700 frammenti rinvenuti negli scavi della villa di Settefinestre da DE TOMMASO 1985, pp. 50-51. Sui vetri prodotti col sistema a corona cfr. CALVI 1968, pp. 174-175 per Aquileia; CHARLESWORTH 1977 per Chichester; BOVINI 1964 per San Vitale. Per le vetrate altomedievali rinvenute negli scavi del monastero di San Vincenzo al Volturno cfr. MARAZZI, FRANCIS 1996; DELL’ACQUA 1996; DELL’ACQUA 1996/a. Per le vetrate rinvenute nella torre di Pavia cfr. WARD PERKINS ET ALII 1978; PIRINA 1993; SPATOLA 1993. Per il conte-
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sto di vetri da finestra tardo quattrocenteschi rinvenuti a Genova cfr. GARDINI, MILANESE 1976. Gli aspetti produttivi e iconografici delle vetrate medievali sono trattati nella recente monografia di CASTELNUOVO 1994. Sulle trasformazioni di finestre e serramenti dal medioevo all’età moderna, notizie dettagliate, sebbene circoscritte all’ambito genovese, si trovano in BOATO, MANNONI 1997/98. Sulle finestre di San Salvatore dei Fieschi (GE) cfr. MANNONI 1999/b.
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VI. I METALLI
1. Formazione e proprietà La distinzione fra i metalli e gli altri elementi chimici si basa su alcune caratteristiche quali la conducibilità elettrica e termica, la duttilità e malleabilità, la facilità all’ossidazione, la lucentezza e la tendenza a riflettere la luce. Tutti questi caratteri derivano dalla mobilità elettronica, già ricordata a proposito dei colori (cfr. IV.2.). Alcuni metalli (oro, argento, platino, rame) si possono trovare allo stato nativo, ma la maggior parte di essi è invece combinata con altri elementi a formare composti quali ossidi e idrossidi, solfuri, carbonati, silicati, ecc. CLASSE
NOME
FORMULA
METALLO ESTRATTO
ossidi
ematite magnetite pirolusite cuprite
Fe2 O3 FeO Fe 2O4 MnO2 Cu2O
Fe Fe Mn Cu
idrossidi
limonite
FeO2 n H2O
Fe
carbonati
siderite azzurrite malachite cerussite
FeCO3 2CuCO3 Cu (OH)2 CuCO3 Cu (OH)2 PbCO3
Fe Cu Cu Pb
solfuri
calcopirite calcocite galena argentite cinabro
CuFeS2 Cu2S PbS AgS HgS
Fe Cu Pb Ag Hg
-Tabella con i minerali dai quali si ricavano i principali metalli-
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69- Un filone metallifero all’interno di un rilievo montuoso, interessato dall’erosione e trasportato in un sedimento vallivo (da DI CORBELTALDO 1967 semplificata)
Le concentrazioni di minerali metallici vengono definite giacimen ti e, in particolari condizioni che ne rendano vantaggiosa la coltivazione, possono essere sfruttati dall’uomo. I corpi metalliferi si trovano, all’interno di rocce che vengono dette incassanti, in associazione con altri minerali non metallici, il cui insieme è definito ganga; quest’ultima si distingue per il suo colore chiaro e ha generalmente un volume superiore a quello dei minerali metallici; frequenti sono, ad esempio, le ganghe quarzifere o quelle calcitiche. Quanto alla classificazione generale, si distinguono giacimenti di origine magmatica, sedimentaria e metamorfica. I primi si formano durante il processo di consolidazione di un magma, che avviene, attraverso vari stadi, a diverse temperature: -allo stadio ortomagmatico (>750°C) cristallizza la maggior parte del magma e si formano i minerali delle rocce; -allo stadio pneumatolitico (>400°C) si formano alcuni giacimenti per deposizione e cristallizzazione dei residui gassosi del magma (contenenti anche metalli) che circolano nelle spaccature dovute al ritiro delle rocce, in via di raffreddamento. Le sostanze volatili disciolte nel magma (CO2; SO2; Cl; N; H; S) facilitano, in queste condizioni, la formazione dei minerali metallici perché ne aumentano la mobilità e vengono perciò detti agenti mineralizzatori. In questo stadio cristallizzano, ad esempio, magnetite, ematite, cassiterite (ossidi); pirite e calcopirite (solfuri);
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70- Schema della posizione di un filone metallifero (reso a tratteggio), circondato dalla ganga (resa a puntini) e compreso all’interno della roccia incassante (in bianco) (da DI CORBELTALDO 1967 semplificata)
-allo stadio idrotermale (<450°C), che rappresenta l’ultima fase di consolidazione dei residui magmatici, si formano giacimenti per deposizione di minerali disciolti nelle acque calde circolanti, che ad alte pressioni sono liquide anche sopra ai 100°C. A seconda degli intervalli di temperatura ai quali avviene la cristallizzazione si distinguono, inoltre, giacimenti catatermali (450°-300°C), mesotermali (300°200°C) ed epitermali (200°-50°C). In questo stadio si formano alcuni importanti solfuri quali la galena, la blenda, il cinabro. I giacimenti di origine sedimentaria sono dovuti all’erosione e alla rideposizione di minerali primari. Si definiscono clastici quelli prodotti dall’azione meccanica degli agenti atmosferici che degradano le rocce. I residui che si formano vengono poi trasportati dall’acqua e, in base alle dimensioni, al peso, alla velocità di trasporto, subiscono una selezione che può dare luogo a nuovi giacimenti, detti placers. A seconda dell’ambiente in cui è avvenuta la sedimentazione essi si distinguono in marini e continentali; questi ultimi sono a loro volta suddivisibili in eolici, glaciali, lacustri, alluvionali, a seconda del processo di sedimentazione. I giacimenti sedimentari di origine chimica, invece, devono la loro formazione alla separazione di sostanze trasportate in soluzione dalle acque. Infine, quelli di origine metamorfica, sono dovuti alla trasformazione di altri giacimenti, avvenuta nelle regioni profonde della crosta
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terrestre, ad alte pressioni e temperature. Limonite, ematite, siderite, ad esempio, possono subire variazioni caratteristiche, per metamorfismo di contatto, e trasformarsi in magnetite. 2. Ricerca dei giacimenti e pratiche di estrazione La conoscenza delle sostanze metalliche era già nota all’uomo di Neanderthal, che raccoglieva le pepite d’oro e le usava come ornamento, depositandole nelle sepolture, accanto a cristalli di quarzo e a conchiglie fossili. La raccolta fu il primo sistema di approvvigionamento e continuò ad essere praticata anche dopo che si appresero le tecniche metallurgiche vere e proprie. Il primo ferro ad essere utilizzato, ad esempio, sembra sia stato quello meteorico, poco ossidato perché già combinato col nikel; altre forme di raccolta consistevano nello sfruttamento dei sedimenti alluvionali. Più complessa era invece la coltivazione dei giacimenti in posizione primaria, poiché assai raramente questi ultimi sono del tipo a cielo aperto, come quelli di ferro dell’isola d’Elba; nella maggior parte dei casi sono ubicati a notevoli profondità, nelle spaccature delle rocce, dove si sono formati per solidificazione dei metalli trasportati dai gas o dalle acque calde circolanti. La loro estrazione, o coltivazione, era tale da richiedere difficili sistemi in sotterraneo, detti miniere. Lo scavo di pozzi verticali, dell’altezza massima di un metro e mezzo, per l’estrazione della selce, è attestato in Inghilterra già nel Paleolitico, ma è solo a partire dal IV millennio a.C. che si registrano pratiche estrattive destinate all’approvvigionamento di minerali del rame, operate con attrezzi di pietra. Con l’età del bronzo si verifica un notevole sviluppo delle attività minerarie, che si estendono a varie regioni europee. Le principali difficoltà dell’estrazione sotterranea erano rappresentate dalle esigenze di illuminazione, di ventilazione, di trasporto e di drenaggio; a quest’ultimo problema si provvedeva, generalmente, tramite la realizzazione di pozzi per eliminare l’acqua. Le coltivazioni in genere avevano una geometria piuttosto irregolare, in quanto si allargavano o si restringevano seguendo le vene metallifere. Un caso piuttosto isolato è rappresentato dalle miniere greche del Laurion, in Attica, utilizzate dal VII al I secolo a.C. per l’estrazione di piombo e, soprattutto, di argento. La struttura geologica dei filoni di galena argentifera, quasi orizzontali, aveva permesso una certa rego-
