Saggi/scienze
Marco Mazzeo
Tatto e linguaggio Il corpo delle parole
Editori Riuniti 2
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Indice
I edizione: settembre 2003 © Copyright Editori Riuniti, 2003 via Alberico II, 33 - 00193 Roma www.editoririuniti.it fax verde: 800 677822 ISBN 88-359-5426-6
Tatto e linguaggio 9 17
Introduzione I. Animale razionale o bipede implume? 1. L’animale razionale: il modello delle scienze cognitive, p. 17 - 2. Una storia parziale delle scienze cognitive, p. 22 - 2.1. La prima fase: dal comportamentismo al cognitivismo, p. 22 - 2.2. La seconda fase: dal cognitivismo alle scienze cognitive, p. 29 - 2.3. Gli ultimi quindici anni: nuova apertura o nuovo irrigidimento?, p. 31 - 3. La via cognitiva alla natura umana: un vicolo cieco, p. 36 - 3.1. McDowell: due nature, p. 38 - 3.2. Pinker: la seconda natura è ridotta alla prima, p. 42 - 3.3. Marconi: la soluzione è il cervello, p. 50 - 4. Verso il bipede implume, p. 56 - 4.1. Il «doppio schiacciamento» cognitivista: l’occhio di Hal, p. 57 - 4.2. Il corpo: lo sfondo rimosso, p. 63 - 4.3. Il tatto: senso del corpo, p. 66 - Letture consigliate, p. 71
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II. L’animale sprovveduto 1. Aprire la scatola della mente, p. 73 - 2. L’opposizione al comportamentismo: ambiente e spirito, p. 77 - 3. Un problema filosofico: ambiente vs mondo, p. 5 - 3.1. L’essere che tasta: l’uomo formatore di mondo, p. 89 - 3.2. L’animale povero di istinti, p. 92 - 3.3. Il problema della antropogenesi, p. 98 - 3.4. L’animale non specializzato, p. 113 4. Nudità e neotenia, p. 120 - Letture consigliate, p. 127
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III. Nelle nostre mani 1. La mano e il senso del limite, p. 129 - 2. I dieci principi della percezione manuale secondo Révész, p. 132 - 3. Gibson: il tatto come senso attivo, p. 148 - 4. Al lavoro: perché le nostre non sono mani di
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scimmia, p. 154 - 5. I ciechi vedono? Le ricerche cognitive sul tatto, p. 162 - 5.1. Vedere con la pelle: Bach-y-Rita e la sostituzione sensoriale, p. 164 - 5.2. La pelle in prospettiva: Kennedy e i ciechi che disegnano, p. 172 - 5.3. Il tatto tra riscossa e sconfitta: le ricerche di Lederman e Klatsky, p. 180 - Letture consigliate, p. 188 189
IV. Esperienza tattile e facoltà del linguaggio 1. Le scimmie che pescano: culture animali e culture umane, p. 189 2. I bambini che ululano: natura e cultura umana, p. 193 - 3. L’errore di Gulliver: linguaggio e dimensioni del corpo, p. 201 - 3.1. Esser piccoli: perché Lilliput non esiste, p. 203 - 3.2. Esser grandi: perché nostro figlio non sarà mai alto 18 metri, p. 207 - 4. Tatto e facoltà del linguaggio: la coevoluzione tra mondo e ambienti, p. 210 5. Prendere contatto con sé: il tatto come fondamento del monologo, p. 218 5.1. Cure tattili, p. 220 - 5.2. Il corpo allo specchio, p.225 - 5.3. Tatto, logica partecipativa e il parlare a se stessi, p.230 - 6. Funamboli e fumatori: il tatto di secondo ordine, p. 238 - 6.1. I funamboli di Lilliput, p. 241 - 6.2. Andare in fumo, p. 244 - Letture consigliate, p. 251
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Tatto e linguaggio
Bibliografia Indice dei nomi Indice analitico
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Introduzione
Al centro di questo libro è la questione della natura umana. Cercheremo di rispondere a tre domande: 1. Cosa distingue l’animale umano dalle altre forme di vita? 2. È possibile affermare la diversità del genere umano rispetto alle altre specie senza ridurre gli animali a macchine e senza abbandonare una visione evoluzionistica dell’Homo sapiens? 3. Esiste un fondamento e un luogo di raccordo comune delle diversità linguistiche e culturali? Al primo interrogativo risponderemo affermando che il differenziale tra condizione animale e umana è costituito dal nostro corpo e dal nostro linguaggio. Piú precisamente è il tatto, il senso piú plastico e meno specializzato, a costituire la chiave per comprendere il rapporto di somiglianze e differenze biologiche tra animali umani e non umani: è questo scarto che costituisce la porta evolutiva attraverso la quale è potuto entrare il linguaggio. Il tatto, come afferma l’etologo Desmond Morris (1971, p. 9), vive un paradosso: «È cosí fondamentale che tendiamo a tenerlo per scontato». È necessario dunque fare uno sforzo: costruire una prospettiva sinottica delle conoscenze scientifiche oggi disponibili su questa modalità di senso e recuperare una fenomenologia dell’esperienza tattile troppo spesso soffo8
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cata da vulgate e semplificazioni, dal pregiudizio che la vista sia il primo tra i sensi. Per questa ragione eviteremo due soluzioni frequenti nella storia del pensiero occidentale e nel senso comune. La prima consiste nel parlare di un generico sentimento del corpo, di un’esperienza vissuta e indicibile che fa riferimento a un alveo mistico e ineffabile dell’esperienza: si pensi, ad esempio, al linguaggio privato di Wittgenstein ma anche, piú semplicemente, alla frase che ognuno di noi avrà avuto la disgrazia di sentire o proferire: «Tu non puoi capire perché non sei nei miei panni». La seconda soluzione riduce invece l’esperienza tattile alla percezione manuale ed esalta la mano come organo miracoloso che, separato dal resto del corpo, dona all’animale umano quella differenza che segnerebbe lo scarto con le altre forme di vita. Il tatto è, invece, un senso bipolare: vive dell’estensione nuda di una pelle priva di peli e della plasticità di mani che non sono aguzzi artigli, né potenti pinne ma forme pronte solo alla genericità del lavoro. Non si tratta, infatti, di un senso localizzato: ha un’area piú focale, le mani, ma non esiste un corrispettivo tattile degli occhi o delle orecchie, della bocca o del naso. La duplicità di questa modalità sensoriale è la sua caratteristica principe e, al contempo, ciò che ha favorito il suo accantonamento nella maggior parte della riflessione occidentale. Per questa ragione, abbiamo cercato di chiarirne i tratti e il significato attraverso una panoramica, ragionata ma non sistematica (non mancano le lacune: da M. Merleau-Ponty a D. Katz), degli studi piú importanti del novecento che riguardano questa modalità di senso. Nel secondo capitolo ci occuperemo della somestesia, cioè della percezione del corpo intero: gli studi di un paradigma filosofico chiamato antropologia filosofica, della scienza che studia il comportamento animale (l’etologia) e della biologia dello sviluppo ne costituiranno le linee portanti. Nel terzo capitolo, invece, descriveremo le capacità tattili delle mani (percezione aptica): gli studi della psicologia gestaltica della prima metà del secolo e della psicologia ecologica di J.J. Gibson risulteranno, ancora oggi, fondamentali. 10
Il nostro principale obiettivo polemico sarà costituito da due percorsi di ricerca, tra i piú influenti del secondo dopoguerra. Il primo è rappresentato dalla scienza cognitiva (cap. I): almeno nella sua versione piú classica e ortodossa essa propone un’analogia, tra conoscenza umana e computazione elettronica, che non è in grado di cogliere il succo dell’esperienza umana. Il progetto cognitivo di naturalizzazione della conoscenza fa cilecca proprio quando si tratta di colpire il bersaglio principale, comprendere cosa ci rende animali umani, poiché non coglie il raccordo tra biologia e cultura sul quale si incardina la nostra natura. Il secondo approccio, piú trasversale, può essere definito «riduzionismo linguistico» (l’espressione è di Cimatti, 2000a): secondo questo modello, è solamente il linguaggio verbale a segnare la differenza tra vita animale e umana. In questo modo, però, la facoltà del linguaggio diviene qualcosa di assoluto (non siamo che parola) e quindi misterioso: non comprendere le condizioni di possibilità del linguaggio significa sottoscrivere un materialismo rinunciatario che cede le armi di fronte alla religione, alla magia e alla metafisica lasciando a loro il compito di interrogarsi (se non di rispondere) sulle nostre origini, sulla provenienza e, dunque, sul senso della nostra condizione. Concentrare l’attenzione sul rapporto tra tatto e linguaggio significa rispondere positivamente alle altre due domande con cui si apre questa introduzione. È proprio la nostra specifica sensorialità che costituisce contemporaneamente un punto di snodo e di raccordo: in un caso segna lo scarto biologico tra animale umano e non umano, in un altro costituisce il fondamento comune delle varietà culturali. La tesi centrale del libro, infatti, può essere riassunta dal motto «di necessità, virtú»: la mancanza di armi naturali di un corpo nudo (cap. II) e la plasticità di mani senza compiti percettivi prefissati (cap. III) si rivelano alla nascita come handicap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il calore di altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’incarnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biologico che permette alla specie di mantenere anche in età avan11
zata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità cronica che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni della nostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gli equilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è costretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicurezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpo ci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigidità della programmazione istintuale, di evadere da una nicchia ecologica specifica. Proprio per questa ragione, vedremo che l’uso di strumenti nella specie umana assume un rilievo fondamentale perché, al contrario delle altre forme di vita, riveste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di sopravvivere (cap. IV). I casi di ragazzi selvaggi, abbandonati precocemente o allevati da altre specie animali (si pensi al celebre film di F. Truffault), testimoniano la plasticità di un corpo neotenico che esibisce la capacità di modellarsi sul calco delle forme di vita cui si affida, di farsi piú lupo tra i lupi e piú gazzella tra le gazzelle. L’essere umano, infatti, non nasce in un «ambiente» ma in un «mondo»: non si tratta di un contesto ecologico già determinato per il quale l’Homo sapiens nasce adatto ma della storia di un organismo che per sopravvivere deve proteggere le proprie nudità con abiti, costruire una dimora che gli si addica o, male che vada, vivere del prestito istintuale della specie che lo adotta. Dopo che una avventurosa sortita tra i lillipuziani e i giganti del Viaggio di Gulliver ci avrà dimostrato che la plasticità organica necessaria per parlare è resa possibile dalle dimensioni del nostro corpo, vedremo che è proprio l’opposizione materiale tra un mondo umano in espansione e ambienti animali in ripiegamento a costituire il motore coevolutivo tra azione tattile e facoltà del linguaggio. Mani e parole sono, in primo luogo, forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’a12
gricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens. La condizione umana vive dunque un contrasto intrinseco alla sua natura: da un lato è altro da ciò che la circonda perché nasce priva di nicchia ecologica; dall’altro, è ciò che la circonda (il mondo) perché frutto dell’operato della propria comunità. Il linguaggio verbale non solo non cancella questa ambivalenza di fondo ma la eredita: il monologo costituirà il luogo privilegiato d’analisi delle ambivalenze di una forma di vita per la quale la logica del principio di identità (A è uguale ad A) e la legge di non contraddizione (A non è non A) sono una conquista storica e, come tale, sempre a repentaglio. Sarà proprio il parlare a se stessi, infatti, a costituire un esempio dell’alveo partecipativo nel quale il linguaggio verbale nasce e di cui non può liberarsi definitivamente: l’animale umano, cosí dipendente dalle cure che riceve dai suoi conspecifici, impiega una vita intera non solo a gestire il rapporto di distinzione e appartenenza con il mondo nel quale si trova a vivere, ma anche a distinguersi e a partecipare a una comunità senza la quale sarebbe letteralmente morto. Per questa ragione, nella natura umana biologia e cultura non costituiscono termini antagonisti né domini da ridurre l’un l’altro. Si tratta piuttosto di due figure a incastro: i vuoti di un corpo, quello umano, a corto di istinti definiti alla nascita, di armi preconfezionate dalla specie e organi di senso già formati sono colmati dalle cure di una società che ci dà il tempo di crescere, di imparare, di portare avanti una maturazione organica la cui lentezza non ha paragoni nel resto del regno animale. La cultura è la nostra salvezza biologica: ciò non significa, però, che tra corpo e linguaggio esista un rapporto lineare come quello tra malattia e vaccino. Se le parole sono un farmaco, lo sono in senso omeopatico. Per un verso il linguaggio ci protegge da una stimolazione percettiva altrimenti insopportabile, offre riparo a una pelle insolitamente esposta agli agenti esterni tenendoci in contatto. 13
Per un altro fonda nuove dimensioni dell’esperienza: il vissuto tattile del funambolo, cosí come quello del fumatore, costituiscono due casi che dimostrano la nascita dal linguaggio di esperienze non linguistiche. Se la corda e la sigaretta costituiscono artefatti sofisticati, frutto di una società fondata sulle parole, il virtuosismo di chi danza sulla fune (ma anche del pianista e dello sciatore, del motociclista e del pittore) e la coazione a ripetere del tabagista dimostrano che il linguaggio non ci basta, che parlare non è sufficiente a lenire le ferite di un corpo nudo. Il linguaggio sostituisce il bisogno epidermico di contatto della nostra specie senza però appagarlo («smettila di parlare, avvicinati un po’», recita una vecchia canzone) e, per questo, apre la via a nuove dimensioni tattili. Dire che il tatto costituisce la porta d’ingresso del linguaggio nella natura umana non significa affermare che questo, una volta entrato, chiuda l’uscio dietro di sé lasciando alle proprie spalle l’autonomia dell’esperienza percettiva e tagliando i ponti con la biologia del nostro corpo. Il titolo di questo libro si presta dunque a una interpretazione duplice: per un verso, sottolinea l’importanza dell’esperienza tattile per comprendere in che modo il corpo umano costituisca l’origine della facoltà del linguaggio; per un altro, si riferisce alla densità sensibile e al sapore percettivo assunto dal parlare. Se le parole vivono perché vive la collettività degli organismi che le pronunciano, anche le parole rivelano la loro fragranza materiale, anch’esse hanno un corpo da esibire.
si filosofici) di quel gruppo di amici che, con Daniele, divide la sua vita tra Roma e Cosenza: senza Paolo Virno, Felice Cimatti e Francesco Ferretti non so proprio come farei. Non dimentico Laura Detti che, dopo anni di discussioni, mi ha quasi convinto che vale la pena di leggere Kant e Scaravelli ma alla quale, in compenso, ho rubato il mio primo libro di Gould. La redazione di Montag (Guido Traversa, Brunella Antomarini e Massimiliano Biscuso) è stata sempre generosa offrendomi incoraggiamento, spunti di riflessione e un luogo dove poter riflettere insieme. Nel mio soggiorno di studio a Parigi, Pierre Jacob mi ha accolto con grande disponibilità presso l’Institut Jean-Nicod consentendomi di partecipare come uditore libero al DEA in scienze cognitive durante l’anno accademico 20022003. In questo periodo, l’entusiasmo e la curiosità di Boris Gimenez-Sastre e Vincent Spehner mi hanno aiutato a comprendere che con persone come loro le scienze cognitive possono avere un futuro vitale e che, almeno su questo, dovrò forse ricredermi. Ho scritto l’ultimo paragrafo pensando a mia madre, Ersilia Bosco: che sia l’occasione buona per farla smettere di fumare. Questo libro è dedicato alla memoria di mio padre, Mario Mazzeo: il primo a mostrarmi la varietà dei sensi e a insegnarmi l’importanza di fare di necessità virtú.
Durante la stesura del libro, ho avuto la fortuna di fare incontri che hanno cambiato la forma di questo testo e la sostanza della mia vita. In primo luogo Daniele Gambarara mi ha dato un sostegno teorico, morale e materiale, senza il quale mi sarei, senza dubbio, smarrito. Con Massimo Prampolini ho coltivato l’idea originaria dalla quale nasce oggi Tatto e linguaggio: un’antologia sulla percezione cosiddetta «minore» e che minore non è (tatto, gusto, olfatto), progetto che spero un giorno possa vedere la luce. Indispensabile è stata l’effervescenza (fatta di dibattiti accesi, cene sostanziose e affettuosi colpi bas14
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I. Animale razionale o bipede implume?
Per costruire bisogna prima distruggere P. Kropoktin
1. L’animale razionale: il modello delle scienze cognitive Una lunga tradizione di pensiero indica nel linguaggio verbale l’unico punto critico di distinzione tra animali umani e non umani. A distinguerci dalle altre forme di vita sarebbe il fatto che siamo animali razionali, padroni di quel che la tradizione greca chiama il logos. Un termine dall’ampio spettro semantico che comprende i concetti di «calcolo», «ragione» e «discorso». Proprio quest’idea, l’uomo come animale razionale-linguistico, sarà il nostro principale obiettivo polemico. In particolar modo rivolgeremo la nostra attenzione critica a una delle varianti piú recenti di un simile modello teorico, la scienza cognitiva, mostrando l’esigenza di trovare un luogo di raccordo e snodo tra la natura umana e quella animale di tipo corporeo: la percezione tattile, come vedremo, ne costituisce uno dei momenti privilegiati di emergenza. La scienza cognitiva ripropone questa ipotesi teorica attraverso il recupero, in chiave aggiornata, della fusione tra linguaggio, calcolo e ragione. La risposta che questo paradigma di ricerca propone ad alcune delle domande che abbiamo posto nell’introduzione potrebbe esser riassunta cosí: l’essere umano si distingue dagli altri animali perché ha una mente e avere una mente significa essere in grado di effettuare computazioni. Cosa sono le computazioni? Sono calcoli su rappre16
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sentazioni, operazioni applicate su stringhe finite di simboli. Chi è allora l’animale umano? È l’essere che calcola come un computer, che ragiona perché elabora input tramite una serie di operazioni matematiche. Negli ultimi decenni l’elemento cardine del paradigma cognitivo, l’analogia mente-computer, è stato proposto secondo versioni molto diverse. Queste possono essere distribuite fra due polarità principali: una piú forte che propone il computer come modello effettivo della nostra intelligenza e una piú debole che utilizza questa metafora come via euristica per cogliere solo alcuni aspetti di essa (Johnson-Laird, 1993, p. 6). Simili differenziazioni non sono però molto rilevanti ai fini del nostro discorso poiché in tutti i casi si persegue il ragionamento di fondo: «visto che è necessario fare astrazione, mettere da parte la nostra animalità e concentrarci su ciò che ci contraddistingue (la razionalità), cosa c’è di meglio che utilizzare come termine di riferimento una macchina?». La mossa teorica può sembrare innocente. In fondo, potremmo dire, ogni scienza modellizza un fenomeno per comprenderlo. Per comprendere la natura umana quindi può esser opportuno, anzi necessario, utilizzare un modello, il computer in questo caso. Questa mossa teorica però non solo non è innocente ma è profondamente sbagliata. Per capirlo meglio ricorriamo a un accostamento che ha suggerito piú di cinquant’anni fa Ludwig Wittgenstein (1953). Secondo l’autore austriaco, per certi versi la filosofia assomiglia all’illusionismo poiché in entrambi i casi abbiamo a che fare con i problemi della prestidigitazione. Tanto nello spettacolo di magia che in filosofia ogni mossa è di per sé innocente: se accetti le condizioni iniziali del gioco (i suggerimenti del prestidigitatore, i presupposti di un modello teorico) tutto sembra naturale e scontato. Ma ciò accade solo perché, in realtà, il trucco è già stato fatto. Il trucco infatti è prima della mossa, è nella sua preparazione. Il prestigiatore sceglie per il suo esperimento di lettura del pensiero qualcuno tra il pubblico e afferma di averlo fatto a caso: se lo spettatore accetta una simile condizione iniziale, che i due cioè non siano 18
d’accordo, tutto il resto appare stupefacente. Nel nostro caso la preparazione alla mossa consiste nel credere che per poter identificare lo specifico che individua la nostra specie sia necessario astrarlo, anzi estrarlo, dal genere cui apparteniamo. Secondo la scienza cognitiva per comprendere l’animale umano è necessario prima farne fuori una parte (quella animale) e vedere poi cosa resta (l’umano per l’appunto). Per questa ragione, il paradigma computazionale rimane invischiato in almeno due serie di difficoltà metodologiche e, come vedremo nei paragrafi successivi, contenutistiche. Chiameremo la prima serie di difficoltà «il problema figura-sfondo». Per illustrare in cosa consiste facciamo un altro esempio. Poniamo di trovarci nella selva amazzonica e di dover rintracciare le are rosse, una specie di pappagalli dei quali sappiamo poco, solo che hanno colori particolarmente sgargianti. Improvvisamente ne vediamo un esemplare. Poniamo che un osservatore esterno, un indigeno, ci dica: «Cerca di capire cosa li distingue dalle altre specie che popolano la foresta». Cosa faremmo? Probabilmente cominceremmo a osservare con cura le are, a registrarne i suoni e a toccarne il piumaggio continuando la nostra indagine attraverso il confronto con altre specie. Gradualmente capiremmo che le are si distinguono non solo per la vivacità dei colori ma anche per il becco particolarmente compatto, per la grandezza del loro corpo (superano il metro), la coda molto lunga, ecc. Immaginiamo ora che il nostro ipotetico interlocutore obietti: «Ma tu non devi guardare cosa l’ara non è, cosa ha in comune con gli altri uccelli, ma solo cosa la distingue. Per capirlo devi osservare solo lei, perché guardare il resto sarebbe solo una perdita di tempo». Quest’ordine avrebbe senso? Potremmo in tal modo capire come identificare un’ara? No. Per cogliere differenze è necessario infatti focalizzarle su uno sfondo di somiglianze, per comprendere la natura di una specie è necessario che questa si stagli sullo sfondo costituito dal genere. La scienza cognitiva, soprattutto nella sua versione piú rigida e ortodossa, incappa proprio in questa difficoltà: seziona l’animale umano in due, una parte animale e una raziona19
le, e si concentra su quest’ultima poiché costituirebbe il suo specifico. Un’impresa simile a un forsennato esperimento chirurgico che, a forza di tagliare, finisce con l’uccidere il paziente. Ma passiamo al secondo ordine di difficoltà. Quel che potremmo chiamare il «problema dell’hangar» riguarda la convinzione di fondo della scienza cognitiva secondo la quale per comprendere la costituzione di un elemento naturale sia necessario o perlomeno utile modellizzarlo (lo accennavamo prima). Da un certo punto di vista questo è certamente vero. La portata delle nostre capacità conoscitive ci impone una percezione della realtà fallibile e parziale, stretta dalla morsa di limiti biologici e culturali. Etimologicamente «modello» vuol dire «piccolo modo» (modulus > modus): in tal senso possiamo intendere l’espressione «costruire un modello del mondo» come «conoscere il mondo all’interno delle debolezze costitutive della nostra conformazione». Ma questo non è il senso del modello cognitivista. Johnson-Laird, pur professandosi appartenente alla versione piú soft del cognitivismo contemporaneo, afferma: Sensazione ed emozioni possono essere spiegate all’interno di uno schema di riferimento che mette insieme la selezione naturale e un punto di vista computazionale della mente. E cosí forse un robot potrebbe avere sentimenti. Potrebbe esser dotato di alcuni processori che monitorizzano i suoi stati interiori – che rivelano ad esempio, che la sua scorta di energia è scarsa – e di altri processori che rivelano eventi importanti nel suo ambiente, come la presenza di un pericolo, e trasmettono un segnale particolare ad altri della gerarchia (Johnson-Laird, 1993, p. 416).
Vediamo il presupposto dell’argomentazione: un robot non prova sentimenti ma in linea di principio una macchina può provarne. Si tratta solo di una problema di complessità: aggiungere microchip, progettare sistemi di monitoraggio interni, trovare software adatti. Il «problema dell’hangar» nasce proprio quando si presuppone che la qualità non sia altro che un problema di quantità. La denominazione che abbiamo scelto per questa serie di difficoltà trae spunto da un esempio particolarmente perspicuo proposto da Watzlawick (1986, p. 20
20). Diversi anni fa la Nasa, l’ente spaziale americano, decide di edificare degli enormi hangar per proteggere i propri razzi dalle intemperie del tempo. La grandezza degli apparecchi aerospaziali impone di costruire edifici grandi dieci volte il normale secondo un ragionamento semplice e apparentemente sensato: se i mezzi da contenere sono enormi, sarà sufficiente costruire hangar enormi. Una volta costruito però, l’edificio rivela controindicazioni inaspettate: le strutture sono tanto ampie da creare al loro interno dei veri e propri microclimi con tanto di nuvole, piogge e scariche di energia elettrostatica. Come vedremo la scienza cognitiva si trova in una situazione molto simile a questa. Il ragionamento, ancora una volta, appare sensato: poiché esistono dei processi cognitivi che possono essere simulati e spiegati attraverso rappresentazioni computazionali, per descrivere la natura umana basta estendere queste forme rappresentative e renderle piú complesse e le nostre domande avranno risposta. Proprio negli ultimi anni però sono state formulate perplessità e difficoltà da parte di alcuni dei piú radicali e autorevoli sostenitori del paradigma cognitivista. Fodor (2001, p. 127) ha recentemente affermato che «finora ciò che la nostra scienza cognitiva ha scoperto sulla mente è stato soprattutto che non sappiamo come funziona». Marconi (2001, p. 80), anche se piú ottimista, ha sottolineato il carattere paradossale della riscoperta e difesa del concetto di natura umana da parte della scienza cognitiva che, a rigor di termini, si occupa di processi come quelli computazionali di appannaggio non esclusivo degli esseri umani (ne sono capaci anche le macchine). Come vedremo nel prossimo paragrafo, in quasi cinquant’anni le scienze cognitive si sono dedicate alla costruzione di un enorme hangar nel quale studiare mente, pensiero, linguaggio e percezione. Ora però nuove nuvole si vanno formando proprio all’interno di quell’edificio che doveva proteggere dalle intemperie (dalla nostra animalità cosí come dalle variazioni storico-culturali). Come mai? 21
2. Una storia parziale delle scienze cognitive Per comprendere perché la scienza cognitiva incappi in quelle serie di difficoltà che abbiamo chiamato «problema dell’hangar» e della «figura-sfondo» faremo un passo indietro nel tentativo di fornire una rapida ricostruzione storico-teorica di questo paradigma filosofico. È necessaria però un’avvertenza. Poiché si tratta della narrazione di una vicenda complessa a noi temporalmente vicina, essa sarà «parziale» nel duplice senso del termine: scarna e approssimativa (incompleta), ma anche proposta all’interno di un esplicito tentativo di interpretazione critica (di parte). 2.1. La prima fase: dal comportamentismo al cognitivismo
Il cognitivismo nasce come alternativa al comportamentismo: un paradigma centrato sullo studio del condizionamento ambientale che sin dall’inizio del novecento si era affermato come punto di riferimento per lo studio di mente e linguaggio. Ci soffermeremo su di esso per comprendere in quale panorama nasce quella che in seguito si chiamerà scienza cognitiva. Secondo il comportamentismo, per studiare scientificamente l’essere umano non è necessario né opportuno ricorrere a presunti meccanismi interni osservabili solo introspettivamente. Credere che per comprendere la nostra natura sia necessario postulare dei criteri di indagine diversi rispetto a quelli validi per lo studio di forme di vita piú semplici rappresenterebbe infatti il frutto di una superstizione. Burrhus Skinner nel suo necrologio dell’altro fondatore del comportamentismo, J.B. Watson, afferma: Nel momento stesso in cui Darwin stabilí la continuità della specie, attribuí processi mentali a organismi inferiori. In questo egli poté contare sull’appoggio fornito da una schiera di naturalisti aneddotici, che affermavano di aver riscontrato in cani, gatti, elefanti, ecc. esempi di ragionamento, di rapporto empatico e persino di godimento artistico. La reazione a questo approccio era inevitabile e trovò la sua espressione in Llyod Morgan, secondo il quale era possibile spiegare in modo diverso queste presunte manifestazioni dei processi mentali. Era quindi inevitabile che 22
si arrivasse a un terzo approccio e fu proprio Watson a iniziarlo: se i cosiddetti processi mentali degli organismi inferiori sono spiegabili in modo diverso perché non utilizzare queste spiegazioni anche nel caso dell’uomo? (Skinner, 1959, p. 603).
Nella prospettiva comportamentista esser darwinisti significa rendersi protagonisti di un rovesciamento: non piú attribuire il complesso (stati mentali) al semplice (forme di vita elementari) ma spiegare il primo riducendolo al secondo. Darwinismo diventa sinonimo di riduzionismo poiché si postula che è possibile ricondurre l’apprendimento a processi di condizionamento per rinforzo. Dato un certo stimolo filtrato dai sistemi percettivi dell’animale, il rinforzo è ciò che rende piú probabile una certa risposta a quello stimolo. Se a un topo quando spinge una certa leva diamo del cibo, rinforziamo la sua risposta con il risultato che questa tenderà a divenire stabile. Il topo imparerà cioè ad azionare quella leva secondo il seguente schema1: SD ‡ R ‡ Rinf.
Proprio perché basato sul concetto di condizionamento, il comportamentismo rappresenta una forma di evoluzionismo piuttosto particolare: tutta concentrata sulla pressione che l’ambiente esercita sull’organismo, essa tende a trascurare i caratteri innati, geneticamente trasmessi, delle forme di vita che apprendono. Skinner (1961a, p. 100), ad esempio, riconosce che è la genetica a rompere il circolo vizioso secondo il quale sopravvive ciò che si adatta all’ambiente e, allo stesso tempo, è adatto ciò che sopravvive. Ma secondo lo psicologo americano l’animale umano segna in tal senso un elemento di frattura e di discontinuità. Il nostro patrimonio biologico è considerato infatti solo la condizione base che permette il dispiegarsi dell’unico fattore realmente decisivo: il controllo del comportamento per mezzo di cultura, educazione e società. In altri termini, è importante esser dotati di un lascito genetico «normale» (Skinner, 1961a, p. 103) che consenta di superare le difficoltà che ci propone l’ambiente per mezzo dell’educazione. È per 23
questa ragione che al centro della concezione comportamentista della natura umana troviamo la nozione di programmazione. Riferimenti espliciti (Skinner, 1955, p. 61) all’umanesimo del sedicesimo e diciassettesimo secolo si affiancano al riconoscimento di Cartesio come precursore del concetto di riflesso (Skinner, 1931): l’idea di fondo è che la scienza non solo sia uno strumento di comprensione della realtà ma che, come già aveva intuito Bacone, essa costituisca il mezzo per controllare l’ambiente e predire gli accadimenti. Il paradigma comportamentista cerca di portare a compimento un’idea nata insieme alla scienza moderna: essere umani significa dominare la natura, la propria e quella circostante. Secondo Skinner, per l’animale umano il condizionamento è inevitabile: bisogna solo scegliere se provare a controllarlo, delegarlo ad altri (sistemi politici, economici, sociali) o lasciare che si svolga casualmente. L’essere umano alla nascita è completamente indeterminato ed è per questa ragione che è l’ambiente fisico e culturale a determinarne le capacità, le propensioni e le scelte. La proposta comportamentista assume un carattere globale: poiché è la scienza sperimentale a garantire l’unica forma razionale di scoperta e controllo del comportamento, non bisogna fuggire dal laboratorio inseguendo il mito dell’interiorità umana, della quotidianità o, viceversa, della riduzione dell’uomo a formule matematiche (Skinner, 1961b) quanto procedere nella direzione inversa. Invece di criticare l’esperimento scientifico per la sua rigidità è possibile trasformare l’intera realtà sociale in una sorta di «superesperimento» per scoprire e controllare le diverse variabili del nostro comportamento. «La libertà», sostiene coerentemente Skinner (1955, p. 66), «non è che un nome per definire un comportamento di cui non è stata ancora scoperta la causa». Riassumendo, possiamo dire che l’approccio comportamentista si basa su due presupposti: 1) L’essere umano è il suo corpo: una macchina da riflesso. Skinner individua in Cartesio il primo autore che prova a concepire ogni organismo vivente come un meccanismo che 24
reagisce a stimoli con movimenti appropriati. Il concetto di riflesso condizionato è il precipitato teorico di una parte del pensiero cartesiano dal quale è stata eliminata ogni affermazione metafisica e dualistica. Definire il corpo una macchina da riflesso non significa piú, come per Cartesio, contrapporre ad esso una res cogitans impalpabile e misteriosa, quanto individuare il principio fondamentale al quale ridurre vita, mente e comportamenti umani. 2) L’essere umano è una macchina che richiede una programmazione sociale. L’apprendimento consiste nella costruzione di riflessi, cioè di risposte stabili a stimoli determinati. Diversamente dalle altre forme di vita, i nostri comportamenti sociali non sono innati, cioè basati su istinti, ma quasi completamente appresi. La cultura, da intendersi in senso lato come trasmissione storica di abitudini e comportamenti, programma ogni individuo seppur con variazioni personali poiché, per definizione, nessuno può compiere le stesse esperienze degli altri. La varietà umana è quindi la varietà delle forme e degli esiti del condizionamento ambientale. Secondo il comportamentismo, è necessario che quest’ultimo sia regolato da una precisa programmazione sociale affinché l’essere umano possa realizzare la perfettibilità che lo contraddistinguerebbe. Per venire ora al cognitivismo, è convinzione diffusa seppur non unanime2 che luogo e data di nascita di quel movimento di ricerca oggi noto come «scienza cognitiva» sia «Massachusetts Institute of Technology 10-12 settembre 1956» in occasione del Symposium on Information Theory. Nei tre giorni del simposio, Noam Chomsky presenta una relazione su linguaggio e grammatica trasformazionale; Allen Newell e Herbert Simon descrivono la prima dimostrazione completa di un teorema mai eseguita da un computer; George A. Miller espone la sua tesi che la memoria a breve termine umana sia composta da un numero preciso e discreto di elementi. In altre parole si crea una convergenza, in parte voluta e in parte accidentale, tra indirizzi di ricerca che hanno come presupposto il supera25
mento del comportamentismo per mezzo dell’analogia tra mente e computer. Abbiamo esordito con una rapida esposizione del pensiero behaviorista perché il cognitivismo nasce in rigida contrapposizione al comportamentismo: non a caso si parla spesso di «rivoluzione cognitiva» poiché si tratta di una prospettiva funzionalista (Putnam, 1960) che si considera radicalmente diversa dalla precedente perché basata su una visione computazionale e rappresentazionale della mente umana. La mente è un software, un programma che può girare su computer diversi, cioè su strutture hardware differenti. Per questa ragione, a causa cioè dell’indipendenza della rappresentazione mentale dalla sostanza materiale che la realizza, per il cognitivista è necessario studiare la mente nel suo funzionamento (un elaboratore di informazioni) senza andare a guardare la struttura soggiacente, il modo nel quale queste elaborazioni sono fisicamente realizzate dal cervello. Ma al contrario di quanto possa apparire, il cognitivismo manifesta elementi di continuità con il behaviorismo. Quello che, come ricorda Luccio (1980, p. 232), in una prima fase prova a chiamarsi «comportamentismo soggettivo» vuole infatti mantenere il rigore scientifico del paradigma che lo ha preceduto. Se Skinner e Watson concentrano la loro attenzione sul carattere necessariamente osservabile del dato scientifico, il cognitivismo ne sottolinea un altro aspetto: la riproducibilità. Per questo paradigma il concetto di rappresentazione assume infatti un’importanza duplice: per un verso la rappresentazione diventa il cuore di una teoria esplicitamente mentalista poiché traccia il profilo di un essere umano che conosce il mondo per mezzo di pratiche di calcolo su stringhe simboliche. Per un altro la rappresentabilità diviene il nuovo canone, piú debole rispetto al precedente di ispirazione positivista, per definire la scientificità di una pratica di ricerca: lo studio scientifico dell’essere umano, cosí caro al comportamentismo, rimane cardine di una indagine che segue solo una direzione diversa. Ogni conoscenza è ora «scientifica» non quando tratta dati osservabili che riguardano il comportamento ma quando il suo risultato è riproducibile. L’analogia mente-computer nasce proprio 26
dal fatto che è il computer il miglior modello con il quale possiamo riprodurre la mente umana. Al modello comportamentista della mente come scatola nera, si sostituisce quello cognitivista per il quale conoscere la mente significa simularne le modalità di funzionamento: Stimolo
‡
variabili intervenienti
‡
Risposta
Input
‡
software che elabora info
‡
Output
Il cognitivismo segna certamente un brusco cambiamento di direzione rispetto alle teorie di Watson e Skinner poiché taglia fuori due fattori determinanti per la visione comportamentistica della natura umana: l’ambiente esterno delle stimolazioni (cultura, crescita, apprendimento) e l’analogia tra animale umano e forme di vita piú semplici. Nella ormai celebre recensione di Chomsky (1959) all’opera di Skinner Verbal Behaviour, ad esempio, emerge con nettezza la contrapposizione tra i due punti di vista. Il linguaggio non è riducibile all’apprendimento di una serie di risposte condizionate poiché si avvale di una struttura innata, di una grammatica universale ereditata biologicamente. Ogni essere umano nasce con un software molto generale ma al contempo rigidamente cablato (simile a un sistema operativo o, ancora meglio, a quello che nel gergo informatico è chiamato linguaggio macchina) che poi si realizza in ciascuna delle singole lingue storico-naturali. Per Chomsky, imparare a parlare non è qualcosa che il bambino fa, ma qualcosa che gli accade: un processo di maturazione che ha bisogno di attivazione esperenziale. L’ambiente ha quindi solo una funzione di innesco poiché è la chiave che, inserita nel quadro, accende un motore innato. La possibilità di parlare una lingua mette radicalmente in discussione il paradigma comportamentista perché per la sua varietà e complessità è una capacità che non può essere ridotta al con27
dizionamento per esperienze precedenti. Un aspetto essenziale delle lingue, infatti, la loro creatività, si fonda proprio sulla possibilità di produrre sequenze di suoni e significati mai sentiti prima. Con questa nozione non si intende, come sottolinea Chomsky (1988), la creatività artistica, produzioni eccezionali create da personalità straordinarie, ma la capacità quotidiana e comune di utilizzare in modo infinito, sempre nuovo, un numero finito di elementi (suoni, parole). Questa rigida contrapposizione non deve però trarre in inganno. Le diversità dell’approccio cognitivo rispetto a quello behaviorista costituiscono cambiamenti di direzione, anche bruschi, ma la strada percorsa per certi aspetti non presenta soluzioni di continuità. Per comprenderlo, proviamo a indicare i cardini della nozione di natura umana per l’approccio cognitivista: 1) L’essere umano è la sua mente: una sofisticata macchina da calcolo (il computer). Il punto di vista rispetto al comportamentismo è spostato mediante un ribaltamento solo apparente: Skinner si concentra sulla meccanica cartesiana del corpo, abolendo la mente; il cognitivismo elimina il primo, concentrandosi sulla seconda. Il punto di riferimento centrale di questa «rivoluzione» è però sempre lo stesso, Cartesio e il suo dualismo (cfr. Stancati, 2000b). La meccanica dei corpi proposta dal filosofo francese è ormai superata, afferma Chomsky (1967; 1988), ma rimane del tutto attuale la sua convinzione che sia la creatività il carattere distintivo e irriducibile di linguaggio e mente umana: il corpo rimane fattore ininfluente. 2) La mente umana è (paragonabile a) un programma, un software indipendente dal supporto che lo realizza (l’hardware). L’essere umano non è plasmato dagli stimoli ambientali poiché questi hanno la sola funzione di attivare strutture (facoltà del linguaggio, grammatica universale, ecc.) geneticamente determinate. I geni forniscono degli interruttori che l’esperienza si limita ad accendere (posizione on) o spegnere (posizione off). Il controllo sulla natura umana eserci28
tato dalle esperienze ambientali sul quale si concentra il comportamentismo non è cosí decisivo perché è preceduto in termini sia genetici che logici da forme di autocontrollo. L’universalità prestabilita di linguaggio e mente umana vanta infatti una forte autonomia rispetto al condizionamento esterno. Non abbiamo bisogno della programmazione sociale comportamentista perché, in realtà, l’essere umano è già programmato: è la nostra mente a funzionare come un programma. Il confronto tra le nozioni cardine, comportamentiste e cognitiviste, della natura umana mostra che quella funzionalista rappresenta una rivoluzione piuttosto strana che consiste semplicemente nel passaggio da una sponda all’altra di uno stesso fiume: la separazione tra res cogitans e res extensa, tra corpo e mente. A traghettarci da una riva all’altra è l’unica nozione che sopravvive a questo attraversamento: quella di macchina. Dall’essere umano come macchina corporea plastica e perfettibile si passa all’uomo come macchina mentale che si contraddistingue per l’infinitezza delle sue procedure di calcolo. Nel primo caso la mente sparisce ridotta a condizionamenti idraulici; nel secondo è il corpo a sparire perché considerato irrilevante. 2.2. La seconda fase: dal cognitivismo alle scienze cognitive
Verso la metà degli anni settanta comincia a emergere una sempre piú diffusa insofferenza verso alcune caratteristiche del modello cognitivista. L’entusiasmo per il paradigma computazionale della mente ha come effetto la diffusione di micromodelli di spiegazione del comportamento molto specifici e localizzati basati su esperimenti da laboratorio lontani dalla realtà quotidiana e privi di validità ecologica, cioè ambientale. Ulric Neisser è tra i critici piú lucidi dell’approccio cognitivista standard: La proliferazione di questi [quelli dell’approccio computazionale] metodi ingegnosi e scientificamente di tutto rispetto apparve in un primo 29
tempo (e per molti studiosi è ancora cosí) come un segno che la nuova psicologia cognitivista sarebbe riuscita a evitare le trappole in cui era caduta la vecchia psicologia. Un siffatto ottimismo può essere considerato prematuro. Lo studio dell’elaborazione dell’informazione è certamente dotato di impulso e di prestigio, ma non si è ancora impegnato a formulare concezioni della natura umana tali da applicarsi oltre i confini del laboratorio [...]. Non viene ancora fornita alcuna spiegazione di come gli uomini agiscono o interagiscono col mondo quotidiano (Neisser, 1976, p. 30).
Secondo la ricostruzione proposta da Gardner (1985, pp. 48 sgg.), la piú completa a nostra disposizione, l’iniziativa di una fondazione privata di New York, la Alfred P. Sloan Foundation, funzionò da catalizzatore per tentare il superamento di una situazione stretta da difficoltà e irrigidimenti. Il sovvenzionamento di programmi di ricerca interdisciplinari che cercassero non solo di ottenere risultati sperimentali ma anche di elaborare strategie di ricerca e vocabolari teorici comuni costituí l’elemento decisivo per la fondazione nel 1977 della rivista Cognitive Science, da molti considerata l’atto di nascita della scienza cognitiva. Maggiore respiro teorico della ricerca e decisa apertura interdisciplinare diventano i caratteri distintivi del nuovo approccio e i correttivi apportati alle rigidità del primo cognitivismo. Il cosiddetto esagono cognitivo ben rappresenta questo tentativo di rinnovazione (figura 1). Linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale, neuroscienze e psicologia costituiscono i sei lati di una figura geometrica che, secondo lo State of Art report del 1978, deve rilanciare il cognitivismo alla riscoperta di ambiente e differenze culturali. Il documento ebbe un’accoglienza contrastata tanto da non esser mai pubblicato. Nonostante ciò Gardner (1985, pp. 52-60) propone cinque tratti o «sintomi», come li chiama l’autore americano, per definire la scienza cognitiva: 1) Per lo studio della cognizione umana è legittimo, se non necessario, postulare un piano di ricerca costituito dalla rappresentazione (schemi, immagini, idee, ecc.), membro intermedio tra input ed output. 30
Figura 1. Le linee unite indicano le connessioni interdisciplinari forti, le linee tratteggiate quelle deboli. Fonte: Gardner, 1985
2) Per lo studio della cognizione rimane valida la metafora mente-computer. La mente è ancora considerata in primo luogo un elaboratore di informazioni. 3) Gli scienziati cognitivi ridimensionano il piú possibile il ruolo di emozioni, contesto, cultura e storia. Sono ancora viste come variabili che vanno ridotte a unità. 4) La ricerca deve esser compiuta in modo interdisciplinare senza la paura che le linee tra le diverse discipline si offuschino. 5) Questo rinnovato paradigma di ricerca riprende alcune delle questioni della filosofia classica. Non si abbandona allo studio di micromodelli da laboratorio ma cerca di dare piú ampio respiro alla propria ricerca. Aldilà del dettaglio storico, l’aspetto piú interessante di questa fase è proprio la sua portata teorica. Le voci piú critiche 31
dell’approccio cognitivista standard sottolineano che in gioco è «il concetto di natura umana che è, o dovrebbe essere, implicito nell’idea di attività cognitiva» (Neisser, 1976, p. 21). L’entusiasmo sperimentale sottolineato da Neisser aumenta il rischio di affermare una paradossale continuità con, propri acerrimi avversari, i comportamentisti. Il cognitivismo con la sua attenzione al microprocesso e alla simulazione finisce per seguire piú di ogni altro indirizzo contemporaneo il monito rivolto da Skinner (1961b) alla psicologia sperimentale di metà secolo: di non fuggire dalla ricerca di laboratorio alla ricerca, vana e illusoria, di lavorare sull’uomo «reale» o «della strada». L’approccio di Neisser (e di J.J. Gibson che lo influenza profondamente ma dal quale mantiene alcune differenze d’impostazione) si definisce «ecologico» proprio per sottolineare la necessità di un’apertura del paradigma cognitivista all’importanza non solo dei fattori sociali e culturali ma anche di quelli percettivi e corporei. Il rischio, come sottolinea ancora Neisser, è quello di perdere di vista l’obiettivo, di perdere per strada il senso stesso dell’impresa: Gli psicologi cognitivisti devono esaminare le implicazioni del loro lavoro relativamente a problemi piú fondamentali: la natura umana è troppo importante per lasciarla ai comportamentisti e agli psicoanalisti (Neisser, 1976, p. 32).
Uscire dal laboratorio significa rivedere la radicale separazione tra corpo e mente, rivalutare il ruolo della percezione e dell’ambiente per cominciare a comprendere in che senso l’essere umano non sia una macchina. 2.3. Gli ultimi quindici anni: nuova apertura o nuovo irrigidimento?
Il panorama che abbiamo rapidamente ricostruito sulla scia di quanto suggerito da Gardner (1985) è complesso e in un certo senso imbarazzante: per un verso la scienza cognitiva si presenta come un paradigma incerto, ancora alla ricerca del proprio statuto teorico; per un altro in questi ultimi decenni 32
essa si afferma come il paradigma di riflessione filosofica e scientifica internazionale piú prorompente. Bisogna sottolineare che quello fornito da Gardner non è solo un tentativo di ricostruzione storica ma anche una proposta teorica. Il testo è pieno di esortazioni a insistere sulla costruzione di una prospettiva piú aperta e multidisciplinare, cosí come manifesto è il tentativo di riassorbire all’interno della scienza cognitiva movimenti di ricerca che altri autori hanno da subito identificato come alternativi. L’approccio ecologico costituisce il caso piú eclatante di un simile tentativo. La proposta di Gardner è quella di mantenere questa eterodossia cognitivista all’interno del nuovo paradigma, di utilizzarla come elemento di apertura e propulsore per il ritorno al mondo esterno. Nei fatti però questa indicazione non è stata seguita, almeno nella maggior parte dei casi. Altre ricostruzioni storico-teoriche della vicenda cognitivista anni fa lo presagivano e ora si limitano a prenderne atto: sia Luccio (1980, 1981) che Mecacci (1992), ad esempio, individuano in Neisser e Gibson una strada alternativa alla scienza cognitiva la quale, secondo questa linea d’analisi, si presenta come la versione profondamente rinnovata di una ortodossia basata sull’analogia mente-computer. Questi ultimi quindici anni, per quanto sia difficile avere una visione complessiva di un periodo a noi cosí vicino, sembrano dare ragione ai due studiosi italiani piuttosto che agli auspici di Gardner. Ci troviamo di fronte infatti a una situazione imprevista e per questo motivo interessante: l’appello di Neisser a tornare a parlare della natura umana è stato accolto ma il problema è riemerso all’interno di una versione ortodossa del cognitivismo che ha recepito solo in parte le istanze che costituivano il cardine del documento SOAP e delle eresie ecologiche. In questi ultimi quindici anni abbiamo assistito a un implicito e deciso irrigidimento del paradigma cognitivo rispetto alle proposte emerse alle metà degli anni settanta. Se scorriamo le introduzioni al pensiero cognitivo piú recenti e diffuse, è possibile notare facilmente infatti due divergenze fondamentali che riguardano l’esagono cognitivo e l’eterodossia ecologica. 33
Tuttora la scienza cognitiva si presenta come un paradigma interdisciplinare che fa del rapporto tra diversi ambiti di ricerca uno dei suoi massimi punti di forza. Il carattere interdisciplinare ha assunto una posizione cosí centrale da spingere Marconi a porre il problema di fare una scelta tra l’espressione al singolare «scienza cognitiva» e quella al plurale «scienze cognitive»: Si sente parlare a volte di «scienze cognitive», al plurale; le scienze cognitive sarebbero la psicologia, l’informatica, le neuroscienze, la linguistica, la filosofia in quanto cooperano agli stessi fini [...]. Insomma è meglio parlare di scienza cognitiva – al singolare – come dello studio dei processi cognitivi; uno studio che, come del resto fa ogni scienza, si avvale dei contributi di volta in volta ritenuti utili (Marconi, 2001, pp. 12-13).
Tabossi (1994, pp. 17-18) apre la sua bella introduzione con un esempio, riguardante le parole che nelle diverse culture indicano i vari colori, che si prefigge esplicitamente di mostrare l’importanza di un approccio integrato multidisciplinare. Il paragrafo è preceduto dalla riproduzione dell’esagono cognitivo:
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Ma queste dichiarazioni favorevoli ad accogliere le critiche che spingono verso un approccio piú multidisciplinare ed ecologico sono solo apparenti. Guardando la figura, ad esempio, è facile accorgersi che manca qualcosa. Un angolo dell’esagono è scoperto e un rapido confronto con quello originale citato da Gardner ci mostra l’anello mancante: l’antropologia. A ben guardare questa disciplina manca anche nell’elenco fatto da Marconi poche righe piú su. Si tratta di una semplice omissione? Non proprio. Quello che per Gardner costituiva il «limite superiore» delle scienze cognitive, punto d’apertura verso ambiente e società, è divenuto un riferimento a volte polemico, spesso sfocato, quasi sempre ambivalente. Thagard (1996) costituisce un buon esempio di una simile oscillazione: nell’introduzione annovera l’antropologia tra le scienze cognitive, senza parlarne mai in seguito. Riemerge solo alla fine del testo quando gli studi antropologici vengono presentati tra quelli che pongono delle sfide radicali al paradigma cognitivo (pp. 156 sgg.): nel giro di un centinaio di pagine l’alleato è divenuto nemico! Piú duro è invece l’atteggiamento di altri, come ad esempio Pinker (1994). I suoi riferimenti all’antropologia sono frequenti ma utilizzati sempre in negativo. Secondo la sua ricostruzione dei risultati di questo campo di indagine sembra si diano solo due possibilità (ma in realtà è una sola): o l’antropologia sbaglia poiché riscontra differenze culturali là dove in realtà non ce ne sono; oppure coglie nel segno quando mostra che differenze affermate in precedenza erano state clamorosamente esagerate. L’antropologia sarebbe una scienza che può aver successo, quindi, solo là dove afferma la propria autodistruzione. Un atteggiamento piú coerente è adottato invece da quel che possiamo considerare un documento interessante poiché rappresenta, almeno parzialmente, lo status di questo paradigma nell’Europa continentale (in particolar modo in Francia): il Dizionario di scienze cognitive. Questo testo infatti (Houdé et al., 1998) elimina senza oscillazioni l’antropologia dal paradigma cognitivo dimostrando che l’esagono cognitivo si è ridotto ormai a un pentagono e che le differenze culturali rimangono, 35
nella scia delle forme piú primitive e ortodosse di cognitivismo, oscillazioni da normalizzare. Scorrendo i testi citati finora, scopriamo che il fronte ecologico della ricerca cognitiva riceve un trattamento molto simile a quello riservato all’esagono: Thagard (1994, p. 151) cita Gibson in una sola occasione mettendolo tra i critici, proprio accanto agli antropologi; Pinker (1994) non menziona mai né Neisser né Gibson; Marconi (2001) e Tabossi (1994) si riferiscono solo al primo prendendo in esame un testo ancora in linea con l’ortodossia cognitivista (si tratta di Cognitive Psychology del 1967); Johnson-Laird (1993) sembra conciliare l’impostazione di Gibson con quella computazionalista con il risultato però di trasformare la prima nella seconda. Come vedremo meglio nel paragrafo 4.2, l’approccio dominante allo studio della percezione è infatti ancora quello computazionale: percepire l’ambiente significa mettere in moto procedure algoritmiche che consentano di calcolare la distanza di un oggetto, la sua forma, ecc. L’apertura all’ambiente percettivo proposta da Neisser non è ancora riuscita ad affermarsi3.
3. La via cognitiva alla natura umana: un vicolo cieco Sulla base di questa breve digressione storico-teorica possiamo ora tornare al punto di partenza e comprendere piú nel dettaglio perché la scienza cognitiva si trovi di fronte a una situazione paradossale: per un verso, infatti, questo paradigma deve affrontare il problema costituito dalla natura umana, per un altro si trova nella condizione di non poter rispondere a questo interrogativo. Partiamo dal primo punto: la scienza cognitiva non può accantonare la questione della natura umana. Come abbiamo visto nel paragrafo 2.1, un tentativo di evitare il problema è stato compiuto, nella prima fase cognitivista. Limitare la ricerca a modelli dell’attività umana parziali e di laboratorio ha costituito la risposta ambivalente del cognitivismo allo strapotere del paradigma comportamentista. Se è vero, come afferma Marco36
ni (2001, pp. 128-129), che il behaviorismo ha dissolto il problema della natura umana schiacciando il portato biologico che caratterizza la nostra specie sotto il peso del condizionamento ambientale, è anche vero che Watson e Skinner avevano fornito una panoramica generale e pervasiva dell’essere umano (fin troppo, magari) tanto da svilupparne esplicitamente le conseguenze politiche, culturali, pedagogiche e sociali. Da questo punto di vista il cognitivismo assume una valenza piú reattiva che rivoluzionaria: la fuga da una teoria che aspira a risolvere insieme problemi filosofici e sociali sfocia nella modellizzazione analitica e parziale di singole attività umane. Come abbiamo visto, il momento piú fertile del pensiero cognitivista è individuabile nella sua seconda fase: ed è allora (e non ora, come Pinker e Marconi danno a intendere) che emerge il tema della natura umana in tutta la sua problematicità. A metà degli anni settanta il problema dello statuto della ricerca cognitiva si intreccia indissolubilmente con la questione del suo respiro teorico. A forza di restringere il campo di indagine, la ricerca finisce con avere meno ossigeno e mostra di avere il fiato corto. In questi ultimi quindici anni, il problema della natura umana è stato ripreso ma viene affrontato con strumenti diversi rispetto a quelli auspicati da chi aveva posto originariamente il problema (Neisser, Gibson e lo stesso Gardner). È proprio la ripresa in termini ortodossi di una questione posta da chi aveva proposto una profonda ristrutturazione basata sull’apertura alla dimensione storico-sociale e percettivocorporea dell’agire umano che pone il paradigma cognitivo di fronte alle difficoltà rappresentate da ciò che nel paragrafo 1 abbiamo chiamato il «problema dell’hangar». Come abbiamo visto, in risposta allo strapotere accordato dal comportamentismo al condizionamento ambientale nasce un modello nuovo che cerca di cogliere le caratteristiche della conoscenza facendo astrazione da questi fattori. Si costruisce un hangar che mette al riparo la cognizione umana dalle oscillazioni imposte da cultura e società: il parlante ideale di Chomsky, le ricerche di laboratorio sulle capacità di memorizzazione dell’informazione, le simulazioni della nascente intelligenza ar37
tificiale ne costituiscono il paradigmatico esempio. In un secondo momento emerge però il problema di rendere plausibile questo modello: di estenderlo, di effettuare una definitiva emancipazione dal comportamentismo fuggendo dal laboratorio verso non solo «l’uomo interno», come lo definiva Skinner (1961b), ma anche verso l’uomo reale, i comportamenti e le esperienze quotidiane. Da qui la necessità di una svolta: o cambiare modello e uscire dall’hangar verso un approccio piú rivolto alle differenze culturali (l’antropologia nell’esagono cognitivo) e all’importanza di percezione e ambiente (l’approccio ecologico di Neisser e Gibson) oppure provare ad ampliare l’hangar tanto da comprendere quello che ne era rimasto fuori. Nella maggior parte dei casi, come abbiamo visto, la scelta è caduta su questa seconda opzione: quella dell’ampliamento. Tratteremo allora tre varianti di questa estensione, tre possibili soluzioni cognitive al problema della natura umana: quella di McDowell che, pur non essendo uno scienziato cognitivo, ha contribuito a riproporre il tema; quella di Pinker che prova a integrare evoluzionismo e scienza cognitiva; e in ultimo la recente proposta di Marconi di passare dallo studio della mente come software a quello del cervello come hardware. Considereremo queste proposte una per volta cercando di dimostrare che si tratta di tre modi diversi di imboccare la stessa strada o, per essere piú precisi, lo stesso vicolo cieco. Perché ogni volta nell’hangar le nuvole torneranno ad addensarsi. 3.1. McDowell: due nature
Come accennavamo McDowell non è quello che potremmo definire uno scienziato o un filosofo cognitivo. Al contrario è uno studioso che si muove all’interno di un panorama diverso, vicino alla filosofia analitica. Le sue citazioni non riguardano Chomsky, Fodor o Pinker quanto Sellars, Brandom e Kant. Ma già il titolo del suo testo piú importante, Mente e mondo, suggerisce perché la sua posizione filosofica abbia destato l’interesse nell’ambito della scienza cognitiva. 38
La relazione tra il mondo delle cause e della natura biologica con quello delle ragioni e dello spazio linguistico-culturale costituisce il punctum dolens del cognitivismo contemporaneo: il modello di McDowell consente di focalizzare meglio la questione e di elaborare opportune strategie di risposta. L’autore americano propone di trovare una terza via tra due estremi. Il primo, che identifica con quello che chiama «mito del dato», tende a risolvere il problema del rapporto tra mente e mondo riconducendo le ragioni della nostra condotta e le forme del nostro linguaggio a cause materiali e/o biologiche. Il secondo, definito «platonismo sfrenato», propone un percorso opposto che afferma la radicale eterogeneità tra mente, cultura e linguaggio da un lato e materia, biologia e natura dall’altro. Il punto sul quale si concentra McDowell è come uscire dalla dicotomia tra sensibilità, ricettività e necessità tipica del regno delle cause (mondo naturale) e la spontaneità, la libertà propria del mondo delle ragioni (cultura e linguaggio). La contrapposizione tra i due approcci proposta da McDowell è utile perché, forzando un po’ la mano, può esser riadattata ai fini del nostro discorso: Mito del dato Comportamentismo
Platonismo sfrenato Cognitivismo ortodosso
ricettività (modello S/R) spontaneità (TCM) passività (condizionamento) creatività (linguaggio) necessità delle cause (determinismo) libertà dalle cause (funzionalismo)
L’esasperata attenzione sulla osservabilità del dato scientifico, sulla possibilità di condizionamento dell’animale umano tramite forme di rinforzo fanno del comportamentismo un buon rappresentante della prima forma d’estremismo. L’elemento che può sembrare dissonante è quello che riguarda il ruolo svolto dalla conformazione fisica, biologica e naturale della nostra specie. Come abbiamo visto infatti, da un lato il behaviorismo si professa come il vero prosecutore dell’idea darwiniana di evoluzione; dall’altro questa affermazione si ri39
solve nella dissoluzione della natura umana nella pura condizionabilità stimolo-risposta. La necessità naturale della quale parlano i comportamentisti non è allora quella degli istinti, che presupporrebbe una componente piú attiva di tipo pulsionale, ma è la necessità indotta dall’ambiente circostante in un essere, quello umano, che si distingue per la sua estrema passività. Il cognitivismo piú rigido sembra ben incarnare a propria volta la seconda delle due opzioni: la teoria computazionale della mente insiste sulla spontaneità di calcolo insita in ogni operazione conoscitiva dalla percezione alla dimostrazione di teoremi; la creatività costitutiva dell’attività linguistica (usare mezzi finiti in modo infinito, secondo lo slogan chomskyano) sottolinea la produttività di un sistema non passivo; e infine l’indipendenza di una macchina mentale dal supporto che lo realizza, idea cardine del funzionalismo, sottolinea proprio la libertà del mondo linguistico delle ragioni (software) da quello fisico delle cause (hardware). Vista in questi termini la risposta che McDowell tenta di fornirci appare ancora piú appetibile perché può indicarci, seppur in modo implicito, la strada per sfuggire all’impasse in cui si dibatte la scienza cognitiva. Qual è allora questa terza via? Il filosofo americano propone un tema importante che sarà uno dei concetti cardine di questo libro: quello della distinzione tra prima e seconda natura. Allo stesso tempo, però, vanifica questa idea poiché, proponendo quel che chiama «platonismo naturalizzato», la imbriglia all’interno di un impianto circolare. Per rimarginare la cesura esistente tra mente e mondo McDowell segue due strategie di fondo. La prima, a suo parere, combatte la tentazione di isolare ciò che avremmo in comune con gli animali, la percezione:
Secondo McDowell infatti anche l’esperienza percettiva è concettuale. Per questo motivo la nostra sensibilità non è meramente passiva poiché gode dell’attività propria della ragione o meglio, come esplicita nell’ultimo capitolo del suo libro, del linguaggio. Sarebbe la pervasività dei concetti a colmare il divario tra regno delle cause e mondo delle ragioni. Ed è per questo motivo che, secondo McDowell, lo spazio delle ragioni non è del tutto indipendente da ciò che è puramente umano: si tratta di una autonomia che non deriva dal mondo delle cause né le riflette ma allo stesso tempo non ne è del tutto distaccato (ivi, p. 98). La nozione di seconda natura costituisce il passaggio successivo della sua argomentazione: per il filosofo americano essa esprime la possibilità di apprendere abitudini di pensiero e azione, di una formazione culturale (ciò che nella filosofia tedesca è noto come Bildung), dello sviluppo del linguaggio verbale (ivi, pp. 90-91). La seconda natura consiste nella realizzazione di potenzialità innate della specie umana: come tale non introduce alcuna componente extranaturale o non animale nella nostra costituzione (ivi, p. 94). Le argomentazioni di McDowell sono però lacunose o, ben che vada, peccano di circolarità. Il filosofo americano afferma in sostanza che abbiamo il linguaggio perché godiamo di una seconda natura e che godiamo di una seconda natura poiché possiamo apprendere un linguaggio. Ma come mai la nostra specie può apprenderlo e le altre no? E se le capacità concettuali sono cosí determinanti tanto da permeare ognuna delle «nostre azioni corporee intenzionali» (ivi, p. 96), cosa ci salvaguarda dal relativismo linguistico? Lingue diverse hanno concetti diversi. Di conseguenza potrebbero portarci a percepire il mondo ognuna a loro modo. Qual è poi la connessione tra prima e seconda natura? A tal proposito McDowell afferma esplicitamente:
Possiamo invece asserire di avere ciò che hanno i semplici animali, una sensibilità percettiva a certe caratteristiche del nostro ambiente, ma di averlo in una forma particolare. La nostra sensibilità percettiva all’ambiente è assorbita nell’ambito della facoltà della spontaneità, e questo è ciò che ci distingue da loro (McDowell, 1996, p. 69).
La necessità di una storia evolutiva non deve apparire troppo importante. [...] La riflessione sulla Bildung di un singolo essere umano dovrebbe bastare a distinguere il platonismo naturalizzato che ho proposto dal platonismo sfrenato (ivi, p. 134).
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In questo modo però gli interrogativi che abbiamo posto rimangono senza risposta. Con buona pace di McDowell, la Bildung di per sé non basta. Del platonismo sfrenato secondo la dicitura del filosofo americano, o del cognitivismo ortodosso se riprendiamo il filo del nostro discorso, Mente e mondo sembra mantenere in fin dei conti tutte le caratteristiche fondamentali tra le quali il carattere linguistico della percezione. La nozione di seconda natura non è in grado di superare di per sé il funzionalismo poiché non spiega in che modo le funzioni del linguaggio siano legate alla struttura corporea che caratterizza la nostra specie. McDowell individua in Donald Davidson il tipico esponente di uno dei due estremismi che vuol evitare, quello di un platonismo sfrenato fondato su una nozione coerentista di verità: per verificare se un enunciato è vero o falso non possiamo confrontarlo infatti con qualcosa che è esterno al linguaggio ma valutarne la coerenza ponendolo a raffronto con altre proposizioni. L’idea di Davidson è che non possiamo uscire dalle nostre credenze cosí come non possiamo uscire «dalla nostra pelle» (ivi, p. 17). Ma la posizione di McDowell non sembra portare a conclusioni tanto diverse: il linguaggio verbale pervade percezione e pensiero tanto che per entrambi gli autori è impossibile attribuire ad animali non umani capacità di pensiero. Non a caso tutti e due arrivano alla medesima conclusione: l’essere umano, come afferma l’ultimo capitolo di Mente e mondo cosí come un noto articolo di Davidson (1985), è un «animale razionale». 3.2. Pinker: la seconda natura è ridotta alla prima
Anche Pinker propone il suo pensiero come terza via che si insinui in una forbice troppo stretta. Nella sua rappresentazione del problema della natura umana egli segna una drastica contrapposizione: quella tra il cosiddetto «Modello Standard delle Scienze Sociali» (MSSS) del quale farebbero parte il comportamentismo e buona parte dell’antropologia e il «determinismo biologico» secondo il quale le capacità di scelta, di ap42
prendimento e di realizzazione degli esseri umani devono esser ricondotte all’azione dei loro geni. Rimproverando alla teoria comportamentista di non considerare l’importanza della struttura biologica della nostra specie, Pinker (1994) propone una forma di cognitivismo che dovrebbe essere piú aperta e costituire la realizzazione del sogno formulato nel documento SOAP, una scienza cognitiva che annoveri in sé antropologia e ambiente, evoluzione e fattori biologici. È quella che Jerry Fodor (2001) in un suo recente libro chiama la «Nuova Sintesi»: il tentativo di unire la prospettiva evoluzionista alla teoria linguistica di Chomsky e alla teoria rappresentazionale della mente. Se torniamo allo schema del paragrafo precedente possiamo constatare che la Nuova Sintesi concorda infatti con le prime due convinzioni base del platonismo sfrenato e del cognitivismo ortodosso (TCM come spontaneità e linguaggio come forma creativa) mentre rifiuta la terza: la libertà del regno delle ragioni è ora meno forte poiché è ridimensionata la refrattarietà all’evoluzionismo espressa da McDowell e dal funzionalismo piú in generale. Il tentativo di soluzione intrapreso da Pinker segue, in tutto e per tutto, la strategia di «ingrandimento dell’hangar» che abbiamo descritto nel paragrafo 1: lo studioso americano ha prima scelto alcune nozioni chiave per il cognitivismo contemporaneo (riscontrabili in Fodor e Chomsky) e poi le ha estese per mezzo di una loro lettura in senso evoluzionistico. Vediamo in breve procedimenti ed esiti di questo ampliamento. Dal pensiero di Fodor, Pinker estrae ed esalta due ipotesi teoriche fondamentali: il linguaggio del pensiero (LDP) e la modularità della mente. La prima idea afferma che le diverse lingue parlate del mondo costituiscono varianti superficiali, differenti variazioni fisico-fonetiche di un unico supercodice mentale, il cosiddetto «linguaggio del pensiero» o «mentalese» ovvero un sostrato interno computazionale (una specie di linguaggio macchina) che non assomiglia a nessuna lingua specifica. Ciò spiegherebbe secondo Fodor (e Pinker) perché è possibile comprendersi nonostante le differenze linguistiche e culturali tra i vari popoli o individui e perché sia logicamente rea43
lizzabile la traducibilità da un idioma all’altro: sarebbe il mentalese a evitare l’ambiguità, la sinonimia e la mancanza di precisione logica che affliggerebbero le lingue storico-naturali. Da questa ipotesi Pinker (1994, p. 424) deduce che non parlare la stessa lingua è una differenza superficiale, come la differenza del colore della pelle: come l’interno del nostro corpo è uguale in ciascuno di noi, cosí la struttura mentale del pensiero sarebbe identica al di là delle diversità che sussistono tra il francese e l’arabo. La seconda tesi riprende e amplia un’idea esposta per la prima volta da Fodor nel 1983 nel testo La mente modulare. L’ipotesi di fondo è che la mente sia suddivisa in entità separate, i moduli, caratterizzati da almeno sei proprietà cognitive: 1. I moduli sono informazionalmente incapsulati, cioè insensibili al contesto e ai processi generali di inferenza propri dei cosiddetti «sistemi centrali» ai quali sono dedicati i processi di ragionamento olistici e sensibili alle varietà ambientali. 2. Le rappresentazioni computate dai moduli permettono un accesso limitato al sistema di elaborazione centrale. 3. I moduli hanno un dominio specifico, cioè un campo d’azione ben definito. 4. Per questa ragione i moduli possono processare l’informazione ad alta velocità. 5. La loro azione è inoltre obbligata: l’input innesca una risposta rigida. 6. Ad ogni modulo, infine, corrisponde una precisa struttura neuronale responsabile del suo funzionamento, cosí come di deficit in caso di danneggiamento. Un esempio di prestazione cognitiva di tipo modulare è fornita dalle illusioni ottiche. L’illusione di Müller-Lyer, ad esempio (ivi, p. 109), mostra queste caratteristiche:
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Questa illusione (come molte altre: cfr. cap. III, paragrafo 2) esercita il suo effetto a prescindere dalle circostanze nelle quali lo stimolo è presentato (caratteristica modulare 1): anche se sappiamo che i due segmenti sono oggettivamente uguali uno continua a sembrarci piú grande dell’altro (2) poiché ha una presa cognitiva istantanea (4) ed è limitata a quella configurazione di linee e non ad altre. L’illusione ha inoltre un campo d’azione molto specifico (3) e costituisce una prestazione cognitiva obbligata perché anche se non vogliamo rimanere soggetti all’illusione non possiamo farne a meno (5). Infine è possibile trovare un’area della corteccia visiva responsabile di questo fenomeno (6). Pinker estende l’idea fodoriana di modulo: rileggendola in termini piú spiccatamente biologici, la paragona a un organo o un istinto. Seguendo con coerenza l’impostazione teorica chomskyana, Pinker si propone di affrontare «lo studio della mente umana in modo analogo allo studio della struttura fisica del corpo» (Chomsky, 1980, p. 37) concependo la lingua verbale come un organo modulare. Una simile integrazione teorica inserisce però una concezione non solo biologica ma anche evoluzionistica della natura umana, elemento questo che è rimasto escluso dall’impostazione proposta da Chomsky (almeno fino a poco tempo fa: cfr. cap. IV, par. 4). L’esito di questo correttivo è ambivalente poiché per un verso propone una formulazione teorica che rimane opposta rispetto a quella comportamentista, per un altro reintroduce un elemento di somiglianza tra le due impostazioni: sebbene in modi diversi, infatti, entrambe le posizioni finiscono col ridurre la seconda natura alla prima. I comportamentisti, lo abbiamo visto, insistono su un riduzionismo che privilegi le capacità di condizionamento dell’esperienza. Pinker aderisce all’estremo opposto poiché privilegia la trasmissione genetica dei tratti ereditari mettendo in secondo piano le forze ambientali. Ci troviamo di fronte a una specularità interessante poiché tradisce, anche nella cosiddetta Nuova Sintesi, il carattere reattivo piú che rivoluzionario del paradigma cognitivo. Per Skinner il patrimonio genetico è semplicemente una porta d’accesso al condizionamento: l’organismo deve essere 45
morfologicamente sano affinché possa subire un’opportuna programmazione stimolativa. Per Pinker è esattamente l’opposto: è l’esperienza a costituire un semplice elemento scatenante che consente l’espressione del patrimonio genetico di un organismo. È per questa ragione che il linguaggio viene paragonato alla proboscide dell’elefante: si tratta di un organo evolutivamente nuovo rispetto alle altre specie che per maturare ha bisogno di certe esperienze che attivino i geni responsabili del suo sviluppo. Per Pinker ciò che distingue l’animale umano dalle altre forme di vita è il fatto che l’essere umano ha piú moduli, cioè piú istinti. La flessibilità umana deriva da una esuberanza istintuale della quale il linguaggio costituirebbe la manifestazione suprema. Questa posizione però crea dei problemi proprio perché, in primo luogo, il linguaggio non è, né può essere descritto come, un istinto. Il linguaggio è, infatti, per definizione non modulare. Come sottolinea lo stesso Fodor (2001)4, i processi linguistici non sono limitati a un dominio, non sono incapsulati informazionalmente, né sono insensibili al contesto: è proprio questa assenza di limitazioni che fa del linguaggio verbale non solo il codice contestuale per eccellenza ma anche la piú potente forma semiotica mai apparsa sul pianeta terra. Se dico ad esempio «che caldo che fa in questa stanza!», la frase avrà significati diversi a seconda delle diverse circostanze nella quale essa verrà pronunciata: se il riscaldamento è rotto e nella stanza la temperatura è pari a tre gradi centigradi, probabilmente la mia asserzione sarà ironica e con essa vorrò esprimere esattamente il contrario del suo significato apparente (che fa freddo e non caldo in questa stanza). Se invece è estate e non c’è neanche un ventilatore, il senso della frase probabilmente sarà quello letterale. Ma è possibile pensare anche a situazioni diverse nelle quali dire che fa caldo nella stanza non significa voler descrivere uno stato di cose quanto invece dare un ordine in modo velato e indiretto: dico questa frase perché desidero che qualcuno vada ad aprire la finestra, a spegnere il riscaldamento o ad accendere il ventilatore. 46
Ma Pinker non sembra curarsi di queste difficoltà perché per lui l’essere umano si distingue dal resto del regno animale per differenze biologiche di tipo meramente quantitativo: la nostra è una specie piú capace di adattamento perché ha piú istinti. In questo modo, però, ci ritroviamo all’interno di una situazione ancor piú paradossale. Da un lato lo studioso americano paragona espressamente la diversità delle lingue a diversità tra specie: L’inglese è simile, anche se non identico, al tedesco per la stessa ragione per cui le volpi sono simili, anche se non identiche, ai lupi: l’inglese e il tedesco sono modificazioni di una comune lingua antenata parlata nel passato, e le volpi e i lupi sono modificazioni di una comune specie antenata che visse nel passato (Pinker, 1994, pp. 232-233).
