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Le Università e le guerre dal Medioevo alla Seconda guerra mondiale
a cura di
Piero Del Negro
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INDICE
9 PIERO DEL NEGRO, Introduzione 13 CARLA FROVA, Università e guerra nel Medioevo 23 PAUL F. GRENDLER, Italian Universities and War, 1494-1630 37 FRANCESCO PIOVAN, Una lunga sospensione? Lo Studio di Padova e la guerra di Cambrai (15091517) 49 PATRICK FERTÉ, L’Université de Paris durant les Guerres de Religion. Foi et mauvaise foi d’un boute-feu 59 HANS SCHLOSSER, L’Università ducale bavarese di Ingolstadt. Propugnatrice della ricattolicizzazione e baluardo della controriforma cattolica durante la Guerra dei Trent’anni 69 ALESSANDRA FERRARESI, La militarizzazione degli studenti in età napoleonica 95 ALESSANDRO BRECCIA-ROMANO PAOLO COPPINI, Il Battaglione universitario e la battaglia di Curtatone e Montanara tra storia e memoria (1848-1948) 113 PIERO DEL NEGRO, Gli studenti dell’Università di Padova caduti nelle due guerre mondiali 139 MARIANO PESET, Profesores y estudiantes en la guerra civil española (1936-1939) 153 ELISA SIGNORI, Tra Minerva e Marte: università e guerra in epoca fascista 173 MARIA ROSA DI SIMONE, La dottrina della guerra nell’università austriaca del Settecento 195 GIGLIOLA DI RENZO VILLATA, L’Università degli studi di Milano e lo studio del diritto in tempo di guerra tra la Lombardia e la Svizzera (1940-1945) 227 LUIGI TOMASSINI, Per una scienza “nazionale”. L’organizzazione della ricerca scientifica in Italia (1915-1924) 247 GIORGIO ROCHAT, Piero Pieri e la Storia militare all’Università dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento 253 LUIGI PEPE, I matematici italiani e la Grande Guerra 269 ANDREA SILVESTRI, Il Politecnico di Milano e la Grande Guerra: due generazioni, due ingegneri, due esperienze a confronto 281 STEFANO MOROSINI, Nonostante tutto a fianco della patria. La chimica italiana a servizio delle due guerre mondiali: il caso di Mario Giacomo Levi
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Tra Minerva e Marte: università e guerra in epoca fascista Elisa Signori
Libro e moschetto, scienza e guerra, intellettuali e soldati, geni ed eroi/martiri: queste endiadi, inconsuete nella plurisecolare storia delle università italiane, in epoca fascista divennero uno schema teorico condizionante per le comunità accademiche. Dagli enunciati astratti agli aspetti istituzionali, didattici e scientifici, un processo di militarizzazione dapprima strisciante, poi via via più incisivo fino all’acme degli anni Quaranta, investì l’istituzione-chiave dell’alta cultura, permeandone i valori e i codici rappresentativi e intrecciandosi con una metamorfosi mitico-simbolica. Se è vero che il ventennio fascista fu il contesto di un ambizioso esperimento di pedagogia collettiva, con le piazze d’Italia «trasformate in un unico immenso scenario, dove milioni di persone celebravano, con una simultanea coralità» la nuova religione fascista, scandita da feste e da anniversari, da epifanie del duce e da pellegrinaggi, da mostre e premiazioni1, anche l’università fu un campo di prova e, nel contempo, un soggetto attivo di quella stagione di intensa mitopoiesi. La guerra vi fu innestata come un’idea-forza intorno alla quale costruire, empiricamente e sperimentalmente, un nuovo modello di università. Così, in sintesi, si può formulare l’asse portante di questa ricerca, nella quale, attraverso esempi significativi, si tenta di mettere a fuoco qualche aspetto rilevante della metamorfosi conosciuta dalle istituzioni universitarie italiane e vissuta da docenti e studenti in epoca fascista. I punti visuali per comprendere tale evoluzione sono molteplici e nel percorso analitico proposto in queste pagine se ne comparano diversi, a partire dalle affermazioni di principio sul modello di sapere congeniale al regime e funzionale alla sua proiezione bellica, ma anche dagli interventi legislativi voluti per inscrivere il fenomeno guerra nel percorso formativo dell’istruzione superiore, per finire con gli aspetti culturali e simbolici – riti, lessici ufficiali, gestualità, architettura e statuaria, celebrazioni e rappresentazioni –, reinterpretati nel Ventennio grazie ad un’ampia contaminazione dei tradizionali codici scientifici con quelli militare, religioso, generazionale2. Si possono subito anticipare alcune considerazioni di carattere generale: in primo luogo che i mutamenti avvennero sia in virtù di interventi prescrittivi imposti dall’esterno – dallo Stato e/o dal Partito –, sia ad opera di iniziative autonome attecchite all’interno dei singoli atenei e volute da rettori, presidi, profes-
1
EMILIO GENTILE, Il culto del littorio, Laterza, Bari 1993, p. 1. Rielaboro in questo testo alcuni temi d’indagine già affrontati nella relazione Minerva and Mars: the mythical-symbolic metamorphosis of the Italian university system during the Fascist era, presentata nel quadro del XX Congresso di Scienze Storiche (CISH) tenutosi a Sydney (3-9 luglio 2005) all’International Commission for the History of Universities dedicata al tema Image and Imagination. A new Approach to University History from the Middle Ages to the Present. 2
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sori e studenti, in gran parte divenuti, specie dopo l’assestamento definitivo del regime, assai attivi nell’interpretazione creativa della ritualità fascista e nell’emulazione celebrativa. Secondariamente che l’università visse tale processo di trasformazione con gradualità, a piccoli passi nel corso di tre lustri, così che mutamenti anche traumatici finirono dissimulati e riassorbiti nel continuum del problematico rapporto di confronto, di collaborazione e spesso di identificazione del mondo della cultura e della scienza col fascismo. Come è noto, il caso italiano è nel cronogramma dei fascismi europei assai precoce e si sviluppò con dinamiche interne più distese nel tempo. Se, dunque, nella Germania nazista l’università fu una cittadella da espugnare d’impeto per poi cacciarne i “cattivi” maestri, bruciarne i libri e ridisegnarne ab imis l’impianto formativo, se nella Spagna franchista gli atenei costituirono una sorta di bottino di guerra, preda della fazione vittoriosa nel conflitto civile, la conquista fascista dell’università italiana fu invece il risultato più che di un assalto frontale, di un lungo assedio, di un’infiltrazione di idee, di un mutamento di uomini e di norme diluito nel tempo. Anche nella militarizzazione della vita accademica le novità si avvertirono dunque tardivamente e quasi in sordina dietro l’apparente continuità di stile e di forme con le consuetudini del passato, ma, con l’accelerazione in senso totalitario e bellicista affermatasi negli anni Trenta, finirono poi per assumervi un ruolo centrale e dirompente. Infine, analogamente a molti altri ambiti, anche qui vale la pena di osservare che più che di una innovazione autonoma si tratta di una ripresa di motivi preesistenti, di un originale assemblaggio di materiali già disponibili e semmai di un loro incisivo potenziamento, sia sotto il profilo dell’iterazione ossessiva e dell’amplificazione, sia nel senso di una dilatata risonanza e partecipazione pubblica.