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larità nella coltivazione, che veniva operata tramite pozzi rettangolari scavati a coppie e uniti per mezzo di gallerie parallele munite di cunicoli trasversali per agevolare la ventilazione. Nel IV secolo a.C. fu promulgata una legge che proibiva la rimozione dei pilastri, risparmiati per sostenere il tetto delle gallerie e alti fino a 9 metri. Questa relativa regolarità, favorita dalle condizioni naturali del giacimento, costituisce comunque un’eccezione, poiché in generale le miniere restarono formate da gallerie irregolari. È nei sistemi di drenaggio che le coltivazioni di epoca romana conobbero significativi miglioramenti rispetto al passato. La realizzazione di poderosi acquedotti permise infatti un ampio utilizzo della risorsa idrica che, nel caso delle coltivazioni sotterranee, veniva impiegata per azionare le ruote, necessarie al sollevamento dell’acqua. Un sistema piuttosto laborioso, messo a punto in particolare nelle grandi miniere iberiche e definito ruina montium, prevedeva imponenti sbancamenti nei depositi alluvionali ricchi di minerali metallici, allo scopo di provocarne artificialmente la frana. L’immissione di notevoli quantità d’acqua causava un forte processo erosivo e selezionava i minerali in base al peso specifico; si otteneva così la formazione di giacimenti alluvionali, ricchi di minerali metallici. Le testimonianze storico-archeologiche, assai rare per il periodo altomedievale, aumentano notevolmente a partire dal XII-XIII secolo. In Italia le principali aree metallifere si trovavano in Toscana (dove erano state già ampiamente sfruttate dagli etruschi), in Sardegna e in tutto l’arco alpino; secondo un’antica norma giuridica ereditata dall’epoca romana, il sottosuolo (e dunque anche i giacimenti minerari) erano di proprietà dello Stato; il diritto all’apertura di nuove miniere veniva generalmente concesso a famiglie private dietro corresponsione di una tassa. La ricerca archeologica nei siti minerari lombardi di epoca medievale ha registrato la presenza di estesi scavi in superficie, (eseguiti con mazza, punta e cunei) effettuati per individuare la vena e sfruttarla, dove possibile, all’aperto; quando i filoni metalliferi si immergevano nella terra, l’estrazione li seguiva in profondità, con lo scavo di pozzi e gallerie. La conoscenza dei sistemi estrattivi di epoca medievale è stata notevolmente arricchita grazie agli scavi condotti a Rocca San Silvestro (Livorno), un abitato sorto fra X e XI secolo in una ricca zona mineraria e abbandonato nel corso del XIV secolo. Il borgo era dominato dal castello (posseduto prima dai conti della Gherardesca e poi dai signori Della
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71- Ricostruzione grafica di una delle miniere medievali del villaggio di San Silvestro (Livorno) individuate dalle ricerche archeologiche (da FRANCOVICH 1991 ridisegnato da Zanella 1999)
Rocca) ed era organizzato in una zona orientale, destinata alle abitazioni dei minatori e delle loro famiglie, e in una occidentale, dove si concentravano le attività metallurgiche. Poco lontano si trovavano i giacimenti, costituiti soprattutto da calcopirite e galena argentifera. Lo scavo archeologico di alcune miniere ha permesso di datare le attività estrattive al XII-XIII secolo. Sono state individuate sia fosse a cielo aperto, del diametro raramente superiore ai dieci metri e profonde duetre metri, sia pozzi verticali, con imboccature dell’ampiezza di un metro e mezzo-due metri, profonde al massimo una decina di metri. Il minerale veniva estratto con piccone o con mazzetta e punta. Una prima selezione avveniva in miniera, allo scopo di ridurre il peso da sollevare, mentre una seconda cernita veniva compiuta all’esterno. Nel XVI e XVII secolo si affermò, nelle principali aree estrattive,
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72- Ricostruzione grafica, eseguita in base ai dati archelogici, di un impianto per la riduzione del ferro col metodo a bassofuoco, nel villaggio medievale di San Silvestro (Livorno). Per aumentare la temperatura era utilizzato un mantice a mano, protetto dal calore tramite un muretto; nello stesso ambiente erano presenti un secondo punto di fuoco, per il riscaldamento del blumo e un’incudine per la sua battitura e scorificazione (da FRANCOVICH 1991 ridisegnato da Zanella 1999)
una maggiore diffusione dell’energia idraulica, che permise di migliorare l’organizzazione dei pozzi minerari e consentì l’uso di montacarichi, oltre che di più progrediti sistemi di trasporto e trasformazione del minerale. Per la conoscenza delle tecniche estrattive del XVI secolo esistono importanti fonti trattatistiche, quali il de Pirotechnia, del senese Biringuccio, opera in dieci libri uscita postuma nel 1540, e i dodici volumi del De re metallica, del sassone Georg Bauer, più noto come Agricola, il quale svolgeva l’attività di medico nel centro minerario di Joachimsthal. Questi trattati descrivono accuratamente (e con molte illustrazioni) le tecniche di prospezione per la ricerca di vene metallifere, i metodi di scavo, le funzioni dei vari addetti, gli arnesi e le macchine impiegate, le fasi di lavaggio e di lavorazione dei vari metalli.
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3. Il piombo e il bronzo Forse anche per la sua bassa temperatura di fusione (340°C) il piombo è stato uno dei primi metalli ad essere utilizzato. Nell’architettura greca e romana veniva usato per produrre le grappe di fissaggio dei grandi conci lapidei, le quali venivano fuse direttamente in opera, in cavità appositamente predisposte. I romani lo impiegarono ampiamente anche per la produzione di condutture idriche di fontane e giardini, costituite da lamine, che venivano fuse in posto e quindi ripiegate e saldate. Nell’architettura medievale e postmedievale il suo uso maggiore è legato alla produzione di elementi per il deflusso delle acque, quali grondaie, e alla realizzazione di profilati per l’assemblaggio delle lastre vitree (cfr. V.4.). Negli scavi della Torre Civica di Pavia, già ricordati, si sono rinvenuti vari scarti di lavorazione dei metalli, fra i quali anche scorie di piombo, usate, con ogni probabilità, per la fabbricazione di supporti per le vetrate. Fra i materiali da costruzione una notevole importanza era rivestita anche dal bronzo, la più antica fra le leghe del rame, costituita da una quantità di stagno variabile dall’8% al 20%. Il suo punto di fusione non è costante e può abbassarsi fino a 800°C; allo stato fuso può essere colato entro stampi per ottenere oggetti di forme e dimensioni prestabilite. A partire dall’Altomedioevo venne utilizzato per la fusione delle campane, tramite un metodo a cera persa (simile a quello in uso per la produzione di statue) ben descritto anche nel trattato di Teofilo. Dapprima veniva realizzato un modello in argilla refrattaria, rivestito di uno strato di cera, a sua volta ‘rifasciata’ da un altro strato di argilla. Con una breve cottura si induriva lo stampo ceramico e si scioglieva la cera ottenendo così un’intercapedine interna con la forma dell’oggetto desiderato, nella quale veniva colato il bronzo allo stato liquido. Dopo il raffreddamento lo stampo veniva frantumato in modo da liberare la campana. Impianti di questo tipo sono stati evidenziati non di rado negli scavi archeologici di cantieri, in particolare di chiese. Una testimonianza assai antica è stata rinvenuta nel complesso altomedievale di San Vincenzo al Volturno (Isernia), più sopra menzionato. Più frequenti sono però i resti di età bassomedievale, documentati in varie parti d’Europa; in Italia, ad esempio, si sono poste in luce fornaci da campana negli scavi della Torre Civica di Pavia, di Sant’Andrea di Sarzana (SP), di San Daniele del Friuli. Attarverso la colatura di bronzo allo stato fuso venivano realizzate
