Albert Nolan
GESÙ PRIMA DEL CRISTIANESIMO
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Introduzione Lo scopo principale di questo libro non è la fede né la storia. Può essere letto – ed è ideato per essere letto – senza la fede. Nulla, a proposito di Gesù, sarà presupposto o dato per scontato. Il lettore è invitato a rivolgere uno sguardo serio e onesto ad un uomo che visse nella Palestina del primo secolo e ad osservarlo con gli occhi dei suoi contemporanei. Il mio interesse è rivolto all’uomo che egli fu prima di diventare l’oggetto della fede cristiana. La fede in Gesù non è il nostro punto di partenza, ma sarà – spero – la nostra conclusione. Però questo non significa che il libro sia stato scritto per lo scopo apologetico della difesa della fede cristiana. Non è stato compiuto alcun tentativo di salvare Gesù o la fede cristiana. Gesù non ha bisogno che io o qualcun altro lo salvi. Può occuparsi di se stesso, perché la verità sa badare a se stessa. Se la nostra ricerca della verità ci porterà alla fede in Gesù non sarà perché abbiamo cercato di salvare questa fede ad ogni costo, ma perché l’abbiamo riscoperta come l’unica via attraverso la quale possiamo essere “salvati” o liberati. Solo la verità può renderci liberi (Gv 8: 32). Cercheremo la verità storica su Gesù, ma nemmeno questo è il nostro scopo principale. Il metodo è storico, ma l’obiettivo non lo è. Sebbene sia stato fatto un uso coerente di una rigorosa critica storica e dei metodi di ricerca, il nostro interesse non è la ricerca accademica della storia in sé. Questo libro ha uno scopo impellente e pratico. Io mi preoccupo delle persone, delle sofferenze quotidiane di tantissimi milioni di persone, e della prospettiva di una sofferenza molto maggiore nel futuro prossimo. Il mio scopo è quello di scoprire quello che ci si può fare.
PRIMA PARTE LA CATASTROFE
Capitolo 1 Una Nuova Prospettiva Molti milioni di persone, nel corso dei tempi, hanno venerato il nome di Gesù, ma pochi lo hanno capito, e un numero ancora inferiore di persone ha tentato di mettere in pratica quello che egli volle vedere fatto. Le sue parole sono state alterate e trasformate affinché significassero tutto, qualsiasi cosa e nulla. Il suo nome è stato usato ed abusato per giustificare dei crimini, per spaventare i bambini e per ispirare agli uomini e alle donne una follia eroica. Gesù è stato più spesso onorato e adorato per quel che non volle dire che per ciò che egli intese realmente dire. La suprema ironia è che alcune delle cose alle quali egli si oppose con maggiore decisione nel mondo del suo tempo furono fatte risorgere, predicate e diffuse in modo più ampio in tutto il mondo – nel suo nome. Gesù non può essere completamente identificato con quel grande fenomeno religioso del mondo occidentale conosciuto come Cristianesimo. Non fu soltanto il fondatore di una delle grandi religioni del mondo. Egli si pone al di sopra del Cristianesimo come giudice di tutto quello che è stato fatto nel suo nome. E il Cristianesimo storico non può nemmeno rivendicarlo come suo possesso esclusivo. Gesù appartiene a tutta l’umanità. Questo significa che tutti gli esseri umani (cristiani o non cristiani) sono liberi di interpretare Gesù a modo proprio, a modellarlo secondo ciò che loro piace o non piace? È molto facile usare Gesù per i propri scopi, buoni o cattivi. Ma egli fu un personaggio storico che ebbe alcune proprie convinzioni molto forti – fu disposto a morire per esse. Non esiste proprio un modo in cui tutti noi (con o senza fede) possiamo dare a Gesù la possibilità, oggi, ancora una volta, di parlare per sé? È chiaro che dovremmo iniziare mettendo da parte tutti i preconcetti che abbiamo su di lui. Non possiamo iniziare presumendo che egli sia divino, o che sia il Messia o il Salvatore del mondo. Non possiamo iniziare nemmeno presumendo che egli fosse un uomo buono e onesto. Né possiamo iniziare con il presupposto che egli sicuramente non fu alcuna di queste cose. Dobbiamo accantonare tutte le nostre immagini di Gesù, conservatrici e progressiste, devozionali e accademiche, in modo da poterlo ascoltare con la mente aperta. È possibile avvicinare Gesù senza alcun presupposto su di lui, ma non è possibile approcciarlo senza alcun presupposto. La mente completamente aperta è una mente vuota che non può capire assolutamente nulla. Dobbiamo avere un qualche tipo di posizione, un punto di vista o una prospettiva, se dobbiamo vedere e capire qualcosa. Un’opera d’arte, ad esempio, può essere vista e apprezzata senza alcun presupposto di ciò che si presume debba essere, ma non può proprio essere vista se non da un punto di vista. Può essere osservata da questo o quell’angolo, ma non può essere osservata da nessun angolo. La stessa cosa vale per la storia. Non possiamo farci un’idea del passato se non partendo dal punto in cui ci troviamo in questo momento. “L’oggettività storica non è una ricostruzione del passato nella sua irripetibile fattualità, è la verità del passato alla luce del presente”. 1 Immaginare di poter avere un’oggettività storica senza una prospettiva è una illusione. Una prospettiva, però, può essere migliore di un’altra. La prospettiva di ogni epoca successiva non è egualmente preziosa e vera. Proprio come la bellezza di un’opera d’arte può essere vista in modo più 1
Edward Schillebeeckx, God, the Future of Man, p. 24.
chiaro e netto da un angolo che da un altro, così un avvenimento del passato può essere visto in modo più chiaro e distinto dalla prospettiva di un’epoca che da quella di un’altra. Non che, a questo proposito, si abbia scelta. L’unica prospettiva che abbiamo è quella che ci viene data dalla situazione storica nella quale ci troviamo. Se non possiamo farci un’idea libera di Gesù dal punto di vista delle nostre circostanze attuali, allora non possiamo farci affatto un’idea libera di lui. Una prospettiva moderna non è necessariamente migliore di una vecchia. Tuttavia, a volte succede che la propria situazione storica abbia delle notevoli somiglianze con una situazione del lontano passato. Allora, nonostante il lungo intervallo, una persona improvvisamente è in grado di vedere la situazione passata con una chiarezza molto maggiore di quella propria delle generazioni precedenti. L’oggetto della mia discussione sarà che questo è ciò che ci è successo oggi riguardo a Gesù di Nazareth. Ovviamente questo non si può presumere, dovrà essere scoperto. Ancora meno possiamo ipotizzare che Gesù abbia tutte le risposte ai nostri problemi. Non ha senso cercare di renderlo importante. Quello che possiamo fare è osservarlo dalla prospettiva del nostro tempo con la mente aperta. Il nostro punto di partenza, quindi, è l’urgente realtà della nostra attuale situazione storica. La nostra epoca è caratterizzata da problemi che sono una questione di vita o di morte non solo per le persone, non sono per interi popoli, razze e civiltà, ma una questione di vita o di morte per tutta la razza umana. Siamo consapevoli dei problemi che minacciano la sopravvivenza del genere umano su questo pianeta. Inoltre, il nostro tempo è ulteriormente caratterizzato dal timore che questi problemi possano ora essere irrisolvibili, e che nulla potrà fermare il nostro tuffo di testa nella distruzione completa della specie umana. La prima vera consapevolezza di questo venne con la bomba. Improvvisamente ci siamo trovati in un mondo capace di distruggersi – premendo un bottone. Siamo stati tutti alla mercé delle persone che stavano all’altro lato di quel bottone. Ci si poteva fidare di loro? La crescente consapevolezza della posta in gioco ci ha fatto sentire sempre più a disagio e insicuri. La generazione dei giovani che sono cresciuti nei tardi anni ‘50 e nei primi anni ‘60 con questo come unico mondo che abbiano mai conosciuto ne è stata profondamente disorientata. La protesta, il pop, le droghe, i capelli lunghi e gli hippy furono tutti sintomi del disagio generato dalla bomba. Oggi la paura della guerra nucleare sembra essersi ridotta. In parte questo è dovuto in parte alla molto pubblicizzata distensione tra le superpotenze, ma è anche vero che la gente sviluppa gradualmente un’immunità a queste realtà spaventose. Tuttavia non eravamo destinati ad essere lasciati in pace a lungo. Oggi ci troviamo di fronte a nuove minacce, minacce che – dicono – ci distruggeranno con maggiore certezza ed inevitabilità di una guerra nucleare: l’esplosione demografica, la diminuzione delle risorse naturali e delle fonti di cibo, l’inquinamento del nostro ambiente e l’escalation della violenza. Ognuno di questi problemi, da solo, costituirebbe una sufficiente minaccia per il nostro futuro: tutti insieme significano il disastro. Ci sono diversi modi per cercare di far capire alla gente cosa davvero significa la crescita esponenziale della popolazione mondiale. La mia immaginazione non riesce ad affrontare cifre così alte, ma quando mi viene detto che attualmente la popolazione mondiale aumenta al ritmo di oltre 80 milioni di persone all’anno, e ricordo che, l’ultima volta che l’ho controllata, la popolazione dell’Inghilterra era di circa 50 milioni, inizio a capire quello che succede. Allo stesso tempo si sentono diverse previsioni su quanto dureranno le nostre riserve di carbone, petrolio, benzina, gas naturale e addirittura acqua potabile. Sembra che alcune di queste risorse naturali si esauriranno nel corso della mia vita. Nel frattempo, i deserti strisciano su di noi mentre l’erosione del suolo aumenta e si distruggono sempre più foreste. Una sola edizione domenicale del New York Times consuma 150 acri di foresta. E si usa molta più carta per i rotoli di carta igienica che per scrivere o stampare. Inoltre, negli ultimi anni siamo diventati consapevoli degli effetti cumulativi e a largo raggio dell’inquinamento dei fiumi, dei mari e della
stessa aria che respiriamo. Io ho vissuto in città nelle quali la gente resta uccisa dall’inquinamento dell’aria. Gli ambientalisti dicono che se presto non saranno introdotti dei cambiamenti drastici saremo tutti uccisi dai prodotti di scarto del nostro stesso progresso. Non c’è bisogno di esagerare questi problemi. Si possono trovare delle soluzioni. Ma queste soluzioni richiederanno dei cambiamenti così radicali e drammatici nei valori, negli interessi, nei modelli di pensiero e nelle condizioni di vita di così tante persone, specialmente nei paesi ricchi dominanti, che la maggior parte degli osservatori le considera praticamente impossibili. Potremmo fare qualcosa di veramente drastico per conservare le risorse della Terra e cercare fonti alternative di energia. Ma chi tollererebbe la conseguente perdita di profitti e tutte le spese straordinarie? Potremmo ignorare i costi aggiuntivi dell’adozione di metodi di trasporto e produzione che non inquinano la Terra. Quelli di noi che hanno uno stile di vita elevato potrebbero ridurlo volontariamente rinunciando a tutte le cose non essenziali – compreso il nostro uso eccessivo di carta. Uno stile di vita molto più elementare non significa necessariamente una qualità inferiore di vita; in realtà esso può migliorare la qualità delle nostre vite. Ma dove troveremmo le risorse umane o morali per motivare così tanti tra noi ad apportare questi cambiamenti fondamentali?2 Sembra abbastanza difficile convincere la gente a ridurre i propri attuali eccessi per assicurarsi il futuro; sarebbe molto più difficile chiedere di farlo per gli altri, e assolutamente impossibile convincerli a fare tutti i sacrifici necessari per i miliardi di persone che ancora non sono nate. D’altro canto è ugualmente vero che il mondo abbonda di donne e uomini di buona volontà che comprendono i problemi, sono molto preoccupati e farebbero qualsiasi cosa per essere d’aiuto. Ma che cosa possono fare? Cosa possono realmente fare un individuo o un certo numero di individui a questo proposito? Ciò che abbiamo contro non sono le persone, ma le forze impersonali di un sistema che ha il suo slancio e le sue dinamiche.3 Quanto spesso si ode il grido di disperata rassegnazione: “Non si può combattere il sistema”. Questo, senza dubbio, è il cuore del problema. Abbiamo costruito un sistema politico ed economico onnicomprensivo, basato su certi assunti e valori, e adesso iniziamo a capire che questo sistema non solo è controproducente – ci ha portato sul ciglio del disastro – ma è anche diventato il nostro padrone. Nessuno sembra in grado di cambiarlo o controllarlo. La scoperta più terribile tra tutti è che a capo di esso non c’è nessuno, e che la macchina impersonale che abbiamo progettato con così tanta attenzione ci trascinerà inesorabilmente alla distruzione.4 Il sistema non era stato progettato per affrontare un’esplosione demografica. Ad esempio, non esiste una macchina politica che permetta al popolo di un paese sovrappopolato all’impossibile, come il Bangladesh, di insediarsi nelle vaste aree spopolate di un’altra nazione, come l’Australia. Il sistema della politica “nazionalizzata” rende impensabile una soluzione del genere. Da un punto di vista economico, il sistema produce ricchezza e povertà nello stesso momento. I ricchi diventano più ricchi e i poveri si impoveriscono. Più le nazioni povere cercano di misurarsi con gli standard di sviluppo e di crescita economica richiesti dal sistema, più diventano poveri e sottosviluppati. Il sistema è competitivo, ma in realtà non tutti hanno le stesse possibilità. Più hai, più puoi avere, e più puoi avere meno rimane per quelli che non hanno abbastanza mezzi per competere con te. È un circolo vizioso in cui i poveri sono sempre i perdenti. Più di un miliardo di persone – circa un quinto della popolazione mondiale – sperimenta la fame per almeno parte di ogni anno, quando la stagione agricola termina insieme 2
Le recenti statistiche su questi argomenti si trovano in molte fonti tra cui Sean McDonagh, The Greening of the Church, Maryknoll, NY: Orbis Books and London: Geoffrey Chapman, 1990 e Paul Vallely, Bad Samaritans: First World Ethics and Third World Debt, Maryknoll, NY: Orbis Books and London: Hodder & Stoughton, 1990.
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Rubem Alves la definisce l’“organizzazione” o il “dinosauro”: Tomorrow’s Child, pp. 1-22.
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Alves, pp. 34-36.
ai suoi scarsi frutti. Ad essi mancano anche l’acqua potabile, l’istruzione elementare e le cure di base.5 Centinaia di migliaia di persone sono nate in questo mondo per provare poco più dei morsi della fame e delle sofferenza che derivano dalla malnutrizione e dalla privazione. Solo Dio sa quanti milioni di persone muoiono di inedia. La nostra situazione attuale è diventata troppo orribile per guardarla – figuriamoci il futuro. Il sistema non è stato ideato per risolvere questi problemi. Può produrre una ricchezza sempre maggiore, ma non è in grado di assicurare che anche solo le necessità basilari della vita siano distribuite equamente. Questo perché esso mira ai profitti piuttosto che alla gente. La gente può essere presa in considerazione soltanto nella misura in cui il suo benessere produce maggiori profitti. Il sistema è un mostro che divora le persone per i propri utili. Ancor peggio, pare che ora il sistema stia rendendo più pressanti le proprie esigenze, e si difenda con sempre maggiore violenza. A parte la violenza istituzionale dell’ingiustizia, dell’oppressione e dello sfruttamento, ora assistiamo alla moltiplicazione dei governi militari nel mondo. Non c’è bisogno di viaggiare in lungo e in largo nel Terzo Mondo per capire perché il sistema può essere mantenuto solo da una dittatura militare. Molti di quelli che cercano di combattere il sistema hanno fatto ricorso alla violenza o minacciano di farlo. La violenza istituzionale porta alla violenza rivoluzionaria, la quale, a sua volta, porta a maggiore violenza istituzionale nella forma di polizia antisommossa, detenzione senza processo, tortura, governi militari e omicidi politici – i quali portano poi a maggiore violenza rivoluzionaria. Se non è possibile fare qualcosa di drastico per tutti gli altri problemi (la popolazione, la povertà, l’inquinamento, lo spreco, l’inflazione e la diminuzione delle risorse), il sistema ci porterà in una “spirale di violenza”, come la definisce Helder Camara,6 che ci coinvolgerà tutti, rapidamente, in un atto di reciproca distruzione. Non c’è motivo di esagerare questi problemi a scopi ideologici e tuttavia, d’altro canto, non possiamo permetterci di ignorarli o risolverli parlando. Ci nutriamo quotidianamente di nuove intuizioni sulla grandezza, complessità ed irrisolvibilità dei nostri problemi. Questo crea un’immagine del futuro che è più spaventosa di tutte le vecchie immagini dell’inferno. La realtà fondamentale della vita oggi, da ogni punto di vista, è la prospettiva di un vero e proprio inferno sulla terra. La religione organizzata ha prestato un aiuto molto esiguo in questa crisi. Di fatto, a volte ha teso a peggiorare le cose. Il tipo di religione che sottolinea un mondo soprannaturale in modo tale che non ci sia bisogno di preoccuparsi del futuro di questo mondo e di tutti i suoi popoli offre una forma di via d’uscita che rende ancora più difficile risolvere i nostri problemi. Il solo effetto salutare di questo momento della nostra storia, la sua caratteristica di redenzione, è che può obbligarci ad essere onesti. A che serve continuare a mantenere la facciata, o tentare di salvare la faccia, quando ogni cosa intorno a noi minaccia di crollare? In questo momento di verità chi vuole indulgere nei cavilli ecclesiastici ed accademici del passato? La persona che ha affrontato l’attuale crisi mondiale diviene impaziente nei confronti di quanti continuano ad agitarsi per problemi piccoli ed irrilevanti, quelli che sembrano gingillarsi mentre Roma brucia. La prospettiva di una catastrofe senza precedenti può avere su di noi un effetto tale da farci seriamente riflettere. Ora, succede che, come spero di evidenziare, Gesù di Nazareth affrontò fondamentalmente lo stesso problema – sebbene fosse su scala molto ridotta rispetto al nostro. Egli visse in un’epoca nella quale sembrava che il mondo stesse per avere fine. Nonostante le differenze di opinione su come, perché e quando, molti ebrei dell’epoca erano convinti che il mondo fosse sull’orlo di una catastrofe apocalittica. Fu in previsione di questa catastrofe, e nei termini dell’interpretazione che egli attribuì ad essa che, come vedremo, Gesù diede inizio alla proprie missione. Con quello che vorrei definire un 5
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The State of the World’s Children: 1990 Report, Unicef, citato in Vallely, Bad Samaritans, p. 3. Spiral of Violence, London, 1971, p. 30.
balzo senza precedenti dell’immaginazione creativa, quest’uomo vide una via di uscita, e senza dubbio più di una via di uscita – egli vide la via verso la liberazione totale e la realizzazione del genere umano. Noi ci troviamo di fronte alle stesse terrificanti prospettive. Questo non soltanto ci permette di comprendere la preoccupazione che Gesù nutriva per un imminente disastro: rende le sue possibili intuizioni relative a cosa si può fare a tale riguardo della massima importanza per noi. E tuttavia non osiamo presumere che egli abbia tutte le risposte, né di sapere quali siano tali risposte. Ora possiamo ritenere che le sue intuizioni saranno irrilevanti, e di poterle tranquillamente ignorare. La nostra situazione è così critica che non osiamo lasciare nulla di intentato nella nostra ricerca di una via d’uscita. È ironico che la preoccupazione di Gesù per “la fine del mondo”, che si dimostrò un grande ostacolo per le precedenti generazioni di studiosi del Nuovo Testamento, sia oggi proprio la cosa che lo rende di particolare interesse per noi. Le nostre attuali circostanze storiche ci hanno dato, in modo del tutto inaspettato, una nuova prospettiva su Gesù di Nazareth.
Capitolo 2 La Profezia di Giovanni il Battista I quattro libretti che chiamiamo vangeli non sono delle biografie, né mai si pensò che dovessero esserlo. Il loro scopo fu quello di dimostrare in che modo Gesù potesse essere importante per persone che vivevano fuori dalla Palestina una o due generazioni dopo la sua morte. La prima generazione di cristiani, ovviamente, non sentì il bisogno di una biografia precisa della vita di Gesù. Essi vollero sapere in che modo Gesù poteva essere importante per loro nella loro situazione al di fuori della Palestina. Oggi noi non abbiamo bisogno di una biografia più di quanto ne abbia avuto quella prima generazione o qualsiasi altra generazione di cristiani. Come loro, ci serve un libro su Gesù che ci esponga cosa egli può significare oggi per noi, nella nostra situazione. Una cronaca precisa di nomi, luoghi e date permette a volte ad una figura storica di ritornare alla vita per una generazione successiva. Tuttavia possiamo permettere a Gesù di ritornare oggi alla vita soltanto ritornando alla base dei quattro vangeli per scoprire da soli cosa Gesù ebbe da offrire alla gente della Palestina del suo tempo. Non ci serve una biografia, ma dobbiamo conoscere la verità storica su Gesù. Se leggiamo con attenzione tra le righe dei quattro vangeli e facciamo pieno uso delle informazioni disponibili sulla situazione contemporanea saremo in grado di scoprire una grande quantità di informazioni storiche su Gesù. 7 Questo è possibile perché, sebbene siano stati scritti per una generazione successiva, i vangeli fanno uso di fonti che risalgono a Gesù e ai suoi contemporanei. In molti punti è addirittura possibile catturare le vere parole usate da Gesù e rievocare esattamente quello che egli fece (i suoi ipsissima vox et facta). Ma quel che è molto più importante è scoprire le intenzioni originali di Gesù (la sua ipsissima intentio).8 Se il nostro obiettivo è scoprire cosa Gesù cercò di ottenere nel suo tempo, allora, a volte, sarà più importante conoscere in che modo i suoi contemporanei vissero e pensarono, e in che modo devono aver reagito a lui, che sapere esattamente quali parole usò o quale forma assunsero le sue azioni. Conoscere queste parole e queste azioni avrà un valore soltanto nella misura in cui esse possono aiutarci a scoprire le sue intenzioni originali. Cosa cercò di fare Gesù? Cosa sperò di ottenere per le persone tra le quali operò, nella Palestina del primo secolo? Uno dei modi migliori per scoprire le intenzioni di Gesù sarà quello di cercare delle prove delle sue decisioni e delle sue scelte. Se possiamo trovare un episodio storicamente certo nel quale Gesù fece una scelta tra due o più alternative dovremmo avere un indizio molto importante sulla direzione del suo pensiero. Questo lo abbiamo all’inizio di tutti i vangeli: Gesù scelse di essere battezzato da Giovanni. Qualsiasi altra cosa il battesimo di Gesù possa aver significato, esso implicò una decisione di allinearsi con Giovanni il Battista invece con una qualsiasi delle altre voci o movimenti del suo tempo. Se potessimo capire in che modo Giovanni il Battista differì dai suoi contemporanei dovremmo avere il nostro primo indizio relativo alla direzione del pensiero di Gesù. Sappiamo abbastanza della storia dell’epoca per poterlo fare. I Romani colonizzarono la Palestina nel 63 a.e.v. In conformità alla loro politica usa a nominare governatori nativi nelle loro colonie, alla fine essi fecero di Erode, il candidato più potente, il re degli Ebrei. Gesù nacque durante il regno di questo Erode, conosciuto come Erode il Grande. Nel 4 a.e.v. (secondo i calcoli moderni) Erode morì e il suo regno fu diviso tra i suoi tre figli. A Erode Archelao furono date la 7
Per un adeguato sunto di quel che gli studiosi Gesù si veda Leslie E. Mitton, Jesus: The Fact Dominic Crossan, The Historical Jesus: The Life Francisco: HarperSan Francisco, 1991 e John P. Historical Jesus, New York: Doubleday, 1991.
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James M. Robinson, A New Quest of the Historical Jesus, pp. 67f, 105; Leonardo Boff, “Salvation of Jesus Christ and the Process of Liberation”, Concilium, Giugno 1974, pp. 79-80.
ritengono essere storicamente certo su behind the Faith. Si vedano anche John of a Mediterranean Jewish Peasant, San Meier, A Marginal Jew: Rethinking the
Giudea e la Samaria, a Erode Antipa la Galilea e la Perea, mentre Erode Filippo ricevette le regioni più a nord. Archelao, tuttavia, non fu in grado di affrontare il perpetuo scontento della popolazione. I Romani si preoccuparono. Alla fine deposero Archelao e inviarono un procuratore romano a governare la Giudea e la Samaria. Gesù, all’epoca, aveva circa 12 anni. Fu l’inizio del governo romano diretto, l’inizio dell’ultima e più turbolenta epoca nella storia del popolo ebraico, l’era che finì con la distruzione quasi totale del tempio, della città e della nazione nel 70 e.v., e con la loro distruzione definitiva e totale nel 135 e.v., l’epoca in cui Gesù visse e morì, e nella quale le prime comunità di cristiani dovettero familiarizzare con la nuova situazione. L’epoca iniziò con una ribellione. Il problema erano le tasse. I Romani avevano iniziato a fare un censimento della popolazione e a fare un inventario delle risorse del paese a scopo di tassazione. Gli Ebrei obiettarono, per motivi religiosi, e si sollevarono in una rivolta. Il leader di questa rivolta fu un uomo di nome Giuda il Galileo, il quale fondò un movimento di ispirazione religiosa di combattenti per la libertà.9 I Romani sedarono presto questa prima rivolta e, come monito, crocifissero non meno di duemila ribelli. Ma il movimento continuò. Gli Ebrei li chiamavano Zeloti, i Romani li definivano banditi. Si trattava senza dubbio di un movimento sotterraneo, certamente poco organizzato, che a volte si divideva in fazioni e a volte si univa a qualche gruppo di nuova formazione, come i Sicari, che si specializzarono in assassinii.10 Forse alcuni si unirono perché amavano combattere, ma altri erano animati da un mortale zelo religioso, con la costante minaccia della tortura e della crocifissione che pendeva sulle loro teste. Per sessant’anni continuarono a molestare l’esercito romano di occupazione con sporadiche rivolte e una guerriglia occasionale. Da un gruppo di ribelli, si svilupparono in un esercito rivoluzionario. Poi, nel 66 e.v., circa trent’anni dopo la morte di Gesù, con un crescente sostegno popolare, rovesciarono i romani e conquistarono il governo del paese. Ma quattro anni dopo Roma inviò un esercito molto potente per sterminarli. Fu un massacro spietato. L’ultimo gruppo tenne testa ai Romani dalla sua fortezza montana di Masada fino al 73 e.v., quando circa un migliaio di persone scelse di suicidarsi pur di non sottomettersi a Roma. Va sottolineato che il movimento zelota fu essenzialmente religioso quanto ad ispirazione e in scopo. A quel tempo, la maggior parte degli ebrei in Palestina credeva che Israele fosse una teocrazia, cioè essi credevano di essere il popolo eletto di Dio, che Dio fosse Re, il loro solo Signore e Padrone, e che la loro terra e le loro risorse appartenessero unicamente a Dio. Accettare i Romani come propri padroni avrebbe costituito un atto di infedeltà a Dio. Pagare le tasse a Cesare sarebbe stato dare a Cesare quello che apparteneva a Dio. Gli Zeloti erano ebrei fedeli, zelanti per la legge e per la sovranità e regalità di Dio. I Farisei non avrebbero avuto discussioni con gli Zeloti su questo argomento.11 Seimila farisei rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà a Cesare, e i Romani dovettero rinunciare a questo requisito per i loro sottoposti ebrei.12 Ma la maggior parte dei farisei non si sentì spinto a prendere le armi contro i Romani, presumibilmente perché le probabilità erano pesantemente a loro sfavore. La loro preoccupazione principale era la riforma di Israele stesso. Dio li aveva abbandonati al giogo romano a causa dell’infedeltà di Israele alla legge e alle tradizioni dei padri. I Farisei pagarono le loro tasse a Roma tra le proteste, ma poi si separarono da chiunque non fosse fedele alla legge e alle tradizioni, per formare delle comunità chiuse, i fedeli reduci di Israele. Il loro nome significa “i 9
Giuseppe Flavio, Storia della Guerra Giudaica, 2:118 e Delle Antichità Giudaiche, 18:1-10.
10
Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, 2:254-257; cf. S. G. F. Brandon, Jesus and the Zealots, pp. 39-40.
11 12
Brandon, pp. 37, 47, 54. Giuseppe Flavio, Antichità, 17:2.
separati”, cioè i santi, la vera comunità di Israele.13 La loro moralità era legalistica e borghese, una questione di ricompensa e castigo. Dio amava e ricompensava chi rispettava la legge, e odiava e puniva chi non lo faceva. I Farisei credevano in un aldilà, nella resurrezione dei morti e in un Messia futuro che Dio avrebbe mandato per liberarli dai Romani. Gli Esseni si spinsero molto più avanti dei Farisei nel loro impegno per la perfezione. Molti di essi si separarono totalmente dalla società e andarono a vivere una vita celibe e ascetica in campi nel deserto. Furono preoccupati ancor più dei Farisei dell’impurità rituale e della contaminazione ad opera del mondo malvagio e impuro. Essi osservavano quotidianamente e in modo meticoloso i riti di purificazione originariamente prescritti per i sacerdoti in procinto di offrire il sacrificio nel Tempio. Gli Esseni rifiutavano chiunque non appartenesse alla loro “setta”. Il regime sacerdotale nel Tempio era considerato corrotto. Tutti gli estranei dovevano essere odiati perché erano “i figli delle tenebre”. L’amore e il rispetto erano riservati ai membri del loro gruppo - “i figli della luce”. Loro soltanto erano i fedeli reduci di Israele. La loro rigida separazione e rigorosa disciplina devono essere interpretate come la loro risposta alla credenza secondo cui la fine del mondo era vicina. Essi si preparavano alla venuta del Messia (o forse di due Messia) e alla grande guerra nella quale, in qualità di “figli della luce”, avrebbero sterminato i “figli delle tenebre”, gli eserciti di Satana. I primi tra i “figli delle tenebre” ad essere annientati sarebbero stati i Romani. 14 Quindi, gli Esseni furono guerrafondai tanto quanto gli Zeloti,15ma per essi il tempo non era ancora maturo. Essi aspettavano il giorno del Signore. Verso il 66 e.v., quando gli Zeloti iniziarono a soverchiare i Romani, gli Esseni sembrano essersi uniti a loro, soltanto per essere poi sterminati insieme agli Zeloti e ad altri.16 Tra queste esplosioni di eccezionale fervore religioso, i Sadducei furono i conservatori. Essi si attenevano alle più antiche tradizioni ebraiche e rifiutavano tutte le innovazioni di fede e di rituale.17 L’aldilà e la resurrezione dei morti erano considerati delle innovazioni. Le ricompense e i castighi si trovavano in questa vita. Perciò, i Sadducei erano degli opportunisti. Collaborarono con i Romani e si sforzarono di mantenere lo status quo. I Sadducei furono in gran parte, sebbene non esclusivamente, membri dell’aristocrazia ricca: i sommi sacerdoti e gli anziani.18 I sommi sacerdoti furono una particolare classe di sacerdoti. Essi non solo offrivano i sacrifici, come gli altri sacerdoti, ma erano anche responsabili dell’organizzazione e dell’amministrazione del Tempio. Il sacerdozio, ovviamente, era ereditario. Gli anziani erano la nobiltà laica, le vecchie famiglie aristocratiche che possedevano gran parte della terra.19 Il partito dei Sadducei comprendeva anche alcuni scribi o rabbini, anche se la maggior parte di questi erano Farisei. Gli scribi o rabbini erano gli uomini istruiti. Erano nello stesso tempo teologi, legislatori ed insegnanti, ma non erano sacerdoti. Perciò nei vangeli i Sadducei sono spesso indicati come “i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi” o come “i capi del popolo”. Essi erano la classe governante, superiore. 13
Joachim Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus, p. 246.
14
1QM 1, 15-19, cf. G. Vermes, The Dead Sea Scrolls in English, pp. 123, 125, 143-148.
15
16
Nonostante Filone (Quod omnis probus liber sit, 78), la cui versione sugli Esseni non è attendibile, cf. Edmund Sutcliffe, The Monks of Qumran, Westminster, MD: Newman Press, 1960; London, 1960, p. 125. Brandon, p. 61.
17
J. Le Moyne, Les Sadduceens, p. 378.
18
Le Moyne, pp. 349-350.
19
Jeremias, pp. 222-232.
Bisogna anche nominare un piccolo gruppo di scrittori anonimi che si dedicava ad un genere di letteratura che oggi definiremmo apocalittica. Essi erano dei veggenti o visionari che credevano che fossero stati loro indirettamente rivelati i segreti del progetto di Dio per la storia – e in particolare per la fine del mondo. Secondo loro, Dio aveva predeterminato tutti i tempi e tutte le epoche, rivelando piani segreti agli uomini dei tempi antichi, come Enoc, Noè, Esdra, Abramo e Mosè. Gli scrittori apocalittici erano ora venuti a conoscenza di questi segreti e li mettevano per iscritto a nome degli antichi, ad uso degli uomini colti del loro tempo.20 Questi autori, probabilmente, furono degli scribi, e possono essere appartenuti al gruppo dei Farisei o degli Esseni, ma non possiamo esserne certi. Furono anonimi, e restano anonimi ancora oggi. In mezzo a tutti questi movimenti e speculazioni religioso-politici ci fu un uomo che spiccò come un segno di contraddizione. Giovanni il Battista fu diverso esattamente perché fu un profeta, e indubbiamente, come molti suoi predecessori dell’antichità, un profeta di sventura e di distruzione. Le somiglianze superficiali con gli Esseni, con gli scrittori apocalittici o con chiunque altro non devono mai renderci insensibili al fatto che Giovanni fu diverso dai suoi contemporanei come nessun profeta fu mai prima di lui. Mentre altri confidavano nel “tempo che doveva venire” in cui i fedeli di Israele avrebbero trionfato sui loro nemici, Giovanni profetizzò la sventura e la distruzione per Israele.21 In Israele, per molto tempo, non c’era stato un profeta. Tutti ne erano dolorosamente consapevoli, come attesta tutta la letteratura del periodo.22 Lo spirito della profezia era stato spento. Dio era silenzioso. Tutto quel che si poteva udire era “l’eco della propria voce”. Si sentiva addirittura che certe decisioni avrebbero dovuto essere rimandate “finché sorgesse un profeta fedele” (1 Maccabei 14:41; si veda anche 4:45-46). Questo silenzio fu rotto dalla voce di Giovanni il Battista nel deserto. Il suo stile di vita, il suo modo di parlare e il suo messaggio furono un consapevole ripristino della tradizione dei profeti. Gli elementi di cui disponiamo a proposito di lui, sia nel Nuovo Testamento che al di fuori di esso, sono unanimi su questo punto. Il messaggio profetico di Giovanni era semplice. Dio era adirato con gli uomini e progettava di punirli. Dio stava per intervenire nella storia, per condannare e distruggere Israele. Giovanni raffigurò questa distruzione come un grande incendio nella foresta dinnanzi al quale le vipere fuggono (Mt 3:8 par), nel quale gli alberi e la pula sono bruciati (Mt 3:10, 12 par), e in cui gli uomini saranno inghiottiti, come in un battesimo di fuoco (Mt 3:11 par). Egli fece anche uso delle metafore dell’ascia e del setaccio. Queste sono le metafore dei profeti. Esse non hanno nulla in comune con le immagini selvagge degli scrittori apocalittici.23 Non c’è motivo di credere che Giovanni si riferisse all’inferno nell’aldilà o ad uno sconvolgimento cosmico. L’incendio nella foresta è un’immagine dell’inferno sulla terra. Il giudizio di fuoco di Dio su Israele sarebbe stato messo in atto, secondo Giovanni, da un essere umano. Giovanni lo definì “colui che deve venire” (Mt 3:11 parr; Mt 11:3 par). Egli è ancora adesso pronto con la sua ascia o il suo setaccio. “Egli vi battezzerà con... il fuoco” (Mt 3:11 par). Una profezia non è una predizione, è un ammonimento o una promessa. Il profeta ammonisce Israele a proposito del Giudizio di Dio e promette la salvezza di Dio. Sia il monito che la promessa sono condizionali. Dipendono dalla libera risposta del popolo di Israele. Se Israele non cambia, le conseguenze saranno disastrose. Se Israele cambia, allora vi sarà un’abbondanza di benedizioni. Lo scopo pratico di una profezia è convincere gli uomini a cambiare o a pentirsi. Ogni profeta fece appello ad una 20
D. S. Russell, The Method and Message of Jewish Apocalyptic, capitolo 4.
21
Edmund Schillebeeckx, Jesus: An Experiment in Christology, p. 129.
22
23
Jeremias, New Testament Theology, pp. 80-82, Charles H. H. Scobie, John the Baptist, pp. 118-120. Schillebeeckx, p. 130.
conversione. A differenza dei suoi contemporanei che non erano profeti, Giovanni rivolge il suo monito e il suo appello a tutto Israele. Essi non devono immaginare che siano i Gentili ad avviarsi alla distruzione e che i figli di Abramo saranno risparmiati per la loro discendenza e la loro razza. “Non pensate di dire dentro di voi: «Abbiamo per padre Abramo»; perché io vi dico che da queste pietre Dio può far sorgere dei figli ad Abramo” (Mt 3:9). Dio può distruggere Israele e create un nuovo popolo (figli di Abramo) se Israele non si pente. Giovanni fece appello ai peccatori, alle prostitute, agli esattori delle tasse e ai soldati, così come agli scribi e ai farisei (Lc 3:12, 14; Mt 21:32). Egli sfidò addirittura il re o tetrarca degli Ebrei, Erode Antipa (Mc 6:18 par; Lc 3:19). Qui il problema non è riunire i resti o fondare una “setta”.24 Tutti devono cambiare. I profeti precedenti si erano aspettati che Israele cambiasse globalmente, nella persona del suo re o dei suoi capi. Giovanni, come i profeti successivi, si aspettava che ogni persona, in Israele, si pentisse e sperimentasse un cambiamento personale del cuore. Questo è sicuramente il significato fondamentale della pratica del battesimo di Giovanni. Non importa quali precedenti il rito in sé possa avere. Quel che importa è l’uso che Giovanni ne fece. Il battesimo di Giovanni fu un segno di pentimento individuale e personale. “Essi confessavano i loro peccati” ed erano poi battezzati (Mc 1:5 par). Si dice che questo battesimo fosse stato per, o verso (eis) il perdono dei peccati (Mc 1:4 parr). Nel contesto, il perdono dei peccati avrebbe significato essere risparmiati dal castigo futuro.25 Se tutto Israele, o forse la maggioranza dei figli di Abramo, si fosse pentita, Dio avrebbe smesso di essere adirato e si sarebbe intenerito, così che la catastrofe non si sarebbe affatto verificata. Non è chiaro se, nel caso in cui la catastrofe fosse avvenuta, quelli che erano stati battezzati sarebbero o meno stati risparmiati come individui. Tutto dipende dal tipo di catastrofe che Giovanni aveva in mente. Era una guerra? Frequentemente, il disastro che i profeti avevano in mente era una guerra nella quale Israele era sconfitto.26 A volte gli innocenti vengono risparmiati in guerra. Ma non ci sono prove sufficienti affinché possiamo decidere cosa Giovanni avesse in mente, o se ci avesse davvero pensato. È significativo anche che il tipo di cambiamento al quale Giovanni fece appello non avesse nulla a che vedere con la purezza rituale o con i dettagli insignificanti dell’osservanza del sabbath; né esso riguardava assolutamente il pagamento delle tasse ai Gentili. Giovanni fece appello a quella che definiremmo la moralità sociale. “Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto...”. Agli esattori delle tasse disse: “Non riscuotete nulla di più di quello che vi è ordinato”. Ai soldati disse: “Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denunce, e contentatevi della vostra paga” (Lc 3:11-14). Criticò Erode per aver divorziato da sua moglie per sposare la moglie del suo fratellastro (un altro Erode) e per tutti gli altri suoi crimini (Lc 3:19). Ma Giuseppe Flavio, lo storico ebreo contemporaneo, sostiene che Erode arrestò Giovanni per motivazioni politiche.27 Egli temeva che Giovanni avrebbe fatto rivoltare il popolo contro di lui. Erode non poteva permettersi di perdere il sostegno del suo popolo, specialmente in vista delle conseguenze politiche del suo secondo matrimonio. Per sposare Erodiade egli aveva divorziato dalla figlia di Areta II, il sovrano del vicino regno dei Nabatei. Questo sarebbe stato considerato non solo un insulto personale, ma anche la rottura di un’alleanza politica.28 I Nabatei, perciò, si stavano preparando alla guerra. Secondo Erode, Giovanni stava soltanto 24
Lloyd Gaston, No Stone on Another, p. 138.
25
Schillebeeckx, p. 134; Gaston, p. 138.
26
Gerhard von Rad, The Message of the Prophets, pp. 98-99; Russell, pp. 274-275.
27
Antichità, 18:116-119.
28
Scobie, p. 183.
peggiorandogli le cose criticando il suo divorzio e il secondo matrimonio, e profetizzando il castigo divino. Alcuni anni dopo, i Nabatei attaccarono e sconfissero Erode, che dovette chiedere ai Romani di salvare lui e il suo regno. Giovanni fu arrestato e decapitato perché osò dichiararsi contrario anche ad Erode. Giovanni il Battista fu l’unica persona, in quella società, ad impressionare Gesù. Qui c’era la voce di Dio che ammoniva gli uomini di un imminente disastro e invocava un cambiamento del cuore in ciascun individuo. Gesù credette in questo e si unì a quanti erano determinati a fare qualcosa a tale proposito. Egli fu battezzato da Giovanni. Gesù può non essere stato d’accordo con Giovanni in ogni dettaglio. Più avanti, come vedremo, in qualche modo arrivò a differire da Giovanni. Ma il fatto stesso del suo battesimo da parte di Giovanni è la prova conclusiva della sua accettazione della profezia fondamentale di Giovanni: Israele si avvia ad una catastrofe senza precedenti. E, scegliendo di credere a questa profezia, Gesù si dimostra subito in fondamentale disaccordo con tutti coloro che rinnegano Giovanni e il suo battesimo: gli Zeloti, i Farisei, gli Esseni, i Sadducei, gli scribi e gli scrittori apocalittici. Nessuno di questi gruppi era disposto a credere ad un profeta che, come i profeti del passato, profetizzava contro tutto Israele. Il punto di partenza di Gesù, perciò, fu l’imminente giudizio di Israele, una catastrofe senza precedenti. Ci sono numerose prove che evidenziano come Gesù abbia ripetuto numerose volte questa profezia nel corso della sua vita. Infatti, in vari tra i testi che ci sono pervenuti, Gesù è molto più esplicito, rispetto a Giovanni, su ciò che l’imminente disastro avrebbe comportato. Ne citiamo alcuni: “Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra – tutto perché tu non hai riconosciuto la tua opportunità quando Dio te la offrì!” (Lc 19:43-44). “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea, fuggano sui monti; e quelli che sono in città, se ne allontanino... Perché quelli sono giorni di vendetta... Guai alle donne che saranno incinte, e a quelle che allatteranno in quei giorni! Perché vi sarà grande calamità nel paese e ira su questo popolo” (Lc 21:20-23). “Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli»” (Lc 23:28). Vennero alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici. Gesù rispose loro: «... Se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo»” (Lc 13:1, 3). Non può esservi dubbio su ciò a cui ci si riferisce qui: la distruzione di Gerusalemme in una guerra contro i Romani. In vero stile profetico, Gesù profetizzò una inusitata sconfitta militare per Israele. Il giudizio divino sarebbe stato un terribile massacro, e gli esecutori del giudizio sarebbero stati i Romani. Solo quelli che avrebbero avuto il buonsenso di fuggire sarebbero stati risparmiati (Mc 13:14-20 parr). Questo è esattamente quanto accadde nel 70 e.v. La maggior parte degli studiosi non ha prestato grande attenzione a questo e ad altri testi simili (Mc 13:2; 23:37-39 = Lc 13:3435; Lc 11:49-51; 17:26-37). Essi, abbastanza comunemente, sono rigettati, considerati predizioni inserite nel testo dopo l’evento (vaticinia ex eventu). Ma ricerche recenti degli studiosi hanno dimostrato in modo decisamente conclusivo che così non è. Fu C. H. Dodd29 a evidenziare per primo che questi passi non avrebbero potuto essere stati scritti dopo il fatto, perché sono modellati sui riferimenti scritturali alla prima caduta di Gerusalemme nel 586 a.e.v. e non fanno allusioni alle caratteristiche distintive della caduta del 70 e.v. Lloyd Gaston giunge grossomodo alle stesse conclusioni. Egli passò 10 anni facendo ricerche su questo tema, e produsse una voluminosa opera accademica che è senza dubbio molto 29
The Fall of Jerusalem and the ‘Abomination of Desolation,’ Studies, 37 (1947), 47-54.
Journal of Roman
convincente, sebbene poco conosciuta e letta raramente.30 Non può esserci alcun dubbio che Gesù profetizzò la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani. I primi cristiani possono aver un poco ritoccato le sue parole, ma anche questo deve essere stato fatto prima degli eventi del 70 e.v. Fu Giovanni il Battista a presagire per primo il disastro, anche se non sappiamo esattamente cosa immaginò. Gesù concordò con Giovanni e, leggendo i segni dei tempi, vide chiaramente che Israele era in rotta di collisione con Roma. Sia Gesù che Giovanni, come i profeti dell’Antico Testamento, espressero questo imminente disastro nei termini di un giudizio divino. Il suo solo pensiero fece piangere Gesù (Lc 19:41) come aveva fatto piangere, secoli prima, il profeta Geremia. Ma cosa avrebbe fatto a tale riguardo?
30
Si veda la nota precedente.
