ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI
Corso di laurea in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche
I segni e l’origine del linguaggio in Condillac
Tesi di laurea in Storia della semiotica
Relatore prof. Costantino Marmo Correlatore dott. Francesco Bellucci
Presentata da Giorgio Coratelli
Appello Primo (Luglio) Anno accademico 2017-2018
Indice
Introduzione .................................................................................................... 4
1. Condillac e il suo tempo ............................................................................ 11 2. La questione dell’origine del linguaggio tra XVII e prima metà del XVIII secolo .............................................................................................................. 17 3. I segni e l’origine del linguaggio nell’Essai sur l’origine des connaissances humaines ........................................................................................................ 23 3.1. I segni, le operazioni dell’anima, le idee ................................................................... 24 3.1.1. Una gnoseologia sensistica................................................................................ 25 3.1.2. Segno accidentale, naturale, istituzionale .......................................................... 28 3.1.3. Formazione dei segni e delle operazioni dell’anima .......................................... 31 3.1.4. Segni e liaisons des idées .................................................................................. 35 3.2. Origine e sviluppo del linguaggio ............................................................................. 39 3.2.1. Dai segni accidentali ai segni naturali ............................................................... 40 3.2.2. Il linguaggio d’azione ....................................................................................... 42 3.2.3. La formazione delle parole ................................................................................ 44
4. Condillac si ravvede sui segni? Lettere a Cramer e a Maupertuis ......... 49 4.1. Un mémoire e due lettere a Cramer ........................................................................... 49 4.2. Dialogo con le Réflexions sur l’origine des langues di Maupertuis ........................... 51 4.3. Tra l’Essai e il Traité: continuità o discontinuità nella dottrina dei segni? ................. 53
5. Prima del linguaggio: la funzione segnica del tatto nel Traité des sensations ....................................................................................................... 55
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5.1. Una nuova gnoseologia sensistica ............................................................................. 55 5.2. L’attivazione del tatto ............................................................................................... 59 5.2.1. Sviluppo delle operazioni dell’anima e delle liaisons des idées ......................... 60 5.2.2. Il tatto come senso semiotico ............................................................................ 62
6. Tra comunicazione e linguaggio: il Traité des animaux ........................... 65 6.1. Intelligenza umana e intelligenza animale................................................................. 66 6.2. Linguaggio umano e comunicazione animale ........................................................... 67 6.3. Condillac materialista o animista? ............................................................................ 69
7. I segni e l’origine del linguaggio tra le due Grammaire ........................... 72 7.1. Le due Grammaire come riscrittura dell’Essai.......................................................... 74 7.2. La pantomima romana da Du Bos all’Essai alla prima Grammaire ........................... 76 7.2.1. L’origine delle lingue: una polemica con Rousseau ........................................... 78 7.3. Non segno arbitrario, ma segno artificiale ................................................................. 82 7.3.1. Un concetto più idoneo o una nuova teoria? ...................................................... 84 7.3.2. I due linguaggi d’azione nella seconda Grammaire ........................................... 86 7.3.3. L’arte dei segni metodici dell’abate de l’Épée ................................................... 88 7.3.4. La formazione meccanica delle lingue secondo de Brosses ............................... 91 7.3.5. La teoria delle lingue come metodi analitici ...................................................... 93
8. Dopo il linguaggio: gli abusi e la scienza nella Logique e nella Langue des calculs ............................................................................................................. 96 8.1. La lotta contro gli abusi di linguaggio ...................................................................... 97 8.2. Per una lingua ben fatta .......................................................................................... 101 8.3. Storia naturale della lingua dei calcoli .................................................................... 104
Conclusioni .................................................................................................. 108
Riferimenti bibliografici ............................................................................. 114
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Introduzione
Nel 1985 André Joly si rallegrava del fatto che da qualche anno gli studiosi si erano finalmente accorti dell’importanza di Condillac nel quadro delle idee linguistiche del XVIII secolo1. La tesi di una “linguistica condillacchiana” egemone nell’età dei Lumi si opponeva alla “linguistica cartesiana” che Noam Chomsky aveva ricostruito in un celebre saggio pubblicato nel 19662. Chomsky, che aveva comunque avuto il merito di suscitare reazioni decisive per lo sviluppo degli studi storici sulle teorie del linguaggio (merito condiviso con un altro importante libro uscito nello stesso anno, Les mots et les choses di Michel Foucault), aveva unificato una presunta corrente del “razionalismo linguistico” che andava dal XVII al XIX secolo, da Descartes a Humboldt passando per la grammatica di Port-Royal, nel riconoscimento della creatività linguistica quale caratteristica innata ed esclusiva della natura umana rispetto alla natura animale; tutto questo senza nominare mai Condillac. È ciò che notarono i primi critici, Luigi Rosiello con il saggio Linguistica illuminista, pubblicato nel 1967, e Hans Aarsleff con una serie di articoli raccolti nel 1982 nel volume From Locke to Saussure3. A questi si aggiunsero presto altri lavori che ricostruivano il panorama delle riflessioni linguistiche nella Francia del XVIII secolo: Grammaire et philosophie au siècle des Lumières di Ulrich Ricken, La sémiotique des Encyclopédistes di Sylvain Auroux, Les Conceptions linguistiques des Encyclopédistes di Pierre Swiggers 4. Questi studi dimostrarono che in una ricostruzione storica delle teorie linguistiche in età moderna non era possibile trascurare le opere di Condillac. Alla riscoperta di Condillac contribuì anche Jacques Derrida, autore nel 1973 di un’introduzione a un’edizione dell’Essai sur l’origine des connaissances humaines a cura di Charles Porset5. Nel 1982 uscì a cura di Jean Sgard il volume Condillac et les problèmes du langage che raccoglieva gli atti del convegno tenutosi nel 1980 per il bicentenario dalla morte di 1
A. Joly, Cartesian or Condillacian linguistics?, «Topoi», vol. 4, n. 2, 1985, pp. 145-149. N. Chomsky, Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Rationalist Thought, with a new introduction by J. McGilvray, Cambridge, Cambridge University Press, 2009. 3 L. Rosiello, Linguistica illuminista, Bologna, Il Mulino, 1967; H. Aarsleff, Da Locke a Saussure. Saggi sullo studio del linguaggio e la storia delle idee, Bologna, Il Mulino, 1984. 4 U. Ricken, Grammaire et philosophie au siècle des Lumières, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1978; S. Auroux, La sémiotique des Encyclopédistes. Essai d’épistémologie historique des sciences du langage, Paris, Payot, 1979; P. Swiggers, Les Conceptions linguistiques des Encyclopédistes, Leuven, University Press, 1984. 5 J. Derrida, L’archeologia del frivolo. Saggio su Condillac, Bari, Dedalo, 1992. 2
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Condillac6. In questa prima ricognizione complessiva sulla filosofia condillacchiana spiccavano i contributi dei già citati Joly, Aarsleff, Ricken, Auroux e Swiggers i quali, studiando soprattutto la teoria grammaticale di Condillac, condividevano la tesi che per i lettori della seconda metà del XVIII secolo l’opera di Condillac avesse preso il posto dell’opera logica e grammaticale di Port-Royal7. Mentre François Duchesneau riconosceva in Condillac il più importante seguace di Locke8, Nicholas Rousseau, con la tesi Connaissance et langage chez Condillac pubblicata nel 1986, ne proponeva una prima ricognizione sistematica sulle riflessioni semiotiche e linguistiche 9, e Ulrich Ricken, seguendo i suggerimenti di Luciano Guerci10, svolgeva un primo lavoro di ricognizione sulle due edizioni della Grammaire in una serie di articoli apparsi intorno alla metà degli anni Ottanta11. La “resurrezione” di Condillac si è rivelata però effimera 12. Soprattutto le ricerche pioneristiche di Ricken non hanno trovato seguito. Gli studi sulla riflessione semio-linguistica di Condillac sono ripresi solo in anni recenti e con un taglio più filosofico. Aliénor Bertrand ha curato due volumi collettanei: Condillac et l’origine du langage nel 2002, frutto di un convegno tenutosi nel 2001, che ruota intorno all’idea di una “logica naturale” elaborata da Condillac a partire dal concetto di “linguaggio d’azione”, e Condillac, philosophe du langage? nel 2016, che raccoglie gli interventi di un incontro tenutosi nel 2003, in cui si cercano di individuare dei punti di contatto tra Condillac e la filosofia del linguaggio del Novecento13. Sotto la direzione della stessa Bertrand è in corso di stampa una nuova edizione critica delle opere di Condillac per la casa editrice Vrin (finora sono stati pubblicati nel 2002 il Dictionnaire des synonymes a cura di Jean-Cristophe Abramovici, nel 2004 il Traité des
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J. Sgard (a cura di), Condillac et les problèmes du langage, Genève-Paris, Slatkine, 1982. Contributi nel volume in ordine di apparizione: U. Ricken, Linguistique et anthropologie chez Condillac, pp. 75-93; H. Aarsleff, Condillac, Taine et Saussure, pp. 165-174; S. Auroux, Empirisme et théorie linguistique chez Condillac, pp. 177-219; P. Swiggers, La sémiotique de Condillac, ou la pensée dans la pensée, pp. 221-242; A. Joly, De la théorie du langage à l’analyse d’une langue. Remarques autour de la “Grammaire” de Condillac, pp. 243-256. 8 F. Duchesneau, Condillac critique de Locke, «International Studies in Philosophy», n. 6, 1974, pp. 77-98; Id., Sémiotique et abstraction: de Locke à Condillac, «Philosophiques», vol. 3, n. 2, 1976, pp. 147-166. 9 N. Rousseau, Connaissance et langage chez Condillac, Gèneve, Droz, 1986. 10 L. Guerci, La composizione e le vicende editoriali del “Cours d’études” di Condillac, in Aa.vv., Miscellanea Walter Maturi, Torino Giappichelli, 1966, pp. 188-220. 11 U. Ricken, Linguistique et philosophie dans la “Grammaire” de Condillac, in S. Auroux (a cura di), Matériaux pour une histoire des théories linguistiques, Lille, Université de Lille, 1984, pp. 337-346; Id., Les deux “Grammaire” de Condillac, «Histoire Épistémologie Langage», vol. 8, n. 1, 1986, pp. 71-90; Id., Condillac. Sa philosophie sensualiste et sa grammaire, in É. B. de Condillac, Grammaire, Stuttgart, FrommannHolzboog, 1986, pp. XVIII-L; Id., Teoria linguistica e sovversione ideologica: la “Grammaire” di Condillac e la censura del suo “Cours d’étude” da parte delle autorità ecclesiastiche di Parma, in L. Formigari, F. Lo Piparo (a cura di), Prospettive di storia della linguistica, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. 241-255. 12 A. Bertrand, Introduction, in Ead. (a cura di), Condillac, philosophe du langage?, Lyon, ENS Éditions, 2016, p. 7, n. 2. 13 A. Bertrand (a cura di), Condillac. L’origine du langage, Paris, Puf, 2002; Ead., Condillac, philosophe cit. 7
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animaux a cura di Michel Malherbe, nel 2014 l’Essai sur l’origine des connaissances humaines a cura di Jean-Claude Pariente e Martine Pécharman). In questa resurrezione a metà manca un contributo che, in termini di storia delle idee, studi il pensiero semio-linguistico di Condillac dall’Essai sur l’origine des connaissances humaines alla Langue des calculs. La lacuna appare ancora più evidente se si divide schematicamente la letteratura condillacchiana in contributi sulla teoria della conoscenza e sulla teoria del linguaggio: del primo filone di studi fanno parte recenti letture sistematiche e corpose come l’introduzione di Laurence Bongie alla prima edizione de Les monades (la dissertazione che Condillac inviò nel 1747 all’Accademia di Berlino e che è stata ritrovata proprio da Bongie), la monografia di Rita Fanari edita nel 2009, il saggio Empirisme et métaphysique di André Charrak, attento all’interazione col contesto filosofico del XVIII secolo 14. Un’opera di ricognizione di questo tipo manca tuttora per la teoria del linguaggio. Lo scopo di questa tesi è analizzare l’evolversi del pensiero semio-linguistico di Condillac dalla prima all’ultima opera colmando questa lacuna. La ricerca si muove intorno a due questioni: la teoria del segno e la questione dell’origine del linguaggio. Sull’importanza della teoria del segno non ci sono dubbi: nell’introduzione all’Essai Condillac scrive di voler dimostrare che la funzione del segno nel legare le idee, e dunque nell’elaborare conoscenze, è il principio gnoseologico che rinnova e revisiona l’Essay on Human Understanding di John Locke. Condillac tuttavia non propone mai una tassonomia dei segni in astratto: la riflessione sul segno è riflessione sulla genesi del segno, sull’origine e lo sviluppo correlati delle idee e del linguaggio dalle sensazioni. L’importanza della teoria dell’origine del linguaggio è invece un valore acquisito più di recente. Il concetto di arbitrarietà formulato da Saussure ha monopolizzato la riflessione linguistica del XX secolo oscurando la questione storica dell’origine15. Significativo l’atteggiamento di Auroux, autore nel 2007 del saggio su La question de l’origine des langues, che trentacinque anni prima, nel contributo su Condillac al volume a cura di Sgard, sosteneva che non bisognasse troppo «insister sur la question de l’origine des langues»16. La riscoperta della centralità del tema in Condillac si deve ai più recenti studi sull’ipotesi dell’origine gestuale del linguaggio, in particolare a quelli che fanno di Condillac un precursore di simili ricerche: mi limito a citare, per le neuroscienze, il lavoro di Giacomo
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L. Bongie, Introduction, in Étienne Bonnot de Condillac, Les Monades, Grenoble, Jerôme Millon, 1994, pp. 5125; A. Charrak, Empirisme et métaphysique. L’Essai sur l’origine des connaissances humaines de Condillac, Paris, Vrin, 2003; R. Fanari, Condillac. Ontologia ed empirismo, Roma, Aracne, 2009. 15 Cfr. S. Auroux, La question de l’origine des langues, Paris, Puf, 2007; A. Bertrand, Introduction cit., p. 8. 16 S. Auroux, Empirisme cit., p. 186.
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Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, per la psicologia evolutiva lo studio From Hand to Mouth di Michael Corballis, per la filosofia del linguaggio in prospettiva evoluzionistica i saggi di Francesco Ferretti17. L’opera di Condillac si caratterizza innanzitutto sul piano metodologico per l’aspetto analitico e non sintetico del discorso18. Secondo Ernst Cassirer, Condillac è tra i filosofi dell’Illuminismo quello che meglio incarna l’idea dell’analisi come operazione che riconduce la molteplicità a unità e ricostruisce con ordine la totalità 19. Nelle Lettere filosofiche Pasquale Galluppi, uno dei più attenti lettori di Condillac nel XIX secolo, ha scritto in efficace stile idealista che «l’unità si trova in un qualunque oggetto empirico per analisi, perché vi è entrata per la sintesi» e lo spirito ritrova per mezzo dell’analisi ciò che «ha egli posto colla sintesi» 20. Ancora, si può citare il conte Potocki che, in una lettera a Condillac, mostra di aver ben compreso che l’analisi per il filosofo è prima scomposizione poi ricomposizione 21. Per mezzo dell’analisi Condillac rifà continuamente l’origine e lo sviluppo delle sensazioni, delle idee, delle conoscenze, dei segni e del linguaggio. Scorrendo poi gli indici delle opere filosofiche e confrontandone le edizioni, non si può fare a meno di notare che tutta l’opera teorica di Condillac non sembra che la riscrittura del suo primo lavoro, l’Essai sur l’origine des connaissances humaines. In questa, che è la sola opera che Condillac non riscrive né revisiona in vista dell’edizione completa dei suoi lavori, si trovano tutte le questioni riprese e affrontate nelle opere successive: sistema delle sensazioni, teoria della conoscenza, teoria dei segni, origini e sviluppo delle idee e del linguaggio. Se il Traité des systèmes sviluppa la pars destruens contro i sistemi filosofici del XVII secolo, la pars construens è rifatta nella terza opera di Condillac, il Traité des sensations, dove si emendano parti consistenti dell’Essai. Brani dell’Essai sono riformulati dall’Art de penser,
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Ecco le pagine dove è citato Condillac: G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 153; M. Corballis, Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina, 2008, pp. 173-174; F. Ferretti, Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico, Bari, Laterza, 2010, p. 137; F. Ferretti, I. Adornetti, Dalla comunicazione al linguaggio. Scimmie, ominidi e umani in una prospettiva darwiniana, Milano, Mondadori Università, 2012, pp. 111-112. 18 Su analisi e sintesi nel XVIII secolo: G. Tonelli, Analysis and Synthesis in XVIIIth Century Philosophy prior to Kant, in «Archiv für Begriffsgeschichte», n. 2, vol. 20, 1976, pp. 178-213. 19 E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 32. 20 P. Galluppi, Lettere filosofiche, Firenze, Allegrini-Mazzoni, 1833, p. 91. Sulla lettura di Galluppi: R. Pititto, Pasquale Galluppi lettore e intreprete di Condillac, in F. Pugliese, G. Oldrini (a cura di), Studi galluppiani, Cosenza, Edizioni Brenner, 1991, pp. 261-280. 21 Si tratta della lettera del 10 dicembre 1778 pubblicata in E. B. Condillac, Œuvres philosophiques, a cura di G. Le Roy, Paris, Puf, 1951, vol 2, pp. 552-553, n. 63.
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opera che fa parte del Cours d’étude22; ma anche la Grammaire, come dimosterò, ne è una riscrittura. La riscrittura è un aspetto fondamentale per lo studio del Cours d’étude, l’insieme di opere che contengono il frutto delle lezioni impartite al principe Ferdinando di Borbone. Del Cours esistono due differenti edizioni, una pubblicata da Condillac nel 1775 e una precedente che avrebbe dovuto essere pubblicata nel 1772 ma che, a causa della censura, uscì solo nel 1782, due anni dopo la morte di Condillac. In particolare sono molto importanti le differenze riscontrabili tra le due edizioni della Grammaire, differenze (come già detto e come si dirà meglio nel cap. 7), segnalate da Guerci, esplorate da Ricken, ignorate dalla gran parte degli studiosi. Altro aspetto interessante da segnalare è la costanza di tre atteggiamenti in tutta l’opera dell’abate: il problema della continuità è centrale per una riflessione che, dopo aver rintracciato le origini, cerca di seguire lo sviluppo delle conoscenze e del linguaggio nei termini, come ha scritto Aliénor Bertrand, di un percorso logico-naturale23; il carattere operativo, segnalato da Baertschi nel suo studio sul Traité des sensations, della metafisica, della grammatica e della logica, che nel rifare ogni volta le conoscenze e nel guidare il lettore propongono un percorso analitico e non assiomatico, pedagogico e non dottrinale 24; la ricerca costante della gradualità, su cui si è concentrato André Charrak, nel cammino senso-cognitivo della natura umana e della scienza, nel passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura, dal sensibile all’intelligibile, dalle idee elementari alle conoscenze scientifiche, dal linguaggio naturale alle lingue verbali25. Tutti i tre atteggiamenti sono da tenere presenti nell’analizzare le diverse riscritture dell’Essai. I primi due capitoli sono di cornice: il primo contestualizza la vita e l’opera di Condillac nel suo tempo (altre notizie sulle opere, utili per comprendere gli sviluppi del pensiero, introducono i successivi capitoli), il secondo traccia un breve quadro e fornisce qualche luogo bibliografico a proposito della questione dell’origine del linguaggio tra XVII e prima metà del XVIII secolo. Nelle conclusioni mi soffermerò brevemente sull’influenza che Condillac ha esercitato su tre questioni linguistiche della fine del XVIII secolo.
M. Pécharman, Signification et langage dans l’Essai de Condillac, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 1, 1999, pp. 81-103. 23 A. Bertrand, Deux définitions du langage d’action, ou deux théories de l’esprit?, in Ead. (a cura di), Condillac philosophe cit., pp. 73-89. 24 B. Baertschi, La statue de Condillac, in «Revue Philosophique de Louvain», n. 55, vol., 82, 1984, pp. 335364. 25 A. Charrak, Empirisme cit. 22
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Il terzo capitolo si concentra sull’Essai. Dalla riflessione sull’origine e sullo sviluppo delle idee (par. 3.1.) emerge il primato della funzione cognitiva del segno (il segno serve per formare e per legare le idee) rispetto alla funzione comunicativa (il segno serve per comunicare le idee). Affrontando l’origine e lo sviluppo dei segni e del linguaggio (par. 3.2.), Condillac segnala due problemi che emergono dalla ricostruzione: (a) dall’analisi delle facoltà dell’anima risulta che la riflessione ha origine grazie ai segni arbitrari e che questi si sviluppano solo quando l’uomo è capace di riflettere; (b) dall’analisi dell’origine del linguaggio risulta che i primi uomini, comunicando, elaborarono segni arbitrari quando però disponevano solo di segni naturali e non erano in grado di riflettere. Condillac ne discute in alcune lettere inviate a Gabriel Cramer e a Pierre Louis de Maupertuis e in entrambi i casi si propone di riesaminare lo statuto del segno (cap. 4). Se le lettere a Cramer e a Maupertuis sono state variamente interpretate (par. 4.3.), in pochi hanno approfondito il Traité des sensations nell’ottica della riflessione sul segno. Condillac risolve qui l’ostacolo (a) assegnando la funzione cognitiva al tatto, il senso semiotico della statua animata protagonista del Traité (cap. 5), l’elemento discriminante tra linguaggio umano e comunicazioni animale nel Traité des animaux (cap. 6). Il settimo capitolo è dedicato al confronto tra l’Essai e le due edizioni della Grammaire e ruota intorno a tre note, le prime due aggiunte da Condillac nella seconda edizione, la terza presente anche nella prima edizione. A differenza della prima Grammaire, che ribadisce quanto scritto nell’Essai, la seconda Grammaire supera l’intoppo (b) distinguendo tra due linguaggi d’azione, uno naturale e uno artificiale. Sulla sostituzione del concetto di «signe arbitraire» con quello di «signe artificiel» sono intervenuti vari studiosi (par. 7.3.1.). Secondo Luca Nobile, il nuovo concetto è la spia di una nuova teoria del segno che Condillac formula nella seconda Grammaire ispirandosi al Traité de formation mécanique des langues, pubblicato da Charles de Brosses nel 1765 e citato in una delle due note aggiunte (par. 7.3.4.). Secondo Jürgen Trabant, Condillac ha preferito il concetto di «signe artificiel» perché consente di descrivere in modo più graduale gli sviluppi del linguaggio dalla sua origine naturale. Concordo con questa lettura, che però Trabant non ha supportato con uno studio delle due Grammaire. Fornirò questo supporto seguendo l’altra nota aggiunta, pressoché ignorata dagli studiosi, in cui Condillac elogia l’attività di educatore dei sordomuti dell’abate Charles-Michel de l’Épée. Dimostrerò che il concetto di «signe artificiel» deriva dalla riflessione sui «signes méthodiques» inventati dal de l’Épée per dotare i sordomuti di un valido strumento linguistico (par. 7.3.3.) e argomenterò contro la proposta di Nobile (par. 7.3.4.). La terza nota, invece, contiene la risposta di Condillac alle obiezioni mosse da Jean9
Jacques Rousseau sulla questione dell’origine delle lingue (par. 7.2.1.). Nella Grammaire, infine, viene per la prima volta formulato il discorso, molto importante per gli sviluppi successivi, delle lingue considerate come «des méthodes analytiques» (par. 7.3.5.). Il capitolo ottavo esamina questi sviluppi nella Logique e nella Langue des calculs a partire dalla lotta che Condillac ingaggia contro l’abuso del linguaggio, fenomeno ben presente nella storia umana e di cui i volumi, mai esaminati dagli studiosi, dell’Histoire ancienne e dell’Histoire moderne recano numerosi esempi. Non si capiscono i concetti della «langue bien faite» (par. 8.2.) e della «langue des calculs» (par. 8.3.), entrambi derivati dall’idea che le lingue sono dei metodi analitici, se non come armi in dotazione in questa lotta. Ho cercato di mettere in luce alcuni intrecci poco esplorati in letteratura: il tatto nel Traité des sensations, i richiami testuali all’opera di Du Bos e all’attività di educatore del de l’Épée, i confronti con i libri dell’Histoire ancienne e dell’Histoire moderne e, nelle conclusioni, gli strascichi della lotta contro gli abusi di linguaggio alla fine del XVIII secolo. Come scrisse Paolo Rossi, lo storico deve essere in grado di spogliarsi dei propri pregiudizi, che derivano spesso dal tempo in cui lavora; piuttosto che apprendere metodi o concetti che lasciano il tempo che trovano, è meglio lavorare direttamente sulle fonti, leggendo qualche storico esemplare, seguendo un approccio che si ritenga, almeno in partenza, opportuno 26. Ho cercato di attenermi il più possibile a questa raccomandazione sia nel metodo che nel principio.
Nota sulle citazioni. Le citazioni dalle opere di Condillac sono tratte dalle prime edizioni e, per non appesantire il testo di note a piè di pagina, sono riportate nel testo tra parentesi, facendo seguire al titolo i rimandi o a parte, sezione, capitolo, paragrafo (es. Essai, I.II.III.8) o ai numeri di pagina (es. Traité des animaux, p. 70), quando occorre inserendo la data di edizione (es. Grammaire, 1775, p. 11). Le opere del Cours d’étude (titolo delle prime due redazioni e delle successive ristampe del 1780, 1789, 1800; il titolo Cours d’études compare per la prima volta nell’edizione delle opere complete del 1798) richiamate nel testo sono citate dall’edizione 1782 quelle della prima redazione (es.: per l’Art d’écrire: Cours d’étude, vol. 2, p. 191), quelle della seconda redazione dall’edizione 1775 o dal testo, in sostanza conforme al precedente, pubblicato nell’edizione 1798 (es.: per l’Art de penser: Œuvres, 1798, vol. 6, p. 120). Nel riportare i brani ho mantenuto le forme originali (es.: “connoissons” per “connaissons”) modificandole solo per comodità di stesura (es.: “sauroit” per “sçauroit”).
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P. Rossi, I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 30.
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1. Condillac e il suo tempo
In un brano dell’Émile Jean-Jacques Rousseau elogia così Condillac: J’ai vu dans un âge assez avancé un homme qui m’honoroit de son amitié passer dans sa famille et chez ses Amis, pour un esprit borné; cette excellente tête se meurissoit en silence. Tout-à-coup il s’est montré Philosophe, et je ne doute pas que la postérité ne lui marque une place honorable et distinguée parmi les meilleurs raisonneurs et les plus profonds métaphysiciens de son siècle27.
Rousseau aveva ragione: tra la seconda metà del XVIII secolo e i primi anni del XIX secolo le opere di Condillac furono più volte ristampate: diciotto ristampe l’Essai sur l’origine des connaissances humaines e il Traité des systèmes, venti la Grammaire e ventuno sia l’Art de penser che l’Art de raisonner, trentotto la Logique28. Jean François de La Harpe, prima della Rivoluzione amico di Voltaire e nemico della Chiesa, dopo il 1794 e al tempo in cui scriveva il passo citato convertitosi al cattolicesimo e alla critica delle filosofie dei Lumi, giudicava Condillac «un philosophe, bien supérieur à la plupart des coopérateurs de ce Dictionnaire [l’Encyclopédie]»29. Un altro pensatore ostile a Condillac, Victor Cousin, demolitore dei sistemi sensistici, riconobbe nell’abate «le seul, le vrai métaphysicien français du dixhuitième siècle»30. Si potrebbero leggere alcune pagine della storia intellettuale della Francia della metà del XVIII secolo attraverso la vita e l’opera di Condillac. Biografie esaurienti sull’abate si trovano nel primo capitolo del saggio Condillac, la statue et l’enfant di Christine Quarfood, che qui seguirò per la nutrita mole di dati, e nell’introduzione di Shelagh Eltis e Walter Eltis alla traduzione inglese de Le commerce et le gouvernement, testo di più facile reperibilità 31. Più datati e meno affidabili gli opuscoli di inizio Novecento
J.-J. Rousseau, Émile, ou de l’éducation, Parigi, Jean Nêaulme, 1762, p. 123, vol. 1. Il dato sulle ristampe della Grammaire è tratto da L. Nobile, La “Grammaire” cit., p. 153. Per gli altri dati: S. Auroux, La vague condillacienne, «Histoire Épistémologie Langage», vol. 4, n. 4, 1982, pp. 107-110. 29 J. F. La Harpe, Lycée, ou Cours de littérature ancienne et moderne. Philosophie du dix-huitième siècle, Paris, Agasse, 1804, vol. 15, pp. 135-136. 30 V. Cousin, Philosophie sensualiste au 18eme siècle, Paris, Librairie Nouvelle, 1856, p. 47. 31 C. Quarfood, Condillac, la statue et l’enfant. Philosophie et pédagogie aux siècles des Lumières, Paris, L’Harmattan, 2002, pp. 13-50; S. Eltis, W. Eltis, The Life and Contribution to Economics of the Abbé de Condillac, in É. B. de Condillac, Commerce and Gouvernement Considered in their Mutual Relationship, a cura di S. Eltis e W. Eltis, Indianapolis, Liberty Fund, 2008, pp. 3-34 (il testo è consultabile online al sito file.libertyfund.com/pll/titles/2125.html). 27 28
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del conte Gustave Baguenault de Puchesse, membro di una famiglia nobile dell’Orléans e lontano parente di Condillac, e di Jean Didier 32. Étienne Bonnot nacque a Grenoble nel 1714 in una famiglia della nobiltà di toga. Nel 1705 il padre, Gabriel Bonnot, aveva acquistato i titoli nobiliari diventando visconte di Mably, territorio di cui nel 1719 acquistò la proprietà. Il nome Condillac deriva dalla proprietà che il padre comprò nel 1720 insieme a quella di Banier. Mably, invece, è il nome con cui è noto Gabriel Bonnot, fratello maggiore di Condillac, autore di opere politiche e spirito rousseauiano lodato nel periodo rivoluzionario. Condillac e Mably furono entrambi destinati alla carriera ecclesiastica: dopo gli studi a Lione presso i gesuiti, nel 1733 Condillac si trasferì a Parigi dove s’iscrisse alla Sorbona; nel 1739 conseguì la licenza in teologia e due anni dopo fu ordinato sacerdote. Sebbene indossasse sempre la veste di abate, Condillac – c’informa Baguenault de Puchesse – sembra che avesse detto messa una sola volta nella sua vita33. Contro l’immagine del filosofo appartato (diffusa anche da Rousseau), è certo che negli anni parigini Condillac fece vita mondana34. Così vivevano a Parigi gli abati provenienti da famiglie nobili: si pensi all’abate Raynal, assiduo frequentatore del salotto dei d’Holbach, dove ateismo e critica della religione erano tra gli argomenti più dibattuti, o a Ferdinando Galiani, che tra il 1759 e il 1769 fu a Parigi con l’incarico di segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli e dove era diventato una celebrità nei salotti. Questi abati non avevano incarichi di cura delle anime e, prima che uomini di Chiesa, erano uomini di cultura. La loro vita intellettuale rientra in quel processo di laicizzazione dell’intellettuale nell’età dei Lumi studiato da Daniel Roche 35. Si legga il ritratto tagliente di questi preti «secolareschi» nelle Confessioni di un italiano, dove Nievo (che preferisce i preti di montagna) descrive il salotto dei nobili Frumier a Portogruaro alla fine del Settecento: la coltura classica, la libertà filosofica, l’eleganza dei modi, e la tolleranza religiosa erano instillate dai liberi colloqui nei crocchi famigliari; si facevano preti o spensieratamente per ubbidienza, o per golaggine di una vita commoda e tranquilla36.
Condillac era solito frequentare l’albergo Panier Fleuri dove pranzava una volta alla settimana con Diderot e Rousseau. Condillac e Rousseau si conoscevano già da qualche anno (Rousseau 32
G. Baguenault de Puchesse, Condillac. Sa vie, sa philosophie, son influence, Paris, Plon, 1910; J. Didier, Condillac, Paris, Bloud, 1911. 33 G. Baguenault de Puchesse, Condillac cit., p. 9. 34 C. Quarfood, Condillac cit., p. 17. 35 D. Roche, La cultura dei Lumi. Letterati, libri, biblioteche nel XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 285-321. 36 I. Nievo, Le confessioni di un italiano, Torino, Einaudi, 1964, p. 273.
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era stato per un breve periodo, intorno al 1740, tutore a Lione di Jean Bonnot de Mably, fratello minore di Condillac). Nel libro VII delle Confessioni si legge: Je m’étois aussi lié avec l’abbé de Condillac, qui n’etoit rien, non plus que moi, dans la littérature, mais qui étoit fait pour devenir ce qu’il est aujourd’hui. Je suis le premier peutêtre qui ai vu sa portée, et qui l’ai estimé ce qu’il valoit. […] il venoit quelquefois dîner avec moi […] il travailloit alors à l’Essai sur l’origine des connaissances humaines, qui est son premier ouvrage. Quand il fut achevé, l’embarras fut de trouver un libraire qui voulût s’en charger. […] la métaphysique, alors très peu à la mode, n’offroit pas un sujet bien attrayant. Je parlai à Diderot de Condillac et de son ouvrage; je leur fis faire connaissance. […] Diderot engagea le libraire Durand à prendre le manuscrit de l’abbé; et ce grand métaphysicien eut de son premier livre, et presque par grace, cent écus, qu’il n’eut peut-être pas trouvés sans moi37.
Fu Rousseau a presentare Condillac a Diderot, che in quel periodo attendeva alla traduzione del Dizionario di medicina di James Robert per l’editore Durant. Il brano citato consente inoltre di precisare la data di composizione dell’Essai. A quanto scrive Rousseau, nel 1745 Condillac aveva già terminato l’Essai; ciò è confermato da una lettera di Condillac del maggio 1744 al fratello Mably38. I riferimenti all’Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens di William Warburton, testo pubblicato nel 1744 (cfr. cap. 2 e par. 3.2.), farebbero ipotizzare ad alcuni passi della seconda parte aggiunti o riscritti a opera pressoché completa. Pubblicato nel 1746, l’Essai ricevette un’accoglienza positiva39. Nello stesso anno, l’Accademia di Berlino bandì un concorso sulla monadologia di Leibniz, al quale Condillac partecipò con una dissertazione, Les Monades, inviata nel 1747. Nel 1749 uscì il Traité des systèmes, forse l’opera più illuminista di Condillac, che contiene la critica ai cattivi sistemi filosofici del XVII secolo, quelli di Descartes, Malebranche, Leibniz e Spinoza, accusati di essere astratti e basati su principi non fondati sull’esperienza, e l’elogio dei sistemi di Newton e di Locke, fondati sulla raccolta empirica di fatti. Condillac dava così espressione a un sentimento condiviso dagli intellettuali: la luce della ragione empirica dei Lumi opposta al buio del razionalismo del Seicento. Il Traité des systèmes va letto nel contesto dei dibattiti tra fisica newtoniana e fisica cartesiana e della fortuna del newtonianesimo in Francia, distinguendo tra scienza newtoniana e newtonianesimo. Condillac non cita le opere di Newton, anche se la terza edizione dell’Opticks fu tradotta da Pierre Coste nel 1720; i suoi riferimenti sembrano piuttosto essere due opere di Voltaire: le Lettres 37
J.-J. Rousseau, Les confessions, Paris, Barbier, 1846, p. 291. C. Quarfood, Condillac cit., p. 301, n. 30. 39 Ibid., p. 22. 38
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philosophiques (specialmente le lettere XIV, XV e XVI), pubblicate nel 1734, e gli Élémens de la philosophie de Neuton [sic], del 1738. La traduzione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, la cui prima edizione è del 1687, fu avviata nel 1746 da Émilie du Châtelet e Alexis Clairaut e conclusa da quest’ultimo (la marchesa morì nel 1749) nel 1756. In Francia la moda del newtonianesimo, accompagnando la ricezione della filosofia lockiana, precedette la divulgazione della scienza newtoniana 40. È significativo l’elogio che nel Discours préliminaire dell’Encyclopédie D’Alembert fa di Pierre Louis de Maupertuis, autore nel 1732 di un Discours sur les différentes figures des astres, per il fatto di essersi dichiarato, da scienziato, newtoniano in una Francia che, «singulierement avide des nouveautés dans les matières de goût, est au contraire en matière de Science très-attachée aux opinions anciennes»41. Sempre D’Alembert, poche pagine prima, sintetizza così il nesso tra il pensiero di Newton e quello di John Locke: Ce qui Newton n’avait osé, ou n’aurait peut-être faire, Locke l’entreprit et l’exécuta avec succès. On peut dire qu’il créa la métaphysique à peu près comme Newton avait créé la physique42.
In questo quadro s’inserisce l’elogio che D’Alembert fa al Traité des systèmes, opera che demolisce un certo gusto, […] le goût des systèmes, plus propre à flatter l’immagination qu’à éclairer la raison, est aujourd’hui presque absolument banni des bons ouvrages. Un des nos meilleurs philosophes semble lui avoir porté les derniers coups43.
Benché lodato dagli enciclopedisti, Condillac non prese mai direttamente parte all’impresa dell’Encyclopédie, il cui primo volume uscì nel 1751. I richiami all’Essai e al Traité des systèmes sono però così numerosi che alcuni studiosi hanno ipotizzato una collaborazione di Condillac
per
le
seguenti
voci:
«Analyse»,
«Syntèse»,
«Logique»,
«Analogie»,
«Connaissance», «Association des idées», «Sensation»44. Curiosamente nell’elenco non compare la voce «Signe», che Hoinkes invece ritiene essere l’unica cui Condillac abbia collaborato45. Entrambe le ipotesi mancano di prove.