Dall’altro, come abbiamo visto, Pinker conclude il proprio testo ribadendo che le differenze tra idiomi rappresentano solo diversità di rivestimento superficiale di un’unica struttura computazionale: il mentalese. Delle due l’una: o le lingue hanno modalità di differenziazione ed evoluzione simile a quella seguita dai corpi animali oppure queste seguono principi diversi. Nel primo caso non si capisce come questa strategia possa salvarci dal relativismo culturale poiché la diversità che separa tedeschi e inglesi dovrebbe poter comportare differenze tanto marcate quanto quelle che separano lupi e volpi, due diverse forme di vita. Se scegliamo la seconda opzione, è necessario abbandonare la riduzione del linguaggio a istinto e l’idea base della psicologia evoluzionista che la cultura segua criteri darwiniani di selezione e sviluppo. Non solo. La Nuova Sintesi deve fare i conti con un altro problema legato all’ipotesi del linguaggio del pensiero. Come abbiamo accennato, secondo Pinker sarebbe il mentalese, oltre alla modularità massiva (ovvero alla visione dell’essere umano come animale ultraistintuale), a costituire l’antidoto al relativismo culturale poiché garantirebbe il sostrato innato e universale della razionalità umana. Tutti gli studi antropologici citati dallo studioso americano sono volti a dimostrare che in fondo tra le varie culture 47
non sussistono grandi differenze, soprattutto nell’applicazione delle categorie logiche e classificatorie. Soffermiamoci su due di queste caratteristiche: 1. Le classificazioni popolari sono rigidamente gerarchiche. Nessun popolo afferma, ad esempio, che un animale può essere contemporaneamente pesce ed uccello (ivi, p. 417). 2. Il concetto di sé costituisce un modulo innato ed è quindi universale (ivi, p. 414). Mentalese (primo caso) e moduli (il secondo) sarebbero i garanti della nostra razionalità e della possibilità che culture diverse si comprendano tra loro: questo il quadro. Esistono però popolazioni per le quali un essere animato può appartenere contemporaneamente a due classi tra loro diversissime poiché hanno un concetto di «sé» molto diverso dal nostro. Facciamo un paio di esempi che dimostrino queste difficoltà. Come riferiscono Lévy-Bruhl (1910, pp. 104-105) e Vygotsky (1934, p. 173), una tribú del Brasile del nord, i Bororò, si vanta del fatto che i membri del proprio popolo siano appartenenti a una particolare specie di pappagalli: le are rosse (la stessa che abbiamo utilizzato nel paragrafo 1 come esempio del problema figura-sfondo). Questa popolazione, credendo di appartenere contemporaneamente a due classi tanto diverse, dimostra che la rigida gerarchia postulata al punto 1 e la costanza del concetto di sé del punto 2 devono essere profondamente rivisti. In molte popolazioni primitive, infatti, il criterio dell’identità personale è profondamente diverso, meno forte e piú diffuso rispetto a quello che esiste nelle società occidentali. Altrove abbiamo cercato di spiegare piú diffusamente (Mazzeo, 2002a) che il principio di individuazione, il senso cioè di una identità personale, è per l’animale umano una conquista e non un dato di fatto. Solo in questo modo è possibile comprendere, ad esempio, fenomeni come la cosiddetta couvade (covata) che altrimenti rimarrebbero inspiegabili o frutto di semplici superstizioni (spiegazione tipica dell’antropologia positivista di inizio secolo): in diverse popolazioni primitive, 48
quando una donna ha raggiunto il momento del parto, si prescrive di stare a riposo, di mettersi sdraiati e di seguire una dieta particolare. Il punto interessante è che queste prescrizioni non devono essere seguite solo dalla donna ma anche dal marito. Si crede infatti che il comportamento dell’uomo sarà determinante per la nascita del figlio: poiché il bambino è stato concepito da entrambi ed entrambi lo faranno crescere, anche il parto è considerato un momento collettivo che riguarda, allo stesso modo, tutti e due gli elementi della coppia (cfr. LévyBruhl, 1910; Odier, 1966). Affidare l’individuazione a un modulo dedicato conferisce all’identità umana una rigidità che non le è propria poiché le sottrae quella variabilità che ne costituisce uno degli elementi distintivi. Per un verso il modulo del sé obbliga la presenza di un ego distinto e definito a membri di comunità che non sembrano averne. Per un altro la monoliticità del modulo non rende conto della varietà che caratterizza il genere umano: Perché gli esseri umani devono essere considerati piú singolari degli elefanti, dei pinguini, dei castori, dei cammelli, dei serpenti a sonagli, degli uccelli parlanti, delle murene che danno la scossa elettrica, degli insetti che si mimetizzano sulle foglie, delle sequoie giganti, delle mantidi religiose, dei pipistrelli o dei pesci di profondità che hanno una lanterna fluorescente sulla testa? (Pinker, 1994, p. 362).
Al contrario di quanto afferma Pinker, infatti, gli esseri umani sono piú singolari delle altre specie per un motivo duplice. In primo luogo le potenzialità della nostra specie non sono proprio quelle dei lombrichi o delle foche: questo è dimostrato dal fatto, inquietante ma semplice, che siamo l’unica forma di vita che corre il serio rischio di distruggere non solo il suo specifico ambiente ma la terra nella sua interezza (cfr. ad es. Eldredge, 1998. Analizzeremo meglio la distinzione ambiente-mondo nel prossimo capitolo). In secondo luogo siamo piú singolari non solo poiché ci distinguiamo dalle altre forme di vita ma perché rispetto alle altre abbiamo maggiori distinzioni al nostro interno. È difficilmente discutibile che due volpi qualsiasi differiscano tra loro meno di due animali umani. Le differenze, po49
niamo, tra Adolf Hitler e Martin Luther King non riguardano solo tratti morfologici e corporei (colore della pelle, altezza, peso, ecc.) paragonabili alle distinzioni che sussistono tra le varietà di manto o taglia all’interno di una specie di canidi ma anche e soprattutto la varietà dei comportamenti e delle credenze, delle abitudini e delle modalità d’espressione: la famosa seconda natura di cui parla McDowell. Sul piano della singolarità, cioè di quello che la filosofia classica chiama il «principio di individuazione», la seconda natura non ha quindi una presa meramente aggiuntiva o solamente secondaria, poiché cambia radicalmente il concetto stesso di individualità: la diversità e la portata degli effetti del comportamento di Hitler e King lo dimostrano drammaticamente. La posizione di Pinker ripropone una visione razionalista della natura umana particolarmente disarmonica poiché non riesce ad amalgamare due elementi condannati a rimanere giustapposti. Si sostiene che il corpo dell’essere umano non costituisce nel suo complesso condizione di possibilità per la nascita del linguaggio (è in questo senso, un corpo anonimo, confuso nelle varietà del regno animale) poiché il discrimine fondamentale è affidato a un criterio quantitativo, la maggiore modularità, che culmina in un organo specifico, il linguaggio. Per Pinker l’essere umano è un animale razionale nel senso che è un animale ed è razionale. Vive diviso nella sommatoria di due elementi tra loro separati: un organo umano (il linguaggio) in un corpo animale. Ma qual è il rapporto tra questi due elementi? Cosa costituisce condizione di possibilità per il verificarsi dello sviluppo del linguaggio? Perché non siamo noi ad avere la proboscide e non sono gli elefanti a poter parlare? Questo Pinker proprio non lo dice. 3.3. Marconi: la soluzione è il cervello
In un libro recente, Diego Marconi ha rivendicato con chiarezza l’importanza del ruolo della scienza cognitiva per la rivalutazione del concetto di natura umana. Richiamandosi a Pinker, lo studioso italiano afferma che esistenzialismo, com50
portamentismo e antropologia hanno contribuito a dissociare gli aspetti culturali della vita umana da quelli biologici e a dissolvere la nostra specificità in una generica capacità d’interpretazione: L’uomo di Hans Georg Gadamer e di Roland Barthes, di Claude LéviStrauss e di Umberto Eco, di Jacques Le Goff e di Pierre Bordieu sembra avere un corpo solo per averne un’immagine [...] (Marconi, 2001, p. 126).
Marconi identifica con precisione i problemi di impostazione presenti nel platonismo naturalizzato di McDowell: qual è l’anello mancante tra sviluppo del linguaggio e apprendimento del sistema dei significati? Come evitare che l’inclusione della vita mentale umana nello spazio delle ragioni comporti la sua esclusione dallo spazio delle cause, dal regno della prima natura? Lo studioso italiano propone come soluzione a questi due problemi di estendere lo studio della mente umana a quello del cervello: È forse questa la principale sfida teorica dei prossimi anni: una vera ricomposizione dell’uomo biologico e dell’uomo culturale sarà possibile solo se i processi cognitivi potranno essere compresi a partire dal funzionamento del cervello (ivi, p. 134).
Se Pinker individua nel linguaggio l’organo distintivo della nostra specie, Marconi lo identifica direttamente nel suo sostrato neurologico: è il sistema nervoso centrale a costituire il punto di contatto e passaggio dalla prima natura (biologica) alla seconda (culturale) umana. Da un punto di vista epistemologico, Marconi non propone solo un allargamento del campo di indagine ma un tentativo di riduzione: egli non esclude, anzi auspica che quando le neuroscienze avranno fornito le conoscenze necessarie saremo in grado di ricondurre la comprensione di una certa espressione italiana a una certa configurazione neuronale, «non ci importerà piú molto dei significati come norme dell’uso» (ivi, p. 138). Anche Marconi propone di schiacciare la seconda natura sulla prima: riducendo il linguaggio a configurazioni sinapti51
che, la mente al cervello e la cultura alla neurologia. Anche in questo caso, il tentativo non manca di aspetti paradossali. Il primo è sottolineato, come abbiamo accennato nel paragrafo 1, dallo stesso Marconi: il ritorno alla natura umana grazie alle ricerche cognitive ha del paradossale, poiché stiamo parlando di un paradigma che si occupa delle capacità conoscitive e di elaborazione di informazione proprie sia di uomini che di macchine. Il problema non consiste nel fatto che si parta dall’analisi di problemi di portata limitata per poi procedere verso espansioni che mirino a comprendere la specifica posizione assunta dall’essere umano tra le altre specie animali. Come abbiamo visto nel paragrafo 2.2, il passaggio dal cognitivismo alla scienza cognitiva consiste proprio nel tentativo di fornire una risposta meno reattiva e realmente alternativa al comportamentismo. Il problema è costituito invece dalle modalità con le quali effettuare questo ampliamento. Mantenendo come punto di forza l’analogia mente-computer, ci si ritrova nella strana condizione di voler riaffermare la specificità della natura umana a partire non solo dall’analogia tra ciò che è umano e ciò che non lo è, ma tra l’animale umano e qualcosa che non è neppure un essere vivente. È paradossale che la scienza cognitiva provi a ristabilire una connessione tra uomo biologico e uomo culturale partendo dall’analogia tra la nostra mente e una forma culturale per eccellenza: il computer. Si tratta in fondo della stessa ambiguità dalla quale prende le mosse McDowell. Il suo obiettivo è quello di naturalizzare il platonismo: ma perché partire da una posizione platonica per poi doverla naturalizzare? È come scavare una buca e poi porsi il compito di ricoprirla5. Lo stesso accade alla posizione di Marconi: paragoniamo l’essere umano al prodotto culturale cognitivamente piú potente a disposizione (il computer) per poi tornare indietro e cercare il punto di congiunzione tra macchina e natura umana. Per la scienza cognitiva la migliore definizione della nostra specie è quella di «animale razionale» perché in questa impostazione studiare scientificamente l’essere umano significa partire dall’analisi della sua razionalità per poi giungere a considerare i suoi tratti animali. Come accennavamo in precedenza, l’esse52
re umano è in tal senso prima razionale e poi animale. Finché questa successione è un fatto meramente espositivo, non suscita alcun problema (da qualche parte dovremo pur cominciare): le difficoltà sorgono quando non si tratta piú di un semplice ordine di indagine ma riguarda una priorità tra livelli di ricerca. Riemerge, in altre parole, il problema della figura che trascura il suo sfondo: l’essere umano si distingue dalle altre forme di vita per il logos (ragione, calcolo, linguaggio) sullo sfondo di una morfologia corporea che rispetto al resto del mondo animale rimane indistinta: accidentale e trascurabile. È trascurabile per McDowell: poiché il corpo è dominato dal carattere attivo del linguaggio, la nostra corporeità è quindi diversa rispetto a quella del mondo animale solo perché pervasa dalla ragione. È invece accidentale per Pinker e Marconi. Per entrambi, la seconda natura si innesta semplicemente sulla prima. Ci sono delle differenze, senza dubbio: per il primo abbiamo un corpo da primati sul quale si aggiunge l’organo del linguaggio che, come un fegato o un pancreas, cresce e matura; per il secondo, assistiamo invece a un’operazione di sostituzione piú che d’innesto. Dopo aver rimproverato agli scienziati sociali di aver considerato non il corpo ma solo la sua immagine, Marconi sostiene che per naturalizzare il paradigma cognitivo bisogna affrontare con piú convinzione lo studio del cervello: il corpo scompare di nuovo, sostituito stavolta dal sistema nervoso centrale. Ma in entrambe le versioni di Pinker e Marconi, la scienza cognitiva risente ancora, come il cognitivismo ortodosso e prima ancora il comportamentismo (paragrafi 2.1, 2.2), del dualismo di origine cartesiana tra res cogitans (mente e linguaggio) e res extensa (corpo, materia). Le piú recenti e autorevoli proposte della scienza cognitiva mostrano come denominatore comune una diffusa rimozione del corpo. Il comportamentismo accetta la visione meccanica del corpo suggerita da Cartesio, il cognitivismo la rifiuta senza però suggerirne una alternativa finendo anzi per tralasciarla completamente. O il corpo è ciò che dice Cartesio oppure non esiste: questa è la scelta. Chomsky, 53
come accennavamo nel paragrafo 2.1, esprime con nettezza una simile posizione. A sostegno delle sue critiche al comportamentismo, il linguista statunitense (1967; 1988, pp. 118-119) ricorda che già per Cartesio è l’uso produttivo del linguaggio a costituire l’eccezione, una eccezione estremamente significativa, alle regole meccaniche dei corpi estesi e che diversamente dal mondo delle macchine, costrette ad agire secondo leggi universali e necessarie, il regno del linguaggio (della mente e del pensiero) è semplicemente incitato o disposto ad agire da sollecitazioni esterne. La mente è «una seconda sostanza interamente separata dal corpo e non soggetta a spiegazione meccanica» (ivi, p. 119). Chomsky rifiuta la metafisica cartesiana e la sua contrapposizione tra res cogitans ed extensa ma non promuove una reale conciliazione tra questi due termini poiché mantiene alcuni presupposti di quella impostazione. In primo luogo, la percezione costituisce solo una fonte stimolativa, «occasione per la mente di produrre un’interpretazione dell’esperienza» (Chomsky, 1980, p. 40). In secondo luogo, la nozione di corpo rimane indistinta e confusa. Per un verso, la scuola chomskyana può vantare il merito di aver introdotto nello studio del linguaggio una dimensione biologica per lo piú assente in altre linee di pensiero come lo strutturalismo europeo: Pinker è solo una delle piú recenti espressioni di un paradigma di ricerca che con la fondamentale opera di Lenneberg (1967) ha piú di trent’anni di lavoro alle spalle (il linguaggio è un organo). Per un altro, si tratta tendenzialmente di una biologia piú protesa verso la fisica che l’evoluzionismo, piú vicina a Newton che a Darwin. Quando Chomsky tratta il problema mente-corpo tende, non a caso, a confondere i piani affermando che, poiché la meccanica cartesiana è stata disconfermata dal lavoro di Newton, non sappiamo piú con precisione cosa sia un corpo e di conseguenza è impossibile porre il problema del suo rapporto con la mente. In questo ragionamento non ci sono solo imprecisioni piuttosto evidenti (tanto per dirne una, sembra poco plausibile affermare che la fisica contemporanea fornisca una conoscenza dei corpi materiali meno perspicua di quella cartesiana) ma so54
prattutto c’è una confusione di livelli favorita dall’ampio spettro semantico del termine «corpo»: con questa parola possiamo intendere infatti due concetti che ai fini del nostro discorso non possono rimanere indistinti. Un conto è il corpo come mera entità fisica, definibile approssimativamente come materia che occupa una certa porzione dello spazio-tempo; altro è il corpo come organizzazione biologica di un essere vivente. Chomsky e il cognitivismo in genere parlano del corpo nella prima delle due accezioni, in termini ancora cartesiani: è una macchina piú fisica che biologica. Per questa ragione, l’evoluzione non sembra interessarli: poiché le leggi meccaniche sono eterne, il tempo è un fattore poco pertinente al loro studio. Come visto, Pinker aggiorna e integra questa visione inserendo elementi chiaramente evoluzionistici e darwiniani. Ma lo spettro di Cartesio ancora si aggira tra le pagine dei suoi testi poiché da un corpo indistinto a metà tra fisica e biologia si è passati a un corpo darwiniano ma ancora anonimo, ancora genericamente animale. In fondo la metafora usata da Marconi (2001, p. 137) a tal proposito tradisce questa prospettiva, poiché suggerisce l’idea che tra prima e seconda natura sia da individuare «un anello concettuale mancante», una specie di cavo di connessione: Prima natura
Cavo di connessione
Seconda natura
animale
organo del linguaggio (Pinker) cervello (Marconi)
razionale
Ma se impostiamo le cose in questo modo perché dovremmo parlare di prima e seconda natura e non, come fa piú coerentemente Cartesio, di prima e seconda sostanza? Il funzionalismo schiaccia il corpo sulla sua mente, Marconi lo identifica col suo cervello: è un passo avanti, ma insufficiente poiché si tratta di una concessione alla corporeità troppo simile alla semplice espansione della ghiandola pineale (individuata da Cartesio come punto di connessione tra anima e materia) al cervello nella sua interezza. Il problema non è risolto, ma semplicemente spostato. 55
4. Verso il bipede implume Come abbiamo visto, la scienza cognitiva propone una visione dell’essere umano precisa: è un animale razionale. Abbiamo anche visto alcune delle difficoltà che comporta questa posizione poiché prima e seconda natura non riescono a trovare un rapporto d’equilibrio: o sono del tutto separate tra loro o una è ridotta all’altra. I caratteri reattivi della rivoluzione cognitiva, tra i quali spicca l’analogia mente-computer, hanno impedito finora di abbandonare (o di abbandonare completamente) tre tendenze di fondo: 1. Il paradigma cognitivo è tendenzialmente fissista. L’astrazione dai fattori ambientali e la concentrazione sulla trasmissione ereditaria dell’informazione hanno come logica conseguenza un sostanziale disinteresse o un impedimento spesso decisivo ai tentativi di apertura al darwinismo. 2. Il paradigma cognitivo è tendenzialmente teista. Senza evoluzionismo è impensabile trovare una descrizione soddisfacente delle somiglianze-differenze tra animali umani e non umani poiché la frattura tra specie umana e regno animale diviene inevitabile. L’analogia mente-computer implicitamente afferma: come il computer è opera dell’essere umano, cosí l’essere umano risulta il frutto di una creazione. 3. Il paradigma cognitivo, anche quando è evoluzionista, rimane tendenzialmente riduzionista. Tentativi come quello di Pinker (cfr. par. 3.2) mostrano che l’inserimento della dimensione evolutiva nello studio cognitivo della natura umana assume un carattere ambiguo. La Nuova Sintesi fornisce un’interpretazione meccanica del darwinismo che cerca di ridurre le dinamiche culturali umane a comportamenti regolati da processi di selezione naturale e adattamento (è un punto che, seppur a margine, continueremo ad affrontare anche nei prossimi capitoli. Cfr., ad es., cap. IV, par. 6.2). Da questo punto di vista l’evoluzionismo cognitivo, pur sottolineando le componenti innate a scapito di quelle ambientali, non è molto dissimile dal darwinismo comportamentista. 56
Sottolineare l’importanza della specifica corporeità umana non significa, si badi, negare l’importanza del linguaggio verbale: il suo rilievo evolutivo, la sua potenza semiotica o il suo valore cognitivo. Si tratta piuttosto di individuare le condizioni di possibilità del linguaggio, di comprendere quale sia, potremmo dire, la sua presa a terra. Solo individuando le caratteristiche morfologiche che distinguono l’essere umano dal resto del regno animale potremo comprendere non solo il tipo di razionalità che contraddistingue la nostra specie ma anche la forma di animalità che ci è propria. Nei paragrafi precedenti abbiamo visto piú volte che nell’animale razionale il linguaggio sembra aggiungersi a un corpo anonimo, senza carattere, né specificità. Un ingrediente nuovo e misterioso grazie al quale la nostra specie ha fatto la sua comparsa sulla terra. Ma qual è l’origine e il significato di questo ingrediente? Per comprenderlo dovremo rivolgerci a un’altra definizione che, sin dall’antichità, ha conteso a quella di animale razionale la specificazione della nostra identità: l’animale umano è bipede implume. Queste due definizioni, è opportuno sottolinearlo, non sono necessariamente in contrasto tra loro. Ma per comprendere la natura umana bisogna far precedere lo studio della nostra morfologia corporea a quello del linguaggio e della razionalità poiché è il nostro corpo, non semplicemente il cervello, a congiungere prima e seconda natura. 4.1. Il «doppio schiacciamento» cognitivista: l’occhio di Hal Uno dei lungometraggi piú noti di Stanley Kubrik è certamente 2001: Odissea nello spazio. Il film, molto complesso e articolato, narra tra le altre cose la storia di un computer. Hal 2000, questo il suo nome, è il sistema computazionale che gestisce la navicella spaziale. Gradualmente il film illustra la ribellione di Hal che prima rifiuta di obbedire agli ordini che gli vengono impartiti e poi cerca di eliminare gli esseri umani presenti nel modulo spaziale. Per mostrare l’autocoscienza del computer Kubrik concentra l’attenzione dello spettatore sul57
l’equivalente robotico degli occhi umani: gli obiettivi rossi delle telecamere presenti sulla navicella. Per questa ragione ci sembra che il film si presti a illustrare due aspetti strutturali e impliciti del paradigma cognitivo. Hal è un elaboratore superintelligente il cui corpo è misterioso, fuso con l’ambiente circostante: per un verso è l’intera astronave, per un altro non esiste poiché non ha congegni dedicati, non ha nulla del cyborg di Terminator o dei robot che popolano altri film di fantascienza. Il corpo è lo sfondo degli avvenimenti, mentre la figura, ciò su cui spettatore e regista si concentrano, è quell’occhio rosso. La percezione è ridotta all’esperienza visiva e allo stesso tempo vedere non vuol dire altro se non computare a velocità superelevata. Proprio per queste ragioni l’occhio di Hal incarna quello che potremmo definire il «doppio schiacciamento» che caratterizza buona parte della scienza cognitiva: 1. Primo schiacciamento: la percezione è identificata con l’esperienza visiva. 2. Secondo schiacciamento: la vista è assorbita dal linguaggio. Partiamo dal primo punto. Il paradigma cognitivo, al di là delle sue pretese rivoluzionarie, si inserisce a pieno nella tradizione del pensiero occidentale poiché elegge, piú o meno esplicitamente, la vista a primo tra i sensi6. La rimozione del corpo della quale abbiamo parlato nei paragrafi precedenti passa infatti per un processo metonimico, per l’identificazione del tutto con la parte: il corpo è risucchiato dagli occhi, le membra del computer sono rappresentate da una telecamera o da un monitor. Non a caso sono proprio le forme piú eterodosse di cognitivismo a sottolineare l’esigenza di riscoprire la varietà dei nostri sistemi sensoriali. Gibson (1966), come vedremo nel capitolo III, scrive alla fine degli anni sessanta una monografia sulla complessità della sensorialità umana per molti versi ancora oggi insuperata. Neisser, nella sua critica al cognitivismo da laboratorio, ricorda: Negli esperimenti sulla percezione novantanove su cento (o addirittura 999 su 1000) implicano la stimolazione di un solo senso. I fatti della vita 58
ordinaria sono ben diversi. Quasi tutti gli eventi, o per lo meno quelli che ci interessano o destano la nostra attenzione, stimolano piú di un sistema sensoriale (Neisser, 1976, p. 52).
Il carattere sinestetico della percezione non può che essere trascurato da un approccio alla percezione che elimina dalla propria indagine i fattori ambientali. Se si lavora in laboratorio è conveniente considerare solo un senso alla volta o, per meglio dire, studiare un solo senso. Neisser a tal proposito non ha dubbi: Raramente gli psicologi hanno discusso la natura cumulativa, guidata internamente, che caratterizza la percezione. Forse questo è dovuto al fatto che quasi tutti gli esperimenti relativi alla percezione si basano sull’attività visiva (ivi, p. 38).
A tutt’oggi la situazione non sembra cambiata molto. In corrispondenza alla mancata (o parziale) apertura della scienza cognitiva ai fattori ambientali, troviamo un atteggiamento ancora monosensoriale. Quasi tutti i testi che abbiamo citato finora proseguono implicitamente nell’identificazione tra percezione e visione: Chomsky (1980, 1988), Johnson-Laird (1993), Tabossi (1994), Pinker (1994), Taghard (1996), McDowell (1996), Marconi (2001) procedono tutti su questa linea7. Il rifiuto di ampliare il paradigma cognitivo ad ambiente e società ha avuto come effetto collaterale (o, da un altro punto di vista, come presupposto) il mantenimento di questa rigida identificazione. I computer non toccano8, né annusano, né gustano. Al massimo sentono la voce dei loro programmatori (come nel caso di Hal e degli ordini vocali che gli sono impartiti): ma non si tratta di suoni bensí di parole, cioè elementi sensoriali da decodificare in stringhe simboliche (esamineremo meglio questo secondo punto tra poco). Cosa ancora piú notevole è che questa identificazione rimane quasi inalterata anche in testi specificamente dedicati alla percezione. Prendiamo ad esempio Sensation and Perception di S. Coren, L.M. Ward e J.T. Enns. Si tratta di un testo di carattere generale sulla percezione che vanta cinque edizioni ed è tra le opere piú citate su questo argomento degli ultimi quindici anni9. 59
Questo libro cerca di illustrare lo stato dell’arte delle ricerche sia fisiologiche che cognitive sulla percezione senza fare riferimento, come si specifica nella prefazione (p. vi), a «nessuna specifica teoria sulla percezione». Per questa ragione è opportuno soffermarci per un attimo su un testo che, pur essendo di ispirazione cognitiva, non ne riflette nessuna tendenza specifica e di conseguenza evidenzia i limiti e i pregiudizi generali sulla percezione di questo paradigma. Ci troviamo di fronte a un poderoso volume articolato in 18 capitoli. Molti di questi trattano, almeno apparentemente, alcune caratteristiche generali della percezione: lo spazio (cap. 9), la forma (cap. 10), la costanza (cap. 11), il tempo (cap. 13), il movimento (cap. 14), l’attenzione (cap. 15), lo sviluppo (cap. 16), apprendimento ed esperienza (cap. 17) e le differenze individuali (cap. 18). Altre sezioni sono dedicate invece esplicitamente alle diverse modalità sensoriali. È sufficiente una lettura sommaria per rendersi conto della preponderante asimmetria che struttura il testo. In primo luogo nelle sezioni dedicate ai diversi sensi: tatto, olfatto e gusto sono raccolti in un unico capitolo; vista e udito ne occupano tre ciascuno. Se poi si va a guardare un po’ meglio emerge un altro dato. I capitoli che trattano fenomeni generali della percezione fanno riferimento solo a fenomeni visivi: il movimento è quello dell’apparato oculare e degli oggetti visti, la costanza riguarda la grandezza e forma visiva e cosí via. Per quel che riguarda gli altri sensi, ben che vada, sono relegati in un paragrafo (cap. 16) oppure ci si limita a qualche esempio sporadico (capp. 14 e 18). Risultato: su diciotto capitoli, due sono effettivamente di carattere generale, tre sono dedicati all’udito, uno a gli altri sensi e dodici alla vista. Due terzi del testo che si intitola Sensazione e percezione sono perciò dedicati a un unico senso. Parlare di identificazione tra percepire e vedere non può sembrare quindi esagerato. Trattiamo ora il secondo punto facendo ritorno ad Hal. Come accennavamo poco fa, oltre che per quella visiva il computer del film di Kubrik si distingue anche per un’altra modalità sensoriale: quella vocale-uditiva. Sente le parole proferite dallo 60
spaventato protagonista e, allo stesso tempo, utilizza una voce calda e rassicurante che contrasta con il carattere devastante delle sue azioni. Si tratta di un elemento convergente con l’analisi del nostro testo campione, Sensation and Perception, che pur essendo dedicato in gran parte alla visione, riserva tre capitoli a udito e voce. Quella uditiva costituisce però una modalità percettiva particolare poiché tutta concentrata sulla comprensione e sulla produzione di suoni che non sono altro che parole. Piú che di una modalità di esperienza si tratta infatti di un canale comunicativo, di un medium del flusso verbale. L’udito è considerato solo la porta di ingresso rapida di quello che di solito avviene tramite la tastiera: la programmazione del software da parte dell’operatore o la scelta di opzioni precostituite all’interno di un sistema già pronto10. Per la percezione vera e propria, potremmo ipotizzare, rimane l’occhio. Ma è proprio cosí? A ben pensarci, secondo il paradigma cognitivo anche questo senso, seppur in modo diverso, è espressione del linguaggio. Mentre tramite l’udito la programmazione è esplicita, verbale e in tempo reale (ciò che nel film momento per momento permette al protagonista, prima della ribellione, di aprire porte, variare la rotta, modificare l’illuminazione, ecc.), la vista risente di una programmazione implicita e silente. È il sistema operativo del computer a gestire il funzionamento di quello che rimane comunque un elaboratore di informazioni: certi stimoli visivi vengono registrati dalla telecamera che poi attraverso sofisticate regole di calcolo li inserisce come dati all’interno di un sistema di variabili predefinito perché programmato dal suo costruttore. Nel paradigma cognitivo la differenza alla fine è tutta qui: nel caso dell’udito il carattere linguistico della percezione è esplicito, in quello della vista è implicito. La voce esprime decisioni consapevoli (il tono caldo di Hal vuol suggerire proprio questo carattere d’autocoscienza), mentre il suo algido occhio rosso riflette scelte inconsapevoli, poiché stabilite dal programmatore. Nella scienza cognitiva ritroviamo un modello della visione di questo tipo sia nella teoria piú forte della visione proposta, ad esempio, da Gregory (1966) che in quella piú debole 61
adottata da Johnson-Laird (1993). Per il primo, vedere significa calcolare: percepire la distanza, le forme degli oggetti e la profondità di campo vuol dire dispiegare un complesso sistema di ipotesi e di inferenze e costruire una rappresentazione visiva dell’ambiente circostante. Il secondo assume invece una posizione piú conciliante poiché prova a integrare la prospettiva ecologica di Gibson con quella computazionale. Per un verso l’informazione visiva è contenuta nell’ambiente che ci circonda, per un altro però questa costituisce solo il materiale grezzo di processi computazionali: La visione è abbastanza simile al problema di trovare il valore di x nell’equazione: 5=x+y L’equazione semplicemente non è ben formulata, dal momento che non c’è modo di determinare quale parte del 5 provenga da x e quale da y. Se, in base a conoscenze precedenti, si può assumere che y ha probabilmente un valore minore di 1, si potrà allora inferire che x ha probabilmente un valore maggiore di 4. Nella visione, le assunzioni sul mondo rendono risolubile un problema mal formulato (ivi, p. 67).
Non a caso, però, Johnson-Laird (ivi, pp. 64 sgg.) apre la trattazione della visione prendendo in esame il paragone tra occhio e telecamera. Per lo psicologo americano una telecamera, presa isolatamente, è un simulatore inefficace della visione umana non perché questa costituisce una protesi senza corpo ma perché dietro a questa dobbiamo aggiungere un elaboratore di informazioni. La percezione in generale e quella visiva in particolare viene considerata come l’impressione passiva di una superficie sensibile ai cambiamenti ambientali che necessita di un sistema di calcolo che renda l’informazione stabile e coerente. Come McDowell, anche Johnson-Laird propone una concezione della percezione come processo passivo che registra informazioni. Vedremo nel terzo capitolo che un modello alternativo della percezione, non linguistico né computazionale, si concentra invece sul carattere attivo del processo percettivo messo in atto da un corpo che coglie informazioni nella sua nicchia ambientale. Ma per il paradigma della percezione che abbiamo chiamato «l’occhio di Hal» la questione è un’altra: percepire significa usare una telecamera montata su un computer potente, 62
diffuso e privo di membra, impegnato a risolvere problemi matematici e a scovare valori in equazioni incomplete. 4.2. Il corpo: lo sfondo rimosso Possiamo ora far ritorno a quello che nel primo paragrafo abbiamo chiamato il problema della figura-sfondo. La scienza cognitiva sostiene che definire l’essere umano un animale razionale è sufficiente per coglierne la specificità e, al contempo, per evidenziare i tratti che lo legano alle altre forme di vita. In realtà, questa strategia euristica si rivela fallimentare poiché separa nettamente il sostantivo «animale» (generico e anonimo) dall’aggettivo «razionale» (unico e specifico). L’essere umano appare come una scimmia con innestato nella testa un potente processore elettronico: una specie di Frankenstein darwiniano nel quale un cervello nuovo viene inserito in un vecchio corpo. Qualunque processo percettivo dimostra invece che esperire implica un rapporto tra figura e sfondo che non consiste in un semplice processo di analisi e ritaglio. Quando sento un rumore, lo distinguo da uno sfondo percettivo determinato. Questo sfondo non solo consente (cioè costituisce la condizione di possibilità) il mio percepire (se nella strada accanto c’è un martello pneumatico al lavoro, sarà difficile sentire il canto del mio canarino) ma ne modifica e struttura le caratteristiche. Pensiamo a un’esperienza quotidiana: vedere un film come il già citato 2001: Odissea nello spazio. Un esperimento semplice ma significativo è quello di abbassare improvvisamente il volume del televisore o di lasciare solo gli effetti sonori facendo scomparire la musica di sottofondo. Il film non solo risulterà meno coinvolgente ma anche meno veloce nel suo svolgimento e meno frenetico nelle parti piú movimentate come il conflitto tra gli ominidi e nelle fasi piú concitate dello scontro tra Hal e il suo rivale umano. La figura visiva senza un adeguato tappeto sonoro perde carattere, modifica le sue proprietà rallentando la propria corsa. La scienza cognitiva trascura questo sfondo. Per un verso la specifica animalità dell’essere umano, avere il corpo di un bipede implume, costituisce condizione di possi63
bilità per la sua razionalità. Per un altro stazione eretta, nudità della pelle e liberazione delle mani caratterizzano una razionalità spuria poiché permeata di emozioni e percezioni. Questo sfondo ha subíto una rimozione costante poiché dal comportamentismo prima e dal cognitivismo poi il corpo è stato considerato una macchina (idraulica o computazionale) con uno statuto che ha oscillato tra l’indeterminatezza affermata da Chomsky e quell’anonimato presupposto dalla maggior parte degli autori contemporanei. Nell’illustrare il problema della figurasfondo abbiamo cominciato con un caso visivo (i pappagalli del primo paragrafo di questi capitolo) e abbiamo continuato con uno sonoro, quello cinematografico. Abbiamo proceduto per approssimazioni volendo mostrare in primo luogo come il rapporto tra questi due termini valga per diverse modalità percettive. Ma lo sfondo al quale vogliamo riferirci è piú generale perché é ciò che costituisce il punto di riferimento non solo del linguaggio ma anche di tutte le altre esperienze sensoriali: l’interezza del nostro corpo. Anche le ipotesi piú soft della scienza cognitiva ridimensionano il ruolo delle inferenze computazionali utilizzando di solito la nozione di modulo, già incontrata nel paragrafo 3.2. La tesi sostiene che alcune sezioni del processo percettivo poiché automatiche e informazionalmente incapsulate, non risentono delle ingerenze del sistema centrale e, di conseguenza, del linguaggio verbale. Johnson-Laird ad esempio afferma: Anch’essi [gli indici percettivi importanti da un punto di vista biologico] probabilmente si basano su vincoli innati che operano automaticamente e inconsciamente e sono relativamente indipendenti dalla conoscenza degli oggetti. Essi sono parte di ciò che potrebbe essere definito percezione pura [...] (ivi, p. 111).
Inserire la figura sullo sfondo significa rinunciare a questa purezza, al presunto carattere cristallino della razionalità umana cosí come al funzionamento monosensoriale della nostra vita percettiva. In questi ultimi anni A. Damasio (1994, 1999) ha evidenziato efficacemente alcuni dei limiti della scienza cognitiva cui ab64
biamo fatto riferimento finora. Nel suo testo piú noto, L’errore di Cartesio, critica la separazione tra emozione e cognizione descrivendo un’ampia casistica volta a dimostrare come un certo tono emotivo costituisca condizione indispensabile per la progettazione di azioni e scopi, il perseguimento di fini e comportamenti che saremmo inclini a definire razionali. La radice di questi stati emozionali è individuata proprio nella percezione di stati corporei interni. Nel suo libro successivo, Damasio continua a mettere in evidenza quanto sia profondamente impuro il carattere del conoscere umano: Non esiste una percezione pura di un oggetto nell’ambito di un canale sensoriale, per esempio della visione. I cambiamenti concomitanti che ho appena descritto non sono un accompagnamento facoltativo. Per percepire un oggetto, visivamente o in altro modo, l’organismo ha bisogno di segnali sensoriali specializzati e dei segnali che derivano dagli aggiustamenti del corpo necessari affinché si realizzi la percezione (Damasio, 1999, p. 182).
Come è impura la nostra elaborazione di informazioni, cosí è impura la nostra percezione quasi mai limitata al funzionamento di un singolo modulo. Sfondo della razionalità umana è il suo corpo: una presenza incarnata che costituisce un flusso costante di percezioni. La psicologia cognitiva tende ad affrontare invece lo studio della percezione lungo una dicotomia: quella tra proprietà modali e amodali. Le prime (colore, sapore, odore, calore) costituirebbero le caratteristiche degli oggetti colte da un senso specifico. Le seconde (forma, grandezza, ecc.) emergerebbero dall’elaborazione simbolica del contenuto percettivo delle nostre esperienze. Si tratta di una sorta di meccanismo tutto-niente nel quale si danno solo due casi: o abbiamo un’esperienza monosensoriale (perché blindata nel modulo) o un’astrazione linguistica che ne estrae informazioni generali. È necessario invece articolare la dicotomia modale-amodale in una struttura ternaria piú complessa e flessibile che preveda la presenza di un terzo termine costituito dalle proprietà intermodali11. Le proprietà intermodali non sono proprie di un solo 65
senso né di tutti ma solo di alcuni. Alcune caratteristiche spaziali come distanza e forma potrebbero costituirne un esempio. In tal modo è possibile evitare di postulare una connessione binaria tra i sensi e prender atto di relazioni piú complesse che prevedono la presenza di connessioni intersensoriali piú forti (ad es. mano-occhio; naso-bocca) e meno forti (naso-occhio; orecchio-bocca). Il carattere intrinsecamente sinestetico della nostra vita percettiva costituisce un’ulteriore disconferma dell’ipotesi modulare della mente. Questa infatti non considera due fattori di corrosione: quello reciproco tra i sensi e quello svolto dai sensi sul linguaggio. In altre parole, elaborare un modello della natura umana che ci consideri in primo luogo bipedi implumi vuol dire considerare le specificità del corpo umano secondo due direttrici: 1. La corporeità umana è condizione di possibilità della nostra razionalità. 2. Il nostro corpo fornisce una proprietà sinestetica fondamentale alla percezione degli oggetti poiché costituisce lo sfondo delle nostre esperienze. Solo in questo modo supereremo in modo radicale quel dualismo tra res cogitans e res extensa che né comportamentismo né cognitivismo sono riusciti a scongiurare. È proprio la specificità del corpo umano a costituire la dimensione che tiene insieme prima e seconda natura, la chiave di volta che sorregge vita biologica e culturale. 4.3. Il tatto: senso del corpo
In questo testo non parleremo del corpo in modo vago o generico. Tenteremo di vederlo attraverso una lente focale che ne metta a fuoco caratteri e portata, e questa lente focale sarà costituita dall’esperienza tattile. Il corpo dell’animale umano si esprime in primo luogo nel suo senso tattile, questa è una delle tesi principali del libro. 66
Nel pensiero occidentale il tatto vive di un’ambivalenza di fondo. Da un lato essa è in un organo specifico e localizzato: le mani; dall’altro è percezione e presenza del corpo intero. Se prendiamo in esame la cosiddetta «questione Molyneux», questa ambivalenza emerge con chiarezza. In una lettera datata 3 marzo 1693, William Molyneux (1656-1698) poneva a John Locke (1632-1704) il seguente problema: Supponete un cieco nato che sia oggi adulto, al quale si sia insegnato a distinguere mediante il tatto un cubo da una sfera, dello stesso metallo e, a un dipresso, della stessa grandezza, in modo che quando egli tocca l’uno o l’altro, sappia dire qual sia il cubo e quale la sfera, questo cieco venga ad acquistare la vista. Si domanda se, vedendoli prima di toccarli, egli saprebbe ora distinguerli, e dire quale sia il cubo e quale la sfera (Locke, 1694, p. 147).
Il problema del cubo e della sfera (che ancora oggi anima il dibattito psicologico contemporaneo) identifica implicitamente il tatto con le mani e le loro capacità percettive. Ma se andiamo a considerare alcune delle soluzioni proposte al problema vediamo che le cose si complicano. Leibniz (1765, p. 130), ad esempio, tenta di rispondere al quesito ipotizzando il caso inverso, una persona cioè priva del tatto ma fornita di vista e nel farlo immagina un soggetto paralizzato. Berkeley (1709, pp. 146-150) pensa invece a un puro spirito, cioè a una persona priva di corpo. Questi esempi suggeriscono che il tatto non è solo un senso manuale ma qualcosa di piú complesso. Leibniz e Berkeley ci spingono infatti a porci la domanda: cosa sarebbero uomini privi del senso del tatto? A pensarci bene chiamiamo cieche persone prive della vista, sorde quelle senza l’udito, anosmiche quelle prive dell’olfatto, affetto da ageusia chi è senza il gusto, ma non abbiamo neanche un nome per definire uomini senza il tatto. Al giorno d’oggi è possibile parlare di aprassia tattile (Binkofski et al., 2001), un disturbo che riguarda la capacità di usare utensili, o di agnosia tattile (Claparéde, 1904; De Renzi, 1990), un deficit percettivo che consiste però solo nella incapacità a riconoscere la forma stereoplastica dei corpi e non certo in una completa 67
insensibilità corporea. Forse potremmo pensare a persone prive delle mani: ma in questo caso tenderemmo a definirle come esseri monchi. Animali umani privi del tatto non esistono né potrebbero esistere perché significherebbe dire che sono dei viventi disincarnati. Il senso tattile infatti non è solo localizzato nelle mani ma esteso nel corpo. Faremo nostra questa ambivalenza senza cercare di ridurla: considereremo il tatto proprio come il senso caratterizzato da una duplicità. Il tatto è un sistema sensoriale complesso che vive della tensione tra due polarità. Una diffusa ed estesa, di solito chiamata somestetica, e una focalizzata e locale, la percezione aptica. Per farci intendere meglio, diamone una presentazione rapida e generale: – La somestesia, etimologicamente percezione del corpo, può essere definita come un macrosistema percettivo che comprende al proprio interno sei sottosistemi: tattile, nocicettivo, viscerale, cinestetico-propriocettivo, vestibolare e termico. Questi sottosistemi sono deputati alla percezione rispettivamente di contatto, dolore, stati viscerali e termici, posizione degli arti e del corpo, dell’equilibrio. Tali sensazioni spesso sono mescolate tra loro tanto da divenire indiscernibili: gli stati dolorosi, ad esempio, possono essere provocati da un’intensa fonte termica (il fuoco), da violente sensazioni tattili (con cui dividono alcune afferenze nervose, cfr. Schwob, 1994, pp. 31-35) come un colpo o un pizzico, ma anche da patologie degli organi interni o dal movimento di un arto fratturato o slogato. Alcuni autori (ad es. Gibson, 1966; Sacks, 1984; Negri Dellantonio, 1994) suggeriscono di escludere dalla somestesia la percezione dell’equilibrio che considerano un sistema propriocettivo indipendente localizzato nell’orecchio medio. A nostro parere questa scelta è svantaggiosa perché trascura un elemento fondamentale: la fenomenologia dell’equilibrio, pur avendo un sistema specifico di rilevamento, riguarda necessariamente il corpo nella sua interezza (lo «schema cor68
poreo» o «immagine di sé») e come tale non può esser considerato separatamente dalle sensazioni cinestesiche (cfr. ad es. Schilder, 1935; Fraisse, Piaget, 1963; Mountcastle, 1984; e soprattutto Cardona, 1985). La somestesia costituisce un complesso sistema percettivo che, anche a un primo sguardo, mostra una compenetrazione tra i suoi sottosistemi dall’elevato valore evolutivo poiché rappresenta una condizione necessaria per la sopravvivenza biologica e, di conseguenza, per il linguaggio. Come vedremo, la percezione somestesica si rivela fondamentale, infatti, per lo sviluppo organico, sociale ed emotivo. – La «percezione aptica», espressione utilizzata soprattutto a partire da fine ottocento/inizio novecento, viene definita nell’ambito di due contrapposizioni concettuali. La prima caratterizza soprattutto la prima metà del secolo e oppone, sia in campo artistico che psicologico, la percezione aptica a quella visiva con l’obiettivo di stabilire una precisa gerarchia sensoriale. In questo caso il termine è utilizzato in senso etimologico (dal verbo greco ëptv, tocco presente già nel De partibus animalium di Aristotele) e assume il significato generico di percezione legata al tatto. La seconda contrapposizione, quella piú interessante, propone, al di là di ogni presunta gerarchia sensoriale, una distinzione all’interno del senso tattile. Tra gli altri, G. Révész (1938) prima e J.J. Gibson (1961) poi, distinguono una modalità tattile attiva detta aptica, tipica della prensione e della esplorazione attiva, da una modalità tattile passiva basata sulla mera sensazione di contatto subita dalla pelle come nel caso di un pizzico, di una puntura o di una leggera pressione. È proprio attraverso la modalità aptica che il tatto riesce a percepire forme in un modo accessibile solo alla mano nella loro concreta e simultanea tridimensionalità. Proprio questa polarità rende difficile sostenere che il tatto sia un senso come gli altri: è il senso della nostra presenza e della percezione del nostro corpo. L’esperienza tattile coinvol69
ge quindi non solo il modo con cui siamo in rapporto con il mondo ma il fatto stesso dello stare nel mondo. Il tatto è condizione indispensabile dello stare al mondo. Per un verso il tatto individua dei «come» dell’esperienza: modi di esplorare il mondo e di conoscere ciò che lo circonda (senso aptico) ma anche percezione di temperatura, vibrazione e dolore. Per un altro verso il tatto individua il «che» dell’esperienza: comunque sia essa è corporea (senso somestetico). Cosa vedrebbero, ad esempio, esseri con le pupille sotto le piante dei piedi? Gli occhi vedono lontano anche perché godono di una certa posizione nel corpo, perché sono in alto: la vista non è un’esperienza pura non solo quindi perché si avvale, come sostiene Damasio (1994, p. 317; 1999, p. 307), di feedback e sensazioni corporee, ma soprattutto perché il suo intero campo fenomenico è strutturato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo (per la frontalità della visione umana e il suo rapporto con le attività manipolative si veda il cap. II). L’identificazione tra tatto e corpo, si potrebbe obiettare, ripropone però una logica sensoriale inevitabilmente gerarchica: scalza la vista per affermare il tatto come senso dei sensi. Per un certo verso è cosí poiché rivendichiamo un primato del tatto anche se non di tipo ontologico in senso tradizionale poiché non si baseràsu un materialismo talmente grezzo da ridurre tutte le forme percettive a scontri tra corpi materiali. Non ridurremo, cioè, i campi fenomenologici su un unico piano di ordine fisico (contatto tra atomi) o fisiologico (eccitazione di terminazione nervose per contatto). Si tratta invece di un primato diverso ma duplice. Innanzitutto ontico (cfr. Heidegger, 1927): il tatto è condizione di conoscenza del mondo, rappresenta una necessità per l’esistenza: esistono uomini senza vista ma non esistono uomini senza corpo. In tal senso individuare il ruolo fondante del tatto come condizione di possibilità dell’esperienza non significa disconoscere l’importanza delle differenze tra le diverse modalità sensoriali. In secondo luogo, evolutivo (in senso sia ontogenetico che filogenetico): è dalla pelle che si specializzano le altre modalità 70
sensoriali (cfr. cap. III, paragrafo 4.1); è la nudità del nostro corpo e la sua morfologia che costituisce l’alveo delle nostre forme culturali (per la manualità: cfr. cap. III), il presupposto biologico della nostra seconda natura e della facoltà del linguaggio (cfr. cap. IV). Per questa ragione il tatto costituisce il «secondo senso»: da una parte perché storicamente è considerato il principale rivale della modalità sensoriale per eccellenza, la vista (si pensi alla questione Molyneux). Da un’altra è il secondo senso perché chiave della duplicità propria della specie umana: è il tatto a costituire il cardine della connessione tra prima e seconda natura, corpo e società, biologia e psicologia. È il tatto il senso del bipede implume che parla.
Letture consigliate Per il lettore che intendesse approfondire ulteriormente i temi affrontati in questo libro proporremo alla fine di ogni capitolo qualche suggerimento, suddiviso per punti il cui il tema sarà evidenziato in corsivo: –
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Felice Cimatti (in stampa) propone una ricostruzione molto interessante del rapporto tra comportamentismo e cognitivismo, piú precisamente tra Skinner e Chomsky, mettendo in luce i tratti di continuità tra i due paradigmi. In italiano il testo piú completo sulla storia del paradigma cognitivista, seppur ormai datato, rimane Gardner (1985). Il libro propone la storia, disciplina per disciplina, delle scienze che compongono «l’esagono cognitivo» sottolineando il carattere interdisciplinare e rivoluzionario di questo modello. Contiene una introduzione sintetica all’approccio ecologico di Gibson, alla teoria della visione di D. Marr e alla teoria dei prototipi di E. Rosch. Per il dibattito attuale sul futuro delle scienze cognitive si veda il numero 2 del 2002 del Giornale italiano di psicologia dedicato a questo tema (con interventi, tra gli altri, di Gallese, Parternoster, Marraffa, Ferretti, Gozzano) e i numeri 1 e 2 del 2002 di Sistemi intelligenti (con contributi, tra gli altri, di Benvenuto, Cimatti, Legrenzi, Marconi, Marraffa e Parisi). Nel volume Scienze cognitive (2002) Massimo Marraffa propone una visione che definisce «riformista» che superi l’antibiologismo e l’individualismo che segna la scienza cognitiva classica attraverso l’elaborazione di un modello multidimensionale della cognizione. Per un testo introduttivo alle scienze cognitive si veda Legrenzi (2002): una pubblicazione agi71
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le e chiara caratterizzata da una impostazione piú gestaltica della media e da un ultimo capitolo su scienze cognitive e società. In Mente e Simulazioni Domenico Parisi (1999, 2001) presenta una prospettiva interessante, chiamata Vita artificiale. Si tratta di un approccio che si oppone al paradigma cognitivo, poiché non propone il computer come modello della natura umana ma come mezzo per la simulazione dei processi biologici e culturali. Una posizione piú conciliante è proposta dalla cosiddetta Nuova Robotica che cerca di progettare sistemi cognitivi integrando conoscenza, azione e percezione abbandonando l’idea di un sistema centrale che controlli azioni e movimenti tramite rappresentazioni e ragionamenti. Un’illustrazione di questo paradigma, chiara e ricca di esempi, è fornita da Clark (1997). Negri Dellantonio (1994) fornisce una descrizione sia della percezione aptica che di quella somestetica illustrando alcuni dei principali processi fisiologici che sono alla base delle percezione tattile. A tal proposito, piú dettagliato, quindi molto tecnico, resta Mountcastle (1984), mentre Berthoz (1997, 2003) propone una concezione del tatto che presta particolare attenzione alla sinestesia poiché integra dati psicologici, neurologici e fisiologici all’interno di una prospettiva piuttosto suggestiva che sottrae alla rappresentazione mentale molto del suo presunto potere cognitivo. Il problema è che gran parte dei dati fisiologici disponibili si basa sul presupposto, tutt’altro che scontato, che i risultati ottenuti dallo studio dell’anatomia delle scimmie possano essere trasferiti, senza troppe difficoltà, all’essere umano. Questo atteggiamento di fondo, che riguarda soprattutto le ricerche che interessano piú da vicino il senso tattile, è limitante perché non consente di verificare con maggiore precisione quali siano le differenze corporee tra primati umani e non umani.
II. Animali sprovveduti
Che esseri poco percettivi siamo! S.J. Gould
1. Aprire la scatola della mente Come abbiamo visto nel capitolo primo, è il tatto a costituire la chiave di volta della natura umana, il pilastro in grado di sorreggere e congiungere gli aspetti biologici e culturali, ciò che McDowell chiama rispettivamente prima e seconda natura. Questo senso ha la peculiarità di essere infatti uno e bino: è costituito dalla sensibilità diffusa ed estesa della pelle (percezione somestetica) ma è anche focalizzato in una modalità piú circoscritta, la percezione aptica propria dell’azione manuale. Gli studi e le riflessioni piú importanti sulla percezione tattile presenti nel novecento seguono due linee fondamentali distinte, seppur tra loro interconnesse. La prima, della quale ci occuperemo in questo capitolo, ha come principale riferimenti teorici e scientifici l’antropologia filosofica, la biologia morfologica e l’etologia (animale e umana). La seconda, invece, alla quale dedicheremo il capitolo terzo, rappresenta gli sviluppi teorici e sperimentali della psicologia della Gestalt e di quello che abbiamo chiamato il cognitivismo eterodosso (o ecologico) di Neisser e Gibson. Ognuna di queste linee di ragionamento e ricerca ha concentrato la propria attenzione su uno dei due aspetti che caratterizzano il tatto dando origine cosí a una interessante comple73
mentarietà. Gli studi biologici e dell’antropologia filosofica hanno dato piú rilievo all’importanza della morfologia corporea dell’essere umano nel confronto tra le diverse forme di vita. Quelli di carattere psicologico e cognitivo eterodosso, invece, tendono a considerare il tatto come senso prima di tutto manuale. Questi ultimi hanno concentrato i loro sforzi piú all’interno della specie umana, sul confronto tra vedenti e ciechi e sul rapporto ontogenetico tra percezione tattile e linguaggio. È nostra intenzione tentare di integrare due aspetti che non possono esser considerati antagonisti (come a volte accade). In questi due capitoli, il secondo e il terzo, mostreremo due facce di una posizione teorica che mette in rilievo la specificità del corpo umano per trovare una lettura della natura umana piú soddisfacente di quella cognitivista standard. Lo faremo illustrando due delle principali linee di riferimento per lo studio dell’esperienza tattile. Come già è avvenuto nel capitolo precedente, il nostro incedere sarà scandito pertanto da un passo doppio, per autori e per temi, nel tentativo di ricostruire un dibattito e di fornire a esso il nostro contributo. Come abbiamo visto la storia della scienza cognitiva si caratterizza per l’espulsione (spesso implicita) dell’antropologia dal novero delle discipline che fanno parte di questo paradigma di ricerca: è una scienza che viene presentata spesso come promotrice di un forte relativismo linguistico e culturale, come colei che ha contribuito a dissolvere il concetto stesso di natura umana (cfr. cap. I., paragrafi 2.3; 3.2; 3.3). In questo capitolo, presenteremo un altro tipo di antropologia che non è in contrasto con la prima ma, anzi, ne costituisce il completamento. Partendo da una domanda che riguarda proprio la natura dell’essere umano (qual è il nostro posto nel mondo?), l’antropologia filosofica applica la propria riflessione teoretica ai dati che provengono dalla biologia. Non si concentra specificamente sulle differenze culturali senza però trascurarle poiché cerca di individuare il loro luogo di origine. Allo stesso tempo abbiamo anche visto che la scienza cognitiva mostra una certa ambivalenza nei confronti della biologia: da un lato, infatti, le neuroscienze sono considerate un ele74
mento chiave di questo approccio; da un altro, però, sembra che la biologia rilevante per lo studio dell’intelligenza umana sia solo quella che riguarda il cervello. La scienza cognitiva è spesso preda di quella che Wittgenstein era solito chiamare un’illusione filosofica: Stranamente, una delle idee filosoficamente piú pericolose è l’idea che pensiamo con la testa o nella testa. L’idea del pensare come di un processo che ha luogo nella testa; in uno spazio perfettamente conchiuso, conferisce al pensare un che di occulto (Wittgenstein, 1967, paragrafi 605-606).
Pinker (cfr. cap. I, paragrafo 3.2) costituisce un buon esempio di una simile tendenza: egli descrive il linguaggio come «la capacità di inviare da una testa all’altra un numero infinito di pensieri strutturati» (1994, p. 354) e si abbandona in affermazioni del tipo che è necessario ammettere che «nella testa dell’uomo c’è qualcosa di piú di una tendenza generalizzata ad apprendere» (ivi, p. 409). Marconi (cfr. cap. I, paragrafo 3.3) sostiene che è il cervello, il luogo cardine per la svolta che conduce dalla prima natura alla seconda, dalla biologia alla cultura. Il pensiero cosí sembra essere incapsulato dentro una scatola, quella cranica: un coniglio che per magia esce da quel cilindro che ognuno di noi porta sopra il collo. Ma il primo punto sul quale riflettere è che non solo non esiste in natura alcun cervello senza corpo ma non si dà neanche un cervello che non abbia collegamenti nervosi e terminazioni sensoriali che lo mettano in grado di percepire stati ambientali (sia esterni che interni) e di muovere parti corporee. In altri termini, la scienza cognitiva non solo riduce il corpo al sistema nervoso ma schiaccia quest’ultimo sulla sua porzione centrale: tutto quel complicato sistema di afferenze ed efferenze che ne costituisce un elemento essenziale viene messo da parte. Se si trascurano le tre principali vie di connessione tra centro e periferia (midollo spinale, innervazioni senso-motorie e sangue) è inevitabile concepire il cervello come un’enorme ghiandola pineale di cartesiana memoria: una scatola elettrica nella quale convergono fili separati e stolti disseminati nel corpo. Il problema, invece, è 75
che afferenze ed efferenze hanno modalità combinatorie complesse che cominciano nei cosiddetti nuclei sottocorticali come collicolo superiore e inferiore, amigdala, talamo ed encefalo. Come suggerisce Damasio (1999, pp. 171-172), il sistema nervoso1 è paragonabile a un sofisticato sistema omeostatico di regolazione tra organismo e ambiente: è per questa ragione che non può essere limitato al cervello o addirittura alla sua parte evolutivamente piú recente, la corteccia. C’è solo un modo per evitare una nozione homunculare di mente e coscienza, l’idea cioè che dentro la nostra testa ci sia un uomo in miniatura che muova le nostre membra e vagli le informazioni che provengono dagli organi di senso: ritornare a una concezione piú completa dell’animale umano, non facendo della sua mente una CPU (un processore centrale informatico) e del suo sistema nervoso periferico una semplice «cinghia di trasmissione» (Wall, 1999, p. 122) che trasmetta alle estremità quel che si decide nella scatola di comando. Il comportamentismo, come abbiamo visto (cfr. cap. I, paragrafo 1.1), bolla come «scatola nera» i processi mentali che potevano interporsi tra stimolo e risposta. In quanto inosservabili, lo studio scientifico di questi meccanismi è dichiarato impossibile e, di conseguenza, superfluo. Il cognitivismo ortodosso dichiara invece necessario lo studio del funzionamento della scatola attraverso l’analogia mente-computer. Il connessionismo (uno degli esiti piú recenti dell’intelligenza artificiale) e lo stesso Marconi insistono su una ricerca che ne consideri non solo la funzione ma anche la struttura. Ma se si guarda bene, si scopre che ci troviamo di fronte a variazioni sul tema di un’unica immagine: la mente è una scatola, una stanza limitata da pareti e chiusa da una porta. Per evitare, come suggeriva Wittgenstein, di concepire il pensiero come qualcosa di misterioso è necessario non localizzarlo nella testa né tantomeno chiuderlo in una scatola. Una strada realmente alternativa è aprire questa scatola e considerare i processi cognitivi come proprietà di corpi che agiscono nel mondo che li circonda. 76
2. L’opposizione al comportamentismo: ambiente e spirito Il paradigma cognitivo non costituisce naturalmente l’unico modello alternativo al behaviorismo di Skinner e Watson. In questo paragrafo e nel successivo ci soffermeremo su due posizioni che emergono ben prima del 1956, l’anno di nascita del cognitivismo (cap. I, paragrafo 2.1), mentre di una terza, sorta proprio negli anni cinquanta, ci occuperemo nel paragrafo 3.4. Si tratta di due autori che si concentrano entrambi sulla nozione di ambiente: il primo, il biologo J. von Uexküll (18641944), focalizza la propria attenzione sul rapporto tra ambiente e comportamento animale e umano; il secondo, M. Scheler (1874-1928), riserva questo concetto solo agli animali non umani riservando alla nostra specie una categoria diversa, quella di spirito. Uexküll rappresenta uno dei massimi esponenti di quell’approccio che è possibile definire «biologia morfologica» (l’espressione è tratta da Portmann, 1965) e che studia il mondo vivente tenendo conto dell’impatto reciproco tra ambiente e forma/dimensioni degli organismi che lo abitano. Scheler, invece, è di solito considerato il fondatore dell’antropologia filosofica2. L’approccio di Uexküll sottolinea l’importanza di studiare ogni forma di vita nel suo ambiente naturale. Lo studioso tedesco contesta al comportamentismo una visione degli organismi che, col pretesto di voler esser scientifica e oggettiva, riduce questi a meri oggetti, cioè a corpi da sezionare. La specificità del mondo organico, infatti, non può esser colta in laboratorio poiché ogni essere vivente è come circondato da «una bolla di sapone» (1956, p. 83): l’ambiente non è un contesto caotico dal quale astrarre l’animale per poi studiarlo quanto piuttosto parte costitutiva della sua forma di vita. Infatti, afferma Uexküll, l’ambiente è ritagliato da ogni specie a modo proprio, in quel che chiama «sfera» o «mondo individuale»: Per esprimerci con un’immagine, possiamo dire che ogni soggetto animale prende contatto con il suo oggetto tramite una tenaglia a due bran77
che, una percettiva ed una attiva: la prima branca conferisce all’oggetto un carattere percepito, la seconda vi imprime il carattere determinato dall’atto [...] (Uexküll, 1956, pp. 131 sgg.; ivi, p. 92).