Dalla guerra combattuta alla sua trasfigurazione in mito Se c’è un contesto nel quale appare persuasiva la controversa proposta storiografica che vuole le due guerre mondiali del ’900 sussunte in una sola «guerra dei Trent’anni europea», quale processo unitario e coeso, quello è l’università italiana. Nessi di continuità profondi legano la temperie culturale diffusa nelle comunità accademiche fin dal 1914, fortemente connotata da problematiche scientifiche e tensioni politico-ideologiche legate alla guerra, con la successiva appropriazione di quei temi ed esperienze ad opera del fascismo e con la loro rielaborazione sino all’avvio della politica di potenza nel secondo conflitto mondiale. Una significativa mutazione di clima e anche di forme di discorso pubblico si era infatti verificata già negli anni della Prima guerra mondiale: l’università italiana era stata contesto della precoce mobilitazione di studenti e professori a favore della guerra, aveva conosciuto lacerazioni vistose nelle comunità accademiche tra la minoranza dei neutralisti e il più esteso schieramento dell’interventismo, ma, soprattutto, a guerra decisa, aveva conosciuto fenomeni significativi di volontarismo studentesco e un coinvolgimento profondo del mondo scientifico chiamato a integrarsi nell’union sacrée contro il nemico. Le problematiche della “guerra giusta” e dello scontro “di civiltà”, ma anche l’impegno cruciale di una scienza “arruolata” in difesa della patria per sostenerne lo sforzo tecnologico e produttivo avevano avuto ampio corso negli atenei italiani, contagiando discorsi e cerimoniali, con innesti di antigermanesimo e nazionalismo, che avevano non poco appannato gli ideali del cosmopolitismo scientifico, della serena indipendenza del sapere, dell’autonomia della cultura dal condizionamento della politica3.
3 Sulla svolta che la guerra determinò nelle attitudini del mondo scientifico italiano e sulla sua mobilitazione in senso patriottico-nazionalista cfr. Gli intellettuali e la Grande Guerra, a cura di VINCEZO CALÌ-GUSTAVO CORNI-GIUSEPPE FERRANDI, Bologna, il Mulino, 2000. In particolare sulle iniziative volte a promuovere la ricerca in applicazioni utili allo sforzo bellico cfr. ROBERTO MAJOCCHI, L’organizzazione degli scienziati italiani, ivi, p. 20-44.
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Sotto il profilo delle consuetudini accademiche, il senso di una cesura profonda e drammatica della vita dell’istituzione universitaria, già fortemente condizionata nella sua funzionalità dalla chiamata alle armi di studenti e docenti, oltre che dall’impiego nelle retrovie e al fronte di personale medico, era trasmesso chiaramente. Sospese, ad esempio nel 1917, l’anno di Caporetto, le manifestazioni di inaugurazione dell’anno accademico, quasi ovunque erano state surrogate da meste cerimonie di commemorazione degli studenti caduti al fronte e dalla proclamazione delle lauree ad honorem alla loro memoria. L’alta incidenza dei caduti tra gli studenti universitari italiani fece infatti dell’elaborazione collettiva del lutto una nota dominante nel clima accademico degli anni di guerra e del primo dopoguerra: non si trattava solo di riti di rimpianto e cordoglio, ossia di occasioni offerte ai professori, ai compagni dei caduti e alle loro famiglie per una commemorazione solenne e collettiva che lenisse la sofferenza dei sopravvissuti. I discorsi e le orazioni in latino pronunciate in quei riti ci propongono una latitudine notevole di significati. Le lauree ad honorem conferite dall’università erano intese come una simbolica conclusione dei curricula che la guerra aveva tragicamente e definitivamente troncato e, con una sorta di inadeguato, ma volenteroso indennizzo, il corpo accademico, proclamando dottori i suoi caduti, solennizzava la loro inclusione perenne e onorifica nel perimetro dell’istituzione, che li aveva accolti per prepararli a un avvenire di cui erano stati defraudati con la morte al fronte. Negli albi d’onore allora pubblicati, nelle composizioni poetiche composte ad hoc, nei quadri fotografici che incorniciavano d’alloro i volti dei caduti, nelle pagine degli annuari loro dedicate, nelle cerimonie ovunque promosse, tuttavia, l’università frequentava anche un registro semantico diverso e recitava un ruolo pubblico di più vasta portata. Istituzione tra altre istituzioni, comunità di studiosi immersa nella più ampie comunità cittadine e italiana, ciascun ateneo, rivolgendosi simbolicamente a questi referenti vicini e lontani, celebrava e autorappresentava se stesso con la celebrazione del sacrificio dei suoi caduti, in qualche modo si appropriava del loro valore e sottolineava le valenze etico-politiche della propria funzione formativa. Lungi dallo stereotipo della “turris eburnea”, metafora di un isolamento agnostico dei dotti dal resto della società, che allora apparve ai più inattuale e vitando, l’università rivendicava il proprio carattere di fucina di idealità patriottiche e esibiva il proprio contributo alla grandezza del paese oltre che al progresso della scienza4. L’eredità di quegli anni fu fatta propria con determinazione e abilità dal movimento fascista sin dai suoi primi passi. Tra il 1919 e il 1924 il fascismo si batté per conquistare il monopolio della memoria della Grande Guerra escludendone progressivamente tutti gli altri interpreti, protagonisti e testimoni: la guerra e la vittoria furono trasformati in un mito fondativo, vera pietra angolare sopra la quale, nel tempo, si sarebbe costruito l’edificio della religione politica fascista. Le università furono un contesto importante di questo processo di appropriazione dell’esperienza bellica e la sua trasfigurazione in mito e liturgia fu un work in progress in larga parte sperimentale, cui studenti e professori si dedicarono con impegno. Nei cortili e nelle aule, da sempre luogo privilegiato per onorare con iscrizioni e lapidi le glorie scientifiche degli atenei, si eressero steli, si collocarono gruppi plastici, si moltiplicarono i segni in pie-
4
GIUSEPPE TAROZZI, Gloria ai caduti. Discorso pronunciato il 9 gennaio 1918 nella R. Università di Bologna, in occasione del conferimento delle lauree d’onore agli studenti morti in guerra, Bologna 1918; ALBERTO ASQUINI, Gli studenti universitari nella guerra, discorso tenuto il 19 luglio 1919 nell’Aula magna dell’Università di Urbino per l’inaugurazione della lapide in memoria degli studenti caduti per la Patria, Padova 1919; PAOLO EMILIO BENSA, Pel solenne conferimento delle lauree d’onore agli studenti caduti in guerra (24 maggio 1917), Genova 1917; Conferimento delle lauree ad honorem al nome degli studenti caduti in guerra: con intervento di S. E. il Ministro della pubblica istruzione nel Teatro Massimo di Catania, 23 marzo 1918, Catania 1918; IRENEO SANESI, Conferimento delle lauree ad honorem agli studenti caduti in guerra, in R. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA, Annuario per l’anno accademico 1918-1919, Pavia 1919; GIOVANNI LORENZONI, Discorso commemorativo degli studenti della R. Università di Macerata caduti in guerra, 1915-1918, Macerata 1919.
