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RHYTHMICA REVISTA ESPAÑOLA DE MÉTRICA COMPARADA
Año I
Número 1 —3—
RHYTHMICA REVISTA ESPAÑOLA DE MÉTRICA COMPARADA® Año I. Núm 1. D.LEGAL SE- 2.382-2003 ISSN 1696-5744
Dirección: JOSÉ DOMÍNGUEZ CAPARRÓS ESTEBAN TORRE Secretaría: MARÍA VICTORIA UTRERA TORREMOCHA Consejo científico: CARLOS ALVAR, PIETRO G. BELTRAMI, TÚA BLESA, JOSÉ DE LA CALLE MARTÍN, ANTONIO CARVAJAL, BENOÎT DE CORNULIER, MARC DOMINICY, MARTIN J. DUFFELL, MIGUEL ÁNGEL GARRIDO GALLARDO, ANA MARÍA GÓMEZ-BRAVO, PABLO JAURALDE POU, JOSÉ JIMÉNEZ OLIVA, HERVÉ LE CORRE, JORDI LLOVET, MIGUEL ÁNGEL MÁRQUEZ GUERRERO, JOSÉ ENRIQUE MARTÍNEZ FERNÁNDEZ, RAFAEL NÚÑEZ RAMOS, SALVADOR OLIVA, ANTONIO PAMIES BELTRÁN, ISABEL PARAÍSO ALMANSA, ARCADIO PARDO, MADELEINE PARDO, JOSÉ MARÍA PAZ GAGO, CARLOS PIERA, ANTONIO QUILIS MORALES, KURT SPANG. Correspondencia: FACULTAD DE FILOLOGÍA DEPARTAMENTO DE LENGUA ESPAÑOLA, LINGÜÍSTICA Y TEORÍA DE LA LITERATURA c/ Palos de la Frontera s/n. 41004 Sevilla (España) Correo electrónico:
[email protected]
PADILLA LIBROS EDITORES & LIBREROS c/ Feria nº 4 • 41003 SEVILLA (ESPAÑA)
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SUMARIO
APPUNTI SUL SONETTO COME PROBLEMA NELLA POESIA E NEGLI STUDI RECENTI Por PIETRO G. BELTRAMI
7
CONSTRUCCIÓN DEL VERSO MODERNO Por JOSÉ DOMÍNGUEZ CAPARRÓS
37
THE IAMBIC PENTAMETER AND ITS RIVALS Por MARTIN J. DUFFELL
61
BLAS DE OTERO: MÉTRICA Y POÉTICA Por JUAN FRAU
87
TRIDECASÍLABOS Por PABLO JAURALDE
125
VERSO Y PROSA EN LA ETAPA AMERICANA DE JUAN RAMÓN JIMÉNEZ Por MIGUEL ÁNGEL MÁRQUEZ 149 MODULACIONES DE LA LIRA EN LA OBRA DE ANTONIO CARVAJAL Por JOSÉ ENRIQUE MARTÍNEZ FERNÁNDEZ
183
LA MÉTRICA EN LAS TRADUCCIONES AL CASTELLANO Y AL CATALÁN DE LOS SONETOS DE WILLIAM SHAKESPEARE 207 SALVADOR OLIVA LA ESCALA MÉTRICA EN LA POLIMETRÍA ROMÁNTICA Por ISABEL PARAÍSO
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223
PROTEO EN METRO. LA POESÍA DE LUIS ANTONIO DE VILLENA Por BELÉN QUINTANA
251
SÍLABAS Y ACENTOS. FUNDAMENTOS FONÉTICOS Y FONOLÓGICOS DEL RITMO Por ESTEBAN TORRE
273
RITMO Y SINTAXIS EN EL VERSO LIBRE Por MARÍA VICTORIA UTRERA TORREMOCHA
303
CRÍTICA DE LIBROS
335
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APPUNTI SUL SONETTO COME PROBLEMA NELLA POESIA E NEGLI STUDI RECENTI
PIETRO G. BELTRAMI
I
n prospettiva italiana, il sonetto oggi può essere affrontato da più punti di vista: il primo è quello della resistenza di questa forma attraverso la poesia italiana del Novecento, nonostante e al di là dell’affermazione schiacciante della metrica libera; un’altro è quello dell’interesse che hanno rivolto al sonetto gli studi italiani di metrica degli ultimi decenni. Anche una bibliografia molto sommaria mostra come gli studi sul sonetto si siano infittiti dalla seconda metà degli anni 80 in poi, e come abbiano riguardato principalmente due temi: da un lato l’origine o l’invenzione del sonetto o il sonetto delle origini, alle origini cioè della codificazione della sua forma, sia da un punto di vista storico-filologico (per es. Montagnani 1986, Antonelli 1989, Leonardi 1993, Brugnolo 1995, Larson 2000), sia da un punto di vista strutturale, con particolare riguardo alle caratteristiche numeriche o numerologiche della sua struttura (da Avalle 1990 fino a Pötters 1998 e Desideri 2000); dall’altro lato il sonetto dell’età contemporanea, affrontato nello studio di singoli autori (cfr. Bordin 1994, su Zanzotto, Girardi 1996, su Caproni) o con una prospettiva più generale (cfr. Pastore 1996 e soprattutto Tonelli 2000). Le date fanno capire perché, quando ho messo mano alla revisione del mio manuale di metrica del 1991 per la quarta edizione uscita nell’estate 2002, il sonetto sia stato uno degli argomenti che ho dovuto ripensare più attentamente. Presenterò qui alcune di queste mie riflessioni, anche al di là di quanto ne ho effettivamente travasato nella nuova edizione del manuale. —7—
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Comincio dal sonetto del Novecento e dalla fine del Novecento, da un autore nuovissimo e ancora poco noto che raccomando all’attenzione degli italianisti. Jean Robaey è un belga nato nel 1950, che si è trasferito in Italia fin dall’inizio dei suoi studi universitari, e che si è poi dedicato professionalmente alla letteratura francese, di cui è docente all’Università di Ferrara. Autore coltissimo, esperto di letterature classiche e di letterature europee moderne, sempre molto legato alla cultura delle sue Fiandre, Robaey scrive da molti anni un lunghissimo poema, che si intitola Le sette giornate dell’epica, di cui ha pubblicato la Prima giornata nel 1995 (per dare un’idea, questa Prima giornata occupa circa trecento pagine); nel 2000 e nel 2001 sono uscite la Seconda e la Terza giornata, e la Quarta è in corso di stampa. L’idea del titolo, ha scritto lui stesso, deriva da Le sette giornate del Mondo creato di Torquato Tasso, ma lo spirito di questa impresa, sempre per sua dichiarazione, ma come appare anche evidente, ha a che fare piuttosto con i Cantos di Ezra Pound, o con la nostalgia da moderno sognatore di certe grandi opere di età remote nel tempo e nello spazio, come il Mahâbhârata indiano. In questo grande poema in versi liberi, in cui sono anzi accentuate certe caratteristiche della versificazione moderna, come l’assenza della punteggiatura e (dal punto di vista della grafia, cioè dell’impressione visiva per il lettore) l’assenza anche delle maiuscole, intere sezioni alludono a forme metriche tradizionali, riprese con assoluta libertà e senza rima; così nella Prima giornata troviamo sezioni in strofe di otto versi che alludono all’ottava e in strofe di tre versi che alludono alla terzina, due dei tre metri fondamentali del poema in Italia (il terzo è l’endecasillabo sciolto), e una sezione dedicata a immagini della Fiandra i cui testi sono sonetti trasportati entro la versificazione libera, come questo su cui desidero attirare l’attenzione: in questa forma che non amo in questa forma che non capisco che non fa per me sa di prezioso
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e di chiuso senza sviluppo in questa forma che non am erò mai mi serve da esercizio eccomi qua a descriverti la visione che ebbi stamattina l’impressione della nebbia che ancor non si levava era bianca e spessa copriva i campi fino all’orizzonte non si vedevano i campi non si vedeva altro della sola nebbia bianca tutto era chiuso
Come si vede, la forma del sonetto è ripresa dal numero dei versi, che sono 14, e dalla disposizione grafica in due quartine e due terzine, che corrisponde all’immagine del sonetto nella maggior parte della sua storia (la forma più antica era piuttosto divisibile in 8+6, o anche in 8+3+3). Oltre che dalla disposizione grafica, la divisione fra le due quartine è marcata dall’anafora iniziale della seconda quartina, che riprende quasi identico il primo verso della prima; il passaggio dalle quartine alle terzine è marcato da un passaggio tematico, dalla prima parte metapoetica, poesia sulla poesia, più precisamente poesia sulla forma del sonetto, alla seconda descrittiva o se vogliamo idillica, che mette in versi la visione di un paesaggio coperto dalla nebbia; le due terzine sono distinte e insieme collegate dalla ripresa di i campi: (la nebbia) «copriva i campi fino all’orizzonte», «non si vedevano i campi». Un altro segnale di passaggio fra la prima e la seconda parte del sonetto è dato dal ritmo, che nell’ottavo verso si allarga in un endecasillabo classico e quasi cantabile, «la visione che ebbi stamattina», al solo prezzo di una dialefe che ebbi, non proprio petrarchesca ma nemmeno eccezionale nella poesia italiana, dopo sette versi in cui il ritmo è come bloccato, quasi prosastico e come un poco affannoso. Questi primi sette sono veri versi liberi che il lettore individua grazie —9—