Quel che un organismo può percepire cosí come ciò che può fare è determinato in primo luogo dalla sua conformazione e dalle sue dimensioni. Lo spazio e il tempo non costituiscono dei piani stabili e unidimensionali, validi allo stesso modo per ogni forma di vita. Si tratta piuttosto di finestre che si aprono nell’incontro specifico tra il singolo organismo e il suo mondo individuale. L’istante, ovvero la minima quantità percepibile di tempo, di un pesce combattente è infatti diverso da quello di una lumaca o di un essere umano. Tanto piú accelerato è il metabolismo e il movimento di una forma di vita tanto esso sarà breve: un quarto di secondo per la lumaca, un diciottesimo per la nostra specie, un trentesimo per l’inquieto pesce combattente (ivi, pp. 126-130). Lo stesso si dica per lo spazio. In tal senso caso estremo è costituito dal paramecio. Si tratta di una forma vivente molto semplice, di dimensioni ridottissime (210 µm, molto piú piccolo dell’acaro della scabbia), ricoperta da ciglia vibratili che gli consentono di muoversi nell’acqua a una velocità di 2-3 millimetri al secondo (prendiamo dati e figura da McMahon, Bonner, 1983, p. 199):
Figura 1
A prescindere dal continente nel quale esso si trovi, dal tipo di clima, vegetazione o condizioni meteorologiche, l’am78
biente del paramecio è costituito da due varietà d’oggetti: gli ostacoli di fronte ai quali si ferma cambiando poi direzione e il cibo, costituito dal batterio della putrefazione. Per il paramecio l’oggetto «cibo» è quindi una categoria molto ristretta poiché costituita da un solo tipo di alimento, mentre l’oggetto «ostacolo» è illimitato perché comprende tutto il resto: da un altro paramecio a una mano umana, da una roccia alla montagna cui essa appartiene. Per Uexküll, il mondo individuale dei diversi organismi si contrae e si dilata secondo due coordinate di fondo: monotonia e varietà. Se si procede verso la polarità della monotonia aumenta la sicurezza nel comportamento, mentre se ci si sposta nella direzione opposta, quella della varietà, aumenta la libertà e la ricchezza nella condotta: mondo povero monotono sicurezza comportamentale separazione tra modalità sensoriali
VS
mondo ricco variabile libertà comportamentale unità sinestetica
In questa scala graduata l’animale umano si trova all’estremo di destra, mentre il paramecio vicino al polo opposto. Nel mezzo troviamo le altre forme di vita: dalle meduse alle zecche, dalle mosche ai cani. La maggiore libertà e varietà comportamentale è garantita all’animale umano e alle forme di vita piú complesse dall’integrazione tra le varie informazioni sensoriali. Per organismi semplici come i parameci questo problema non si pone poiché le modalità percettive sono ridotte a una sola, in genere quella tattile. Per animali come le chiocce o le cavallette il problema invece sussiste perché pur essendo forme di vita plurisensoriali (dotate non solo di tatto ma anche di vista, udito e altre modalità percettive), esse spesso non possono associare tra loro campi fenomenici diversi. La chioccia, ad esempio, per rintracciare i suoi pulcini deve sentire il loro richiamo: se invece può vederli senza però sentirne il verso (perché rinchiusi ad esempio in una campana di vetro), continua a ignorarli. In modo simile gli acridi, una specie di grilli, riesco79
no ad accoppiarsi solo se il maschio può sentire i suoni striduli emessi dalle femmine. Al contrario, se il maschio può vedere la femmina anche molto da vicino ma non può sentirla, l’accoppiamento non ha luogo (ivi, pp. 154-155). La scala illustrata in precedenza mostra che la posizione di Uexküll è estremamente continuista. La specie umana si distingue da chiocce, parameci e acridi solo perché ha un mondo piú vario e reso piú coeso dalla fusione tra i campi fenomenici considerati fondamentali dallo studioso tedesco: quello ottico, tattile e cinestetico. L’apparato concettuale valido per descrivere le diverse specie animali è lo stesso che può essere utilizzato per rendere conto delle diversità culturali umane. Uexküll mette sullo stesso piano la differenza di comportamento di fronte a una quercia tra una formica e una volpe e quella che sussiste tra una bambina, che fantastica sulle sue forme, e un boscaiolo che ne taglia i rami in cerca di legna da ardere. Per Uexküll tra i concetti di ambiente (Umwelt) e mondo (Welt) esiste quindi solo una differenza di ampiezza. L’ambiente è costituito dall’insieme dei mondi individuali, delle sfere specie-specifiche che popolano il nostro pianeta. Tra queste ce n’è una piú grande delle altre che è quella umana. Di conseguenza Umwelt è semplicemente la somma dei mondi (Welten) individuali. L’approccio di Scheler è a tal proposito completamente diverso, per certi aspetti opposto. All’inizio della sua opera piú importante, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), il filosofo tedesco pone il problema della costituzione di una nuova antropologia che, invece di occuparsi delle diversità culturali, si interroghi su «come scaturiscano dall’uomo le sue funzioni piú proprie» (ivi, p. 219) per mezzo del confronto con le altre forme organiche sia animali che vegetali. Quella che delinea Scheler è una scala biologica suddivisa in quattro regni. Il primo, quello vegetale, viene definito «il grado piú basso del mondo psichico» ed è costituito da un «impulso affettivo» del tutto privo di coscienza (ivi, p. 159), sensazione e rappresentazione. Le piante sono forme «exatiche» cioè prive di un centro cui coordinare riflessi e sistemi motori: la 80
loro crescita rappresenta una spinta verso un fuori indeterminato, verso un ambiente senza centro di riferimento. Già in questo regno però, emerge un principio morfologico che va al di là del principio darwiniano della selezione naturale che è quello dell’«espressione» (ivi, p. 162): la ricchezza di forme e colori delle piante non segue leggi di sopravvivenza ma sembra regolarsi in maniera estetica come se quella conformazione avesse un valore intrinseco, non riducibile a principi quali riproduzione o crescita. Gli altri tre regni sono articolazioni della sfera animale. La seconda forma organica essenziale è rappresentata infatti dall’istinto che si caratterizza per almeno cinque proprietà: 1. A differenza delle prove per tentativi ed errori, l’istinto si svolge secondo uno schema rigido. 2. Deve avere un senso, cioè un valore adattivo, per il suo portatore o per il suo gruppo: l’animale percepisce solo ciò che ha un significato per i suoi istinti. 3. L’istinto può aver valore non solo per il presente ma anche per il futuro: si pensi ad esempio alle formiche che accumulano cibo per l’inverno. 4. L’istinto fornisce risposte per momenti decisivi e importanti per la specie: riproduzione, aggressione, difesa. 5. È innato, ereditario e «completo» (ivi, p. 166) sin dalla nascita. Non si tratta di una rappresentazione innata ma di un sentire emotivo che va oltre le repulsioni e le attrazioni tipiche del regno vegetale. Il terzo regno, corrispondente ad animali dotati di capacità associative e in grado di acquisire abitudini, centralizza l’attività dell’organismo per mezzo di una parziale liberazione dall’istinto. Le prove per tentativi ed errori cosí come il riflesso condizionato rappresentano la possibilità di acquisire comportamenti tramite l’esercizio e l’apprendimento. Ma è solo con il quarto regno, il quarto grado della vita psichica, che emergono capacità di anticipazione degli eventi e pianificazione del comportamento, la possibilità di affrontare non solo situazioni nuo81
ve per la specie (come avviene grazie alla memoria associativa) ma nuove per l’individuo. Questo pensiero rappresentativo e creativo, riconosce Scheler, è presente, seppur in modo controverso, anche nelle scimmie antropoidi. Nonostante ciò, il filosofo tedesco afferma una differenza di genere e non di grado tra animali umani e non umani. Per la nostra specie infatti interviene un ulteriore grado di vita psichica che Scheler chiama «spirito» (Geist). Sarebbe lo spirito, una mescolanza che riunisce in sé il concetto greco di ragione (il logos) ma anche atti emozionali e volitivi propri solo della nostra specie, a rovesciare il nostro rapporto con l’ambiente esterno. Per un verso infatti l’essere umano sintetizza l’intero universo naturale poiché racchiude in sé tutti i precedenti gradi della vita psichica: ha un sistema nervoso vegetativo, ha istinti cosí come una intelligenza associativa e pratica. Per un altro costituisce invece un’inversione di tendenza nei confronti degli altri regni naturali poiché è un organismo organizzato secondo un principio diverso. Mentre le forme di vita animali e vegetali non possono sottrarsi a impulsi e istinti, non possono «dire di no» alla vita poiché non sono in grado di bloccare impulsi scatenanti e istinti innati, l’essere umano si può emancipare da ciò che è organico e rendersi libero, aperto al mondo e alla sua oggettività. Mentre per Uexküll l’ambiente costituisce solo il contenitore di mondi individuali, Scheler (ivi, p.182) segna una distinzione qualitativa tra i due concetti mediante un preciso schema: Animale Ambiente (Umwelt)
Uomo
Mondo (Welt)
Se l’animale può cogliere solo ciò che è limitato e strutturato nell’ambiente che gli appartiene, l’essere umano può allontanare l’ambiente (Umwelt) e trasformarlo in un mondo (Welt): può allontanarsi dalla sua realtà e, proprio per questo motivo, può coglierla oggettivamente (ivi, p. 183). Per questa ragione anche la nozione di oggetto diventa piú specifica rispetto a quella proposta da Uexküll: gli animali percepiscono resisten82
ze e solo gli uomini colgono oggetti (Gegenstände). Solo la nostra specie può distanziarsi da loro, contrapporvisi (stehen gegen) e coglierli nella loro complessa unità. Per sottolineare questa differenza Scheler prende come esempio, una forma di vita, quella del ragno, analizzata anche da Uexküll per sostenere il suo punto di vista. Il biologo tedesco afferma (Uexküll, 1956, p. 100) infatti che «a somiglianza dei fili tesi dal ragno, i rapporti stabiliti dal soggetto con le diverse qualità delle cose costituiscono la tela su cui poggia la sua esistenza». È significativo che, piú di sessanta anni dopo (lo scritto di Uexküll è del 1933) e in modo indipendente, Pinker (1994, p. 10) per illustrare la propria visione del linguaggio utilizzi la stessa metafora: [A proposito della facoltà umana del linguaggio] io preferisco usare il termine «istinto» anche se un po’ antiquato. Suggerisce l’idea che l’uomo sa parlare piú o meno nello stesso senso in cui il ragno sa tessere la sua tela. La ragnatela non è stata inventata da uno sconosciuto aracnide geniale e non dipende dall’educazione ricevuta o da un’attitudine all’architettura e alla costruzione. In realtà il ragno tesse ragnatele perché ha un cervello da ragno, che gli fornisce la spinta a tessere e la competenza per farlo (Pinker, 1994, p. 10).
L’estremo continuismo che caratterizza entrambi gli autori li porta a non cogliere la differenza strutturale che sussiste tra l’ambiente animale e il mondo umano. Scheler (1928, p. 186), prendendo in esame proprio l’esempio del ragno, lo mostra con chiarezza. Il paragone proposto sia da Uexküll che da Pinker tra ambiente dell’aracnide e mondo umano non è sostenibile proprio in virtú di uno dei principi, l’integrazione intersensoriale, che il biologo tedesco aveva attribuito ai mondi animali. Il ragno quando cattura la preda dimostra di non poter integrare lo spazio tattile e cinestetico della tela che si muove con l’immagine ottica dell’insetto preso in trappola. Se una mosca morta viene posta vicino al ragno, questo non solo non la mangia ma scappa via ritraendosi. In modo simile a quanto dimostrato da Uexküll per chiocce e grilli, anche per il ragno ogni senso segue una strada indipendente, cosicché ogni modalità sensoriale dà notizia di un oggetto diverso. Il linguaggio 83
non è l’equivalente umano della tela del ragno (cosí come il suo ambiente non è l’equivalente del nostro mondo) proprio perché alla realtà specie-specifica dell’aracnide manca questo doppio carattere di apertura: la varietà sensoriale e l’integrazione sinestetica. La questione Molyneux (cfr. cap. I, paragrafo 4.3) viene presa ad esempio da Scheler di questa capacità sinestetica propria in massimo grado dell’essere umano. Il cieco che riacquista la vista ha difficoltà solo iniziali a riconoscere gli oggetti esplorati in precedenza con il tatto poiché per ogni essere umano già esiste uno spazio intersensoriale che integri i dati provenienti dai vari sensi. Il caso del cieco che vede, immaginato da Molyneux e ben presto divenuto un caso reale grazie alle operazioni di cataratta inaugurate dal chirurgo Cheselden nel 1728, mostra la flessibilità intrinseca all’essere umano: «il mammifero piú plastico», dagli «istinti piú retrogradi» (ivi, p. 169). Mentre il ragno non può integrare i diversi campi fenomenici neanche quando i suoi apparati sensoriali funzionano al meglio, l’animale umano può riuscire nell’integrazione anche in condizioni estreme come quelle del recupero della funzione visiva dopo anni di completa inattività o dopo averla persa sin dalla nascita. Attraverso la separazione tra le nozioni di «ambiente» e «mondo» Scheler propone una distinzione concettuale fondamentale ma allo stesso tempo ci mette in una situazione imbarazzante. Per un verso, come vedremo subito, il filosofo tedesco intravede una strada alternativa a quella riduzione della seconda natura alla prima della quale si rendono protagonisti in tempi diversi e secondo modalità differenti, Uexküll e Pinker. Per un altro introduce un principio, quello di spirito, che si oppone a una lettura materialista del rapporto tra somiglianze e diversità tra animali umani e non umani. Scheler, infatti, affronta esplicitamente il tema della natura umana cercando di evitare due estremi opposti: da un lato l’opzione comportamentista che suggerisce di ridurre i processi psicologici e gli stati mentali a meccanismi fisiologici; dall’altro l’eredità lasciata da Cartesio con la relativa separazione tra res 84
cogitans e res extensa (ivi, p. 209). Psichico e fisiologico, mentale e animale costituiscono infatti due facce della stessa medaglia. Il loro punto d’incontro non è costituito però dalla ghiandola pineale poiché il loro scorrere è parallelo: è il corpo nella sua totalità la dimensione dell’incontro e della fusione tra processi che sono identici dal punto di vista ontologico e diversi solo da quello fenomenico. Scheler (ivi, p. 199) pone dunque domande decisive: «come mai questo animale malato, giunto in ritardo, sofferente, costretto a coprirsi e a proteggersi non è perito?». Come ha fatto l’essere umano a uscire da quello che sembra essere un «vicolo cieco biologico»? La risposta che fornisce, come abbiamo visto tutta centrata sulla nozione di spirito, è però fuorviante: la discontinuità tra ambiente e mondo diviene troppo marcata con il risultato di far rientrare dalla finestra quella distinzione tra res di ispirazione cartesiana che aveva provato a far uscire dalla porta.
3. Un problema filosofico: ambiente vs mondo Nella prima metà del novecento emergono sia in ambito biologico che filosofico diverse vie alternative alla soluzione comportamentista alla questione della natura umana. Una di queste, incarnata da Uexküll, propone lo studio delle forme di vita non in laboratorio ma nel vivo delle loro condizioni ambientali. Il rapporto con l’ambiente è infatti considerato parte integrante di un organismo: astrarlo dal suo habitat significa studiarlo da morto. Si tratta di una posizione che, come visto, presenta alcune affinità con posizioni molto recenti, come quelle espresse da Pinker, riguardo il rapporto tra prima e seconda natura umana: il problema viene risolto per mezzo di un continuismo radicale. L’uomo sarebbe un animale particolarmente potente, dotato di istinti piú numerosi (Pinker) e di un ambiente piú esteso e vario (Uexküll). L’essere umano si inquadra perfettamente in quella che lo studioso tedesco definisce la prima legge per lo studio dei mondi soggettivi: 85
Tutti i soggetti animali, dal piú semplice al piú complesso, sono perfettamente inquadrati nel loro mondo individuale, che sarà semplicissimo per gli animali piú semplici e via via piú complicato per le forme piú complesse (Uexküll, 1956, p. 94).
Il pensiero di Uexküll costituisce quindi un buon punto di partenza per una risposta alternativa a quella cognitivista e comportamentista al problema della natura umana poiché pone la centralità dello studio ambientale di ogni forma di vita, inclusa quella umana. La sua impostazione rischia però di costituire una falsa partenza se non viene depurata da una sovrapposizione, quella tra i concetti di ambiente e mondo. Come visto, Scheler propone la netta divaricazione tra queste due nozioni. Ma se Uexküll pecca di eccessivo continuismo, il secondo rischia di fare prendere alla nostra strada argomentativa una piega pericolosamente animista e spiritualista: le piante avrebbero una vita psichica, l’uomo si distinguerebbe in base a una strana entità, lo spirito. Nei prossimi paragrafi ci soffermeremo su questa contrapposizione per noi fondamentale: il problema sarà come mantenerne la validità all’interno di una prospettiva piú chiaramente naturalista. Poiché la posizione di Uexküll di recente è stata ripresa piú volte anche dai nostri avversari, gli «animali razionali» (l’accostamento con il continuismo di Pinker già suggeriva questa possibilità), vale la pena inserire da subito un paio di esempi di rilettura contemporanea del suo pensiero per comprendere meglio l’importanza di un correttivo, la distinzione tra mondo e ambiente, senza il quale molte delle intuizioni proposte dal biologo tedesco rischiano di andare perse. Semplificando molto possiamo dire che Uexküll costituisce, infatti, un importante punto di riferimento teorico non solo per il paradigma che stiamo difendendo (quello del bipede implume) ma anche per una posizione riassumibile attraverso la celebre affermazione del Tractatus wittgensteiniano: «I confini del mio linguaggio indicano i confini del mio mondo» (Wittgenstein, 1921, paragrafo 5.6). L’idea di fondo del «riduzionismo linguistico» (Cimatti, 2000a) è questa: a differenza delle altre specie animali, l’essere umano dispone del lin86
guaggio verbale. Esso pervade ogni aspetto della sua vita e, di conseguenza, rappresenta i limiti del suo mondo-ambiente. Questa dicitura è doppia poiché per un verso il nostro è un mondo: si distingue dal resto del regno animale perché ampio (Lo Piparo, 1999) e ampliabile (Cimatti, 2000b). Per un altro rimane un ambiente poiché è strutturalmente tale: è un cerchio chiuso dal quale non si può uscire. Lo Piparo (ivi, p. 195), ad esempio, illustra con chiarezza questa posizione quando afferma: La Umwelt umana ha pertanto i limiti della corrispondente mente linguistica e anch’essa, come tutte le Umwelten animali, è inseparabile da congenite cecità cognitive: mente linguistica Umwelt
La nostra bolla ambientale ha margini linguistici e il paradosso specifico della nostra condizione è «sapere che esistono confini che delimitano anche la Umwelt umana senza poterli mai attraversare» (ivi, p. 198). Per Cimatti (2000b, pp. 133134) però la circolarità dell’ambiente può essere spezzata dalla nostra capacità di «avanzare ipotesi». Ma come fa il linguaggio, che costituisce i bordi del nostro mondo, a staccarsi da quei stessi bordi e a farci vedere uno spiraglio di apertura? Secondo Cimatti (ivi, p. 134): L’animale umano ha un proprio mondo proprio perché può logicamente distinguere il suo ambiente – quello definito dal suo linguaggio – dalla indeterminata regione del «buio», proprio perché può logicamente distinguere – dall’interno – il proprio ambiente dal piú vasto e incommensurabile mondo.
Sarebbe il carattere autoreferenziale del linguaggio (quella proprietà che si mostra in frasi come «sto dicendo cose insensate», «intendo qualcosa che è oltre le mie parole») a darci la possibilità di riflettere e distaccarci dal nostro ambiente linguistico. Ma la metalinguisticità è sufficiente a farci uscire dalla gabbia dorata costituita dal linguaggio? Secondo noi no. 87
Se il linguaggio pervade il nostro mondo, il distacco con mezzi linguistici ne costituisce una articolazione tutta interna, sempre compresa in quella bolla fatta di parole che costituirebbe la nostra esistenza. L’autoriflessività rappresenta una scala che ci fa cambiare piano all’interno di una casa dalla quale, secondo questo modello, non è possibile né entrare né uscire: non ci entriamo perché le condizioni genetiche di questo ingresso e della sua costruzione non sono considerate; non ne possiamo evadere perché per definizione le pareti del linguaggio costituiscono i bordi del nostro mondo. Per questa ragione neanche il carattere indefinitamente espandibile, sul quale insiste Cimatti, di questa nicchia ambientale sembra sufficiente a farci uscire da una bolla linguistica che pur gonfiandosi rimane chiusa. Anche il fatto che il linguaggio possa codificare al proprio interno esperienze sempre nuove, esplorazioni diverse attraverso estensioni analogiche ed estetiche non basta a evitare una simile conclusione: il carcere del linguaggio costruisce nuovi padiglioni in grado di contenere piú ostaggi, ma non per questo cessa di essere un carcere3. Non a caso in brani come quello ora riportato, emerge l’ambivalenza di questa lettura di Uexküll: quello umano sembra contemporaneamente essere e non essere un ambiente. Per Lo Piparo lettore di Uexküll e Wittgenstein4, il mondo umano si caratterizza per il fatto che ci consente di sapere che esistono cose che non possiamo sapere e di utilizzare praticamente dimensioni alle quali non possiamo accedere (come quando per scovare tartufi usiamo il naso che non abbiamo, quello del cane). Per Cimatti lettore di Uexküll e Prodi, il mondo è una buia prateria ancora non linguistica che un giorno colonizzeremo per mezzo della nostra attività verbale. Il carattere pervasivo del linguaggio ci mette però in una situazione difficile perché postula continuità lí dove non dovrebbe essercene mentre la interrompe lí dove dovremmo trovarne. La tesi del mondo umano come ambiente linguistico pone questo in estrema discontinuità col resto del regno naturale poiché non individua le modalità della sua formazione, non ci fa capire come il linguaggio sia potuto originarsi. Per questa ragione, come abbiamo visto, 88
anche quella che propone Pinker non è una soluzione: affermare che il linguaggio è un istinto che ci porta fuori dall’ambiente degli istinti è intrinsecamente contraddittorio. Ma su questo punto non ci vengono in aiuto né Lo Piparo né Cimatti poiché entrambi danno per scontata la pervasività autofondante del codice verbale. Questa rischia di divenire una sorta di deus ex machina che, anche se non utilizza l’analogia mentecomputer, finisce per risentire di vizi di impostazione simili a quelli del paradigma cognitivo. Ancora una volta in termini percettivi e corporei l’essere umano sarebbe del tutto simile agli altri animali (il punto di totale continuità con le altre forme di vita) ma poi interverrebbe un principio altro, il linguaggio, a sovvertire il quadro e a impadronirsi completamente della natura umana (ed ecco il punto, altrettanto imbarazzante, di totale discontinuità). Come vedremo nel prossimo paragrafo è piú opportuno affermare non che è l’essere umano ad avere e non avere un ambiente ma che è l’animale ad avere e non avere un mondo. 3.1. L’essere che tasta: l’uomo formatore di mondo Negli stessi anni nei quali Scheler pubblica la sua opera principale, Martin Heidegger (1889-1976) svolge un corso a Friburgo nel semestre invernale 1929-1930 nel quale riprende esplicitamente le riflessioni di Uexküll, apportandovi modifiche decisive. Heidegger (1930) infatti propone una netta contrapposizione di tipo triadico riassunta nella tesi di fondo che «la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo». A differenza di Uexküll e coerentemente con il metodo seguito in Essere e tempo, Heidegger (1930) non parte dalla nozione genericamente animale di ambiente per poi articolarla in mondi specie-specifici. Al contrario, il filosofo tedesco comincia la sua analisi da una nozione esclusivamente umana, quella di Welt, per poi verificare se sia possibile estenderla ad altre forme di esistenza. L’analisi heideggeriana è per noi particolarmente interessante perché distingue queste tre realtà in base a un criterio tattile. La pietra, 89
come tutto il regno inorganico, non esplora né ricerca stimoli o conoscenza: essa giace, poiché rimane lí dove caso e leggi fisiche l’hanno depositata. L’animale di converso ha un comportamento poiché si muove e ricerca, si sposta dirigendosi verso fonti di cibo, luoghi riparati o partner sessuali. Per questa ragione l’animale non giace, ma tocca poiché ha commercio e scambi con ciò che lo circonda. L’essere umano, oltre a giacere (se morto) e a toccare, è anche in grado di tastare: manipola e costruisce, cambia i suoi dintorni e cura i suoi conspecifici. Heidegger riprende pertanto alcuni termini utilizzati da Uexküll cambiandone però il senso in maniera radicale. Il mondo (Welt) non costituisce piú una generica sfera animale ritagliata da ogni specie a modo proprio poiché diventa spazio abitativo proprio solo dell’essere umano. Anche il concetto di «povertà» si trasforma: il filosofo tedesco precisa che affermare «l’animale come essere povero di mondo» non significa che ne ha poco, una scarsa quantità (che è invece l’accezione di Uexküll) ma vuol dire che ne è privo, che ne fa completamente a meno. Povertà da sinonimo di indigenza si trasforma in indice di nullatenenza. Questo concetto quindi non indica piú una differenza di grado tra animali umani e non umani ma di genere. Se però l’animale è privo di mondo, come distinguiamo questa condizione da quella del sasso? Attraverso la versione riformulata del concetto di ambiente. La pietra è, come accennavamo prima, sempre fuori contesto. Poiché non compie azioni né ha comportamento, essa non fa letteralmente nulla. Obbedisce solo alle leggi della fisica: tirata verso l’alto ricade in basso; fiondata in mare, affonda nella sabbia; scagliata contro un vetro lo infrange in mille pezzi. Proprio perché sta dove chiunque la metta, essa non solo non ha un mondo ma non ha neanche un ambiente. Essere inorganici significa proprio questo: non aver scambio con ciò che ti circonda. Si tratta di un giacere ovunque che non è sintomo di capacità adattive straordinarie ma, al contrario, di insensibilità alla varietà dei sistemi nei quali ci si trova ad essere: la pietra giace perché è sempre fuori posto, poiché non esiste un posto che sia il suo, in cui possa vivere. 90
La condizione animale è del tutto diversa. Heidegger in questo senso fa sua l’idea di Uexküll che animale e ambiente costituiscono elementi integrati. Proprio questa integrazione diventa l’aspetto distintivo della condizione animale: nei confronti della pietra che un ambiente non lo ha; nei confronti dell’essere umano che ha un mondo perché dall’ambiente può distaccarsi. L’animale è per definizione «stordito», cioè coinvolto dalla totalità dei suoi istinti, preso da pratiche determinate geneticamente. L’ape, ricorda Heidegger riprendendo un esempio di Uexküll, quando si nutre non solo assorbe il cibo ma, potremmo dire, ne è assorbita. Se, mentre sta succhiando il nettare da un fiore, si recide la parte posteriore dell’insetto, l’ape continua a succhiare anche se il nutrimento comincia a fuoriuscire dalla parte tagliata del suo corpo. Lo stordimento è una nozione complessa perché comprende in sé determinazioni apparentemente contrastanti: assorbimento ed allontanamento. Per un verso, infatti, l’animale è assorbito nel suo fare: non può guardarsi mentre compie le sue azioni, non può uscire dal suo cerchio ambientale. Ma proprio per questa ragione, l’animale non entra mai in relazione con ciò che lo circonda poiché per farlo sarebbero necessari distacco e autonomia. Poiché è assorbito dalle pratiche che riguardano i suoi conspecifici, l’animale è in contatto con loro solo in modo superficiale. La distinzione tra le diverse forme tattili di presenza al mondo chiarisce bene questa serie di differenze. Come abbiamo detto mentre la pietra giacendo non si comporta (semplicemente sta lí), l’animale è invece preso da un ambiente: sia nel senso che può vivere solo in un certo habitat (nell’universo le pietre sono ovunque, non si può dire lo stesso di gatti o dromedari); sia nel senso che ne è catturato, ne è prigioniero. La pietra non ha relazioni con ciò che la circonda, mentre un organismo molto semplice come il paramecio è in rapporto con il suo ambiente poiché invece di giacere tocca nutrimento e ostacoli. Toccare vuol dire essere schiavi di un urto del quale non si può fare a meno: «l’animale è, per la durata della sua vita, imprigionato nel suo mondo-ambiente come in un tubo che non si allarga 91
né si restringe» (ivi, p. 258). Il paramecio, anche in questo caso Heidegger riprende esplicitamente un esempio di Uexküll, è talmente assorbito dalle sue pratiche istintuali da forgiare il proprio corpo in relazione alla necessità da soddisfare al momento: se gli organi che servono allo spostamento rimangono fissi, in questa classe di organismi il resto del corpo, il protoplasma varia al variare delle esigenze. A ogni boccone diviene una bolla che prima si fa bocca, poi intestino e infine ano. Questo tipo di esseri viventi, detti infusori, rappresenta in modo esemplare la condizione animale: è talmente stordita dall’ambiente cui appartiene da specializzare la propria struttura corporea secondo le circostanze. L’essere umano non si limita a giacere né a toccare poiché è in grado di tastare: non modifica il proprio corpo in base all’ambiente ma, al contrario, è lui a formare il proprio mondo. Per mezzo delle mani modifica ciò che lo circonda strutturandolo secondo le esigenze. 3.2. L’animale povero di istinti Scheler e Heidegger suggeriscono una netta separazione tra vita animale e umana. Il primo contesta il carattere iperistintuale dell’uomo affermato da Uexküll per mezzo di una nozione controversa, quella di spirito. Il secondo elimina questa ambiguità introducendo una definizione piú precisa del contrasto tra mondo e ambiente. Nessuno dei due indica però le condizioni, genetiche e morfologiche, che sono alla base della divaricazione tra animali umani e non umani. Lo spirito di Scheler scende dall’alto all’interno di una concezione che, al di là delle intenzioni dell’autore, presenta l’essere umano non tanto come una scimmia progredita quanto, potremmo dire, come un angelo decaduto. Heidegger non si pone il problema poiché, dopo esser partito dall’analisi della condizione umana, si limita a chiarire il significato di una separatezza incarnata da tre diverse condizioni tattili prendendone semplicemente atto. Arnold Gehlen (1904-1976), in tal senso, consente di fare un passo ulteriore. Egli riprende piú volte il pensiero di Uexküll 92
e Scheler all’interno di un percorso filosofico che attraversa tutto il novecento: dai primi saggi degli anni trenta arriva fino agli anni settanta con la ripubblicazione, riveduta e corretta, della sua opera piú importante, L’uomo (la prima edizione è del 1940). Sia Scheler che Heidegger intuiscono che corpo e ambiente rappresentano i cardini fondamentali per affrontare il problema costituito dalla natura umana. Heidegger, come visto, indica nel tastare una prima capacità percettiva e cognitiva che ci distingue con nettezza dal resto del regno animale. Ma cos’è questa forma tattile? In cosa consiste? Quali sono i suoi presupposti? Il filosofo tedesco in tal senso è ambiguo, per lo meno poco esplicito. Per un verso egli sembra riferirsi a una caratteristica tipicamente manuale: il tastare dischiude le porte di un mondo indefinitamente aperto nel quale, come già si afferma in Essere e tempo (Heidegger, 1927, p. 134), gli oggetti sono infinitamente disponibili, letteralmente «a portata di mano» (Zuhandheit). Per un altro il tastare richiama qualcosa di piú. Proprio perché la distinzione tra ambiente e mondo è cosí netta, sembra poco plausibile che sia affidata a un solo organo: non appare possibile che siano le mani a poter fare di una scimmia un animale umano. Come indica Scheler, per evitare la dicotomia tra res cogitans e res extensa non è sufficiente individuare in un organo, il cervello o la mano, il carattere distintivo dell’animale umano, ma bisogna trattare il corpo nella sua interezza. La nostra specie si distingue per una diversità complessiva che riguarda la sua posizione rispetto a ciò che lo circonda: le mani costituiscono in tal senso un momento importante che non può essere però esaustivo. Gehlen sottolinea l’importanza della morfologia complessiva del corpo umano per comprendere la natura della nostra condizione senza per questo sposare posizione animiste o spiritualiste. Come abbiamo visto in precedenza, Uexküll e Scheler avevano già proposto di interpretare il regno naturale secondo un principio morfologico che assumeva però valore vitalistico: per il biologo tedesco, i rapporti tra le specie viventi non sono regolati dalla selezione naturale ma da un «soggetto93
natura» che ha organizzato ogni relazione secondo un programma preordinato (Uexküll, 1956, p. 225; cfr. paragrafo 4); Scheler, quando assegna alle piante e alle forme di vita piú semplici una vita psichica, percorre una strada simile. La tesi di fondo sostenuta da Gehlen, fatta risalire esplicitamente a Herder5, Schopenhauer6 e Nietzsche, rilegge l’importanza della nostra morfologia alla luce di un principio diverso: l’animale umano si distingue dalle altre forme di vita non perché in possesso di maggiori istinti ma perché, al contrario, ne ha di meno. L’animale umano vive in un mondo e non in un ambiente, secondo Gehlen (1978, p. 36), perché egli costituisce un essere «incompiuto», «indefinito» caratterizzato rispetto alle altre specie da una minore specializzazione evolutiva. Per un verso infatti siamo indefiniti perché esseri alla nascita difettevoli, privi di armi e difese precostituite. Per un altro questa espressione si riferisce alla difficoltà a trovare una definizione (nel senso di «descrizione finale» ma anche di «condizione definitiva») in grado di cogliere cosa l’uomo sia. Scheler, sebbene Gehlen non gli risparmi critiche, aveva intuito a tal proposito due punti fondamentali senza però riuscire a focalizzarli sufficientemente. In primo luogo, il filosofo tedesco aveva colto in La posizione dell’uomo nel cosmo la paradossale peculiarità della nostra specie che rappresenta un vicolo cieco biologico, un essere tanto malato da non poter sopravvivere. Scheler aveva anche proposto l’idea che le forme di vita piú complesse non fossero piú potenti e forti di quelle semplici ma che, al contrario, costituissero organismi fragili. Questa posizione nasceva da una visione morfologica della natura secondo la quale l’essere umano, poiché rappresenta il culmine della complessità naturale, è a rischio, come un fiore delicato che può scomporsi al primo alito di vento. La bellezza ha un prezzo: il carattere vellutato dei petali non consente di avere anche quella robustezza che li difenderebbe dagli agenti ambientali. Ma la condizione umana è ancora piú precaria perché mentre il fiore è inchiodato allo stelo che lo sorregge ma difeso dalla sue spine, l’animale umano nasce mobile ma sprovvisto di mezzi: senza artigli, pelo, o scaglie che possano fare da scudo. Dopo 94
che Scheler si è limitato a indicare genericamente il corpo e Heidegger ha suggerito una forma troppo specifica come il tastare, Gehlen individua condizioni piú adeguate per comprendere il carattere unico della specie umana. È la forma del nostro corpo a fare la differenza, a dischiudere la porta a un ambiente che si fa mondo: stazione eretta, manualità e integrazione sensoriale ne costituiscono i tre elementi fondamentali. La posizione eretta ci stacca da terra, ci espone agli stimoli ambientali favorendo una sensibilità corporea pericolosa e straordinaria. Quello umano è un animale che si contraddistingue per la varietà e non per l’acutezza dei suoi sensi: la sua pelle, priva di difese, trasforma il proprio carattere poiché non costituisce piú, come nella maggior parte delle specie animali, un insieme di strutture specializzate e locali ma diventa essa stessa organo primario di percezione generico e diffuso. Quella che in precedenza (cap. I, paragrafo 4.3) abbiamo chiamato percezione somestesica riveste per Gehlen un’importanza capitale. La sensibilità cutanea costituisce un’importante condizione di possibilità per la specie umana che si coniuga con una motilità particolarmente plastica, con una struttura corporea aperta alle piú diverse coordinazioni senso-motorie. Mobilità e sensibilità convergono in un continuo feedback sensoriale: quando l’animale umano si muove, non solo percepisce gli oggetti esterni ma anche se stesso. Tatto e udito costituiscono il fondamento di un carattere riflessivo strutturale insito nella nostra morfologia corporea. L’animale umano si autoavverte: toccarsi e sentirsi significa potersi estraniare, cogliersi non solo come soggetto ma anche come oggetto della percezione. Per queste ragioni la morfologia del corpo umano costituisce la prima condizione di possibilità per dischiudere la nozione di ambiente in quella di mondo. Mentre le altre specie animali sono barricate nel loro habitat-bolla, l’essere umano vive una condizione liminare e anfibia in grado di entrare e uscire da una zona non piú claustrofobica. La duplicità del tatto costituisce il cardine di una condizione che è apertura e compito: poiché l’animale umano è indefinito deve lavorare per trovare le sue qualità. Il precario equili95
brio della stazione eretta, il carattere protoriflessivo della propriocezione, l’esposizione della pelle a freddo, caldo e dolore costituiscono aperture che, se non fossero gestite, porterebbero alla morte dell’individuo e all’estinzione della specie. Non a caso quando parla dell’animale umano, Gehlen sembra avere in mente un verso del Faust di Goethe, molto caro a Wittgenstein (1969, paragrafo 402) e a Vygotskij (1934, p. 395): «Im Anfang war die Tat (in principio era l’azione)». L’animale umano, proprio perché difettevole, è nato per l’azione: per ripararsi e sopravvivere deve fare e costruire. Le varie dimensioni della sensibilità somestetica costituiscono le porte attraverso le quali interno ed esterno continuamente si scambiano di posto. Allo stesso tempo, affinché la corrente non ci spazzi via e la stimolazione ambientale (dovremmo dire mondana) non ci annichilisca, è necessario un sistema di filtri che permetta chiusure temporanee. La seconda polarità tattile, quella aptico-manuale, svolge esattamente questo ruolo. Stazione eretta significa infatti non solo esposizione di un ventre non piú schiacciato a terra, ma anche liberazione degli arti superiori che invece di specializzarsi in strumenti di offesa e armi da taglio diventano un complesso sistema di leve in grado di fornire le prestazioni piú varie. Se la plasticità del corpo ci espone, quella delle mani dà nuove garanzie: non piú la sicurezza tipica delle forme di vita piú semplici ma quella di un essere che, invece di difendersi o attaccare, lavora (cfr. cap. III, paragrafo 4). L’animale umano uscendo dalle nicchie ambientali proprie delle altre specie costituisce un essere per definizione disadattato, privo di habitat. Proprio perché non ha un nido precostituito, deve costruirsi una casa; visto che non possiede pelo né piume deve vestirsi e accendere fuochi; privo di zanne e artigli deve costruirsi armi e arnesi, utensili e strumenti. Per questo motivo la mano non solo plasma l’oggetto ma anticipa l’azione rendendo l’animale umano, come afferma Gehlen, un continuo «prometeo»: un essere in costante scoperta e in perenne costruzione che, per evitare un presente altrimenti insostenibile, deve giocare d’anticipo e guardare al futuro. 96
La percezione sinestetica è per noi fondamentale perché ogni modalità sensoriale non costituisce la rigida porzione di una nicchia ambientale strutturata: il tatto, in modo particolare, si avvale della collaborazione con la vista per sbrigare un carico d’esperienza che rischia di schiacciarci sotto il suo peso. Il carattere panoramico dell’esperienza visiva ci permette di cogliere ampi orizzonti e di sorvolare sugli oggetti. La vista è considerata da Gehlen un senso superficiale poiché scorre rapidamente da una porzione all’altra dello spazio senza dovercisi troppo trattenere. Ma a differenza da quanto fatto da Herder (1778) nella Plastik, uno dei precursori della sua antropologia filosofica, Gehlen coglie anche la positività del carattere sbrigativo della vista. Proprio perché superficiale questa modalità sensoriale ci consente di evitare il costante approfondimento conoscitivo della situazione nella quale ci veniamo a trovare: fornisce la velocità che manca al tatto poiché consente di muoversi con rapidità. Infatti anche se la manualità è esonerante poiché fornisce strumenti di riparo, essa possiede un aspetto che rimane oneroso: lo stretto campo d’azione della percezione aptica richiede una esplorazione cosí lenta e laboriosa del mondo esterno da costituire strutturalmente una ricerca approfondita ma per questo faticosa (cfr. cap. III). A differenza di quanto sostiene gran parte della tradizione filosofica occidentale, secondo Gehlen non è il tatto a scimmiottare la vista: è piuttosto la vista a farsi carico di indici tattili poiché sono gli occhi a sbrigare faccende manuali. Il tatto è il secondo senso: non perché rappresenta l’inadeguato vicario della vista, ma perché è il senso in cui si radica la seconda natura (cfr. cap. IV). È proprio nella sprovvedutezza umana, nella duplicità apertura-esonero che Gehlen individua la connessione tra biologico e culturale, materiale e mentale. Il cardine lungo il quale scorre la connessione tra prima e seconda natura è il corpo umano nella sua bivalenza tattile: somestetica e manuale. È questa cerniera che costituisce la presa a terra del linguaggio e che, senza svilirne l’importanza, gli garantisce una collocazione biologica ed evolutiva plausibile: 97
L’uomo è dunque organicamente «l’essere manchevole» (Herder), egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e cosí deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive, per cosí dire, in una natura artificialmente disintossicata, resa maneggevole, trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura (Gehlen, 1961, p. 88-89).
Mentre Heidegger concepisce l’animale umano come un essere che diventa ricco di mondo, Gehlen rovescia questa attribuzione cambiandone parte del senso: è l’animale a essere ricco di istinti e l’uomo a esser povero di qualità innate ed è per questa ragione che deve costruirsi il suo mondo. Potenza e impotenza (su questo punto torneremo nel cap. IV, paragrafo 1) diventano cosí due facce di un’unica medaglia: la possibilità di costruirsi una cultura è al contempo una necessità, un dovere inflitto da un corpo sensibile ma debole. In questa attribuzione invertita di povertà, il carattere tattile distintivo della natura umana proposto da Heidegger si focalizza nella duplicità di somestesia e manualità. Toccare e tastare sono le due polarità base di un corpo superesposto che può, in compenso, costruire il suo riparo. 3.3. Il problema della antropogenesi
In che modo la selezione naturale ha consentito che potesse affermarsi un animale povero di istinti? Qual è il processo evolutivo grazie al quale è comparsa quella specie che oggi definiamo homo sapiens? Per rispondere a questi interrogativi Gehlen rimanda al pensiero di due autori. Al primo, Louis Bolk (1866-1930), in modo ripetuto poiché aderisce a gran parte delle sue ipotesi interpretative. Al secondo, Adolf Portmann (1897-1982), in modo parziale, perché per alcuni aspetti si discosta dall’impostazione gehleniana. Gli scritti di quest’ultimo consentono di sviluppare un doppio confronto che merita un approfondimento. I tre gli autori concentrano la propria attenzione sul rapporto tra l’animale umano e gli altri primati: Bolk e Gehlen accentuandone gli 98
aspetti filogenetici, Portmann quelli ontogenetici anche se per tuttii si tratta di due dimensioni fortemente intrecciate. L’aspetto del pensiero di Portmann trascurato da Gehlen, e che in seguito prenderemo in esame, è il confronto proposto dal biologo svizzero tra la nostra forma di vita e quell’alternativa evolutiva ai primati costituita da chi percepisce il mondo dall’alto: gli uccelli. Ma procediamo con ordine. In On the Problem of Anthropogenesis, Bolk (1926, p. 467) spiega con chiarezza quale sia l’interrogativo che ha dato inizio alla sua ricerca: «Cos’è essenziale per l’organismo umano, cosa per la sua morfologia?». Bolk parte dalla convinzione che la ricchezza di dati paleoantropologici a disposizione degli studiosi non può essere sufficiente per comprendere le specificità del genere umano. Il suo intento è trasformare un approccio fino ad allora «deduttivo», che ha cercato di spiegare l’origine dell’uomo concentrandosi sui resti fossili, in uno «induttivo» che parta dall’unico dato certo a nostra disposizione: l’homo sapiens e la sua morfologia. Nei primi trent’anni del novecento una serie di studi porta Bolk a rovesciare non solo la metodologia ma anche uno dei presupposti teorici fondamentali della paleoantropologia: l’idea che l’animale umano discenda dalla scimmia. Lo studio dei primati e dei loro caratteri anatomico-morfologici suggerisce a Bolk infatti una via radicalmente diversa che si concentra sulla distinzione tra primati dallo «sviluppo propulsivo» e quelli caratterizzati da uno «sviluppo conservativo» (Bolk, 1926, p. 467): del primo gruppo fanno parte tutte le scimmie antropomorfe, il secondo è costituito solo dalla specie umana. L’animale umano non si distingue dalle altre specie perché costituisce una specie piú perfezionata delle altre, piú progredita o sofisticata. Al contrario il suo carattere costitutivo va rintracciato nella sua arcaicità e nella sua lentezza di sviluppo. La nostra forma di vita si distinguerebbe dalle altre per un principio che è contemporaneamente morfologico e genetico: la conservazione di tratti fetali nella costituzione strutturale dell’adulto. Non solo Bolk contesta l’idea di uno sviluppo lineare dell’evoluzione da forme piú semplici e inferiori a organismi 99
piú complessi e superiori, ma diffida anche della concezione secondo la quale l’evoluzione consisterebbe nella graduale specializzazione di organismi nelle loro nicchie ambientali e della identificazione tra complessità organica e specializzazione morfologica. Lo studioso tedesco propone l’analisi di una quantità impressionante di dati in grado di dimostrare che gran parte delle nostre caratteristiche morfologiche sono fetali. Questi dati sono riassumibili in una lista di 25 proprietà, elementi organici che appartengono ai primi stadi dell’ontogenesi dei primati ma che poi questi perdono (cit. in Gould, 1977, p. 357): 1. L’ortognatismo: un viso piatto caratterizzato da una fronte spiovente e dalla presenza di un mento sporgente 2. La riduzione o perdita dei peli sul corpo 3. La perdita della pigmentazione di pelle, occhi e capelli 4. La forma dell’orecchio esterno 5. L’angolo interno dell’occhio (l’epicanto) 6. La posizione centrale del foramen magnum che nell’ontogenesi dei primati si sposta invece all’indietro 7. L’elevato peso del cervello in relazione al peso corporeo 8. Persistenza di suture craniali anche in età avanzata 9. Le labbra sporgenti nelle donne 10. La struttura dei piedi e delle mani 11. La forma pelvica nella donna 12. La posizione orientata in senso ventrale del canale sessuale nella donna 13. Alcune variazioni delle suture craniali e dei denti 14. L’assenza di spigoli nella fronte 15. L’assenza di creste craniali 16. Lo spessore sottile delle ossa della testa 17. La posizione delle orbite al di sotto della cavità craniale 18. Le ridotte dimensioni della testa in relazione a quelle del corpo 19. I denti piccoli 20. La fuoriuscita tardiva dei denti dalle gengive 21. L’impossibilità di ruotare il pollice del piede 22. Il periodo prolungato di dipendenza infantile dai genitori 23. Il periodo prolungato di crescita 24. La lunga durata della vita 25. Le ampie dimensioni corporee.
Da questa lunga serie di caratteristiche corporee che riguarda sia parti anatomiche (soprattutto la conformazione di testa, mani e piedi) che aspetti piú generali della morfologia umana 100
(si pensi ai punti 2, 3, 7, 18 e 22-25) discendono quelli che Bolk chiama caratteri consecutivi, conseguenze della sua conformazione fetale. Tra questi il piú importante sarebbe la stazione eretta. Lo studioso tedesco propone quindi una interessante inversione. Mentre nella rappresentazione piú tradizionale e diffusa dell’antropogenesi l’essere umano si sarebbe alzato da terra esonerando cosí le mani dalla loro funzione locomotoria, secondo Bolk sarebbe accaduto il contrario: la persistenza del carattere fetale dei nostri arti superiori sarebbe stato inadatto a svolgere il ruolo di zampe e per questa ragione siamo stati costretti a divenire bipedi. L’animale umano non rappresenta né un angelo decaduto né una scimmia progredita quanto un primate caratterizzato dalla lentezza del proprio sviluppo. Quest’idea, è facilmente intuibile, non solo converge con l’idea gehleniana dell’animale umano come essere non specializzato e povero di istinti ma ne dà il fondamento filogenetico. Proprio rifacendosi a questi dati Gehlen (1978, p. 125) afferma con un filo di paradosso che non è l’uomo a discendere dalla scimmia, ma è «la scimmia che discende dall’uomo». Tra i primati, già protagonisti di un primo processo di fetalizzazione rispetto ad altri mammiferi superiori, l’animale umano si distingue per una seconda tornata conservatrice che senza arrestare il suo sviluppo lo rallenta obbligando la nostra specie a compensare culturalmente le lacune di una scarsità di equipaggiamento naturale dovuta a un ritardo cronico (Bolk, 1924, p. 329). Questa impostazione è interessante perché oltre a individuare la specificità morfologica dell’animale umano evita il rischio di proporre una visione finalistica della sua comparsa. Chi concepisce l’Homo sapiens come essere piú adatto degli altri agli ambienti naturali, piú specializzato degli animali perché fornito di un maggior numero di istinti, finisce col concepire la nostra specie come il culmine di un progresso naturale che persegue il fine del miglior adattamento possibile. La biologia morfologica costituisce, invece, il miglior antidoto a ogni deriva darwiniana che finisca per eleggere i principi della selezione naturale a leggi tanto pervasive da imprimere al mondo naturale una direzione 101
prestabilita. Le sue virtú, cioè la sua seconda natura, non si adeguano a un fine già predisposto, né nascono da un processo di autogenerazione come sembrano suggerire alcune riletture in chiave linguistica del pensiero di Uexküll (cfr. paragrafo 3). Linguaggio e cultura rappresentano piuttosto una risposta, una reazione accidentale ma decisiva a una mancanza genetica. Mentre Bolk illustra la particolarità dello sviluppo umano leggendo le particolarità del suo sviluppo secondo una prospettiva filogenetica, Portmann ci permette di approfondire il problema da un punto di vista complementare poiché mette in rilievo le peculiarità ontogenetiche del nostro processo di crescita. La posizione dello zoologo svizzero è interessante poiché, oltre a costituire un punto di riferimento per l’antropologia filosofica di Gehlen, riprende alcune idee di Scheler e di Uexküll7 a proposito della differenza strutturale che sussiste tra ambiente animale e mondo umano. Portmann fonda in senso ontogenetico la distinzione tra Umwelt e Welt ridefinendo quel fattore che Scheler aveva proposto come elemento distintivo della condizione umana: il geistig, lo spirituale. Spiega Portmann:
ma in modo definitivo le ambivalenze contenute nella nozione scheleriana di Geist: il termine tedesco non rimanda piú a una entità misteriosa, lo spirito, poiché assume il significato, piú contemporaneo e materialistico, di mente. I dati forniti dal biologo svizzero a tal proposito sono particolarmente significativi. Prima di affrontare i problemi rappresentati dall’ontogenesi umana, Portmann aveva suddiviso lo sviluppo dei mammiferi in due tipologie fondamentali. Quella dei mammiferi nidiacei (nesthocker), i cui piccoli tendono a rimanere presso il nido per lungo tempo, e quella dei non nidicei (nestflüchter) che si caratterizzano per il fatto che i loro piccoli abbandonano presto il nucleo familiare (ivi, p. 511): Tipo primario (I) organizzazione inferiore (roditori, insettivori) nidiacei gravidanze brevi (3/4 settimane) figliate numerose piccoli indifesi infanzia lunga
La modalità spirituale della vita si sviluppa nell’ontogenesi non solo attraverso la maturazione di caratteri ereditari che si differenziano tra loro in modo relativamente indipendente. Questi fattori infatti attraverso la trasmissione ereditaria di certe proprietà fanno parte di un carattere estremamente aperto e non specializzato e mantengono la sua conformazione particolarmente individuale in massimo contatto con le impressioni sensoriali che il mondo esterno ci trasmette. Lo sviluppo del linguaggio umano costituisce l’esempio piú drastico di tutto questo processo ontogenetico spirituale (Portmann, 1941, p. 516).
Come sostiene Gehlen in quegli stessi anni, il linguaggio non costituisce una dimensione isolata che all’improvviso taglia in due la storia naturale poiché è reso possibile da una serie di processi che lo precedono. Gehlen parla del linguaggio verbale come di una struttura di importanza fondamentale che esonera la condizione umana dal flusso fin troppo intenso di stimolazioni cui è sottoposta. Portmann individua queste condizioni di possibilità all’interno di una ricostruzione ontogenetica che trasfor102
Tipo secondario (II) organizzazione superiore (foche, balene, mammiferi superiori con zoccoli, primati) non nidiacei gravidanze lunghe figliate poco numerose piccoli con organi di senso e di movimento formati infanzia breve
È proprio dal confronto con questa classificazione che Portmann mostra la specificità del nostre genere. L’animale umano infatti mescola caratteri delle due tipologie: le sue gravidanze sono lunghe (tipo II) ma lo è anche la sua infanzia poiché rimane legato per molto tempo alle figure parentali (tipo I); le sue figliate sono poco numerose (tipo II) ma i piccoli indifesi (tipo I). Per giunta, anche i suoi tempi di crescita sono particolari. Attraverso il confronto dei ritmi di sviluppo postnatali con gli altri primati Portmann rileva che la velocità dell’ontogenesi umana è superiore a quella delle altre specie prese a confronto poiché mantiene per il primo anno di vita ritmi di crescita paragonabili a quelli fetali. Nel corso degli anni successivi invece, sia per peso corporeo che cerebrale, lo sviluppo non appare accelerato rispetto agli altri primati ma anzi rallentato, proprio come richiesto dalla tesi di Bolk. 103
Portmann individua nel primo anno di sviluppo post-fetale umano un’eccezione duplice poiché non ha pari né nello sviluppo degli altri primati né in altre fasi della nostra stessa crescita. I dati forniti dal biologo svizzero ci fanno capire che la specificità del nostro sviluppo non risiede soltanto nella lista di particolari anatomici proposta da Bolk. Il punto distintivo risiede infatti nella particolare mescolanza di caratteri primari e secondari del suo sviluppo ontogenetico. È questo che fa dell’Homo sapiens quel che definisce Portmann un «nidicolo secondario» (ivi, p. 512). Nell’utero materno l’animale umano attraversa uno stadio caratterizzato dalla chiusura degli occhi che nelle altre specie appare piú tardi; in aggiunta a questo, la sua nascita è anticipata rispetto agli altri primati. Questa doppia anticipazione contrasta con il fatto che un cervello tanto complesso come quello umano richiederebbe un tempo di gestazione molto piú ampio per permettere una prontezza sensoriale e cognitiva alla nascita pari a quella degli altri mammiferi. Portmann calcola infatti che se i tempi di sviluppo umano fossero in linea con quelli degli altri primati, la gestazione dovrebbe durare non nove ma tra i venti e i ventidue mesi (ivi, p. 514; 1959, p. 155): in altre parole un nidiaceo umano, secondo lo schema riportato prima, dovrebbe nascere già in grado di parlare e di camminare in posizione eretta (1941, p. 514). L’animale umano invece vive una «primavera extrauterina» (ivi, p. 517) che costituisce un ingrediente fondamentale per la formazione del suo Daseinart, della sua modalità d’esistenza (ivi, p. 516). Siamo primati che rispetto agli altri mammiferi si distinguono morfologicamente a causa di un diverso andamento di sviluppo: in termini filogenetici, Bolk dimostra che siamo scimmie lente poiché conserviamo un gran numero di tratti fetali; secondo una direttrice ontogenetica, Portmann fa vedere che siamo protagonisti invece di una accelerazione dei tempi che ci espone al mondo prima delle altre specie. Questo doppio movimento temporale, questa accelerazione nel ritardo, costituisce la matrice genetica di una sovraesposizione sensoriale unica nel suo genere, nella quale, come vedremo anche nel prossimo paragrafo, il tatto svolge un ruolo centrale. 104
Per comprenderne piú a fondo le conseguenze è necessario spingersi piú in là di quanto faccia Gehlen e considerare una ricostruzione del regno naturale che vada ben oltre l’utilizzo e la chiave di lettura che ne fornisce il filosofo tedesco. La lettura del mondo vivente proposta da Portmann, infatti, non è meno interessante dei suoi studi sull’ontogenesi dei mammiferi. Il biologo svizzero riconosce a Uexküll il merito di aver contribuito a superare una concezione comportamentistica degli organismi viventi (Portmann, 1963, p. 420) e di aver anticipato in questo l’impostazione filosofica di Heidegger (ivi, p. 422). L’obiettivo di Portmann è proseguire su questo cammino ed evitare ogni forma di riduzionismo, sia fisiologico che fisico, del mondo organico. Non a caso il darwinismo, da Uexküll rifiutato in blocco, è accettato con riserva anche da Portmann: i principi della selezione naturale e dell’adattamento sono utili per comprendere il mondo naturale solo se si basano su un’analisi morfologica delle strutture organiche. Ogni forma di vita infatti prima di sottostare ai principi di autoconservazione e di autoaccrescimento (adattamento e sviluppo) obbedisce a un principio ancor piú fondamentale: quello della autopresentazione (Selbstdarstellung). Portmann (1951, p. 312) definisce l’organismo una Gestalt spazio-temporale: una configurazione dinamica che cambia nello spazio e nel tempo, una forma in movimento. Ogni forma di vita ha un volto sensoriale che non è aggiuntivo o secondario ma costitutivo del suo essere. Il mondo organico si distingue da quello minerale proprio perché percepisce ed è percepito, perché si avvale di una modalità di presenza autopresentativa sconosciuta alle rocce o ai meteoriti. Non a caso, prima di affrontare il tema dell’umano, l’unica netta distinzione segnata da Portmann all’interno del regno organico non è tra organismi superiori e inferiori, tra vertebrati e invertebrati, mammiferi e primati, ma tra animali a superficie trasparente ed esseri a pelle opaca. Organismi unicellulari o forme di vita semplici come il paramecio (visto nei paragrafi 2 e 3.1) si distinguono per una separazione tra esterno e interno corporeo che è solamente meccanica, cioè fisico-chimica. Quando la superficie si fa opaca, 105
l’interno (ora invisibile) può distinguersi dall’esterno fenomenicamente e quindi in modo piú marcato. Si tratta pertanto di una modalità di presentazione prevalentemente ottica che si fonda però su una struttura innanzitutto tattile: La superficie dell’animale, ormai divenuta opaca, si trasforma cosí in un nuovo organo; con essa nasce una nuova realtà bidimensionale, largamente indipendente dalle strutture all’interno. Una superficie siffatta non è solo «frontiera», [...] bensí si trasforma in un organo con possibilità del tutto nuove. [...] La superficie opaca acquista un proprio valore come vetrina di fenomeni ottici (Portmann, 1955, p. 24).
Il concetto di Selbstdarstellung e quello di Gestalt indicano con una certa precisione la linea di discrimine tra minerali e animali: forma e percezione sono elementi costitutivi di un mondo che è costitutivamente relazionale, nel quale si è e si sembra, nel quale «stare» significa «manifestarsi». Per questa ragione la biologia morfologica si basa su due concetti tra loro complementari: ogni organismo ha un’esperienza di ciò che lo circonda e ogni esperienza è per definizione relazionale. Le forme di vita vivono in una prestabilita armonia (Stimmung) con le altre specie, instaurano con esse una simpatia di fondo, cioè basilari forme di contatto. Come ambiente e organismo non sono tra loro mai scindibili, cosí ogni organismo non vive mai solo poiché si nutre, in senso sia proprio che metaforico, di rapporti interorganici. Nel riprendere alcuni temi portanti dell’impostazione di Uexküll (l’armonia prestabilita, la soggettività intrinseca a ogni essere vivente), Portmann inserisce elementi di novità importanti che contribuiscono ad allontanare ulteriormente questa posizione dalle tentazioni spiritualistiche emerse in Scheler. Come nell’analisi della morfologia umana lo spirito diventa mente, cosí lo studio delle altre forme viventi attribuisce loro una interiorità che non ha piú connotati mistici: l’interiorità è in primo luogo interno corporeo e interiora viscerali, la soggettività consiste nella capacità materiale di percepire ciò che è nei dintorni. In questo panorama, anche secondo Portmann la condizione umana si distingue per la sua apertura all’esperienza e per le sue 106
indefinite possibilità di acquisire nuove conoscenze. È un problema, come esplicita in diverse circostanze (Portmann, 1951, p. 314; 1955, p. 35), di potenza e atto: l’animale umano si distingue dalle altre forme di vita per maggiori potenzialità armoniche, per la necessità imposta dalla sua forma corporea e dai suoi ritmi di crescita di stabilire Stimmungen forti e ampie. L’animale umano si distingue per questo lungo entrambe le dimensioni che definiscono il regno materiale, spazio e tempo. La prima l’abbiamo già analizzata: siamo primati dalla filogenesi lenta e dalla nascita precoce. La seconda è caratterizzata secondo Portmann dalla stazione eretta e dal molteplice significato che essa assume. Non solo esser bipedi significa liberare le mani (su questo, come visto in precedenza, la posizione di Bolk è forse piú interessante poiché inverte la relazione tra i due termini) ma vuol dire anche cercare nuove forme di equilibrio: lo sviluppo dell’orecchio interno si rende necessario per un corpo dalla stabilità altrimenti precaria. Nel contempo questa precarietà permette una esposizione agli stimoli esterni piú completa che non esclude piú la parte ventrale, rivolta ora in avanti. Apertura per un verso e necessità di autocontrollo per un altro8 distinguono l’animale umano per il suo portamento (Haltung): un essere vivente che non solo porta con sé utensili e strumenti grazie alla molteplicità dei movimenti manuali ma che «si porta in giro», si tiene (halten): può trattenersi e non rispondere agli stimoli ambientali; può agire su di sé e sul mondo modificandoli (Portmann, 1959, pp. 158-159). È l’apertura obbligata del suo portamento che dischiude all’animale umano una sfera conoscitiva altra, l’esperienza secondaria caratterizzata dal linguaggio: È il mondo secondario dell’intelletto calcolante, del dominio tecnico dell’esistenza, un mondo di rappresentazioni fortemente distaccate dalla vita sensibile; è un regno in cui i concetti, come ci dicono i matematici, non vanno considerati in rapporto a un loro ipotetico significato, ma solo come entità operative (ivi, p. 183).
Portmann (1957, pp. 112-113; 1959, pp. 171 sgg.) contrappone quindi il «mondo tolemaico», centrato su di sé e proprio 107
della maggior parte delle specie viventi, a un «mondo copernicano» che prende come punto di riferimento fondamentale non le coordinate corporee ma punti cardinali esterni. Un simile decentramento non è semplicemente spaziale ma anche temporale: solo un essere che vanta la nostra configurazione corporea può distaccarsi dalla nozione biologica di tempo, quella di istante come intervallo minimo percepibile, proposta da Uexküll (cfr. Portmann, 1951, p. 310; cfr. paragrafo 2) e affidarsi invece a unità di misura esterna non necessariamente specie-specifica (secondi, settimane, anni). L’animale umano, proprio perché primate lento dalla nascita precoce, è anche l’essere che misura il tempo e che governa i propri istanti mediante le lancette dell’orologio (Portmann, 1957, p. 99). A tal proposito il confronto con gli uccelli, soprattutto quelli migratori, dà la possibilità a Portmann (1951; 1957) di esporre in modo ancor piú approfondito le peculiarità della natura umana. Entrambe le specie, uomini e uccelli, costituiscono infatti forme di vita copernicane ma secondo modalità opposte. Per questa ragione è possibile parlare di due vie evolutive alternative tra loro. Come gli esseri umani, gli uccelli migratori rappresentano degli organismi nei quali la dimensione temporale è particolarmente rilevante. Quel che di solito viene chiamato «istinto migratorio» è secondo Portmann (1951, p. 315) una forma di sintonizzazione con l’ambiente particolarmente evoluta. Queste specie basano la loro vita mettendo a frutto un tempo che non è né soggettivo (l’istante) né terrestre (la stagione) ma interplanetario. La migrazione si basa sulla sincronizzazione tra l’organismo e la dinamica delle distanze che intercorrono tra sole e terra. La trasformazione degli arti anteriori dei rettili in ali ha rappresentato la nascita di una forma di vita in grado di muoversi in quella pienezza tridimensionale che solo il volo può garantire. Per certi aspetti quindi sia gli uccelli che gli esseri umani dominano la terra: i primi per mezzo di un corpo piumato sovrastano ogni distesa in modo visivo attraverso sguardi dall’alto; i secondi poiché dotati di corpi nudi sono in grado di costruire il loro mondo grazie a mani, stazione eretta 108
e linguaggio. Dominio ed equilibrio (aereo per i primi, terrestre per i secondi) sono due termini chiave per entrambe le forme di vita: la precarietà del volo somiglia all’incedere traballante dei bipedi implumi (Portmann, 1959, p. 156). Allo stesso tempo, però, tutto ciò avviene secondo direttrici evolutive antagoniste. Portmann, come abbiamo visto, per parlare dei sistemi di riferimento tolemaico e copernicano utilizza il termine «mondo»: ma il suo uso va qui inteso in senso generico e non tecnico. Questa imprecisione terminologica rischia di fare confusione: secondo il significato dato a queste nozioni da Heidegger e Gehlen, è piú corretto parlare infatti di ambienti tolemaici e copernicani. La distinzione proposta da Portmann, in altri termini, non coincide con quella che separa mondo e ambiente. Proprio per questo motivo, è compatibile con essa poiché può essere interpretata come una sua articolazione interna. Proviamo a rappresentare Umwelt con un cerchio chiuso, Welt con uno tratteggiato e a segnare il sistema di riferimento tolemaico con una serie di frecce orientate verso il centro dell’organismo e quello copernicano con frecce indirizzate verso l’esterno:
Umwelt tolemaico (molti animali)
Umwelt copernicano (uccelli)
Welt tolemaico (a. umano)
Welt copernicano (a. umano)
Gli uccelli, in particolar modo quelli migratori, costituiscono un caso importante poiché mostrano somiglianze di orientamento ma non di struttura con l’animale umano. Sia gli uni che gli altri sono forme di vita esteroflesse, volte verso l’esterno. Ma solo la nostra specie è, per usare un’espressione coniata da Helmut Plessner (1892-1985)9, «eccentrica» cioè in grado di porsi al di fuori di se stessa. Quello delle rondini, ad esempio, 109
è comunque un istinto: una forma rigida e impermeabile che, come tale, non conosce modulazioni. Mentre l’uccello deve emigrare, l’uomo può parlare. Come già sottolineava Uexküll alla sicurezza animale fa da contraltare la libertà dell’uomo. Ma libertà e possibilità non sono, ribadisce Portmann, sinonimi di caos: Alla sicurezza dell’animale protetto dalle sue preordinate capacità di orientamento l’uomo non si contrappone in quanto essere disorientato. Il vero polo opposto alla determinatezza ereditaria del mondo esperito dall’animale è costituito dall’orientamento come compito della ragione, attuabile attraverso l’innata facoltà a dominare per questa via il mondo (Portmann, 1957, p. 113).
L’animale umano è protagonista di un mondo sia tolemaico che copernicano. Se da un lato questa duplicità è fonte di contrasto tra sistemi di orientamento tra loro opposti, dall’altro è proprio una simile ambivalenza che segna le sorti di un animale che è eccentrico ma non spaesato, che vive di un orientamento primario garantito dai suoi sensi ma anche di sistemi di riferimento che consentano di andare al di là del qui e dell’ora, di fare progetti e di immaginare. Questa precisazione consente di fare un passo teorico importante. Sia la tesi di Uexküll e Pinker che la lettura linguistica delle nozioni di mondo e ambiente proposta da Lo Piparo e Cimatti insistono infatti su una duplicità. Seppur nella diversità delle varie posizioni, tutti e quattro gli autori sostengono che quello dell’uomo è allo stesso tempo un mondo e un ambiente. Heidegger e Gehlen ci hanno mostrato invece la radicale diversità di queste due condizioni d’esistenza. Portmann ci dà ora la possibilità di mantenere ciò che c’è di positivo in questa intuizione, la duplicità della natura umana, evitando però di affermare la coesistenza tra due termini che si escludono reciprocamente (avere un mondo e avere un ambiente è una situazione tanto contraddittoria che anche Heidegger la utilizza per definire la vita animale solo in prima battuta e per approssimazione). Si tratta infatti di una duplicità diversa che riguarda la compresenza nell’animale umano di due sistemi di 110
riferimento, tolemaico e copernicano. Ma attenzione: sarebbe errato dire che Tolomeo è il nostro corpo, mentre Copernico è il nostro linguaggio. Questa identificazione, che ci riporterebbe in fin dei conti alla identificazione tra mondo e parola, è insostenibile. I nostri tempi di sviluppo morfologici, la posizione del nostro corpo, la libertà delle mani costituiscono forme copernicane corporee perché costituiscono il presupposto di una vita che esce da nicchie ambientali per costruire mondi adatti a sé. Allo stesso tempo, è proprio Portmann (1959, p. 178) a sottolineare che anche il linguaggio ha aspetti tolemaici: il pensiero primitivo e infantile, il ragionamento per analogia e immagini trasuda di esperienze sensoriali tanto da rimanerne soggiogato. Non si tratta di uno stadio transitorio del pensiero umano che poi viene superato, quanto invece di un carattere costitutivo del nostro corpo e del nostro linguaggio: Noi siamo e restiamo dei tolemaici; siamo nati tali e tali nasceremo in futuro, e anche nell’esperienza di tutti i giorni, come nella nostra vita sentimentale, l’atteggiamento tolemaico resterà sempre determinante (ivi, p. 184).