PARTE SECONDA LA PRASSI Capitolo 3 I Poveri e gli Oppressi Gesù può aver iniziato seguendo l’esempio di Giovanni e battezzando gli uomini nel Giordano (Gv 3:22-26). Se così è, abbandonò presto questa usanza (Gv 4:1-3). Non vi è alcuna prova che egli, dopo aver lasciato il Giordano e il deserto, abbia mai battezzato qualcuno o abbia mai inviato qualcuno affinché fosse battezzato da Giovanni o da qualcun altro. Molte persone lo consideravano il successore di Giovanni il Battista ma, successore o meno, Gesù non battezzò. Egli, invece, andò a cercare, aiutare e servire le pecore perdute della casa di Israele. Qui abbiamo una seconda decisione, un secondo e indiscutibile indizio della mentalità e delle intenzioni di Gesù. Egli non si sentì chiamato a salvare Israele portando tutti ad un battesimo di pentimento nel Giordano. Egli decise che era necessario qualcos’altro, qualcosa che aveva a che fare con i poveri, i peccatori e i malati – le pecore perdute della casa di Israele. Le persone alle quali Gesù rivolse l’attenzione sono indicate, nei vangeli, da una varietà di termini: i poveri, i ciechi, gli zoppi, gli storpi, i lebbrosi, gli affamati, i miseri (quelli che fanno cordoglio), i peccatori, le prostitute, gli esattori delle tasse, gli indemoniati (le persone possedute da spiriti impuri), i perseguitati, i calpestati, gli schiavi, tutti quelli che lavorano e sono oberati, la marmaglia che non sa nulla della legge, le folle, i piccoli, i piccoli, gli ultimi e i bambini o le pecore perdute della casa di Israele.31 Il riferimento, qui, è ad un settore ben definito e inequivocabile della popolazione. Gesù generalmente li indica come i poveri o i piccoli; i Farisei chiamano le stesse persone i peccatori o la marmaglia che non sa nulla della legge. 32 Oggi alcuni possono chiamare questa parte della popolazione le classi inferiori, altri li definirebbero gli oppressi. È stato scritto tantissimo sulle circostanze storiche nelle quali Gesù visse e su tutti gli avvenimenti “importanti” che condussero alla situazione religiosa e politica del tempo. Ma questo, come la maggior parte degli scritti storici, ci racconta soltanto quello che le persone “importanti” facevano e dicevano: i re e i principi, i potenti e i ricchi, gli oppressori e i loro eserciti. La vera storia dell’umanità è la storia della sofferenza 33 — una cosa a proposito della quale si trovano scarsi e preziosi elementi nei libri di storia. Che dire di tutti coloro che hanno sofferto a causa delle gloriose battaglie della storia? Che dire delle sofferenze quotidiane di quanti furono oppressi quando questo o quel re iniziò il suo glorioso regno? Può essere possibile capire Napoleone senza capire la storia della sofferenza del suo tempo, ma certamente non è possibile capire Gesù se non su questo genere di sfondo. Quindi dobbiamo cercare di entrare nel mondo dei poveri e degli oppressi così com’era nella Palestina del primo secolo. Anche se nei vangeli il termine “poveri” non indica esclusivamente coloro che avevano difficoltà economiche, li include. I poveri erano in primo luogo i mendicanti. Erano i malati e gli invalidi, che avevano fatto ricorso alla mendicità perché non erano idonei ad un lavoro e non avevano un parente che potesse permettersi di mantenerli oppure fosse disposto a farlo. Ovviamente non c’erano ospedali, istituti curativi o pensioni di invalidità. Ci si 31
32 33
Ad es., Mc 1:23, 32-34, 40; 2:3, 15, 17; 3:1; 9:17-18, 42; 12:40, 42; Lc 4:18; 5:27; 6:20-21; 7:34, 37, 39; 10:21; 11:46; 14:13, 21; 15:1-2; 18:10, 13, 22; Mt 5:10-12; 8:28; 9:10, 14; 10:3, 15, 42; 11:28; 15:24; 19:30; 20:16; 21:31-32; 25:40, 45; Gv 7:49; 9:1-2, 8, 34. Joachim Jeremias, New Testament Theology, p. 112. Johann B. Metz, “The Future in the Memory of Suffering”, Concilium, Giugno 1972, p. 16; Alves, pp. 129-130.
attendeva che essi mendicassero il proprio sostentamento. Quindi i ciechi, i sordomuti, gli zoppi, gli storpi e i lebbrosi erano generalmente dei mendicanti. Poi c’erano le vedove e gli orfani: le donne e i bambini che non avevano nessuno che provvedesse a loro, nessun modo di guadagnarsi da vivere. Essi sarebbero stati dipendenti dalle elemosine delle società religiosamente osservanti e dalla tesoreria del Tempio. Tra gli economicamente poveri è necessario includere anche i lavoratori alla giornata non specializzati, che erano spesso disoccupati, i contadini che lavoravano nelle fattorie e forse gli schiavi. Nel complesso la sofferenza dei poveri non consisteva nell’indigenza e nella fame, se non durante una guerra o una carestia. A volte essi avevano fame e sete ma, come milioni di persone oggi, raramente morivano di inedia. La principale sofferenza dei poveri, allora come oggi, era la vergogna e il disonore. Come dice il fattore della parabola: “Di mendicare mi vergogno” (Lc 16:3). Gli economicamente poveri dipendevano completamente dalla “carità” degli altri. Per gli orientali, ancor più che per gli occidentali, questo è terribilmente umiliante. In Medio Oriente il prestigio e l’onore sono più importanti del cibo o della vita stessa.34 Il denaro, il potere e la cultura danno agli uomini il prestigio e lo status perché li rendono relativamente indipendenti e permettono loro di fare delle cose per gli altri. 35 I veri poveri che dipendono dagli altri e non hanno nessuno che dipenda da loro si trovano in fondo alla scala sociale. Essi non hanno prestigio né onore. Quasi non sono umani. Le loro vite non hanno un significato. Un occidentale oggi vivrebbe questa condizione come una perdita di dignità umana. Per questo motivo, la parola “poveri” può essere estesa fino ad includere tutti gli oppressi, tutti quelli che dipendono dall’altrui misericordia. E anche questo è il motivo per cui la parola può essere estesa addirittura a coloro che si affidano completamente alla misericordia di Dio – i poveri in spirito (Mt 5:3).36 I “peccatori” erano i reietti della società. Chi, per qualsiasi ragione, deviava dalla legge e dalle usanze tradizionali della classe media (gli istruiti e i virtuosi, gli scribi e i Farisei), era considerato inferiore, come appartenesse aduna classe bassa. I peccatori erano una categoria sociale ben definita, la stessa dei poveri nel senso ampio della parola. Tra di essi sarebbero state annoverate le persone che svolgevano professioni peccaminose o impure: le prostitute, gli esattori delle tasse (i pubblicani),37 i ladri, i pastori, gli usurai e i giocatori d’azzardo. Gli esattori delle tasse erano considerati degli imbroglioni e dei ladri perché la loro professione dava loro il diritto di stabilire l’ammontare della tassa o del tributo che doveva essere pagato, e il diritto di includere una commissione. Molti di essi furono sicuramente disonesti. Analogamente, i pastori erano sospettati di guidare i greggi sui terreni altrui e di rubacchiare il prodotto del gregge, il che era sicuramente altrettanto vero. Queste ed altre professioni, quindi, portavano con loro uno stigma sociale. I peccatori averebbero incluso anche quelli che non pagavano le decime (un decimo del loro reddito) ai sacerdoti e quelli che erano negligenti a proposito del riposo del sabbath e della purezza rituale. Le leggi e le usanze su questo tema erano così complicate che i non istruiti erano decisamente incapaci di capire cosa ci si aspettava da loro. L’istruzione, in quei giorni, consisteva nella conoscenza delle scritture. Le scritture erano la legge e i profeti, e i profeti erano considerati gli antichi commentatori della legge. Quindi l’istruzione consisteva nel 34
J. Duncan M. Derrett, Jesus’s Audience, pp. 40, 42.
35
Derrett, pp. 53-55.
36
Jeremias, pp. 112-113.
37
Jeremias afferma che dovremmo definire queste persone riscossori dei tributi, raccoglitori delle tasse o pubblicani, e non esattori delle tasse, per distinguere tra gli esattori assunti, che erano odiati, e gli ufficiali di stato, che nessuno incontrava mai. Jeremias, p. 110; Jerusalem in the Time of Jesus, p. 228.
conoscere la legge e tutte le sue ramificazioni. Gli analfabeti e i non istruiti erano inevitabilmente anarchici e immorali. Gli ’am ha-arez, o contadini analfabeti, “il popolino che non conosce la legge” (Gv 7:49) erano considerati perfino dai Farisei più illuminati, come Hillel, incapaci di virtù e pietà.38 Non esisteva una via d’uscita per i peccatori. Teoricamente le prostitute potevano essere rese nuovamente pure per mezzo di un elaborato processo di pentimento, purificazione e redenzione. Ma questo avrebbe avuto un costo monetario, e i guadagni illegittimi non avrebbero potuto essere usati a questo scopo. Il suo denaro era contaminato e impuro. Gli esattori delle tasse dovevano abbandonare la propria professione e poi restituire, con l’aggiunta di un quinto, a tutti coloro che avevano imbrogliato. I non istruiti avrebbero dovuto subire un lungo processo di istruzione prima che si potesse essere certi che fossero “puri”. Essere un peccatore, perciò, era destino. Si era predestinati all’inferiorità dal destino39 o dalla volontà di Dio. In questo senso i peccatori erano schiavi o prigionieri. La loro sofferenza, quindi, assunse la forma della frustrazione, della colpa e dell’ansia. Essi erano frustrati perché sapevano che non sarebbero mai stati accettati in compagnia di persone “rispettabili”. La cosa di cui sentivano di avere il maggior bisogno era il prestigio e la considerazione pubblica,40 e questo è ciò che era loro negato. Non avevano nemmeno la consolazione di sentire di essere nei libri di Dio. Le persone istruite dicevano loro che per Dio essi erano sgradevoli e che “dovevano saperlo”. Il risultato era un complesso di colpa nevrotico o quasi-nevrotico, che portava inevitabilmente all’ansia per i molti tipi di castigo divino che potevano colpirli. I poveri e gli oppressi sono sempre stati particolarmente inclini alle malattie. Questo accadeva in modo particolare ai tempi di Gesù, non solo per le condizioni fisiche in cui vivevano ma anche – e in modo più significativo – per le condizioni psicologiche. Moltissimi di essi sembrano aver sofferto di malattie mentali, le quali, a loro volta, davano origine a condizioni psicosomatiche come la paralisi e i disturbi del linguaggio. Ma qui dobbiamo abbandonare il nostro punto di vista psicologico moderno e cercare di entrare nel mondo dell’infermità e della malattia così come era interpretato dagli uomini del tempo di Gesù. Per gli ebrei e i pagani orientali il corpo è la dimora di uno spirito.41 Dio soffia uno spirito in una persona per farla vivere. Allo morte, questo spirito lascia il corpo. Durante la vita, anche altri spiriti possono abitare il corpo di una persona – uno spirito buono (lo Spirito di Dio) o uno spirito maligno, impuro, un demone. Questa condizione sarebbe stata osservabile nel comportamento della persona. Ogni volta che un uomo non era in sé, quando era fuori di sé e sembrava aver perso il controllo si riteneva ovvio che qualcosa era entrato in lui. Formuliamo ancora oggi la domanda in inglese: “Che cosa è entrato in lui?”. Secondo gli orientali ora non è lo spirito della persona ad agire. Questa persona è palesemente posseduta da qualche altro spirito. A seconda di come si valuta il suo comportamento normale lo si definisce uno spirito buono o uno spirito maligno. Quindi il comportamento fuori dall’ordinario e gli inusuali lampi di intuito da parte di un profeta (specialmente se andava in trance) sarebbero stati concettualizzati come possessione da parte dello Spirito di Dio, mentre il comportamento patologico del malato di mente sarebbe stato concettualizzato come possessione da parte di uno spirito maligno.42 I sintomi manifestati dal ragazzo indemoniato nei vangeli sono i sintomi di quella che chiameremmo epilessia: gettarsi a terra o nel fuoco con temporanea sordità, idiozia, convulsioni, agitazione e schiuma alla 38
Aboth 1:5.
39
Derrett, pp. 117-118.
40
Derrett, p. 63.
41
Derrett, p. 122.
42
Jeremias, New Testament Theology, p. 93.
bocca (Mc 9:17-27 parr). Non è difficile capire come si sia potuto pensare che egli fosse preda di qualche spirito maligno. Forse l’uomo con lo spirito maligno che fu indotto alle convulsioni nella sinagoga (Mc 1:23-26 par) fu anch’egli un epilettico. L’indemoniato di Gerasa, che viveva tra le tombe con gli spiriti dei defunti, era chiaramente un pazzo delirante. “Nessuno poteva più tenerlo legato neppure con una catena... Le catene erano state da lui rotte, e i ceppi spezzati, e nessuno aveva la forza di domarlo. Notte e giorno, andava... urlando e percuotendosi con delle pietre” (Mc 5:3-5). Era palesemente posseduto da uno spirito impuro o maligno (Mc 5:2). Alcune malattie fisiche e psicosomatiche erano anch’esse considerate opera di uno spirito maligno. Luca ci racconta di una donna debole e storpia che era “posseduta da uno spirito di debolezza”, ossia uno spirito che indeboliva il suo corpo. “Era tutta curva” e quindi è descritta come “legata da Satana”, ossia, tenuta in quella posizione dallo spirito maligno che dimorava in lei (Lc 13:10-17). Ci sono anche spiriti di sordità e mutismo che chiudono le orecchie ai sordi e legano le lingue dei muti (Mc 9:18, 25; 7:35). La febbre alta o delirio della suocera di Simone non è chiamata esplicitamente uno spirito maligno, ma è personificata in modo molto simile: “Egli (Gesù) sgridò la febbre, e la febbre la lasciò” (Lc 4:39). Sembra che il paralitico al quale erano stati perdonati i peccati (Mc 2:1-12 par) soffrisse degli effetti psicosomatici di un grave complesso di colpa. Anche lui avrebbe potuto essere descritto come posseduto da uno spirito di zoppia, anche se i vangeli, in realtà, non usano quella descrizione. Si noterà che tutte queste malattie sono del tipo che definiremmo disfunzionale. Le malattie che appaiono esternamente sulla pelle non sarebbero state descritte in questo modo. Si trattava di difetti del corpo e non dello spirito che abita il corpo. Le persone che avevano una malattia della pelle che le rendeva esteriormente impure erano conosciute come lebbrosi. Nell’antichità la lebbra era un termine generico che comprendeva tutte le malattie cutanee, comprese le piaghe e gli eritemi. I lebbrosi non erano posseduti dagli spiriti maligni, però la loro era anch’essa il risultato del peccato.43 Tutte le sventure, le malattie e gli altri disturbi erano maligni. Si trattava di afflizioni mandate da Dio come castigo per il peccato – il proprio, quello di un membro della propria famiglia o dei propri antenati. “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9:2, si veda anche Lc 13:2, 4). Tuttavia essi non ritenevano che Dio somministrasse direttamente tali castighi, ma pensavano che li cedesse alle forze del male (Giobbe 1:12). C’era una verità originale e fondamentale – questo legame tra il peccato e la sofferenza: peccare è fare qualcosa di dannoso a te stesso o agli altri. Ma il nesso è stato interpretato in modo completamente errato. Agli uomini è stato insegnato a pensare al peccato come al non essere riusciti a rispettare leggi che normalmente ignoravano del tutto. Il peccato, quindi, non era sempre un’azione del tutto deliberata. È possibile peccare per errore o per ignoranza. Analogamente si può dover sopportare la colpa del peccato commesso da qualcun altro. I figli di un’unione illegittima, e i loro figli per dieci degenerazioni, erano considerati peccatori.44 Gli ebrei che non erano razzialmente puri o che non potevano risalire alla propria ascendenza abbastanza da dimostrare la loro purezza razziale dovevano portare lo stigma sociale dei loro antenati, che avevano peccato mischiando sangue ebreo e pagano.45 Quando il peccato veniva imputato in modo così meccanico, il suo nesso con il castigo e la sofferenza doveva essere concepito in modo ugualmente meccanico. Qui abbiamo un terreno fertile per la superstizione, e molti dei poveri e dei non istruiti erano decisamente superstiziosi. Sia gli ebrei che i gentili della Palestina consultavano gli stregoni e i divinatori del peccato, che erano considerati capaci di divinate la fonte peccaminosa di qualsiasi disturbo.46 43
Jeremias, New Testament Theology, p. 92; The Eucharistic Words of Jesus.
44
Dt. 23:3. Si veda Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus, pp. 337, 342.
45
Jeremias, pp. 275-276, 297-298, 337.
46
Derrett, p. 122.
Era un mondo cupo e spaventoso, nel quale gli indifesi erano minacciati da ogni parte da spiriti ostili e da persone altrettanto ostili. Essi erano alla mercé degli spiriti maligni che, in qualsiasi momento, potevano infliggere loro malattie o pazzia, così come erano alla mercé di re e tetrarchi che li possedevano come dei beni che potevano essere comprati, usati o gettati via, come richiedeva la politica del momento. Spesso erano dissanguati dalle tasse. I poveri e gli oppressi erano alla mercé degli scribi, che li oberavano di oneri legali e non alzavano mai un dito per dare ad essi sollievo (Lc 11:46). Ad essi erano negati i diritti civili. “Ad essi non erano conferiti incarichi onorari, ed essi non erano ammessi come testimoni nel processi”.47 “Tutti gli onori più importanti, le posizioni di fiducia e gli incarichi pubblici erano riservati agli Israeliti puri”, 48 ossia quelli che non erano peccatori e potevano dimostrare che la loro ascendenza era pura e legittima. I peccatori erano esclusi dalla sinagoga. Questo era il mondo del “calpestati”, dei “perseguitati” e dei “prigionieri” (Lc 4:18; Mt 5:10). Oggi essi sarebbero stati definiti gli oppressi, gli emarginati o gli sventurati della terra – la gente che non conta. Ma erano la schiacciante maggioranza della popolazione della Palestina – le folle o moltitudini dei vangeli. La classe media era molto esigua e le classi superiori ancor più ristrette. I professionisti, i bottegai e i commercianti come i falegnami e i pescatori erano “rispettabili “ e appartenevano alla classe media. I Farisei, gli Esseni e gli Zeloti erano tutti uomini istruiti della classe media. Gli Zeloti possono aver incluso nelle loro file alcuni membri del popolino, che non sapeva nulla della legge, specialmente verso la fine a Gerusalemme,49 ma nel complesso i poveri e gli oppressi non presero parte a questi movimenti religioso-politici. Le classi superiori o dominanti erano enormemente ricche e vivevano in un grande lusso e splendore. Tra le classi medie e quelle superiori c’era un incalcolabile divario economico. Le classi superiori includevano la famiglia reale degli Erodi, la cui ricchezza derivava dalla tassazione, le famiglie sacerdotali aristocratiche (i sommi sacerdoti), che vivevano delle decime e delle tasse del Tempio, e la nobiltà laica (gli anziani) che possedeva gran parte della terra.50 Gesù apparteneva alla classe media. Egli non fu, per nascita e crescita, uno dei poveri e degli oppressi. Si è spesso evidenziato che Gesù, a differenza di Paolo, non fu un cittadino romano e quindi non godette dei diritti di un cittadino romano. Ma nella società nella quale Gesù visse quello non era un vero svantaggio. Il suo unico svantaggio – e si trattava di un lieve svantaggio che valeva soltanto a Gerusalemme – fu il suo essere un galileo. Gli ebrei ortodossi di Gerusalemme tendevano a guardare dall’alto in basso perfino gli ebrei della classe media provenienti dalla Galilea.51 La cosa straordinaria di Gesù fu che, sebbene provenisse dalla classe media e personalmente non presentasse svantaggi degni di nota, frequentò gli ultimi tra gli ultimi, e si identificava con loro. Egli divenne un reietto per scelta. Perché Gesù fece questo? Cosa può indurre un uomo della classe media a parlare con i mendicanti e a frequentare i poveri? Cosa può indurre un profeta ad associarsi con il popolino che non sa nulla della legge? La risposta compare molto chiaramente nei vangeli: la compassione. “Gesù... ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati” (Mt 14:14*). “Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore” (Mt 9:36*, si confronti con Mc 6:34). Egli fu spinto dalla 47
48 49
Jeremias, New Testament Theology, p. 110, dove dice questo degli esattori delle tasse (o meglio degli esattori dei tributi), ma questo vale per tutti gli oppressi. Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus, p. 297. Fu questo il motivo per cui nel 66 e.v. Essi bruciarono gli archivi di Gerusalemme, che contenevano l’annotazione dei loro debiti? Si veda Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, 2:427.
50
Jeremias, pp. 147-232.
51
Gv 7:41, 45-52, cf. Geza Vermes, Jesus the Jew, pp. 42-57.
compassione per la situazione e per le lacrime della vedova di Nain. “Non piangere” le dice (Lc 7:13). Ci viene detto esplicitamente che ebbe compassione di un lebbroso (Mc 1:41), di due ciechi (Mt 20:34) e di coloro che non avevano nulla da mangiare (Mc 8:2 par). Nei vangeli, anche quando la parola non viene usata, possiamo avvertire il moto della compassione. Gesù dice ripetutamente agli uomini: “Non piangere”, “Non preoccuparti”, “Non temere” (ad es., Mc 5:36; 6:50; Mt 6:25-34; si veda anche Mc 4:40; Lc 10:41). Egli non fu impressionato dalla magnificenza dei grandi edifici del Tempio (Mc 13:1-2), fu commosso dalla povera vedova che mise il suo ultimo centesimo nella tesoro del Tempio (Mc 12:41-44). Mentre tutti gli altri erano entusiasti del “miracolo” della figlia di Giairo, egli si preoccupò che le fosse dato qualcosa da mangiare (Mc 5:42-43). A rendere diverso il Samaritano della parabola fu la compassione che questi provò per l’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (Lc 10:33). A rendere diverso il padre amorevole della parabola fu l’eccesso di compassione che sentì nei confronti del proprio figlio prodigo (Lc 15:20). A rendere Gesù diverso fu la sconfinata compassione che egli provò per i poveri e per gli oppressi. La parola “compassione” è troppo debole per esprimere l’emozione che animò Gesù. Il verbo greco splagchnizomai usato in tutti questi testi, derivato dal sostantivo splagchnon, che significa intestini, viscere, interiora o cuore, ossia le parti interne dalle quali sembrano nascere le emozioni forti. Il verbo greco,quindi, significa un movimento o impulso che nasce dalle interiora, una reazione istintiva. Per questo i traduttori devono fare ricorso ad espressioni quali “fu mosso a compassione o pietà” (AV, RV, JB) o “fu dispiaciuto” (JB) o “il suo cuore andò da loro” (NEB). Ma perfino queste non rendono la profonda sfumatura fisica ed emotiva della parola greca che indica compassione. Il fatto che Gesù sia stato animato da tale emozione va oltre ogni ragionevole dubbio. Si tratta di un sentimento eminentemente umano che gli evangelisti e la Chiesa delle origini non ebbero un motivo apologetico di attribuire a Gesù. Inoltre, come vedremo, gran parte delle sue azioni, del suo pensiero e dell’impatto che egli ebbe sulla gente resterebbe incomprensibile se egli non fosse stato concretamente animato, in modo molto profondo, dalla compassione nei confronti dei poveri e degli oppressi. Se la sofferenza dei poveri e degli oppressi ebbe un effetto così potente su Gesù, quale effetto su di lui dovette avere la prospettiva di sofferenze molto maggiori in futuro? La compassione è una risposta alla sofferenza. Il pensiero di una catastrofe imminente che avrebbe travolto moltissime persone in un bagno di sangue e prodotto sofferenze troppo orribili per rifletterci sopra avrebbe scosso un uomo di così grande compassione e sensibilità. “Guai alle donne che saranno incinte, e a quelle che allatteranno in quei giorni!” (Lc 21:23). “Abbatteranno te e i tuoi figli ” (Lc 19:44*). Gesù, come Geremia, fu mosso alle lacrime. Ma che si poteva fare? È ottimo sentirsi compassionevoli ed empatici, ma cosa ci si poteva fare? Giovanni fece affidamento su un battesimo di conversione; Gesù si prefisse di liberare gli uomini da ogni forma di sofferenza ed angoscia – presente e futura. Come?
Capitolo 4 La Guarigione In quel tempo c’erano dottori e medici. Ma erano pochi e rari, la loro conoscenza della medicina era molto limitata e raramente i poveri potevano permettersi di consultarli. Abbiamo già parlato dell’uso che era fatto degli stregoni e dei divinatori di peccato, ma c’erano anche degli esorcisti professionisti che affermavano di essere in grado di scacciare gli spiriti maligni, e che, a quanto sembra, a volte riuscivano a farlo. Gli esorcisti professionisti attribuivano il loro successo al preciso rispetto di una qualche antica formula rituale. Questo rituale comprendeva incantesimo, azioni simboliche, l’uso di certe sostanze e l’invocazione del nome di antichi e saggi uomini di Dio (come Salomone) ai quali, si presume, il rituale era stato rivelato.52 C’è veramente poco a separare questo dalla magia. Tuttavia c’era anche il santo occasionale, forse molto occasionale (come Hanina ben Dosa) che poteva produrre la pioggia o effettuare una cura per mezzo di una semplice e spontanea preghiera a Dio.53 Gesù fu diverso da tutti questi guaritori. Forse, a volte, fece uso della sua saliva, una sostanza generalmente considerata medicinale (Mc 7:33; 8:23). Certamente egli si preoccupava spontaneamente di avere un qualche tipo di contatto fisico con il malato (ad es., Mc 1:31, 41; 6:56; 8:22,25). Egli li toccava, li prendeva per mano o imponeva le mani su di loro. Ma non fece mai uso di alcun tipo di formula rituale, incantesimo o invocazione di nomi. È molto probabile che egli sia stato accusato di esorcizzare nel nome di Belzebù o Satana proprio perché non aveva invocato nessun’altra autorità né usato alcun rituale tradizionale.54 C’è un senso in cui Gesù fece certamente ricorso alla preghiera spontanea (Mc 9:29), ma la sua interpretazione di ciò che accadeva in questi casi è molto diversa da quella data dai santi che pregavano per la pioggia o per le cure. Essi facevano affidamento sulla loro reputazione agli occhi di Dio; 55 Gesù si basò sul potere della fede. Non era la preghiera in sé a effettuare la cura, era la fede (Mt 21:22). Ci viene detto ripetutamente che Gesù diceva alla persona che era stata curata: “La tua fede ti ha guarita”. 56 Questa è una affermazione importante che eleva immediatamente Gesù al di sopra di ogni categoria contemporanea di medici, esorcisti, taumaturgi o santi. Egli, concretamente, dice di non essere stato lui a guarire la persona malata, di non averlo fatto grazie a un potere psichico che possiede o grazie a quale rapporto particolare con Dio. Né la guarigione deve essere attribuita all’efficacia di qualche formula magica, nemmeno alle semplici proprietà medicinali della saliva. Egli non dice nemmeno – almeno non esplicitamente – che la persona è stata guarita da Dio.57 “La tua fede ti ha guarito”. Questa è un’affermazione davvero straordinaria. Gesù, come ogni ebreo credente, avrebbe capito che “tutto è possibile a Dio” (Mc 10:27). Ma Gesù differì dai suoi contemporanei perché interpretò questo con il significato che “tutto è possibile per chi ha fede” (Mc 9:23). La persona che ha fede diventa come Dio – onnipotente. “Se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: «Passa da qui a là», e passerà; e niente vi sarà impossibile” (Mt 17:20*). Il seme di senape e lo spostamento delle montagne sono entrambi delle metafore. La fede, come un seme di senape, è una cosa apparentemente piccola e insignificante che può 52
Geza Vermes, Jesus the Jew, p. 64.
53
Vermes, pp. 69-78.
54
Vermes, pp. 64-65.
55
Vermes, p. 76.
56
57
Mc 5:34 parr; 10:52 par; Mt 9:28-29; Lc 17:19; e si veda anche Mc 5:36 par; 8:13; 15:28. Gerhard Ebeling, Word and Faith, pp. 232-233.
ottenere cose impossibilmente grandi. Quello che la fede può ottenere è come spostare le montagne o, come direbbe Luca, muovere un sicomoro (17:6). Qui si sospetta una qualche confusione delle metafore. Tuttavia il punto è sufficientemente chiaro. La fede, per Gesù, è un potere onnipotente, un potere che può ottenere l’impossibile.58 Mentre Giovanni si era affidato ad un battesimo di conversione, Gesù si affidò alla fede. L’unico potere che può guarire e salvare il mondo, l’unico potere che può fare l’impossibile, è il potere della fede. “La tua fede ti ha salvato”. Questa fede, ovviamente, non era aderire ad un credo o ad una serie di dottrine e di dogmi. E tuttavia è una convinzione, una convinzione molto forte. La persona malata ha fede quando si convince che potrà essere curata, e lo sarà. Se cuna persona parla con sufficiente convinzione, “Se non dubita in cuor suo, ma crede che quel che dice avverrà, gli sarà fatto” (Mc 11:23). E se pregate con la vera convinzione che “le avete ricevute, le otterrete” (Mc 11:24). Ma quando dubitate o esitate non succederà nulla. Questo è esemplificato dalla storia di Pietro che cammina sull’acqua. Egli dubitò per un momento, e proprio allora iniziò ad affondare (Mt 14:28-31). Quando i discepoli di Gesù tentarono per la prima volta di scacciare gli spiriti maligni non vi riuscirono perché la loro convinzione era ancora debole ed esitante, avevano troppo poca fede (Mt 17:19-20). Questo non significa che il potere della fede sia semplicemente il potere di una forte convinzione o l’influenza psicosomatica di una potente suggestione, che effettua una cura per mezzo di quella che è definita “terapia della dominanza”.59 La fede non è affatto una convinzione – vero o falso, buono, cattivo o indifferente. È un particolare tipo di convinzione e riceve il suo potere dal tipo di convinzione che è. La fede è una buona e autentica convinzione. È la convinzione che qualcosa succede, e succederà perché è buono e perché è vero che la bontà può trionfare – e trionferà – sul male. In altre parole è la convinzione che Dio è buono nei confronti dell’umanità e che può trionfare, e trionferà, su ogni male. Il potere della fede è il potere del bene e della verità, che è il potere di Dio. Il contrario della fede, quindi, è il fatalismo. Il fatalismo non è una caratteristica filosofia della vita che una volta esisteva in qualche lontano angolo del mondo. Il fatalismo è l’atteggiamento prevalente della maggior parte della gente, per gran parte del tempo. Esso si esprime in affermazioni quali “Non ci si può fare nulla”, “Non si può cambiare il mondo”, “Bisogna essere pratici e realisti”, “Non c’è speranza”, “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”, “Bisogna accettare la realtà”. Queste sono le affermazioni delle persone che non credono davvero nel potere di Dio, persone che non sperano davvero in quello che Dio ha promesso. Si noterà che questo tipo di fede è legata molto strettamente alla speranza. In realtà la fede, nel senso biblico della parola, è quasi indistinguibile dalla speranza (ad esempio Eb 11:1; Rom 4:18-22).60 Il massimo che si possa dire è che la fede e la speranza sono due aspetti diversi della stessa forma mentis, proprio come la miscredenza e la disperazione sono due aspetti diversi del fatalismo. Abbiamo visto qualcosa del fatalismo dei poveri, dei peccatori e dei malati ai tempi di Gesù. Il successo della sua attività di guarigione dev’essere considerato il trionfo della fede e della speranza sul fatalismo. I malati, che si sono rassegnati alla propria infermità come loro sorte nella vita, furono incoraggiati a credere che avrebbero potuto essere – e sarebbero stati – curati. La stessa fede di Gesù, le sue incrollabili convinzioni, risvegliarono questa fede in essi. La fede fu un atteggiamento che gli uomini mutuarono da Gesù grazie al loro contatto con lui, quasi come se fosse una sorta di infezione. Essa non poteva essere insegnata, si poteva solo prendere. Quindi essi iniziarono a rivolgersi a lui per aumentare la propria fede (Lc 17:5) o per correggere la propria miscredenza (Mc 9:24). 58
Ebeling, pp. 227-232.
59
Cf. Joachim Jeremias, New Testament Theology, p. 92.
60
Jurgen Moltmann, Theology of Hope.
Gesù fu il creatore della fede. Ma una volta creata, essa poteva diffondersi da una persona a un’altra. La fede di una persona poteva risvegliare la fede di un’altra. I discepoli furono inviati per risvegliare la fede negli altri. Laddove l’atmosfera generale del fatalismo era stata sostituita da una atmosfera di fede, l’impossibile iniziò ad accadere. A Nazareth, la sua città natale, c’era una generale mancanza di fede, e per quel motivo là non avvenivano cure “miracolose” o degne di nota (Mc 6:5-6). Ma in altri luoghi della Galilea la gente era guarita e curata, gli spiriti maligni erano scacciati e i lebbrosi erano purificati. I miracoli di liberazione avevano iniziato ad accadere. Ma erano davvero autentici miracoli? I miracoli sono spesso considerati – sia da chi ci crede che da chi non ci crede – eventi, o presunti eventi, che contraddicono le leggi della natura e che, quindi, non possono essere spiegati dalla scienza o dalla ragione. Ma questo non è affatto ciò che la Bibbia intende per miracolo, come vi dirà un qualsiasi studioso della Bibbia.61 “Le leggi della natura” è un concetto scientifico moderno. La Bibbia non sa nulla della natura, figuriamoci delle leggi della natura. Il mondo è la creazione di Dio, e tutto quello che accade nel mondo, normale o straordinario, fa parte della provvidenza di Dio. La Bibbia non divide gli eventi in naturali e soprannaturali. Dio, in un modo o nell’altro, sta alla base di tutti gli eventi. Un miracolo, nella Bibbia, è un evento insolito che è stato interpretato come una azione inusuale di Dio, un’opera potente. Certe azioni di Dio sono chiamate miracoli o prodigi per la loro capacità di sbalordirci e sorprenderci, la loro capacità di farci meravigliare e stupire. Quindi la creazione è un miracolo, la grazia è un miracolo, la crescita di un enorme albero di senape da un piccolo seme è un miracolo, la liberazione degli Israeliti dall’Egitto fu un miracolo, il regno di Dio sarà un miracolo. Il mondo è pieno di miracoli per coloro che hanno occhi per vederli. Se non riusciamo più a stupirci e meravigliarci tranne quando le cosiddette leggi della natura vengono infrante, allora dobbiamo trovarci in uno stato pietoso. Le leggi della natura sono le ipotesi di lavoro della scienza. Esse hanno un valore estremamente importante e pratico per noi. Ma dobbiamo riconoscerle per quello che sono. Devono essere costantemente revisionate e riviste alla luce dei nuovi elementi. Gran parte di quello che, nel diciassettesimo secolo, sarebbe stato considerato legge della natura oggi non verrebbe considerato tale. Ogni buono scienziato dirà che perfino le più recenti teorie scientifiche non sono l’ultima parola su quello che è possibile o impossibile nella vita. Molti di loro, oggi, diranno che perfino i presunti miracoli non possono essere esclusi a priori. 62 In questo nostro misterioso mondo c’è molto di più di quanto siamo mai stati in grado di capire. Le leggi della natura, perciò, non sono assolutamente i criteri per stabilire cosa sia un miracolo e cosa non lo sia. Una cosa può benissimo contraddire le leggi della natura così come ci sono note in un determinato momento senza essere un miracolo o un atto di Dio, ad esempio l’agopuntura, le percezione extrasensoriale, piegare le forchette con il pensiero e le imprese degli yogi indiani. D’altra parte una cosa può essere un miracolo anche se può essere spiegata da leggi perfettamente naturali. Per gli Ebrei il più grande miracolo della Bibbia fu il miracolo dell’Esodo, l’attraversamento del Mare delle Canne (non il Mar Rosso, che è una traduzione errata; il Mare delle Canne è una palude a nord del Mar Rosso). 63 Oggi tutti gli studiosi seri concorderanno che l’attraversamento ed il conseguente annegamento dell’esercito egiziano può essere spiegato grazie ai fenomeni naturali delle maree e dei venti, che furono sicuramente “provvidenziali” per gli Israeliti. Tuttavia questo resta il più grande miracolo dell’Antico Testamento. Gli orpelli che sono stati aggiunti alla storia attraverso i secoli di narrazione ebbero il solo scopo di 61 62
63
Cf. Reginald H. Fuller, Interpreting the Miracles, pp. 8-11. Cf. Emmanuel M. Papper, “Acupuncture: Medicine or Magic?” in Encyclopedia Britannica Yearbook of Science and the Future, 1974, pp. 55-56. Si veda ad esempio The Jerome Biblical Commentary, 3:29.
sottolineare il nostro bisogno di meravigliarci per ciò che Dio aveva fatto per il popolo di Israele. Un miracolo, allora, è un’azione di Dio che, nella sua potenza ed anomalia, ci fa stupire e meravigliare. In quanto tale può essere chiamato (e nella Bibbia è spesso chiamato) un segno – un segno del potere e della provvidenza di Dio, di giustizia e di misericordia, della volontà di Dio di salvare e liberare. Allora, in che modo vanno interpretate le storie evangeliche sui miracoli di Gesù? Esiste una teoria fondata secondo la quale Marco divenne insoddisfatto del ritratto di Gesù come maestro che era molto diffuso nella Chiesa dell’epoca.64 Le persone che non avevano conosciuto Gesù durante la sua vita arrivarono a conoscerlo principalmente attraverso i suoi detti e le sue parabole. Marco desiderò correggere questa immagine unilaterale. Perciò, si ipotizza, dovette aver stabilito un contatto, diretto o indiretto, con i villici semplici e non istruiti che avevano conosciuto Gesù in Galilea. I cantastorie della Galilea, che forse non divennero mai cristiani, ricordarono e raccontarono quel che aveva impressionato più di tutto i poveri e gli oppressi – i miracoli di Gesù. I miracoli costituiscono delle storie interessanti molto più dei sermoni, dei detti saggi o delle idee religiose nuove ed originali. Essi possono essere raccontati molte volte intorno al fuoco di notte con alcuni abbellimenti, e non mancheranno mai di incantare gli ascoltatori. Sarebbe stato da questi cantastorie che Marco ottenne la maggior parte delle sue versioni dei miracoli di Gesù. Devono anche esserci state altre storie che gli giunsero da Pietro o da uno degli altri discepoli. In tutti questi casi Marco non avrebbe esercitato il giudizio critico di uno storico moderno. Egli fu fedele alle sue fonti. Inoltre i miracoli erano un modo particolarmente facile e conveniente di convincere i suoi lettori. Quello del miracolo era un linguaggio che chiunque, in quei giorni, poteva capire ed apprezzare.65 Matteo e Luca, probabilmente, seguirono Marco, ma Giovanni sembra aver avuto la propria fonte di “segni” o “opere” eseguiti da Gesù. È quindi molto probabile che le storie dei miracoli che ci sono state trasmesse nei vangeli comprendano degli abbellimenti e delle esagerazioni, e che includano anche delle versioni di eventi che, in origine, non furono miracoli o prodigi (ad es. il camminare sulle acque, la moltiplicazione dei pani, la maledizione dell’albero di fico e la trasmutazione dell’acqua in vino). Uno studio critico dei testi tende a confermarlo. 66 Tuttavia, tenuto conto di questo, appare come un indiscutibile fatto storico che Gesù abbia fatto dei miracoli e che abbia esorcizzato e guarito delle persone in un modo abbastanza straordinario. Ma quel che è ancora più straordinario è che, nonostante la loro preoccupazione di trovare il miracolo dovunque fosse possibile, gli autori dei vangeli riportano l’estrema riluttanza di Gesù a fare dei miracoli. I Farisei gli chiedevano continuamente “un segno dal cielo”, ed ogni volta egli si rifiutò di fare una cosa del genere (Mc 8:1113 parr; si vedano anche Lc 11:16; Gv 2:18; 4:48; 6:30). Quello che essi cercavano era un qualche tipo di miracolo spettacolare che avrebbe confermato la sua missione e dimostrato in modo definitivo che egli era un profeta mandato da Dio. In che altro modo avrebbero potuto sapere se credergli o meno? Ma Gesù dichiara con fiducia che non sarà dato nessun segno di quel tipo, e inoltre che la generazione che chiede un segno miracoloso è una generazione malvagia ed infedele (Lc 11:29 parr). Niente indica più chiaramente quanto Gesù fosse diverso dagli uomini della sua generazione. Egli considerò ogni tentativo di produrre un miracolo confirmatorio come una tentazione satanica. Da qui la storia della sua tentazione nel deserto, quando si dice che Satana lo abbia tentato chiedendogli di saltare giù dal pinnacolo del Tempio. Gesù rifiutò questo come un tentativo peccaminoso di mettere Dio alla prova (Lc 4:12 par). Quasi ogni altro uomo di religione, in quei giorni, avrebbe ritenuto assolutamente 64
Etienne Trocme, Jesus as Seen by His Contemporaries, pp 103-105.
65
Jeremias, p. 89.
66
Jeremias, pp. 86-88.
impossibile resistere alla tentazione di giustificarsi per mezzo di prove e segni celesti. Chi pensa che il motivo per il quale Gesù fece dei miracoli di guarigione fosse un desiderio di dimostrare qualcosa, di dimostrare che egli era il Messia o Figlio di Dio, lo ha completamente frainteso. Il suo unico e solo motivo per guarire le persone era la compassione. Il suo unico desiderio era quello di liberare gli uomini dalla loro sofferenza e dalla loro rassegnazione fatalistica alla sofferenza. Egli fu profondamente convinto che si potesse fare, e il miracoloso successo dei suoi sforzi deve essere attribuito al potere della sua fede. Né egli pensò di avere alcun monopolio sulla compassione, sulla fede e sulle cure miracolose. Quel che, più di tutto, egli volle fare fu risvegliare la stessa compassione e la stessa fede negli uomini intorno a lui. Soltanto quello avrebbe permesso al potere di Dio di diventare operativo tra di loro. Di conseguenza, anche se Gesù non si prestò a dimostrare alcunché, il suo miracoloso successo indicò che Dio era all’opera, liberando il suo popolo grazie alla fede che Gesù aveva generato in esso.
Capitolo 5 Il Perdono Giovanni il Battista predicò ai peccatori. Hanina ben Dosa esorcizzò da essi gli spiriti maligni.67 Ma Gesù si identificò con loro. Egli uscì dal suo sentiero per frequentare i mendicanti, gli esattori delle tasse e le prostitute. Nelle società in cui ci sono delle barriere tra le classi, le razze o altri gruppi basati sullo status, la separazione è mantenuta per mezzo di un tabù sulle frequentazioni sociali. Non si condivide un pasto o una festa, non si celebra o si partecipa a dei divertimenti con delle persone che appartengono ad un altro gruppo sociale. In Medio Oriente condividere un pasto a tavola con qualcuno è una forma particolarmente intima di associazione ed amicizia. Le persone, nemmeno per educazione, avrebbero mangiato e bevuto con una persona di una classe o status inferiore o con qualsiasi persona essi disapprovassero. Lo scandalo che Gesù provocò in quella società frequentando i peccatori può difficilmente essere immaginato dalla maggior parte delle persone nel mondo moderno. Significava che egli li accettava, li approvava e che voleva davvero essere “un amico degli esattori delle tasse e dei peccatori” (Mt 11:19). L’effetto sugli stessi poveri ed oppressi fu miracoloso. Il fatto che Gesù frequentasse i peccatori è storicamente accertato. Si può riscontrare in quattro tradizioni evangeliche indipendenti e in tutte le forme letterarie dei vangeli.68 Questa pratica scandalosa non avrebbe potuto essere inventata dai suoi successivi seguaci, più “rispettabili”. Possiamo addirittura chiederci se i vangeli non abbiano forse attenuato questo aspetto della sua pratica. Tuttavia gli elementi dei quali disponiamo mostrano in modo sufficientemente chiaro che Gesù ebbe quella che è chiamata “compagnia a tavola” con i peccatori. “Quest’uomo – dissero – intrattiene 69 i peccatori e fa festa con loro” (Lc 15:2*). “Mentre Gesù era a tavola [a cena] in casa di lui, molti pubblicani e peccatori erano anch’essi a tavola con lui e con i suoi discepoli; poiché ce n’erano molti che lo seguivano” (Mc 2:15,* si confronti con Mt 9:10; Lc 5:29). “E voi dite: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori!»” (Lc 7:34 = Mt 11:19). Gesù intratteneva i peccatori in casa sua. Siamo stati portati ad interpretare in modo troppo letterale l’affermazione secondo cui “il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8:20 = Lc 9:58). Gesù viaggiò molto e quindi dovette dormire sul ciglio della strada o in casa degli amici, ma aveva una casa a Cafarnao, forse in una casa che divideva con Pietro, Andrea e le loro famiglie (Mc 1:21, 29, 35; 2:1-2; Mt 4:13). Il riferimento a casa sua in Mc 2:15 può indicare la casa di Levi, come lo interpretò Luca (5:29), ma si è affermato, in modo plausibile, che quella fosse la casa di Gesù.70 Inoltre è difficile capire come Gesù possa essere stato accusato di intrattenere i peccatori (Lc 15:2) se non aveva un’abitazione in cui farlo. Il fatto che gli ospiti siano stati invitati e che fossero sdraiati a tavola indica che i pasti di cui si parla nei vangeli fossero banchetti o feste con cena. Nei normali pasti della famiglia in cui non vi erano persone invitate le persone sedevano a tavola esattamente come facciamo noi.71 A tavola ci si sdraiava solo ad un banchetto o a una festa. Non bisogna pensare che i banchetti o le feste fossero pasti molto elaborati e costosi (Lc 10:38-42). la compagnia e la conversazione importavano più del cibo. Tuttavia queste feste erano una caratteristica così comune della vita 67
68
Geza Vermes, Jesus the Jew, pp. 72-78. Cf. Edward Schillebeeckx, Jesus: An Experiment in Christology, p 95.
69
La parola greca prosdechetai è meglio Linnemann, Jesus of the Parables, p. 69.
70
E. Lohmeyer, Das Evangelium des Markus, Gottingen 1967, p. 55; Joachim Jeremias, New Testament Theology, p. 115.
71
tradotta
in
“intrattiene”.
Jeremias, p. 115 e The Eucharistic Words of Jesus, pp. 20f.