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anche le porte di edifici monumentali; molto rari sono i resti di età classica o tardoantica ancora conservati, mentre un numero maggiore di esempi è documentato per il periodo medievale. L’esatta quantità dei metalli costituenti la lega può essere determinata solo tramite opportune analisi chimiche. Quelle effettuate in occasione di restauri hanno evidenziato, in diversi casi, alte percentuali di rame (70-80%), pochissimo stagno (1-7%), significative quantità di zinco (9-18%) aggiunto verosimilmente allo scopo di aumentare le proprietà plastiche della fusione, e presenza di piombo (38%), forse da considerarsi come un’impurità dello stagno o del rame. Assai rare sono le porte prodotte tramite un’unica fusione, come quelle celebri di Hildesheim, dell’inizio dell’XI secolo, nelle quali ogni anta è stata fusa in un unico pezzo. Più frequentemente esse sono costituite da pannelli realizzati separatamente e successivamente saldati fra loro utilizzando una lega metallica caratterizzata da una temperatura di fusione più bassa. Un esempio di studio piuttosto interessante è costituito dalla famosa porta eseguita da Bonanno per il duomo di Pisa. L’analisi dettagliata ha rivelato una cura particolare nelle lavorazioni a freddo, posteriori alla fusione, eseguite con scalpelli, oltre che con strumenti tipici degli orafi, quali punzoni, bulini e ceselli, per i particolari più minuti. 4. La metallurgia del ferro Il ferro è uno dei metalli più diffusi sulla crosta terrestre, ma la sua lavorazione è resa complessa dall’elevata temperatura di fusione (1540° C) che ne differenzia notevolmente il ciclo produttivo rispetto a quello degli altri metalli. METALLO
DIFFUSIONE SULLA CROSTA TERRESTRE
TEMPERATURA DI FUSIONE
Al Fe Mn Zn Cu Sn Pb Ag Au
8,13% 5,00% 0,10% 0,08% 0,007% 0,004% 0,0016% 0,00001% 0,0000005%
659°C 1540°C 1250°C 419°C 1083°C 232°C 340°C 960°C 1063°C
-Tabella che evidenzia la diffusione del ferro rispetto agli altri metalli e le rispettive temperature di fusione
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73- Ricostruzione grafica, eseguita in base ai dati archelogici, di una forgia: nella fossetta circolare avveniva il riscaldamento della bluma, con un piccolo mantice azionato a mano. La bluma veniva quindi estratta con le pinze e posta su un’incudine o sul banco roccioso stesso, per essere ribattuta (da FRANCOVICH 1991?ridisegnato da Zanella 1999)
Le prime fasi di lavorazione venivano svolte nei pressi della miniera e consistevano, come per gli altri metalli, nella frantumazione e nella selezione del minerale appena estratto, allo scopo di eliminare la ganga. Nel caso in cui la materia prima fosse costituita da siderite oppure avesse contenuto tracce di pirite, veniva effettuata anche una prima cottura ossidante, all’aria aperta, detta arrostimento, che causava la scomposizione dei carbonati o dei solfuri e la loro trasformazione in ossidi di ferro. L’eliminazione dell’ossigeno, per ottenere il metallo puro, veniva poi effettuata in una successiva cottura, eseguita in apposite fornaci, in atmosfera riducente. Il più antico sistema utilizzato per ottenere il ferro è detto bassofuo co, o metodo diretto e avveniva a temperature inferiori ai 1540°C; pertanto non portava alla fusione del metallo, ma solo alla sua separazione dall’ossigeno. Il prodotto che si otteneva non aveva perciò un aspet-
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to liquido, ma era costituito da agglomerati microcristallini che formavano una sorta di pane detto blumo. Interessanti resti di un bassofuoco del XII secolo sono stati individuati nel villaggio minerario di San Silvestro, più sopra menzionato; il forno per la riduzione del minerale in blumo era costituito da una ‘suola’ circolare di argilla, molto arrossata dal fuoco, delimitata da un muretto, posto allo scopo di riparare dal calore la zona retrostante, 74- Riduzione del ferro tramite il metodo nella quale si trovavano i indiretto: all’interno dell’altoforno vengomantici manuali. Il prodotto no posti strati di carbone alternati al della lavorazione a bassominerale; la reazione di riduzione del fuoco è il cosiddetto ferro metallo, esotermica, permette di raggiundolce, che si ottiene dal gere la temperatura di fusione. Il ferro blumo, per battitura a caldo; fuso (ghisa) fuoriesce dalla parte bassa poiché ha bassissime quandel forno ed è accolto in una fossa, prima tità di carbonio è caratterizdi essere trascinato nell’acqua (da zato da scarsa durezza. MANNONI, GIANNICHEDDA 1996) Quest’ultima può essere aumentata con il riscaldamento prolungato e la martellatura a contatto col carbone, che corrisponde all’acciaiatura del ferro. La forgiatura aveva luogo in apposite fucine, che lavoravano il blumo prodotto dalle fornaci, il quale veniva commerciato, generalmente, sotto forma di barre. Nelle fucine esse venivano surriscaldate, senza raggiungere il punto di fusione, ma a temperature abbastanza alte da conferire al metallo una malleabilità sufficiente a essere lavorato per martellatura; fino al Medioevo inoltrato quest’ultima veniva effettuata a mano, con martello e incudine. Un interessante impianto per la forgiatura del ferro è stato rinvenuto nel villaggio di San Silvestro, a pochi metri di distanza dalla fornace a bassofuoco, più sopra descritta. Era costituito da un focolare,
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75- Un grande maglio per la battitura a caldo del ferro, azionato da energia idraulica (da DIDEROT, Planches)
dotato di mantici a mano, utilizzato per scaldare i blumi prima della martellatura, che veniva effettuata su un’incudine posta, con ogni probabilità, sul piano roccioso. Una fossa anteriore, emisferica, doveva contenere l’acqua per la tempera. Apartire dal XV - XVI secolo per la forgiatura del ferro fu utilizzata ampiamente l’energia idraulica; le fucine vennero perciò stanziate di preferenza presso corsi d’acqua, appositamente incanalata, in modo da azionare ruote destinate a muovere appositi ‘magli’ per la battitura. La fusione del metallo si otteneva invece tramite l’altoforno, con un metodo detto ‘indiretto’, costituito da un impianto cilindrico verticale all’interno del quale si alternavano strati di carbone di legna e strati di minerale. Il fuoco veniva acceso in basso e alimentato da un mantice esterno; le reazioni esotermiche che avvenivano tra ossido di ferro e carbonio causavano un forte innalzamento della temperatura e ciò permetteva di arrivare alla fusione del metallo. Il materiale scendeva sul fondo dove veniva separato dalle scorie (costituite da silice e da silicati) che galleggiavano per il minor peso. Il ferro, uscendo dal forno allo
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stato liquido, poteva essere convogliato in appositi stampi, perciò tale metodo veniva definito ‘gettata’, mentre il prodotto della fusione prendeva il nome di ghisa; quest’ultima non era ferro puro, ma una lega con alta percentuale di carbonio; si caratterizzava perciò per una bassissima tenacità, che ne impediva la lavorazione per martellatura. Se veniva riscaldata in presenza di aria, se ne poteva ottenere una ossidazione, che diminuiva la percentuale di carbonio. È appunto la presenza di quest’ultimo elemento che determina i diversi valori di durezza e tenacità del prodotto, come è schematizzato nella seguente tabella. NOME