Sia gli uccelli che gli esseri umani sorvolano (übersehen) ma solo questi ultimi possono farlo nella duplicità dell’espressione: poiché, oltre a godere di vedute panoramiche, gli animali umani sono in grado di esimersi dall’esperienza, di tirare oltre, di lasciar stare. Proprio perché la struttura dell’uccello si concentra sull’aspetto visivo della percezione panoramica, ne rimane intrappolato: è tanto aerodinamico in aria quanto goffo a terra. Quello degli uccelli migratori è in realtà un sistema combinato: la visione si avvale di una sofisticata bussola biologica che permette agli uccelli migratori (cosí come alle api) di orientarsi nell’attraversare il pianeta (cfr. Hughes, 1999). L’essere umano raggiunge un sistema d’orientamento simile a quello degli uccelli attraverso un percorso del tutto diverso: la nudità della pelle fa da contraltare al carattere localizzato delle mani che, invece di specializzarsi in ali, mostrano caratteri piú generici anche rispetto alle zampe dei primati (cfr. cap. 111
III, paragrafo 4). Per questa ragione seppur esistano, come nota Morris (1967, pp. 16-17), mammiferi volanti senza piume (i pipistrelli) tale perdita di piumaggio non solo non comporta l’apertura dell’ambiente dell’animale in un mondo ma al contrario ha come effetto il suo confinamento in un Umwelt di dimensioni spazio-temporali ancora piú ristrette. Il punto è importante perché, se ci pensiamo, il pipistrello potrebbe costituire un controesempio alla nostra tesi: è anch’egli in un certo senso un bipede implume10 ma non per questo ha una seconda natura (i pipistrelli non solo non migrano ma neanche parlano). La nudità aerea di questa specie costituisce infatti una specializzazione evolutiva e non un carattere fetale: non a caso è accompagnata dalla scomparsa della funzione visiva e dalla sua sostituzione con un sistema di orientamento ancora piú specializzato, efficace anche in assenza di luce. Mentre il pipistrello rinuncia a pelo e piume in omaggio a due strutture superspecializzate (ali e sistema di ecolocalizzazione), l’animale umano accompagna a quello implume una serie ancor piú vasta di caratteri non specializzati (si pensi alla lista fornita da Bolk). La sensibilità esposta della pelle, ricettiva e ancorata a terra, è controbilanciata dalla mobile libertà di mani che costituiscono la premessa per modificare l’ambiente in mondo. Per questa ragione è la duplicità del tatto (anticipiamo un tema che affronteremo nel capitolo IV) a costituire il fondamento corporeo della duplicità linguistica, tolemaica e copernicana, dell’animale umano. È su questa basilare e complessa capacità di orientamento che si fonda una perspicuità, quella offerta dal linguaggio, superiore anche a quella visiva: quest’ultima può sorvolare solo in senso proprio, mentre la prima garantisce prospettive panoramiche sia percettive (quelle fornite da alianti e satelliti, aeroplani ed elicotteri: tutti oggetti della seconda natura) che rappresentative. Come la rondine, anche l’essere umano migra anche se non è piú un istinto a guidarne il percorso. A condurci sono i segni sulla carta o i racconti dei nostri avi che ci esonerano dal pericolo dello smarrimento e che, allo stesso tempo, 112
ci permettono di cambiare strada alla ricerca di posti inesplorati, forse migliori. L’animale umano è per struttura morfologica un primate lento, ma per sistema d’orientamento è un uccello che vola con la lingua. 3.4. L’animale non specializzato Nel paragrafo 2 abbiamo analizzato due risposte alla psicologia comportamentista, quelle di Uexküll e di Scheler. Intorno agli anni quaranta e cinquanta un altro approccio allo studio del comportamento animale, l’etologia, comincia a far sentire la propria voce contro il behaviorismo grazie soprattutto all’opera del suo fondatore, Konrad Lorenz (1903-1989) e del suo collaboratore piú stretto Nikko Tinbergen (1907-1988). L’etologia, che si propone di studiare non solo il comportamento ma anche le abitudini e il carattere (l’ethos, appunto) di ogni specie vivente, è protagonista di un rovesciamento argomentativo che contribuisce a mettere in crisi il paradigma comportamentista (Gardner, 1985, pp. 44-45) ma che al contempo critica alcuni assunti fondamentali dell’antropologia filosofica. Il behaviorismo, infatti, negli anni cinquanta ripropone una critica radicale al concetto di «innato» (cfr. cap. I, par. 2.1): per un verso sostiene che la dicotomia innato/appreso è sostanzialmente inutilizzabile poiché ognuno dei due termini può esser definito solo facendo ricorso all’altro. Per un altro verso la soluzione proposta da questo paradigma consiste nell’esaltazione dell’apprendimento tramite rinforzo e condizionamento. Mentre il comportamentismo ipotizza la forza pervasiva dei processi di apprendimento, Lorenz ravvede nella complementarietà tra innato e appreso la necessità di riscoprire l’importanza dei fattori ereditari per comprendere il comportamento animale (Lorenz, 1965, pp. 22 sgg.; 1978, pp. 9, 267). L’approccio etologico però critica anche Uexküll poiché postula l’esistenza di «un’armonia prestabilita» tra l’organismo e il suo ambiente (1965, p. 32). In entrambi i casi infatti l’apprendi113
mento è considerato un processo automatico: per i comportamentisti perché determina l’intera vita di un essere vivente; per Uexküll perché è una pratica statica, incapsulata all’interno di una relazione rigida e astorica. Le informazioni possono entrare dentro un organismo, ricorda Lorenz (ivi, p. 130), non solo attraverso l’interazione tra l’individuo e l’ambiente ma anche per mezzo dell’interazione tra specie e ambiente nel corso dell’evoluzione. Il comportamentismo trascura l’importanza del patrimonio genetico che costituisce per ogni specie animale la realizzazione biologica degli a priori kantiani: la griglia attraverso la quale un organismo entra in contatto con l’ambiente è determinata dall’insieme dei suoi sistemi motori e percettivi. Uexküll coglie nel segno quando definisce il rapporto tra comportamento e ambiente in termini di contrappunto, poiché individua, secondo Lorenz (1973, p. 53), il principio morfologico che permette alle strutture innate e ai comportamenti appresi di costruire «tessere a incastro» (1965, p. 24). Ogni specie vivente è l’immagine dell’ambiente nel quale vive poiché ne costituisce il correlato funzionale. Se Portmann corregge un darwinismo che rischia di trascurare il valore morfologico delle forme viventi, Lorenz introduce una lettura evoluzionistica della biologia di Uexküll. Mentre il biologo svizzero insiste sul significato autorappresentativo del corpo, il fondatore dell’etologia contemporanea propone una interpretazione ambientale del concetto di immagine: Anche nel corso dello strutturarsi del corpo, cioè nella morfogenesi, si formano delle immagini del mondo esteriore: le pinne e il modo stesso di muoversi dei pesci riproducono le caratteristiche idrodinamiche dell’acqua […] (Lorenz, 1973, p. 25).
Anche una forma elementare come il paramecio, ormai a noi ben noto (cfr. paragrafi 2, 3.1, 3.3), costituisce il calco dell’ambiente in cui vive: in questo caso si tratta di un’immagine semplice e piatta di uno spazio unidimensionale nel quale è possibile muoversi solo per procedere lungo il proprio percorso o evitare un oggetto d’intralcio (ivi, pp. 25-26, 30). La rilettura da 114
parte di Lorenz dell’opposizione tra fattori innati e appresi segna quindi una ridistribuzione dei pesi rispetto al comportamentismo che privilegia i fattori ereditari su quelli acquisiti. Secondo Lorenz, infatti, mentre è impossibile che si verifichi apprendimento senza che ci siano precondizioni genetiche a costituirne la porta d’ingresso, è possibile che si verifichi il contrario. È la rivalutazione del concetto di istinto a costituire un punto di distanza fondamentale non solo con il pensiero comportamentista ma anche con l’antropologia filosofica. Si tratta di un concetto del quale aveva diffidato per primo lo stesso Lorenz poiché connotato tra fine ottocento e inizio novecento di sfumature vitalistiche e finalistiche. La sua rilettura da parte di Lorenz e Tinbergen (1951) in senso genetico permette di impiegarlo per comprendere aspetti del mondo animale altrimenti inspiegabili. Il fatto, ad esempio, che una tinca alla quale siano state rescisse le terminazioni nervose afferenti (cioè stimolative) sia in grado di continuare a muoversi nell’acqua mostra l’esistenza di schemi motori innati quasi del tutto autonomi da ogni forma di feedback percettivo e d’apprendimento (ivi, pp. 112-114). Fenomeni diffusi nel mondo animale come i cosiddetti «meccanismi scatenanti innati» (ivi, pp. 74 sgg.; Lorenz, 1973, pp. 100 sgg.) ne costituiscono la conferma: in questi casi per dimostrare il carattere innato di certi comportamenti è sufficiente che l’animale non riceva certe stimolazioni. L’esperienza comune del cane domestico che improvvisamente si mette a scavare impossibili buche nel pavimento di casa mette in evidenza come coordinazioni motorie anche complesse sfruttino l’esperienza solo come innesco e, in mancanza di questa, si attivino in modo automatico indifferentemente dalla situazione nella quale si vanno a trovare. Il cane, a prescindere da dove si trova, agisce come se fosse nel suo ambiente naturale poiché lo porta sempre con sé: la pressione selettiva dell’evoluzione è in grado di modificare il rapporto organismo-ambiente ma ciò non significa che la rigidità di quel rapporto descritta da Uexküll non sia valida in termini sincronici, cioè durante la vita di un singolo organismo. 115
Secondo Lorenz, è sufficiente introdurre questa correzione darwiniana per rendere l’approccio di Uexküll sostanzialmente corretto. Non a caso l’estrema continuità postulata da quest’ultimo tra la nozione di ambiente e quella di mondo è mantenuta invariata. È proprio questo il punto di scontro che avvia l’acceso dibattito tra Lorenz e Gehlen sul posto dell’animale umano nel regno naturale. Lorenz infatti critica Gehlen per aver sopravvalutato le differenze che ci distinguono dalle altre specie animali: il fondatore dell’etologia sottolinea che si tratta di un rapporto di continuità nel quale le diversità sono solo di grado e non di genere. Se il primo concorda con il secondo nel definire propria dell’uomo «una persistente curiosità e l’apertura al mondo» (Lorenz, 1973, pp. 364 sgg.) caratterizzata da condotte esplorative, la differenza d’impostazione emerge quando si prendono in esame comportamenti animali per certi versi simili a quelli umani. Lorenz infatti ricorda che anche i ratti tra i mammiferi e i corvi tra gli uccelli si caratterizzano per la loro curiosità. I ratti, ad esempio, quando si vengono a trovare in un ambiente nuovo esplorano in lungo e in largo tutti i possibili rifugi anche se hanno già a loro disposizione un riparo; i corvi spostano con il becco gli oggetti che capitano a tiro anche se non hanno intenzione di mangiarli, fanno a pezzi un oggetto di dimensioni anomale per poi nasconderli e servirsene in seguito. È proprio l’apertura che caratterizza queste forme di vita a metterli in condizione di vivere in situazioni ambientali molto diverse e a far assumere loro comportamenti e abitudini di volta in volta distinti. Il corvo ad esempio: Nei deserti nordafricani, dove si nutre di carogne, vive la stessa vita dell’avvoltoio, sulle isole degli uccelli, nel mare del Nord, vive come un gabbiano predatore, nutrendosi parassitariamente delle uova e dei piccoli di altri uccelli; mentre, nell’Europa centrale, può dedicarsi alla caccia di mammiferi di piccole dimensioni, come fanno le cornacchie (ivi, p. 252).
Secondo Lorenz, questi comportamenti mostrano che non c’è soluzione di continuità tra le diverse specie animali umane 116
e non umane. La distinzione piuttosto consisterebbe tra sistemi biologici aperti e chiusi: i corvi tra gli uccelli, i ratti tra i mammiferi e gli uomini tra i primati costituirebbero picchi di apertura ecologica tra loro commensurabili. Gehlen, pur accettando alcune critiche di Lorenz e ammorbidendo la posizione assunta nella prima edizione dell’Uomo, ricorda che i comportamenti mostrati da questi animali assomigliano solo apparentemente alle condotte esplorative umane. Corvi e ratti, ricorda il filosofo tedesco (Gehlen, 1978, p. 57), di queste condotte in realtà non sanno che farsene. Anche se si muovono nello spazio e lo esplorano al di là di evidenti vantaggi immediati (ricerca di cibo, riparo o partner sessuale), non si può affermare che simili forme di vita prendano conoscenza di ciò che li circonda in modo superiore rispetto agli altri uccelli o altre specie di mammiferi. L’animale umano si distingue perché, oltre ad avere bisogni, ha interessi: «mette tra parentesi» i propri istinti, li «sublima» (ivi), li indirizza verso un obiettivo diverso da quello originario. L’interesse è un bisogno contestualizzato, sensibile alle differenti circostanze. Lo iato che secondo Gehlen sussiste tra animali umani e non umani si annuncia in uno iato interno alla nostra specie: questa parola [iato] deve indicare il fatto che l’uomo è in grado di ritenere presso di sé i suoi impulsi, desideri, interessi, di sganciarli dall’azione – e questo può succedere tanto da sé (nello stato di riposo) quanto volontariamente – in quanto non accondiscende ad essi attivamente, per cui questi acquistano una valenza «interiore». È lo iato che costituisce propriamente ciò che si chiama anima (Gehlen, 1963, p. 136).
La critica di Lorenz, però, va piú a fondo poiché coinvolge un elemento cardine della teoria di Gehlen, l’idea che l’uomo sia un essere non specializzato. Il cervello costituirebbe invece il controesempio a questa posizione poiché rappresenta una struttura dedicata ad alcune funzioni specifiche, proprie soltanto dell’animale umano. Quest’obiezione è particolarmente interessante poiché, seppur su basi molto diverse, ripropone una convinzione fonda117
mentale della scienza cognitiva contemporanea. Come si ricorderà (cap. I, paragrafo 3.3) Marconi, ad esempio, è fautore dell’idea che sia proprio lo studio del cervello l’ultima e decisiva frontiera per una spiegazione della natura umana in termini cognitivi. Lorenz, che non a caso esprime ripetutamente il suo apprezzamento per le teorie linguistiche di Chomsky11, ripropone una teoria simile poiché sottolinea soprattutto le componenti innate, i repertori geneticamente programmati, che fanno sí che «l’uomo sia per natura un essere culturale» (Lorenz, 1973, p. 316). Di fondo non ci sarebbero quindi elementi di discontinuità tra uomo, corvo e ratto perché sono tutti «animali specializzati nel non essere specializzati» (ivi, p. 252). Gehlen ribatte esplicitamente a questa critica in un saggio (1963) in cui rivisita la sua opera principale. La risposta è particolarmente interessante perché ripropone con precisione il contrasto tra due visioni della natura umana. Una la localizza nel cervello aggiungendo piú o meno esplicitamente che essa è in primis un organo linguistico: idea che, con le dovute distinzioni, abbraccia un ampio arco di posizioni che comprende la scienza cognitiva ortodossa, la rilettura linguistica di Uexküll e ora l’etologia di Lorenz. La seconda ricorda che non sono solo cervello e linguaggio a fare dell’animale umano quel che è ma che è necessario prendere in considerazione un piú ampio principio morfologico che riguarda struttura e sensibilità del suo corpo. Come ricorda Gehlen infatti, il cervello è un organo sensomotorio prima che intelligente: in altre parole non bisogna confondere il fatto che il cervello sia un organo estremamente sviluppato e frutto di un complesso processo evolutivo con l’idea che questo costituisca un organo specializzato. Proprio perché il cervello è l’organo buono per tutte le occasioni non è nato solo per una di esse. In tal senso non può esser definito neanche un organo, come non può esserlo il corpo o le mani: Insieme al cervello bisogna vedere gli organi di percezione, la facoltà del linguaggio e del pensiero, la straordinaria molteplicità di possibili figure 118
motorie, rispondenti l’una all’altra, e, fatto questo, domandarsi poi come deve essere costituito un organismo che necessita di queste cose. Ed è appunto un organismo embrionale, non specializzato, povero d’istinti, esposto alla ricchezza aperta del mondo (Gehlen, 1963, p. 121).
Non si tratta quindi di una mera questione terminologica o della sterile contesa sulla denominazione piú corretta. Quel che è in gioco è l’opposizione tra due paradigmi alternativi: nonostante entrambi i modelli (in questo caso Lorenz e Gehlen) si rifacciano a Uexküll e portino a loro sostegno la teoria della fetalizzazione di Bolk (Lorenz lo cita ad esempio in 1973, p. 254), le posizioni che propongono sono molto diverse tra loro. Quelli che si affrontano non sono due posizioni, una evoluzionistica e una no, ma due modi diversi di intendere l’evoluzionismo e, in relazione a ciò, di concepire la natura umana. Come vedremo nel prossimo paragrafo, infatti, la posizione discontinuista di Gehlen trova sostegno nella lettura dei processi evolutivi proposti in questi ultimi decenni da S.J. Gould e N. Eldredge i quali insistono sul carattere non graduale dell’evoluzione. Ma la risposta di Gehlen sembra piú soddisfacente della critica che gli è mossa almeno per un’altra ragione. Lorenz, infatti, incappa in un paradosso molto simile a quello mostrato proprio da uno dei piú autorevoli esponenti della scuola chomskyana, Pinker. Quest’ultimo, come visto (cap. I, paragrafo 3.3), considera il linguaggio una sorta di superistinto che si distingue dalle altre forme cognitive solo in base a criteri meramente quantitativi: l’animale umano ha un organo in piú rispetto alle altre specie, la somma dei suoi istinti è superiore a quella delle altre forme di vita. Avremmo istinti tanto plastici da essere programmabili e cosí flessibili da aprire una dimensione temporale che non è solo genetica ma storica. Ma in che senso allora sono istinti? Lorenz ci riporta a una impostazione piuttosto simile, minata inevitabilmente da una confusione non solo teorica ma anche logica. Affermare che siamo specializzati nel non esserlo è come dire che gli aeroplani sono in fondo automobili che hanno le ali: il che, a prescindere dal senso in cui ciò sia vero o meno, non ci dice nulla di nuovo perché non ci fa capire in cosa gli aeroplani siano diversi dalle auto. Detto in altri termini, 119
tutti coloro i quali sostengono che l’animale umano non vive in un mondo ma solo in un ambiente particolarmente ampio compiono un errore che con le parole di Wittgenstein possiamo chiamare «grammaticale», poiché dopo aver proposto un concetto se ne fa un utilizzo che implicitamente ne disconferma i caratteri costitutivi. L’ambiente, infatti, non è altro che una nicchia ecologica, cioè una porzione ristretta dello spazio abitabile. Quando si afferma che quella dell’animale umano è una nicchia la cui particolarità è solo di essere ampia, si sostiene che l’habitat umano è una porzione dello spazio abitabile che è ristretta e contemporaneamente non ristretta. Siamo di nuovo alla contraddizione già analizzata secondo la quale l’uomo avrebbe e non avrebbe un ambiente (cfr. paragrafo 2).
4. Nudità e neotenia Desmond Morris (n. 1928) è uno degli autori che con piú autorevolezza ha applicato il modello etologico allo studio del comportamento umano. Lo studioso inglese, cosí come I. Eibl-Eibesfeld (n. 1928) l’altro grande nome dell’etologia contemporanea, è fedele all’assunto di Lorenz secondo il quale l’animale umano sarebbe «specializzato nel non specializzarsi» (Morris, 1967, p. 138; cfr. Eibl-Eibesfeld, 1987, p. 757; 1989, p. 398). Seppur la sua posizione diverga da quella con cui concordiamo (la linea Heidegger-Gehlen), Morris contribuisce a sviluppare una nozione, quella di neotenia, di grande importanza per il paradigma del bipede implume. In realtà questo termine (letteralmente «tendere al nuovo, al giovane») nasce un secolo fa per merito di J. Kollmann (Gould, 1977a, p. 356), ma è solo nella seconda metà del novecento che questo concetto trova ampia diffusione e viene approfondito in relazione al problema della natura umana. La neotenia, come afferma Morris (1967, p. 34), è un processo di «infantilismo differenziale» molto simile alla fetalizzazione di cui parla Bolk (che accenna non a caso a questo concetto, 1926, p. 472): consiste infatti nel ritenere in età adulta 120
caratteristiche somatiche tipiche della condizione infantile (o embrionale) del genere biologico cui si appartiene. La neotenia di per sé non caratterizza solo lo sviluppo dell’animale umano. L’axototl (una specie di salamandra), ad esempio, può mantenere a secondo delle condizioni ambientali la respirazione branchiale tipica del suo stato giovanile di girino (ivi; Gould, 1977a, pp. 319-321). Morris però concentra la propria attenzione su una caratteristica neotenica, già individuata da Bolk, particolarmente importante: la nudità del nostro corpo. Come afferma lo studioso inglese, infatti, tra le 193 specie di primati esistenti sulla terra solo quella umana è priva di pelo. Allo stato fetale ne sono sprovviste anche le altre scimmie, ma questa caratteristica permane solo nella nostra specie. La nudità si compone in realtà di tre elementi: non consiste solo nell’assenza quasi totale di pelo sulla pelle ma anche dell’aumento, rispetto agli altri primati, delle ghiandole sudoripare e dello strato di grasso sottocutaneo. Queste caratteristiche sono complementari alla prima. Secondo Eibl-Eibesfeld (1987, p. 756), infatti, sarebbero proprio queste due proprietà somatiche che ci permetterebbero di compensare in resistenza quello che la stazione eretta ci sottrae in termini di velocità: è ciò che consente ai Boscimani, ad esempio, di catturare animali scattanti come le antilopi per sfinimento. Stazione eretta e nudità costituiscono a tal proposito un binomio decisivo perché costituiscono due elementi fondamentali di genericità per un corpo non piú confinato a terra ma allo stesso tempo ancora in grado di percorrere lunghe distanze. Una mancata specializzazione che si manifesta anche nella plasticità corporea alla quale accennavamo in precedenza. Probabilmente il processo di ominizzazione, cioè il passaggio dalle prime forme di ominini all’Homo sapiens, è stato caratterizzato dal trasferimento da un ambiente forestale a uno stepposo in conseguenza del progressivo inaridimento dell’Africa equatoriale, nostro luogo di origine12. Questa duplicità, esseri arboricoli diventati terrestri, vegetariani in competizione con carnivori, ha dato vita a un bricolage di caratteristiche morfologiche 121
molto particolare. Nella steppa infatti vivono di solito animali dalla limitata plasticità corporea: anche le antilopi, una delle forme di vita meno specializzate in questo habitat (Eldredge, 1991, p. 140), si muovono secondo unità di coordinazione motoria piú grandi, di conseguenza piú rigide, non solo dei primati ma anche di altri quadrupedi che vivono in ambienti meno omogenei come ad esempio i camosci (Lorenz, 1973, p. 234). L’animale umano si presenta invece come un essere che vive nella steppa ma che nella locomozione ha un «minimum separabile, cioè la minima parte autonomamente disponibile della coordinazione ereditaria» (ivi, p. 233), tipico di ambienti piú variegati, come quelli arboricoli. Prima di passare all’altra conseguenza della nostra nudità che riguarda l’intimità sociale, dobbiamo però soffermarci con piú cura sul concetto di neotenia. Questa infatti non solo consiste nel mantenimento in età adulta di caratteri giovanili. Come osserva Gould (1977a, pp. 303 sgg.) in uno degli studi piú accurati su questo tema, è possibile distinguere tra almeno due processi evolutivi che hanno questo esito, chiamato di solito pedomorfosi: Pedomorfosi ÌÓ Progenesi Caratteri giovanili prodotto di Í Accelerazione con maturazione sessuale precoce Í
Í Selezione R – animali di piccole dimensioni – vita breve – figliate frequenti e numerose – clima avverso e scostante 122
Neotenia Caratteri giovanili prodotto di Í Ritardo nello sviluppo somatico con maturazione sessuale Í Í normale ritardata (axolotl) (Homo sapiens) Í Selezione K – animali di grandi dimensioni – vita piú lunga – figliate poco frequenti e poco numerose – clima meno duro e piú costante
Come si vede, la contrapposizione tra selezione K e R ricalca quasi perfettamente la distinzione proposta da Portmann tra mammiferi altriciali e primari13. Gould ripropone questa classificazione all’interno di un panorama piú ampio nel quale la neotenia acquista connotati precisi: il problema non è solo stabilire se una specie mantiene in età adulta tratti giovanili ma anche quale sia il processo che porta a un simile risultato. Nel caso della progenesi, infatti, questa conservazione è conseguenza di una folgorazione ontogentica, di uno sviluppo tanto rapido da impedire ad alcuni tratti somatici di svilupparsi. Nel caso della neotenia, invece, si ottiene una fuga dalla specializzazione per mezzo del rallentamento ontogenetico. Come già accennavamo nel paragrafo 3.3, l’animale umano sembra unire queste due caratteristiche: al ritardo aggiunge un altro fattore di segno inverso poiché i piccoli umani nascono prima del tempo. Gould a tal proposito consente di fare delle integrazioni interessanti. Mentre Portmann si concentra sull’importanza della precoce stimolazione corporea, l’attenzione del biologo americano è rivolta soprattutto a un altro aspetto. Gould (1977b, pp. 62-67) sostiene che la precoce nascita del piccolo di uomo dipende da un motivo anatomico che riguarda la spropositata grandezza della nostra testa: se il piccolo aspettasse a uscire, non riuscirebbe a farlo perché il canale utero-vaginale femminile non sarebbe in grado di dilatarsi a sufficienza. Egli concorda con Morris nel sottolineare che la grandezza del nostro cervello, elemento considerato decisivo per l’origine del linguaggio verbale, non è un fatto collaterale al carattere neotenico del nostro sviluppo: i tempi di crescita tanto elevati che contraddistinguono il nostro primo anno di vita riguardano in particolar modo proprio il nostro cervello. Alla nascita in effetti quest’organo è solo il 23% delle dimensioni adulte, mentre negli altri primati corrisponde al 70%. Se nelle scimmie il processo si esaurisce nei primi sei mesi dopo il parto, nell’animale umano assistiamo a un percorso complesso, piú veloce e piú lungo allo stesso tempo. 123
Per un verso i ritmi di crescita post-natale sono come detto piú elevati; per un altro il processo di sviluppo cerebrale prosegue fino ai 23 anni (Morris, 1967, p. 34). È proprio questa accelerazione nel ritardo a contraddistinguere quella che altrove (Mazzeo, 2002c) abbiamo proposto di chiamare ultraneotenia: una tendenza alla gioventú che non si esprime solo nella resistenza all’invecchiamento ma anche, ed è questa la novità, nella fretta di nascere. Una fuga dalla specializzazione doppia poiché riunisce insieme tutte e due le strategie naturali che danno forma a un corpo generico: progenesi e neotenia14. Il carattere particolarmente neotenico della nostra specie rivela, inoltre, un secondo aspetto, complementare al primo, che, mutuando il termine da Morris (1967, p. 139), potremmo definire neofilia. Questo termine non si riferisce solo all’amore per il nuovo sottolineato da Gehlen, poiché ha anche altri due significati piú circoscritti che costituiscono la precondizione genetica della nostra apertura al mondo. L’ultraneotenia si esprime, in primo luogo, nella predilezione umana percettiva ed emotiva per forme neoteniche. Studi condotti da Lorenz (cit. in Eibl-Eibesfeld, 1989, p. 41) e poi ripresi da Gould (1980, pp. 89-98) dimostrano la nostra predisposizione innata per morfologie corporee particolari: teste grandi in corpi in proporzione molto piú piccoli, occhi grandi su fronte bombata costituiscono le coordinate di affezione primitiva ai piccoli della nostra specie, le stesse che l’industria delle bambole e del fumetto sfrutta tutt’oggi per incrementare le proprie vendite. In secondo luogo l’animale umano è un neofilo perché, nella domesticazione, tende a selezionare animali neotenici in senso sia morfologico che comportamentale (Gould, 1993, pp. 438-453). Da un punto di vista somatico esiste un rapporto tra forma animale e domesticazione. Lo studio della lunghezza del cranio dei cani, ad esempio, ha mostrato la somiglianza della forma della testa nei neonati a quella adulta. Ma il punto centrale della neotenia delle specie domestiche è costituito dalle sue conseguenze comportamentali: buon esempio è dato dal confronto tra i cani pastore e i cani da di124
fesa. Il diverso grado di neotenia emerge infatti nella gestione del gregge di pecore che devono sorvegliare. I primi utilizzano comportamenti predatori degli adulti arrestandosi prima dell’uccisione: sottomettono le pecore che si discostano dal gruppo afferrandole. I secondi stanno in mezzo al gregge fornendo protezione solo con la loro mole e comportandosi con le pecore come se fossero cuccioli: le leccano, ci giocano e le montano. Ultraneotenia e neofilia hanno conseguenze decisive per la nostra forma di vita poiché incarnano entrambe la necessità di una estrema intimità corporea e sociale che, in assenza di conspecifici, si può riversare su specie diverse per genere biologico ma affini per giocosa plasticità. Si tratta di un bisogno di intimità che emerge secondo almeno due direttrici di fondo: nelle cure parentali e nelle cure sessuali. «L’infante umano», come ricorda Morris (1971, p. 37), «è un unico grande invito all’intimità»: come abbiamo visto, la sua conformazione corporea sollecita cure indispensabili per un essere che per molto tempo non può sopravvivere solo. La nascita prematura costituisce allora una necessità che si fa virtú: l’intrinseca socialità dell’animale umano non dipende da una sorta di bontà naturale quanto invece dall’impossibilità di fare altrimenti poiché costituisce «un fattore formativo obbligatorio» (Portmann, 1960, p. 198). Per questa ragione la nostra seconda natura, cultura e linguaggio, non si aggiunge semplicemente alla prima ma la integra costituendone il necessario completamento. Le cure parentali, cosí come i forti legami sociali, costituiscono un presupposto del linguaggio verbale indispensabile per esseri che solo stando insieme hanno qualche possibilità di sopravvivere. L’allattamento al seno e il contatto con i genitori costituiscono forme di intimità fisiologica necessarie per lo sviluppo e il nutrimento del piccolo che, allo stesso tempo, assumono un valore intrinsecamente sociale poiché contribuiscono a cementificare rapporti duraturi. L’ultraneotenia è il processo che dà forma a una specie nella quale piccoli particolarmente indifesi sono presi in cura da adulti particolarmente attratti dai loro bambini. È proprio 125
questa necessità di stare insieme che contribuisce a far uscire l’animale umano dall’isolamento che caratterizza l’ambiente animale e a gettarlo nella socialità del mondo: l’amore per i propri piccoli non è solo simbolo ma anche condizione genetica per quell’amore per la novità che caratterizza la nostra intera esistenza. I rapporti sessuali costituiscono in tal senso la prosecuzione di una intimità sociale non piú legata ai rigidi schemi dell’istinto. «La scimmia nuda», sostiene giustamente Morris (1967, p. 67), «è il piú sensuale di tutti i primati viventi»: il contatto sessuale umano, la forma piú coinvolgente di percezione tattile, non è necessariamente legato alla riproduzione poiché la ricettività femminile non è legata a quello che nelle altre specie è il ciclo dell’estro. Non è tanto l’ovulazione a determinare l’eccitazione della donna quanto invece il rapporto con il proprio partner: come già riconosce Gehlen (1951; 1978), la sessualità, insieme alle altre pulsioni umane, rappresenta una dimensione sfocata e diffusa che trova focalizzazione proprio nel contatto sociale. Se l’indeterminatezza alla nascita è il presupposto dell’intimità parentale, l’indeterminatezza sessuale garantisce che questa intimità prosegua nel tempo nel contatto con il partner. Si tratta a tal proposito di una mancanza di determinazione sessuale duplice. Per un verso essa riguarda un contatto, come accennato, tra individui di sesso diverso ormai non piú legato alla riproduzione: non a caso la lunghezza media dei rapporti sessuali umani è cento volte superiore rispetto a quella degli altri primati (Morris, 1971, p. 106). Per un altro questa indeterminatezza riguarda anche la nostra identità sessuale: proprio perché non piú confinata in istinti, gli animali umani si caratterizzano, come sottolinea Portmann, per la loro intrinseca bisessualità:
Per animali che nascono sprovvisti di difese naturali, sopravvivere e avere una identità individuale diventano un compito. Si tratta di una conquista che solo il linguaggio verbale può consentirci di ottenere lavorando sullo sfondo di intimità sociali già intrecciate dall’insufficienza biologica mostrata dai nostri corpi.
Letture consigliate –
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– Ereditaria è anche la fondamentale bisessualità della nostra costituzione, come lo è la singolare divisione fra maschile e femminile, dove è da notare il fatto che in ognuno dei due sessi distinti anche l’altro tende nei piú diversi modi a farsi valere. Gli psicologi si imbattono sempre piú spesso in espressioni di questa condizione androgina dell’individuo (Portmann, 1959, p. 173). 126
Sull’importanza della nozione di mondo per la filosofia del linguaggio e per la filosofia politica è decisivo Virno (1994). Per una introduzione al pensiero di Uexküll e Portmann si veda Lestel (2001) che sottolinea l’importanza dei due autori per il passaggio dalla concezione cartesiana degli animali come macchine a quella, etologica, che li considera innanzitutto soggetti. Uexküll è al centro di una suggestione narrativa molto efficace in cui lo scrittore danese Peter Høeg (1993) fornisce un esempio interessante della nostra condizione di esseri «quasi adatti». L’opera piú completa sulla neotenia è ancora quella di Gould (1977a) che dedica a questo concetto l’ultima parte del libro (capp. 9 e 10) e che contiene un glossario molto accurato anche da un punto di vista storico, utile per orientarsi nella biologia dello sviluppo. Piú aggiornata è l’opera di McKinney e McNamara (1991) che dedica un capitolo (il settimo) ai tempi dello sviluppo umano. In italiano è possibile leggere alcuni saggi, meno tecnici ma ugualmente efficaci, contenuti in Gould (1977b. saggi n. 7 e 8) che parlano sia di Bolk che di Portmann. Per una lettura della neotenia opposta a quella presentata qui, si veda il recente libro di Felice Cimatti (2002) che, come vedremo nel cap. IV, interpreta la lentezza dello sviluppo umano non come condizione di possibilità (e di necessità) del linguaggio ma come sua conseguenza. Purtroppo non tradotto in italiano, uno dei romanzi di Aldous Huxley (1939) risente delle ricerche che il fratello Julian Huxley (1920), tra i biologi piú importanti del novecento, ha condotto sugli axototl (le salamandre che restano immature). After many a summer dies the Swan, infatti, propone una versione del mito della vita eterna in chiave neotenica: il filtro di lunga vita non solo renderebbe immortali ma, dandoci il tempo di invecchiare, ci trasformerebbe in scimmie. Sull’antropogenesi, Gribbin e Cherfas (2001) hanno scritto di recente un testo, chiaro e abbastanza aggiornato, che sottolinea l’attualità dell’impostazione di Bolk e della teoria della fetalizzazione. Per una panoramica molto dettagliata sullo stato attuale della ricerca paleoantropologica, è utile consultare Biondi e Rickards (2001): il loro testo mette in evidenza il ruolo del caso per la comparsa della specie umana ma, curiosamente, considera la casualità che regge l’evoluzione inconciliabile con la ri127
cerca di tratti corporei che abbiano costituito condizioni di possibilità per la natura umana. Schwartz (1987) contiene una ricostruzione storico-teorica molto interessante delle difficoltà classificatorie che presenta il concetto di «primate». All’interno del libro è proposta una ricostruzione della filogenesi umana, minoritaria ma originale, che sottolinea la vicinanza non tanto tra l’Homo sapiens e gli scimpanzé, quanto tra noi e gli orang-outan.
III. Nelle nostre mani
Io non separo la mano né dal corpo né dalla mente. Tra la mente e la mano, però, le relazioni non sono quelle, semplici, che intercorrono tra un padrone ubbidito e un docile servitore. La mente fa la mano, la mano fa la mente. H. Focillon
1. La mano e il senso del limite Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano destino. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva e legata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per verifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con mano» significa conoscere direttamente, andare a capire di persona, non lasciare spazio all’inganno. Da questo punto di vista l’episodio biblico di Tommaso rappresenta un evento paradigmatico, simbolo e sintomo di un’intera vicenda culturale e filosofica. Nell’episodio narrato da Giovanni, le mani assumono infatti un valore duplice poiché alla notizia della resurrezione di Gesú, Tommaso reagisce cosí: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò (Vangelo di Giovanni, 20, 27-30).
Vedere il segno non è sufficiente: per credere Tommaso chiede non solo di poter mettere il dito nel costato (cosí come è rappresentato nell’iconografia tradizionale), ma anche di mettere la sua mano dentro la mano di chi si dice sia risorto. L’idea che solo toccando sia possibile accertare la verità e superare l’illusione non è isolata poiché nella nostra tradizione filosofica riemerge in piú circostanze, a volte all’improvviso. 128
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Piú di un millennio dopo, J.G. Herder (1744-1803), ad esempio, segue esattamente questa linea di pensiero quando, parlando dell’esperienza estetica, contrappone il carattere illusorio della visione a quello autentico e sincero della tattilità: Noi crediamo di vedere dove dovremmo soltanto sentire; alla fine vediamo tanto e cosí rapidamente da non sentire piú nulla, e non riuscire a sentire, poiché tal senso è sempre garante e fondamento del primo. In tutti questi casi la vista è soltanto una formula abbreviata del tatto. […] La vista è sogno, il tatto verità (Herder, 1778, p. 43).
La capacità conoscitiva attribuita alla mano di poter «afferrare la verità» ha come risvolto la convinzione che in essa sia possibile leggere passato e futuro di ogni destino individuale. La chiromanzia, in tal senso, costituisce il recto magico di un verso epistemologico rappresentato dalla veridicità del «toccare con mano»: i segni sui palmi costituiscono la testimonianza delle nostre azioni ma anche il presagio dell’avvenire. In questa prima accezione, quella della veridicità e della rivelazione (religiosa, magica o epistemica: comunque conoscitiva), il tatto manuale costituisce la declinazione percettiva di quello che potremmo definire «il senso del limite»: conduce la sapienza umana all’estremo delle sue possibilità, comporta l’urto decisivo con ciò che è reale. Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la mano sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispetto alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto diverso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto con la materia, la conoscenza manuale è considerata di solito approssimativa, grezza, poco efficace. La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma vive un limite: deve tastare per successioni un mondo che non conosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è senso del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficitaria la sua forma di conoscenza. Una simile ambivalenza si riflette nella concezione occidentale della cecità, anch’essa duplice. Si pensi, ad esempio, a Tiresia, l’indovino cieco che rivela a Edipo il suo destino. Secon130
do questo modello, colui che è cieco nello spazio è in grado di vedere nel tempo perché coglie il senso ultimo degli avvenimenti e della nostra esistenza. Il cieco vede il futuro perché è fuori dallo spazio, escluso da una conoscenza di ciò che lo circonda che solo la vista sembra garantire: poiché la vista è il primo tra i sensi, chi ne è privo vive sospeso in un mondo nel quale la percezione dello spazio è impossibile. Recentemente questa posizione è stata assunta, ad esempio, dal neurologo Oliver Sacks. Lo studioso americano nel descrivere il caso di un cieco che riacquista la vista dopo un intervento chirurgico (proprio la circostanza discussa nella questione posta da Molyneux: cfr. cap. I, paragrafo 4.3) si lascia andare ad affermazioni di questo tipo1: Noi che abbiamo una dotazione sensoriale completa viviamo immersi nello spazio e nel tempo; i ciechi, invece, vivono in un mondo esclusivamente temporale, che costruiscono a partire da sequenze di impressioni (tattili, uditive, olfattive) (Sacks, 1995, p. 179).
Il cognitivismo contemporaneo non assume una posizione tanto radicale: anzi di solito critica l’idea che sia solo la vista il senso dello spazio. Allo stesso tempo, però, le scienze cognitive sembrano avere assorbito una declinazione raffinata, e per questa ragione forse ancor piú fuorviante, dei topoi culturali e filosofici legati al tatto manuale e alla perdita della vista: il tatto è considerato un senso inefficiente che mostra la propria funzionalità solo quando il cieco, o il vedente bendato, riesce a «vedere» attraverso le mani (Gentaz, Hatwell, 2002) o la mente (Galati, 1992). Il tatto sembra in fin dei conti privo di una sua autonomia cognitiva, schiacciato com’è sulla percezione visiva. Come accennavamo nel primo capitolo (par. 4.1), anche da questo punto di vista quella cognitiva non può essere considerata una rivoluzione quanto una «controrivoluzione» poiché, insieme al comportamentismo, ha contribuito a limitare lo studio della percezione umana alla visione. Ancora oggi, infatti, alcune delle acquisizioni della psicologia sperimentale e fenomenologica della prima metà del novecento risultano essere le 131
migliori e aspettano di essere approfondite. Per questa ragione, il presente capitolo avrà un andamento particolare. Nei prossimi due paragrafi ci occuperemo di alcune delle ricerche piú significative compiute sul tatto dalla psicologia gestaltica e della sua ripresa negli anni sessanta da parte di J.J. Gibson. Nella sezione successiva sottolineeremo le differenze anatomiche e funzionali tra gli arti superiori delle scimmie e le mani umane: le prime sono preadattate a compiti specifici, le seconde sono forme plastiche che aprono una dimensione inedita nel regno animale, quella del lavoro. Nel quinto e ultimo paragrafo tratteremo invece alcuni degli attuali indirizzi di ricerca sulla percezione manuale cercando di mostrare la loro sostanziale inadeguatezza: potrà sembrare paradossale ma molti di questi studi, pur essendo cronologicamente recenti, sono da un punto di vista teorico piú vecchi di quelli offerti dalla psicologia gestaltica ed ecologica.
2. I dieci principi della percezione manuale secondo Révész Una delle opere piú importanti scritte sul tatto nel secolo appena concluso è sicuramente Die Formenwelt des Tastsinnes (Il mondo delle forme tattili) pubblicato nel 1938 dallo studioso ungherese Geza Révész (1878-1955). Nel 1960 la riedizione in lingua inglese, sotto il titolo Psychology and art of the blind, ha permesso a questo testo di trovare dopo la seconda guerra mondiale maggiore diffusione e una certa notorietà: è uno dei testi piú citati nella letteratura, forse la piú conosciuta tra le opere scritte sul tatto nella prima parte del secolo2. Si tratta infatti di un libro di grande respiro che cerca di porre le basi da un lato dello studio della percezione manuale, dall’altro della psicologia della cecità (in questa sede ci occuperemo soprattutto del primo aspetto). Révész, bisogna chiarirlo subito, non identifica in maniera rigida il tatto con la manualità: il suo testo comincia con l’esame di diverse forme della percezione tattile dello spazio, di tre 132
in particolare. La prima è quella del «corpo intero statico»: secondo lo psicologo ungherese, quando rimaniamo a lungo immobili, si crea una situazione di sospensione percettiva che a lungo andare dà luogo a un vero e proprio disorientamento sensoriale dovuto all’incapacità di cogliere gli assi spaziali in modo preciso e all’avvertimento confuso del proprio corpo. La seconda è legata al «corpo intero in movimento», la cinestesia (letteralmente, percezione del movimento): se ci spostiamo nello spazio con gli occhi chiusi, tramite il movimento la percezione del nostro corpo e di ciò che ci circonda diventa piú precisa e consapevole anche se rimane ancora difficile da descrivere perché indefinita e fortemente soggettiva. È solo con la terza forma, la percezione manuale, che possiamo avvertire con chiarezza lo spazio ed esplorarlo efficacemente. Per lo psicologo ungherese il tatto manuale costituisce, in estrema sintesi, l’emancipazione da una percezione spaziale troppo soggettiva (la somestesia sia statica che dinamica) che tende a confondere la presenza di sé con quella degli oggetti circostanti. Révész descrive la percezione della forma offerta dall’azione manuale per mezzo di dieci «principi» o «tendenze». Ognuno di essi incarna un aspetto differente di una percezione tattile manuale (anche detta, come abbiamo visto, aptica) che si rivela multiforme e poliedrica. Le tendenze che sembrano costituire una specie di «dieci comandamenti del tatto» agiscono in modo sinergico e complementare poiché solamente in rari casi un principio è antagonista all’altro. Vediamo piú da vicino allora in cosa consistono questi principi che, ancora oggi, offrono una delle descrizioni piú perspicue della percezione aptica: 1. Principio stereoplastico. La percezione aptica tenta sempre, per prima cosa, la presa avvolgente: se l’oggetto è piccolo e a dimensione della mano le dita lo circondano; se invece è piú grande il movimento stereoplastico si limita ad afferrarlo. Secondo Révész (1938a, p. 164), si tratta del «principio fondamentale della percezione aptica» poiché costituisce un passo decisivo per la differenziazione tra l’io e il mondo che lo circonda. Grazie infatti alla capacità della mano di 133
avvolgere gli oggetti con le dita, il tatto può esperire la corporeità tridimensionale degli oggetti, tutte le loro dimensioni (altezza, larghezza e profondità) contemporaneamente: da qui il nome di «stereo» (simultaneo) «plastico» (forma tridimensionale). 2. Principio della successività. Come abbiamo accennato, se l’oggetto percepito è piú grande della mano, l’azione stereoplastica delle dita non può avvolgerlo (come accade per un coltello o una maniglia) ma solo prenderlo. Per questa ragione, il tatto deve procedere per passi successivi che gradualmente gli consentano di esplorare l’oggetto. Poiché il campo d’azione della mano è limitato, di fronte a un corpo di grandi dimensioni come una statua, un cancello o un’automobile il processo esplorativo è costretto a suddividersi in una successione di atti di presa che devono essere poi assemblati in un intero (cfr. princ. 8 e 9). Questa tendenza è soprattutto tattile ma, sottolinea Révész, rivela la propria presenza anche nella vista. Quando guardiamo una costruzione di ampie dimensioni, una cattedrale ad esempio, anche gli occhi devono impegnarsi in un complesso lavoro di fissazioni parziali da riunire poi in una immagine complessiva. 3. Principio cinematico. La mano conosce solo se si muove: sia nella presa (princ. 1) che nell’esplorazione (princ. 2), il tatto rileva un carattere intrinsecamente dinamico. Pazienti affetti da un particolare tipo di agnosia tattile che disturba i movimenti manuali dimostrano l’importanza di un principio secondo solamente a quello stereoplastico: se bendati, infatti, questi pazienti non sono in grado di riconoscere le forme piú semplici poiché scambiano una croce per un quadrato o per un parallelogramma (ivi, p. 170). Pur avendo una sensibilità tattile normale, l’assenza di movimenti adeguati impedisce ai soggetti di identificare gli oggetti in base alla forma. 4. Principio metrico. La mano, sostiene Révész, costituisce il modello degli strumenti di misura: spesso toccare e misurare sono due azioni legate l’una con l’altra in modo indissolubile. Quando un oggetto è di grandi dimensioni, il princi134
pio della successività e quello cinematico si legano insieme nel prendere le misure di un corpo altrimenti irrappresentabile. Esistono a tal proposito, secondo lo psicologo ungherese, due metodi fondamentali di misurazione. Il primo è di tipo statico poiché si limita ad applicare meccanicamente unità di misura prestabilite come il centimetro, il metro, ecc. Il secondo invece è piú dinamico e soggettivo poiché si limita a rilevare grandezze relative e verifica se un corpo è piú grande o piú piccolo di un altro. Il primo metodo incarna un atteggiamento piú scientifico e preciso, il secondo è un sistema di valutazione piú veloce e approssimativo poiché rileva distanze e proporzioni, non vere e proprie misure. Il senso aptico-manuale è quindi un senso geometrico non perché un soggetto cieco può conoscere lo spazio solo grazie alle astrazioni della scienza euclidea, ma, al contrario, perché la tendenza alla misurazione intrinseca alla manualità costituisce il luogo di origine della geometria (cfr. Mazzeo, 2001a). Il fatto che molte unità di misura (il pollice e il piede, la spanna o i passi) richiamino diverse parti del corpo umano non fa altro che testimoniare la paternità tattile della rappresentazione spaziale (ivi, pp. 155-156). Solo la funzione metrica del tatto infatti è stabile e affidabile: nella vista le grandezze sono sempre variabili poiché decrescono all’aumentare della distanza dagli oggetti percepiti. 5. Principio dell’atteggiamento ricettivo o intenzionale. Secondo Révész, l’efficacia spaziale del tatto risente dell’atteggiamento percettivo mostrato dal soggetto. Se la percezione tattile infatti è solo ricettiva, cioè si limita a subire passivamente gli stimoli che provengono dall’esterno, le sue prestazioni nel riconoscimento di forma e sostanza degli oggetti diviene molto limitata. Se invece l’atteggiamento si fa intenzionale, cioè attivo ed esplorativo (cfr. princ. 2), la situazione cambia radicalmente poiché per il tatto diventa possibile non solo percepire forme ma vere e proprie Gestalten, cioè forme immediate e complete (cfr. princ. 8). È proprio lo iato tra atteggiamento ricettivo-passivo e intenzionale-attivo a costituire per Révész una delle maggiori differenze 135
tra tatto e vista. Questo accade non perché, come vorrebbe una certa vulgata, il tatto sia intrinsecamente passivo e la vista naturalmente attiva, ma per una ragione piú sfumata. Per lo psicologo ungherese, infatti, entrambi i sensi possono avere sia una modalità ricettiva che una intenzionale: la differenza sta nel fatto che mentre per il tatto il passaggio dall’una all’altra è decisivo poiché modifica drasticamente le sue prestazioni, nella vista questo passaggio è meno significativo poiché essa procede secondo dinamiche piú standardizzate e automatiche che si attivano indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto. 6. Tendenza al tipo e allo schema. Per mostrare questo principio, Révész propone un esempio semplice ed efficace. Poniamo di trovarci di fronte a una tavola imbandita sulla quale è disposta una serie di forchette, tutte di tipo diverso (una lunga, una stretta, ecc.). Ora proviamo a percepire le forchette prima solo con la vista, guardandole per qualche secondo, poi con il tatto toccandole con gli occhi chiusi. Poiché la vista procede piú per impressioni globali e il tatto per successioni percettive, le due modalità sensoriali sono influenzate da due tendenze differenti. Con la vista ci concentriamo maggiormente sul fatto che si tratta di forchette differenti, nonostante la loro somiglianza: ogni pezzo ha la sua forma individuale caratterizzata da certe proporzioni spaziali. Per mezzo del tatto invece i soggetti tendono a concentrare la loro attenzione sul fatto che, al di là delle particolari differenze, si tratta sempre dello stesso oggetto, cioè del medesimo utensile. Poiché nella vista la forma ha maggiore pregnanza, cioè si impone all’attenzione con piú forza coercitiva, gli occhi mirano all’individuale, mentre il tatto tende maggiormente a inscrivere gli oggetti in tipi generali di identificazione e a costruire schemi generali di riconoscimento. 7. Tendenza trasformatrice. Secondo Révész, in alcune circostanze il tatto ha come tendenza implicita quella di trasformare i propri contenuti d’esperienza in dati visivi. Una simile trasformazione avverrebbe secondo due modalità dif136
ferenti. La prima, di tipo associativo, è piuttosto superficiale poiché consiste nel legare un’impressione tattile a una visiva: se tocco una pipa, sostiene lo psicologo ungherese (Révész, 1938a, p. 186), automaticamente mi verrà in mente l’immagine visiva di quell’oggetto. La seconda è invece piú profonda poiché consiste in una vera e propria riconversione del dato tattile in un elemento visivo. L’aspetto piú interessante di questo processo è che, secondo Révész, esso non può fare a meno del linguaggio verbale: «è il concetto l’anello di congiunzione attraverso il quale la forma tattile si lega alla Gestalt ottica» (ivi, p. 188. Il corsivo è nel testo). Ciò non vuol dire, come è stato suggerito (cfr. ad es. Pick, 1974), che il tatto subisce una costante codifica in termini verbali e ottici: questa tendenza, infatti, non è sempre all’opera perché può essere soverchiata o sostituita da altre (ad esempio dal principio 1 o dal 10). 8. Principio dell’analisi strutturale e 9. Principio della sintesi costruttiva. Poiché questi due principi sono intrinsecamente legati l’uno all’altro, è opportuno darne una descrizione unitaria. Si tratta infatti di due aspetti distinti di un processo unico e simultaneo che riguarda la percezione di quella che Révész chiama la «struttura» di un oggetto. Mentre la forma (Gestalt) è una totalità fenomenica unitaria, un tutto simultaneo e immediato, la struttura (Struktur) è costituita dall’ordine e dalla disposizione delle parti che costituiscono l’oggetto. Poiché la vista ha un campo percettivo ampio percepisce piú forme che strutture; il tatto, che ha una portata sensoriale molto minore, è spesso costretto a muoversi per successioni (princ. 2) e a cogliere piú strutture che forme. Ciò non comporta, si badi, solo svantaggi (la perdita, ad esempio, di una visione d’insieme immediata): mentre un oggetto può avere diverse Gestalten, esso ha una sola struttura. Se ad esempio vediamo un cubo, di questo avremo impressioni visive unitarie ma parziali: dovremmo girarci intorno o voltarlo piú volte per vederne tutte le facce. Se prendiamo il cubo tra le mani, invece, ci troviamo in una situazione diversa: anche ammesso che le sue dimensioni ecce137
dano quelle della mano e che ci costringano ad analizzarne la struttura attraverso passi successivi d’esplorazione, una volta sintetizzate le parti in una somma unitaria (il principio 9), la struttura dell’oggetto si rivela unica poiché, a differenza della forma, non risente del punto di vista dal quale è percepita. Proprio perché il tatto ha accesso piú a strutture che a forme, è in grado di avere una funzione metrica piú efficace di quella visiva che gli consente valutazioni spaziali piú stabili e sicure. Ancora una volta, riprenderemo questo punto piú avanti, per mettere insieme le diverse parti percettive il tatto ha bisogno di un lavoro di fissazione verbale: nel processo di sintesi tattile il linguaggio compie un ruolo decisivo perché interno alla costruzione dell’unità strutturale. Nella vista, al contrario, secondo Révész l’intervento verbale tende ad essere esterno, cioè successivo, poiché interviene su un’unità percettiva già pronta. Anche in questo caso, comunque, molto dipende dal tipo di oggetto percepito: di fronte a forme complesse ed ampie come edifici, distese panoramiche od opere d’arte (ivi, p. 203), la vista non può che rilevare strutture. 10.Principio dell’organizzazione autonoma. Una lettura disattenta o parziale dell’opera di Révész ha portato spesso a una interpretazione distorta secondo la quale lo psicologo ungherese sosterrebbe la palese inferiorità di un senso non spaziale (cfr. ad es. Millar, 1981) o comunque decisamente inefficiente nella percezione della forma (cfr. ad es. Fletcher, 1981; Heller, 2000b). Questa decima tendenza percettiva dimostra invece che le cose stanno diversamente. Quello di Révész, infatti, è un gioco continuo di somiglianze e differenze che tende a sottolineare due principi fondamentali. Per un verso tatto e vista, se messi nella condizione di farlo, sono in grado di percepire secondo modalità molto simili: quando gli oggetti da percepire sono di piccole dimensioni il tatto può ad esempio percepire Gestalten; quando sono invece molto grandi, anche la vista deve procedere per rilevazioni strutturali. Per un altro, ciò non vuol dire che tatto e vista siano sensi identici, né che il primo sia sot138
tomesso al secondo: ciascuna modalità, pur dando accesso a uno spazio unico, ha leggi proprie. Non a caso, Révész dedica la discussione di questo principio all’analisi di uno studio pubblicato dallo psicologo Blumenberg (1936) quasi contemporaneamente al suo libro. Questa discussione è interessante perché Blumenberg ha una posizione per molti versi simile a quella che assumerà Gibson circa trent’anni dopo (cfr. paragrafo 3). La tesi che propone è chiara e decisa: «al di là di tutte le differenze fenomeniche e descrittive, la forma delle leggi che governano le relazioni spaziali aptiche e visive è, date condizioni materiali tra loro comparabili, identica […]» (ivi, p. 132. Il corsivo è nel testo). Per comprendere le sfumature, peraltro decisive, che compongono la divergenza tra i due autori è necessario fare un passo indietro. Blumenberg utilizza alcune delle ricerche compiute proprio da Révész per assumere una posizione molto radicale. Già prima della pubblicazione della sua opera piú importante, lo psicologo ungherese infatti aveva cominciato a studiare il rapporto tra le illusioni percettive visive e quelle tattili dimostrando la loro sostanziale omogeneità (cfr. Révész, 1934). Questa serie di ricerche, che proseguono per quasi vent’anni (cfr. Révész, 1953), fornisce dei risultati interessanti poiché dimostra che le cosiddette «illusioni ottico-geometriche» non costituiscono fenomeni solamente visivi. Révész lavora su oltre una trentina di illusioni (tra cui quella di Müller-Lyer della quale abbiamo parlato nel capitolo I, paragrafo 3.2) dimostrando la loro forza coercitiva anche nel senso aptico, cioè sul tatto manuale attivo (per alcuni esempi si veda la figura 1). È opportuno precisare che questo studio assume un rilievo particolare perché secondo Révész le illusioni non costituiscono delle semplici curiosità percettive ma rivelano la conformazione stessa del nostro spazio: Le illusioni ottiche costituiscono quindi dei fattori essenziali per il nostro spazio visivo. Se le eliminassimo, il mondo spaziale cambierebbe i propri connotati, perderebbe la propria vivacità ed elasticità e, in tal modo, verrebbe meno gran parte del suo carattere estetico. È proprio attraverso 139
questo insieme di tendenze che sono alla base anche delle illusioni geometrico-visive che le forme [Formen und Gestalten] acquistano vita, movimento e attività. Se queste tendenze non avessero effetto, il nostro mondo spaziale diverrebbe un sistema rigido piú che un mondo in continuo divenire (Révész, 1953, p. 466). Illusione di Kundt Se si confrontano i segmenti a e b, il segmento b, suddiviso in parti, appare piú grande del segmento a.
Illusione di Titchener Il cerchio A dà l’impressione di essere piú grande del cerchio B, delle stesse dimensioni ma tra cerchi piú grandi.
Illusione di Zöllner Le cinque sezioni centrali delle linee sono parallele ma sembrano convergere verso sinistra e verso destra.
Illusione di Poggendorf Il segmento A, che ha la stessa lunghezza del segmento B e che è interrotto da due verticali, sembra spostato verso il basso.
Illusione delle ellissi: Se si confrontano l’ellissi verticale A e l’ellissi orizzontale B, quella verticale appare piú alta e stretta.
Illusione di quantità: Le linee di A sembrano piú numerose di quelle di B, sebbene il loro numero sia identico.
Figura 1 Alcune delle illusioni visive e tattili studiate da Révész 140
La dimostrazione che un gran numero di illusioni sono comuni sia al tatto che alla vista dimostra «l’unità delle nostre capacità percettive dello spazio e della forma» (Révész, 1934, p. 364). Il dissenso nasce dal fatto che Blumenberg commette l’errore di trarre da questa conclusione un’inferenza non lecita che stabilisce la sostanziale identità (o perlomeno la totale conformità) tra il dominio visivo e quello aptico. Blumenberg sostiene, ad esempio, che la prospettiva è percepibile graficamente anche attraverso il tatto per mezzo di una fitta maglia di segni in rilievo tracciata in modo tale che ogni segno parta da un punto di fuga centrale (si pensi a una ragnatela: ivi, p. 136) e che l’illusione di Aristotele (fig. 2) non è altro che la versione tattile dello sdoppiamento dell’immagine visiva (il noto «vedere doppio» di chi ha esagerato con l’alcool o è reduce da un’anestesia generale: ivi, pp. 156-157). La posta in palio non va sottovalutata. Attraverso la disamina dei suoi dieci principi, Révész cerca di trovare un equilibrio tra due concetti ancora oggi troppo spesso confusi tra loro: autonomia e indipendenza. La vasta coincidenza delle illusioni geometriche tattili e visive, cosí come la parziale applicabilità al senso aptico delle leggi gestaltiche verificata da un allievo dello psicologo ungherese (Scholz, 1957), dimostra che queste due modalità sensoriali sono strettamente intrecciate e che danno accesso a uno spazio unitario, non pulviscolare. Al contempo sostenere l’intreccio tra questi due sensi non significa affermare che tra di essi non sussistano forti differenze, che ciascuno di essi non abbia la sua autonomia, cioè leggi proprie (aÈtÒw = proprio, nÒmow = legge): Questa forte coincidenza è mostrata dal fatto che sono percepibili in ambito aptico tutti i tipi di illusione geometrico-visiva. Una tale coincidenza non perde in alcun modo la propria validità generale a causa del fatto che esistono illusioni spaziali specifiche della vista come la prospettiva 141
che, come accennato, si realizza in seguito alla particolare funzione svolta dalla visione binoculare. Allo stesso modo, è possibile citare illusioni specifiche del senso aptico, che trovano la loro origine nel movimento e nella posizione degli organi tattili, come ad esempio la cosiddetta illusione di Aristotele (Révész, 1953, p. 476).
Révész insiste continuamente sul fatto che ciò che costituisce l’eccezione, o meglio un caso insolito, per un senso rappresenta la regola per l’altro. Tra tatto e vista esiste una relazione incrociata che permette di distinguere i loro tratti costitutivi e, nel contempo, di focalizzarne i punti di raccordo e sovrapposizione: gli oggetti piccoli e non troppo complessi costituiscono il punto di collasso, cioè di estrema coincidenza, tra sistemi percettivi con caratteristiche proprie.
Figura 2. L’illusione di Aristotele è provocata da un mancato processo di unificazione sensoriale: se, a occhi chiusi, tocchiamo una matita con due dita distese (fig. a), abbiamo la sensazione di venire a contatto con un solo oggetto, ma se le incrociamo ci sembrerà di sentirne due (fig. b) come se i due lati della matita rimanessero separati. Il nome dell’illusione ricorda che il primo a descrivere il fenomeno è stato Aristotele (Metafisica, IV, 1011a). Per una rassegna aggiornata sulle illusioni tattili si veda Negri Dellantonio, 1994, Heller, 2000c e Gentaz, Hatwell, 2002. Fonte: Coren, Ward, Enns, 1999 142
Tutto ciò non vuol dire che la posizione di Révész sia esente da difficoltà o che non necessiti di integrazioni. I punti che devono passare un vaglio critico sono infatti almeno due. Il primo concerne il settimo principio, quello che riguarda la tendenza del tatto a tradurre i dati aptici in forme visive. In che senso esso è valido? Quando parla di illusioni spaziali, Révész è molto chiaro su un punto. La coincidenza di prestazioni tra tatto e vista non può essere spiegata come una traduzione visiva delle prestazioni tattili: Contro le nostre affermazioni sulla natura delle illusioni tattili, si potrebbe sostenere che queste, in realtà, sono datità [Gegebenheiten] non aptiche ma originariamente visive, che nascono involontariamente in corrispondenza di impressioni tattili-motorie e che poi si trasferiscono su di esse. Questa ipotesi è del tutto insostenibile perché, come è possibile dimostrare, persone cieche dalla nascita o dalla prima infanzia si comportano come i vedenti con gli occhi chiusi (Révész, 1953, pp. 476-477. I corsivi sono nel testo).
Il fatto che i ciechi congeniti diano risultati simili a quelli dei vedenti bendati conferma l’autonomia della percezione tattile (Révész, 1934, pp. 367-371). Perché allora insistere sulla tendenza a visualizzare? Révész compie l’errore di considerare come costitutivo della percezione tout court un dato probabilmente valido per la nostra cultura e la nostra epoca (entrambe sicuramente assai visive: televisione, cinema, telematica ne sono le testimonianze piú ovvie e recenti). È esattamente questo il pericolo che corre ogni indagine sulla conoscenza umana che trascuri di confrontarsi con la ricerca antropologica (si pensi, ad esempio, al paradigma cognitivo): scambiare un fatto culturale (cioè locale e storico) per una condizione universale, valida sempre e ovunque. La stessa antropologia, peraltro, ha dedicato scarsa attenzione a forme sensoriali come quella tattile per lungo tempo considerate «minori»: pertanto i dati a disposizione sono purtroppo scarsi. Nonostante ciò è possibile fare un paio di esempi piuttosto interessanti perché suggeriscono il carattere culturale della tendenza a rendere visivi i dati tattili. Non solo, infatti, alcune ricerche sul campo hanno confermato la validità di alcune illusioni tattili, come quella di Aristotele, anche presso popolazioni non occidentali come i Toda dell’India me143
ridionale (Rivers, 1905, pp. 371-372): esistono culture per le quali la percezione tattile assume un valore diverso, piú focale, rispetto alla nostra. Gli eschimesi Netsilik, ad esempio, vivono in un clima estremamente rigido: per questo la madre porta con sé il figlio legato dietro la schiena sotto la sua giacca. Il bambino è sempre al caldo, non rischia di cadere sul fondo ghiacciato dell’igloo e la madre può svolgere le proprie attività quotidiane. Per la maggior parte della giornata il bambino guarda il mondo da sopra le spalle della madre e ogni scambio comunicativo, almeno finché il piccolo non comincia a camminare, avviene per mezzo del tatto: «la madre riesce a prevedere i suoi [del figlio] bisogni attraverso il contatto cutaneo» (Montagu, 1971, p. 212). Nella cultura Netsilik l’intesa tra madre e neonato piú che di sguardi è fatta di contatti, di pressioni e di rapporti termici. Nelle distese ghiacciate del Polo Nord non c’è luce per sei mesi l’anno e per la maggior parte degli altri sei il bagliore del sole contro il ghiaccio è molto fastidioso. Nell’ecosistema artico la vista perde il primato che gode presso la cultura occidentale e cede il passo al senso del contatto. Non si può certo obiettare che l’ambiente polare sia «meno naturale» di quello tropicale o temperato: è solamente diverso. Differenti sono le priorità sensoriali e le strategie di sopravvivenza adottate dagli animali umani che abitano questo spazio ecologico per trasformarlo in un posto in cui poter crescere, cioè in un mondo (cfr. cap. II, par. 3; cap. IV, par. 4). L’importanza del tatto nella cultura eschimese non è riducibile, infatti, alle condizioni climatiche nelle quali essa vive: anche per i Dusun, popolo che vive nel Borneo settentrionale, la percezione tattile assume un ruolo centrale (Williams, 1966). Il fatto che si tratti di una cultura prevalentemente orale svincola il sapere collettivo dal mezzo ottico costituito dalla scrittura: nel caso dei Netsilik una struttura sociale basata piú sul racconto collettivo che sulla lettura individuale si accompagna alla necessità biologica di stare in contatto per non perdere calore (e non solo in senso metaforico). Ma c’è un secondo punto sul quale è necessario soffermarsi perché, se possibile, ancora piú importante del primo. Il lavoro di Révész, infatti, rischia di perdere gran parte della sua effica144
cia e incisività se non viene inserito in prospettiva genetica ed evolutiva. In che modo vista e tatto sono sensi diversi? Lo psicologo ungherese mette a disposizione tutti gli elementi per una risposta piú forte e soddisfacente senza però trarre con decisione le dovute conclusioni: è come se imbandisse la propria tavola per poi andare a mangiare altrove. Révész sottolinea infatti due aspetti complementari. Per un verso tatto e vista sono due modalità sensoriali diverse perché hanno un rapporto differente con lo spazio-tempo. Il tatto è piú lento della vista: i movimenti della mano sono misurati di solito in secondi, quelli degli occhi (i cosiddetti movimenti saccadici) in millesimi di secondo. Nel contempo le mani hanno un campo d’azione, come accennavamo in precedenza, limitato all’estensione delle braccia e del corpo, mentre gli occhi possono percepire forme e colori per centinaia di metri. Questa accoppiata, tatto lento a corto raggio e vista veloce a lunga gittata, fa sí che i principi portanti della percezione assumano contorni molto diversi. Come abbiamo visto in precedenza, le opposizioni tra forma e struttura, successività e simultaneità, analisi e sintesi non sono nette poiché non è possibile identificare ciascun termine con un senso piuttosto che con un altro (Révész non afferma, ad esempio, che il tatto è senso della successione mentre la vista quello della simultaneità come invece tutt’oggi ancora molti sostengono: cfr. ad es. Jonas, 1994; Sacks, 1995). Si tratta piuttosto di un problema di amalgama e di dominanza: come mostra lo schema, le dieci tendenze di cui abbiamo parlato sono sia aptiche che visive, ma diversa è la loro mescolanza perché differenti sono i loro rapporti di forza: Principio 1. Stereoplastico 2. Successività 3. Cinematica 4. Metrico 5. Atteggiamento ricettivo o intenzionale 6. Tendenza al tipo e allo schema 7. Tendenza trasformatrice 8. Analisi strutturale 9. Sintesi costruttiva 10. Organizzazione autonoma
tatto + + + + + + + + – +
vista – – – – – – – – + + 145
Révész sottolinea, poi, un secondo aspetto: è proprio per la maggiore lentezza e il minor raggio d’azione che il tatto ha bisogno del linguaggio verbale. Questa affermazione è spesso intesa in modo riduttivo: se il tatto ha bisogno di integrazioni verbali, vuol dire che è un senso intrinsecamente linguistico e come tale percettivamente inefficace. Come abbiamo visto questa conclusione è insostenibile poiché esiste un nucleo percettivo aptico che è autonomo, originale e irriducibile: la percezione stereoplastica dei corpi, la raffinata sensibilità alla tessitura delle superfici, la pregnanza delle illusioni geometriche e, in parte, delle leggi gestaltiche ne costituiscono la dimostrazione. Ciò non toglie naturalmente che il tatto sia un senso meno gestaltico della vista. Questa caratteristica, di solito considerata come un handicap di partenza, dà invece la possibilità di capire l’importanza del tatto per l’origine del linguaggio3. Révész è sulla buona strada quando, in maniera piuttosto sorprendente (almeno per il lettore abituato a una gran quantità di letteratura che si ispira alle scienze cognitive ma che trascura il tatto), afferma che «il processo percettivo tattile è, per sua natura generale, cognitivo» (Révész, 1938a, p. 127. Il corsivo è nel testo). Che il tatto sia un senso cognitivo non significa che questa modalità percettiva è colonizzata dalle parole ma che il tatto costituisce l’humus percettivo nel quale si radica il linguaggio. Questo punto è spesso occasione di fraintendimenti. Una delle fonti di confusione concettuale delle quali è responsabile lo stesso Révész è di aver inserito il termine «intenzionale» o «volontario» nel confronto tra tatto e vista. Anche i movimenti tattili, infatti, sono molto spesso involontari (cfr. paragrafo 4.2): quando esploriamo un oggetto con le mani non dobbiamo coscientemente comandare, passo dopo passo, gli spostamenti delle nostre dita. La differenza sta nel fatto che questa comune involontarietà che accomuna tatto e vista ha un’origine e un significato profondamente diversi. La superiore velocità della visione è determinata infatti da una circostanza precisa: i movimenti deputati alla messa a fuoco e al puntamento, alla con146
vergenza binoculare e alla rilevazione dei contorni sono automatici e precablati. I movimenti saccadici sono delle forme di aggiustamento percettivo di ordine sostanzialmente fisiologico, poco influenzabili da abitudini, cultura o stile di vita, dalla cosiddetta seconda natura insomma. Per il tatto, le cose stanno differentemente. Révész, parlando della differenza tra struttura e forma, fa un’affermazione molto interessante: la struttura è in senso kantiano un prodotto empirico, mentre la forma è una condizione trascendentale della percezione gestaltica (Révész, 1938a, p. 153).