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alla disposizione grafica: il sistema degli a capo funziona cioè come uno spartito, che permette di individuare le unità da eseguire nella lettura (ad alta voce o mentale), che altrimenti non sarebbero ricostruibili con precisione: si veda per esempio la divisione in due versi, fra il quinto e il sesto, della parola amerò. Anche se la tmesi, ovvero la divisione di una parola fra due versi, si trova sia pure raramente nella poesia italiana fin dal Duecento (ma nella poesia regolare si individua facilmente grazie alla rima e alla misura regolare del verso), questa figura eseguita in modo così radicale è spia di un tratto caratteristico della versificazione libera, che annulla la misura regolare del verso, ma tende a marcarne la fine, con l’aiuto della disposizione grafica, con figure estreme di collegamento fra i versi, di enjambement e di tmesi che mettono in tensione la divisione e al tempo stesso, con questo mezzo, la sottolineano. Entro questa versificazione libera, un’allusione invece alla poesia italiana prenovecentesca è ancor alla fine del verso 9. Anche se non rima con nessun verso nel sonetto, questo ancor allude in modo quasi parodistico all’uso delle rime tronche in consonante, di parole che potrebbero dare rime piane (ancora, in questo caso), che nella poesia italiana va dal Cinquecento all’Ottocento ed è tipico soprattutto dell’odecanzonetta, da Chiabrera ai poeti del Settecento ai Romantici; questo uso è stato eliminato da Pascoli, e da Pascoli in poi ha un irresistibile sapore di vecchio (qui, credo, voluto). Implicitamente, con le caratteristiche della sua versificazione, ed esplicitamente, con questa sua prima parte di poesia che parla della forma metrica, questo sonetto di Robaey esemplifica bene un fatto molto più generale, che potremmo dire ‘il sonetto come problema’; ovvero il sonetto, forma onnipresente nella poesia italiana persino nel Novecento, si impone anche alla coscienza metrica dei poeti più recenti, ma non può essere trattato come se nulla fosse. Mentre per un petrarchista del Cinquecento o del Seicento scrivere un sonetto è una cosa ovvia, e questa forma gli dà semplicemente uno spazio strutturato entro cui esprimere il proprio discorso poetico o anche la propria abilità, per un poeta moderno questo è un gesto che mette in tensione —10—
IL SONETTO COME PROBLEMA
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l’antico con il nuovo, che chiama in causa la cultura scolastica del poeta e insieme la sua capacità di negarla e di esprimersi, anche nella forma, in modo nuovo e personale; e ciò perché un aspetto fondamentale della poesia del Novecento è che la forma metrica non è un dato a priori, uno strumento neutro offerto dalla tradizione, ma è il risultato ogni volta di un progetto individuale, che fa parte dell’invenzione poetica. In altre parole, mentre prima della versificazione libera scrivere un sonetto significava semplicemente adottare una delle forme possibili per la poesia, scrivere un sonetto oggi, regolare o, come più normalmente avviene, irregolare, è sempre un gesto che richiama l’attenzione sulla forma, che la presenta in primo piano come oggetto poetico da prendere in considerazione; anche se ha ragione Natascia Tonelli, nel suo bel libro sul sonetto contemporaneo, quando dice che non è vero che nella poesia più recente «il rapporto con la forma chiusa e tradizionale si presenti inevitabilmente come una dinamica di tipo parodico o pur sempre come un recupero che segna una presa di distanza», o che si tratti, come ha scritto Mengaldo per la poesia degli anni 80 che ha fortemente recuperato numerose forme metriche tradizionali, di un ‘recupero archeologico’. Il sonetto recente, insomma, non è o non è necessariamente gioco o parodia; ma l’esigenza di distorcere la forma nel momento in cui la utilizzano, che i poeti avvertono quando più quando meno (e anche in modi estremi, come documenta lo stesso libro della Tonelli), dimostra il fatto ovvio che il rapporto con la metrica tradizionale è necessariamente ‘critico’, anche quando manchi un’intenzione metapoetica esplicita, ovvero quando il poeta utilizzi la forma del sonetto senza esplicitamente parlarne. Si veda per esempio un sonetto di Raboni tratto dai Sonetti di infermità e convalescenza, da una raccolta di poesie scritte fra il 1989 e il 1993: L’ordine di non avere un solo pelo più in basso del mento fa come un sasso
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raccolto al mare o la cera d’un santo in un buio basso lividamente a giacere sotto vetro fra preghiere il corpo che a passo a passo liberato sul più bello dall’odiosa sincronia di percezione ed evento per l’interporsi del lento flap della preanestesia va spensierato al macello.
La forma è quella di un ‘sonetto minore’, cioè di versi minori dell’endecasillabo, che ha avuto una fortuna limitata nella tradizione italiana, e un momento di particolare vitalità nel Settecento (cfr. Zucco 2001), col nome di ‘sonetto anacreontico’ (anacreontiche si dicevano le forme ‘leggere’ dell’ode-canzonetta). Questo in particolare riprende la forma del sonetto di ottonari, con rime regolari, a parte un’assonanza di era con ere al v. 4, e uno schema insolito nelle quartine, ABBA BAAB. Ma se ci si riferisce alla metrica tradizionale, solo tre sono ottonari regolari, con l’accento sulla terza sillaba che nella tradizione italiana è già frequentissimo nella poesia più antica e poi sostanzialmente obbligatorio, cioè i versi 7, 9 e 10; gli altri sono versi di otto sillabe con accento libero, che per un orecchio allenato alla versificazione italiana tradizionale sono difficilmente percepibili come ottonari, a meno di soffermarsi a contare le sillabe. Sulla forma del sonetto minore, Raboni ha perciò innestato un vistoso effetto di versificazione libera, facendone un uso critico, anche se in nessun punto di questa poesia allude esplicitamente alla forma. Andando più decisamente indietro nel tempo, l’esperienza centrale del sonetto del Novecento è quella di Caproni, nei —12—
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sonetti del Passaggio di Enea dei primi anni del dopoguerra. Per esempio questo: Nella profondità notturna il corno d’America, dal buio locomotore sperduto cosa fruga – chi nel cuore sveglia l’innominabile ritorno a una paura che conquide? A un sonno plumbeo più che i millenni, immenso muore nel deserto di brina un passo – l’ore ha aggredito quel raglio mentre intorno cresce il sospiro dell’uomo. E tu ancora chiuso nella tua stanza, inventa l’erba facile delle parole – fai un’acerba serra di delicato inganno, all’ora che opprimendoti viva a un tratto serba per te il lamento che il petto ti esplora.
Qui i versi sono tutti endecasillabi, con una sola irregolarità al verso 11, che ha una sillaba in più (tra la quarta facile delle e quella che dovrebbe essere la sesta e invece è settima, la tonica di parole), ma anche un preziosismo che rinvia a una tradizione antica, buio al secondo verso contato come una sillaba sola, imitando un uso saltuario nel Duecento che ricompare di tanto in tanto nella tradizione poetica italiana. Le quartine hanno lo schema di rime più tradizionale, ABBA ABBA, con una sola assonanza (sonno al verso 5, in una serie di rime in orno), le terzine uno schema non comune, ma catalogabile fra quelli possibili, CDDCDC. Ma, riprendendo la forma del sonetto in modo apparentemente quasi regolare, Caproni la compatta eliminando tutte le pause tra le partizioni tradizionali, quartine e terzine, e anche tra i versi, con una serie di enjambements con i quali il discorso cade per così dire senza arrestarsi da un verso all’altro. Di per sé la cancellazione delle pause interne, o di molte pause interne, è una soluzione già sperimentata nella storia: sono famosi, perché ne discutevano già i contemporanei, i sonetti del —13—
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Della Casa (1503-1556), e Ugo Foscolo (1778-1827) ne diede un esempio illustre nel sonetto A Zacinto; ma Caproni porta questa soluzione all’estremo, con un’intera serie di sonetti che si possono dire, volendo usare una formula, ‘scritti tutti d’un fiato’ (è anche un fatto di intonazione, di ‘tono’, di concitazione, al di là del semplice fatto che ci sono molti enjambements); così il suo uso del sonetto, che negli anni 40 e 50 è molto meno ‘normale’ che alla fine del Novecento, si personalizza in una forma che è il sonetto ed è al tempo stesso qualcosa di nuovo anche dal punto di vista della struttura metrica. Se poi si vuole un esempio di cosa vuol dire, al contrario, usare il sonetto in modo non critico, un sonetto che non è un problema ma una forma della grammatica poetica, basti leggerne uno di Gozzano, all’inizio del secolo (La via del rifugio è del 1907): Sui gradini consunti, come un povero mendicante mi seggo, umilicorde: o Casa, perché sbarri con le corde di glicine la porta del ricovero? La clausura dei tralci mi rimorde l’anima come un gesto di rimprovero: da quanto tempo non dischiudo il rovero di quei battenti sulle stanze sorde! Sorde e fredde e buie... Un odor triste è nell’umile casa centenaria di cotogna, di muffa, di campestre... Dalle panciute grate secentiste il cemento si sgretola se all’aria rinnovatrice schiudo le finestre.