% CARBONIO
CARATTERISTICHE
ferro dolce
<0,1%
scarsa durezza buona resistenza a trazione
acciaio
0,15-1,7%
resistenza a trazione pari alla resistenza a compressione
ghisa
2-5%
elevata durezza scarsa resistenza a trazione
-I diversi tipi di ferro e le rispettive caratteristiche
Sebbene oggetti di ghisa di piccole dimensioni fossero prodotti, sporadicamente, già in età antica, è solo a partire dal bassomedioevo che il sistema ad altoforno si diffuse maggiormente e finì col sostituirsi progressivamente al basso fuoco. 5. L’uso del ferro nell’architettura Tra tutti i metalli è quello che ha conosciuto il maggiore impiego nell’architettura; il ferro dolce, in particolare, battuto e reso acciaioso, veniva utilizzato per la produzione di elementi di rinforzo, quali catene o chiodi da carpenteria, ma anche per inferriate, cancelli, cardini, serrature, chiavi. L’uso di catene, adatte a contrastare gli sforzi di trazione, è documentato, sebbene sporadicamente, già nell’architettura antica; in alcuni templi greci, ad esempio, si sono riscontrati blocchi lapidei con incavi rettangolari destinati a ospitare barre di ferro, inserite allo scopo di
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offrire un’armatura più rigida alla costruzione. Tuttavia è in età medievale, e soprattutto con l’architettura gotica, che l’utilizzo di rinforzi in acciaio si ampliò notevolmente. Ciò fu dovuto sia alle particolari esigenze statiche richieste dalle costruzioni (molto sviluppate in altezza e con le murature indebolite da ampie finestre), sia a una maggiore razionalizzazione del lavoro di cantiere, che permise forniture più sistematiche di metallo. La Sainte Chapelle a Parigi costituisce uno degli esempi più celebri di tale sistema. Gli abbondanti elementi metallici che rinfor76- Un chiodaio tedesco, in un’immagine zano tutta la costruzione della fine del XV secolo, produce chiodi di non si riconoscono che a diverse dimensioni mediante un’apposita un’osservazione attenta: le incudine forata (da SINGER ETALII , 1961-66) ogive dell’abside della cappella inferiore, ad esempio, sono contornate da ferri curvi, fissati con chiodi che attraversano i conci; nella chiesa superiore la struttura muraria è rinsaldata da un complesso sistema di catene, costituite da barre metalliche di 4 metri di lunghezza, immorsate le une nelle altre con appositi ganci uniti da cunei. Anche la realizzazione di rosoni dal diametro gigantesco (quello della cattedrale di Parigi è di circa 13 metri !) fu resa possibile grazie alla presenza di elaborate armature in metallo. Anche per il cantiere del Duomo di Milano, nel tardo Trecento, vennero importate enormi quantità di ferro, necessario per realizzare le catene delle volte, da varie località delle Prealpi, come si apprende dai conti di fabbrica. Un altro importante uso del ferro è rappresentato dalla realizzazione
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di grate per la chiusura di finestre. Una delle più antiche testimonianze, datata alla fine del XII secolo, si conserva in un magazzino del grano di Gand ed è costituita da una sbarra verticale munita di appendici ricurve verso il basso. A partire dal XIV secolo si diffuse invece un sistema più complesso, costituito da grate composte da montanti verticali e aste trasversali, incrociati regolarmente fra loro tramite appositi occhielli. Tali elementi erano ottenuti con una lavorazione a caldo che prevedeva l’esposizione al calore di una limitata porzione della sbarra, successivamente martellata e quindi trapassata con un punzone. Inferriate in ferro costituite interamente da elementi smontabili, attestate già nel Medioevo, vennero prodotte soprattutto in età successiva, ed è appunto dal XVI secolo in poi che le testimonianze si moltiplicano e che ci è 77-Produzione di sbarre da inferdocumentata una vasta casistica riate; in alto una barra di ferro di elementi ancora in posto. Le viene scaldata al centro e quindi inferriate potevano venire inserite posta in verticale e battuta in nello spessore degli stipiti, oppure modo da provocare un rigonfiaessere aggettanti rispetto alla mento centrale (follatura); in muratura. I sistemi di montaggio basso una barra di ferro viene potevano essere di tipo semplice, scaldata al centro e quindi forata nei casi in cui gli occhielli di giunin modo da ottenere un occhiello zione fossero tutti orientati allo stesso modo, oppure complesso, nei casi in cui gli orientamenti cambiassero da nodo a nodo, secondo un disegno prestabilito, in modo tale da non poter essere smontate dai ladri. Inferriate in ferro battuto vennero prodotte ancora per tutto l’Ottocento e non mancano testimonianze, risalenti all’inizio del nove-
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cento, di manufatti usciti da piccole fucine, sopravvissute alla rivoluzione industriale, ancora organizzate secondo sistemi tradizionali. Il ferro battuto è stato impiegato anche per la realizzazione di cancelli e ringhiere. Le aste che le costituivano, collegate mediante elementi trasversali, potevano presentare decorazioni a volute o a motivi vegetali, generalmente prodotte tramite battitura a caldo e successivamente saldate. In molti casi le aste presentano un rigonfiamento centrale (conformato in vario modo) che veniva prodotto con un particolare sistema, definito ‘rifollatura’. Esso consisteva nel riscaldare la barra di ferro soltanto nel punto in cui si voleva realizzare il rigonfiamento e nel batterla poi ad una estremità tramite la mazza; questa operazione produceva nella zona riscaldata un ingrossamento, che veniva poi formato, sempre tramite battitura a caldo, sino ad ottenere il motivo desiderato. L’osservazione attenta dei manufatti consente di distinguere tale lavorazione da quella detta ‘ad anello’, assai più semplice, che consisteva invece nell’applicare all’asta una laminetta, realizzata a parte, ripiegata per battitura e quindi saldata. Sempre in ferro di forgia erano prodotti molti altri manufatti, di piccole dimensioni e privi di qualità estetiche, ma comunque essenziali all’architettura, come i chiodi da carpenteria o la ferramenta per gli infissi. La produzione di chiodi era opera di fabbri specializzati, o chiodai, che usavano una apposita incudine, dotata di fori di varie dimensioni, nei quali venivano inserite piccole sbarre di ferro, realizzate nelle fucine; l’estremità veniva poi ribattuta a caldo per ottenere la capocchia. Questo sistema, attestato da precise fonti iconografiche bassomedievali, è sopravvissuto, in alcune zone, fino all’inizio del novecento. Anche la ferramenta di porte e finestre era un elemento importante della metallurgia del ferro destinata alle costruzioni. La produzione di cardini a perno, fissati negli stipiti, e di bandelle a occhio, che venivano chiodate nelle ante, risale almeno all’antichità ed è attestata da numerosi ritrovamenti archeologici. Non meno importante era la produzione di manufatti destinati alla chiusura degli infissi, ovvero serrature e chiavi. Delle prime esiste una vastissima casistica, che comprende vari tipi di ferrimorti, meccanismi con stanghetta ad avanzamento orizzontale, oppure a movimento verticale con molla di ritorno. Infine, in ogni cantiere di costruzione, era indispensabile la presenza di un fabbro per la produzione e la costante manutenzione degli strumenti da lavoro. Gli scavi archeologici condotti nella Torre Civica di Pavia, già menzionati, hanno permesso di ritrovare i resti di una