La prima è un dato empirico e costruito, mentre la seconda è innata. È proprio questo elemento che consente di utilizzare la presentazione della percezione aptica fornita da Révész come parte integrante della nozione di natura umana sulla quale abbiamo cominciato a lavorare nei capitoli precedenti. La capacità della mano di percepire piú strutture che forme costituisce infatti il correlato aptico della sprovvedutezza che contraddistingue il corpo umano nella sua interezza. Come la somestesia dell’Homo sapiens si caratterizza per l’esposizione agli stimoli esterni e agli agenti climatici poiché nuda e sprovvista di armi, cosí la mano umana non ha a disposizione la possibilità cablata, pronta alla nascita, di percepire automaticamente forme. In entrambi i casi il punto di partenza è la sprovvedutezza data da una mancanza di difese e abilità innate. Nel contempo questa doppia sprovvedutezza non rappresenta semplicemente la sottolineatura naturale e un po’ ossessiva di uno stesso carattere, quanto invece due aspetti complementari in grado di dare soluzione al problema costituito dalla nudità umana. L’estrema esposizione conferita al nostro corpo dalla postura eretta consente infatti di liberare le mani dalle funzioni specializzate della locomozione o della semplice presa. Spogliandosi in una cruda somestesia, il corpo umano denuda le sue mani, l’altra sponda della percezione tattile. Ma proprio mani 147
tanto nude, cosí prive di capacità immediate di percezione della forma e di gesti automatici di presa (questo secondo aspetto lo vedremo meglio nel paragrafo 4), hanno una plasticità tale da farsi strumenti di lavoro, mezzo di costruzione culturale di quei ripari di cui nasciamo privi. Da una parte tra linguaggio e manualità sussiste quella che già Gehlen (1978, p. 173; cfr. cap. II, paragrafo 3.2) descrive come una analogia strutturale: si tratta in entrambi i casi di forme conoscitive che non si limitano a constatare come il mondo è, ma a costruirlo, a modificarlo continuamente. Come nel linguaggio il dire è sempre un fare, cosí nella percezione manuale l’azione conoscitiva è sempre una prassi manipolativa: sia il linguaggio che la percezione aptica sono intrinsecamente performativi (lo vedremo meglio nel cap. IV, paragrafo 4). Dall’altra, c’è un secondo aspetto sottolineato da Révész (ivi, pp. 188, 191-192): la percezione manuale della struttura richiede una fissazione verbale. La percezione aptica, cosí come quella somestesica (cfr. cap. II), costituisce condizione del linguaggio semplicemente perché ne ha bisogno. Ciò non vuol dire, naturalmente, che il tatto sia la causa della comparsa del linguaggio verbale: non si tratta di una relazione meccanica, né tantomeno di una necessità logica. Piú semplicemente, la sprovvedutezza del corpo e della mano umana trova la sua cura per un verso nella plasticità della somestesia e nelle capacità manipolative della percezione aptica, per un altro nella plasticità e nella performatività del linguaggio. Mentre la sua nudità somestesica permette all’Homo sapiens di evadere da un ambiente, le capacità costruttive delle sue mani e delle sue parole gli consentono di costruirsi un mondo.
3. Gibson: il tatto come senso attivo Come abbiamo detto nel primo capitolo (paragrafo 2.2), Gibson propone una versione del cognitivismo molto particolare, potremmo dire eterodossa. Il suo approccio è chiamato 148
«ecologico» poiché cerca di fornire una visione della conoscenza umana meno frammentata e meno separata da ciò che la circonda. A differenza della concezione computazionale della mente, base del cognitivismo standard, l’informazione secondo Gibson non è elaborata dalla mente attraverso schemi inferenziali. Le informazioni sono come i fiori in un campo: sono lí, nell’ambiente che circonda ogni organismo e sono semplicemente da «cogliere» (pick up). Di conseguenza, percezione e pensiero tra loro non si identificano: per lo psicologo americano percepire significa avere presa istantanea sulle cose, muoversi su un pianeta popolato da altri organismi. La percezione, infatti, non è concepita come un processo passivo (comportamentismo) né come l’elaborazione tutta attiva della mente calcolatrice (cognitivismo): è un processo di interazione tra gli esseri viventi e il loro ambiente. Ambiente e soggetto della percezione sono infatti tra loro interconnessi, due termini di un unico rapporto: è proprio da questa relazione specie-specifica che scaturiscono le diverse affordances, cioè le varie possibilità pratiche di uso e di sfruttamento dell’ambiente da parte di ciascun organismo. Specie differenti non solo percepiscono ciò che le circonda in modo differente ma lo utilizzano in maniera diversa: ci si può arrampicare su un albero solo se si hanno zampe, un sasso può essere lanciato solo da chi abbia mano prensile. L’approccio ecologico di Gibson si distingue quindi per due caratteristiche di fondo. La prima, come abbiamo ribadito piú volte, è il rifiuto di ogni paradigma di ricerca sulla natura umana che si concentri solamente sulle sue capacità linguistiche e che utilizzi come principale strumento euristico esperimenti di laboratorio basati sull’analogia mente-computer. La seconda consiste invece in una forma estrema di continuismo che descrive l’essere umano semplicemente come un animale tra gli altri, un essere il cui ambiente è reso piú esteso dalla cultura (Gibson, 1966, p. 26). Nella teoria gibsoniana della percezione, infatti, la nozione di «mondo» ha un impiego specifico ma molto diverso rispetto all’accezione nella quale viene utilizzata nell’antropologia filosofica e in questo libro. 149
Per Gibson (1966, p. 8), «mondo» è termine che si riferisce semplicemente all’insieme degli oggetti fisici: di conseguenza è un concetto ancora piú generico di quello di ambiente poiché non si rivolge alla specificità della vita umana quanto invece alla descrizione prebiologica, fisica, di ciò che circonda un essere vivente. Proprio per queste due ragioni, l’originalità della sua posizione e l’eccessivo continuismo, Gibson può esser definito una sorta di «Uexküll della seconda metà del novecento»: da un lato le sue ricerche hanno un valore fondamentale e imprescindibile, dall’altro necessitano di alcune correzioni che permettano una migliore comprensione della natura umana e del valore del tatto per la nostra specie. Partiamo dal primo punto. Nel 1966 Gibson pubblica una monografia frutto del lavoro di un decennio di ricerche, The senses considered as perceptual systems, che costituisce ancora oggi un testo insuperato per la filosofia della percezione. Il testo non si distingue solo per la sua completezza (tratta in maniera approfondita tutti e cinque i sensi mettendo in discussione la possibilità di una loro rigida distinzione) ma soprattutto perché il libro è pervaso da un continuo e preciso intento teorico: dimostrare il carattere attivo della percezione, la sua autonomia da pensiero e linguaggio, la sua intrinseca sinesteticità. Seppur la sua attenzione si sia concentrata, in questo come in altri testi, soprattutto sulla percezione visiva, il progetto teorico di Gibson è sicuramente piú esteso e completo. Per quel che riguarda la percezione tattile, infatti, i due capitoli del libro ora citato dedicati a questa modalità sensoriale costituiscono senza dubbio, oltre a una ricerca pubblicata qualche anno dopo sulla rivista Psicological Review, i due cardini della ricerca sul tatto della seconda metà del novecento. Gibson individua ancor piú chiaramente di Révész il carattere bipolare della percezione tattile poiché identifica sia la polarità somestetica (Gibson, 1962, p. 479; 1966, p. 98) della quale abbiamo parlato nel capitolo precedente che quella aptica150
manuale della quale ci stiamo occupando ora, senza porli in relazione gerarchica. A tal proposito Gibson distingue tre forme di percezione tattile. La prima è definita tatto passivo o cutaneo (passive or cutaneous touch) e si riferisce alla condizione nella quale la pelle subisce il contatto di un altro corpo che le si avvicina (Gibson, 1962, p. 477). È la modalità percettiva tattile meno efficace poiché consiste semplicemente «nella stimolazione della pelle e dei tessuti piú profondi senza alcun movimento di articolazioni o muscoli» (Gibson, 1966, p. 122). La seconda è chiamata tatto attivo (active touch). Come vedremo tra poco, è la modalità tattile piú efficace per il riconoscimento della forma. Gibson la definisce in questo modo: Il tatto attivo si riferisce a ciò che di solito è chiamato toccare. Il tatto attivo deve essere distinto dal tatto passivo ovvero dall’esser toccati. In un caso l’impressione sulla pelle è causata da chi percepisce, mentre nell’altro da qualche agente esterno. Questa differenza è molto importante per l’individuo ma non è stata sottolineata dalla psicologia della sensazione né, soprattutto, dalla letteratura sperimentale. Il tatto attivo è un senso esplorativo piú che meramente ricettivo. […] Si tratta di movimenti esplorativi, non operativi. In questo senso, questi movimenti tattili delle dita sono come i movimenti degli occhi. Infatti, il tatto attivo può essere definito una esplorazione tattile [tactile scanning], in analogia con l’esplorazione oculare [ocular scanning] (Gibson, 1962, p. 477).
Il terzo tipo di percezione tattile è definita da Gibson tatto dinamico (dynamic touch). A differenza del tatto attivo, il dynamic touch coinvolge infatti non solo stimolazioni cutanee e movimenti articolari ma anche sforzi muscolari (Gibson, 1966, p. 109). Per questa ragione, si tratta di una forma di percezione tattile coinvolta soprattutto nella valutazione del peso dei corpi e nell’impiego di bastoni (o di un qualunque tipo di sonda) per l’esplorazione di ciò che ci circonda. Quando il cieco con il suo bastone bianco cammina per la strada si muove sfruttando per l’appunto il tatto dinamico: è attraverso la simultaneità di informazioni che provengono da pelle, muscoli e articolazioni che il non vedente percepisce «la sostanza materiale, cioè, l’inerzia degli oggetti» toccati dal suo 151
strumento, la loro «consistenza» (Gibson, 1966, p. 128. Il corsivo è nel testo). Gibson afferma esplicitamente che prima di lui solamente Révész e Katz hanno studiato il tatto prendendo nella dovuta considerazione le diverse modalità di funzionamento della percezione manuale. La modalità attiva di Gibson sembra riprendere infatti il principio cinematico di Révész di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente: Katz (1925) e Révész (1950) hanno provato, invece, che la mano è un organo sensoriale distinto dalla pelle della mano. Katz ha cominciato a descrivere l’esperienza tattile cosí come si presenta nella vita quotidiana e ha compiuto esperimenti su alcune delle discriminazioni che è possibile individuare. Révész, osservando le performances dei ciechi, ha proposto un modo sconosciuto di esperienza chiamato aptico che va oltre le classiche modalità del tatto e della cinestesi. L’interesse di questo autore è rivolto alla filosofia e all’estetica. Questi due sembrano essere i soli ricercatori che abbiano dato peso a ciò che abbiamo chiamato tatto attivo. Il loro lavoro non è stato continuato da altri ricercatori e il termine stesso «aptico» non è stato piú molto usato, forse perché non si adatta con ciò che di solito si considera un senso (Gibson, 1962, pp. 477-478).
Anche Gibson (1966, p. 123) è convinto che il tatto non sia inferiore alla vista nella percezione dello spazio. L’articolo pubblicato nel 1962 sulla rivista Psicological Review (al quale accennavamo in precedenza e che abbiamo citato diverse volte) fonda un atteggiamento teorico in gran parte nuovo, in grado di dare nuova linfa alla serie di ricerche sul tatto inaugurata dalla psicologia gestaltica. Questo studio ottiene un risultato sperimentale semplice ma convincente in grado di dimostrare con chiarezza e rigore le capacità tattili nella percezione della forma. Le ricerche di Katz e Révész infatti sono spesso piene di resoconti sperimentali approssimativi, a volte basati sull’esperienza diretta degli autori con soggetti ciechi o bendati. Gibson propone un test in grado di eliminare qualsiasi residuo rapsodico o generico senza, per questo, scadere in esperimenti specialistici, pieni di dettagli fisiologici precisi ma privi di alcun interesse teorico. Lo psicologo americano mette alcuni soggetti vedenti di fronte a un compito di riconoscimento delle forme dalla struttura 152
molto semplice. Gli oggetti (posti dietro una tenda in modo da impedirne la visione) da identificare erano delle formine per dolci con un diametro medio di 2 centimetri e mezzo, costruite con una striscia metallica piegata a formare una certa sagoma. Si tratta di forme geometriche semplici e piuttosto regolari:
I soggetti dovevano capire quale fosse la forma di questi oggetti all’interno di due diverse condizioni sperimentali: la prima prevedeva che le mani non potessero esser mosse in alcun modo. Era lo sperimentatore a imprimere la forma dell’oggetto sulla mano aperta e distesa. Nel secondo caso invece i soggetti potevano muovere l’oggetto ed esplorarne i contorni. I risultati delle due prove furono molto chiari: mentre con il tatto passivo, i soggetti riuscivano a identificare le forme sono nel 49% dei casi, nella modalità attiva la percentuale saliva al 95% (Gibson, 1962, p. 486). Ciò dimostra senza ombra di dubbio non solo che il tatto attivo è molto piú efficace di quello cutaneo ma che la pretesa inefficienza sensoriale del tatto, tanto spesso ribadita nella letteratura (cfr. paragrafo 1), nasce dalla scarsa conoscenza di una modalità sensoriale piú complessa di quanto si potrebbe credere. La riabilitazione della percezione aptica di Gibson assume però un valore diverso rispetto a quello datogli da Révész. Lo psicologo americano infatti sottolinea piú le somiglianze che le differenze tra vista e tatto. In questo senso lo studioso americano sembra essere piú vicino a Blumenberg che allo psicologo ungherese: D’altro canto, se il colore è intangibile, la temperatura è invisibile. Ogni senso ha la sua speciale sensibilità alle proprietà di una superficie ma ce ne sono anche alcune comuni. La corteccia di un albero appare ruvida senza il tatto ma la si percepisce ruvida anche con il tatto e senza la vista. 153
L’esperto può identificare l’albero solo per mezzo di entrambi i sensi. Naturalmente, la struttura ottica delle superfici si estende per miglia e la struttura tangibile si estende solo per la lunghezza del braccio umano. Ma se le superfici determinano lo spazio percettivo, sia vista che tatto sono sensi spaziali. […] Si dice che la visione registri solo la superficie frontale di un oggetto mentre il tatto registra il davanti e il dietro allo stesso tempo. In tal senso visione e tatto sembrano esser differenti. Tuttavia queste differenze sono esagerate; la successione riguarda l’operatività di entrambi i sensi. […] In generale, queste indagini suggeriscono che visione e tatto non hanno nulla in comune solo quando sono considerati come canali per dati sensoriali semplici e senza significato. Hanno invece molto in comune quando sono considerati come canali per la raccolta di informazioni, come organi sensoriali attivi ed esplorativi. Per certi versi, sembra che registrino la stessa informazione e che producano le stesse esperienze fenomeniche. (Gibson, 1962, pp. 488-490. I corsivi sono nel testo).
Questo brano mostra con chiarezza che Gibson tende a sottolineare, seppur con un certo equilibrio, piú la convergenza che l’autonomia sensoriale. Si tratta di una differenza di impostazione che non si oppone alle tesi di Révész4: come vedremo (paragrafi 5-5.3), però, nel tempo questa diversità di toni si è trasformata fino a segnare tra gli allievi di Gibson e lo psicologo ungherese una cesura marcata.
4. Al lavoro: perché le nostre non sono mani di scimmia Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Gibson sottolinea un elemento importante della percezione tattile, la sua estendibilità protesica. Lo psicologo americano chiama dynamic touch l’azione congiunta di mani e braccia che ci consente non solo di valutare il peso degli oggetti ma anche di esplorarne la superficie per mezzo di bastoni, attrezzi e sonde. Provate, ad esempio, a chiudere gli occhi e a prendere una matita tra le dita. Poi cominciate a esplorare quello che vi circonda: constaterete che, pur non toccando direttamente gli oggetti, siete in grado di rilevarne alcune caratteristiche tattili poiché non solo potrete dire se qualcosa è di fronte a voi, ma anche se si tratta 154
di un oggetto duro o morbido, liscio o ruvido. Nel dynamic touch, infatti, mani e corpo umano diventano una specie di «diapason biologico» in grado di cogliere le caratteristiche corporee degli oggetti circostanti (Mazzeo, 2002b). I problemi nascono quando Gibson si lancia in affermazioni come questa: La capacità di vibrisse, artigli e antenne di sentire cose a distanza non è differente in linea di principio dall’abilità dell’uomo di usare un bastone o una sonda per scoprire fonti d’urto meccanico alla fine dell’appendice artificiale della sua mano. L’impiego di strumenti, da stecche, bastoni e rastrelli fino a oggetti piú raffinati come cacciaviti, pinze o anche canne da pesca e racchette da tennis, si basa probabilmente su capacità percettive corporee che si trovano anche negli altri animali (Gibson, 1966, p. 100).
Se fosse come dice Gibson, se l’impiego umano di utensili si basasse su capacità percettive del tutto simili a quelle degli altri animali, non si capirebbe perché non capita mai di vedere due scimpanzé che giocano a tennis o il proprio cane che smonta la sua cuccia con un paio di pinze. Da questo punto di vista, lo psicologo americano fa un assunto paradossalmente molto simile a quello di chi sostiene la tesi opposta, secondo la quale sarebbe solo il linguaggio verbale a distinguerci dalle altre forme di vita (cfr. cap. II, paragrafo 3). Entrambe le teorie, sia l’approccio ecologico che il riduzionismo linguistico, non possono rispondere allo stesso interrogativo: come mai allora è l’Homo sapiens a parlare e non i delfini o gli scimpanzé? Questa domanda può trovare risposta, invece, se prendiamo atto che solo nell’animale umano nudità del corpo e plasticità manuali si danno reciproco sostegno e che solo nella nostra specie le protesi tattili assumono un valore duplice. Queste, per un verso, hanno una utilità conoscitivo-esplorativa: il caso classico del bastone bianco che permette al non vedente di orientarsi nello spazio. Per un altro, la loro importanza è di tipo manipolativo poiché, grazie alle nostre capacità manuali, possiamo costruire utensili in grado di modificare quel che ci circonda: dalla tenaglia alla motocicletta, dal trapano all’elicottero. La plasticità del tatto manuale si esprime anche nella pos155
sibilità di mettere in gerarchia questi due aspetti a secondo delle circostanze5. Nell’esplorazione sensoriale la manipolazione deve mettersi da parte per evitare il rischio di rompere o modificare ciò che vuole conoscere: nel tastare un mandarino per verificare se sia maturo, occorre avere la capacità di agire con delicatezza per evitare che il frutto ci esploda tra le dita; nell’esplorare l’ambiente che lo circonda il cieco deve fare attenzione a non rompere con il suo bastone gli oggetti che incontra. Nell’azione manipolativa, al contrario, l’apprezzamento percettivo degli oggetti deve essere inibito poiché rallenta o impedisce il lavoro: se nel lanciare un coltello ci mettessimo ad accarezzarne l’impugnatura per godere a pieno della sua liscia levigatezza, non potremmo mai imprimere su di esso l’energia necessaria per stringerlo correttamente, lasciarlo al momento giusto ed evitare che la nostra preda fugga via indisturbata. In entrambi i casi, l’uso di protesi si combina con la plasticità tipica della nostra manualità e, in questo modo, sopperisce alla mancanza di armi o difese naturali. È proprio questo il punto che sfugge sia a Gibson che ai sostenitori del riduzionismo linguistico: il nostro non è un anonimo corpo animale e quelle umane non sono mani di scimmia. A tal proposito, Révész precisa che le mani umane assomigliano a quelle degli altri primati solo superficialmente. La diversa conformazione scheletrica della mano consente una opponibilità tra il pollice e le altre dita che non si limita, come negli altri primati, a formare una presa uncinata poiché permette di lavorare sugli oggetti e di costruire strumenti. Un utensile «nasce solo quando un materiale stabile subisce una modificazione adeguata per un scopo circoscritto» poiché «lo strumento del lavoro deve nascere dal lavoro stesso» (Révész, 1938a, pp. 107-108). Sebbene altre specie animali siano in grado di costruire occasionalmente strumenti, solo i sapiens ne fanno un impiego sistematico, variegato e complesso (torneremo su questo punto nel cap. IV, paragrafo 1). Ciò è reso possibile dal fatto che la mano che costruisce l’attrezzo non è lei stessa uno strumento progettato per uno scopo preciso. Al contrario, la mano dei primati non umani costituisce in primo luogo lo strumento per la locomozione qua156
drupede o per la brachiazione, cioè per il passaggio da un ramo all’altro. Proprio per questa ragione, Révész sottolinea che la mano umana non è semplicemente una sorta di passe-partout universale e privo di vita (ivi, p. 113) ma che esprime «il concetto stesso di umanità» (Révész, 1938b, p. 132). Essa non è il coacervo di una gamma di istinti animali, nemmeno della piú ampia possibile, poiché incarna la negazione dell’istinto che, per definizione, è specifico e programmato nel Dna: la mano può costruire armi e difesa proprio perché è geneticamente disarmata. La differenza tra la mano umana e quella degli altri primati emerge con chiarezza, ad esempio, in una circostanza molto significativa: il trasporto degli utensili. In un libro recente, Cimatti (2002, p. 109) osserva giustamente che una delle caratteristiche della produzione di strumenti da parte degli scimpanzé è che questi hanno un impiego limitato alla situazione in cui vengono utilizzati. Dopo che una scimmia ha costruito o usato uno strumento (ha scagliato un sasso a terra per usarne una scheggia, ha infilato un bastoncino dentro un altro per averne uno piú lungo), lo lascia lí, a una distanza dal luogo della fabbricazione non superiore a qualche decina di metri. Come abbiamo visto (cap. II, paragrafo 3) la posizione di Cimatti schiaccia tutte le differenze tra animali umani e non umani su un’unica variabile, la presenza del linguaggio verbale: lo scimpanzé non continua a utilizzare lo strumento perché è inchiodato a una sorta di eterno presente dal quale, senza le parole, non è possibile uscire. Queste affermazioni sono condivisibili se integrate dall’individuazione di condizioni di possibilità corporee per uno sganciamento dal presente che, altrimenti, sembra provenire dal nulla. Révész permette di farlo. Lo psicologo ungherese (Révész, 1938b), infatti, attribuisce alla mano un valore «sociobiologico» perché la sua conformazione anatomica consente l’apertura di un orizzonte temporale storico e sociale nel quale presente, passato e futuro si intrecciano tra loro. Révész sottolinea un limite nell’uso degli strumenti da parte degli scimpanzé che fonda e completa quello citato da Cimatti: la scimmia abbandona lo strumento per ragioni in 157
primo luogo corporee, metaboliche e morfologiche. Da un lato, il comportamento di presa è scatenato da un bisogno specifico, il nutrimento: quando questo cessa, l’oggetto viene abbandonato. Dall’altro lo scimpanzé non porta con sé i propri utensili poiché le sue mani, a causa della scarsa opponibilità tra il pollice e le altre dita, mal si prestano alla funzione di trasporto (ivi, p. 125). Le affermazioni di Révész sono confermante da un recente studio di Marzke (1996) che mette a confronto con accuratezza la mano umana e quella dei primati a noi piú vicini: gli orango, i gorilla e gli scimpanzé. La studiosa americana ha individuato solamente due tratti anatomico-funzionali comuni alla mano umana e a quella delle grandi scimmie: il primo è costituito dall’articolazione ridotta tra ulna e polso, il secondo nella mancanza di muscoli adduttori per l’indice e l’anulare. In tutti e due i casi si tratta di caratteristiche legate all’utilizzo della mano come una specie di uncino per la brachiazione. Ma il punto interessante è che gli altri 17 tratti morfologici decisivi per la funzionalità della mano umana non sono presenti nelle altre tre specie. Alcune prove sperimentali hanno confermato il forte legame tra le caratteristiche morfologiche che distinguono la mano umana e la costruzione degli utensili:
anche se dotate, nel contempo, di polpastrelli larghi. Quelle cui abbiamo accennato sono solo alcune delle caratteristiche morfologiche che consentono la cosiddetta «presa di precisione». Questa presa, che non riguarda soltanto pollice e indice ma coinvolge tutto l’arto, è il movimento base che consente alla mano non solo di raccogliere e utilizzare piccoli oggetti (pinzette, aghi o matite) ma anche di costruire e utilizzare utensili di dimensioni maggiori. Questi dati dimostrano che la mano è la manifestazione esemplare del particolare andamento di sviluppo che caratterizza la nostra specie, la neotenia (cap. II, paragrafo 4). Le nostre estremità superiori, infatti, sono tanto versatili poiché conservano la plasticità e la mobilità dello stato embrionale6:
L’analisi delle posture di presa e dei movimenti delle mani usati nella ripetizione sperimentale e nella manipolazione di utensili paleolitici ha dimostrato che la gran parte delle caratteristiche morfologiche che distinguono le mani degli ominidi da quelle dei pongidi sono le stesse richieste dall’uso e dalla costruzione abituale di strumenti litici (Marzke, 1996, p. 131).
Allo stesso tempo è proprio l’opponibilità del pollice che sembra creare dei problemi a una interpretazione neotenica della manualità umana:
La manipolazione di materiali duri come la pietra, ad esempio, è resa possibile da ossa robuste e legamenti resistenti che rendono particolarmente stabile e forte la regione centrale del palmo umano. Le particolari proporzioni e l’adeguata configurazione articolo-muscolare conferisce al palmo, al pollice e alle altre dita una presa sicura. Il controllo delle attività manipolative è facilitato anche dalle dimensioni delle nostre dita: queste, in proporzione, sono piuttosto piccole rispetto al pollice 158
Nell’uomo la mano raggiunge il suo massimo grado di sviluppo funzionale. Ciò è dovuto in parte al fatto che essa conserva molti caratteri cosiddetti «primitivi»: il che vuol dire che è priva della specializzazione (cioè delle divergenze dallo schema di base dei mammiferi), che le mani degli altri Primati possiedono; e in parte al fatto (probabilmente di maggiore importanza) che le connessioni che la mano ha con il sistema nervoso centrale sono incomparabilmente piú ricche che in ogni altro animale. Cosí, insieme con un’anatomia che rende possibile una grande varietà di movimenti, c’è il controllo neuro-muscolare necessario per la loro attuazione (Clegg, 1968, p. 176).
Se comparata con quella degli altri primati, l’anatomia della mano umana sembra congelata nella condizione embrionale. Tuttavia, l’opponibilità del pollice, ottenuta attraverso la rotazione del suo piano di allineamento verso le altre dita, è uno sviluppo aggiuntivo (Lock, Peters, 1996b, p. 376).
Gehlen (1978, pp. 130-131), a tal proposito, sottolinea che l’opponibilità del pollice costituisce una acquisizione evolutiva recente e pertanto non fetale. Il filosofo tedesco, però, si lascia andare a una affermazione tanto radicale poiché gli studi pa159
leontologici a lui contemporanei consideravano questo tratto morfologico successivo addirittura all’uomo di Neanderthal. Ricerche piú recenti (Biondi, Rickards, 2001, pp. 44-45) dimostrano invece che l’opponibilità del pollice è un tratto molto piú antico, già presente nell’Oreopiteco e risalente a un periodo compreso tra i 7 e i 9 milioni di anni fa. Questo dato è considerato da alcuni studiosi7 una disconferma dell’idea che la manualità sia un aspetto decisivo per la comparsa dell’Homo sapiens: se gli Oreopitechi avevano una mano simile alla nostra e il tatto manuale è cosí importante per la natura umana, come mai questi ominidi non hanno sviluppato una cultura o un linguaggio simili ai nostri? L’interrogativo, però, è mal posto: come abbiamo detto piú volte, il rapporto tra manualità, posizione eretta, nudità del corpo e linguaggio non deve essere considerato in modo rigido, in termini di causa ed effetto. Stiamo parlando piuttosto delle condizioni corporee di possibilità della natura umana: come tali esse possono essere, presa una per una, necessarie ma non per questo singolarmente sufficienti (ma su questo punto ritorneremo: cfr. cap IV, paragrafo 2). L’arcaicità del pollice opponibile può esser letta come una prova a favore della nostra impostazione: proprio perché è un tratto tanto arcaico non è piú necessario ipotizzare, come è stato costretto a fare Gehlen (1978, p. 130), che si tratti di una «specializzazione […] di data recentissima». Comunque, a prescindere se sia un’acquisizione recente o meno, l’opponibilità del pollice non rappresenta di certo una forma di specializzazione biologica ma una semplice mutazione morfologica che, ammesso e non concesso non sia neotenica, contribuisce ad acuire il carattere versatile e generico della mano umana. In questo scenario l’importanza del dynamic touch del quale parla Gibson diviene piú chiara e focale. È proprio nella possibilità di sentire e agire tramite utensili che i due volti del tatto trovano la loro sinergia. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, la somestesia è infatti il senso esteso della vicinanza: consiste in una nudità estrema ed esposta, indifesa e bipede. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, invece, 160
la manualità aptica è definibile il senso estendibile verso la lontananza. La prima apre gli scenari di una sensibilità ampia ma scoperta; la seconda crea le condizioni per modificare il proprio corpo e il proprio mondo a seconda delle necessità scatenate da una somestesia tanto fragile. Il concetto di «lavoro» è in grado di mettere in relazione queste due polarità e, nel contempo, consente di reinterpretare le due vulgate riguardanti la mano che percorrono la tradizione occidentale. Nel primo paragrafo, abbiamo visto che la mano sembra costituire il senso del limite e della rivelazione ultima (il «toccar con mano») oppure, come vedremo meglio nei prossimi paragrafi, il senso della limitazione, cioè una forma conoscitiva insufficiente. Questa oscillazione ha finito per isolare le nostre estremità superiori dal resto del corpo: in un caso perché unica fonte di conoscenza, in un altro perché senso materiale e grezzo. Per questa ragione, il lavoro riabilita le mani perché evidenzia una dimensione decisiva del significato che esse assumono per l’Homo sapiens: è ciò grazie a cui l’essere umano «operando tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, cambia allo stesso tempo la natura sua propria» (Marx, 1867, pp. 211212). Da questo punto di vista, il tatto manuale è decisivo per la costruzione di un mondo e l’abbandono dell’ambiente perché rende operativa una sensibilità generica che senza intervento e priva di cure non potrebbe che morire. Ne costituisce, in altri termini, la condizione pratica e sociale. Per un verso modifica i dintorni in uno spazio pronto ad accoglierlo (la mano che taglia, coltiva e raccoglie), per un altro è lo strumento grazie al quale curare una prole che nasce indifesa: prende in braccio e porta per mano8. Ciò vuol dire che la mano non è né il senso inchiodato nei suoi limiti, né quello che li supera sorvolandoli: è piuttosto il senso dell’attrito. Le linee che solcano i nostri palmi non sono il misterioso presagio di un futuro ma i segni di un lavoro che, a volte con fatica e altre con insuccesso, cerca il riscatto di un corpo nudo. È grazie al lavoro che il destino è nelle nostre mani. 161
5. I ciechi vedono? Le ricerche cognitive sul tatto Prima di concludere questo capitolo, dobbiamo affrontare un ultimo aspetto, importante sia da un punto di vista storico che teorico. Il paradigma cognitivo infatti ha fornito in questi ultimi decenni un numero considerevole di articoli e pubblicazioni sulla percezione tattile. Questo dato, indubitabile, può dare l’impressione che la trasformazione ancora in atto delle scienze cognitive stia comportando un rapido e decisivo cambiamento teorico in grado di spezzare quella identificazione tra percezione e visione della quale abbiamo parlato in precedenza (cap. I, paragrafo 4.1). Dobbiamo interrogarci, dunque, su quale sia la portata e la validità degli studi cognitivi sulla percezione tattile. In che modo, ad esempio, consentono di conoscere meglio questa modalità sensoriale? In che senso gli eredi di Gibson sono realmente tali? Il nostro giudizio su questi studi sarà particolarmente duro per due ragioni di fondo, tra loro interconnesse, che è opportuno anticipare. Nonostante il loro numero, questi saggi non hanno avuto alcun effetto rilevante sullo strapotere che la visione ancora oggi riveste nello studio sulla percezione poiché non hanno superato il loro status di «ricerca di nicchia». Alla base di questa incapacità esiste un preciso motivo teorico. Non si tratta soltanto della refrattarietà mostrata dal resto del mondo scientifico e della ricerca sperimentale a comprendere la necessità di studiare i sensi non visivi per conoscere meglio la percezione umana. Il problema principale di queste ricerche è che loro stesse non sono riuscite a liberarsi da alcune illusioni filosofiche che riguardano il rapporto tra tatto e vista. Salvo qualche eccezione, rara e parziale (le vedremo nel par. 5.3), molti di coloro che dicono di ispirarsi all’approccio di Gibson hanno cercato di approfondire lo studio della percezione tattile in modo unilaterale, enfatizzando l’importanza conferita dallo psicologo americano alla ridondanza intersensoriale che caratterizza la percezione. Secondo Gibson, infatti, le differenti 162
modalità sono tra loro ridondanti poiché mostrano larghi margini di sovrapposizione. Per questa ragione, molti dei suoi allievi hanno sottolineato il carattere amodale della percezione tattile, con un esito però doppiamente insoddisfacente. Da un lato la loro ricerca si basa sull’impiego di un termine che, come abbiamo accennato in precedenza (cap I, paragrafo 4.2), è ambiguo e controverso: cosa vuol dire «amodale»? Si tratta di proprietà condivise da tutti i sensi o da nessuno in particolare? O forse solamente da alcuni? Dall’altro, la psicologia ecologica che si è occupata della percezione aptica ha finito col diluire le caratteristiche proprie del tatto in una rete di somiglianze con la percezione visiva. Ancora una volta il tatto rischia di essere considerato semplicemente una specie di vista in tono minore. Chi comincia a leggere le ricerche pubblicate negli ultimi decenni ha la sensazione di essere di fronte a un bivio: o il tatto è efficace perché funziona come la vista oppure il tatto è autonomo ma inefficiente. Ciò che ne risulta è un panorama confuso e reazionario poiché invece di farci comprendere meglio la percezione tattile, ci riporta ad antichi miti che riguardano tatto e cecità. Proprio per questa ragione, affronteremo alcune delle posizioni piú rilevanti della ricerca contemporanea: si tratterà di un viaggio dal potere terapeutico, in grado di farci superare, almeno lo speriamo, alcune idee suggestive ma fuorvianti. Saremo alle prese soprattutto con le varianti di un’idea che rappresenta il converso della posizione sostenuta da Sacks (l’abbiamo vista nel par. 1): mentre lo scienziato americano sostiene che esser ciechi significa vivere fuori dallo spazio, ci confronteremo con l’opinione secondo cui, almeno in certe occasioni, i ciechi vedono. Il risultato della combinazione di queste due posizioni è paradossale perché ci stringe in una morsa inesorabile: come vadano le cose la mancanza della vista non costituisce un problema. Nel primo caso, la cecità è un problema solo per i vedenti poiché i ciechi non si renderebbero conto del proprio limite; nel secondo caso la cecità non è un problema per nessuno perché questo limite, in fondo, sembra superabile. A tal proposito prenderemo in esame due esempi. Nel primo l’équipe di Bach-y-Rita sostiene che i ciechi possono vedere per 163
mezzo di appositi strumenti progettati per la sostituzione sensoriale (paragrafo 5.1); nel secondo lo psicologo irlandese John Kennedy afferma che i non vedenti disegnano utilizzando molte delle strategie grafiche adottate da chi vede, in primo luogo la prospettiva (paragrafo 5.2). Analizzeremo infine una terza linea, costituita dagli studi di Susan Lederman e Roberta Klatzky, che costituirà, almeno in parte, un esempio di come sia possibile fare ricerca cognitiva sul tatto senza lasciarsi ingannare dai luoghi comuni che segnano la nostra cultura. 5.1. Vedere con la pelle: Bach-y-Rita e la sostituzione sensoriale9
L’interesse che ha spinto Paul Bach-y-Rita a costruire il suo sistema di sostituzione sensoriale è in primo luogo pratico: trovare ausili tecnici in grado di aiutare i non vedenti negli spostamenti e nella percezione di ciò che li circonda. Non a caso lo strumento da lui ideato, il Tactile Visual Substitution System (TVSS), nasce come l’evoluzione tecnica dell’Optacon, una macchina che traduce in Braille la scrittura in nero. La sostituzione sensoriale consiste nell’uso «di un senso umano per ricevere informazione che normalmente è ricevuta da un altro senso» (Kaczmarek et al., 1991, p. 1). Il TVSS è un apparecchio piuttosto semplice che realizza questo rapporto di sostituzione per mezzo di una matrice collegata a una telecamera. La matrice è posta sulla schiena o sulla pancia del soggetto ed è formata da una griglia di 400 stimolatori di 1 mm di diametro e distanziati l’uno dall’altro di 12 mm. Gli stimolatori trasformano in vibrazioni le informazioni visive colte dalla telecamera: la versione schienale del TVSS utilizza una sedia da dentista; la versione anteriore è invece portatile con la telecamera montata direttamente sulla testa del soggetto (cfr. figure 3 e 4) Questo apparecchio ha goduto di un certo successo nel dibattito filosofico10 poiché alimenta la speranza che un giorno, grazie alla tecnologia piú avanzata, il tatto possa diventare un efficace sostituito della vista. Alcuni autori, tra cui Morgan (1977), Daniel Dennett (1991) e lo stesso Bach-y-Rita (1972; 1997), hanno utilizzato infatti i dati ottenuti da queste prove 164
sperimentali per affermare che, per mezzo del TVSS, il cieco è in grado di vedere: «vedere», bisogna sottolinearlo, in senso proprio e non metaforico. Cerchiamo di capire quali sono i risultati sperimentali che sembrano autorizzare una conclusione tanto stupefacente. I successi del TVSS possono essere riassunti in tre punti principali: 1. Dopo un addestramento di diverse ore11, i soggetti ciechi riescono, grazie al TVSS, a riconoscere oggetti di uso quotidiano (telefoni, tazze, sedie) e figure geometriche (triangoli, cubi e sfere) e ad apprezzare effetti tipici della percezione visiva (prospettiva, zoom e parallasse). 2. Sempre dopo l’addestramento, se un oggetto si avvicina rapidamente alla telecamera i soggetti ciechi, invece di spostare la schiena o la pancia cioè il luogo colpito direttamente dallo stimolo, muovono la testa indietro o di lato, come fanno i vedenti. 3. Tramite il TVSS il cieco percepisce a distanza: caratteristica tipica del vedere e non del toccare. Il TVSS è in realtà uno strumento estremamente limitato che fa emergere l’ambiguità dell’espressione «percezione amodale». Con questo apparecchio i soggetti percepiscono ciò che li circonda in un modo che sembra essere a metà strada tra la visione tipica delle forme di vita piú semplici (il fototattismo dei lombrichi, ad esempio) e quella dei mammiferi. Con il TVSS, infatti, i ciechi vedono meglio dei lombrichi ma peggio dei gatti, comunque non vedono come vede la maggior parte degli animali umani. Lo dimostra, in primo luogo, il comportamento percettivo dei soggetti. Se analizziamo le argomentazioni di Bach-y-Rita, Dennett e Morgan scopriamo che quelli che vengono presentati come i punti di forza del TVSS costituiscono invece dei punti deboli: 1) Con il TVSS i ciechi vedono perché riconoscono forme percepite con una telecamera. In realtà, si tratta di prestazioni molto limitate. Il numero degli oggetti riconosciuti dai soggetti 165
è ristretto (venticinque circa: cfr. Bach-y-Rita et al., 1969, p. 963; White et al., 1970, p. 23). Inoltre, tramite il TVSS è impossibile rendere la percezione cromatica, elemento fondamentale della visione. Questo congegno garantisce quindi un repertorio percettivo di basso livello sia per quantità che per qualità. Un test con immagini emotivamente coinvolgenti non produce sui soggetti alcun effetto: i soggetti risultano del tutto indifferenti alle immagini di donne nude pubblicate dalla rivista Playboy (Bach-y-Rita, 1972, pp. 145-146; Dennett, 1991, p. 379). 2) Con il TVSS i ciechi vedono perché le punture tattili diventano «trasparenti». Bach-y-Rita e gli altri autori non prendono in considerazione il fatto che tutte le protesi tendono a divenire parte integrante del corpo cui sono applicate: è un effetto che caratterizza anche protesi piú semplici che siano di tipo sostitutivo (seguiamo la classificazione di Eco, 1997, pp. 317-318) come gli occhiali o magnificativo come i pattini, le motociclette o gli sci. In ciascuno di questi casi, la protesi tende a scomparire e a divenire parte integrante dell’arto al quale è applicato. La caratteristica della trasparenza non rappresenta quindi una proprietà esclusiva dei sistemi di sostituzione sensoriale ma è elemento proprio di ogni strumento protesico. Per di piú, nel TVSS l’unificazione degli stimoli non segue leggi visive (unificazione gestaltica per vicinanza) ma tattili (cfr. White et al., 1970, p. 26): i soggetti cui è applicata una matrice non uniforme suddivisa in quattro quadrati non si accorgono della differenza poiché gli stimoli tendono a collassare gli uni negli altri secondo l’illusione tattile (e uditiva) della percezione «a imbuto». 3) Con il TVSS i soggetti vedono perché possono percepire a distanza. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, per utilizzare il dynamic touch, discriminare forma e tessitura di oggetti lontani, non è necessario il TVSS poiché è sufficiente un’asta o un bastone. Figure 3 e 4. Il Tactile Visual Substition System (TVSS) Figura 3 fonte: White et al., 1970 Figura 4 fonte: Bach-y-Rita, 1972 166
Soffermiamoci ancora per un istante su quest’ultimo punto. A tal proposito, Bach-y-Rita afferma: 167
La telecamera non serve da estensore della pelle nello stesso modo in cui avviene nella sensibilità tattile dei ciechi che utilizzano il bastone bianco. Al contrario, il ruolo svolto dalla pelle nel nostro sistema di sostituzione sensoriale è quello di modificare il suo ruolo percettivo in questa situazione funzionale. La pelle assume, da un certo punto di vista, il ruolo di un relay (simile alle cellule gangliari della retina o al nucleo genicolato laterale) dell’informazione che proviene da una telecamera che non costituisce una estensione del senso tattile, ma piuttosto una superficie ricettrice artificiale (Bach-y-Rita, 1972, p. 152).
Le parole di Bach-y-Rita sono condivisibili, a patto di rovesciarne il senso: il TVSS non è come il bastone bianco perché è meno efficace di quest’ultimo. L’utilità di questo apparecchio per orientarsi nello spazio è infatti scarsa, inferiore a quella di un qualsiasi pezzo di legno: non è un caso che nelle nostre città non vediamo spostarsi ciechi armati di TVSS12. Se non diciamo che con il bastone bianco «il cieco vede», perché dovremmo dirlo allora dell’apparecchio progettato da Bach-y-Rita? Su un piano comportamentale, quindi, possiamo dire che con il TVSS i ciechi non vedono perché non sono in grado di percepire e muoversi come i vedenti umani. Nel contempo, il TVSS fornisce una immagine del senso tattile decisamente reazionaria: si ritorna alla vulgata secondo la quale il tatto costituirebbe un senso intrinsecamente protesico, geometrico e meramente cutaneo. L’ipotesi di fondo che anima queste prove sperimentali è che tra tatto e vista esisterebbe una differenza solo «quantitativa» (Morgan, 1977, p. 201): Bach-y-Rita (1972, p. 68) sostiene che il TVSS è qualitativamente paragonabile alla vista, Dennett (1991, p. 379) che l’aumento della velocità di trasmissione dell’informazione potrebbe migliorare «alcune deficienze del sistema». Il problema però è piú complesso. A dimostrarlo c’è il fatto che tra quantità degli stimolatori tattili e qualità della percezione non esiste un rapporto direttamente proporzionale. Il passaggio da 200 a 400 pixel tattili, ad esempio (Bach-y-Rita, 1972, pp. 90-91), ha migliorato l’accuratezza del riconoscimento delle figure ma non lo ha raddoppiato (si è passati dal 69,6% al 87,5% di risposte corrette). L’incremento del numero degli stimolatori, soprattutto, non ha reso piú nitida la percezione 168
degli effetti percettivi che dovrebbero contraddistinguere il TVSS come parallasse, zoom e prospettiva. A un primo sguardo, il TVSS sembra ispirarsi al modello ecologico della percezione fondato da Neisser e Gibson13, mentre tradisce in realtà una impostazione molto piú vicina al cognitivismo ortodosso. Il problema della sostituzione sensoriale è affrontato infatti come una semplice questione di portata del canale. Kazmarek (et al., 1991), ad esempio, ci conforta ricordando che il tatto è secondo solo alla vista in quanto a flusso massimo di informazioni per secondo (Vista: 10 7 bit/sec, Pelle: 10 6, Udito: 10 5). Bach-y-Rita (1972, p. 16) ricorda che per la sensibilità alle variazioni temporali il break minimo percepibile dal tatto è di 10 msec: molto migliore di quello della vista (30 msec) e poco peggiore dell’udito (3 msec). Viene dato per scontato, in altre parole, un punto per niente ovvio: che le differenze tra i sensi siano solo quantitative, cioè di semplice capacità di gittata informazionale. Il paradigma in base al quale è costruito il TVSS concepisce la percezione come un processo che potremmo definire idraulico-postale. Questa immagine dei rapporti tra le modalità sensoriali, piú specificatamente tra tatto e vista, è fuorviante poiché trascura la storia evolutiva che distingue i diversi sensi. La sinestesia infatti non è (o non è solo) una forma di ridondanza, quanto piuttosto il carattere costitutivo del rapporto percepiente-percepito. I sensi costituiscono una rete di esplorazione intrecciata con aree di sovrapposizione e zone divergenti, cioè modalità tra loro dipendenti ma contemporaneamente autonome. Abbiamo visto in precedenza (paragrafo 2) che la sovrapposizione parziale tra illusioni tattili e visive mostra l’alternanza tra margini di intersezione sinestetica e zone cognitive tipiche di ciascun senso. Il TVSS non dimostra che il tatto possa diventare un senso visivo, piuttosto ci ricorda quale sia il legame filogenetico tra occhio e pelle, come il primo discenda dalla seconda. È solo in questa accezione che è possibile affermare che «vediamo con la pelle»: una simile affermazione però non riguarda piú il cieco armato di TVSS, quanto piuttosto la storia evolutiva di tutti gli organismi vedenti. Certo, la retina e l’oc169
chio nel loro complesso costituiscono una organizzazione sempre cutanea: non solo perché hanno sensibilità tattile (a pressione, temperatura, dolore) ma perché costituiscono forme organiche derivate dalla pelle sia filogeneticamente (il già citato fototattismo) che ontogeneticamente. Come afferma uno dei collaboratori di Bach-y-Rita (Collins, 1971, p. 268), l’occhio si forma nel corso della crescita embrionale14 a partire da un foglietto cutaneo, l’ectoderma. Non è corretto, però, utilizzare questo dato per affermare che la pelle può avere una funzionalità simile a quella della retina (ivi, pp. 277, 291; Bach-y-Rita nel passo citato poco sopra). La storia naturale che separa pelle e occhio non può essere né ignorata, né spazzata via come se fosse qualcosa di secondario e inutile: se la pelle fosse piú o meno come la retina, perché esisterebbero gli occhi? A questo l’equipe di Bach-y-Rita sembra proprio non pensare. Una progressiva differenziazione evolutiva ha portato la generazione di organi percettivi specializzati (occhi, orecchie, nasi) che modalizzano questa prima forma di contatto con il mondo. La questione posta dal TVSS va quindi rovesciata: il fatto che grazie a protesi tecniche il cieco riesca a vedere qualcosa con la pelle non dimostra che le diversità sensoriali sono riducibili a differenze di gittata informazionale. Al contrario, le modalità sensoriali costituiscono un tessuto sinestetico caratteristico della nostra forma di vita che trova suo fondamento in una comune origine filo e ontogenetica, in un tessuto vero e proprio, la pelle, poiché sensi e linguaggio rappresentano, in primo luogo, forme di contatto con il mondo (su questo punto torneremo: cap. IV, paragrafo 4)15. La produzione di un sistema che riuscisse ad avere una complessità simile a quella della retina non renderebbe il sistema in grado di sostituire la visione ma produrrebbe semplicemente un occhio artificiale. Se fossimo in grado di progettare una matrice tattile che convertisse tanto accuratamente gli stimoli ottici, potremmo collegarla non alla pelle nuda ma al nervo ottico e realizzare un occhio bionico simile agli impianti cocleari che migliorano l’udito seguendo esattamente questo principio, inserendo una centralina elettronica sulla terminazione del nervo acustico: ancora una volta 170
ciò che mostra la propria efficacia non sono gli apparecchi di sostituzione sensoriale ma le protesi percettive. Il TVSS non è una forma di visione tattile, ma qualcosa che sta a metà tra il mito della percezione dermo-ottica (il cieco che riesce a vedere senza gli occhi: Montagu, 1971, p. 139) e la dermografia o una scrittura sulla pelle simile a un Braille iconico-geometrico. Il TVSS non costituisce pertanto uno strumento di sostituzione sensoriale non solo perché non sostituisce nulla (come abbiamo detto, è soltanto una protesi) ma anche perché non è poi cosí sensoriale (Lenay et al., 2000, pp. 292 sgg.): è una tecnica di rappresentazione16, piú vicina al geroglifico che alla televisione, tramite la quale imparare a riconoscere un «vocabolario di oggetti»17. Non a caso, quando Bach-y-Rita (1997) cita altri esempi di ciò che intende per mezzi di sostituzione sensoriale menziona il Braille e, in seconda istanza, la Lingua dei Segni, due forme (una tattile, l’altra visivo-gestuale) di comunicazione piú che di percezione. Come abbiamo accennato all’inizio il predecessore tecnico e concettuale del TVSS è costituito proprio da apparecchi monodimensionali (Visotactor) e poi bidimensionali (Optacon) che nascono come traduttori in Braille delle pagine scritte in nero (Nye, Bliss, 1970) e, prima ancora, da una sorta di «linguaggio corporeo» (Geldard, 1960) che tenta di proiettare sulla pelle lettere alfabetiche. Il TVSS, quindi, non solo non costituisce un progresso nella nostra conoscenza della percezione tattile, ma anzi rischia di farla regredire. Come abbiamo visto in precedenza (paragrafo 3), infatti, Gibson attribuisce a Révész e Katz il merito di aver svincolato il tatto dal pregiudizio di essere una forma percettiva passiva e inefficace. Nel dire questo Gibson critica proprio le ricerche da cui ha preso spunto Bach-y-Rita per costruire il suo apparecchio: […] a dispetto della sua importanza, il «senso del tatto» (Boring, 1942, cap. 13; Geldard, 1953, capp. 9-12) è stato studiato dai fisiologi sensoriali solo come un canale passivo o ricettivo. È trattato come parte della sensibilità cutanea. La sensibilità della pelle, che include temperatura e dolore cosí come il tatto, può essere piú facilmente studiata applicando degli stimoli alla superficie cutanea. A livello percentuale, Geldard (1957) 171
ha applicato stimoli multipli alla pelle e ha mostrato cosí alcuni dei diversi «messaggi» che la pelle può trasmettere, ma in tal modo si è occupato di un mosaico di ricettori e non di un organo esplorativo (Gibson, 1962, p. 477).
5.2. La pelle in prospettiva: Kennedy e i ciechi che disegnano
John Kennedy è una figura molto rappresentativa della ricerca contemporanea sulla percezione tattile. Lo psicologo irlandese ha tutte le carte in regola per essere considerato uno degli eredi piú promettenti della scuola gibsoniana: il suo direttore di tesi alla Cornell University è James Gibson (che non esita a definire il suo «mentore»: Kennedy, 1993, p. viii) e il supervisore Eleanor Gibson; il suo iter studiorum include l’incontro con lo studioso di percezione di ispirazione gestaltista Rudolf Arnheim. Le ricerche di Kennedy si concentrano su un particolare aspetto della percezione tattile, i disegni prodotti da ciechi. In primo luogo, il suo studio mira a sottolineare le potenzialità grafiche e pittoriche del tatto che, secondo lo psicologo irlandese, sono sottostimate: i ciechi spesso non sanno disegnare solamente perché non hanno mai provato a farlo o non hanno imparato le tecniche adatte. Non a caso, uno dei primi saggi dedicati da Kennedy (Magee, Kennedy, 1980) al problema costituito dalla rappresentazione tattile aggiunge una sfumatura importante, sia da un punto di vista psicologico che pedagogico, al concetto di active touch di cui parla Gibson. In una prova di riconoscimento tattile, alcuni soggetti dovevano riconoscere delle figure in rilievo facendosi guidare dallo sperimentatore. Altri, invece, dovevano farlo in modo piú attivo, esplorando il disegno da soli. Il risultato della prova è interessante perché i soggetti guidati, pur avendo un atteggiamento piú passivo rispetto agli altri, riconoscevano i disegni (un ombrello, una mano, un cigno, ecc.) con maggiore facilità. In apparente contrasto con quanto affermato da Révész e Gibson, «i soggetti passivi mostravano prestazioni migliori di quelli attivi» (ivi, p. 288). Una seconda prova ha precisato il senso di questa affermazione. In un altro esperimento i soggetti furono di nuovo 172
divisi in due gruppi: alcuni (10 vedenti bendati) dovevano tenere il dito indice fermo e sentire passare sotto di esso una figura in rilievo mossa dallo sperimentatore; gli altri (12 vedenti bendati) invece dovevano lasciarsi guidare dallo sperimentatore nel movimento dell’indice su un foglio liscio, nel quale non c’era alcuna linea in rilievo. Questa volta fu il secondo gruppo ad andare meglio, a dimostrazione del fatto che nel riconoscimento del disegno è piú importante il movimento cinestetico della mano che la percezione cutanea passiva. Questa coppia di esperimenti non contrasta quindi con le affermazioni di Révész o Gibson poiché dimostra che il tatto è attivo a prescindere da chi controlla il suo movimento, confermando un punto al quale abbiamo già accennato (paragrafo 2): l’attività del tatto non deve essere confusa con la volontarietà dei movimenti di esplorazione. Le due prove sottolineano anche che si può apprendere a riconoscere disegni in rilievo poiché, almeno in una prima fase, una guida esterna può supplire alla mancanza di capacità di esplorazione adeguate per percepire un disegno in rilievo. Se si esorta il bambino non vedente a scoprire il piacere di produrre e percepire immagini, questo ben presto diventerà «guida di se stesso» (Kennedy, in stampa)18. Piú conosciuto è però un altro aspetto dell’attività di ricerca di Kennedy che ha sottolineato in piú di una circostanza che vedenti e ciechi disegnano utilizzando modalità rappresentative tra loro molto piú simili di quanto si possa credere. Analizzando disegni fatti da soggetti ciechi tra loro molto diversi per età, scolarizzazione e cultura, lo psicologo di origine irlandese cerca di dimostrare che anche i non vedenti utilizzano metodi grafici considerati tradizionalmente visivi come la prospettiva e l’occlusione. Proprio queste comuni capacità grafiche dimostrerebbero la vicinanza tra il tatto e la vista. La posizione di Kennedy sembra, per certi versi, una versione aggiornata e raffinata di quella proposta da Blumenberg (cfr. paragrafo 2) poiché anche in questa circostanza il tentativo è il pedissequo accostamento tra tatto e vista. In questo caso, però, l’accostamento è unilaterale: Blumenberg, infatti, non cerca solo equivalenti tattili delle esperienze visive ma procede anche in direzione inversa (afferma, ad esem173
pio, che l’illusione di Aristotele ha come corrispettivo visivo lo sdoppiamento oculare). Kennedy sembra procedere invece in un solo senso di marcia poiché, secondo la sua tesi, ciò che appariva fino ad oggi visivo è in realtà anche tattile. Quel che ci preme sottolineare è l’ambivalenza di un accostamento che sembra preludere alla rivalutazione della percezione tattile, mentre ne segna l’ennesimo scacco. Vediamo brevemente perché. Kennedy indica un percorso teorico che mira esplicitamente alla riabilitazione del tatto e con il quale, quindi, non potremmo che esser d’accordo. Il problema è che persegue questo obiettivo attraverso una strategia controproducente. Per un verso concede troppo poco al senso aptico e alle possibilità rappresentative dei ciechi. In Drawing & the Blind, il testo in cui affronta il problema in modo piú approfondito, Kennedy (1993) propone un esame accurato e preciso delle capacità pittoriche dei non vedenti confrontandole con quelle di popolazioni che non hanno esperienza nella produzione e riconoscimento delle immagini (i Songe) e con iscrizioni rupestri risalenti a circa 50000 anni fa: l’obiettivo è sostenere che alcune delle modalità che governano la raffigurazione per immagini sono universali e non dipendenti dalle variazioni culturali. La prospettiva sembra essere un ottimo candidato perché, secondo Kennedy, i ciechi la riconoscono e la possono utilizzare senza grandi difficoltà. Lo psicologo irlandese propone alcuni disegni (figura 5) fatti da soggetti ciechi per darne dimostrazione. I disegni sono interessanti ma forse meno di quanto ci si potrebbe aspettare. La domanda è infatti semplice: dov’è la prospettiva? Nella serie di disegni che ritraggono una mano, quel che possiamo notare è un semplice fenomeno di occlusione: un oggetto copre un corpo che sta alle sue spalle. Ma questo è davvero cosí sorprendente? Lo è solo se si parte dall’idea che l’occlusione sia un fenomeno tipicamente visivo: un puro «mettere in ombra». Se ci pensiamo un po’ meglio, scopriamo invece che non è cosí: se, ad esempio, posiamo un bicchiere sopra un compact disc, possiamo toccare solo una parte della superficie del CD perché il bicchiere, ostacolandone la percezione, lo occlude tattilmente 174
(tra l’altro, se il bicchiere è trasparente, lo occlude solo tattilmente). Un esempio tanto semplice dimostra che non è necessario ricorrere ai disegni dei ciechi per mettere in discussione un’idea cosí approssimativa dei rapporti tra tatto e vista. Sicuramente ciò che contribuisce a fare confusione nel discorso di Kennedy è l’ampiezza semantica della parola «prospettiva». Se consultiamo un dizionario della lingua italiana di media qualità troviamo infatti almeno tre accezioni del termine: 1. In geometria, la rappresentazione grafica di un solido o di un gruppo di solidi, guardato da un determinato punto di vista. 2. Nelle arti figurative, la capacità o la tecnica di rappresentare gli oggetti in modo da esprimere la loro collocazione in profondità nello spazio. 3. L’insieme di norme che regolano l’esecuzione di disegni di questo genere. Poniamoci allora la domanda: in quale circostanza i disegni raccolti da Kennedy ci direbbero qualcosa di particolarmente «stupefacente» o «eclatante» (Ferretti, 1998, pp. 128-129) sulle possibilità rappresentative e percettive del tatto? In alcuni casi, lo psicologo di origine irlandese sembra riferirsi soprattutto alla prima delle tre accezioni: rappresentare in prospettiva significa poter disegnare un oggetto, ad esempio un tavolo, secondo un certo punto di vista unificante (vantage point: cfr. Kennedy, 1983, p. 23; 1993, pp. 198 sgg.). Ma questa abilità non è particolarmente sorprendente poiché non riflette una specifica capacità pittorica o percettiva quanto una struttura cognitiva piú ampia e generale: esser consapevoli che la posizione degli oggetti nello spazio è relativa alla nostra posizione corporea. Quando, ad esempio, sorvolo in aereo la penisola italiana, la disposizione dei mari è relativa alla direzione del mio viaggio: se provengo da sud mi troverò l’Adriatico sulla destra e il Tirreno sulla sinistra ma se l’aereo è partito da Parigi, è chiaro che la posizione dei due mari sarà, rispetto ai miei assi d’orientamento, invertita. È sorprendente, piuttosto, che Kennedy di ciò non si accorga: 175
Figura 5 Disegni di alcuni ciechi adulti: una mano (a,b,c) e un tavolo Fonte: Kennedy, 1993 176
tanto piú che, per mettere alla prova le capacità prospettiche dei ciechi, egli utilizza la versione modificata di un test escogitato da Piaget (la prova delle «tre montagne») proprio per comprendere meglio le capacità cognitive generali dei bambini. L’esperimento è molto semplice: su di un tavolo si dispongono un cubo, una sfera e un cono. Poi si chiede ai soggetti di dire da quale punto di osservazione si avrebbe la disposizione degli oggetti disegnata su un foglio (da sinistra o da destra, dall’alto o dal basso, ecc.). I risultati hanno dimostrato che la capacità di riconoscere il punto di osservazione tra i due gruppi di soggetti è sostanzialmente la stessa (Kennedy, 1993, pp. 205 sgg.; 1997, p. 94. Si veda anche Heller, Kennedy, 1990). Quel che verrebbe da aggiungere è: «e quindi? È cosí straordinario il fatto che i soggetti ciechi non abbiano una concezione egocentrica dello spazio?» In un senso tanto generale, è ovvio che i ciechi godano di capacità prospettiche: il fatto che riescano a muoversi nel flusso caotico di una città solo col bastone bianco ne costituisce la migliore dimostrazione. Vediamo allora la seconda delle accezioni che abbiamo elencato. Qui le cose si fanno piú interessanti. Kennedy definisce infatti il principio della prospettiva nel modo seguente: «un oggetto sottende un angolo piú piccolo quando è lontano rispetto a quando è vicino» (ivi, p. 192). L’autore sottolinea giustamente che questo principio non è solo visivo: se ascoltiamo due persone, una alla nostra sinistra e l’altra alla nostra destra, la direzione delle loro voci segue esattamente questo principio perché l’arco che sottende la loro posizione diminuisce all’aumentare della distanza dall’ascoltatore. Lo stesso vale per il tatto: se puntiamo due alberi con una coppia di bastoni, prosegue Kennedy, l’angolo costituito dalle nostre braccia seguirà il medesimo principio prospettico. La prospettiva è definita pertanto come una generica «scienza della direzione» (ivi, p. 225). Anche in questo caso ci troviamo però di fronte allo stesso interrogativo di prima. Abbiamo semplicemente dimostrato che i ciechi conoscono lo spazio: forse non è ancora un risultato del tutto scontato (come abbiamo visto c’è ancora qualcuno 177
che lo mette in discussione: cfr. paragrafo 1) ma sembra un po’ poco. In primo luogo, la dimostrazione fa ricorso a una conoscenza somestetica dello spazio mentre una delle tesi di Kennedy è che «l’aptica possiede un senso intuitivo delle prospettive» (cit. in Masini, Antonietti, 1992, p. 138); in secondo luogo, da questo punto di vista le posizioni di Révész e Gibson sono piú mature poiché propongono una concezione maggiormente equilibrata dei rapporti che legano e distinguono tatto e vista. Passiamo infine alla terza accezione, la piú delicata. In questo caso, infatti, la posizione di Kennedy è oscillante. Per un verso lo psicologo irlandese nega che i ciechi disegnino spontaneamente per mezzo di una tecnica prospettica. Cosa, tra l’altro, difficile da ipotizzare poiché non avviene neanche nei vedenti: come è noto, nella cultura occidentale la tecnica prospettica è un’invenzione solo rinascimentale. Ma per un altro verso Kennedy (in stampa) sembra affermare che per i bambini ciechi è naturale apprendere certe tecniche tanto quanto per i vedenti. Questa, in realtà, è l’unica tesi forte del suo approccio e purtroppo è anche la piú fuorviante. Alcuni disegni mostrati da Kennedy sono molto belli e, in certi casi, dimostrano un vero talento grafico (cfr. ad es. quelli di Tracy in Kennedy, 1993, p. 118 o quelli di Gaia in Kennedy, in stampa): ma sono eccezioni. La maggior parte dei soggetti esaminati dallo stesso Kennedy (1993) mostrano capacità molto inferiori, a riprova che per i bambini ciechi è possibile ma non facile imparare certe tecniche rappresentative. Rivalutare le capacità cognitive del tatto non significa mimetizzarle, cioè schiacciarle su quelle visive. Il rischio è quello di proporre una descrizione omogenea dei sensi che non rispetti la loro specificità: se il tatto fosse davvero tanto visivo o cosí «amodale» (Kennedy, 1993; 2000), il confronto con il limite sensoriale per i ciechi sarebbe tutto sommato poco frustrante e facilmente superabile: si ritorna in fondo all’idea di chi, come Sacks (1995), afferma che il cieco non avverte il proprio limite sensoriale e, di conseguenza, che esso non è poi cosí drammatico. Per Sacks questa conclusione costituisce la lo178
gica conseguenza del credere che quello del cieco sia un mondo fuori dallo spazio. Poiché si suppone che il mondo sensoriale dei non vedenti sia radicalmente altro da quello dei vedenti, quel che ne risulta è che nessuno può uscire dalla propria condizione né comprendere i propri limiti. Kennedy assume una posizione che è opposta a questa, una controparte talmente speculare che arriva, seppur in base a premesse diverse, alle medesime conclusioni: ogni tentativo di fare dei ciechi degli «aspiranti vedenti» (cfr. Mazzeo Mario, in stampa) ha come conseguenza di fraintendere la specificità della condizione di chi è privo della vista e di non comprendere possibilità e limiti della percezione tattile. Come è avvenuto nel paragrafo precedente, ci troviamo di fronte a un percorso argomentativo curioso: in un primo momento si sottovaluta il proprio oggetto di studio, il tatto, per poi mostrare in un secondo tempo che in realtà questa modalità sensoriale ha capacità eclatanti. Il risultato è una doppia esagerazione, prima per difetto e poi per eccesso, che ha per conseguenza affermazioni decisamente sorprendenti come questa: I disegni di questi tre soggetti ciechi indicano che essi apprezzano molti principi della rappresentazione dei contorni. In linea generale, nei disegni le linee corrispondono alle regole che governano la rappresentazione dei contorni per i vedenti. Cioè, le loro linee rappresentano bordi di superfici (Kennedy, 2000, p. 72. Cfr. Kennedy, 1993, p. 123).