Si
veda
Eta
di Gesù che egli poté essere accusato di essere un beone e un mangione. Secondo Luca, Gesù una volta disse ai suoi ospiti di classe media di dover invitare “i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi” invece di invitare sempre i suoi “amici, fratelli, parenti o vicini ricchi” (14:12-13). Possiamo ritenere che Gesù abbia fatto ciò che predicò, e che quindi fosse sua abitudine intrattenere non solo gli esattori delle tasse e i peccatori ma anche i mendicanti e i vagabondi. D’altro canto Gesù deve aver invitato anche i farisei e altre persone “rispettabili” a cenare con lui. Se essi lo invitarono nelle loro case (Lc 7:36; 11:37; 14:1), egli deve senz’altro aver ricambiato invitandoli a volte a casa sua. Ma come avrebbero fatto i farisei e i mendicanti a stare alla stessa tavola? I farisei non avrebbero temuto di perdere il loro status accettando degli inviti a questi pasti? È questo che ci fa chiedere se la parabola degli invitati (Lc 14:15-24) non sia stata forse su basata su veri eventi della vita di Gesù. Gli ospiti “rispettabili” iniziarono forse a presentare delle scuse quando furono invitati alla sua tavola? Egli mandò i suoi discepoli “nelle strade e nelle vie della città” per far entrare “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi” e addirittura “nelle grandi strade e lungo le siepi per spingere la gente a entrare”? I mendicanti, all’inizio, furono sicuramente riluttanti, e i peccatori ci avrebbero pensato due volte prima di invitare Gesù a casa loro. Per superare queste usanze sociali radicate, Gesù a volte deve aver obbligato i mendicanti a venire, ed essersi invitato a casa dei peccatori. Luca ha esemplificato quest’ultimo caso della sua storia di Zaccheo (19:110). Zaccheo non fu affatto povero nel senso economico del termine. Egli era l’esattore capo di Gerico, e questo gli aveva permesso di accumulare una notevole ricchezza, ma egli restava un reietto per colpa della sua professione, e sarebbe stato considerato un peccatore. Nessuna persona “rispettabile” sarebbe entrata in casa sua o avrebbe cenato con lui. Gesù si invita intenzionalmente a casa di quest’uomo – il più famoso peccatore di Gerico. Ma non appena ebbero iniziato a capire Gesù, gli esattori delle tasse e i peccatori, come gli ammalati e gli invalidi, avrebbero iniziato, come ci racconta Luca, a cercare la sua compagnia (15:1) e a invitarlo ai pasti nelle loro case. Gesù stesso attribuì una grande importanza a questi incontri festivi. A volte affittò una sala da pranzo in un ostello per celebrare insieme ai suoi seguaci. L’ultima cena fu sicuramente l’ultima di questo tipo di cene. Dopo la sua morte, i suoi seguaci lo ricordarono continuando a spezzare insieme il pane. È così che egli aveva desiderato essere ricordato – nel contesto di un pasto di festa. “Fate questo in memoria di me” (1 Cor 11:24, 25). Sarebbe impossibile sopravvalutare l’impatto che questi pasti devono avere avuto sui poveri e sui peccatori. Accettandoli come amici e pari, Gesù aveva eliminato la loro vergogna, umiliazione e colpa. Mostrando loro che essi contavano per lui come persone, egli diede loro un senso di dignità e li liberò dalla loro schiavitù. Il contatto fisico che deve aver avuto con loro mentre erano sdraiati a tavola (si confronti con Gv 13:25) e che, ovviamente, non si sognò mai di non consentire (Lc 7:38-39) deve averli fatti sentire puri ed accettabili. Inoltre, siccome Gesù era considerato un uomo di Dio e un profeta, essi avrebbero interpretato il suo gesto di amicizia come una loro approvazione da parte di Dio. Ora erano accettati da Dio. Il loro peccato, la loro ignoranza e contaminazione erano stati ignorati, e non erano più loro imputati. Spesso è stato evidenziato che la divisione della tavola con i peccatori da parte di Gesù fu un implicito perdono dei loro peccati. 72 Per capirlo bisogna comprendere in che modo i peccati e il perdono erano considerati in quei giorni. I peccati erano dei debiti con Dio (Mt 6:12; 18:23-35). Questi debiti erano stati contratti in passato dalla persona o dai suoi antenati in seguito a qualche trasgressione della legge. Le trasgressioni potevano essere state commesse intenzionalmente o per errore, come già abbiamo visto. Quindi si pensava che un ebreo illegittimo o di razza mista vivesse in uno stato permanente di peccato o debito con Dio a causa della trasgressione commessa dai suoi antenati. Il perdono significava la cancellazione o remissione dei propri debiti con 72
Ad es., Jeremias, New Testament Theology, pp. 114-116.
Dio. Perdonare, in greco, (aphiemi) significa rimettere, rilasciare o liberare. Perdonare una persona è liberarla dal dominio della sua storia passata. Dio perdona ignorando il passato della persona ed eliminando le conseguenze attuali o future delle passate trasgressioni. Il gesto di amicizia di Gesù rese chiaro che questo era esattamente quello che egli aveva in mente. Egli ignorò il loro passato e ignorò di imputare loro alcunché. Egli li trattò come persone che non erano più, se mai lo erano state, indebitate con Dio, e quindi non meritavano più il rifiuto e il castigo. Essi furono perdonati. Non era necessario che Gesù lo specificasse a parole più di quanto il padre del figliol prodigo dovesse dire a suo figlio, con molte parole, che lo aveva perdonato. L’accoglienza ricevuta dal figlio e il grande banchetto preparato per lui dissero più di mille parole. Siccome la malattia era una delle conseguenze del peccato, la guarigione giunse ad essere considerata una delle conseguenze del perdono. La malattia era considerata un castigo del peccato, il prezzo che si poteva dover pagare per il proprio debito verso Dio. Se un uomo era liberato dalla malattia, questo mostrava che il proprio debito doveva essere stato eliminato.73 Quindi secondo un frammento dei Rotoli del Mar Morto Nabunai, re di Babilonia, poté dire: “Fui afflitto [da un’ulcera maligna] per sette anni, e un esorcista ebreo perdonò i miei peccati”.74 La stessa idea è espressa chiaramente per il lettore nella storia evangelica del paralitico (Mc 2:1-12 par). Se l’uomo può alzarsi e camminare, allora questo dimostra che i suoi peccati devono essere stati perdonati. Probabilmente egli soffriva di un complesso di colpa che aveva dato origine ad una paralisi psicosomatica del corpo. Quando Gesù gli ebbe assicurato che i suoi peccati erano stati perdonati, che non era in debito con Dio, il suo senso di colpa fatalistico fu eliminato ed egli fu nuovamente in grado di camminare. Il dialogo tra Gesù e i Farisei in questa storia fu probabilmente composto da Marco o da un predicatore cristiano precedente. Lo scopo del dialogo fu quello di indicare che l guarigione può essere un segno o una prova del perdono. Da questo non consegue che il motivo per cui Gesù guarì il paralitico fu quello di dimostrare la sua capacità di perdonare il peccato. Il motivo per cui egli guariva, come abbiamo visto, fu la compassione. Anche il motivo per cui assicurò al paralitico il perdono fu la compassione. Il potere di guarire, come abbiamo visto, fu il potere della fede. Anche il potere di perdonare i peccati era il potere della fede. Si dice che le folle si siano meravigliate non perché questi poteri fossero stati conferiti a Gesù, ma perché questi poteri erano stati dati a degli esseri umani (Mt 9:8). Chi avesse avuto abbastanza fede avrebbe potuto fare lo stesso. Questo punto è chiarito nella storia della peccatrice che lava i piedi di Gesù. “ ‘I tuoi peccati sono perdonati’, dice Gesù... ‘La tua fede ti ha salvata, vai in pace’ ” (Lc 7:48, 50). Qui il dialogo è stato costruito per evidenziare che era stata la fede della donna a permettere al perdono di Dio di avere effetto su di lei. Gesù l’aveva convinta che tutti i suoi debiti erano stati cancellati e che Dio ora la accettava e la approvava. Nel momento in cui ella lo credette, ciò fece effetto e la sua vita fu trasformata. La fede di Gesù nel perdono incondizionato di Dio aveva risvegliato in lei la stessa fede. Come esattamente egli fece, non lo sappiamo. Deve averlo fatto con qualche semplice gesto di amicizia e di accettazione – forse il semplice averle permesso di lavargli i piedi con le sue lacrime. Egli non l’aveva respinta, come ci si attendeva che facessero i profeti (Lc 7:39). Non l’aveva punita, rimproverata o trattata da impura. Come il padre nella parabola del figliol prodigo, Gesù non aveva posto condizioni, requisiti, opere e obiettivi. Con un semplice gesto, ella era stata completamente liberata dal suo passato – gratuitamente e senza condizioni. Il risultato fu un tipo di guarigione o salvezza che ella visse come un sollievo, gioia, gratitudine e amore. “I suoi peccati, i suoi molti peccati, devono esserle stati perdonati, o non 73
Vermes, p. 69.
74
Vermes, I Rotoli del Mar Morto, p. 229.
avrebbe mostrato un così grande amore” [= gratitudine]75 (Lc 7:47). Il suo amore grato e la sua gioia incontrollabile furono un segno certo della sua liberazione dal peccato. La gioia, in realtà, fu il risultato più caratteristico di tutta l’attività di Gesù tra i poveri e gli oppressi. I pasti che consumò con loro furono celebrazioni festive, feste. Gesù, ovviamente, aveva un modo per assicurarsi che la gente si divertisse durante questi incontri. I Farisei ne furono scandalizzati. Gioire e celebrare insieme ai peccatori era incomprensibilmente scandaloso (Lc 15:1). Essi poterono ritenere soltanto che egli fosse diventato un amante dei piaceri, “un mangione e un beone” (Lc 7:34). Per spiegare questa gioia e questa celebrazione ai Farisei Gesù raccontò tre parabole – la parabola della pecora perduta, della moneta perduta e del figlio perduto (Lc 15:1-32). Il nocciolo di ognuna di queste parabole è che trovare o recuperare quello che era stato perso (il perdono) è un motivo sufficientemente naturale per gioire e festeggiare. Non può esserci dubbio che Gesù sia stato una persona allegra e che la sua gioia, come la sua fede e la sua speranza, fosse contagiosa. Questa era concretamente la differenza più caratteristica ed evidente tra Gesù e Giovanni. Come vedremo in seguito, Gesù festeggiava mentre Giovanni digiunava (Lc 7:31-34 par). Come ha detto molto appropriatamente Schillebeeckx, il fatto che i discepoli di Gesù non digiunassero testimonia “l’impossibilità esistenziale di essere tristi in compagnia di Gesù”.76 Il digiuno era un segno di tristezza e dolore. Semplicemente, non si digiuna in compagnia dello sposo ad una festa di nozze (Mc 2:18-19 parr). I poveri, gli oppressi e tutti gli altri che non si attenevano eccessivamente alla “rispettabilità” ritennero la compagnia di Gesù un’esperienza liberatrice di gioia pura. Egli li fece sentire al sicuro. Non era necessario temere gli spiriti maligni, gli uomini cattivi o le tempeste sul lago. Non dovevano preoccuparsi di come si sarebbero vestiti, di quel che avrebbero mangiato, o di ammalarsi. È interessante quanto spesso si dice che Gesù li abbia rassicurati ed incoraggiati con parole quali: “Non temete”, “Non preoccupatevi”, o “Gioite” (Mc 5:36; 6:50; Mt 6:25, 27, 28, 31, 34; 9:2, 22; 10:19, 26, 28, 31; 14:27; Lc 12:32; Gv 16:33 e tutti i testi paralleli; si vedano anche Mc 4:19, 40; 10:49; Lc 10:41). Gesù non soltanto li guarì e li perdonò: egli dissipò anche i loro timori e li liberò dalle loro preoccupazioni. La sua stessa presenza li aveva liberati.
75
76
Si veda Jeremias, The Parables of Jesus, pp. 126-127, ove egli sostiene che qui amore significhi gratitudine. Schillebeeckx, p. 201.
PARTE TERZA LA BUONA NOVELLA Capitolo 6 Il “Regno” di Dio Ci sono alcuni passi di Isaia che Gesù usò probabilmente per spiegare la sua opera di liberazione dei poveri e degli oppressi (Lc 4:16-21; 7:22 par; Mt 10:7-8). Sembra che Luca abbia trovato nelle sue fonti una storia su Gesù che legge Isaia nella sinagoga di Nazareth. Egli prese questa storia e, inserendo uno dei passi di Isaia che descrivono in modo molto adatto l’attività di Gesù, la mise all’inizio del ministero di Gesù, come una sorta di testo programmatico (Lc 4:16-21). Anche se Gesù non lesse davvero questo testo e lo commentò nella sinagoga, la valutazione di Luca dell’importanza di questi tre passi per comprendere la pratica di Gesù è senz’altro corretta. Devono essere rilevati tre passi di Isaia: In quel giorno, i sordi udranno le parole del libro e, liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno; gli umili avranno abbondanza di gioia in Dio e i più poveri tra gli uomini esulteranno nel Santo d’Israele (29:18-19). Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia (35:5-6). Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri [o: per proclamare nuova vista ai ciechi, per liberare gli oppressi] per proclamare l’anno di favore del Signore (61:1-2*). I sordi, i muti, i ciechi, gli zoppi, i poveri, quelli che hanno il cuore spezzato, i prigionieri e gli oppressi sono semplicemente modi diversi di indicare i poveri e gli oppressi. Ne consegue che i verbi di ognuna di queste frasi sono semplicemente dei modi per descrivere l’azione che Dio promette in relazione ai poveri e agli oppressi. Quindi guarire, restituire la vista e l’udito, portare gioia, liberare, proclamare la libertà o il favore e portare la buona novella sono modi diversi di descrivere la liberazione. È particolarmente significativo che l’atto di proclamare o portare la buona novella sia stato interpretato come una forma di liberazione. La predicazione di Gesù deve essere compresa in questa luce. Essa faceva parte della sua attività o pratica di liberazione. Evangelizzare o portare la buona novella ai poveri significa liberarli con la parola pronunciata. Isaia e Gesù stesso fecero uso del verbo “evangelizzare” (euaggelizontai: Is 40:9; 52:7; 61:1; Lc 7:22 par). Furono i primi cristiani ad usare per primi il nome “vangelo” o “buona novella” (euaggelion: ad es. Mc 1:1,14)77 come modo per indicare il contenuto o il messaggio che Gesù proclamò ai poveri e agli oppressi. Definiamo qualcosa una “buona notizia” quando parla di un nuovo avvenimento, un evento accaduto di recente o un evento che siamo certi accadrà nel prossimo futuro. Diciamo che si tratta di una “buona notizia” quando la notizia è ottimista ed incoraggiante, quando tende a rendere felici le persone. La buona novella per i poveri, quindi, significherà una notizia che dà speranza ed incoraggiamento ai poveri. Il vangelo o buona novella che Gesù portò ai poveri e agli oppressi fu una profezia. Egli profetizzò un evento futuro che sarebbe stato una benedizione per i poveri. Questo avvenimento non era semplicemente la venuta del “regno” 77
L’uso di euaggelion in Mc 1:15; 8:35; 10:29; 13:10 par; 14:9 par, è secondario. Cf. Joachim Jeremias, New Testament Theology, p. 134; Edward Schillebeeckx, Jesus, pp. 8788.
di Dio, ma la venuta del “regno” di Dio per i poveri e gli oppressi. “Vostro è il regno di Dio” (Lc 6:20). La profezia fondamentale di Gesù è contenuta in quei passi del vangelo che chiamiamo beatitudini: Beati i poveri, perché loro è il regno di Dio. Beati voi che avete fame ora, perché sarete soddisfatti. Beati voi che ora piangete perché riderete (Lc 6:20-21*) . È Luca ad aver conservato per noi la forma più originale della profezia. Qui essa è ancora rivolta ai contemporanei di Gesù: voi che siete poveri, affamati e miseri. Matteo ha adattato la profezia alle necessità dei suoi lettori che in realtà non erano poveri, affamati e miseri. Egli ha esteso le benedizioni e le promesse a chi è povero di cuore o in spirito con i poveri, chi ha fame e sete di giustizia, chi imita la mitezza o l’umiltà dei poveri, chi è anche triste e depresso, chi è perseguitato per la sua fede in Gesù; concretamente, chi è davvero virtuoso (5:1-12). Matteo ha trasformato una profezia in una esortazione. Se l’attività di Gesù risvegliò nei poveri grandi speranze per il futuro, le sue parole profetiche devono aver risvegliato speranze ancor più grandi. Ma queste speranze, in origine, non avevano nulla a che vedere con il paradiso – almeno, non come luogo di felicità e ricompense nell’aldilà. Il paradiso, al tempo di Gesù, era un sinonimo di Dio.78 Il “regno” dei cieli significa il “regno” di Dio. Avere delle ricompense o dei tesori nei cieli significa essere nei libri buoni di Dio. Letteralmente il paradiso era il cielo, il luogo in cui dimorano Dio e tutti gli altri spiriti. Non si pensava che gli uomini andassero il paradiso dopo la morte. Tutti i defunti andavano nello sheol, ossia negli inferi o nella tomba. Perfino coloro che credevano nelle ricompense e nei castighi nella vita dopo la morte (prima della resurrezione generale) li raffiguravano come qualcosa che accadeva in due diversi settori dello sheol. I virtuosi erano nel grembo di Abramo nello sheol, e un grande baratro li divideva dai malvagi, che erano in un’altra parte dello sheol (si confronti Lc 16:23-26). La fede cristiana nel paradiso nacque dopo la morte di Gesù, con l’idea che egli era stato assunto in cielo o esaltato alla destra di Dio. Ma la buona novella del “regno” di Dio era una notizia su un futuro stato di cose sulla Terra in cui i poveri non sarebbero più stati poveri, gli affamati sarebbero stati saziati e gli oppressi non sarebbero più stati miseri. Dire “Venga il tuo regno” è come dire “Sia fatta la Tua volontà come in terra così in cielo” (Mt 6:10 par). Molti cristiani sono stati sviati per secoli sulla natura del “regno” di Dio dalla famosa traduzione errata di Lc 17:21: “Il regno di Dio è dentro di voi”. Oggi tutti gli studiosi e i traduttori seri concordano che il testo vada letto così: “Il regno di Dio è tra di voi o in mezzo a voi”. La parola greca entos può significare “dentro” o “in mezzo”, ma nel presente contesto tradurla in “dentro” significherebbe che, in risposta alla domanda dei Farisei riguardante il momento in cui il “regno” di Dio sarebbe giunto (17:20), Gesù abbia loro risposto che il “regno” di Dio era dentro di loro! Questo contraddirebbe qualsiasi altra cosa Gesù abbia mai detto a proposito del “regno” o dei Farisei. Inoltre, poiché ogni altro riferimento al “regno” presuppone che esso debba ancora venire,79 e siccome il verbo, in ogni altra frase in questo passo (17:20-37) è al futuro, questo versetto deve essere interpretato con il significato che, un giorno, essi scopriranno che il “regno” di Dio è comparso improvvisamente, e in modo inatteso, tra di loro. 80 Il “regno” di Dio, come ogni altro regno, non può essere dentro ad una persona, è qualcosa in cui una persona può vivere. Da qualche parte sullo sfondo dell’uso che Gesù fa del termine “regno di Dio” c’è un’immagine illustrata. Egli parla di persone che entrano, o non entrano, nel “regno” (Mc 9:47; 10:15, 23, 24, 25 parr; Mt 5:20; 7:21; 18:3; 21:31; 23:13; Gv 3:5). Essi possono sedersi, mangiare e bere in esso (Mc 14:25; Mt 8:11— 12 par; Lc 22:30). Il “regno” ha una porta o un cancello (Mt 7:13, 14; Lc 78 79
80
Jeremias, p. 9. Si veda la ricerca approfondita di Richard D. Hiers in The Kingdom of God in the Synoptic Tradition. Jeremias, pp. 100-101.
13:24) su cui si può bussare (Mt 7:7-8 par; 25:10-12 par). Ha anche delle chiavi (Mt 16:19; Lc 11:52) e può essere chiuso (Mt 23:13; Lc 13:25). L’immagine figurativa corrispondente a questa descrizione è palesemente quella di una casa o di una città cinta da mura. 81 Questo è confermato ulteriormente dal fatto che il “regno” di Satana, che è opposto al “regno” di Dio, è indicato esplicitamente come una casa e una città. “Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in parti contrarie, quel regno non può” (Mc 3:23-25 RSV). “Ma nessuno può addentrarsi nella casa di un uomo forte e rubare i suoi averi...” (Mc 3:27). “Ogni regno diviso contro se stesso va in rovina, e ogni casa o città divisa contro se stessa non potrà reggere (Mt 12:25 RSV). La figura più comune nelle parabole è il padrone di casa, che compare in sette parabole diverse.82 E in non meno di sei parabole, ciò che avviene nella casa è un pasto di festa.83 C’è anche un parallelismo tra il “regno” e il tempio.84 Il tempio che Gesù costruirà in tre giorni (cioè presto) non è un tempio costruito da mani umane (Mc 14:58), è una nuova comunità. La scoperta dei Rotoli del Mar Morto ha rivelato che la comunità di Qumran si considerava un nuovo tempio, una nuova casa di Dio.85 Questo deve essere sicuramente anche il significato della promessa profetica di Gesù di costruire un nuovo tempio. Il fatto che il suo modo di parlare del “regno” sia basato su una immagine figurativa di una casa, una città o una comunità non lascia dubbio su ciò che egli ebbe in mente: una società di persone, con una struttura politica, qui sulla terra. Un “regno” è un concetto assolutamente politico. È una società in cui la struttura politica è monarchica, ossia è capeggiata e governata da un re. Nulla di ciò che Gesù disse porterebbe a pensare che egli possa aver usato questo termine in un senso non politico. Il testo spesso citato “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18:36) non significa che il “regno” non sia, o non sarà, in questo mondo o su questa terra. La frase è di Giovanni e deve essere interpretata nei termini dell’uso che Giovanni fa delle parole. In Giovanni 17:11 14-16, quando si dice che Gesù e i suoi discepoli sono nel mondo ma non del mondo, il significato è abbastanza chiaro. Anche se vivono nel mondo non sono mondani, non condividono gli attuali valori e modelli del mondo. Se, nello stesso vangelo, si dice anche che il “regno” non è di questo mondo, dobbiamo interpretare questa espressione nello stesso modo. I valori del “regno” sono diversi dai – ed opposti ai – valori di questo mondo. Non c’è motivo di pensare che significhi che il “regno” fluttuerà nell’aria da qualche parte sopra la Terra, o che esso sarà una entità astratta priva di una tangibile struttura sociale e politica. Il fatto che esso sia definito il “regno” di Dio non lo rende assolutamente meno politico; l’espressione lo oppone semplicemente al “regno” umano o, ancora meglio, al “regno” di Satana. Per come Gesù la vedeva, Satana governava il mondo. Era una generazione perversa e peccatrice (Mc 8:38 parr; 9:19 parr; Mt 12:39— 45 par; 23:33-36 e si confronti con Atti 2:40), un mondo nel quale il male regnava supremo. Questo era evidente non solo nelle sofferenze dei poveri e degli oppressi e nel potere che gli spiriti maligni avevano su di essi; era evidente anche nell’ipocrisia, nella crudeltà e nella cecità dei capi religiosi (gli scribi e i Farisei) e nell’avarizia spietata e nell’oppressione delle classi dominanti. Questo non valeva soltanto per la società nella quale Gesù viveva; accadeva in tutti i regni del mondo, tutti gli stati e le potenze. Essi erano tutti nelle mani di Satana, che li cedette agli uomini perché li governassero, ammesso che adorassero Satana e gli obbedissero (Mt 4:8-10 81
S. Aalen, “‘Reign’ and ‘House’ in the Kingdom of God in the Gospels” in New Testament Studies (1962), 215-240; Gaston, pp. 231— 237. Per l’idea della basileia come regno o potere regnante si veda il capitolo 10, più avanti.
82
Lc 11:5-8; 12:42-46 par; 16:1-8; 17:7-10; Mt 20:1-15; 21:2831; 25:14-30.
83
Lc 11:15-32; 12:36-38; 14:7-10; Mt 22:1-10 par; 22:11-13; 25:1-12.
84
E. Lohmeyer, Kultus und Evangelium, Gottingen, 1942, pp. 7273.
85
Q Flor 1:1-13; IQS 5:5-7; 8:1-10; 9:3-6.
par). Essi adoravano Satana governando in modo da servire gli obiettivi del male. Satana è uno spirito che regna in modo indiretto e invisibile. Cesare, Erode, Caifa, i sommi sacerdoti, gli anziani, gli scribi e i capi dei Farisei furono i burattini di Satana. Gesù condannò tutte le strutture politiche e sociali del mondo dei suoi giorni. Erano tutte maligne. Appartenevano tutte a Satana. Quando il “regno” di Dio verrà, Dio sostituirà Satana. Dio governerà sull’intera comunità del genere umano, e conferirà il “regno, o il potere di governo,86 a coloro che serviranno gli obiettivi di Dio nella società. Tutto il male sarà eliminato e tutti gli uomini saranno colmati dello Spirito di Dio. La differenza è tra una comunità di uomini nella quale il male regna supremo ed una comunità di uomini nella quale il bene regna supremo. È una questione di potere e di strutture di potere. Oggi possono esserci molte persone buone al mondo, ma il male prevale ancora, Satana è ancora al potere. Gesù considerò la propria attività liberatrice come una sorta di lotta di potere contro Satana, una guerra contro il potere del male in tutte le sue sembianze e forme. La sua attività guaritrice fu una sorta di furto nella casa o “regno” di Satana (Mc 3:27 parr). Questo fu possibile perché era all’opera qualcosa più forte di Satana. In ultima analisi, il bene è più potente del male. Gesù era convinto che il “regno” di Dio, alla fine, avrebbe trionfato sul “regno” di Satana e sostituito quel “regno” qui sulla terra. Che dire, allora, della profezia formulata da Giovanni e Gesù su una catastrofe senza precedenti? Gesù si aspettava che il “regno” di Dio giungesse dopo la grande catastrofe o invece della catastrofe, come come alternativa incoraggiante? Dobbiamo capire di più su quel che questo “regno” comporta prima di poter azzardare una risposta a questa domanda. Il nocciolo della questione è il significato concreto e pratico del bene e del male. La misura dell’intuizione di Gesù è la misura della sua interpretazione delle strutture del male nella società e della sua interpretazione dei valori che avrebbero strutturato il “regno” di Dio. In che modo i valori del “regno” di Dio differiscono da quelli del “regno” di Satana?
86
Si veda capitolo 10, p. 83.
Capitolo 7 Il “Regno” e il Denaro La ricerca della ricchezza è diametralmente opposta alla ricerca di Dio o del “regno” di Dio. Mammona e Dio sono come due padroni. Se ami e servi l’uno devi necessariamente rifiutare l’altro (Mt 6:24 par; si confronti con Mc 4:19 parr). Il compromesso non è possibile. I detti di Gesù sul denaro e sugli averi sono spesso considerati tra i più “duri” nei vangeli. La maggior parte dei Cristiani tende a stemperarli. L’affermazione più sorprendente sul “regno” di Dio non è che fosse vicino, ma che esso sarebbe stato il “regno” dei poveri, e che i ricchi, finché restano ricchi, non avrebbero preso parte ad esso (Lc 6:20-26). È impossibile per un uomo ricco entrate nel “regno” quanto lo sarebbe per un cammello (o è una corda da pescatore?) 87 essere infilato nella cruna di un ago (Mc 10:25 parr). Marco ci dice che perfino i discepoli di Gesù furono stupiti da questo (10:24, 26). Che tipo di “regno” sarà? “In quel caso – si dissero – chi può essere salvato?”. Gesù li osservò. “Per gli uomini – disse – è impossibile, ma non per Dio: perché ogni cosa è possibile per Dio” (Mc 10:26-27). In altre parole ci sarebbe voluto un miracolo per far entrare i ricchi nel “regno” di Dio. E il miracolo non sarebbe stato farli entrare con tutta la loro ricchezza: sarebbe stato farli rinunciare a tutta la loro ricchezza così che avessero potuto entrare in un “regno” dei poveri. Questo è quel che fu chiesto al giovane ricco di fare nella storia del vangelo (Mc 10:17-22 parr). Però, poiché aveva troppo poca fede nel “regno” di Dio e si basava eccessivamente sulla sicurezza economica, il miracolo non avvenne. Il potere di Dio non riuscì ad agire in lui per ottenere l’impossibile. Non ci sarà posto nel “regno” di Dio per i ricchi. Là non ci saranno ricompense e consolazioni per loro (Lc 6:24-26). Nella parabola del ricco e del mendicante Lazzaro non viene fornita alcuna altra ragione per cui il ricco debba essere escluso in modo così drammatico da tutte le ricompense, se non che egli era ricco e non condivise la sua ricchezza con il mendicante (Lc 16:19-31). Questo è anche tutto ciò su cui il ricco vuole ammonire i suoi fratelli. Ma chi ci crederebbe? Ne consegue che impostare il proprio cuore sul “regno” di Dio e aderire ai suoi valori comporta la vendita di tutti i propri averi (Mt 6:19-21; Lc 12:33-34; 14:33). Gesù si aspettava che i suoi seguaci abbandonassero ogni cosa: la casa, la famiglia, le terre, le barche e le reti (Mc 1:18, 20 par; 10:28-30 parr; Lc 5:11). Egli li avverte dei bisogno di sedersi e, per prima cosa, calcolare la spesa (Lc 14:28-33). Qui viene richiesto qualcosa di più del fare delle elemosine. Gesù chiede una condivisione totale e generale di tutti gli averi. Egli cercò di educare gli uomini ad un distacco e ad una spensieratezza in riferimento al denaro e agli averi. Essi non dovevano preoccuparsi di quello che avrebbero mangiato o cosa avrebbero indossato (Mt 6:25-33 par). “A chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l'altra; e a chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi ti toglie il tuo, non glielo ridomandare... Prestate senza sperarne nulla” (Lc 6:29-30, 35). “Quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare” (Lc 14:13-14). Ma il migliore esempio dei tentativi fatti da Gesù di educare gli uomini a condividere quello che avevano fu il miracolo dei pani e dei pesci (Mc 6:35-44 parr). La Chiesa delle origini e tutti gli evangelisti hanno interpretato questo episodio come un miracolo di moltiplicazione, anche se nessuno di essi lo dice mai in modo esplicito. Il modo usuale di attirare l’attenzione su un miracolo è dire che gli uomini furono sbalorditi, stupiti o esterrefatti. In questo caso non ci viene detto che qualcuno rimase sbalordito, stupito o esterrefatto: ci viene detto che i discepoli non capirono (Mc 6:52; 8:17-18, 87
Ma si veda Joachim Jeremias, The Parables of Jesus, p. 195.
21).88 L’evento ha un significato più profondo. Ma il fatto in sé non fu un miracolo di moltiplicazione: fu un non comune esempio di condivisione. Gesù predicava ad una grande folla in un luogo isolato. Era il momento di fermarsi un attimo per mangiare. Qualcuno sicuramente aveva portato del cibo, altri no. Egli e i suoi discepoli avevano cinque pagnotte e due pesci, ma suggerirono di dire agli uomini di andare a “comprarsi qualcosa da mangiare”. Gesù dice: “No, date loro voi stessi qualcosa da mangiare”. Essi protestano, ma lui dice agli uomini di sedersi in gruppi di cinquanta e prendere il pane e i pesci. Dice ai suoi discepoli di “condividerli”. Ora, o Gesù disse agli altri che avevano portato del cibo di fare la stessa cosa nel loro gruppo di cinquanta oppure essi, vedendo Gesù e i suoi discepoli condividere il loro cibo, iniziarono di propria iniziativa ad aprire i propri cestini e condividerne il contenuto. Il “miracolo” fu che così tante persone avessero improvvisamente smesso di essere possessive riguardo al loro cibo e avessero iniziato a condividere, solo per scoprire che c’era più che a sufficienza per sostentarsi. Ci viene detto che ci furono dodici ceste di avanzi. Le cose tendono a “moltiplicarsi” quando sono condivise. La prima comunità cristiana di Gerusalemme fece la stessa scoperta quando i suoi membri cercarono di condividere i loro averi. Luca può averci dato un’immagine in qualche modo idealizzata di questa comunità. Tuttavia, anche questa sarebbe stata un’ottima testimonianza del modo in i primi Cristiani interpretarono le intenzioni di Gesù. “Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno... prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore” (Atti 2:44-46*). Questo non significa che vendessero proprio tutto quello che possedevano. Essi devono aver tenuto almeno i loro abiti, i letti, gli utensili per cucinare, le abitazioni e i mobili. Il punto era che “Non vi era chi dicesse [o dichiarasse] sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era in comune tra di loro” (Atti 4:32*). Cosa vendettero, allora? “Tutti quelli che possedevano poderi o case li vendevano, portavano l’importo delle cose vendute, e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno” (Atti 4:34-35). È ovvio che essi non vendettero le case nelle quali vivevano. Non vivessero tutti sotto un solo tetto. Ci viene detto che si incontravano nella casa di uno o dell’altro (Atti 2:46). Ciò che essi vendettero devono essere state le case che avevano affittato ad altri. In altre parole vendettero le loro proprietà immobiliari, il loro capitale o gli investimenti. Questi erano i loro averi, il sovrappiù, l’eccedenza della quale non avevano veramente bisogno. Abbiamo un altro esempio di questo nel vangelo di Luca. Quando Zaccheo si converte cede metà di quello che possiede e inizia a ripagare il quadruplo della somma a coloro che egli ha truffato (19:8). Questo è quel che significa vendere tutti i propri beni: rinunciare al sovrappiù e non considerare nulla di propria esclusiva proprietà. Il risultato sarà sempre che “Non c’era nessun bisognoso tra di loro” (Atti 4:34). Gesù non idealizzò la povertà. Al contrario, si preoccupò di accertarsi che nessuno fosse bisognoso, e fu a questo scopo che combatté la possessività e incoraggiò gli uomini a disinteressarsi della ricchezza e a condividere i loro beni. Ma questo è possibile solo in una comunità. Gesù osò sperare in un “regno” o comunità mondiale che sarebbe stato strutturato in modo tale che non ci sarebbero stati né poveri né ricchi. Ancora una volta, qui la sua motivazione fu la sconfinata compassione per i poveri e gli oppressi. Quando chiede al giovane ricco di vendere ogni cosa non lo fa per qualche rigoroso ed astratto principio etico. Lo fa per la sua compassione per i poveri. Questo spicca in modo molto chiaro nella versione della stessa storia che ci viene trasmessa nel Vangelo degli Ebrei. Dopo la prima parte della storia, che ci è familiare, l'autore continua: Ma il ricco iniziò a grattarsi la testa, e la cosa non gli piacque. E il Signore gli disse: “Come puoi dire: «Ho rispettato la legge e i profeti»? 88
Charles H. Dodd, The Founder of Christianity, p. 132.
Perché è scritto nella legge: «Amerai il tuo prossimo come te stesso», ed ecco, molti dei tuoi fratelli, figli di Abramo, sono vestiti di sudiciume, muoiono di fame, e la tua casa è piena di molte belle cose, e nulla di esse va a loro”.89 Secondo J. Jeremias questo detto di Gesù rivendica la storicità quanto i detti medi nei quattro vangeli.90 Ne consegue che una società strutturata in modo tale che alcuni soffrano per la loro povertà e altri hanno più di ciò di cui hanno bisogno fa parte del “regno” di Satana. Quello che Gesù insegnò del tipo di “virtù” che non prende seriamente questo atteggiamento nei confronti del denaro e tenta di scendere ad un compromesso tra Dio e Mammona può essere letto come seguito dell’affermazione fatta su Dio e Mammona in Luca: I farisei, che amavano il denaro, udivano tutte queste cose e si beffavano di lui. Ed egli disse loro: “Voi vi proclamate giusti davanti agli uomini; ma Dio conosce i vostri cuori; perché quello che è eccelso tra gli uomini, è abominevole davanti a Dio” (16:14-15).
89
Origene, In Matthaeum 15:14; Jeremias, Unknown Sayings of Jesus, p. 34.
90
Jeremias, p. 33.
Capitolo 8 “Il Regno e il Prestigio” Nella società in cui Gesù visse il denaro era il secondo più importante valore. Il valore dominante era il prestigio. “Nel mondo orientale, fino ad oggi, il prestigio è più importante di ogni altro fattore, e gli uomini preferiscono suicidarsi piuttosto che rinunciarvi”.91 La società era strutturata in modo tale che ognuno occupava una posizione sulla scala sociale. Nulla veniva detto o fatto senza prendere in considerazione lo status o il rango della persona interessata. Un insulto da una persona superiore era accettato, addirittura atteso! Un insulto da un pari sarebbe stato così umiliante da rendere la vita impossibile. Un insulto da un inferiore, semplicemente, non sarebbe stato tollerato. Un costante riconoscimento dello status era essenziale. Le persone vivevano dell’onore e del rispetto che gli altri davano loro. Lo status e il prestigio erano basati sulla discendenza, la ricchezza, l’autorità, l’istruzione e la virtù. Essi erano simboleggiati e mantenuti dal modo di vestire e in cui ci si rivolgeva alle persone, dalle persone socialmente frequentate e che invitavano altri alla propria tavola, e vicino alle quali si era messi ad un banchetto o quando si sedeva nella sinagoga. Lo status era parte tanto della religione quanto lo era della vita sociale. Anche i più rigorosi e fanatici degli ebrei pii, gli uomini di Qumra, si basavano sul loro status e rango entro la loro comunità religiosa. I Rotoli del Mar Morto abbondano di riferimenti all’importanza del conoscere il proprio posto nella gerarchia – dettagliata in modo preciso – della comunità.92 I diritti e i privilegi erano ripartiti secondo il rango, e le persone che non avevano alcuno status nella società – i matti, i nevrotici, i ciechi, gli storpi, i sordi, i mutilati e i minori – erano completamente esclusi.93 La vita, in questa comunità, era basata esplicitamente con la regola secondo la quale “un uomo sarà onorato più di un altro... se questo [il suo status e la sua virtù] è grande o piccolo”.94 Gesù contraddisse completamente tutto questo. Lo considerò una delle strutture fondamentali del male nel mondo, e osò sperare in un “regno” nel quale queste distinzioni non avrebbero avuto nessun significato. “Beati voi, quando gli uomini vi odieranno, e quando vi scacceranno da loro, e vi insulteranno e metteranno al bando il vostro nome come malvagio...” ( Lc 6:22*). “Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi...” ( Lc 6:26*). La critica rivolta da Gesù agli scribi e ai Farisei non fu in primo luogo una critica del loro insegnamento, ma una critica della loro pratica (Mt 23:1-3) — in pratica essi vivevano per il prestigio e l’ammirazione loro tributate dagli altri. “Tutte le loro opere le fanno per essere osservati dagli uomini; infatti allargano le loro filatterie e allungano le frange dei mantelli; amano i primi posti nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti nelle piazze ed essere chiamati dalla gente: «Rabbì!»” (Mt 23:5-7; si confronti con Mc 12:38-40 par; Lc 11:43; 14:7-11). Lo stesso si può dire delle loro pratiche religiose dell’elemosina, della preghiera e del digiuno. Queste cose vengono fatte in modo ostentato, “per ottenere l’ammirazione degli uomini” (Mt 6:1-6; 16-18). Per Gesù questa non è assolutamente virtù, è ipocrisia (Mt 6:2, 5, 16). Gli scribi e i Farisei sono come sepolcri imbiancati, essi lavano solo l’esterno della coppa e del piatto, sembrano uomini buoni e onesti ma dentro sono pieni di ipocrisia (Mt 23:27-28). Essi, esternamente, rispettano la legge, ma il motivo che li 91
92
J. Duncan M. Derrett, Law in the New Testament, p. 40; si vedano anche pp. 42, 73. IQS 2:19-25; 5:23-24; 6:8-13; lQSa 1:16, 23; 2:11-16; 1QM 2:1-14. Per adeguati riferimenti si veda Geza Vermes, Dead Sea Scrolls, pp. 74, 80, 81, 119, 120, 121, 125 e il suo commento a pag. 28.
93
IQS 15:15; lQSa 2:4-10 o si veda Vermes, pp. 109, 120.
94
lQSa 1:16 o Vermes, p. 119.
anima è il prestigio (si veda anche Lc 18:9-14). 95 Gli ipocriti, come i ricchi, hanno già avuto la loro ricompensa: l’ammirazione degli uomini (si confronti Mt 6:1-6, 16-18 con Lc 6:20-26). Non ci sarà posto per loro nel “regno” (Mt 5:20). Infatti chi si preoccupa del prestigio o della “grandezza” non è in sintonia con i valori del “regno” così come fu immaginato da Gesù. I discepoli vennero da Gesù e dissero: “«Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?». Ed egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli»” (Mt 18:1-4). Il bambino è una parabola vivente della “piccolezza”, il contrario della grandezza, dello status e del prestigio. I bambini, in quella società, non avevano affatto uno status – non contavano alcunché. Ma per Gesù anche loro sono persone e contano. Per quel motivò è indignato quando i suoi discepoli scacciano i bambini. Egli li chiama a sé, li abbraccia e li benedice imponendo le sue mani sulle loro teste. “Perché – dice – il regno di Dio è per chi assomiglia a loro” (Mc 10:14). Sarà un “regno” di “bambini”, o meglio di coloro che sono come bambini, perché nella società sono insignificanti; non hanno uno status e il prestigio. Non vi è alcuna prova a sostegno della popolare opinione che l’immagine del bambino piccolo sia un’immagine di innocenza, specialmente quando questo, in pratica, equivale, in pratica, all’immaturità o irresponsabilità. Gesù era decisamente consapevole dell’immatura ed irresponsabile perversione dei bimbi a volte, e usa proprio questa caratteristica in una parabola nella quale sono i Farisei ad essere paragonati ai bambini – la parabola dei bambini nel mercato, che rifiutano di giocare sia al gioco allegro dei matrimoni o al gioco triste dei funerali (Mt 11:16-17 par). Ma il bimbo piccolo che è un’immagine del “regno” è un simbolo di quanti occupano i posti più bassi nella società, i poveri e gli oppressi, i mendicanti, le prostitute e gli esattori delle tasse — le persone che Gesù definì spesso i piccoli o gli ultimi.96 La preoccupazione di Gesù fu che questi piccoli non fossero disprezzati o trattati come inferiori. “Guardatevi dal disprezzare uno di questi piccoli” (Mt 18:10). Egli ben conosceva i loro sentimenti di vergogna ed inferiorità, e per la sua compassione essi avevano, ai suoi occhi, un valore straordinariamente grande.97 Per quanto lo riguardava, essi non avevano nulla da temere. Il “regno” apparteneva a loro. “Non temere, piccolo gregge; perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il regno” (Lc 12:32).98 Gli ultimi nel “regno”, ossia i piccoli,99 sono più grandi del più grande uomo nato da donna, Giovanni il Battista (Mt 11:11 par), che è un modo paradossale di dire che perfino il prestigio di Giovanni il Battista, di per sé, non è un valore. Quel che è ancora più straordinario è il contrasto che Gesù fa tra i “bimbi” e i saggi o gli intelligenti (Mt 11:25 par). Gli scribi godevano di un immenso onore e prestigio in quella società a causa della loro istruzione e cultura. Tutti si rivolgevano ad essi per la loro saggezza ed intelligenza. I “bimbi” o “infanti” erano l’immagine che Gesù usava per i non istruiti e gli ignoranti.100 95
La Chiesa delle origini indubbiamente esagerò l’opposizione di Gesù ai Farisei a causa del suo conflitto con essi. Questo è riflesso nei vangeli, specialmente in Matteo. Tuttavia l’indignazione di Gesù per l’ipocrisia come tale difficilmente può essere stata inventata dalla Chiesa delle origini.
96
La dotta e imparziale monografia di S. Legasse ora l’ha determinato senza alcun possibile dubbio —Jesus et L'Enfant.
97 98
99
Legasse, p. 106. Legasse (p. 118) ha dimostrato che il “piccolo gregge” indicava in origine i poveri o le classi inferiori. Il fatto che i primi cristiani ritenessero di essere i piccoli (ad es. Mt 10:42), esattamente come ritenevano di essere i poveri in spirito (Mt 5:3), conferma il fatto che Gesù deve aver detto che il “regno” appartiene solo ai poveri, agli oppressi e a coloro che si identificano con i poveri e gli oppressi – i piccoli. Legasse, p. 118.