P. Casini, Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Bari, Laterza, 1973, vol. 1., pp. 44-45. J.-B. D’Alembert, Discours préliminaire, in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris, Briasson – David – Le Breton – Durand, 1751, vol. 1., p. XXIX. 42 Ibid., p. XXVII. 43 Ibid., p. XXXI. 44 C. Quarfood, Condillac cit., p. 24. 45 U. Hoinkes, Puissance et limite de la théorie sensualiste du langage, in P. Schmitter (a cura di), Sprachtheorien der Neuzeit I, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1999, p. 173. 40 41
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L’impresa dell’Encyclopédie fu presto ostacolata da critici e censori, soprattutto dai gesuiti46. Dopo il 1751 accaddero tre eventi eclatanti. Innanzitutto il celebre affaire de Prades: nell’ottobre del 1751, Jean-Martin de Prades, allievo della Sorbona e già collaboratore di Diderot per l’Encyclopédie, ottenne l’approvazione della sua tesi di dottorato in teologia, Jerusalem Coelesti, un’apologia del cristianesimo su basi sensistiche 47. La tesi venne accusata di materialismo, il giudizio rivisto, causando la fuga di de Prades, che riparò in Germania, e, dati i legami di de Prades con Diderot, il sequestro temporaneo e il divieto di diffusione dell’Encyclopédie. Le pubblicazioni ripresero però subito grazie alle incertezze del potere regio e alla protezione di Guillaume de Malesherbes, responsabile della censura e acerrimo nemico dei gesuiti. Secondo evento: 5 gennaio 1757, Robert François Damiens, figlio di contadini, ferisce Luigi XV. L’attentato al re scatenò, oltre al terribile supplizio, una nuova campagna contro gli enciclopedisti, accusati di voler rovesciare la monarchia. Terzo evento: nel 1758 Helvetius pubblicò De l’Esprit; l’opera scatenò nuovamente gli avversari dell’Encyclopédie, che denunciarono il pericoloso insinuarsi del materialismo e dell’ateismo in Francia e ottennero la soppressione del privilegio di stampa 48. In questi anni Condillac lavorava al Traité des sensations, che pubblicò nel 1754. Su quest’opera e sulle accuse di plagio, dalle quali Condillac si difese scrivendo un Traité des animaux pubblicato l’anno dopo, mi soffermerò nel quarto e nel quinto capitolo. Accusato di essere l’artefice del sensismo, Condillac decise di lasciare Parigi. Declinò l’invito di Voltaire il quale, in una lettera del settembre 1756, gli propose di raggiungerlo a Ginevra per scrivere con tutta la calma necessaria la sua definitiva opera metafisica49. Accettò di trasferirsi a Parma con l’incarico di precettore di Ferdinando di Borbone, figlio di Filippo di Borbone e di Luisa Elisabetta di Francia e nipote per parte di madre di Luigi XV. Fu proprio Luisa Elisabetta, in uno dei suoi numerosi viaggi a Versailles, a scegliere Condillac come educatore. A differenza di altri personaggi che, come documentato da Daniel Roche, facevano gli educatori a inizio carriera (è il caso di Rousseau), la nomina a precettore del principe di Parma, incarico che durò dall’aprile del 1758 alla primavera del 1765, fu per Condillac come un atto di consacrazione50. Quest’opera fu però un fallimento: sebbene la corte parmense fosse culturalmente molto vivace per via dei legami con la Francia, e dunque il giovane Ferdinando potesse contare su un nutrito numero di intellettuali illuminati, il giovane duca – F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1963, pp. 122-150; P. Quintili, Illuminismo ed Enciclopedia, Roma, Carocci, 2005, pp. 133-141. 47 F. Venturi, Giovinezza di Diderot, Palermo, Sellerio, 1988, pp. 168-203. 48 C. Quarfood, Condillac cit., p. 33. 49 Ibid., p. 32. 50 D. Roche, La cultura cit., pp. 421-446. 46
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come si legge nei ricordi scritti da lui stesso – era più interessato a raccogliere immagini votive che ad ascoltare le conversazioni tra i filosofi 51. Condillac vi aveva profuso molto impegno e aveva redatto da sé i manuali per l’istruzione del principe: per le opere storiche chiese aiuto al fratello Mably, il quale inviò a Parma De l’Étude de l’Histoire (raccolto come sedicesimo volume nell’edizione delle opere complete di Condillac) perché il principe potesse trarre dalla storia gli insegnamenti che ne avrebbero fatto un sovrano illuminato. Sulla vicenda travagliata della pubblicazione del Cours d’étude tornerò nel settimo capitolo. Tra il 1765 e il 1767 Condillac viaggiò in Italia (a Milano conobbe Beccaria) e nel 1767 ritornò in Francia. Divenne membro dell’Académie Française grazie all’appoggio di Charles Duclos. Preferì vivere fuori Parigi e nel 1773 acquistò il castello di Flux, presso Beaugency, nella regione dell’Orléans, dove, occupandosi della proprietà terriera, s’interessò di problemi economici e sostenne le politiche riformatrici di Robert Turgot, che nel 1774 il re aveva nominato Controllore Generale delle Finanze e al quale aveva affidato il compito di risanare le disastrate economie nazionali. Condillac fu eletto membro della Société Royale d’Agriculture d’Orléans nel 1776, lo stesso anno in cui pubblicò Le commerce et le gouvernement. Il trattato fu duramente criticato dai sostenitori della fisiocrazia, la dottrina economica dominante in Francia dal 1750, anche da membri della Société di cui faceva parte Condillac, e fu presto oscurata dall’opera di Adam Smith, pubblicata nello stesso anno e tradotta in francese due anni dopo. Mentre si dedicava alla revisione dei suoi scritti, nel settembre del 1777 Condillac ricevette una lettera dal conte Ignacy Potocki, membro della Commissione dell’Educazione nazionale della Polonia. La Polonia era allora uno Stato illuminato: aveva già domandato la collaborazione di Mably e Rousseau a un progetto di riforma costituzionale; ora si proponeva di riformare l’insegnamento sulla base della filosofia francese. Potocki chiese a Condillac di redigere una summa della sua opera, una logica che trattasse delle facoltà dell’anima e dell’influenza della lingua sul pensiero. Come era stato precettore di un principe – scrisse il conte facendo appello alla coscienza civile del filosofo – così diventerà precettore di una nazione intera52. Nel giugno del 1778 Condillac completò l’opera richiesta, la Logique, pubblicata però solo nel settembre del 1780, un mese dopo la morte di Condillac, avvenuta in agosto. L’ultima opera incompiuta, La langue des calculs, fu pubblicata come ultimo volume dei ventiré che compongono la prima edizione delle opere complete, uscita nel 1798.
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Cfr. H. Bedarida, Parma e la Francia (1748-1789), Milano, Franco Maria Ricci, 1985, 2 voll.; M. Romanello, Ferdinando di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, in Dizionario biografico degli italiani, 1996. 52 C. Quarfood, Condillac cit., p. 48.
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2. La questione dell’origine del linguaggio tra XVII e prima metà del XVIII secolo
La storia delle teorie sull’origine del linguaggio s’iscrive nel complesso ambito dei discorsi sulle origini dove s’incrocia con altre storie – la datazione della Terra e l’età dei popoli, la genesi e gli sviluppi della natura umana, il rapporto tra quest’ultima e la natura animale – e si districa nella dialettica tra una cronologia definita e aderente al racconto biblico e congetture che si rifanno alla letteratura antica. Un buon punto di partenza e che bene sintetizza il quadro storico a ridosso della pubblicazione dell’Essai di Condillac è il seguente brano contenuto nel capitolo Barbarie e linguaggio del saggio I segni del tempo di Paolo Rossi: Le Origines di Stillingfleet sono del 1662; le opere fondamentali di Woodward sono composte tra il 1695 e il 1726; le Sacre and profane history di Shuckford è del 1728; la Divine legation of Moses è del 1744; la Scienza Nuova di Vico fu pubblicata e poi faticosamente ampliata e riedita fra il 1725 e il 1744. Questi autori, che pubblicano i loro scritti nel corso di un cinquantennio, hanno […] una serie di avversari in comune […]: intendono difendere la verità cristiana e rifiutare le grandi “eresie” degli antichi e dei moderni e insieme utilizzano cautamente – a difesa dell’unicità del racconto biblico, della ispirazione divina del testo sacro, del riconoscimento della Provvidenza – alcune tesi legate alle affermazioni di Lucrezio e di Hobbes 53.
In questo quadro, prosegue lo storico, si mescolano due atteggiamenti: combattere i libertini e i deisti e fornire armi ai libertini e ai deisti: queste due imprese, in apparenza così diverse, andarono più volte configurandosi come un’unica impresa. Vico e Warburton – e con loro moltissimi altri autori – potevano essere, negli stessi anni, attaccati duramente come distruttori della fede e caldamente elogiati come suoi accorti difensori54.
A questa anfibologia non sfugge, come mostrerò più avanti, l’opera di Condillac. Dai due brani citati si può ricavare un primo dato: per tutto il XVII secolo scorse un sottotesto “pagano” del discorso sulle origini che, come ha mostrato Stefano Gensini, agì «in forma sotterranea» nelle teorie linguistiche rinascimentali, trovò ampia adesione negli Essais di 53
P. Rossi, I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 287. 54 Ibid., p. 307.
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Montaigne, venne «assorbit[o] in una prospettiva scientifica di tipo sperimentale» nel XVII secolo e continuò a scorrere, ora latente, ora in superficie, per tutto il XVIII secolo 55. Gli antichi avevano elaborato due differenti sistemi per spiegare l’origine delle lingue. Il primo era il mito di Saturno, un regno felice nel quale uomini e animali, prima della punizione divina, parlavano una stessa lingua – soluzione raramente perseguita in età moderna. Il vero sistema “pagano” – giudicato “eretico” da chi difendeva la verità cristiana – era quello epicureo-lucreziano, che ipotizzava un’origine naturale del linguaggio 56. Il brano che lo esemplifica è contenuto nei paragrafi 75-76 della Epistola a Erodoto di Epicuro: Per cui anche i nomi (delle cose) non furono in principio stabiliti per un accordo, ma le diverse nature degli uomini, dovendo subire affezioni particolari a seconda dei singoli popoli, e cogliendo particolari rappresentazioni, facevano uscire in maniera particolare l’aria dietro l’impulso di ciascuna di quelle affezioni e rappresentazioni, a seconda anche delle eventuali differenze fra popolo e popolo, dipendenti dai luoghi da essi abitati; infine di comune accordo a seconda di ciascun popolo furono stabilite particolari espressioni per potersi capire reciprocamente con la maggior chiarezza e più concisamente. E chi essendone esperto introduce cose non note dava loro determinati nomi, alcuni in quanto dettati dalla necessità naturale, altri scelti dietro ragionamento seguendo la ragione più forte che consigliava di esprimersi in tal modo57.
La lettera di Epicuro a Erodoto si trova nel X libro delle Vite di Diogene Laerzio, tradotte in latino e stampate nel 1472. A questo brano bisogna almeno aggiungere: il libro V del De rerum natura di Lucrezio, opera diffusa a partire dal ritrovamento avvenuto nel 1417 in Svizzera da parte di Poggio Bracciolini, un capitolo del De architectura di Vitruvio (il primo del libro II), i paragrafi 7-8 del libro I della Biblioteca storica di Diodoro Siculo, il Contra Eunomium di Gregorio di Nissa58. Ciò che è interessante notare nel brano epicureo citato è che origine naturale del linguaggio e istituzione volontaria dei nomi non sono teorie in disaccordo: all’origine i nomi dipendevano dalle «diverse nature degli uomini», poi da ciascun popolo «furono stabilite particolari espressioni per potersi capire». Nell’atto di imporre i nomi alle cose il discorso genetico incontra la questione gnoseologica: per quest’ultima la fonte classica di riferimento è il Cratilo di Platone, dove si confrontano le tre celebri tesi: quella di Ermogene, dell’assoluta 55
S. Gensini, Epicureismo e naturalismo nella filosofia del linguaggio fra Umanesimo e Illuminismo: prime linee di ricerca, in Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari, XVI, 1993, p. 63, 83. 56 P. Rossi, I segni cit., pp. 227-228. 57 Epicuro, Lettera a Erodoto, in Id., Opere, a cura di G. Arrighetti, Torino, Einaudi, 1960, p. 66, par. 75-76. Su questo brano: S. Gensini, V. Vitali, Le idee linguistiche di Epicuro e la tradizione epicurea: il problema del significato, «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2017, pp. 116-128. 58 Sulle fonti dirette e indirette: S. Gensini, Epicureismo cit., pp. 58-59.
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indifferenza del segno linguistica alla cosa, quella di Cratilo, del nome come immagine della cosa, e quella socratica, del nome come strumento (ritornerò sul Cratilo nel par. 7.2.1.). La tesi convenzionalista, che si opporrebbe a quella epicurea e naturalista, ha il suo riferimento nel Peri Hermeneias di Aristotele, dove si dice che il nome è «suono della voce, significativo per convenzione, il quale prescinde dal tempo ed in cui nessuna parte è significativa, se considerata separatamente»59. La contrapposizione Naturalismo vs. Convenzionalismo non pare però sovrapponibile a quella tra la tesi pagana e la tesi tradizionale sull’origine delle lingue. Come ha scritto Gianni Paganini, nella letteratura clandestina – nome che rubrica le opere manoscritte o a stampa di contenuto “eretico”, ateo e materialista circolanti tra XVII e XVIII secolo – sulla teoria dell’origine naturale del linguaggio s’innesta la tesi dello sviluppo del linguaggio che muove da condizioni materiali (sensazioni e bisogni) e giunge a una marcata arbitrarietà 60. Nel Theophrastus redivivus, opera anonima della prima metà del Seicento e testo esemplare di questa letteratura, il linguaggio umano è analizzato in sintonia con l’approccio epicureo, «nei termini di una manifestazione naturale correlata a bisogni di comunicazione e a dotazioni organiche»61, in base ai quali il linguaggio umano condivide l’origine naturale col linguaggio animale. Altri autori si concentrarono sull’aspetto convenzionale del linguaggio umano, anche criticando la tesi naturalistica. Samuel Pufendorf contestò la posizione naturalistica di Epicuro e di Diodoro Siculo e insistette sia sul nesso tra linguaggio articolato e stato civile sia sull’arbitrarietà della lingua di Adamo 62. Thomas Hobbes, pur non interessandosi direttamente della genesi del linguaggio, fornì un appoggio notevole ai critici della teoria tradizionale concependo il linguaggio umano in senso radicalmente arbitrario e sostenendo, nel quarto capitolo del primo libro del Leviathan (1651), la tesi dell’arbitrarietà della lingua adamica e figurando Adamo come un uomo selvaggio 63. Vi furono poi autori che adottarono strategie particolari per conciliare Epicuro e Aristotele. Un esempio si trova, di nuovo, nel Theophrastus redivivus, dove però, accostando i due autori antichi, di Aristotele non si cita il Peri Hermeneias, bensì la Historia Animalium, per mezzo della quale l’anonimo intende dimostrare che tra uomini e animali esiste una differenza di
Aristotele, Dell’espressione, in Id., Organon, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 2003, pag. 58, par. 2.20. Su questo brano: F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Bari, Laterza, 2003. 60 G. Paganini, Empirismo e analisi del linguaggio nella letteratura filosofica clandestina, in Aa.vv., De la Ilustration al Romanticismo, Cádiz, Servicio de publicaciones Universidad de Cádiz, 1988, p. 78. 61 Ibid., p. 76. 62 L. Formigari, Linguistica ed empirismo nel Seicento inglese, Bari, Laterza, 1970, p. 51. 63 Ibid., p. 50; P. Rossi, I segni cit., pp. 260-261. 59
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grado, e non di natura, nella locutio (diálectos)64. Più esemplare il caso di Richard Simon, autore della fondamentale Histoire critique du Vieux Testament (1680), il quale, contestando l’origine divina del linguaggio, si ricollegò al dettato del testo epicureo, sostenendo che l’invenzione umana del linguaggio, avvenendo per via di ragione, segue, e non è in contrasto, con l’origine naturale65. Un esempio decisivo che dimostra l’artificiosità dell’opposizione Naturalismo vs. Convenzionalismo è lo stratagemma della doppia genesi adottato sia dai due autori, Warburton e Vico, citati da Paolo Rossi come esempio di discorso anfibologico, sia, per influenza di Warburton, da Condillac (v. par. 3.2.1.). Tale stratagemma consiste nell’includere argomenti “eretici” nel quadro tradizionale e nello stabilire una rottura irrimediabile tra il tempo di Adamo e il tempo dei primi uomini. In The Divine Legation of Moses, per confutare la tesi ermetica secondo la quale i geroglifici furono inventati per ragioni di segretezza, Warburton sostiene che i geroglifici sono assimilabili alle pitture messicane, ovvero sono un mezzo primitivo di espressione: Il linguaggio, come risulta chiaro dalla natura delle cose, dalle testimonianze della storia e dalle vestigia ancora esistenti delle lingue più antiche, era all’inizio oltremodo rozzo, angusto ed equivoco. […] Nella prima età del mondo il rapporto di comunicazione fra gli uomini era costituito da un discorso misto di parole e di azioni. Questo modo di esprimere pensieri mediante l’azione coincide perfettamente con quello di registrarli mediante la pittura66.
Il ragionamento presuppone una frattura temporale tra l’età della lingua di Adamo e l’età dei primi uomini. Questi ultimi comunicavano utilizzando segni grossolani, come, nel caso degli egiziani, i geroglifici. Per sostenere la sua tesi Warburton usò argomenti “eretici”: la natura rozza dei primi linguaggi e il nesso tra linguaggio e popolo. Più esplicitamente Vico, nella Scienza Nuova, cercò di conciliare il racconto biblico con la tesi del linguaggio come prodotto della fantasia umana. Un conto è la lingua di Adamo, il quale, «illuminato dal vero Dio, impose i nomi alle cose dalla loro natura», conoscendo la natura delle cose; un altro sono le «lingue de’ popoli» dispersi per la Terra e ridotti a condizione «ferina», l’origine delle quali «avvenne in una maniera miracolosa, onde allo
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G. Paganini, Empirismo cit., p. 76; S. Gensini, Epicureismo cit., p. 81. L. Formigari, Linguistica cit., p. 19. 66 Cit. in P. Rossi, I segni cit., p. 277. 65
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istante si formarono tante favelle diverse»67. Non solo la Scienza Nuova inserisce nel quadro tradizionale l’ipotesi dei “bestioni” quali primi uomini: in modo ortodosso fa dipendere la dispersione degli uomini, e con ciò la genesi storica delle lingue, da un evento miracoloso, ossia il Diluvio Universale. Uno stratagemma simile, come vedremo nel prossimo capitolo, adottò anche Condillac, con la differenza che nell’Essai si sostiene l’ipotesi della monogenesi naturale del linguaggio dopo il Diluvio. In questo modo Condillac sfuggiva a una contraddizione che si sarebbe manifestata nel tentativo di conciliare la tesi epicurea con la propria impostazione gnoseologica e che Diderot enunciò nella voce Fait dell’Encyclopédie: non essendoci sulla Terra due uomini che si somigliano, per costituzione, lumi di ragione ed esperienza, non esistono due uomini nei quali i simboli facciano esattamente la stessa impressione68.
L’opposizione che meglio inquadra il complesso campo dei discorsi sull’origine del linguaggio è Monogenesi vs. Poligenesi. Le tesi poligenetiche, in sintesi, sono accomunate dalla critica alla tesi tradizionale e si propongono o di conciliare la tesi dell’origine naturale e dello sviluppo arbitrario del linguaggio (la letteratura clandestina), o di sostenere la tesi dell’arbitrarietà radicale del segno linguistico (Hobbes), oppure adottano lo stratagemma della doppia genesi (Warburton, Vico e Condillac). Le fonti della tesi monogenetica sono nel libro del Genesi: la denominazione degli animali da parte di Adamo (Genesi 2, 19-20), la fine miracolosa del Diluvio Universale (Genesi 8), l’episodio della Torre di Babele (Genesi 11, 1-9). Curiosamente nessun sostenitore della tesi monogenetica sembra accostare a quest’ultimo passo l’episodio della Pentecoste (Atti 2, 3-4) che, a rigore, dovrebbe superare la divisione tra i popoli. Anche il campo del discorso monogenetico non è esente da divisioni interne. La dottrina tradizionale si basa su tre punti: (i) la genesi divina della prima lingua, l’ebraico; (ii) la dispersione dei popoli come effetto del Diluvio; (iii) il carattere miracoloso della confusione delle lingue dopo Babele. Sostenitore di questa dottrina è Brian Walton, editore nel 1657 dei Biblia polyglotta69. Nel complesso, però, i soli punti fermi sembrano l’ispirazione divina della prima lingua e il secondo punto. Sul primo punto, la discussione era tra chi sosteneva che Dio avesse imposto i nomi della lingua adamica e che la prima lingua aveva natura divina, e chi sosteneva, come Vico, che Adamo 67
G. Vico, La scienza nuova, a cura di P. Rossi, Milano, Bur, 2008, pp. 140-141 (l. I, sez. IX). Su questo brano: P. Rossi, I segni cit., p. 285; J. Trabant, La scienza nuova dei segni. La sematologia di Vico, Bari, Laterza, 1996, pp. 58-70. 68 Cit. in G. Imbruglia, Piacere e dolore, in G. Paganini, E. Tortarolo (a cura di), Illuminismo. Un vademecum, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 179. 69 L. Formigari, Linguistica cit., p. 49.
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avesse imposto i nomi conoscendo, per grazia divina, la natura delle cose 70. Meric Causabon, invece, nel De quatuor linguis commentatio, pubblicato nel 1650, sostenne che non era possibile accertare l’identità della lingua originaria 71. Causabon riteneva anche che la molteplicità delle lingue era la conseguenza naturale della dispersione degli uomini, e non l’effetto dell’intervento divino dopo Babele72. Anche John Wilkins riteneva, con Causabon, che la lingua adamica era ormai perduta; e proprio per questa ragione sosteneva che il solo modo di restaurare fra gli uomini un modo di comunicazione preciso, lontano dalle imperfezioni di qualunque lingua storica, era l’istituzione di una lingua interamente artificiale73. In Wilkins, come anche in Leibniz, il problema della ricerca della lingua originaria s’interseca col progetto di costruire una lingua perfetta74. Alla base del progetto di Wilkins vi è l’idea di ordinare e classificare le cose a partire dalla loro natura per poi dotare queste cose di segni che rispettino l’isomorfismo tra categorie ontologiche e categorie logiche 75. Il presupposto che l’ordine delle cose nel mondo possa corrispondere ontologicamente all’ordine delle idee nella mente deriva dall’ideale enciclopedico di una clavis universalis in grado di cogliere la trama nascosta dell’universo e l’essenza delle fenomeni. I progetti di lingua perfetta derivano dalla tradizione dell’ars memoriae rinascimentale76. Contro simili intenti, Hobbes riteneva che non era possibile ordinare le cose perché la classificazione dei nomi, a causa dell’arbitrarietà del linguaggio, non poteva che essere disposizione di parole in classi di parole. Dopo Hobbes, John Locke non si limitò a ribadire l’indifferenza del suono al significato: la gnoseologia dell’Essay on Human Understanding sostiene che il significato non è la definizione della cosa né rispecchia le qualità dell’oggetto, ma risponde solo all’ordine soggettivo dell’esperienza. A partire da qui, come vedremo nel capitolo successivo, Condillac costruì la sua gnoseologia.
70
P. Rossi, I segni cit., p. 250. L. Formigari, Linguistica cit., p. 47. 72 Ibid., p. 46. 73 Ibid., p. 54. 74 S. Gensini, Epicureismo cit., p. 91. 75 R. Pellerey, Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Bari, Laterza, 1992, pp. 70-72. 76 P. Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, Il Mulino, 2000. 71
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3. I segni e l’origine del linguaggio nell’Essai sur l’origine des connaissances humaines
L’Essai sur l’origine des connaissances humaines. Ouvrage où l’on réduit à un seul principe tout ce qui concerne l’entendement humain uscì anonimo in due tomi nel 1746. Il debito con l’Essay concerning human understanding di John Locke, edito nel 1690, che Condillac, non conoscendo l’inglese, lesse nella traduzione di Pierre Coste (figura importante del primo Settecento, traduttore anche, nel 1706, del trattato di ottica di Newton) pubblicata nel 1700 col titolo Essai philosophique concernant l’entendement humain, è evidente nel titolo (significativa l’aggiunta alla prima edizione inglese dell’Essai, del 175677: Being a Supplement to Mr Locke’s Essay on Human Understanding) e nell’indice: la prima parte dell’Essai, «Des matériaux des nos connoissances, et particuliérement des opérations de l’Âme», sulle idee e le operazioni dell’anima, corrisponde all’incirca all’argomento del secondo libro, «Of ideas», dell’Essay di Locke (Condillac non tratta della critica delle idee innate, della quale si occupa il primo libro di Locke); la seconda parte, «Du Langage et de la Méthode», rinvia ai libri terzo, «Of words», e quarto, «Of knowledge and opinion». Del resto è noto di quale vasto consenso abbia goduto l’opera di Locke presso gli intellettuali francesi nell’Età dei Lumi. Ne è sufficiente testimonianza questo brano tratto dalle Lettre philosophiques di Voltaire: Tant de raissoneurs ayant fait le roman de l’âme, un sage est venu qui en fait modestement l’histoire; Loke [sic] a dévelopé à l’homme la raison humaine, comme un excellent anatomiste explique les ressorts du corps humain […]; au lieu de définir tout d’un coup ce que nous ne connoissons pas, il examine par degrés ce que nous voulons connoître, il prende un enfant au moment de sa naissance, il suit pas à pas les progrès de son entendement, il voit ce qu’il a de commun avec les bêtes et ce qu’il a au-dessus d’elles, il consulte surtout son propre témoignage, la conscience de sa pensée78.
Curioso brano che, più che raffigurare il metodo di Locke, sembra elogiare, dodici anni prima della sua pubblicazione, l’Essai di Condillac, persino nei punti in cui Condillac ha voluto Sulla traduzione di Pierre Coste: D. Poggi, Lost and Found in Translation? La gnoseologia dell’Essay lockiano nella traduzione francese di Pierre Coste, Firenze, Olschki, 2012, che purtroppo non si occupa del lessico semiotico di Locke. 78 Voltaire, Lettres philosophiques, Amsterdam, Lucas, 1734, p. 57. 77
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emendare Locke. Se si confrontano i titoli delle opere, balza subito agli occhi la specificazione che l’Essai tratta dell’origine des connaissances humaines. È una delle critiche che Condillac muove a Locke nell’introduzione: «il a passé trop légérement sur l’origine de nos connoissances» (Essai, p. XX); e ancora: «l’Ame n’ayant pas dès le premier instant l’exercise de toutes ses opérations, il étoit essentiel […] de montrer comment elle acquiert cet exercise, et quel en est le progrès» (Essai, p. XXI). Lo stesso Locke, nel capitolo sui modi, od operazioni, del pensare, ne enumera alcuni in disordine (“thinking, perception, sensation, remembrance, recollection, contemplation, rêverie, attention, intention or study”) e commenta: «These are some few instances of those various modes of thinking […]. I do not pretend to enumerate them all, nor to treat at large of this set of ideas, which are got from reflection: that would be to make a volume»79; e questo volume sembrerebbe l’Essai di Condillac. 3.1. I segni, le operazioni dell’anima e le idee C’è un’altra critica che Condillac muove a Locke: questi, si legge, a vû, par exemple, que les mots et la maniére dont nous nous en servons, peuvent fournir des lumières [in nota: L. III. Ch. VIII § 1] sur le principe des nos idées: mais parce qu’il s’en est apperçu trop tard [in nota: citazione da L. III Ch IX § 21], il n’a traité que dans son troisiéme Livre une matiére, qui devoit être l’objet du second (Essai, p. XX).
Affermazione interessante, che consente innanzitutto di rilevare delle differenze nel confronto tra i titoli degli indici: l’Essai si occupa di linguaggio non solo nella prima sezione della seconda parte, il cui titolo, «De l’origine et de progrès du langage», denota una prospettiva “dall’origine” analoga a quella sulla conoscenza, ma già nella quarta sezione della prima parte, «De l’opération par laquelle nous donnons des signes à nos idées»; e, ancora prima, il capitolo quarto della seconda sezione, nel cuore dell’analisi delle operazioni dell’anima, s’intitola «Que l’usage des Signes est la vraie cause des progrès de l’imagination, de la contemplation et de la mémoire». Condillac, inoltre, cita correttamente il passo in cui Locke ammette di non aver compreso subito l’importanza della parola per la formazione delle idee: «I must confess, then that when I first began this Discourse of the Understanding, and a good while after, I had not the least thought that any consideration of word was at all necessary to
79
J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, a cura di P. H. Nidditch, Oxford, Clarendon Press, 1979, II.XIX.1-2. Per rendere più agevole la consultazione in altre edizioni, si riportano solo i numeri dei paragrafi.
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it»80. Hans Aarsleff ha comunque dimostrato che, sebbene il terzo libro sulle parole non fosse previsto nel progetto iniziale dell’Essay, risalente al 1671, tuttavia Locke non era affatto indifferente al tema del linguaggio; e cita a tale proposito pagine di diario del filosofo datate 1676 e 1677, i libri letti durante il soggiorno in Francia tra il 1675 e il 1679, i libri posseduti, tra i quali la Logique, la Grammaire e le grammatiche particolari di Port-Royal, la letteratura di viaggio contenente brani sulle lingue dei selvaggi nota a Locke – che tra l’altro ne era un fervente lettore81. La prima nota, invece, come ha notato François Duchesneau, rinvia a un brano dell’Essay in cui si discute dei termini astratti e concreti e dove Locke si limita a dire che «the ordinary words of language, and our common use of them, would have given us light into the nature of ideas, if they had been but considered with attention» e che i termini astratti non sono predicabili l’uno dell’altro82. Condillac se ne serve per mettere in luce il principio che guida l’Essai, evocato nel brano («sur le principe des nos idées»), annunciato nel sottotitolo (Ouvrage où l’on réduit à un seul principe…), probabilmente ciò che ritiene essere la sua vera scoperta. Di quale principio si tratta?
3.1.1. Una gnoseologia sensistica Condillac afferma di aver risolto i numerosi problemi, affrontati nello studio dell’intelletto umano, «dans la liaison des idées, soit avec les signes, soit entre elles», e poco dopo ribadisce che «les idées se lient avec les signes, et ce n’est que par ce moyen, comme je le prouverai, qu’elles se lient entr’elles» (Essai, pp. XIV-XV). Il ruolo del segno nel legare le idee: questo è il principio dell’Essai. Tuttavia nella prima citazione si parla anche di legami tra le idee stesse. Per poter comprendere il modo in cui Condillac fa intervenire il segno nello sviluppo dell’intelletto umano, conviene partire dall’analisi delle prime operazioni metali, o cognitive (equivalenti dell’espressione «opérations de l’âme»). “Tutte le operazioni dell’anima e tutte le idee derivano dalla percezione” è il fondamento di quella che Pietro Rossi ha definito «gnoseologia sensistica» condillacchiana, perfettamente contestualizzata entro l’«assioma psicologico», secondo Cassirer alla base dell’empirismo settecentesco, importato dalla Scolastica («nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu»), della derivazione sensibile di tutte le idee 83. La scelta di porre la percezione a matrice 80
Ibid., III.IX.21. H. Aarsleff, Da Locke cit., pp. 73-74. 82 J. Locke, Essay cit., III.VIII.1; F. Duchesneau, Condillac cit., pp. 78-79. 83 P. Rossi, La gnoseologia sensistica (Condillac), in Id. (a cura di), Gli Illuministi francesi, Torino, Loescher, 1967, p. 240; E. Cassirer, La filosofia cit., p. 145. 81
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delle attività mentali è probabilmente dovuta, oltre al fatto che la vista ha per l’uomo il primato sugli altri sensi, al “problema di Molyneux”, dal nome dello scienziato William Molyneux, il quale, nel 1688, sottopose a Locke, che era medico prima che filosofo, un quesito ampiamente dibattuto negli anni successivi (vi partecipò, tra gli altri, Diderot con la Lettre sur les aveugles del 1749) e che può essere formulato così: un uomo cieco dalla nascita, al quale è stato insegnato a distinguere mediante il tatto un cubo da una sfera, è in grado, dopo aver recuperato la vista, di distinguere il cubo dalla sfera senza l’aiuto del tatto, per mezzo della sola vista84? Dalla percezione, l’analisi delle più elementari operazioni dell’anima (Essai, I.II.I), nella quale ogni operazione che segue è lo sviluppo della precedente, delinea questa prima successione:
(Impressione)
(Azione degli oggetti sui sensi)
Percezione
Ricezione delle impressioni attraverso i sensi (soprattutto la vista)
Coscienza
La percezione avvertita
Attenzione
Intensificazione della coscienza di alcune percezioni rispetto ad altre
Reminiscenza
La percezione avvertita che si ripete
Tabella 1: gnoseologia sensistica dell’Essai
L’analisi di Condillac è pratica, si svolge con delle sorte di esercizi cognitivi («d’un côté, je suis remonté à la perception…»), assimilando la successione delle operazioni dell’anima allo sviluppo ontogenetico dell’uomo dalla infanzia, seguendo un metodo non del tutto estraneo all’introspezione cartesiana. Sotto l’influenza di Locke, l’indagine sensistica comincia dalla percezione, lasciando fuori lo studio delle cause fisiche dell’impressione, ragione – come ha giustamente notato Salvucci – del sottaciuto dualismo corpo – anima, e delle critiche mosse da Cabanis a Condillac85. L’attenzione è la prima operazione mentale in grado di svolgere un’attività un po’ più complessa e autonoma delle precedenti. Trattenendo alcune percezioni e respingendone altre, l’attenzione crea dei legami tra le percezioni che sono il presupposto dello sviluppo dell’operazione seguente: «la réminiscence est donc produite par la liaison que conserve la suite de nos perceptions» (Essai, I.II.I.15). L’attenzione genera legami di percezioni nello stesso momento in cui si attiva: il tratto operativo e quello generativo sono strettamente connessi qui e nelle attività cognitive che ne derivano. Inoltre, dato che le 84
Sul problema di Molyneux: F. Di Trocchio, Il problema di Molyneux, «Rivista critica di storia della filosofia», vol. 28, n. 3, 1973, pp. 297-309. 85 P. Salvucci, Linguaggio e mondo umano in Condillac, Urbino, Steu, 1957, p. 16); sulle critiche di Cabanis: S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei Lumi, Milano, Sansoni, 1982, pp. 41-42 e 226-228.
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percezioni, in quanto origine e materia prima di qualsiasi operazione mentale, sono delle idee semplici – «C’est une chose bien évidente, que les idées qu’on appelle sensations sont telles que, si nous avions été privés des sens, nous n’aurions jamais pu les acquérir» (Essai, I.I.II.9) –, le più rozze idee complesse, in quanto aggregati di idee semplici, sono delle «collection des plusieurs perceptions» (Essai, I.II.III.3). I legami delle idee tra loro, come la percezione che si ripete e che forma la reminiscenza, sono delle sorte di liaisons des perceptions. Le operazioni mentali che seguono (da Essai, I.II.II a Essai, I.II.V), più complesse, possono essere definite secondo il tipo di legame articolato dall’attenzione:
Reminiscenza
Legame di percezioni (percezione ripetuta)
Immaginazione
Legami di percezione e oggetto
Memoria
Legami di nome o circostanza e oggetto
Contemplazione
Conservazione di legami di percezione o nome o circostanza e oggetto
Riflessione
L’attenzione diretta su oggetti diversi o su diverse parti di un oggetto
Tabella 2: prosecuzione della gnoseologia sensistica dell’Essai
Questa tabella presenta almeno due problemi. Innanzitutto, rispetto all’immaginazione, descritta come la capacità di trattenere percezioni in assenza dell’oggetto che le ha occasionate (per esempio, la percezione dell’estensione di un oggetto, legata alle percezioni della figura, della grandezza ecc. – Essai, I.II.II.21), con la memoria e la contemplazione, che è un correlato della memoria (e che per questa ragione non approfondirò nei paragrafi successivi), compaiono anche i segni. C’è come un salto tra l’una e le altre operazioni: da dove deriva l’uso dei segni? In secondo luogo, la riflessione non è più semplicemente un’ulteriore intensificazione dell’attenzione, bensì la capacità di attivare e dirigere l’attenzione stessa, espressione dell’autonomia dello spirito. A differenza di Locke, che concepisce la riflessione come una fonte delle idee semplici alla pari della sensazione 86, Condillac colloca la riflessione sul gradino più alto della successione delle prime operazioni mentali, a metà tra queste e le attività razionali (distinguere, astrarre, comparare, comporre e scomporre) che sono fin dall’inizio autonome dalla percezione perché coesistono e operano con le idee. Per il duplice carattere operativo e generativo, la riflessione, come vedremo, non si limita a produrre e ad articolare segni propriamente detti e liaisons des idées vere e proprie, ma è anche la prima operazione meta-operativa in grado di dirigere l’attenzione sulle altre
86
J. Locke, Essay cit., II.IV-V.
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operazioni mentali. Ma in che modo Condillac fa discendere la riflessione, che è il primo stadio dell’autonomia dello spirito, dalla percezione, che è di per sé un’operazione passiva? Per rispondere a questa domanda, e intendere le operazioni descritte in Tabella 2, conviene passare al modo in cui Condillac si occupa dei segni.
3.1.2. Segno accidentale, naturale, d’istituzione La tabella che segue sintetizza i tre tipi segnici definiti nel capitolo sui progressi dell’immaginazione, della memoria e della contemplazione (Essai, I.II.IV.35):
Segno accidentale
Oggetto che qualche circostanza ha legato a una sensazione
Segno naturale
Grido che la natura ha legato a sentimenti di gioia, paura, dolore
Segno d’istituzione
Segno che l’uomo ha legato in modo arbitrario a un’idea
Tabella 3: tipologia segnica dell’Essai
I tre segni sono differenti rispetto ai tre costituenti:
a
l’elemento che funge da segno: un qualsiasi oggetto esterno per il segno accidentale; un componente fisico dell’organisation (concetto usato nel XVIII secolo in ambito filosofico e medico per il sistema corporeo) per il segno naturale; un elemento inventato e scelto dall’uomo per fungere da segno;
b
la relazione segnica: circostanziale nel primo caso, naturale nel secondo, arbitraria (o istituzionale) nel terzo;
c
il termine della relazione: la sensazione quale relato del segno accidentale va intesa come reazione fisica immediata; sensazione e sentimento riguardano il segno naturale, mentre il segno d’istituzione ha a che fare con idee, o legami di idee.
Se si considera la tassonomia in senso dinamico, è evidente che il passaggio fondamentale è quello che avviene dal segno naturale al segno d’istituzione: questo deriva da quello? Per il momento si può notare che la trasformazione riguarda l’intero modo segnico: l’uomo inventa segni – punto (a) – con cui sceglie – punto (b) – di significare qualcosa – punto (c)87. Così, per esempio, usa sassolini (segni accidentali) per calcolare, o con un grido (segno naturale) simula un sentimento di dolore. 87
C. Tiercelin, Dans quel mesure le langage peut-il être naturel?, in A. Bertrand (a cura di), Condillac. L’origine cit., p. 53.