Dove l’unico tratto che non troverebbe posto nella grammatica tradizionale del sonetto è, a rigore, l’uso di una rima sdrucciola —14—
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(povero ecc.) in mezzo a rime piane; ma la costruzione della forma è direi quasi diligente, scolastica, scandita con precisione per terzine e quartine più che in tanti sonetti di poeti più arditi della tradizione precedente (il che non vuol dire che non sia un bel sonetto, e una poesia ricca di fascino). Il libro già citato della Tonelli sul sonetto contemporaneo documenta nella poesia degli ultimi decenni tutte le possibili realizzazioni di una molteplicità di forme; sonetti in versi diversi dall’endecasillabo e di struttura interna liberissima, per esempio i 49 sonetti dell’Ipocalisse di Nanni Balestrini, in versi brevi per lo più di due sole parole, o i Trenta sonetti di Pier Carlo Ponzini, in versi lunghissimi con partizioni interne marcate da barre semplici o doppie; e anche testi che alludono alla forma del sonetto ma ne sono lontani, come la Lettera in forma di sonetto di Annelisa Alleva, «costituita da quindici lasse numerate, ma spesso fra loro collegate sintatticamente, formate da versi non riconducibili a misure canoniche o ad un ritmo dominante e fra loro non rimati né assonanzati»; le lasse sono di 14 versi, ma anche di 12 o di 13. Si può dunque attribuire il nome di sonetto a composizioni di struttura molto varia, anche se considerando la normalità dei casi, nota più volte la Tonelli, il numero di 14 versi è il dato strutturale fondamentale perché composizioni della forma più diversa possano presentarsi come sonetti. Esistono dunque da un lato una identità del sonetto, i caratteri essenziali che consentono di identificare un testo come un sonetto, o di paragonarlo a un sonetto, e dall’altro un più o meno accentuato polimorfismo, una pluralità di forme che, nonostante le loro differenze, possono essere ricondotte al sonetto. L’identità del sonetto sembra risiedere principalmente nel numero dei 14 endecasillabi; ma se è vero che questo è un tratto originario, è anche vero che il polimorfismo del sonetto non è cosa del solo Novecento, e non risparmia nemmeno il numero dei versi. Andando a ritroso nel tempo, troviamo per esempio nel Cinquecento un lettore di poesia che si mostra (o si finge?) sorpreso di trovar chiamato sonetto qualcosa che a lui un sonetto non pare, come può avvenire a chi di noi stia fermo —15—
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ai manuali di fronte a certe forme novecentesche. Si tratta di Pietro Bembo, che nelle Prose della volgar lingua, dove parla del sonetto (non per darne una descrizione strutturale, ma per dire che nel sonetto alcuni tratti strutturali sono fissi, come il numero dei versi e il numero di due rime nella prima parte, altri variabili, come l’ordine delle rime e il numero delle stesse, due o tre, nella seconda parte), annota che Dante nella Vita Nuova chiama sonetto una canzone (Prose della volgar lingua, II, XI). Con questo Bembo allude ad uno di due testi della Vita Nuova, O voi che per la via d’Amor passate (nel cap. VII) e Morte villana, di pietà nemica (nel cap. VIII), entrambi introdotti come sonetti dalla prosa dantesca, ed entrambi ‘sonetti doppi’, cioè sonetti che, rispetto allo schema consueto di 14 endecasillabi articolati in due parti di 8 e di 3+3 versi, hanno in più un settenario in rima col verso precedente dopo i versi dispari della prima parte e dopo il secondo verso delle terzine della seconda parte (schema di O voi AaBAaBAaBAaB CDdC DCcD; schema di Morte villana AaBBbAAaBBbA CDdC CDdC). Questa forma è una riduzione del sonetto rinterzato di Guittone, che ha due settenari in più (rispettivamente dopo il primo verso delle due terzine), ed è precisamente quella trattata col nome di sonetto doppio da Antonio da Tempo. Il trattato di quest’ultimo, scritto nel 1332, era stato edito nel 1509 a Venezia. Non credo che, come deduce Dionisotti nel commento, Bembo ignorasse questa edizione e più in generale il testo di Antonio da Tempo; credo piuttosto che abbia ragione Capovilla, secondo cui Bembo tace volutamente, perché (sintetizzo in due parole) ritiene il vecchio trattato superato e da rimuovere (Capovilla 1986, pp. 142-46). Il fatto è che al tempo di Bembo il sonetto doppio o rinterzato, al modo di Dante o al modo di Guittone, non si usava più. Questo non vuol dire che non si potessero considerare sonetti dei testi di più di 14 versi; era infatti corrente e si chiamava sonetto il sonetto caudato, quello con la coda di tre versi, un settenario rimato con l’ultimo verso della seconda terzina e due endecasillabi a rima baciata, eventualmente con più code fatte allo stesso modo. Si vedano per esempio del Berni il Sonetto —16—
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contra la moglie, con una coda (ABBA ABBA CDC CDC cEE); con due code il Sonetto contra la primiera (ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF); con tre code il Sonetto sopra la barba di Domenico D’Ancona (ABBA ABBA CDE CED dEE eFF fGG); con otto code il Sonetto sopra la mula dell’Alcionio (ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF fGG gHH hII iLL lMM mNN); tutti intitolati ‘sonetti’ come quelli di 14 versi senza coda. Ma certo il polimorfismo del sonetto cinquecentesco è niente rispetto a quello del Duecento e del Trecento. Basti per questo rinviare alla Morfologia del Biadene, sempre fondamentale anche se si basa, per ovvie ragioni di data (1888), su edizioni oggi in buona parte superate, e anche se è insostenibile la sua idea che il sonetto derivi dal montaggio di due strambotti; o anche rinviare ad Antonio da Tempo, il cui trattato registra tutte le possibili variazioni sul tema, rispecchiando per la verità, come è stato detto (da Gorni, p. 74), più che l’uso medio, un gusto accentuato per la sperimentazione di forme metriche eccentriche. E c’è anche, nel Duecento, un autore che fa ciò di cui Bembo accusa Dante, chiama cioè sonetto una canzone, e questa volta per davvero; l’autore è Guglielmo Beroardi, la canzone Gravosa dimoranza (ed. Catenazzi, pp. 85-87): Dunqua sonetto fino, cantando in tuo latino - va’ in Florenza; a chi m’ave ’n dimino di’ ch’eo tuttora ’nchino - sua valenza.
Non si può seriamente accusare il Beroardi di non sapere che quello che ha scritto è una canzone; ma qui sonetto vuol dire davvero ‘canzone’, non come nome della precisa forma metrica che così si chiama, ma nel senso in cui genericamente anche noi oggi chiamiamo ‘canzone’ un testo che si canta considerato insieme con la sua musica, né il solo testo né la sola melodia, ma l’insieme delle due cose. È questo uno dei sensi della parola cantio nel De vulgari eloquentia, dove Dante dice che i musicisti chiamano i loro prodotti canzoni solo se sono uniti con un testo, —17—
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mentre si chiamano canzoni i testi scritti per essere musicati, anche quando si leggono privi della musica (II VIII 5). Stiamo entrando con questo in un dibattito dai molti aspetti, che attraversa gli studi più importanti degli ultimi anni, sul sonetto delle origini (cioè: quali sono i suoi caratteri essenziali) e sulle origini del sonetto (cioè: come è nata questa forma tipicamente italiana destinata a così grande fortuna). Uno dei pochi punti su cui c’è concordia è appunto che il primo significato della parola sonetto è musicale, dal provenzale sonet diminutivo di so che significa ‘suono, melodia’, dunque ‘musichetta’, o anche ‘canzoncina’. E c’è accordo sostanziale sul fatto che questo è il significato di sonetto (‘canzoncina’, o ‘canzone’ nel senso di un testo con melodia, o meno probabilmente solo una melodia) nell’unico caso in cui la parola compare in uno dei testi della Scuola siciliana, cioè nella celebre canzone di Rinaldo d’Aquino, Giammai non mi conforto (ed. Avalle, CLPIO, V032): Però ti priego, Dolcietto, che ssai la pena mia, che me ne face un sonetto e mandilo in Soria. Ch’io nom posso abentare notte né dia: in terra d’oltremare istà la vita mia!
Dietro questo accordo c’è l’idea che il sonetto, inteso come la forma metrica che tutti conosciamo, non fosse una forma per musica. Com’è noto, a partire da un saggio di Aurelio Roncaglia del 1978 che si intitola per l’appunto Sul «divorzio fra musica e poesia» nel Duecento italiano, ha prevalso in questi ultimi tempi l’idea che la poesia della Scuola siciliana non fosse musicata, diversamente dalla poesia provenzale da cui deriva, e che anzi il carattere non musicale della poesia dei Siciliani sia alla base di una sua caratteristica, cioè l’accentuata elaborazione della stanza della canzone, più complessa di quella provenzale. —18—
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Questo punto appare oggi meno pacificamente accettabile, ed è in corso un ripensamento da parte di vari studiosi; citerò un saggio di Francesco Carapezza del 1999 sulla canzonetta dei Siciliani come genere musicale, e il mio contributo al Convegno di Lecce del 1998, edito nel 1999, dove avanzo l’ipotesi che anche il sonetto in origine potesse essere musicato. La parola sonetto, come ha notato la Montagnani, designa la forma del sonetto per la prima volta in una lettera di Guittone (la XXVI dell’edizione Margueron) a Iacomo d’Architano, dove si riferisce al testo poetico che viene trasmesso al destinatario in calce alla stessa lettera: «E sovra d’este parole intendete el sonetto di sotto posto, acciò che vi guardiate, ché v’apertene» (cioè ‘quanto a ciò considerate il sonetto che segue in calce, che riguarda questo argomento, perché stiate in guardia quanto a questo’; si tratta di un’esortazione ad amare e onorare Dio rivolta ai grandi signori). Ma questo testo è già un sonetto di tipo particolare, espressione del vivace polimorfismo duecentesco, cioè un sonetto con la fronte normale di quattro distici ABABABAB, ma la sirma rinterzata al modo guittoniano CcDdE CcDdE (su base CDE CDE). Dunque il polimorfismo del sonetto compare insieme col nome, non appena questo designa ciò che anche noi, come tutta la tradizione un poco meno antica, usiamo designare con esso. È un fatto però che i 39 sonetti attribuibili alla Scuola siciliana secondo il Repertorio di Antonelli sono tutti di 14 endecasillabi, tutti divisibili in due parti 8+6, tutti con fronte di quattro distici ABABABAB; 13 hanno la sirma CDCDCD (uno con rima interna fra il primo verso della sirma e l’ultimo della fronte, uno con rime interne); 20 hanno la sirma CDECDE (uno con rima interna fra il primo verso della sirma e l’ultimo della fronte, due con rime interne); 5 hanno le terzine sempre con rime replicate, ma con la ripresa nella sirma di una rima della fronte (il modulo, cioè lo schema della sirma considerato come se fosse da sola, è sempre ABCABC, come nel caso di CDECDE); uno infine (il celebre Eo viso - e son diviso - da lo viso di Giacomo da Lentini) continua nella sirma le rime della fronte con lo schema ABABABAB AAB —19—
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ABB. E questo di 14 endecasillabi, con possibilità di ulteriori schemi di rime delle terzine, resta il tipo base del sonetto nella tradizione italiana, con la sola ma importante variazione per la quale a partire dallo Stil nuovo lo schema normale delle rime della fronte è ABBAABBA, che tende alla divisione in due quartine ABBA ABBA. Questa, con queste limitate variazioni, è la forma originaria, ed è a proposito di questa forma che ci si può domandare quali ne siano le origini o le ragioni strutturali; come ha scritto Furio Brugnolo, in termini radicali, nella sua sintesi sulla Scuola siciliana del 1995, la migliore disponibile a tutt’oggi (p. 322): Essenziale non è lo schema, il fatto che la fronte sia sempre (nei Siciliani) a rime alternate (ABABABAB), mentre la sirima può scegliere fra due formule, CDECDE e CDCDCD; e nemmeno che tra fronte e sirima vi sia sempre la ripetizione obbligatoria di almeno una parola tematica (aspetto che sottolinea le implicazioni retoriche dell’invenzione del sonetto). Essenziale è il fatto che i versi siano sempre e soltanto quattordici, e sempre e soltanto endecasillabi, e sempre divisi in un gruppo di 8 e in un gruppo di 6, con una bipartizione che ha importanti effetti anche a livello di strutturazione del discorso. Essenziale è l’opposizione – da nessuno messa in dubbio – fra principio binario (o quaternario), nell’ottava, e ternario nella sestina. E così via, con riflessi evidenti anche sull’originaria presentazione grafica di questo tipo di testo, radicalmente diversa da quella della canzone.