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tra e in bronzo. Diversamente dallo stile di sobrietà e discrezione proprio delle testimonianze marmoree lasciate dalle epoche precedenti la celebrazione della Grande Guerra assunse spesso forme monumentali e talvolta, nel linguaggio artistico adottato come nella prosa dei testi di commento, toni di stridente enfasi. In tal modo la guerra acquisiva, dunque, per la prima volta, nei luoghi del sapere una straordinaria visibilità5. Alla iniziale mobilitazione spontanea di associazioni studentesche e comitati con patriottiche sottoscrizioni e collette si sostituirono in breve iniziative istituzionali, nelle quali l’influenza di studenti e professori di fede fascista si faceva sempre più incisiva e condizionante, mentre l’inaugurazione di statue e iscrizioni divenne un’ulteriore occasione rituale per una regia anch’essa gradualmente passata in mani fasciste. Ma in questa seconda fase, coincidente con il decollo politico del movimento fascista, con la fondazione delle Avanguardie studentesche e poi dei Gruppi universitari fascisti, con l’emergere dello squadrismo universitario e di una nuova leadership che metteva solide radici anche nel ceto accademico, il ricordo della Grande Guerra e dei suoi caduti venne declinato in modi nuovi: non più commozione per un lutto condiviso e doloroso, ma piuttosto esaltazione di eroi e martiri, sacrificatisi per la risurrezione della patria, per un riscatto politico e spirituale, di cui il fascismo agli occhi di molti era stato il profeta e di cui si apprestava a diventare l’artefice. La morte si accampava al centro di queste celebrazioni non come elemento tragico, come rievocazione di un’assenza e di una perdita, ma come perno di una visione eroicizzante della vita, che proiettava nel presente la sua forza d’esempio: i morti restavano accanto ai vivi per mostrare loro la via, gli uni e gli altri attori di una “rivoluzione” spirituale che il fascismo intendeva guidare. Ad eccezione di queste pur significative innovazioni, gli anni della crisi liberale, dell’affermazione eversiva del fascismo e poi dell’impianto della dittatura non provocarono nelle consuetudini della vita accademica mutamenti di rilievo: di fronte a un contesto politico conflittuale, a una convivenza civile degradata, il rispetto della tradizione consentiva al mondo universitario di trincerarsi su posizioni di prudenza, di attesa, di autodifesa della propria neutralità e autorevolezza professionale. Negli atenei del Regno il momento cerimoniale più intenso restava quello dell’inaugurazione dell’anno accademico, il cui svolgimento, formalizzatosi nel corso di un sessantennio, a partire dalla creazione di un sistema universitario nazionale, laico e statale, pur conoscendo varianti e interpretazioni locali, si era assestato nella scansione in due tempi e a due voci: il discorso del rettore prima e poi l’orazione inaugurale, affidata a turno a un professore di diversa facoltà6. Situata tra ottobre e novembre, l’inaugurazione costituiva il momento “alto” di autoriflessione cui tutte le componenti dell’istituzione erano chiamate in una consapevole conferma di appartenenza e, al tempo stesso, l’occasione di ufficiale apertura una tantum della comunità accademica alla società che la circondava. La partecipazione del corpo accademico, per lo più in toga e tocco, la scenografia delle aule magne adorne dello stendardo, la presenza esuberante dei goliardi in costume, l’omaggio delle autorità cittadine costituivano il contesto di due interventi di diverso tenore, l’uno di bilancio complessivo dell’anno concluso e di delineazione delle prospettive avvenire, con la segnalazione delle benemerenze scientifiche di studenti e professori, nonché il saluto e/o commiato alle nuove reclute o ai membri uscenti, l’altro di messa a fuo-
5 Il monumento ai caduti, opera di Alfonso Marabelli, collocato nel 1922 nel palazzo centrale dell’Università di Pavia costituisce un esempio significativo di questa statuaria, che non si integra nel contesto architettonico settecentesco nel quale è inserito, ma consapevolmente punta su un forte impatto visivo, dirompente per dimensioni e stile cfr. fig. 1. 6 Nel Regolamento generale universitario del 1910 erano stati definiti in dettaglio caratteri e modalità della cerimonia inaugurale, il cui resoconto e i relativi discorsi dovevano essere pubblicati nell’Annuario cfr. «Bollettino della Pubblica Istruzione», 27/II (1910), p. 3780 e ss.
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co di un tema scientifico, in un registro di alta divulgazione e, talvolta, di attualità politico-culturale. Nelle parole del rettore, portavoce autorevole di fronte all’elite dirigente locale e a quella nazionale, interlocutore diretto del Ministero, l’ateneo si autorappresentava come complesso ente funzionale e organizzativo, con bisogni e difficoltà, con progetti e ambizioni e costruiva come in una “vetrina” la sua immagine austera e legittimante di luogo di studio, di competenze, di relazioni7. Con l’orazione inaugurale, invece, a beneficio di un pubblico eterogeneo che era la cittadinanza, ma anche il paese tutto, l’università esibiva il suo sapere, confermava il suo prestigio professionale e, qualche volta, si candidava al ruolo di coscienza critica della società, oscillando significativamente tra un modello ascetico di scienza, appartata dalla contingenza storica e nazionale, e quello interventista di una cultura di forte impegno politico-civile. Un sondaggio sui discorsi inaugurali di alcuni atenei in questi anni 19201925 pare confermarvi una nota dominante di moderazione e uno studiato ricorso a temi elusivi di ogni stringente confronto con l’attualità. Semmai le università, da sempre in gara tra loro, timorose di atenei rivali troppo vicini a contendere loro studenti e risorse, si applicavano a celebrare se stesse, i loro primati scientifici, i loro titoli di nobiltà con anniversari e centenari che, in base a più o meno vetusti statuti e atti di fondazione, attestavano la loro plurisecolare tradizione di studi. L’esempio, dato dalla più antica delle università italiane, quella di Bologna, festeggiata con solennità e fantasia nel 18888, fu seguito in quegli anni da Padova, forte di sette secoli di storia, compiuti nel 19229, e da Pavia, decisa nel 1925 a rivendicare le sue origini a partire dall’istituzione di una Schola giuridica voluta da Lotario undici secoli prima10. I congressi scientifici tenutisi in quelle occasioni, le sfilate in costume accademico, l’omaggio dei delegati italiani e stranieri di altre università, i trattenimenti teatrali, la presenza di membri autorevoli del governo o della casa reale, infine le manifestazioni degli studenti con gare sportive, kermesse musicali e spettacoli trasformarono quegli anniversari in vere e proprie apoteosi: la “festa” assumeva il significato universale di una celebrazione dell’istituzione universitaria tout court, simbolicamente riassunta per qualche giorno nell’ateneo ospite, direttamente coinvolto11. Erano certo eventi orchestrati ad hoc, cui erano sottesi forti interessi autopromozionali, ma quelle feste, nello sforzo volenteroso di “invenzione” di tradizioni accademiche e goliardiche, testimoniavano anche il condiviso attaccamento a una modello di università, aperta ad ampi orizzonti di scambio internazionale, custode gelosa di autonomie e di libertà, immune da ipoteche di carattere politico, luogo di alta tensione intellettuale e di spregiudicata creatività scientifica.
7
Sulle orazioni inaugurali si è soffermato con spunti anticipatori Mario Isnenghi in L’educazione dell’italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Cappelli, Bologna, 1979, in part. p. 50 e ss. e p. 327-396, ove sono antologizzati alcuni discorsi rettorali. 8 Si festeggiò allora l’VIII centenario della fondazione, UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, Gaudeamus igitur. Studenti e goliardia 1888-1923, Bologna, Bologna University Press, 1995. 9 Cfr. Settimo centenario della Università di Padova, 15 maggio1922, Padova 1922; EUGENIO MUSATTI, Lo Studio di Padova e i suoi professori, per il 7° centenario dalla fondazione dell’Università, Padova 1922. 10 Universitatis Ticinensis saecularia undecima die 21 maii mensis anno 1925, Pavia 1925. 11 Per un resoconto delle feste pavesi, durante le quali si era tenuto, tra l’altro, il XIV Congresso della Società Italiana per il Progresso delle Scienze cfr. ENRICA MALCOVATI, Universitatis Ticinensis saecularia undecima: (20-22 maggio 1925), «Bollettino della Società pavese di Storia patria» 1985.