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Prima di passare allo studio della storia ontogenetica dei segni, conviene esaminarne gli statuti particolari a partire dalle distinzioni esposte nella tabella qui sotto, ricavata dalla precedente e di seguito commentata:
Segno accidentale
Involontario + Estrinseco
Segno naturale
Involontario + Intrinseco
Segno d’istituzione
Volontario + Intrinseco
Tabella 4: analisi della tipologia segnica dell’Essai
Del segno accidentale, Condillac si occupa solo in pochi punti dell’Essai e non più nelle opere successive. Unico dei tre modi segnici a configurare una relazione estrinseca all’uomo, il segno accidentale articola un rapporto di tipo inferenziale: un sentimento di dolore è per esempio l’effetto provocato dall’oggetto fuoco, il che si può descrivere come relazione fuoco
sentimento di dolore. L’inferenza risulta in un certo senso declassata: in Condillac, come ha scritto Auroux, ha valore ontologico ed è di tipo associativo, ed è del tutto differente dalla modalità epistemica dell’inferenza involontaria del segno naturale secondo Agostino – il segno fa conoscere qualcosa oltre se stesso (il fumo per il fuoco) – o secondo Hobbes – il segno instaura un rapporto oggettivo di antecedenza e conseguenza (la nuvola per la pioggia) 88. Il segno naturale è involontario e intrinseco perché i «cris naturels», i movimenti del corpo, della testa, delle mani, dipendono dalla conformazione del corpo (Essai, I.II.IV.38). Auroux ha notato che, a differenza del segno accidentale, formulato secondo una relazione del tipo oggetto idea (es. fuoco sentimento di dolore: il sentimento è effetto dipendente dalla cosa esterna e indipendente dall’uomo), Condillac formula il segno naturale secondo il rapporto grido sentimento89. La differenza è cruciale: come si vedrà meglio nei paragrafi successivi, questo significa che, mentre il segno accidentale è il solo che un ipotetico uomo isolato e dalle capacità cognitive estremamente limitate può possedere, il rapporto associativo del segno naturale presuppone una situazione comunicativa tra almeno due uomini, per cui, per esempio, il grido dell’uno è lo stimolo che causa nell’altro una sensazione di paura associata al grido. Come ha scritto Pasquale Salvucci, per Condillac l’uomo è naturalmente predisposto a vivere in società e a crescere grazie agli scambi linguistici 90. Un secondo
88
S. Auroux, La filosofia del linguaggio, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 100. Id., La sémiotique cit., pp. 26-28. 90 P. Salvucci, Condillac filosofo della comunità umana, Milano, Nuova Accademia, 1961, p. 40.. 89
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aspetto merita un’annotazione, ed è il carattere intrinseco del segno naturale. Si è accennato sopra che Agostino e Hobbes concepiscono il segno naturale come rapporto inferenziale di tipo epistemico. Nella complessa classificazione dei segni della Logique di Port-Royal, in forte debito con la semiologia agostiniana, il segno naturale di una cosa è l’idea, nel senso che l’idea non è un’immagine della cosa, bensì la cosa stessa: ciò che si vede allo specchio non è l’immagine di una cosa, ma la cosa stessa91. Senza andare oltre questo cenno a una questione estremamente complicata, che muove dalla critica della quinta obiezione di Pierre Gassendi alle meditazioni cartesiane e si ricollega alla Dioptrique di Descartes, ciò che m’interessa mettere in evidenza è la peculiarità, nelle controversie semiotiche, della concezione condillacchiana del segno naturale, ispirata, come dirò meglio più avanti, a scrittori che in un certo senso si occupano dell’origine del linguaggio. Il segno d’istituzione, o arbitrario, è volontario perché, come da dicitura, istituito dall’uomo, e intrinseco sia nel significante (l’uso della parola) sia nel rapporto di significazione (l’uso dei sassolini come strumenti di calcolo). Ma l’arbitrarietà può avere diverse sfaccettature. Auroux ha distinto quattro specificazioni del rapporto arbitrario, ciascuna opposta a un modo della relazione naturale:
a
Rapporto arbitrario tra suono e idea vs. Rapporto di conformità tra suono e idea (es. onomatopea);
b
Rapporto immotivato tra il segno e il suo termine di relazione vs. Rapporto motivato tra il segno e il suo relato;
c
Imposizione volontaria vs. Rapporto involontario;
d
Concezione storica e variabile del segno vs. Condizione fissa e immutabile del segno92.
L’Essai esclude il solo punto (b) dato che il segno d’istituzione ha, in qualche modo, origine naturale; ammette, invece, il punto (a), che rinvia al rapporto tra segno e idea, e il punto (d), che s’intreccia con l’analisi della formazione del linguaggio, e il punto (c), che consente una rapida annotazione sulla dicitura signe d’institution: Eugenio Coseriu ha notato che, laddove Locke affermava che le parole sono segni delle idee «by a voluntary imposition», Pierre Coste 91
A. Arnauld, C. Lancelot, Logique de Port-Royal, Paris, Libraire de L. Hachetté, 1865, I.IV (introdotto nella quinta edizione, del 1683). L’argomentazione che segue è di A. Arnauld, Des vraies et des fausses idées, in Id., Œuvres philosophiques, a cura di J. Simon, Paris, Adolphe Delahays, 1843, pp. 45-46. Sul segno nella Logique di Port-Royal: A. Robinet, Le langage à l’âge classique, Paris, Klincksieck, 1978, pp. 40-51; R. Simone Roberto, Grammatica e logica di Port-Royal, in Id., Il sogno di Saussure, Bari, Laterza, 1992, pp. 93-132. 92 S. Auroux, La sémiotique cit., pp. 48-53.
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ha tradotto «par une institution arbitraire», espressione che ha influenzato, oltre a Condillac, diversi scrittori francesi contemporanei93. Odile Le Guern-Forel ha sostenuto che la classificazione dei segni di Condillac s’ispira a quella del Traité historique et critique des principaux signes dont nous nous servons pour manifester nos pensées, opera del 1717 di Alphonse Costadau, domenicano e professore di teologia a Lione94. Di questo pachidermico trattato, per lo più dedicato ai segni superstiziosi, diabolici e divini, Condillac avrebbe compulsato, secondo Le Guern-Forel, almeno i primi due volumi, dove però la concezione del segno naturale si rifà a quella agostiniana e tra i segni «arbitraires et d’institution» manca la parola.
3.1.3. Formazione dei segni e delle operazioni dell’anima Come si evince dalla Tabella 2, l’analisi dello sviluppo delle operazioni dell’anima è correlata a quella dello sviluppo dei segni. Possiamo ora esaminare le congetture ontogenetiche che Condillac fa anche su due casi particolari (Essai, I.IV.II): uno, d’inizio Settecento, riguarda un giovane di Chartres nato sordomuto che all’età di ventitrè anni ha d’un colpo acquisito la facoltà di parlare e di sentire; l’altro, datato 1694, è quello di un bambino di dieci anni nato e vissuto in una foresta con gli orsi. Sono due esempi di casi molto dibattuti al tempo, il più famoso dei quali è certamente quello più tardo (siamo all’inizio del XIX secolo) del ragazzo selvaggio dell’Aveyron (che ha ispirato il film L’enfant sauvage di François Truffaut), una cospicua varietà di bambini trovati nelle foreste, di ragazzi sordomuti, di uomini selvaggi, oggetti per studi e ricerche sull’origine e gli sviluppi della natura umana 95. Nessun tipo di segno interviene nello sviluppo delle facoltà mentali più semplici (Tabella 1). In un uomo dotato solo di segni accidentali, la reminiscenza e l’immaginazione restano facoltà limitate perché dipendenti dalle cause esterne che occasionano una qualche sensazione: «à la vue d’un objet la perception, avec laquelle il s’est lié, pourra se réveiller» e «il pourra la reconnoître pour celle qu’il a déjà eue», ma «il faut cependant remarquer que cela n’arrivera qu’autant que quelque cause étrangère lui mettra cet objet sous les yeux»
E. Coseriu, L’arbitraire du signe, in «Archiv fur das Studium der neueren Sprachen und Literaturen», 204/119, 1967, pp. 81-112. Tra gli scrittori: J.-B. Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, Paris, Pier-Jean Mariette, 1740, vol. 3, p. 224 (sul quale ritorneremo); Charles Batteux, Les Beux-Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 1747, p. 264; David Renaud Bouiller (Essai philosophique sur l’âme des bêtes, Amsterdam, Changuion, 1737, vol. 2, p. 243. 94 O. Le Guern-Forel, Aux origines de la sémiologie: Condillac et Costadau, in J. Sgard (a cura di), Condillac cit., pp. 137-140. 95 Sui selvaggi, v. il fondamentale S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, Torino, Einaudi, 2014; sui ragazzi selvaggi: A. Ludovico, La scimmia vestita. 47 casi di ragazzi selvaggi, Roma, Armando, 1979, in particolare pp. 31-55 e 117-127. 93
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(Essai, I.II.IV.37). Il bambino selvaggio vissuto con gli orsi non possedeva che segni accidentali: anche se le passioni suscitavano in lui grida naturali, vivendo con orsi, che «attachent vraisemblablement à leurs cris les perceptions dont ils font les signes», i cui «mugissemens n’ont pas assez d’analogie avec la voix humaine», e non con altri uomini, non possedeva segni naturali, «puisque les hommes ne peuvent faire des signes, qu’autant qu’ils vivent ensemble» (Essai, I.IV.II.25). Il segno naturale presuppone la condivisione delle sensazioni, ossia, come detto nel paragrafo precedente, l’interazione umana. Il bambino selvaggio non condivide i bisogni degli orsi e chiaramente ne risulta privo. L’immaginazione resta vincolata alle circostanze e non si sviluppa nemmeno con l’uso dei segni naturali. Il giovane di Chartres mostrava «quelques foibles traces des opérations de l’âme», limitate a causa delle sue condizioni, comunicava con gesti i suoi bisogni, ma le percezioni, guidate dal solo istinto di conservazione, si risvegliavano solo in presenza dell’oggetto che le aveva occasionate: «il n’auroit aucun signe pour suppléer à l’absence des choses» (Essai, I.IV.II.19). Il segno naturale, ricordiamolo, è involontario e «il doit naturellement accompagner» il sentimento: il grido è percepito come segno solo quando si ripete, dunque per mezzo della reminiscenza: «l’un et l’autre», cioè il grido e il sentimento, «se trouveront si vivement liés dans son imagination, qu’il n’entendra plus le cri, qu’il n’éprouve le sentiment en quelque manière» (Essai, I.II.IV.38); e questo avviene o, nel caso del ragazzo sordomuto, «quand le hazard le lui fera entendre», o quando con un altro uomo avviene un primitivo scambio di segni. Secondo Condillac, l’uomo acquisisce il pieno possesso delle proprie capacità cognitive solo grazie ai segni propriamente detti. Il capitolo nono della seconda sezione, «Des vices et des avantages de l’Imagination», distingue due modi di operare dell’immaginazione 96: il primo modo è quello descritto nella Tabella 2, ossia l’immaginazione come operazione che trattiene percezioni dell’oggetto in assenza di questo. Il secondo modo consiste nell’elaborare «ensemble» le idee «volontairement», «par la liberté avec laquelle elle [l’immaginazione] transporte les qualités d’un sujet dans un autre, elle rassemble dans un seul ce qui suffit à la nature pour en embellir plusieurs» (Essai, I.II.IX.75-76). Questa distinzione verrà ripresa da Voltaire per la voce «Imagination» dell’Encyclopédie. Per i montaggi di idee involontari, legati a circostanze particolari e frutto dell’istinto di autoconservazione – «la vue d’un précipice, où nous sommes en danger de tomber, réveillât en nous l’idée de la mort» (Essai,
T. Takesada Tomoko, Imagination et langage dans l’“Essai sur l’origine des connaissances humaines” de Condillac, in J. Sgard (a cura di), Condillac cit., 1982, pp. 47-58; v. anche C. A. Viano, Introduzione, in É. B. Condillac, Opere, Torino, Utet, 1976, pp. 31-32. 96
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I.II.IX.78) – è sufficiente l’attenzione – «l’attention ne peut donc manquer à la premiére occasion de former cette liaison» - e il segno accidentale o, se interagiscono due esseri della stessa specie, il segno naturale – «en leur communicant par des cris la frayeur qu’elles conservent, et qui se réveille toujours à la vûe de leur ennemi» (Essai, I.II.IV.41). Condillac ipotizza nel giovane di Chartres una capacità di fare associazioni involontarie molto più fervida della nostra e, in questo senso, parla, con un po’ di confusione, di immaginazione: dato, infatti, che «elle [l’immaginazione] lui retracera les choses d’une maniére bien plus vive», perché, mentre in noi «est si commode de nous rappeller nos idées avec le secours de la mémoire, que notre imagination est rarement exercée», nel sordomuto l’esercizio dell’immaginazione «en séra aussi frequent que ses besoins» (Essai, I.IV.II.21), è chiaro che Condillac sta parlando del montaggio involontario di percezioni vincolate a circostanze particolari.
I
montaggi
involontari,
proprio
perché
dipendono
dall’istinto
di
autoconservazione, dai bisogni, dalle sensazioni primarie di piacere e di dolore, sono più resistenti di quelli volontari, che invece necessitano del segno istituzionale. Ritorneremo più avanti sia sulla distinzione tra i due modi di mettere insieme idee (par. 3.1.4.) sia sul ruolo del montaggio di idee volontario nello sviluppo del linguaggio (par. 3.2.3.). Nel brano prima citato, si accenna al ruolo di freno che la memoria eserciterebbe sull’immaginazione. Lo sviluppo della memoria rende l’uomo libero dalla dipendenza dalle circostanze, consente a un’esperienza non più contingente di rinnovarsi, ritrovando non solo le percezioni dell’oggetto assente, ma anche quanto connesso all’oggetto, come il nome o la circostanza nella quale l’oggetto è stato percepito. In questo senso la memoria fa da freno all’immaginazione: non agevola il libero montaggio di percezioni, seleziona i montaggi in base ai bisogni e agli oggetti di cui si è fatta esperienza. Nel giovane di Chartres la memoria è debole perché l’esperienza del mondo esterno è ridotta. Ci sono dunque due problemi che emergono con la formazione della memoria: in primo luogo, la memoria «n’a lieu qu’autant que par l’analogie des signes que nous avons choisis, et par l’ordre que nous avons mis entre nos idées» – problema condiviso con la contemplazione – ossia presuppone già l’uso di segni arbitrari; in secondo luogo, opera sugli «objets que nous voulons nous retracer, tiennent à quelques-uns de nos besoins présens» (Essai, I.II.IV.39), cioè richiama la realtà delle cose. Quest’ultimo punto riguarda l’ontologia di Condillac ed esula dai limiti di questa ricerca 97. Per affrontare invece il primo problema occorre passare subito alla riflessione.
V. i lavori di Bongie, Charrak e Fanari, citati nell’introduzione e in bibliografia. Più datato F. Heidsieck, La méthaphysique de Condillac, in «Archives des philosophies», vol. 48 n. 4, pp. 643-652. 97
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È questa, alla quale è dedicato il quinto capitolo della seconda sezione, l’operazione cognitiva fondamentale della natura umana per via, come si è già detto, della sua capacità metaoperativa di dirigere l’attenzione sia sulle idee sia sulle altre operazioni dell’anima: «cette maniére d’appliquer de nous-mêmes notre attention tour à tour à divers objets, ou à différentes parties d’un seul: c’est ce qu’on appelle réfléchir» (Essai, I.II.V.48). Ripercorrendo a ritroso la successione delle operazioni dell’anima, Condillac nota che la memoria può controllare l’immaginazione grazie alla riflessione, che ne potenzia le capacità. In questo processo il segno arbitrario svolge un ruolo decisivo. Patrick Tort (1976) ha tentato di descrivere la complessità di queste relazioni con una configurazione a spirale, che riproduco nei punti seguenti98:
1.
All’inizio, col montaggio involontario delle percezioni, l’attenzione, ripetendosi le percezioni, ripete degli assemblamenti rudimentali, tenuti insieme dal segno accidentale, e sviluppa la reminiscenza;
2.
Man mano l’attenzione si perfeziona, assembla percezioni parziali o percezioni delle circostanze grazie ai segni naturali: questo processo potenzia l’immaginazione (che deriva dall’attenzione), che può trattenere un archivio più numeroso di percezioni, e dà vita a una prima forma rozza di memoria (che sorge dalla reminiscenza strettamente legata alle contingenze);
3.
L’attenzione, perfezionandosi, è in grado di dirigersi verso gli oggetti: così si sviluppa la riflessione. La selezione del materiale raccolto dà vita a montaggi volontari per mezzo di segni arbitrari: «le pouvoir de disposer de notre attention […] commence à faire sentir l’avantage des signes, et, par conséquent, il est propre à faire saisir, au moins, quelqu’une des occasions où il peut être utile ou nècessaire d’en inventer des nouveaux»; per via di questo stesso processo – prosegue il brano – «il augmentera l’exercice de la mémoire et de l’imagination» (Essai, I.II.V.49);
4.
La riflessione, dunque, rafforza innanzitutto la memoria concatenando idee, circostanze, nomi con segni arbitrari: «un commencement de mémoire suffit pour commencer à nous rendre maîtres de l’exercice de notre imagination. C’est assez d’un seul signe arbitraire pour pouvoir réveiller de soi même une idée» (Essai, I.II.V.49); il segno arbitrario funge da nodo che allaccia delle idee e richiama alla memoria un
98
P. Tort, Dialectique des signes chez Condillac, in H. Parret (a cura di), History of Linguistic Thought and Contemporary Linguistic, Berlin-New York, W. de Gruyter, 1976, pp. 488-502. Un’interpretazione diversa, del segno come strumento necessario a formare le facoltà più che a svilupparle, è in R. Raggiunti, Carattere, funzione e origine dei segni nella filosofia di Bonnot de Condillac, Massarosa, Del Bucchia, 1998.
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legame di idee in luogo di un altro, consentendo così di selezionare tra le idee concatenate e porre un freno ai montaggi prodotti dall’immaginazione.
Condillac commenta: «Ainsi par le secours mutuels que ces opérations se prêteront, elles concourront réciproquement à leur progrès» (Essai, I.II.V.49). Ma non tutto è stato chiarito. Da dove nascono i segni arbitrari? Come fa la riflessione, che è (ricordiamolo) un progresso delle operazioni cognitive precedenti, a istituire segni? Condillac stesso si accorge del cortocircuito tra riflessione e segno arbitrario: la riflessione non può formarsi come capacità di dirigere l’attenzione che grazie al segno d’istituzione, e il segno d’istituzione non può imporsi che grazie alla riflessione: Combien, par exemple, n’a-t-il pas fallu de réflexion pour former les langues! Et des quels secours ces langues ne sont-elles pas à la réflexion! […] Il semble qu’on sauroit se servir des signes d’institution, si l’on n’étoit pas déjà capable d’assez de réflexion pour les choisir et pour y attacher des idées: comment donc, m’objectera-t-on peut-être, l’exercice de réflexion ne s’acquerroit-il que par l’usage des signes (Essai, I.II.V.49)?
Condillac pone il problema in chiave storica, in senso sia filogenetico (lingue e riflessione) sia ontogenetico (segni d’istituzione e «attacher des idées»). Come vedremo, ritiene di averlo risolto analizzando lo sviluppo filogenetico del linguaggio.
3.1.4. Segni e liaisons des idées Con l’attività della riflessione siamo tornati alla questione centrale dell’Essai: il principio secondo il quale «les idées se lient avec les signes». Come visto, le idee semplici, cioè le percezioni, sono associate a segni accidentali o a segni naturali in montaggi involontari (fuoco
sentimento di dolore e grido sentimento di paura), grossolani ma resistenti perché effetto dell’istinto di autoconservazione. Occorre soffermarsi ancora sui montaggi involontari e volontari, distinguendo tra associer e lier a partire da un caso di traduzione, a mio avviso, un po’ superficiale99.
99
Su questa distinzione, v. anche due recenti contributi: M. Chottin, La liaison des idées chez Condillac: le langage au principe de l’empirisme, in «Astérion», n. 12, 2014, http://journals.openedition.org/asterion/2503; G. Radica, Le principe de la folie et de la raison. Association des idées et liaison des idées aux XVIIIeme et XIXeme siècle, in «Astérion», n. 12, 2014, http://journals.openedition.org/ asterion/2473.
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In un saggio di qualche anno fa su Condillac, Isabelle Knight ha tradotto «liaison des idées» con «association of ideas»100. Tuttavia le traduzioni inglesi, sia quella di Nugent del 1756 sia quella di Aarsleff del 2001 (edita dalla Cambridge University Press), rendono «liaison» con «connection» (anche il canonico Tommaso Vincenzo Falletti, autore della prima traduzione in italiano dell’Essai – Saggio dell’abate di Condillac sopra l’origine delle umane cognizioni – pubblicata nel 1784, traduce «legame», mentre “associazione” non compare mai). È interessante riscontrare che, nella traduzione francese dell’Essay di Locke, Pierre Coste rende «connection» (ottantaquattro occorrenze) con «liaison» (settantacinque occorrenze). Nel lessico lockiano, in effetti, «association» ha valore rispetto a «connection» (è sufficiente verificarlo nell’indice degli argomenti della John Locke Bibliography: il secondo termine non è indicizzato), però in un senso del tutto particolare101. «Association» è usato nel titolo del capitolo XXXIII, «Of the Association of Ideas» (aggiunto alla quarta edizione, quella del 1700), del secondo libro. Vi si analizzano le associazioni sbagliate di idee, «wrong connection» – traduzione di Pierre Coste: «liaison d’idées non-naturelle» (le due occorrenze appaiono nove volte nell’uno e nell’altro testo) – dovute al caso o alla consuetudine. Locke premette di aver riflettuto su questo argomento dopo aver scritto sulla pazzia 102. L’argomentazione ha tono medico e, tra le numerose connessioni sbagliate discusse (par. 6-18 sui diciannove del capitolo), si salvano solo le connessioni naturali, che «it is the office and excellency of our reason to trace these, and hold them together in that union and correspondence which is founded in their peculiar beings», e che fa capire la ragione dell’espressione inventata da Coste103. Nell’Essai condillacchiano, è vero, la distinzione tra “associer” e “lier” non emerge sul piano del lessico: «lier» si trova anche dove avremmo potuto trovare “associer”, termine assente nell’Essai, per esempio nella distinzione tra l’«imbécille», individuo pressoché senza immaginazione, memoria e riflessione, «chez qui les idées n’ont jamais pu se lier», e il «fou», dotato di un tale eccesso di immaginazione e memoria da essere, come l’altro, pressoché privo di riflessione, e nel quale «les idées les plus disparates étant fortement liées […] par la seul raison qu’elles se sont présentées ensemble» (Essai, I.II.III.34). Solo nel Dictionnaire des synonymes Condillac sembra diventare più lockiano, distinguendo tra «lier», il legare le idee e formare le conoscenze, e «associer», il 100
I. Knight, The Geometric Spirit. The Abbé de Condillac and the French Enlightenment, Yale, Yale University Press, 1968. 101 Cfr. J. Keiser, What’s the Matter with Madness? John Locke, the association of ideas, and the physiology of thought, in C. Mounsey (a cura di), The idea of disability in the eighteenth century, Lewisburg, Bucknell University, 2014, pp. 49-70. 102 J. Locke, Essay cit., II.XI.12-13. 103 Ibid., II.XI.5.
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mettere insieme idee, anche quelle che non hanno relazioni tra loro, per abitudine – «l’association des idées est la source des préjugés» (Dictionnaire, p. 61). Eppure la «liaison des idées» non può non reclamare fin dall’Essai uno statuto specifico. Questa digressione è utile per fare luce su un altro problema che emerge nella filosofia di Condillac. Dato il principio «les idées se lient avec les signes», se il legame in questione fosse un qualsiasi legame (“associer” o “lier”), senza un’articolazione specifica, che ne sarebbe del segno? Il principio cadrebbe, e con questo, soprattutto, la facoltà della riflessione. Viceversa, se i segni tenessero insieme qualsiasi legami di idee, allora i segni sarebbero immotivati – punto (b) del paragrafo precedente – e la loro origine sarebbe arbitraria; anche in questo caso verrebbe meno l’opera cognitiva della riflessione. Lo statuto del segno apparirebbe a un primo sguardo meglio definito di quello del legame delle idee. Auroux e Hoinkes ritengono che per Condillac valga la relazione semiotica tra segno, idea e oggetto, che deriva dalla tradizione medioevale ed è fatta propria dall’empirismo inglese104: parola (segno di) idea (segno di) oggetto esteriore Tuttavia, a differenza di Locke, Condillac non ritiene l’idea segno dell’oggetto e, affrontando l’analisi dell’intelletto umano in una prospettiva generativa, fa intervenire il segno propriamente detto (segno arbitrario) sia nella generazione delle idee dalla percezione sia nell’organizzazione delle idee – due processi schematizzabili così105: percezione (si lega con) segno (che forma) idea idea (si lega con) segno (che forma) legami di idee
Rispetto alle due funzioni fondamentali del segno,
F1: I segni articolano le idee F2: I segni esprimono le idee
104
S. Auroux, La sémiotique cit., p. 24; Id., La filosofia cit., p. 108; U. Hoinkes, Puissance cit., p. 176. Per il confronto con Locke: J. Locke, Essay cit., IV.I; v. anche J. Yolton, Locke and the Compass of Human Understanding, Cambridge, Cambridge University Press, 1970. 105
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mentre Locke assegna F1 alle idee e F2 alle parole (che hanno anche funzione mnemonica), Condillac considera le due funzioni in una sequenza gerarchica (i segni prima articolano le idee, poi le esprimono) e le attribuisce al segno arbitrario (non solo la parola, ma qualsiasi segno istituito dall’uomo). Inoltre, confrontando le due funzioni coi due processi di prima, si nota che per Condillac F1 significa sia che il segno è strumento per formare idee, sia che il segno è strumento per articolare legami di idee. Nel primo caso, sul piano storico, ritorna ancora una volta il problema del limite a quo dell’invenzione del segno arbitrario. Il secondo caso non è privo di problemi: al limite ad quem dell’articolazione dei legami di idee manca, come si è detto, un modello di paragone. Si badi che questo problema non riguarda solo l’aspetto epistemologico del legame di idee inteso come nucleo originario di qualsiasi conoscenza106; proprio la scelta di ricomporre analiticamente la generazione delle operazioni dell’anima e delle idee fa sì che la “scoperta” di Condillac – il principio dell’Essai – valga anche sul piano gnoseologico: senza i legami di idee verrebbe meno la specificità della stessa natura umana. Locke, come è ben noto, in conclusione dell’Essay propone la dottrina dei segni come nuova scienza in sostituzione della vecchia metafisica, e ne definisce pure la condizione epistemologica per se stessa (rapporto arbitrario tra la parola e l’idea; relazione di significazione tra l’idea, in quanto segno, e l’oggetto) e come fondamento strutturante delle altre due discipline (analoghe alla relazione tra parola e idea: relazione tra idea e cosa in fisica, relazione tra idee in etica) 107. In Condillac, invece, come ha notato Derrida, lo statuto della semiotica (termine mai utilizzato da Condillac) resta incerto 108. La nuova metafisica prospettata nell’Essai, una metafisica «plus retenue», che «proportionne ses recherches à la foiblesse de l’esprit humain […] sait se contenir dans les bornes qui lui sont marquées», ben distinta dalla metafisica «ambitieuse» di Descartes, di Malebranche, dei leibniziani, che «veut percer tous les mystères; la nature, l’essence des êtres, les causes les plus cachées» (Essai, VVI), è indistinta perché, facendo del segno un concetto centrale, si propone entro un orizzonte storico di affrontare origine e sviluppo delle operazioni dell’anima, delle idee, del segno stesso, confondendo, nella questione dell’origine – e incagliandosi in questa secca – gnoseologia ed epistemologia.
106
F. Duchesneau, Condillac et le principe de la liaison des idées, «Revue de métaphysique et de morale», n. 1, 1999, p. 78. 107 J. Locke, Essay cit., IV.XXI.4, sul quale v. R. Armstrong, La dottrina dei segni di John Locke: una nuova metafisica, in F. Pintacuda De Michelis (a cura di), Locke, Milano, Isedi, 1978, pp. 177-196. 108 J. Derrida, L’archeologia cit., pp. 52-53.
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3.2. Origine e sviluppo del linguaggio La prima parte della seconda sezione dell’Essai è dedicata all’analisi filogenetica del linguaggio umano. In genere nei trattati settecenteschi su linguaggio e natura umana non si fa distinzione tra argomentazione storica (l’origine del linguaggio) e argomentazione teorica (rapporti tra mente e linguaggio)109. La riflessione di Condillac s’inserisce in questo quadro: sebbene appaia del tutto nuova rispetto alla semiotica di Locke, formula congetture storiche che, scrive Condillac, «on me permette d’en faire la supposition, la question est de savoir comme […] s’en fait un langue» (Essai, pp. 2-3)110. Non attinge, dunque, da scritti antropologici o filologici sul linguaggio, ma da una breve lista, a un primo sguardo bizzarra, di quattro opere. I due scritti principali sono l’Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens di William Warburton e le Réflexions critiques sur la poésie et la peinture di Jean-Baptiste Du Bos. Paolo Rossi ha notato che l’Essai di Warburton, pubblicato in due volumi nel 1744, è in realtà una traduzione parziale ad opera di Leonard de Malpeines della sezione quarta del quarto libro de The Divine Legation of Moses del Warburton (sul quale v. cap. 2)111. La traduzione, molto letta dagli illuministi francesi, soprattutto per la critica della teoria dei geroglifici di Athanasius Kircher, mescolava al testo di Warburton scritti di Nicolas Fréret. Condillac vi attinge per il primo capitolo (sul primo linguaggio umano) e per i capitoli XIII (sulla scrittura) e XIV (sull’origine delle fiabe). Ancora più assidua la frequentazione delle Réflexions, opera di grande successo pubblicata in tre volumi nel 1719 (una quarta edizione, corretta e aumentata, esce nel 1740): Condillac ne cita ampi stralci nei capitoli dedicati alla prosodia antica, al canto e alla declamazione (dal cap. III al cap. VI), e vi attinge senza citarlo nei capitoli sulla prosodia moderna (cap. VII), sulla poesia (cap. VIII) e sul genio delle lingue (cap. XV). A queste due opere si aggiungono l’Essay di Locke – l’intero discorso sulle parole (cap. XXI) segue le riflessioni di Locke sulla stessa materia – e, a integrazione dei capitoli sulla prosodia antica e sulla musica, la Génération harmonique ou Traité de musique théorique et pratique di Jean-Philippe Rameau, uno dei più importanti compositori francesi della prima metà del XVIII secolo, edita nel 1737. Questa lista dice già molte cose sulle congetture condillacchiane. Innanzitutto conferma l’assenza di scritti antropologici sul linguaggio dei selvaggi, e di testi filologici o archeologici
109
C. Stancati, Dal linguaggio-azione al linguaggio-istituzione, «Scienza e politica», n. 14, 1996, p. 69; S. Auroux, La question cit., p. 35. 110 Sulla comparazione tra le semiotiche di Condillac e Locke: R. H. Robins, Condillac et l’origine du langage, in J. Sgard (a cura di), Condillac cit., pp. 95-101. 111 P. Rossi, I segni cit., p. 270.
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sulle lingue antiche, a parte l’Essai di Warburton che, come le altre tre opere in elenco, è titolo ben noto agli intellettuali francesi del tempo. Condillac, dunque, predilige opere di ampia diffusione. In secondo luogo, ben due lavori su quattro si occupano di tematiche che oggi chiameremmo artistiche (o di belle arti). Questa scelta si spiega confrontando la formazione del linguaggio con lo sviluppo correlato delle operazioni dell’anima: nei primi tempi dell’invenzione dei segni l’immaginazione, sebbene in parte sotto il controllo della memoria, è molto attiva, e quindi, in un certo senso, lo è anche la capacità creativa (come vedremo, la lingua latina, più poetica del francese, presenta degli interessanti vantaggi artistici). Se infine si tiene conto del fatto che la storia del linguaggio riguarda prevalentemente tutta l’età pre-moderna della civiltà umana e si conclude, prima della riflessione sul genio delle lingue, con un capitolo sull’origine delle fiabe, ultimo tassello della produzione segnica a mezzo d’immaginazione, allora la bibliografia non potrà non ritenersi abbastanza pertinente alla materia trattata.
3.2.1. Dai segni accidentali ai segni naturali In una lunga nota dell’Essai sur les hiéroglyphes, Warburton contesta vivacemente gli epicureisti e sostiene che Adamo impose nomi agli animali istruito da Dio e non dalla natura112. Condillac la cita in una nota che apre la seconda parte del saggio (Essai, II.I n. a), senza tuttavia prendere posizione sulla questione della lingua adamica. Non segue nemmeno Locke quando questi compara l’imposizione adamica dei nomi all’istituzione dei segni dei comuni mortali113. Mette invece subito da parte Adamo ed Eva, e fa cominciare il racconto dalla condizione storica post-diluviana, in modo coerente con le idee-guida della «métaphysique plus retenue» e in opposizione alla «métaphysique ambitieuse»: il ne suffisoit pas – scrive Condillac a conclusione del brano estratto da Warburton – pour un Philosophe de dire qu’une chose a été faite par des voyes extraordinaires [metafisica ambiziosa], mais qu’il étoit de son devoir d’expliquer comment elle auroit pu se faire par des moyens naturels [metafisica moderata].
Ci si immagina, allora, di esaminare il comportamento di «deux enfans» che s’incontrano dopo aver vissuto ciascuno per proprio conto nel deserto, dove disponevano, come il ragazzo cresciuto con gli orsi, di operazioni dell’anima limitate e dei soli segni accidentali. Il «commerce réciproque» è causa dello sviluppo cognitivo e linguistico per la naturale 112
W. Warburton, Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens, trad. fr. Leonard de Malpeines, Paris, H.-L. Guerin, 1744, vol. 1, pp. 48-52, n. a. 113 J. Locke, Essay cit., III.IV.44-51.
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predisposizione dell’uomo a vivere insieme. Il segno accidentale (fuoco sentimento di dolore), formato «par hazard», diventa segno naturale grazie all’interazione: il dolore provoca nell’uno un grido istintivo che l’altro associa a un sentimento, e tale associazione si intensifica via via che si ripete, rafforzando le prime operazioni mentali, l’attenzione e la reminiscenza, e generando quelle più sofisticate, l’immaginazione e la memoria. Il segno naturale (grido sentimento di dolore) è involontario, il primo uomo non ne dispone a suo piacimento. Il meccanismo in azione è una sorta di empatia (Martone 2012) per cui il suono occasionato dall’uno provoca, ripetendosi, il sentimento di dolore nell’altro 114: L’autre ému à ce spectacle, fixoit les yeux sur le même objet, et sentant passer dans son âme des sentimens dont il n’étoit pas encore capable de rendre raison, il souffroit de voir souffrir ce miserable (Essai, II.I.I.2).
Così l’uno, in caso di bisogno, chiede istintivamente aiuto all’altro: Ainsi par le seul instinct ces hommes se demandoient et le prêtoient des secours. Je dis par le seul instinct; car la réflexion n’y pouvoit encore avoir part. L’un ne disoit pas: il faut m’agiter de telle maniére pour lui faire connoître ce qui m’est nécessaire, et pour l’engager à me secourir; ni l’autre: je vois à ses mouvemens qu’il veut telle chose, je vais lui en donner la jouissance: mais tous deux agissoient en conséquence du besoin qui les pressoit davantage (Essai, II.I.I.2).
Per esempio, se nell’uno il sentimento di fame, cioè il bisogno di mangiare, provoca un grido (sentimento di fame grido), o dei momenti disarticolati di corpo e braccia, l’altro, che da sé ha provato lo stesso bisogno – che ha occasionato la stessa relazione – lo soccorre perché per istinto associa il grido al sentimento di fame (grido sentimento di fame). L’immagine descrive il comportamento di «deux enfans» o quello della madre che soccorre il bambino. Come vedremo, al bisogno e ai meccanismi di piacere e dolore Condillac presterà più attenzione nel Traité des sensations (v. cap. 5). I segni naturali, come gli accidentali, restano vincolati alle circostanze che li hanno occasionati. Lo scambio continuo consolida il ricordo dei segni e l’uomo associa al grido non solo il sentimento di dolore, ma anche le circostanze in cui l’evento è accaduto: la memoria «commença à avoir quelque exercice», l’immaginazione si perfeziona perché, sotto il controllo della memoria, associa a un grido un certo sentimento di dolore o una determinata circostanza, gli uomini «parvinrent insensiblement à faire avec réflexion ce qu’ils n’avoient fait que par instinct» (Essai, II.I.I.3). Condillac ritiene così di aver risolto il cortocircuito tra 114
A. Martone, Un bambino grida – Si è fatto male?, in «Blityri», vol. 1, n. 1, 2012, pp. 73-110.
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riflessioni e segni che lui stesso aveva notato, sebbene abbia finora congetturato solo sull’uso dei segni naturali, e la riflessione, contraddicendo la descrizione ontogenetica del suo formarsi in correlazione con i segni d’istituzione, sia appena comparsa. Le Roy ha notato questa discrepanza; curiosamente, però, ritiene la nota coerente con un’analisi che, come vedremo nel capitolo seguente, non convincerà lo stesso Condillac 115.
3.2.2. Il linguaggio d’azione I primi segni naturali – grida, movimenti disarticolati delle mani, delle braccia, della testa – formano il «langage d’action». Il termine deriva da Warburton il quale, citando copiosamente dalla Bibbia (passi a sua volta raccolti da Condillac in Essai, II.I.I.9), lo usa per definire il miscuglio di parole e azioni che i primi uomini usavano per comunicare 116. Come per Warburton il linguaggio d’azione, e come per Du Bos la pantomima romana (v. par. 7.2.), mescola segni naturali e segni istituzionali, così per Condillac contiene segni naturali e arbitrari e, fedele al suo metodo generativo, va analizzato nel suo progresso. Il linguaggio d’azione copre un periodo molto vasto nella storia del linguaggio umano, andando dai primi segni naturali al momento in cui l’uso delle parole diventa autonomo. A una prima fase di «cris des passions», «contorsions», «agitations violentes», come quella descritta nel paragrafo precedente, segue una fase in cui gli uomini, «ayant acquis l’habitude de lier quelques idées a des signes arbitraires», prendendo come modello «les cris naturels», articolano nuovi suoni; tuttavia, poiché «l’organe de la parole étoit si infléxible qu’il ne pouvoit facilement articuler que peu des sons fort simples», gli uomini accompagnano questi suoni con il linguaggio più naturale dei movimenti e dei gesti, raffinando, col tempo, anche questo (Essai, II.I.I.5-7). La seconda fase, la più ampia, comprende tutto il periodo nel quale gli uomini utilizzano insieme segni vocali e segni gestuali; entrambi si perfezionano con l’evoluzione dell’apparato fonatorio, sempre più in grado di emettere suoni articolati e differenziati, e soprattutto con il progresso delle idee: il linguaggio d’azione non si limita, come crede Morère, a esprimere solo sentimenti primari, ma è in grado di esprimere aggregati di idee nella forma di idee complesse 117; altrimenti non si comprenderebbe come possano da questo linguaggio formarsi la danza, la pantomima e una specie di canto, che Condillac preferisce chiamare prosodia (Essai, II.I.II.11,12,15).