(Quanto alla presentazione grafica del sonetto nei canzonieri antichi, bisogna però notare, a mio parere, che questi sono della fine del Duecento, mentre il sonetto si forma prima della metà del secolo, e appartengono all’ambiente toscano, mentre il sonetto si forma nella cerchia dei poeti che ruotano intorno alla corte sveva di Federico II, poi di Manfredi; perciò questo dato non mi sembra così significativo come si tende a dire negli studi recenti). Nella lunga discussione sul problema, meritano a mio parere una certa attenzione alcuni aspetti che si possono dire ‘ideologici’. —20—
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Consideriamo sotto questo punto di vista la discussione di Biadene. Secondo lui (pp. 8-11) la forma del sonetto risale allo strambotto, cioè all’ottava siciliana o canzuna di quattro distici ABABABAB, combinato con una seconda parte che uno strambotto vero e proprio non è, ma ne deriva: il secondo strambotto si sarebbe ridotto a tre distici su nuove rime CDCDCD e diviso da sùbito in due terzine per le stesse ragioni di armonia e proporzione interna per cui la prima parte si sarebbe, per la verità più tardi, divisa in due quartine (l’idea che il sonetto derivasse dallo strambotto era già stata proposta da Nicolò Tommaseo, Dei canti popolari e dello studio critico sui canti popolari di Giovanni Pitré, «Nuove effemeridi siciliane» 1, 1869, p. 26, cit. da Avalle 1990, p. 501). Questa teoria è stata ripresa da Wilkins, ma non regge, non solo perché questo gioco combinatorio è poco convincente, ma perché tutte le attestazioni dello strambotto sono di molto posteriori all’epoca dei primi sonetti (Wilkins deduceva a ritroso che lo strambotto deve essere esistito prima del sonetto, visto che il sonetto ne deriva, ma questo non è buon metodo filologico). Interessa però notare che Biadene bolla come «un’opinione, la quale si manifesta di per sé inverosimile» (p. 10) quella che il sonetto sia «una creazione individuale»; secondo lui la seconda parte del sonetto è uno strambotto, anche se gli strambotti non sono di sei versi, perché solo nello strambotto è originaria la disposizione delle rime CDCDCD che sempre secondo lui è quella originaria del sonetto (ma per la verità il tipo CDECDE è altrettanto antico). Il concetto di ‘origine del sonetto’ di Biadene prescinde dunque da un atto creativo individuale, anzi lo esclude, con il semplice argomento che ciò è inverosimile; e ciò rimanda ad un’idea di fondo, romantica e positivistica, secondo la quale le forme metriche sono un patrimonio che si tramanda da una generazione all’altra, modificandosi ovviamente, e anche con innovazioni individuali, ma senza che nulla sia mai creato dal nulla. Si può dare una versione meno ideologica di questa idea riferita all’origine del sonetto: qualcuno avrà bene scritto il primo, ovvero inevitabilmente un sonetto (conservato o perduto) sarà stato scritto prima di tutti gli altri; ma chi l’ha scritto non —21—
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ha fatto che adottare delle forme già esistenti, apportandovi quel poco o molto di variazioni individuali che ogni autore introduce nella propria poesia, non progettando una nuova forma di cui quel primo testo fosse il primo esemplare. Anche l’ottava si faceva un tempo risalire allo strambotto, ma nel 1964 Dionisotti ha dimostrato che questa teoria non ha fondamento storico, perché lo strambotto è documentato molto più tardi dell’ottava. Come effetto di questa dimostrazione, anche l’idea della derivazione del sonetto dallo strambotto è stata abbandonata, e da allora la teoria dominante è quella secondo cui il sonetto ‘deriva’ dalla stanza della canzone o meglio è esso stesso una stanza di canzone isolata, precisamente una stanza con questo particolare schema usata al modo delle coblas esparsas provenzali. Non è in realtà un’idea nuova. Il rapporto fra sonetto e stanza si coglie già nel rifacimento in volgare della Summa di Antonio da Tempo da parte di Gidino da Sommacampagna (come fa notare Montagnani, pp. 23-4) e nel Cinquecento è affermato chiaramente da Trissino e ancor più esplicitamente dal Minturno (Montagnani, pp. 26-9); attualmente che il sonetto sia una stanza è affermato con maggiore o minore sicurezza da tutti i manuali correnti (incluso il mio). Si può dunque almeno dire che, a differenza della teoria del sonetto-strambotto, quella che chiama in causa la stanza della canzone non è figlia della ricerca romantica e positivista delle origini; ma anch’essa può essere concepita allo stesso modo. La canzone in lingua romanza, in effetti, non è il frutto di un progetto ad essa rivolto (non è quella che Biadene avrebbe detto «una creazione individuale»), ma nasce dall’adozione di forme della poesia mediolatina da parte dei primi trovatori provenzali, e si trasmette con le sue caratteristiche, modificandosi secondo gli usi dei poeti e delle scuole, ad ogni passaggio da una lingua all’altra (è inessenziale, sotto questo punto di vista, quali altri modelli siano stati presenti all’inizio oltre quello mediolatino, o quali avessero già agito su quello mediolatino, che a sua volta ha una sua storia). A sua volta l’uso di una stanza isolata è già documentato in provenzale, anzi, come ha dimostrato Antonelli nel suo studio sull’Invenzione del —22—
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sonetto, ha acquistato una sua importanza e una sua collocazione nel sistema dei generi proprio in quei settori della poesia provenzale cui maggiormente è rivolta l’attenzione dei Siciliani. Insieme con la teoria che il sonetto sia una stanza di canzone o ne derivi, si è nel frattempo affermata anche l’idea che il sonetto sia non un «metro di tradizione, un metro cioè costituitosi per gradi in un decorso storico di una certa durata», ma un «metro d’invenzione», cioè frutto di quella «creazione individuale» che a un Biadene pareva di per sé assurda. Sono parole di Marco Santagata in Dal sonetto al canzoniere, del 1979 (cito dalla seconda ed., 1989, identica in questa parte); l’autore osservava che tutti ‘oggi’ (cioè allora) concordavano sulla seconda ipotesi, considerando ‘inventore’ Giacomo da Lentini. E infatti non a caso il saggio di Antonelli (1989), che più di tutti ha cercato di verificare l’ipotesi del sonetto-stanza nel confronto con la tradizione provenzale della canzone e della cobla esparsa, si intitola L’«invenzione» del sonetto (sia pure con prudenti virgolette), riecheggiando non a caso il saggio di Roncaglia del 1981 su L’invenzione della sestina (senza virgolette). ‘Invenzione’ presuppone un ‘inventore’, e infatti dietro i saggi di Roncaglia e di Antonelli ci sono due nomi e cognomi, Arnaut Daniel e Giacomo da Lentini. Per questo modo di vedere la cosa, si può passare per confronto alla discussione che è stata a lungo accesa e non si può dire conclusa intorno all’ottava rima, che secondo alcuni è ‘invenzione’ di un inventore che si chiama Giovanni Boccaccio (Dionisotti, Roncaglia, Gorni), secondo altri ha le sue ‘origini’, ovvero si è formata attraverso un processo più complesso e sostanzialmente collettivo, nell’area della poesia laudistica e dei cantari (Balduino); e si può pensare all’inventore degli inventori, la cui attività demiurgica non è messa in dubbio da nessuno, a differenza di quella di Boccaccio, il Dante della terza rima. A questa infatti, come in altri casi in cui si parla di invenzioni e inventori, si cercano piuttosto dei ‘precedenti’, come, nel caso, il serventese, che ha ‘origini’, o il sonetto, che ha o avrebbe un inventore. Si può osservare di passaggio che questo tipo di discorso riguarda ‘forme metriche’, —23—