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Un martirologio guerriero Con l’inizio della dittatura fascista, la formalizzazione del culto della patria riprese nuovo slancio e anche nelle università conobbe una sintomatica evoluzione, nella quale spiccava l’iniziativa autonoma dei gruppi studenteschi e talvolta la sperimentazione volenterosa di professori fascisti. La celebrazione degli studenti caduti nella Grande Guerra si saldò nella seconda metà degli Venti e nei primi anni Trenta con la commemorazione degli studenti “martiri fascisti” così come la glorificazione delle gesta squadristiche incorporò il vissuto della guerra e vi si sovrappose, trasformando l’esperienza bellica e la vittoria nel prologo della “rivoluzione” fascista, quasi fossero due momenti successivi e correlati di un’unica epopea gloriosa finalizzata alla risurrezione dell’Italia. Vittorio Veneto e la Marcia su Roma furono reinterpretati come estremi di un’unica campata cronologica e di un’unitaria esperienza storica culminata coerentemente nell’affermazione del movimento fascista e di una nuova Italia. Il fascismo delle origini e poi lo squadrismo erano stati in buona parte anche fenomeni di militanza giovanile e studentesca: alla fine della escalation di efferata violenza e di illegalità, che aveva scandito l’avvento del fascismo al potere, ogni ateneo poteva contare qualche vittima tra i suoi iscritti di diverso orientamento. I nomi dei militanti fascisti caduti vennero allora incisi su lapidi murate nei cortili, si intitolarono alla loro memoria Case dello Studente e sezioni Guf – come nel caso del Guf di Pavia intitolasi a Manlio Sonvico, un laureando comasco morto nel 1924 in uno scontro “per la rivoluzione”, o quello di Torino, che assunse il nome di Amos Maramotti, un altro studente “martire” –, si sacralizzò il loro ricordo attraverso cerimonie direttamente ispirate alla liturgia religiosa del culto dei santi, così che sacrari, cappelle e lampade votive proiettarono con un forte impatto visivo questo martirologio civile nello spazio fisico e simbolico delle università. Gli esempi sono assai vari: dal sacrario dei martiri del Guf di Torino in forma di altare alla lapide sormontata da un’aquila bronzea murata accanto all’ingresso del Politecnico di Milano12. La guerra, entrata nel perimetro universitario nel 1915 come un’emergenza, un’esperienza tragica ma parentetica, vi si accampava nel decennio successivo come uno scenario permanente di riferimento: intorno ai caduti al fronte e ai “martiri” fascisti si costruiva un codice di valori e di simboli in gran parte alternativo e contrastante con quello interno al mondo degli studi e alle sue tradizioni. In tale elaborazione invece dello studioso geniale o del maestro generoso è l’eroe guerriero ad essere proposto come paradigma positivo da emulare e la guerra, lungi dall’essere una situazione limite, una drammatica cesura nella vita degli studi e nell’internazionalismo della scienza, si accredita come esperienza dinamica e rigenerante, oltre che orizzonte naturale nell’esistenza dei singoli e delle nazioni. Quand’anche si vivesse una condizione di pace, come nel decennio 1925-1935, nell’Italia irreggimentata a forza dalla dittatura, la guerra, grazie alle rievocazioni e ai rituali – così il 18 maggio 1926 con la “Sagra di Santa Gorizia” ebbe luogo il primo pellegrinaggio studentesco sui luoghi della guerra cui parteciparono circa 15.000 studenti provenienti da tutti gli atenei d’Italia –, si perpetuava come condizione spirituale agonistica, come morale austera e come proiezione futura. Nell’identikit dello studente-modello dell’Italia fascista i valori tradizionali, come la dedizione nello studio e l’impegno critico nella ricerca, vennero progressivamente retrocessi e oscurati dall’emergere di nuovi attributi qualificanti, quali la prestanza fisica e la destrezza nell’esercizio delle armi, lo sprezzo del pericolo e la disciplina, la fede assoluta nel regime e l’incrollabile obbedienza ai superiori. Queste virtù 12
Sui “martiri fascisti” del Politecnico milanese si veda anche Consegna delle lauree d’onore alle famiglie dei giovani martiri fascisti Ugo Pepe, Emilio Tonoli e di tre medaglie d’oro del Sindacato fascista ingegneri ai migliori laureati combattenti usciti dal R. Politecnico negli anni 1919 e 1920, Milano, Bertieri e Vanzetti, [1928].
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marziali erano espresse esteriormente dall’indossare una divisa anche nel perimetro universitario: non più il grigioverde, smesso nel 1918, ma la camicia nera divenne il segno identitario di questo studente-soldato in servizio permanente. La divisa dei Guf fu l’esito sincretistico di questa contaminazione tra registro militare e consuetudini universitarie: camicia nera, pantaloni alla zuava e stivali ne costituivano la connotazione marziale, che richiamava l’arditismo, il berretto goliardico era tutto ciò che rimaneva del variopinto e fantasioso costume studentesco prebellico.
Libro e moschetto Non si trattava, si badi, di una semplice effervescenza retorica o rituale: nell’attenzione alle connessioni tra scienza e tecnica militare e nel vagheggiamento di una tendenziale sovrapposizione delle funzioni di scuola ed esercito, si può individuare una sorta di filo rosso che connotò con continuità le scelte programmatiche del fascismo e dei suoi leader. Basti ricordare al proposito qualche presa di posizione significativa. Così aprendo i lavori di un congresso della SIPS all’Università di Bologna, nell’ottobre 1926, Mussolini, reso un rapido omaggio alla complessità del «fatto scienza», ne sottolineava l’inscindibile legame con le esigenze della vita e, banalizzando, finiva per manifestare il suo pressoché esclusivo interesse per le scienze applicate in particolare alla guerra: Io come ministro della Guerra, della Marina, dell’Aviazione, ho molto bisogno della scienza. Bisogna che la scienza mi dica se ci sono dei gas ultravenefici e soprattutto che mi dica che cosa si deve fare per combattere gli altri gas. Voi avete visto quale sviluppo ha avuto la chimica nell’ultima guerra. Come ministro dell’Aviazione la scienza mi pone di fronte a molti problemi, che sono legati per leggi non tanto misteriose ai fenomeni fondamentali della fisica. Ho bisogno che la medicina, la chirurgia mettano a partito tutta quella che è stata la medicina e la chirurgia di guerra, di questo vasto materiale di esperienze guerresche13.
In un movimento che, specie agli inizi, esibiva con compiacimento il proprio antintellettualismo populista né rinunciò poi ad ostentare una certa sprezzante indifferenza per l’alta cultura, uno dei punti fermi progettuali era quello dell’innesto dell’istruzione militare nella scuola di ogni ordine e grado. Già nel programma del partito adottato nel 1921 si sottolineava infatti la funzione della scuola quale luogo di formazione dei “futuri soldati d’Italia” e a proposito dell’università si precisava il «dovere dello Stato di provvedere all’istruzione premilitare, diretta a facilitare la formazione degli ufficiali»14. A distanza di qualche anno, insediatosi saldamente al potere, il regime fascista provvedeva coerentemente a concretizzare quell’intento programmatico con un apposito decreto legge15: presso le Università e le Scuole di Ingegneria erano istituiti due tipi di corsi, le Scuole speciali o di perfezionamento in Tecnica militare che, alla fine di uno specifico curriculum, conferivano una laurea o un diploma, e i Corsi speciali di Storia militare o di Tecnica militare, della durata di quattro mesi, che davano luogo a un attestato di idoneità e che garantivano agli studenti, qualora ne avessero acquisito due, particolari agevolazioni nell’adempimento degli obblighi di leva. Era il primo passo di un processo volto a inscrivere la
13 Cfr. Intervento di Benito Mussolini al Congresso della SIPS (Bologna 31 ott.-5 nov. 1926), «L’Università Italiana», 12 (dic. 1926), p. 187. 14 Cfr. Politica scolastica in Programma del PNF, 1921, ripubblicato in appendice a RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, p. 761. 15 R.d.l. 7 agosto 1925, n. 1615.
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pedagogia militare della nazione nel quadro dell’ordinamento degli studi e destinato a conquistare spazi ancor più significativi anche nell’organizzazione dell’insegnamento universitario. Le occasioni per indicare con chiarezza questa linea di tendenza non mancarono e lo stesso Mussolini ribadì pubblicamente, in Senato, durante una discussione sul Concordato, il proposito di consolidare l’istruzione militare nel quadro del percorso formativo giovanile: Un conto è l’istruzione, un conto è l’educazione […] in regime fascista si è aperta ed è stata riconosciuta la prima università cattolica italiana, ma vi è un lato della educazione nel quale noi siamo intrattabili, intransigenti. Dire che l’educazione spetta alla famiglia è dire cosa fuori dalla realtà contemporanea[…] Solo lo Stato con i suoi mezzi di ogni specie può anche impartire la necessaria istruzione religiosa integrandola con il complesso delle altre discipline nell’educazione del cittadino. Poiché le ipocrisie ci ripugnano, l’educazione che lo Stato dà è l’educazione guerriera16.