115
G. Le Roy, La psychologie de Condillac, Paris, Boivin, 1937, pp. 66-67. W. Warburton, Essai cit., pp. 53-63. 117 P. Morère, Signe et langage chez Locke et Condillac, in Aa.vv., Le continent européen et le monde angloaméricain, Reims, Press Universitaires de Reims, 1987, p. 23. 116
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Il passaggio dai segni naturali ai segni istituzionali non avviene bruscamente o per un qualche accordo tra gli uomini: questi segni «furent longtems mêlés ensemble, et la parole ne prévalut que fort tard» (Essai, II.I.II.13). I segni corporei diventano, da movimenti violenti, gesti e movimenti sempre più articolati, come nella danza: «il y a dans la danse différens genres depuis le plus simple jusqu’à celui qui l’est le moins. […] ils sont d’autant plus parfaits que l’expression en est plus variée et plus étendue» (Essai, II.I.II.12). I suoni, prima disarticolati a causa della «rudesse des organes», sono segni per «différens sentimens»: l’esclamazione “Ah”, a seconda del modo in cui è pronunciata, esprime «l’admiration, la doleur, le plaisir, la tristesse, la joye, la crainte, le dégoût et presque tous les sentimens de l’Âme» (Essai, II.I.II.13); le prime parole, pronunciate «sur différens tons», esprimono differenti idee, fenomeno ancora presente in alcune lingue, come il cinese (in effetti, ottimo esempio di tipo linguistico isolante), nel quale un gruppo di circa trecento monosillabi varia su cinque toni (Essai, II.I.II.15). I suoni hanno un potenziale di sviluppo maggiore dei gesti. Condillac segue le riflessioni di Du Bos sul carattere della musica presso i greci118. Ma mentre Du Bos, sostenitore della teoria dell’influenza dell’ambiente e del clima sui caratteri dei popoli, distinguendo musica dei paesi caldi e musica dei paesi freddi, ritiene la prima più propensa a esprimere le passioni, per Condillac interviene innanzitutto «un effet naturel des changemens qui arrivent au langage», e che riguarda soprattutto la facoltà dell’immaginazione (Essai, II.I.IV.51)119. In un primo momento, con la nascita della prosodia e della declamazione, si può parlare solo di «déclamation chantante» perché il suono delle parole è modulato e accompagnato da gesti e movimenti del corpo (Essai, II.I.III.16). Come un segno (l’esclamazione “Ah”) può esprimere più idee, così un’idea può essere espressa da più segni (suono, gesto, movimento del corpo). È bene precisare che Condillac non considera il greco e il latino linguaggi d’azione: vede nei loro prodotti artistici, soprattutto in quelli più popolari, il persistere di tracce dei modi di parlare di uomini più antichi. Le arti greca e romana possiedono espressioni più naturali, più prossime alla natura umana. Il caso della pantomima romana (cfr. par. 7.2.) è esemplificativo «parce que l’imagination est plus vivement affectée d’un langage qui est tout en action» (Essai, II.I.IV.38): gli uomini che usano il linguaggio d’azione hanno una capacità
118
J.-B. Du Bos, Réflexions cit., vol. 1, p. 371. Ibidem.; sulla «théorie des climats» da Du Bos a Montesquieu: R. Mercier, La théorie des climats des “Réflexions criques” à “L’Esprit des Lois”, «Revue d’histoire littéraire de la France», vol. 58, 1953, pp. 17-37. Per uno sguardo storico più generale: M. Pinna, Un aperçu historique de la “théorie des climats”, «Annales de Géographie», n. 547, vol. 98, 1989, pp. 322-325. 119
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d’immaginazione, di montaggio volontario di idee a mezzo di segni, maggiore di quelli che parlano lingue articolate.
3.2.3. La formazione delle parole La capacità di istituire segni si perfeziona sempre più con la formazione delle parole, per articolare le quali gli uomini devono superare tre ostacoli: i primi due sono i limiti interni dell’apparato fonatorio, che si evolve naturalmente col tempo, e delle capacità intellettuali, il cui progresso accompagna quello linguistico. Il terzo ostacolo è il vincolo esterno delle circostanze. In realtà, si tratta di un vincolo positivo perché, da un lato, come visto sopra, il linguaggio d’azione supporta la formazione delle prime parole e, dall’altro lato, la circostanza consente agli uomini di accordarsi su ciò che le parole esprimono: gli uomini «convinrent entre eux du sens des premiers mots» pronunciandole «dans des circonstances, où chacun étoit obligé de les rapporter aux mêmes perceptions», e ripetendo queste associazioni (Essai, II.I.IX.80). Le prime parole sono onomatopee e interiezioni che additano i fenomeni che più attirano l’attenzione, innanzitutto quelli che provocano sentimenti di paura o di dolore (Essai, II.I.IX.81). Isolato, l’uomo emette grida per istinto di paura (segno accidentale: sentimento di paura grido); in comunità, suscita con il grido lo stesso sentimento negli altri (segno naturale: grido sentimento di paura). I primi uomini manifestano la loro intrinseca natura sociale comunicando i propri bisogni (da sentimento di fame suono disarticolato a suono disarticolato sentimento di fame) e volendo ottenere l’aiuto degli altri. Dall’associazione ai sentimenti, i suoni, pronunciati in circostanze determinate, vengono associati a fenomeni esterni: si passa così dal grido generico associato al sentimento di paura al grido che imita il verso di un animale feroce e che suscita un preciso sentimento di paura (Essai, II.I.II.13 e II.I.IX.81). Il processo, riprendendo lo schema dell’articolazione delle idee (par. 3.1.4.), può essere così sintetizzato: percezione (animale feroce) segno (suono che imita il verso) sentimento di paura La percezione è all’inizio vincolata alle circostanze ma, con il ripetersi del processo e lo svilupparsi della memoria, facoltà che libera l’uomo dalla tirannia della contingenza, il segno comincia a essere utilizzato per richiamare l’idea di quello specifico animale feroce – evento così sintetizzabile:
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percezione (animale feroce) segno (suono che imita il verso) idea (animale feroce) Il progresso dell’operazione della riflessione fa convergere l’attenzione su parti del fenomeno, ovvero trasforma l’idea animale feroce in un legame di idee, per esempio animale + feroce o animale + grande, consentendo di designare le qualità sensibili del fenomeno che più colpiscono per via del sentimento che suscitano (Essai, II.I.IX.94). Con le qualità sensibili, grazie allo sviluppo della memoria, gli uomini sono in grado di designare le circostanze spaziali e temporali (animale + feroce + qui + ora). In un secondo momento, gli uomini distinguono dal fenomeno lo stato d’animo che questo suscita (animale + feroce + qui + ora + paura) (Essai, II.I.IX.92). Lo stesso processo si attiva per l’imitazione dei suoni di altri fenomeni naturali, come i venti e i fiumi (Essai, II.I.IX.82). Riassumendo: il segno che imita il verso di un animale feroce passa, dal suscitare un sentimento di paura, a designare l’idea di quell’animale feroce; lo sviluppo intellettivo rivela che l’idea è un legame di idee, in cui il legame ha un proprio segno e a ciascuna idea può essere assegnato un diverso segno. Il modo in cui gli uomini articolano le idee, ciascuna delle quali è suscettibile di essere un legame di idee, ovvero elaborano i significati, equivale a un processo di scomposizione. La percezione iniziale si rivela essere un aggregato confuso di idee, «tout à la fois dans l’esprit» (Essai, II.I.XII.117), che l’uomo è in grado di scomporre quando in lui si sviluppano dalla riflessione le operazioni razionali: distinguere, astrarre, comparare, comporre e scomporre (Essai, I.II.VI). In questo senso, l’idea complessa come somma di idee semplici è un prodotto dello spirito. E la costruzione del significato non è la stessa per ogni tipo di idea. Nella sezione terza della prima parte dell’Essai, Condillac si occupa delle idee semplici e delle idee complesse. Un’idea semplice è «une perception considérée toute seule» (Essai, I.III.1). Come ha notato Rita Fanari, quest’ultima definizione, che avevamo già annotato nell’analisi delle operazioni dell’anima, è in contraddizione con l’uso del termine “percezione” visto poco sopra120. In realtà si tratta di due differenti sensi dell’analisi: i primi uomini scompongono la percezione in idee grazie all’operazione razionale che si è sviluppata dalla riflessione; nella ricomposizione, che ricostruisce la generazione delle operazioni dell’anima dalla percezione e rende quest’ultima equivalente alla nozione di idea semplice, consiste principalmente il metodo analitico di Condillac (v. Introduzione). L’idea complessa può essere composta o da una sola percezione che si ripete, come nella liaison des perceptions
120
R. Fanari, Condillac cit., pp. 83-84.
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della reminiscenza (v. 3.1.1.) o nell’idea di numero, o da percezioni differenti. In quest’ultimo caso, secondo il modello di composizione, si parla di idee di sostanza se il legame è formato in rapporto a un modello esterno (l’oggetto o fenomeno reale) allo spirito; se invece l’idea complessa dipende da un modello proprio dello spirito, si parla di idee di azione, «qui se composent des idées simples qu’on rapport aux différentes actions des hommes», dalle quali derivano le idee astratte, o «notions archétypes», come dall’azione giusta deriva la “giustizia”, dall’azione coraggiosa deriva il “coraggio” (Essai, I.III.5,15). Confrontiamo la classificazione delle idee con la costruzione del significato nel processo di sviluppo del linguaggio e consideriamo il caso delle idee composte da più percezioni. Per le idee astratte, Condillac si rifà all’analisi di Locke sui nomi delle idee dei modi misti: queste seguono un modello interno, dunque l’immaginazione combina liberamente delle idee semplici, ma «après avoir déjà déterminé par des noms particuliers chacune des idées simples que nous y avons voulu faire entrer» (Essai, II.X.106)121. Per esempio, “feroce” è idea inizialmente confusa con la percezione di un animale che provoca grida e fa scappare gli uomini; l’idea, associata a più di un animale pericoloso, diventa un’idea comune a più animali: l’idea astratta assume uno statuto proprio, e la “ferocia” può anche essere legata, oltre che con idee di animali, anche con idee di uomini (uomo + feroce). L’idea di azione vista sopra, invece, corrisponde solo in parte alle idee dei modi misti secondo Locke (1690: II.XII.4); inoltre, mentre Condillac distingue tra idea di una medesima percezione che si ripete e idea composta e pone sullo stesso piano idee di sostanza e idee archetipe, per Locke la ripetizione di una percezione equivale a un’idea semplice e le idee di sostanza sono sullo stesso piano delle idee di relazione (assenti in Condillac) e delle idee dei modi, tra le quali distingue le idee dei modi semplici e le idee dei modi misti122. L’idea di sostanza è invece il nucleo del legame di idee che resta costante durante le addizioni o sottrazioni delle altre idee, un aggregato di sensazioni che, proprio come sostiene Locke, resta il fondo comune a tutte le successive idee complesse 123. In questo senso, le «notions complexes des substances étant connues les premiéres, puisq’elles viennent immédiatement des sens, devoient être les premiéres à avoir des noms» (Essai, II.IX.82). I primi nomi degli animali feroci corrispondono ai versi degli stessi animali, prima di animali in determinate circostanze (per esempio, il suono che imita il verso del leone vuol dire “questo leone”), poi, per via di comparazione, di una classe di animali (“il leone”). La riflessione è poi in grado di 121
J. Locke, Essay cit., III.XI.9. Ibid., II.XII.4; per un confronto tra le classificazioni delle idee di Condillac e di Locke: F. Duchesneau, Condillac et le principe cit. 123 J. Locke, Essay, III.IX.17. 122
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scomporre anche questa idea di sostanza nelle parti che la compongono (“muso”, “crineria”, “zampe” ecc.). Anche la formazione del significante, con il perfezionarsi dell’apparato fonatorio, procede per scomposizione: dal grido generico, i primi uomini passano a grida o suoni che imitano versi, poi ai suoni articolati in sillabe che, combinandosi, dunque proseguendo per composizione, possono dare vita a un numero indefinito di parole (Essai, II.II.15). L’Essai non fa congetture su come avvenga il passaggio dai primi suoni alla formazione delle parole vere e proprie. Mentre sul piano del significato, per il fondo comune di idee che proviene dalle sensazioni, si passa dalle circostanze che non ci consentono di «tromper dans l’usage que nous sommes obligés de faire de ces termes», a un insieme di tratti sensibili invarianti per le idee di sostanza (tratti sensibili, e non definibili), a un insieme di tratti il più possibile condivisi per le idee d’azione (Essai, II.II.II.17); sul piano del significante, l’unico criterio operativo sembrerebbe quello individuato da Locke, dell’intercomprensione124. Un ultimo aspetto interessante della riflessione di Condillac riguarda il modo in cui gli uomini concatenano le idee in sequenze di suoni articolati. Nel linguaggio d’azione, dipendente dai bisogni e dalle circostanze, i segni esprimono percezioni confuse che contengono simultaneamente più idee indistinte. L’articolazione dei suoni, modellata sul linguaggio d’azione, in un primo tempo esprime l’oggetto di cui si ha bisogno (“frutto”), dunque il nome dell’idea di sostanza, assieme a «quelque action» che comunica «l’état de son Âme»; in un secondo tempo, con il nome dell’oggetto, lo stato d’animo è espresso mediante il verbo (“prendere”) che segue il nome dell’oggetto (“frutto prendere”); in un terzo tempo viene articolato il nome della persona che prova lo stato d’animo per mezzo di un nome o di un pronome (“io”), ultimo tassello dello sviluppo del linguaggio d’istituzione. La sequenza finale frutto prendere io (che schematizza il discorso in Essai, II.I.IX.84) corrisponderebbe alla sequenza-tipo OVS (oggetto-verbo-soggetto) del linguaggio d’istituzione all’ultimo stadio della sua dipendenza dal linguaggio d’azione. Con la formazione delle lingue articolate, ciascun popolo elabora delle proprie strutture sintattiche: «ces combinaisons autorisées par un long usage, sont proprement ce qui constitue le génie de Langue» (Essai, II.I.XV.160). Il “genio della lingua”, concetto diffuso soprattutto nel XVII secolo, è la sintesi della storia della prassi linguistica di un popolo 125. La lingua è «une peinture du caractère et du génie de chaque peuple» (Essai, II.I.XV.162): ogni scarto 124
Ibid., III.IX.4 e 14-19 sui tratti sensibili invarianti delle idee di sostanza. V. G. Haßler, La description du “génie de langue” dans les grammaires françaises et les grammaires d’autres langues, «Todas as Letras», n. 1, vol. 14, 2012, pp. 99-120. Sulla relazione tra i concetti di «ingenium» e «génie des langues»: S. Gensini, Epicureismo cit., pp. 74-76. 125
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dall’«analogie» dei segni di una lingua è il risultato di forestierismi o solecismi che non sono espressione di quel popolo (Essai, II.I.XV.148-149). Tutte le lingue si collocano tra due poli: tra le strutture linguistiche proprie di popoli, soprattutto del passato, dotati di maggiore forza d’immaginazione, e quelle invece di popoli che hanno sviluppato una maggiore capacità analitica: al primo polo le «langues des Poëtes», i cui parlanti «se conduiroient jusques dans leurs plaisirs», all’altro la «langue des Géométres qui cherchent la solution d’un problème» (Essai, II.I.XV.156). La forza immaginativa è maggiore nei popoli la cui lingua dipende dal linguaggio d’azione (Essai, II.I.V.51). Il latino è una lingua più immaginativa che analitica: le desinenze di caso consentono di riconoscere subito i ruoli grammaticali senza confondere soggetto e oggetto, sicché in latino è possibile ogni combinazione soggetto, verbo, oggetto: SVO “Alexander vicit Darium”; SOV “Alexander Darium vicit”; VSO “vicit Alexander Darium”; VOS “vicit Darium Alexander; OSV “Darium Alexander vicit”; OVS “Darium vicit Alexander”. Con questo esempio, Condillac sottolinea alcuni vantaggi del latino rispetto alle lingue analitiche: il discorso è più armonico perché le parole possono produrre una fonia più piacevole (Essai, II.I.XV.120); il discorso acquista più vigore e più vivacità perché, nei limiti del gusto, si possono disporre le parole dando più risalto ad alcune rispetto ad altre, come accade in poesia (Essai, II.I.XV.121); lo scrittore può dipingere la frase come se fosse un quadro, ossia imitando la simultaneità della rappresentazione (Essai, II.I.XV.122). Le lingue più analitiche, come il francese o l’italiano, hanno una struttura sintattica più rigida: il significato della frase cambia se, invece di “Alessandro vinse Dario”, si dice “Dario vinse Alessandro”. Ma la rigidità comporta i suoi vantaggi. L’ordine dei costituenti dominante, SVO, concatena le idee secondo un ordine di successione che l’Essai definisce più razionale, non più naturale – «ce qu’on appelle ici naturel, varie nécessairement selon la gènie des langues» (Essai, II.I.XII.117): il soggetto, ossia l’agente, compie un’azione (verbo); l’azione colpisce un oggetto (paziente). Per la chiarezza delle idee, sul piano sintattico il tipo linguistico SVO è il modello di paragone per articolare le idee in modo chiaro e per costruire e comunicare conoscenze certe126.
126
Cfr. U. Ricken, La liaison des idées selon Condillac, «Dix-Huitième Siècle», n. 1, 1969, pp. 185-191; Id., Grammaire cit., pp. 93-111; I. Dardano Basso, La ricerca del segno, Roma, Bulzoni, 1982, pp. 53-97.
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4. Condillac si ravvede sui segni? Lettere a Cramer e a Maupertuis
Tra l’Essai e il Traité des sensations trascorrono otto anni nei quali Condillac tiene due importanti carteggi, uno con il matematico svizzero Gabriel Cramer, l’altro con lo scienziato Maupertuis. L’epistolario con Cramer è stato pubblicato nel 1953 a cura di Georges Le Roy: il volumetto, oltre a dieci lettere autografe (nove ritrovate a Ginevra e una nel British Museum di Londra) e a un mémoire (lo chiama così Le Roy, il quale non ritiene che il testo faccia parte di una lettera), raccoglie anche una lettera di Cramer (del carteggio, la sola di Cramer che si possieda) e un breve biglietto di Charles Bonnet. Sei delle dieci lettere sono datate, per le altre quattro e per il mémoire Le Roy avanzò una proposta di datazione interamente rivista da Piero Petacco, che ha collocato il carteggio tra il 1747 e il 1749 (mentre Le Roy datava l’ultima lettera e il mémoire tra il 1750 e il 1752), dunque poco dopo la pubblicazione dell’Essai127. Lo scambio di lettere con Maupertuis, avviato nel 1749, ha innanzitutto una ragione pratica: nel 1746 Maupertuis, scienziato noto in tutta Europa, fu chiamato dall’imperatore Federico di Prussia su suggerimento di Voltaire a riorganizzare e dirigere la Königlische Preussische Akademie der Wissenschaften, meglio nota come Accademia delle Scienze di Berlino. Lo scienziato contribuì ad esportare la cultura francese in terra tedesca: poco tempo dopo aver ricevuto l’incarico, fece eleggere membri Montesquieu e, nel 1749, Condillac. Lo scambio epistolare con Maupertuis arriva al 1752 ed è composto da cinque lettere raccolte da Achille Le Sueur nel 1896 in un’edizione dei carteggi dello scienziato francese 128.
4.1. Un mémoire e due lettere a Cramer Nel carteggio con Cramer, Condillac riflette sul linguaggio e sui segni in tre occasioni: nel mémoire, che Le Roy data tra il 1750 e il 1752 e che Petacco ritiene il primo testo in ordine cronologico di quelli contenuti nel volumetto del 1953, datandolo inverno 1747; la lettera che Le Roy numera nona e considera dello stesso periodo del mémoire, mentre Petacco la ritiene della primavera del 1747, la prima tra la lettere nel volume; un breve cenno si trova infine in
127 128
P. Petacco, Note sul carteggio Condillac – Cramer, «Belfagor», vol. 26, n. 1, 1971, pp. 83-95. A. Le Sueur (a cura di), Maupertuis et ses correspondants, Paris, Picard, 1896.
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un’altra lettera, la settima seguendo l’ordine di Le Roy, che la data 1750, del 1747 e la quarta in ordine cronologico secondo Petacco. Nel complesso, seguendo la revisione cronologica di Petacco, è interessante notare che le lettere che contengono le riflessioni sul linguaggio sono le prime del carteggio e che seguono di un solo anno la pubblicazione dell’Essai. Nella parte sui segni che si trova nel mémoire, Condillac (Lettres, pp. 101-105) afferma di non essere soddisfatto del modo in cui nell’Essai ha trattato del caso di un uomo isolato con facoltà limitate: ritiene di aver disperso l’esposizione (le parti elencate sono: I.II.IV-V sul progresso delle operazioni dell’anima e i segni; I.IV.I-II sui casi del sordomuto di Chartres e del bambino vissuto con gli orsi; II.I.I sui primi sviluppi del linguaggio) e di aver anticipato troppo l’attivazione dell’attenzione. Il ragionamento è così ricostruito: supponendo un uomo isolato, i bisogni di costui, per esempio la fame, dipendono dall’impressione che gli oggetti esercitano sui sensi, l’attenzione obbedisce agli oggetti che causano le impressioni più vivide, per esempio un frutto, e svanisce una volta che i bisogni sono stati soddisfatti. Nel momento in cui si ripresenta il bisogno della fame, si attiva una grossolana immaginazione che fa affiorare delle sensazioni interne, nelle quali si trovano confuse le sensazioni degli oggetti e delle circostanze che avevano causato le impressioni più vivide e soddisfatto quel bisogno: quest’uomo isolato non ha idee né vere e proprie percezioni, e il bisogno è soddisfatto solo dopo che l’uomo ha per caso trovato di nuovo il frutto che placa la fame. L’attenzione, dunque, agisce per istinto e dipende dalle impressioni più vivide. Si tratta di una piccola modifica rispetto a quanto scritto nell’Essai (v. lo schema a spirale di Tort in 3.1.3.), che però muove già in due direzioni significative: da un lato cerca di andare ancor più all’origine delle sensazioni e propone una spiegazione di come l’impressione agisce sui sensi – quasi un abbozzo dell’oggetto del futuro Traité des sensations; dall’altro lato Condillac accentua l’importanza dell’empatia nelle prime interazioni, attiva non solo nella comprensione del sentimento dell’altro, ma già nell’aiutare l’altro a soddisfare i propri bisogni, a trovare insieme più facilmente gli oggetti che danno impressioni più vivide. Da queste interazioni, grazie al «commerce réciproque», gli uomini «établirons naturellement entre eux des signes», dunque dei segni naturali, «dont avant leur commerce ils ne peuvoient avoir l’usage» (Ibid., p. 104). L’interazione è alla base dell’uso dei segni, del progresso delle operazioni dell’anima e dello sviluppo intellettivo. La lettera della primavera del 1747 ribadisce l’importanza della comunicazione (Ibid., pp. 8386). Questa volta Condillac ripensa ai due uomini che, dopo l’isolamento, cominciano a vivere insieme: la vita sociale e gli scambi continui, facendo interagire e volgere l’attenzione su cose esterne sia nello spazio (le sensazioni dell’altro) sia nel tempo (i bisogni passati), 50
liberano l’esperienza dal vincolo della circostanza. Perché gli uomini apprendano ad «attacher des idées à des cris», «il faut qu’ils vivent ensemble». La comunicazione è il detonatore dell’evoluzione umana. Ma in che modo i primi uomini avrebbero inventato nuovi segni? Qui Condillac pensa all’istituzione per mezzo di accordi: il linguaggio sarebbero il prodotto di un contratto sociale. Nello stesso momento in cui spinge al di là lo statuto dei segni arbitrari, Condillac spinge al di qua lo statuto dei segni naturali: questi «ne sont proprement des signes; ces ne sont que des cris qui accompagnent les sentiments de douleur, de joye etc.», prodotti dall’istinto e dalla sola conformazione degli organi (Ibid., p. 85). Alla fine, però, Condillac ritiene di non aver chiarito né come i segni arbitrari derivano dai segni naturali né come, nel linguaggio d’azione, gli uni si mescolano agli altri: rimandando a due paragrafi dell’Essai (I.IV.II.23-24 che riguardano il bambino vissuto con gli orsi; II.I.I.2-3 sulle prime interazioni tra due «enfans») ritiene di aver posto «trop de différence entre les signes naturels et les signes arbitraires; en quoi j’ai tort» (Ibid., p. 86). L’ultima delle lettere che prendo in considerazione ribadisce quanto già visto: gli uomini cominciano a comunicare tra loro perché condividono dei bisogni primari e per questo scopo utilizzano sia segni arbitrari sia segni naturali, compresenti nel linguaggio d’azione (Ibid., pp. 70-71). Il riesame dell’Essai riguarda di nuovo i soliti paragrafi “incriminati”: lo sviluppo delle facoltà dell’anima in un individuo isolato e la fase iniziale del linguaggio d’azione. 4.2. Dialogo con le Réflexions sur l’origine des langues di Maupertuis Nella lettera inviata a Maupertuis e datata 1750, Condillac accenna a una nuova opera su cui sta lavorando - «celui dont je m’occupe actuellement traite de l’origine et de la génération du sentiment» – e ringrazia Maupertuis di avergli inviato le Réflexions philosophiques sur l’origine des langues et la signification des mots, di difficile reperibilità, con le quali si confronta nella lettera successiva del carteggio, datata 1752129. Le Réflexions philosophiques, pubblicate nel 1748, suscitarono un certo interesse tra i contemporanei: furono commentate da Nicolas Boindin e ispirarono le riflessioni critiche di Robert Turgot e di Maine de Biran130. Maupertuis vi studia l’influenza dei segni sulle conoscenze, quindi delle lingue sul progresso delle filosofie e delle scienze in un’ottica 129
A. Le Sueur, Maupertuis cit., p. 390. Le note di Boindin sono state pubblicate nell’edizione delle opere di Maupertuis seguite da una replica di Maupertuis: N. Boindin Nicolas, Remarques sur le livre intitulé “Réflexions philosophiques sur l’origine des langues et la signification des mots, in Pierre-Louis Maupertuis, Œuvres, Lyon, Jean-Marie Bruset, 1796, pp. 287-291. Per gli altri testi cfr. una delle due antologie: R. Grimsley Ronald (a cura di), Sur l’origine du langage. Maupertuis, Turgot, Maine de Biran, Genève, Droz, 1971; L. Formigari, Maupertuis, Turgot, Maine de Biran. Origine e funzione del linguaggio, Bari, Laterza, 1971. 130
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puramente filosofica ispirata all’arte combinatoria di Leibniz 131. Supponendo un uomo che ha perduto percezioni, memoria, ragionamenti e facoltà linguistica, Maupertuis immagina come, dotato delle «mêmes facultés que j’ai d’appercevoir et de raisonner», quest’uomo possa acquisire nuove idee e nuovi segni secondo un cammino più retto perché intrapreso in modo conforme alla ragione132. Immagina che un tale uomo abbia due percezioni equivalenti agli enunciati “vedo un albero” e “vedo un cavallo” e vi assegni due marche differenti, A e B. Moltiplicandosi le percezioni, sorge il problema di un criterio economico per l’assegnazione dei segni: l’uomo confronta le percezioni per ciò che hanno in comune, a cominciare dal fatto che hanno «une même maniére de m’affecter», e assegna a questo carattere una marca C. Le due percezioni sono ora così contrassegnate: CA = “vedo un albero”; CB = “vedo un cavallo”133. Il ragionamento prosegue in questa direzione, stabilendo nuove note sempre sulla base di somiglianze: l’uomo assegna una nuova marca alla percezione di più oggetti simili insieme – per esempio: CIA = “vedo due alberi”; CGA = “vedo tre alberi” – poi alle parti che compongono l’oggetto, percepite separatamente da questo, alle percezioni che colpiscono gli altri sensi, e così via. Le Réflexions si concentrano sulla logica delle lingue per mettere in luce la confusione dei rapporti segni-idee nelle lingue in uso, confusione che si riverbera sul progresso delle conoscenze: se lo sviluppo delle lingue avesse seguito un percorso razionale – scrive Maupertuis – «il me semble qu’aucune des questions qui nous embarassent tant aujourd’hui ne seroit jamais même entrée dans notre esprit»134. A Boindin, che ne ha contestato l’approccio perché le lingue non si sono formate «par un procédé géometrique, par des divisions, des substitutions de signes, et de transformations algébriques», Maupertuis replica di aver analizzato l’«influence qu’ont sur nos connoissances les signes dont nous sommes convenus pour les énoncer»135. Maupertuis e Condillac muovono da due assunti simili: la funzione cognitiva del segno, necessaria alla formazione e all’articolazione delle idee; l’ipotesi di un’origine comune e di un percorso iniziale unico nello sviluppo del linguaggio. Diversi anni dopo, come vedremo (cap. 7-8), Condillac, forse ispirandosi a Maupertuis, rifletterà sugli abusi di linguaggio e su come gli uomini avrebbero dovuto fare le lingue. P.-L. Maupertuis, Réflexions philosophiques sur l’origine des langues et la signification des mots, in Id., Œuvres cit., vol. 1, pp. 259-260. Sulla filosofia linguistica di Maupertuis: R. Mercier, Maupertuis et les problèmes du langage, in «Annales de Bretagne et des pays de l’Ouest», n. 4, vol. 83, 1976, pp. 763-769. 132 P.-L. Maupertuis, Réflexions cit., p. 264. 133 Ibid., pp. 265-266. 134 Id., Réponse aux remarques précédentes, in Id., Œuvres cit., vol. 1, p. 298. 135 La critica è in N. Boindin, Remarques cit., p. 288; la replica in P.-L. Maupertuis, Réponse cit., p. 294. 131
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A differenza delle Réflexions, che propongono un’analisi logica, l’Essai conduce una duplice riflessione storica, ontogenetica e filogenetica, sul linguaggio. Innanzitutto Condillac contesta a Maupertuis il fatto di aver ricostruito la genesi del linguaggio a partire da un uomo isolato: «je n’imagine pas ce qui vous pourroit faire naître le dessein de donner des signes à votre idées»136. I primi uomini comunicavano spinti dai bisogni elementari e dalle passioni, non da esigenze logiche; le prime espressioni erano spontanee e il primo linguaggio non era «dans le commencement qu’un langage d’action»: se un uomo avesse deciso da solo arbitrariamente dei segni, nessuno lo avrebbe capito 137. A differenza di Maupertuis, che lega le prime notazioni a idee che equivalgono a delle proposizioni, Condillac ritiene, come ha scritto nell’Essai, che le prime idee a ricevere segni fuorono le idee di sostanza: «vous commenceriez par donner des signes à vos idées pour en faire en suite des propositions» 138. A margine delle proprie annotazioni sulle Réflexions, Condillac scrive: Je souhaiterois que vous eussiés fair voir comment le progrès de l’esprit dépendent du langage. Je l’ai tenté dans mon Essai sur l’origine des connoissances humaines, mais je me suis trompé et j’ai trop donné aux signes139.
In che senso Condillac si sarebbe sbagliato sui segni? 4.3. Tra l’Essai e il Traité: continuità o discontinuità nella dottrina dei segni? Commentando il rammarico espresso nella lettera a Maupertuis, gli studiosi hanno cercato di comprendere meglio il rapporto tra l’Essai, nel quale il segno ricopre un ruolo fondamentale, e il Traité des sensations, che invece non si occupa di segni. Georges Le Roy ha sottolineato la discontinuità tra l’Essai e il Traité parlando di un «changement de doctrine»: il Traité, a differenza dell’Essai, si occupa di sensi e non di segni, di un uomo isolato e non dell’uomo in quanto essere sociale 140. L’idea della discontinuità tra due Condillac, uno dell’Essai e uno del Traité, fu sostenuta con intenti fortemente critici nei confronti di tutta la filosofia condillacchiana da Victor Cousin 141. Salvucci, condividendo l’interpretazione di Le Roy, ha esaltato l’importanza che nella lettera a Cramer – da lui, seguendo la datazione di Le Roy, ritenuta del 1752, dunque coeva a quella spedita a
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A. Le Sueur, Maupertuis cit., p. 392. Ibid., p. 393. 138 Ibidem. 139 Ibid., p. 392. 140 G. Le Roy, La psychologie cit., pp. 154 e 174-176. V. anche la nota di Le Roy in E. B. Condillac, Œuvres philosophiques, a cura di Georges Le Roy, Paris, Puf, 1951, vol. 2, p. 536, n. 18. 141 V. Cousin, Philosophie cit., pp. 47-129. 137
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Maupertuis – Condillac ha attribuito al «commerce réciproque», e sottolinea che il Traité non tratta né dell’oggettività né dello sviluppo delle conoscenze 142. Contro la tesi della discontinuità, Hans Aarsleff ha sostenuto la tesi della continuità tra l’Essai e il Traité: non c’è alcun «changement de doctrine» tra l’Essai e il Traité perché il Traité ha per oggetto lo sviluppo delle facoltà sensoriali in un individuo isolato 143. In un articolo più recente, Aarsleff ha confrontato il rammarico espresso nella lettera a Maupertuis e l’affermazione contenuta nella lettera a Cramer come l’ammissione di non aver adeguatamente analizzato la condizione sociale del linguaggio 144. Martine Pécharman condivide la tesi di Aarsleff e sostiene che gli argomenti dell’Essai si ritrovano, senza particolari cambiamenti, nell’Art de penser, opera che fa parte del Cours d’étude145. Entrambe le prospettive sono insoddisfacenti. André Charrak ha notato che, rispetto all’Essai, il Traité presenta uno sviluppo più graduale delle facoltà dell’anima, anticipando il progresso dello spirito a prima che compaia il linguaggio 146. Se si segue fino in fondo la lettura di Charrak, considerando che Condillac progetta e scrive il Traité negli anni dei carteggi con Cramer e Maupertuis, ci si chiede se non si possa interpretare il «j’ai trop donné aux signes» come la necessità di dare più gradualità anche al progresso del linguaggio, coerentemente con l’approccio analogico, elaborato nell’Essai, tra sviluppo intellettivo e sviluppo linguistico, così da non porre «trop de différence» tra segni naturali e arbitrari, come supposto nella lettera a Cramer. Un altro punto importante è stato evidenziato da Nicolas Rousseau: non ci si può limitare a segnalare l’importanza del «commerce réciproque» nella filosofia condillacchiana perché il segno forma e articola le idee prima di esprimerle e comunicarle: la funzione cognitiva del segno appartiene al discorso sul reciproco sviluppo delle operazioni dell’anima e del linguaggio 147. Derrida, infine, si è giustamente chiesto: se Condillac crede di aver concesso troppo ai segni e nello stesso tempo mantiene la centralità del segno nella sua filosofia, allora di che cosa si rammarica? Raffrontando la lettera a Cramer con quella a Maupertuis, si può riscrivere il «j’ai trop donné aux signes» nel senso della distanza tra i segni naturali e i segni arbitrari, nella forma «j’ai trop donné aux signes arbitraires» 148. Seguendo queste indicazioni, nel prossimo capitolo vedremo in che modo anche il Traité des sensations abbia a che fare con la teoria del segno, pur non occupandosene esplicitamente. 142
P. Salvucci, Linguaggio cit., pp. 20-27. H. Aarsleff, Da Locke cit., pp. 236-237, n. 109. 144 Id., Condillac a-t-il trop donné aux signes, in A. Bertrand, Condillac cit., pp. 101-106. 145 M. Pécharman, Signification cit., pp. 81-82. 146 A. Charrak, Empirisme cit., pp. 88-93. 147 N. Rousseau, Connaissance cit., p. 65. 148 J. Derrida, L’archeologia cit., pp. 83-84, 96-99. 143
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5. Prima del linguaggio: la funzione segnica del tatto nel Traité des sensations
Dagli scambi epistolari con Cramer e Maupertuis si evince l’intenzione di Condillac di correggere l’Essai subito dopo la pubblicazione. Il Mémoire critica i paragrafi “incriminati” (sul ragazzo di Chartres, sul bambino vissuto con gli orsi, sulle prime interazioni tra i due «enfans»), estende la critica a Locke e a Berkeley, progetta, in sostanza, una nuova risposta al “problema di Molyneux”: una signora – scrive Condillac – ha avanzato delle ottime obiezioni alla convinzione che la vista sola dia l’idea della superficie degli oggetti esterni (Lettres, pp. 107-108). Chi è questa signora? Il nome è svelato nella lettera “londinese” (autunno 1747 nella datazione di Petacco): Élisabeth Ferrand, una nobildonna che dal 1730 teneva un salotto frequentato da molti intellettuali. La Ferrand – insieme alla contessa de Vassé (AntoinetteLouise-Gabrielle des Gentils du Bessay) cui è dedicata l’opera – coadiuvò Condillac nel progetto del Traité des sensations, non solo suggerendo l’epigrafe tratta dalle Tusculanae di Cicerone. La Ferrand scomparve nel 1752, due anni prima dell’uscita del Traité. Nella prefazione Condillac la ricorda così: «la justice que je rends à Madamoiselle Ferrand, je n’oserois la lui rendre, si elle vivoit encore» (Traité des sensations, p. 13). Il Traité è una spia del contributo delle donne all’Illuminismo e di come nel XVIII secolo le conversazioni da salotto avessero un ruolo non marginale nella stesura delle opere. La Ferrand non si limitò a sottoporre alcuni dubbi a Condillac: partecipò pienamente alla riflessione sullo statuto del segno. Nella lettera “londinese” si legge: «dans une conversation que nous avons eue sur l’article des signes, nous avons, je crois, réduit la question au point qui fait toute difficulté» (Lettres, p. 35) – difficoltà esaminata nel capitolo precedente: come la sbroglia il Traité?