O al tatto si concede troppo (la tesi secondo cui per i bambini ciechi non è poi cosí difficile disegnare in prospettiva) o si concede troppo poco: è cosí stupefacente infatti che a contorni visivi corrispondano linee tattili? Kennedy sembra dimenticare che il disegno, sia in nero che in rilievo, nasce da una abilità manuale: in entrambi i casi si tratta di fare un segno, tracciare una linea sulla carta. Studiando il disegno dei ciechi lo psicologo irlandese cerca di evidenziare il carattere visivo del tatto, invece di sottolineare il fatto che la manualità aptica ha un valore anche per i vedenti. È forse per questa ragione che Kennedy (1993, pp. 269-270) afferma che siamo una specie bizzarra perché sappiamo disegnare e fare raffigu179
razioni anche se ciò non ci avrebbe dato alcun vantaggio evolutivo. Proprio perché sottovaluta il valore della manualità per la specie umana (cieca o vedente che sia), a Kennedy può sembrare «strana» la nostra facoltà di produrre e interpretare immagini. Come abbiamo visto nel paragrafo 4, questa capacità non solo non è bizzarra ma è addirittura decisiva. La rappresentazione figurativa costituisce una delle forme di una categoria tutta umana, quella del lavoro: grazie alla sua plasticità la mano sopperisce alla sprovvedutezza del proprio corpo modificando ciò che la circonda, costruendo utensili, producendo figure. È perché siamo nudi che, con le mani, ci copriamo di immagini. 5.3. Il tatto tra riscossa e sconfitta: le ricerche di Lederman e Klatsky
Circa la facilità con la quale i ciechi possono percepire le immagini in rilievo, non tutti gli autori sono d’accordo con l’ottimismo di Kennedy. Pur non dichiarandosi gibsoniano, il gruppo di ricerca di Susan Lederman e Roberta Klatsky sottolinea un principio ecologico elementare che sembra sfuggire a tutti coloro che, parlando del tatto, pensano in realtà solo alla percezione di disegni o lettere: il tatto è piú adatto alla percezione tridimensionale che a quella bidimensionale (Klatsky, Lederman, 1993, p. 201). Per dimostrarlo, Klatsky e Lederman (Klatsky et al., 1993) hanno escogitato un esperimento suddiviso in due parti: nella prima un gruppo di soggetti bendati doveva riconoscere, toccandoli, oggetti di uso comune (occhiali, forbici, telefoni, ecc.). La prova era resa difficile dal fatto che la percezione manuale era ostacolata: alcuni potevano toccare gli oggetti solo con un dito o due, altri dovevano farlo con le mani coperte da guanti. Nella seconda parte dell’esperimento, un altro gruppo di soggetti doveva riconoscere immagini in rilievo raffiguranti gli oggetti del test precedente. Il risultato dell’esperimento è molto significativo perché, nonostante le limitazioni imposte sulle possibilità di percepire forme e tessitura, la percezione tridi180
mensionale si dimostra nettamente piú efficace di quella bidimensionale. Questo test suggerisce che, se si vuol comprendere il valore cognitivo del tatto, è rischioso concentrare la propria attenzione esclusivamente sulla percezione manuale dei tratti in rilievo poiché essa costituisce proprio uno dei suoi punti deboli. Come Bach-y-Rita, anche Kennedy cade vittima invece di un modello di riferimento che non sembra perdere la propria forza, il Braille. La scrittura è la concretizzazione visiva delle lingue orali: il fatto che la scrittura in rilievo per non vedenti costituisca il paradigma ultimo di molte ricerche contemporanee sul tatto tradisce una concezione doppiamente subalterna del tatto, alla vista e al linguaggio verbale. Il «doppio schiacciamento» che affligge il cognitivismo piú ortodosso (cap. I, paragrafo 4.1) riesce a infiltrarsi anche nelle ricerche che gli si oppongono. Una parte degli studi di Klatsky e Lederman sono interessanti poiché contribuiscono a sgomberare il campo da alcune delle vulgate che dipingono il tatto come un senso temporale, inefficace e subordinato per l’appunto a vista e linguaggio. Altre ricerche, alle quali faremo solo un breve accenno, ne costituiscono invece l’ennesima incarnazione: la riscossa del tatto ha per retrogusto una nuova sconfitta. Ma procediamo con ordine. Secondo i due autori, il tatto è una modalità sensoriale formata da due sottosistemi distinti ma interdipendenti. Il primo, sensoriale, è deputato alla percezione di qualità tattili, termiche, nocicettive e cinestetiche. Il secondo è di tipo invece motorio-manipolativo. Il legame che sussiste tra i due sottosistemi è dimostrato dal fatto che le proprietà fenomeniche percepite dalla mano (sottosistema 1) sono esplorate da precise tecniche esplorative (sottosistema 2) chiamate EP (exploratory procedures). Per le nostre mani, le due psicologhe ipotizzano otto EP fondamentali (figura 6): 1) Movimento laterale (lateral motion): consiste nello strofinare le dita contro un’area omogenea della superficie dell’oggetto per percepirne la tessitura. 181
2) Pressione (pressure): la mano preme una parte dell’oggetto per verificarne la consistenza e la durezza. 3) Contatto statico (static contact): è una tecnica adottata quando l’oggetto è sostenuto da un supporto mentre la mano lo tocca per verificarne la temperatura. 4) Presa senza sostegno (unsupported holding): consiste nel sollevare un oggetto soppesandolo con la mano, il polso e il braccio. 5) Chiusura (enclosure): la mano cerca di avvolgere l’oggetto stringendolo tra le dita per percepirne la forma globale e il volume. 6) Seguire il contorno (contour following): è una tecnica particolarmente dinamica attraverso la quale la mano si mantiene in costante contatto con l’oggetto per valutarne con precisione il volume e la forma. 7) Prova del movimento parziale (part motion test): una mano prova a muovere una parte dell’oggetto, mentre l’altra lo tiene fermo. 8) Prova funzionale (function testing): le mani eseguono dei movimenti particolari per mettere alla prova alcune delle funzionalità specifiche che l’oggetto può possedere. Lo agitano per produrre rumore, ci si infilano per constatare se è cavo, lo stringono alle estremità per muoverlo a tenaglia. Il valore cognitivo e la plausibilità empirica di queste condotte esplorative è stata verificata da due esperimenti (Lederman, Klatsky, 1987). Nel primo si chiedeva a soggetti bendati di capire in base a quali proprietà tattili i due oggetti presentati mostravano somiglianze: tessitura, consistenza, temperatura, peso, forma e volume, movimento parziale e funzionalità. L’attività manuale dei soggetti, ripresa da una telecamera e poi esaminata nel dettaglio, ha confermato l’associazione tra le otto EP e le diverse proprietà sensoriali. Il secondo esperimento è piú complesso perché mira a raffinare un’associazione che rischia di risultare approssimativa. La prova aveva come obiettivo quello di stabilire se ogni EP fosse necessaria, sufficiente od ottimale per percepire una cer182
Movimento laterale/ tessitura
Contatto statico/ temperatura
Pressione/ durezza
Presa senza sostegno/ peso
Chiusura/ forma globale, volume
Prova funzionale/ funzione specifica
Seguire il contorno/ forma globale, forma esatta
Prova del movimento parziale/ movimento delle part
Fig. 6: Le sei Exploratory procedures (EP) di Lederman e Klatsky Fonte: Klatsky, Lederman, 1993 183
ta qualità tattile: era sufficiente se forniva una capacità di riconoscimento superiore al 50% delle prove; necessaria se era la sola a essere sufficiente; ottimale se forniva i risultati piú accurati nella percezione di quella proprietà sensoriale. I soggetti potevano utilizzare solo una EP alla volta, suggerita dallo sperimentatore: in questo modo, a rotazione ogni strategia esplorativa veniva associata al riconoscimento di ciascuna delle proprietà che abbiamo elencato per verificare quale fosse l’EP piú adatta a ognuna di esse. I risultati hanno confermato lo schema che abbiamo riassunto sopra (il movimento laterale è l’EP piú adatta alla percezione della tessitura, il contatto statico alla rivelazione della temperatura, ecc.). Non solo: i dati forniti da Lederman e Klatsky (ivi, p. 364) permettono anche di capire quali tra le diverse EP siano le strategie esplorative piú specializzate, efficaci solo per una o due proprietà, e quali invece sono in grado di dare risultati soddisfacenti per la maggior parte di esse: la pressione è la tecnica piú specializzata, mentre la chiusura è quella piú generica e versatile. Come è possibile vedere nella figura 6, la chiusura coincide con ciò che Révész chiama percezione stereoplastica (cfr. paragrafo 2): la presa simultanea che permette la ricognizione della forma dell’oggetto nella sua tridimensionalità. Come abbiamo visto nel paragrafo 4, questo punto è importante perché conferma che la particolare plasticità della mano umana consiste proprio nella possibilità di opporre tra loro le dita con ampi gradi di libertà: gli esperimenti di Lederman e Klatsky mostrano che non specializzazione manuale ed efficacia percettiva costituiscono i due volti, strutturale e funzionale, della rilevazione stereoplastica della forma. Un’altra serie di esperimenti consente di chiarire ulteriormente i rapporti che contraddistinguono il legame tra tatto e vista. Lederman e Klatsky ipotizzano che le differenze tra queste due modalità sensoriali siano da ricondurre, prima di tutto, alla diversa ampiezza del campo percettivo. Il tatto e la vista sono entrambi sensi sequenziali: mentre però la vista produce sequenze rapide e automatiche, il tatto procede per passi piú lenti e plastici (cfr. paragrafo 2). È proprio la diversa estensione 184
dell’orizzonte percettivo a fare la differenza: l’occhio si apre a un panorama esteso, le dita colgono solo porzioni dello spazio. Per dimostrarlo Loomis, Lederman e Klatsky (1991) hanno pensato a un esperimento molto elegante. I soggetti dovevano esplorare, prima con la vista e poi col tatto, una serie di disegni. L’idea di fondo della prova era di imporre alle due modalità sensoriali gli stessi vincoli di campo percettivo. L’esplorazione tattile era limitata all’uso di un solo dito e il campo visivo godeva di un’apertura sensoriale identica a quella tattile: i soggetti dovevano vedere su un monitor le immagini proiettate da una penna elettronica particolare poiché la sua finestra percettiva era stata tarata in modo tale che avesse l’estensione pari a quella di un dito. In questa maniera tatto e vista lavoravano al riconoscimento delle immagini utilizzando lo stesso tipo di sequenze. I risultati dimostrano che, in condizioni simili, le capacità discriminative dei due sensi sono quasi identiche. Se però si prova a raddoppiare l’estensione della finestra percettiva attraverso la quale percepire i disegni succede qualcosa di inaspettato: per mezzo di due dita le capacità discriminative del tatto rimangono inalterate, mentre la vista grazie al raddoppiamento del campo visivo della penna ottica raddoppia la qualità delle sue prestazioni. Questi due esperimenti sono interessanti perché forniscono una immagine equilibrata dei rapporti tra vista e tatto, giocata per somiglianze e differenze. Per un verso, la prima prova sottolinea la parentela genetica e funzionale tra i due sensi poiché, a parità di condizioni, sia il tatto che la vista sono sensi sequenziali. Per un altro, la seconda prova sottolinea le loro diversità: l’aumento quantitativo del campo percettivo ha effetto solo per la vista poiché gli occhi costituiscono una struttura specializzata per la rilevazione di ampi orizzonti. Gli occhi sono panoramici ma non le mani ed è per questo motivo che la vista è adatta alla percezione bidimensionale: per apprezzare disegni e scrittura è decisamente piú importante una percezione estesa e meno stereoplastica di una ristretta ma piú tridimensionale. A tal proposito, un dato fornito da Lederman e Klatsky costituisce un’ulteriore disconferma delle ipotesi di 185
Kennedy circa la presunta facilità nel percepire segni in rilievo e tecniche raffigurative come la prospettiva attraverso il tatto. Mentre per i vedenti bendati le immagini bidimensionali prospettiche risultano piú facili da percepire di quelle che non simulano graficamente la profondità, per i ciechi è esattamente il contrario: per i non vedenti il loro riconoscimento è piú difficile (Lederman et al., 1990). Bisogna aggiungere però che per spiegare questo risultato anche Lederman e Klatsky ricorrono a una ipotesi poco convincente. Secondo le due psicologhe la percezione bidimensionale delle immagini attraverso il tatto sarebbe codificata visivamente: ciò che chiamano image mediation model (ivi, p. 56) richiama terribilmente la tendenza trasformatrice, il nono principio aptico descritto da Révész (e per esso valgono quindi le stesse cautele e le medesime considerazioni: cfr. paragrafo 2). Indubbiamente disporre di capacità immaginative visive costituisce un aiuto nel risolvere compiti cognitivi come il riconoscimento di un disegno (Ferretti, 1998). Allo stesso tempo, però, se si trattasse di un costante lavoro di traduzione visiva, i ciechi non solo dovrebbero avere difficoltà nel riconoscere i tracciati in rilievo, ma non dovrebbero riuscirci affatto. Il che, naturalmente, è falso. Lederman e Klatsky danno per scontato che ricorrere all’immaginazione significhi fare ricorso all’immaginazione visiva. Negli ultimi trent’anni molte ricerche sulle immagini mentali hanno dimostrato invece che la situazione è piú articolata poiché l’immaginazione non può essere ridotta né a un processo solamente verbale (l’ipotesi proposizionalista), né a uno esclusivamente visivo (tesi che potremmo chiamare visualista). Gli studi, ormai classici, di Shepard e Metzler (1971) sulla rotazione mentale hanno fornito evidenze sperimentali che disconfermano la prima ipotesi. Ai soggetti era chiesto di verificare se due figure dalla diversa orientazione spaziale fossero uguali o meno. I tempi di risposta risultarono direttamente proporzionali alla differenza di orientamento angolare tra le due figure. Questo esperimento, condotto sia con immagini irregolari che a forma di lettera, indica l’esistenza di un processo 186
di rotazione mentale dell’immagine di tipo spaziale. L’ipotesi secondo la quale immaginare significa costruire frasi non è in grado infatti di giustificare l’incremento lineare del tempo impiegato nelle diverse prove. Se il formato delle rappresentazioni fosse verbale, la rappresentazione mentale dovrebbe rivelarsi insensibile (o sensibile non in maniera tanto proporzionale) alle differenze di orientamento angolare. Gli studi di Marmor e Zaback (1976) e di Carpenter e Eisenberg (1978), che hanno riproposto gli stessi test attraverso una diversa modalità sensoriale, disconfermano anche la tesi visualista. In questi esperimenti infatti immagini erano percepite per mezzo dell’esplorazione tattile di figure in rilievo: oltre a un gruppo di soggetti bendati sono state osservate le prestazioni di due gruppi di soggetti ciechi (congeniti e non). Anche in questo caso il tempo impiegato nei compiti di confronto è risultato direttamente proporzionale al grado di rotazione mentale necessario per giudicare l’uguaglianza delle due figure. Carpenter e Eisenberg (1978) hanno scoperto inoltre che le prestazioni dei vedenti risentivano della posizione iniziale delle mani: se le mani erano poste in modo perpendicolare rispetto alla figura in rilievo, i tempi di risposta erano piú brevi quando per il confronto era necessaria una rotazione mentale di zero o di trecento gradi, mentre per ottenere le risposte piú lente era necessaria una rotazione di centottanta gradi. Se le mani erano poste invece a trecento gradi in senso orario rispetto al campione, i tempi di risposta piú brevi si verificavano con rotazioni di duecentoquaranta e trecento gradi, quelli piú lenti con rotazioni di centoventi gradi. In conclusione, il confronto tra la posizione di Bach-y-Rita, Kennedy e quella di Lederman e Klatsky rivela il carattere paradossale di buona parte della produzione scientifica contemporanea sulla percezione tattile manuale. Troppo spesso sembra che non ci siano alternative: o il tatto funziona come la vista o il tatto è inefficace e, per dare qualche risultato, deve affidarsi agli occhi. Allo stesso tempo, proprio alcuni degli studi di Lederman e Klatsky mostrano che la ricerca cognitiva può divenire teoricamente piú avanzata quando, in maniera piú o meno con187
sapevole, recupera un atteggiamento teorico vicino a quello di Révész e Gibson. In questo caso il rigore sperimentale che caratterizza questo tipo di indagine cessa di essere asfittico e castrante poiché consente di dimostrare con maggiore rigore la validità delle intuizioni dell’approccio ecologico e di estendere il campo di indagine della psicologia gestaltica.
IV. Esperienza tattile e facoltà del linguaggio È il tatto il tronco stesso dell’umanità! J.G. Herder
Letture consigliate –
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Purtroppo non esiste nessuna traduzione italiana dei testi di Révész che abbiamo citato. Per un rapido profilo biografico dell’autore e per una bibliografia completa dei suoi scritti si può consultare il sito della Révész Library di Amsterdam: http://cf.uba.uva.nl/en/libraries/psychology/revesz.html. La migliore presentazione generale della percezione tattile è ancora quella di Montagu (1971) nella quale sono illustrate alcune delle caratteristiche genetiche, antropologiche e psicologiche piú rilevanti di questa modalità sensoriale. L’interpretazione della nozione di lavoro contenuta nell’ultimo paragrafo deve molto a Virno (1999, parte terza; 2003). Per una introduzione in italiano alle tendenze di ricerca contemporanee sulla percezione aptica è utile consultare Galati (1992). Due volumi collettanei recenti, uno in lingua francese (Hatwell, Streri, Gentaz, 2000) e uno in inglese (Heller, 2000a), contengono numerosi saggi in grado di dare un resoconto aggiornato del dibattito. Il piú completo dei due è sicuramente il primo poiché propone interventi, ad esempio, su sostituzione sensoriale, percezione neonatale, illusioni aptiche e supporti grafici per non vedenti. Uno degli articoli (Lacreuse, Fragaszy, 2000) propone un confronto tra mano umana e non umana molto diverso dal nostro poiché insiste piú sugli elementi di somiglianza che di differenza. Per una concezione della cecità e del tatto opposta alla nostra si veda, oltre a Sacks (1995), l’autobiografia di John Hull (1990). Anche la lettura del carteggio tra Bryan Magee e il filosofo cieco Martin Milligan (Magee, Milligan, 1995) costituisce un buon esercizio per mettere alla prova la propria permeabilità ad alcune illusioni filosofiche circa la condizione di chi è privo della vista. Una introduzione chiara e stimolante al dibattito contemporaneo su un tema al quale abbiamo potuto solo accennare, quello delle immagini mentali, è sicuramente quella di Ferretti (1998). Cornoldi e Vecchi (2000a, 2000b) forniscono invece dati recenti sulle immagini mentali nei ciechi.
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1. Le scimmie che pescano: culture animali e culture umane L’obiettivo di questo libro è ribaltare l’idea per la quale l’esperienza tattile darebbe origine, almeno nell’animale umano, a una sensorialità seconda, o meglio, secondaria: subordinata a vista e/o linguaggio. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di mostrare che il tatto è definibile come «il secondo senso» in un modo opposto rispetto a quello tradizionale. L’esperienza tattile, prima di essere «seconda», è duplice: vive della polarità fondamentale tra somestesia e percezione aptico-manuale. Per questa ragione è doveroso sottolineare ancora una volta che esistono due accezioni di «tatto»: la prima si riferisce a una sensibilità cutanea estesa, la seconda a quella localizzata nelle mani. Questa peculiarità costituisce, contemporaneamente, il tallone d’Achille e il punto di forza dell’esperienza tattile poiché, come abbiamo visto, è dallo stato di cronica indigenza di un corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legami emotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali. Il tatto può essere definito «il secondo senso» non perché modalità sensoriale subordinata alla vista, ma poiché costituisce la dimensione dell’esperienza decisiva per il secondo volto della natura umana, la cultura. Dire «secondo volto» o «seconda natura» può generare fraintendimenti: è opportuno stron189
carli sul nascere. Queste espressioni non intendono affermare in alcun modo che per l’animale umano il linguaggio sia qualcosa di posticcio, un tardo additivo per un impasto biologico già formato. Al contrario: è proprio il carattere indefinito e plastico, immaturo e incerto della corporeità umana che apre la porta spazio-temporale alla comparsa evolutiva del linguaggio. In particolar modo, la mancata specializzazione dell’esperienza tattile costituisce l’elemento chiave di una relazione a incastro: la «sprovvedutezza biologica» dell’animale umano, come la chiama Gehlen (1978, p. 60), è il presupposto genetico di rimedi culturali che ne colmino le lacune e ne compensino le mancanze. È per questa ragione che tra comportamenti culturali umani e non umani sussiste una somiglianza solo superficiale che, come tale, può trarre in inganno. Un caso molto noto è costituito, ad esempio, dall’uso di utensili da parte degli scimpanzé per catturare le termiti (per una rassegna: Lestel, 2001, pp. 75 sgg.). L’etologa americana Jane Goodall ha osservato in Tanzania questo comportamento presso una comunità di scimpanzé: le scimmie prendono dei ramoscelli, li privano delle foglie, li inseriscono nei tunnel dei termitai e poi li estraggono per mangiare le formiche che ci si aggrappano sopra. Questo esempio è importante per almeno due ragioni. In primo luogo, lo scimpanzé non solo utilizza un attrezzo ma lo crea: non prende un ramo già privo di foglie ma ne strappa uno dagli alberi per poi piegarlo alle sue esigenze. In secondo luogo, si tratta di un comportamento culturale poiché solo questo gruppo di scimpanzé utilizza la cosiddetta «pesca delle termiti», una pratica trasmessa di generazione in generazione. Molto spesso questo caso è considerato una riprova della forte continuità evolutiva tra animali umani e non umani: la cultura non rappresenterebbe uno specifico umano e la differenza tra comportamenti culturali animali e umani sarebbe solo di grado e non di genere. Ma cosa significa affermare che questa differenza è solo di quantità e non di qualità? Sgombriamo subito il campo da un primo fraintendimento. Su un punto riduzionismo linguistico, paradigma cognitivo e antropologia filosofica si trovano d’accordo: la differenza tra animali ed esseri umani 190
non consiste nel possesso o meno di una entità spirituale, l’anima. In questo senso siamo tutti continuisti. Le accuse reciproche di «discontinuismo» rischiano, in primo luogo, di farci trascurare il vero punto della questione: capire qual è l’origine e il valore di queste differenze di comportamento. In secondo luogo suggeriscono in maniera implicita un presupposto argomentativo duro a morire che conduce a una sorta di stallo teorico. È come se, ancora oggi, si giocasse una partita stretta in una vecchia contrapposizione, di stampo ottocentesco: l’essere umano è «un angelo decaduto» (opzione spiritualista) o «una scimmia progredita» (opzione materialistica)? Mentre all’epoca della pubblicazione delle opere di Darwin e Lamarck, questo interrogativo ha un contenuto genuino poiché nasce dalla rottura di un paradigma pervasivo come il creazionismo (l’uomo è creato da Dio), oggi questa domanda, almeno in sede filosofica e scientifica (se stiamo discutendo con un teologo, le cose cambiano), assume il sapore stantio di chi, indugiando, fa confusione per mancanza di radicalità teorica. Per ogni paradigma di ricerca che si dica «naturalista» la risposta all’interrogativo sembra infatti semplice, frutto di un’opzione obbligata: siamo scimmie progredite. Ed è qui che si cela l’inganno: perché, a rigor di termini, non siamo né scimmie né esseri progrediti. Non solo, come abbiamo sottolineato nel secondo capitolo, l’idea che l’uomo discenda dalla scimmia è scorretta da un punto di vista evoluzionistico (il punto di divaricazione cronologica tra scimpanzé e ominidi è oggi molto dibattuto ma comunque notevole, tra i 7 e i 4 milioni di anni fa: cfr. Biondi, Rickards, 2001; Cherfas, Gribbin, 2001) ma è anche fuorviante da un punto di visto filosofico. L’esempio della pesca alle termiti infatti è un’ottima dimostrazione della relazione di somiglianza tra Homo sapiens e scimpanzé ma anche della loro estrema diversità. Per un verso, sarebbe sbagliato rifiutarsi di considerare culturale il comportamento degli scimpanzé osservato dalla Goodall. Per un altro, sarebbe altrettanto errato lasciarsi trarre in inganno da una similarità che si rivela essere solo di superficie. Il punto decisivo 191
infatti è che per gli animali non umani i comportamenti culturali hanno un’importanza relativa, cioè opzionale. Molto spesso, il fatto che alcune specie di scimpanzé non utilizzino bastoncini per pescare le termiti è considerato la dimostrazione ultima del carattere culturale di questo comportamento e, quindi, del rapporto di continuità tra la nostra specie e gli altri primati. È proprio quest’ultimo passaggio logico a essere indebito: ci si dimentica, infatti, che le altre comunità di scimpanzé, quelle che non utilizzano questa tecnica, non sostituiscono il ramoscello con altri utensili ma mangiano le termiti direttamente con mani e lingua. La differenziazione tra le diverse comunità di scimpanzé non consiste quindi nell’impiego di tecniche differenti ma tra gruppi che mostrano questo comportamento culturale e gruppi che non lo mostrano. Per questa ragione, l’impiego animale di utensili culturali1 è un insieme di azioni accessorio e secondario perché gli scimpanzé sono una specie cosí specializzata che può sopravvivere ugualmente anche senza bastoncini: non a caso le termiti catturate con utensili costituisce solo il 20% di quelle mangiate da questa forma di vita (Lestel, 2001, p. 76). La somiglianza tra la pesca delle termiti degli scimpanzé e la sfida tra il marlin e il pescatore narrata da Hemingway ne Il vecchio e il mare è perciò sfavillante ma superficiale come quella che esiste, sul piano teorico, tra potenza e potenzialità. Entrambi i termini infatti richiamano la dimensione del «poter fare», ma in due sensi molto diversi: gli strumenti animali sono tali esclusivamente in virtú della loro efficacia di prestazione immediata (potenza); quelli umani lo sono in virtú della loro flessibilità d’uso (potenzialità). La pesca della scimmia è un’attività, potremmo dire, appetibile: ha un effetto veloce ma limitato poiché soddisfa rapidamente un bisogno non procrastinabile. Quella umana è invece una pratica longeva: la lunga vita del protagonista del romanzo di Hemingway è il frutto di una infanzia cronica, di un periodo di apprendimento che non dà subito risultati (o almeno non sempre). Per un verso, è una pesca che deve attendere: poiché non siamo provvisti della morfologia dell’orca marina o degli acutissimi organi di senso dello 192
squalo non possiamo tuffarci in mare e andare a prendere il nostro pesce spada. Per un altro è una pesca che sa aspettare poiché il nostro corpo, grazie alle sue dimensioni e alla sua morfologia (cfr. paragrafi 3 e 5), ha un numero minore di istinti al quale dare risposta immediata: ed è per questo che quella pesca può impegnare il significato di una vita intera.
2. I bambini che ululano: natura e cultura umana Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il gioco di somiglianze e differenze tra l’utensile dei primati non umani e quello costruito dai sapiens consiste in una diversa amalgama tra plasticità e necessità d’uso. Per i primi, arnese e strumento costituiscono semplicemente una magnificazione delle prestazioni. Aumentano un’efficacia comunque presente nella loro morfologia corporea: si tratta di attrezzi meno plastici semplicemente perché di essi si ha meno bisogno. Per i secondi, lo strumento non è solamente una protesi magnificativa poiché costituisce l’apertura di interi campi d’esperienza e costituisce una condizione necessaria per la sopravvivenza. Mentre per lo scimpanzé il ramoscello privato delle foglie è semplicemente uno strumento piú potente per mangiare una quantità maggiore di termiti, per l’Homo sapiens il bastone, la punta o il percussore non sono oggetti dedicati a un unico scopo ma a una molteplicità di compiti necessari per vivere (tagliare e battere, appoggiarsi o lanciare) per i quali le mani nude non sono sufficienti. La differenza cruciale sta dunque nel fatto che solo per gli animali umani la cultura ha un valore biologico. Per comprendere meglio questo aspetto i cosiddetti «ragazzi selvaggi» costituiscono un terreno di riflessione particolarmente adatto. Si tratta di un insieme di casi interessante poiché costituisce lo scollamento tra prima e seconda natura umana: bambini vivono per lungo tempo in isolamento o, abbandonati, sopravvivono allevati da altre specie (ad esempio lupi, orsi, gazzelle). Di solito, al loro ritrovamento questi ragazzi presentano compor193
tamenti aggressivi, assenza completa di linguaggio verbale, abitudini alimentari e di vita «animalesche». In seguito si verifica un recupero della capacità intellettive e comunicative, sempre però parziale. È una questione, bisogna sottolinearlo, molto dibattuta: la maggior parte delle testimonianze risale al diciottesimo secolo e si affida a resoconti episodici e poco precisi. Non si tratta, però, di una controversia di ordine puramente metodologico. Dal punto di vista teorico, questi dati suggeriscono infatti interpretazioni molto diverse. Da un lato, sono stati utilizzati per sostenere che da un punto di vista biologico non esiste qualcosa che possa definirsi «natura umana»: secondo la filosofa Anna Ludovico (1979, p. 56) ciò che distingue l’essere umano dall’animale «non è la biologia, bensí la cultura»; lo psicologo Lucien Malson (1964) ripete piú volte che i ragazzi selvaggi dimostrano che fuori dall’ambito sociale l’essere umano non è tale. Dall’altro, Felice Cimatti (2002, p. 207) utilizza questi casi per discreditare la tesi secondo cui la neotenia sarebbe decisiva per comprendere la nostra natura. Le argomentazioni di Cimatti sono sostanzialmente tre. In primo luogo i bambini selvaggi contraddicono la tesi neotenica perché, privi di linguaggio, riescono a sopravvivere: se l’essere umano fosse davvero sprovvisto di biologia, senza cultura non dovrebbe farcela. In secondo luogo, si tratta di esseri che hanno il nostro stesso corpo ma che non parlano: se questo ne fosse condizione di possibilità, dovrebbero poterlo fare. Da qui la conclusione che la neotenia, e siamo al terzo punto, non costituisce un prerequisito per avere linguaggio verbale, quanto piuttosto la sua conseguenza. Poiché, come abbiamo visto, il concetto di «natura umana» e l’immaturità corporea tipica della nostra specie rappresentano due idee centrali per questo libro, è doveroso affrontare la questione. A tal proposito, le tre obiezioni di Cimatti sono interessanti perché ci danno l’occasione di sviluppare la nostra tesi: difendere, contro Ludovico e Malson, la nozione di «natura umana» senza abbracciare per questo alcuna forma di riduzionismo linguistico. Per rispondere alla prima critica, sarà necessario sottolineare due tratti comuni ai casi di bambini cresciuti lontano dalle comunità uma194
ne. Per controbattere la seconda, dovremo chiarire meglio la nozione di condizione di possibilità. Per mostrare l’implausibilità della terza, faremo un percorso piú ampio che coinvolgerà il rapporto tra non specializzazione, evoluzione e dimensioni corporee: sarà allora che salperemo alla volta dei misteriosi mondi descritti da Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver. Partiamo dunque dalla prima obiezione. Pur facendo esercizio di prudenza, è possibile ritrovare in tutte le storie che riguardano i ragazzi selvaggi un primo elemento ricorrente. Il cucciolo d’uomo, infatti, tende ad assumere i caratteri della specie che lo alleva, qualunque essa sia: se è allevato da lupi tende a diventare un predatore carnivoro, se allevato da gazzelle si comporta come una preda erbivora2. Il bambino lupo o il ragazzo gazzella costituiscono il corrispettivo di ciò che nel secondo capitolo (paragrafo 3.5) abbiamo chiamato neofilia. Da questo punto di vista, infatti, la plasticità umana è una strada a doppio senso: l’umano adulto è attratto da forme giovanili e quindi, oltre che dai suoi piccoli, dalle specie piú flessibili e potenzialmente domestiche (la neofilia, per l’appunto). Allo stesso tempo, il cucciolo di uomo tende ad assumere i tratti degli adulti che lo circondano, siano conspecifici o meno: è per questa ragione che ogni tanto sentiamo parlare di bambini lupo, ragazzi gazzella o uomini orso e mai di antilopi zebra o di scimpanzé ghepardo. Naturalmente esiste una varietà di casi nei quali una specie animale adotta cuccioli di un’altra. In alcune circostanze, ad esempio, un cane alleva piccoli di gatto. Ma il punto che qui ci preme sottolineare è che il gatto, quando cresce, non abbaia: miagola. Mentre il bambino cresciuto dai lupi mescola caratteri umani a quelli dei lupi, il gattino allevato dai cani resta un gatto. Per questa ragione, i ragazzi selvaggi non solo non costituiscono una difficoltà per il fondamento neotenico della condizione umana ma ne rappresentano la conferma. Esiste poi un secondo tratto comune. In tutte le storie di ragazzi selvaggi di cui abbiamo notizia si parla di cuccioli d’uomo allevati comunque da un gruppo: se lupi o altre specie non se ne prendessero carico, il bambino morirebbe. Un controesem195
pio per questa idea potrebbe essere costituito da un sottoinsieme della vasta categoria dei ragazzi selvaggi. Si tratta dei bambini sopravvissuti per autosostentamento che, dopo essere stati abbandonati, sono riusciti a cavarsela da soli in ambienti naturali come foreste o zone montuose. Se andiamo, però, a osservare piú da vicino i casi documentati (Ludovico, 1979), scopriamo che la data di scomparsa dei bambini è sconosciuta o successiva ai 4-5 anni3, un’età piuttosto avanzata. Ma, a tal proposito, l’argomento decisivo è un altro: in fondo, è il clamore stesso suscitato da questi casi a costituire un dato fondamentale a sostegno della nostra ipotesi. Si tratta di resoconti suggestivi proprio perché rari ed eccezionali (17 negli ultimi quattro secoli), proprio perché di solito un bimbo umano da solo non riesce a sopravvivere. I casi di cuccioli d’uomo allevati da altre specie animali non fanno che testimoniare la plasticità corporea di un essere che, proprio perché a corto di istinti, in situazioni estreme riesce a fare affidamento su quelli altrui. Quel che emerge è, in altre parole, un secondo aspetto nel quale si intersecano neotenia e neofilia, lentezza di crescita e domesticazione. Il bambino lupo, infatti, segue lo stesso principio di fondo su cui si basa il cercatore di tartufi (cfr. cap. II, par. 3): se quest’ultimo si affida al naso del suo cane per scovare sottoterra un tubero cosí pregiato, il primo si affida al gruppo di predatori per trovare qualcosa di ancora piú prezioso, la sopravvivenza. È proprio la neotenica plasticità del suo corpo a consentire al ragazzo selvaggio di modellarsi sulla comunità che lo accoglie: sfrutta al massimo gli istinti residui (utilizzando, ad esempio, un olfatto debole rispetto agli altri mammiferi), vive del prestito costante di quelli che non può acquisire (il bambino lupo può imparare a usare l’olfatto ma non a farsi crescere gli artigli). Poiché il ragazzo selvaggio non ha a portata di mano una cultura, colma le mancanze del proprio corpo con una biologia altra, quella dell’animale che lo adotta. La seconda obiezione basata sui ragazzi selvaggi riguarda il rapporto tra corpo tattile e linguaggio: se il primo fosse condizione per il secondo, i bambini lupo che hanno una sensibilità 196
umana dovrebbero parlare. A tal proposito è decisivo comprendere la nozione di «condizione di possibilità». Come già accennato nel capitolo precedente (paragrafo 4), abbiamo scelto di utilizzare questo termine proprio per proporre una alternativa teorica in grado di uscire dalle strettoie imposte dall’opposizione tra cause e ragioni, tra natura e cultura, tra innato e appreso. Solo se si sfugge a queste antinomie è possibile evitare di aggiungere la seconda natura umana su un anonimo corpo animale (è il problema di Ludovico e Malson ma anche, ad esempio, di McDowell: cap. I. paragrafo 3.2) e comprendere che la cultura è costitutiva dell’Homo sapiens poiché nella nostra specie assume un valore biologico radicale: è per questa ragione che la seconda natura non si innesta, né si aggiunge alla prima ma la integra e, almeno in parte, la riorganizza. Sostenere che il bipedismo dell’Australopithecus o il pollice opponibile dell’Oreopiteco costituiscono prove contro la nostra ipotesi significa esser vittima di un fraintendimento: a fare la differenza è infatti la congiunzione di diverse condizioni di possibilità, un’espressione che, dunque, è necessario declinare al plurale. In questo libro stiamo cercando di individuare ciò che per il linguaggio costituisce una serie di condizioni singolarmente necessarie e solo congiuntamente sufficienti. Sufficiente è infatti un insieme di tratti morfologico-sensoriali: essere bipedi e implumi, essere nudi e dotati di mani, avere un tatto somestesico e un tatto aptico neotenici. Si faccia attenzione: affermare che essere bipedi implumi è un insieme di condizioni necessarie e sufficienti per avere linguaggio verbale significa dire che non ci può essere un corpo che parla che non sia bipede e implume ma non che, se si è bipedi e implumi, si abbia necessariamente linguaggio verbale. Il punto è decisivo per almeno due ragioni. In primo luogo perché segna la differenza tra condizioni necessarie e sufficienti e cause necessarie e sufficienti: per comprendere l’origine della facoltà del linguaggio le prime devono sostituire le seconde perché, a volte lo si dimentica, quello in cui ci stiamo muovendo è un dominio biologico e non fisico (ammesso che nella fisica contemporanea si possa ancora parlare di cause. Diciamo: 197
in un sistema complesso e non in un sistema semplice). Date certe condizioni, infatti, l’evoluzione non ha uno sviluppo prevedibile; allo stesso tempo, escluse certe condizioni è possibile prevedere che alcuni avvenimenti non si verificheranno. Senza luce solare, ad esempio, non può esserci fotosintesi. Allo stesso tempo se c’è luce solare non vuol dire che questo, prima o poi, provocherà la comparsa della fotosintesi su Marte. In secondo luogo il punto è decisivo perché lo scarto tra avere i prerequisiti per il linguaggio e parlare costituisce una caratteristica interna non solo alla nozione di condizione di possibilità ma anche a quella di facoltà del linguaggio verbale. Avere facoltà del linguaggio significa proprio questo: essere potenziali e non essere potenti e, dunque, poter disporre di una capacità senza che questa si sviluppi necessariamente. Un animale specializzato è potente proprio perché imbocca efficacemente uno svincolo evolutivo molto stretto: o risponde a certe condizioni ecologiche oppure si estingue. Un animale potenziale ha, invece, un campo di possibilità piú vasto poiché si trova in quello che potremmo chiamare «un paesaggio evolutivo». L’Orrorin, ad esempio, uno tra i nostri progenitori piú antichi, ha avuto di fronte a sé due strade principali che costituiscono i percorsi fondamentali del processo di ominazione: poteva specializzarsi (in modi tra loro molto diversi: gli odierni orang outang, gorilla e scimpanzé ne costituiscono solo alcuni esempi) oppure rimanere il meno specializzato possibile e affidarsi sempre piú alla coesione di gruppo, alla socialità del toccarsi e a quello che alla fine sarebbe divenuto il carattere pubblico della parola. La non specializzazione costituisce il nodo cruciale della terza questione alla quale dare soluzione. Rimane da comprendere, infatti, quale sia il rapporto logico e genetico tra scarsità di istinti e linguaggio: la sprovvedutezza della struttura corporea umana e la neotenia della sua ontogenesi non possono costituire, piú che una precondizione, la conseguenza della comparsa della facoltà del linguaggio? La risposta è semplice: no. Questa domanda, infatti, si basa su un’idea di fondo, la despecializzazione, che presenta due inconvenienti. In primo luogo lascia inesplicato e misterioso il 198
problema dell’origine del linguaggio. Se la sua comparsa non ha condizioni di possibilità, essa potrebbe fare la sua apparizione in tutte le specie animali: perché quindi proprio nella nostra? In secondo luogo la despecializzazione, al di là di quanto si vorrebbe far credere, non è una risposta evolutiva al problema dell’origine del linguaggio, almeno non in quanto tale poiché lascia aperti una serie di problemi tutti da risolvere. Prendiamo ad esempio la stazione eretta. Come abbiamo detto, il bipedismo è già presente negli Australopitechi e probabilmente in specie anteriori (Biondi, Rickards, 2001, p. 72). Per chi aderisce con coerenza alla logica della despecializzazione, le cose dovrebbero essere andate piú o meno cosí: in un primo tempo i nostri predecessori erano bipedi; in un secondo momento si sono specializzati in scimmie quadrupedi; in un terzo momento, grazie al linguaggio, siamo tornati bipedi. Se il linguaggio avesse avuto un effetto di despecializzazione sul corpo umano, ci troveremmo di fronte a una sorta di «inversione a u» evolutiva. Questo dietrofront filogenetico non solo è filosoficamente tortuoso, ma anche biologicamente improbabile poiché viola una delle poche regole che il darwinismo è riuscito a produrre in poco piú di un secolo di vita: la cosiddetta legge di Dollo. Vediamo in breve di cosa si tratta. Louis Dollo (1857-1931) è un ingegnere minerario che, alla fine del diciannovesimo secolo, si appassiona alla paleontologia: durante i suoi scavi infatti si imbatte in diversi fossili animali, in prevalenza dinosauri. Nel 1893, dopo aver studiato per piú di dieci anni la morfologia dei reperti, formula tre principi che costituiscono ancora oggi i cardini della teoria evoluzionistica: secondo Dollo l’evoluzione è un processo discontinuo, irreversibile e limitato. L’evoluzione è discontinua perché non procede per cambiamenti progressivi e graduali ma per mutamenti bruschi e improvvisi; è limitata perché ogni specie ha una durata nel tempo finita, dunque destinata all’estinzione; è irreversibile perché una volta imboccata una via evolutiva non è possibile tornare indietro ripristinando lo stato di cose precedente. È proprio quest’ultima affermazione che costituisce la «legge o 199
regola di Dollo». Il principio sostiene che mentre è possibile che una specie non specializzata si specializzi, molto piú complesso è il caso contrario. Questa direzionalità evolutiva, si badi, non ha alcun sapore finalistico. Si tratta soltanto, infatti, di una questione di probabilità. Le trasformazioni evolutive sono cosí complesse che la probabilità di riportare a uno stadio precedente grandi mutazioni, come quelle che hanno dato origine al volo degli uccelli o alla nascita dell’Homo sapiens, è pari a quella di ottenere sempre «croce» lanciando in aria una moneta cento volte di seguito (Gould, 1993, pp. 100-101). Dollo, bisogna dirlo, non costituisce la soluzione a tutti i nostri problemi. Se per un verso, ci aiuta a dimostrare che l’essere umano non può costituire una specie despecializzata, non ci dice un’altra cosa, altrettanto decisiva: come sia possibile render conto del fatto che i sapiens e i suoi antenati abbiano mantenuto un grado cosí elevato di non specializzazione. In realtà, lo studioso belga rischia di intrappolarci in un duro impasse: se Dollo ha ragione e l’evoluzione è un processo a senso unico, l’essere umano non deve costituire solamente il primate meno specializzato ma, addirittura, l’organismo meno specializzato. Poiché, infatti, è difficile passare dalla specializzazione alla non specializzazione e visto che l’essere umano è l’animale meno specializzato, Dollo ci mette nella bizzarra condizione di dover affermare che la comparsa dell’Homo sapiens coincide con l’inizio della vita, il che è clamorosamente falso. In altre parole, si pone il problema di comprendere in che modo l’evoluzione possa non solo perdere potenziale evolutivo ma anche aumentarne. In primo luogo, dobbiamo ricordare che la legge di Dollo riguarda, come abbiamo accennato, solo fenomeni evolutivi complessi, su ampia scala sia morfologica che temporale: alcune inversioni evolutive sono possibili ma solo per tratti corporei relativamente semplici che riguardano mutazioni di singoli geni come le proporzioni di tibia e fibula nelle zampe di alcuni uccelli o la presenza di denti molari nei gatti (Raff, 1996, pp. 392-395). In secondo luogo, per risolvere questa difficoltà in modo radicale è necessario prendere in considerazio200
ne una variante biologica decisiva, di solito trascurata dalla letteratura: le dimensioni degli organismi.
3. L’errore di Gulliver: linguaggio e dimensioni del corpo4 Probabilmente, la prima forma di vita apparsa sulla terra è stata un batterio. I batteri costituiscono ancora oggi non solo esseri viventi di straordinario successo evolutivo ma, come prevede la legge di Dollo, costituiscono una delle forme di vita meno specializzate mai prodotte dalla storia naturale. Il punto di forza dei batteri coincide con il loro problema maggiore: sono esseri microscopici. La semplicità è ciò che consente loro di adattarsi ad ambienti diversissimi (per conformazione chimica, temperatura e struttura: cfr. Gould, 1996) ma, allo stesso tempo, è ciò che li ingabbia in un orizzonte biologico molto ristretto. Sono proprio le dimensioni corporee infatti a costituire la strada maestra intrapresa dai processi evolutivi che rigenerano il potenziale di speciazione: il passaggio dalla prima forma di vita non specializzata ad altre specie non specializzate consiste in un aumento dimensionale che ha permesso una differenziazione dei tempi di sviluppo e, dunque, del rapporto epigenetico tra DNA e ambiente. Se un organismo è di grandezza ridotta, microscopica come quella dei batteri o minuscola come quella degli insetti, la varietà dei tempi di sviluppo non può essere molto ampia per una semplice ragione quantitativa: in un organismo tanto piccolo ci sono poche variabili biologiche e meccaniche sulle quali il caso può giocare. Il fenomeno stesso della neotenia compare infatti solo in organismi di dimensioni maggiori: come abbiamo avuto già modo di dire, l’esempio piú noto nel regno animale è quello dell’axototl, una salamandra (cap. II, paragrafo 4). Naturalmente l’aumento di taglia corporea non è, di per sé, garanzia di non specializzazione: apre semplicemente diverse possibilità evolutive. I dinosauri da questo punto di vista costituiscono un esempio paradigmatico poiché 201
rappresentano il vertice dimensionale raggiunto dalla vita sulla terra (sono gli organismi piú grandi mai vissuti sul nostro pianeta) e, al contempo, specie di rettili adattate ad habitat molto specifici. È proprio con la scomparsa dei dinosauri, circa 65 milioni di anni fa, che si libera un numero enorme di nicchie evolutive. Poiché cessa la compressione ecologica esercitata fino a quel momento dagli enormi rettili, i mammiferi, piccoli animali poco specializzati, possono proliferare e variare per specie e dimensioni. Mentre però l’aumento dimensionale dei dinosauri aveva assunto il significato di una forte specializzazione, i mammiferi intraprendono un numero diverso di strade. Una di queste è quella dei primati. Se il basso fabbisogno energetico e la maggiore capacità di sfruttare le risorse hanno costituito probabilmente un binomio decisivo per la sopravvivenza dei mammiferi (Gould, 1994, p. 84), i primati rappresentano una sorta di «mammifero prototipico»: piccoli arboricoli simili ai toporagni che si nutrono di insetti e che, proprio per la loro minore specializzazione corporea, possono ora conquistare nuovi habitat. Tra le diverse vie evolutive dei primati che è possibile ricostruire (si tratta, infatti, di un gruppo tutt’altro che monolitico), alcune di esse intraprendono un aumento delle dimensioni corporee tale da comportare una maggiore possibilità di variazioni nello sviluppo ontogenetico. Ed è qui che i sapiens entrano in scena. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, l’animale umano è una forma di vita di dimensioni notevoli. Abituati forse al confronto con elefanti e rinoceronti, balene e orsi, esseri che ci colpiscono per la loro enorme mole, dimentichiamo che l’essere umano è piú grande del 99% degli esseri viventi (Gould, 1977b, p. 167). Concentrati sul potere esercitato dal linguaggio o dalle rappresentazioni mentali sulla nostra esperienza, sia il riduzionismo linguistico che il paradigma cognitivo considerano le proporzioni corporee come una variante secondaria: il peso delle nostre membra o l’altezza del nostro corpo sarebbe frutto del solo caso o, se si vuole, è un particolare che non merita eccessiva considerazione. Non è cosí. Per una specie non specializzata come la nostra, le dimensioni corporee 202
sono decisive poiché costituiscono un tassello fondamentale per comprendere la relazione a incastro tra biologia e cultura. Trascurare questo elemento costituisce una mossa teorica, ingiustificata e fuorviante, che dimentica la nostra storia evolutiva poiché si basa sulla convinzione di fondo che cambiando le dimensioni di un corpo si verifica un aumento progressivo e graduale delle sue proprietà e della sua forma. Si tratta di una idea allettante ma ingenua, l’incarnazione filosofica di una suggestione narrativa di successo: una teoria della natura umana alla Gulliver, il celebre protagonista del romanzo di Jonathan Swift. L’autore inglese, infatti, propone una sorta di esperimento mentale che torna utile ai fini del nostro discorso poiché svolge con coerenza un presupposto sbagliato, ancora oggi largamente condiviso: la convinzione che linguaggio e cultura siano indipendenti dalla grandezza del nostro corpo. Per capire perché le nostre dimensioni sono decisive per fare di noi organismi non specializzati e, sulla base di ciò, animali in grado di parlare, prenderemo in esame quel che potremmo definire l’errore di Gulliver. Facendo visita al regno dei microscopici lillipuziani e a quello dei giganteschi Broddingnagians, analizzeremo gli aspetti centrali di un’idea che, letteralmente, non sta in piedi. 3.1. Esser piccoli: perché Lilliput non esiste
L’apertura del romanzo di Swift è nota: Lemuel Gulliver, in seguito alla rovina della sua imbarcazione, naufraga su un’isola sconosciuta. Al suo risveglio, si trova assediato da creature umane «non piú alte di quindici centimetri» (Swift, 1726, p. 10) armate di arco e frecce. Il protagonista si imbatte, infatti, in mini-uomini che parlano una lingua straniera e che vivono in una città simile a quelle europee del settecento: i lillipuziani sono come noi in tutto e per tutto tranne che per le dimensioni. Ma è davvero cosí? È davvero possibile avere una cultura e un linguaggio a prescindere dalle dimensioni del corpo? L’interrogativo deve apparirci meno bizzarro di quanto potremmo credere poiché è, ancora oggi, del tutto attuale. Jerry Fodor 203
(1986), uno degli esponenti piú rappresentativi del paradigma cognitivo, ha dedicato ad esempio un intero saggio al problema se i parameci, protozoi grandi quanto un ovulo umano dei quali abbiamo già parlato piú volte (cap. II, paragrafi 2, 3.1), possano avere o meno rappresentazioni mentali. Nella sua discussione della questione, Fodor non prende neanche in considerazione le dimensioni di questo organismo dando per scontato che non si tratti di un aspetto pertinente per il problema5. Felice Cimatti (2000a, p. 9), dal canto suo, apre una delle sue monografie affermando che il cervello di un topo assomiglia a quello di essere umano molto piú di quanto ci farebbe piacere credere poiché si tratta, in fondo, sempre di neuroni. Torna l’idea che l’evoluzione è una specie di meccano che procede dall’elementare al complesso attraverso un semplice processo di addizione: Swift non avrebbe saputo fare di meglio. Vediamo allora perché l’autore inglese e tutti i suoi inconsapevoli epigoni hanno torto. Esistono, infatti, diversi motivi fisici e biologici che rendono i lillipuziani una forma di vita meccanicamente impossibile ed evolutivamente priva di senso. Capendo ciò, sarà piú chiaro qual è il ruolo giocato dalle dimensioni per un animale non specializzato come quello umano. Se a qualcuno capitasse la sventura di naufragare in mare e ritrovarsi nell’isola di Lilliput noterebbe qualcosa di diverso rispetto al racconto di Gulliver. I lillipuziani non si comporterebbero, infatti, come gli essere umani a dimensione standard: sin da subito emergerebbe la loro sconcertante stupidità. Come è noto, il cervello umano è formato da circa 14 miliardi di cellule neuronali. Il problema è che il corpo in miniatura di Lilliput non potrebbe ospitare un cervello altrettanto piccolo poiché la variabilità dimensionale delle cellule non è proporzionale alla variabilità dimensionale dei corpi. Il confronto, ad esempio, tra il neurone di un topo e quello di un elefante mostra che al contrario delle dimensioni dei corpi, che differiscono l’un dall’altro di circa 125000 volte, le rispettive cellule cerebrali divergono in grandezza di sole 8 volte (D’Arcy Thompson, 1961, p. 51). A causa della sua costituzione interna la cellula neuronale, infatti, non può andare sotto una certa so204
glia limite e questo le impedisce di ridursi in scala, di affollare i cervelli lillipuziani con la stessa densità con la quale popola i nostri. Secondo le stime del biologo Florence Moog (1948, p. 53), la portata cranica di Lilliput non consente di superare i 35 milioni di neuroni: è per questa ragione che Gulliver non si troverebbe nell’isola dei piccoli umani ma in quella degli insufficienti mentali. Non solo. Anche gli occhi, infatti, risentono delle variazioni dimensionali. Come i neuroni, pure coni e bastoncelli non possono essere eccessivamente miniaturizzati. Per di piú il foro che consente alla luce di entrare nell’occhio, la pupilla, non può farsi troppo stretto, perché la retina non potrebbe mettere il suo proprietario nella condizione di vedere a causa di fenomeni di diffrazione della luce: i lillipuziani quindi oltre che stolti sarebbero anche deboli di vista6. Spesso, Wittgenstein (1953, paragrafo 115) non ha mai smesso di ricordarlo, nel linguaggio immagini ci tengono «prigionieri». In alcune circostanze, lo abbiamo visto nel primo capitolo, questa immagine allestisce un teatro mentale entro il quale si svolgerebbe quella recita incorporea in cui consisterebbero i nostri pensieri. In altre parole si tratta dell’idea che cervello e corpo siano due entità radicalmente distinte e che nel primo (o meglio in una sua parte specifica) sia possibile trovare la sede del linguaggio. Il corpo ne sarebbe il semplice contenitore e le sue dimensioni modificherebbero di conseguenza solo l’ingombro di questa «scatola che parla» (l’idea secondo la quale i pensieri sono nella nostra testa, della quale abbiamo parlato all’inizio del secondo capitolo, ne costituisce una delle possibili varianti). Questo modo di affrontare lo studio del linguaggio è fuorviante poiché dimensioni del corpo, capacità sensoriali e sviluppo cerebrale costituiscono coordinate interdipendenti: solo un equilibrio evolutivamente efficace e biologicamente plausibile tra questi assi può costituire la condizione di possibilità per il linguaggio verbale. L’importanza di queste precondizioni è dimostrata implicitamente da un’altra grave impossibilità che mina il mondo lillipuziano. Come abbiamo visto nel primo paragrafo, l’uso di utensili è decisivo per comprendere le relazioni di somiglianza 205
e differenza tra corpo umano e corpo animale. La nozione stessa di utensile, infatti, ha significato solo all’interno di uno spazio corporeo che abbia certe dimensioni. Per arnesi da taglio (lame, lance o frecce) o da percussione (clave, asce, scalpelli), ad esempio, è necessaria una forza cinetica di impatto tale che essi possano compiere il lavoro per il quale sono stati costruiti: abbattere corpi, intagliare oggetti. Il punto è che un animale umano sotto il metro d’altezza non avrebbe la forza necessaria per usare questi strumenti. Variazioni di dimensione a parità di forma sono rese impossibili dalle peculiarità che caratterizzano il rapporto tra superficie, lunghezza e volume. Mentre la superficie di un corpo, cioè la sua area, è direttamente proporzionale al quadrato delle sue dimensioni lineari, il volume è proporzionale al suo cubo. Per questa ragione l’aumento delle dimensioni di un oggetto in lunghezza, larghezza e altezza incide sul rapporto tra superficie e volume: piú grande è il corpo, maggiore sarà la differenza tra la prima e il secondo poiché «il volume cresce piú rapidamente della superficie» (Gould, 1977b, p. 161). L’energia cinetica sviluppata da un corpo è poi proporzionale, lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo, al suo peso e al suo volume. Di conseguenza l’energia con la quale un animale può utilizzare un’ascia o un coltello diminuisce in modo esponenziale con il rimpicciolimento della sua grandezza. Secondo i calcoli di Went (1968, p. 407), un animale dalle sembianze umane pari alla metà delle nostre dimensioni, un bambino ad esempio, non gode della metà della nostra forza ma solo di un venticinquesimo. Un essere umano inferiore al metro, quindi, a prescindere se sia dotato di linguaggio, non può tagliare alberi né lanciare pugnali semplicemente perché sotto i suoi sforzi il legno non si aprirebbe e i coltelli, non avendo la necessaria forza di penetrazione, non ucciderebbero la preda. Aldilà delle sue capacità di dislocazione spazio-temporale, il lillipuziano non avrebbe quindi nulla da dislocare o, per meglio dire, per lui sarebbe meccanicamente impossibile godere di una simile capacità, schiacciato com’è dai vincoli fisici cui è sottoposto il suo corpo. Se gli esseri umani fossero di dimensioni lillipuziane, le nozioni di cul206
tura e strumento sarebbero evolutivamente insensate perché fisicamente inefficaci. 3.2. Esser grandi: perché nostro figlio non sarà mai alto 18 metri
Le dimensioni corporee pongono vincoli sulla nostra forma di vita non solo se vengono rimpicciolite ma anche se amplificate. La selezione naturale non vive cioè solo di dinamiche biologiche (catene alimentari, equilibri tra popolazioni, ecc.) ma anche di fattori meccanici. Le dimensioni di un corpo, tanto piú quelle proprie dell’animale umano, non sono infatti arbitrarie: né in senso biologico né fisico. La stazione eretta, che come abbiamo detto è una delle caratteristiche che ci distingue dagli altri primati, è strettamente collegata alle limitazioni imposte dalla meccanica dei corpi. Nel paragrafo precedente abbiamo visto che esseri piccoli come i lillipuziani di una simile postura non saprebbero che farsene: non hanno mani da liberare perché non avrebbero utensili da utilizzare; non hanno voce da elevare al cielo vista l’esile acutezza del loro timbro sonoro; non ci sono orizzonti da dominare data la debolezza dell’apparato visivo. Allo stesso tempo, anche uomini giganteschi, non avrebbero vantaggi da una postura bipede peraltro fisicamente impossibile. Ciò spiega non solo perché l’aumento dimensionale è stato cosí decisivo per una specie poco specializzata come la nostra ma anche perché questo aumento non ha avuto proporzioni ancora maggiori. Come vedremo subito un corpo troppo grande fa precipitare il potenziale evolutivo di una specie in una nicchia, ancora una volta, molto specifica. Nella seconda parte del suo romanzo, infatti, Swift immagina una situazione inversa a quella di Lilliput: Gulliver, scappato dall’isola dei mini-uomini, si ritrova a fare i conti con esseri enormi, il regno di Broddingnagians. Il caso è interessante: se l’esempio di Lilliput ci mostra perché non costituiamo primati microscopici, il prossimo ci aiuterà a comprendere come mai non abbiamo dimensioni maggiori. Secondo i calcoli di Moog (1948, p. 52), un essere umano alto 18 metri come quelli incontrati da Gulliver nel corso dei 207
suoi viaggi avrebbe un peso pari circa a 90 tonnellate. Ma una simile stazza sarebbe insopportabile non solo per un essere bipede ma per un qualunque animale terrestre. L’altezza massima che la struttura corporea umana può sopportare è di circa 2,20 metri corrispondenti a un massimo di 200 chili di peso. Non è un caso infatti che la popolazione umana di maggiore altezza, i Vatussi, superino i due metri e che il peso limite di un Homo sapiens si aggiri intorno a quella misura. Man mano che un corpo aumenta di grandezza e peso, le ossa tendono a divenire piú grandi e piú corte. Infatti, mentre lo scheletro costituisce l’8% del peso corporeo di un topo, per un cane la percentuale aumenta al 13-14% e nell’animale umano arriva al 18% (D’Arcy Thompson, 1961, p. 27). Il rapporto tra peso corporeo e ingombro scheletrico, quindi, non rimane costante ma aumenta con le dimensioni: è per questo motivo che gli animali terrestri piú pesanti come elefanti e rinoceronti non solo si sorreggono su quattro zampe ma hanno un’ossatura tozza e imponente tale da renderli goffi e lenti. La schiena e le gambe dei Broddinggians non sarebbero in grado quindi di sostenere un peso per il quale la loro struttura bipede risulterebbe inadeguata. L’energia cinetica, inoltre, non costituirebbe un problema solo per i lillipuziani ma anche per i giganteschi protagonisti del secondo libro gulliveriano. In questo caso il problema riguarderebbe, infatti, la caduta. Come sottolinea Gould (1977, p. 164), quando i bambini cadono a terra si fanno male molto meno degli adulti non tanto per la plasticità del loro corpo quanto per le loro ridotte dimensioni. In circostanze come queste, l’energia cinetica corrisponde circa alla quinta potenza delle dimensioni lineari: ciò vuol dire che un corpo di 180 centimetri d’altezza cade con molta piú violenza rispetto a uno di 90, una violenza che non equivale a due volte quella patita dal corpo piú piccolo ma a trentadue (1805 infatti è pari a 32 x 905). Di conseguenza un corpo alto 18 metri, come quello dei Brobdinggians, cadrebbe in maniera ancora piú rovinosa rispetto a uno, come il nostro, che ne misura dieci volte meno: stavolta infatti non si tratta di 208
una moltiplicazione per trentadue ma per centomila poiché la crescita della violenza d’urto non cresce in maniera costante alle dimensioni ma, come detto, in modo esponenziale (se manteniamo costante l’unità di misura in centimetri, 18005 cm equivale a 100000 x 1805 cm). Un essere umano gigante, quindi, non può avere stazione eretta in primo luogo per motivi strutturali: la schiena cederebbe, piedi e gambe si spezzerebbero (Gould, 1977b, p. 169), i fasci connettivali dei muscoli non sarebbero sufficientemente forti da compensare le oscillazioni del corpo (Moog, 1948, pp. 52-53). In secondo luogo, nella lotta contro la selezione naturale, un Homo sapiens alto 18 metri non avrebbe alcun vantaggio a stare in piedi poiché la minima distrazione e il piú piccolo incidente provocherebbero cadute sicuramente letali (McMahon, Bonner, 1990, pp. 138139): per esseri umani tanto grandi, la gravità risulterebbe essere troppo grave. Come è possibile constatare dunque, la relazione tra non specializzazione e dimensione corporea è molto piú stretta di quello che si potrebbe pensare. Il corpo umano è generico non solo per la sua struttura ma anche per la sua grandezza poiché la nostra sprovvedutezza nasce dalla combinazione di queste due variabili. Un organismo molto piccolo, infatti, può essere non specializzato in termini morfologici, ma non genetici. Il caso dei batteri da questo punto di vista è paradigmatico. Come abbiamo accennato in precedenza, si tratta della forma di vita che ha maggior successo ecologico sulla terra proprio perché ha una forma generica in grado di adattarsi agli ambienti piú disparati (Mazzeo, in stampa). Allo stesso tempo, però, sono proprio le loro dimensioni a impedire quella lentezza di sviluppo che costituisce la via di ingresso della cultura nella biologia. D’altro canto, un corpo enorme come quello dei dinosauri non può essere generico né per forma né per ontogenesi: le limitazioni imposte dalla forza di gravità lo rendono un animale radicato in una nicchia ecologica tanto specifica da imprigionarlo in una specializzazione ancora piú rigida di quella batterica. Per mancare di specializzazione, una massa biologica tanto ingombrante richiederebbe inoltre dei tempi di sviluppo 209
probabilmente non sostenibili: sarebbero cosí lenti che la dipendenza dei piccoli giganti dal gruppo sarebbe troppo prolungata.
4. Tatto e facoltà del linguaggio: la coevoluzione tra mondo e ambienti Il ruolo decisivo giocato dalle dimensioni corporee per avere cultura e linguaggio ha un altro importante risvolto teorico. Poiché fornisce la chiave evolutiva per comprendere la comparsa dell’Homo sapiens e i caratteri della sua scarsa specializzazione, l’errore di Gulliver fornisce alcune coordinate essenziali per capire meglio cosa sia la facoltà del linguaggio verbale. Piú volte abbiamo accennato a una prima alternativa teorica: Chomsky e Pinker, infatti, considerano la facoltà del linguaggio come la maturazione di un organo. Si tratta però di una definizione fuorviante poiché, a rigor di termini, il linguaggio non è né un organo né qualcosa che matura. L’attrattiva di questa definizione risiede nell’illustrare un processo inevitabile: se prendo un limone verde, ad esempio, e non lo espongo alla luce e al calore, questo non maturerà. Se lo metto al sole, il limone diventerà giallo e sarà pronto per la nostra spremuta. Cosí come un limone esposto al sole non può che maturare, un bambino esposto a una comunità non può che parlare. Il problema però, come spesso accade in filosofia, è ciò che questa immagine presuppone. Affermare che la facoltà del linguaggio matura significa dire due cose: in primo luogo che ha bisogno di un certo tempo per svilupparsi; in secondo luogo che dopo quel lasso di tempo il linguaggio va a regime. Queste due affermazioni sono condivisibili ma si coniugano ad altri due presupposti che, come abbiamo visto, sono inaccettabili: il primo che è per la facoltà del linguaggio la lunghezza dei tempi di maturazione costituirebbe un accidente sostanzialmente privo di senso o, al massimo, un fatto esterno alla facoltà7. In secondo luogo, come ricorda il neurobiologo T. Deacon (1997, p. 188), la maturazione biologica non è altro che un 210
processo di specializzazione: affermare dunque che il linguaggio matura significa dire che si specializza. Si tratta ancora una volta dell’idea, criticata piú volte (cap. I, paragrafo 3.2; II, paragrafi 2, 3), che il linguaggio è un istinto la cui caratteristica principale consisterebbe in un meccanismo ricorsivo, cioè l’applicazione in modo infinito di un numero finito di elementi. Al contrario, il legame tra costruzione culturale di utensili, neotenia e dimensioni corporee propone una concezione della facoltà del linguaggio opposta a quella chomskyana: non si tratta di un organo che deve maturare quanto piuttosto di un corpo che può restare immaturo. La somiglianza genetica e strutturale tra tatto e linguaggio mostra che il carattere straordinario del linguaggio umano non è il suo grado di specializzazione quanto la sua indeterminata plasticità, una creatività che trova il suo esempio paradigmatico non tanto o non solo nella ricorsività meccanica (cosa che spiega, tra l’altro, perché è possibile costruire delle macchine ricorsive, i computer, che però non riescono a parlare) quanto piuttosto nel bricolage: la capacità di agire, costruire strumenti, modificare il mondo. Come vedremo tra poco è proprio questo a rendere conto della sua comparsa evolutiva. La facoltà del linguaggio, infatti, trova i suoi cardini genetici in tre dimensioni tattili. La prima l’abbiamo vista: meno potente ma piú potenziale delle altre modalità sensoriali, il tatto è, come l’azione verbale, disponibile a fare tutto, ma di per sé pronto a poco. La seconda sarà l’oggetto di questo paragrafo: il tatto è senso della seconda natura perché, come il linguaggio, è intrinsecamente performativo (cfr. Mazzeo, 2002c). Abbiamo già ricordato nel capitolo III (paragrafo 2) che toccare non significa solo percepire ma anche agire, prendere manipolando: si tratta di una modalità sensoriale in realtà poco modale perché non specifica e poco sensoriale poiché una parte della sua capacità percettiva è sacrificata in cambio di maggiori possibilità d’intervento. Allo stesso modo, parlare significa innanzitutto agire: prima di essere rappresentazioni mentali, la promessa e la speranza, il comando e il ricordo sono azioni che creano relazioni di gruppo e modificano stati di cose. 211
A queste due dimensioni ne è intimamente legata una terza, che vedremo sia in questo paragrafo che nel prossimo. Come il linguaggio, il tatto è un senso intrinsecamente sociale: proprio perché di per sé è pronto a poco ma disponibile a tutto, c’è bisogno che qualcuno gli insegni cosa fare. È su una duplice plasticità infatti, performativa e sociale, che si fonda il legame genetico tra tattilità e facoltà del linguaggio. È proprio questa duplicità a costituire il motore coevolutivo tra facoltà del linguaggio e cambiamento ambientale: un circolo nel contempo vizioso e virtuoso che costituisce il cardine su cui ruota la facoltà del linguaggio e che, per questa ragione, dà modo di comprendere meglio la sua origine. Nel suo ultimo libro Paolo Virno (2003) sottolinea che il momento storico attuale si caratterizza per un tratto specifico: flessibilità professionale, formazione permanente, trasformazione di un concetto di lavoro sempre piú centrato sulla produzione linguistica non fanno che mettere in primo piano e tematizzare le condizioni di possibilità della natura umana, neotenia e linguaggio. Si tratta di una intuizione molto suggestiva poiché consente di aggiungere a questo elenco un altro elemento che costituisce senz’altro una delle peculiarità del mondo contemporaneo: l’impatto ecologico dell’azione umana. Quella tra mondo e ambiente infatti è una opposizione concettuale (cfr. cap. II, paragrafo 3) che ha un suo concreto corrispettivo materiale. Poiché la cultura per l’essere umano costituisce la compensazione di una mancanza biologica, il mondo mette radici a spese dell’ambiente animale: ne sfrutta le risorse e, dunque, se questo non è sufficientemente ricco, gli sottrae materialmente spazio. Deacon (1997, pp. 361-362), ad esempio, mette in rilievo un dato paleontologico molto interessante: l’espansione dell’uomo moderno, l’estinzione di alcuni animali di grossa taglia e le prime iscrizioni rupestri (indice di uno sviluppo cognitivo e rappresentativo senza precedenti) si verificano nello stesso periodo, circa 65000 anni fa. Esiste un legame tra questi fenomeni? La domanda non è oziosa. Un primo problema è capire perché, nonostante l’Homo sapiens faccia la sua comparsa circa 150000-100000 anni fa, lasci traccia di capacità 212
cognitive superiori solamente decine di millenni piú tardi. Perché l’Homo sapiens aspetta cosí tanto a farlo? Una prima risposta può chiamare in causa il caso: in realtà i sapiens hanno lasciato da molto prima tracce della loro azione ma queste sono andate perse. Ma proprio perché non sappiamo come è andata, dobbiamo formulare una teoria in grado di dar conto della possibilità che non si tratti di un accidente fortuito. Se sosteniamo che la facoltà del linguaggio consiste nella mancanza di specializzazione di un corpo neotenico (in estrema sintesi: nudo, manuale e cerebrale) che si esprime nel metter mano a un mondo, bisogna chiedersi perché per lungo tempo i sapiens abbiano potuto non lasciare tracce durature del loro operato. In parte abbiamo risposto a questa domanda già nel paragrafo due: poiché la facoltà del linguaggio costituisce una capacità potenziale e non potente, essere in grado di parlare non significa doverlo fare. Ma ciò non basta, poiché è necessario affrontare una difficoltà supplementare che riguarda un dato di fatto: gli esseri umano parlano. Si tratta, in altri termini, di spiegare non solo perché il processo possa non innescarsi (i bambini lupo) o possa non essersi innescato immediatamente (scarto temporale tra reperti anatomici e testimonianze di attività culturali complesse) ma cosa ha fatto sí che si innescasse, come è cominciata ad attualizzarsi la facoltà del linguaggio. Una risposta plausibile chiama in causa la struttura intrinseca della relazione tra animale umano, mondo e ambiente poiché mette in connessione non solo facoltà del linguaggio e iscrizioni rupestri ma a questi aspetti aggiunge anche gli altri due dati citati da Deacon: espansione dell’uomo moderno ed estinzione di alcune specie animali di grossa taglia. Come abbiamo detto, l’essere umano deve adattare a sé ciò che lo circonda poiché nasce privo di una nicchia ecologica che possa dirsi sua. Per questo motivo, è intrinseco alla condizione umana che la sua presenza abbia un’incidenza sull’ambiente circostante e, quindi, sulle altre specie animali e vegetali. Da un certo punto di vista, ogni specie incide sulla sopravvivenza delle altre poiché la dipendenza tra le forme di vita è parte integrante della nozione stessa di ecosistema. Il caso piú 213
banale è rappresentato dal rapporto tra prede e predatori: se in un certo territorio un’epidemia decima la popolazione di leoni, nell’arco di poco tempo avremo un aumento numerico di altre forme di vita, ad esempio di gazzelle. Nel caso della specie umana accade però qualcosa di differente. L’Homo sapiens non è solo in grado di modificare un ecosistema ma di alterarlo interamente, di incidere sull’intero equilibrio idrogeologico del pianeta: nella storia della terra solo un corpo non terrestre, come il meteorite che ha decretato la fine dei dinosauri, è stato piú devastante. Il processo coevolutivo alla base della facoltà del linguaggio può esser visto infatti come un «effetto a cascata» che ha come protagonisti principali corpo sprovveduto e ambienti. Poiché l’essere umano deve adattare a sé ciò che lo circonda, egli sfrutta le risorse naturali dei dintorni piegandole alle proprie esigenze. A lungo termine, questa azione ha (o può avere) una forte incidenza sul territorio. In questo caso, è necessario allora un intervento culturale, piú radicale del primo, per ottenere dalla natura ciò che spontaneamente non è piú in grado di offrire proprio a causa dell’azione umana. Facciamo un esempio. Mentre è probabile che la nascita dell’agricoltura sia nata come una risposta all’inaridimento del pianeta causato da un cambiamento climatico, essa ha avuto ed ha tuttora un «effetto antropico» che consiste nel cambiamento di interi habitat: distruzione di foreste, desertificazione, dissesto idrogeologico (Tattersal, 1998, p. 195). Questo nuovo squilibrio ha richiesto un altro tipo di manipolazione culturale, piú radicale della seconda (l’uso di fertilizzanti, ad esempio) che a sua volta ha come risvolto effetti antropici ulteriori (inquinamento delle falde, impoverimento del terreno, ecc.). Questo esempio, nella sua rozzezza, ha come obiettivo solo quello di mettere in luce la logica del processo: una coevoluzione che, a secondo delle circostanze, può essere devastante. La portata dell’impatto ambientale dipende infatti sia dal tipo di cultura che si forma (e dunque dalle contromisure che il sistema sociale stabilisce per organizzare lo sfruttamento delle risorse naturali) sia dall’ecosistema nel quale un certo gruppo umano si in214
sedia: se è estremamente ricco, può scoraggiare massicci interventi culturali dei quali semplicemente non c’è bisogno (le foreste tropicali, ad esempio); se è molto povero, può essere ugualmente scoraggiante perché rende molto difficile un insediamento culturale che ne modifichi la struttura (si pensi agli esquimesi nelle zone artiche). L’impatto ecologico costituisce dunque un fenomeno che si è messo in evidenza solo di recente, grazie all’industrializzazione dei paesi occidentali: ma quel sta emergendo è un elemento che si trovava già sullo sfondo, una condizione di possibilità della nostra forma di vita. Dire ciò non significa affermare che sia «normale» o «giusto» che l’animale umano devasti il pianeta terra o che quella odierna sia l’unica possibile strada di sviluppo per la nostra specie. Al contrario, ciò che vogliamo dire è che porre un problema ecologico è intrinseco alla natura umana: come lo si affronti o se lo si affronti, è un altro discorso. Mentre gli animali non umani nascono già in equilibrio nel loro ambiente (o già in squilibrio, se si tratta di organismi mutanti), l’Homo sapiens deve costruire una relazione non simbiotica, distruttiva e riparatoria, che potremmo definire di domesticazione (cfr. cap. II, paragrafo 4). Da questo punto di vista, ragazzi selvaggi e impatto ecologico costituiscono due facce della stessa medaglia: nel primo caso un prestito biologico si infiltra in un vuoto culturale (il bambino che, senza società, si affida al gruppo dei lupi), nel secondo una proliferazione culturale si inserisce in un vuoto biologico (la scarsità di istinti tipica della nostra specie). Proprio perché la natura umana è innanzitutto neotenica e potenziale, l’Homo sapiens da una parte può farsi piú animale (diventare meno sapiens e piú gazzella), dall’altra può ominizzare gli animali: addomesticarli e allevarli ma anche sterminarli e distruggerli. A fare la differenza tra domesticazione e Homo ferus è la presenza di un elemento che, come abbiamo già visto nel capitolo II, costituisce parte integrante della condizione neotenica, la socialità. Essa costituisce il punto di snodo del processo coevolutivo tra mondo e ambiente: se è solo, l’Homo sapiens muore o si mimetizza nella prima natura (l’ambiente schiaccia il 215
mondo); se è in gruppo, si dà man forte e, in compagnia, trasforma ciò che lo circonda nella propria casa (il mondo si afferma tra gli ambienti). Non a caso, è proprio la combinazione tra plasticità e socialità che costituisce una delle differenze decisive tra utensile umano e non umano. All’interno della sua panoramica sulle diverse forme di utensili nel regno animale, l’etologo Dominique Lestel fa una osservazione molto interessante: Uno spazio di intelligibilità delle azioni che utilizzano mediazioni si disegna progressivamente intorno a due opposizioni principali: le azioni sono solitarie o collettive? Sono intelligenti o rigide? Le azioni degli insetti sociali che utilizzano mediazioni sono collettive e rigide, quelle degli scimpanzé sono intelligenti e individuali – e quelle degli umani sono collettive e intelligenti (Lestel, 2001, p. 88).