L’iniziativa di attivazione dei corsi sopracitati, già sperimentati da alcune università, fu poi avocata allo Stato nel 1934 e cancellato il loro carattere facoltativo: il Ministero dell’Educazione Nazionale (MEN) istituì per legge corsi obbligatori di cultura militare, obbligatori per tutti gli studenti maschi in tutti i gradi dell’istruzione, dalla scuola elementare all’università17. Qui, in particolare, il corso era biennale, impartito «a chi ha il dovere per le sue speciali doti di intelletto e di cultura (universitaria) di prestare ai fini militari la sua opera di capo, di organizzatore, di specializzato», prevedeva un esame finale per ciascun anno ed era affidato a docenti selezionati e approvati dal MEN18. Non vi si curava, tuttavia, una preparazione tecnica, di alto profilo professionale, che continuava ad essere riservata alle Accademie gestite dalle Forze Armate, ma si voleva «alimentare, rafforzare e rendere consapevole nei giovani lo spirito militare, che è oggi – così si esprimeva Bottai nel 1937 – una delle loro caratteristiche migliori»: di fatto l’insegnamento consistette in una miscela di indottrinamento politico e di eclettica divulgazione di problematiche connesse alla guerra, in vista della «formazione del carattere, costituito da quel complesso di qualità intellettive e fisiche e più specialmente morali che sono alla base dell’efficienza dei quadri delle Forze Armate»19. Da attività didattica marginale e opzionale, la “cultura militare” veniva però potenziata sino a diventare, almeno nelle intenzioni del legislatore, una sorta di baricentro ideale e un comune denominatore per tutti i corsi di laurea: è significativo, peraltro, che, nel complesso dell’iniziativa, venisse esautorato il più accreditato referente tecnico-scientifico di tale ambito disciplinare e cioè l’Esercito, un’istituzione tradizionale dello Stato, dotata di forte consapevolezza professionale ma nella quale il controllo ideologico diretto del Pnf era complessivamente poco riuscito e che, forse proprio perciò, restava esclusa da ogni responsabilità nella gestione dei corsi. Da una lato, dunque, si “deprofessionalizzava” la cultura militare sradicandola dal suo terreno propriamente tecnico e, dall’altro, se ne enfatizzavano le componenti storiche ed etico-politiche quale forma mentis dell’uomo fascista d’azione e background delle virtù di comando necessarie agli ufficiali20. 16
La citazione dal discorso in Senato del 24 maggio 1929 è in «L’Università Italiana», 6 (giu. 1929), p. 100-104. R.d.l. 31 dicembre 1934, n. 2152. La legge è completata dal R.d.l., 17 ottobre 1935 n. 1990, Norme per l’incremento della cultura militare. 18 Ivi, art. 3. 19 I programmi furono poi definiti da Giuseppe Bottai con il R.d.l. 23 settembre 1937, n. 1711, da cui traggo il passo citato. 20 VIRGILIO ILARI-ANTONIO SEMA, Marte in orbace: guerra, esercito e milizia nella concezione fascista della nazione, Ancona, Nuove Ricerche, 1989, p. 119-146. Su questo tema mi permetto di rimandare anche al mio saggio La cultura militare nella scuola fascista: educazione alla guerra o mitopoiesi? in Formare alle professioni. La cultura militare tra passato e presente, a cura di MONICA FERRARI-FILIPPO LEDDA, Milano, Fanco Angeli 2011, p. 271-284. 17
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Le aporie di questo insegnamento erano peraltro lucidamente individuate anche dagli avversari antifascisti, cui non sfuggì il carattere ibrido dei corsi e il velleitarismo sotteso a quel progetto di educazione maschile marziale. Così, nelle pagine di «Giustizia e Libertà», il settimanale fondato da Carlo Rosselli, si ironizzò sulla citazione mussoliniana secondo cui «la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna» e si osservò che la cultura militare è elemento tecnico o non è nulla, se non una sfilza di nozioni assolutamente inutili sul modo di combattere dei Greci, dei Romani, dei Cinesi, che fuori della storia di quei popoli non significa assolutamente nulla. Così com’è, sospesa tra cultura tecnica e cultura storica, la cultura militare si riduce a uno stimolo generico verso la grandezza militare nella vita dei popoli, [si riduce] a scuola di militarismo21.
L’istituzione più rivoluzionaria del fascismo in questo processo di militarizzazione fu tuttavia la Milizia universitaria, fondata con iniziative spontanee presso molti atenei del Regno negli anni 1925-’28, poi riorganizzata dal centro e gerarchicamente disciplinata tra il 1929 e il 1931. Composta di studenti militarmente inquadrati, era sorta come un corpo di polizia interna all’ateneo con funzioni di controllo e di prevenzione nei confronti delle manifestazioni e associazioni antifasciste, ma, dopo lo scioglimento di queste ultime, venuto meno il proprio principale obiettivo antagonistico, era diventata un’organizzazione anfibia, contesa tra l’inserimento strutturale nella Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale e la contiguità-concorrenza con i Guf. Nel 1929 il segretario del Pnf, Augusto Turati, artefice del rilancio dell’istituzione, ne promosse un nuovo ordinamento, che prevedeva tra l’altro la nomina a sottotenente di complemento per i “militi universitari” che avessero frequentato i corsi biennali di preparazione militare ad hoc attivati. Era un incentivo per tutti gli studenti a iscriversi alla Milizia: infatti seguendo, simultaneamente al curriculum universitario, questi corsi, comprendenti parti teoriche, esercitazioni e specializzazioni per le singole armi, si conseguiva un vantaggio concreto per quanto riguardava gli obblighi di leva. Proprio Turati enunciava una considerazione rivelatrice a proposito del benefico condizionamento della divisa su chi l’indossava: «pur prediligendo fra i giovani gli universitari, fra gli universitari preferisco i militi. Basta aggiungere alla camicia nera il grigio verde, perché la psicologia del nostro studente muti completamente. Raramente si vede così immediata, così rapida la trasformazione e l’influsso della divisa»22. È qui icasticamente espressa una logica fondamentale del processo di fascistizzazione degli italiani: contrariamente al detto secondo cui “l’abito non fa il monaco”, il regime investì abilmente sull’‘abito’, puntando a costruire il monaco23, cioè, fuor di metafora, incise, specie negli anni Trenta, con ossessiva prescrittività sugli aspetti esteriori della vita degli italiani nella consapevole ipotesi di riuscire a indurne progressivamente, attraverso la conformistica assuefazione di abiti, gesti e lessici, anche una sorta di mutazione spirituale. In tal modo lo “stile” esteriore avrebbe poco alla volta plasmato l’identità interiore e i valori del fascismo sarebbero stati progressivamente introiettati. L’affermazione di Turati ci pare paradigmatica per esplicitare come si volesse applicare questa strategia al mondo universitario. In questo ambito, protetto dalla sua specializzazione e separatezza, occorreva una pedagogia d’urto: l’innesto dello stile militare, e dei valori in esso incorporati, doveva produrre una sorta di metànoia, una conver-
21
La scuola fascista da De Vecchi a Bottai, «Giustizia e Libertà», 15 ottobre 1937. Il discorso di Turati è ripreso in I corsi allievi ufficiali di complemento affidati ai reparti della Milizia Universitaria, Roma, s.e., 1929, p. 15. Sulla Milizia universitaria cfr. LUCA LA ROVERE, Storia dei Guf, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 127130. 23 Su questi temi cfr. le osservazioni di EMILIO GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1995, p. 129-191. 22