5.1. Una nuova gnoseologia sensistica Pubblicato nel 1754, il Traité des sensations ha per oggetto una statua alla quale vengono attivati i sensi prima uno alla volta e poi contemporaneamente, così da poterne descrivere lo sviluppo delle facoltà dell’anima e delle conoscenze. Nella prima parte, «Des sens qui par eux-mêmes ne jugent pas des Objets extérieurs», viene prima attivato l’olfatto, studiandone gli effetti procurati all’anima (cap. I-VII), poi l’udito (cap. VIII), poi olfatto e udito insieme
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(cap. IX), poi il gusto prima da solo poi con gli altri due sensi (cap. X), poi la vista da sola (cap. XI) e con gli altri sensi (cap. XII). La collocazione della vista tra i sensi che non consentono di formare idee sugli oggetti esterni è significativa. Altrettanto significativi i titoli della seconda parte, «Du Toucher, ou du seul Sens, qui juge par lui-même des Objets extérieurs», e della terza parte, «Comment le Toucher apprend aux autres sens à juger des Objets extérieurs» (i cap. III-VI contengono la nuova risposta al “problema di Molyneux” riesaminando Essai, I.IV.II sul ragazzo sordomuto di Chartres). La quarta parte, «Des besoins, de l’industrie et des idées d’un homme seul, qui joint de tous les Sens», studia l’attivazione di tutti i sensi in uomo isolato («abandonné à lui même») prima che si attivi la facoltà di linguaggio (l’intera parte è una rettifica di Essai, I.IV.II sul bambino vissuto con gli orsi, più nello specifico lo sono i cap. VI e VII). Con questo trattato, ha scritto Le Roy (1937: 91-93), Condillac sembra accettare la sfida di Diderot, il quale, nella Lettre sur les aveugles, pubblicata nel 1749, aveva criticato la riduzione delle conoscenze alle percezioni: se un essere umano non percepisce che le proprie sensazioni (è questa la critica di Diderot) allora non ha coscienza dell’esistenza di un mondo esterno149. L’Essai nei principi si avvicina all’idealismo berkeleyano: «L’idéalisme mérite bien de lui être dénoncé», annota Diderot150. Ma sia il Mémoire che la lettera “londinese” fanno risalire il primo progetto del Traité a prima del 1749. Non è improbabile, ma non è nemmeno documentabile, una critica a voce di Diderot a Condillac dato che i due, oltre che amici, frequentavano gli stessi salotti. In ogni caso col Traité des sensations Condillac si allontana dall’idealismo e fa del tatto il senso che fa acquisire all’uomo la coscienza della realtà esterna. Il personaggio della statua animata ha un precedente, il Pigmalion, ou la statue animée di André-François Deslandes, pubblicato nel 1741. In realtà, come nota Eugenio Pesci, curatore dell’edizione italiana del saggio di Deslandes, non c’è un nesso chiaro tra le due opere, essendo l’una, quella di Deslandes, fortemente materialista in più direzioni (epicureismo, libertinismo, anticlericalismo), e l’altra, quella di Condillac, più tecnica, circoscritta all’analisi genetica delle sensazioni151. Tra il XVII e il XVIII secolo, per impulso del meccanicismo cartesiano, è tutto un proliferare di automi, immaginati o costruiti, concepiti come modello di paragone per studiare la natura umana: è questo il contesto in cui iscrivere l’idea della statua
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G. Le Roy, La psychologie cit., pp. 91-93. D. Diderot, Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voyent, Londres, 1749, p. 98. 151 E. Pesci, Materialismo, tradizioni filosofiche e gusto estetico nel “Pigmalion, où la statue animée” di A.-F. Deslandes, in A.-F. Deslandes, Pigmalion, où la statue animée, a cura di Eugenio Pesci, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 43. 150
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animata152. Questa cornice resta più solida dell’interpretazione di recente avanzata da Christine Quarfood, secondo la quale il Traité des sensations avrebbe un valore pedagogico, sarebbe l’Émile di Condillac, e la statua un modello della prima infanzia 153. Questo paragone, che potrebbe valere per la parte successiva all’acquisizione del tatto, offusca l’aspetto logico e analitico del Traité, efficacemente sintetizzato, proprio in contrasto con una supposta «image du réel», da Bernard Baertschi nell’espressione «fiction logique»: “finzione” perché si tratta di un esperimento – l’attivazione graduale delle capacità sensoriali – che non è possibile fare nella realtà; “logica” perché traccia una storia naturale dell’uomo, non descrivendo fenomeni osservati, ma procedendo per mezzo di una «construction logique» dell’origine e dello sviluppo delle facoltà dell’anima, in modo analogo alla ricostruzione dell’origine e dello sviluppo delle operazioni dell’anima e delle idee nell’Essai154. Maine de Biran, scrive Baertschi, contestò a Condillac proprio questo punto, il non essere stato capace di passare dall’uomo ridotto a una finzione logica alla complessità della realtà 155. Baertschi, inoltre, ha rimarcato che, come nell’Essai, nel Traité le facoltà dell’anima hanno carattere operativo e, punto ancora più importante, che il personaggio della statua non va distinto dalle sensazioni: quest’ultime sono delle modificazioni dell’anima e la statua, che non ha alcuna capacità di agire fino all’acquisizione del tatto, è il risultato della sensazione che si trasforma: «l’attention», per esempio – come vedremo meglio tra poco – non è «une faculté de la statue, mais une propriété de la sensation elle-même»156. Anche Auroux, confrontando la statua di Condillac con la macchina di Turing, ha sottolineato la capacità auto-organizzativa della sensazione e l’idea della statua come somma di operazioni: la statua è un automa suscettibile di compiere un certo numero di operazioni senza che ciò implichi una qualche definizione dell’essenza dell’automa stesso 157. Già in un precedente articolo Auroux aveva messo in risalto la differenza tra l’empirismo e il sensismo: mentre Locke nell’Essay, come Condillac nell’Essai, fa derivare ogni conoscenza dalla percezione, il Condillac del Traité ritiene che ogni operazioni dell’anima, non essendo che «sensation transformée», è coestensiva alla sensazione, dunque riconducibile, per via d’analisi, a questa158. Al conte Potocki, che
S. Moravia, Filosofia cit., pp. 44-56; C. Stancati, Animali-macchine e umani da Descartes all’Encyclopédie, in G. Manetti e A. Prato (a cura di), Animali, angeli, macchine. Come comunicano e come pensano, Pisa, Ets, 2007, pp. 203-228. 153 C. Quarfood, Condillac cit., pp. 238-239. 154 B. Baertschi, La statue cit., pp. 343-345. 155 Ibid., p. 351. 156 Ibid., p. 336. 157 S. Auroux, Condillac, inventeur d’un nouveau matérialisme, «Dix-Huitième Siècle», n. 24, 1992, pp. 154158. 158 Id., Pour un nouvel empirisme, «Dialogue», n. 3, vol. 24, 1985, pp. 412-413. 152
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giustamente chiese lumi su come facoltà attive potessero derivare da sensazioni passive, Condillac rispose, in una lettera del 23 gennaio 1779, che l’attività delle operazioni dell’anima deriva proprio dall’autogenesi della sensazione che si trasforma – «c’est notre activité que tire des nos sensations tous ce qu’elles renferment» – e che l’intelletto è passivo solo per chi concepisce l’esistenza di idee innate – «dans ce système toutes nos idées sont passives, puisque nous n’en avons faite aucune» (Œuvres, vol. 1, p. 553). Con un’espressione efficace, sempre Auroux ha ribattezzato la filosofia del Traité “monismo sensistico”, distinta dunque dal “monismo materialistico” di Deslandes 159. Si può esemplificare questo monismo visualizzando la successione delle operazioni dell’anima che si attivano quando la statua è limitata al senso dell’olfatto (Traité des sensations, I.I-II):
Sensazione
Sentire = maniera d’essere della statua + stato di piacere / dolore
Attenzione
Sentire la sensazione attuale + stato di piacere / dolore
Memoria
Sentire la sensazione passata + stato di piacere / dolore
Abitudine
Facilità di sentire la sensazione passata + stato di piacere / dolore
Comparazione
Sentire la distinzione tra sensazione attuale e sensazione passata Sentire la distinzione tra stato di piacere e stato di dolore + bisogno
Giudizio
Sentire il rapporto tra sensazione attuale e sensazione passata Sentire il rapporto tra stato di piacere e stato di dolore
Stupore
Sentire il contrasto tra sensazione attuale e sensazione passata Sentire il contrasto tra stato di piacere e stato di dolore
Immaginazione
Sentire vivamente la sensazione passata + stato di piacere / di dolore
Tabella 5: monismo sensistico del Traité des sensations.
Il Traité descrive la successione delle operazioni dell’anima in modo radicalmente diverso dall’Essai, come diversa è anche la logica soggiacente alla catena: mentre l’Essai distingue tra operazioni elementari e operazioni che richiedono il segno d’istituzione per potenziarsi, nel Traité la successione delle facoltà è il prodotto della sensazione trasformata. Ne consegue che nel Traité la sensazione ha carattere unicamente operativo, presiedendo allo sviluppo delle facoltà, mentre nell’Essai la percezione ha fin da subito carattere rappresentativo – dato, questo, che nel Traité si attiva solo grazie al tatto160. La statua animata, infatti, non percepisce 159 160
S. Auroux, Sensualisme, in Aa.vv., Dictionnaire européen des Lumières, Paris, Puf, 2007, p. 991. I. Knight, The Geometric cit., pp. 107-108; B. Baertschi, La statue cit., p. 343.
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le sensazioni, è ogni volta la sensazione che si trasforma (Traité, I.I.2-4). Il Traité assegna agli stati di piacere e di dolore un ruolo molto importante: sono la causa innanzitutto della trasformazione delle sensazioni e del bisogno, il sentimento che istintivamente spinge a ricercare le sensazioni piacevoli e a fuggire le sensazioni dolorose e che si attiva con la comparazione (Traité, I.II.25-27); sono poi la causa, quando grazie al tatto la statua acquista la capacità di sentire, del desiderio, l’azione che muove in direzione del bisogno per soddisfarlo (Traité, II.V.2-3): «c’est ainsi que le plaisir et le doleur détermineront toujours l’action des ses facultés» (Traité, I.II.25)161. Piacere e dolore, per esempio, trasformano la sensazione in memoria senza rendere per questo la statua attiva: la differenza tra sensazione attuale e sensazione non attuale equivale a due diverse maniere d’essere, non dipende dall’oggetto esterno; è una differenza tra quantità di piacere e di dolore, che spingono la statua in un modo o nell’altro, tra differenti odori che, in una successione di odori, fa sì che gli ultimi siano più forti dei primi perché più recenti. La memoria non è che «une suite d’idées, qui forment une espece de chaîne» come una liaison des sensations, riformulazione della liaison des percpetions descritta nell’Essai (Traité, I.II.19-20). Piacere e dolore sono alla base anche delle poche idee particolari, equivalenti alle sensazioni olfattive, che la statua limitata al senso dell’olfatto può avere. Le uniche idee generali che si formano a partire dallla memoria sono le idee di piacevolezza, «contentement», e di spiacevolezza, «mécontentement», che fanno muovere per istinto la statua (Traité, I.IV.1,3). Mancano altre idee generali perché la statua non è ancora capace di notare somiglianze e differenze tra le idee particolari; compare una traccia d’idea di unità «puisqu’elle [la statua] distingue les états par où elle passe», il che dipende dalle sensazioni olfattive che si succedono, senza che ciò implichi una vera e propria idea di numero: la statua si limita a ripetere «un autant de fois» per ciascuna sensazione. Per contare è necessario disporre in successione le idee di unità per mezzo di segni (Traité, I.IV.5-7). Come può la statua acquisire la capacità di contare? 5.2. L’attivazione del tatto L’attivazione del tatto è l’evento decisivo nel Traité: «c’est à ce jeu de la machine – scrive Condillac – que commence la vie de l’animal» (Traité, II.II.1). Il tatto anima la statua, trasforma l’automa in essere animato. Limitata al tatto, la statua scopre l’esistenza del proprio
161
Cfr. l’analisi di R. Fanari, Condillac cit., pp. 110-111.
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corpo e della realtà esterna, scopre che le sensazioni non sono proprie maniere d’essere ma derivano dalle impressioni provocate dagli oggetti e dai fenomeni esterni sui sensi. Piacere e dolore, ha scritto Aliénor Bertrand, sono il fondamento della logica naturale che regola e organizza il movimento della statua animata, la quale evita il dolore e ricerca il piacere162. Limitata ai sensi dell’olfatto, del gusto, dell’udito, della vista, la statua non possiede ancora le proprie facoltà né è in grado di concepire i propri movimenti, come Condillac scrive in un brano che sembra il rapporto di un esperimento condotto in laboratorio: j’agite son bras, et son moi reçoit une nouvelle modification: acquerra-t-elle donc une idée de mouvement? Non, sans doute, car elle ne sait pas encore qu’elle a un bras, qu’il occupe un lieu, ni qu’il en peut changer (Traité, II.II.5).
La statua comincia ad acquisire la capacità di muoversi solo dopo l’attivazione del tatto; i primi movimenti sono inconsapevoli, disarticolati, scomposti, guidati dal principio di piaceredolore: Je donne l’usage de ses mains à notre Statue: mais quelle cause l’engagera à les mouvoir? Ce ne peut pas être le dessein de s’en servir. Car elle ne sait pas encore qu’elle est composée de parties. […] Il faudra donc qu’une impression vive de plaisir ou de douleur contractant les meuscles, elle agite ses bras, sans se proposer de les agiter, sans avoir même aucune idée de ce qu’elle fait (Traité, II.IV.1).
La statua apprende così le prime sensazioni esterne: la solidità, innanzitutto, che le fa sentire che le sensazioni provengono dall’esterno, sensazione comune a tutti i corpi, compreso il proprio corpo; quindi, con la solidità, quando la statua sente un ostacolo ai propri movimenti, la resistenza; poi le sensazioni di durezza, di freddo e di caldo, che generano risposte diverse in termini di piacere e dolore (Traité, II.IV.2). Condillac paragona i movimenti della statua a quelli di un bambino che scopre il mondo toccando oggetti, che cerca oggetti che procurano piacere e fugge quelli che causano dolore (Traité, II.V.3). Il movimento stesso diventa oggetto di piacere.
5.2.1. Sviluppo delle operazioni dell’anima e delle liaisons des idées Il movimento, sebbene disarticolato, attiva la statua distinguendo per la prima volta le sensazioni dalle proprie maniere d’essere. Il piacere e il dolore sono, come recita il titolo del primo paragrafo del settimo capitolo, «également nécessaire à l’instruction de la Statue», e la A. Bertrand, Le langage naturel, condition logique de l’institution des signes, in Ead. (a cura di), Condillac cit., pp. 130-131. 162
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guidano alla conoscenza del mondo esterno, alla ricezione di nuove e diverse sensazioni che sono la causa dello sviluppo delle facoltà dell’anima e delle liaisons des idées: «À chaque découverte qu’elle [la statua] fait – scrive Condillac – elle éprouve que le propre de chaque sensation est de lui faire prendre connoissance ou de quelque sentiment qu’elle juge en elle, ou de quelque qualité qu’elle juge au dehors» (Traité, II.VII.28). Come ha notato Giovanni Solinas, lo sviluppo delle operazioni dell’anima e delle idee deve muoversi tra questi due estremi, causa esterna e causa interna delle sensazioni, realizzando al tempo stesso la sintesi tra soggettivo e oggettivo163. Dapprima, guidata dalla memoria, la statua ricerca sensazioni passate piacevoli, poi, spinta dalla curiosità, cioè dal desiderio di qualcosa di nuovo, guidata dallo stupore e dall’immaginazione, la statua ricerca sensazioni nuove che la rendano sempre più attiva e che, gradualmente, articolino sempre più i movimenti. Memorizza e compara le sensazioni ricevute – per esempio le impressioni di caldo e freddo, di solidità e resistenza – entra in possesso della facoltà di giudizio, mette sempre più in rapporto nuove sensazioni; di conseguenza la memoria, la comparazione e il giudizio divengono operazioni sempre più complesse. La statua diventa così capace di dirigere la propria attenzione sui corpi e sulle loro parti: acquista la facoltà della riflessione (Traité, II.VII.10-14). Condillac precisa che la sola vista possiede già la capacità di «distinguer plusieurs couleurs qu’elle éprouvoit ensemble», ma la vista non è da sé in grado di distinguere sensazioni e modi di essere. La riflessione si sviluppa solo nel momento in cui la statua è in grado di conoscere le modificazioni per quel che effettivamente sono, ossia impressioni causate da oggetti e fenomeni esterni. Come nell’Essai, la riflessione è il risultato dell’attività del soggetto e, in quanto facoltà di dirigere l’attenzione, è fattore di discontinuità nella sequenza delle operazioni dell’anima, liberando dal vincolo delle circostanze esterne (Essai) e dai limiti delle possibilità dei sensi (Traité). Il punto fondamentale è che ora l’acquisizione della riflessione avviene senza più il segno arbitrario: il tatto è lo strumento sufficiente e necessario. In questo modo, senza farne parola, Condillac sbroglia il cortocircuito tra segni arbitrari e riflessione in Essai, I.II.V.49. Distinguendo tra sensazioni che provengono dall’esterno e proprie maniere d’essere, la riflessione può dirigersi verso le une e le altre, potenziando le operazioni dell’anima e trasformando le sensazioni in idee. La statua esplora il mondo grazie al tatto e a movimenti sempre più articolati. Dalla prima sensazione comune di solidità, comparando e combinando
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G. Solinas, Condillac e l’Illuminismo, Cagliari, Università di Cagliari, 1955. p. 252.
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sensazioni, la statua individua somiglianze e differenze che le consentono di formarsi le prime idee complesse, come l’idea di figura che è un aggregato di diverse sensazioni tattili (Traité, II.VII.7). Grazie al tatto la statua si forma delle liaisons des idées «sans rien toucher»: le idee astratte derivano da sensazioni passate che non sono più parte della catena di impressioni ricevute e trattenute, ma che sono il ricordo di una sensazione conclusasi, come l’idea di solidità di un corpo toccato in passato (Traité, II.VII.29-30). Le conoscenze si formano comparando idee e costruiscono legami di idee più complesse – per esempio l’idea di corpo – che la memoria è in grado di contenere e che la statua non cessa di scomporre e ricomporre. È importante sottolineare che Condillac ragiona spesso sugli errori e gli inganni in cui la statua incorre durante la sua attivazione. Il processo sensazioni idee conoscenze non è lineare. Con lo sviluppo della memoria, per esempio, la capacità di legare sensazioni può mettere insieme qualità desiderate ma non ricevute (Traité, II.X.5). Il tatto può far incorrere nell’errore di ritenere una sensazione provata, come il dolore causato da un oggetto duro con il quale muovendosi ci si scontra, una qualità dell’oggetto stesso (Traité, II.VII.16): accade dunque il contrario del modo in cui agiscono gli altri sensi, i quali riconducono tutte le sensazioni ai modi d’essere della statua. Altri errori riguardano i giudizi sugli oggetti esterni, per esempio comparazioni sbagliate tra sensazioni presenti e sensazioni passate che la statua ricorda male (Traité, II.VII.32). Le idee generali, infine, sono all’inizio confuse e grossolane come quelle che può avere un bambino che riconosca l’oro solo dal colore giallo e ne ricavi l’idea che tutti i corpi gialli sono oro (Traité, IV.VI.8).
5.2.2. Il tatto come senso semiotico Grazie al tatto la statua è in grado di distinguere le sensazioni dalle modificazioni del proprio essere, sviluppa l’operazione della riflessione, attiva la capacità cognitiva di formare idee dalle sensazioni e di articolare liaisons des idées dalle liaisons des sensations. Il Traité inoltre riformula in modo più graduale il processo di sviluppo delle operazioni dell’anima dell’Essai: la statua può riflettere prima di avere capacità segnica – la riflessione precede la facoltà di linguaggio – grazie al tatto, nuovo fattore di discontinuità nel processo di sviluppo delle facoltà dell’intelletto, il senso al quale Condillac attribuisce la funzione cognitiva precedentemente assegnata al segno d’istituzione. Questo punto già chiarisce in che senso Condillac scrivesse a Maupertuis di aver «trop donné aux signes». Pochi studiosi vi si sono soffermati: Solinas ha scritto che nel Traité il tatto è «la vera sorgente delle idee»; Nicolas
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Rousseau ha notato che l’esercizio del linguaggio è virtualmente presente nell’attività cognitiva del tatto; Claude Pichevin ha definito il tatto un «sens sémiotique»164. La storia di come il tatto svolga le mansioni del segno arbitrario è unicamente ontogenetica: la statua animata non va al di là della condizione di un uomo isolato. Tuttavia già l’acquisizione del controllo dei movimenti disarticolati rappresenta un passaggio fondamentale nel padroneggiare gli strumenti di cui la statua dispone per indagare la realtà: in quanto tali, questi movimenti, compreso il toccare gli oggetti, anche se non delineano ancora dei gesti perché non c’è nessuno con cui comunicare, prefigura il passaggio naturale dal tatto al linguaggio d’azione. È però nell’acquisizione dell’idea di numero che il carattere semiotico del tatto diventa esplicito. Si è visto che quando è dotata del solo senso dell’olfatto la statua ha un’idea limitata delle unità; con il tatto, invece, comincia a prestare attenzione al proprio corpo, alle braccia, alla mano, osserva le dita e le conta, acquista e articola insomma l’idea di unità. Toccando gli oggetti, la statua associa un dito a un oggetto, movimento che è l’equivalente dell’espressione “questo oggetto è uno”; il toccare, poi, si trasforma in gesto ed è sufficiente indicare l’oggetto con le dita perché queste diventino «les signes des nombres» (Traité, II.VII.19). Il gesto assegna l’idea di unità al corpo esterno, il che consente alla statua di rafforzare l’idea di numero, di aumentare le combinazioni di idee, di progredire nelle proprie capacità cognitive. La fase che segue nel progresso semiotico del tatto riguarda l’esplorazione del mondo con un bastone, per mezzo del quale le acquisizioni fatte col tatto vengono spartite con gli altri sensi, in particolare con la vista (Traité, II.VIII). Per adoperare un bastone come protesi della mano la statua deve già possedere l’intelligenza di compiere questa sostituzione, di fare del bastone lo strumento che le consente di esplorare il mondo, di avere sempre nuove esperienze non più vincolata ai limiti estensivi del proprio corpo, ma anche a distanza, sviluppando le sensazioni di direzione, inclinazione, di elaborare una rudimentale geometria dello spazio (Traité, II.VIII.5). Il bastone prosegue l’attività segnica della mano diventando a sua volta segno della mano. La mano guida l’occhio nel distinguere le figure, nel fissare in successione le diverse parti delle figure, nell’apprendere che luci e colori sono sensazioni che provengono dall’esterno e non modificazioni interne allo spirito (Traité, II.VIII.9-15). L’indottrinamento della vista prosegue finché le capacità del tatto restano superiori: da quando la statua è in grado di formare e articolare idee a distanza, la vista si svincola dal tatto e da senso passivo
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Ibid., p. 258; N. Rousseau, Connaissance cit., p. 69; C. Pichevin, Remarques sur le statut des signes et du langage dans le système de Condillac, in Aa.Vv. Systèmes symboliques, science et philosophie, Paris, CNRS, 1978, p. 53, n. 2.
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diventa senso attivo, di gran lunga più potente del senso maestro (Traité, II.IX.4). Attivati tutti i sensi, la statua ha perso i caratteri dell’automa, equivale a un «homme abbandoné à luimême» o, il che è lo stesso, a un «homme qui vit hors de toute société» (Traité, IV.III-VI), come il bambino cresciuto con gli orsi di cui si narrava nell’Essai e che, stando al Traité, pur non avendo modo di comunicare, appare ora in grado di possedere maggiori capacità cognitive e una facoltà di significazione che va oltre i soli segni accidentali. È interessante anche qui sottolineare gli errori e le confusioni in cui incorre la statua animata: è vero che la vista consente l’articolazione di idee generali più complesse – per esempio, mettendo insieme più idee diverse, la statua è in grado di costruirsi l’idea di “campagna” – ma questo processo induce a rovesciare il rapporto tra le idee, a trasformare le idee generali in modelli da cui derivano le idee particolari; questo errore conduce la statua a ritenere poche idee particolari di un oggetto, come il colore giallo per l’oro, a fare paragoni errati (“tutti i corpi gialli sono oro”), a classificare in modo impreciso le idee, dunque a crearsi delle idee confuse, «car j’appelle confuse toute idée qui ne raprésente pas d’une maniére distincte toutes le qualités de son objets» (Traité, IV.IV.4-5,11). Questo, spiega Condillac, è dovuto al fatto che le associazioni delle idee sono il frutto del bisogno e che l’uomo isolato non conosce molto bene la realtà esterna, per cui, soprattutto nei primi tempi, quando ha appena acquisito l’uso dei sensi, non può che farsi delle idee grossolane, comunque sufficienti per poter sopravvivere. Sembra già un abbozzo del ragionamento con cui Condillac nella Grammaire risponderà a un’obiezione di Rousseau (v. par. 7.2.1.).
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6. Tra comunicazione e linguaggio: il Traité des animaux
Appena edito, il Traité des sensations, con il quale Condillac respinse definitivamente ogni rischio di confusione con l’idealismo berkeleyano, fu soggetto a numerosi attacchi 165. Friedrich Grimm, personaggio molto attivo nei salotti e autore della Corréspondance littéraire, philosophique et critique, accusò Condillac di aver plagiato la Lettre sur les Sourds et Muets di Diderot, edita nel 1751. La stessa accusa fu mossa da alcuni articoli, soprattutto quelli di Guillaume Raynal sulle Nouvelles Littéraires e di Élie Fréron su L’année littéraire. Poiché queste voci circolavano già prima dell’uscita del Traité des sensations, Condillac decise di difendersi pubblicando in appendice al trattato una Reponse a un reproche que m’a été fait sur le projet exécuté dans le Traité des sensations: già prima del 1751 – vi si legge – «Madamoiselle Ferrand m’avoit communiqué cette idée», quella della statua animata, e soprattutto Diderot (che alcuni studiosi ritengono complice di Grimm) sapeva del suo lavoro: «l’Auteur de la Lettre sur les Sourds et Muets ne l’ignoroit pas» (Traité des sensations, pp. 286-287). Condillac non scriveva il falso: Laurence Bongie ha ritrovato una lettera indirizzata a Cramer, datata 10 giugno 1750, nella quale Condillac parla del suo sodalizio con la Ferrand e dello stato del progetto166. Più lunga e velenosa fu la polemica con Georges-Louis Leclerc de Buffon, autore nel 1749 di una Histoire naturelle de l’homme, terzo volume della monumentale Histoire naturelle, nella quale Buffon sostiene che per l’uomo appena creato il tatto è il senso più importante nel processo di apprendimento della realtà esterna. Buffon accusò pubblicamente Condillac durante un ricevimento presso Helvetius. In risposta Condillac scrisse e pubblicò nel 1755 un breve Traité des animaux seguito da un Extrait raisonné du Traité des sensations. Contro il Traité des animaux il padre oratoriano Joseph Adrien Lelarge de Lignac, seguace della filosofia di Malebranche, pubblicò sul Mercure de France le Lettres à un Américain, alla quale Condillac rispose con una Lettre de M. l’Abbé de Condillac, à l’auteur des Lettres à un Américain, anche questa pubblicata sul Mercure de France167.
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Cfr. C. Quarfood, Condillac cit., pp. 26-27, da dove traggo le informazioni riportate. L. Bongie, A new Condillac Letter and the Genesis of the “Traité des sensations”, «Journal of the History of Philosophy», vol. 16, n. 1, 1978, pp. 83-94. 167 Su questa polemica: G. Solinas, Polemiche illuministiche. “Sana” e “nuova” filosofia nell’autore delle “Lettres à un Americain”, in Id. Saggi sull’Illuminismo, Cagliari, Università di Cagliari, 1973, pp. 71-202. 166
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Il Traité des animaux è diviso in due parti. La prima parte, la pars destruens, riprende il tono del Traité des systèmes e critica la concezione dell’animale come automa di Descartes e l’ipotesi degli animali come «des êtres purement matériels» di Buffon. La seconda parte contiene la pars construens sull’essere animale, seguita da alcune riflessioni sulle differenze tra animale e uomo e da alcune considerazioni metafisiche che riprendono le tesi esposte nella dissertazione Les Monades.
6.1. Intelligenza umana e intelligenza animale Gli scopi del Traité des animaux sono essenzialmente due: il primo è di natura polemica, ossia difendersi dalle accuse di plagio, soprattutto contro Buffon; il secondo è lo studio della natura animale non in sé, ma come metro di paragone dello studio della natura umana. Nelle prime pagine Condillac scrive: j’avoué à cet égard toute mon ignorance [sulla natura degli animali], et je me contente d’observer les facultés de l’homme d’après ce que je sens et de juger de celles des bêtes par analogie (Traité des animaux, pp. 3-4).
La natura animale non è dunque il primo oggetto dell’indagine: si osservano le facoltà umane (introspezione) e se ne ricava per analogia il funzionamento delle facoltà animali. Il testo in questo modo svolge la sua funzione polemica: chiarisce i risultati ottenuti con l’indagine svolta nel Traité des sensations e marca le differenze con i sistemi avversi. Contro Buffon, il quale «prétend que l’analogie ne prouve pas que la faculté de penser soit commune à tous les animaux», nella risposta alle Lettres à un Américain Condillac scrive: «l’analogie m’a conduit ò reconnoître une âme dans les bêtes» (Œuvres, 1798, vol. 3, p. 638). Leggendo il Traité des animaux, occorre tenere sempre presente che l’oggetto del trattato è l’opposizione tra natura animale e natura umana e non l’analisi della natura animale in sé. Dato inoltre il carattere polemico e difensivo, il Traité si limita per lo più a chiarire quanto già sostenuto nell’Essai sulla base della nuova gnoseologia sensistica del Traité des sensations. Nell’Essai Condillac sostiene che gli animali posseggono un’immaginazione limitata, l’istinto, strettamente vincolata agli oggetti presenti e che si attiva solo in presenza di questi (Essai, I.II.IV.40). La natura animale non evolve oltre questa fase, rispetto alla quale si può marcare la distinzione con la natura umana, il cui tratto costitutivo è la riflessione: questa è l’operazione dell’anima che consiste nel dirigere volontariamente l’attenzione su diversi oggetti o diverse parti di oggetti, mentre l’istinto è operazione che dirige in modo involontario l’attenzione. Per esempio, se un animale emette un grido che un altro animale della stessa
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specie – che ne condivide bisogni e organisation – percepisce, il sentimento che vi è associato suscita una risposta immediata: se il grido equivale all’allarme per la presenza di un predatore, l’animale fugge. Non sembra dunque esserci alcuna manifestazione di un pensiero animale. Il Traité des animaux, alla luce della nuova gnoseologia sensistica, esamina più attentamente le caratteristiche dell’intelligenza animale. Il bisogno è il nucleo principale di «différentes combinaisons d’un petit nombre de sensations» che, a seconda dei bisogni e delle circostanze, formano come «des tourbillons qui se multiplient comme les besoins» (Traité des animaux, pp. 83-85) – ossia delle liaisons des sensations. La ripetizione di movimenti, conessi a determinati legami di sensazioni, ravvivati da bisogni e circostanze, accresce nell’animale l’esperienza che è all’origine dell’abitudine (Ibid., pp. 79-80) – sensazione trasformata che la nuova gnoseologia sensistica (tab. 5) colloca subito dopo l’attenzione e accanto alla memoria. L’animale, dunque, possiede una memoria e un’abitudine sufficienti ai suoi bisogni, sviluppatesi grazie alla ripetizione dei movimenti. È qui che ora Condillac colloca l’istinto, con una definizione quasi algebrica che la ricava dall’esame della natura umana: «l’instinct n’est que cette habitude privée de réflexion» (Ibid., p. 109). Il grado d’istinto non è lo stesso tra tutte le specie animali, varia a seconda dell’organisation: è minore negli animali che dispongono meglio di più sensi, dei propri bisogni e che sono in grado di fare comparazioni e di avere giudizi elementari (Ibid., p. 106). Questi animali possiedono capacità maggiori, quasi simili a quelle umane, senza però eguagliarle. L’uccello, per esempio, mostra di possedere un’immaginazione più sviluppata di altri animali perché deve avere l’immagine del nido che costruisce (Ibid., p. 85). Tuttavia la differenza di grado tra gli animali comporta a un certo punto uno scarto, introduce una differenza di natura tra questi e l’uomo. Mentre l’intelligenza animale si orienta su abitudine e istinto di conservazione, e non può colmare l’assenza della riflessione, l’intelligenza umana ha i suoi principi nella riflessione e nella ragione. Da qui la distinzione delle conoscenze di cui le due nature sono capaci: l’animale può avere solo conoscenze pratiche, idee particolari vincolate alle circostanze, mentre l’uomo è in grado di sviluppare conoscenze teoriche, ovvero idee astratte (Ibid., pp. 112-113).
6.2. Linguaggio umano e comunicazione animale Come l’istinto è ridefinito in termini negativi, così le conoscenze pratiche sono associazioni di idee, o liaisons des sensations, senza segni. Gli animali non hanno conoscenze teoriche perché «la théorie suppose une méthode, c’est-à-dire des signes commodes pour déterminer les idées, pour les disposer avec ordre, et pour en récueillir les résultats» (Ibid., p. 113) – ovvero segni propriamente detti considerati nella loro funzione cognitiva. 67
Gli animali possiedono solo segni naturali, involontari e strettamente associati a un sentimento. Si è visto che il significante del segno naturale è, a livello di emissione, l’immediato effetto di uno stimolo e, dal punto di vista ricettivo, una percezione immediatamente associata a una sensazione interna o esterna. Dall’Essai al Traité des animaux la prospettiva non muta: gli animali comunicano solo per mezzo di segni naturali; il segno naturale è legato alle circostanze che lo occasionano; la capacità d’uso dei segni naturali varia tra le specie animali (Ibid., pp. 102-103). Condillac aggiunge che un individuo animale possiede solo la sua esperienza, al punto che, se vivesse da solo, si troverebbe allo stesso stadio di sviluppo delle operazioni dell’anima e delle conoscenze dei suoi simili che vivono in gruppo. Ogni individuo deve a sua volta ripercorrere il cammino già intrapreso da altri simili, non potendo oltrepassare i limiti della propria specie (Ibid., pp. 89-90). Non c’è progresso oltre un certo stadio, neppure nella comunità animale. Questo punto è evidentemente il frutto delle analogie tra le congetture sulla natura animale e la finzione logica della statua animata prima dell’attivazione del tatto. L’analogia spiega lo scarto osservato tra istinto e riflessione, tra conoscenze pratiche e conoscenze teoriche: solo l’attivazione del tatto sviluppa la riflessione, solo il possesso del segno consente di elaborare conoscenze teoriche. Gli animali non posseggono lo strumento cognitivo in grado di trasformare le liaisons des sensations in liaisons des idées e di garantire un progresso dell’intelligenza. Inoltre mentre la statua animata, dopo l’attivazione del tatto, si trasforma in un uomo isolato, è chiaro che lo stesso esperimento non è concepibile per gli animali. Il senso del tatto, in quanto senso semiotico, segna la differenza di natura nel processo evolutivo. Ma, come si è detto, nemmeno la vita animale in comunità genera sviluppo. Questo significa che le poche idee che un individuo animale raccoglie non circolano, o circolano molto poco, dunque che tra gli animali manca un vero e proprio commercio delle idee. La riflessione sulla comunicazione animale di Condillac può infine essere sintetizzata dalle conclusioni che Émile Benveniste, in un articolo pubblicato nel 1952, trasse dalle ricerche di Karl von Frisch sul processo di comunicazione delle api: la forma di comunicazione usata dalle api […] non è un linguaggio, è un codice di segnali. Ne conseguono tutte le caratteristiche già viste: la fissità del contenuto, l’invariabilità del messaggio, il rapporto a una sola situazione, la non scomponibilità dell’enunciato, la sua trasmissione unilaterale168.
168
È Benveniste, Comunicazione animale e linguaggio umano, in Id., Problemi di linguistica generale, Milano, il Saggiatore, 2010, p. 77.
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6.3. Condillac materialista o animista? Nell’ambito della polemica con Buffon, Condillac prende posizione sulla questione ampiamente dibattuta del rapporto tra natura animale e natura umana. In uno studio dedicato al Traité des animaux, François Dagognet colloca Condillac tra gli scrittori che “animizzano” gli animali, ossia che ritengono che anche gli animali, come gli uomini, siano dotati di anima169. Dell’elenco di Dagognet fanno parte Marin Cureau de La Chambre, autore del Traité de la connaissance des animaux (1648), Ignace Gaston Pardies, autore del Discours de la connaissance des bêtes (1672), David Bouiller, la cui opera, l’Essai philosophique sur l’âme des bêtes (1727), era certamente nota a Condillac, e l’Amusement philosophique sur le langage des bêtes (1739) di Guillaume-Hiacynthe Bougeant. Ciò che accomuna questi autori è l’idea che gli animali non sono delle macchine, bensì esseri dotati di “anima sensitiva” (termine di Pardies), di un’intelligenza di derivazione sensoriale. Altri studiosi, invece, classificano il Traité des animaux come opera spiritualista per il fatto di assegnare l’anima agli animali170. La questione cruciale è capire in che senso Condillac parli di «une âme dans les bêtes». La sua, in effetti, è una posizione a metà tra quelle ben più note e polarizzate, di chi ritiene che vi sia continuità materiale tra natura animale e natura umana e chi invece ritiene che l’animale sia equiparabile a una macchina e che solo l’uomo è dotato di anima. Vediamo più nello specifico i due gruppi e dove collocare Condillac. L’iniziatore dell’analisi comparata tra facoltà linguistiche umane e animali è ritenuto Aristotele; la contrapposizione tra continuisti e discontinuisti si manifesta in età moderna, tra XVI e XVII secolo, e riguarda sia la facoltà razionale sia il problema se gli animali possano ritenersi dotati di linguaggio 171. Principale sostenitore della continuità tra natura animale e natura umana fu Michel de Montaigne, il quale, sulla scia degli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico, in particolare nella sezione degli Essais intitolata Apologia di Raimond Sebond, ritiene gli animali dotati sia di capacità logiche sia di una facoltà di linguaggio pari a quelle umane. Tra animali e uomini – sostiene Montaigne – corrono differenze di grado, non di natura; e se la parola è tutto ciò che riguarda le capacità espressive, allora gli animali ne sono dotati in termini razionali, non solo istintuali. Proprio su questo punto la posizione di Condillac si distingue da quella di Montaigne e dei continuisti. F. Dagognet, L’animal selon Condillac. Une introduction au “Traité des animaux”, Paris, Vrin, 2004, pp. 148-156. 170 G. Le Roy, La psychologie cit., p. 188; M. Dal Pra, Condillac, Milano, Fratelli Bocca, 1942, pp. 235-262; P. Salvucci, Linguaggio cit., pp. 15-16. 171 Per un quadro storico: S. Gensini, Linguaggio e anime “bestiali” fra Cinque e Seicento, in G. Manetti e A. Prato ( a cura di), Animali cit., pp. 229-254; C. Stancati, Animali cit.; l’antologia S. Gensini, M. Fusco Maria (a cura di), Animal loquens, Roma, Carocci, 2010. 169
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René Descartes è invece ritenuto il più importante fautore della teoria della discontinuità, secondo la quale gli animali non hanno né capacità logiche né facoltà di parola, ma agiscono per istinto, elaborano risposte non strutturate, sono per questo simili a delle macchine e differenti dagli uomini, i quali invece sono in grado di elaborare in modo complesso le risposte agli stimoli e di articolare parole in un’infinità di modi. Secondo i discontinuisti tra animali e uomini corre una differenza di natura, non di grado: solo l’uomo è dotato di anima, e solo il corpo umano, analizzato in sé, in termini anatomici, può essere considerato simile a una macchina. La riduzione dell’uomo a meccanismi fisiologici appartiene però al pensiero materialistico settecentesco che rifiuta la concezione cartesiana dell’uomo dotato di anima spirituale. L’archeologia di questo pensiero è piuttosto complessa: si sviluppa nella letteratura clandestina (a partire dal Theophrastus redivivus), assumendo una posizione nettamente anticartesiana, in una selva di opuscoli e manoscritti che si limita sovente a saccheggiare gli argomenti di Montaigne, Pierre Charron e Pierre Bayle, e trova forse la sua massima espressione ne L’Homme Machine di Julien Offray de La Mettrie, opera edita nel 1748 172. Esaminando questa copiosa letteratura sulla natura animale, Dagognet nota che i cartesiani, a differenza di Descartes, accentuano la meccanizzazione dell’animale e che, a loro volta, i materialisti accentuano la meccanizzazione sia dell’animale sia dell’uomo 173. A sua volta, Stancati osserva che a differenza di Descartes, secondo il quale gli animali non hanno anima e non pensano, si possono distinguere due atteggiamenti materialistici: la corrente egemone, esemplificata da La Mettrie, ritiene che gli animali non hanno anima ma pensano, che sia la materia a pensare, o meglio – secondo un programma riduzionista – che idee, percezioni e sensazioni non sono che effetti fisiologicamente analizzabili; un’altra corrente minore, invece, ritiene che gli animali pensano in quanto hanno un’anima, come fa Condillac, che considera l’anima sia degli animali sia dell’uomo il prodotto della sensazione trasformata 174. Non c’è dunque alcun “spiritualismo” in Condillac: in primo luogo il Traité des animaux marca la propria distanza dai discontinuisti Descartes e Buffon – in realtà la posizione di Buffon, nota Dagognet, è di difficile collocazione: è cartesiano nell’opporsi alle tesi “animiste” e nell’affermare che vi è un intervallo immenso tra l’uomo e gli animali superiori, ma non è cartesiano nel rifiuto di ridurre l’animale a una macchina 175; in secondo luogo Condillac, anche se sembra avvicinarsi alle posizioni continuiste quando sostiene che l’anima degli
172
Cfr. S. Charles, Corpo e mente, in G. Paganini, E. Tortarolo (a cura di), Illuminismo cit., p. 76. F. Dagognet, L’animal cit., pp. 51-52. 174 C. Stancati, Animali cit.; v. anche S. Charles, Corpo cit., p. 76. 175 F. Dagognet, L’animal cit., pp. 61-65; v. anche G. Barsanti, La mappa della vita, Napoli, Guida, 1983, pp. 79-80. 173
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animali condivide con l’anima degli uomini la natura sensoriale, pone una differenza di natura nella forma di uno scarto evolutivo che, a un certo stadio di sviluppo, separa natura animale e natura umana. Il Traité des animaux è allora più vicino alla tesi della continuità, ma non ne condivide del tutto il ragionamento.