Secondo Lestel, dunque, è possibile concepire l’attività strumentale umana come l’incrocio tra due modalità già esistenti nella storia naturale, una tipica degli insetti, l’altra dei primati. La prima è collettiva ma rigida: i ponti delle formiche o gli alveari delle api sono costruiti secondo uno schema programmato geneticamente. La seconda, al contrario, è intelligente ma individuale: uno dei limiti della produzione di utensili dei primati è che questa non si avvale mai dell’aiuto altrui. In entrambi i casi, dunque, abbiamo collettività o intelligenza ma mai quella collaborazione sociale che costituisce la chiave della condotta umana. Le radici di questa differenza vanno rintracciate, ancora una volta, in fattori genetici. È impressionante notare che se l’utilizzo di utensili umano mescola due caratteristiche già presenti nel regno animale, il tipo particolare della nostra modalità di crescita (l’iperneotenia) è il frutto della stessa mescolanza: tra la progenesi, tipica di insetti e parassiti, e la neotenia, accentuata tra i primati. Come abbiamo visto parlando dell’errore di Gulliver, non si tratta di una coincidenza. I tempi di maturazione incidono sulle possibilità cognitive e sociali di una specie. Date le loro dimensioni e le modalità di crescita, gli insetti non hanno ma216
terialmente il tempo di differenziarsi: la socialità schiaccia l’individualità perché l’unica maniera di trovare coordinazione di gruppo è una rigida programmazione genetica che contenga le stesse istruzioni di base per ciascun individuo. Tra le formiche, ad esempio, il grado di individuazione è cosí basso che non solo non c’è differenza tra la storia che caratterizza la vita dei singoli animali ma, spesso, non c’è nemmeno differenza materiale tra il corpo di un conspecifico e il corpo di uno strumento. Di solito gli utensili utilizzati dalle formiche sono altre formiche: è sui cadaveri delle loro consorelle che questi insetti costruiscono ponti ed edificano scale. Nell’essere umano la velocità di crescita degli insetti (la progenesi) ha un risultato del tutto diverso: poiché si combina alla crescita neotenica di un corpo dalle dimensioni molto piú grandi, questa rapidità si traduce in un parto anticipato, nella subitanea esposizione al mondo. Il risultato è che, se per un verso le relazioni con i conspecifici non sono programmate, per un altro di questo rapporto si ha molto piú bisogno. La maggiore complessità degli utensili umani, infatti, non prevede solo una minore specializzazione corporea e manuale ma anche forme di collaborazione sociale. La piú lenta maturazione del corpo umano costituisce il converso genetico della non specializzazione: se l’Homo sapiens può costruire attrezzi perché le sue mani non sono utensili già strutturati per un solo compito (cfr. cap. III, paragrafo 4), la nostra specie li edifica socialmente perché l’altra faccia della non specializzazione è la dipendenza dal gruppo. Il sapiens ha bisogno di imparare le tecniche depositate da una cultura e dunque che qualcuno gliele insegni. Ha bisogno di farle insieme ad altri sapiens perché, anche quando ha imparato cosa fare, deve metterlo in pratica socialmente per ottenere qualche risultato: se gli utensili piú semplici possono essere costruiti da due mani, ce ne vogliono piú di due per usarli efficacemente. Con un solo paio di mani, ad esempio, è possibile costruire una corda molto lunga. Per usarla però ce ne vogliono molte perché trasportare la carcassa dell’animale catturato e dividerlo in parti richiede diversi Homo sapiens. Non a caso, una delle discriminanti tra utensili ani217
mali e umani è che solo i secondi sono utilizzati per catturare organismi piú grandi e forti della specie che li impiega (Lestel, 2001, p. 142). Il carattere accessorio dello strumento per lo scimpanzé trova infatti un’ulteriore dimostrazione nel fatto che questo viene utilizzato solo per prendere animali piú deboli, contro specie «già sconfitte» come le formiche o le termiti. Mentre in una forma di vita specializzata come gli scimpanzé il gruppo assomiglia piú alla somma delle attitudini individuali e dei loro istinti che a un sistema organizzato, nel caso degli animali sprovveduti la situazione è esattamente opposta: poiché il saper fare dell’uno è collegato al saper fare dell’altro (perché glielo ha insegnato, perché ognuno sa fare cose diverse, perché alcune cose possono esser fatte solo insieme), il collettivo cessa di essere la somma di individui senza per questo collassare in un sistema superindividuale come il regno delle formiche. Si tratta piuttosto di una relazione invertita. Non è piú il collettivo a costruirsi sull’individuale (nascita di individui autosufficienti che si riuniscono in un gruppo) ma è l’individuale a emergere dal collettivo: la nascita di organismi non autosufficienti richiede il gruppo e solo grazie ad esso ogni organismo può trovare e costruire la propria individualità.
5. Prendere contatto con sé: il tatto come fondamento del monologo La manifestazione socioculturale della facoltà del linguaggio può essere considerata, dunque, come un processo autoreferenziale e ambivalente che mette mano ai cambiamenti che lei stessa ha provocato: è al contempo medicina e malattia. In primo luogo la parola e la mano sono forme di intervento riparatorie e distruttive, che possono mandare in pezzi ciò che hanno costruito cosí come rimediare al danno provocato. Le azioni tattili e verbali contribuiscono a creare un mondo e, al contempo, hanno in sé la capacità di saccheggiare gli ambienti circostanti. Proprio perché la pratica culturale della scimmia si basa su un principio di appetibilità, quando l’ani218
male è sazio si ferma. Poiché la nostra pratica culturale è longeva e basata su una cronica indigenza, è piú facile che l’azione umana comporti un cambiamento radicale negli habitat cui pone mano. Poiché per le scimmie la cultura assume un carattere opzionale, essa non ha rilevanti effetti ecologici; poiché per noi assume un valore biologico decisivo, il rapporto tra le Umwelten e le culture dei sapiens è piú delicato e può avere esiti devastanti. Nei prossimi due paragrafi cercheremo di capire meglio l’origine tattile di questi due caratteri, riflessività e ambivalenza, che caratterizzano il mondo e il linguaggio degli animali umani. Analizzeremo piú da vicino in che modo per i sapiens le cure rappresentino un bisogno sia biologico che sociale, per poi definire due caratteristiche morfologiche del nostro corpo, liminarità e specularità. Dall’intersezione tra la necessità sociobiologica di cure e la struttura della nostra conformazione fisica emergerà quella dinamica ambivalente che contraddistingue il linguaggio umano e che si manifesta con evidenza senza pari nel monologo. Il monologo costituisce una forma linguistica esemplare poiché mostra la connessione intrinseca delle due caratteristiche delle quali parleremo: è forma riflessiva perché consiste in un parlare a se stessi; è ambivalente perché tra il sé che parla e quello a cui si parla sussiste un rapporto contemporaneo di esclusione (non sono gli stessi interlocutori) e inclusione (sono la stessa persona). Come abbiamo visto nel secondo capitolo (paragrafo 3), i sostenitori dell’importanza esclusiva del linguaggio per la natura umana insistono spesso sul suo carattere riflessivo. La sua capacità autoreferenziale, la possibilità che solo le lingue hanno di riferirsi a se stesse, è un elemento decisivo dell’autocoscienza umana (Cimatti, 2000a). La riflessività verbale non va intesa infatti solamente come la capacità del linguaggio di riferirsi a se stesso («la parola scricchiolio è onomatopeica», «quel che sto dicendo è privo di senso», ecc.) ma anche come la possibilità che il linguaggio conferisce a chi la pratica di parlare a se stesso. Comprendere l’origine corporea del parlare a se stes219
si e, soprattutto, descrivere in che modo il monologo erediti una logica tattile significa mostrare, una volta di piú, perché il riduzionismo linguistico è un paradigma insufficiente. La nascita corporea del monologo, inoltre, ha una seconda ragione di interesse poiché evidenzia il carattere pubblico della mente umana, l’origine intrinsecamente sociale della nostra natura. Mentre le scienze cognitive tendono a considerare, piú o meno esplicitamente, il dialogo come un forma monologica poiché spesso trascurano gli aspetti contestuali della vita umana in nome di una sua piú proficua modellizzazione, il nostro obiettivo è mostrare il carattere profondamente dialogico del monologo (cfr. Gambarara 2000b, p. 175-176). Il mentalismo di un autore come Fodor per il quale prima vengono le rappresentazioni mentali (cap. I., paragrafo 3.2) e poi il linguaggio verbale va rovesciato: la rappresentazione mentale non è il sostrato della parola ma la sua introiezione postuma da parte di un corpo intrinsecamente partecipativo. Inoltre, al contrario di Pinker ad esempio, potremo dar conto di concezioni del sé molto diverse da quella occidentale: si pensi al caso dei Bororò, citato nel primo capitolo (paragrafo 3.2), che si considerano contemporaneamente uomini e uccelli. Fonderemo queste diversità su un patrimonio corporeo-sensoriale comune (la struttura bipede e implume) evitando ogni rischio di relativismo culturale (pericolo che Pinker non scongiura: cap. I, paragrafo 3.2). 5.1. Cure tattili
Come abbiamo visto nel primo capitolo, «somestesia» significa etimologicamente percezione del corpo e può essere definita come un macrosistema percettivo che comprende al proprio interno sei sottosistemi (tattile, nocicettivo, viscerale, cinestetico-propriocettivo, vestibolare e termico) deputati alla percezione del contatto, del dolore, degli stati interni, della posizione degli arti e del corpo, dell’equilibrio e della temperatura. La somestesia costituisce un macrosistema sensoriale sfaccettato e nel contempo fortemente integrato. Diversi dati eto220
logici mostrano che l’intreccio ontogenetico dei diversi sistemi somestesici è legato alla necessità di esperienze tattili-corporee per l’equilibrio biologico e cognitivo dei mammiferi. L’analisi, seppur rapida, di questi dati consente di fare un passo avanti decisivo nel confronto tra la biologia degli animali umani e quella dei non umani, piú precisamente, tra mammiferi, primati e Homo sapiens. Come vedremo da un lato il tatto costituisce una condizione di possibilità decisiva per la vita di tutti i mammiferi: privi di contatto parentale, questi sono destinati alla morte. Dall’altro il passaggio da mammiferi a primati e da primati a umani è accompagnato dall’incremento esponenziale dell’importanza dell’esperienza tattile poiché diviene la chiave non solo dello sviluppo biologico della specie ma anche di quello sociale. Proprio perché l’Homo sapiens costituisce un mammifero prototipico e un primate generico (cfr. paragrafo 3) ritroviamo nella nostra forma di vita le loro caratteristiche primitive: queste, esaltate, cambiano radicalmente di senso. Partiamo dunque dai mammiferi. Il contatto tattile postparto (tipico, per l’appunto, di questa classe di vertebrati) non rappresenta soltanto una generica forma di rassicurazione tra madre e cucciolo ma una vera e propria precondizione biologica di sopravvivenza. Infatti «l’animale neonato deve essere leccato per sopravvivere» (Montagu, 1971, p. 20): se per qualche motivo questo non accade, il soggetto di norma decede a causa di disfunzioni genitourinarie o gastrointestinali. Gli agnelli che non vengono leccati dopo la nascita, ad esempio, non riescono a conquistare la postura eretta e spesso muoiono. I ratti costituiscono in tal senso un caso paradigmatico. Numerosi studi compiuti su questa specie dimostrano che sia stimolazioni manipolative condotte in laboratorio che cure materne post-natali hanno un effetto decisivo: il peso corporeo aumenta (Ruegamer, Bernstein, Benjamin, 1954; Levine, 1957; Denenberg, Karas, 1959), il sistema immunitario si rafforza (Levine, 1960, p. 85; Eliott, 1999, p. 140), i tempi di sviluppo sono piú veloci (Levine, 1960, p. 85), la degenerazione neuronale rallenta (Meaney et al., 1988), aumentano i comportamenti esplorativi (Ruegamer, Bernstein, Benjamin, 1954, p. 185; Sapolsky, 1997), 221
le situazioni di stress risultano meno nocive grazie allo sviluppo equilibrato del sistema ipotalamico-pituitario (Levine, 1960; Liu et al., 1997; Caldji et al., 1997), la durata della vita generalmente incrementa8. Mentre cure tattili hanno effetti neurostabilizzanti su ratti privi della tiroide e possono controbilanciarne lo squilibrio ormonale, esemplari deprivati di ogni contatto risultano incapaci di costruire il nido e di avere rapporti sociali con i conspecifici. Anche in questo caso, l’esito piú comune è una morte prematura di solito causata da lesioni organiche cardiovascolari o gastroenteriche (Montagu, 1971, pp. 25-31). Tra i sottosistemi somestesici sussiste quindi una forte connessione ontogenetica: la stimolazione tattile-termica incide sullo sviluppo dei sistemi viscerali, dell’equilibrio e, piú in generale, del corpo. Se spostiamo la nostra attenzione sui mammiferi piú neotenici, i primati, scopriamo che su di essi gli effetti della deprivazione tattile hanno un impatto sociale ancora piú accentuato. Gli studi ormai classici di Harlow (1958; Harlow, Zimmermann, 1959; Harlow, 1962) sul rapporto cucciolo-madre nelle scimmie danno ampia conferma di questa ipotesi. Lo studioso americano ha dimostrato che per i cuccioli, nel corso dello sviluppo, i genitori non costituiscono semplicemente fonte di nutrimento e scudo di protezione dagli agenti naturali. Soggetti allontanati dalla madre ma nutriti artificialmente sviluppano infatti comportamenti asociali, instabilità affettiva e impossibilità alla vita di gruppo. L’aspetto piú interessante consiste nel fatto che questi disturbi si presentano in grado minore se, al posto del semplice biberon, viene messo nella gabbia uno scimpanzé di pezza mentre rimangono inalterati quando il sostituto materno è composto da filo metallico. Quel che manca al cucciolo non è semplicemente il cibo ma il contatto corporeo. La stimolazione tattile sollecitata dalla bambola di pezza, riscaldata da una lampada situata al suo interno, soddisfa almeno in parte la necessità di cure del piccolo scimpanzé e compensa meglio (a volte del tutto) l’assenza della madre: il reinserimento sociale risulta piú facile, anche se la possibilità di rapporti sessuali rimane spesso pregiudicata (Harlow, 1962, pp. 6-8). 222
Quello tra madre e cucciolo non è un rapporto semplicemente nutritivo poiché l’allattamento si inserisce in un piú ampio repertorio di cure corporee che coinvolge diverse dimensioni tattili9. I cuccioli infatti dimostrano l’importanza del contatto con il corpo della madre o del suo surrogato sia in senso passivo che attivo. Per un verso le reazioni dei piccoli scimpanzé sono legate a variazioni che riguardano il contatto passivo come tessitura, consistenza, temperatura e movimento: surrogati che dondolano di panno morbido e caldo sono preferiti a bambole che sono immobili, di filo metallico, rigide e fredde (Harlow, Zimmermann, 1959, p. 431). Per un altro verso i piccoli scimpanzé hanno l’esigenza di stare a contatto con corpi che possono essere facilmente afferrati sia per forma che per orientamento spaziale: madri di pezza con una inclinazione favorevole alla prensione (in posizione sagittale e con il torace verso l’alto) risultano piú efficaci delle altre (Harlow, 1958, p. 675). Vediamo ora cosa succede nella specie umana. In primo luogo, dobbiamo mostrare che anche la nostra forma di vita ha un bisogno costitutivo di cure tattili neonatali. In secondo luogo sarà necessario mettere in evidenza cosa distingue il nostro bisogno di cure da quello dei primati o dei ratti. Si potrebbe obiettare, infatti, che la dimostrazione dell’importanza della stimolazione tattile per tutti i mammiferi non prova la sua importanza specifica per l’Homo sapiens poiché si tratta, per l’appunto, di una necessità generale che appartiene alla classe di vertebrati cui apparteniamo. Cominciamo dal primo punto. Il bisogno di contatto della nostra specie è dimostrato da una deprivazione tattile, tutta umana, che riguarda il parto (per evidenti motivi etici, è impossibile riproporre nell’animale umano gli stessi esperimenti compiuti su ratti e scimmie). Una serie di studi (Montagu, 1971, pp. 43-63; Simion et al., 1996) ha confrontato bambini nati secondo parto vaginale e bambini nati da parto cesareo. Da un punto di vista percettivo-stimolativo la differenza tra i due casi si è rivelata notevole. Come la gravidanza (cfr. cap. II, paragrafo 4), nella specie umana anche il travaglio è molto piú prolungato rispetto a quello animale poiché condensa in sé quella 223
funzione stimolativa di solito affidata negli altri mammiferi al cosiddetto «leccamento post-natale». Durante il parto vaginale il bambino è a stretto contatto con l’utero materno. Diverse ricerche hanno confermato che la stimolazione tattile che ne deriva ha un importante effetto biologico-cognitivo sui neonati: rispetto ai nati da parto cesareo, è possibile osservare maggiore reattività e frequenza nel pianto, un’acuità sensoriale piú alta e minor tasso di disturbi emozionali e di mortalità soprattutto in relazione a deficit respiratori. I bambini prematuri o nati da parto cesareo (quindi, in entrambi i casi, con travaglio breve o assente) sono affetti molto piú frequentemente da disturbi gastrointestinali, genitourinari, respiratori e mostrano spesso un ritardo nel controllo posturale, motorio, buccale e manuale. Il travaglio non costituisce quindi, come la sua etimologia lascerebbe desumere (tripalium = strumento di tortura a tre pali), un inutile tormento o un semplice trauma (Pinker, 1994, p. 308) quanto un indice del fatto che la stimolazione cutanea costituisce una condizione di possibilità della nostra esistenza: nel contatto con l’utero il corpo del neonato riceve quelle pressioni su labbra, viso e corpo in grado di attivare le funzioni viscerali e gli organi interni. Il travaglio si configura cosí come la prima forma di cura tattile in cui si mescolano, come sarà anche nella vita futura, piacere e dolore, sensazioni termiche e di contatto, attivazioni viscerali e posturali: per questa ragione la sua assenza deve essere compensata da una successiva sovrastimolazione. La nascita stessa si configura come un momento di sviluppo poiché costituisce un episodio somestesico decisivo per la sua futura incidenza emozionale e cognitiva. Come accennavamo all’inizio del paragrafo, questo esempio è interessante poiché mostra che tra l’ontogenesi umana e quella animale sussiste un rapporto caratterizzato da elementi di somiglianza10 e differenza. La somiglianza consiste nel fatto che la stimolazione tattile è decisiva per tutti i mammiferi, Homo sapiens incluso: alcune esperienze somestesiche si rivelano imprescindibili per la costruzione del primo fondamento del sé, il corpo. Ma nel caso di un essere ultraneotenico come l’es224
sere umano il valore di queste esperienze cambia, o meglio, si cronicizza. Per il piccolo sapiens la necessità di cure tattili assume un significato differente per due ragioni, una temporale, l’altra spaziale. Quella temporale l’abbiamo già esaminata: la duratura immaturità del corpo umano richiede infatti che le cure parentali, necessarie per tutti i neonati mammiferi, si estendano e si prolunghino durante tutta la vita dell’essere umano (cfr. cap. II, paragrafo 4; ma anche cap. IV, paragrafo 6.2). Dobbiamo ancora soffermarci, invece, su quella spaziale. Grazie alla sua immaturità, il corpo ultraneotenico racchiude in sé infatti due proprietà: la liminarità di un corpo nudo e la specularità di una struttura simmetrica. Come abbiamo visto nel secondo capitolo (paragrafo 3.4), Lorenz apre una delle sue opere piú significative affermando che il corpo di un organismo rappresenta una sorta di immagine dell’ambiente in cui vive: la pinna è immagine dell’acqua in cui si muove, l’ala è un calco della sostanza, l’aria, nella quale si insinua. Nel caso dell’Homo sapiens, invece, il corpo non è immagine di un ambiente che non ha ma di se stesso, non è calco ma, potremmo dire, specchio. Sarà proprio la specularità riflessiva della nostra morfologia uno degli elementi che ci farà comprendere meglio l’origine corporea della riflessività ambivalente che caratterizza la nozione di mondo. 5.2. Il corpo allo specchio
Come abbiamo accennato nel capitolo II (paragrafo 4), la forma corporea umana mostra alcuni caratteri specifici: si configura come una struttura liminare (intersoggettiva e dialogica) e speculare (riflessiva e monologica). Questi due aspetti sono particolarmente importanti poiché mostrano il carattere intrinsecamente riflessivo del corpo e delle mani. Per un verso il nostro corpo è nudo e indifeso poiché privo di scaglie e squame, peli o aculei. Per un altro verso è piú esposto e, dunque, sensibile poiché il contatto con il mondo è diretto o quasi, mediato solo da una sottile peluria. In questo senso è possibile affermare che la specie umana è protagonista di quello che potremmo 225
definire «un baratto evolutivo»: minor protezione in cambio di sensibilità tattile maggiore, cioè meno specializzata. La stessa postura eretta può esser interpretata secondo questa chiave di lettura poiché la riduzione di velocità nella fuga e le conseguenti difficoltà nell’arrampicarsi sono compensate dalla libertà conquistata dalle mani. Queste frantumando i cibi rendono possibile la diminuzione del lavoro masticatorio a carico delle mandibole permettendo, insieme alla scesa della laringe, maggiore facilità articolatoria e modulazione sonora (Liebermann, 1991). L’essere umano si configura come un animale meno protetto rispetto agli altri ma piú predisposto a percepire e a comunicare. La pelle umana assume un significato peculiare poiché non costituisce tanto (o solo) un baluardo difensivo (è delimitazione del corpo che si rivela fin troppo esposta agli agenti esterni), quanto piuttosto un sistema osmotico di scambio (Damasio, 1994, p. 314). In altre parole, la cute umana non costituisce una barriera ma quello che il filosofo della scienza Silvano Tagliagambe (1991; 1997; 2002) chiama un confine, cioè un sistema che svolge una funzione complessa che, contemporaneamente, allontana e avvicina l’animale umano da ciò che lo circonda: separa il corpo distinguendolo da quello altrui; lo mette in contatto con il mondo che lo circonda; seleziona gli stimoli ambientali organizzando i presupposti delle prime forme di comunicazione tra l’organismo e il suo habitat. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, proprio sul carattere liminare del corpo umano affonda le radici la soggettività monologica e dialogica propria della nostra specie: ogni azione, anche il parto, si configura da subito come una forma di opposizione allo stesso tempo antagonistica e partecipativa tra il neonato e la madre, tra il sé e il mondo. Proprio per questo motivo, le esperienze somestetiche costituiscono il fondamento del sé corporeo11 senza assumere per questo un carattere privato o impermeabile alle menti altrui. Si tratta infatti di sensazioni provocate da fonti sia interne che esterne: l’alterazione termica può essere indotta da un fiammifero posto vicino al braccio ma anche da una infiammazione interna o cutanea; la contrazione dello stomaco può esser dovuta a un pasto troppo 226
pesante, a una scena sconvolgente ma anche a un crampo involontario associato alla fame; le sensazioni muscolari e posturali possono essere indotte da una caduta ma costituiscono anche lo sfondo, continuamente presente, che caratterizza lo stare seduti, in piedi o sdraiati; il dolore può essere causato da un colpo inferto dall’esterno o da uno stato patologico interno (per le cause del dolore: Schwob, 1994, pp. 26 sgg.). Assistiamo cioè a una permeabilità percettiva che, a prescindere da ogni strumento verbale, conferisce al nostro corpo trasparenza e accessibilità12: è questa doppia reattività, interna ed esterna, che consente un trasferimento analogico tra le mie esperienze e quelle altrui e che permette di stabilire corrispondenze tra avvenimenti nel mondo (ad esempio una puntura) e stati percettivi-emozionali (dolore, fastidio). Il corpo umano pertanto non costituisce una sfera inaccessibile e oscura ma una porta semiaperta che permette di essere spiata e compresa dagli altri e da noi stessi. Lo accennavamo in precedenza, il carattere intrinsecamente riflessivo dell’essere umano affonda le proprie radici in un’altra proprietà fondamentale del nostro corpo, la specularità. Come osserva il filosofo italiano Luigi Scaravelli (1968), le parti che lo costituiscono, infatti, si articolano per «opposizione incongruente» poiché sono entità simili ma non sovrapponibili: se dividiamo il nostro corpo a metà con una linea verticale che procede dall’alto verso il basso, possiamo constatare che per un verso le due parti sono simili poiché costituite da una stessa successione di elementi (narice, orecchio, guancia, braccio, anca, ecc.), mentre per un altro sono diverse perché, se sovrapposte, esse non coincidono (la parte sinistra è orientata in modo opposto rispetto alla destra). Questa simmetria oppositiva è la paradossalità che caratterizza lo spazio umano: è ciò che ne fa non una struttura geometrica assoluta e senza verso ma un’esistenza orientata (Mazzeo, 2001a). L’opposizione incongruente della destra e della sinistra è elemento fondante della riflessività umana poiché costituisce una struttura letteralmente speculare. Sentendo, ad esempio, i muscoli e i tendini del braccio destro e quelli del braccio sinistro è possibile co227
gliere un’altra forma di riflessività intrinseca all’animale umano che procede sempre per opposizione: non si tratta in questo caso di notare il contrasto tra uno sforzo (quello esercitato dal nostro corpo) e una resistenza (quella dei solidi che ci circondano) quanto l’analogia e la contemporanea differenza di orientamento del corpo che si muove nella sua bilateralità. Nell’abbraccio tra la destra che si unisce alla sinistra liminarità e specularità si incontrano. Nell’abbracciare un corpo estraneo non incontriamo solo un alter ego, ma, riconoscendo il confine che ci separa e che ci mette in contatto con questo, incontriamo noi stessi. Questa duplice caratteristica del nostro corpo non è solo somestesica poiché la ritroviamo anche nelle mani: stavolta, però, liminarità e specularità non si manifestano piú in modo generico e diffuso, bensí in forme precise e localizzate. Le mani costituiscono in tal senso la concentrazione delle proprietà del corpo umano in un organo dedicato. Vediamo brevemente perché. Per un verso le estremità superiori sono elementi corporei a tutti gli effetti (sono come le gambe o le narici): hanno una struttura simmetrica per opposizione incongruente e, allo stesso tempo, sono superfici lisce e indifese, prive di scaglie o aculei. Per un altro verso, le mani rappresentano la magnificazione del corpo sia nella dimensione liminare che in quella simmetrica. È proprio nelle mani che la percezione tattile somestesica, che coglie forme e oggetti solo in modo passivo e grossolano, può farsi attiva e focalizzarsi nella percezione aptica (cfr. cap. III). Con le estremità superiori non solo siamo in grado di percepire per contatto diretto gli oggetti che ci circondano (sentendone impressi, in modo ancora somestesico, i contorni nella pelle) ma possiamo afferrarli cingendoli tra le dita. In questo movimento attivo, siamo in grado di percepire simultaneamente la forma tridimensionale (stereoplastica) dell’oggetto ma anche la sua tessitura, la sua temperatura e la posizione che occupa rispetto al corpo. La mano rappresenta per questo un unicum neurofunzionale: solo la sua struttura articolata permette di manipolare e aver presa sugli oggetti; solo nel 228
suo palmo troviamo speciali recettori nervosi che grazie alla loro sensibilità e velocità conduttiva permettono di esplorare il mondo con molta piú precisione rispetto al tatto passivo (cfr. Negri Dellantonio, 1994). Nella mano la liminarità del corpo si esalta poiché essa moltiplica le sue capacità sensibili: non solo, come abbiamo visto (cap. III, paragrafo 3), i suoi movimenti esplorativi incrementano del 50% la capacità di riconoscere le forme rispetto al tatto passivo, ma la loro sensibilità è 35 volte superiore ad altre parti del corpo, come ad esempio la schiena (Darley et al., 1984, p. 101), e la mobilità che le è propria dà accesso a parti dell’universo per l’animale umano altrimenti inarrivabili. Se con la vista è possibile dominare ampi orizzonti e controllare distese panoramiche, è solo con il tatto che è possibile riparare e conservare. Mentre la vista può solo «tener d’occhio», è con il tatto che ci si prende cura di sé e dell’altro. Nel suo aspetto piú operativo, la manualità costituisce un presupposto fondamentale per dialogicità e monologicità poiché questi termini non devono esser intesi semplicemente come colloquio o confronto ma come intervento attivo, irruzione performativa (sia distruttiva che riparatoria). Il pugno e la carezza, cosí come l’autolesionismo o l’autoerotismo, sono testimonianze di uno scambio inter o intrapersonale complesso che rende piú dinamico il rapporto tra diverse esistenze e tra le componenti di un’unica vita. Le mani costituiscono la massima espressione anche della seconda peculiarità dello spazio umano (Scaravelli, 1968): a essere speculare è l’intera struttura ma, per scorgere direttamente l’impossibilità della coincidenza delle due metà che la compongono e il carattere orientato del nostro spazio, possiamo sovrapporre con comodità solo le mani. Queste, come ricorda Henry Focillon (1943, p. 108), «non sono una coppia di gemelli passivamente identici» poiché solamente con gli arti superiori è possibile congiungere le due estremità opposte del corpo tramite il contatto tra il palmo destro e il palmo sinistro (non a caso, una delle posizioni tipiche della preghiera e della autoriflessività che la contraddistingue: cfr. Virno, 2003). 229
Le mani non solo possono afferrare gli oggetti esterni ma sono in grado di avvicinarli portandoli in prossimità del corpo. Nelle azioni di presa, esaltate proprio dalla loro opposizionalità incongruente, esse svolgono, per utilizzare un’espressione di Heidegger (1927), una doppia funzione di «disallontanamento» cui corrisponde una doppia monologicità. Per un verso, avvicinando oggetti lontani dal tronco, le mani conferiscono all’animale umano piena tridimensionalità, ne completano il sé corporeo grazie alla manipolazione e alla percezione stereoplastica. Allo stesso tempo permettono quella operatività sul mondo circostante e sul proprio sé che permette di modificare gli oggetti e non piú solo contemplarli o ascoltarli. Si tratta di un disallontanamento che permette cioè un duplice rispecchiamento: in senso spaziale avvicina l’animale umano a se stesso consentendogli di riconoscersi a fondo nella propria specularità; in senso emotivo avvicina l’animale umano al mondo che lo circonda poiché gli consente di modificarlo a sua immagine e somiglianza, di sentirlo come parte di sé. 5.3. Tatto, logica partecipativa e parlare a se stessi
La liminarità e la riflessività della morfologia umana consentono di chiarire con maggior precisione l’origine tattile della facoltà del linguaggio e, quindi, la coevoluzione tra mondo e ambienti della quale abbiamo cominciato a parlare nel paragrafo 4. Un primo aspetto dell’ambivalenza che struttura il rapporto tra l’essere umano e il suo mondo è già stato analizzato: come abbiamo visto, si tratta del processo genetico nel quale ad altre forme di vita vengono sottratte porzioni dei loro habitat per avere materiale da costruzione del mondo umano, in un processo continuo e reciproco di riparazione e devastazione. Ma a questo aspetto ne va aggiunto un altro che non riguarda l’espansione del mondo umano, cioè il momento in cui l’ambiente si fa mondo, ma il rapporto tra l’Homo sapiens e ciò che mondo è già divenuto. In questo caso l’ambivalenza si esprime in un rapporto di contemporanea appartenenza ed estraneità che si rivela in230
trinseco a quel che nel paragrafo 2 abbiamo chiamato domesticazione. Per un verso ciò che circonda l’animale umano gli appartiene, costituisce parte di lui poiché è il frutto della sua attività costruttiva. Per un altro il mondo rimane un fuori, un luogo esterno con il quale confrontarsi e scontrarsi quotidianamente: la costruzione non è mai definitiva e sempre revocabile, le altre forme di vita continuano a riprodursi e a vivere. Il travaglio di questa relazione si incrocia con il rapporto, altrettanto complesso, tra individualità e collettività umana. Anche in questo caso, l’ambivalenza si muove lungo due dimensioni contrastanti e complementari. Da una parte ognuno di noi possiede un corpo liminare che, nella sua nudità, ha bisogno piú degli altri organismi di essere curato dai conspecifici: come abbiamo visto, se le cure tattili costituiscono una condizione intrinseca alla biologia dei giovani mammiferi, per l’essere umano questo diviene un aspetto cronico perché cronica è la sua giovinezza. Da questo punto di vista, il corpo umano è meno individuale e piú sociale rispetto a quello delle altre forme di vita. La sua riflessività, per riprendere l’idea di Lorenz, non rispecchia un ambiente ma i suoi conspecifici perché ha come soggetto privilegiato il genitore e la società, i donatori di cure parentali: quello umano è, per questo motivo, «un animale affamato e assetato di riconoscimento simbolico» (Gambarara, 2003, p. 227). Dall’altra parte quello umano è un corpo che, come detto, si articola per opposti incongruenti. In tal senso è intrinsecamente speculare in modo del tutto diverso: è un corpo piú riflessivo degli altri perché è in grado di autoavvertirsi, perché è capace di prendere atto di sé grazie alla plasticità delle sue membra, in particolare del tatto aptico-manuale. Da questo punto di vista, la sua è una riflessività autoreferenziale: non è semplicemente un «corpo specchio» ma un corpo che specchia se stesso, un corpo fortemente individuale perché è sulla base della sua morfologia che può prendere atto della propria esistenza13. Proprio perché liminare e riflessivo, il corpo umano è al contempo massimamente individuale e massimamente sociale: 231
questa è l’ambivalenza fondamentale di cui si nutre. La tattilità umana è infatti intrinsecamente partecipativa: invece di segnare il contrasto tra individuo e gruppo o stabilire una semplice convergenza d’indirizzo essa tradisce la complementarietà strutturale tra l’autonomia di un corpo speculare e la dipendenza di una morfologia liminare. Su questa base tattile e neotenica, il linguaggio trova il suo luogo di origine. L’aspetto che ci preme sottolineare è che, nascendo in un alveo partecipativo, il linguaggio sviluppa a sua volta una struttura partecipativa. Sin dal primo paragrafo, abbiamo accennato al fatto che il rapporto tra tatto e linguaggio può esser concepito come una relazione di cura e malattia. Come il corpo umano nasce sprovveduto (liminare e riflessivo) e ha bisogno di vestiti, cosí la biologia umana nascendo povera ha bisogno di una ricchezza culturale che la sostenga. Il linguaggio a tal proposito costituisce una cura: riempie ciò che è vuoto, copre ciò che è nudo. Prolunga a distanza, estende nello spazio e nel tempo il soddisfacimento di contatto di cui ha bisogno ogni piccolo umano. Si tratta di specificare, però, di che cura si tratti. Chi considera il linguaggio come una forma di specializzazione, ad esempio, sembra concepire questa forma di cura come un vaccino, in grado di immunizzare una volta per tutte la natura umana dalla sua costitutiva precarietà. Purtroppo (o, meglio, per fortuna) non è cosí. Religione e preghiera, magia e superstizione, attività ludica e disagio mentale dimostrano che la parola non basta a eliminare una fragilità che è alla radice (cfr. paragrafo 6.2). Come abbiamo già visto a proposito del suo rapporto originario con gli ambienti in cui si insedia, il linguaggio costituisce piuttosto una cura omeopatica, un farmaco nel senso etimologico del termine: medicina e veleno, soluzione e problema. Da una parte il linguaggio dà quel sostegno che sostituisce ed esonera una intimità tattile troppo prolungata per essere sostenibile poiché rischierebbe di mettere in cortocircuito due caratteristiche chiave dell’immaturità neotenica: la necessità di cure e il bisogno di esplorazione. Se la fragilità richiede prossimità, la curiosità non può che realizzarsi nella separazione. Il 232
linguaggio in tal senso risponde a entrambe le necessità poiché consiste in una presa di contatto a distanza e, contemporaneamente, in una distinzione nella vicinanza. È proprio grazie al linguaggio che è possibile, infatti, stare vicini rimanendo lontani e allontanarsi mantenendo prossimità fisica: sono dall’altra parte della vallata e, sfruttando l’eco, ti dico cosa succede oltre la montagna; abbiamo litigato e nulla crea distanza piú grave del non rivolgersi parola. Dall’altra parte il linguaggio non può sciogliere il contrasto dal quale trae origine poiché cura e curiosità, dipendenza e autonomia sono termini mai del tutto conciliabili. Per questa ragione, il linguaggio ha, lui stesso, una struttura partecipativa e, pertanto, un carattere liminare e riflessivo. È liminare perché, come la mano, è esperienza del limite: se la plasticità del corpo umano esprime fragilità, l’elasticità del linguaggio verbale tradisce la labilità della mancanza di una nicchia ambientale. La sua liminarità lo espone dunque alla percezione: non è solo un riparo che esonera un corpo nudo da una sensibilità altrimenti insostenibile, ma è una porta che apre a nuove dimensioni dell’esperienza: il sommelier che assapora i vini, le mostre di pittura, i concerti musicali ma anche l’equilibrio del funambolo e il rituale del fumatore ne costituiscono la piú ampia dimostrazione (si tratta di un tema, quello della percezione di secondo ordine, che vedremo tra poco nei paragrafi 6-6.2). Il linguaggio verbale è riflessivo perché intrinsecamente metalinguistico: la capacità di raccontare avvenimenti e riferire le parole altrui, di riprendersi e correggersi ne costituiscono, insieme alla performatività (paragrafo 4), la sua principale caratteristica distintiva14. L’origine della capacità metalinguistica verbale, infatti, non è una procedura ricorsiva modulare che poi si generalizza (l’idea di Hauser, Chomsky, Fitch, 2002) quanto piuttosto il ripiegamento su se stessa di una struttura intrinsecamente partecipativa che, cosí facendo, acquista maggiore focalità. Non a caso, liminarità e riflessività si mettono in evidenza nelle esperienze di crisi. Nei momenti di scacco, durante i quali i nostri progetti falliscono, le previsioni si rivelano sbagliate e il mondo umano svela la propria precarietà, la struttura par233
tecipativa del linguaggio emerge con pienezza. Come accennavamo in precedenza, il monologo costituisce da questo punto di vista un esempio paradigmatico. Lo psicologo russo L. Vygotskij (1896-1934) osserva che, sia nei bambini che negli adulti, il parlare a se stessi è una pratica che emerge soprattutto nei momenti di difficoltà: quando i conti non tornano, l’animale umano comincia a parlarsi. Questa idea è confermata dalla nostra esperienza quotidiana. Quando parliamo a noi stessi? Nel momento in cui stiamo per perdere il controllo della situazione: non troviamo le chiavi di casa e, disperati, ricostruiamo i nostri ultimi movimenti perché non riusciamo a ricordare dove le abbiamo lasciate; nel pianto ripetiamo a noi stessi quello che è successo; nel montare la libreria controlliamo le parti di cui non capiamo l’utilità ripercorrendo ad alta voce le tappe dell’assemblaggio. Proprio perché è un esperienza liminare, il monologo è luogo di emergenza della struttura profonda del linguaggio verbale, una terminazione senza guaina dell’elettricità che scorre al suo interno. Per capire meglio in che senso il monologo è un punto scoperto che manifesta la struttura ambivalente del mondo umano, dobbiamo ancora precisare, però, in cosa l’ambivalenza consista. Questa può esser definita come una opposizione che non si svolge secondo la legge di non contraddizione ma secondo un principio che l’antropologo Lévy-Bruhl (1910; 1927) definisce di «partecipazione»: un termine (A) non si contrappone alla propria negazione (non A) ma alla congiunzione tra sé e la propria negazione. Le ambivalenze che abbiamo descritto in questo paragrafo e in quello precedente possono essere riassunte nel modo che segue: A è uguale a non A La mano è il corpo perché ne è la focalizzazione tattile Il singolo è il gruppo perché non può essere umano senza di lui Il singolo è il mondo perché è la sua dimensione vitale Il mondo umano non può fare a meno degli ambienti animali
e insieme: 234
A si oppone ad A e non A La mano si oppone al corpo che la comprende Il singolo si oppone al gruppo di cui ha bisogno Il singolo si oppone al mondo che è parte di sé Il mondo si oppone agli ambienti nei quali si insedia
Come già osservava il linguista danese Hjelmslev (1928; 1935; 1937), la logica partecipativa non individua né contrappone un termine negativo a uno positivo quanto descrive la contemporanea distinzione e compenetrazione tra una parte e un tutto, tra un elemento intensivo e uno estensivo, tra un’idea definita e una indefinita15. Il monologo si articola proprio secondo questa logica. Se riprendiamo le proprietà del linguaggio interiore individuate da Vygotskij nell’ultimo capitolo di Pensiero e linguaggio, è possibile affermare che il monologo si differenzia dal dialogo per le seguenti caratteristiche: 1) La sintassi è telegrafica e predicativa; 2) La fonazione è spesso ridotta o assente; 3) È presente una tendenza agglutinante che accorpa tra loro i termini linguistici; 4) Il senso, il valore contestuale, delle parole domina sul loro significato, cioè sul loro valore piú stabile e intersoggettivo; 5) Le leggi di unione semantica sono quelle tipiche dei sensi e non quelle dei significati: sono dinamiche e fluttuanti. Un processo di originalità semantica rende l’idioma riflessivo intraducibile. Questi cinque punti dimostrano che il monologo si distingue per un continuo processo di identificazione-distinzione che appare incomprensibile se analizzato in termini di non contraddizione. Nel parlare a noi stessi ci troviamo di fronte a due termini, a uno sdoppiamento dell’Io, che permette lo scambio comunicativo tra me e me stesso. Si tratta di un gioco linguistico che non è cognitivamente vuoto: nel monologo mi sorprendo per ciò che dico, giungo a conclusioni prima incerte, metto a fuoco pensieri fino ad allora confusi. Cercare di ricondurre il 235
corso della dinamica monologica nei binari del «quale sono dei due? O l’uno o l’altro» significa precludersi la possibilità di comprendere l’aspetto piú centrale del fenomeno. Al contrario, la relazione che sussiste nel monologo tra la voce che parla e l’altra che le risponde è partecipativa poiché mi oppongo a un contraltare che allo stesso tempo è e non è me: A è non A (Io sono anche l’altro che mi risponde)
e insieme: A si oppone a A e non A (Il Tu si oppone all’ Io che lo comprende)
Come la mano che prima si distacca dal fianco e poi si ricongiunge con il corpo cui appartiene, nel monologo partecipo e mi oppongo a me stesso, prendo contatto con me in profondità proprio perché mi allontano e mi rincontro. È probabilmente a una logica partecipativa che Vygotskij (1934, pp. 172-176) fa riferimento parlando della legge semantica basata sui sensi che regola il linguaggio interiore16. È per questo motivo che la limitata verbalizzazione fonetica e il carattere agglutinante della sintassi non rivelano semplici forme riassuntive, contrazioni di un flusso verbale lineare che in qualche modo le sottende (come precisa lo psicologo russo, il linguaggio interno non è il linguaggio esterno meno la voce). Il linguaggio interno manifesta piuttosto quel flusso originario e partecipativo da cui poi si cristallizzano i significati e i concetti scientifici definibili in termini di condizioni separatamente necessarie e congiuntamente sufficienti. A volte, quando il mondo umano è ben saldo, le opposizioni partecipative si addensano lungo contrapposizioni piú nette e definite, come quelle della logica classica, nei linguaggi scientifici o nei calcoli formali. Altre volte, quando la nostra esistenza è minacciata, ciò si rivela impossibile o piú difficile: ne costituiscono esempi ulteriori il pensiero primitivo (il caso dei Bororò di cui abbiamo parlato nel primo capitolo) e magico 236
(De Martino, 1973); il linguaggio schizofrenico e infantile preconcettuale (Vygotskij, 1934); il gioco (Piaget, 1945) e i meccanismi onirici di simbolizzazione (Matte Blanco, 1975, 1988); la metafora e la percezione sinestetica (Mazzeo, in preparazione). Come accennavamo prima, infatti, il monologo non riguarda solo un periodo limitato (l’infanzia) ma tutta la vita di un essere la cui infanzia è cronica: il sistema partecipativo non costituisce una semplice tappa del nostro sviluppo onto- e filogenetico poiché, al contrario, ne rappresenta la struttura, il fondamento di una immaturità che non desiste. Per questa ragione, è possibile applicare alla logica partecipativa ciò che afferma Portmann (cap. II, paragrafo 3.3) a proposito della visione tolemaica del mondo: entrambe «non stanno lí per essere sostituite da altre, piú adatte a una forma matura di vita e quindi piú «giuste»» (Portmann, 1959, p. 178). Si tratta piuttosto di un «patrimonio ereditario della natura umana che non dobbiamo barattare con qualcosa d’altro» (ibidem). Che il linguaggio sia cura omeopatica alla fragilità neotenica e non vaccino specializzato della nostra condizione è dimostrato dunque dalla scarsa coesione di un’identità personale che continuamente si fa e si disfa, che per tenersi insieme ha bisogno di un continuo lavoro di tessitura narrativa: ha bisogno di raccontare e raccontarsi, di ascoltare e ascoltarsi, di parlare a se stessi e agli altri. Proprio perché non abbiamo un organo del linguaggio localizzato e non possiamo individuare in un punto del corpo la sede del nostro Io, non abbiamo mai un completo e definitivo controllo sulle nostre azioni, sui nostri impulsi, sulle spinte emozionali. Proprio perché non è sempre padrone di sé, l’animale umano può avere qualcosa da dire e da dirsi: se ingabbiati nel totale controllo delle contraddizioni della logica classica (il calcolo elettronico-seriale) o sciolto nel caos della partecipazione pura (la sindrome schizofrenica), monologo e dialogo perdono gran parte del loro senso (cfr. Pennisi, 2002; Pennisi, Cavalieri, 2002). Sia il corpo che il linguaggio umano si caratterizzano dunque per la loro mobile plasticità: come il somestesico si focalizza nella mano senza ridursi a percezione aptica, cosí la plura237
lità dei sensi lessicali può addensarsi in un dizionario senza perdere la possibilità di cambiamenti e nuove accezioni. Proprio perché non è sempre padrone di sé, l’animale umano ha necessità di parlarsi per prendere contatto con il proprio io attraverso una logica, quella partecipativa, che scandisce la struttura del movimento: del corpo, delle parole, del corpo delle nostre parole.
6. Funamboli e fumatori: il tatto di secondo ordine Gibson nelle prime pagine di The Senses Considered as Perceptuals Systems fa un’osservazione molto interessante che merita di essere citata per esteso: Parlando, dipingendo, scolpendo e scrivendo l’animale umano ha imparato a creare fonti di stimolazione per i suoi compagni e nel fare ciò a stimolare se stesso. Queste fonti, ammettiamo, sono di tipo particolare, differenti dalle fonti presenti nell’ambiente «naturale» poiché si tratta di fonti «artificiali». Queste generano per l’essere umano un nuovo tipo di percezione che può essere chiamata conoscenza o percezione di seconda mano [at second hand] (Gibson, 1966, p. 26).
Poco dopo lo psicologo americano (ivi, p. 28) precisa che la percezione di seconda mano non intacca la percezione diretta e che, come lui stesso tiene a sottolineare, è quest’ultima a costituire il suo primo problema. Si tratta pertanto di uno spunto che Gibson lascia in sospeso, convinto che sia piú importante concentrarsi nella descrizione della teoria ecologica della percezione diretta (cfr. cap. I, paragrafo 2.2; cap. III, paragrafo 3). Nonostante l’impostazione di Gibson sia ormai molto nota, al giorno d’oggi questa intuizione rischia di andare persa. Sarebbe un peccato, perché è alla base di una concezione del rapporto tra esperienza e linguaggio piú interessante della maggior parte di quelle attualmente in circolazione. La critica costante che abbiamo riservato al paradigma cognitivo e al riduzionismo linguistico rischia infatti di proporre una visione del rapporto tra esperire e parlare puramente antagonistica. Al 238
contrario, si tratta, come abbiamo cercato di suggerire piú volte, di una relazione di solidarietà: la cultura si incunea nel vuoto lasciato dalla biologia dando un sostituto (un mondo) di ciò che all’animale manca (un ambiente). Come abbiamo accennato nel secondo capitolo (paragrafo 3.2), il linguaggio ha, per riprendere un’espressione di Gehlen, una funzione di «esonero»: consente di filtrare un flusso percettivo altrimenti letale. L’indeterminatezza di un corpo nudo e la mancata specializzazione di un essere in primo luogo tattile è ciò che consente la fuga da ogni nicchia ambientale. Nel contempo la mancanza di un habitat rischia di trasformarsi in una doccia stimolativa non sopportabile. Il linguaggio e i rapporti sinestetici hanno la funzione di filtrare il flusso percettivo, organizzandolo: offrono la possibilità di avere certezze e punti di riferimento, evitano di andare a controllare. Ma, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, la relazione di esonero è solo una delle modalità del rapporto tra linguaggio ed esperienza. Questa azione focalizzatrice non ha solo un effetto, potremmo dire, sottrattivo perché non agisce solo da filtro. La solidarietà tra esperienza tattile e linguaggio non esprime una fondazione a senso unico: per un verso l’esperienza tattile, poiché riflessiva e liminare, fonda il linguaggio; per un altro il linguaggio dà la stura a dimensioni tattili inedite poiché oltre ad esser riflessivo è anch’esso intrinsecamente liminare. Questo tipo di esperienza tattile, che Paolo Virno propone di chiamare di «secondo grado», non è la stanca ripetizione della prima, né una pallida imitazione sensibile del linguaggio: Le sensazioni post-verbali, cioè di secondo livello, non hanno piú il compito di «esonerare» (Gehlen) il comportamento dell’animale umano dalla pressione di un contesto vitale sempre parzialmente indeterminato. Poiché l’esonero è già avvenuto, queste sensazioni sono integrali, ossia non selettive. Estetiche in senso forte, dunque (Virno, 2001, p. 142).
Il sensismo di secondo grado costituisce una sensibilità liberata che mantiene l’inesauribile ricchezza della percezione di primo livello e, nello stesso tempo, condivide con il linguaggio una focalità maggiore. Il riconoscimento di questa dimen239
sione dell’esperienza è, bisogna sottolinearlo, decisivo. In primo luogo, come abbiamo appena detto, ci consente di avere un’immagine del rapporto tra linguaggio e sensibilità non antagonistica: l’esperienza che nasce dalle parole ricorda che le radici della facoltà del linguaggio sono sensoriali. In secondo luogo, rende immuni da semplificazioni che rischierebbero di trarci in inganno. Un inganno del quale l’incipit della Metafisica di Aristotele costituisce il paradigmatico esempio: Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l’utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e piú di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infatti noi preferiamo, per cosí dire, la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione (Metafisica, I, 980a).
Questo passo è molto significativo perché riassume (e, forse, fonda) un atteggiamento, quello occidentale verso la percezione, rimasto per molti aspetti invariato per oltre venticinque secoli. Lo stesso Révész sembra riprendere questa opinione. Come abbiamo visto nel capitolo scorso, lo psicologo ungherese riabilita il tatto sottolineandone il valore cognitivo e l’importanza per la nozione di lavoro. Ma, come Aristotele, anche Révész procede a una identificazione indebita poiché scambia due dimensioni percettive proprie a tutti i sensi per il funzionamento specifico di due modalità sensoriali, la nobile vista e il greve tatto: Nell’analisi tattile della struttura emerge in modo particolarmente chiaro il carattere cognitivo della funzione aptica. Non tastiamo per il gusto di tastare. La stessa forma che riusciamo a percepire per mezzo del nostro senso aptico è, in fin dei conti, solo un mezzo per conoscere l’oggetto e non l’espressione di una percezione immediata, non tendenziosa e contemplativa. Nella contemplazione visiva, invece, seguiamo con lo sguardo un prato, un albero o una catena montuosa senza alcuno scopo (Révész, 1938a, p. 190).
Per dimostrare che esiste una sensibilità tattile di secondo grado che nasce dal linguaggio e si incarna nel gusto di senti240
re il proprio corpo ed esperire il mondo con le mani, proporremo due esempi: uno somestetico, l’altro aptico-buccale. Con il primo faremo ritorno a Lilliput: nel funambolismo la precarietà dinamica della figura umana diviene fine a se stessa, si fa esercizio e arte. Le dimensioni corporee dell’animale umano si trasformano: da condizione di possibilità dell’esperienza linguistica ne diventano oggetto di raffinamento, frutto da assaporare. Il secondo coinvolge invece un’esperienza piú diffusa, quella del fumo, che riguarda mani e bocca. In questo caso, il fumare si presenta da un lato come riparo rituale (e dunque linguistico-culturale) a un corpo nudo, per un altro come focalizzazione postlinguistica di esperienze tattili e gustative. 6.1. I funamboli di Lilliput
Nel primo libro dei Viaggi di Gulliver, Swift ci mette di fronte a una scena significativa in cui descrive una danza sul filo lillipuziana: Un giorno all’Imperatore venne in mente di intrattenermi con diversi spettacoli locali [...]. Tuttavia nessuno di tali spettacoli mi divertí tanto quanto quello dei danzatori sulla corda, eseguito su un sottile filo bianco, lungo circa sessanta centimetri e sollevato dal suolo circa trenta (Swift, 1728, p. 27).
Questo esempio, che Swift propone in realtà per ironizzare sulle acrobazie dei cortigiani per ingraziarsi il loro sovrano, ben esemplifica alcuni aspetti del rapporto tra linguaggio ed esperienza umana. A pensarci bene, infatti, per i lillipuziani il funambolismo costituirebbe un’attività semplicemente insensata, sia in termini biologici che culturali. Da un lato, per gli abitanti di Lilliput non avrebbe senso esercitare le loro abilità acrobatiche sul filo per il semplice motivo che non ci sarebbe nulla da esercitare: il loro corpo, piccolo e leggero come quello dei passeri che vediamo posarsi sui cavi elettrici, non avrebbe alcuna difficoltà meccanica a camminare sulla corda e un peso tanto scarso con un baricentro tanto basso non richiederebbe 241
l’esercizio di nessuna abilità particolare. D’altro canto, i lillipuziani non potrebbero farsi funamboli perché una simile forma di esercizio richiederebbe una cultura e una lingua che, come visto nel paragrafo 3.1, essi non potrebbero avere. L’analisi di questi due aspetti chiave per il funambolismo consente di mettere in scena la complessità del rapporto tra esperienza tattile, dimensioni corporee e linguaggio. Al primo aspetto abbiamo già accennato: il tatto subisce i contraccolpi delle variazioni dimensionali. La propriocezione, ad esempio, ha origine proprio da quella rivincita della superficie sul volume rappresentata dagli organi interni: i villi intestinali cosí come gli alveoli polmonari, la circolazione sanguigna e le lobulazioni renali costituiscono un aumento di superficie che, non potendosi esprimere all’esterno se non al prezzo di un ulteriore aumento volumetrico, si ripiega su se stessa finendo dentro il corpo cui appartiene (D’Arcy Thompson, 1961, pp. 45-46; Gould, 1977b, p. 162). Come abbiamo accennato nel paragrafo 5.2, la stazione eretta che distingue l’animale umano dalle altre forme di vita assume un importante valore dimensionale perché costituisce l’ottimizzazione del rapporto tra sensibilità e dimensione: l’incremento della superficie sensibile si realizza per mezzo della creazione di un piano equidistante tra le due primordiali superfici corporee (dorsale e ventrale) ed è cosí che mette in opera «un nuovo modo di esibirsi al mondo» (Tobias, 1982, p. 46). La postura eretta si configura quindi come un esposizione precaria ma meccanicamente sopportabile, un aumento della superficie che non richieda, come per gli impossibili giganti di Gulliver, un esponenziale aumento del loro volume. L’animale umano per parlare ha bisogno di alzarsi da terra: da lillipuziano ne rimarrebbe schiacciato, da Brobdingnag rischierebbe un ritorno di schianto. L’esempio gulliveriano del danzatore sulla corda consente di comprendere meglio anche un altro aspetto che riguarda la relazione tra esperienza e parola poiché il funambolismo è una forma fine di cultura che presuppone il possesso della facoltà del linguaggio. Il funambolismo rappresenta un ottimo esempio di ciò che abbiamo chiamato esperienza tattile del secondo 242
ordine: ha come presupposto la nostra corporeità originaria e la facoltà del linguaggio ma, allo stesso tempo, è un’esperienza tattile non linguistica. Per essere funamboli è infatti necessario essere bipedi, implumi e dimensionalmente adatti: il gioco si basa su una precarietà e un equilibrio che solo la nostra forma e le nostre dimensioni sono in grado di garantire. In effetti, si tratta di acquisire un mestiere che per un verso, come ricorda Philippe Petit, forse il piú abile tra i funamboli viventi, «richiede tutta un’esistenza» (1985, p. 34) ma che nello stesso tempo rende «inutile» ogni studio teorico (ivi, p. 33) e addirittura pericolosa la riflessione verbale: «ogni pensiero sul filo è una caduta in agguato» (ivi, p. 100). Per non cadere dalla corda non solo è necessario stare in silenzio, non pronunciare parole, ma evitare di pensare in parole. L’esperienza di crisi che quotidianamente cerchiamo di risolvere tramite il monologo assume in questo caso un carattere differente poiché non solo non vuole esser superata ma tenta di essere vissuta: camminare sul filo non significa proteggersi dai rischi evidenti di un’esperienza liminare ma farsene carico tenendosi in equilibrio in una situazione nella quale, letteralmente, si è alla corda. Come afferma Petit (ivi, p. 38), non si tratta di trovare «una risposta al problema dell’equilibrio»: il punto consiste piuttosto nel dare ad esso la sua piú vivace espressione. Per questa ragione, l’esempio del funambolo rappresenta in modo esemplare la condizione tipica dell’essere umano poiché mette in evidenza una precarietà che diviene certezza. Proprio perché non ha le dimensioni di un uccello, l’animale umano camminando sul cavo non ne imita stoltamente le prestazioni (come farebbe l’abitante di Lilliput) ma ne stravolge il senso. Quel che è naturale per il passero e il lillipuziano, ciò che già appartiene al suo corpo, diviene per l’animale umano una conquista: naturale perché radicata nella sua morfologia dimensionale, culturale perché acquisita tramite esercizio e pratica. Per questo, funambolo è solo «chi è fiero della propria paura» (ivi, p. 31): è l’animale umano che gode delle proprie necessità e, vivendole fino in fondo, le trasforma in virtú. 243
6.2. Andare in fumo
Nel fare la rassegna delle possibili varianti dell’arte funambolica, Petit propone un caso piuttosto bizzarro: La camminata nel cesto è un vecchio esercizio parecchio divertente. Una grande famiglia di funamboli, i Triska, aveva svaligiato in questo modo una fabbrica di sigarette. […] La corda partiva dalla finestra del magazzino. Nel corso dello spettacolo, arrivati a quell’esercizio, i funamboli lo rifecero tante di quelle volte che il pubblico, non condividendo la passione eccessiva per i cesti, cominciò a fischiare per l’impazienza. I cesti erano metodicamente riempiti a un’estremità del filo e svuotati con cura all’arrivo. Cosí la troupe riuscí a riempire un intero carretto (ivi, p. 64).
Questa volta, infatti, i danzatori sul filo dimenticano di gustare l’esperienza dell’equilibrio in nome di una causa piú urgente. Il lettore smaliziato potrebbe pensare a un fatto solo economico, il valore commerciale delle sigarette. Ma forse c’è qualcosa di piú: è all’amore per il fumo che dedichiamo la nostra chiusura. Il fumatore incarna una forma d’esperienza postlinguistica complementare a quella del funambolo. Come abbiamo visto, il funambolismo rappresenta una esperienza somestetica che non cerca di risolvere il proprio carattere liminare ma di apprezzarlo vivendolo. Il tabagismo è invece un fenomeno che ha carattere manuale e boccale attraverso il quale l’animale umano prova a dare risposta alla liminarità della nostra forma di vita per mezzo di un surrogato tattile dell’esperienza di cura. I risultati di questo tentativo sono però, ancora una volta, poco definitivi e molto ambivalenti. Come vedremo tra breve, anche il fumo è una forma di cura omeopatica alla labilità dell’esistenza umana che finisce per rivelarsi piú simile al funambolismo di quanto si potrebbe credere. Sia la sigaretta tra le dita che i piedi sulla fune incarnano i paradossi di ogni esperienza raffinata del rischio: in entrambi i casi la nostra vita è messa a repentaglio. A differenza del funambolismo che riguarda una ristretta cerchia di cultori, l’esperienza del fumo è un fenomeno di massa. L’Organizzazione mondiale della sanità stima il numero dei 244
fumatori in un miliardo e cento milioni, pari a un terzo degli abitanti del pianeta con età uguale o superiore ai 15 anni. Si tratta di un fenomeno che, oltre ad avere un risvolto economico notevole (un giro commerciale di circa 200 miliardi di dollari l’anno), costituisce una vera e propria emergenza sanitaria: ogni dieci secondi il tabacco miete una vittima. La domanda, a tal proposito, emerge inevitabile e misteriosa: come mai molti di noi continuano a fumare visto che è a tutti noto che il fumo, come ricorda la scritta su ogni scatola di tabacco, «nuoce gravemente alla salute»? Trovare risposta a questo interrogativo è tutt’altro che semplice. Il caso del fumatore mette in crisi, infatti, approcci molto in voga come la psicologia evoluzionistica (criticata nel cap. I, paragrafo 3.2) che, per dirla in breve, cercano di spiegare i comportamenti umani sulla base di regole darwiniane come la selezione naturale o la conservazione della specie. L’ornitologo e fisiologo Jared Diamond ha cercato, ad esempio, di spiegare questo fenomeno sulla base del cosiddetto «principio dell’handicap», teoria formulata dai coniugi Zahavi, due etologi israeliani. Questo principio spiega alcuni comportamenti animali, altrimenti incomprensibili. Quando ad esempio una gazzella di Thompson avvista un lupo, a un primo sguardo ha una reazione insensata. Invece di allontanarsi o di rimanere immobile per studiare le mosse del predatore, quella dà vita a un comportamento che gli etologi chiamano stotting e che consiste nel saltare sul posto con tutte e quattro le zampe. Il fatto è bizzarro perché, almeno in apparenza, del tutto controproducente: la gazzella, saltando sul posto, spreca energie senza aumentare la distanza tra sé e il lupo. La teoria degli Zahavi spiega il fenomeno affermando che, in buona sostanza, la gazzella esibisce un comportamento comunicativo. La preda, saltando, sta dicendo al lupo: «Attento! Vedi come sono agile? Non ti conviene provare a prendermi, perché ti sfuggirei». Il comportamento è quindi costoso ma meno di quanto lo sarebbe un inseguimento con relativa fuga: l’apparente spreco di energie è in realtà una forma di economizzazione delle risorse. La lesione che la gazzella si autoinfligge (affaticarsi saltando sul posto) 245
serve, in altre parole, a dimostrare la sua forza, ad allontanare i predatori e, in altri contesti, a rafforzare il proprio status nel gruppo dei conspecifici (Zahavi, Zahavi, 1997). La mossa teorica di Diamond consiste nell’assimilare l’apparente irrazionalità della gazzella che salta da ferma a quella del fumatore che, accendendosi una sigaretta, danneggia la propria salute. Anche quest’ultimo esibirebbe un comportamento evolutivamente costoso per mostrare la propria potenza: Chi fuma può avere l’alito sgradevole, e chi beve può essere impotente a letto: entrambi però sperano di impressionare i loro simili o le loro partner grazie all’esibizione della loro superiorità implicita (Diamond, 1991, p. 250).
Il problema è che, come è costretto ad affermare lo stesso Diamond, a differenza della gazzella per il fumatore «i costi sono superiori ai benefici» (ivi, p. 256). Quale forma di riscatto sociale può compensare la morte negli ultimi cinquanta anni di 60 milioni di persone, un numero di vittime superiore a quelle provocate dalla prima e dalla seconda guerra mondiale messe insieme? Essere piú attraente può valere una pratica che causa circa il 90% dei tumori polmonari? Un’ottica rigidamente evoluzionista non solo non dà risposta all’interrogativo ma rende, al contrario, la domanda ancora piú misteriosa. Nel caso dell’essere umano, il principio dell’handicap deve essere infatti rovesciato: mentre la gazzella nasce già adatta al suo ambiente e, danneggiandosi, mostra l’esuberanza della sua predisposizione alla propria nicchia ecologica, l’Homo sapiens nasce, per cosí dire, già con un handicap (la mancanza di un ambiente) e ad esso deve mettere, in qualche modo, riparo. Si tratta di condotte riparatorie che assumono però un carattere apparentemente inspiegabile perché, per curarsi, l’animale umano si ammala ulteriormente. Come mai? Come abbiamo visto in precedenza (cap. II, paragrafo 4; cap. IV, paragrafo 5.1), la peculiarità della condizione genetica umana fa sí che per l’Homo sapiens l’intimità non sia semplicemente un aspetto secondario di una strategia riproduttiva e d’allevamento quanto una condizione essenziale per la sua so246
pravvivenza: cure tattili e parentali costituiscono la condizione di possibilità organica per il suo sviluppo. Per questa ragione, durante la crescita si crea un conflitto: […] il fondamentale impulso di toccarci rimane e si pone l’arduo problema di scoprire come lo soddisfiamo nella routine quotidiana al di fuori della cerchia familiare (Morris, 1971, p. 115).
A tal proposito Morris sostiene che il comportamento umano si caratterizza per un progressivo rimpiazzamento delle figure primarie dell’attaccamento con delle forme sostitutive. Esse possono essere classificate in surrogati d’intimità umani, animali e inanimati. I primi sono definiti dall’etologo inglese «toccatori di professione» (ivi, p. 174): parrucchieri, massaggiatori, medici o sarti ad esempio dispensano contatto attraverso canoni precisi, codificati dalla nostra cultura. Il secondo tipo è costituito dagli animali domestici: il contatto che riceviamo da cani o gatti e le cure che ad essi rivolgiamo esprimono in modo socialmente accettabile il nostro bisogno di intimità. Ma è il terzo tipo quello che riguarda piú da vicino il nostro discorso. Il fumo, infatti, è il primo esempio proposto da Morris per illustrare il concetto di surrogato inanimato. In primo luogo, il fumatore che porta la sigaretta alle labbra sottolinea il legame ontogenetico tra mano e bocca. Soprattutto nei primi tre mesi di vita sia l’esplorazione tattile del mondo che il legame con le figure parentali si esplica tramite la bocca (Bloch, 1994; Mazzeo, in preparazione): proprio perché quello umano è un corpo ultraneotenico le mani e le braccia del neonato non hanno la possibilità di svolgere compiti percettivi complessi. Succhiare il latte dal seno materno cosí come mettere in bocca gli oggetti trovati costituiscono per il bimbo due attività intrinsecamente legate, recto e verso della sua relazione affettiva e cognitiva con il mondo. Tenere tra le dita una sigaretta o stringere tra le labbra la pipa non costituisce quindi un generico «ritorno all’infanzia» quanto l’espressione della sua effettiva permanenza: L’avere qualcosa tra le labbra è un’esperienza calmante per l’animale umano, poiché richiama il rassicurante contatto con il protettore primario, va247
le a dire la madre. È una potente forma d’intimità simbolica e quando vediamo un vecchio succhiare beatamente il cannello della sua pipa diventa chiarissimo che ci accompagna per tutta la vita (Morris, 1971, p. 215).