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cioè strutture fondate sulla combinazione di versi e sui rapporti fra loro, in particolare mediante la rima. Se invece si parla di tipi di verso, si può ricordare che gli antichi, tradizionalmente, nominavano alcuni versi – greci o latini di origine greca – dal nome di un loro ‘inventore’: l’alcaico da Alceo, il saffico da Saffo, l’alcmanio da Alcmane e così via; ma se si passa alla tradizione romanza, il discorso sembra essersi posto sistematicamente in termini di ‘origini’. ‘Inventori’ di versi al lavoro si considerano invece gli sperimentatori delle varie forme della metrica cosiddetta ‘barbara’, forse anche qualche poeta moderno nell’ambito della metrica libera, ma in questo campo il concetto di ‘invenzione’ sembra portare con sé una certa connotazione di artificialità. In assenza di riscontri documentari che per tutti i casi citati mancano (forse non per caso), sostenere che un metro sia ‘di tradizione’ o ‘d’invenzione’ è sostanzialmente, se non un atto di fede, una presupposizione ideologica. Ma poiché il caso della sestina ha degli elementi in comune con quello del sonetto (anche la sestina è una ‘forma fissa’, anzi molto più del sonetto, perché le variazioni storicamente note sono molto più marginali ed episodiche), si può almeno dire (come ho già scritto in Anticomoderno) che Arnaut Daniel non l’ha affatto inventata, cioè precisamente non ha inventato la sestina come forma metrica. Arnaut ha composto una canzone che corrisponde a tutte le regole del suo genere metrico, dotandola individualmente di una serie di caratteristiche consentite dal sistema, ma che la rendono diversa da tutte le altre scritte prima; lui stesso non ne ha scritte altre, non l’ha quindi considerata una forma ripetibile, uno schema da riempire quante volte si vuole di nuovi contenuti, come sono le ‘forme fisse’.Nella storia della poesia provenzale questa forma è poi ripetuta due volte, ma nello stesso modo in cui ciò avviene per molte canzoni, cioè in sirventesi costruiti per imitazione di struttura di una canzone preesistente, di cui si riutilizza la melodia. Dante a sua volta ha imitato la canzone di Arnaut una volta sola, per giunta modificandola, con la sostituzione dell’ottonario del primo verso di ogni stanza con un endecasillabo; e volendo sperimentare in proprio un sistema —24—
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di parole-rima ruotate di stanza in stanza, ha scritto novum aliquid atque intentatum, Amor, tu vedi ben che questa donna, cui non si è legato stabilmente un nome (come l’improprio ‘sestina doppia’, o il più appropriato ‘canzone ciclica’) perché le imitazioni sono rimaste circoscritte a qualche episodio (si ricorderà Cino Rinuccini, e il commento di Giovanna Balbi alle sue canzoni). Petrarca, quanto allo schema, non ha fatto che riutilizzare il modello dantesco, ma, lui sì, ripetendolo numerose volte, ne ha fatto una ‘forma fissa’ ripetibile a piacere e l’ha imposta con il suo esempio alla tradizione successiva. Niente dimostra, ma niente nemmeno impedisce che lo stesso sia avvenuto per il sonetto: può essere che il primo sonetto sia stato pensato come una ‘forma fissa’, ma può anche essere che sia stato scritto semplicemente applicando ad un testo particolare le possibilità costruttive offerte dal sistema, e che per qualche ragione questo testo sia poi divenuto un modello riutilizzabile e ripetibile, forse già per il suo primo autore, forse per altri. All’idea che il sonetto sia in sostanza una stanza di canzone sono state mosse alcune obiezioni; le due principali sono riunite insieme da Avalle nel saggio del 1990. La prima consiste nell’osservazione che non si conoscono canzoni le cui stanze siano fatte come il sonetto; la seconda che questa teoria non spiega perché Dante nel De vulgari eloquentia assegni la canzone allo stile elevato e il sonetto allo stile medio-basso. Ma se vale la corrispondenza fra sonetto e cobla esparsa, quest’ultima è già in provenzale un genere di rango inferiore rispetto alla canzone; il problema è semmai che nella pratica di Dante e dei poeti a lui più vicini il sonetto ha un impiego per il quale è difficile parlare di stile medio-basso, e ciò continua a fare difficoltà quale che sia l’origine del sonetto. E che il sonetto, per Dante, sia cosa diversa dalla canzone discende dal fatto che per lui la canzone è per definizione una forma pluristrofica: «una struttura (coniugatio) in stile tragico (cioè in stile elevato) di stanze uguali senza ritornello su un tema unitario» («equalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio», II VIII 8).
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Avalle deduce dalle sue obiezioni che bisogna superare il concetto di ‘derivazione’ (p. 502): A questo punto sorge la domanda se la questione delle origini debba rimanere ancorata alla dimensione diacronica del problema, alla teoria, insomma, della derivazione, e non sia, invece, necessario tentare l’altra strada della creazione ex nihilo, e cercarne altrove il modello originario. Tale possibilità ci viene suggerita da un paio di interrogativi quanto meno inquietanti: per quali ragioni il sonetto simplex l’ha sempre spuntata nei confronti delle altre sottospecie, quelle, tanto per intenderci, elencate da Antonio da Tempo? E ancora: anche se l’ipotesi della derivazione del sonetto dalla stanza della canzone fosse quella corretta, e indipendentemente dal fatto che non si danno stanze della canzone strutturate nel medesimo modo del sonetto, perché è stata scelta la soluzione ferma e intangibile 4·2 + 3·2 e non un’altra?
(Fra parentesi, va ripetuto però che 4·2 + 3·2 è un’evoluzione rispetto alla forma più antica, che è 8 + 3·2 se non 8 + 6). Avalle svolge poi una lunga discussione intorno al significato del 4 (il quadrato) e del 3 (il triangolo) nella cultura matematica, numerologica, alchimistica, riprendendo alcune idee di un articolo di Pötters del 1983 e anticipando l’impostazione del libro dello stesso sulla Nascita del sonetto (1998). Alla teoria esposta da quest’ultimo, come risposta all’interrogativo su quali caratteristiche abbiano fatto del sonetto, da sùbito, una forma fissa e di così grande successo, ha dato recentemente molto credito uno dei migliori esperti di poesia antica, Furio Brugnolo, che ha presentato il libro in anteprima al convegno di Lecce del 1998 e ne ha scritto la prefazione. L’argomentazione di Pötters si fonda sui ‘numeri’ del sonetto. Alcuni di questi si ricavano direttamente, cioè il 14, numero dei
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versi, e l’11, numero delle sillabe per verso (pleonasticamente – e comicamente – l’autore dispone in una griglia versi e sillabe di un sonetto di Giacomo da Lentini e di uno di Borges, per contarli, e sciorina citazioni di Antonio da Tempo, Pieraccio Tedaldi e Antonio Pucci per dimostrare che il sonetto secondo loro è fatto di 14 endecasillabi: infatti lo dicono); ne consegue che il totale delle sillabe è 154. Inoltre, dalla trattatistica antica e dall’analisi dei diversi tipi di disposizione grafica nei manoscritti (l’una e l’altra fonte, si noti però, sensibilmente più tarde del periodo dell’invenzionei), si ricava che la struttura fondamentale è di 4 copulae + 2 voltae, ovvero 4 · 22 + 2 · 33 sillabe; in particolare la disposizione in colonna ci dà una struttura 14 · 11, quella con due versi per riga (comune al Vaticano Latino 3793 e a Petrarca) ci dà 7 · 22, quella con due versi per riga nella prima parte e con le terzine ognuna su un rigo e mezzo conferma la divisione, descritta anche dalla trattatistica, in due parti fondamentali il cui rapporto è 8 : 6 ovvero 4 : 3 ovvero (moltiplicando 8 e 6 per le sillabe di ogni verso) 88 : 66. I numeri 14 e 11, 7 e 22 e il rapporto 4 : 3, viene dimostrato con ampie citazioni, sono fondamentali nelle fonti matematiche del tempo per il calcolo del cerchio e delle figure circolari, e in particolare nel calcolo delle parti della figura magistralis (cerchio, quadrato circoscritto e quadrato inscritto) e dei rapporti fra queste parti. Ne conseguono due figure fondamentali: a) il cerchio del sonetto. Il rettangolo del sonetto (11 · 14) è identico alla figura rettangolare data dal diametro di un cerchio di misura 14 e dal quadrante rettificato dello stesso cerchio, di misura 11. La combinazione di 7 e 22 si verifica nella disposizione grafica su 7 righe: cerchio di raggio 7 e mezza circonferenza 22 (soluzione di Petrarca). Se si parte da una figura magistralis che abbia come area del quadrato inscritto 154 (area del rettangolo del sonetto), le misure 88 (4 · 22) e 66 (2 · 33 oppure 3 · 22) sono rispettivamente l’area dei quattro settori compresi fra il cerchio e il quadrato inscritto (88), e l’area dei 4 settori compresi fra il cerchio e il quadrato circoscritto (66). «Concludiamo: la strutturazione interna del sonetto – quella sua enigmatica bipartizione asimmetrica che da sempre ha affascinato i poeti e messo in crisi i filologi – è descrivibile e illustrabile con i parametri contenuti nella nostra teoria del sonetto» (p. 93). b) Il rettangolo del sonetto. Dato il rettangolo di lati 11 e 14, l’autore si concentra sulle proprietà della diagonale (17,8045...)