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7. I segni e l’origine del linguaggio tra le due Grammaire
Dal 1758 al 1767 Condillac si stabilì a Parma, precettore di Ferdinando di Borbone, il figlio di Filippo I. Ritornato a Parigi, portò con sé i manoscritti, il frutto della fallimentare esperienza di educatore, da revisionare in vista della stampa. La storia del Cours d’étude pour l’instruction du prince de Parme è piuttosto travagliata. Secondo Luciano Guerci, cui si deve il primo studio esplorativo sulle due redazioni del Cours, «è certo che la [prima] redazione del Cours d’études risale interamente al periodo parmense»: dalla Francia, già l’11 maggio 1767, e poi ancora in ottobre, Condillac annunciò a don Ferdinando, succeduto al padre nel 1765, l’invio di «plusieurs cahiers d’histoire», certamente una parte della sezione storica del Cours176. Nel 1768 si dava per imminente la pubblicazione del Cours, cui Condillac lavorava alacremente, a Parma presso Bodoni. I tredici volumi, stampati tra il 1769 e il 1772, attendevano l’approvazione della censura. Ma in quegli anni, dopo la morte di Filippo I, Parma era al centro di uno scontro politicodiplomatico tra la Francia, con Luigi XV e il segretario di Stato agli affari esteri Étienne de Choiseul che appoggiavano Guillaume Du Tillot, un vero figlio dei Lumi, nel 1759 nominato da Filippo I primo ministro del Ducato, e la Spagna di re Carlo III, già duca di Parma (17311735), già re di Napoli e re di Sicilia (1735-1759), il quale, dopo la morte di Filippo I, ambiva al Ducato, sostenuto in questo proposito dall’Austria 177. Oggetto dello scontro era la scelta della consorte da dare a Ferdinando: fallito il piano francese e di Du Tillot di unire i ducati di Parma e di Modena combinando un matrimonio con Maria Beatrice d’Este, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria riuscì a imporre come sposa la sua sesta figlia, Maria Amalia. Il matrimonio venne celebrato per procura il 27 giugno 1769, ben quindici mesi dopo la presentazione della proposta, cosa che fece probabilmente insospettire Maria Amalia, la quale paventava l’ostruzione di Du Tillot. Dopo il matrimonio la corte si riempì di personaggi ostili alla condotta francese e a Du Tillot. Sembra che Maria Amalia dominasse Ferdinando, assai timoroso della moglie, al punto che, quando nel 1770 Du Tillot perse l’appoggio francese a causa del licenziamento di Choiseul (al suo posto Luigi XV nominò il fidato conte di Saint-
176 177
L. Guerci, La composizione cit., p. 190. La descrizione del contesto storico si basa sui dati in M. Romanello, Ferdindando cit.
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Florentin, già ministro e segretario di Stato), nel 1771 il primo ministro del Ducato fu prima sospeso e poi sostituito da José Augustin de Llano, figura di raccordo tra Austria e Spagna. Gli anni della stampa bodoniana del Cours d’étude coincidono con gli anni in cui contro il ministro “straniero” si coalizzarono le forze conservatrici, le resistenze di corte e la reazione ecclesiastica (la Chiesa era ostile a Du Tillot, soprattutto dopo l’espulsione dei gesuiti da Parma decretata nel 1768). Gli effetti furono immediati. Nel 1771 l’abate Millot, insegnante di storia nel Collegio dei Nobili, incaricato da Du Tillot di provvedere alla correzione delle bozze di stampa del Cours, lasciò Parma disgustato dalle «horreurs» e dalle «injustices» contro Du Tillot 178. E quando nel 1772 l’opera era pronta per la diffusione, il vescovo Francesco Pettorelli incaricò il priore del monastero di San Giovanni, padre Andrea Mazza, di visionare gli aspetti religiosi e politici del Cours. Le Osservazioni del Mazza, stese nel 1772, sono state pubblicate da Mario Dal Pra, che nella breve introduzione scrive: «poiché il dotto benedettino espresse l’opinione che l’abate dovesse ritenersi uno “spirito forte” scarsamente preoccupato dell’ortodossia cattolica e profondo spregiatore della Spagna, il vescovo decise di porre il veto alla diffusione dell’opera»179. Il vescovo Pettorelli sarebbe la causa del divieto di pubblicazione del Cours. In uno studio pubblicato qualche anno dopo quello di Dal Pra, Piero Petacco, basandosi su alcune lettere inedite di Condillac, ha individuato un altro mandante della censura: l’ordine di sospendere la diffusione del Cours giunse all’economo della stamperia intorno al 18 giugno da parte del ministro de Llano, mentre Andrea Mazza completò le Osservazioni solo in dicembre180. Si tratterrebbe, dunque, di censura ducale, non ecclesiastica. Tuttavia, nelle Osservazioni del Mazza si legge: «E nel vero quanto saggio sia stato il pensiero di V. S. Ill.ima e Rev.ma di non permettere la pubblicazione di quel Corso di studi […]»: dunque la decisione del vescovo potrebbe precedere la stesura finale delle Osservazioni181. La ricostruzione di Petacco rettificherebbe inoltre il giudizio sul de Llano dato da Guerci, secondo il quale il primo ministro spagnolo, rimosso nell’ottobre del 1772 e sostituito dal conte Giuseppe Pompeo Sacco, «intendeva seguire le linee della politica del precedente ministro» francese 182. In ogni caso, solo nel 1782, due anni dopo la morte di Condillac e ben dieci anni dopo gli eventi narrati, cadde il divieto: l’edizione bodoniana ebbe
178
L. Guerci, La composizione cit., p. 203. M. Dal Pra, Le “Osservazioni sul ‘Cours d’études’ di Condillac del P. Andrea Mazza”, «Rivista critica di storia della filosofia», vol. 28, n. 1, 1973, p. 37. 180 P. Petacco, Tre lettere inedite di Condillac (e notizie sull’edizione bodoniana del “Cours d’étude”, «Studi francesi», vol. 26, n. 1, 1982, pp. 54-62. 181 M. Dal Pra, Le “Osservazioni” cit., p. 38. 182 L. Guerci, La composizione cit., p. 207. 179
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finalmente l’autorizzazione e prese a circolare con in frontespizio l’anno di diffusione, il 1782, e come luogo d’edizione, per prudenza, “Aux Deux-Ponts”. Intanto Condillac, dato che Bodoni non poteva diffondere l’opera, cercò un altro stampatore. Ne trovò uno fuori della Francia, nel Ducato di Palatinato-Zweibrücken, “Deux-Ponts” in francese, dove, come precettore del principe Massimiliano Giuseppe, soggiornava Agathon de Keralio, fratello di Auguste de Keralio, precettore di Ferdinando al fianco di Condillac. Il Cours fu edito in sedici volumi nel 1775 con sul frontespizio il luogo dove avrebbe dovuto essere stampato, “A Parme, De l’Imprimerie Royale”. 7.1. Le due Grammaire come riscrittura dell’Essai Esistono dunque due edizioni del Cours (tre, se si aggiunge un’edizione contraffatta del 1776): una del 1782 corrispondente alla prima redazione, una del 1775 corrispondente alla seconda redazione. Condillac apportò in seguito su quest’ultima poche modifiche non sostanziali per l’edizione delle opere complete. Confrontando il manoscritto utilizzato per l’edizione bodoniana con la stampa francese, Guerci, che tra gli anni Sessanta e Settanta lavorava a un saggio sul Condillac storico (è il titolo del volume uscito nel 1978), pur concentrandosi sulle varianti presenti nei tomi storici del Cours, l’Histoire ancienne e l’Histoire moderne (che, conviene ricordarlo, rispetto ai quattro tomi filosofici, occupano la gran parte del Cours), a proposito delle altre opere annota: Se l’Art d’Écrire, l’Art de Raisonner e l’Art de Penser presentano soltanto lievi modifiche, la Grammaire ha subito nell’edizione 1775 molte trasformazioni, ed alcuni capitoli sono stati interamente riscritti183.
Guerci si meraviglia che Georges Le Roy, editore delle Œuvres philosophiques di Condillac, nell’elenco dei manoscritti condillacchiani e delle edizioni delle opere del filosofo ignori l’esistenza del manoscritto conservato alla Biblioteca Palatina di Parma 184; ci si può meravigliare – aggiungerei – anche del fatto che Le Roy, nelle note ai testi, abbia omesso ogni confronto tra le edizioni del 1775 e del 1798 con quella del 1782. In cosa consistono le trasformazioni tra le due edizioni della Grammaire? Ulrich Ricken ha per primo seguito l’annotazione di Guerci svolgendo un primo sommario confronto 185. Scorrendo i titoli dei capitoli della prima parte, balzano subito agli occhi le differenze tra i titoli dei capitoli IV e V: 183
Ibid., p. 214. Ibid., p. 195. 185 In particolare: U. Ricken, Les deux cit.; Id., Teoria cit. 184
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Grammaire 1782, cap. IV e V
Grammaire 1775, cap. IV e V
IV. Combien les signes sont nécessaires pour IV. Combien les signes artificiels sont décomposer les opérations de l’âme, et pour nécessaires pour décomposer les opérations nous en donner des idées distinctes
de l’âme, et pour nous en donner des idées discintes
V. Avec quelle méthode on doit se servir des V. Avec quelle méthode on doit employer les signes pour se faire des idées de tout espèce
signes artificiels, pour se faire des idées distinctes de tout espèce
Nella seconda redazione della Grammaire Condillac introduce il concetto di «signe artificiel», mai utilizzato nelle sue opere precedenti. Scorrendo l’indice dei sottotitoli, si trovano altri dati interessanti nel capitolo secondo:
Grammaire 1782, cap. II
Grammaire 1775, cap. II
Le langage d’action seroit propre à rendre L’homme est conformé pour parler le langage toutes nos pensées. Les mots sont des signes des sons articulés. Les mots n’ont pas été arbitraires. Les hommes ont été engagés à choisis arbitrairement. C’est une erreur de faire des langues, sans en avoir former les croire que les noms de la langue primitive projet.
exprimaient la nature de chose. En formant les langues, nous n’avons fait qu’obéir à notre manière de voir et de sentir.
Sulla dicitura «signe arbitraire» le differenze appaiono evidenti. I primi due capitoli delle due redazioni, inoltre, differiscono nel numero di pagine: il primo capitolo, il cui titolo è «Du langage d’action» in entrambe le edizioni, consta di quattro pagine nell’edizione 1782 e di undici nell’edizione 1775; il secondo capitolo, il cui titolo appare leggermente modificato (1782: «Observations générales sur les commencemens des langues et sur lors progrès»; 1775: «Considérations générales sur la formation des langues et sur lors progrès») è di undici pagine nella prima redazione e di quindici nella seconda. Se poi si dà una scorta al più nutrito gruppo di sottotitoli del primo capitolo della Grammaire del 1775, si può leggere tra quelli del tutto nuovi:
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-
«En nous donnant des signes naturels, l’auteur de la nature nous a mis sur la voie pour en imaginer des artificiels. Il ne faut pas confondre les signes artificiels avec les signes arbitraires. Avec quel art on imagine des signes artificiels».
C’è un nesso esplicito tra le nozioni di segno arbitrario e di segno artificiale. Quali sono le ragioni delle modifiche contenute nella Grammaire del 1775? A questa questione se ne aggiunge un’altra: posto che la Grammaire è la prima opera che riprende esplicitamente gli argomenti semio-linguistici dell’Essai, qual è il rapporto tra la prima Grammaire e l’Essai e come vi si relaziona, con le sue modifiche, la seconda Grammaire? Secondo Lia Formigari, la Grammaire è la principale opera metafisica di Condillac 186; più in generale, Dal Pra ha sostenuto che le opere filosofiche del Cours d’étude rappresentano la prima sistemazione delle riflessioni empirico-sensistiche di Condillac187. La Grammaire non sarebbe forse quella summa filosofica che Voltaire desiderava che Condillac scrivesse raggiungendolo a Ginevra nel 1756? 7.2. La pantomima romana da Dubos all’Essai alla prima Grammaire Per rispondere a queste domande conviene concentrarsi innanzitutto sulla prima Grammaire. Il primo capitolo descrive in sintesi il linguaggio d’azione senza farne la storia. Non si dice nulla della genesi delle lingue in rapporto al racconto biblico. Su questo punto vi è un solo rapidissimo cenno nel secondo capitolo del primo tomo dell’Histoire ancienne, conforme alla dottrina tradizionale (l’evento miracoloso causa la confusione delle lingue e, di conseguenza, la dispersione degli uomini): «mais lorsqu’après la confusion des langues les hommes furent forcés à se disperser […]» (Cours, 1782, vol. 5, p. 11). La descrizione del linguaggio d’azione nella Grammaire si attiene a quanto scritto nell’Essai e nel Traité des animaux. Il linguaggio d’azione, distinto dal linguaggio dei suoni articolati, si compone di tre elementi: i gesti, ossia i movimenti del corpo in generale, i più espressivi; i movimenti del viso, soprattutto degli occhi, i più eleganti; le grida inarticolate, che accompagnano gli altri elementi e servono come richiamo. Questo linguaggio molto limitato è comune agli uomini e agli animali e, poiché è «une suite de la conformation des organes», mette in comunicazione solo individui della stessa specie (Grammaire, 1782, pp. 8-11).
186
L. Formigari, Grammatica e analisi in Condillac, in C. Marazzini, S. Fornara (a cura di), Francesco Soave e la grammatica del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, p. 13. 187 M. Dal Pra, Il “Cours d’études” di Condillac nuova enciclopedia del sapere, in Aavv., Atti del Convegno sul Settecento parmense, Parma, Deputazione di Storia Patria per le province parmensi, 1969, pp. 25-47.
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Anche il secondo capitolo si rifà all’Essai presentando il secondo stadio del linguaggio d’azione: dopo l’uso dei segni naturali, la natura stessa «nous a mis sur la voie pour en imaginer nous mêmes» e il linguaggio d’azione, composto principalmente da gesti («nous pourions, par conséquent, rendre toutes nos idées avec des gestes, comme nous les rendons avec des mots»), diventa un misto di «signes naturels» e di «signes arbitraires» (Ibid., p. 12). Si ribadisce così la congettura di un lungo periodo di tempo nel quale gli uomini avrebbero usufruito di questo tipo di linguaggio e che si può esemplificare nell’invenzione della pantomima. La Grammaire non ne discute oltre, ma il passo aderisce sempre all’Essai, dove Condillac, nel quarto capitolo della seconda parte, analizza la pantomima romana come espressione del progresso nell’arte umana del gesto, rifacendosi alla sedicesima sezione del terzo volume delle Réflexions ciritiques sur la poésie et sur la peinture di Du Bos. L’idea che il linguaggio d’azione sia formato di segni naturali e arbitrari viene dalla definizione che Du Bos dà dell’arte gestuale: Nous avons dit ci dessus que l’art du geste étoit composé de gestes naturels et de gestes d’institution. On peut bien croire que les Pantomimes se servolent des uns et des autres188.
Secondo Du Bos, poiché ogni gesto è portatore di un significato, quando l’attore romano adoperava molti gesti istituiti o il pubblico li comprendeva perché era abituato a tali gesti, oppure occorreva che in qualche modo li apprendesse come si apprende «la signification de tous les mots d’une langue étrangere»; il che accadeva a Cartagine nei primi spettacoli di pantomima, dove era prevista la presenza di un banditore189. Come avveniva l’invenzione dei gesti? Du Bos trae il seguente racconto dai Saturnalia di Macrobio (Sat. 2.7.13-14): un giorno Pilade, attore celebre ai tempi di Augusto, assisteva a una recita di Hylas, suo discepolo e rivale, che danzava un’aria che finiva con “il grande Agamennone”, espressione resa con dei movimenti rappresentanti un personaggio alto e di grande corporatura; dalle gradinate Pilate criticò il gesto – «Lo stai facendo alto, non grande!» – sicché il popolo lo sollecitò a danzare sulla stessa aria e lui eseguì il gesto di un Agamennone pensoso, ritenendo che a un grande re si addicesse immergersi in una profonda meditazione190.
188
J.-B. Du Bos, Réflexions cit., vol. 3, p. 267. Su Du Bos: L. Russo (a cura di), Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica, 2005 (spt. i contributi di G. Lombardo e C. Vicentini). Sull’analisi della pantomima: M. Mazzocut-Mis, Gesto e pantomima. Azione e rappresentazione nel Settecento francese, «Rivista di studi sull’attore e la recitazione», anno III, n. 5, 2013, pp. 1-52. 189 J.-B. Du Bos, Réflexions cit., p. 268. 190 Ibid., pp. 271-272.
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Du Bos, scrive Condillac, ha raccolto tutto ciò che gli antichi hanno scritto sull’arte del gesto, ma non ne ha adeguatamente spiegato lo sviluppo (Essai, II.I.IV.30). La componente naturale rinvia a fattori ambientali: il gesto naturale eloquente appare più conforme alla costituzione dei popoli romani che a quella delle nazioni settentrionali – a tale proposito Condillac estrapola un lungo brano dalle Réflexions (Essai, II.I.IV.38). La componente arbitraria si evolve senza dubbio per ragioni legate al gusto, ma tale evoluzione va collocata nel quadro della lunga storia della prosodia: la pantomima si sviluppò presso gli antichi quando, ai tempi di Augusto, arte gestuale e declamazione si separarono (Essai, II.I.IV.34); gli attori inventavano dei nuovi gesti «sans doute dans l’analogie de ceux que chacun connoissoit déjà» (Essai, II.I.IV.35). Secondo Condillac, esistevano delle regole dell’arte gestuale che gli attori rispettavano e il pubblico condivideva. Tuttavia il discorso sull’invenzione dei gesti non va oltre l’accenno al meccanismo dell’analogia. Nemmeno la Grammaire fornisce ulteriori ragguagli: passa subito al linguaggio dei suoni articolati, avvertendo che bisogna distinguere la facoltà naturale di articolare i suoni dal rapporto arbitrario tra suoni e idee: «une langue n’est donc qu’une collection de mots, choisis arbitrairement pour être les signes de nos idées» (Grammaire, 1782, p. 13). Le lingue, come il linguaggio d’azione, non sono opera degli uomini ma si sono formate da sole. La breve spiegazione che segue può illuminare anche l’invenzione dei gesti: il bisogno di comunicare le idee dipende dalla natura sociale dell’uomo e, in base all’ambiente in cui vivono («suivant les circostances»), gli uomini usano determinate espressioni per comunicare le proprie idee; l’abitudine di servirsi «des mêmes mots dans les mêmes sens ou à peu-près» è la causa della diffusione e dell’apprendimento delle lingue, a cominciare dai primi nomi degli animali i quali, come sostenuto nell’Essai (v. par. 3.2.3.), non sono che «sons imitatifs» dei versi degli animali (Grammaire, 1782, pp. 13-14).
7.2.1. L’origine delle lingue: una polemica con Rousseau Allegato a quest’ultimo brano della Grammaire vi è una lunga nota nella quale Condillac risponde alle critiche mossegli da Rousseau nel Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes. La nota si trova con l’aggiunta di qualche precisazione anche nella seconda Grammaire. Rousseau presentò il Discours al concorso bandito dall’Accademia di Digione nel 1753 («Quelle est l’origine de l’inégalité parmi les hommes et si elle est autorisée par la loi naturelle») e lo pubblicò anonimo nel 1755. Sostenendo la tesi che la diseguaglianza non ha
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origine nello stato di natura bensì dalla formazione della società e dall’imposizione della proprietà privata, il Discours nega la naturale predisposizione alla socialità dei primi uomini: l’uomo selvaggio viveva solitario nello stato di natura, guidato dai bisogni e dalle passioni, nella più grande «distance des pures sensations aux plus simples connoissances» che avrebbe potuto colmare solo grazie al «secours de la communication» e all’«aiguillon de la nécessité»191. L’uomo selvaggio, vivendo isolato, non poteva sviluppare alcuna arte di pensare e, non possedendo natura sociale, non aveva nessun bisogno di comunicare. In questo modo Rousseau scardina le premesse della ricostruzione dell’origine del linguaggio nell’Essai di Condillac: Quand nous voudrions supposer un homme Sauvage aussi habile dans l’art de penser […] quelle utilité retireroit l’Espèce de toute cette Métaphysique, qui ne pourroit se communiquer, et qui periroit avec l’individu qui l’auroit inventée? […] Et jusqu’à quel point pourroient se perfectionner, et s’éclairer mutuellement des hommes qui, n’ayant ni domicile fixe ni aucun besoin l’un de l’autre, se recontreroient, peut-être à peine deux fois en leur vie, sans se connoître, et sans se parler192?
Più precisamente l’errore di Condillac (e il riferimento non può che essere a Essai, II.I.I.3) è di aver creduto di risolvere il problema dell’origine delle lingue presupponendo «une sorte de société déjà établie entre les inventeurs du langage»193. Se s’immagina di superare questa difficoltà, prosegue Rousseau, subito se ne presenta un’altra di stampo gnoseologico, che riguarda i limiti delle capacità intellettive: con quale linguaggio i primi uomini comunicavano? Se il primo linguaggio naturale era formato di gesti e suoni imitativi, come poterono i primi uomini, i cui «organes grossiers n’avoient aucun exercice», passare ai suoni articolati e stabilire i significati delle parole? Infatti (e il riferimento in questo caso è il cortocircuito tra riflessione e segno arbitrario in Essai, I.II.V.49) si les Hommes ont eu besoin de la parole pour apprendre à penser, ils ont eu bien plus besoin encore de savoir penser pour trouver l’art de la parole194.
Per Rousseau è concepibile l’invenzione della lingua solo in tempi lunghi (un «temps infini»), e non grazie a un incontro fortuito tra due «enfans» 195. Lo stesso si può dire dello sviluppo correlato delle capacità intellettive e del linguaggio articolato: per comparare, classificare e J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, Amsterdam, Marc Michel Rey, 1755, p. 40. 192 Ibid., pp. 43-44. 193 Ibid., p. 45. 194 Ibid., p. 49. 195 Ibid., p. 44. 191
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assegnare «des dénominations communes et génériques», occorre riconoscere somiglianze e differenze tra le proprietà delle cose, avere delle capacità («de l’Histoire Naturelle et de la Métaphysique») che i primi uomini, limitati al più ai nomi particolari delle cose, non potevano possedere196. La critica di Rousseau si può riassumere in tre domande: come poterono i primi uomini comunicare se non ne avevano il bisogno (più in generale: viene prima il linguaggio o la società)? Come poterono i primi uomini articolare suoni e stabilire i significati delle parole se possedevano un apparato fonatorio grossolano e limitate capacità mentali? Come poterono i primi uomini avere idee generali e nomi comuni se non possedevano gli elementi per classificare le idee particolari? Condillac non risponde alla prima domanda perché la sua riflessione presuppone sempre la natura istintivamente sociale dell’uomo come dell’animale. Sulla seconda domanda mi soffermerò tra poco. La nota nelle due Grammaire contiene invece la risposta alla terza domanda. Condillac cita il brano del Discours in questione e nota con stupore – una «inadvertance» la chiama nella seconda Grammaire (1775, p. 24) – che si parli di proprietà delle cose, di storia naturale, di metafisica: lui in verità non ha mai supposto una cosa simile. Condillac ci tiene a precisare che la sua è una ricostruzione teorica («je ne prétends pas établir que les hommes l’ont faite, je pense seulement qui l’ont pu faire»: Grammaire, 1775, p. 24), come del resto aveva già fatto all’inizio della seconda parte dell’Essai (vol. 2, p. 2): «qu’on me permette d’en faire la supposition […]». I primi uomini non avevano bisogno di alcuna metafisica per significare le espressioni, come i bambini che apprendono una lingua non conoscono le proprietà delle cose. Congettura filogenetica e teoria e osservazione ontogenetica si complementano esplicitamente nella seconda Grammaire: «le langage d’un enfant est l’image de la langue primitive, qui, dans son origine, a dû être très grossiere et très bornée» (Grammaire, 1775, p. 24). Più avanti, l’analogia è tra lingua primitiva e lingua dei selvaggi: «[…] pour faire une langue imparfaite, telle qu’auroit pu être la langue primitive, ou telle que celle des plusieurs peuples sauvages» (Ibid., p. 25). I primi uomini, guidati dai bisogni, osservavano non le proprietà delle cose, che nemmeno noi conosciamo, ma «les raports des choses à eux», rapporti «connus ou sentis» da cui ricavavano delle idee, sì imperfette ma più che sufficienti per osservare somiglianze e differenze, per classificare in modo grossolano e assegnare nomi comuni e generali (Grammaire, 1782, p. 16). L’errore e la confusione di idee fanno parte dei primi passi nello sviluppo delle conoscenze. Del resto, già
196
Ibid., pp. 54-55.
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l’ultima parte del Traité des sensations (v. par. 5.2.2.) aveva supposto, relativamente a un uomo solo, un quadro simile. La risposta di Condillac si concentra solo su una parte dello sviluppo gnoseologico e non chiarisce il rapporto tra conoscenze e linguaggio articolato, limitandosi ad accogliere l’idea che questo sviluppo abbia richiesto molto tempo. Da qui ci si può ricollegare alla seconda domanda di Rousseau che riformula il problema del cortocircuito tra riflessione e segno arbitrario dell’Essai nella forma, come ha notato Auroux, di un noto paradosso esposto nel Cratilo di Platone197. Contro Ermogene, per il quale il criterio di correttezza del nome è nell’accordo o convenzione con cui s’impongono i nomi alle cose, Cratilo afferma che tale criterio è nella natura delle cose. Dopo che questi ha sostenuto che il nome può essere concepito come strumento per conoscere le cose, Socrate chiede: Da quali nomi, allora, [colui che pose i primi nomi] aveva imparato o trovato le cose, se in effetti non erano ancora stati attribuiti i primi nomi e, d’altro canto, diciamo che è impossibile imparare e trovare le cose in altro modo se non imparando i nomi e ritrovando noi stessi quali sono? […] In quale modo, dunque, possiamo dire che costoro abbiano posto i nomi sapendo, ovvero che siano legislatori, prima che fosse attribuito qualsiasi nome e quindi che quelli sapessero, se proprio non è possibile imparare le cose se non dai nomi198?
In Condillac e Rousseau il parodosso si presenta nella difficoltà di delineare uno sviluppo lineare del linguaggio, di ricongiungere l’invenzione arbitraria dei primi segni all’origine naturale. Così nella prima Grammaire, che riprende dall’Essai l’idea del linguaggio d’azione misto di segni naturali e arbitrari e in una prospettiva non più storica. Così anche la riflessione di Rousseau nell’Essai sur l’origine des langues, composto tra il 1754 e il 1761 e pubblicato postumo, una riflessione molto vicina, come ha giustamente notato Aarsleff, a Condillac: […] la parole, étant la première institution social, ne doit se former qu’à des causes naturelles. Sitôt qu’un homme fut reconnu par un autre pour un être sentant, pensant, et semblable à lui, le desir ou le besoin de lui communiquer ses sentiments et ses pensées lui en fit chercher les moyens. Ces moyens ne peuvent se tirer que des sens, les seuls instruments par lesquels un homme puisse agir sur un autre. Voilà donc l’institution des signes sensibles pour exprimer la pensée. Les inventeurs du langage ne firent pas ce raisonnement, mais l’instinct leur en suggéra la conséquence199.
197
S. Auroux, La sémiotique cit., p. 50. Platone, Cratilo, a cura di F. Aronadio, Bari, Laterza, 1996, p. 137 (438 a-b). 199 J.-J. Rousseau, Essai sur l’origine des langues, in Id., Œuvres, Paris, Deterville, 1817, vol. 9, pp. 153-154. Sul brano: H. Aarsleff, Da Locke cit., pp. 193-194. 198
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Secondo Luca Nobile, il paradosso del Cratilo inficia il problema dell’origine del segno arbitrario200. Proprio per rendere più graduale la descrizione dello sviluppo del linguaggio la seconda Grammaire ridefinisce il concetto di linguaggio d’azione. Prima di passare a questo punto, vorrei fare una postilla sul paradosso: nel dialogo platonico Cratilo risponde a Socrate che solo una forza più grande di quella umana può aver posto i primi nomi alle cose e che dunque i nomi non possono che essere corretti. Ma Socrate aveva già fatto notare che il significato dei nomi è spesso in contrasto con la supposta natura dei nomi contenuta nelle parti del nome stesso e che dunque, se i nomi hanno origine da una forza sovrumana, si dovrebbe ritenere che questa forza abbia commesso degli errori nell’assegnare i nomi alle cose201. La fuga dal paradosso per la via dell’origine divina si trova nella voce Langue dell’Encyclopédie, composta tra il 1757 e il 1767 (nel pieno dell’autocensura editoriale dell’impresa enciclopedica) probabilmente da Nicolas Beauzée, autore nel 1767 di una Grammaire générale. Nella voce si legge che Dio ha donato la facoltà di linguaggio a tutta l’umanità, non solo ad Adamo ed Eva, ispirando «l’art d’imaginer les mots et les tours nécéssaires aux besoins de la société naissante»202. Nel paragrafo che segue vedremo come Condillac concepisca «l’art d’imaginer» i nuovi segni in modo affatto diverso.
7.3. Non segno arbitrario, ma segno artificiale Il primo capitolo della seconda Grammaire riformula il passaggio alla seconda fase del linguaggio d’azione descritto nel secondo capitolo della prima Grammaire. Il passo «ce langage seroit formé de signes naturels et de signes arbitraires», e che prosegue col cenno senza approfondimenti alla pantomima romana (Grammaire, 1782, p. 12), è così riscritto: «ce langage seroit formé de signes naturels et de signes artificiels» (Grammaire, 1775, p. 9). E prosegue: Remarquez bien, Monseigneur, que je dis de signes artificiels, et que je ne dis pas de signes arbitraires: car il ne faudroit pas confondre ces deux choses. En effet, qu’est-ce que des signes arbitraires? Des signes choisis sans raison et par caprice. Il ne seroient donc pas entendus. Au contraire, des signes artificiels sont des signes dont le
L. Nobile, La “Grammaire” de Condillac face au paradoxe de l’origine naturelle du langage, in B. Colombat, J.-M. Fournier, V. Raby (a cura di), Vers une histoire générale de la grammaire française, Paris, Champion, 2012, pp. 151-168. I riferimenti di pagina sono al testo disponibile sul sito www.lucanobile.eu (pp 112: per il punto in questione cfr. p. 4). 201 Platone, Cratilo cit., pp. 137-139 (438c) e p. 135 (436d-e). 202 Table analytique et raisonnée du Dictionnaire des sciences, arts et métiers, Paris-Amsterdam, PanckouckeRey, 1780, vol. 2, p. 95. 200
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choix est fondé en raison: ils doivent être imaginés avec tel art, que l’intelligence en soit préparée par les signes qui sont connus (Ibidem.).
Il fondo del ragionamento non cambia: è la natura che mette i primi uomini sulla via d’immaginare nuovi segni. Sostituendo il concetto di «arbitraire» con quello di «artificiel» Condillac sembra voler esplicitare il percorso graduale, senza salti né fratture, che dal linguaggio naturale conduce al nuovo linguaggio. L’opposizione tra i due concetti è netta: i segni arbitrari sono «signes choisis sans raison et par caprice», i segni artificiali sono «des signes dont le choix est fondé en raison». In cosa consiste questa «art d’imaginer» i segni artificiali? La pantomima, scrive Condillac, non avrebbe potuto ottenere quel grande successo che ha avuto presso i romani se gli attori avessero utilizzato dei segni arbitrari; i pantomimi, partendo dai segni naturali, comprensibili a tutti («entendus de tout le monde»), ovvero da una base comune di segni espressione di un fondo comune di idee, elaboravano nuovi segni modificando quel tanto che bastava i segni naturali per esprimere le idee nuove che, «par différents accessoires», ricavavano dal fondo comune. Il principio di ragione che orienta l’immaginazione dei nuovi segni corrisponde al meccanismo alla base della sensazione trasformata e della successione delle idee: «une suite des signes qui ne seront dans le vrai qu’un même signe modifié différemment» è il risultato dell’analogia, la quale «ne nous permet pas de choisir les signes au hasard et arbitrairement» (Ibid., p. 10). Già l’Essai, come si è visto sopra, codificava l’analogia come il processo alla base dei nuovi segni pantomimici, cercando così, a differenza delle Réflexions di Du Bos che si limitavano a una raccolta di notizie, di inquadrare lo sviluppo del linguaggio gestuale nel contesto dell’evoluzione della prosodia. La seconda Grammaire, sostenendo che i segni arbitrari sono segni scelti «au hasard», «sans raison et par caprice», prende più nettamente le distanze da certi ragionamenti che si leggono nelle Réflexions. Nella sezione XXXVII della prima parte, Du Bos confronta i versi latini coi versi francesi, ritenendo che i primi facciano più impressione dei secondi. Questo accade anche se l’impressione suscitata dalle parole di una lingua straniera, per il fatto che il significato è estraneo, sia più debole dell’impressione suscitata dalle parole della lingua naturale. La relazione tra parole e idee appare naturale solo da bambini, sebbene il legame sia il frutto dell’educazione e dell’abitudine. Le parole, infatti, sono immotivate:
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A l’exception d’un petit nombre des mots qui peuvent passer pour des mots imitatifs, nos mots n’ont d’autre liaison avec l’idée attachée à ces mots, qu’un liaison arbitraire. Cette liaison est l’effet du caprice ou du hasard203.
Oltre che Du Bos, Condillac sembra nella seconda Grammaire criticare anche se stesso, precisamente quando nell’Essai descriveva l’incontro tra i due «enfans» e sosteneva che «la perception d’un besoin se lioit, par exemple, avec celle d’un objet qui avoit servi à les soulager» e che questi legami, non essendo trattenuti da una riflessione non ancora attiva, si formavano «par hasard» (Essai, II.I.I.1).
7.3.1. Un concetto più idoneo o una nuova teoria? Come si è visto nel cap. 4, subito dopo la stesura dell’Essai Condillac cominciò a ripensare alla questione del segno. Sul piano ontogenetico, come si è detto nel cap. 5, il Traité des sensations assegna al tatto la funzione semiotica di formare e legare le idee, funzione ceduta dal segno arbitrario e che costituiva il principio gnoseologico dell’Essai. Sul piano filogenetico, la seconda Grammaire descrive il processo graduale di sviluppo del linguaggio dall’origine naturale all’invenzione dei segni non arbitrari, ma artificiali. L’oggetto di questo lungo ripensamento è evidentemente l’arbitrarietà del segno. In che cosa consiste più precisamente questo riesame e per quale ragione Condillac preferisce parlare di «signes artificiels»? Diversi studiosi hanno cercato di rispondere a questa domanda 204. Della rassegna che segue, è bene precisare che solo Ricken e Nobile hanno esaminato le varianti tra le due redazioni della Grammaire. Bernard Henschel, in un articolo pubblicato nel 1977, ritiene giustamente che bisogna collocare la riflessione condillacchiana sul segno nel quadro storico delle teorie del linguaggio del XVIII secolo. Qui, però, si lamenta della confusione tra la tendenza dominante a parlare di origine naturale e i ragionamenti sull’accordo, l’imposizione, l’invenzione dei segni, tutti richiami ambigui alla funzione segnica, che è funzione cognitiva e comunicativa, e in modo improprio attribuiti anche alla genesi. Per fare chiarezza in questo quadro Henschel decide di dividere argomentazione funzionale e argomentazione genetica, e crede che anche Condillac faccia lo stesso usando «arbitraire» quando parla della funzione del segno e «artificiel» quando si riferisce alla genesi naturale205. La proposta di Henschel ha riscontrato un certo 203
J.-B. Du Bos, Réflexions cit., vol. 1, p. 336. Per Aarsleff invece si tratta di una questione trascurabile: v. H. Aarsleff, Da Locke cit., p. 184, 198, 205. 205 B. Henschel, L’arbitraire du signe chez Condillac, «Beiträge zur romanischen Philologie», vol. 16, 1977, pp. 101-104. 204
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favore soprattutto perché, in un momento in cui negli studi la questione dell’origine del linguaggio era ancora pressoché bandita (v. Introduzione), si concentrava sull’argomento funzionale e trascura quello genetico. La stessa impostazione si trova in Pichevin e Rosiello, con quest’ultimo che attribuisce la funzione cognitiva all’arbitrarietà e la facoltà di comunicare al nesso naturale-artificiale206. Seguono questo orientamento anche i contributi di Auroux e Swiggers nel volume collettaneo a cura di Sgard: Auroux valorizza il «principe d’instrumentalité du signe» in opposizione alla questione genetica, Swiggers distingue tra la «fonction épistémologique» che il segno svolge nella formazione delle idee e la funzione di articolazione che riguarda lo sviluppo del linguaggio 207. Anche Ricken procede lungo questa direzione, ma giunge a una conclusione diversa: Condillac cambia «arbitraire» con «artificiel» per chiarire il ruolo che il segno ricopre nello sviluppo delle idee 208. Secondo la linea interpretativa inaugurata da Henschel, «arbitraire» e «artificiel» afferiscono a due prospettive diverse, funzionale e genetica. In un saggio del 1986 Jürgen Trabant ha avanzato valide obiezioni: contro Henschel, Trabant dimostra che nell’Essai il «signe d’institution» ricopre un ruolo importante nella storia del linguaggio e che, anche se il linguaggio ha origine naturale, l’arbitrarietà è sia funzionale sia genetica; contro Swiggers, nota che Condillac non ha una nozione di struttura articolatoria del segno verbale e che, sebbene legate dai significanti, le idee condividono un fondo comune. Per Trabant nella seconda Grammaire Condillac ha preferito «artificiel» ad «arbitraire» per esprimere in modo più appropriato l’arbitrarietà moderata, non originaria e in qualche modo legata alla genesi naturale – concezione già presente nell’Essai209. A differenza del precedente gruppo di studiosi che valorizza l’argomento funzionale, Trabant sottolinea l’importanza della prospettiva storica in Condillac, da intendersi sempre come congettura sulla genesi del linguaggio 210. Seguendo questo orientamento, Nicolas Rousseau ritiene che con il concetto di «artificiel» Condillac si allontana dal convenzionalismo lockiano, mentre Aliénor Bertrand ha analizzato la «logique naturel», già presente nell’Essai, che sovrintende il passaggio dall’arbitrario all’artificiale 211. Valorizzando la prospettiva 206
C. Pichevin, Remarques cit., p. 56; L. Rosiello, Sistema, lingua e grammatica in Condillac, in D. Buzzetti, M. Ferriani (a cura di), La grammatica del pensiero. Logica, linguaggio e conoscenza nell’età dell’Illuminismo, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 47-48. 207 S. Auroux, Empirisme cit., pp. 185-186; P. Swiggers, La sémiotique cit., p. 227. 208 U. Ricken, Linguistique cit., pp. 87-88; Id., Linguistique et philosophie cit., p. 341. 209 J. Trabant, La critique de l’arbitraire du signe chez Condillac et Humboldt, in W. Busse, J. Trabant (a cura di), Les Idéologues. Sémiotique, théories et politiques linguistiques pendant la Révolution française, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 1986, pp. 80-83. 210 A. Lifschitz, The Arbitrariness of the Linguistic Sign: Variations on Enlightenment Theme, in «Journal of the History of Ideas», n. 73, 2012, pp. 537-557. 211 N. Rousseau, Connaissance cit., p. 105; A. Bertrand, Le langage cit., p. 117.