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sione nella psicologia dello studente, ne avrebbe sanato le irrequietudini critiche e l’attitudine individualista, domato l’insofferenza per la disciplina e l’esuberanza anticonformista, trasformandolo, attraverso l’esercizio delle armi e dell’obbedienza assoluta, attraverso il cameratismo maschile e il rispetto della gerarchia, in un membro responsabile dell’“aristocrazia del comando”, ossia della classe dirigente nuova di cui il regime aveva bisogno. Questo progetto fu enunciato a chiare lettere dallo stesso Mussolini nella prima, eclatante cerimonia di massa, che vide protagonisti proprio la Milizia universitaria e i Guf di tutta Italia, affluiti il 24 maggio 1929 a Roma in un’“adunata” per il quattordicesimo anniversario della dichiarazione di guerra all’Austria. In un gioco di rimandi, che faceva appunto della Grande Guerra la cornice simbolica e la perenne eredità spirituale entro la quale “la gioventù studiosa” inscriveva la sua affermazione pubblica, circa 17000 tra universitari in divisa e “militi”, inquadrati in quattro legioni formate con le coorti di 17 atenei, accompagnati da 150 professori assistenti e aiuti, reso omaggio alle autorità del partito in piazza Venezia e alla tomba del Milite ignoto, sfilarono come in una parata militare nelle vie della capitale. Giunti allo stadio salutarono con il “presentat’arm” l’arrivo del Duce, che li “passò in rivista” e rivolgendosi loro dichiarò: «Accanto al libro, sul quale dovete curvare la fronte e l’ingegno, ho voluto aggiungere il moschetto, l’arma che difende la Patria e la Rivoluzione delle Camicie nere»24. Canzoni di guerra e inni goliardici conclusero la kermesse, che ci pare ben esemplificare la sperimentale, sincretistica fusione in atto tra “costumi” universitari vecchi e nuovi. Il binomio “libro e moschetto”, grazie al crisma ufficiale della parola del duce, divenne l’endiadi più nota e persino proverbiale del lessico studentesco. Sintesi incisiva di un rivoluzionario progetto di politica culturale, la formula “libro e moschetto” fu assunta come proprio titolo dalla più ortodossa tra le testate studentesche, espressione del Guf milanese, divenne un riferimento iconico onnipresente nella grafica studentesca25 e fu ripresa con zelo nei loro esercizi retorici da professori e rettori, per esservi anzi presentata come una nuova declinazione, più aderente all’attualità, del nesso mazziniano “pensiero e azione”26.
“Camerati professori” Le iniziative sin qui tratteggiate si proiettano per lo più sulla componente studentesca del mondo universitario, ma, simultaneamente ad esse, altri importanti segnali ben sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda si possono avvertire nel comportamento delle autorità accademiche e di singoli studiosi. Non è possibile qui ripercorrere la traiettoria che il fascismo seguì, alternando allettamenti e bruschi richiami all’ordine, per irreggimentare le comunità accademiche. Certo, simultaneamente a quella progressiva conquista di un consenso, che era talvolta passivo e formale, talaltra pieno e entusiasta, molte novità si colgono seguendo nei discorsi l’avanzata delle tematiche guerresche e nelle disposizioni ufficiali l’incidenza via via più sensibile dello stile militare. Basti ricordare alcuni episodi, come l’inaugurazione a Bologna dei corsi di cultura militare nel 1928, introdotti da una prolusione dal titolo La guerra come opera d’arte27 o la rievocazione il 15 aprile 1932 delle gesta squadristiche compiute dagli studenti del Politecnico di Milano, protagonisti dieci anni prima dell’assalto alla sede dell’«Avanti!» culminato nell’in24
Cfr. Universitari fascisti a Roma, «L’Università italiana», 6 (giugno 1929) cfr. fig. 2. Esempi pisani cfr. fig. 3 e 4. 26 Così, ad esempio, nella prolusione inaugurale dell’anno accademico 1931-1932 tenuta da Orlando Pes all’Università di Genova sul tema Pensiero e azione: libro e moschetto. 27 Sulla prolusione, letta da Lorenzo Reggiani il 28 febbraio 1928, nota in «L’Università italiana», 3 (marzo 1928), p. 48. 25
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cendio e distruzione della tipografia. È il rettore Gaudenzio Fantoli in quell’occasione a rivendicare come titolo d’onore quell’azione di violenza eversiva e a farne il precedente per la marziale redenzione del mondo universitario28. Basti pensare allo stillicidio di disposizioni ufficiali, che fissavano per la comunità accademica minuziose regole comportamentali ad pompam, nelle quali più d’un osservatore colse un proposito esplicito di ridimensionamento del prestigio sociale della categoria. Dal 1926 al 1934 si susseguirono minuziose istruzioni che fissando, ad esempio, l’ordine di precedenza nelle cerimonie pubbliche e a corte situavano, tra le 13 categorie e 101 classi al proposito identificate, i professori universitari nella metà inferiore di tale sequenza: nelle prime quattro categorie nessun elemento di estrazione accademica era ammesso, mentre ampia rappresentanza vi trovavano notabili e dignitari del regime. I rettori comparivano nella VI categoria, insieme ai professori stabili, mentre gli altri professori, esclusi però liberi docenti e assistenti, si distribuivano tra la VII e VIII29. Anche l’abbigliamento dei membri del corpo accademico fu oggetto di interventi normativi ad hoc: novità rivelatrici si colgono ad esempio dal punto di vista lessicale, laddove al termine «toga», carico di valenze simboliche e radicato nel passato secolare dell’istituzione, si preferì quello più anodino di «divisa» universitaria, che rimandava all’area semantica del servizio subordinato, nel contesto impiegatizio come in quello militare, e sottolineava nell’identità professionale del professore universitario il suo status subalterno30. Su questo piano simbolico e rappresentativo i segnali dell’avanzata del fascismo nel mondo universitario sono molteplici. È certo l’espressione di un’identificazione piena e consapevole, e fors’anche una larvata richiesta di patronage, l’intitolazione a Benito Mussolini di atenei e istituzioni accademiche, ma non meno significativa è la mutuazione di elementi linguistici e grafici di conio fascista. Un accenno va riservato al fascio littorio, emblema del fascismo al potere e simbolo di disciplina, unità e forza, estrapolato dall’emergente culto della romanità: alcuni atenei decisero spontaneamente di inserirlo nel proprio sigillo – così l’Università di Genova, così quella di Trieste e soprattutto l’Università di Roma dove il fascio, circondato da un ramoscello di alloro e uno di quercia, compare al centro dell’immagine –, innovando fortemente l’iconografia universitaria [fig. 5]. Non è irrilevante nemmeno rilevare come nel calendario accademico stabilito per legge nel 1933, accanto alle feste “monarchiche” preesistenti, come il genetliaco del re e l’anniversario della morte di Vittorio Emanuele II, si introducano nuove festività fasciste e “guerriere”, come la rievocazione della fondazione dei fasci il 23 marzo e la dichiarazione di guerra del 24 maggio. Il proliferare dello stile guerresco conobbe un’apoteosi in consonanza con l’avvento al Ministero dell’Educazione Nazionale nel 1935 dell’ex-quadrumviro della rivoluzione Cesare Maria De Vecchi, l’unico ministro di estrazione militare, già ministro della Somalia italiana, l’unico del tutto estraneo al mondo della docenza, e proprio in virtù di questa estraneità ben deciso a accelerare i tempi e a semplificare i modi dell’inquadramento totalitario dell’università. Ed è forse sua l’espressione coniata un anno prima, quando in occasione del conferimento della laurea ad honorem in storia del Risorgimento, offertagli per acclamazione dal corpo accademico dell’Università di Torino – un rito accademico, quest’ultimo, ch’ebbe molta fortuna in epoca fascista, funzionando anch’essa come una sottintesa richiesta di patronage, di cui beneficiarono personalità della casa reale e gerarchi, come Michele Bianchi – apostrofò i suoi interlocutori come “camerati pro-
28
R. Scuola d’ingegneria di Milano, Annuario, Milano 1933. Cfr. Ordine delle precedenze a corte e nelle funzioni pubbliche, R.d.l. del 16 dic. 1927, n. 2210, pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» del 17 dic. 1927. 30 Cfr. art.13: norme sull’uso della «divisa» universitaria in R.d.l., 4 febbraio 1926 n. 31, pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» dell’8 feb. 1926. Sullo stesso tema cfr. anche R.d.l., 6 giu 1929, n. 171 e R.d.l., 23 novembre 1934. 29