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che lo divide in due triangoli rettangoli, detta (p. 124) «linea diagonale che collega la prima con la 154a sillaba del sonetto» (questo dato è il più astratto dal testo fra tutti quelli considerati); «...le misure del triangolo del sonetto si possono combinare in modo tale da dar sempre approssimazioni per eccesso o per difetto della parte aurea dell’unità» (p. 106). In effetti il cateto 11 è sezione aurea dell’ipotenusa (medio proporzionale fra l’ipotenusa e l’ipotenusa – 11); di conseguenza il rettangolo che ha come lati il cateto 11 e l’ipotenusa è aureo (un lato è sezione aurea dell’altro). Inoltre l’area del cerchio inscritto nel quadrato costruito sul cateto 14 (circa 154) è medio proporzionale fra il cerchio inscritto nel quadrato costruito sul cateto 11 (circa 95) e il cerchio inscritto nel quadrato costruito sull’ipotenusa (circa 249). Segue (da p. 126) una descrizione della presenza del rapporto aureo in oggetti naturali e in oggetti d’arte, «...cospicua serie di esempi e di argomenti su cui impostare una ragionevole discussione sugli aspetti matematici della struttura del sonetto» (p. 125). E ancora a p. 153: «...nel sonetto, interpretato come rettangolo dai lati 11 e 14, abbiamo riconosciuto una figura geometrica che contiene un coefficiente di proporzionalità fondamentale. La relazione esistente tra gli elementi metrici basilari del sonetto è infatti identificabile con lo stesso rapporto che dà origine all’effetto di armonia in molti oggetti naturali e in numerosi oggetti artistici, e che è descritto in vari trattati filosofico-scientifici dai pitagorici fino ai moderni teorici della geometria dei frattali: il rapporto aureo». Si conclude (p. 168) che «Il sonetto è geometria in forma metrica o, più precisamente, trasposizione poetica di due valori numerici fondamentali nelle scienze del Medioevo: 14 e 11».
Al termine della sua presentazione al convegno di Lecce, Brugnolo mostra di aspettarsi, soprattutto dagli italiani, un dissenso apodittico, diciamo una semplice scrollata di testa, e propone qualche regola per chi invece volesse opporre a Pötters una controdimostrazione (pp. 105-6; numero i punti in parentesi quadra): Saranno certamente pochi, soprattutto in Italia, coloro che sceglieranno di motivare il loro eventuale dissenso nell’unico modo scientificamente equo e accettabile: quello di una controdimo-
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strazione altrettanto fondata e documentata. La dimostrazione, per esempio, di qualcosa del genere: [1] che tra la sfera delle scienze matematiche (e geometriche) e quella della letteratura non si danno nel Medioevo – e in particolare nella Scuola siciliana – comunicazioni e interferenze, sono compartimenti stagni; oppure: [2] che i valori 11, 14, 154 ecc. sono solo alcuni tra i molti che i matematici dell’epoca utilizzavano per il calcolo del cerchio e delle operazioni connesse; oppure: [3] che quei valori ricorrono, come misure basilari, anche in altre forme metriche dell’epoca o successive (cessando dunque di essere peculiari del sonetto); oppure: [4] che la “fissità” e la predefinizione delle misure del sonetto, che io continuo a considerare il fatto centrale (e quello già da solo basterebbe a giustificare un approccio matematico e numerologico), è invece qualcosa di accessorio o non pertinente, e comunque trascurabile rispetto, per esempio, allo schema delle rime; oppure: [5] che esistono antefatti o antecedenti della forma-sonetto assai più probanti di quelli finora proposti; e così via.
Ora, [1] che nell’ambiente della corte di Federico II ci fosse chi conosceva bene la matermatica e la geometria e che avesse a che fare coi letterati e coi poeti è cosa sulla quale si può consentire facilmente, e che [2] per il calcolo del cerchio e delle operazioni connesse si utilizzassero in particolare i valori 11, 14, 154 ecc. sembra emergere chiaramente dalla documentazione allegata. Che poi [3] tali valori ricorrano come misure basilari solo nel sonetto è ovvio per principio: solo il sonetto è fatto di 14 versi di 11 sillabe, e tutti gli altri valori addotti per la discussione derivano da questi primi due, con operazioni di vario grado di accettabilità. Considerare il numero totale delle sillabe delle due parti del sonetto non è di per sé irragionevole, perché ancora Dante (come Pötters avrebbe potuto dire) fonda un ragionamento sulla disposizione e relazione reciproca delle due parti della stanza (habitudo di fronte con volte, piedi con sirma, piedi con volte) non solo sul numero dei versi, ma anche sul numero complessivo delle sillabe, per cui, per es., una fronte di cinque settenari supererebbe per numero di versi, ma sarebbe superata per numero di sillabe da due volte di due endecasillabi ciascuna (De vulgari eloquentia II XI; l’es. al § 4), e introduce —29—
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tutto ciò come «maxima pars eius quod artis est. Hec etenim circa cantus divisionem atque contextum carminum et rithimorum relationem consistit: quapropter diligentissime videtur esse tractanda» (§ 1) [‘la parte più importante di ciò che riguarda la tecnica: e in effetti essa consiste nella partizione della melodia da un lato, nell’intreccio dei versi e nella relazione fra le rime dall’altro. Bisogna perciò trattarne con la massima diligenza’ (Mengaldo)]. Se si parla invece della diagonale del rettangolo di lati 11 e 14 e dei rapporti matematici che la riguardano, si considerano ancora numeri, ma si sono perse per strada le sillabe, ovvero non si parla più di un testo né di un modello di testo, ma di entità astratte sulle quali si può speculare prendendo il testo come un semplice pretesto. Quanto poi [4] alla fissità e predeterminazione delle misure del sonetto, non si negherà che essa sia un fatto centrale, anche se il polimorfismo del sonetto nella storia dovrebbe un poco relativizzarla, e anche se, non divenendo perciò trascurabile, essa si lega con altri tratti quali appunto lo schema delle rime. Ma qui si rischia la petizione di principio, se si adduce la teoria dell’‘invenzione’ matematica come spiegazione della fissità delle misure, e poi la fissità delle misure come conferma di tale teoria. Ammesso tutto ciò che si può ammettere, restano a mio parere da dimostrare due punti. Il primo, che davvero Giacomo da Lentini o chi per lui abbia compiuto i ragionamenti postulati dalla teoria (non che li potesse compiere), considerando che un sonetto poteva essere scritto la prima volta, dico esagerando, persino per caso, e comunque nell’ambito di un’arte combinatoria che era già molto libera in provenzale e poteva esserlo ancor più in Italia. Il secondo, che la replicazione della forma del sonetto sia dovuta a proprietà che tutto sono meno che facilmente percepibili: anche a voler dare la massima importanza ai rapporti aurei, qui non si parla dell’armonia di forme visibili (il rettangolo aureo in architettura) o udibili (rapporti aurei in accordi musicali), ma di calcoli complessi su proprietà considerate astrattamente; già diverso sarebbe se per es. gli 8 versi della prima parte fossero sezione aurea del —30—
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tutto, o se il numero delle 11 sillabe fosse sezione aurea del numero dei 14 versi. Superata la fase iniziale, la replicabilità e la replicazione del sonetto dipendono semplicemente, a mio parere, dal fatto che ne esistono già molti, e andando avanti ne esistono sempre di più; se quei calcoli fossero la motivazione della forma, si dovrebbe pensare ad una fase iniziale in cui uno o più poeti abbiano voluto coscientemente costruire una forma che li permettesse, e questa o è una cosa che si prova con argomenti di fatto, oppure è un’assunzione ideologica tanto quanto l’idea della tradizione popolare dei metri che piaceva ai romantici (tanto più è necessaria una dimostrazione di fatto, non in termini di possibilità, perché si tratterebbe di un caso del tutto unico, non paragonabile, come si è visto, nemmeno a quello della sestina). Piacerebbe, naturalmente, poter additare (punto 5 di Brugnolo), «antefatti o antecedenti della forma-sonetto assai più probanti di quelli finora proposti». Eppure, ripeto di nuovo, la forma della cobla esparsa si presta ancora bene, se, anche al di là della casistica esplorata da Antonelli, la prendiamo con le caratteristiche che potevano parere essenziali in un ambiente di iniziatori che avevano di fronte una tradizione multiforme in un’altra lingua: un testo breve per musica, non strofico, articolabile con ripetizioni di frasi melodiche. Al grande lavoro svolto da Antonelli nel saggio del 1989, che dimostra la sostanziale possibilità dell’ipotesi, si aggiunge ora un’osservazione importantissima di Pär Larson, che ha fatto notare come un testo di Sordello, sia veramente simile a un sonetto (ed. Boni, trad. di Boni con alcuni ritocchi di Larson): Dompna valen, saluz e amistaz, e tot qan pot de plaiser e d’onor vos manda sel, ses cor galiador, qe vostre hom es et a vos s’es donaz. Vos qer merceis, qomandar li dignas vostre plaiser e tot qant vos bon sia, qar vostre hom sui e per vostre m’autrei, e tot qan vos amaz, am e soblei.
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E qer merceis a vostra[s] dignitas, al gran saber, a la fina beutaz, qe mi dignas tenir per servidor asci cum sel q’es vostre domnegaz; qar, per ma fe, tan vos am e golei cum las clartas des oil[z] ab cui eu vei. Valente donna, saluti ed espressioni di amicizia, [augurandovi] tutto il piacere e l’onore che può, vi manda, senza cuore ingannatore, colui che è vostro vassallo e si è donato a voi; vi chiedo pietà, [pregandovi che] gli vogliate comandare ciò che vi piace e tutto ciò che vi sia gradito, poiché io sono vostro uomo ligio e mi dono a voi come cosa vostra e amo e supplico tutto ciò che voi amate. E chiedo mercé alla vostra dignità, al [vostro] grande senno, alla [vostra] perfetta bellezza, [pregando] che vi degniate di tenermi per servitore, così come colui che è vostro vassallo; poiché, in fede mia, io vi amo e vi desidero ardentemente così come la luce degli occhi con cui vedo.