Egli, perciò, disse che la verità a proposito del “regno” è stata rivelata ai non istruiti e agli ignoranti – e da loro compresa – invece che ai colti e ai saggi. Per questo Gesù ringrazia Dio. Questo, però, non significa che solo quelli che appartenevano ad una categoria specifica nella società sarebbero stati accolti nel “regno”. Chiunque può entrare se è disponibile a cambiare e a diventare come questi piccoli (Mt 18:3), a farsi piccolo come un bambino piccolo (Mt 18:4). O, come lo esprime Marco nello stesso contesto, “sarà l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (9:35). Questo, concretamente, significa che è necessario abbandonare ogni preoccupazione per ogni sorta di status e prestigio così come ogni interesse nei confronti del denaro e degli averi. E proprio come si doveva essere disposti a vendere tutti i propri beni, così si doveva essere disposti ad occupare l’ultimo posto nella società – di più, si doveva essere disposti ad essere i servi di tutti. Quello che Gesù nutriva per i poveri e gli oppressi non era un amore esclusivo, era un’indicazione del fatto che ciò che egli valorizzava era l’umanità, non lo status e il prestigio. I poveri non avevano nulla da offrire tranne la loro umanità e le loro sofferenze. Gesù si preoccupava anche della classe media e di quella superiore – non perché fossero composte da persone particolarmente importanti, ma perché anch’essi erano persone. Egli volle che essi si spogliassero dei loro falsi valori, della loro ricchezza e del prestigio, per diventare persone vere. Gesù volle sostituire il valore “terreno” del prestigio con il valore “divino” delle persone in quanto persone. Un’ulteriore indicazione del modo in cui Gesù dava valore alle persone in quanto persone fu il suo atteggiamento nei confronti delle donne. Nella società del suo tempo, “essere nata femmina era uno svantaggio, il segno, forse, che le preghiere di una madre in attesa o di un padre non avevano ricevuto una risposta”.101 Le donne, come i bambini, non contavano niente. Non potevano diventare discepoli di uno scriba o membri dei “partiti” dei Sadducei, Farisei, Esseni o Zeloti. Il ruolo della donna era limitato al sesso e alla maternità. Gesù si distinse rispetto ai suoi contemporanei (e rispetto alla maggior parte dei suoi successivi seguaci) in quanto attribuì alle donne esattamente lo stesso valore e la stessa dignità proprie degli uomini. Egli mostrò per la vedova di Nain, per la suocera di Simone, per la donna colpita da emorragia e la donna cananea la stessa preoccupazione che evidenziò verso qualsiasi altro bisognoso. Egli annoverava delle donne tra i suoi amici e i suoi seguaci (Mc 15:40-41 parr; Lc 7:36-50; 8:2-3; Gv 11:5; 20:11-18). Esse erano le sue sorelle e le sue madri (Mc 3:3435 parr). Per quanto lo riguardava, Maria di Betania aveva scelto la parte migliore quando sedette ai suoi piedi come discepola, invece di lasciare tale ruolo agli uomini e aiutare Marta in cucina (Lc 10:38-42). Gesù non si fece scrupoli a frequentare le prostitute (Lc 7:36-50 e si confronti Mt 11:19 con 21:31, 32) o le donne non accompagnate (Jn 4:7-27; 8:10-11). Le persone erano persone, e questo è ciò che importava. “Chi si umilia sarà esaltato” non è una promessa di prestigio futuro a coloro che ora non hanno un prestigio, o a quanti hanno smesso completamente di basarsi sul prestigio. È la promessa che essi non saranno più trattati da inferiori, ma riceveranno un pieno riconoscimento come esseri umani. Esattamente come ai poveri non è promessa la ricchezza, ma la completa soddisfazione dei loro bisogni – nessuno sarà bisognoso; così ai piccoli non è promesso lo status ed il prestigio, ma il pieno riconoscimento della loro dignità di esseri umani. Per ottenere questo sarebbe stata richiesta una ristrutturazione radicale della società. Il “regno” di Dio, perciò, sarà una società nella quale non ci sarà alcun prestigio o status, nessuna divisione degli uomini in inferiori e superiori. Ogni individuo sarà amato e rispettato, non per la sua istruzione, ricchezza, discendenza, autorità, rango, virtù o altri risultati, ma perché, come chiunque altro, è una persona. Per alcuni sarà molto difficile immaginare come sarà quella vita, ma per i “bambini”, che 100
101
Se la parola aramaica alla base di questo concetto è sabra, allora è possibile che il significato sia “gli stupidi o ritardati”! Si veda Legasse, p. 185. Derrett, Jesus’s Audience, p. 31.
non hanno mai avuto alcun privilegio di status, e per quelli che ad esso non hanno mai dato importanza, sarà molto facile apprezzare la pienezza che la vita, in questo tipo di società, porterà. Quelli che non possono sopportare che dei mendicanti, ex prostitute, servi, donne e figli siano trattati come eguali, che non possono vivere senza sentirsi superiori almeno ad alcune persone, semplicemente non si sentiranno a casa nel “regno” di Dio, così come Gesù lo interpretò. Vorranno spontaneamente escludersi da esso.
Capitolo 9 Il “Regno” e la Solidarietà La solidarietà non è una parola biblica, ma esprime meglio di ogni altra parola che io conosca uno dei concetti più fondamentali nella Bibbia – il concetto indicato dagli studiosi come la nozione ebraica di collettività. Una famiglia, tribù o nazione è pensata come una sorta di persona collettiva, a volte identificata con il re, che parla ed agisce a nome del gruppo, ed è a volte identificata con l’antenato comune del quale il gruppo stesso è il discendente. La differenza tra il “regno” di Satana e il “regno” di Dio (tra il bene e il male, come lo interpretò Gesù) non può essere compresa senza prendere in considerazione questo concetto di solidarietà, non soltanto perché i due “regni” possono essere considerati due persone collettive, ma perché essi rappresentano due atteggiamenti fondamentalmente diversi alla solidarietà di gruppo. Derrett ha dimostrato che, dopo il prestigio e il denaro, l’interesse fondamentale della società nella quale Gesù viveva fu la solidarietà do gruppo.102 Gli Ebrei, fino ad oggi, hanno manifestato un notevole senso della solidarietà. Sappiamo che essi facevano gruppo e si aiutavano vicendevolmente, specialmente in un momento di crisi. Ma, almeno al tempo di Gesù, non era solo la solidarietà nazionale ad importare, o la solidarietà dell’Ebraismo contro il mondo dei Gentili. Concretamente, essi erano preoccupati delle solidarietà di gruppo molto di più all’interno della nazione. L’unità fondamentale che viveva insieme come un essere corporativo era la famiglia – la famiglia estesa, che comprendeva tutti i parenti. I legami di sangue (la propria carne e il proprio sangue) e di matrimonio (una sola carne) erano di certo considerati seriamente. Non solo tutti i membri della famiglia erano considerati fratelli, sorelle, madri e padri l’uno per l’altro, ma si identificavano l’uno nell’altro. Il male fatto ad un membro della famiglia era sentito da tutti. La vergogna di uno condizionava tutti. Chiunque poteva dire ad un estraneo: “Quello che fai all’ultimo dei miei fratelli lo fai a me”, o “Quando accogli uno dei miei parenti accogli me”. Al proprio parente si poteva dire: “Chi accoglie te accoglie me, chi si vergogna di te si vergogna di me”. Non che dirlo fosse necessario. Era dato per scontato. Secondo lo stesso principio, se un parente era stato insultato o assassinato, ci si sentiva obbligati a vendicare l’offesa. La vendetta o faida esisteva ancora ai tempi di Gesù, sebbene in forma mitigata.103 Il principio “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5:39) era ancora valido in quei giorni. Noi associamo questo tipo di cosa alla Mafia, e lo riteniamo molto difficile da capire. Ma spesso la sola cosa che ci impedisce di provare la solidarietà in questo particolare modo è il nostro individualismo occidentale. Al tempo di Gesù non era solo la famiglia allargata a vivere insieme come un’unica entità collettiva. La solidarietà si viveva anche con i propri amici, i collaboratori e i commercianti, il proprio gruppo sociale e all’interno dei confini di una “setta” elitaria come quella dei Farisei o degli Esseni. “L’individualismo – come puntualizza Derrett – era sconosciuto, tranne che nel mondo della preghiera”.104 Per tutto il nostro individualismo occidentale, e per nostra meraviglia dovuta all’estensione a cui altri portano questa solidarietà di gruppo, noi manteniamo ancora, consapevolmente o meno, una grande lealtà di gruppo e di pregiudizio di gruppo. Essa varia da persona a persona, ma nel mondo occidentale ci sono ancora tantissime persone che basano la propria identità sulla lealtà e sul pregiudizio di razza, nazionalità, lingua, cultura, classe, discendenza, famiglia, generazione, partito politico e denominazione religiosa. L’amore e la lealtà sono esclusivi come sono sempre stati. Il 102
J. Duncan M. Derrett, Jesus’ Audience, pp. 39-52.
103
Derrett, p. 39.
104
Derrett, p. 39.
punto è che il “regno” di Satana differisce dal “regno” di Dio non perché essi siano due forme diverse di solidarietà di gruppo, ma perché il “regno” di Satana è basato sulla solidarietà esclusiva ed egoistica dei gruppi, mentre il “regno” di Dio è basato sulla solidarietà onnicomprensiva della razza umana. “Voi avete udito che fu detto: «Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico». Ma io vi dico: «Amate i vostri nemici»” (Mt 5:43- 44). Niente avrebbe potuto essere più radicale e rivoluzionario di questo. L’odio per il proprio nemico è esplicitamente ordinato nei Rotoli del Mar Morto105 e Libro dei Giubilei,106 che non fa parte della Bibbia. Nell’Antico Testamento, sebbene non vi sia un testo esplicito che lo ordina, il comando di amare il proprio prossimo è sempre interpretato ad esclusione del proprio nemico. Il prossimo non è mai immaginato come un qualsiasi altro essere umano. Il prossimo è il parente, la persona vicina, un membro del proprio gruppo. “Non andrai qua e là facendo il diffamatore in mezzo al tuo popolo... Non odierai tuo fratello nel tuo cuore... Non ti vendicherai... contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lev. 19:16-18). Nell’Antico testamento amare il proprio prossimo come se stesso è vivere la solidarietà di gruppo. Solo il proprio consanguineo deve essere trattato come un altro “sé”. Considerare alcuni come sorelle e fratelli comporta sempre l’odio verso gli altri. Gesù ampliò il concetto di prossimo facendo annoverare in esso i propri nemici. Egli non avrebbe potuto trovare un modo più efficace per sconvolgere i suoi ascoltatori, facendo capire loro che egli voleva includere tutti gli uomini in questa solidarietà d’amore. Il detto è paradossale in un modo quasi insopportabile: la contraddizione naturale tra il prossimo e il nemico, tra gli estranei e i membri, deve essere ignorata e superata, in modo che i nemici diventino parenti e tutti gli estranei divengano membri! Gesù non esita a spiegare le quasi inconcepibili conseguenze: “Fate del bene a quelli che vi odiano; benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano” (Lc 6:27-28). “Se amate quelli che vi amano, quale grazia ve ne viene? Anche i peccatori amano quelli che li amano” (Lc 6:32). La solidarietà di gruppo (amare quelli che vi amano) non è una virtù. Essa è più forte tra i ladri. Gesù fa appello ad una esperienza di solidarietà con il genere umano, un’esperienza che è non esclusiva, un’esperienza che non dipende dalla reciprocità perché include anche quelli che vi odiano, vi perseguitano o vi trattano male. Non è uguale ad essere sorelle e fratelli in Cristo: l’ideale di amarsi l’un l’altro a cui è data tanta importanza nel vangelo e nelle lettere di Giovanni o il concetto paolino della Chiesa come corpo di Cristo. Essere in Cristo è l’amore reciproco o vicendevole di coloro che condividono l’esperienza del vivere in solidarietà con tutta l’umanità e, quindi, l’uno con l’altro (1 Tess. 3:12). Gesù fece innanzitutto appello ad una solidarietà amorevole che non avrebbe escluso proprio nessuno. La solidarietà con l’umanità è l’atteggiamento fondamentale. Esso deve avere la precedenza su ogni altro tipo di amore e ogni altro genere di solidarietà. “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo” 107 (Lc 14:26). I commentatori evidenziano sempre che per la povertà delle lingue ebraica ed aramaica la parola “odio” viene usata per esprimere tutti gli atteggiamenti diversi dall’amore. Quindi può significare odiare, essere indifferenti a, distaccati da, o non preferire qualcuno. In questo contesto, ci viene detto, Gesù chiede il distacco: non dare la preferenza alla propria famiglia e ai propri 105
106 107
IQS 1:9—10; 2:1-9; 9:16, 22; si confronti anche con 4:5; 7:1. Per un agevole riferimento si veda Geza Vermes, pp. 72, 73, 88; si confronti anche con 76, 103. 31:29. m. Venire a Gesù o seguirlo è accompagnarlo nel “regno”. Diventare un discepolo è un modo alternativo di parlare dell’ingresso nel “regno”.
parenti.108 Questo è vero ma non rende giustizia al modo di pensare di Gesù e dei suoi contemporanei. Se amore significa solidarietà, allora odio significa non solidarietà. Quello che Gesù chiede è che la solidarietà di gruppo nei confronti della famiglia sia sostituita da una solidarietà più fondamentale con tutto il genere umano. Ovviamente questo non significa che i propri parenti debbano essere esclusi, come dei nemici! Essi sono inclusi nella nuova solidarietà perché anche loro sono degli esseri umani. E questo non significa nemmeno che li si debba amare meno. È il fondamento dell’amore a cambiare. Queste persone non devono essere amate perché, casualmente, sono familiari e parenti, ma perché anch’essi sono persone. Devono essere amate con un amore inclusivo. Alla fine questo significherà che sono amate ancora di più. Saranno amate, non semplicemente preferite. Tutti gli altri riferimenti alla famiglia nei vangeli confermano questa interpretazione. Il discepoli “lasciarono casa, moglie, fratelli, genitori, o figli per amor del regno di Dio” (Lc 18:29). Non era consentito alla solidarietà per la famiglia di frapporsi sulla via di questa nuova solidarietà che caratterizzava il “regno” (si veda anche Lc 9:59-62). Nel processo di sostituzione della solidarietà artificiale della famiglia con la solidarietà della persona verso la persona, l’unità di molti focolari domestici, sfortunatamente, si romperà: “Voi pensate che io sia venuto a portar pace sulla terra? No, vi dico, ma piuttosto divisione; perché, da ora in avanti, se vi sono cinque persone in una casa, saranno divise tre contro due e due contro tre; saranno divisi il padre contro il figlio e il figlio contro il padre; la madre contro la figlia, la figlia contro la madre; la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera” (Lc 12:51-53; si confronti con Mt 10:34-36). La seconda parte di questo passo è una citazione del profeta Michea, che critica questa rottura della solidarietà familiare come uno dei peccati di Israele nel suo tempo (Mic 7:6). Che Gesù citi questo come un risultato inevitabile della sua missione è una delle indicazioni più chiare di un cambiamento radicale di valori. Una nuova solidarietà universale deve sostituire tutte le vecchie solidarietà di gruppo. Può anche valere la pena notare che la divisione o il dissenso interno alla famiglia è descritto come un salto generazionale. Il messaggio di Gesù non divide il padre dalla madre o il fratello dalla sorella, ma i genitori dai figli. Sembra che egli si aspettasse che la generazione più giovane avrebbe accettato la solidarietà universale e che quella più vecchia l’avrebbe rifiutata. E lo stesso Gesù? Che dire del suo rapporto con la sua famiglia, e con sua madre in particolare? I vangeli non ci lasciano in dubbio sul fatto che il rapporto di Gesù con la maggior parte dei suoi parenti fosse nervoso e teso. 109 Marco ci dice che essi pensavano che fosse fuori di sé e si sentirono obbligati, come richiedeva la solidarietà di gruppo, a prendersi cura di lui (3:21, si confronti con Gv 7:5). Forse sua madre era tra questi parenti. Non ci viene detto. Ma ci viene detto che ella fu tra coloro che andarono a riprenderlo dalla casa nella quale “una folla gli stava seduta intorno” (Mc 3:31-32 parr). Forse, all’epoca, ella non capì ciò che egli aveva in mente, esattamente come Luca dice che ella non capì quello che lui aveva in mente quando, a 12 anni, disse ai suoi genitori che doveva restare nel tempio perché doveva occuparsi delle cose del Padre suo (3:41-50). In seguito, ella arrivò a capire (Gv 19:25-27). Vari altri membri della famiglia, come Giacomo e Giuda, giunsero a credere in lui soltanto dopo la sua resurrezione. 110 Gesù era molto preoccupato che il suo amore verso sua madre (o qualsiasi altro parente) non fosse interpretato come semplice solidarietà biologica o familiare: “Una donna tra la folla disse: «Benedetto il grembo che ti ha portato e le mammelle che tu poppasti!». Ma egli disse: «Beati piuttosto 108 109
110
Cf. Mt 10:37. 8. Vermes, Jesus the Jew, pp. 33-34; David Flusser, Jesus, pp 2024; Adolf Holl, Jesus in Bad Company, pp. 68-70. Cf. Mc 3:12; Gv 7:5 con 1 Cor 9:5; 15:7; Gal 1:19; 2:9; Giuda 1.
quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»” (Lc 11:27-28 RSV). Ogni solidarietà particolarmente stretta e vicendevole tra Gesù e sua madre avrebbe dovuto essere basata sul vivere secondo la volontà di Dio.111 Lo stesso Gesù abbandonò la consueta solidarietà della famiglia per trasformare “coloro che aveva intorno” nei suoi “fratelli, sorelle e madri” (Mc 3:31-35 parr), così che coleui che avesse accolto uno di loro avrebbe accolto lui (Mt 10:40; si confronti con Mc 9:37 parr), e quel che fosse stato fatto all’ultimo tra di essi sarebbe stato fatto a lui (Mt 25:40, 45).112 E tuttavia siamo indotti a chiederci se la solidarietà che Gesù avvertiva in modo così intenso fosse davvero universale. Egli predicò la solidarietà universale (amate i vostri nemici), ma la mise in pratica? L’autore ebreo moderno C. G. Montefiore ha accusato Gesù di non mettere in pratica ciò che predicava, perché egli non amò i suoi nemici: gli scribi e i Farisei.113 Indubbiamente egli sembra essersi schierato con i poveri e gli oppressi in opposizione agli scribi appartenenti alla classe media e ai Farisei. Questo è amare i propri nemici e vivere in solidarietà con tutto il genere umano? Si può argomentare in modo plausibile che la veemenza dell’attacco di Gesù ai Farisei sia stata esagerata dagli autori dei vangeli a causa dell’ostilità tra la Chiesa delle origini ed il partito dei Farisei, ma questo non risponderebbe alla nostra domanda. Gesù amò i Farisei oppure no? Se l’amore è interpretato come solidarietà, allora l’amore non è incompatibile con l’indignazione e l’ira. Al contrario, se una persona è veramente preoccupata per le persone in quanto persone, ed è dolorosamente consapevole delle loro sofferenze, sarà necessariamente indignata e adirata con le persone che fanno soffrire loro stesse e gli altri. Gesù fu arrabbiato, a volte molto arrabbiato, con quelli che rovinavano loro stessi e gli altri, con coloro il cui orgoglio e la cui ipocrisia non avrebbe permesso loro di ascoltare quando li ammonì che si dirigevano alla distruzione e trascinavano tutti con loro. Egli fu adirato con loro per amore di tutti gli uomini, compresi loro stessi. Concretamente, la prova più certa del fatto che Gesù amò tutti gli uomini fu questa stessa indignazione molto pronunciata contro i nemici dell’umanità di tutti, inclusi loro stessi. Se Gesù avesse rifiutato di dibattere, discutere e frequentare i Farisei, allora, e solo in quel caso, lo si sarebbe potuto accusare di escluderli o di trattarli da estranei. I vangeli presentano numerosi esempi delle sue conversazioni e dei suoi pasti insieme a loro, e dei suoi continui tentativi di convincerli. Alla fine furono loro ad escludere lui: in nessuna fase egli li escluse. Questo non significa negare il fatto palese che Gesù si sia schierato con i poveri e i peccatori. La solidarietà di Gesù con tutti gli uomini non fu un atteggiamento vago ed astratto nei confronti del genere umano in generale. Amare tutti gli uomini in generale poteva significare non amare nessuna persona in particolare. In questo libro abbiamo ritenuto necessario ricorrere a concetti generali come “genere umano”, “umanità”, “tutti gli uomini”, “tutti” per assicurarci che la nuova solidarietà non sia interpretata come un nuovo tipo di solidarietà di gruppo. Ma Gesù non fece uso di questi concetti vaghi e indefiniti.114 Egli trattò ogni singola persona che entrò nella sua vita o nei suoi pensieri in modo che nessuno fosse mai escluso e ognuno fosse amato per quello che era e non per la sua discendenza, razza, nazionalità, classe, legami familiari, intelligenza, cose ottenute o qualsiasi altra caratteristica. In questo senso concreto e personale, Gesù amò tutti gli uomini e visse in solidarietà con tutti il genere umano. E per questo stesso 111
Si confronti con 3:35 par. Lo stesso punto è esposto in Giovanni 2:1-10. Secondo Giovanni, il favore che egli fa a sua madre non è basato sulla maternità biologica, non è basato su quello che lei “ha a che fare” con lui.
112
Per l’autenticità e il significato originale di Mt 25:40 45, nonostante la natura secondaria della parabola, si veda Legasse, pp. 88-93; Jeremias, The Parables of Jesus, pp. 208-209.
113
In Rabbinic Literature and Gospel Teaching, pp. 103f.
114
Gunther Bomkamm, Jesus of Nazareth, p. 115.
motivo Gesù si schierò con i poveri e gli oppressi, con quelli che non avevano nulla da offrire tranne la propria umanità, con coloro che erano esclusi dagli altri. La solidarietà con i “nessuno” di questo mondo, gli “scartati”, è l’unico modo concreto di vivere una solidarietà con il genere umano. La prova del nove, però, è se questa solidarietà con i poveri e gli oppressi sia o meno esclusiva. Amare loro ad esclusione degli altri non è che indulgere in un altro tipo di solidarietà di gruppo. Gesù non fece questo. La sua solidarietà particolare ma non esclusiva con queste persone diventa quindi un altro segno della solidarietà con gli uomini in quanto uomini. C’è un ultimo problema. Gesù limitò la propria azione ad Israele e istruì i suoi discepoli a fare lo stesso: “Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10:5-6*). Anche Matteo ci dice che egli esitò ad aiutare una donna cananea, ossia ad operare tra i Gentili. “Sono stato mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele”, le dice (Mt 15:24). A prima vista, ancor più sconvolgente è l’affermazione fatta da Gesù alla stessa donna cananea: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”, che significa dare il cibo di Israele ai Gentili (Mt 15:26 = Mc 7:27). Il nucleo della storia, ovviamente, è che Gesù aiutò questa donna gentile, alla fine, proprio come, alla fine, aiutò il centurione romano. Ma perché ella dovette avere così tanti problemi per convincerlo? E perché gli anziani ebrei dovettero implorarlo e pregarlo di aiutare un centurione romano? (Lc 7:3-5). D’altra parte è ugualmente sicuro che Gesù immaginò un “regno” che avrebbe incluso “innumerevoli” gentili da nord, sud, est e ovest, che avrebbero seduto insieme ad Abramo, Isacco e Giacobbe ad un grande banchetto dal quale molti ebrei si sarebbero autoesclusi (Mt 8:11-12; Lc 13:28— 29; 14:15-24). I Niniviti e la Regina di Saba avrebbero svergognato gli Ebrei (Mt 12:41-42 par). L’ambivalenza dell’atteggiamento di Gesù nei confronti dei Gentili fu uno di quei problemi insolubili sui quali gli studiosi ebbero interminabili discussioni finché Joachim Jeremias pubblicò il suo brillante libretto Jesus’ Promise to the Nations. Egli ha determinato che la speranza ebraica per il futuro non escludeva i Gentili. Alla fine, dopo che tutti i castighi appropriati fossero stati somministrati, il mondo intero, compresi i Gentili, sarebbe giunto sotto il potente governo del vero Dio. Questo fu raffigurato – in special modo dai profeti – come un grande pellegrinaggio dei re gentili a Gerusalemme, giunti a rendere omaggio al regnante definitivo del mondo, Dio Onnipotente. Il mondo era stato governato da una successione di imperi. L’attuale Impero di Roma sarebbe stato sostituito dall’Impero di Israele, che è l’Impero del vero Dio. Ricordando questo gli Ebrei, e specialmente gli scribi e i Farisei, erano già impegnati in un massiccio sforzo missionario. Jeremias ha dimostrato anche che “Gesù entrò in scena a metà di quella che fu l’epoca missionaria per eccellenza della storia ebraica”.115 Ma, per quanto possa sembrare sorprendente, Gesù non apprezzò questo sforzo missionario: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché viaggiate per mare e per terra per fare un proselito [convertito]; e quando lo avete fatto, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi” (Mt 23:15*). Era un caso di “cieco che guida il cieco, e se un cieco ne guida un altro entrambi cadranno in un fosso” (Mt 15:14*). Secondo Gesù, gli ebrei stessi avrebbero dovuto cambiare prima di poter pensare di accingersi a convertire gli altri. Questo è ciò che Gesù si propose di fare ed è per questo motivo che egli ordinò ai suoi discepoli di concentrarsi sullo stesso Israele. Siccome restava pochissimo tempo (il grande disastro era vicino) e siccome Israele aveva avuto secoli di preparativi per questo cambiamento, Gesù fu convinto che Dio volesse che gli Ebrei facessero un grande cambiamento che avrebbe portato la salvezza e la solidarietà a tutti gli uomini. Come si concentrò sulle pecore perdute della casa di Israele per amore di tutti Israele, così si concentrò su Israele per amore di tutti gli uomini. Non fu una questione di solidarietà di gruppo, fu quella che potremmo chiamare una questione di strategia. 115
Joachim Jeremias, Jesus’ Promise to the Nations, p. 12.
Gesù inizialmente aveva pensato che spiegare il “regno” di Dio ai Gentili sarebbe stato un processo lungo e prolisso, e che risvegliare in essi fede sufficiente per effettuare una cura avrebbe richiesto un considerevole quantitativo di tempo. Nel complesso questo, probabilmente, era vero. In ogni caso, Gesù sentì che la sua specifica vocazione era quella di dare cibo prima ad Israele e non privarlo della possibilità di fare il grande cambiamento (al quale Dio lo aveva destinato) trascorrendo il pochissimo tempo rimanente a cercare di convertire i Gentili – dando il cibo a coloro a cui non era destinato in quella fase critica. Da qui l’enorme sorpresa di Gesù quando scoprì una donna cananea che aveva grande fede (Mt 15:28 par) e un centurione romano la cui fede fu più grande di qualsiasi cosa avesse scoperto fino al momento in Israele (Mt 8:10 par). Gesù non se lo era aspettato. Se se lo fosse aspettato non avrebbe esitato ad aiutarli. Tuttavia non poteva aspettarsi una risposta così immediata da ogni gentile. Strategicamente, era più importante, in quel momento, nell’interesse di tutti, concentrarsi sulla casa di Israele. In questo, Gesù aveva certamente ragione anche se, alla fine, il popolo di Israele non rispose nel modo che egli aveva sperato. L’obiettivo, allora come oggi, era un “regno” in cui tutti gli uomini avrebbero vissuto insieme nella solidarietà. In conclusione dobbiamo dire che la base di questa solidarietà o amore è la compassione – quella emozione che nasce dalla pancia alla vista del bisogno di un’altra persona. La parabola del buon samaritano è riportata da Luca (10:29-37) come risposta alla domanda: “Chi è il mio prossimo?”. La risposta non è ‘tutti e nessuno’, per quanto possa essere vero di per sé. La risposta è una parabola che è raccontata in modo da portarci a identificarci, dal punto di vista emotivo, con un uomo che ebbe la sfortuna di finire in mezzo ai ladri. Avvertiamo la sua delusione quando quelli che avrebbero dovuto vivere in solidarietà con lui, un sacerdote e un levita, passano dall’altra parte. Condividiamo il suo sollievo quando un nemico samaritano è spinto dalla compassione a rompere le barriere della solidarietà di gruppo per aiutarlo nel momento del bisogno. 116 Se permettiamo alla parabola di commuoverci, se permettiamo alla parabola di liberare quelle profonde emozioni che ci è stato insegnato a temere, non dovremo più chiedere chi può essere il nostro prossimo o cosa può voler dire amore. Andremo e faremo la stessa cosa, a dispetto di qualsiasi barriera. Solo la compassione può insegnare cosa significa la solidarietà con gli altri essere umani. Di questi è il “regno” di Dio.
116
Eta Linnemann, p. 54.
Capitolo 10 Il “Regno” e il Potere L'ultima differenza tra il “regno” di Dio e il “regno” di Satana riguarda il potere. La società e il potere sono inseparabili. Una società deve avere una struttura, e quella struttura avrà qualcosa a che fare con il potere. Il tema del potere e delle strutture di potere (chi ha potere su chi, e chi può decidere per chi) è quello che oggi chiamiamo politica. Al tempo di Gesù la politica era principalmente una questione di chi sarà re o regina, chi sarà monarca. Il potere politico fu in primo luogo potere reale o “sovranità”. In italiano possiamo distinguere tra “sovranità” e “regno”, perché abbiamo due diversi nomi astratti derivati dal termine “re”. Ma in greco, ebraico e aramaico questo è inconcepibile. La parola greca basileia significa sia “sovranità” che “regno”.117 Infatti, basileia è un concetto ampio e quindi significa potere reale e dominio del re. Perciò mentre normalmente traduciamo la parola basileia in “regno”, in alcuni contesti sarebbe meglio tradurla in “sovranità” o potere regale;118 anche se non sarebbe soddisfacente. Il potere reale e il dominio reale devono essere considerati un unico concetto. Finora abbiamo analizzato la basileia di Dio riferita solo ad un dominio o ad una società futuri. È necessario che comprendiamo che la venuta della basileia di Dio significa anche la venuta del potere politico di Dio. Gesù profetizzò che il potere politico divino del futuro sarebbe stato nelle mani dei poveri e dei piccoli. “Beati i poveri, perché vostra è la basileia di Dio”. (Lc 6:20*). “Conferisco una basileia su di voi... Siederete su troni per giudicare...” (Lc 22:29, 30). “Non temere, piccolo gregge; perché al Padre vostro è piaciuto di darvi la basileia” (Lc 12:32). Questo fa parte dell’intero concetto secondo cui ci sarà un rovescio di fortune. “I ricchi e i potenti saranno umiliati, e i poveri saranno elevati. Egli [Dio] ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1:52-53*).119 “Beati voi che siete poveri... Guai a voi, ricchi...” (Lc 6:20, 24*). “Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14:11). Tuttavia questo non significa che nella struttura di potere del “regno” di Dio l’oppressore e l’oppresso si scambieranno semplicemente il posto, e quindi l’oppressione continuerà. Il potere, nel “regno” di Dio, sarà completamente diverso dal potere così come è esercitato nel “regno” di Satana. Il potere di Satana è il potere della dominazione e dell’oppressione, il potere di Dio è il potere del servizio e della libertà. Tutte le monarchie e le nazioni di questo mondo attuale sono governate dal potere della dominazione e della forza. La struttura del “regno” di Dio sarà determinata dal potere del servizio amorevole e spontaneo che gli uomini prestano l’uno all’altro. Gesù lo espresse in questo modo: “Voi sapete che tra i pagani [Gentili] quelli che sono reputati principi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire,120 e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Mc 10:42-45, si confronti con i testi paralleli e con Mc 9:35). Non c’è modo di fraintendere i due modi del tutto diversi in cui il potere e l’autorità sono interpretati ed esercitati. È la differenza tra dominazione e servizio. Il potere di questa nuova società non è un potere che deve 117 118
119 120
K. L. Schmidt et al., Basileia, London, 1957, p. 32. Ad es., Lc 6:20; 12:32; 19:12, 15; 22:29; Atti 1-6; 1 Cor 4:20; 6:9 10; 15:24; Eb. 12:28; Rev 1:9; 17:12, 17; Dan 7:18, 22 27. Cf. 1 Sam 2:4, 5, 8. Questa è una inequivocabile correzione di Dan 7:14, cf. Lloyd Gaston No Stone on Another, p. 395.
essere servito, un potere dinanzi al quale una persona deve inchinarsi e umiliarsi. È il potere che ha un’enorme influenza nelle vite delle persone, prestando servizio ad esse. È il potere che è così altruista da servire gli altri perfino morendo per loro. È interessante che Gesù caratterizzi il potere della dominazione come tipico dei monarchi gentili. Egli deve avere pensato a Cesare e a Ponzio Pilato, così come ai re gentili che appaiono nelle Scritture come oppressori degli Ebrei, specialmente i regnanti dei grandi imperi, che Daniele descrive come simili a bestie e inumani (7:2-7, 17). Ma Gesù era decisamente consapevole del fatto che anche gli Ebrei potevano essere oppressori, non importa quanto, in teoria, questo possa essere stato estraneo all’Ebraismo. Egli definì Erode una volpe, il che è probabilmente un riferimento alla sua estrazione edomita o semi-pagana, e potrebbe quindi essere una condanna del suo stile di vita e del suo modo di esercitare il potere tipicamente pagani. Egli comprese anche che la maggior parte dei leader ebrei – i sommi sacerdoti, gli scribi e i Farisei – erano oppressori. Essi non avevano i poteri arbitrari dei re e dei principi; il potere che consentiva loro di dominare e opprimere era la legge. La legge era costituita dalle norme e dai regolamenti trasmessi al popolo ebraico sia nella parola scritta della Scrittura sia nelle tradizioni orali degli scribi. Per i Farisei e molti altri, la legge orale aveva una validità esattamente pari a quella della legge scritta. Entrambe erano torah, ossia le istruzioni rivelate da Dio al popolo di Israele. Queste erano istruzioni e regole su ogni immaginabile dettaglio della vita, sia secolari che religiose.121 Gesù non era contrario alla legge come tale, si opponeva al modo in cui gli uomini usavano la legge, al loro atteggiamento nei confronti della legge. Gli scribi e i Farisei avevano trasformato la legge in un fardello, mentre essa doveva essere un servizio. “Infatti, legano dei fardelli pesanti e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito” (Mt 23:4). “Il sabbath è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabbath” (Mc 2:27). Gli scribi avevano trasformato il sabbath, come molte altre leggi, in un peso insopportabile. Usavano il sabbath contro la gente invece di usarla per essa. La legge, secondo loro, doveva essere un giogo, una “penitenza”, una misura oppressiva, mentre per Gesù essa doveva essere a beneficio degli uomini, rispondere ai loro bisogni e ai loro veri interessi. Qui abbiamo due atteggiamenti diversi nei confronti della legge, due opinioni diverse sul suo scopo, e quindi due modi diversi di usarla. L’atteggiamento degli scribi conduce a al ragionamento capzioso, al legalismo, all’ipocrisia e alla sofferenza. L’atteggiamento di Gesù portò al permissivismo ogni volta che i bisogni delle persone non sarebbero stati soddisfatti dal rispetto della legge, e al rigore quando questo avrebbe risposto meglio ai loro bisogni. La legge fu fatta per noi, noi non fummo fatti per servire la legge ed inchinarci ad essa. Il sabbath, ad esempio, aveva lo scopo di liberare gli uomini dal peso del lavoro, affinché essi potessero riposare per un po’. Non doveva impedire loro di fare il bene, di guarire o di salvare la vita (Mc 3:4; Mt 12:11-12; Lc 13:15-16) né impedire loro di mangiare quando avevano fame (Mc 2:23-26 parr). Gesù non vuole cavillare sui dettagli della legge e sulla sua interpretazione. Non desidera semplicemente sottoscrivere un’interpretazione meno rigida, come quella prevalente in Galilea o nella Diaspora, né desidera rifiutare la legge orale e basarsi soltanto sulla legge scritta. Gesù obietta al modo in cui la legge, qualsiasi legge o sua interpretazione, viene usata contro le persone. Gesù non si considerò un legislatore. Non desiderò abolire la Legge Mosaica (Mt 5:17-18) per promulgare una nuova legge o per eliminare ogni legge. Né volle aggiungere o sottrarre ad essa alcunché, né emendarla – nemmeno una iota o un apice di essa (Mt 5:18). Quel che volle fare fu adempiere alla legge – vedere che essa adempiva al ruolo che Dio volle darle, che essa raggiungeva il proprio scopo (Mt 5:18). Una persona rispetta la legge di Dio solo quando raggiunge lo scopo anche del “minimo di questi comandamenti” (Mt 121
Ossia, quelle che chiameremmo secolari e quelle che definiremmo religiose. Gli Ebrei non facevano questo tipo di distinzioni. Si veda il Capitolo 13.
5:19). E lo scopo della legge è il servizio, la compassione, l’amore. Dio vuole la misericordia, non il sacrificio (Os 6:6; Mt 9:13; 12:7; si veda anche Mc 12:33). Il legalismo sfruttava la legge per i propri scopi egoistici, distruggendo così gli scopi della legge stessa. Cavillando sui dettagli insignificanti, “le cose più importanti”, o gli scopi della legge, ossia “il giudizio, la misericordia e la fede”, erano trascurati (Mt 23:23). L’insistenza sui cibi puri e impuri e sul lavaggio delle mani, e l’imposizione di queste abitudini ad altre persone impediva a tutti di constatare le cattive intenzioni degli uomini l’uno nei confronti dell’altro (Mc 7:1-7, 14-23 par). Il voto del Corban era usato per evitare di mantenere i propri genitori, distruggendo in tal modo lo scopo stesso del comandamento di Dio (Mc 7:8-13 par). Gli scribi avevano dimenticato, o preferito ignorare, lo scopo originale della maggior parte delle leggi. Avevano trasformato la legge in un potere oppressivo. I capi e gli studiosi del tempo di Gesù avevano innanzitutto schiavizzato se stessi alla legge. Questo non soltanto aumentava il loro prestigio nella società, ma dava anche ad essi un senso di sicurezza. Temiamo la responsabilità dell’essere liberi. Spesso è più facile lasciare che siano gli altri a prendere le decisioni o basarsi sulla lettera della legge. Alcune persone vogliono essere schiave. Dopo aver asservito loro stesse alla lettera della legge, queste persone proseguono invariabilmente negando la libertà agli altri. Non riposeranno finché non avranno imposto gli stessi oneri oppressivi a tutti (Mt 23:4,15). Sono sempre i poveri e gli oppressi a soffrire di più quando la legge viene usata in questo modo. Gesù volle liberare tutti dalla legge – da ogni legge. Ma questo non si poteva fare abolendo o cambiando la legge. Egli doveva detronizzare la legge. Doveva assicurarsi che la legge sarebbe stata la nostra serva e non la nostra padrona (Mc 2:27-28). Quindi dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra serva, la legge, e usarla per rispondere ai bisogni dell’umanità. Questo è molto diverso dalla licenziosità, dall’illegalità o dal permissivismo irresponsabile.122 Gesù relativizzò la legge, così che il suo vero obiettivo potesse essere raggiunto. Nella struttura politica del “regno” di Dio, quindi, il potere, l’autorità e la legge saranno puramente funzionali. Essi incarneranno le disposizioni che sono necessarie a servirsi l’un l’altro volentieri e in modo efficace. Ogni tipo di dominio e ogni forma di schiavitù sarà abolita. “Poiché io vi dico che se la vostra giustizia [l’adempimento della legge] non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Mt 5:20 RSV).
122
Si veda il caso interessante delle parole dette da Gesù all’uomo che stava arando durante il sabbath, che il Codex D aggiunge dopo Luca 6:5. Il testo si può trovare in una nota a piè di pagina nella Bibbia di Gerusalemme, e un commentario si può trovare in Joachim Jeremias, Unknown Sayings of Jesus, pp. 497. Si veda pag. 130.
Capitolo 11 Un tempo Nuovo Oggi, per noi, è impossibile ottenere un’interpretazione soddisfacente del pensiero e dell’insegnamento di Gesù senza una qualche comprensione del modo in cui egli e i suoi contemporanei consideravano il tempo. Il fatto che molti studiosi abbiano trascurato questo fondamentale concetto del tempo, o lo abbiano male interpretato, ha portato ad innumerevoli dispute e a problemi irrisolvibili. Per fare un esempio palese, l’intera questione se Gesù considerò il “regno” presente, futuro o entrambi e, se entrambi, in che modo egli abbia collegato il presente e il futuro del “regno” è un problema totalmente artificiale, creato dal tentativo di interpretare le parole di Gesù nei termini del nostro concetto occidentale di tempo. Le interminabili discussioni sull’escatologia o su ciò che la fine del mondo significa nella Bibbia sono ostacolate da una mancanza di chiarezza relativa al concetto biblico di tempo. Il nostro modo di pensare occidentale tende ad enfatizzare il tempo come misura. Quando vogliamo riferirci ad un tempo particolare usiamo delle misurazioni registrate sugli orologi e sui calendari. Noi collochiamo un’epoca o una figura storica tra due date. Qui il tempo è concepito come uno spazio vuoto – misurato e numerato – che può essere riempito da eventi di maggiore o minore importanza. Questo può essere definito tempo quantitativo. Secondo uno dei veri maestri dello studio dell’Antico Testamento, Gerhard von Rad, “Oggi una delle poche cose delle quali possiamo essere davvero sicuri è che questo concetto di tempo assoluto, indipendente dagli eventi, e che, come le righe bianche su un questionario, deve soltanto essere riempito di dati che daranno ad esso un contenuto, era sconosciuto ad Israele”.123 Gli Ebrei parlavano del tempo, e lo immaginavano, come una caratteristica. Questo è espresso in modo chiaro e succinto nel famoso passo dell’Ecclesiaste (3:1-8): “ Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare... Un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra e un tempo per la pace”. Per gli Ebrei conoscere il tempo non significava sapere la data, significava sapere quale tipo di tempo potesse essere. Era un tempo per le lacrime o un tempo per le risate, un tempo per la guerra o un tempo per la pace? Giudicare in modo errato il tempo nel quale si viveva poteva dimostrarsi disastroso. Continuare a piangere e digiunare in un tempo di benedizioni sarebbe stato come seminare in tempo di raccolto (si confronti con Zac. 7:1-3). Il tempo era la caratteristica o l’umore degli eventi. Questo concetto di tempo non ci è estraneo quanto potrebbe sembrare a prima vista. Parliamo tuttora di momenti buoni, momenti brutti, momenti duri, tempi moderni e tempo di guerra. Diciamo che il tempo è maturo per una cosa o che un’impresa non ha futuro. Caratterizziamo un’idea come appartenente al diciannovesimo secolo. Qui il tempo non è più una misura, è la caratteristica di quel che succede, la qualità dell’esperienza di una persona. Ma nel momento in cui pensiamo alla storia ritorniamo al nostro concetto di tempo quantitativo. Noi ci collochiamo a metà di una lunga linea di tempo immaginaria, con il passato dietro di noi e il futuro davanti a noi. Gli ebrei dei tempi antichi non si collocavano in alcun luogo: essi posizionavano gli eventi, i luoghi e i tempi e si consideravano in un viaggio oltre questi punti fissi. Eventi sacri come la Creazione, l’Esodo e l’Alleanza con Mosè, luoghi come Gerusalemme, il Sinai, Betel e tempi come le festività, i tempi per il digiuno o la semina erano punti fissi. L’individuo viaggiava attraverso o oltre questi punti fissi. Gli uomini del passato c’erano stati prima ed 123
Gerhard von Rad, The Message of the Prophets, pag. 77; cf. inoltre Thorhef Boman, Hebrew Thought Compared with Greek, Trad. Ing.. Philadelphia: Westminster Press, 1961; Londra, 1960, pagg. 139-143.
erano andati davanti a loro, di fronte a loro. Gli uomini del futuro sarebbero venuti dietro di loro, dopo di loro. 124 Quando gli individui raggiungono un punto fisso, ad esempio la festa della Pasqua ebraica o un tempo di carestia, diventano, in un certo senso, coevi dei loro antenati e dei loro successori che hanno vissuto, o vivranno, lo stesso tempo qualitativo. Gli antenati e i successori dell’individuo condividono lo stesso tipo di tempo, a prescindere dal numero di anni che possono intercorrere tra di essi.125 La natura del tempo si considerava determinata dagli atti salvifici di Dio nel passato (ad es., l’Esodo) o da un atto salvifico di Dio nel futuro. Quest’ultimo era di speciale interesse per i profeti. I grandi profeti di Israele avevano il compito di dire agli uomini il significato del tempo particolare in cui essi vivevano, in previsione di un atto divino che stava per succedere.126 Essi sentivano di non essere più in grado di comprendere la situazione attuale in termini di qualsiasi cosa fosse accaduta nel passato, e quindi obbligavano gli uomini a dimenticare il passato, a smettere di basarsi sul passato per avere un significato, la sicurezza e la salvezza. Poi, essi “spostano la base della salvezza ad una futura azione di Dio”.127 Questo imminente evento futuro caratterizza e determina il tempo presente, conferisce un significato a tutta la propria vita nel presente e decreta quel che si deve fare o non fare. L’evento futuro è quindi decisivo, definitivo e conclusivo – è l’eschaton, o evento ultimo, in relazione al loro tempo presente. Siccome non possiedono il nostro concetto occidentale di tempo come misurazione astratta, non c’è uno spazio vuoto che si estende al di là dell’evento che attendono. Per gli uomini di quella generazione l’evento futuro è definitivo e finale, perché caratterizza ogni cosa nelle loro vite in quel momento. Questo atto futuro di Dio fu sempre considerato dai profeti come un evento del tutto nuovo e senza precedenti. 128 Esso rappresenta una rottura con il passato “che è così profonda... da non poter essere interpretata come una continuazione di quel che è accaduto in precedenza”,129 ossia non ha una continuità qualitativa con quel che è avvenuto prima. Sarà un tempo qualitativamente nuovo, non una nuova misurazione del tempo. Parlare dell’eschaton come al di là della storia, cioè al di là del tempo come misura, significa confondere due concetti di tempo molto diversi. Inoltre, se il tempo presente è totalmente determinato e caratterizzato da questo atto nuovo e inedito di Dio, allora lo stesso tempo presente è un tempo del tutto nuovo, una nuova era. È questo a permettere al profeta di prevedere il futuro nel presente. L’eschaton, o evento futuro di importanza definitiva, deve essere letto fuori dall’“orizzonte della storia del mondo”130 o quelli che generalmente sono chiamati i segni dei tempi. I profeti furono ispirati a leggere la Parola di Dio per il loro tempo nei segni del loro tempo. Fu questa straordinaria intuizione nella natura del proprio tempo a fare di una persona un profeta. Il messaggio di un profeta, perciò, non è mai un messaggio senza tempo, basato su idee senza tempo. Esso è una parola specifica, detta a persone specifiche in una situazione concreta e che riguarda il significato del loro tempo e ciò che esse, in quel luogo e in quel momento, devono o non devono fare. 131 Le generazioni successive possono essere guidate da un profeta che parlò secoli prima solo nella misura in cui 124
Boman, pp. 149-150.
125
Boman, pp. 147-149.
126
Von Rad, p. 91.
127
Von Rad, p. 93.
128
Esso, però, può avere qualche analogia con gli atti precedenti di Dio, si confronti con Von Rad, p. 93.
129
Von Rad, p. 101; si confronti anche con p. 252.
130
Von Rad, p. 91.