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78- Vari esempi di ferramenta medievali da scavi archeologici: in alto serratura, bandelle di cardini e chiavi dal villaggio di Zignago (La Spezia) (da B IASOTTI ET ALII, 1985). In basso barra con occhielli e barra liscia usate in una grata per finestra e cardine per porta da Monte Ingino (Gubbio) (da WHITEHOUSE 1976)
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79- Rinforzi metallici in un arco e dettaglio delle catene per il rinforzo delle strutture murarie della Sainte Chapelle di Parigi (da Violet Le Duc, riprodotto in ERLANDE BRANDENBURG 1996)
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piccola forgia e circa 30 Kg di scorie di ferro, che sono state interpretate come i resti di lavorazioni connesse alla preparazione degli strumenti da lavoro per gli operai del cantiere. L’utilizzo della ghisa nelle costruzioni è invece molto più recente, essendosi affermato solo a partire dal secolo XIX, con la rivoluzione industriale. La ghisa è poco adatta alla produzione di travi, perché ha scarsa resistenza a trazione, in compenso si presta a essere usata per gli elementi che lavorano a compressione, come le colonne. Poiché è ben modellabile, un grosso impiego è stato fatto per la produzione di pezzi decorati di ringhiere o inferriate. La possibilità di utilizzare stampi consentiva di realizzare velocemente anche motivi molto complessi, e permetteva perciò una notevolissima semplificazione del lavoro. È assai agevole riconoscere gli elementi prodotti a stampo da quelli realizzati in ferro battuto, in quanto i primi presentano una maggiore regolarità, dovuta appunto alla fusione, mentre con la forgiatura si ottengono oggetti più irregolari e tutti differenti fra loro. Queste osservazioni possono anche offrire elementi di datazione; nell’edilizia del centro storico di Genova, per esempio, l’uso delle ringhiere in ghisa è attestato dal 1870 circa, fino ai primi decenni del novecento. 6. Principali cause di degrado Questi materiali sono soggetti soprattutto a degrado di tipo chimico, in quanto l’esposizione agli agenti atmosferici può portare all’idrossidazione oppure alla carbonatazione dei metalli, che possono così tornare a certi composti minerali di partenza; ad esempio il ferro può combinarsi e passare a limonite. 7. Nota bibliografica Sull’origine e la classificazione geologica dei giacimenti minerari è ancora utile la lettura del classico manuale di DI CORBELTALDO 1967. Sulle antiche pratiche di individuazione dei giacimenti si rimanda alla lettura di MANNONI, G IANNICHEDDA 1996, pp. 68-77 dove si trova anche una vasta e aggiornata bibliografia. Un panorama dell’evoluzione storica dei sistemi estrattivi si trova inoltre nei saggi di BROMEHEAD 1961 e BROMEHEAD 1961/a. Sull’archeologia della produzione mineraria esiste un’ampia biblio-
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grafia e ci si limita perciò a segnalare alcune delle opere più recenti, come HEALY 1993, sulle coltivazioni e sulla metallurgia di età greco-romana e FRANCOVICH 1993, dove si trovano i risultati di molte recenti ricerche, con particolare riguardo al periodo postclassico. Sugli scavi nel villaggio minerario di San Silvestro cfr. FRANCOVICH 1991 e FRANCOVICH, WICKHAM 1994. Per le ricerche nelle miniere medievali di area lombarda cfr. TIZZONI 1993. Sull’uso dei metalli nell’architettura storica molti dati si trovano nel già citato manuale di MENICALI 1992, pp. 218-253. Per l’utilizzo dei metalli nell’architettura greca antica cfr. MARTIN 1965, pp. 155-162. Per il Medioevo si consiglia la lettura dei vari saggi dedicati al tema dell’impiego dei metalli nell’architettura raccolti in CHAPELOT, BENOIT 1985; per l’uso del piombo, in particolare, si veda lo studio di BILLOT 1985, basato sull’esame delle fonti archivistiche. Fra le numerose pubblicazioni di scavi archeologici di fornaci per la fusione di campane si segnalano quelli di MARAZZI, FRANCIS 1996, su San Vincenzo al Volturno; BONORA 1975 su S. Andrea di Sarzana; WARD PERKINS ETALII 1978, e SPATOLA 1993 sulla torre civica di Pavia; GUERRA 1990 su San Daniele del Friuli. Sulla tecnica di fusione delle porte bronzee di età bizantina cfr. MATTHIE 1971; sulle porte bronzee dall’Antichità al Medioevo si veda SALOMI 1990; su quelle medievali molti dati tecnologici si trovano in BANTI 1999; in particolare sul portale di Hildesheim, citato nel testo, cfr. GALLISTL 1999 e sulla porta di Bonanno a Pisa, MANNONI 1999/a. Sulla metallurgia del ferro, in generale, si veda CIMA 1991; si consiglia inoltre la lettura di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 95-98, dove si trova un’essenziale descrizione del ciclo di lavorazione attraverso i metodi a bassofuoco e ad altoforno. Sull’impiego del ferro nell’architettura medievale del nord Europa cfr. STROOMBANTS 1985; circa l’importanza dei rinforzi in ferro acciaioso nell’architettura gotica francese cfr. ERLANDE BRANDENBURG 1996, con molti dati sulla Sainte Chapelle di Parigi. Un tentativo, piuttosto utile, di cronotipologia delle inferriate in ferro battuto di epoca medievale si trova in DELAINE 1972; interessante è inoltre l’esempio di ferro con occhielli emerso dagli scavi medievali di Monte Ingino (Gubbio), riportato in WHITEHOUSE 1976, p.266; n.84. Per lo studio delle inferriate e delle ringhiere postmedievali di ambito genovese cfr. B OATO, M ANNONI 1997/98, pp. 78-81. Una ricchissima tipologia di chiavi e serrature delle Alpi orientali, che abbraccia un arco cronologico compreso fra l’età del bronzo e l’Ottocento è stata presentata in una mostra allestita recentemente nel castello del Buonconsiglio di Trento. Di grande interesse è il catalogo (RAFFAELLI 1996) che contiene contributi di carattere archeologico, storico artistico e letterario.
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VII. IL LEGNO
1. Elasticità e resistenza: le proprietà dei tessuti legnosi Il legno è un prodotto di sintesi attuata dalle specie dette “legnose”, che sono tra gli esseri vegetali più evoluti. Costituito da radici, fusto, rami, foglie, un albero non è propriamente un individuo, ma un’associazione di esseri in grado di riprodursi, i quali convivono usufruendo di organi comuni ed espletando funzioni nelle quali ogni parte ha una sua particolare specializzazione. L’elemento più attivo sono le foglie, che in presenza di luce e grazie alla clorofilla, producono la fotosintesi, utilizzando l’anidride carbonica dell’atmosfera, l’acqua e l’azoto, prelevati dal suolo attraverso un sistema di canali che risiede nel tronco. Quest’ultimo, dal quale si estrae il legno, svolge la duplice funzione di elemento conduttore delle sostanze e di sostegno del laboratorio vivente. Pertanto deve resistere alla compressione, esercitata dal peso di rami e foglie, e alla trazione, alla quale lo sottopongono di continuo i venti. Le caratteristiche meccaniche dei tronchi si sono perciò selezionate, nel corso del tempo, per assicurare la sopravvivenza alle specie legnose anche in ambienti ostili: la robustezza è indispensabile al sostegno della pianta, mentre la flessibilità è necessaria per resistere alla forza dei venti, che soffiano in varie direzioni. Per questo motivo il legno presenta elevati valori di resistenza alla trazione, a differenza di tutti gli altri materiali già descritti, i quali (fatta eccezione per l’acciaio) hanno valori notevolmente più bassi rispetto alla resistenza alla compressione (cfr. I.2.). La forma e la composizione chimica delle pareti delle cellule vege-