A tal proposito Morris propone un’idea sulla quale bisogna fare attenzione. In piú di una circostanza l’etologo inglese insiste sul fatto che il fumatore occidentale compensa una mancanza d’intimità dovuta alla particolare organizzazione della nostra cultura: quello occidentale è un mondo tattofobico perché sempre piú «massificato e impersonale» (ivi, p. 8) e che, pertanto, gestisce con una certa riluttanza le dinamiche del contatto. L’etologo inglese mostra la convinzione che una maggiore intimità potrebbe eliminare la necessità di surrogati: Insomma, dobbiamo smetterla di attaccare i sintomi e studiare piú da vicino il problema. Se soltanto potessimo essere meno inibiti con i nostri «intimi», avremmo sempre meno bisogno di sostituti. In attesa di questo progresso, qualunque contatto – o quasi – è meglio di nulla (ivi, p. 234).
Piú volte abbiamo sottolineato il privilegio che la cultura e la filosofia occidentale danno alla vista e al suo presunto primato. In tal senso, Morris ha ragione quando sottolinea che nel mondo occidentale l’esperienza tattile è sottovalutata: sminuita nella teoria, trascurata nella pratica. Ciò però non vuol dire che un giorno sarà possibile fare a meno dei surrogati d’intimità tattile, al massimo è possibile cambiarne la tipologia. Il surrogato non è semplicemente il ripiego di una società disturbata. Esso costituisce, piuttosto, un tratto tipico del mondo umano. Il fumo non costituisce semplicemente il vizio di postura di una cultura visiva o di un individuo stressato dalla velocità della vita moderna. È un sintomo, come dice Morris, ma di un disagio piú profondo perché costitutivo della nostra condizione: un disagio dal quale, come abbiamo visto (paragrafo 4), nasce il linguaggio ma che neanche il linguaggio riesce a lenire. Si tratta, innanzitutto, di un rito: è per questo che lo stesso Darwin nella sua autobiografia afferma: «fumo, dunque sono» (cit. in Kiernan, 1991). In tal senso il fumo, anche nelle società piú tecnologiche, conserva un preciso signifi248
cato antropologico: lenisce l’incertezza intrinseca all’esistenza del bipede implume. Prima della loro distruzione da parte dei coloni americani, alcune tribú pellerossa utilizzavano una pipa, «la grande pipa magica» (ivi, p. 13), per accertare se un membro del gruppo dicesse o meno la verità. Il capo porgeva la pipa al presunto colpevole e, se questo osava fumarla, significava che le sue parole erano degne di fede. Allo stesso modo, il celebre calumet della pace costituisce il sigillo che riesce a dare stabilità a un mondo nel quale né fatti né parole sono fonte di sufficiente certezza: non basta stipulare verbalmente la pace perché è necessario segnarne la presenza condividendone il calore e la forma, il sapore e la tessitura. Il fumo incarna il nostro sentimento d’abbandono, ricorda e, nel contempo, medica la precarietà di un’intimità necessaria ma non per questo scontata. Se in alcune società pellerossa il fumo è ciò che viene dopo la parola perché ne rappresenta il sigillo, nel nostro mondo il fumo viene dopo di essa perché è all’origine di una cultura della sigaretta, della pipa o del sigaro che si esprime in una produzione materiale e in un apprezzamento percettivo raffinati. Ecco che la condizione del funambolo e quella del fumatore rivelano una prossimità maggiore di quanto, in un primo tempo, si sarebbe potuto credere: come il primo trasforma l’instabilità della posizione eretta nella gioia di trovare nuove virtú aeree, cosí il secondo trae sollievo accarezzando la sua pipa17. Si tratta di un conforto duplice che nasce per rimediare all’incertezza della condizione umana ma che diviene a sua volta piacere autonomo, godere intrinseco alla condizione della scoperta, gusto per il tabacco: il fumo non rappresenta solo un mezzo perché si trasforma lui stesso in un fine. Da questo punto di vista, l’esperienza del fumo rappresenta in modo paradigmatico i due volti della neotenia umana dei quali abbiamo parlato nel paragrafo 5.3: per un verso è cura poiché dà protezione a un corpo liminare; per un altro è ricerca poiché permette la conoscenza di nuove forme d’esperienza. Per questa ragione Révész (1938a, p. 186) quando, per sostenere la validità del principio della trasponibilità (secondo il 249
quale il tatto tenderebbe spontaneamente a tradursi in termini visivi: cap. III, paragrafo 2), fa l’esempio della pipa manca clamorosamente il punto. Toccare il suo cannello non richiede, come vorrebbe lo psicologo ungherese, l’associazione con una corrispondente immagine visiva poiché è proprio un «oggetto totale» (Turchetto, 1998, p. 53) come la pipa a dimostrare lo stretto intreccio tra l’esperienza del fumo e il senso del tatto18. Ogni caratteristica della pipa ha un correlato funzionale, che modifica la qualità del fumo e uno tattile che incide sull’esperienza manuale e/o buccale di chi la usa: con la curvatura e la lunghezza, ad esempio, varia la freschezza del fumo e lo sforzo impartito ai denti per tenerla in bocca (ivi, p. 33); la forma della testa modifica il ritmo d’aspirazione (ivi, p. 53); la tessitura del legno contribuisce a determinare la resistenza dell’oggetto e, dunque, la durata della fumata (ivi, p. 10). Il paradosso della condizione del fumatore è spiegabile, di conseguenza, solo se si parte dalla comprensione del carattere omeopatico dell’azione riparatoria umana. Come di fronte a una difficoltà, il bambino osservato da Vygotskij comincia il suo monologo per superare l’ostacolo (cfr. paragrafo 5.3), cosí l’adulto trova sollievo nel parlare delle sue quotidiane disgrazie. Il parlarne, molto spesso, non modifica i fatti: la mia macchina nel parcheggio continua a bruciare, il mio cane non cessa di essere morto, mio fratello persiste nel non farsi vivo. La riparazione di conseguenza non assume necessariamente una direzione diretta, non tutte le condotte riparatorie sono paragonabili all’azione del cacciavite o del martello che mettono a posto ciò che non va. Il problema è che la costruzione di un mondo (edificare abitazioni, indossare abiti, guidare veicoli) non è mai permanente: mentre per perdere la stabilità garantita da una nicchia ecologica è necessaria una mutazione genetica (l’uccello perde le ali) o ambientale (un meteorite colpisce la terra), per l’acutizzarsi della precarietà tipica del mondo umano basta molto meno: è per questo che, piú spesso di quanto vorremmo, è piú confortante una sensazione tattile di secondo grado che il timore di un malanno futuro indotto dal consumo di tabacco. La dipendenza del tabagista 250
non rappresenta che l’altra faccia del virtuosismo del funambolo: proprio perché l’animale umano nasce come un essere malato, spesso è piú importante riuscire a dominare l’insicurezza generata dalla nostra costitutiva labilità che le insidie prospettate dalla precisione della statistica. A volte è necessario accendersi una sigaretta per evitare che le nostre certezze vadano in fumo.
Letture consigliate –
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Per una rassegna critica, completa e recente, delle forme di cultura animale e un confronto dettagliato con le culture umane è molto utile Lestel (2001) che offre un’ottima bibliografia ragionata. Sull’utilizzo di utensili da parte degli scimpanzé, la monografia dello psicologo gestaltista W. Köhler (1961) rimane ancora oggi un testo essenziale e molto chiaro. Su un tema affine, quello del pensiero animale, l’antologia curata da Simone Gozzano (2001) contiene una scelta di testi pubblicati su questo argomento molto equilibrata poiché rappresentativa sia delle interpretazioni continuiste che di quelle discontinuiste. Con un taglio piú psicologico, Vallortigara (2000) fornisce una panoramica piuttosto aggiornata sulla cognizione animale, ricca di dati sperimentali e spunti di riflessione sui fondamenti biologici e cerebrali delle capacità percettive, mnenomiche, associative e dissociative delle diverse forme di vita. Sui ragazzi selvaggi quella di Ludovico (1979) rimane la rassegna piú aggiornata. Malson (1964) offre invece una bibliografia ragionata, una tavola riassuntiva dei casi conosciuti piú completa e, in appendice, propone il testo integrale che descrive uno dei casi piú celebri: Victor dell’Aveyron. Sul rapporto tra forma, dimensioni e sviluppo organico interessante, anche se piuttosto tecnico, è Raff (1996). Per un saggio breve e di piú facile lettura si veda Gould (1977b, saggio n. 21). Il libro di Raff è molto utile perché discute la legge di Dollo da un punto di vista strettamente genetico (si veda anche Marshall, Raff, Raff, 1994): alcuni geni possono rimanere silenti per alcuni milioni di anni e poi, improvvisamente, esprimersi di nuovo riportando l’organismo cui appartengono a una condizione evolutiva precedente. Gli errori di codifica medi nel passaggio da generazione a generazione, infatti, arrivano a distruggere i geni non espressi solo a partire dai sei milioni di anni. Come sottolinea Gould (1993, p. 102), che definisce Louis Dollo «uno dei suoi eroi», il punto è però un altro: anche quando il gene latente si esprime, il paesaggio corporeo nel quale si inserisce non è piú lo stesso di prima. L’inversione, dunque, non può essere totale poiché non può cancellare la storia evolutiva dell’organismo (per la posizione di Gould sulla legge di Dollo si veda il saggio 3 in Gould, 1980 e il saggio 5 in Gould, 1993). 251
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Sul concetto di coevoluzione fondamentale è Deacon (1997). Nel suo libro, lo scienziato americano fornisce una prospettiva affascinante e dettagliata sul rapporto di covariazione tra corpo e linguaggio. Quella umana è una specie simbolica perché, afferma Deacon, «predisadattata». L’autore illustra alcuni processi dell’evoluzione corporea e cerebrale, lo spiazzamento ad esempio, che illustrano con precisione le basi biologiche della plasticità umana. Il libro, che dedica un capitolo (il quinto) al rapporto tra dimensioni del corpo e del cervello, si caratterizza per alcune concessioni alla logica della despecializzazione evolutiva (ad esempio sulla dentizione dei primati: pp. 380 sgg.). Ulteriori approfondimenti circa l’importanza della stimolazione tattile per la crescita e la sopravvivenza di mammiferi, primati e animali umani sono proposti da due testi collettanei in lingua inglese: Barnard, Brazelton (1990) e Field (1995). Entrambi propongono una discussione degli interventi in fondo a ciascun saggio e, nel caso di Barnard e Brazelton, anche una tavola rotonda finale. Al rapporto tra cure tattili e origine del linguaggio fa riferimento il libro di R. Dunbar (1996) nel quale si sostiene che il linguaggio verbale nasce come sostituto della pulizia sociale della pelle tra le scimmie (grooming). I primi capitoli sono ricchi di dati circa il rapporto, nei primati, tra le dimensioni dei gruppi sociali e la grandezza del cervello degli organismi che lo compongono. La seconda metà del libro, invece, va presa con maggiore cautela poiché piena di affermazioni criticabili circa la natura del linguaggio verbale (che servirebbe, ad esempio, a trasmettere pensieri già pronti nella testa) e dei comportamenti culturali umani spiegati, secondo una ottica ultradarwinista, come strategie di propagazione dei propri geni. Per una descrizione della logica partecipativa da un punto di vista antropologico l’opera di Lévy-Bruhl (ad es. 1910, 1922) è ancora oggi una delle piú interessanti. Per una trattazione del tema in termini psicologici e psicanalitici, la logica simmetrica di Matte Blanco (1975; 1988) è definibile a tutti gli effetti come un sistema partecipativo. Mentre rimane quella di Hjelmslev (1935; 1937) l’opera piú completa sul rapporto tra linguistica e partecipazione. Sull’esperienza percettiva di secondo grado rimandiamo a Mazzeo, Virno (2002) e a Fortuna (2002). In entrambi i casi l’analisi di questo concetto parte dall’opera di Ludwig Wittgenstein: il primo saggio si concentra soprattutto sulla nozione, contenuta nella seconda parte delle Ricerche Filosofiche, di «evidenza imponderabile»; il secondo sulla distinzione tra «vedere che» e «vedere come».
Note
I. Animale razionale o bipede implume? 1 2
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«SD» sta per stimolo discriminativo, «R» per risposta e «Rinf.» per rinforzo. Sono di questo avviso ad esempio Gardner (1985), Mecacci (1992), Ferretti (2001), Marconi (2001), Marraffa (2002). Tabossi (1994) e Legrenzi (2002) invece saltano la prima fase e individuano il suo inizio nella fondazione della rivista «Cognitive Science» per il primo, in una conferenza tenuta a La Jolla per il secondo. Luccio (1980) fa risalire la nascita del cognitivismo al 1967, data di uscita del testo di Neisser Cognitive Psychology. Per orientarsi in un panorama tanto sfumato bisogna ricordare però che è decisivo stabilire cosa si intende con le espressioni «cognitivismo» e «scienza cognitiva»: alcuni li utilizzano come sinonimi (usando in certi casi solo uno dei due), altri come termini antagonisti. Noi utilizzeremo il primo termine per indicare la versione originaria e piú dura di questo movimento (nelle sue versioni piú recenti o ancora attuali parleremo di «cognitivismo ortodosso»: si pensi a Chomsky e Fodor); il secondo per parlare di un progetto di ricerca che nasce come riforma del primo con esiti contrastanti (a volte piú aperti a corpo e ambienti, altri con forme di chiusura non minori ma diverse). Parleremo di «cognitivismo eterodosso» per indicare quelle frange (sulla scia di Neisser e Gibson) che non si sono conformate alla ripresa dell’ortodossia. Infine poiché non c’è accordo se utilizzare l’espressione al singolare «scienza cognitiva» o al plurale «scienze cognitive», le useremo entrambe senza fare distinzioni particolari. Naturalmente si tratta di un processo in corso di trasformazione, difficile dunque da riassumere con efficacia senza compiere semplificazioni e ridurre la complessità del panorama teorico. Lo status delle scienze cognitive in Francia ad esempio è particolarmente interessante perché sintomatico delle tensioni che animano questo paradigma. In un recente convegno dedicato al bilancio dell’attività di ricerca cognitiva degli ultimi anni e al suo futuro (Colloque Cognitique 1999-2002, 6-7 décembre 2002, 253
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Paris) è stata espressa, con forza e da piú parti, la necessità di aprire le scienze cognitive alle scienze sociali e storiche. Questa apertura assume, almeno per ora, contorni poco chiari: per un verso sembra emergere l’esigenza di un profondo rinnovamento teorico all’interno delle scienze cognitive che faccia di storia e società caratteri costitutivi e interni della conoscenza umana e che sottolinei soprattutto il carattere interdisciplinare del paradigma (di questo avviso sembra essere anche Marraffa, 2001); per un altro questa idea corre il rischio di materializzarsi in una semplice estensione del modello cognitivo, nell’applicazione in altri domini dell’attività conoscitiva umana degli stessi strumenti teorici utilizzati finora (teoria rappresentazionale della mente, modularità, ecc.). La stessa ambizione di fare delle scienze cognitive il punto di raccordo tra scienze della natura e scienze dello spirito assume un valore ambivalente poiché tende a fare delle scienze cognitive sia un semplice campo disciplinare (lo studio interdisciplinare della conoscenza umana) che un paradigma teorico che definisca cosa sia la conoscenza umana sulla scorta di una tradizione cognitivista piú o meno riformata. Per una critica serrata ed efficace, all’interno del paradigma cognitivista, alla Nuova Sintesi rimandiamo a quest’opera. Le perplessità espresse da Fodor sull’ipotesi della modularità massiva, come lui la chiama, non costituiscono, si badi, un ripensamento da parte del filosofo americano. L’importanza dei sistemi centrali di elaborazione era già sottolineata nella Mente modulare. Il punto è che per Fodor non è possibile uno studio scientifico della mente nei suoi aspetti non modulari: un’estensione della modularità non risolve il problema (il paradosso dell’hangar). Ma neanche confinare lo studio di mente e natura umana, aggiungiamo noi, lo risolve. I tentativi di naturalizzazione della mente proposti da Fodor incappano nello stesso problema fondamentale (per una rapida ma efficace ricostruzione di questo percorso si veda Ferretti, 2001). In tal senso, ad esempio, il testo di Paternoster (2001) è molto interessante. Per un verso è alla ricerca del delicato equilibrio tra fedeltà al progetto cognitivo e, al contempo, apertura a una concezione pragmatica della percezione. Per un altro, anche in questo caso il percepire è ancora una volta schiacciato sul vedere. A causa della «sua indubbia preminenza epistemica» (ivi, p. 9), la visione avrebbe infatti «un posto in qualche modo privilegiato» (ivi, p. 111). Anche altri due testi introduttivi, molto recenti, non mettono in discussione questa identificazione: mentre in Marraffa (2002) essa è implicita poiché si fa riferimento solo alla percezione visiva, in Legrenzi (2002, p. 104) si afferma addirittura che «nei primati e nell’uomo piú del 50 per cento della corteccia cerebrale è dedicato all’analisi dei processi visivi». La progettazione di bracci meccanici, settore importante dell’ingegneria robotica, sembra in tal senso fare eccezione. Si noti però che l’attenzione è di solito concentrata solo sull’elemento operativo del tatto e non su quello sensoriale: è importante solo l’efficacia della prestazione industriale (precisione, velocità, economia). Gli aspetti piú propriamente sensoriali sono esaminati solo quando è indispensabile per ottimizzare la
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prestazione. A questa obiezione, infatti, non sembra sfuggire del tutto neanche la Nuova Robotica illustrata da Clark (1997, p. 21) che cita il tatto una sola volta. Fondiamo questa affermazione sulla base di una ricerca compiuta sugli ultimi quindici anni (1985-2000) del Social Science Citation Index (SSCI) e dello Science Citation Index (SCI). A differenza di altri testi sulla percezione (abbiamo scelto come campione nove libri sulla percezione e sul tatto tra cui Kennedy, 1993; Lewkowicz, 1994; Barnard, Brazelton, 1990) citati al massimo una decina di volte, il testo di Coren, Ward e Enns viene menzionato ben 68 volte. Chomsky (1963) costituisce un buon esempio di questa tendenza: in questo testo, intitolato Perception and Language, con «percezione» si intende in realtà «udito» e con «udito» si intende «elaborazione del linguaggio parlato». Piú che di Percezione e linguaggio si tratta di percezione del linguaggio. Come vedremo nel capitolo IV, quaranta anni dopo Chomsky è ancora di questo avviso (Hauser, Chomsky, Fitch, 2002). Per un’analisi approfondita di questo punto siamo costretti a rimandare a Mazzeo (in preparazione). Per ora, ci limitiamo a dire che ipotesi come quelle dell’esistenza di proprietà visivo-spaziali delle rappresentazioni mentali (cfr. Ferretti, 1998, pp. 131 sgg.) aiutano a procedere in questa direzione. Non capiamo però perché, visto che si tratta di caratteristiche comuni a piú sensi, sia necessario chiamarle visivo-spaziali e non semplicemente spaziali.
II. L’animale sprovveduto 1
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Anche Damasio in realtà non distingue con precisione sistema nervoso e cervello utilizzando spesso questi termini come sinonimi. Si tratta invece di una distinzione utile che ci aiuta a non cadere nell’illusione filosofica del «pensiero nella testa». Cfr. ad es. Gehlen, 1961; Pansera, 2001. Come vedremo nel capitolo IV (paragrafi 6-6.2), questa affermazione non è esatta. I carceri non sono diversi dagli hangar di cui abbiamo parlato nel primo capitolo: anche il loro indefinito ampliamento determina cambiamenti interni imprevisti. In questo caso l’imprevisto è costituito da esperienze non linguistiche che nascono dal linguaggio. Come dire: ogni gabbia crea i suoi evasori. Piú di recente, Lo Piparo (2003) ha ulteriormente approfondito la posizione secondo la quale «l’uomo è linguaggio» (ivi, p. 4) nella sua lettura del pensiero di Aristotele. Per una introduzione alla filosofia di Herder si veda Tani (2000a). Per una discussione sull’attualità del suo pensiero rimandiamo agli interventi di Tani (2000b), Stancati (2000a), Virno (2000) e Fortuna (2000), tutti nello stesso numero del Bollettino Filosofico del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria. Per il contributo di Schopenhauer alla distinzione tra mondo e ambiente rimandiamo a Mazzeo, in stampa. In alcune conferenze tenute negli anni sessanta Portmann cita Scheler, 255
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Bolk, Gehlen (Portmann, 1962, pp. 296-299) e Uexküll (ivi, pp. 287-288; Portmann, 1963, pp. 419-421). È probabile che conoscesse le loro opere sin dagli anni quaranta quando condusse le sue ricerche sullo sviluppo ontogenetico dei mammiferi. Autocontrollo in senso lato quindi: come dispositivi di equilibrio per la dinamica di un corpo bipede (cfr. cap. IV, paragrafo 3 sgg.; paragrafo 6.1); come forme di esonero per un animale iperesposto all’esperienza (cfr. paragrafo 3.2). Plessner è considerato insieme a Scheler e Gehlen uno dei padri dell’antropologia filosofica. Per la presentazione del suo pensiero rimandiamo a Crispini (2000) e Pansera (2001). Non a caso, Linneo (1758), quando nella decima edizione del Sistema naturae conia il termine «primate», comprende in questa classe anche il pipistrello (Schwartz, 1987, p. 141). Cfr. ad es, Lorenz, 1973, pp. 222, 275, 304 sgg., 310, 314 sgg., 408. La questione, come sappiamo, è molto complessa e controversa (per una discussione aggiornata cfr. Tattersal, 1998; Biondi, Rickards, 2001). Sarebbe interessante rileggere il materiale paleoantropologico a nostra disposizione e vedere se, a ottanta anni di distanza, la teoria della fetalizzazione di Bolk è ancora plausibile anche da questo punto di vista. Gould (1977a), che ne parla ampiamente, sembra ritenere di sí. In un libro recente Gribbin e Cherfas (2001) compiono un primo tentativo in questa direzione con risultati molto suggestivi. Cfr. paragrafo 3.3. Bisogna precisare che la selezione K non ha come esito automatico la fuga dalla specializzazione, cosí come la selezione R quella opposta: si tratta piuttosto di segnalare l’usuale amalgama tra fattori che rimangono tra loro distinti. Per una discussione del problema si veda Gould (1977a). Forse per questa ragione sarebbe piú corretto parlare di «ultrapedomorfosi» piuttosto che di «ultraneotenia». Bisogna considerare però che dopo questa iniziale accelerazione tutti gli altri tratti sono propriamente neotenici (le modalità di selezione, la maturazione sessuale): si tratta in tal senso di uno sviluppo che «tende al nuovo» in senso proprio: sia perché resiste al vecchio, sia perché si affretta a dar vita a un corpo autonomo. Un processo, quest’ultimo, che ci avvicina ai marsupiali poiché con essi condividiamo un periodo di esterogestazione, cioè di gravidanza esterna: cfr. Montagu, 1971; Anderson, 1995.
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III. Nelle nostre mani 1 2
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Per una critica piú dettagliata delle affermazioni di Sacks (1995) rimandiamo a Mazzeo, 2001b. Come ricorderà anche Gibson (cfr. paragrafo 3), l’altro grande studioso della percezione tattile nella prima metà del novecento è David Katz (1884-1953). Lo psicologo tedesco di formazione gestaltica è, infatti, l’autore di Der Aufbau der Tastwelt (1925) tradotto nel 1989 in lingua inglese (The World of Touch) e molto citato in letteratura. Purtroppo, motivi di spazio ci proibiscono di approfondire in questa sede l’importanza teorica e sperimentale del suo lavoro.
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Con «origine del linguaggio» non intendiamo naturalmente la ricostruzione delle condizioni fattuali che hanno portato il primo Homo sapiens a parlare (l’idea stessa è priva di senso: cfr. cap. IV, paragrafo 4). Con questa espressione, rifacendoci a Saussure (1922), ci riferiamo al tentativo di individuare i tratti costitutivi di quella che il linguista ginevrino chiama «facoltà di linguaggio» (si veda a tal proposito Virno, 1999, pp. 67 sgg. e Gambarara 2003). Hatwell (1986, pp. 45 sgg.) e Masini, Antonietti (1992, pp. 117-118) sottolineano la distanza teorica che separerebbe i due. Come abbiamo detto, esistono delle differenze di impianto teorico che però non vanno esagerate: non dobbiamo dimenticare, ad esempio, che Gibson cita Révész a conferma delle sue ipotesi e non come obiettivo polemico (cfr. Gibson, 1962, p. 477; Gibson, 1966, pp. 116, 123). Come sottolinea la psicologa Yvette Hatwell (1986, p. 34) si tratta di due funzioni in realtà tra loro solidali: al livello neuronale, ad esempio, questa vicinanza è dimostrata dalla contiguità spaziale tra le aree primarie sensoriali e motorie. Al contrario, le grandi scimmie africane (e altre specie, come i panda ad esempio: Gould, 1980) hanno mani specializzate: le dita sono flesse; cuscinetti callosi proteggono le falangi che durante la locomozione devono sopportare il peso di tutto il corpo; legamenti e tendini sono rinforzati per evitare l’indolenzimento che comporterebbe scaricare decine di chili sulle nocche (Schwartz, 1986, p. 110). Biondi e Rickards (2001, pp. 44-46, 146) interpretano il dato proprio in questa maniera. Durante una lunga conversazione anche Felice Cimatti, per altro molto distante dalle posizioni dei due studiosi italiani, ha sottolineato con enfasi che questa sarebbe una delle prove conclusive contro la tesi sostenuta in questo libro. A tal proposito Daniele Gambarara (2000a) afferma che il «prendere in braccio» costituisce una delle manifestazioni piú significative di quel riconoscimento reciproco, simbolico e sociale, che costituisce una condizione di possibilità per il linguaggio verbale. Questo paragrafo costituisce la rielaborazione di una relazione presentata all’VIII congresso della Società di filosofia del linguaggio (Cosenza 20-22 settembre 2001) intitolata «Vedere con la pelle» (in Gambarara, 2002). Molti testi che si occupano di percezione tattile contengono almeno un commento sul TVSS. Solo per fare qualche esempio: Montagu, 1971, pp. 141 sgg.; Hatwell, 1978, pp. 506 sgg.; Hatwell, 1986, pp. 41 sgg.; Masini, Antonietti, 1992, p. 116; Kennedy, 1993, p. 293; Coren, Ward, Enns, 1999, pp. 237-238; Roberts, Wing, 2001, p. 52. Anche il volume collettaneo curato da Hatwell, Streri e Gentaz (2000) contiene un saggio dedicato al TVSS (Lenay et al., 2000) seppur molto critico. La durata della fase di addestramento varia notevolmente da esperimento a esperimento poiché parte da un minimo di venti ore e arriva a un massimo di centocinquanta (Bach-y-Rita et al., 1969, p. 963; White et al., 1970, p. 23). Non solo in Italia: cfr. Lenay et al., 2000, p. 287. Si potrebbe forse obiettare che la mancata diffusione del TVSS dipende semplicemente dal fatto 257
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che stiamo parlando di un prototipo sperimentale e, come tale, non disponibile sul mercato. Questo strumento è invece presente in commercio (seppur a caro prezzo, circa 45000 dollari): nonostante ciò, la sua diffusione è nulla (ivi, p. 300). Cfr. ad es. Bach-y-Rita, 1972, p. 93; 1997, p. 91. Sembrano essere di questo avviso Hatwell (1986, p. 42), Masini e Antonietti (1992, p. 116) e Ferretti (1998, p. 134). Le forme di sintonizzazione embrionale tra feto e madre di cui parla ad esempio Pennisi (1994) forse non sono forme propriamente uditive ma tattili-vibratorie: non si tratta infatti del porsi in ascolto di due entità distinte, ma di un corpo che vive in risonanza con l’altro. A tal proposito, sia Antonio Pennisi che Tommaso Russo hanno espresso la loro perplessità circa la costruzione di una gerarchia sensoriale o l’avvio di una nuova «guerra» tra sistemi percettivi. Vogliamo ribadire, però, che il primato del quale abbiamo parlato qui è di tipo genetico e ontico: né cognitivo né ontologico (cfr. cap I, paragrafo 4.3). Una prova sperimentale (Miletic, 1994) conferma questa ipotesi. Nella risoluzione di compiti di rotazione mentale, ciechi con l’ausilio di un Optacon modificato danno prestazione migliori di soggetti non vedenti che ne sono sprovvisti. Quando, però, a quegli stessi soggetti viene sottratto l’apparecchio vibro-tattile le loro performances peggiorano. È come se questi sistemi piú che protesi percettive costituissero un semplice ausilio grafico. Se posso vedere o toccare una figura, questo mi aiuta nei compiti di rotazione mentale ma quando l’immagine scompare la difficoltà aumenta di nuovo. Questa espressione è usata esplicitamente dagli stessi autori dell’esperimento: cfr. Scadden, 1969, p. 678; Bach-y-Rita et al., 1969, p. 964. Ringraziamo Loretta Secchi dell’Istituto per ciechi Cavazza di Bologna per averci dato la possibilità di consultare, seppur ancora in stampa, i testi di John Kennedy e Mario Mazzeo.
IV. Esperienza tattile e facoltà di linguaggio 1
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Parliamo di utilizzo culturale di strumenti per distinguere la pesca alle termiti da casi nei quali l’impiego di utensili assume un significato diverso come, ad esempio, i rami utilizzati da molte specie di uccelli per costruire il nido. Questi comportamenti, infatti, sono comuni a tutta la specie poiché necessari alla sopravvivenza: costituiscono però il frutto di un’applicazione rigida e istintuale di schemi innati e, dunque, non sono forme culturali. In questo senso il confronto tra due bambine allevate da lupi nel 1920 in India e un ragazzo cresciuto negli anni sessanta tra le gazzelle nel deserto del Sahara è impressionante: le prime mangiano solo carne cruda e latte, mandano lunghi ululati, di notte sono sveglie e di giorno non vedono bene (Ludovico, 1979, p. 38); il secondo è esclusivamente erbivoro e mangia radici strappandole dalla terra, manda segnali con mani, piedi e naso (gli stessi utilizzati dal branco in cui vive), ha un ritmo del sonno breve e irregolare e ha una vista diurna molto acuta (ivi, pp. 52-53).
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Con una sola eccezione: la fanciulla di Cranenburg che le cronache sostengono sia stata lasciata sola all’età di 16 mesi. Questo paragrafo, insieme al § 6.1, costituisce la versione modificata e parziale di un articolo apparso sul numero 17 (2001) della rivista Bollettino filosofico. In questa sede, parleremo solo del modo in cui le dimensioni corporee costituiscono una condizione di possibilità spaziale per il linguaggio. In realtà la taglia ha anche importanti risvolti temporali poiché, ad esempio, è legata intrinsecamente alla lunghezza dei tempi di maturazione del corpo (dunque alla sua neotenia). Per la trattazione di questo aspetto rimandiamo all’articolo. Come di consuetudine, Fodor propone un’analisi ordinata ed elegante del problema. Come è possibile evitare infatti una deriva dell’attribuzione delle rappresentazioni che assegni stati mentali anche a meccanismi semplici come i termostati o organismi elementari come i parameci? Senza mezzi termini Fodor si fa carico dell’obiezione mossa da Dennett alla nozione cardine della scienza cognitiva. Secondo Dennett, infatti, non è chiaro quale criterio sia possibile trovare per segnare il confine tra sistemi intenzionali, organismi o artefatti (i computer, in primis) il cui comportamento può essere spiegato solo facendo ricorso alla nozione di rappresentazione mentale e i sistemi non intenzionali per i quali invece sarebbe sufficiente un modello piú semplice, di tipo stimolo-risposta. Proprio per questa ragione, Fodor afferma che la proprietà comportamentale che presuppone l’esistenza di rappresentazioni mentali è ciò che taglia in due il «continuum filogenetico» (ivi, p. 12). Il tentativo di Fodor è interessante perché, come abbiamo accennato, il filosofo americano fa l’esempio del paramecio: una forma di vita presa in esame sia da Uexküll che da Heidegger. L’analisi di Fodor si concentra su una distinzione chiave, quella tra proprietà nomiche e proprietà non nomiche. Le prime sono esibite da sistemi fisici il cui comportamento può essere spiegato in base a leggi psicofisiche; le seconde sono invece quelle proprietà possedute da sistemi il cui comportamento non può essere spiegato solo attraverso leggi psicofisiche. Di conseguenza, le proprietà nomiche riguardano non solo i cambiamenti di stato del termostato, risposte automatiche ai cambiamenti di temperatura del suo ambiente (l’acqua dello scaldabagno ad esempio), ma anche le reazioni del paramecio di allontanamento e attrazione poiché regolate in modo meccanico dalla presenza di luce o cibo. Da un punto di vista evolutivo, Fodor sostiene che la deriva mentalista paventata da Dennett può essere scongiurata individuando una proprietà P che non risponda a una relazione nomica con l’ambiente. Questa proprietà P è identificata con la capacità di generare nessi semantici, di spezzare la catena causale fisica e, dunque, di generare rappresentazioni (ivi, p. 14). Detto in altre parole, secondo Fodor è la rappresentazione mentale ciò che ci consente di non essere ingabbiati in una relazione rigida con l’ambiente, di evadere dalla prigione fisica in cui i parameci vivono e i termostati funzionano: «la risposta selettiva a proprietà non nomiche è, dal nostro punta vista, il grande problema evolutivo per risolvere il quale la rappresentazione mentale è stata inventata» (ibidem). Purtroppo la risposta di Fodor a questo «grande problema 259
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evolutivo» non sembra essere soddisfacente. Per certi aspetti, non sembra essere neanche una risposta. L’ortodossia cognitiva di Fodor, infatti, non solo ripropone i problemi suscitati dal riduzionismo linguistico (cfr. cap. II, § 3) ma li aggrava. In primo luogo se la riduzione della natura umana al linguaggio verbale pone quest’ultimo come un deus ex machina, la proposta di Fodor si ritrova nello stesso impasse. Come mai alcuni sistemi sono rappresentazionali e gli altri no? Come emerge la fatidica proprietà P dalle proprietà non P? Ma non solo. Mentre il riduzionismo linguistico ha il vantaggio di poter descrivere la nostra natura sociale e storica come intrinseca all’animale umano, il rappresentazionalismo ha anche il problema di spiegare come la rappresentazione si faccia linguaggio e, soprattutto, lo spiacevole inconveniente di considerare il carattere sociale e culturale della conoscenza umana come qualcosa di aggiunto e succedaneo, secondario o innestato. Fodor afferma che capire «quali proprietà delle cose siano quelle che stabiliscono relazioni nomiche con ciò che le circonda è, in senso lato, una questione empirica» (ivi, p. 9). Da un punto di vista filosofico è invece decisivo comprendere quali siano le relazioni nomiche che il nostro corpo deve instaurare con i suoi dintorni e quali no: in che senso, come dicevamo nel primo capitolo, siamo animali e in che senso umani. Da un lato il nostro organismo è costituito di cellule, sangue, tessuti, ossa e muscoli come le altre specie viventi (perlomeno quelle vertebrate); dall’altro la nostra vita si nutre di linguaggio e cultura, parole e immagini ed è questo che la rende propriamente umana. Come mettere insieme questi due aspetti, tanto decisivi per la nostra natura? L’impostazione di Fodor lascia irrisolto il problema di capire come la mente umana emerga dal regno animale o, detto in altri termini, di comprendere quale sia la relazione tra biologia e cultura, tra il nostro corpo e la nostra mente. Il filosofo americano afferma esplicitamente che la teoria rappresentazionale nasce per risolvere un problema evolutivo. Paradossalmente quella che fornisce Fodor è però una risposta fissista perché considera irrilevante il problema di come le proprietà non nomiche nascano da proprietà nomiche. Fodor, detto in altri termini, non ci dice come mai il paramecio non parli e non abbia rappresentazioni (contro l’identificazione tra parlare e pensare si veda Gambarara, 1996). Swift (1728, p. 47) invece immagina che i lillipuziani possano vedere poco in lontananza ma che, in compenso, possiedano una formidabile acuità visiva. La variazione dimensionale colpisce, inoltre, anche un organo di senso strettamente connesso al linguaggio verbale, l’udito. Nei mammiferi infatti il timbro della voce è inversamente proporzionale al quadrato delle dimensioni lineari della superficie che vibra, cioè delle corde vocali. Come sottolinea D’Arcy Thompson (1961, p. 44), le dimensioni delle corde e della membrana del timpano sono direttamente proporzionali a quelle del corpo. Risultato: un lillipuziano avrebbe un timbro di voce acutissimo (di circa 37000 cicli al secondo), un suono piú alto e flebile dello squittio di un topo, impercettibile per il nostro orecchio che percepisce suoni di al massimo 10000 cicli al secondo. Se anche esseri cosí deboli di mente e di vista potessero parlare, noi non potremmo sentirli.
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In un articolo molto recente Chomsky (Hauser, Chomsky, Fitch, 2002) propone di distinguere due sensi nei quali intendere l’espressione «facoltà del linguaggio». La prima lo è in senso largo (FLB: faculty of language broad sense) e comprende una serie di sistemi senso-motori e concettuali-intenzionali propri dell’essere umano ma comuni ad altre specie animali: costituisce una struttura altamente specifica paragonabile all’occhio per i vertebrati. La seconda è invece una facoltà del linguaggio in senso ristretto (FLN: faculty of language narrow sense) e comprende quella capacità sintattico-ricorsiva propria solo del linguaggio verbale, evolutasi di recente e che non ha alcuno omologo nel regno animale. L’idea di fondo, anche in questa versione recente piú aperta verso il pensiero evoluzionistico, rimane la stessa poiché segna una distanza netta tra FLB e FLN. L’unica connessione genetica e strutturale ipotizzata tra le due riguarda la storia evolutiva della ricorsività che, secondo Chomsky e collaboratori, sarebbe consistita nel passaggio da un modulo animale dedicato a un compito cognitivo specifico (come ad esempio l’orientamento spaziale) a un sistema generale che può essere applicato a qualunque situazione: una variante dell’idea che il linguaggio sia una forma di despecializzazione (cfr. § 2). Inoltre Chomsky e collaboratori affermano a piú riprese che le loro sono ipotesi scientifiche e, come tali, in futuro falsificabili sulla base di nuovi dati. Si tratta di un esempio concreto del carattere ambivalente che negli ultimi anni sta segnando il rinnovamento delle scienze cognitive. Si afferma di essere evoluzionisti ma si sostengono le stesse idee di fondo; si sostiene di essere disposti a rivedere le proprie posizioni sulla base di dati futuri, tralasciando di discutere proprio quei dati che già da oggi sono in grado di metterle in difficoltà. A dimostrazione di ciò, quando prendono in considerazione i sistemi percettivi che costituirebbero la FLB, Hauser, Chomsky e Fitch parlano solo delle capacità uditive, delle vocalizzazioni e della discesa della laringe. Rimane l’idea, piuttosto naïve, secondo la quale le capacità percettive fondamentali per la facoltà del linguaggio siano solo quelle che servono alla percezione del linguaggio. L’interazione tra esperienze tattili precoci e durata della vita è resa complessa da almeno due fattori. In primo luogo per diverse specie svolge un ruolo decisivo il rispetto di periodi critici per lo sviluppo: sia i ratti (cfr. anche Levine, 1960, p. 86) che i topi, ad esempio, traggono giovamento dalla stimolazione solo se compiuta entro i primi dieci giorni di vita. Nel caso questa avvenga successivamente, tra i dieci e i venti giorni, non solo la durata di vita non si allunga ma addirittura diminuisce. In secondo luogo la stimolazione tattile precoce sembra avvantaggiare in termini di durata di vita soprattutto gli organismi con tempi di sviluppo piú lenti: le forme di vita che maturano velocemente risentono dell’accelerazione genetica prodotta dalla stimolazione tattile (Denenberg, Karas, 1959). Nella predilezione verso surrogati di stoffa a quelli di metallo, la percezione visiva del surrogato sembra svolgere un ruolo modesto poiché l’effetto rassicurante sui cuccioli è inferiore a quello tattile (Harlow, 1958, pp. 681-684; Harlow, Zimmermann, 1959, p. 429). L’importanza della vista emerge soprattutto dopo che il cucciolo e la madre-sostituto sono sta261
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ti allontanati da alcuni giorni: solo in questo caso il piccolo scimpanzé guarda la bambola di pezza piú a lungo rispetto a quella metallica. Almeno nei primi cinque giorni di vita, i diversi effetti del parto vaginale rispetto a quello cesareo sono riscontrabili, ad esempio, anche nei macachi (Meier, 1964). In questa sede non abbiamo lo spazio per argomentare piú nello specifico la diversità della somestesia umana da quella animale: neotenia e morfologia simmetrico-riflessivo ne costituiscono in ogni caso le coordinate fondamentali poiché ne testimoniano la maggior plasticità. A tal proposito Deacon (1997, pp. 229 sgg.) ricorda, ad esempio, che le vocalizzazioni umane sono rese possibili da una sorta di inversione gerarchica tra il sistema viscero-emozionale (piú rigido e automatico) e il sistema muscolo-scheletrico (piú elastico e volontario): mentre nelle altre specie è il primo ad essere piú importante, nell’Homo sapiens la figura si fa sfondo e finisce per assumere un ruolo secondario a vantaggio di un controllo piú fine del proprio corpo. L’intimo legame tra percezione del corpo interno ed esterno è dimostrato dai casi di autotopagnosia (agnosia dell’immagine corporea): chi è affetto da questo disturbo non solo stenta nel riconoscere parti e orientamenti del proprio corpo ma anche in quelli altrui (Schilder, 1935, p. 72). A proposito dell’autoavvertimento o episensorialità, come la chiama Lo Piparo (2003, p. 20), si potrebbe obiettare che di ciò sono capaci anche la vista e l’udito: la vista regola il vedere prendendo come coordinata spaziale il naso; con l’udito siamo in grado di percepire (e dunque di correggere e impostare) la nostra voce. Bisogna però fare attenzione: in tutti e due i casi si tratta di autoavvertimenti parziali (poiché riguardano solo parti limitate del nostro corpo) e, soprattutto, sinestetici. Quando l’occhio vede il naso, percepisce una parte del corpo e non una parte di sé (l’occhio non vede se stesso). Quando le orecchie sentono la nostra voce, percepiscono un prodotto articolatorio frutto di un’azione somestetica (l’abbassamento del diaframma, il movimento della bocca, ecc.). Da questo punto di vista, il caso piú interessante è un altro, costituito dalla vibrazione, poiché rappresenta il momento di collasso tra uditivo e tattile: per la trattazione di questo tema rimandiamo a Mazzeo, 2002b. Esiste, naturalmente, almeno una terza caratteristica fondamentale del linguaggio umano, la contestualità (cfr. Gambarara, 1998). Non trattiamo esplicitamente questo aspetto poiché è interno alla nozione di mondo: poiché non nasciamo con un contesto già stabilito (un ambiente), abbiamo la necessità di creare il nostro. Le fluttuazioni di senso delle parole delle lingue storico-naturali esprimono la varietà e la labilità dei contesti per un animale che nasce privo di nicchia ecologica. Sul legame intrinseco tra contestualità e performatività si veda Prampolini (1999, pp. 124-129). In questa sede non possiamo dilungarci su questo punto sebbene importante. Ci limitiamo a rimandare alla Categoria dei casi, nella quale Hjelmslev applica questo principio all’analisi delle lingue storico-naturali. È da notare che le tre dimensioni in cui si svolgono le opposizioni partecipative indicate da Hjelmslev sono tattili: quella dell’avvicinamento, del con-
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tatto (intimità) e della posizione corporea (soggettività). Nel 1927 il linguista danese intervenne all’undicesimo convegno internazionale di psicologia a cui parteciparono come relatori Révész (con la relazione sulla differenza tra mani umani e arti dei primati che abbiamo citato nel cap. III, § 5) e D. Katz (cfr. Piéron, Meyerson, 1928). Non è escluso che questo abbia potuto incidere su alcune delle idee espresse da Hjelmslev. In piú di una circostanza, Vygotskij (1934, p. 23, 25, 80, 103, 172-176, 397-398; 1978, p. 63) dà prova di aver letto con attenzione almeno tre dei testi in cui Lèvy-Bruhl parla dei rapporti partecipativi: Psiche e società primitive (1910), La mentalità primitiva (1922) e Il pensiero primitivo (1930). È particolarmente interessante il fatto che nel quinto capitolo di Pensiero e Linguaggio lo psicologo russo (Vygotskij, 1934, pp. 175176) instaura esplicitamente un parallelismo tra partecipazione e pensiero nei primi stadi genetici anche se crede giusto intendere questa nozione in modo piú blando: non come processo di identificazione quanto di imparentamento. Detto per inciso, anche il fumo è un’esperienza legata alla nostra taglia corporea, quindi, fisicamente impossibile per il mondo di Lilliput. Come ricorda Went (1968, pp. 404-405), infatti, una fiamma non può essere piú piccola di qualche millimetro: deve essere grande abbastanza per portare l’aria a una temperatura sufficiente e innescare il processo di accensione. Naturalmente esiste anche una dimensione gustativa dell’esperienza del fumo: quella che ci fa preferire un tabacco a un altro, una particolare marca di sigarette. La nostra ipotesi è che questo aspetto sia secondario rispetto al suo valore di intimità tattile.
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Indice dei nomi
Arnheim R., 172 Bach-y-Rita P., 163-171, 181, 187, 257, 258 Bacone (Francis Bacon), 24 Barnard K.E., 252, 255 Benjamin J.D., 221 Berkeley G., 67 Bernstein L., 221 Berthoz A., 72 Binkofski F., 67 Biondi G., 127, 160, 191, 199, 256, 257 Biscuso M., 15 Bliss J.C., 171 Bloch H., 247 Blumenberg W., 139, 141, 153, 173 Bolk L., 98, 99, 101-104, 107, 112, 119-121, 127, 256 Bonner J.T., 78, 209 Bosco E., 15 Brandom R., 38 Brazelton B.T., 252, 255 Caldji C., 222 Cardona G.R., 69 Carpenter P.A., 187 Cartesio (René Descartes), 24, 25, 28, 53-55, 65, 84 Cavalieri R., 237 Cherfas J., 127, 191, 256
Cheselden W., 84 Chomsky N., 25, 27, 28, 37, 38, 43, 45, 54, 55, 59, 64, 71, 210, 233, 253, 255, 260, 261 Cimatti F., 11, 15, 71, 86-89, 110, 127, 157-158, 194, 204, 219, 257 Claparéde E., 67 Clark A., 72, 255 Clegg E.J., 159 Collins C.C., 170 Coren S., 59, 142, 255, 257 Cornoldi C., 188 Crispini I., 256 Damasio, 64, 65, 70, 76, 226, 255 D’Arcy W., 204, 208, 242, 260 Darley J.M., 229 Darwin C., 22, 54, 191, 248,-270 Davidson D., 42 Deacon T., 210, 212, 213, 252, 262 De Martino E., 237 Denenberg V.H., 221, 261 Dennett D., 164, 165, 167, 168, 259 De Renzi E., 67 Detti L., 15, 92 Diamond J., 245, 246 Dollo L., 199-201, 251 Dunbar R., 252 Eibl-Eibesfeld I., 120, 121, 124 Eisenberg P., 187 279
Eldredge N., 49, 119, 122 Eliot L. Enns J.T., 59, 142, 255, 257
Houdé O., 35 Hull J., 188 Huxley A., 127
Ferretti F., 15, 71, 175, 186, 188, 253255, 258 Field T.F., 252 Fitch T.W., 233, 255, 260, 261 Fletcher J.F., 138 Focillon H., 129, 229 Fodor J., 21, 38, 43, 44, 46, 203, 204, 220, 253, 254, 259, 260 Fortuna S., 14, 232, 252, 255 Fragaszy D.M., 188 Fraisse P., 69
Jacob P., 15 Johnson-Laird P., 18, 20, 36, 59, 62, 64 Jonas H., 145
Galati D., 131, 188 Gallese V., 71 Gambarara D., 14, 231, 257, 260 Gardner H., 30-33, 35, 37, 71, 113, 253 Geldard F.A., 171 Gentaz E., 131, 142, 188, 257 Gibson E., 172 Gibson J.J., 10, 32, 33, 36-38, 58, 62, 68, 69, 71, 73, 132, 139, 148-156, 160, 162, 169, 171-173, 178, 188, 238, 253, 256, 257 Gimenez-Sastre B., 15 Goethe W., 96 Goodal J., 190, 191 Gould S.J., 15, 73, 100, 119-124, 127, 200-202, 206, 208, 209, 242, 251, 256, 257 Gozzano S., 71, 251 Gregory R., 61 Gribbin J., 127, 191, 256 Harlow H.F., 222, 223, 261 Hatwell Y., 131, 142, 188, 257, 258 Hauser M.D., 233, 255, 260, 261 Heidegger M., 70, 89-93, 95, 98, 105, 109, 110, 230, 259 Heller M., 138, 142, 177, 188 Hemingway E., 192 Herder J., 94, 97, 98, 130, 189, 255 Hjelmslev L., 235, 252, 262, 263 Høeg P., 127 280
Kaczmarek K.A., 164 Kant I., 15, 38 Karas G.G., 221, 261 Katz D., 10, 152, 171, 256, 263 Kennedy J., 164, 172-181, 186, 187, 255, 257, 258 Kiernan V.K., 248 Klatzky R.L., 164 Köhler W., 251 Kollmann J., 120 Kropoktin P., 17 Kubrik S., 57, 60 Lacreuse A., 188 Lamarck J.B.D.A., 191 Lederman S.J., 164, 180-187 Legrenzi P., 71, 253, 254 Leibniz G.W., 67 Lenay C., 171, 257 Lenneberg E.H., 54 Lestel D., 127, 190, 192, 216, 218, 251 Levine S., 221, 222, 261 Lévy-Bruhl L., 48, 49, 234, 252 Lewkowicz D.J., 255 Liebermann P., 226 Linneo K., 256 Liu D., 222 Lock A., 159 Locke J., 67 Loomis J.M., 185 Lo Piparo F., 87-89, 110, 255, 262 Lorenz, 113-120, 122, 124, 225, 231, 256 Luccio R., 26, 33, 253 Ludovico A., 194, 196, 197, 251, 258 Magee B., 188 Magee L.E., 172,
Marconi D., 21, 34-38, 50-53, 55, 59, 71, 75, 76, 118, 253 Marmor G.S., 187 Marr D., 71 Marraffa M., 71, 253, 254 Marshall C.R., 251 Marx K., 161 Marzke M.W., 158 Masini R., 178, 257, 258 Matte Blanco I., 237, 252 Mazzeo Marco, 48, 124, 135, 155, 209, 211, 227, 237, 247, 252, 255, 256, 262 Mazzeo Mario, 15, 179, 258, McDowell J., 38-43, 50-53, 59, 62, 73, 197 McKinney M.L., 127 McMahon T.A., 78, 209 McNamara K.J., 127 Meaney M.J., 221 Mecacci L., 33, 253 Metzler J., 186 Miletic G., 258 Millar S., 138 Miller G.A., 25 Milligan M., 188 Molyneux W., 67, 68, 71, 84, 131 Montagu A., 144, 171, 188, 221-223, 256, 257 Morgan M.J., 22, 164, 165, 168 Morris D., 9, 112, 120, 121, 123-126, 247, 248 Mountcastle V.B., 69, 72 Negri Dellantonio A., 68, 72, 142, 229 Neisser U., 29, 30, 32, 33, 36-38, 58, 59, 73, 169, 253 Newell A., 25 Newton I., 54 Nietzsche F., 94 Nye P.W., 171 Odier C., 49 Pansera M.T., 255, 256 Parisi D., 71, 72 Paternoster A., 254
Pennisi A., 237, 258 Peters C.R., 159 Petit P., 243, 244 Piaget J., 69, 177, 237 Pick H.L. Jr., 137, 149 Pinker S., 35-38, 42-47, 49-51, 53-56, 59, 75, 83-86, 89, 110, 119, 210, 220, 224 Plessner H., 109, 256 Portmann A., 77, 98, 99, 102-111, 114, 123, 125-127, 237, 255, 256 Prampolini M., 14, 262 Prodi G., 88 Putnam H., 26 Raff E.C., 251 Raff R.A., 200, 251, Révész G., 69, 132-148, 150, 152, 153, 156-158, 171-173, 178, 184, 186, 188, 240, 249, 257, 263 Rickards O.,, 127, 160, 191, 199, 256, 257 Rivers W.H.R., 144 Roberts R., 257 Rosch E., 71 Ruegamer W.R., 221 Russo T., 234, 236, 258, 263 Sacks O., 68, 131, 145, 163, 178, 188, 256 Sapolsky R.M., 221 Saussure F. de, 257 Scadden L., 258 Scaravelli L., 15, 227, 229 Scheler M., 77, 80, 82-86, 89, 92-95, 102, 106, 113, 255, 256 Schilder P., 69, 262 Schopenhauer A., 94, 255 Schwartz J.H., 256, 257 Schwob M., 68, 227 Secchi L., 258 Sellars W., 38 Shepard R.N., 186 Simion F., 223 Simon H., 25 Skinner B., 22-24, 26-28, 32, 37, 38, 45, 71, 77 Stancati C., 28, 255 281
Streri A., 188, 257 Swift J., 195, 203, 204, 207, 241, 260 Tabossi P., 34, 36, 59, 253 Tagliagambe S., 226 Tani I., 255 Tattersal I., 214, 256 Thagard P., 35, 36 Tinbergen N., 113, 115 Tobias P., 242 Traversa G., 15 Truffault F., 12 Turchetto G., 250 Uexküll J. von, 77-80, 82-86, 88-95, 102, 105, 106, 108, 110, 113, 114, 116, 118, 119, 127, 150, 256, 259 Vallortigara G., 251
282
Vecchi T., 132, 188 Virno P., 15, 127, 188, 212, 229, 239, 252, 255, 257 Vygotskij L., 234-237, 250, 263
Indice analitico
Ward L.M., 59, 142, 255, 257 Watson J.B., 22, 23, 26, 27, 37, 77 Watzlawick P., 20 Went F.W., 206, 263 White B.J., 166, 167, 257 Williams T.R., 144 Wing A.M., 257 Wittgenstein L., 10, 18, 75, 76, 86, 88, 96, 120, 205, 252 Zaback L.A., 187 Zahavi Amotz, 245, 246 Zahavi Avishag, 245, 249 Zimmermann R.R., 222, 223, 261
agnosia, 67, 134, 262 ambiente (Umwelt): – definizione del, 82 – linguistico, 87 – copernicano, 108-111 – tolemaico, 109-111 ambivalenza: – del paradigma cognitivo, 35, 36, 45, 56, 74, 174, 254, 261 – tra riparazione e distruzione, 12, 212-215, 218, 220, 221, 230, 231, 244 – tra separazione e allontanamento, 13, 232 animali preumani (ominidi): – Australopithechi, 197, 199 – Neanderthal, 160 – Oreopithechi, 160, 197 – Orrorin, 198 animali non umani: – acridi (grilli), 79, 80 – agnelli, 221 – antilopi, 121, 122, 195 – api, 91, 111, 216 – axototl (salamandre), 121, 127, 201 – balene, 103, 202 – camosci, 122 – cani, 22, 79, 88, 115, 124, 125, 155, 195, 196, 208, 250 – chiocce, 79, 80, 83 – corvi, 116-118 – delfini, 155
– dinosauri, 201, 202, 209 – elefanti, 22, 46, 50, 202, 204, 208 – formiche, 80, 81, 190-193, 216-218, 258 – gatti, 22, 91, 165, 195, 200, 247 – gazzelle, 12, 193, 195, 214, 215, 245, 246, 258 – gorilla, 158, 198 – lombrichi, 49, 165 – lupi, 12, 47, 193, 195, 196, 213, 215, 245, 258 – orang-outan, 128, 198 – orsi, 195, 202 – panda, 257 – pappagalli, 19, 48, 64 – parameci, 78, 79, 91, 92, 114, 204, 259, 260 – pipistrelli, 49, 112, 256 – ragni, 83, 84 – ratti, 116-118 – scimpanzé, 128, 155, 157, 158, 190193, 195, 198, 216, 218, 222, 223, 251, 262 – topi, 23, 204, 208, 260, 261 – volpi, 47, 49, 80 – zecche, 79 animali umani (Homo sapiens): – Bororò (Brasile settentrionale), 48, 236 – Boscimani (Africa meridionale), 121 – Dusun (Borneo settentrionale), 144
283
– Esquimesi Netsilik (Artico), 144, 215 – occidentali, 10, 48, 58, 67, 97, 129, 130, 143, 144, 161, 164, 178, 215, 240, 248 – ragazzi selvaggi, 12, 193-197, 215, 251, 258 – Songe (Papua Nuova Guinea), 174 – Toda (India meridionale), 144 – tribù pellerossa (America settentrionale), 249 – Vatussi (Africa centrale), 208 antropogenesi, 98 sgg., 127 antropologia: – culturale, 30, 31, 35, 36, 38, 42, 43, 47, 51, 143, 188, 234 – filosofica, 10, 73, 74, 77, 102, 113, 115, 150, 190 calcolatore/computer, 11, 18, 20, 2528, 31-33, 40, 43, 52, 56-59, 61, 62, 64, 72, 76, 89, 149, 211, 259 cervello, 26, 38, 50-52, 55, 57, 63, 75, 76, 83, 93, 100, 103, 104, 117, 118, 123, 124, 204, 205, 213, 251, 252, 254, 255 cieco: – che ritrova la vista, 67, 84, 131 – capacità cognitive del, 135, 143, 151, 152, 172 sgg., 180 sgg., 258 – metodo di scrittura del (Braille), 164, 171, 181 – mitologia sul, 129 sgg., 163 sgg., 172 sgg., 188 comportamentismo (behaviorismo), 22 sgg., 32, 36-40, 43, 45, 46, 53, 56, 66, 71, 76, 77, 84-86, 105, 113114, 131, comunicazione animale, 79, 80, 245, 246, 258 dialogo/monologo, 13, 218 sgg., 230 sgg., 250 domesticazione: – e bisogno di contatto, 247 – e distruzione ambientale, 215 – e neofilia, 124, 195 – e ragazzi selvaggi, 195, 196
284
emozione: – e cognizione, 20, 31, 64, 65, 167, 227 – e cura tattile, 69, 224 – e istinto, 81, 262 – e neofilia, 124 – e neotenia, 189 – e rispecchiamento, 230 EP (exploratory procedure), 181-184 episensorialità (autoavvertimento), 95, 231, 262 esonero: – e linguaggio, 102, 232, 233, 239, 256 – e sinestesia, 97, 239 – e visione, 97 estro, 126 etologia, 10, 73, 113, 114, 118, 120, 127, 190, 217, 245 evoluzione: – armonia prestabilita, 106, 113 – coevoluzione, 214, 230, 252 – continuismo vs discontinuismo, 47, 80, 83, 86, 119, 150, 191, 245, 246, 251 – darwinismo (tipi di), 39, 43, 45, 56, 100, 114, 115, 127, 191, 198, 204, 261 – fissismo, 56, 260 – legge di Dollo, 199-201, 251 Gestalt (forma dinamica) – nel tatto, 135, 137, 138, 141, 146, – nella vista, 137, 138, 146, 167 – organismo come, 105, 106 – psicologia della, 71, 73, 132, 152, 172, 188, 251, 256 – vs struttura, 137, 138, 145-148 gusto: – chi è privo del (ageusia), 67 – e tabacco, 263 IA (intelligenza artificiale), 30, 31 identità personale: – e principio di individuazione, 13, 48-50, 217 – modulo della, 49 – precarietà della, 13, 127, 231, 237
illusione percettiva: – aptica, 139-143, 146, 167, 169, 174, 188 – ottica, 44, 139-143, 169 – prospettica, 112, 141, 164, 165, 169, 172 sgg., 186 – uditiva, 167 immagini mentali: 186-188, 255 istinto: – carenza di, 13, 25, 84, 92 sgg., 101, 119, 126, 157, 196, 198, 215 – definizione di, 81 – del linguaggio, 45-47, 83, 89, 119, 211, – prestito di, 12, 196, 215 – rigidità dell’, 12, 91, 92, 110, 126, 218, 258 – sublimazione dell’, 82, 117 lavoro, 10, 95, 96, 132, 148, 156, 161, 188, 206, 212, 240 linguaggio verbale: – come cura, 13, 14, 148, 231-233, 237 – condizioni di possibilità per (origine del), 50, 66, 95, 127, 194, 195, 197, 198, 205, 215, 240, 259 – contestualità del, 12, 46, 220, 235, 262 – creatività del, 28, 39, 40, 43, 211 – facoltà del, 11, 12, 14, 28, 197, 198, 210 sgg., 240, 243, 261 – performatività del, 148, 211, 212, 229, 233, 262 – riflessività del, 88, 219, 229, 230233, 235, 239 – socialità del, 125-127, 144, 194, 198, 212, 215-220, 252, 257, 260 linguistica, 30, 31, 34, 252 logica partecipativa: – definizione della, 234 – e monologo, 234 sgg. – e pensiero magico, 252 mammiferi, 84, 101, 103-105, 112, 116, 117, 122, 123, 159, 165, 196, 202, 221, 215, 231, 252, 256, 260 mani: – e lavoro, 10, 96, 148, 156, 161, 240
– e opponibilità del pollice, 100, 156160, 197 – e presa di precisione, 159 – liberazione delle, 64, 101, 107, 111, 112, 147, 148, 207, 226 – umane e non umane, 93, 100, 132, 154 sgg., 188, 217, 257, 263 maturazione, 13, 27, 102, 122, 210, 216, 256 mentalese (linguaggio del pensiero), 43, 47, 48 mentalismo (rappresentazionalismo), 26, 220, 254, 260 mente (v. anche spirito), 17, 18, 2022, 25-33, 38-40, 42-45, 52-56, 66, 72, 73, 76, 87, 89, 129, 131, 149, 220, 254, 260 metalinguistico, 87, 233 modellizzazione, 18, 20, 36, 37, 220 mondo (Welt): – copernicano, 108 sgg. – definizione del, 82, 90 – tolemaico, 107 sgg., 237 morfologia corporea: – come immagine ambientale, 114 – e autopresentazione (Selbstdarstellung), 105, 106, 114 – e biologia morfologica, 77 sgg., 101, 106 – e dimensioni, 209 sgg., 243 – e liminarità, 219, 230 sgg., 262 – e stazione eretta, 63, 64, 66, 71, 95, 96, 101, 107, 109, 111, 112, 121, 160, 197, 199, 207-209, 242, 243, 249, 256 – e specularità, 219, 225, 230 sgg., 262 natura (prima, seconda), 9, 13, 14, 4042, 45, 50 sgg., 66, 71, 73-75, 84, 85, 97, 98, 102, 110, 112, 118, 125, 189, 193 sgg., 211-215, 220, 243 naturalizzazione, 11, 51-53, 254 neotenia animale, 121, 122, 127 neotenia umana (ultraneotenia): – definizione della, 11, 12, 120-122, 256 – e cervello, 123, 213
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– e dimensioni corporee, 201, 217, 259 – e dipendenza, 125, 189, 196, 224, 225, 237, 247 – e intimità, 125, 189, 247, 249 – e linguaggio, 123, 211, 213, 232, 237, 249 – e mani, 159, 160, 197, 213, 247 – e neofilia, 124, 125, 196, 215, 232, 249 – e nudità, 121, 197, 213, 225, 262 – e sessualità, 126 – lista dei tratti della, 100 neuroscienze, 30, 31, 34, 51, 75 olfatto: – chi è privo del (anosmia), 67 – e ragazzi selvaggi, 196 pelle, 10, 13, 42, 44, 50, 64, 69, 70, 73, 96, 100, 105, 111, 112, 121, 151, 152, 168-172, 226, 228, 252 percezione: – amodale, 65, 163, 178 – intermodale, 65, 255 – modale, 60, 61, 65, 70, 79, 97, 139, 141, 162, 163, 169, 170, 211, 240 paradigma cognitivo: – come controrivoluzione, 37, 45, 5658, 131 – come rivoluzione, 26-29, 71 – e cognitivismo ecologico, 10, 29, 32, 33, 38, 62, 73, 132, 148, 149, 155, 172, 180, 188, 238, 253 – e cognitivismo ortodosso, 11, 19, 21, 33, 36, 37, 39, 43, 53, 76, 118, 149, 169, 181, 203, 204, 253, 259261 – e Nuova Sintesi, 43-47, 56, 254 – e scienze cognitive, 11, 15, 17-22, 25 sgg., 71, 72, 146, 162, 164, 187, 188, 190, 202, 220, 238, 253, 254, 261 – esagono cognitivo, 30, 31, 33-36, 38, 71 plasticità: – e linguaggio, 119, 211, 233, 237, 238, 262
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– e mobilità corporea, 95, 122, 237, 238 – e neotenia, 12, 125, 159, 195, 196, 262 – e ragazzi selvaggi, 12, 195, 196 – e riflessività corporea, 230, 231, 262 – e socialità, 195, 196, 216 – e tatto manuale, 10, 11, 96, 132-4, 145-148, 155, 159, 184, 185, 230, 231, 237, 238 – e utensili, 158, 159, 193, 216 primati, 53, 72, 93, 98-101, 103-105, 107, 108, 111, 113, 117, 121-123, 126-128, 156-159, 189-193, 200, 202, 207, 216, 221-223, 252, 254, 256, 263 principio dell’handicap, 245, 246 problema figura-sfondo, 19, 22, 48, 63, 64 problema dell’hangar, 20-22, 37, 38, 43, 254, 255 protesi: – bastone bianco, 151, 152, 155, 156, 168, 177 – impianto cocleare, 170 – occhio artificiale, 170 – TVSS (Tactile Visual Substitution System), 164 sgg., 257, 258 rappresentazione, 21, 26, 44, 62, 72, 80-82, 107, 135, 171-175, 178, 179, 187, 202, 204, 211, 212, 220, 254, 255, 259, 260 relativismo culturale, 41, 47, 74, 220 res cogitans/res extensa, 25, 29, 53, 54, 66, 75, 84, 85, 92 riduzionismo linguistico, 11, 86 sgg., 110, 118, 155-157, 190, 194, 202, 220, 260 selezione R, K, 122, 123, 256, sinestesia: – come filtro, 97, 239 – come ridondanza, 169 – come tessuto del percepire umano, 59, 66, 72, 79, 84, 97, 169, 170, 237, 262 – e questione di Molyneux, 67, 84 – e tatto, 66, 97, 169
specializzazione corporea/sensoriale: – e despecializzazione, 198-200, 252 – e dimensioni corporee, 201 sgg. – e tatto, 9, 70, 71, 95, 96, 111, 121, 122, 159, 160, 184, 185, 226, 239, 257 – e vista, 70, 71, 170, 185 – mancanza di, 9, 94-96, 102, 111 sgg., 159, 160, 190, 195, 198, 201, 211213, 217, 226, 236, 237, 239, 256 spirito: – come anima, 67, 190, 191 – come Geist, 77, 82, 84-86, 92, 103, 106 sprovvedutezza, 97, 147, 148, 180, 190, 198, 209, 214, 218, 232 tatto: – come secondo senso, 71, 97, 189 – come senso duplice, 10, 68, 71, 9598, 112, 189, 228 – primato del, 70, 144, 258 tatto aptico (manuale): – chi è privo del, 67, 68 – come active touch, 69, 135, 139, 151-153, 172, 173, 228 – come dynamic touch, 151, 155, 160, 167 – come senso del limite, 129 e sgg., 161, 233 – definizione del, 69, 161 – di secondo ordine, 233, 244 sgg. – e immagini bidimensionali, 172 sgg. – i dieci principi del, 132-139 – vulgate sul, 10, 131, 136, 161, 168, 171, 181 tatto somestesico (corporeo): – chi è privo del, 67, 68 – definizione del, 68, 160 – di secondo ordine, 233, 241-243 – e dimensioni corporee, 242 – percezione del contatto (passive touch), 69, 135, 136, 151-153, 171173, 228, 229 – percezione del dolore, 68-70, 96, 170, 171, 181, 220, 224, 227
– percezione dell’equilibrio, 68, 956, 107, 109, 220, 222, 233, 243, 244, 256 – percezione della temperatura, 68, 70, 96, 144, 153, 170, 171, 182-184, 220, 222-224, 226, 228 – percezione viscerale, 68, 106, 220, 222, 224, 262 – propriocezione (cinestesi), 68-69, 133, 152, 220, 242 teoria modulare della mente: – definizione di modulo, 44, 45 – modularismo massivo, 46 sgg., 254 udito: – chi è privo del (sordità), 67, 170 – e autoavvertimento, 95, 262 – e dimensioni corporee, 207, 260 – e linguaggio, 60, 61, 255, 261 – e tatto, 95, 167, 169, 258 – fetale, 258 utensile – definizione dell’, 156, 258 – e animali non umani, 12, 155-158, 190-193, 216-218, 251, 258 – e dimensioni corporee, 205-207, 211 – e manualità, 67, 96, 97, 107, 136, 155-160, 180, 211 vibrazione – come diapason biologico, 155 – percezione della, 70, 164, 258, 262 vista: – ampiezza di campo della, 97, 108, 111, 134, 137, 145, 185, 229 – come senso per eccellenza, 10, 5860, 71, 131, 144, 163, 189, 240, 248, 254, – e dimensioni corporee, 205, 207, 258 – e linguaggio, 58, 61, 112, 138, 171, 181 – e tatto, 69, 70, 97, 112, 130, 131, 134 sgg., 152-154, 162 sgg., 229, 240, 250, 261, 262
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Editing e impaginazione: Spell srl - Roma Finito di stampare nel mese di settembre 2003 per conto degli Editori Riuniti dagli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. - Roma
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