131
Von Rad, p. 100.
essi si trovano in un tempo in qualche modo simile e, in tale misura, sono contemporanei del profeta. Gran parte del valore e dell’efficacia del messaggio di un profeta deriva dal rapporto del messaggio con un tempo particolare. L’idea che un messaggio o un insegnamento abbia un valore molto maggiore se è senza tempo è un concetto del tutto occidentale, basato su una concezione occidentale del tempo. L’eschaton, perciò, è un evento futuro reale che sarà qualitativamente diverso da tutti gli avvenimenti precedenti, e che è il solo evento a poter dare un significato ultimo alla propria situazione attuale. L’eschaton è un evento futuro ma, nella misura in cui determina e caratterizza le nostre vite, è anche un evento contemporaneo, un evento che può essere visto tra i segni dei tempi. Questo non significa che gli Ebrei non abbiano avuto il senso della storia; significa che essi avevano un diverso senso della storia. Noi ordiniamo gli eventi passati, presenti e futuri in una lunga sequenza, sulla base della nostra misurazione del tempo: ore, giorni e anni numerati. Per gli Ebrei, la sola e unica base di questa continuità degli eventi era Dio.132 Era Dio a decretare i tempi: un tempo per il digiuno o un tempo di festa, un tempo di giudizio o un tempo di salvezza. Gli eventi della storia erano atti di Dio, e la loro sequenza dipendeva dal libero arbitrio di Dio.133 Il movimento da un evento a un altro o il cambiamento da un tempo ad un altro poteva essere concepito solo come una decisione o decreto di Dio. Dio poteva scegliere di cambiare i Suoi scopi e le Sue intenzioni. 134 In questo schema non c’è posto per gli spazi vuoti o per anni intercorrenti tra eventi importanti. Gli eventi ottengono la propria qualità e la propria sequenza dal Signore della storia. Senza questo concetto di Dio come Signore della storia, gli Ebrei non avrebbero avuto alcun senso storico e nessun indizio di un grande e glorioso destino. Al contrario, senza questo concetto della storia, il Dio degli Ebrei non sarebbe stato diverso dagli dei degli altri popoli. Questa introduzione piuttosto lunga si è resa necessaria per evitare il tranello di introdurre un concetto occidentale del tempo nel pensiero e negli insegnamenti di Gesù.135 Gesù annunciò un tempo completamente nuovo e l’imminenza del “regno” conclusivo e definitivo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1:15*). Il tempo nuovo che Gesù annunciò era qualitativamente diverso dal tempo annunciato solo pochi anni prima da Giovanni. Cronologicamente parlando, ossia in termini di tempo come misura, può addirittura esserci stata una sovrapposizione – alcuni mesi o anni durante i quali Giovanni e Gesù fecero rispettivamente i propri proclami. Tuttavia Marco e Luca si preoccupano in modo particolare di non farci confondere il tempo di Giovanni con il tempo di Gesù. Marco se ne accerta dicendo che Gesù andò in Galilea ed iniziò la propria predicazione “dopo che Giovanni era stato arrestato” (1:14). Luca considera il battesimo di Gesù l’inizio del suo ministero o del suo tempo, e quindi ci racconta della predicazione di Giovanni e della sua carcerazione prima di darci la sua versione del battesimo di Gesù per mano di Giovanni! (3:19-22).136 La differenza 132
Von Rad, p. 83.
133
Dan 2:21.
134
Gn 6:6; Jer 26:3,13, 19; Gioele 2:13-19; Amos 5:15; 7:5-6; Giona 3:9, 10; 4:2; Zacc 8:11, 14-15, 19.
135
L’idea di Cullmann che vi sia una particolare dottrina o rivelazione biblica riguardante il significato del tempo e che essa possa essere scoperta analizzando le parole bibliche che indicano il tempo (Cristo e Tempo) è stata confutata con successo da James Barr in Biblical Words for Time, passim ma specialmente a pag. 155 e seguenti. Io mi sono curato di evidenziare che il tempo, nella Bibbia, è considerato una qualità piuttosto che una quantità.
136
Anche Luca, quindi, interpreta il “fino a” di 16:16 come comprensivo di Giovanni (si veda Joachim Jeremias, New Testament Theology, pp. 46-47). Matteo segue la divisione di Marco, ma non è altrettanto consapevole delle differenze qualitative. Fa predicare a Giovanni lo stesso messaggio di Gesù: “Pentitevi, perché il regno di Dio è vicino” (3:2; 4:17). Nelle parabole Matteo evidenzia l’elemento del giudizio e del castigo in un modo più tipico del tempo di Giovanni che di quello di Gesù. E in 11:13 (il
qualitativa tra il tempo di Giovanni e quello di Gesù è espressa molto bene in una breve parabola in Lc 7:31-35 = Mt 11:16-19: «Gli uomini di questa generazione sono come bambini che si gridano a vicenda mentre siedono nella piazza del mercato: “Vi abbiamo sonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto”. Difatti è venuto Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È posseduto”. È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori!”. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli». L’umore di Giovanni è come la melodia triste di una marcia funebre; l’umore di Gesù è come la musica allegra di una danza ad un matrimonio. Il comportamento di Giovanni fu caratterizzato dal digiuno, quello di Gesù fu contraddistinto dal festeggiamento. E tuttavia essi non si contraddicono a vicenda. Sia Giovanni che Gesù rappresentano le azioni della Sapienza (ossia di Dio), ma parlano a tempi diversi e a circostanze differenti. Il tempo di Giovanni, in realtà, fu un tempo di cordoglio, e il tempo di Gesù, in realtà, fu un tempo di gioia. La metanoia (conversione) nel tempo di Giovanni significava digiunare e fare penitenza; la metanoia al tempo di Gesù fu come accettare l’invito a una festa (Lc 14:15-17) o come scoprire un tesoro o una perla preziosissima per la quale si sacrificava volentieri tutto il resto (Mt 13:44-46).137 Al tempo di Giovanni, il perdono era una possibilità che dipendeva dal battesimo; al tempo di Gesù, il perdono era una realtà presente, e il battesimo nel Giordano non era più necessario. La novità del tempo di Gesù difficilmente può essere esagerata il vino nuovo non può essere messo in alcuno dei vecchi otri o formule religiose, e la stoffa nuova non può essere cucita sull’abito vecchio producendo un buon risultato(Mc 2:21-22 parr). Perfino il più grande uomo nato da donna è ora antiquato (Lc 7:28 par). La rottura con il passato è completa e definitiva. Il passato è finito. Dio ha decretato un tempo nuovo. Il tempo di Giovanni e il tempo di Gesù sono radicalmente diversi perché sono determinati da due eventi futuri radicalmente diversi. Giovanni profetizzò il giudizio di Dio, Gesù profetizzò la salvezza di Dio. Giovanni visse la prospettiva di una grande catastrofe, Gesù visse la prospettiva di un grande “regno”. Giovanni fu il profeta della sventura, e Gesù fu l’araldo della buona novella. Come tutti i profeti, Gesù aveva letto i segni dei tempi. Gli eventi del suo tempo lo avevano convinto che il “regno” sarebbe giunto presto. Quali furono questi eventi? I segni dei tempi per Gesù furono indubbiamente le sue stesse riuscite azioni tra i poveri e gli oppressi – la sua stessa azione di liberazione. “Ma se è con il dito di Dio che io scaccio i demoni, allora il regno di Dio è giunto fino a voi” (Lc 11:20 RSV). Il fatto che il potere di Dio operasse in Gesù e nei suoi discepoli, conferendo il successo ai loro sforzi intesi a liberare i sofferenti, era per Gesù un segno delle intenzioni di Dio. Il potere della fede era impegnato ad ottenere l’impossibile. Gli eserciti di Dio guadagnavano terreno contro il “regno di Satana”. La vittoria non era lontana. Il “regno” di Dio arrivava da dietro, li afferrava e stava per sconfiggerli. In realtà, il futuro “regno” di Dio e l’attività liberatrice di Gesù furono contemporanei. Il “regno-potere” del futuro influenzava già la situazione presente. I Farisei vogliono che egli produca segni dal cielo per autenticare la sua pratica e le sue parole. Egli rifiuta di farlo. Invece, indica i segni sulla terra (Mt 16:1-4; Lc 12:5456). In risposta alla domanda di Giovanni il Battista dice: “Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono...” (Mt 11:4-5). Il bene trionfa sul male. Dio si è intenerito e non è più occupato a punire gli uomini. Ora Dio vuole salvarli. Le implicazioni della pratica di Gesù e versetto che è parallelo a Lc 16:16) interpreta “fino a” come ad esclusione di Giovanni. Qui non posso concordare con Jeremias quando conclude che Matteo aveva ragione e Luca era in errore (p. 47). Il tempo della salvezza ebbe inizio con Gesù, non con Giovanni. 137
Norman Perrin, Rediscovering the Teaching of Jesus, p. 89.
delle sue parole è che Dio è cambiato. Lo si può vedere in questi segni dei tempi. Spesso si è detto che Gesù aveva un’immagine di Dio radicalmente nuova. Il Dio di Gesù è del tutto diverso dal Dio dell’Antico Testamento o da quello dei Farisei – sicuramente il Dio di Gesù è molto diverso dal Dio adorato dalla maggior parte dei Cristiani. La pratica di Gesù e il suo concetto del “regno” non sarebbe stato possibile senza un’immagine di Dio completamente nuova. Questo è perfettamente vero, tranne per il fatto che Gesù stesso non si sarebbe espresso in questo modo. Egli non fu consapevole di cambiare l’immagine di Dio. Egli non fu affatto consapevole di avere una propria immagine di Dio. Per come Gesù la pensava, Dio era cambiato. 138 Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe faceva una cosa completamente nuova, che non aveva precedenti.139 Dio è stato mosso dalla compassione per le pecore perdute della casa di Israele. Questo è stato raffigurato da Gesù nelle parabole della pecora perduta, della moneta perduta e soprattutto nella parabola del figlio perduto (Lc 15:1-32). Queste parabole sono i tentativi fatti da Gesù di rivelare ai propri oppositori i segni dei tempi, i segni che Dio è stato mosso dalla compassione ad un cambiamento di idea e a fare qualcosa di nuovo. Il punto è esposto nel modo più chiaro nella parabola del figlio perduto. L’intenzione della prima parte della parabola (Lc 15:11-20) è farci capire bene quale inveterato peccatore il figlio fosse stato, e quanto grande fosse il torto che aveva arrecato a suo padre. Il ritorno a casa ha una svolta a sorpresa: innanzitutto per quello che suo padre non fa. Egli non lo rifiuta e non lo disconosce, come il figlio stesso si era aspettato (v. 19) e come il padre avrebbe avuto tutto il diritto di fare. Egli non chiede che il figlio faccia ammenda per i suoi peccati, o che restituisca il danno finanziario arrecato al padre lavorando come servo assunto, che è ciò che il pubblico di Gesù si sarebbe aspettato. Non punisce affatto il proprio figlio, il che offende ogni corrente concetto di giustizia. Non lo rimprovera nemmeno, né chiede alcuna scusa. Non c’è nemmeno una condiscendente parola di perdono sulle labbra di questo padre. Tutto quel che fa è gioire e ordinare un banchetto, una celebrazione. Perché? Perché egli era stato toccato nel profondo dalla compassione (v. 20). La preoccupazione per suo figlio era stata tale che il solo riaverlo a casa sano e salvo superò ogni altra considerazione, e fu un motivo più che sufficiente per gioire. Il figlio maggiore echeggia i sentimenti di rabbia del pubblico di Gesù, gli scribi e i Farisei (v. 2). Secondo loro, Dio non avrebbe agito in questo modo, e non è così che si comporta. Ma Gesù è sicuro che qualsiasi cosa Dio possa aver fatto in passato, ora i peccatori sono trattati con amore e attenzione, si fa del bene a coloro che odiano Dio e quelli che maledicono Dio sono benedetti, “poiché Egli è buono verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6:27, 28, 35). Per questo i malati sono curati e i peccati perdonati. È il dito di Dio che ora desidera perdonare tutti liberamente e in modo incondizionato. L’attenzione di Dio è ora rivolta agli esseri umani e ai loro bisogni. Dio è sceso dal trono celeste, la massima posizione di prestigio nel mondo, per essere intimamente vicino agli uomini, alle donne e ai bambini, che ora possono rivolgersi a Dio chiamandolo abba. La ricerca di J. Jeremias140 ha stabilito in modo indiscutibile che Gesù si rivolgeva a Dio chiamandolo abba, che insegnò agli altri a fare lo stesso (Lc 11:2) e che nessun altro, prima, aveva fatto questo. Abba non significa semplicemente ‘padre’. È la forma molto intima e familiare di rivolgersi, riservata alla cerchia familiare più intima. Si può tradurre meglio in 138
Heinz Zahmt, What Kind of God?, Trad. Ing.. Minneapolis: Augsburg, 1972; Londra, 1971, pp. 55-61.
139
Nulla era più tipico del Dio Creatore degli Ebrei che fare cose nuove e senza precedenti, creare mezzi per fare qualcosa di nuovo e inedito. Si vedano Es 34:10; Nm 16:30; Salmi 50:12; 103.30, Is. 4:5; 43:19; 48:7; 65:17; 66:22; Ger 31:22; Ab 1:5.
140
Il suo famoso articolo, “Abba,” è stato tradotto in inglese nella forma del Capitolo 1 di The Prayers of Jesus. Per un sunto delle sue opinioni sull’argomento si veda The Central Message of the New Testament, pp. 9 30, o New Testament Theology, vol. 1, pp. 61-67.
“papà”. Questo contrasta in modo molto netto con l’atteggiamento che porta gli uomini ad avvicinarsi a Dio con timore e tremando, l’atteggiamento che mantiene Dio a una rispettosa distanza a causa della sovranità e santità suprema di Dio. Tuttavia questo non significa che Gesù abbia pensato a Dio in termini esclusivamente maschili. L’uso stesso del termine abba apre la possibilità di interpretare anche la compassione divina come una chioccia che raduna i pulcini sotto le sue ali (Lc 13:34). Il successo delle cure e di tutta l’attività di liberazione di Gesù mostrò a quest’ultimo che Dio stava dalla parte dei sofferenti, che Dio voleva vivere in solidarietà con l’umanità e usare il potere divino per servirli e proteggerli. Quando i Farisei rifiutano di crederlo e chiedono un segno dal cielo, Gesù può indicare soltanto il segno di Giona. Il fatto che Gesù abbia indicato realmente il segno di Giona è indiscutibile. Né Matteo né Luca sapevano cosa significasse. Entrambi tirano a indovinare. Poiché Giona trascorse tre giorni e tre notti nel ventre della balena, Matteo pensò che Gesù si stesse riferendo alla propria resurrezione come segno futuro dal cielo (12:40; ma si confronti con 16:1-4). Luca pensò che “come Giona fu un segno per i Niniviti, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11:30). Ma sicuramente ciò che è particolarmente importante nella storia di Giona è che Giona, come i Farisei, era adirato (4:1) quando “Dio si intenerì, e non impartì il disastro che aveva minacciato” (3:10). Giona disse: “Sapevo infatti che tu sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all’ira e di gran bontà e che ti penti del male minacciato” (4:2). Ma Giona, come i Farisei, non vuole che Dio sia misericordioso nei confronti dei peccatori (4:1-3). “Fai bene a irritarti così?” – dice Dio (4:4) – “e io non avrei pietà di Ninive... dei semplici che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra?” (4:11). Questo, sicuramente, deve costituire un segno per i Farisei. Dio, ancora una volta, si intenerisce e prova compassione per i semplici. Dio è cambiato ed è per questo che i tempi sono cambiati. È un tempo nuovo, una rottura con il passato; un tempo che può essere compreso soltanto nei termini del nuovo eschaton, il nuovo evento futuro definito – il “regno” dei poveri e degli oppressi. Chiunque cerchi di leggere u segni del nostro tempo presente deve certamente riconoscere alcune notevoli somiglianze. Noi viviamo in un tempo nuovo, un tempo qualitativamente non troppo diverso da quello di Gesù. Dopo aver attraversato il tempo di Giovanni ed affrontato la catastrofe imminente come un eschaton che determina quello che dobbiamo o non dobbiamo fare, forse potremo continuare, con l’aiuto di Gesù, a leggere i segni della nostra liberazione negli eventi dei tempi recenti, e il nuovo eschaton o evento futuro decisivo come la venuta del “regno” di Dio. Però abbiamo ancora bisogno di maggiore chiarezza sul modo in cui Gesù interpretò la venuta del “regno” in rapporto alla venuta della catastrofe.
Capitolo 12 La Venuta del “Regno” Nonostante quanto è stato detto finora, o forse proprio per questo motivo, alcune persone possono essere tentate ad interpretare Gesù e il suo “regno” ideale in termini puramente secolari. Perché coinvolgere Dio in esso? Gesù fu profondamente mosso dalla compassione per i poveri e gli oppressi, e il successo che ebbe con essi lo portò a credere che la liberazione totale (il “regno”) fosse imminente. Tutto il discorso su Dio, quindi, non sarebbe altro che il linguaggio religioso nel quale, da uomo del suo tempo, Gesù dovette formulare quello che stava accadendo. Fortunatamente o meno, le prove non possono avvalorare un’ipotesi del genere. La convinzione di Gesù che il “regno” sarebbe venuto, che l’umanità avrebbe potuto essere completamente liberata – e lo sarebbe stata – sarebbe stata impossibile senza la sua fede in Dio. In virtù dei valori straordinariamente elevati che dovranno regnare supremi in questo “regno” non dovrebbe essere difficile capire che la sua venuta sarà un miracolo. È un’utopia, un mondo futuro impossibile. Ma quel che per noi è impossibile è possibile a Dio. Gesù credette in un miracolo, e ci sperò. Anche se Gesù pensò al “regno” come a una specie di casa o di città, non disse che lui stesso, o qualcun altro, lo avrebbe costruito.141 Questo genere di “regno” può soltanto venire, non può essere costruito. Questo tipo di “regno” non può nemmeno evolversi dai “regni” o dalle società che già abbiamo, per quanto possano migliorare o progredire in futuro. Nemmeno il più potente, influente e buono dei leader sarà in grado di fondare una società come questa. Il potere terreno, quello che impone agli altri la propria volontà, anche quando viene applicato con la massima delicatezza, può solo produrre qualcosa di diverso dalla liberazione e dalla libertà totali che Gesù aveva in mente. Gli uomini possono essere liberati da questa o quella forma di dominio, ma nessuno può obbligare una persona ad essere libera. Noi possiamo costruire soltanto le condizioni che permetteranno agli uomini di essere liberi se sceglieranno di esserlo. Il “regno” stesso non può essere raggiunto, deve essere ricevuto – come un dono. Tuttavia c’è un potere che può fare il miracolo. Non è il mio potere né il vostro, ma è un potere che posso liberare dentro di me, e soltanto voi potete liberare in voi stessi. Questo potere va oltre voi e me come individui, ma non è del tutto fuori di noi. È il potere supremo che sta dietro a tutti i poteri in azione negli uomini e nella natura. La maggior parte degli uomini chiama questo potere Dio. Non importa come lo chiamiate. Ogni tanto, Gesù lo chiamò Dio. Ma molto più spesso lo indicò in qualche altro modo. I profeti parlavano solo di Dio: la parola di Dio, le promesse di Dio e le minacce di Dio. I detti e le parabole di Gesù riguardano la vita, e il potere che opera nella vita e nella natura. Solo molto raramente egli ritiene necessario menzionare Dio per nome. C’è qualcosa di molto profondo e molto rivelatore del modo in cui Gesù ha interpretato il potere onnipotente che di solito è rappresentato dalla parola Dio. Abbiamo già notato che per Gesù il potere onnipotente che ottiene l’impossibile può essere chiamato fede. La fede libera in noi un potere che va oltre noi stessi. Fu la loro fede a permettere ai malati di essere curati e ai peccatori di essere liberati dai loro peccati. Nello stesso modo, è la fede degli uomini a permettere al “regno” di venire.142 Gesù fu instancabile nei suoi sforzi tesi a risvegliare 141
Sembra però che Gesù non abbia detto che avrebbe “costruito un nuovo Tempio” (Mc 14:58 parr; Gv 2:19); si veda Lloyd Gaston, No Stone on Another, pp. 242-243. Ma è interessante che Marco abbia ritenuto necessario aggiungere che sarebbe stato un Tempio “non costruito da mani umane”, il che significa sicuramente non solo che il nuovo Tempio sarebbe stato una comunità, ma anche che è Dio, non gli esseri umani, che lo costruirà in Gesù e per mezzo di lui.
142
Il testo di Lc 18:8 parrebbe contraddirlo: “Quando il figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”. Ma il riferimento, qui, non è alla venuta del “regno” ma alla venuta della catastrofe o del giudizio (si vedano pp. 104-5). Inoltre il testo è
la fede nel “regno” (Mc 1:15). Egli si sentì spinto di andare di città in città a predicare la buona novella (Mc 1:38; Lc 4:43). Per risvegliare una fede ancora più diffusa nel “regno”, egli istruì i discepoli e li mandò a predicare (Mc 3:14; 6:7; Mt 10:7; Lc 9:2; 10:9, 11). I primi cristiani erano convinti che il “regno” sarebbe venuto non appena la buona novella fosse stata predicata al mondo intero (Mc 13:10 par). Senza la predicazione non ci sarebbe la fede (Rom 10:17). Solo quando nel mondo la fede sarà abbastanza forte il miracolo del “regno” avverrà. Qui c’è il pericolo di trasformarlo in una mistica della fede. La fede non è un potere magico. È una decisione diretta a favore del “regno” di Dio. La metanoia o cambiamento a cui Gesù faceva appello era un cambiamento della mente e del cuore, un cambiamento di fedeltà. Cercate innanzitutto il “regno”, metteteci il cuore sopra (Mt 6:33 par). Affidatevi al “regno” per avere consolazioni e ricompense (Mt 6:4, 6, 18; Lc 6:20-25). Ammassate tesori presso Dio e il “regno”, perché dove è il vostro tesoro sarà anche il vostro cuore (Mt 6:19-21 par). Trasferite la vostra alleanza dall’uno o l’altro degli attuali “regni” al “regno” di Dio. Fate del “regno” la vostra priorità nella vita e riponete in esso ogni vostra speranza. È un tesoro nascosto o una perla preziosa, scommettete ogni cosa su di esso. La fede è un nuovo orientamento radicale della propria vita. Esso non ammette compromessi e non ha mezze misure. Non si possono servire due padroni. O si rende il “regno” e i suoi valori l’orientamento fondamentale della propria vita oppure no. O si riconosce il “regno” come l’eschaton e il destino dell’umanità oppure no. La fede è una decisione. Un’indecisione tentennante o un compromesso sarebbe una mancanza di fede (poca fede), e sarebbe inutile. Tuttavia, come già abbiamo notato, il potere della fede non proviene dal suo essere una decisione ferma o una convinzione forte. La fede deriva il proprio potere dalla verità di quello che di crede e in cui si spera. Se il “regno” di Dio fosse un’illusione, la fede non sarebbe in grado di ottenere alcunché. Il mondo è pieno di credenze solide ma illusorie che sono servite soltanto a portarci sull’orlo del disastro. Se il “regno” di Dio, così come Gesù lo predicò, è veritiero, se è la verità sugli uomini e i loro bisogni, se è la sola cosa a poter portare l’umanità al compimento e alla soddisfazione, allora la fede in questo tipo di “regno” può cambiare il mondo e ottenere l’impossibile. Il potere della fede è il potere della verità. La vera fede non è possibile senza la compassione. Il “regno” nel quale Gesù volle che i suoi contemporanei credessero era un “regno” di amore e di servizio, un “regno” di fratellanza e sorellanza umana nel quale ogni persona è amata e rispettata perché è una persona. Non possiamo credere in questo “regno”, e sperare in esso, se non abbiamo imparato ad essere mossi dalla compassione per gli altri esseri umani. Dio, ora, ha rivelato Dio come il Dio della compassione. Il potere di Dio è il potere della compassione. La compassione degli uomini per gli altri uomini libera il potere di Dio nel mondo, l’unico potere che è in grado di produrre il miracolo del “regno”. Quel che fa venire il “regno”, perciò, è la compassione sentita e la fede speranzosa. La fede, la speranza e l’amore (la compassione) di oggi sono i semi del “regno” di domani. La fede sembra essere piccola ed insignificante come un piccolo seme di senapa (Mt 17:20 par), ma senza il seme della fede non ci sarebbe alcun albero di senapa (Mc 4:30-32 parr). Il lievito sembra una sostanza priva di capacità, ma riesce a far lievitare tutto l’impasto (Mt 13:33 par). Una fede che non scende a compromessi con i valori e gli interessi terreni produrrà certamente un ricco raccolto (Mc 4:3-9 parr). Il “regno” sarà un miracolo simile ai miracoli della natura (si confronti con Mc 4:30-32 parr e Mt 17:20 par). Ma se la venuta del “regno” dipende dalla fede degli uomini (la fede che comprende la speranza e la compassione), il “regno” verrà mai? Come possiamo essere certi che ci sarà davvero abbastanza fede nel mondo per permettere al “regno” di venire? Oppure, ancora, la catastrofe non arriverà molto prima che vi sia stato abbastanza tempo per risvegliare la fede nel mondo? E se anche la catastrofe fosse rimandata per molto tempo, o se molti dovessero sopravvivere ad essa, c’è qualche garanzia che la maggioranza degli uomini arriverà mai a credere nel tipo di “regno” predicato da Gesù? secondario (Gaston, p. 353).
La fede diffusa in questo “regno” sarà un miracolo quanto la venuta del “regno” stesso. E tuttavia Gesù non ebbe alcun dubbio sul fatto che il “regno” sarebbe giunto. La persistente miscredenza degli uomini può provocarne il ritardo (Lc 13:6-9), ma alla fine esso verrà. Prima può arrivare la catastrofe, prima possono arrivare molte catastrofi, ma anche così il “regno” di Dio avrà l’ultima parola (Mc 13:7-8 parr). Alla fine il “regno” verrà, perché prima o poi gli uomini crederanno. Perché? Perché esiste un Dio. Credere in Dio è credere che il bene è più forte del male e che la verità è più forte della falsità. Credere in Dio è credere che alla fine il bene e la verità trionferanno sul male e sulla falsità 143 e che Dio sconfiggerà Satana. Chi pensa che il male avrà l’ultima parola o che il bene e il male hanno il 50% di possibilità è un ateo. C’è un potere per il bene nel mondo, un potere che si manifesta negli impulsi e nelle forze più profondi negli uomini e nella natura, un potere che, in ultima analisi, è irresistibile. Se non l’avesse creduto, Gesù non avrebbe avuto assolutamente nulla da dire. La fede nel “regno” di Dio, perciò, non è semplicemente aderire ai valori del “regno” e sperare vagamente che, un giorno, esso possa giungere sulla terra. La fede nel “regno” è la convinzione che, a prescindere da tutto, il “regno” verrà. Ed è questa convinzione che farà venire il “regno”, perché questa convinzione è vera. “La verità vi renderà liberi” (Gv 8:32). Tuttavia, qui nulla garantisce che il “regno” arriverà presto. La fede potrà diffondersi in tutto il mondo molto velocemente, e potremo trovare all’improvviso il “regno” tra di noi ma, in base a quanto detto finora, esso potrebbe ugualmente essere rimandato per un tempo molto lungo. Tuttavia, Gesù stesso si aspettava che il “regno” arrivasse presto.”Il regno di Dio è vicino” (Mc 1:15; Mt 4:17; Lc 10:9, 11). In realtà, pare che egli l’abbia atteso entro la durata della vita dei suoi contemporanei — “prima che questa generazione passi” (Mc 13:30 parr; si veda anche 9:1 parr). Si dice addirittura che i suoi discepoli non avrebbero avuto il tempo di andare in giro per le città di Israele prima che il “figlio dell’uomo” giungesse (Mt 10:23). Quando si prendono in considerazione tutti gli elementi, comprese le parabole e l’urgenza della predicazione, non si può fraintendere l’aspettativa, da parte di Gesù, di qualcosa di molto vicino in futuro. Questo non significa che Gesù abbia affermato di conoscere il giorno e l’ora del suo arrivo. Secondo Marco, Gesù negò qualsivoglia conoscenza segreta del giorno e dell’ora (13:32). Le prove indicano tutte un intervento divino che giunge all’improvviso e in modo inatteso, come un ladro nella notte o un lampo (Mc 13:33-37; Mt 24:42-44; 25:13; Lc 12:35-40; 17:24). Siccome nessuno sa quando potrà venire, la gente sarà colta impreparata. Da qui la ricorrente esortazione alla vigilanza e all’attenzione. I primi Cristiani possono aver letto in questo più di quanto Gesù abbia voluto dire, ma Gesù si oppose nettamente ad ogni tipo di calcolo della data per mezzo di segni e portenti (Lc 17:20-24). Perché, allora, Gesù insistette sull’imminenza del “regno”? Quello che generalmente non si nota o si evita è che la prossimità di un qualche tipo di intervento divino non fu un contributo originale da parte di Gesù. Si trattava di una credenza piuttosto comune nel suo tempo. Fu la credenza che spinse gli Esseni nel deserto per prepararsi. Fu la convinzione che ispirò le visioni e i calcoli degli scrittori apocalittici. La stessa credenza indusse gli Zeloti ad attendersi che Dio venisse a dare loro la vittoria sui Romani, così che essi potessero fondare il “regno” di Dio in Israele. Giovanni il Battista chiamò gli uomini ad un battesimo di pentimento perché anch’egli si aspettava un intervento divino imminente – un giudizio dello stesso Israele. In altre parole, le speranze e le aspettative avevano raggiunto un picco di intensità che non aveva precedenti. La situazione era fluida, la guerra contro i Romani infuriava e il cambiamento era nell’aria. Israele avrebbe sconfitto i Romani? Il Messia sarebbe venuto? La guerra stava per finire? Gesù, con Giovanni il Battista, credeva che Israele si 143
Il sacerdote-sociologo Andrew M. Greeley, il cui approccio gli ha permesso di vedere il legno nonostante l’eccessiva crescita di alberi nel mondo dello studio del Nuovo Testamento, ha sottolineato questo punto (The Jesus Myth, pp. 48-49).
sarebbe diretto alla distruzione nell’imminente futuro. L’evento che sarebbe giunto presto era la catastrofe. La reazione di Giovanni alla catastrofe fu negativa. Egli cercò di evitarla, o di salvare da essa almeno alcune persone. La reazione di Gesù fu positiva. Era il momento della verità. La minaccia del disastro imminente costituiva una opportunità unica perché il “regno” giungesse. Di fronte alla distruzione totale, Gesù vide la propria occasione di fare appello ad un cambiamento immediato e radicale. “Se non vi ravvederete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13:3,5*). Se cambierete, se crederete, invece della catastrofe arriverà il “regno”. Il fatto che questa crisi inedita abbia dato agli uomini un’opportunità – la prima nel suo genere – di scegliere tra il “regno” e la catastrofe è il tema di numerose parabole o detti. Il nucleo della parabola del fattore infedele è che, di fronte alla perdita di ogni cosa, egli agisce immediatamente e in modo decisivo, mettendo così al sicuro la sua felicità futura (Lc 16:1-8). D’altro canto il ricco stolto costruisce dei granai più grandi, e poi perde tutto (Lc 12:16-20). “E che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde la sua vita?” (Mc 8:36* parr). Se non presagiscono la catastrofe e non agiscono di conseguenza, gli uomini, e in particolare i capi, saranno colti alla sprovvista come il padrone di casa che dormiva quando venne il ladro (Mt 24:43) o l’uomo la cui casa crollò nella tempesta perché, stupidamente, il suo padrone l’aveva costruita sulla sabbia (Mt 7:24-27). Ora è tempo di decidere e di agire non solo per evitare di perdere tutto, ma anche perché viene offerta un’alternativa: un grande tesoro, una perla di valore inestimabile, un grande banchetto (Mt 13:44-46; Lc 14:15-24 par). Rimandare, ora, significa rischiare di perdere un’opportunità unica.144 Domani può essere troppo tardi. La prossimità del “regno” non era una certezza, era una possibilità. Quello che per Gesù era sicuro era che, nell’imminente futuro, la catastrofe o il “regno” sarebbero giunti.145 Per Gesù l’eschaton, o atto imminente di Dio, era un evento o - o. Questo è ciò che caratterizzava e determinava il tempo di Gesù come un tempo per la decisione e l’azione, un’opportunità unica. Tutti i riferimenti diretti o indiretti all’imminenza dell’intervento divino confermano questa conclusione. Gesù non consolò mai i poveri con il pensiero che il “regno” era vicino: egli profetizzò invece che il “regno”, quando fosse giunto, sarebbe appartenuto a loro. Non vi era alcuna garanzia che il “regno” sarebbe giunto presto. Quella che sarebbe arrivata “prima che questa generazione passi”, e se quella generazione non si fosse pentita, era la catastrofe (Mc 13:2-4, 30; Lc 13:3, 5). Nel complesso l’evento imminente non è la venuta del “regno” come tale ma la venuta del “figlio dell’uomo” (Mc 13:26 parr; 14:62 parr; Mt 10:23; 19:28; 24:37-39, 44 par; Lc 17:24; 21:36). Sia che Gesù abbia usato questa frase, sia che non l’abbia fatto, 146 il riferimento alla venuta del “figlio dell’uomo” è senza dubbio in riferimento alla venuta di un giudice (Mc 8:38 parr; Mt 10:32-33 parr; 19:28; 24:37-39 par). È decisamente possibile che “il figlio dell’uomo che deve venire” coincida con “colui che deve venire”, ossia il giudice del quale parlò Giovanni il Battista. Il riferimento, in ogni caso, è ad un evento di giudizio (Mt 24:37-39 par). Nelle poche occasioni nelle quali di dice che il “regno” stesso è vicino (Mc 1:15; 9:1 parr; Mt 4:17; Lc 10:11) il contesto spiega che si tratta di un monito relativo ad un giudizio imminente, ad un evento o – o. Quindi non si dice che Gesù disse: “Gioite perché il regno di Dio è vicino”, ma: “Pentitevi, perché il regno di Dio è vicino” (Mt 4:17, si confronti con Mc 1:15 e Mt 3:2). Tutti i riferimenti ad un qualche evento imminente sono moniti. Si può trarre la stessa conclusione dal tema dell’“urgenza” nei vangeli. A causa dell’estrema urgenza della predicazione missionaria non c’è posto per i predicatori che si guarderanno indietro dopo aver messo mano all’aratro (Lc 9:62). Non c’è tempo di andare a casa per seppellire il 144
Eta Linnemann, pp. 101-104.
145
Gaston, pp. 426-428.
146
Si vedano pp. 145-146.
proprio padre, ossia per aspettare che muoia (Lc 9:59-60 par). Non c’è tempo per chiamate di cortesia ai propri amici o parenti (Lc 9:61; 10:4). Bisogna viaggiare leggeri e veloci (Lc 9:3; 10:4 par). L’urgenza del compito richiede che si abbandoni tutto immediatamente, e si lascino reti, lavoro, casa, famiglia e genitori per seguire le orme di Gesù predicando il “regno” di Dio (Mc 1:20 par; 10:28 parr). Perché? Perché Israele si avviava alla distruzione. Se fosse stato garantito un “regno” grande e glorioso nel prossimo futuro, non ci sarebbe stato bisogno di una urgente campagna di predicazione. Non c’era tempo da perdere, perché in quelle circostanze l’unico modo di impedire ad Israele di gettarsi a capofitto in una catastrofe era provocare un radicale cambiamento del cuore, un cambiamento sufficientemente radicale da permettere al “regno” di venire al posto della catastrofe. È anche vero che se fosse giunto il “regno” invece della catastrofe, coloro che non fossero appartenuti al “regno” avrebbero vissuto una catastrofe individuale e personale. Si sarebbero trovati nella completa oscurità (Mt 8:12; 22:13; 25:30), privati di tutto ciò che di più caro avevano avuto nella vita. Quelli che si erano affidati al denaro, al prestigio, alla solidarietà di gruppo per avere felicità e sicurezza avrebbero scoperto che queste cose erano scomparse dal nuovo mondo del “regno”. Avrebbero vissuto questa esperienza come la perdita di ogni cosa, la perdita di tutto quello che aveva dato un significato alle loro vite, una distruzione del loro stesso sé. Non sarebbero stati esclusi dal “regno”: si sarebbero esclusi da soli. Questa catastrofe personale, a volte, è raffigurata come il trovarsi nell’oscurità totale o come l’essere gettati nel fuoco della Geenna. Geenna era il nome di una valle appena fuori Gerusalemme. Era ben nota come il luogo in cui, secoli prima, erano state commesse le azioni più malvagie: dei bambini erano stati bruciati vivi come sacrifici umani agli dei pagani (2 Cron 28:3; 33:6; Ger 7:31). Era un posto del tutto empio, contaminato, malvagio, quindi alla fine fu usato come discarica di Gerusalemme. Come tutte le discariche, era un posto maleodorante e malsano in cui ogni cosa si decomponeva gradualmente, era divorata dai vermi e in cui il fuoco che ardeva senza sosta, comune nelle discariche, completava l’opera di distruzione e corruzione. Il destino peggiore che si potesse immaginare era essere gettati nella discarica ardente della Geenaa ed essere lasciati a marcire. Questa fu l’origine dell’immagine cristiana ed ebraica dell’inferno. L’immagine del fuoco e dei vermi è derivata dalla discarica della Geenna. Si noti che, secondo questa immagina, sono i vermi a non morire mai, e il fuoco ad essere perpetuo o eterno. Ogni cosa, e chiunque altro, nella Geenna muore, si decompone e viene distrutto. La Geenna è l’immagine della distruzione totale, l’estremo opposto della vita. Se Gesù usò questa immagine, questo è ciò che ebbe in mente. “E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10:28). L’inferno è la distruzione dell’anima o dell’intera personalità di una persona: quella che il Libro della Rivelazione chiama la seconda morte (2:11; 20:6, 14; 21:8). In questo senso alcune persone sono già morte. “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8:22 par). Pochissimi, tra loro, trovano la strada verso una vita autentica e genuina: “Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa. Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano” (Mt 7:13*-14). Sotto l’influenza dell’idea greca che un’anima sia naturalmente immortale, i cristiani interpretarono la Geenna o inferno come un luogo di sofferenza perpetua per un’anima disincarnata ma indistruttibile. Ma non fu solo il pericolo di una catastrofe personale di quel tipo per tante persone a rendere così urgente la missione di Gesù. Il disastro sociale e politico verso il quale Israele si dirigeva avrebbe coinvolto tutti – innocenti e colpevoli. Raramente gli innocenti sono risparmiati in un massacro (Mc 13:14-20). Viene loro consigliato di scappare per salvarsi e di “fuggire sulle montagne” (Mc 13:14-16). L’urgenza immediata era prevenire questa tragedia147 incoraggiando tutti gli uomini a 147
Gaston, pp. 422-426.
cogliere l’opportunità di orientare le proprie vite verso il “regno” di Dio. Nella realtà, come sappiamo, fu la catastrofe a giungere, e non il “regno”. Nel 70 E.C. i Romani distrussero Gerusalemme e il Tempio. Nel 135 E.C. essi completarono la tragedia distruggendo il popolo di Israele ed espellendo gli Ebrei dalla Palestina. Fu un massacro spietato che provocò sofferenze indicibili e perdita di vite umane. Gesù non era stato frainteso; aveva fallito, o meglio, la gente non lo aveva capito. Una opportunità unica era andata perduta. Ma non era assolutamente la fine. Ci sarebbe stata un’altra possibilità, e un’altra ancora, perché il “regno” di Dio, alla fine, sarebbe venuto – Dio avrebbe avuto l’ultima parola. I primi Cristiani, semplicemente, adattarono la profezia di Gesù alla nuova serie di circostanze nelle quali si trovarono. Il messaggio di Gesù, come quello di ogni altro profeta,148 non era senza tempo. Tuttavia, esso indicava qualcosa sugli uomini e su Dio che era così fondamentalmente e definitivamente vero da poter essere reinterpretato in relazione ad altri tempi ed altri luoghi. Quando il messaggio fu portato fuori dalla Palestina, con la sua specifica crisi politica, e più specificamente una volta che i Romani ebbero distrutto il popolo ebraico, si avvertì che il messaggio doveva essere adattato ad altre situazioni, o sicuramente ad ogni e ciascuna situazione. Questo fu fatto rendendo apocalittico il messaggio. Non è mio obiettivo in questo libro discutere dei meriti o demeriti di questo processo, ma soltanto notare che questo è ciò che gli evangelisti fecero con il messaggio originale di Gesù. Possiamo vedere gli inizi di questo processo si apocalittizzazione del messaggio ancor prima della distruzione del popolo ebraico, nel vangelo di Marco.149 “Quel che dico a voi lo dico a tutti” (13:37). L’eschaton diventa un evento sovrastorico distinguibile dalla catastrofe storica e politica che stava per accadere (13:7, 10, 29). Il giudizio sovrastorico nell’ultimo giorno è poi usato, nell tipico stile apocalittico, a scopi moralizzatori 150 e come una minaccia riguardante l’individuo piuttosto che la società. Matteo porta questo processo molto più avanti, ponendo una grande enfasi sul giorno del giudizio e sulla ripartizione della ricompensa e del castigo. 151 Quello che Gesù ebbe da dire a proposito dell’ultimo giorno non fu apocalittico, fu profetico. Possiamo recuperare quello che Gesù volle dire agli uomini del suo tempo, prima del Cristianesimo, soltanto “deapocalitticizzando” i vangeli.
148
Si veda p. 92.
149
Gaston, pp. 41-60.
150
Gaston, pp. 53-60.
151
Joachim Rohde, Rediscovering the Teaching of the Evangelists pp. 48-49, 55, 107-109.
PARTE QUARTA IL CONFRONTO Capitolo 13 La Politica e la Religione Il fatto più certo e documentato su Gesù di Nazareth è che egli fu processato, condannato e giustiziato dal procuratore romano Ponzio Pilato con l’accusa di alto tradimento. Questo non lo rende unico. Molte migliaia di ribelli e rivoluzionari ebrei furono crocifissi dai governatori romani della Palestina in questo periodo. Gli Ebrei, nel complesso, si opponevano al governo romano, e alcuni di essi, come abbiamo visto, furono impegnati a rovesciare i Romani e a restaurare il regno di Israele. Gesù fu giudicato colpevole di essere coinvolto in una cospirazione di questo genere e, inoltre, di aver affermato di essere il legittimo re degli Ebrei, l’erede al trono, o quello che gli Ebrei avrebbero chiamato il Messia. “Abbiamo trovato quest’uomo che sovvertiva la nostra nazione, istigava a non pagare i tributi a Cesare e diceva di essere lui il Cristo [Messia] re...” (Lc 23:2). La scritta sopra la sua croce (Il Re degli Ebrei) non lascia dubbi sull’accusa che gli fu rivolta. Egli fu colpevole o no? Incitò il popolo alla rivolta? Si oppose al pagamento delle tasse ai Romani? Affermò di essere il re, o il Messia che avrebbe dovuto governare gli Ebrei al posto di Erode, Pilato o Cesare? Progettò di rovesciare il governo? Ad un estremo abbiamo chi afferma che egli fu colpevole (almeno per quanto riguarda le autorità romane), perché egli affermò di essere il Messia e volle dare inizio ad una violenta rivoluzione per rovesciare gli imperialisti romani. Si argomenta che Gesù fu profondamente coinvolto nella politica del tempo, e che fondò un movimento religioso-politico non dissimile da quello degli Zeloti.152 Le analogie tra Gesù e gli Zeloti vengono fortemente sottolineate. Uno dei dodici era conosciuto come Simone lo Zelota (Lc 6:15; Atti 1:13), e a volte si afferma che Pietro, Giuda e perfino i figli di Zebedeo siano stati anch’essi Zeloti. Inoltre, qualche anno dopo la morte di Gesù, un capo dei Farisei che, in realtà voleva dare una possibilità al movimento di Gesù, ritenne tuttavia che si trattasse di qualcosa di simile al movimento zelota di Giuda il Galileo (Atti 5:34-39). Ad un certo punto, Paolo fu scambiato per un noto capo ebreo rivoluzionario proveniente dall’Egitto (Atti 21:3738). All’estremo opposto abbiamo chi sostiene che Gesù fu del tutto innocente da quelle accuse politiche. Egli non volle incitare gli uomini alla rivolta, disse loro di pagare le tasse, fu un pacifista e affermò di essere il Messia “spirituale” o re “spirituale” degli Ebrei. Si afferma che Gesù non ebbe nulla a che fare con la politica del tempo, che predicò un messaggio puramente spirituale e religioso, e che le accuse politiche furono inventate dai capi ebrei che volevano sbarazzarsi di lui. La verità non sta in un punto tra questi due estremi. La verità è che entrambe le opinioni sono anacronistiche: entrambe proiettano concetti più recenti nella situazione e negli avvenimenti del passato. Gli Ebrei non facevano assolutamente alcuna distinzione tra politica e religione. Temi che oggi classificheremmo come politici, sociali, economici o religiosi sarebbero stati tutti pensati in termini di Dio e della Legge. Un problema puramente secolare sarebbe stato inconcepibile. Uno sguardo veloce al solo Nuovo Testamento dovrebbe chiarirlo. Tuttavia possiamo dire che alcuni problemi del tempo furono del tipo che definiremmo politico, ammesso che ricordiamo che, per gli Ebrei del tempo, questi temi sarebbero stati concepiti in termini della loro religione. In questo senso è possibile dire che il rapporto tra Israele e il potere imperiale di Roma fu un problema politico, o, se volete, un problema religioso-politico. Se Gesù differì 152
Robert Eisler, Jesous Basileus ou Basileusas; Samuel G. F. Brandon, Jesus and the Zealots, Joel Carmichael, The Death of Jesus.
dagli Zeloti su questo punto, non può averlo fatto solo perché voleva tenersi fuori dalla politica. Per gli Ebrei era una questione religiosa, e ci si aspettava che una persona religiosa avesse un’opinione su di esso come ci si aspettava che avesse un’opinione sul sabbath o sul digiuno (si veda Mc 12:13-17 parr). Gesù voleva che Israele fosse liberato dall’imperialismo romano così come lo desiderarono gli Zeloti, i Farisei, gli Esseni e tutti gli altri. Gli autori dei vangeli, però, non furono particolarmente interessati all’opinione di Gesù su questo tema, perché non riguardava quelli che vivevano fuori dalla Palestina e perché, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 E.C., questo non era più un tema importante per nessuno. Ma Luca, che volle tornare alle fonti originali (Lc 1:1-4), usò un documento che deve essere stato scritto in Palestina prima della caduta di Gerusalemme. Gli studiosi chiamano questo documento Proto-Luca, e affermano che moltissimi passi nel vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli sono stati ricavati da questa fonte. 153 Qui ciò che ci interessa è che Proto-Luca, a differenza della maggior parte delle altre fonti, di riferisce costantemente alla liberazione politica di Israele. In Proto-Luca, gli uomini che appaiono alla nascita e nella prima infanzia di Gesù sono definiti “tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme” (2:38) o “la consolazione di Israele” (2:25 RSV). La profezia di Zaccaria (il Benedictus) riguarda il Dio di Israele che porta “la liberazione al suo popolo” (1:68*) e “la salvezza dai nostri nemici, dalle mani di tutti quelli che ci odiano” (1:71*), “per renderci senza paura, salvati dalla mano dei nostri nemici” (1:74*). I nemici di Israele sono senza dubbio i Romani (si confronti con 19:43). La speranza e l’aspettativa espresse qui sono che Gesù “sarebbe stato quello che avrebbe liberato Israele” (24:21*). Gesù si accinse ad adempiere a questa aspettativa religioso-politica, anche se non nel modo che gli uomini potrebbero essersi aspettati, e sicuramente non nel modo in cui gli Zeloti tentarono di adempiere ad essa. Gesù si accinse a liberare Israele da Roma convincendo Israele a cambiare. Senza un cambiamento del cuore entro Israele stesso, la liberazione da ogni tipo di imperialismo sarebbe stata impossibile. Quello era stato il messaggio di tutti i profeti, compreso Giovanni il Battista. Gesù fu un profeta, e fu coinvolto nella politica proprio come lo erano stati tutti i profeti. Ma quale tipo di cambiamento avrebbe liberato Israele? Secondo Proto-Luca in particolare, Gesù si impegnò tantissimo a convincere gli Ebrei della Palestina che il loro presente atteggiamento di risentimento e rancore era suicida. Egli disse loro di leggere i segni dei tempi (12:54-56) e di giudicare da sé (12:57) invece di basarsi su quello che gli Zeloti e altri avevano detto loro. Nel contesto, questi sono i segni di una catastrofe imminente – “una nuvola che viene su da ponente” (12:54). È in Proto-Luca che la catastrofe è descritta nel modo più chiaro e coerente come una sconfitta militare per Israele, nella quale Gerusalemme sarebbe stata circondata dai suoi “nemici” (19:43), ossia “da eserciti” (21:20), e le “aquile” romane si sarebbero radunate intorno alla carcassa di Israele (17:37).154 Nessuna valutazione della situazione poteva essere più diversa dalle aspettative degli Zeloti. “Se non cambierete perirete tutti allo stesso modo” (13:3, 5*). Siccome non sarebbero riusciti a sconfiggere i Romani in una battaglia militare, poiché non sarebbero riusciti a perorare la propria causa contro i loro oppositori, l’unica cosa sensata da fare era riconciliarsi con essi (12:58). Secondo Gesù, l’unico modo per liberarvi dai vostri nemici era amare i vostri nemici, fare del bene a chi vi odia, pregare per chi vi tratta male (6:27-28). Questo non significa rassegnarsi all’oppressione romana, né significa cercare di ucciderli con gentilezza. 153
P. Feine, Eine vorkanonische Uberliefering des Lukas, Gotha, 1891; B. H. Sheeter, The Four Gospels, London, 1924, pp. 201-222; Vincent Taylor, Behind the Third Gospel, Oxford: Clarendon Press, 1926; H. Sahlin, Der Messias und das Gottesvolk, Uppsala, 1945; Lloyd Gaston, No Stone on Another, pp. 243-256.