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tali determinano i caratteri di resistenza e, al tempo stesso, di elasticità dei tessuti legnosi. Tali pareti sono infatti costituite da più strati, formati da microfibrille, ovvero da fasci di “fili” molto resistenti, con disposizione elicoidale, che si chiamano cordoni micellari. Ciascuno di essi è a sua volta formato da 50/100 molecole di cellulosa. Quest’ultima, dalla caratteristica struttura ‘a sedia’, fa parte dei carboidrati polisaccaridi, vale a dire che è costituita da catene di più elementi monosaccaridici (formati da H, O, C,) uniti fra loro da ossigeni, con legami di tipo covalente. La robustezza dei legami e la disposizione elicoidale (sia delle macromolecole di cellulosa sia dei fasci di fibrille) spiegano le caratteristiche di robustezza e al tempo stesso di elasticità delle fibre vegetali. Per permettere il collegamento fra il terreno e la chioma il tronco è dotato di numerosi canali, formati da cellule vegetali vuote all’interno, con apertura centrale (lume) di piccole dimensioni, e perciò tale da permettere la risalita dal suolo, per capillarità, dell’acqua, dei composti azotati, e di altri elementi in soluzione. Il fusto è formato da un midollo, il tessuto connettivo centrale, avvolto da un durame, ovvero dal legno vecchio, fisiologicamente morto. Quest’ultimo rappresenta la parte inattiva delle piante, che non svolge più funzioni di trasporto della linfa, ma continua a offrire il sostegno meccanico; spesso è impregnato di sostanze antiputrescenti, che ne aumentano la durezza. L’alburno è invece la parte giovane, fisiologicamente attiva e destinata soprattutto alla funzione conduttrice, mentre il cambio è il tessuto vegetale nascente, l’anello più 80- La molecola della esterno, la cui crescita inizia in primacellulosa, dalla tipica struttura ‘a sedia’ vera, rallenta in estate e cessa in autun-
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81- Esempio di legno omoxilo di conifera (a sinistra) ed eteroxilo di latifoglia (a destra)
82- La successione di tessuti legnosi che compongono il fusto: M (midollo); D (durame); A (alburno); C (cambio); L (libro); Co (Corteccia)
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no. Per la distribuzione della linfa il tessuto principale è il libro, che si trova a diretto contatto con la corteccia, ultimo strato del tronco, che costituisce il rivestimento esterno per il fusto e per i rami. Il tipo di crescita di ogni anello dipende dalla specie, dalla posizione dell’albero nel bosco (che ne determina l’esposizione alla luce) e soprattutto dal clima. Lo studio della dendrocronologia, che ha arricchito notevolmente la ricerca archeologica nell’ultimo trentennio, si basa appunto sull’esame degli anelli. In ogni specie, e in ogni regione climatica, si alternano anni di grande accrescimento ad altri in cui la crescita (e di conseguenza lo spessore degli anelli) è minore. Pertanto le curve dendrocronologiche regionali vengono elaborate in base alla misurazione degli anelli di legni di cronologia certa e consentono di datare, mediante confronto, altri legni la cui datazione non sia nota. Le piante che forniscono la maggior parte di legname da costruzione sono le conifere (o resinose), cioè quelle che danno frutti a forma conica, e che producono resina, come il pino, l’abete, il larice, il cipresso, ecc. e le latifoglie (o dicotiledoni), caratterizzate da foglie larghe e piatte, come il castagno, il faggio, il frassino, la quercia, il pioppo, l’ontano, ecc. Nelle conifere entrambe le funzioni di trasmissione della linfa e di sostegno meccanico della pianta sono svolte dalle tracheidi. Si tratta di cellule tubolari, della lunghezza di 3 millimetri, che quando si formano in primavera presentano pareti sottili, in modo da favorire soprattutto la funzione conduttrice; in autunno, invece, le pareti si ispessiscono e lo spazio interno si riduce, privilegiando soprattutto le funzioni di resistenza della pianta. Nelle latifoglie, invece, il tronco è costituito da due tipi di cellule tubolari: le fibre, specializzate nelle funzioni meccaniche, sono nettamente assottigliate alle estremità, hanno pareti spesse, costituite da fasci resistenti, le quali sostengono il peso della pianta, mentre i vasi, che assolvono le funzioni di trasmissione, presentano un lume largo e sono privi di membrana orizzontale. Ogni anno, col cambiamento di stagione, si formano nell’anello esterno cellule nuove. Nelle conifere il legno primaverile è costituito da tracheidi più grandi, con pareti sottili, che si ispessiscono durante l’autunno, diminuendo l’ampiezza del lume. Il legno delle conifere è perciò definito omoxilo, perché non vi è una vera e propria differenza qualitativa fra cellule primaverili e autunnali. Il legno delle latifoglie si dice invece eteroxilo, a causa della differenza anche qualitativa delle cellule, che a primavera sono costituite essenzialmente da vasi, e in autunno soprattutto da fibre.
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2. Tecniche di abbattimento Il periodo più adatto per il taglio degli alberi è compreso fra dicembre e marzo; in tale momento, infatti, gran parte della linfa interna si è perduta, e quindi l’albero è più asciutto e può resistere meglio agli attacchi dei funghi e delle muffe o alla cristallizzazione dei sali trasportati. Anche Vitruvio raccomandava che gli alberi fossero tagliati tra
83- Una scena di abbattimento di tronchi tramite scuri, raffigurata sulla Colonna Traiana
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l’autunno e l’inizio della primavera (De Arch., II, 9) e tale norma sembra essere stata osservata in molte regioni. Una tecnica di abbattimento consisteva nel praticare un taglio a ‘V’ sul lato previsto per la caduta. Per questa operazione veniva adoperata una scure lunga (del peso di kg 2,5) con una lama stretta, usata a trancio in maniera tale da penetrare nel tronco per pochi centimetri, e perpendicolarmente alle fibre, in modo da vincere la loro resistenza. Questa tecnica risale con ogni probabilità al Neolitico, quando veniva praticata tramite asce di pietra costruite con rocce tenacissime (ad esempio eclogiti o basalti), successivamente sostituite da strumenti in ferro acciaioso; diverse fonti iconografiche attestano che l’uso di questo strumento non è cambiato nel corso dei secoli: appare ad esempio nella Colonna Traiana ed è raffigurato, con poche differenze, nei cicli medievali dei mesi. A questa operazione poteva far seguito la segagione, operata sul lato opposto, con il segone, o sega a due manici, dalla dentatura molto grande, tale da superare la resistenza delle fibre. 3. Stagionatura e lavorazioni Prima di essere utilizzati i tronchi devono espurgare tutte le soluzioni contenute; infatti, dopo il taglio della pianta, nei vasi si trovano ancora molte sostanze la cui presenza può alzare eccessivamente l’umidità interna, oppure può dare luogo alla cristallizzazione di sali che rischiano di danneggiare il tessuto legnoso. Le cellule tubolari, che costituiscono i canali, hanno infatti bisogno di un certo periodo di tempo, dopo il taglio della pianta, per interrompere completamente il loro lavoro. Per poter espellere i sali interni il legno tagliato deve perciò essere sottoposto, per periodi più o meno lunghi, a un’adeguata stagiona tura. Questa veniva praticata tramite il lavaggio con acqua, effettuato, ad esempio, esponendo i tronchi alla pioggia, oppure, dove possibile, utilizzando il trasporto fluviale. In seguito era necessario fare asciugare la pianta molto lentamente, ma senza un’esposizione diretta ai raggi del sole. Dopo la stagionatura il legno è sempre più leggero rispetto al momento del taglio, poiché ha perso buona parte delle sostanze liquide interne, ma la sua resistenza non cambia, essendo dovuta alla struttura delle fibre, che rimangono intatte.