Questo non è un frammento di due strofe di otto versi, con la seconda mancante degli ultimi due, perché lo schema dei secondi sei versi è diverso, nella parte corrispondente, da quello dei primi otto; per la stessa ragione non si può trattare di una cobla esparsa seguita da una tornada, perché lo schema di una tornada di sei versi dovrebbe essere uguale a quello degli ultimi sei versi della stanza. Lo schema delle rime non è quello di un sonetto, ma come nel sonetto i 14 versi sono ripartiti 8+6, e l’inizio della seconda parte riprende un sintagma della prima parte (qer merceis al v.5, E qer merceis al v. 9) come avviene in quasi tutti i sonetti della Scuola siciliana, come ha messo in luce Menichetti nel 1975. Non si deve naturalmente vedere questo testo come un antecedente del sonetto, non foss’altro perché non è databile (sebbene possa appartenere ad anni vicini alla fase antica della Scuola siciliana), ma si può escludere che sia un’imitazione del sonetto dei Siciliani, perché i poeti italiani, quando hanno voluto rifare il sonetto in provenzale, l’hanno rifatto tale e quale (si vedano i due sonetti in provenzale di Dante da Maiano e quello di Paolo Lanfranchi di Pistoia). —32—
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Non fa dunque particolare difficoltà l’ipotesi che chi ha scritto il primo sonetto abbia in sostanza composto una stanza di canzone. Per quanti modelli di stanze fossero disponibili, non c’era una ragione cogente perché qualsiasi stanza nuova dovesse corrispondere ad un modello già dato; il problema non è come spiegare un singolo testo fatto come il sonetto, ma come spiegare perché questa forma sia subito parsa ripetibile e sia stata di fatto ripetuta con tanto successo, diventando una forma fissa. Quanto a questo si può formulare un’ipotesi indimostrabile come le altre, ma ragionevole almeno perché coerente con il sistema della poesia delle corti europee dell’epoca, dove la poesia lirica in volgare è sempre per musica, e la ripetizione della struttura formale è l’altra faccia di quella della melodia: alle origini ci sarebbe il successo di una melodia, un sonetto appunto, che avrebbe trascinato la scrittura di numerosi testi della stessa forma, tanto da creare rapidamente una moda e una forma metrica a sé anche al di fuori dell’uso musicale. Non ci dovremmo almeno più domandare (come giustamente è stato fatto) il perché di una tale frequenza dell’endecasillabo in un ambiente poetico avaro di endecasillabi nella canzone, e soprattutto non incline ad usare l’endecasillabo da solo, perché l’eccezione sarebbe una sola, il primo esemplare. Queste pagine riprendono con qualche modifica e aggiunta la conferenza tenuta ai Cursos de otoño dell’Università di Siviglia del 2002 (27 settembre). Sono vivamente grato a Esteban Torre e ai colleghi di Siviglia dell’accoglienza e della discussione.
RIFERIMENTI Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in Opere minori, II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, pp. 3-237 Dante Alighieri, Vita Nuova, a cura di Domenico De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi 1980. Annelise Alleva, Lettera in forma di sonetto, «Paragone», 452, 1987.
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PIETRO G. BELTRAMI
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JOSÉ DOMÍNGUEZ CAPARRÓS ¿Qué es el verso moderno? ¿A qué época pertenece exactamente? ¿Qué características tiene el verso moderno, entendido, lógicamente, como los versos modernos? Dice Navarro Tomás (1973: 183), al principio de su trabajo sobre Gertrudis Gómez de Avellaneda: Nombres preeminentes por su representación innovadora en la larga historia de la versificación española son los de Gonzalo de Berceo, maestro de la cuaderna vía; Juan de Mena, principal artífice del verso de arte mayor; Boscán y Garcilaso, adaptadores del endecasílabo italiano, y Rubén Darío, indiscutible definidor de los ritmos modernistas.
En la lista de grandes nombres de la historia del verso, el moderno debe asociarse, pues, a Rubén Darío (1867-1916). Coincidiríamos, así, con la observación de Dámaso Alonso (1952: 549), cuando sitúa en 1896 (publicación de Prosas profanas) el comienzo del segundo período áureo de la poesía española. El primero es el que empieza en 1526 (conversación en Granada) con la decisión de cultivar los metros endecasilábicos. A fines del siglo XIX, los nuevos poetas de América, con Rubén Darío a la cabeza, atacan, según P. Henríquez Ureña (1961: 17), la teoría del verso silábico y acentual, cuando «se lanzaron a ensayar toda especie de formas métricas desusadas, hasta llegar al moderno verso libre».1 El cambio más vistoso que sufre la versificación culta a fines 1
Tampoco tiene dudas Regino E. Boti (1921: 365-366) sobre el mayor peso de la poesía americana en la renovación del verso moderno.
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del siglo XIX es la canonización de formas de verso irregular que Pedro Henríquez Ureña (1961: 249-250) concreta en la restauración del “amétrico” y el “acentual”, y en los nuevos ensayos de la versificación de pies silábicos y de versificación cuantitativa. Explica que el impulso de la uniformidad isosilábica durará hasta 1895 (1961: 213). Habría que completar el carácter de la moderna versificación diciendo que también el verso silábico tradicional amplía el repertorio de sus formas. Muy frecuentemente hace esto con el ensayo de nuevas combinaciones acentuales que llevan a explorar las posibilidades silabotónicas del verso español. Ensayos que hay que considerar claros precedentes de la versificación moderna de cláusulas, que P. Henríquez Ureña no duda en calificar como forma de métrica irregular.2 Desde la amplia perspectiva que proporciona el panorama de una historia de la versificación europea, M. L. Gasparov hace observaciones que caracterizan muy bien el verso culto español, teniendo en cuenta las pocas páginas que forzosamente puede consagrar a nuestra métrica en un campo tan grande de estudio. Esto tiene la ventaja de que debe ir a lo verdaderamente esencial dentro de contexto tan ancho; y lo fundamental es que hasta fines del siglo XIX los metros dominantes son el octosílabo (forma corta) y el endecasílabo (forma larga con un «rudimentary sylla2
P. Henríquez Ureña, al no ver la versificación de cláusulas sobre el fondo de un ritmo silabotónico general del verso regular, destaca solamente la ametría (relativa, diríamos nosotros) y por eso la asocia a la versificación libre, la esencialmente amétrica. En definitiva, lo que no considera P. H. U. es el carácter silabotónico del verso español, pues le interesa más estudiar su objeto (la versificación irregular) exclusivamente a partir del número de sílabas. Ya en 1905, en su trabajo sobre Rubén Darío, incluye el Nocturno de José Asunción Silva y la Marcha triunfal de Rubén Darío en los ejemplos de verso libre sujeto a un “ritmo más o menos fijo” (P. Henríquez, 1905: 213). Sin embargo, el desarrollo del silabotonismo en nuevas formas de verso silábico -desarrollo que se da ya en el neoclasicismo (Iriarte) y en el romanticismo- tiene una expresión final en la versificación de cláusulas. De hecho, el análisis silabotónico es empleado (en la misma forma en que luego se empleará en la versificación de cláusulas) por Andrés Bello para estudiar toda la versificación. En la discusión entre E. de la Barra y E. Benot sobre el nuevo tipo de versificación subyace como una de las cuestiones importantes, la de si el verso de cláusulas es invento nuevo o existe de antes (Véase J. Domínguez Caparrós, 1975: 101-105).
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botonic, iambic, rhythm»; los demás metros constituyen «a metrical periphery» (1996: 137-140). Tendríamos aquí enunciado lo que sería la nota más destacable de la versificación española desde el siglo XVI hasta fines del XIX.3 El resumen del recuento de la versificación de todas las obras de Cervantes aporta datos que confirman totalmente la observación de Gasparov. En efecto, de un total de 42.046, son octosílabos 23.377, endecasílabos 16.656, y heptasílabos 1.454; el resto de los versos, en los que hay que incluir principalmente hexasílabos, 96 versos de arte mayor, y versos de estribillos y cantares, suman sólo 559 (Domínguez Caparrós, 2002: 60).4 Para hacernos una idea más concreta de cuál es la métrica de la poesía culta moderna, es decir, de cuáles son las formas de los versos modernos, mencionemos algunas de las más llamativas. Pedro Henríquez Ureña (1961: 236-242), que sitúa en Prosas profanas el resurgimiento de la versificación irregular en la poesía culta, nos puede servir de guía, cuando hace la relación de metros que «adquieren nuevo brillo» en la mencionada obra: el doble octonario, en “Año nuevo” (1894); alejandrino; eneasílabo, combinado con el alejandrino, en “Responso a Verlaine” (1896); decasílabo (anapéstico y bipartito); dodecasílabo (anfibráquico y de seguidilla); endecasílabo, en todas sus variedades, entre las que son dignas de destacar la acentuada sólo en 4ª y la acentuada en 4ª y 7ª. Entre los poemas de versificación irregular cita: Canto de la sangre (1894), La página blanca (1896), Dice mía (¿1895-6?), Heraldos; y el ensayo de prosa rítmica de El país del sol (1893). En Cantos de vida y esperanza (1905) destaca el verso cuantitativo a la manera clásica de la “Salutación del Optimista” (1905), que «sugiere de modo vago el rumor del 3
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El carácter silabotónico latente del verso español ha estado presente en las observaciones de los tratadistas españoles sobre el endecasílabo siempre. J. Coll y Vehí, por ejemplo, dirá que es «el verso más artificioso, el que más importancia concede al ritmo de acento», por eso es «el único que puede andar con paso firme y seguro sin la muleta del asonante o del consonante» (1866: 248-9). Rengifo (1606: 14-15) hablaba de ocho maneras de acentuarlo y que «son las que hazen el verso más corriente, grave, y sonoro». Pedro Henríquez Ureña (1905: 211) dice que antes de Rubén Darío, «los más de nuestro idioma, [fueron] poetas de endecasílabo y de octosílabo».