154
La parola greca è “aquila” (aetos) non “avvoltoio”, anche se è dubbio che in aramaico si facesse una distinzione tra le due. L’aquila era il simbolo militare romano, vista qui come indistinguibile da un avvoltoio che divora una carogna. Si veda Gaston, p. 353.
Significa scendere alla radice di ogni oppressione e dominio: la mancanza di compassione da parte dell’umanità. Se il popolo di Israele avesse continuato ad essere carente di compassione, la sconfitta dei Romani avrebbe reso Israele più libero di prima? Se gli ebrei avessero continuato a vivere secondo i valori terreni del denaro, del prestigio, della solidarietà di gruppo e del potere l’oppressione romana non sarebbe stata sostituita da una oppressione ebraica egualmente priva di amore? Gesù era preoccupato molto di più della liberazione di quanto non lo fossero gli Zeloti. Essi desideravano un semplice cambiamento di governo – da romano ad ebraico. Gesù voleva un cambiamento che avrebbe condizionato ogni settore della vita e avrebbe raggiunto gli assunti più fondamentali degli ebrei e dei romani. Gesù voleva un mondo qualitativamente diverso – il “regno” di Dio. Non gli sarebbe bastata la sostituzione di un regno terreno con un altro regno terreno. Quella non sarebbe assolutamente stata una liberazione. Gesù vide ciò che nessun altro riuscì a vedere: che vi era più oppressione e sfruttamento economico dentro all’Ebraismo che fuori di esso. Gli ebrei di classe media che si ribellavano a Roma erano loro stessi oppressori dei poveri e dei non istruiti. Gli uomini dovevano soffrire molto di più a causa dell’oppressione degli scribi, dei Farisei, dei Sadducei e degli Zeloti che per colpa dei Romani. La protesta contro l’oppressione romana era ipocrita. Questo è il significato della famosa risposta di Gesù sul pagamento delle tasse a Cesare. In pratica, il governo romano significava tassazione romana. Per la maggior parte degli ebrei, pagare le tasse al sovrano romano significava dare a Cesare quello che apparteneva a Dio, ossia il denaro e gli averi di Israele. Ma per Gesù questa era una razionalizzazione, una scusa ipocrita per l’avarizia. Non aveva nulla a che vedere con il vero problema. “«È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? Dobbiamo darlo o non darlo?». Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro, ché io lo veda». Essi glielo portarono ed egli disse loro: «Di chi è questa effigie e questa iscrizione?» Essi gli dissero: «Di Cesare». Allora Gesù disse loro: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ed essi si meravigliarono di lui” (Mc 12:14-17). La risposta di Gesù rivela non solo l’ipocrisia e l’insincerità della domanda, ma anche il vero motivo alla base del problema delle tasse: l’avidità per il denaro. Le persone che rivolgono la domanda sono esse stesse in possesso di monete romane. Le monete erano considerate proprietà personale del sovrano che le emetteva.155 Questa moneta riportava il nome di Cesare e la sua immagine. Non è il denaro di Dio, ma il denaro di Cesare! Se rifiutate di rendere a Cesare quello che gli appartiene può essere solo perché siete amanti del denaro. Se davvero aveste voluto dare a Dio ciò che Gli apparteneva avreste venduto tutti i vostri averi e dato il denaro ai poveri, avreste abbandonato il vostro desiderio di potere, prestigio e i vostri averi. Il vero problema era l’oppressione in sé e non il fatto che un pagano romano osasse opprimere il popolo eletto di Dio. La radice dell’oppressione era la mancanza di compassione propria degli uomini. Coloro che risentivano dell’oppressione romana ma ignoravano la propria stessa oppressione dei poveri erano carenti di compassione esattamente quanto i Romani, se non di più. Considerata in termini di compassione, l’avversità del dover pagare le tasse ad un governo romano invece che ad un governo ebraico, e l’avversità del vedere la propria sensibilità religiosa a volte offesa dall’invasore pagano erano minime in confronto alle avversità sofferte dai poveri e dai peccatori per mano dei loro concittadini ricchi e virtuosi. Entrambe le difficoltà dovevano essere eliminate, ma Gesù era molto più sensibile ai problemi dei poveri e dei peccatori. Gesù spostò l’enfasi dall’oppressione dei Romani all’oppressione attuata dai Farisei e dai Sadducei (e, per implicazione, dagli Zeloti e dagli Esseni). Facendo questo, Gesù non evitava il problema politico. Perché, come ha evidenziato Segundo, “localizzare ‘l’elemento politico’ del periodo di Gesù nelle strutture dell’Impero Romano perché è 155
Alan Richardson, The Political Christ, p. 47. Una delle prime cose che gli Zeloti fecero dopo aver rovesciato i Romani nel 66 E.C. fu coniare nuove monete – monete su cui era iscritto “Per la Liberazione di Sion” e “Libertà di Sion”. Si veda Brandon, Jesus and the Zealots, p. 353.
ciò che più somiglia a un impero politico moderno... è un anacronismo”. Egli prosegue spiegando: “La vita politica, l’organizzazione civica delle moltitudini ebraiche, i loro oneri, la loro oppressione... dipendeva molto meno dall’Impero Romano e molto più dalla teologia che governava nei gruppi degli scribi e dei Farisei. Essi, e non l’Impero, imposero ai deboli degli oneri intollerabili... stabilendo in questo modo la vera struttura sociopolitica di Israele. In tal senso, la contro-teologia di Gesù fu molto più politica di quanto avrebbero mai potuto essere le dichiarazioni o le azioni contro l’Impero Romano”.156 Inoltre, le lotte degli Zeloti non avevano assolutamente nulla a che fare con l’autentica liberazione. Essi combattevano per il nazionalismo ebraico, per la razza ebraica, la superiorità degli Ebrei e il pregiudizio religioso ebraico. La vera liberazione significa abbracciare la causa degli uomini in quanto esseri umani. Amare i vostri nemici è vivere in solidarietà con tutti gli uomini e abbracciare la causa degli uomini in quanto esseri umani. La rivoluzione che Gesù voleva fare era molto più radicale di qualsiasi cosa gli Zeloti o chiunque altro avessero potuto avere in mente. Ogni sfera della vita – politica, economica, sociale e religiosa – fu messa radicalmente in discussione da Gesù e capovolta. Le idee attuali su cosa fosse giusto e equo furono dimostrate prive di amore, e quindi contrarie alla volontà di Dio. Troviamo esempi di questo nella parabola dei lavoratori nella vigna (Mt 20:1-15) e nella parabola del figliol prodigo (Lc 15:11-32). I lavoratori che hanno svolto “una pesante giornata di lavoro nella calura” si lamentano perché altri hanno ricevuto la stessa paga per aver lavorato soltanto un’ora. In realtà sembra iniquo e ingiusto, davvero non etico. Ma non è così. Un denaro è una paga giusta per una giornata di lavoro, e questo è ciò su cui si erano accordati. Ma il datore di lavoro, come Dio, era stato mosso dalla compassione per i numerosi disoccupati che aveva trovato nella piazza del mercato, e per autentico interesse nei confronti loro e delle loro famiglie157 li aveva assunti per il resto della giornata, e aveva pagato ad essi un salario che non era proporzionale al lavoro svolto, ma era proporzionale alle loro necessità e a quelle delle loro famiglie. Quelli che avevano lavorato tutto il giorno non condivisero la compassione del padrone per gli altri, e di conseguenza si lamentarono. La loro “giustizia”, come la “giustizia” degli Zeloti e dei Farisei, è senza amore.158 Essi invidiano l’altrui fortuna e, come Giona, si dolgono della compassione e della generosità di Dio nei confronti degli altri. Nello stesso modo nella parabola del figliol prodigo il figlio maggiore, che aveva lavorato fedelmente per suo padre “tutti questi anni” e non disobbedì nemmeno una volta agli ordini di suo padre (come gli Zeloti e i Farisei) è indignato quando sente che suo padre ha ucciso il vitello grasso e sta facendo una festa per il suo fratello peccatore. Il figlio maggiore non condivide la compassione di suo padre per il figlio perduto. Quindi sente che suo padre è ingiusto. Se dobbiamo usare delle categorie, come politica e religione, e se le dobbiamo usare nel senso che esse oggi generalmente hanno, dovremmo dire che Gesù non criticò gli Zeloti perché erano troppo politici: li criticò, insieme ai Farisei e agli Esseni, perché erano troppo religiosi. Gli Zeloti erano religiosi in modo fanatico. Fu il loro zelo per la legge di Dio a spingerli ad assassinare gli ebrei che tradivano la loro religione (e, di conseguenza, il loro popolo) e a prendere le armi contro l’invasore pagano. Gli Zeloti desideravano seguire l’esempio di Fineas, il quale, quando uccise un ebreo per aver giaciuto con una donna pagana, fu lodato per il proprio zelo religioso (Num 25:6—13). 159 Quel che portò i 156
“Capitalism-Socialism: A Theological Crux” in Concilium, Gennaio 1974, p. 118.
157
Joachim Jeremias, The Parables of Jesus, p. 139.
158
159
C’è una parabola molto simile nel Talmud di Gerusalemme (circa 325 C.E.). Ma la differenza fondamentale è che nella parabola rabbinica la “giustizia” è salvaguardata dal fatto che si dice che il lavoratore che lavorò solo due ore fece più lavoro in quel tempo di quanto gli altri avevano fatto in tutta la giornata. Si veda Jeremias, pp. 138-139. Si veda Brandon, pp. 43-44.
Farisei a perseguitare ed opprimere i poveri e i peccatori fu il fanatismo religioso. L’odio degli Esseni per gli ebrei impuri era ispirato dalla religione. Ci è difficile immaginare il trauma con cui la parabola del pubblicano e dei fariseo deve essere stata ricevuta (Lc 18:9-14). Il fariseo è raffigurato come un uomo esemplare di religione. Egli fa ancor più di quello che la legge gli chiede: digiuna due volte alla settimana. Non viene suggerito che egli fu un ipocrita. Non chiede che la sua virtù sia riconosciuta, ringrazia Dio per essa. Il pubblicano, o esattore delle tasse, d’altro canto, pur chiedendo misericordia a Dio, non tenta di fare ammenda e restituire tutto il denaro che ha rubato. Il verdetto di Gesù su questi due uomini deve essere suonato oltraggioso. Il peccatore compiace Dio e l’uomo virtuoso no. Perché? Perché il peccatore non si esaltò, e il virtuoso lo fece. Il fariseo osò considerarsi superiore ad altri, come l’esattore delle tasse: “io non sono come gli altri uomini... neppure come questo esattore delle tasse”. Questa non è tanto una questione di orgoglio, quanto incapacità di vedere la compassione di Dio nei confronti degli uomini. Senza la compassione, tutte le pratiche e le credenze religiose sono inutili e vuote (1 Cor 13:1-3). Senza la compassione ogni politica sarà oppressiva, perfino le politiche della rivoluzione. Una delle cause fondamentali dell’oppressione, della discriminazione e delle sofferenze in quella società fu la sua religione – la religione senza amore dei Farisei, Sadducei, Esseni e Zeloti, la religione degli uomini. E nulla è più difficile da cambiare dello zelo religioso. La pietà e le opere buone dello zelante uomo religioso fanno sì che egli senta che Dio è dalla sua parte. Egli non aveva bisogno della misericordia e del perdono di Dio; erano gli altri ad averne bisogno. Il peccatore, d’altro canto, era perfettamente consapevole del suo disperato bisogno di misericordia e perdono (Lc 18:13) e del suo bisogno di cambiare la sua vita. Quando a un uomo che sa di avere un grande debito viene offerto il perdono, egli è estremamente riconoscente e grato (Lc 7:41-43, 47). Gesù scoprì presto che era l’uomo religioso zelante, e non il peccatore o il romano pagano, a costituire un ostacolo alla venuta del “regno” della liberazione totale. Gesù deve aver visto questo innanzitutto nella reazione degli uomini alla profezia di Giovanni il Battista. I maestri della religione non erano disposti ad accettare il fatto che Israele si dirigeva alla distruzione (Mt 21:25-26, 32). Perché Dio avrebbe voluto punire loro invece dei Gentili e dei peccatori? I peccatori, d’altra parte, si recarono a frotte da Giovanni per riceve il battesimo, poiché non avevano motivo di dubitare che una catastrofe fosse imminente. Dopotutto, sapevano di essere dei peccatori. Per come Gesù la vedeva, i maestri della religione privi di amore erano gli uomini che avevano detto “sì” a Dio e avevano promesso di obbedirGli (Mt 21:28-31), ma nel momento di crisi, quando un “regno” di compassione e di fratellanza viene offerto loro, rifiutano di unirsi alla festa (come il figlio maggiore nella parabola – Lc 15:28), e presentano delle scuse (come gli invitati al grande banchetto – Lc 14:16-24 par). Le prostitute e gli altri peccatori in origine avevano detto “no” a Dio, ma nel momento della crisi, quando Gesù rivela la compassione ed il perdono di Dio, sono disposti ad accettare il “regno”. Certamente, la cosa più sorprendente nei vangeli è che Gesù predicò un “regno” religioso-politico dal quale gli “uomini” della religione (gli Zeloti, i Farisei, gli Esseni e i Sadducei) sarebbero stati esclusi, o meglio, dal quale essi si sarebbero volontariamente esclusi. Secondo Matteo Gesù disse loro che “gli esattori delle tasse e le prostitute entrano nel regno di Dio, e voi no” (Mt 21:31). 160 Il fatto che i “figli del regno” debbano essere lasciati fuori (Mt 8:12 par) mentre i “nemici” di Dio, i peccatori e i pagani, si affrettavano a farsi strada con la forza in esso deve essere sembrata una “violazione” di ogni giustizia ed equità. Questo deve anche essere stato il significato originale dell’enigmatica affermazione di Gesù: “La legge e i profeti hanno durato fino a Giovanni; da quel tempo è annunciata la buona notizia del regno di Dio, e ciascuno vi 160
La parola proagousin ha un significato esclusivo (invece di voi) e non un significato temporale (prima di voi), secondo Jeremias, p. 125.
entra a forza [= e ciascuno è spinto in esso con la forza]” 161 (Lc 16:16*). “Dai giorni di Giovanni il Battista fino a ora, il regno dei cieli è preso a forza [= subisce una forte pressione] e i violenti [= quelli che si fanno strada in esso a forza] se ne impadroniscono. Poiché tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni” (Mt 11:12). La violenza, qui, non significa spargimento di sangue e l’uso delle armi. Significa non usare i canali normali – la legge e i profeti. L’immagine è quella delle folle (ciascuno e tutti) che entrano nel caos in una città in un modo che ai legittimi cittadini (i Farisei) sembra illegale ed ingiusto. La frequentazione di Gesù con i peccatori nel nome di Dio, e la sua fiducia che essi avevano l’approvazione di Dio, mentre i virtuosi non l’avevano, erano una “violazione” di tutto ciò che Dio, la religione, la virtù e la giustizia avevano significato. Ma allora Gesù non era impegnato in una rinascita religiosa; egli era impegnato in una rivoluzione – una rivoluzione nella religione, nella politica e in tutto il resto. Sarebbe stato impossibile, per gli “uomini” dell’epoca di Gesù, averlo ritenuto un uomo principalmente religioso che rimase lontano dalla politica e dalla rivoluzione. Essi lo avrebbero considerato un uomo blasfemo e irreligioso che, sotto la copertura della religione, minava tutti i valori sui quali erano basate la religione, la politica, l’economia e la società. Ma che avrebbero pensato i Romani di tutto questo? L’avrebbero ritenuta una oscura divergenza di opinione tra i “nativi” di questa specifica colonia? In realtà, la questione fu mai riportata loro? Gesù disapprovava l’oppressione romana come faceva qualsiasi ebreo, sebbene per motivazioni diverse. Egli disapprovava il loro modo di “fare sentire l’autorità” e il loro modo di “signoreggiare sui loro sottoposti” (Mc 10:42). Ma egli immaginò di cambiare questo cambiando Israele, così che Israele potesse presentarsi ai Romani con un esempio vivente dei valori e degli ideali del “regno”. Egli non pensò che mettere i Romani in confronto immediato e diretto con il “regno” di Dio avrebbe risvegliato in loro la compassione e la fede necessarie. Tuttavia, Gesù, infine, sentì che sarebbe stato necessario confrontarsi con quegli ebrei che collaboravano con Roma: i sommi sacerdoti e gli anziani, i capi del popolo, che appartenevano al partito dei Sadducei. Finora Gesù aveva criticato gli uomini di regione, in particolare gli scribi e i Farisei; ora deve confrontarsi con gli uomini d’affari, le autorità ebraiche a Gerusalemme. Non perché collaboravano con Roma, ma perché sfruttavano i poveri. Adesso dobbiamo affrontare la storia di questo confronto – il confronto che lo portò ad una morte violenta.
161
J. Duncan M. Derrett, pp. 187-191. Si veda inoltre Jeremias, New Testament Theology, pp. 111-112.
Capitolo 14 L’Episodio nel Tempio Tutte le prove indicano un punto di svolta definito, per quanto in qualche modo misterioso, nella vita di Gesù. Sebbene non si interessino in modo particolare alle cause ed effetti storici, i vangeli e le tradizioni alla base di questi sono tutti consapevoli di un cambiamento della situazione, ad un qualche punto del percorso. Il loro interesse in questo cambiamento è teologico piuttosto che storico. Ogni autore desidera farci capire che l’opposizione a Gesù da parte dei capi dell’Ebraismo raggiunse un apice e che, allo stesso tempo, le aspettative messianiche di molti uomini finirono per concentrarsi nettamente su Gesù, mentre quest’ultimo, a questo punto, si ritirò in un luogo isolato insieme ai suoi discepoli, dedicò maggiore attenzione alla loro istruzione e si preparò ad andare a Gerusalemme a morire.162 Il problema, da un punto di vista storico, è l’anello mancante che spiega come Gesù sia improvvisamente diventato così famoso e senza dubbio conosciuto. La sua attività ed il suo insegnamento, di per sé, erano abbastanza esplosivi, ma in che modo lui e le sue intenzioni divennero noti in modo sufficientemente ampio da essere di interesse nazionale, così che le autorità abbiano voluto arrestarlo e il popolo abbia desiderato fare di lui il Messia-Re? Perché dovette nascondersi e diventare un latitante, e cosa lo rese così sicuro che lui e suoi seguaci sarebbero deceduti di morte violenta? La risposta è stata fornita da una delle rare brillanti scoperte nella storia dello studio del Nuovo Testamento. Etienne Trocme, prima in un articolo e poi in un libro su Gesù, 163 ha dimostrato che l’episodio del Tempio non avvenne nell’ultima settimana di vita di Gesù, ma durante una precedente visita a Gerusalemme. L’approccio schematico di Marco, in cui ogni cosa avvenuta in Galilea viene narrata prima di tutto ciò che successe a Gerusalemme, ha sviato non soltanto Luca e Matteo ma tutti i successivi studiosi dei vangeli. Giovanni, che ha il suo approccio schematico centrato sulla Giudea e su Gerusalemme, pone l’episodio del tempio da qualche parte vicino all’inizio del ministero di Gesù (2:13— 22). Giovanni è interessato alla cronologia ancora meno di Marco, ma la sua collocazione dell’episodio indica che non è necessario associarlo all’ultima visita di Gesù a Gerusalemme: esso non faceva parte delle narrazioni originali della passione. Si è sempre capito che Gesù deve aver viaggiato avanti e indietro tra la Galilea e Gerusalemme e che egli ebbe dei discepoli a Gerusalemme e in 162
Marco costruisce l’opposizione degli scribi, dei Farisei e degli erodiani a Gesù (2:6,16, 24; 3:2, 6, 22; 7:1-2; 8:11,15). Poi, dopo vari riferimenti al ritiro di Gesù dalle folle e dai villaggi della Galilea (7:24, 31; 8:22, 27), porta la prima parte del suo vangelo ad un climax con la cosiddetta “confessione” di Pietro del ruolo messianico di Gesù (8:27-30), che è seguita dalle istruzioni impartite ai suoi discepoli a proposito della sua morte imminente (8:31-32; 9:30-32; 10:33-34) e dall’inizio del suo viaggio verso Gerusalemme (10:1, 32, 46). Matteo segue Marco. Egli vede l’opposizione come quella dei Farisei e dei Sadducei invece che dei Farisei e degli erodiani (16:1, 6, 11, 12) e tuttavia afferma che il motivo del ritiro di Gesù fu l’esecuzione di Giovanni il Battista ordinata da Erode (14:13). Anche Luca segue Marco, anche se per lui i principali oppositori sono semplicemente gli scribi e i Farisei (ad es., 5.17, 21 30- 6:2). D’altro canto, in Luca sono i Farisei ad avvisare Gesù che Erode vuole ucciderlo e che, perciò, gli consigliano di nascondersi (13:31). Ma secondo Luca Gesù non si preoccupava delle minacce di Erode, perché sapeva di dover morire a Gerusalemme (13:32-33). Da qui il lungo viaggio verso Gerusalemme (9:51; 10:38; 13:22; 17:11; 18:35; 19:1, 11, 28). Giovanni è indipendente da Marco. Egli non è particolarmente interessato ai vari “partiti” tra i capi di Israele. Gli oppositori di Gesù sono semplicemente gli Ebrei (ad es., 2:18; 5:10, 16, 18, 6:41, 52) o i Farisei (ad es., 7:32; 8:13; 9:14, 15, 40). Il punto di svolta per Giovanni e il motivo per cui Gesù si nascose fu la decisione del Sinedrio che Gesù doveva morire (11:45-54).
163
“L’Expulsion des Marchands du Temple” in New Testament Studies 15 (1968-9), pp. 1-22 ed Etienne Trocme, Jesus as Seen by His Contemporaries, pp. 110-115.
Giudea così come in Galilea.164 Il contributo di Trocme fu evidenziare che l’episodio del Tempio avvenne durante una visita precedente a Gerusalemme, e che esso fornisce l’anello che manca a metà dei vangeli sinottici. Questo fu l’episodio che fece di Gesù una figura pubblica, conosciuta e discussa in tutta la nazione. Cosa successe nel Tempio? La cosiddetta “purificazione” un colpo da maestro oppure una conquista del Tempio come primo passo verso la conquista di Gerusalemme, come hanno sostenuto alcuni autori.165 Né, d’altra parte, essa ebbe alcunché a che fare con i riti e le cerimonie sacrificali che si svolgevano nel Tempio,166 né con la vaga aspettativa ebraiche che il culto del Tempio sarebbe stato purificato dal Messia negli ultimi giorni. Gesù passò all’azione nel grande cortile dei Gentili e non nel Luogo Santo in cui si offrivano i sacrifici, e passò all’azione a causa dei commercianti e dei cambiavalute. In altre parole la sua preoccupazione, come ci si può benissimo aspettare da quanto abbiamo visto finora, non fu conquistare il potere o purificare il rituale. Questa preoccupazione fu l’abuso del denaro e del commercio. Ci sono molte prove esterne ai vangeli a favore dell’esistenza di un commercio in forte crescita degli animali da sacrificio nel grande cortile del Tempio.167 Ci sono anche prove secondo le quali i commercianti ricavarono un vantaggio dalla domanda di animali puri per i sacrifici devozionali alzando i prezzi – a volte fino a vette esorbitanti.168 I cambiavalute devono essersela passata molto bene anche loro. Ogni maschio ebreo doveva spendere una certa proporzione del proprio reddito a Gerusalemme169 e la maggior parte dei pellegrini ebrei sarebbe arrivata con della moneta estera. Questo è quel che Gesù vide nel tempio. Questo è ciò che accese la sua ira. Egli non fu impressionato dalla grandiosità degli edifici e dei colonnati (Mc 13:1-2 parr) ed ignorò l’elaborato rituale e la cerimonia.170 Egli notò soltanto la vedova che diede la sua ultima moneta (Mc 12:41-44 par) e lo sfruttamento economico della devozione e della pietà degli uomini. Qui c’erano mercanti e cambiavalute che servivano Mammona in modo eclatante invece di Dio – con il permesso, forse con la connivenza e probabilmente per il profitto dei sommi sacerdoti che amministravano la Casa di Dio. Gesù era deciso a fare qualcosa a questo proposito. La sua compassione per i poveri e gli oppressi sfociò ancora una volta nell’indignazione e nella rabbia. Secondo Marco Gesù notò queste cose un pomeriggio, quando era già troppo tardi nella giornata per farci qualcosa (11:11). Così il giorno seguente egli tornò, presumibilmente dopo aver radunato una folla di sostenitori che lo aiutasse. Da solo non sarebbe mai riuscito ad espellere i commercianti e i cambiavalute, sicuramente molto contrari. Questo significa che l’azione di Gesù fu premeditata e pianificata. Non si trattò di un impulso momentaneo del tipo di cui dopo ci si pente. Gesù e i suoi sostenitori obbligarono i commercianti e i cambiavalute, insieme alla loro mercanzia e al denaro, a lasciare il cortile. Secondo Giovanni, Gesù usò una frusta (2:15). Anche i suoi seguaci avevano delle fruste, oppure brandirono le spade? Non lo sappiamo. Gesù deve aver messo delle guardie agli ingressi del cortile non solo per impedire ai commercianti arrabbiati di tornare ma anche per attuare il suo ordine (del quale Marco ci informa) che nessuno portasse alcunché attraverso il cortile (11:16). Il cortile, presumibilmente, era stato usato come scorciatoia per la consegna delle merci da una parte all’altra di 164 165
Oltre al Vangelo di Giovanni si veda Mc 10:47; 11:1-6; 14:3,1315; 15:43. Joel Carmichael, pp. 111-133; Samuel G. F. Brandon, Jesus and the Zealots, pp. 331336, 350-351.
166
Cf. Lloyd Gaston, No Stone on Another, p. 85.
167
Joachim Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus, pp. 48-49.
168
Jeremias, pp. 33-34.
169
Jeremias, p. 134.
170
Gaston, p. 102.
Gerusalemme. L’operazione deve aver creato un tumulto immediato. Si è spesso chiesto perché l’ubiqua polizia del Tempio o la guarnigione romana nella fortezza che dominava il cortile non siano intervenute. Temevano forse che un intervento armato potesse innescare una rivolta? Oppure intervennero? Alcuni autori hanno avuto la bizzarra idea che Gesù e i suoi discepoli abbiano coinvolto la polizia del Tempio, e forse addirittura la guarnigione romana, in battaglia, e che per un poco Gesù abbia tenuto loro testa e abbia mantenuto il controllo del tempio.171 Questo è storicamente impossibile, non solo perché non concorda con quello che Gesù aveva detto e fatto fino a quel momento né con gli eventi successivi, ma anche perché questo sarebbe stato sicuramente annotato negli annali dello storico ebreo Giuseppe Flavio come un evento di notevole importanza politica e militare. Mi sembra che la polizia del Tempio, probabilmente, sia intervenuta, ma solo per mantenere l’ordine finché i sommi sacerdoti e gli scribi potessero arrivare e negoziare una soluzione pacifica al problema. In altre parole, Gesù non resistette alla polizia, né questa insistette che ai commercianti e ai cambiavalute fosse permesso di ritornare. Il problema del diritto o dell’autorità di Gesù a scacciarli doveva essere negoziato con i funzionari del tempio. Da qui il passo nei vangeli sinottici sull’autorità di Gesù e, in Giovanni, sulla richiesta di un segno. “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di fare queste cose?” (Mc 11:28 parr). “Quale segno puoi mostrarci per giustificare quello che hai fatto?” (Gv 2:18). Tutto sarebbe dipeso dalla risposta che egli diede a questa domanda. Egli non aveva un’autorità ufficiale all’interno del sistema, e non fece direttamente appello all’autorità di Dio, come avrebbero fatto i profeti. I sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani non volevano impegnarsi sul tema del battesimo di Giovanni. Gesù era riluttante nello stesso modo ad impegnarsi sul problema dell’autorità. Le cose giuste o sbagliate che aveva fatto non potevano affatto essere determinate facendo appello ad una qualche autorità. La sua azione doveva essere giudicata per i suoi meriti. Non erano necessari dei segni di conferma. Gli eventi futuri (la venuta di un nuovo tipo di Tempio, o “regno”, o del “figlio dell’uomo”) avrebbero dimostrato che lui aveva ragione. Fu senz’altro mentre Gesù predicava nel Tempio, in questa occasione o durante qualche altra visita a Gerusalemme che egli parlò della catastrofe imminente come della distruzione della città e del suo Tempio, e parlò del “regno” come di un nuovo tipo di Tempio. In altre parole, la sua predicazione a Gerusalemme seguiva il modello usuale: un appello urgente al cambiamento immediato (metanoia), un ammonimento riguardante le catastrofiche conseguenze del mancato cambiamento ed una promessa di un nuovo Tempio o comunità se vi fosse stato un cambiamento immediato. Ma, come i profeti del passato, le sue parole furono interpretate come delle profezie contro il Tempio, la città e la nazione, e come una formulazione di ridicole promesse su un nuovo Tempio nell’immediato futuro. Quello che deve aver preoccupato ancora di più le autorità fu l’influenza che egli sembrò avere sul popolo, e il numero di uomini che sembravano credere a questo presuntuoso galileo del quale, probabilmente, non avevano mai sentito parlare finché non creò trambusto nel mercato del Tempio. All’improvviso Gesù era diventato una figura di importanza nazionale. Non poteva più essere ignorato. I capi del popolo avrebbero dovuto decidere della sua sorte. Gli avvenimenti che portarono all’esecuzione di Gesù ci sono stati trasmessi sicuramente in modo molto confuso. Ma se dobbiamo affidarci unicamente su ciò che, degli elementi disponibili, si raccoglie con certezza, dovremmo dire che, qualche tempo dopo l’episodio del Tempio, e prima che Gesù fosse arrestato, almeno alcune delle autorità di Gerusalemme cospirarono e decisero di eliminarlo. Giovanni presenta la famosa scena della cospirazione (11:47-52) nella quale il sommo sacerdote, Caifa, ad un incontro dei sommi sacerdoti e dei Farisei, afferma: “Come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera” (11:50*). I dettagli di 171
Si veda la nota 4 in precedenza.
questa scena in Giovanni possono non essere, e probabilmente non furono mai intesi come, una accurata versione storica di quel che accadde all’incontro. Ma il fatto che vi sia stata una cospirazione di quel genere è attestato dalla versione indipendente dell’incontro che troviamo negli altri tre vangeli (Mc 14:1-2; Mt 26:3-5; Lc 22:2) e dal fatto che, ad un certo punto, Gesù divenne un latitante. Gesù deve aver saputo che intendevano arrestarlo. Poco dopo l’episodio del Tempio egli si ritirò e andò a nascondersi (Gv 8:59; 10:39; 12:36). Non poteva più muoversi pubblicamente (Gv 11:54) e fu obbligato a lasciare Gerusalemme e la Giudea (Gv 7:1). Ma non era al sicuro neanche in Galilea. Ora anche Erode voleva il suo sangue (Lc 13:31; Mc 6:1416 par). Non poteva più aggirarsi pubblicamente nei villaggi della Galilea (Mc 9:30). E quindi vaga con i suoi discepoli fuori dalla Galilea: dal lato opposto del lago, nelle regioni di Tiro e Sidone, nella Decapoli e nelle vicinanze della Cesarea di Filippo (Mc 7:24, 31; 8:22, 27). Ad un certo punto tornò dal lato lontano del Giordano (Mc 10:1; Mt 19:1; Gv 10:40). La geografia, qui, può non essere poi così accurata, ma difficilmente si può dubitare che Gesù vagò fuori dal suo paese come un fuggitivo e un esiliato. Quando, infine, fece ritorno a Gerusalemme, dovette ricorrere a dei sistemi per restare in incognito. Ai suoi discepoli fu detto di incontrare un uomo che avrebbe portato una brocca d’acqua. Essi dovevano seguirlo in una casa nella quale il proprietario avrebbe mostrato loro una stanza, in cui avrebbero dovuto prepararsi per il pasto della Pasqua ebraica (Mc 14:1216 parr). Mentre era a Gerusalemme, Gesù trascorse ne notti fuori dalla città, a Betania (Mc 11:11; 14:3), Efraim (Gv 11:54) o nel Getsemani (Mc 14:32 parr). Durante il giorno, egli cercava la sicurezza delle folle nel cortile del Tempio (Lc 21:37-38). Sapeva che non avrebbero osato arrestarlo in mezzo alle folle che si riunivano per la fesitività, “perché non succeda un tumulto di popolo” (Mc 14:2 parr; Lc 20:19). L’episodio del Tempio aveva obbligato Gesù e i suoi discepoli a cambiare interamente il loro stile di vita. Una delle migliori indicazioni di questo fatto fu il mutato atteggiamento verso l’atto di portare le spade. “Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando vi mandai senza borsa, senza sacca da viaggio e senza calzari, vi è forse mancato qualcosa?» Essi risposero: «Niente». Ed egli disse loro: «Ma ora, chi ha una borsa, la prenda; così pure una sacca; e chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una»” (Lc 22:35-36). All’inizio essi poterono contare sulla cordialità e sull’ospitalità delle persone. Ora si trovavano in costante pericolo, e sarebbe stato difficile sapere di chi era possibile fidarsi. Erano dei ricercati in qualsiasi momento potevano essere riconosciuti e catturati. Avrebbero dovuto essere pronti a difendersi con le spade!172 Non sappiamo per quanto tempo Gesù e i suoi discepoli furono “fuggiaschi”. Sappiamo che egli impiegò il tempo per istruire i suoi discepoli in modo più approfondito sul mistero del “regno” (Mc 4:11 parr; 9:31). Queste istruzioni possono aver compreso dei piani per la struttura del “regno” prossimo. Dio sarebbe stato il Sovrano. Gesù avrebbe avuto un qualche ruolo di leadership subordinato a Dio. Dodici suoi seguaci avrebbero dovuto assumersi ognuno la responsabilità di una diversa parte della comunità di Israele, corrispondente alle dodici tribù originali. “... Sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” (Mt 19:28 = Lc 22:30). Matteo interpretò questa frase come un riferimento al giudizio finale. Luca no. Giudicare, nella Bibbia, significa governare, e qui l’idea sembra essere che i dodici sarebbero stati governatori nel “regno”, condividendo con Gesù la basileia, o potere di governo di Dio (Lc 22:29-30). Forse questo è il contesto nel quale i dodici iniziarono a discutere su chi fosse il più grande e chi avrebbe seduto alla sua destra e alla sua sinistra (Mc 9:33-37 parr; 10:35-40 par). Conosciamo la sua risposta. Quelli che avranno una posizione di potere nel regno “regno” dovranno usarla per servire gli altri (Mc 9:35; 10:41— 45) e dovranno farsi piccoli come bambini in status e rango (Mt 18:1-4). Non possiamo essere certi che questo tipo di pianificazione della struttura del “regno” ebbe luogo mentre Gesù era latitante, anche se Marco pone queste “istruzioni” rivolte ai “dodici” nel periodo del vagabondaggio fuori dalla Galilea o in quello in incognito in 172
Si veda Oscar Cullmann, The State in the New Testament, pp. 31-34.
Galilea (7:24, 31; 8:27; 9:30, 31, 33-34, 35; 10:35-45). Tuttavia possiamo essere sicuri che fu durante questo periodo che Gesù fu tentato di prendere il potere nelle sue mani e di permettersi di essere proclamato Messia o re degli Ebrei.
Capitolo 15 La Tentazione della Violenza Gli Ebrei della Palestina speravano nell’avvento di un Messia e pregavano per questo. Il genere di persona che essi si aspettavano può essere scoperto basandosi sulle preghiere che erano soliti recitare nella sinagoga: i Salmi di Salomone e le Diciotto Benedizioni. Il Messia sarebbe stato un re, un discendente di Davide, unto da Dio. Sarebbe stato un sovrano potente che avrebbe “spezzato i governanti ingiusti”, “con verga di ferro [avrebbe sbriciolato] ogni loro esistenza” e “[avrebbe sterminato] i pagani trasgressori con la parola della sua bocca”. 173 Egli avrebbe usato la sua verga di ferro per instillare il “timore del Signore” in ogni persona, e dirigere tutti verso “le opere di giustizia”.174 Non sarà per noi necessario addentrarci nella lunga storia di questo concetto di Messia o nelle peculiari aspettative di alcune minoranze esoteriche. L’Ebraismo palestinese in generale aspettava un re umano che avrebbe detenuto il potere politico e militare per restaurare il regno di Israele.175 Tenendo presente questo, e ricordando il tipo di “regno” predicato da Gesù, non dovremmo restare sorpresi scoprendo che Gesù non affermò mai, in alcuna circostanza o occasione, direttamente o indirettamente, di essere il Messia. Oggi questo è ammesso da ogni studioso serio del Nuovo Testamento, perfino da quelli che tendono ad essere conservatori. Ci sono pochi passi dei vangeli nei quali Gesù sembra indicare se stesso come il Messia, ma queste sono ovviamente le parole degli evangelisti, che erano tutti convinti che Gesù fosse il Messia.176 Una delle indicazioni più certe dell’accuratezza storica del vangeli è la loro resistenza alla tentazione di affermare che Gesù sostenne di essere il Messia, e la loro fedele trasmissione del ricordo del fatto che egli vietò agli uomini di proclamarlo Messia.177 Questa fu l’origine del cosiddetto Segreto Messianico. Può essere possibile affermare che Gesù sia semplicemente stato riservato e vago sul suo ruolo di Messia, ma più fondamentalmente egli sembra averla considerata una tentazione di Satana che doveva essere rifiutata. In questo periodo di ritiro e latitanza si verificarono due episodi che sembrerebbero essere stati, in origine, tentazioni di accettare la sovranità di Israele. La prima venne da quattro o cinquemila uomini, la seconda giunse da Pietro. Sembra che quattro/cinquemila uomini (senza donne e bambini) siano usciti dalla Galilea fino alle colline isolate e deserte vicine a Betsaida per vedere Gesù e i suoi discepoli. Perché vennero? Perché vennero soltanto degli uomini? Chi organizzò l’incontro? Come fecero così tante persone ad arrivare contemporaneamente? Non può esserci alcun dubbio che questo incontro sia avvenuto. Tutti i vangeli, tutte le fonti e tutte le tradizioni lo riportano. Il loro interesse per l’episodio, tuttavia, fu dovuto al significato successivo del miracolo dei pani e dei pesci. L’indizio per lo scopo ed il significato originale dell’incontro si può trovare in alcune affermazioni casuali. Marco ci dice che Gesù simpatizzò con queste migliaia di uomini perché erano “come pecore senza un pastore”, e quindi “Gesù si mise ad insegnare loro molte cose” (6:34). Possiamo presumere che egli abbia insegnato loro a proposito 173
Salmi di Salomone 17.
174
Salmi di Salomone 18.
175
Ferdinand Hahn, The Titles of Jesus in Christology, pp. 136-138; Vermes, Jesus the Jew, pp. 130-134.
176
Mc 9:41; 14:62 (ma si confronti con Mt 26:64; Lc 22:70 e Mc 15:2; Mt 27:11; Lc 23:3; Gv 18:37); Mt 11:2; Gv 4:25-26 (ma si confronti con Gv 7:26-27, 31, 40-44; 10:24-26, 38).
177
Mc 1:24-25, 34; 3:12; 8:30; Lc 4:41; si veda anche Mc 1:44; 5:43; 7:36; 8:26; 9:9; Mt 9:30.
del tipo di “regno” che Dio voleva per gli uomini. Abbiamo già visto come egli insegnò loro a condividere il cibo che avevano. Secondo Giovanni l’episodio si concluse con gli uomini che dissero: “Questi è certo il profeta che deve venire nel mondo”; ma poi Giovanni continua: “Gesù, quindi, sapendo che stavano per venire a rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, tutto solo” (6:14-15). Secondo Marco (seguito da Matteo) egli dovette “obbligare” i suoi discepoli a entrare nella barca e ad andare avanti mentre egli “congedava” le persone e poi se ne andava nelle colline a pregare (Mc 6:45-46; Mt 14:22-23). Non sappiamo chi organizzò questo incontro. Probabilmente non furono gli Zeloti. Essi, al momento, stavano mantenendo un basso profilo ed erano temporaneamente privi di un leader effettivo – pecore senza un pastore. Ma innanzitutto la leadership degli Zeloti, come quella dei Maccabei nei tempi passati, era dinastica, ossia era trasmessa dal padre al figlio.178 Inoltre gli Zeloti, come abbiamo visto, non avrebbero mai potuto essere d’accordo con gli atteggiamenti e le credenze di Gesù. Ma all’epoca gli Zeloti non erano affatto gli unici nazionalisti ebrei a voler rovesciare i Romani per restaurare la monarchia ebraica.179 Troppi autori, oggi, danno l’impressione che tutti gli ebrei che si affidavano ad una rivoluzione violenta per liberare il proprio paese dall’imperialismo romano siano stati Zeloti. Alla fine furono gli Zeloti a guidare la rivoluzione, e poi tutti gli altri si unirono sotto la loro guida. Ma questo non era ancora accaduto quando circa quattro/cinquemila nazionalisti ebrei uscirono nel deserto per convincere Gesù ad essere il loro capo. Egli era un galileo, un profeta e un taumaturgo con un talento naturale per la leadership, e si era recentemente fatto un nome sfidando le autorità di Gerusalemme e “purificando” il Tempio. Possono addirittura esserci state delle voci secondo le quali egli era un discendente di Davide. Gesù non era privo di comprensione verso le loro aspirazioni, il loro desiderio di liberazione e il loro bisogno di un pastore. Ma cercò di convincerli che le vie di Dio non erano le vie degli esseri umani, e che il “regno” di Dio non sarebbe stato come i normali regni degli uomini. E anche qui, come sempre, egli deve aver fatto appello ad un cambiamento del cuore, alla conversione individuale e alla fede in un nuovo tipo di “regno”. Ma il suo insegnamento, e il miracolo della condivisione, li convinse ancor di più che egli era il Messia, il re scelto da Dio. Prima che la situazione potesse sfuggirgli di mano, egli obbligò i suoi discepoli ad andarsene in barca e disperse le folle. Sentì poi il bisogno della solitudine, della riflessione e della preghiera. La seconda tentazione venne da Pietro – in qualche luogo nei pressi della Cesarea di Filippo. Gli uomini, in generale, avevano considerato Gesù un profeta – come Giovanni il Battista, Elia, Geremia o uno degli altri profeti (Mc 8:28 parr). Ma ora Pietro, a nome degli altri discepoli, dichiara di considerare Gesù il Messia (Mc 8:29 parr). Gesù risponde impartendo rigorosi ordini di non dire a nessuno una cosa del genere a proposito di lui (Mc 8:30 parr), e poi inizia a dire loro che il suo destino sarà quello di subire il rifiuto (Mc 8:31 parr). Pietro prende Gesù da parte e lo rimprovera, ma Gesù sgrida Pietro a sua volta, dicendo: “Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini” (Mc 8:32-33 parr). Deve essersi trattato di una lite molto sera. Pietro era arrabbiato con Gesù per aver parlato di rifiuto e fallimento quando c’era la possibilità di prendere il potere e diventare il Messia. Gesù era adirato con Pietro per aver svolto il ruolo di Satana, il tentatore, e aver pensato come di solito fanno gli uomini, in termini di potere della forza. Non può esserci dubbio 178
Giuda il Galileo, il loro fondatore, era stato ucciso e i suoi seguaci erano stati dispersi (Atti 5:37). I figli di Giuda erano probabilmente troppo giovani per riorganizzare e guidare il movimento in questo momento. Due di essi, Giacobbe e Sione, si rivoltano nuovamente intorno al 46-48 C.E., quando sono catturati e crocifissi, mentre un altro figlio, Menahen, guidò la rivolta del 66 E.C., e infine un discendente di nome Eleazar fu il leader degli Zeloti a Masada nel 73 E.C. Si veda Samuel G. F. Brandon, Jesus and the Zealots, pp. 52, 103, 131-133.