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La lavorazione del legno varia a seconda del prodotto che si deve ottenere. Laddove non sono necessari requisiti estetici, come nelle fondazioni, il tronco può essere utilizzato così com’è, senza praticare alcun taglio, anche perché ciò consente di utilizzare al massimo le fibre e di esercitare meglio le funzioni statiche. Se invece è necessaria la squadratura, essa va effettuata seguendo la direzione delle fibre. Per produrre travicelli e tavole di lunghezza superiore al metro veniva usato un particolare metodo di segagione, che permetteva di ottenere quattro o più travi da un unico tronco. Era eseguito da artigiani specializzati, detti segantini, i quali si servivano di una sega (diversa dal segone per l’abbattimento) costituita da un telaio con lama centrale, con denti ricurvi verso il basso. Per garantire un taglio regolare, che attraversasse interamente il tronco, si tracciavano delle linee-guida tramite una corda tesa, impregnata di terra
84- Una squadra di segantini suddivide un tronco in lunghe tavole (da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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rossa. Un artigiano si collocava sopra il tronco e posizionava la sega mentre l’altro, a terra, al cenno convenuto, spingeva con forza l’attrezzo verso il basso, provocando un taglio netto e regolare. Quindi la sega veniva sollevata (in questo caso senza tagliare) per essere posizionata nuovamente. Per la riuscita di queste difficili operazioni, che consentivano di effettuare tagli regolarissimi anche su legni molto grandi, il tronco doveva essere tenuto fermo, con un’apposita imbragatura, e fissato con adeguati pesi su una delle due estremità. Questo tipo di lavorazione era certamente in uso nell’Antichità e nel Medioevo, come provano molte fonti iconografiche; in alcune zone (come nelle Prealpi lombarde) veniva praticata fino a pochi decenni fa da squadre di falegnami che, all’occorrenza, si spostavano anche nelle regioni limitrofe per eseguire il taglio della legna laddove non esisteva una tradizione artigianale locale. Un altro sistema di lavorazione, finalizzato alla squadratura delle travi, consisteva nell’asportare la parte esterna dei tronchi con un’ascia a zappa, operando dall’alto, mentre i fianchi venivano lavorati con un’ascia a scure (o mannaia) con ampio taglio, oppure con un’ascia a ‘T’. Per lavorazioni particolari si usavano invece asce di piccole dimensioni, e a filo curvo. Un altro sistema di taglio era la spaccatura, praticata nella direzione della lunghezza, sempre seguendo le fibre, che consentiva di ottenere tavole di dimensioni non superiori a un metro. Il prodotto finale era comunque molto resistente, perché costituito da fibre intere, che rischiavano forse di incurvarsi, ma mantenevano la loro tenacità e potevano avere una notevole durata anche se esposte all’aperto. Questo metodo veniva utilizzato per produrre le scandole per la copertura dei tetti (cfr. VII.4.). 4. Utilizzo del legno nell’architettura Per le sue peculiari caratteristiche di resistenza meccanica, e per il fatto di poter essere reperito con facilità, il legno è uno dei più antichi materiali conosciuti e lavorati dall’uomo. Fin dalla Preistoria il modo più semplice di utilizzarlo per le costruzioni era costituito dall’impiego di pali verticali, semplicemente scortecciati, oppure squadrati. La realizzazione di vere e proprie pareti con funzione portante venne introdotta molto più tardi; nel Mediterraneo occidentale quest’uso non dovette avvenire prima del-
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l’età del ferro, come sembrano indicare, da più direzioni, i dati archeologici. Due sono i principali sistemi costruttivi usati per la realizzazione di pareti lignee portanti: il fachwerk e il blockbau. Il primo (dal tedesco = costruzione a scomparti) viene definito anche sistema ‘a ossatura’ o ‘a telaio’, ed è costituito da un’armatura di pali verticali, posti a breve distanza fra loro, con gli spazi tamponati con rami, ciottoli, oppure con mattoni o tavole (e in questo caso prende il nome di stan derbau), legate da argilla o malta. A seconda dei sistemi di chiusura degli spazi fra i pali verticali, della disposizione di questi ultimi, della presenza o meno di uno zoccolo in muratura, o di elementi lignei posti in diagonale negli specchi di riempimento, si conoscono numerose varianti, caratteristiche di particolari regioni o periodi storici. In area mediterranea era ampiamente utilizzato in epoca romana, come provano numerosi esempi, perfettamente conservati, rinvenuti a Ercolano e Pompei. In queste città le murature ad ossatura di pali erano rinforzate da travi orizzontali, posti parallelamente fra loro, che dividevano la parete in pannelli grosso modo quadrati. Strutture di questo tipo (tamponate per lo più con murature di pietrame e calce)
85- Un edificio con murature portanti realizzate a fachwerk (da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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erano destinate ai muri divisori o ai perimetrali dei piani superiori, essendo piuttosto leggere. Queste pareti possono essere identificate con l’opus craticium, che Vitruvio descrive come un sistema veloce da realizzarsi, ma assai rischioso per il pericolo di incendi (De Arch. II, 1, 3, 8). In epoca altomedievale dovette essere piuttosto diffuso, anche se, considerata la notevole deperibilità del materiale, le testimonianze archeologiche sono assai scarse. Un caso piuttosto interessante è costituito dai resti di edifici lignei databili fra VI e X secolo, emersi, nel corso di recenti scavi, a Fidenza (Parma), e nei quali il legno si è conservato in maniera eccezionale. I muri perimetrali erano definiti da travi orizzontali, poste a terra, realizzate in legno di quercia, le quali recavano, a distanze regolari, gli alloggi per l’incastro di pali portanti verticali. Ad ossatura di pali, tamponati con ramaglie e argilla, erano inoltre le pareti che definivano gli edifici del celebre villaggio perilacustre di Colletière, sul lago di Paladru (Grenoble), risalente all’XI secolo. Le ricerche archeologiche hanno dimostrato che erano stati usati tronchi di quercia, dal diametro di 18-35 centimetri, in parte squadrati e in parte non lavorati; questi pali raggiungevano anche la lunghezza di 14 metri, ed erano stati conficcati nel sottosuolo per circa 5 metri, in modo da raggiungere il substrato solido. In epoca bassomedievale le costruzioni ad ossatura si diffusero ampiamente in tutta Europa; in Francia tale tecnica viene definita pan de bois o colombage (da columba, alterazione di columna, termine usato per indicare i pali portanti), in Inghilterra prende il nome di half timber work. A Rouen, a York, a Salisbury, a Esslingen, a Webergasse, si sono conservati interi edifici a più piani, i più antichi dei quali risalgono al XIII o al XIV secolo. Il fachwerk di età bassomedievale è caratterizzato dall’uso sistematico di basi in muratura, realizzate sia per isolare le pareti, sia per dare maggiore solidità alla costruzione. Un’importante evoluzione si registra nel corso del XV secolo quando l’uso di pali verticali, che da terra arrivavano fino alla sommità del tetto, venne sostituito dalla costruzione di singoli piani indipendenti. Tale sistema permetteva di utilizzare tronchi più corti e al tempo stesso di aumentare l’altezza degli edifici. In molte regioni europee questo tipo di costruzioni rimase in uso fino al XVII-XVIII secolo, quando venne sostituito dalle murature in pietra o in mattone. Nei paesi come l’Italia, in cui l’architettura lignea è stata soppiantata da quella in pietra già dall’età medievale, l’uso di
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86- Case medievali a più piani del centro storico di Rouen, con pareti por tanti in fachwerk
pareti ad ossatura è comunque attestato per la realizzazione di muri divisori, posti soprattutto ai piani superiori e in particolare laddove erano necessarie pareti molto leggere. Nell’Appennino tosco-emiliano, ad esempio, non è infrequente la presenza di murature formate da telai rettangolari, resi rigidi da legni disposti in diagonale, e tamponati in vario modo. In diversi casi sono attestate (sempre ai piani superiori) tramezze murarie realizzate ad intreccio, con pali verticali e polloni più giovani, successivamente intonacate, secondo uno schema usato anche per le palizzate esterne di divisione dei campi, attestato anche da molte fonti iconografiche.
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Il sistema del blockbau (dal tedesco = costruzione a blocchi) è invece caratterizzato dall’uso di tronchi sovrapposti orizzontalmente e incastrati agli angoli. Necessita pertanto di alberi a fusto altissimo e diritto e per tale motivo è stato usato nelle regioni ricche di conifere. Anch’esso doveva essere diffuso nell’Antichità, benché le prove archeologiche siano assai scarse. Vitruvio ricorda l’esistenza, presso alcuni popoli dell’Asia minore nord-occidentale, di case formate da tavole
87- Una casa con murature portanti realizzate a blockbau (da DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
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disposte orizzontalmente (De Arch. II, 1). Un esempio di notevole interesse è costituito dal ritrovamento in val di Ledro (Trentino Alto Adige) dei resti di un edificio databile al VI-VII secolo d.C., costituito da tronchi del diametro di circa 30 centimetri, disposti l’uno sull’altro e incastrati in prossimità delle testate. Questo tipo di tecnica si è conservato a lungo nell’area alpina e in molte regioni montuose dell’Europa centro-orientale. Negli affreschi della torre dell’Aquila del castello del Buonconsiglio di Trento, (XV secolo), ad esempio, sono rappresentati, con notevole realismo e ricchezza di particolari, diversi edifici realizzati nella tecnica del blockbau. Nelle architetture del Nord Europa e nella regione alpina le case in tronchi sovrapposti ancor oggi utilizzate sono per lo più sostenute da uno zoccolo di muratura in pietra. Considerando la notevole resistenza a trazione, oltre che a compressione, il legno è stato molto usato, oltre che per le pareti portanti, anche per la realizzazione di elementi orizzontali, come i solai. I resti conservati nel sottosuolo sono in genere piuttosto rari, ma l’archeologia dell’elevato permette di evidenziarne diversi esempi ancora in situ, in molti casi datati tramite la dendrocronologia. Nel centro storico di Genova, ad esempio, si sono individuati numerosi solai lignei, in ottimo stato di conservazione, realizzati con travi, travicelli e tavole, molti dei quali hanno conservato, sulla faccia inferiore, una decorazione dipinta a base di vernici ad olio di lino, con pigmenti minerali. Nelle case più ricche la pavimentazione era costituita da mattonelle o da piastrelle in ceramica rivestita (cfr. II. 7.), fissate sull’assito ligneo tramite uno strato di malta e pietre. In un solaio del XVII secolo, posto in luce in un palazzo nobiliare ubicato nelle vicinanze del porto, si è rinvenuto un grosso albero di nave, con uno stemma di famiglia dipinto a olio. Quest’uso documenta quanto fosse diffusa, anche nelle residenze più ricche, la pratica del reimpiego del legname proveniente dallo smontaggio delle navi; infatti questo materiale, anche dopo un uso prolungato, poteva mantenere intatte le sue ottime caratteristiche di resistenza. Anche nelle coperture è sempre stato fatto un ampio uso del legno; se per gli elementi che costituiscono l’orditura del tetto questo materiale è praticamente insostituibile, nelle zone di alta montagna viene utilizzato anche per le coperture, costituite da scandole prodotte a spacco e messe in opera imbricate, analogamente alle tegole.