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genetica, questi studiosi ritengono che tra l’Essai e la Grammaire vi sia in fondo una continuità di pensiero: la seconda Grammaire differisce dalla prima perché trova un concetto più preciso per descrivere l’origine e lo sviluppo del linguaggio. Come mostrerò nel proseguo del capitolo, ritengo che questa linea interpretativa sia la più plausibile. Luca Nobile, invece, sostiene che nella seconda Grammaire «Condillac change d’idée» concependo la formazione dei segni per l’«impulsion naturelle de l’imitation et de l’analogie». «Analogie» è, secondo Nobile, il concetto chiave per capire la novità teorica della seconda Grammaire: Condillac avrebbe ricavato questo concetto dal Traité de la formation méchanique des langues di Charles de Brosses, libro citato in una nota del secondo capitolo aggiunta alla seconda redazione della Grammaire. Dopo questa lettura Condillac si sarebbe convertito al cratilismo 212. L’ipotesi di un’influenza di de Brosses su Condillac era già stata rigettata da Henschel, Auroux e Nicolas Rousseau senza un’analisi delle due Grammaire213. La esaminerò nel par. 7.3.4.
7.3.2. I due linguaggi d’azione nella seconda Grammaire Riprendiamo la lettura della seconda Grammaire. Dopo aver accennato al ruolo dell’analogia nell’invenzione dei segni pantomimici, Condillac distingue il linguaggio d’azione in naturale, «par la conformation des organes» e «nécessairement très borné», e artificiale, «par l’analogie» e in grado di esprimere «toutes les conceptions de l’esprit humain» (Grammaire, 1775, p. 11). A questa divisione segue una descrizione del tutto nuova dello sviluppo del primo linguaggio «dans celui qui parle et dans celui qui écoute», che intreccia aspetti cognitivi e comunicativi e può essere così agevolmente schematizzata (Ibid., pp. 12-16):
1.
Disponendo del linguaggio d’azione naturale, chi parla si esprime con gesti («actions») che riferiscono più idee simultanee nello stesso tempo («l’objet qui l’affecte, le jugement qu’il porte et les sentiments qu’il éprouve») «comme elles sont toutes à la fois présentes à son esprit»; chi ascolta osserva le azioni, le rivede più volte (deve «se faire une habitude de voir») per poter comprendere bene «d’un clin d’œil» tutte le idee simultanee comunicate con un solo gesto: in quest’ultimo le idee da simultanee «deviennent souvent successives», sebbene si tratti sempre di una
L. Nobile, La “Grammaire” cit., p. 2. B. Henschel, L’arbitraire cit., p. 104; S. Auroux, Empirisme cit., p. 186; N. Rousseau, Connaissance cit., p. 105. 212 213
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successione di «une multitude d’idées à la fois» (di «tableaux»). Questo linguaggio ha il vantaggio della rapidità ma non è in grado di esprimere distintamente le idee. 2.
Il bisogno di comunicare e di comprendersi fa sì che si cominci a distinguere ciò che era confuso: chi parla cerca di «dire moins choses à la fois» e sostituisce «des mouvements successifs à des mouvements simultanés»; chi ascolta si applica a «observer successivement le tableau que le langage d’action met sous ses yeux». I due interlocutori imparano a osservare successivamente e con ordine ciò che esprimono e intendono, ossia a «décomposer ou analyser leurs pensées».
3.
«Quelque grossiere que soit cette analyse», è grazie a questa che nasce il linguaggio d’azione artificiale: chi parla si esprime con gesti inventati «avec art» e «analogues aux signes naturels» per comunicare le idee distintamente e secondo una successione ordinata, così da rendere più comprensibile il proprio pensiero; chi ascolta prosegue a scomporre il pensiero: «plus ils analyseront, plus ils sentiront le besoin d’analyser».
Sebbene questa ricostruzione consenta una descrizione della storia del linguaggio d’azione più precisa di quella dell’Essai, Condillac non riscrive la prima sezione della seconda parte dell’Essai né nella seconda Grammaire né soprattutto nell’Art de penser, il libro del Cours che è più propriamente la riscrittura dell’Essai e dal quale è espunta tutta la sezione sulla storia del linguaggio 214. Due coppie di concetti sono alla base di questa ricostruzione. La prima agisce all’interno della descrizione ed è la coppia Simultaneità vs. Successione, solo abbozzata in un passo del Traité des animaux, dove si legge che gli animali non hanno conoscenze astratte perché queste richiedono «une méthode, c’est-à-dire des signes commodes pour déterminer les idées, pour les disposer avec ordre» (Traité des animaux, p. 112). L’altra coppia è Analisi – Analogia, i due motori dello sviluppo del linguaggio, l’analisi scomponendo le idee simultanee in idee successive e fornendo nuove idee da significare, l’analogia scomponendo gesti simultanei in gesti successivi e formando nuovi segni215. Più in generale, «analyse» e «analogie» sono «dans le vrai, tous les principes des langues» (Grammaire, 1775, p. 17). L’analisi e l’analogia governano anche la formazione dei suoni articolati. Condillac distingue tra suoni inarticolati (descritti nel primo capitolo in un brano aggiunto alla seconda redazione della Grammaire), che si formano «sans être frappés ni avec la langue, ni avec les levres», e i
M. Malherbe, De l’idée vague dans l’“Art de penser” de Condillac, in A. Bertrand (a cura di), Condillac, philosophe cit., p. 94. 215 C. Pichevin, Remarques cit., p. 41; L. Rosiello, Sistema cit., p. 46. 214
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suoni articolati «ceux qui son modifiés» «par le mouvement des levres» e «par le mouvement de la langue» contro il palato e i denti (Ibid., p. 7, 18). L’uomo articola i suoni secondo analogia: i suoni articolati – si legge nel secondo capitolo – si formano scomponendo i suoni inarticolati che rimangono come tratti soprasegmentali e servono a dare maggiore espressività, a comunicare idee simultanee, per esempio gli accenti, «qui se forment sans aucune articulation» e servono nel primo linguaggio articolato a esprimere «les sentiments de l’âme», la scansione delle sillabe, la pronuncia lenta o rapida delle parole, le differenti inflessioni della voce (Ibid., pp. 19-20). Le prime parole imitano i rumori degli oggetti, come i versi degli animali, sono «des images sensibles» delle cose. Formando nuove parole, dopo i primi sviluppi della lingua sonora gli uomini esprimono «plusieurs qualités sensibles» combinando «ensemble plusieurs mots», proprio come fanno i bambini quando inventano nuove parole «souvent très expressifs»: l’analogia guida i primi uomini, come guida i bambini, «dans la formation des langues» (Ibid., p. 21).
7.3.3. L’arte dei segni metodici dell’abate de l’Épée Nel riformulare il concetto di linguaggio d’azione Condillac sembra mescolare due atteggiamenti: uno è quello congetturale, perseguito fin dall’Essai, di come gli uomini – come si legge nella nota in risposta a Rousseau – «ont pu faire» la lingua; l’altro assume un valore più prescrittivo, di come gli uomini avrebbero dovuto fare la lingua. Per verificare questo sospetto occorre soffermarsi sui tre nuovi concetti emersi nella seconda Grammaire, quelli di «signe artificiel», di «analogie» (v. par. 7.3.4.) e di «analyse» (v. par. 7.3.5.). Il concetto di «signe artificiel» sembra in qualche modo rimandare all’attività di educatore dei sordomuti dell’abate Charles-Michel de l’Épée, che Condillac elogia in una nota allegata al brano in cui distingue i due linguaggi d’azione (Ibid., pp. 11-12). Agli inizi degli anni Sessanta Charles-Michel de l’Espée (detto abate de l’Épée), di simpatie gianseniste, cominciò a occuparsi dell’istruzione di due sorelle sordomute che comunicavano per mezzo di gesti. Comprendendo le potenzialità di questo modo di espressione, l’abate decise di dedicare la sua vita all’educazione del sordomuti: fondò a Parigi la prima scuola al mondo, pubblica e gratuita, per istruire i sordomuti, inventando e affinando insieme agli allievi una lingua dei segni. A partire dalla metà degli anni Settanta, dando dimostrazione dei risultati ottenuti per mezzo di esercizi pubblici, l’abate fece conoscere il suo metodo e dimostrò alla società che i sordomuti non erano affatto dei minorati psichici.
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Condillac conobbe de l’Épée e la sua attività d’istruttore dopo il suo ritorno a Parigi. Secondo Antonino Pennisi, lo scambio tra i due fu reciproco: il de l’Épée dimostrò a Condillac che il linguaggio gestuale poteva essere metodico e non arbitrario, Condillac fornì «l’aval philosophique» al de l’Épée216. Nel 1776 l’istruttore dei sordomuti dette alle stampe due volumi intitolati Institution des sourds et des muets par la voie des signes méthodiques, l’opera che lo fece conoscere anche fuori della Francia. L’insegnamento dell’abate si opponeva alla dattilologia di Jacob Rodriguez Pereire, un ebreo spagnolo della seconda metà del Settecento che si era trasferito in Francia e che aveva elaborato il suo metodo occupandosi della sorella sorda, probabilmente ispirandosi ad autori di linguaggi cifrati come John Wallis217. La dattilologia – termine coniato da Saboureux de Fontany, allievo di Pereire, il quale non volle mai divulgare i suoi lavori – consiste in un alfabeto manuale di una trentina di segni gestuali, dove ciascun segno corrisponde a una lettera e una sequenza di segni corrisponde a una parola, una sorta di scrittura in aria (Saboureux de Fontany la chiamava anche “stenografia digitale”) che presuppone l’apprendimento della lingua nazionale, di cui la dattilologia ne è la traduzione. Si tratta dunque di un sistema di segni arbitrari. La lingua dei «signes méthodiques» dell’abate de l’Épée costituisce invece il linguaggio primario dei sordomuti e consiste nell’elaborare segni che esprimono direttamente le idee. Quest’arte opera per mezzo dell’analisi a livello delle idee e dell’analogia a livello dei segni. A Pereire, che durante un’esercitazione pubblica affermò che l’arte dei «signes méthodiques» è simile all’ideogrammatica cinese, de l’Épée replicò che i segni metodici non sono arbitrari ma «pris ou dans la nature même, ou dans la raison»218. Per esempio, la frase «Nous eûmes mangé» è espressa con la seguente sequenza di segni: (i) «nous»: l’indice della mano destra sul petto e l’indice della mano sinistra che indica lo spazio intorno e ritorna sulla persona; (ii) «manger»: la mano destra con le dita congiunte verso la bocca; (iii) tempo verbale: prima si porta la mano due volte verso la spalla come segno del perfetto, poi con la mano in basso si indica il numero quattro come segno del piucheperfetto 219. Quest’ultimo segno può essere sostituito con un segno sintetico e analogo: si compie con la mano destra un movimento intorno alla mano sinistra «comme pour chaffer une mouche» 220. 216
A. Pennisi, Pathologies et philosophies du langage, «Histoire Épistémologie Langage», vol. 14, n. 2, 1992, pp. 181-182. 217 Su Pereire: M. Rossi, Dal canto alla parola, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 84-85. Su John Wallis: P. Rossi, Lingue artificiali, classificazioni, nomenclature, in Id., Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli, Morano, 1971, pp. 306-308. 218 C.-M. de l’Épée, Institution des sourds et des muets par la voie des signes méthodiques, Paris, Nyon, 1776, vol. 1, p. 120. 219 Ibid., vol. 1, p. 53. 220 Ibid., vol. 1, p. 122.
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Un altro esempio interessante e che riguarda più da vicino l’analisi è l’espressione di un’idea astratta con mezzi sensibili cui quell’idea è riconducibile per via di scomposizione. La frase «Je crois» è espressa in questo modo: all’indice della mano destra sul petto che indica se stessi segue una sequenza di segni: (i) si porta la mano sulla fronte e si compie un lieve movimento in verticale della testa; (ii) si porta la stessa mano prima sul cuore poi sulla bocca; (iii) si pone la stessa mano sugli occhi e si muove in orizzontale la testa – il che significa «je montre que je ne vois pas» – e poi si esprime il tempo verbale. Tutto questo significare, comprensivo di gesti ed espressioni del volto, si compie «en un clin d’œil» 221. L’abate de l’Épée scrive: c’est ainsi que nous faisons en sort de rien donner à l’arbitraire; il faut toujours que ce soit ou l’imitation de la nature, ou la raison qui nous conduise dans tous nos signes222.
Questa teoria del segno è molto vicina a quella di Condillac il quale, affascinato dall’attività di de l’Épée, ne dovette trarre degli spunti fondamentali per rivedere la sua idea di linguaggio d’azione. Probabilmente Condillac ha preferito parlare di «signes artificiels» e non di «signes méthodiques» perché il primo linguaggio d’azione non è stato il prodotto volontario della ragione umana, quindi i primi segni non potevano essere davvero metodici. È interessante notare che l’abate de l’Épée muove dall’idea di un linguaggio naturale universale da cui ricavare un linguaggio dei segni che, proprio a partire da questa ipotesi, è qualcosa che, come spiega il primo corollario dell’ottavo capitolo del primo volume, «peut devenir une Langue universelle». Nella nota di elogio del metodo dell’abate, Condillac non si spinge fino a questo punto, ma comunque scrive che l’arte dei «signes méthodiques» fornisce «des idées plus exactes et plus precises que celles qu’on acquiert communément avec le secours de l’ouie» perché si basa direttamente sull’analisi delle idee; viceversa, «dans notre enfance, nous sommes réduits à juger de la signification des mots par les circonstances où nous les entendons prononcer» (Grammaire, 1775, p. 11): mentre chi impara a parlare apprende le parole in circostanze diverse dipendenti dal caso («au hasard») prima di conoscere le idee che quelle parole significano, i bambini sordomuti hanno il vantaggio di apprendere un linguaggio più analitico perché direttamente connesso alla scomposizione delle idee. Quest’annotazione suggerisce l’idea di un percorso prescrittivo, di come gli uomini avrebbero dovuto fare la lingua, e sarà molto importante per gli sviluppi della riflessione sulla «langue comme méthode analytique».
221 222
Ibid., vol. 1, pp. 79-81. Ibid., vol. 1, pp. 76-77.
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7.3.4. La formazione meccanica delle lingue secondo de Brosses Alla fine della descrizione della formazione dei primi suoni articolati, Condillac allega una nota con la quale invita a leggere il Traité de la formation méchanique des langues «pour se convaincre combien les mots sont peu arbitraire» (Ibid., p. 21). Charles de Brosses (“président” perché presidente del Parlamento di Digione), uomo di vasti interessi e studioso delle prime lingue umane molto apprezzato dagli enciclopedisti, pubblicò i due volumi del Traité nel 1765 rielaborando materiale in parte oggetto di alcune memorie accademiche presentate a partire dagli anni Cinquanta. Come ha sottolineato Auroux, de Brosses studiava l’origine delle lingue in modo storico-filologico, rifletteva sui dati studiati e raccolti, non basandosi solo su congetture come facevano Condillac e Rousseau 223. Lo studio di de Brosses procede spesso a ritroso, risalendo all’origine delle lingue dai materiali raccolti sulle lingue antiche, sulle lingue dei selvaggi, sull’apprendimento infantile e sulle indagini etimologiche delle parole (il titolo completo dell’opera è Traité de la formation méchanique des langues et des principes physiques de l’étymologie)224. L’introduzione al Traité precisa subito che nell’origine del linguaggio non vi è nulla di arbitrario: Que le systême de la première fabrique du langage humain et de l’imposition des noms aux choses, n’est donc pas arbitraire et conventionel, comme on a coutume de se le figurer; mais un vrai systême de nécessité déterminé par deux causes225.
Due sono le cause all’origine del linguaggio. La prima causa è la «construction des organes vocaux» che fa sì che i suoni siano «analogues à leur structure»: i primi suoni imitavano i rumori degli oggetti reali («bruit imitatif des objets réels») e formavano una sorta di «peinture plus ou moins complette des choses nommées»226. Il primo linguaggio, la «langue primitive», composto di onomatopee e interiezioni, era universale: gli uomini cominciarono a fabbricare parole
ripetendo,
assemblando,
combinando
i
suoni
iniziali
unicamente
guidati
dall’analogia227. Se ne ha un’immagine nel linguaggio infantile: la varietà nell’inflessione della voce e negli accenti di cui col tempo divengono capaci i bambini dimostra la differenza 223
S. Auroux, La question cit., p. 31. Su de Brosses: C. Porset, Note sur le mécanisme et le matérialisme du président de Brosses, «Langue française», vol. 48, 1980, pp. 57-61; I. Dardano Basso, Meccanicismo e linguaggio in Francia nell’età dei Lumi, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 181-191 (e bibliografia). 225 C. de Brosses, Traité de la formation méchanique des langues et des principes physiques de l’étymologie, Paris, Terrelonge, 1802, pp. XII-XIII. 226 Ibidem. 227 Ibid., p. XI. 224
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netta tra la natura umana, predisposta al linguaggio, e la natura animale 228. Il bambino, inoltre, all’inizio usa solo suoni vocali, poi diventa capace di usare anche suoni gutturali e labiali. Come gli uomini primitivi furono in grado di articolare i primi suoni in modo del tutto naturale, così nei bambini il processo puramente meccanico fa pronunciare prima delle sillabe isolate (ab, pap, am, ma) poi, raddoppiando i suoni, le prime parole (papa, maman)229. Nella seconda causa, la «propriété des choses réelles qu’on veut nommer», si chiarisce il cratilismo di de Brosses: i primi suoni erano fisicamente determinati dalla qualità percepita delle cose, sicché per una cosa percepita come dura si usava un’inflessione dura, per una cosa dolce un’inflessione dolce230. È giusto dire, come ha fatto Luca Nobile, che Condillac ha cambiato idea sulla natura del segno dopo aver letto il Traité di de Brosses? Il confronto condotto nel paragrafo precedente tra Condillac e de l’Épée, del tutto ignorato da Nobile, invaliderebbe di per sé questa tesi. Occorre anche fare attenzione a dove nella Grammaire si trova la nota sul Traité di de Brosses: nel secondo capitolo, sulla formazione delle lingue articolate, dopo che Condillac ha già discusso dell’origine naturale del linguaggio d’azione. Nobile ha ragione quando sostiene che l’«analogie», concetto fondamentale in de Brosses, si oppone all’«arbitraire» – opposizione, tra l’altro, già notata da Auroux231; ha anche ragione quando segnala che alcune espressioni della seconda Grammaire – «formation des langues», «langue primitive», le prime parole come «images sensibles» delle cose – vengono dal Traité di de Brosses: dubito, però, che questa sia la fonte esclusiva del concetto di analogia. In primo luogo l’analogia è un ben noto concetto grammaticale che Condillac ha già utilizzato nelle opere precedenti in un senso filosoficamente simile all’uso che ne fa nella seconda Grammaire232. Ecco due esempi: nell’Essai, nel capitolo sul genio delle lingue, l’analogia è il modo in cui la lingua inventa segni propri per formare le «liaisons des idées», in opposizione ai segni impropri che provengono da lingue straniere e non formano legami di idee adeguati (Essai, II.I.XV.147,151); la prima Grammaire, nel capitolo «De l’article», indaga la regolarità sottostante la bizzarria apparente dell’uso o della soppressione dell’articolo davanti ai nomi, fenomeno che dipende dalla determinatezza o indeterminatezza dell’idea e che ha «plus
228
Ibid., vol. 1, p. 208. Ibid., vol. 1, p. 211. 230 Ibid., p. XIII. 231 L. Nobile, La “Grammaire” cit., p. 7; S. Auroux, Empirisme cit., p. 186. 232 Sulla storia dell’analogia cfr. G. Haßler, “Analogy”: the History of a Concept and a Term from the 17th to the 19th century, in D. Kibbee (a cura di), History of Linguistics, Amsterdam, John Benjamins, 2007, pp. 156168. 229
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d’analogie» e non è dovuto a qualche «caprice» (Grammaire, 1782, p. 140; cfr. il brano con modifiche non di sostanza in Grammaire, 1775, p. 224). In secondo luogo l’opposizione Analogia vs. Arbitrarietà non è prerogativa della seconda Grammaire. Se ne trova traccia in due tra le opere meno studiate di Condillac. Nella prima redazione dell’Art d’écrire l’analogia, connessa alla vivacità dell’immaginazione, è il criterio di riferimento per scrivere in modo chiaro e scegliere le parole da usare con senso figurato: «si l’on ne saisit pas cette analogie, la plupart des beautés du langage échappent. On ne voit plus dans les termes figurés, que des mots choisis arbitrairement pour exprimer certaines idées» (Cours, 1782, vol. 2, p. 191; lo stesso brano nella seconda redazione dell’Art d’écrire: Cours, 1775, vol. 2, pp. 229-230). Nel Dictionnaire des synonymes l’analogia è il meccanismo col quale Condillac ricava dal senso proprio di una prima parola il senso figurato di una parola derivata: per esempio, da «former», dare forma a una cosa, verbo poco usato in senso proprio, deriva «informer», che, nel senso figurato più comune, significa far conoscere una cosa in quanto tale233. Nel Dictionnaire, inoltre, si hanno casi di quel che Jean-Cristophe Abramovici ha chiamato esempi di «naïveté cratylienne»: per esempio, «abattre» rinvia a «mettre à bas» applicando l’idea di caduta a tutto il verbo, indicando, come scrive Condillac, «une première signification à laquelle toutes les autres sont plus sensiblement analogues» 234. Dato che il Dictionnaire è una semplice opera di compilazione, probabilmente una delle prime scritte a Parma, quest’ultimo esempio esclude una conversione di Condillac al cratilismo dopo la lettura del Traité di de Brosses.
7.3.5. La teoria delle lingue come metodi analitici Accanto all’«analogie», l’«analyse» ricopre il ruolo di principio fondamentale del linguaggio. Già il Traité des animaux notava che, a differenza degli animali, l’uomo dispone di una lingua che è «une méthode plus ou moins parfaite» nel determinare e legare le idee (Traité des animaux, p. 113). L’idea che la lingua sia un metodo d’analisi deriva dalla funzione cognitiva del segno arbitrario, come ricorda il sottotitolo della prima Grammaire: «dans laquelle on considère le langage comme un instrument qui n’est pas moins nécessaire pour penser que pour communiquer nos pensées». Il concetto delle lingue come metodi d’analisi, anche se non estraneo a precedenti riflessioni, è una formula nuova che appare per la prima volta nella Sull’Art d’écrire cfr. gli studi di Sonia Branca-Rosoff citati in bibliografia; sul Dictionnaire des synonymes: F. J. Hausmann, Le dictionnaire de Condillac, «Le français moderne», vol. 46, n. 3, 1978, pp. 226-249; J.-C. Abramovici, Le “Dictionnaire des synonymes” ou du bon usage de l’analogie, in A. Bertrand (a cura di), Condillac, philosophe cit., pp. 147-156. 234 J.-C. Abramovici, Le “Dictionnaire” cit., p. 149. 233
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Grammaire. Nella seconda redazione dell’Art de penser, là dove Condillac riscrive le pagine dell’Essai sul rapporto tra segno e sviluppo delle operazioni dell’anima, c’è una nota: Les langues sont autant des méthodes analytiques; cette observation, qui m’avoit échappé et que j’ai faite dans ma Grammaire, suffit seul pour démontrer la nécessité des signes» (Cours, 1775, vol. 4, p. 70).
Quanto scritto nell’Essai, si legge, è stato risolto anticipando lo sviluppo della riflessione a prima della dotazione del segno propriamente detto. Condillac aggiunge di aver commesso anche un errore di prospettiva osservando gli inizi delle facoltà dell’anima «dans le point de perfection où elles sont aujourd’hui». La nota è anche interessante per avanzare un’ipotesi di redazione delle opere dei Cours: poiché il concetto della lingua come metodo analitico è presente anche nella prima Grammaire (v. avanti), o la Grammaire è stata l’ultima tra le opere filosofiche a essere composta o revisionata, o la prima Art de penser è stata una delle prime a essere scritte. Sebbene Condillac stesso ne abbia segnalato l’importanza, l’idea delle lingue come metodi analitici ha attratto poco gli studiosi, a eccezione di Jacques Ruytinx e Raffaele Simone, autore di due brevi contributi235. Si è visto nello schema del passaggio dal linguaggio d’azione naturale al linguaggio d’azione artificiale che l’analisi scompone una simultaneità di idee ed elabora una successione di idee da significare (par. 7.3.2.). L’analisi agisce qui come facoltà naturale; il linguaggio come metodo analitico interviene in un secondo tempo, quando diventa sempre più forte la correlazione tra idee e segni ed è il linguaggio a fornire la base per articolare, scomporre e ricomporre le idee. La grammatica, in quanto disciplina che studia la lingua, studia lo strumento con cui gli uomini pensano ed esprimono il pensiero; divisa in “generale”, cioè studio delle regole e degli elementi universali, e “particolare”, studio delle regole e degli elementi del discorso propri di una lingua, la grammatica si occupa del modo in cui il linguaggio in generale o una lingua in particolare funge da metodo analitico (Grammaire, 1782, p. 21; Grammaire, 1775, pp. 30-31). La lingua, in sintesi, elabora due ordini di idee: sul piano paradigmatico, che è quello dell’articolazione del pensiero, la lingua distribuisce «avec ordre» le idee in «différents classes», ossia costruisce le categorie grammaticali; sul piano sintagmatico, che è quello dell’espressione del pensiero, la lingua presenta «successivement» le idee e le combina «d’une infinité des manieres», ossia elabora le strutture sintattiche (Grammaire, 1775, p. 31). 235
J. Ruytinx, Langage et analyse chez Condillac, in Aavv, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia. Venezia 12-18 settembre 1958, Firenze, Sansoni, 1961, vol. XII, pp. 409-416; R. Simone, Le lingue come “méthodes analytiques” in Condillac, in Id., Il sogno cit., pp. 149-158.
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La lingua, sviluppando l’ordine sequenziale, costringe le idee, che «sont simultanées dans l’esprit», a disporsi in successione nel discorso (Ibid., p. 38). Nella percezione il rapporto tra due idee come «arbre» e «grand» è confuso con la percezione stessa in un’unica operazione perché le idee si sovrappongono; la proposizione «cet arbre est grand» presenta invece le due idee in successione e le esprime distintamente, cioè in sequenza (Ibid., p. 40). Scomponendo il pensiero in idee distinte, la lingua sviluppa ulteriormente i rapporti a partire da una singola idea con comparazioni e ragionamenti sempre più complessi: in questo modo si rivela essere un fondamentale e potentissimo strumento di conoscenza. Come spiega il sesto capitolo delle due Grammaire, dedicato alle «langues considerées comme autant des méthodes analytiques»: «une langue analyse d’autant mieux la pensée qu’elle a fait plus de progrès», ossia è più precisa nella costruzione delle categorie grammaticali e più ordinata nella disposizione in successione delle idee (Ibid., p. 59; Grammaire, 1782, p. 47). Ma è anche tanto più analitica quanto più si conforma «à la génération des idées», ovvero quanto più segue il corso della natura che ha guidato gli uomini nelle prime analisi delle idee (Grammaire, 1775, p. 61: «la nature vous a guidé dans l’analyse»; Grammaire, 1782, p. 49: «les besoins vous ont guidé dans les analyses»). Due immagini già viste rieccheggiano in questa spiegazione: quella, già nell’Essai, della lingua francese come lingua analitica e più adatta ad articolare le idee; il paragone con il linguaggio dei «signes méthodiques» dell’abate de l’Épée che fornisce «des idées plus exactes et plus precises que celles qu’on acquiert communément avec le secours de l’ouie».
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8. Dopo il linguaggio: gli abusi e la scienza nella Logique e nella Langue des calculs
Come il Traité des sensations anticipa rispetto all’Essai la capacità di formare e articolare idee a prima dell’acquisizione del linguaggio, così, sempre rispetto all’Essai, nel Cours d’étude, in particolare nella seconda redazione, l’analisi non è più una facoltà intenzionale che si sviluppa dopo la formazione della riflessione e del segno (Essai, I.II.VI.59), ma una facoltà naturale che prima del linguaggio opera insieme all’analogia e agisce in modo involontario. Ora la funzione cognitiva governa pienamente la formazione del linguaggio e delle conoscenze e precede la funzione comunicativa. Nel capitolo «Digression sur l’origine des principes, et de l’opération qui consiste à analyser» dell’Essai si legge: Les premières découvertes dans les sciences ont été si simples et si faciles, que les hommes les firent sans le secours d’aucune méthode. Ils ne purent même imaginer des règles, qu’après avoir déjà fait des progrès […] (Essai, I.II.VIII.62).
Il passo si legge anche nella prima versione dell’Art de penser (Cours, 1782, vol. 4, p. 102), mentre è così modificato nella seconda versione: Les premières découvertes dans les sciences ont été si simples et si faciles, que les hommes les ont faites sans remarquer la méthode qu’ils avoient suivie. Cette méthode étoit bonne, puisqu’elle leur avoir fait faire des découvertes, mais ils la suivoient à leur insu; comme aujourd’hui beaucoup de personnes parlent bien, sans avoir aucune connaissance des règles du langage (Œuvres, 1798, vol 6, pp. 120-121).
Per mezzo dell’analisi la natura ha guidato gli uomini nel formare le lingue (Grammaire, 1775, p. 60) e, grazie al tirocinio del tatto descritto nel Traité des sensations, ad «apprendre à bien conduire les sens» nel conoscere il mondo (Logique, p. 7). Gli uomini devono appropriarsi del metodo analitico per poter possedere le lingue e il metodo che la natura ha loro insegnato. In questo consiste l’esperienza: l’analisi, allo stadio più semplice, «n’est autre chose qu’observer successivement, et avec ordre» (Grammaire, 1775, p. 15). La Logique precisa questa definizione con un approccio che ricorda quello del Dictionnaire des synonymes e distingue due modi apparentemente sinonimi di significare la percezione: «voir», che vuol dire vedere «une multitude de choses à-la-fois», e «regarder», che vuol dire «diriger 96
nos yeux sur une seule» cosa – dirigere l’attenzione, compiere un’operazione elementare di analisi (Logique, p. 15). È necessario che gli uomini apprendano l’arte di ragionare perché con lo sviluppo del linguaggio e delle conoscenze non sono più guidati dai bisogni naturali, ma da nuovi bisogni che rischiano di farli deviare dal corso della natura: il semble que le plaisir accompagne les jugemens vrais, et nous nous trompons avec confiance; c’est que dans cette occasion la curiosité est notre unique besoin, et que la curiosité ignorante se contente de tout (Ibid., p. 10).
Nel terzo capitolo del terzo libro dell’Histoire ancienne si legge un brano che può fungere da testimonianza del modo in cui Condillac, contro le critiche che gli ha rivolto Rousseau, concepisce il progresso, racconta come gli uomini che hanno inventato l’agricoltura, spinti da bisogni artificiali, hanno dovuto ri-fare la conoscenza del corso delle stagioni: La perfection de l’agriculture dépend de la connaissance des saisons. Le laboureur est donc dans la nécessité de devenir astronome. Plus il a besoin de connaître le cours des astres, plus il se hâte de la supposer tel que l’imagine, et il commence par faire un faux système. Mais, comme après quelques années, ses hypothèses ne s’accordent pas avec l’ordre des saisons, sa prévention, quelque grande qu’elle soit, ne peut tenir contre un erreur palpable. Il recommence donc ces observations: il fait des nouvelles hypothèses; l’expérience corrige ses méprises, et l’astronomie fait des progrès (Cours, 1782, vol. 5, p. 406).
È così che gli uomini hanno potuto fare l’agricoltura, l’astronomia, la geometria e le altre arti; non tutte le arti: i filosofi, per esempio, «ont mal commencé, et l’analogie les a conduits d’erreurs en erreurs» (Ibid., p. 412). Che cosa accade quando gli uomini si lasciano «échapper le fil de l’analogie»?
8.1. La lotta contro gli abusi del linguaggio L’ultimo brano citato contiene un dato interessante: l’analogia senza analisi genera errori – «alors un erreur est le germe d’une infinité d’autres, et on va par analogie […] d’absurdité en absurdité» (Ibid., p. 410). Poche pagine prima Condillac ha spiegato che un tempo gli uomini, poiché i bisogni artificiali non si erano più di tanto sviluppati, vivendo in uno stesso ambiente condividevano il modo di vedere e di giudicare. «Ils ont la même maniere de voir, toutes les fois qu’également dépourvus d’expérience, ils sont égalment ignorans»: condividendo bisogni e ignoranza, avevano in comune idee mal fatte e cattive opinioni; «les fables qu’on croira, prépareront à croire celles qu’on ne croit pas encore»: quando l’analogia è «un fil qui nous
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échape» si propogano gli errori che generano nuove idee da idee altrettanto false (Ibid., pp. 392-393). Gli studiosi della teoria linguistica di Condillac hanno trascurato i libri dell’Histoire ancienne e dell’Histoire moderne, libri che invece andrebbero esaminati con attenzione perché qui si trova la storia delle conoscenze umane e degli effetti del linguaggio, due aspetti che non possono essere trascurati in un discorso, come quello condillacchiano, che non è solo speculativo e che è un intreccio costante di teoria e di congetture storiche236. La storia raccontata nei libri del Cours è costellata di errori riconducibili ad abusi di linguaggio, al filo interrotto di un’analogia non più supportata dall’analisi. Se infatti lo sviluppo delle idee non avviene per mezzo del metodo analitico a un primo giudizio falso ne seguono altri, «l’analogie conduit d’erreurs en erreurs, parce qu’on étoit conséquent» (Logique, p. 98). Per compiere bene l’analisi è necessario usare correttamente la lingua come metodo analitico: un sistema di conoscenze non è che un sistema di termini chiari e precisi, una sorta di lingua ben fatta. La storia, in effetti, è per Condillac maestra di vita, nel senso in cui già l’introduzione dell’Essai sostiene l’utilità della storia del linguaggio per conoscere il vero senso dei segni e per «prévenir les abus» (Essai, vol. 1, p. XIV). La lotta dell’Essai contro gli abusi di linguaggio si concentra su due obiettivi: i filosofi che rendono oscuri i concetti, «le langage des Savans» che Condillac rifiuta in blocco preferendo attingere dal «langage ordinaire» (Ibid., II.II.II.15); l’abitudine di credere chiaro il senso delle parole d’uso comune, in particolare dei nomi delle idee astratte che, a differenza delle idee di sostanza, non hanno un modello di «collections» di idee (Ibid., II.I.XI.115 – poco prima è citato il celebre passo dell’Essay in cui Locke racconta di quando, durante un congresso di medicina, accortosi che i relatori usavano in modo diverso la parola “liquido”, propose di analizzare il significato di questa parola prima di proseguire la discussione 237). La lotta contro gli abusi dei filosofi è condotta in tutto il Traité des systèmes come una battaglia contro i sistemi assiomatici basati su proposizioni generali e su termini astratti non analizzati perché ritenuti espressioni di idee innate. La Logique riprende e intensifica entrambi i fronti. Coglie innanzitutto, sulla scia delle riflessioni della seconda Grammaire, il problema dello sviluppo imperfetto delle lingue come metodi analitici, e sottolinea che le lingue si sviluppano in modo imperfetto quando gli uomini non comprendono l’importanza dell’analisi per lo sviluppo delle idee perché guidati da bisogni distorti, «des besoins de pure curiosité, des besoins d’opinion, enfin des besoins 236 237
L’analisi di M. Malherbe (De l’idée vague cit.) è invece solo teorica. J. Locke, Essay cit., III.IX.16.
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inutiles, et tous plus frivoles» (Logique, p. 98). Il desiderio di parlare prevale su quello di analizzare e gli uomini formulano giudizi sulla base di abitudini e assumono opinioni senza «s’assurer si les choses dont on jugeoit étoient telles qu’on avoit supposé» (Ibidem.). Altra causa della cattiva formazione di una lingua è il commercio e lo scambio tra i popoli. Anche nell’Essai si legge che le lingue, in quanto espressione dei caratteri dei popoli, si deformano per ogni scarto dall’«analogie», a causa dell’introduzione di forestierismi e solecismi (Essai, II.I.XV.148-159); per queste stesse cause, afferma la Logique, le lingue diventano metodi difettosi e «l’analogie ne pouvoit plus guider l’esprit dans l’acceptions des mots» (Logique, p. 99). Ma il problema dello sviluppo imperfetto del linguaggio si può già cogliere sul piano ontogenetico. Nella nota di elogio del metodo dell’abate de l’Épée, Condillac si rammarica del fatto che, a differenza della precisione dei «signes méthodiques», «nous sommes réduits à juger de la signification des mots par les circonstances où nous les entendons prononcer», afferriamo pressappoco questi significati e «nous nous contentons de cet à peu près toute notre vie» (Grammaire, 1775, p. 11). Quando siamo bambini, prosegue la Logique, nous pensons d’après les autres, nous en adoptons tous les préjugés; et, lorsque nous parvenons à un âge où nous croyons penser d’après nous-mêmes, nous continuons de penser encore d’après les autres, parce que nous pensons d’après les préjugés qu’ils nous ont donnés (Logique, p. 86).