179
Martin Hengel, Victory over Violence, pp. 55, 61, 64-65; Floyd V. Filson, A New Testament History, Philadelphia: Westminster Press, 1964; London, 1965, p. 27.
che qui stiamo parlando di un evento storico. Né Marco né alcun altro tra i primi Cristiani avrebbe usato inventare una lite così violenta, con un linguaggio così forte, tra Gesù e Pietro. Gli evangelisti che credevano che Gesù fosse il Messia sono interessati al fatto innanzitutto a causa della “confessione” di Pietro che Gesù era il Messia. Si capisce che la lite riguardò unicamente il futuro rifiuto e la futura sofferenza di Gesù. Quella che in origine fu una “tentazione” diventò, per i primi cristiani, una “confessione di fede”. Vedremo in seguito come può essere successo. Non dobbiamo sottovalutare la realtà di questa tentazione per Gesù. Essa ci è anche giunta nella forma stilizzata di un dialogo con Satana che, per motivi tematici, fu collocato insieme alle altre tentazioni durante i quaranta giorni nel deserto (Lc 4:58; Mt 4:8-10). Ci viene fatto capire che Gesù dovette lottare contro questa tentazione di prendere il potere, di accettare la sovranità e di regnare su un nuovo impero – “tutti i regni del mondo”. Questo non sarebbe stato il modo migliore di liberare i poveri e gli oppressi? Non avrebbe potuto esercitare l’autorità come servizio a tutti gli uomini dopo aver preso il potere con la forza? Non sarebbe stato più efficace risvegliare la fede e cambiare il mondo in questo modo? Gesù non era un pacifista per principio. Non ci sono prove che egli abbia pensato che la forza o la violenza non devono mai essere usate, per nessun motivo o in nessuna circostanza. Egli usò la forza (anche se, probabilmente, senza spargimento di sangue) per scacciare i commercianti dal Tempio. Egli obbligò i suoi discepoli ad abbandonare il raduno nel deserto. Disse loro di portare delle spade per difendersi. In queste circostanze non disse loro di volgere l’altra guancia. Gli ordini di volgere l’altra guancia e di non resistere al male vengono spesso citate fuori contesto. Nel loro contesto, essi sono dei modi per contraddire il principio di “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5:38-39). Non escludono la violenza di per sé, escludono la violenza a scopo di vendetta. Tuttavia il “regno” stesso non poteva di certo essere istituito con la forza. Il problema è: le necessarie condizioni di fede, conversione e liberazione non avrebbero potuto, a volte, in alcune circostanze, richiedere l’uso della forza e della violenza? Tutto ciò di cui possiamo essere certi è che Gesù decise che, nelle sue circostanze e nel suo tempo, l’uso della forza per conquistare il potere per sé (o per qualcun altro) sarebbe stato dannoso per gli uomini, e quindi contrario alla volontà di Dio. Il detto “Quelli che prenderanno la spada moriranno di spada”, che Matteo trova da qualche parte ed inserisce nella storia dell’arresto di Gesù (26:52) non è, e di sicuro non fu mai intesa come, una verità senza tempo. In alcune circostanze si può sfoderare la spada senza morire di spada, ma nelle circostanze dell’arresto di Gesù, quando lui e i suoi discepoli erano in inferiorità numerica, sfoderare la spada sarebbe stato un palese suicidio. Gesù fu un uomo pratico e realista. Poteva vedere, come potevano constatarlo la maggior parte dei Farisei e dei Sadducei, che qualsiasi tentativo di sottrarre il potere ai Romani era suicida. Sperare in una vittoria miracolosa era tentare Dio (si confronti con Lc 4:12 par). Una guerra contro Roma poteva concludersi soltanto in un massacro globale del popolo. Questa era senz’altro la catastrofe che Gesù temeva, e che egli sentiva si sarebbe potuta evitare soltanto con un diffuso cambiamento del cuore (Lc 13:1-5). Ma questo sicuramente non era il solo motivo pratico per cui Gesù rifiutò di tentare un colpo di stato. Accettare la sovranità di un popolo che non aveva trasferito la propria alleanza al “regno” di Dio e guidare questo popolo in battaglia era giocare nelle mani di Satana (Mt 4:8-10 par). Avrebbe significato accettare il potere da Satana su un “regno” che era esso stesso privo di qualsiasi lealtà al “regno” di Dio, ed incoraggiarlo ad usare la violenza contro un altro regno, per quanto più empio. Il “regno” di Dio non avrebbe ottenuto alcunché in questo modo. Israele stesso avrebbe dovuto essere convertito prima che una cosa di questo genere potesse anche solo essere ipotizzata. Probabilmente Gesù sarebbe stato disposto ad essere Messia-re se Israele avesse cambiato i propri modi ed il “regno” di Dio fosse giunto. Il ruolo di Messia, allora, non sarebbe stato un titolo di onore, prestigio e potere, ad una forma di servizio, e i Gentili sarebbero
quindi stati portati nel “regno” non con il potere della spada, ma con il potere della fede e della compassione. Gesù non fu un pacifista per principio, fu un pacifista in pratica, ossia nelle circostanze concrete del suo tempo. Non sappiamo che cosa egli avrebbe fatto in altre possibili circostanze. Ma possiamo supporre che se non vi fosse stato nessun altro modo di difendere i poveri e gli oppressi, e se non vi fosse stato il pericolo di una escalation di violenza, la sua illimitata compassione avrebbe potuto temporaneamente traboccare in una indignazione violenta. Egli disse ai suoi discepoli di portare delle spade per difendersi, e purificò il cortile del tempio con una certa violenza. Tuttavia, anche in questi casi, la violenza fu una misura temporanea, senza altro scopo che la prevenzione di una violenza più grave. Il “regno” della liberazione totale per tutti gli uomini non può essere fondato con la violenza. La fede, da sola, può permettere al “regno” di giungere.
Capitolo 16 Il Ruolo della Sofferenza e della Morte Gli Ebrei avevano una lunga storia di persecuzione e sofferenza. Teoricamente il giusto soffriva sempre per la propria rettitudine, ed ogni ebreo fedele era disposto a morire piuttosto che disobbedire alla legge. Ai tempi dei Maccabei (due secoli prima di Gesù) molti giovani ebrei soffrirono e morirono martiri per la legge. Quando i Romani conquistarono il Tempio per la prima volta, nel 63 E.C., i sacerdoti morirono ai loro posti, continuando la routine del sacrificio invece di fuggire per salvarsi la vita.180 Gli Zeloti, al tempo di Gesù, erano disposti a sopportare ogni tortura piuttosto che chiamare cesare il loro signore, e migliaia di essi furono crocifissi dai Romani.181 A Masada nel 73 E.C. si suicidarono piuttosto che sottomettersi ad un regnante gentile. I profeti, d’altro canto, erano stati perseguitati dai capi degli Ebrei a Gerusalemme per la loro critica rivolta ad Israele. Entro il tempo di Gesù, la figura del profeta era stata fusa con quella del martire, ed erano nate delle leggende sulle sofferenze e sul martirio di quasi ogni profeta (Mt 23:29-37 par; Atti 7:52). 182 La morte, in quelle circostanze, era ampiamente considerata una redenzione del peccato – per i propri peccati e per i peccati degli altri. I primi cristiani non inventarono l’idea del martirio né l’idea della redenzione e della morte redentrice: essa faceva parte dell’eredità ebraica.183 Ma quale fu l’atteggiamento di Gesù nei confronti della sofferenza e della morte? Come tutti i giusti, lui e i suoi discepoli avrebbero dovuto aspettarsi la persecuzione. Come gli Zeloti avrebbero dovuto essere disposti a prendere la loro croce e ad essere crocifissi (Mc 8:34 parr). Come i profeti, avrebbero dovuto essere riconosciuti dal martirio. Ma c’era dell’altro. Gesù aveva un insegnamento nuovo, e nei termini di quel nuovo insegnamento la sofferenza e la morte erano strettamente associate alla venuta del “regno”. “Beati i poveri... Beati i perseguitati... di loro è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi... poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi” (Mt 5:3, 10-12*). La beatitudine era intesa in origine per i poveri e gli oppressi, ma Gesù e i suoi discepoli, a causa della loro compassione e solidarietà con gli oppressi, giunsero inevitabilmente ad essere loro stessi perseguitati e reietti. Per entrare nel “regno” con i poveri e gli oppressi si un uomo doveva rinunciare a tutti i propri averi, essere disposto a lasciare la casa, la famiglia e a sacrificare la speranza del prestigio, dell’opinione pubblica e della grandezza. In altre parole, doveva negare se stesso (Mc 8:34 parr) ed essere disposto a soffrire. Qui c’è un paradosso, il paradosso della compassione. L’unica cosa che Gesù era deciso a distruggere era la sofferenza: le sofferenze dei poveri e degli oppressi, le sofferenze dei malati, le sofferenze che sarebbero seguite se la catastrofe fosse giunta. Ma l’unico modo per distruggere la sofferenza è rinunciare a tutti i valori terreni e subirne le conseguenze. Solo la disponibilità a soffrire può vincere la sofferenza nel mondo.184 La compassione distrugge la sofferenza soffrendo insieme ai sofferenti e a loro nome. Una simpatia per i poveri che non è disposta a condividere le loro sofferenze sarebbe un’emozione inutile. Non si possono condividere le beatitudini dei poveri se non si è disposti a 180 181
Giuseppe Flavio, Antichità, 14:67. Antichità 7:416-419; si veda Samuel G. F. Brandon, The Trial of Jesus of Nazareth, p. 57, 1.
182
W. H. C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church, pp. 57-58.
183
Frend, pp. 45,57,59; Joachim Jeremias, New Testament Theology, pp. 287-288.
184
Jurgen Moltmann, “Die Gekruisigde God” in N. G. Teologiese Tydskrif, Marzo 1973, p. 110.
condividere le loro sofferenze. Ma Gesù andò molto oltre. La morte è paradossale in modo molto simile alla sofferenza. C’è un enigma sulla vita e la morte che è presente in tutte le tradizioni, in vari punti dei vangeli e in una varietà di forme (Mc 8:35 parr; Mt 10:39; Lc 14:26; Gv 12:25). Esso, senza dubbio, è basato sulle parole dello stesso Gesù.185 Un confronto attento di tutti i testi permette di concludere che l’enigma o paradosso originale debba semplicemente essere stato questo: “Chi salva la propria vita la perderà, chi perde la propria vita la salverà”. Si ricordi che questo deve essere un enigma. Pensarlo in modo tale che esso sia riferito alla perdita della propria vita in questo mondo per salvarla nel mondo che verrà è smettere di considerarlo un enigma.186 Che significa, allora? Salvare la propria vita significa tenersi saldamente ad essa, amarla ed essere attaccati ad essa, e quindi temere la morte. Perdere la propria vita è lasciarla andare, essere distaccati da essa ed essere quindi disposti a morire. Il paradosso è che la persona che teme la morte è già morta,187 mentre la persona che ha smesso di temere la morte, in quel momento ha iniziato a vivere. Una vita che è genuina e degna di essere vissuta è possibile solo quando si è disposti a morire. Ci resta la domanda: per cosa si deve essere pronti a morire? I martiri maccabei morirono per la legge, gli Zeloti morirono per difendere la sovranità del Dio di Israele, altre persone erano state pronte a morire per altre cause. Gesù non morì per una causa. Secondo lui un uomo doveva essere pronto a dare la sua vita esattamente per lo stesso motivo per cui rinunciava ai suoi averi, al prestigio, alla famiglia e al potere, cioè per gli altri. La compassione e l’amore obbligano gli uomini a fare ogni cosa per gli altri. Però la persona che dice di vivere per gli altri ma non è disposta a soffrire e a morire per loro è bugiarda ed è morta. Gesù era completamente vivo, perché era disposto a soffrire e a morire non per una causa ma per gli uomini. La disponibilità a morire per gli altri deve essere meglio circostanziata. Non si tratta di una disponibilità a morire per qualcuno, o per qualche persona; è una disponibilità a morire per tutti gli uomini. La volontà di morire per alcune persone sarebbe un’espressione della solidarietà di gruppo. La volontà di morire per l’umanità è un’espressione di solidarietà universale. La disponibilità di Gesù a morire per tutti gli uomini è quindi un servizio, proprio come ogni altra cosa nella sua vita è un servizio, un servizio reso a tutti gli uomini.188 “Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Mc 10:45*). Un riscatto è pagato per riscattare o liberare altre persone. Offrire la propria vita come riscatto è essere disposti a morire in modo che altri possano vivere. “Per molti” è un’espressione ebraica ed aramaica che generalmente significa “per tutti”. 189 Quindi anche durante l’ultima cena Gesù presagì l’offerta del suo sangue “per molti” (Mc 14:24; Mt 26:28). Finora abbiamo parlato soltanto della disponibilità di Gesù a morire, non abbiamo ancora preso in considerazione la sua vera e propria morte. È abbastanza facile capire cosa significa essere disposto a morire per l’umanità, ma in quali circostanze una persona morirebbe davvero per l’umanità? Ci sono delle circostanze nelle quali si può servire il mondo meglio morendo per esso che continuando a vivere per esso? Gesù deve essere 185
Per gli enigmi come caratteristica dello stile di Gesù si veda Jeremias, pp. 30-31.
186
Questo è esattamente quello che ha fatto Giovanni (12:25).
187
Come ai morti che devono essere lasciati a seppellire i loro morti (Mt 8:22 par).
188
189
J. Roloff ha affermato, in modo molto dettagliato e convincente, che il significato originale della morte di Gesù fu il servizio, e che questa avrebbe benissimo potuto essere l’interpretazione che Gesù stesso diede alla sua morte – “Anfange der soteriologischen Deutung des Todes Jesu (Mk 10:45 und Lk 22:27),” New Testament Studies, pp. 38-64. Schillebeeckx ha portato l’argomento un passo oltre, e ha dimostrato che Gesù stesso deve aver interpretato la propria morte come un servizio all’umanità – Jesus, pp. 251-256. Jeremias, pp. 130, 291, 293.
stato consapevole delle pericolose conseguenze di quello che faceva e diceva. Erode aveva ridotto al silenzio Giovanni il Battista, adesso si vociferava che volesse zittire anche Gesù (Lc 13:31). Dopo l’episodio nel Tempio, la vita di Gesù fu in così grave pericolo che egli dovette nascondersi. Fu in questo periodo che egli decise di andare a Gerusalemme a morire (Mc 8:31 parr; Lc 9:51; 13:33). Perché? Gesù sembra essersi trovato di fronte l’alternativa tra restare nascosto per evitare la morte o uscire dal nascondiglio e affrontare la morte. I quattro/cinquemila insieme a Pietro e ai discepoli volevano che egli uscisse dal nascondiglio come Messia, con un esercito o una qualche altra dimostrazione di potere, in modo da da vincere i suoi oppositori a Gerusalemme. Ma la sua arma era la fede, non la forza. Le sue intenzioni, come sempre, erano ancora quelle di risvegliare la fede nel “regno”. Non avrebbe potuto farlo in modo molto efficace restando latitante, ma se fosse uscito dal nascondiglio per predicare, prima o poi sarebbe stato catturato e zittito – a meno che la morte stessa non potesse diventare un modo di risvegliare la fede nel “regno”. Il servizio che Gesù, nel corso della sua vita, ha prestato ai malati, ai poveri, ai peccatori e ai suoi discepoli, e che ha cercato di rendere agli scribi, ai Farisei e a tutti gli altri, fu il servizio del risveglio della fede nel “regno”. Non c’era altro modo per salvare gli uomini dal peccato, dalla sofferenza e dall’imminente catastrofe. Non c’era altro modo di permettere al “regno” di arrivare al posto della catastrofe. Ma se gli fosse stato impedito di farlo, impedito di predicare o di risvegliare la fede con la parola e le azioni, cosa avrebbe dovuto fare? Egli non desiderava scendere a compromessi accettando il ruolo di Messia e ricorrendo alla violenza, né era disposto ad adattare le sue parole perché fossero confacenti alle autorità (se non era già troppo tardi per questo). La sola alternativa era morire. In queste circostanze la morte era l’unico modo di continuare a servire l’umanità, l’unico modo di parlare al mondo (Gv 7:1-4), l’unico modo di testimoniare il “regno”. Le azioni dicono più delle parole, ma la morte dice più delle azioni: Gesù morì in modo che il “regno” potesse giungere.190 Tutti i vangeli ritraggono coerentemente Gesù come un uomo che andò incontro alla morte consapevolmente e volontariamente. Le parole e le espressioni che essi usano, specialmente nelle cosiddette “predizioni della passione”,191 possono senz’altro provenire da una riflessione successiva alla sua morte, ma il fatto fondamentale che egli andò incontro alla morte consapevolmente e volontariamente è indubbio. 192 Inoltre, è significativo che queste “predizioni” avvengano nel periodo del ritiro e della latitanza, che la prima “predizione” sia una risposta alla dichiarazione di Pietro che Gesù era il Messia (Mc 8:29-33 parr) e che ognuna delle tre “predizioni” principali sia seguita da istruzioni riguardanti l’abnegazione, la disponibilità a morire, ad essere un servo e ad occupare l’ultimo posto (si vedano Mc 8:34-37; 9:3137; 10:33-45 parr). Gli elementi a disposizione non ci permettono di decidere in quale misura Gesù abbia previsto le circostanze dettagliate della sua morte. I suoi discepoli sarebbero stati arrestati, o lui soltanto? Vari autori hanno affermato che Gesù parlò come se si aspettasse (o almeno non escludesse la possibilità) che lui e i suoi discepoli sarebbero stati giustiziati insieme.193 Sarebbe stato lapidato o crocifisso, ossia, sarebbe stato 190
191
Si noti che il risveglio della fede rende anche efficace il perdono di Dio in una persona. Gesù dice alla donna che era stata una peccatrice: “La tua fede ti ha salvata” (dai tuoi peccati) (Lc 7:50). Ne consegue che uno dei risultati della morte di Gesù è il perdono del peccato. È questo il senso in cui la morte di Gesù può essere definita una redenzione per il peccato. Gesù non dovette placare un Dio irato che non era disposto a perdonare. Dio è sempre disposto a perdonare, e a farlo senza condizioni. La morte di Gesù rivela questo e risveglia la nostra fede in esso, permettendo così al perdono di Dio di trasformare le nostre vite. Mc 8:31 par; 9:31 par; 10:33-34 par; 10:45; Mt 26:2; Lc 17:25; 24:7.
192
Jeremias ha ridotto queste “predizioni” all’enigma fondamentale e originale: “L’uomo sarà consegnato agli uomini” — Jeremias, pp. 281— 283, 295-296.
193
Jeremias, pp. 108-110; Lloyd Gaston, p. 420; Frend, p. 88; Thomas W. Manson, The
giustiziato dal Sinedrio o da Pilato? L’avrebbero arrestato durante la festa o dopo di essa? Avrebbe avuto una buona possibilità di predicare nel Tempio prima che lo catturassero? Forse egli previde alcuni di questi dettagli. Certamente sembra aver sospettato che Giuda avrebbe dato informazioni su di lui. Ma in nessuno di questi casi ci è necessario ricorrere a spiegazioni basate sulla prescienza divina o su speciali rivelazioni riguardanti eventi futuri. Le sole parabole basteranno a mostrarci quale chiara intuizione Gesù abbia avuto delle motivazioni degli uomini, e quanto bene abbia potuto predire cosa probabilmente avrebbero fatto e detto. Ci resta da considerare se Gesù abbia o meno predetto la propria resurrezione. Alcune delle “predizioni della passione” si concludono con una “predizione della resurrezione”: “dopo tre giorni il figlio dell’uomo resusciterà” (Mc 8:31 parr; 9:31 parr; 10:34 parr; si veda anche Mc 9:9). Il fatto che Gesù l’abbia detto non è impossibile. “Dopo tre giorni” è un modo ebraico e aramaico di dire “presto” o “non molto tempo dopo”.194 La maggior parte degli ebrei dell’epoca credeva nella resurrezione dei morti nell’ultimo giorno, e tra tutti gli ebrei, i martiri avevano la maggiore certezza di resuscitare in quel giorno. Gesù non avrebbe potuto predire che sarebbe resuscitato prima dell’ultimo giorno, altrimenti tutta la confusione, il dubbio e la sorpresa quando resuscitò non avrebbero assolutamente avuto alcun senso. In altre parole, tutto ciò che questa “predizione” può significare è che Gesù, come profeta-martire, si aspettava di resuscitare l’ultimo giorno, e che l’ultimo giorno sarebbe arrivato presto. Questa interpretazione non è incompatibile con le credenze e le preoccupazioni di Gesù, ma è certamente irrilevante rispetto a tutto ciò che egli cercò di fare e dire nel suo tempo. Probabilmente egli concordò con i Farisei contro i Sadducei sulla resurrezione, come ci dicono i vangeli (Mc 12:18-27). Ma è sicuramente significativo che, al di fuori di queste “predizioni della resurrezione” l’unica volta in cui Gesù nomina la resurrezione è in risposta alla domanda dei Sadducei sulla resurrezione.195 Egli non solleva mai l’argomento di propria volontà. Non fa parte integrante di quello che egli volle dire ad Israele in quel tempo e in quelle circostanze. Perché parlare della resurrezione quando la gente soffre, c’è una catastrofe imminente ed esiste la reale speranza che il “regno” di Dio possa giungere sulla terra entro pochi anni? Quindi possiamo chiederci se Gesù, di fatto, formulò mai delle “predizioni della resurrezione”. Questo non vuol dire che Gesù non credette nella resurrezione. Di sicuro credette in essa, come in molte altre cose in cui credevano gli ebrei del suo tempo, così come i profeti credettero sicuramente in molte cose che non erano immediatamente rilevanti per il loro messaggio agli uomini del loro tempo. Per Gesù, nel suo tempo, la resurrezione, come il pagamento delle tasse a Cesare o i sacrifici nel Tempio, semplicemente non era il vero problema. La situazione, dopo la morte di Gesù, fu completamente diversa. Allora, come vedremo, la resurrezione divenne il tema centrale.
Teachings of Jesus, p. 231. 194
195
Jeremias, p. 285; Gaston, p. 415; Edward Schillebeeckx, Jesus, pp. 526-532; E. L. Bode, “On the Third Day according to the Scriptures,” The Bible Today 48 (1970), 32973303. C. F. Evans, Resurrection and the New Testament, pp. 30-33.
Capitolo 17 L’Uomo Che Emerge Gesù è un uomo molto sottovalutato – sottovalutato non soltanto da chi lo ritiene unicamente un maestro di verità religiosa, ma anche da quelli che vanno all’estremo opposto, sottolineando la sua divinità in modo tale che egli cessa di essere pienamente umano. Quando si permette a Gesù di parlare per sé e quando si cerca di capirlo senza idee preconcette, e nel contesto del suo tempo, quello che inizia ad emergere è un uomo dalla straordinaria indipendenza, dall’immenso coraggio196 e dall’autenticità senza pari – un uomo la cui intuizione sfida ogni spiegazione. Privare quest’uomo della sua umanità è privarlo della sua grandezza. Ci è difficile immaginare come dev’essere stato essere radicalmente diverso da chiunque altro in un’epoca in cui la conformità di gruppo era l’unica misura della verità e della virtù. L’immensa cultura degli scribi non impressionò Gesù. Egli differì da loro senza esitazione anche quando essi erano molto più esperti di lui sui dettagli della legge e sulla sua interpretazione tradizionale. Nessun assunto era troppo sacro per essere messo in discussione. Nessuna autorità era troppo grande per essere contraddetta. Nessun assunto era troppo fondamentale per essere cambiato. Nei vangeli non c’è nulla che induca a pensare che Gesù si sia opposto a tutti in uno spirito di ribellione fine a se stesso, oppure perché nutriva del rancore nei confronti del mondo. Egli dà proprio l’impressione di un uomo che ha il coraggio delle sue convinzioni, un uomo che è indipendente dagli altri per una intuizione positiva che ha reso superfluo ogni tipo di dipendenza. Non vi sono tracce di paura in Gesù. Egli non aveva paura di creare uno scandalo, di perdere la reputazione o addirittura di perdere la vita. Tutti gli uomini di religione, perfino Giovanni il Battista, furono scandalizzati dal modo in cui frequentava i peccatori, dal modo in cui sembrava apprezzare la loro compagnia, dalla sua permissività in relazione alle leggi, dal suo apparente disprezzo per la gravità del peccato e dal suo modo libero e semplice di considerare Dio. Egli si guadagnò presto quella che chiameremmo una cattiva reputazione: “Ecco, un mangione e un beone”. Egli stesso lo racconta con quello che sembra essere un tocco di umorismo (Mt 11:16-19). In termini di solidarietà di gruppo, la sua amicizia con i peccatori lo farebbe classificare come peccatore (Mt 11:19; Gv 9:24). In un’epoca in cui la cordialità verso una donna estranea alla propria famiglia poteva significare una sola cosa, la sua amicizia con le donne, e specialmente con le prostitute, avrebbe rovinato la reputazione che ancora poteva avere (Lc 7:39; Gv 4:27). Gesù non fece nulla, e non scese a compromessi su nulla, per ottenere un qualche prestigio agli occhi degli altri. Non cercava l’approvazione di nessuno, nemmeno quella quel “più grande uomo nato da donna”. Secondo Marco (seguito da Matteo e Luca) perfino gli oppositori di Gesù ammettono che egli è onesto e impavido: “Noi sappiamo che tu sei sincero, e che non hai riguardi per nessuno, perché non badi all’apparenza delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità” (12:14). Anche se viene fatta solo per indurlo con l’inganno a dire qualcosa di avventato sul pagamento delle tasse a Cesare, questa ammissione ci dà un’idea dell’impressione che Gesù fece sulla gente. La sua famiglia pensò che fosse fuori di senno (Mc 3:21); i Farisei pensarono che egli fosse posseduto dal demonio (Mc 3:22); fu accusato di essere un ubriacone, un mangione, un peccatore e un bestemmiatore, ma nessuno poté mai accusarlo di essere un bugiardo e un ipocrita, di aver paura di quello che la gente avrebbe potuto dire di lui, né di ciò che la gente avrebbe potuto fargli. Il coraggio, la temerarietà e l’indipendenza di Gesù fecero sì che gli uomini di quel tempo si chiedessero in più occasioni: “Chi è quest’uomo?”. 197 Il 196
197
J. Duncan M. Derrett, Law in the New Testament, p. 13. Mc 4:41 parr; 6:2 parr; 6:14-16 parr; 8:27-30 parr; 14:61 parr; 15:2 parr; 15:39 parr; Lc 7:16-17; Gv 7:12, 15, 40-41; 8:54; 10:19-21, 24. La forma e le parole di queste domande possono provenire dalla Chiesa delle origini, ma in sostanza esprimono
fatto che Gesù non risponda mai alla domanda è significativo. Non ci sono prove che egli abbia mai rivendicato uno dei titoli eccelsi che la Chiesa, in seguito, gli ha attribuito. Numerosi studiosi hanno sostenuto che l’unico titolo che Gesù rivendicò fu: “Figlio dell’Uomo”. Questo non è vero. Non perché Gesù non si sia indicato come “figlio dell’uomo”, ma perché “figlio dell’uomo” non è un titolo. Una stupefacente mole di ricerca, erudizione e scrittura è stata dedicata all’argomento del cosiddetto titolo “Figlio dell’Uomo” nei vangeli. La varietà delle conclusioni alle quali sono giunti eminenti scolari è ancor più stupefacente. È difficile trovare due persone che concordino su qualcosa che ha a che fare con il “Figlio dell’Uomo”, tranne il fatto che è un titolo molto importante. Questo, da solo, fa sospettare che ci sia qualcosa di sbagliato nel modo in cui il problema viene posto. Il termine “figlio dell’uomo”, in origine, è davvero stato un titolo? Il termine non viene mai usato in alcuna confessione di fede, non è mai predicato da Gesù né da qualcun altro, nei vangeli non si trova mai sulle labbra di nessuno tranne che dello stesso Gesù, nessuno obietta al fatto che Gesù lo usi, nessuno lo mette in discussione o mostra una qualche reazione ad esso. Inoltre, Vermes ora ha dimostrato una volta per tutte che questo termine aramaico non era un titolo, ma indubbiamente era usato in aramaico galileo come una perifrasi per indicare se stessi: ossia, in aramaico galileo chi parlava poteva, per timore, riservatezza o modestia, riferirsi a se stesso come “il figlio dell’uomo” invece di “io”.198 A parte questo, “figlio dell’uomo” fu usato anche, secondo Vermes, come sinonimo di “essere umano”.199 In altre parole, poteva essere usato per sottolineare l’umano come opposto al subumano o bestiale (si confronti con Dan 7:3-7, 17-26 con 7:13). Alcuni riferimenti al “figlio dell’uomo” nei vangeli sembrano dipendere da Daniele 7:13: “Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo”.200 Si può affermare che in questi testi “figlio dell’uomo” viene usato come una sorta di titolo per il giudice che verrà. Ma si noti anche che Gesù, qui, parla di un’altra persona distinta da lui. Egli non dice di essere il “figlio dell’uomo” che arriverà sulle nubi. Inoltre, numerosi studiosi, oggi, affermerebbero che questi passi non furono formulati da Gesù stesso, ma dai primissimi Cristiani.201 Questo significa che l’uso che Gesù fece del termine non fu altro che una peculiarità idiomatica della sua lingua madre, l’aramaico della Galilea? Forse, ma è possibile anche ipotizzare che Gesù abbia avuto in mente qualcosa. Gli elementi presenti nei vangeli sembrerebbero mostrare che Gesù, tuttavia, pose una grande enfasi sul termine aramaico “figlio dell’uomo”. Se teniamo presente anche l’enfasi che Gesù pose sulla dignità degli esseri umani in quanto esseri umani e sulla solidarietà della razza umana, possiamo formulare la congettura che l’uso frequente e teatrale del termine “figlio dell’uomo” fosse il suo modo di riferirsi agli esseri umani in quanto esseri umani, e di identificarsi con loro. Quindi, dire che “il Figlio dell’uomo è signore anche del sabbath” (Mc 2:28) equivale a dire che “il sabbath è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabbath” (Mc 2:27). Dire che “il figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di perdonare i peccati” (Mt 9:6) è glorificare “Dio che aveva dato tale potere agli uomini” (Mt 9:8). Dire che “le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo hanno dei nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” può significare che mentre gli Erodi (le volpi) e i Romani (gli uccelli) hanno un posto nell’attuale società, gli esseri umani in quanto esseri umani non hanno ancora un posto. Analogamente, dire che “il figlio la curiosità dei contemporanei di Gesù. 198
Geza Vermes, Jesus the Jew, pp. 160-168, 186.
199
Vermes, p. 176.
200
Mc 8:38 parr; 13:26 parr; 14:62 parr; Mt 19:28 par; 24:27, 37, 44 par.
201
Ad esempio Vermes, pp. 169-186; Norman Perrin, Rediscovering the Teaching of Jesus, pp. 164-199.
dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Mc 9:31) potrebbe essere un riferimento al paradosso che le persone che si identificano con l’umanità subiranno violenza per mano di altri esseri umani. Se le persone acquisiscono la loro identità da ciò con cui si identificano, allora è possibile dire che l’identità di Gesù è l’umanità, gli esseri umani in quanto esseri umani, o il “figlio dell’uomo”. Questo, come dico io, è materiale per congetture. Tutto quello che si può dire con un qualche grado si certezza è che, quando usò il termine “figlio dell’uomo”, Gesù non rivendicava per sé un titolo, un incarico o un rango. In virtù del suo esplicito insegnamento riguardante i titoli e gli onori, apprendere che egli desiderò essere accettato senza alcun titolo non dovrebbe sorprendere. Come avrebbe potuto rivendicare un titolo se aveva insegnato: “Ma voi non vi fate chiamare Rabbì; perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli. Non vi fate chiamare maestro, perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo” (Mt 23:8-10*). L’ultima frase di questo passo è stata palesemente alterata da Matteo o dalla sua fonte. Come abbiamo visto, Gesù generalmente vietò ogni riferimento al Cristo o Messia. Inoltre sembra palese che l’intenzione originale del detto era che Dio solo era il loro “Maestro, Padre e Signore”. A meno che Gesù non facesse quello che predicava, o a meno che non si considerasse un’eccezione alla regola, ci aspetteremmo di scoprire che egli scoraggiò gli uomini a chiamarlo Rabbi o Maestro. Non c’è una prova diretta che l’abbia fatto. Forse sentiva che sarebbe stato pedante correggere chiunque desiderasse loro mostrare di rispettarlo come un maestro. D’altra parte, forse scoraggiò gli uomini a rivolgersi a lui come Rabbi o Maestro, e c’è solo da aspettarsi che nessuna traccia di questo atteggiamentosia giunta fino a noi. Questo suonerebbe in qualche modo inverosimile, se non fosse per la tradizione che è giunta fino a noi secondo la quale Gesù scoraggiò davvero gli uomini a chiamarlo buono! “Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio»” (Mc 10:18 = Lc 18:19). Marco e Luca, probabilmente, interpretarono questa frase come una espressione ironica – essi credevano che Gesù fosse buono perché era divino. Matteo non riuscì a ricavare da essa un senso quindi la modificò (19:16-17). Ma in origine Gesù mise semplicemente in pratica quello che predicò. Essi vollero chiamarlo Maestro, ma egli volle essere il loro servo, quello che lavava loro i piedi (Gv 13:12-15). Gesù deve essere stato cosciente di adempiere alle profezie e alle aspettative della Scrittura, ma sembra che per lui non importasse chi fosse ad adempierle. Quando, secondo i vangeli, i discepoli di Giovanni gli chiedono se è colui che doveva venire non risponde direttamente alla domanda, ma indica semplicemente l’adempimento della Scrittura in quello che al momento stava accadendo: “I ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati... e la buona novella è annunciata ai poveri” (Mt 11:4-5). Non dice: “Io do la vista ai ciechi, io proclamo ai poveri la buona novella”. Quel che importa è che questo tipo di cosa venga fatta: gli uomini sono liberati e salvati. Chi sia a farlo è irrilevante. Egli volle che i suoi discepoli andassero e facessero quello che aveva fatto lui. Non gli capitò mai di impedire a qualcuno, perfino a dei perfetti estranei, di partecipare all’opera di liberazione (Mc 9:38-40 par). L’unica preoccupazione di Gesù fu che gli uomini fossero liberati. Di fronte agli elementi storici che avvalorano il silenzio di Gesù riguardo ai titoli, alcuni studiosi moderni competenti hanno sostenuto che Gesù rivendicò l’autorità in modo implicito, con il modo in cui parlò e agì.202 Essi affermano che la sua indipendenza da ogni altra autorità e il suo modo di dire: “Ma io vi dico...” o “Amen, amen, Io vi dico...” sono affermazioni implicite della massima e più indipendente autorità.203 202
203
Ernst Kasemann, Essays in New Testament Themes, pp. 37-38; Ernst Fuchs, Studies of the Historical Jesus, pp. 36-37; Gunther Bomkamm, pp. 173-174; Joachim Jeremias, New Testament Theology, pp. 250-252; Jeremias, The Parables of Jesus, p. 132; Wolfhart Pannenberg, Jesus, God and Man, pp. 53-65. Kasemann, pp. 144-145.
Si dice addirittura che questo è uno dei fatti storici accertati sui quali si può affidare la nuova inchiesta sul Gesù storico, e che è il fondamento storico dei titoli cristologici.204 Ma Gesù rivendicò l’autorità, un qualche tipo di autorità, anche in modo implicito? Non sarebbe più prossimo alla verità dire che ciò che rende Gesù incommensurabilmente più grande di ogni altro essere umano è proprio il fatto che egli abbia parlato ed agito senza alcuna autorità, e che abbia considerato “l’esercizio dell’autorità” una caratteristica pagana (Mc 10:42 parr)? Autorità significa il diritto di essere obbediti dagli altri. Affermare l’autorità significa rivendicare questo diritto, rivendicare l’obbedienza dagli altri. Marco interpreta le parole di Gesù come sicure parole di autorità che impongono obbedienza, e dice altrettanto (1:22, 27). Ma certamente è significativo che i soggetti che obbediscono sono gli spiriti maligni, le malattie, i peccati, la legge, i venti e i mari – non le persone!205 La parola “autorità” normalmente è riservata al diritto ad essere obbediti dalle persone. La parola greca exousia può essere estesa a indicare il potere che una persona ha anche sulle cose. Luca si sforza di sottolinearlo parlando di exousia e dunamis: autorità e potere (9:1). Abbiamo già visto che il potere che Gesù aveva sugli spiriti maligni e sul male in generale era il potere della fede. La notevole fede di Gesù, che curava, guariva e salvava e che risvegliava la fede in coloro che egli aveva intorno, è considerata, nei vangeli, come un tipo di autorità. L’analogia è resa esplicita nella storia di quel grande simbolo di autorità e obbedienza, il centurione romano. Questa storia miracolosa proviene da una tradizione indipendente di Marco (Mt 8:5-13; Lc 7:1-10; Gv 4:46-53). Nella forma in cui Matteo e Luca la conoscevano, viene fatto un confronto tra la disciplina militare dell’autorità indiscussa e dell’obbedienza da una parte, e il potere di Gesù sugli spiriti maligni dall’altra. L’idea è che una persona che capisce l’infallibile efficacia dell’autorità militare apprezzerà l’infallibile efficacia della fede di Gesù, e ci viene detto che questa persona avrà una fede più grande di qualsiasi cosa Gesù abbia trovato in Israele. L’unica autorità che si può dire che Gesù abbia esercitato è un’autorità metaforica o affine, l’autorità sul male che è il potere della fede. Ma che dire, allora, del suo metodo di insegnamento e di predicazione? Nulla potrebbe essere più privo di autorità delle parabole di Gesù. Il loro scopo generale è permettere agli ascoltatori di scoprire qualcosa da soli. Esse non sono spiegazioni o dottrine rivelate: sono opere d’arte che rivelano o scoprono la verità sulla vita. Risvegliano la fede negli ascoltatori, così che essi possono “vedere” la verità da soli.206 Per questo motivo le parabole di Gesù si concludevano sempre con una domanda esplicita o implicita alla quale gli ascoltatori dovevano rispondere. “Quale di questi tre pensate si sia dimostrato un prossimo?” (Lc 10:36); “Quale di essi lo amerà di più?” (Lc 7:42); “Cosa ne pensate? Quale dei due figli fece la volontà del padre?” (Mt 21:28, 31); “Ora, il padrone della vigna cosa farà loro?” (Lc 20:16). Le parabole della pecora perduta e della moneta perduta sono formulate quasi completamente come domande (Lc 15:4-10; Mt 18:12-14). Le parabole non erano indirizzate ai poveri e agli oppressi o ai discepoli di Gesù, ma ai suoi oppositori.207 Avevano lo scopo di persuadere e convincere. Le domande, in qualche modo simili a quelle presenti in un dialogo socratico, hanno la funzione di far si che le persone pensino in modo autonomo. Si può affermare che Gesù ragionò in questo modo con i suoi oppositori che non accettavano la sua autorità, ma quando parlava con i suoi discepoli e alle folle che lo accettavano come loro Maestro lo fece con autorità. La maggior parte dei detti di Gesù, a differenza delle parabole, non sono formulati come domande. Non sembrano essere argomentazioni 204
Pannenberg, p. 55; James M. Robinson, A New Quest of the Historical Jesus, passim ma in particolare pp. 70-71.
205
Ad es. Mc 1:27; 2:10, 28; 4:41; 6:7 e testi paralleli.
206
Eta Linnemann, Jesus of the Parables pp. 21-23, 31.
207
Linnemann, p. 40.
persuasive, ma affermazioni di verità autoritative. Tuttavia, Gesù non si aspettava che fossero solo i suoi oppositori a pensare con la propria testa. Sicuramente si aspettava anche anche i suoi discepoli pensassero in modo autonomo (Lc 12:57) e leggessero da soli i segni dei tempi (Lc 12:54-56; Mt 16:2-3). Si sarebbe aspettato che i suoi discepoli avessero accettato ogni cosa avesse detto per fede “cieca”? Gesù volle che gli altri vedessero quello che vedeva lui e credessero in ciò in cui lui credeva. Ma egli non aveva dubbi sulla verità di ciò che vedeva e credeva. Sembra essere stato straordinariamente fiducioso e sicuro di sé. Fu questo a dare l’impressione di “autorità”. Fu l’inedita forza delle sue convinzioni a fargli dire (se mai lo disse realmente): “Ma io vi dico...” o “Amen, amen, io vi dico...”. Gesù proclamò la verità senza esitazione, sia che usasse i metodi persuasivi della parabola o i verdetti più diretti dei detti. Non ci fu mai un posto per i “forse” e i “può darsi”, non ci furono “se” e “ma”. Questa è la verità sulla vita, riuscite a vederla? Non riesco a trovare alcuna prova secondo cui Gesù si sia aspettato che chi lo ascoltava facesse affidamento su una qualche autorità – la sua o quella di altri. A differenza degli scribi, egli non fa mai appello all’autorità della tradizione rabbinica, e nemmeno a quella della scrittura stessa. Egli non espone la verità interpretando o commentando il testo sacro. La sua percezione e il suo insegnamento della verità sono diretti e non mediati. Egli non afferma nemmeno di avere l’autorità di un profeta, l’autorità che proviene direttamente da Dio. A differenza dei profeti, egli non ricorre ad una speciale chiamata profetica o ad una visione per confermare le proprie parole.208 Non usa mai la classica introduzione profetica, “Dio dice...”, e rifiuta di produrre un qualsiasi tipo di segno dal cielo per dimostrare di poter parlare nel nome di Dio. Alla fine, quando si trova di fronte alla domanda relativa a quale autorità egli potrebbe avere, rifiuta di rispondere alla domanda (Mc 11:33 parr). La gente doveva vede la verità di quello che egli faceva e diceva senza fare affidamento su alcuna autorità. Linnemann, nel suo brillante studio delle parabole di Gesù, conclude che “l’unica cosa che poté dare peso alle parole di Gesù furono le parole stesse”.209 Gesù fu unico, tra la gente del suo tempo, per la sua capacità di superare tutte le forme di pensieri rivolte all’autorità. L’unica autorità alla quale si può dire che Gesù abbia fatto appello fu quella della verità stessa. Egli non trasformò l’autorità nella sua verità: fece della verità la sua autorità. E, nella misura in cui l’autorità di Dio può essere concepita come l’autorità della verità, si può dire che Gesù abbia fatto appello all’autorità di Dio ed averla posseduta. Ma quando parliamo dell’autorità della verità (e quindi dell’autorità di Dio) usiamo di nuovo la parola “autorità” come una metafora. Gesù non si aspettava che gli uomini gli obbedissero: si aspettava che “obbedissero” alla verità, che vivessero in modo veridico. Ancora una volta, qui sarebbe meglio parlare di potere piuttosto che di autorità. Il potere delle parole di Gesù fu il potere della verità stessa. Gesù ebbe un impatto duraturo sugli uomini perché, evitando ogni pensiero legato all’autorità, liberò il potere della verità stessa – che è il potere di Dio, e sicuramente il potere della fede. L’unica cosa che si può dire che Gesù abbia affermato è di dire la verità. Questa è un’affermazione sostanziale, di gran lunga più sostanziale di qualsiasi rivendicazione di titoli eccelsi o di autorità sovrumana. Qual è la base di questa rivendicazione? Cosa rese Gesù così sicuro che le sue convinzioni erano infallibilmente vere? Si potrebbe rispondere: le convinzioni stesse. Gesù sentiva chiaramente che la sua intuizione della realtà non aveva bisogno di essere dimostrata o confermata tranne che da se stessa. La sua intuizione era un’esperienza intuitiva che si confermava da sola. Questo ci porta alla questione molto 208
209
Ovviamente Gesù riconosce di essere un profeta, ma non si basa sull’autorità che un uomo avrebbe in quanto profeta. Se anche visse l’esperienza di una chiamata (si veda Jeremias, pp. 49-56), o ebbe una visione (si veda Pannenberg, p. 64), Gesù non fece mai ricorso ad alcuna di queste per autenticare le proprie parole. Si veda p. 45; si vedae inoltre Werner & Lotte Pelz, God Is No More, p. 113.
delicata dell’esperienza personale di Gesù. Ogni tentativo di ricostruire la psicologia o la coscienza di Gesù sarebbe puramente congetturale. Alla maggior parte degli studiosi basta l’affermazione secondo cui, da qualche parte nel cuore della misteriosa personalità di Gesù vi fu un’esperienza unica di intima vicinanza a Dio – l’esperienza-Abba.210 Questo è sicuramente vero, tutti gli elementi puntano in quella direzione, ma è davvero così impossibile spiegare cosa potrebbe spiegare un’esperienza del genere? Non è necessario speculare sulla psicologia di Gesù. Sappiamo che egli fu spinto ad agire e a parlare da una profonda esperienza di compassione. E sappiamo che l’esperienza-Abba fu un’esperienza di Dio come Padre compassionevole. Questo significherebbe che Gesù avvertì il misterioso potere creativo alla base di tutti i fenomeni (Dio) come compassione o amore. “Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4:7-8*). Secondo Von Rad i profeti non solo condivisero la conoscenza di Dio, essi furono anche colmi, fin quasi a scoppiare, dei sentimenti e delle emozioni di Dio.211 Nel caso di Gesù, fu il sentimento della compassione proprio di Dio a possederlo e riempirlo. Tutte le sue convinzioni, la sua fede e la sua speranza furono espressioni di questa esperienza fondamentale. Se Dio è compassionevole, allora il bene trionferà sul male, l’impossibile accadrà e c’è speranza per l’umanità. La fede e l’amore sono l’esperienza della compassione come emozione divina. La compassione è la base della verità. L’esperienza della compassione è l’esperienza della sofferenza o dell’empatia con gli altri. Soffrire o compatire l’umanità, la natura e Dio è essere in accordo con i ritmi e gli impulsi della vita. Questa è anche l’esperienza della solidarietà: solidarietà con gli uomini, la natura e Dio. Essa esclude ogni forma di alienazione e falsità. Fa dell’uomo una cosa sola con la realtà, quindi lo rende vero e autentico di per sé. Il segreto dell’infallibile intuito di Gesù e delle sue incrollabili convinzioni fu la sua incessante esperienza di solidarietà con Dio, che si rivelò un’esperienza di solidarietà con l’umanità e la natura. Questo lo rese un uomo liberato in modo unico, coraggioso, intrepido, indipendente, speranzoso e veridico. Cosa avrebbe portato una persona a voler annientare un uomo del genere? Cosa avrebbe portato una persona a volerlo arrestare e processare?