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In una zona centrale dell’Appennino Ligure, posta fra il savonese e l’alessandrino, si è conservata una singolare e ricchissima tradizione di lavorazione del legno e di costruzione di tetti in scandole, che con ogni probabilità affonda le sue radici nell’Altomedioevo. Come attestano le fonti storiche, quest’area faceva parte della Selva d’Orba, una porzione dell’antico ‘bosco di Liutprando’, che nell’Altomedioevo si estendeva da Bosco Marengo (Al) fino a Varazze (SV) ed era stato utilizzato dai re longobardi come riserva per la caccia al cervo. La parte montana di quest’area, preservata dal disboscamento di età bassomedievale, era passata successivamente alla Repubblica di Genova, e si mantenne pressoché integra fino alla fine del XV secolo, quando venne concessa ai contadini della zona per essere utilizzata a scopi agricoli e di allevamento, non essendo ormai più adatta alla fornitura di legna-
88- Un tetto con copertura a scandole lignee (da GNONE 1995)
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mi da nave. In quest’area è sopravvissuta una tradizione artigianale paragonabile a quelle delle vallate alpine e vi è attestato un vasto utilizzo di tetti in scandole lignee. Da un recente studio (basato sull’ana lisi archeologica del sopravvissuto edilizio confrontata con l’esame delle fonti orali) è emerso che per la fabbricazione delle scandole si utilizzava generalmente il legno di castagno, squadrato ad ascia e quindi ridotto in tavole tramite la ressia, una sega a telaio. Per coprire un metro quadrato di tetto erano necessarie dalle venti alle venticinque scandole della lunghezza di cm 75. Esse erano fissate sull’orditura sottostante tramite perni di legno, ottenuti da tronchetti di castagno tramite un piccozzino e conficcati in appositi fori praticati con una sorta di punteruoli. Il colmo era costituito da tronchi scavati, che venivano sovrapposti in vario modo. La possibilità di resistere a lungo in acqua ha fatto del legno un materiale assai adatto anche alle strutture di fondazione; la loro realizzazione è attestata almeno dal Secondo millennio a.C., come provano numerosi rinvenimenti di abitati palafitticoli. Un caso piuttosto eccezionale, per le condizioni di conservazione in cui è pervenuto, è costituito dall’insediamento di Fiavé (Trentino Alto Adige) dove in un’area di quasi 500 metriquadrati (un tempo lacustre) si sono rinvenuti oltre 800 pali, destinati a sorreggere un impalcato ligneo per il sostegno delle abitazioni. I pali erano lunghi circa nove metri, ed erano stati conficcati nel limo per oltre quattro. Erano ottenuti da conifere (abeti rossi e larici, e in misura minore abeti bianch e pini silvestri) e in un solo caso da olmo. La maggior parte veniva semplicemente scortecciata, prima di essere conficcata sul fondo, ma non mancano esempi di pali squadrati con asce, riconoscibili dalle tracce di piccoli colpi continui e regolari. La costruzione di palificazioni lignee in acqua fu molto usata anche in epoca romana, in particolare per realizzare strutture di fondazione per ponti. Di recente sono state studiate con attenzione le strutture murarie dei moli del porto medievale di Genova, che poggiavano anch’esse su fondazioni di pali lignei, rinvenuti in ottimo stato di conservazione. Le analisi hanno dimostrato che l’80% dei pali era costituito da olmo, il 15% da ontano e il 5% da conifere. Evidentemente l’alta percentuale di legno di olmo era dettata da precise ragioni; questa pianta è infatti l’unica che, una volta immersa in acqua, in un ambiente anaerobico, indurisce progressivamente.
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5. Principali cause di degrado Oltre alla elevata combustibilità le principali cause di degrado del legno sono rappresentate dagli agenti biologici, e soprattutto dalle colonie di batteri e dai funghi. Questi agiscono però in particolari condizioni, in quanto riescono a svilupparsi solo se l’umidità interna (dovuta a infiltrazioni d’acqua, causate generalmente dall’abbandono) supera il 17-18%. I batteri si nutrono di sostanze ancora contenute nel legno e degli atomi di ossigeno che uniscono le molecole di cellulosa, provocandone, col tempo, la rottura, o marcescenza. Questo tipo di degrado può però essere bloccato facendo asciugare in tempo l’acqua in eccesso. Un intervento di manutenzione, effettuato qualche anno dopo l’abbandono, può ancora salvare il legno. Un’altra importante causa di degrado è costituita dagli animali xilofagi: insetti, come le termiti, o larve, come i tarli. Questi si nutrono del legno, ma generalmente agiscono solo negli strati marginali, dei quali diminuiscono lo spessore e quindi la sezione staticamente utile. Non vanno invece confuse col degrado le crepature longitudinali del legno, che talora sono molto evidenti. Esse sono infatti dovute, semplicemente, a un ritiro non regolare, che separa fra loro i fasci di fibre e che generalmente è dovuto a una cattiva stagionatura del tronco. Tuttavia la resistenza meccanica del materiale non viene compromessa, poiché è garantita dalla struttura stessa delle fibre. 6. Nota bibliografica Sull’analisi dei materiali legnosi e sull’importanza della dendrocronologia nella ricerca storico-archeologica cfr. CASTELLETTI 1988; utile è inoltre la lettura di CORONA 1986. Per le tecniche di lavorazione si vedano il saggio di PARENTI 1994, con molti dati sugli strumenti e sulle tecniche altomedievali e quello di MILNE 1992, che concerne tutto il Medioevo. Utile e didatticamente assai efficace è inoltre il volume di DONATI 1990, corredato da un ottimo apparato grafico. Sull’uso del legno nell’architettura si vedano i saggi raccolti nel volume curato da LASFARGUES 1985, incentrati sull’epoca romana, ma con molte notizie concernenti anche l’età del ferro e l’età medievale. Per il villaggio del lago di Paladru cfr. AA.VV. 1988. Molti dati archeologici recenti sull’uso del legno nelle costruzioni altomedievali si tro-
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vano negli Atti del Convegno tenutosi nel 1993 a Monte Barro (Lecco) e dedicato all’edilizia residenziale altomedievale, editi a cura di BROGIOLO 1994. Sempre sull’uso del legno nelle costruzioni altomedievali è utile consultare la ricchissima banca-dati pubblicata da FRONZA, VALENTI 1996 e concernente l’edilizia abitativa altomedievale di tutta l’Europa. Per lo studio degli edifici lignei altomedievali di Fidenza cfr. CATARSI DELL’AGLIO 1994. Per l’edificio in blockbau rinvenuto in val di Ledro cfr. BASSI, C AVADA 1994. Per la tradizione costruttiva in blockbau della regione alpina si veda DEMATTEIS 1986. Sulla produzione di scandole nell’Appennino ligure centro-orientale cfr. l’agile ma filologica ricerca di GNONE 1995. Sulla lavorazione del legno nell’abitato palafitticolo di Fiavé cfr. MARZATICO 1988. Sulle palificazioni lignee che costituiscono le fondazioni del porto medievale di Genova cfr. MELLI 1996, pp. 58-105.
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