Tutte le associazioni errate di idee che acquisiamo da bambini sono effetto dell’abuso di parole, ossia del fatto che utilizziamo le parole prima di comprenderne il senso – «viennent également de l’habitude de nous servir des mots avant d’en avoir déterminé la signification» (Ibidem.). Come nell’Essai l’abitudine è il principale bersaglio nella lotta contro gli abusi nel «langage ordinaire». Quando dimenticano la lezione della natura, gli uomini si creano una successione di conoscenze errate «d’après les mauvaises habitudes» (Ibid., p. 82). Rispetto all’Essai la Logique descrive l’abitudine come un nemico difficile da sconfiggere. Il ragionamento basato sull’abitudine non è che «l’art d’abuser des mots», un arte «arbitraire, frivole, ridicule, absurde»
che
presenta
«tous
les
vices
des
imaginations
déréglées»
(Ibidem.),
dell’immaginazione non regolata dall’analisi ed equivalente a «une source d’opinions, de préjugés, d’erreurs» (Ibid., p. 110). Le abitudini cattive corrompono la natura, diventano una seconda natura che dà origine a pregiudizi, idee errate, supposizioni false e, «quand les habitudes sont devenues ce que nous appellons une seconde nature – spiega Condillac – il
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nous est presque impossible de remarquer qu’elles sont mauvaies» (Ibid., p. 83). Ne sono testimoni le storie dei popoli, disseminate di pregiudizi duraturi, idee false e contraddittorie, assurdità e superstizioni, che moltiplicandosi hanno generato cattive leggi e malgoverno (Ibid., p. 84). L’abuso di potere è dunque un effetto dell’abuso di linguaggio. Se ne trovano abbondanti indizi nella storia del pensiero: il desiderio di nascondere le conoscenze è all’origine della diffusione di sofisticherie e ragionamenti campati per aria; i filosofi che hanno cercato le regole dell’arte di ragionare «dans le mécanisme du discours», con i sillogismi non hanno fatto altro che propagare i vizi dell’abuso di parole (Ibid., p. 100). L’abuso di ragione è dunque un effetto dell’abuso di linguaggio. Il secondo fronte della battaglia è questo: i filosofi, spiega la Logique, hanno del tutto travisato la funzione cognitiva e analitica del linguaggio: On ne l’a pas vu, parce que n’ayant pas remarqué combien les mots nous sont nécessaires pour nous faire des idées de toutes especes, on a cru qu’ils n’avoient d’autre avantage que d’être un moyen de nous communiquer nos pensées. D’ailleurs, comme, à bien des égards, les langues ont paru arbitraires aux grammariens et aux philosophes, il est arrivé qu’on a supposé qu’elles n’ont pour regles que le caprice de l’usage (Ibid., p. 100).
L’abuso del linguaggio è la conseguenza del prevalere della funzione comunicativa sulla funzione cognitiva. I filosofi non hanno capito il carattere analitico delle lingue, hanno fabbricato idee senza farne prima l’analisi, hanno creduto che le lingue sono dei sistemi arbitrari. Ma i segni arbitrari, quei segni che Condillac poneva alla base della gnoseologia dell’Essai, non sono compatibili con l’idea che le lingue sono dei metodi analitici. È chiaro, dunque, che la riflessione sul concetto di analisi gioca un ruolo fondamentale nella riflessione dell’ultimo Condillac a partire dalla redazione della seconda Grammaire. Il pensiero va di nuovo all’arte dei segni metodici dell’abate de l’Épée dove l’aspetto analitico precede e governa l’aspetto comunicativo. E ritorna così l’immagine prescrittiva di come gli uomini avrebbero dovuto fare le lingue: «Je conjecture que les premières langues vulgaires ont été les plus propres au raisonnement: car la nature, qui présidoit à leur formation, avoit au moins bien commencé» (Ibid., p. 102). Una congettura, appunto, che, ritornando alle origini, si chiede se non sia il caso, per abbattere abitudini, pregiudizi, sofismi, di «oublier tout ce que nous avons appris», di «reprendre nos idées à leur origine, d’en suivre la génération, et de refaire, comme dit Bacon, l’entendement humain» (Ibid., p. 86). Ed è in effetti ciò che Condillac non ha mai smesso di fare, ciò che l’Essai chiamava «métaphysique plus retenue», la Logique scinde in «métaphysique» («comme la nature même nous enseigne l’analyse») e
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«art de raisonner» («l’analyse considérée dans ses moyens et dans ses effets») e che l’Histoire moderne distingue in «psychologie», che si occupa di «connoître l’origine et la génération» delle idee, e «métaphysique», scienza generale dell’analisi, ovvero del solo metodo per avere conoscenze certe in qualsiasi ambito (Cours, 1775, vol. 15, p. 555). L’ultimo Condillac sembra così voler distinguere l’aspetto gnoseologico da quello epistemologico, più preoccupato, alla fine, del secondo aspetto: tutto il ragionamento che segue al concetto delle lingue come metodi di analisi sembra riallacciarsi alle riflessioni di Maupertuis sulla logica delle lingue e sul ruolo strutturale di queste nel progresso delle conoscenze (v. par. 4.2.), e non sarebbe che il tentativo di rispondere a una domanda: come possiamo avere conoscenze certe?
8.2. Per una lingua ben fatta Resettare tutto ciò che abbiamo appreso e rifare «l’entendement humain» significa, rifacendo l’analisi, rifare anche la lingua. Con lingua bisogna intendere sia la lingua nazionale sia soprattutto una qualche scienza, ossia un sistema di segni corrispondente a un sistema determinato di idee. Di questo si occupa la seconda parte della Logique, dedicata all’«art de raisonner réduit à une langue bien faite». Contro le lingue «mal faites» a causa dell’abitudine e dei filosofi, non c’è altro metodo per fare bene le lingue che subordinare l’analogia, cioè la regola per inventare i segni, all’analisi, al metodo di scomposizione e ricomposizione delle idee: Si, en voulant les perfectionner, on avoit pu continuer comme on avoit commencé, on n’auroit cherché de nouveaux mots dans l’analogie que lorsqu’une analyse bien faite auroit en effet donné de nouvelles idées (Logique, p. 97).
Una lingua ben fatta ha due aspetti determinanti: l’analisi che risale la formazione delle idee e ne rifà la generazione con ordine; l’analogia che segue l’analisi e attribuisce i segni alle idee riordinate ricavandoli per successione dai segni naturalmente legati alle prime idee. L’analisi necessita del segno per fissare l’ordine delle idee, ossia per determinarne i rapporti, le liaisons des idées. A sua volta il segno, prima che essere la forma che esprime l’idea (il che, di per sé, ne farebbe un espressione arbitraria), è la forma più consona all’analisi. Tre sono i tratti distintivi di una lingua ben fatta238. Il primo è l’esattezza dei segni costruiti per analogia, trasparenti nel dare forma al rapporto delle idee in quanto strumenti necessari
238
Cfr. S. Auroux, Condillac ou la vertu des signes, in E. B. Condillac, La langue des calculs, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1981, p. XIV.
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alla loro classificazione. Questo vale soprattutto per le idee astratte, o «classes des idées», che di per sé non esistono nella realtà e che formiamo scomponendo le idee individuali e analizzandone le caratteristiche: senza nomi non avremmo idee astratte e senza idee astratte non saremmo in grado di classificare le idee, non potremmo ragionare né accrescere le nostre conoscenze (Ibid., p. 107). La qualità dell’analisi dipende da com’è fatta la lingua: se la lingua è fatta male, il metodo analitico non funziona bene e la classificazione delle nuove idee continua a riprodurre i guasti dell’imperfezione delle parole; se la lingua è fatta bene e i segni sono esatti, il metodo analitico classifica correttamente le idee. L’esattezza non va confusa con la completezza. Si tratta di una distinzione importante che consente di chiarire in che senso la «science comme langue bien faite» non equivale a una lingua artificiale e non implica un progetto di lingua filosofica 239. Su questo punto la Langue des calculs si esprime in modo chiaro: [L’]analogie pouvoit seul guider des hommes qui parloient pour être entendus, et ce n’étoit pas pour eux une chose arbitraire de s’en écarter, ou de s’y conformer. […] Les nations s’éclairent, sans doute, en se communiquant leur connaissances; elles s’éclairent mieux encore, si, au lieu d’adopter le même langage dans les sciences et dans les arts, chacune s’en faisoit un d’après l’analogie de sa langue (Langue des calculs, p. 204).
Rispetto ai progetti di lingua universale, pensati per tutte le nazioni e tutti i saperi, Condillac ritiene che il progresso delle nazioni risieda nel commercio di idee tra i popoli; rispetto alla lingua filosofica, che presuppone un inventario completo delle unità minime costitutive del pensiero, la lingue ben fatta non è una lingua completa. Analogia e commercio tra le nazioni sono meccanismi positivi, gli stessi che, se attivi per lingue mal fatte, propagano gli errori. Il secondo tratto distintivo delle lingue ben fatte è la semplicità nel rapporto tra segni e idee. Una buona analogia subordinata all’analisi inventa segni che consentono di distinguere e precisare le idee; la semplicità del segno è tale che l’analisi può in ogni momento operare sul legame di idee, scomponendolo e ricomponendolo, rintracciando per ciascuna idea l’ordine generativo. La complessità non è indice di progresso: il progresso, spiega Condillac, dipende dalla capacità che una nazione o una scienza raggiunge nel distinguere le idee (capacità analitiche) e nell’inventare segni esatti e semplici che rispecchiano il legame delle idee (capacità analogiche). Il linguaggio d’azione artificiale era un linguaggio semplice ed esatto per quelli che erano i bisogni elementari dei primi uomini e tenendo comunque conto del fatto che l’analisi avveniva in modo involontario perché era la natura a condurla (Logique, p. 97).
239
Ibid., pp. XII-XIII.
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Più evidente il caso della sintassi della lingua francese, già esposto nell’Essai (v. 3.2.3.), che possiede una struttura sintattica in cui, a differenza della lingua latina, l’ordine obbligatorio SVO rispecchia il rapporto tra l’idea principale (soggetto), l’idea di relazione (verbo) e l’idea secondaria (complemento oggetto). Per la scienza il caso esemplare è la matematica: «la langues des mathématiques, l’algèbre, est la plus simple de toutes les langues» e «l’algèbre est la plus méthodique des langues» (Ibid., p. 125, 135). Anche in questo caso Condillac non intende dire che l’algebra deve essere la lingua di tutte le scienze o il modello cui devono mirare gli altri linguaggi scientifici: s’il y a donc des sciences plus exactes, ce n’est pas parce qu’on n’y parle pas algèbre, c’est parce que les langues en sont mal faites, qu’on ne s’en apperçoit pas, ou que, si l’on s’en doute, on les refait plus mal encore. […] Toutes les sciences seroient exactes, si nous savions parler la langue de chacune (Ibid., pp. 133-134).
Le scienze si distinguono per i dati che ciascuna tratta e per i livelli di esattezza e di semplicità raggiunti da ciascun linguaggio. Ma il metodo analitico è lo stesso per tutte: C’est l’analyse qui démontre dans toutes; et elle y démontre rigoureusement toutes les fois qu’elle parle la langue qu’elle doit parler. Je sais bien qu’on distingue différentes especes d’analyse; analyse logique, analyse métaphysique, analyse mathématique: mais il n’y en a qu’une; et elle est la même dans toutes les sciences, parce que dans toutes elle conduit du connu à l’inconnu par la raisonnement, c’est-à-dire par la suite de jugemens qui sont renfermés les uns dans les autres (Ibid., pp. 125-126).
Il terzo tratto distintivo delle lingue ben fatte è l’identità, da intendersi non come mera equivalenza, ma come un concatenamento nel quale da dati noti si ottengono dati non noti contenuti in quelli noti. Prendiamo l’algebra e consideriamo due esempi: (i) 6 = 6 è un’identità del tipo A è A: Condillac considera questa un’identità frivola perché riguarda solo i segni, si ferma all’espressione del giudizio, non contiene dati nuovi non consentendo alcuna analisi; (ii) 2 + 4 = 6 è un’identità del tipo A è a + b: si tratta di un’identità compositiva, valida sul piano delle idee, ed esprime il rapporto analitico nei due sensi propri del metodo analitico: ricavando, per composizione, il dato non noto (la somma) dai dati noti (gli addendi) e risalendo, per scomposizione, dal dato nuovo ai dati di partenza. Mentre 6 = 6 e A è A sono proposizioni frivole, 2 + 4 = 6 e A è a + b sono proposizioni analitiche e scientifiche. I segni algebrici presentano il vantaggio di mostrare più facilmente il rapporto d’identità, lo stesso tipo di rapporto per tutti i linguaggi scientifici.
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L’identità è alla base sia della formazione del linguaggio sia dell’acquisizione di nuove conoscenze. Correlata all’analisi, formula un’idea di scienza analitica opposta alla sintesi che fa uso di teoremi, assiomi, proposizioni generali. Ogni lingua scientifica si sviluppa con una sorta di calcolo, come afferma l’Essai in un passo riscritto nella prima versione dell’Art de penser: Ce n’est point avec le secours des propositions générales qu’elle cherche la vérité, mais toujours par une espèce de calcul, c’est-à-dire, en composant, en décomposant les notions, pour les comparer de la manière plus favorable aux découvertes qu’on en vue (Essai, I.II.VII.66). Ce n’est point à l’aide des maximes générales et de définitions de mot, qu’elle cherche la vérité, c’est avec le secours du calcul: elle ajoute, elle soustrait, et elle tend, s’il est possibile, à épuiser les combinaisons (Cours, 1782, vol. 4, p. 110; la seconda versione aggiunge «des syllogismes» dopo «définitions de mot»: Œuvres, 1798, vol. 6, p. 128).
Il criterio vale anche per il linguaggio ordinario e assomiglia a una semantica composizionale che fa del significato di un’espressione linguistica il risultato ottenuto sommando componenti ricavati da osservazioni o da analisi, soprattutto per le idee delle sostanze di cui possiamo osservare e analizzare le proprietà: l’oro, per esempio, è un corpo malleabile, giallo ecc. (Logique, p. 142). Per le idee astratte, invece, bisogna partire dal linguaggio e concentrarsi innanzitutto sulle parole; il che, per l’ordine delle parole, conferma l’importanza della grammatica come analisi metalinguistica (la lingua che analizza se stessa) e dell’arte di parlare e di scrivere per acquisire uno stile corretto e preciso: solo coordinando questi ambiti è possibile conoscere e chiarire l’uso delle parole (come ha proposto Locke durante il convegno di medicina) e contrastare le cattive abitudini.
8.3. Storia naturale della lingua dei calcoli La lingua scientifica meglio costruita è l’algebra perché qui il carattere particolare del numero sprigiona il massimo della potenza dell’analisi e dell’analogia. Questo aspetto emerge già nell’Essai: l’idea di numero si forma per concatenamento di unità ed è, nella classificazione delle idee, un’idea complessa data dalla stessa percezione ripetuta più volte (Essai, I.III.4). L’unità è l’idea semplice che compone l’idea di numero, sebbene di per sé, non riferita ad alcun oggetto, è un’idea astratta. La cifra è il segno di quest’idea che si sviluppa lungo un’unica catena continua e infinita. Il segno numerico svolge perfettamente tutti i compiti fondamentali: soccorre la memoria sintetizzando catene di idee in un unico segno (es.: 3 per
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1+1+1); agevola il calcolo, ossia il pensiero per mezzo di unità (es.: 4 per 1+1+1+1); facilita la comunicazione del calcolo visualizzando subito il posto che una cifra occupa nella catena (es.: 3 + 4 = 7). Le cifre sono dunque costruite in modo perfettamente analogico e sono pienamente analitiche perché consentono agevolmente di scomporre e ricomporre i dati. Si è visto che l’idea di numero gioca un ruolo decisivo nell’attivazione del tatto e nello sviluppo delle idee della statua animata (par. 5.2.2.). Ciò che è interessante sottolineare è che, da sola e nei limiti dei suoi bisogni elementari, la statua animata può costruirsi un linguaggio esatto. Non si tratta di un dato strano visto che è la natura, di per sé infallibile, a guidare la statua e ad articolare un proto-linguaggio che rispetta la regola fondamentale per evitare gli abusi: la funzione cognitiva deve precedere la funzione comunicativa. Ancora più interessante è notare che il linguaggio dei numeri appare come quello meglio costruito perché se si risale la sua genesi si può ricostruire la sua storia naturale. La storia naturale della lingua dei calcoli è l’oggetto dell’ultima opera, incompiuta, di Condillac. In questa lingua, di cui «la méthode d’invention n’est que l’analogie même», l’uso non vi ha alcuna autorità e «rien n’y paroît arbitraire» (Langue des calculs, pp. 6-7), sebbene nella storia ci siano stati casi di invenzione di segni non analogici, come i caratteri romani che «n’ont pas assez d’analogie avec la manière dont se fait la numération» (Ibid., p. 207). Lo sviluppo analogico di questo linguaggio corrisponde allo sviluppo delle capacità di calcolo e dunque ne manifesta pienamente la funzione cognitiva. Il linguaggio d’azione è il calcolo con le dita, utile per compiere operazioni elementari di numerazione e denumerazione di singole unità. Da queste derivano rispettivamente l’addizione e la sottrazione, due operazioni più complesse che operano con più unità insieme e che necessitano di mezzi di calcolo più potenti, necessità condivisa dallo sviluppo delle due ulteriori operazioni, rispettivamente la moltiplicazione e la divisione. Con le operazioni si formano i nomi delle idee di numero che fissano le collezioni delle idee di unità. I nomi dei numeri complessi sono perfettamente analogici: si ha «douze» e «treize», per esempio, e non «deux dix» o «trois dix», nomi che complicherebbero i calcoli (Ibid., pp. 37-38). All’inizio, però, come i suoni articolati accompagnano il linguaggio gestuale, così i nomi accompagnano l’uso delle dita. La sostituzione completa delle dita avviene con l’evolversi del processo di astrazione delle idee numeriche: dalle dita si passa all’uso di tavole divise in rettangoli verticali che rappresentano le unità complesse (es.: la prima linea sta per le unità, la seconda per le decine, la terza per le centinaia) e di sassolini che rappresentano il valore unitario considerato (es.: due sassolini nel primo rettangolo vuol dire due, nel secondo rettangolo venti, nel terzo duecento) (Ibid., pp. 179-180). La complessità crescente dei calcoli avviene per mezzo di idee numeriche senza più 105
un referente reale e porta infine all’invenzione dei segni algebrici (Ibid., p. 198). Si tratta di veri e propri «signes méthodiques»: per esempio, si può esprimere il numero dieci con le dita non più aprendo entrambe le mani, ma semplicemente sollevando un dito di una mano e tenendo chiuso l’indice nell’altra (Ibid., pp. 205-206). La lingua dei calcoli possiede tre caratteri specifici: l’idea complessa di numero è la sola idea composta dalla ripetizione di un’idea semplice su un unico concatenamento continuo; l’idea di numero è la sola idea applicabile a qualsiasi altro ordine d’idee; infine, se si considerano i tre tratti distintivi della lingua ben fatta, si può notare che il segno algebrico è esatto e semplice perché del tutto trasparente all’analisi e alle possibili combinazioni d’identità: un numero, infatti, non è il risultato di un’unica operazione possibile, ma può esserlo di più procedure ugualmente valide: per esempio, 5 = 1 + 4 o 5 = 2 + 3 o 5 = 6 – 1 o 2 + 3 = 6 – 1. L’analisi può compiersi su più livelli e sono possibili diversi modi di scomporre e ricomporre un numero. Il filosofo Pierre Laromiguière, all’inizio del XIX secolo il primo filosofo a studiare con attenzione la Langue des calculs, notò l’importanza della trasparenza del segno analogico: la matematica è per Condillac la scienza più rigorosa perché si tratta della sola lingua in cui è possibile condurre le operazioni d’analisi direttamente sui segni perché questi sono lo specchio fedele dell’ordine delle idee: l’idée qu’on voit à découvert dans la proposition fondamentale, se montre déjà un peu voilée dès la second proposition. À la troisième, à la quartième, le voile va toujours s’épaississant, et bientôt les opérations, les raisonnemens, ne se font plus qu’avec des signes, et même ne portent que sur les signes; en sorte que les expressions cessent d’être expressions d’idées, pour n’être plus qu’expressions d’expressions, signes des signes240.
La lingua dei calcoli è la sola in cui il segno preciso, chiaro e certo mostra l’evidenza del rapporto di idee contenuto e consente di «raisonner mécaniquement» 241. Le altre scienze, invece, non posseggono la stessa trasparenza del segno: altrove persiste «le double fardeau de l’idée et du signe» che dimostra che le altre scienze «ne sont pas proprement des langues de raisonnement»242. Per Laromiguière la lingua dei calcoli possiede aspetti unici che non ne farebbero un modello per le altre scienze. La storia naturale dell’algebra è anche la storia logica di una lingua che dall’origine naturale si sviluppa per correlazioni di analisi e di analogia senza rottura o discontinuità. La Langue des calculs fornisce un esempio alle altre scienze di come costruire una lingua ben fatta: «il 240
P. Laromiguière, Paradoxes de Condillac ou Réflexions sur la Langue des calculs, Paris, Guilleminet, 1805, pp. 41-42; v. anche S. Auroux, Condillac ou la vertu cit., p. XVIII. 241 Ibid., p. 75. 242 Ibid., p. 70.
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s’agit de faire voir comment on peut donner à toutes les sciences cette exactitude qu’on croit être le partage exclusif des mathématiques» (Ibid., p. 8). Si tratta soprattutto, come si spiega più avanti, di giungere a un livello di analogia e di analisi tale da poter ragionare meccanicamente ed evitare ogni rischio di abuso: raisonner, comme calculer, c’est toujour conduire son esprit d’après des méthodes données; d’après des méthodes qu’il n’est pas arbitraire de suivre ou de ne pas suivre, et par conséquent d’après des méthodes mécaniques. Voilà ce que nous ignorons: on diroit que nous voulons avoir la liberté de juger, à notre choix, qu’une chose est ou n’est pas; et nous n’abusons jamais plus de notre libre arbitre, que lorsque nous croyons raisonner. Nous n’en abuserions jamais, si nous raisonnions toujours bien (Ibid., p. 228).
La storia naturale della lingua dei calcoli mostra come gli uomini avrebbero dovuto fare la lingua, in che modo dovrebbe funzionare una scienza ed essere costruita la sua lingua. Risalire e ricomporre la generazione delle idee di una scienza significa perfezionarne la lingua. È quello che Lavoisier scrive nel Traité élémentaire de chimie di aver fatto ispirandosi a Condillac: C’est en m’occupant de ce travail que j’ai mieux senti que je ne l’avis encore fait jusqu’alors l’évidence des principes qui ont été posés par l’abbé de Condillac dans sa Logique […]. Et en effet, tandis que je croyais ne m’occuper que de nomenclature, tandis que je n’avait pour objet que de perfectionner le langage de la chimie, mon ouvrage s’est transformé insensiblement entre mes mains, sans qu’il m’ait été possible de m’en defendre, en un traité élémentaire de chimie243.
Lavoisier scrive di aver perfezionato la lingua della chimica benché credesse di non occuparsi che di nomenclatura. Ha in effetti compreso che il primo passo per il progresso di una scienza non è fare nuove scoperte, ma disporre meglio le conoscenze che si posseggono: risalendo e ricomponendo la generazione non si fa che rimettere in ordine le idee. Ciò che François Dagognet ha scritto sul metodo d’analisi di Lavoisier si può benissimo dire del metodo d’analisi di Condillac: il fine di questo metodo è «non plus rechercher ce qu’on ignore encore, mais mettre en ordre ce qu’on connaît»244.
243 244
A.-L. Lavoisier, Traité élémentaire de chimie, Paris, Deterville, 1801, vol. 1, pp. V-VI. F. Dagognet, Sur Lavoisier, «Cahiers pour l’analyse», n. 9, 1968, p. 185.
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Conclusioni
Anche se, come ho scritto nell’introduzione, l’opera di Condillac è costellata di ripensamenti e riscritture, vorrei alla fine e a posteriori, in un senso analogo al metodo condillacchiano, rifare il percorso intrapreso e ricomporlo nella forma di un tragitto lineare. L’Essai sur l’origine des connaissances humaines riscrive l’Essay on Human Understanding di Locke facendo del segno arbitrario il cardine della gnoseologia sensistica ed esaminando l’origine e lo sviluppo delle conoscenze e del linguaggio seguendo due prospettive: (i) ontogenetica, in rapporto allo sviluppo delle operazioni dell’anima e delle idee; (ii) filogenetica, intendendo il linguaggio come parte indispensabile dei progressi che l’uomo fa interagendo con i suoi simili. Sorgono però due problemi: (i) nella prospettiva ontogenetica, posto che il segno ha funzione cognitiva prima che comunicativa, come può l’uomo disporre di segni arbitrari se questi dipendono dallo sviluppo della riflessione e se nello stesso tempo la riflessione si sviluppa solo quando l’uomo dispone di segni arbitrari? Questo problema riformula il paradosso esposto nel Cratilo di Platone; (ii) nella prospettiva filogenetica, come potevano i due primi uomini che interagivano istituire segni arbitrari se disponevano solo di segni naturali e avevano facoltà mentali limitate, non essendo capaci di riflessione? Anche questa domanda riformula il paralogismo del Cratilo ed è posta da Jean-Jacques Rousseau. Condillac stesso si pone queste domande, la prima in modo esplicito nell’Essai, entrambe quando, poco dopo la pubblicazione dell’Essai, in una lettera a Cramer ammette di aver posto «trop de différence entre les signes naturels et les signes arbitraires» e in una lettera a Maupertuis si rammarica di aver «trop donné aux signes». Si propone allora di ridefinire secondo un percorso più graduale lo sviluppo del linguaggio dall’origine naturale e di rivedere lo statuto del segno arbitrario. Giunge così a due soluzioni: (i) nella prospettiva ontogenetica, sottrae al segno arbitrario la funzione cognitiva e, nel Traité des sensations, la assegna al tatto, il senso che, come si legge nel Traité des animaux, distingue l’uomo dagli altri animali; (ii) nella prospettiva filogenetica, riscrive i primi capitoli della Grammaire, troppo legati all’Essai, e rifiuta il «signe arbitraire» perché segno scelto «au hasard» e «par caprice», sostituendolo col «signe artificiel». Da dove Condillac trae questo nuovo concetto? Molto probabilmente dallo studio dei «signes méthodiques» inventati dall’abate de L’Épée per istruire i sordomuti. Può così congetturare il modo in cui la natura ha guidato gli uomini a
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inventare nuovi segni con metodo per mezzo di due operazioni strettamente correlate, l’«analyse», che opera a livello delle idee, e l’«analogie», che opera a livello dei segni. Quest’ultimo punto è il frutto di altri ripensamenti. Nella prospettiva ontogenetica (i), l’analisi non è più, come nell’Essai, un’operazione dell’anima che si sviluppa dopo che l’uomo comincia a usare i segni, ma, come si legge nelle due Grammaire, una facoltà naturale che opera all’inizio all’insaputa dell’uomo stesso. Fin dall’origine del linguaggio la funzione cognitiva precede la funzione comunicativa; l’uomo entra consapevolmente in possesso dell’analisi quando comprende che le lingue non sono che «des méthodes analyitiques». Nella prospettiva filogenetica (ii), Condillac, rispetto all’Essai, presta più attenzione, e non solo perché ha letto il Traité di de Brosses, all’analogia, meccanismo indispensabile all’analisi per significare i legami scomposti e ricomposti di idee, strumento fondamentale, come afferma la Logique, per formare le «sciences comme langues bien faites». Ma se la natura ha guidato i primi uomini per mezzo dell’analisi e dell’analogia, perché la storia è costellata di idee false, di giudizi sbagliati, di assurdità, tutti errori riconducibili all’abuso del linguaggio, ovvero all’arbitrarietà del segno? Questo accade perché, come ha fatto la gran parte dei filosofi, si concepisce la lingua solo come mezzo di comunicazione. Gli uomini hanno potuto fare la lingua seguendo il tragitto indicato dalla natura e avrebbero dovuto continuare a farla con metodo, proprio come ha fatto l’abate de L’Épée. La storia naturale della «langue des calculs» serve da insegnamento: non serve costruire un linguaggio filosofico, occorre rifare la lingua ripercorrendo la generazione delle idee e dei segni e ricostruendone i legami con metodo analitico. Della fortuna immediata di Condillac portano testimonianza almeno tre questioni linguistiche della seconda metà del XVIII secolo. In realtà, per ognuno dei casi, si tratta di una fortuna che dipende da opere e momenti differenti della riflessione condillacchiana. Come la critica di Rousseau, anche quella di Johann Gottfried Herder nel Saggio sull’origine del linguaggio (Abhandlung über den Ursprung der Sprache) pubblicato nel 1772 – quando la Grammaire parmense è bloccata dalla censura e la seconda redazione non è ancora edita – si riferisce all’Essai. Com’è noto, con questo scritto Herder risultò vincitore del concorso bandito nel 1769 dall’Accademia di Berlino («En supposant les hommes abandonnés à leurs facultés naturelles, sont-ils en état d’inventer le langage? Et par quels moyens parviendront-ils à cette invention?») e avviò un lungo e fecondo dibattito sul linguaggio 245. Herder ritiene
Sul concorso promosso dall’Accademia e i dibattiti suscitati: H. Aarsleff, Da Locke cit., pp. 175-265; R. Pititto, La ragione linguistica. Origine del linguaggio e pluralità delle lingue, Roma, Aracne, 2008. Più 245
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assurda la congettura filogenetica di Condillac e innaturale la condizione dei due «enfans» all’origine; riporta anche la critica di Rousseau definendone il dubbio un «velato sofisma» 246. Il linguaggio ha origine naturale ma non deriva da grida inarticolate provocate dalle sensazioni, come hanno scritto sia Condillac sia Rousseau, «il primo trattando le bestie da uomini, il secondo gli uomini da bestie»247. La differenza di natura tra animali e uomo si dà, secondo Herder, nel fatto che l’invenzione del linguaggio dipende dalla natura razionale dell’uomo, differente dalla natura istintuale degli animali, in particolare dallo stato di sensatezza proprio dell’uomo che è la riflessione: il linguaggio è «il vero carattere differenziante la nostra specie dall’esterno, come la ragione lo è dall’interno»248. È nota l’influenza esercitata dal pensiero di Condillac sugli idéologues, gli intellettuali che, ritenendosi eredi degli illuministi, tentarono di dirigere la politica culturale francese nel periodo tra il 1794, quando finì il cosiddetto “Regime del Terrore”, e il 1803, l’anno in cui Napoleone, ostile all’egemonia degli idéologues, ordinò la chiusura della Classe di Scienze Morali e Politiche dell’Institut National249. Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, l’ideologo dell’idéologie, la nuova scienza di matrice sensistico-materialista, ritenne Condillac «le fondateur de la science que nous étudions», esposta da Destutt de Tracy nel primo volume degli Élémens d’idéologie250. In realtà, come si evince dagli studi di Sergio Moravia, molti idéologues si spinsero al riduzionismo fisiologista dell’origine sensoriale delle idee e criticarono il sensismo poco materialistico di Condillac, mentre gli ultimi idéologues, quelli che, come Maine de Biran e de Gérando, vissero la loro maturità in età napoleonica, prendendo le distanze dai loro maestri criticarono il sensismo troppo materialista di Condillac251. Lo stesso Destutt de Tracy, che pure elogiava il Traité des sensations («la base de toute la théorie des idées»), non risparmiava critiche all’Essai e soprattutto all’idea della scienza come lingua ben fatta e alla ricostruzione della «langue des calculs» 252. Meno noto è invece il ruolo istituzionale ricoperto nell’età del Direttorio (1795-1799) da Destutt de Tracy, il cui impegno filosofico e politico nell’educazione delle giovani generazioni si collegava a approfondito su scrittori minori: A. Lifschitz, Language and Enlightenment. The Berlin Debates of the Eighteenth Century, Oxford, Oxford University Press, 2012. 246 J. G. Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di A. P. Amicone, Parma, Pratiche editrice, 1995, pp. 42-45. 247 Ibid., p. 46. 248 Ibid., p. 69. Sulla teoria linguistica di Herder: R. Pititto, Herder o la ragione umana come linguaggio, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Basilicata», n. 8, 1998, pp. 183-220. 249 Sugli idéologues nel loro contesto storico: S. Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo. Filosofia e politica nella società francese (1770-1810), Bari, Laterza, 1968. 250 A. Destutt de Tracy, Élémens d’Idéologie, Bruxelles, Auguste Wahlen, 1826, vol. 1, p. 159. 251 Cfr. S. Moravia, Il pensiero degli idéologues. Scienza e filosofia in Francia (1780-1815), Firenze, La Nuova Italia, 1974. 252 A. Destutt de Tracy, Élémens cit., vol. 3, p. 108 (per l’elogio), vol. 1, pp. 252-258 (per la critica).
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Condillac per il tramite di Condorcet, autore nel 1791 di un progetto di riforma scolastica, un impegno che aveva come motto una frase posta in esergo alla sua Logique, tratta dalla Logique di Condillac: «Une bonne logique feroit dans les esprit une révolution bien lente, et les temps pourroit seul en faire connoître un jour l’utilité» (Logique, p. 107). È in particolare nell’idea che la grammatica ricopra un ruolo centrale nell’educazione delle nuove generazioni che Destutt de Tracy sembra rinnovare la lezione di Condillac. Per Condillac il primo metodo d’analisi di cui dispongono gli uomini per ordinare le idee è la propria lingua comune: ciò significa che la grammatica, che è la scienza analitica della lingua, deve essere la prima lingua ben fatta, la prima scienza dell’«art de raisonner» propedeutica a tutte le altre scienze. Di questo ragionamento si trova traccia in una circolare inviata da Destutt de Tracy in qualità di funzionario del Ministero dell’Istruzione ai professori di grammatica generale della Scuola centrale, circolare che biasima gli insegnanti per l’incapacità di concepire la grammatica come quella disciplina che, proseguendo lo studio di come si formano le idee (l’ideologia propriamente detta), consente di apprendere le regole dell’arte di ragionare 253. Da Condillac proveniva la convinzione che l’istruzione delle nuove generazioni dovesse cominciare con lo studio della grammatica. Negli stessi anni, l’abate Sicard, successore di de L’Épée nella direzione della scuola pubblica per sordomuti e professore all’École Normale, scriveva negli Élémens de grammaire générale: «[…] après avoir appris dans ma Grammaire et la logique, et la grammaire et peut-être la métaphysique […]»254. La terza questione non è ancora stata oggetto di uno studio specifico. Mi limito a fornire alcuni riferimenti. Il contesto è sempre la politica linguistica in Francia negli anni del Direttorio, ma in questo caso ci si concentra sulle attività dell’Institut National, fondato dagli idéologues per dirigere la politica culturale nazionale. Come ha scritto Sophia Rosenfeld, gli storici delle idee linguistiche che hanno trattato di questo periodo si sono per lo più concentrati sui testi canonici e sugli autori più importanti (Destutt de Tracy, de Gérando, Maine de Biran, Volney), trascurando sia le attività meno indagate di autori noti, come l’attività didattica di Sicard a l’École Normale, sia le attività di intellettuali poco noti, come Roederer, Garat, Lancelin, de Neaufchâteau255. Che cosa hanno in comune questi personaggi? Sono autori, co-autori o promotori di progetti di tecniche linguistiche, di lingue artificiali come la stenographie, la pasigraphie, la tachigraphie, la monographie, elaborate con obiettivi
253
Ibid., vol. 4, p. 291. R.-A. Sicard, Élémens de grammaire générale appliqués à la langue française, Paris, Deterville, 1801, vol. 2, p. XIV. 255 S. Rosenfeld, A Revolution in Language. The Problem of Signs in Late Eighteenth-Century France, Stanford, Stanford University Press, 2001, p. 333, n. 144 (v. pp. 210-226). 254
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diversi – riformare l’alfabeto, proporre un nuovo sistema di scrittura, unificare il linguaggio delle arti, costruire le scienze secondo un modello di lingua ben fatta – in concorsi e dibattiti promossi all’interno dell’Institut e de La Décade philosophique, la principale gazzetta degli idéologues. È probabile che questi progetti seguissero la linea tracciata dall’ultimo Condillac, quello della Logique e della Langue des calculs, ma anche quello delle Histoire del Cours in lotta contro gli abusi di linguaggio. Bisogna infatti contestualizzare questi esperimenti nel lungo dibattito sull’uso politico del linguaggio: le denunce del 1794, come quella di Edme Petit, degli abusi linguistici che avevano favorito l’abuso di potere esercitato da Robespierre; il rapporto di Lindet dello stesso anno, in continuità con il giacobinismo linguistico, sulla necessità di illuminare linguisticamente il popolo francese per legarlo al processo rivoluzionario; gli interventi di Louis-Sébastien Mercier all’Institut, quando Napoleone aveva già preso il potere, contro il dirigismo linguistico degli idéologues e contro la babele degli esperimenti linguistici, a difesa dell’imperfezione naturale del linguaggio umano 256. Sulla fortuna e sfortuna di Condillac nel XIX e XX secolo la rassegna più approfondita si trova nel secondo capitolo della monografia della Quarfood, che però fornisce una bibliografia quasi solo di autori francesi257. Per l’Italia, esiste uno studio sulla ricezione delle idee condillacchiane tra XVIII e XIX secolo, Il Condillac in Italia, pubblicato nel 1903 dal bibliotecario Benedetto Pergoli, criticato per la scarsità delle fonti da Giovanni Gentile 258. Sul XX secolo, un utile punto di partenza lo fornisce Piero Petacco in un articolo del 1974 259. Tra i dati non citati da Petacco e che sarebbe interessante valutare, ne segnalo due: la convergenza della lettura “fenomenista” di Gaetano Capone Braga e della lettura “idealista” di Mario Dal Pra nel valorizzare il Condillac “filosofo” in senso largo, quello dell’Essai e dei due Traité, contro il Condillac “logico” in senso stretto, quello della Logique e della Langue des calculs260; il copioso numero di traduzioni del Traité des sensations in italiano (sette tra il 1920 e il 1970), in particolare il confronto tra la lettura di Armando Carlini, curatore di un’edizione “idealista” nel 1923, e quella di Rodolfo Mondolfo (autore nel 1902 di un lavoro dal titolo Un psicologo associazionista: E. B. de Condillac), editore di una traduzione
256
Sugli interventi di Petit e Lindet: B. Baczko, Come uscire dal Terrore. Il Termidoro e la Rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 137-142; sull’intervento di Mercier: S. Rosenfeld, A Revolution cit., p. 225. 257 C. Quarfood, Condillac cit., pp. 51-72. 258 B. Pergoli, Il Condillac in Italia, Faenza, Montanari, 1903; G. Gentile, Recensione di B. Pergoli “Il Condillac in Italia”, «La Critica», vol. 2, 1904, pp. 153-154. 259 P. Petacco, Percezione e conoscenza fenomenica in Condillac, «Belfagor», vol. 29, 1974, pp. 164-186. 260 G. Capone Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo, Edizioni delle Pagine Critiche, 1920, p. 145; M. Dal Pra, Condillac cit., p. 328.
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“fenomenista” nel 1927261. La storia della ricezione di Condillac è un capitolo della storia delle idee che meriterebbe di essere approfondito.
261
A. Carlini, Nota del traduttore, in É. B. Condillac, Trattato delle sensazioni, a cura di A. Carlini, Bari, Laterza, 1923, pp. V-XIII; R. Mondolfo, Introduzione. L’opera di Condillac, in É. B. Condillac, Trattato delle sensazioni, a cura di R. Mondolfo, Bologna, Licinio Cappelli, 1927, pp. VII-XLIV.
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