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211
Edward Schillebeeckx, Jesus, pp. 257-271; Vermes, Jesus the Jew, pp. 210-213; Heinz Zahmt, What Kind of God?, p. 163; Jeremias, pp. 67-68. Von Rad, The Message of the Prophets, pp. 42, 50, 165-166.
Capitolo 18 A Processo Gli eventi che portarono alla morte di Gesù e le motivazioni che li produssero sono enigmatici e confusi. Si ha l’impressione che le persone coinvolte siano state a loro volta disorientate e confuse. Per portare una qualche chiarezza nel quadro dobbiamo distinguere tra le accuse che poterono essere rivolte a Gesù, le accuse che realmente gli furono imputate e i veri motivi per cui si poteva desiderare di ucciderlo. Gli stessi vangeli testimoniano questa triplice distinzione: ad esempio, Gesù avrebbe potuto essere accusato di avere infranto deliberatamente il Sabbath o di praticare la magia (scacciare i demoni grazie al potere di Satana); in realtà fu accusato di aver affermato di essere il Messia-re; e il vero motivo, secondo Marco seguito da Matteo, fu l’invidia o la gelosia (Mc 15:10; Mt 27:18). Sfortunatamente gli obiettivi degli autori dei vangeli non li obbligarono a mantenere nel corso di questi tale distinzione. Le accuse che si sarebbero potute muovere contro di lui furono a volte considerate accuse realmente mosse (ad es. la blasfemia, Mc 14:64 par), e accuse che gli furono davvero rivolte furono a volte considerate i veri motivi per rinnegarlo (ad es., che egli affermò di essere il Messia, Mc 14:62-64). Questo ha portato a una notevole confusione. Secondariamente dobbiamo distinguere tra il ruolo svolto dai capi degli Ebrei e quello svolto dal governo romano. C’erano due corti o tribunali: il Sinedrio, o tribunale degli Ebrei, che era composto dal sommo sacerdote e da circa sessanta capi dei sacerdoti, degli anziani e degli scribi, e il tribunale romano, che era presieduto da Pilato come procuratore o governatore. Gesù fu processato, condannato e giustiziato dal tribunale romano. Ma gli autori dei vangeli, come tutti i primi cristiani, si sforzarono di chiarire bene che, nonostante questo, i capi degli Ebrei erano maggiormente responsabili della morte di Gesù rispetto ai Romani. Avevano assolutamente ragione, ma il modo in cui si disposero a dimostrarlo ai loro lettori ha portato ad una confusione senza fine – in particolar modo quando danno l’impressione che l’interrogatorio ad opera dei capi degli Ebrei sia stato una specie di processo. 212 La loro intenzione non era quella di ingannare o di distorcere i fatti storici. La loro intenzione era aiutare il lettore a capire cosa davvero accadde, nonostante le apparenze. Apparentemente i Romani erano colpevoli, ma la verità era che gli Ebrei erano maggiormente colpevoli. Qui non c’è alcun antisemitismo, né vi è pregiudizio a favore di Roma, ma soltanto delusione. La verità è che Gesù rivolse un appello ad un popolo specifico, in un momento determinato, e che quel popolo lo rifiutò, come la maggior parte degli altri uomini avrebbe benissimo potuto fare in quelle circostanze. Cosa successe? L’accusa per la quale Gesù fu processato, condannato e giustiziato fu che egli affermò di essere il Messia o il re degli Ebrei. Questo è tutto ciò che Pilato gli chiese, e fu quel che apparve sulla sua croce, quale accusa rivolta contro di lui. Tutto il resto è pura e semplice speculazione: ciò di cui avrebbe potuto essere imputato o accusato. Il Sinedrio avrebbe potuto contestargli di essere un falso maestro, un falso profeta oppure un figlio ribelle (Dt 21:2021) o di avere intenzionalmente infranto il sabbath, o di praticare la magia.213 I primi cristiani pensarono che alcuni ebrei avessero accusato Gesù di blasfemia perché aveva perdonato i peccati (Mc 2:7 parr) e perché aveva affermato di essere il Messia, il Figlio di Dio o il “figlio dell’uomo” (Mc 14:61-64 par), che equivaleva a rendersi eguale a Dio (Gv 5:18; 10:33, 36; 19:7). Pensarono anche che questa avrebbe potuto essere 212
Molto è stato scritto, recentemente, sul processo a Gesù e sui motivi che indussero gli avengelisti e le loro fonti a ricostruire gli eventi. Per il lettore che non riesce ad orientarsi nell’abbondantissima letteratura sull’argomento raccomando il libretto di Gerard S. Sloyan, Jesus on Trial, o l’articolo di J. Sobosan, “The Trial of Jesus,” Journal of Ecumenical Studies, 10.1 (1973), 70-91.
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Joachim Jeremias, New Testament Theology, pp. 278-279. Ci fu anche la possibile accusa che egli desiderasse distruggere il Tempio, ma essa non fu mai considerata molto seriamente (Mc 14:57-59 par).
l’accusa contestatagli dinanzi al Sinedrio (Mc 14:61-64 par) o che questo avrebbe potuto essere il motivo per cui il popolo chiese a Pilato di crocifiggerlo (Gv 19:7). Secondo Luca, gli Ebrei lo accusarono – e i Romani avrebbero potuto accusarlo – di attività sovversiva e di opposizione al pagamento delle tasse a Cesare (23:2). Ci fu un senso in cui la sua azione ed il suo insegnamento furono sovversivi per lo status quo. Egli voleva cambiare la società da cima a fondo. Sul tema della tassazione, come abbiamo visto, egli evitò del tutto di schierarsi a favore di una delle due parti nella controversia, perché per lui non era quello il vero problema. Tutto questo significa che, sebbene vi siano state varie possibili imputazioni o accuse che avrebbero potuto essergli rivolte, il Sinedrio non lo processò affatto, e i Romani lo processarono perché aveva dichiarato di essere il re degli Ebrei. Perché? Quali furono i veri motivi per fare questo? Pilato era un governatore particolarmente spietato. Egli uscì dal seminato per provocare gli Ebrei, e quando essi protestarono e si ribellarono non esitò a circondarli e massacrarli. I presunti ribelli furono molto spesso giustiziati assolutamente senza processo. Secondo Filone,214 il filosofo ebreo contemporaneo, Pilato era “per natura inflessibile, determinato e duro”. Egli elenca i crimini di Pilato: “corruzione, tirannia, saccheggio, violenza, calunnia, costante esecuzione senza emissione di un verdetto e interminabile, insopportabile crudeltà”. Questo quadro è confermato da tre episodi avvenuti durante l’amministrazione di Pilato che furono annotati dallo storico ebreo contemporaneo Giuseppe Flavio. Il primo episodio riguardò gli stendardi romani o insegne imperiali, che gli Ebrei consideravano idolatre perché riportavano le immagini dell’imperatore e altri simboli sacri. Sebbene questo non fosse mai stato fatto in precedenza, Pilato ordinò che gli stendardi fossero portati a Gerusalemme. Il popolo protestò e presentò a Pilato la richiesta di rimuovere gli stendardi. Pilato rifiutò, li fece segretamente circondare e li avrebbe fatti anche massacrare, se non fosse successo che non opposero alcuna resistenza e furono tutti disposti a morire martiri.215 Non sarebbe stato politicamente opportuno ucciderli tutti a sangue freddo. Però durante il secondo scontro tra Pilato e la folla degli ebrei, questa volta per il suo uso dei fondi del Tempio per costruire un acquedotto, li fece circondare e percuotere con dei bastoni. Alcuni rimasero uccisi e altri gravemente feriti.216 Il terzo episodio portò alla sua caduta. Egli fu rimandato a Roma per questo motivo. Questa volta si trattava di un gruppo di Samaritani che si erano riuniti sul Monte Gerizim per lo scopo, abbastanza innocente, di cercare i vasi sacri che – credevano – Mosè aveva nascosto là. Pilato mandò l’esercito a massacrarli.217 Pilato sembra aver avuto una fobia per i grandi assembramenti di persone. Ogni volta che gli Ebrei (o i Samaritani) si riunivano per fare causa comune su qualcosa, egli sospettava una potenziale ribellione contro Roma. Otteniamo esattamente la stessa immagine di Pilato dalla breve menzione di un altro episodio nello stesso Nuovo Testamento. Luca parla dei “Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici”” (13:1) – un massacro nel Tempio! Questa, ovviamente, non è l’immagine di Pilato che troviamo nei racconti evangelici del processo a Gesù. È ovvio che Pilato viene in qualche modo “ripulito” in queste versioni del processo per rendere più importante il fatto che la colpa della morte di Gesù era degli Ebrei. In realtà, cosa avrebbe potuto pensare Pilato a proposito di Gesù? Sappiamo cosa altri procuratori, meno spietati, pensarono dei profeti e dei potenziali Messia. Verso il 45 E.C. un profeta chiamato Teuda guidò un gran numero di ebrei, insieme ai loro averi, fino al Fiume Giordano che, come Mosè, aveva promesso di dividere miracolosamente, così che essi avrebbero 214
215
Legatio ad Gaium, 299-305. Antiquities 18:55-57.
216
Antiquities 18:61-62; Guerre 2:175-177.
217
Antiquities 18:85-89.
potuto attraversarlo e andare nel deserto. Il procuratore Cuspio Fado inviò la sua cavalleria. Questa ne uccise alcuni e ne prese prigionieri altri. Teuda fu decapitato.218 Non ci sono prove che Teuda fosse uno zelota.219 Qui si può anche citare l’episodio del profeta ebreo proveniente dall’Egitto. Circa nel 58 E.C. egli radunò una folla sul Monte degli Olivi promettendo, come Giosuè, che le mura della città sarebbero crollate su suo ordine. Il procuratore Antonio Felice passò immediatamente all’azione. Molti ebrei furono uccisi, ma l’egiziano fuggì.220 In seguito un ufficiale romano scambiò Paolo per l’ebreo egiziano, che dice essere stato la guida dei quattromila sicari o tagliagole (Atti 21:38). Essi non furono zeloti, anche se il loro profeta-leader può aver avuto delle intenzioni che erano molto simili a quelle degli Zeloti. Se Pilato avesse conosciuto le intenzioni di Gesù, se avesse saputo in quale tipo di “regno” sperava e quanto tentasse di diffondere la fede in questo “regno” avrebbe certamente voluto ucciderlo. Pilato avrebbe considerato Gesù una gravissima minaccia politica anche se avesse saputo che Gesù non intendeva fondare il nuovo “regno” con la forza delle armi – proprio come Erode considerò Giovanni il Battista una minaccia politica e ritenne necessario farlo arrestare, sebbene Giovanni non avesse mai fatto ricorso alla violenza.221 La ribellione armata non fu l’unica minaccia al governo romano. Qualsiasi movimento popolare che si fosse dedicato al cambiamento, specialmente se di ispirazione religiosa, sarebbe stato considerato estremamente pericoloso. Ma questo è ciò che Pilato avrebbe pensato se avesse conosciuto l’insegnamento e le intenzioni di Gesù. Pilato, concretamente, seppe qualcosa di Gesù? Egli può essere stato edotto dell’episodio nel cortile del Tempio, quando Gesù scacciò i mercanti. La guarnigione romana sorvegliava il cortile del Tempio, e quando Paolo provocò una rivolta fuori dalle porte del Tempio i soldati romani intervennero rapidamente (Atti 21:27-36). La “purificazione” del cortile del Tempio ad opera di Gesù non avrebbe potuto passare inosservata. Questa, da sola, sarebbe bastata a rendere Pilato sospettoso nei confronti di Gesù e delle sue intenzioni. Ma non possiamo sapere se la guarnigione romana riportò la cosa a Pilato oppure no. Al tempo del processo a Gesù Pilato sapeva quantomeno che Gesù era un leader influente e che molti dei suoi seguaci lo consideravano il futuro Messia o re degli Ebrei.222 Ma Pilato seppe questo prima del processo? Sembrerebbe averlo dovuto sapere. Sappiamo da Giovanni che Gesù fu arrestato da un gruppo misto di guardie ebree e soldati romani (18:3,12). Tenendo conto della tendenza di Giovanni a sminuire la colpa dei Romani ovunque ne abbia l’occasione, questa inclusione di soldati romani e del loro tribuno (18:12) deve essere un fatto storico. Nessun ebreo, nemmeno il sommo sacerdote, avrebbe potuto incaricare i soldati romani di arrestare qualcuno. Pilato deve essere stato coinvolto. Deve aver voluto che Gesù fosse arrestato. Quindi deve aver saputo di Gesù prima del processo. Possiamo concludere che se Pilato non avesse avuto sospetti su Gesù e sulle sue intenzioni in occasione dell’episodio del Tempio, deve aver saputo di lui qualche tempo dopo questo fatto ma prima dell’arresto. Quale ruolo ebbero in questo le autorità ebraiche, allora? Il sommo sacerdote era nominato dai Romani. Gli era permesso esercitare l’autorità e partecipare all’amministrazione del paese. Anche le sue funzioni religiose erano controllate dai Romani, che avevano in custodia i suoi paramenti sacri. Il sommo sacerdote e i suoi associati, quindi, erano profondamente coinvolti in quella che definiremmo la politica o le questioni di stato, e completamente dipendenti dai Romani. Il loro compito era collaborare a mantenere la pace, specialmente durante le feste sovraffollate a Gerusalemme. Quanto sapevano di Gesù? Probabilmente pochissimo. Devono 218
Antichità 20:97-99; Atti 5:36.
219
Martin Hengel, Die Zeloten, pp. 236-238.
220
Antichità 20:169-172.
221
Si veda il Capitolo 2 e Geza Vermes, Jesus the Jew, pp. 50-51.
222
Vermes, pp. 51, 144.
aver saputo almeno quanto Pilato, ma non abbastanza per imputargli le accuse che avrebbero potuto essergli rivolte secondo la legge ebraica (presumendo che essi abbiano mai pensato di portarlo a processo davanti al Sinedrio). Possiamo essere sicuri che essi sapevano che Gesù incitò gli uomini a credere nell’arrivo imminente del “regno” di Dio, e che alcune persone vedevano in lui il Messia promesso.223 Il sommo sacerdote e i suoi associati avrebbero considerato questa propaganda in primo luogo una minaccia per il delicato mantenimento della pace con i Romani. Erano uomini d’affari, più preoccupati degli interessi personali che della verità. Questo è chiaro dalle loro riflessioni su Gesù fatte qualche tempo prima del suo arresto. È di nuovo Giovanni a darci un resoconto di queste riflessioni. “«Che facciamo?»... Caiafa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «...Non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione»” (11:47-50*). Qui non c’è alcun interesse per la verità, e in particolar modo per quella che molti, oggi, chiamerebbero la verità religiosa. È una questione di convenienza politica. Quali saranno le rappresaglie romane se non facciamo qualcosa riguardo a quest’uomo? Non sarebbe più opportuno che morisse? Ci sono solo due modi possibili di dare un senso a queste riflessioni. Una è che Caiafa pensasse che la propaganda relativa ad un nuovo “regno” e la popolare acclamazione di Gesù quale Messia-re stessero per far precipitare uno scontro tra Gesù e i Romani. Se questo fosse accaduto, i Romani sarebbero “arrivati e avrebbero preso il nostro posto e il nostro popolo”. Paul Winter ha affermato che “il nostro posto” non significa il Luogo Santo o Tempio, ma la posizione o lo status del sommo sacerdote e del suo consiglio.224 Se così è, allora il timore di Caiafa fu che tutti loro sarebbero stati privati delle loro posizioni perché non avevano fatto il loro dovere, non prevenendo una rivolta riportando la questione ai Romani o consegnando loro Gesù perché fosse giustiziato. L’altra possibilità è che Pilato avesse già ordinato loro di trovare Gesù e di consegnarglielo. Le riflessioni delle autorità ebraiche, allora, avrebbero riguardato un caso di estradizione. Un ebreo la cui estradizione per accuse politiche era richiesta da un signore pagano doveva essere consegnato o no? La massima secondo cui “torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione” somiglia molto alla controversa massima legale per la quale il ricercato deve essere consegnato “così che l’intera comunità non soffra per colpa sua”. 225 In altre parole quella che abbiamo qui è una misura preventiva calcolata per evitare uno scontro con i romani, oppure un caso di estradizione. In ogni caso, la decisione del sommo sacerdote e del suo consiglio fu quella di collaborare con Roma. La convenienza politica richiedeva che quest’uomo fosse consegnato e che fosse permesso che morisse. Cercare di salvargli la vita sarebbe stato un suicidio per il popolo. Furono i Romani, perciò, a voler uccidere Gesù. Se abbiano scoperto da soli le cose che riguardavano Gesù e volessero un’estradizione, o se Caiafa, dopo le riflessioni del concilio, abbia relazionato loro su di lui resta incerto. Che essi debbano aver voluto uccidere Gesù è del tutto in accordo con la politica nota di Pilato e degli altri procuratori. Essi uccisero tutti i profeti e i potenziali Messia. Le autorità ebraiche, per qualche motivo, decisero di trovare Gesù e di consegnarlo a Pilato. L’accusa che dobbiamo rivolgere ad esse è quella di aver tradito Gesù. Consegnare e tradire sono 223
224
225
L’affermazione di Giovanni in 7:32 esprime in modo molto accurato questa idea: “I farisei udirono la gente mormorare queste cose di lui (ossia, che egli poteva essere il Messia); e i capi dei sacerdoti e i farisei (!) mandarono delle guardie per arrestarlo”. Paul Winter, On the Trial of Jesus, p. 39. Genesi Rabbah 94:9 e si confronti con la storia di Seba in 2 Samuele 20. Si vedano Merx, Das Evangelium des Johannes, pp. 298-299; D. Daube, Collaboration with Tyranny in Rabbinic Law, New York and London: Oxford University Press, 1966, passim, Vermes, Jesus the Jew, pp. 5051. Le argomentazioni di E. Bammel avverso l’idea che quello che abbiamo qui è un caso di estradizione non sono convincenti (The Trial of Jesus, pp. 26-30).
la stessa parola in greco: paradidomai (Mc 9:31 parr; 10:33, 34 parr; 14:41 par; 15:1 par; Mt 26:2; Gv 19:11; Atti 7:52). Quindi ci furono due tradimenti: Giuda lo tradì (lo consegnò) alle autorità ebraiche e queste, a loro volta, lo tradirono (lo consegnarono) ai Romani (Mc 10:33-34 parr). Egli fu quindi processato e condannato a morte da un tribunale romani. La cosa più importante del processo stesso, la sola cosa della quale possiamo essere assolutamente certi e tuttavia l’unica cosa che spesso viene sottovalutata, è che Gesù non si difese. In tutti i verbali, a prescindere da chi fosse ad accusarlo o da quale fosse l’accusa che gli era rivolta, Gesù rimase in silenzio (Mc 14:60-61; 15:4-5; Mt 26:62-63; 27:12, 14; Lc 23:9). Se e quando parlò, fu solo per essere vago e, in effetti, per rifiutare di fornire una risposta: “Tu lo dici” (Mc 15:2; Mt 26:64; 27:11; Lc 22:70; 23:3) e “Anche se ve lo dicessi, non credereste; e se io vi facessi delle domande, non rispondereste” (Lc 22:67; si vedano inoltre 20:8; Gv 18:20-21). Il dialogo, che fu costruito dagli autori dei vangeli o dalle loro fonti per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi oppositori, non deve oscurare la loro stessa palese affermazione dei fatti: “Egli non diede risposta al alcuna accusa” (Mt 27:14). Il servo sofferente di Isaia 53:7 rimase in silenzio davanti ai suoi accusatori – come un agnello davanti a chi deve tosarlo. Da questo non si può ipotizzare che gli autori dei vangeli o le loro fonti abbiano inventato l’idea del silenzio di Gesù per evidenziare il fatto che Gesù era il servo sofferente.226 Restare in silenzio di fronte ai suoi accusatori è esattamente quello che ci saremmo aspettati che Gesù avrebbe fatto. Egli aveva coerentemente rifiutato di produrre dei segni dal cielo; non aveva mai discusso con autorità, aveva rifiutato di rispondere a delle domande sulla sua autorità e ora rifiutava di difendere o giustificare il suo comportamento. In altre parole, Gesù non disse una parola, mettendo alla prova tutti gli altri. La verità è che che non era Gesù ad essere a processo. Quelli che lo avevano tradito e i suoi accusatori erano a processo davanti a lui. Il suo silenzio li sorprese, li disturbò, li mise in discussione e alla prova. Le loro parole vennero rivolte contro di loro, ed essi stessi si condannarono con le loro bocche. Pilato, in primo luogo, fu processato e giudicato carente. Il silenzio di Gesù lo colse di sorpresa (Mt 27:14 par). Probabilmente esitò per un momento, come suggeriscono tutte le storie dei vangeli. Ma siccome non si curava della verità, e mai se ne era curato, continuò a fare quel che la convenienza politica sembrava richiedere. Come Giovanni vide in modo molto chiaro, Pilato fu colpevole di mancanza di interesse per la verità (18:3738). Caiafa e i suoi associati furono ancora più colpevoli. Deve essere stato molto difficile decidere tra la vita di un uomo e il futuro del popolo. Ma ancor più di Pilato, Caiafa e i suoi associati avrebbero potuto porsi il problema di investigare maggiormente su Gesù e avrebbero potuto essere aperti alla possibilità che egli avesse qualcosa di utile da offrire. Ma anche se Caiafa fosse stato aperto alla verità e fosse giunto a credere in Gesù, cosa avrebbe potuto o dovuto fare per assicurare la pace con i Romani? Forse, possiamo dire, avrebbe dovuto rischiare la vita dimettendosi da sommo sacerdote, unendosi a Gesù nella latitanza e operando con lui per diffondere la fede nel “regno”. Questa è un’impresa ardua, e ci si chiede quanti uomini, nella sua posizione, sarebbero stati così interessati alla verità e all’onestà. E tuttavia non fu forse per questo motivo che gli uomini dell’epoca erano sul ciglio del disastro? Caiafa non fu in grado di accettare la sfida che Gesù gli presentò. Chi di noi vorrebbe scagliare la prima pietra a Caiafa? La morte di Gesù fu anche un giudizio per gli scribi, i Farisei e altri che consapevolmente lo avevano rifiutato. Se lo avessero accettato e avessero creduto nel “regno” dei poveri, quel “regno” sarebbe giunto al posto della catastrofe. Essi non furono diversi da moltissimi uomini e donne di oggi, e tuttavia nel processo di Gesù anche loro furono giudicati colpevoli. Infine, gli stessi discepoli furono messi alla prova. Fu una prova severa, una prova della loro disponibilità a morire con lui per amore degli uomini. Ma Giuda lo tradì, Pietro lo rinnegò e gli altri fuggirono. Anche Gesù fu messo alla 226
Per la storicità del silenzio di Gesù si vedano Edward Schillebeeckx, Jesus, p. 315; Etienne Trocme, pp. 75-77.
prova. Sudò sangue per questo, e disse ai suoi discepoli di pregare di non essere messi alla prova severamente quanto lo era lui (Mc 14:32-38 parr). Egli aveva sempre insegnato ai suoi discepoli di sperare e pregare di non arrivare a questo, che Dio non li mettesse alla prova. Questo è il significato della preghiera: “Non indurci in tentazione” (Mt 6:13; Lc 11:4).227 Gesù volle che nessuno fosse messo alla prova. Ma la crisi giunse, e la prova fu severa. Soltanto Gesù poté accettare la sfida dell’ora. Essa lo pose sopra a chiunque altro come la verità silenziosa che giudica ogni essere umano: Gesù morì solo, come l’unica persona che era riuscita a sopravvivere alla prova.228 Tutti gli altri fallirono, e tuttavia a tutti gli altri fu concessa un’altra possibilità. Quella del Cristianesimo è la storia di coloro che arrivarono a credere in Gesù e che furono ispirati ad accettare la sfida della sua morte – in un modo o nell’altro.
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Peirasmos significa tentazione, test o prova. Questo non vuol dire che non ci furono degli innocenti che continuarono a credere in lui e a restare al suo fianco fino alla fine. Ci viene detto che Maria e “il discepolo che egli amava” e svariate donne furono ai piedi della croce (Mc 15:40 parr; Gv 19:2527). Ma non furono loro ad essere messi alla prova da questi eventi. Di tutti quelli che furono messi alla prova – Gesù, Caiafa, Pilato, Giuda, Pietro ecc – soltanto Gesù sopravvisse, paradossalmente morendo.
Capitolo 19 La Fede in Gesù Gesù non fondò un’organizzazione, egli ispirò un movimento; fu inevitabile che il movimento diventasse molto presto un’organizzazione, ma all’inizio ci furono semplicemente delle persone, individui e gruppi sparsi, che erano stati ispirati da Gesù. Ci furono i dodici, le donne, la sua famiglia (Mara, Giacomo, Giuda), molti dei poveri e degli oppressi che lui aveva rimesso in piedi, ci furono i discepoli in Galilea e in discepoli di Gerico (ad esempio Zaccheo) e di Gerusalemme (ad esempio Giuseppe di Arimatea e Nicodemo); ci furono gli ebrei di lingua greca, come i sette ellenisti che furono ispirati da quello che avevano sentito dire di lui (Atti 6:1-6); ci furono perfino dei farisei e dei sacerdoti che si unirono alla comunità che si era formata a Gerusalemme (Atti 6:7; 15:5). Ognuno ricordava Gesù a modo suo, o era stato colpito da una aspetto particolare di quello che avevano sentito su di lui. All’inizio non ci furono dottrine né dogmi, nessun modo universalmente accettato di seguirlo o di credere in lui. Egli non aveva ispirato il tipo di movimento che semplicemente continua a nominare dei successori del leader originale. Gli Zeloti, come i Maccabei prima di loro, avevano una successione dinastica o ereditaria. Ma la cosa eccezionale del movimento ispirato da Gesù fu che egli stesso rimase il leader e l’ispirazione dei suoi seguaci anche dopo la sua morte. Si sentiva che, ovviamente, Gesù era insostituibile. Se egli moriva, il movimento moriva. Ma se il movimento continuava a vivere poteva essere solo perché, in un senso o nell’altro, Gesù continuava a vivere. Il movimento fu pluriforme, sicuramente amorfo e disorganizzato. La sua sola unità, o punto di coesione, era la personalità di Gesù stesso. Non che questo, per quanto ne sappiamo, sia consistito semplicemente nella perpetuazione del suo insegnamento o della sua memoria. I primi cristiani furono quelli che continuavano, o iniziavano, a sentire in un modo o nell’altro il potere della presenza di Gesù tra di loro dopo la sua morte. Tutti sentivano che, nonostante fosse morto, Gesù continuava a guidarli e ad ispirarli. Alcuni di coloro che lo avevano conosciuto e visto prima che morisse (specialmente i dodici) erano convinti di averlo visto di nuovo in vita dopo la sua morte, e che egli li avesse istruiti nuovamente, come aveva fatto prima. Le donne che avevano scoperto la tomba vuota, seguite da altri discepoli, proclamarono che Gesù era risorto dai morti. Molti, inoltre, sentirono la continua leadership ed ispirazione di Gesù come l’eredità del suo Spirito – lo Spirito di Dio. Sentivano di essere posseduto dal suo Spirito e di essere guidati dal suo Spirito. La profezia di Gioele era adempiuta in loro per mezzo di Gesù: lo Spirito era stato riversato in mezzo a loro, facendo di tutti loro dei profeti che hanno visioni e sogni (si veda il sermone di Pietro in Atti 2:14-41). Gesù rimase presente e attivo grazie alla presenza e all’attività del suo Spirito: “Ora, il Signore è lo Spirito; e dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è libertà.... Secondo l’azione del Signore, che è lo Spirito” (2 Cor 3:17-18). Gesù aveva avuto, e continuava ad avere, un impatto così profondo sui suoi seguaci che per loro era impossibile credere che qualcun altro potesse essere pari a lui o più grande – nemmeno Mosè o Elia (Mc 9:2-8 parr), nemmeno Abramo (Jn 8:58). La venuta di un profeta, un giudice o un Messia dopo Gesù, e più grande di Gesù, era inconcepibile (Gv 7:31). Non era necessario “aspettare qualcun altro” (Mt 11:3 par). Gesù era tutto. Gesù era tutto quello che gli Ebrei avevano sperato e per cui avevano pregato. Gesù aveva adempiuto, o avrebbe adempiuto, ogni promessa e ogni profezia. Se qualcuno dovrà giudicare il mondo, alla fine, dovrà essere lui (Atti 10:42; 17:31). Se qualcuno deve essere nominato Messia, Re, Signore, Figlio di Dio nel “regno”, come può non essere Gesù (Atti 2:36; 3:20-21; Rom 1:4; Rev 17:14; 19:16)? La loro ammirazione e venerazione per lui non aveva limiti. Egli fu in ogni modo il solo e definitivo criterio del bene e del male, e della verità e della falsità, l’unica speranza per il futuro, il solo potere che poteva trasformare il mondo. I seguaci esaltarono Gesù alla destra di Dio, o piuttosto credettero che, a parere di Dio, Gesù era alla Sua destra (Atti 2:33-34; 5:31; Ef 1:20-23; 1 Cor 15:24-27; 1 Pietro 3:21-22; Eb 10:12-13).
Dio contraddice la valutazione dei capi degli Ebrei. Essi rifiutarono Gesù, lo tradirono e lo fecero uccidere, ma Dio lo eleva, lo glorifica, lo esalta e fa di lui il Signore, il Messia, la pietra angolare (Atti 2:22,36; 3:1315; 4:11; 5:30-31; 1 Pie 2:4). Gesù fu sentito come la svolta nella storia dell’umanità egli trascese ogni cosa fosse stata detta e fatta in precedenza. Fu in ogni modo l’ultima parola, quella definitiva. Fu alla pari con Dio. La sua parola fu la parola di Dio. Il suo Spirito fu lo Spirito di Dio. I suoi sentimenti furono i sentimenti di Dio. Quel che egli rappresentò era esattamente ciò che Dio rappresentava. Non era concepibile una stima superiore. Credere in Gesù oggi è concordare con questa sua valutazione. Non abbiamo bisogno di usare le stesse parole, gli stessi concetti o gli stessi titoli. Non abbiamo affatto bisogno di usare dei titoli. Ma se releghiamo Gesù e quello che rappresenta al secondo posto nella nostra scala di valori, allora abbiamo già rifiutato lui e quello che rappresenta. Ciò di cui Gesù si preoccupava era una questione di vita o di morte, una questione di somma importanza. O si accetta il “regno” così come Gesù lo interpretò oppure no. Non è possibile servire due “padroni”. È tutto o niente. Il secondo posto o le mezze misure equivalgono al niente. Credere in Gesù è credere che egli è divino. Ognuno ha un dio – nel senso che ognuno mette qualcosa al primo posto nella sua vita: denaro, potere, prestigio se stesso, amore eccetera. Deve esserci qualcosa nella tua vita che opera come la tua fonte di significato e forza, qualcosa che consideri, almeno implicitamente, il potere supremo nella tua vita. Se pensi che la tua priorità nella vita sia essere una persona trascendente, avrai un Dio con la lettera maiuscola. Se pensi che il tuo massimo valore sia una causa, un ideale o un’ideologia avrai un dio con la lettera minuscola. In ogni caso avrai qualcosa che per te è divino. Credere che Gesù è divino è scegliere di fare di lui e di ciò che rappresenta il tuo Dio. Negare questo è fare di qualcun altro il tuo dio o Dio, e relegare Gesù e quello che rappresenta al secondo posto nella tua scala di valori. Ho scelto questo approccio perché ci permette di iniziare con un concetto aperto di divinità e di evitare il perenne errore di sovrapporre alla vita e alla personalità di Gesù le nostre idee preconcette su come si presume che Dio debba essere. L’immagine tradizionale di Dio è diventata così difficile da capire e così difficile da riconciliare con i fatti storici della vita di Gesù che molti non riescono più a identificare Gesù con quel Dio. Per molti giovani, oggi, Gesù è vivissimo, ma il Dio tradizionale è morto. 229 Con le sue parole e le sue azioni Gesù stesso cambiò il contenuto della parola “Dio”. Se non gli permettiamo di cambiare la nostra immagine di Dio non potremo dire che egli è il nostro Signore e il nostro Dio. Sceglierlo come nostro Dio è fare di lui la fonte della nostra informazione sulla divinità, e rifiutare di sovrapporre a lui le nostre idee della divinità. Questo è il significato dell’affermazione tradizionale che Gesù è la Parola di Dio. Gesù ci rivela Dio, non è Dio a rivelarci Gesù. Dio non è la Parola di Gesù, ossia, le nostre idee su Dio non possono fare alcuna luce sulla vita di Gesù. Argomentare da Dio a Gesù invece di argomentare da Gesù a Dio è mettere il carro davanti ai buoi. Questo, ovviamente, è ciò che molti cristiani hanno cercato di fare. Generalmente ciò li ha condotti ad una serie di speculazioni insensate che possono solo rendere confuso il tema e che impediscono a Gesù di rivelarci Dio. Non possiamo dedurre nulla su Gesù da quello che pensiamo di sapere su Dio; ora dobbiamo dedurre ogni cosa su Dio da quello che sappiamo su Gesù. Così quando diciamo che Gesù è divino non vogliamo aggiungere alcunché a quello che siamo riusciti a scoprire su di lui fino ad ora, né vogliamo cambiare alcuna cosa che abbiamo detto su di lui. Dire ora, improvvisamente, che Gesù è divino non cambia la nostra interpretazione di gesù: cambia la nostra interpretazione della divinità. Non solo ci allontaniamo dagli dei del denaro, del potere, del prestigio o del sé; ci allontaniamo da tutte le vecchie immagini di un Dio personale per scoprire il nostro Dio in Gesù e in quello che rappresentò. Questo non vuol dire che dobbiamo abolire il Vecchio Testamento e rifiutare il Dio di 229
Christian Duquoc, “Yes to Jesus-No to God and the Church”, Concilium, Ottobre 1974, 17-30.
Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Significa che se accettiamo Gesù come divino dobbiamo reinterpretare l’Antico Testamento dal punto di vista di Gesù, e dobbiamo cercare di capire il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe nel modo in cui lo fece Gesù. Accettiamo che il Dio dell’Antico Testamento ora è cambiato e si è intenerito rispetto ai Suoi scopi originali, per essere del tutto compassionevole nei confronti degli uomini – di tutti gli uomini. Accettare Gesù come nostro Dio è accettare colui che Gesù chiamò Abba come nostro Dio. Questo potere supremo, questo potere del bene, della verità e dell’amore, che è più forte di qualsiasi altro potere al mondo, può ora essere visto e riconosciuto in Gesù – sia in quello che ebbe da dire su Abba che in ciò che egli stesso fu, la stessa struttura della sua vita personale e il potere onnipotente delle sue convinzioni. Il nostro Dio è sia Gesù che Abba. Per la loro essenziale unità o “esatta identità”, quando adoriamo l’uno adoriamo l’altro. E tuttavia essi sono distinguibili per il fatto che solo Gesù è per noi visibile, solo Gesù è la nostra fonte di informazione sulla divinità, soltanto Gesù è la Parola di Dio. Abbiamo visto com’era Gesù. Se ora vogliamo trattarlo come nostro Dio dovremmo concludere che il nostro Dio non vuole essere servito da noi, ma vuole servirci; Dio non vuole che gli sia attribuito il massimo possibile rango e status nella nostra società, ma vuole prendere il posto più basso ed essere privo di ogni rango e status; Dio non vuol essere temuto e obbedito, ma vuol essere riconosciuto nelle sofferenze dei poveri e dei deboli; Dio non è indifferente e distaccato al massimo, ma è irrevocabilmente dedito alla liberazione dell’umanità, perché Dio ha scelto di essere identificato con tutti gli uomini in uno spirito di solidarietà e di compassione. Se questa non è una vera immagine di Dio, allora Gesù non è divino. Se è una vera immagine di Dio, allora Dio è più autenticamente umano, molto più umano di qualsiasi essere umano. Dio è quel che Schillebeeckx ha definito un Deus humanissimus, un Dio sommamente umano.230 Qualsiasi cosa ‘umanità’ e ‘divinità’ possano significare in termini di una filosofia statica delle nature metafisiche, in termini religiosi, per gli uomini che riconoscono Gesù come loro Dio, l’umano e il divino sono stati riuniti in modo tale che ora rappresentano un solo, unico valore religioso. In questo senso la divinità di Gesù non è qualcosa di completamente diverso dalla sua umanità, una cosa che dobbiamo aggiungere alla sua umanità: la divinità di Gesù sono le profondità trascendenti della sua umanità. Gesù fu incommensurabilmente più umano di altri esseri umani, e questo è ciò che apprezziamo più di ogni altra cosa quando lo riconosciamo come divino, quando lo riconosciamo come nostro Signore e nostro Dio. Ma ci sono elementi oggettivi e storici che portino a credere che quest’uomo, come essere umano, sia divino? Scegliere qualcosa come il denaro o il potere come proprio dio è puramente soggettivo e arbitrario – una forma di idolatria. Scegliere Gesù non deve essere meramente soggettivo e arbitrario, perché in questo caso è possibile dare una spiegazione ragionevole e convincente della propria scelta. Ci sono dei modi di spiegare la nostra fede nella divinità di Gesù che sono estremamente insoddisfacenti. Molti cristiani sostengono che Gesù stesso affermò di essere divino, esplicitamente, rivendicando titoli divini o l’autorità divina, o implicitamente, parlando e agendo con autorità divina. A volte, poi, si dice che queste affermazioni sono state “dimostrare” o confermate dai suoi miracoli e/o dalla sua resurrezione. Come abbiamo visto, Gesù non rivendicò titoli divino o l’autorità divina, ma dichiarò di conoscere la verità e di conoscerla senza doversi basare su un’autorità diversa dalla verità stessa. Egli affermò, quantomeno per implicazione, di essere in contatto immediato con la verità, o, meglio, che in lui trovava espressione la verità stessa. Quindi, come abbiamo visto, chi lo ascoltava non doveva affidarsi ciecamente alla sua autorità, ma prendere da lui la verità che egli era e della quale parlava, la verità che egli non aveva ricevuto da nessun altro. Imparando da lui, essi, di fatto, rendevamo la verità stessa la loro autorità. Quelli che furono convinti da Gesù furono convinti dalla capacità di persuasione della verità stessa. Gesù ebbe un’armonia unica con tutto ciò che è vero e reale nella vita. La sua 230
Edward Schillebeeckx, Jesus, p. 545.
compassione spontanea per gli uomini precluse ogni tipo di alienazione o artificialismo. La sua fede spontanea nel potere del bene e della verità indica una vita priva di falsità e illusione. Si può dire che egli sia stato assorbito dalla verità, o, ancora meglio, che in lui la verità si fece carne. Gesù stesso deve aver vissuto questo come essere in armonia completa con Dio. Deve essere stato consapevole del fatto di pensare e sentire come Dio pensa e sente. Quindi non sentì il bisogno di fare riferimento ad un’autorità o a un potere al di fuori della sua stessa esperienza, né di fare affidamento su di esso. Ma come possiamo sapere se questa affermazione di veridicità sia stata o meno un’illusione? Non c’è un modo scientifico o storico per dimostrarlo o smentirlo. Come il proverbiale albero, può essere accertato solo dai suoi frutti. Se i frutti – i detti e le azioni di Gesù -per noi sono veri, allora l’esperienza sulla quale si basarono non può essere stata un’illusione. Una volta che abbiamo ascoltato Gesù con la mente aperta, e una volta che siamo stati persuasi e convinti da ciò che egli ha da dire a proposito della vita, sapremo che la sua rivendicazione di un’esperienza diretta di verità non era un vanto vano. Appena Gesù sarà riuscito a risvegliare in noi una fede in quello che rappresentò, noi risponderemo riponendo la nostra fede in lui e facendo della sua veridicità unica il nostro Dio. In altre parola, la fede che Gesù risveglia in noi è nello stesso tempo fede in lui e fede nella sua divinità. Questa fu l’esperienza dei seguaci di Gesù. Questo fu il tipo di impatto che ebbe su di loro. Essi non lo avrebbero espresso in questo modo, ma dopotutto non è una questione di teorie su Gesù o sulla Divinità. Le parole e le teorie saranno sempre inadeguate. In ultima analisi, la fede non è un modo di parlare o di pensare, è un modo di vivere, e può essere adeguatamente articolata in un modo di vivere. Riconoscere Gesù come nostro Signore e Salvatore ha un significato solo se cerchiamo di vivere come egli visse, e accordare le nostre vite suoi suoi valori. Non abbiamo bisogno di formulare delle teorie su Gesù, abbiamo bisogno di “ri-produrlo” nel nostro tempo e nelle nostre circostanze. Egli stesso non considerò la verità una cosa che doveva essere semplicemente “sostenuta” e “mantenuta”, ma come qualcosa che noi scegliamo di vivere e di sentire. Così che la nostra ricerca, come la sua, è in primo luogo una ricerca dell’ortoprassi (la vera pratica) piuttosto che dell’ortodossia (la vera dottrina).231 Soltanto una vera pratica della fede può verificare quello in cui crediamo. Possiamo fare riferimento alle autorità tradizionali e alle argomentazioni teologiche, ma ciò che crediamo può avverarsi, ed essere constatato come vero, soltanto nei risultati concreti che la fede ottiene nel mondo – oggi e domani.232 L’inizio della fede in Gesù, quindi, è il tentativo di leggere i segni dei nostri tempi come Gesù lesse i segni dei suoi tempi. Ci sono delle somiglianze, ma ci sono anche delle differenze. Non possiamo semplicemente ripetere quello che Gesù disse, ma possiamo iniziare ad analizzare i nostri tempi con lo stesso spirito con cui egli analizzò i propri. Dovremmo iniziare, come fece Gesù, con la compassione – la compassione per i milioni di persone che muoiono di fame, per quelli che sono umiliati e reietti, e per i miliardi di persone del futuro che soffriranno a causa del modo in cui viviamo oggi. È solo quando, come il buon samaritano, scopriamo la nostra comune umanità, che inizieremo a sentire quel che Gesù sentì. Solo quelli che valorizzano sopra ogni altra cosa la dignità degli esseri umani in quanto esseri umani sono concordi con il Dio che creò gli uomini ad immagine e somiglianza di Dio stesso, e che “non ha riguardi personali” (Atti 10:34 AV). Come ha detto Paul Verghese della Chiesa Ortodossa Siriana di Kerala: “Non è il vangelo cristiano a minare l’uomo per esaltare Dio. È un Dio troppo meschino che può avere la gloria soltanto a spese della gloria dell’uomo”.233 La fede in Gesù senza il rispetto e la compassione per gli 231
Gustavo Gutierrez, A Theology of Liberation, p. 10; Hugo Assmann, Theology for a Nomad Church, p. 80.
232
Gutierrez, p. 10; Assmann, pp. 76-77, 81, 122; Schillebeeckx, God the Future of Man, pp. 35, 182-186.
233
T. Paul Verghese, The Freedom of Man, Philadelphia: Westminster Press, 1972, p. 57.
uomini è una menzogna (si confronti con 1 Cor 13:1-2; Giacomo 2:14-26). Identificarsi con Gesù significa identificarsi con tutti gli uomini. Cercare i segni dei tempi nello spirito di Gesù, quindi, significherà riconoscere tutte le forze che operano contro l’umanità come le forze del male. Il mondo attuale non è forse dominato e governato da Satana, il nemico dell’umanità? Il sistema non è forse l’equivalente moderno del “regno” di Satana? Le forze del male non ci stanno forse trascinando tutti alla distruzione, ad un inferno sulla Terra? Dovremo cercare di capire le strutture del male nel mondo così com’è oggi. Quanto ci siano basati sui valori terreni del denaro, degli averi, del prestigio, dello status, del privilegio, del potere e sulle solidarietà di gruppo della famiglia, della razza, della classe, del partito, della religione e del nazionalismo? Fare di questi i nostri valori supremi significa non avere nulla in comune con Gesù. Credere in Gesù è credere che il bene può trionfare sul male. Nonostante il sistema, nonostante l’importanza, la complessità e l’apparente irrisolvibilità dei nostri problemi oggi, l’umanità può essere liberata, e alla fine lo sarà. Ogni forma del male – il peccato e tutte le sue conseguenze: la malattia, la sofferenza, la miseria, la frustrazione, la paura, l’oppressione e l’ingiustizia – può essere sconfitta. E l’unico potere che può ottenere questo è il potere di una fede che crede questo. Perché la fede, come abbiamo visto, il potere del bene e della verità, il potere di Dio. C’è un potere che può resistere al sistema e impedire ad esso di distruggerci. C’è una motivazione che può sostituire quella del profitto, ed è più forte di essa. C’è un incentivo che può far muovere il mondo, permettere ai ricchi di abbassare il proprio stile di vita e renderci fin troppo disposti a ridistribuire le ricchezze del mondo alla sua popolazione. È lo stesso impulso ed incentivo che motivò Gesù: la compassione e la fede. Generalmente è stato chiamato fede, speranza e amore; in qualsiasi modo si scelga di chiamarlo, deve essere interpretato come la liberazione del potere divino ma completamente “naturale” della verità, del bene e della bellezza. Con questo tipo di approccio ai problemi del nostro tempo infine si riconosce l’imminente catastrofe come un’opportunità unica per la venuta del “regno”. Per noi la catastrofe imminente è totale e definitiva. È l’evento che definisce il nostro tempo, è il nostro eschaton. Ma se permettiamo ad esso di scuotere le fondamenta stesse della nostra vita potremo scoprire che Gesù ha risvegliato i noi la fede e la speranza necessarie a vedere i segni del “regno” qui in mezzo a noi, a consideare il nostro eschaton un evento oo e a vedere il nostro tempo come la possibilità unica della liberazione totale dell’umanità. Dio oggi ci parla in modo nuovo. Dio ci parla negli eventi e nei problemi del nostro tempo. Gesù può aiutare a capire la voce della Verità, ma in ultima analisi siamo noi che dobbiamo decidere e agire.
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