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fessori” e contribuì a omologare l’uso di questo contraddittorio appellativo, divenuto poi d’uso comune nelle cerimonie pubbliche31. Per diverse ragioni il 1934 costituisce un decisivo turning point in questa evoluzione e non solo perché, come s’è detto, è l’anno del potenziamento della “cultura militare” nell’ordinamento degli studi, ma anche per le circolari che il ministro Ercole diramò con le nuove direttive per lo svolgimento della cerimonia inaugurale dell’anno accademico: la novità più eclatante consiste nella soppressione del discorso inaugurale, ossia del momento scientificamente “alto” della cerimonia d’apertura dell’anno accademico, sostituita dal discorso dei rappresentanti del Guf e della Milizia universitaria, con i dati del tesseramento e il bilancio delle attività svolte. Ercole decise inoltre che «la cerimonia inaugurale dovrà chiudersi sempre dovunque con una manifestazione di carattere militare (per esempio giuramento della Milizia universitaria o inaugurazione del Corso allievi ufficiali), a cui parteciperanno gli studenti inquadrati» nelle loro organizzazioni32. Le due disposizioni strettamente correlate puntavano a omologare l’università alla concezione della “Nazione militare”, nella quale «le barriere che ancora esistevano fra istituzioni civili e quelle militari vengono demolite». A essere demolita, in particolare, è l’inaugurazione come “festa” dell’università, intesa quale comunità coesa di studenti e studiosi; è inoltre demolita, a vantaggio di un copione rigido e uniforme, la libertà di scelta e la varietà di regia, che fino a quel momento ciascun ateneo aveva preservato, ma soprattutto è demolita l’immagine tradizionale dell’università come appartato luogo del sapere che nel giorno dell’inaugurazione si apre al pubblico e gli offre un saggio della propria operosità scientifica, del proprio rigoroso impegno di ricerca. Questi aspetti non hanno più alcun valore legittimante nel contesto fascista, anzi vanno attivamente surrogati con l’esibizione di una monolitica fede fascista: come scrisse Ercole anche la relazione del rettore, ridotta all’osso nell’informazione sugli avvenimenti notevoli dell’Università e sulle attività svolte, doveva dare «l’opportuno risalto […] ai più significativi atti di consapevole adesione comunque offerti […] al fascismo e al Regime»33. Espropriati il corpo accademico e il rettore di ogni autonomia, tutti vengono più esplicitamente inscritti in un ordine gerarchico che è anche e soprattutto un ordine militare. I cortili delle università da quel momento devono risuonare di comandi recisi e di fanfare, devono echeggiare di saluti romani, di battere di tacchi e di manovre ben eseguite e i rettori in toga si improvvisano un passo marziale per passare in rivista i loro studenti in elmetto e grigioverde [fig. 6]: è quanto meno dall’epoca napoleonica che non si vedevano esercitazioni militari entro il perimetro dei palazzi universitari e l’innovazione è davvero rivoluzionaria.
Minerva e Marte È ancora il 1934 l’anno della prima tornata dei Littoriali, originale proposta agonistica rivolta agli studenti di tutte le università. Nei campi dello sport e della cultura, dell’arte e della politica i giovani vennero chiamati a misurarsi, anno dopo anno, in convegni e concorsi e attraverso prove eliminatorie, per il conseguimento di un titolo, di riconosciuta valenza accademica, che era insieme segno di merito individuale e benemerenza dell’ateneo d’origine: fu ideata un’escalation di spirito competitivo che, a ragione, è stata interpretata anche come una strategia pedagogica, per indurre e consolidare uno spirito guerriero solo provvisoriamente sublimato in gara. E di toni inequivocabilmente bellicosi vibra infatti la formula 31
Cfr. cronaca dell’avvenimento in «L’Università Italiana», 4 (aprile 1934), p. 65. Circolare n. 18004 del 15 settembre 1934, completata dalla n. 18954 del 18 ottobre 1934, MEN, Raccolta delle leggi, dei decreti, dei regolamenti e delle circolari sulla istruzione superiore dall’anno 1933 al 1938, Roma, Poligrafico dello Stato, 1939. 33 Ivi. 32
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del giuramento prestato dai candidati littori: l’impegno a combattere «con il vigore nei campi agonali, con il sapere negli arenghi scientifici» si coniuga con un «combatterò per vincere nel nome d’Italia […] come il Duce comanda» che rimanda a cimenti più concretamente bellici34. Non era pertanto incongrua la battuta romantica che qualche anno più tardi avrebbe pronunciato Guido Pallotta, già segretario del Guf di Torino, dando appuntamento ai giovani suoi compagni ai “littoriali della guerra” allora appena iniziata35. La linea di continuità rinvenuta tra le diverse prove che il fascismo offriva alla generazione del Littorio lo avrebbe accompagnato volontario in guerra sino alla morte in Egitto. A metà degli anni Trenta questo clima politico-culturale trova traduzioni precise anche in campo architettonico: la nuova città universitaria costruita nella capitale in uno spazio di 220.000 mq. offre visivamente l’immagine di un ateneo di tipo nuovo, dove forme classicheggianti e modernità funzionalistica convivono in uno schema compositivo di scenografica solennità. Ampi viali, selciati in modo da ricordare le vie consolari, si aprono su prospettive monumentali e linearmente austere: il viale d’ingresso si chiama Libro e moschetto, un altro porta il nome dei Battaglioni Universitari. Poco più in là un quadriportico ospita l’Ara virtutis, una sorta di peristilio romano con al centro il monumento ai 384 caduti universitari della Grande Guerra. Il cuore dell’università dell’Urbe è il Rettorato, contornato da sette edifici, e l’ampio piazzale antistante, al centro della quale sorge un’imponente statua bronzea di Minerva, opera di Arturo Marini: alta su un basamento di marmo rosso, è rappresentata come una divinità arcaica, nella quale è scomparso ogni riferimento al carattere di protettrice delle arti e delle scienze, che la denotava nel Pantheon romano, e spicca invece la fisionomia di nume guerriero e armato. È questa una rappresentazione abbastanza tipica dell’epoca: la ritroviamo in altre opere, dalla Minerva di Francesco Messina, in bronzo e porfido, simbolo della vocazione universitaria di Pavia, allo stendardo dell’Universitas Studiorum Mediolanensis del 1933, ove la dea, insieme allo scudo e alla lancia esibisce un vistoso fascio littorio. In tutte queste raffigurazioni Minerva è una sorta di Marte in versione muliebre, sprovvista di ogni attributo simbolico che rimandi alla sfera degli studi [fig. 7-9]. E gli spazi interni della città universitaria paiono pensati apposta per costituire lo scenario più consono alle esercitazioni militari degli studenti, per trasformarsi in “campo di Marte”, appunto. Il che avviene nei pomeriggi del sabato e nei mattutini addestramenti domenicali. In quelle occasioni, come si legge nella prosa dell’epoca «la città universitaria si fa guerriera. Alcune migliaia di giovani della GIL, del GUF, del Battaglione universitario, danno un esempio perfetto di ciò che significhi addestramento militare. Sono comandi secchi, movimenti vibrati, squilli di fanfara, canti di guerra. Libro e moschetto»36. È lo stesso scenario descritto con toni meno retorici da uno studente di allora, Giaime Pintor che, nel suo diario, ricorda le istruzioni pratiche in uniforme da milite nei giardini dell’Università e, pur ironizzando sui fastidi dello studio del “passo romano” e sullo spreco di tempo e fatica imposto dalla preparazione delle parate, ne testimonia l’efficacia psico-pedagogica: «imparammo a scomparire nelle decine di migliaia di uomini che prendevano parte alle riviste, a camminare al suono di musiche tradizionali e a godere della impersonalità che procura l’uniforme. Durante il soggiorno di Hitler a Roma non perdemmo una sola parata»37.
34
MARINA ADDIS SABA, Cultura a passo romano. Storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 197. Su questi temi cfr. anche LA ROVERE, Storia dei Guf, e SIMONE DURANTI, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Roma, Donzelli, 2008. 35 La battuta di Guido Pallotta, già vicesegretario del Guf, caduto in Egitto nel 1940, è ricordata nel necrologio dedicatogli dagli «Annali delle Università d’Italia», 5 (1940), p. 470. 36 NICOLA SPANO, La città universitaria di Roma, «Annali della Università d’Italia», 4 (1940), p. 405. 37 GIAIME PINTOR, Doppio diario 1936-1943, Torino 1978, p. 38.
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L’inaugurazione dell’ateneo dell’Urbe ebbe luogo il 31 ottobre 1935 in un contesto di parossismo propagandistico e di forte tensione internazionale: «si inaugura l’Università di Roma nel momento in cui i nostri soldati portatori di civiltà avanzano con il loro coraggio e il loro sacrificio» dichiarò allora Mussolini, alludendo alla campagna d’Etiopia già in corso. Ben oltre la coincidenza dei due eventi, le connessioni tra università e guerra, tra scienza e impero si rivelavano sostanziali e profonde perché, come aggiunse il duce: «Voi camerati goliardi sarete sulle prime linee, (sì, sì) farete di questa come di tutte le università d’Italia, una palestra, un baluardo, una fortezza dello spirito e delle armi che, quando siano associati, assicurano la vittoria»38.
La guerra da mito a realtà Dal 1935 al 1943 la guerra non fu più per gli italiani e per gli universitari italiani un tema per esercizi retorici o elaborazioni simboliche e rituali: essa divenne il contesto concreto e condizionante di ogni momento pubblico. Dall’avvio dell’iniziativa imperialistica in Africa alla partecipazione alla guerra civile spagnola fino all’esordio nella guerra mondiale, con le disastrose esperienze dell’attacco alla Grecia e della spedizione dell’Armir, la guerra costituì un referente costante per la vita delle istituzioni universitarie. La ripresa di un corposo fenomeno di volontarismo studentesco39 e la mobilitazione attiva degli studiosi, chiamati a impegnarsi nella Scienza utile alla patria, vale a dire nel supporto alla produzione autarchica costituiscono gli aspetti forse più significativi di questa temperie politicoculturale. In tale cornice il coinvolgimento degli atenei fu assai spinto e il clima delle occasioni cerimoniali ne risultò ulteriormente alterato con forti innesti di misticismo. Pathos eroico, celebrazione dei destini imperiali, identificazione della ‘nazione in armi’ come coesa comunione degli spiriti, costruzione dell’immagine del ‘nemico’ come radicalmente altro da sé, “plutocrazia” immorale e decadente, rappresentazione della guerra in atto come generosa rivolta ideale ossia “sangue contro oro”, rivendicazione di valori nazionali vantati come patrimonio universale e nuovo umanesimo, difesa di diritti conculcati, vagheggiamento dell’“ordine nuovo” europeo: sono queste alcune delle idee-forza che ispirarono la “drammaturgia” universitaria nella seconda metà degli anni Trenta. Che si trattasse di “adunate” per l’anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara, combattuta contro l’esercito austriaco da studenti universitari volontari nel 1848, o dell’annuale rito esecratorio delle “sanzioni” comminate dalle “plutocrazie” occidentali contro l’aggressione dell’Italia all’Etiopia, che la comunità accademica solennizzasse il proprio “viatico” ai volontari e ai richiamati, in partenza per i diversi teatri di guerra, o festeggiasse il loro ritorno in veste di trionfatori – come nel caso dell’impresa africana, cui partecipò il Battaglione universitario intitolato, appunto, a Curtatone e Montanara, e accolto al suo ritorno a Roma dal duce in persona –, in occasione della commemorazione dei caduti o del conferimento in loro memoria delle lauree ad honorem, rettori e professori sperimentaro38
Roma città universitaria, «L’Università Italiana», 11 (nov. 1935), p. 198. La quantificazione del volontarismo nel secondo conflitto mondiale è un problema storiografico tuttora aperto: se, da un lato, le fonti fasciste coeve lo segnalano come fenomeno di grande rilievo – ad esempio negli «Annali della Università d’Italia» (1940-1941) si dà notizia sede per sede dell’arruolamento massiccio di studenti volontari –, dall’altro, l’attendibilità di questi dati può essere inficiata dalle esigenze propagandistiche del regime, interessato ad accreditare l’immagine di un’entusiastica risposta giovanile alla politica bellicista. Per contro l’impennata delle iscrizioni all’università, verificatasi proprio in connessione con l’avvio del secondo conflitto mondiale, attesta da parte di studenti “improvvisati” una diffusa ricerca di alternative – cioè esoneri, proroghe o almeno licenze etc. – alla chiamata al fronte. 39
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no nuove, stilizzate forme liturgiche, nelle quali la tensione collettiva si sublimava attraverso momenti di raccoglimento religioso, officiati da cappellani e sacerdoti, e la fede nella religione civile della Patria si esprimeva con parate e riviste militari, quasi rappresentazioni traslate della potenza bellica e auspicio di vittoria. Tra le innovazioni spicca la scelta di nuovi spazi come sfondo di queste celebrazioni: dai chiusi cortili universitari il rito si trasferisce talvolta all’esterno, nelle piazze e nelle strade cittadine sottolineando anche fisicamente la rinuncia ad ogni atteggiamento di distacco rispetto alla comunità della ‘nazione in armi’. Il ciclo mitopoietico iniziato negli anni Venti con la contaminazione dei codici universitario e militare si conclude nei primi anni Quaranta con il riassorbimento dell’uno nell’altro.
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Elisa Signori
Fig. 1 – Monumento agli studenti caduti dell’Università di Pavia eretto in uno dei cortili del palazzo centrale, opera di Alfonso Marabelli (1922).
Fig. 2 – L’“adunata” dei Guf e della Milizia universitaria a Roma il 24 maggio 1929 (da «L’Illustrazione italiana»).
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Tra Minerva e Marte: università e guerra in epoca fascista
169 Fig. 3 – Grafica e simbologia fascista in un bozzetto di Beppe Frediani ne «Il Campano», organo del Guf di Pisa, 1921.
Fig. 4 – Libro e moschetto nel frontespizio de «Il Campano», Pisa 1930.
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Fig. 5 – I sigilli delle università di Genova, di Roma e di Trieste nei quali sono stati inseriti il fascio e le scuri littorie, simboli del regime fascista.
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Tra Minerva e Marte: università e guerra in epoca fascista
Fig. 6 – Il rettore dell’Università di Pavia passa in “rivista” la Milizia universitaria il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico 1934-’35.
Fig. 7 – Minerva nel frontespizio della rivista «L’Università italiana».
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Fig. 8 – Una raffigurazione di Minerva nello stendardo dell’Università di Milano (1933).
Fig. 9 – La statua della Minerva, opera di Francesco Messina, a Pavia.