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hexámetro» –verso que también empleará en la “Salutación al águila” (1906), de El canto errante (1907)–; la versificación fundada en un pie acentual (o ó o), como en la “Marcha triunfal” (1895); ensayos de verso libre, no en forma amétrica, sino con fluctuación alrededor de un paradigma, como el de la silva italiana –así, en la segunda parte, vv. 21-35, de «Divina psiquis...»–, con adición de alejandrinos y eneasílabos en «Oh, miseria de toda lucha...»; o como el de los ritmos octosilábicos –versos de 12, 8, 6 y 10 sílabas en “¡Aleluya!”–; y ensayos claramente libres como el de “Augurios”. Versificación libre moderna que se manifestará en todo su esplendor en los 1001 versos del “Canto a la Argentina”, 1910. Podríamos remitir igualmente a la lista de 37 formas de metros registradas por Tomás Navarro Tomás (1973: 220-221) en la poesía de Rubén Darío. Está claro que si vamos a tomar el verso rubeniano como punto de partida y símbolo del verso moderno español, hay que considerar una historia de preparación del mismo, de innovaciones, renovaciones o nuevos planteamientos que abocarán en el verso asociado a la poesía del nicaragüense. El principio de tal historia, en sus aspectos teóricos y prácticos, debe situarse en el siglo XVIII, siglo de arranque de la modernidad también en la métrica. El nombre de Tomás de Iriarte (1750-1791) tiene que asociarse al comienzo de la práctica del verso moderno. El de la segunda edición de la Poética de Luzán (1789), y, sobre todo, el de Juan Francisco de Masdeu (1801), al de la teoría moderna.5 En las conclusiones de su trabajo sobre la versificación de Iriarte, D. C. Clarke (1952: 419) ha señalado las aportaciones del poeta canario a la métrica, para terminar diciendo que si vemos that all the rhythmic patterns tried by Iriarte flourished vigorously, we can surely say that Iriarte’s pioneering had some part in 5
Ejemplo elocuente del cambio de actitud de Luzán son las adiciones que en 1789 hace al capítulo XXII del libro II. Como muestra, obsérvese la cita de versos de Berceo o Gil Polo para el de catorce sílabas; de Jerónimo de Villegas, para el verso de arte mayor; o eneasílabos (Luzán, 1977: 360-361). Coll y Vehí (1866: 109) destaca el valor de ruptura que tiene la teoría de Masdeu, quien «se limitó a demostrar, y con sumo acierto, la verdadera influencia del acento en el verso castellano, haciendo caso omiso de la teoría del verso castellano a imitación del latino».
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preparing a foundation for modern metrical practice.
La observación de Pedro Henríquez Ureña (1961: 210-211), hecha desde el punto de vista de la historia de la versificación irregular, apoya nítidamente el comienzo de la constitución del verso moderno a fines del siglo XVIII: Hacia el final del siglo XVIII, la antigua versificación irregular ha desaparecido a tal punto de la literatura, que ni siquiera sus reliquias parecen peligrosas a los clasicistas académicos, y se comienzan a exhumar versos desusados, como el endecasílabo de gaita gallega o el eneasílabo o el dodecasílabo o el decasílabo bipartito, para emplearlos en combinaciones isosilábicas e isométricas.
Encontramos en estas palabras un buen índice de nuevas formas del verso isosilábico. Y, por supuesto, no falta la mención de Iriarte y de Leandro F. de Moratín.6 En una de las notas de su Espagne poétique (1826), el buen conocedor de la versificación que fue Juan María Maury nos da un testimonio precioso acerca de la apertura del canon en su tiempo y del lugar que en dicho proceso ocupa Iriarte: la poética española, dice, «donne, pour ainsi dire, carte blanche aux versificateurs: elle admettra toutes les mesures dont il saura tirer parti». Y en nota explicativa de esta afirmación, dice que aprovecha esta facultad el elegante autor de nuestras fábulas literarias, D. Tomás de Iriarte: «il a joint à la différence des mesures différentes symetries entre elles et les rimes, et il fait remarquer quarante combinaisons» (1826: 23).7 El soberbio monumento de la historia de la métrica española construido por Tomás Navarro Tomás (1956) da cuenta de la 6
En su trabajo sobre la métrica de los poetas mexicanos en la época de la independencia, dice P. Henríquez Ureña: «D. Tomás de Iriarte y D. Leandro Fernández de Moratín habían ensayado nuevas combinaciones métricas, que no se aprovecharon en el romanticismo, sino más bien hoy, en el modernismo iniciado en América» (1961: 362). 7 Es el mismo Iriarte quien advierte de la diversidad de formas empleadas: «[...] para llamar la atención de los jóvenes que los lean, y se inclinen al arte métrica castellana, se ha añadido al fin de la obra un breve índice de los cuarenta géneros de metro en que está compuesta, empezando por los de catorce sílabas y acabando por los
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riqueza de las formas del verso español desde la segunda mitad del siglo XVIII hasta Rubén Darío.8 La interesante, original y no escasa producción de teoría métrica, sobre todo en el siglo XIX, ha sido presentada en el panorama general que tracé yo mismo en 1975. Una ojeada, por ejemplo, al diccionario de testimonios sobre formas métricas que va al final de mi estudio bastará para demostrar la novedad y variedad adquiridas por el verso español en este período. El comentario que intento a continuación debe ser forzosamente limitado. Primero, porque se centra en la estructura del verso, prescindiendo de los esquemas métricos de estrofas o características del empleo de la rima, por ejemplo. Segundo, porque tampoco es posible una descripción y comentario de las muchas formas adoptadas por cada uno de los versos. Trataré, pues, de aislar unas características generales de la teoría y la práctica del verso español desde fines del siglo XVIII a fines del siglo XIX, para ver cómo se va preparando la constitución del verso moderno. Cuatro son las notas que me parecen dignas de destacar: primero, la irrupción de un sentido histórico en las consideraciones métricas; segundo, la importancia del análisis de la estructura interna del verso; tercero, la ampliación de los límites silábicos del verso tradicional; y cuarto, la indagación en las posibilidades del silabotonismo. Comento y ejemplifico brevemente cada una de estas notas.
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de cuatro» (1963: 4). La lista confeccionada por el mismo autor puede leerse en págs. 90-91; y un comentario del editor, Alberto Navarro González, en págs. L-LIII del prólogo al volumen 136 de Clásicos Castellanos, que contiene las poesías de Iriarte. Andrés Bello decía: «No hai lengua moderna en que los accidentes métricos sean capaces de tanta variedad de combinaciones» (apud J. A. Dreps, 1939: 35).
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1 Ignacio de Luzán (1789), Luis Joseph Velázquez (Orígenes de la poesía castellana, 1754; 1797, 2ª ed.), el P. Martín Sarmiento (Memorias para la historia de la poesía y poetas españoles, 1775), o Tomás Antonio Sánchez (Colección de poesías castellanas anteriores al siglo XV, 4 vols., 1779-1790) demuestran un interés por las formas pasadas de la métrica castellana. Es muy llamativa la mayor presencia de noticias históricas en la segunda edición de la Poética (1789) de Luzán. Así, por ejemplo, en el capítulo nuevo sobre la rima (el XXIII), al tratar del verso suelto (el que no tiene rima ni asonante), se pregunta por lo que hubiera sido el verso endecasílabo si en el tiempo en que se introdujo en la poesía moderna la rima no hubiera tenido la importancia que tenía. Piensa Luzán (1977: 371) que acaso los tendríamos ahora con toda la libertad y variedad en la frase, en la situación de acentos, en las transposiciones, en el pasaje de unos versos a otros, en las pausas y suspensiones y, en una palabra, con toda la perfección de que yo los juzgo susceptibles.
Las características del verso son hijas de las circunstancias de su tiempo y susceptibles, por tanto, de modificación.9 Igual sentido histórico puede apreciarse en el capítulo XXIV, “Del buen uso de la rima”, pues no hay que olvidar que es la experiencia y la crítica las que proporcionan las reglas y observaciones necesarias a quienes quieren perfeccionar sus obras (1977: 375). No hay duda de que el sentido histórico es factor esencial de fomento de un sano relativismo que influye en las circunstacias propicias para la innovación y la discusión. La métrica entra en el campo de la historia, que explicará y relativizará el significa9
El mismo sentido histórico se manifiesta en este capítulo cuando trata del asonante y su origen. Por cierto que Luzán comenta muy bien cómo casi todos los romances del Cancionero general tienen rima consonante, lo mismo que en los de casi todos los poetas que vivieron hasta principios del reinado de Felipe II (1977: 368).
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do del uso de las distintas formas de versificación. Dos ejemplos nada más como índice de la normal presencia del sentido histórico en el pensamiento métrico del siglo XIX. Cuando Miguel Agustín Príncipe ejemplifica el bisílabo con versos de Zorrilla, en Un testigo de bronce, habla de su sistema de variar los metros según su capricho le dicta; moda que se generalizó entre nosotros cuando nos invadió completamente la calentura del romanticismo. La escuela conocida con este nombre nos ha traído, a decir verdad, un gran número de cosas buenas, mas también nos las trajo muy malas, entre ellas una más que mediana perversión en ciertas ideas, un desdén injustificable en lo que hace relación a ciertas formas, y una muy regular anarquía en materia de versificación (1861-2: 496).
A los ensayos románticos aluden, sin duda, también las siguientes palabras de José Coll y Vehí, que constituyen el segundo ejemplo. Dice en sus Elementos de Literatura (1856; 1857, 2ª ed.: 204-205): Algunos poetas contemporáneos, esforzándose en dar variedad y novedad al metro, han atendido más a la parte puramente musical que a la verdad y energía de la expresión. Otros, llevados de un necio empeño en apartarse de las formas clásicas y aspirando a una imitación, pueril, imposible y viciosa en la música, y más defectuosa e imposible todavía en la versificación, han reunido los metros más opuestos y caprichosos en un mismo poema, convirtiendo la poesía en lo que los franceses llaman con toda propiedad un tour de force.
El sentido histórico se conjuga muy bien con la ampliación de formas silábicas o la indagación en estructuras silabotónicas que luego comentaremos. Antes veamos algo que tiene que ver con la tendencia de la teoría métrica del momento: su preocupación por profundizar en el descubrimiento de la estructura interna del verso.
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2 Habla M. L. Gasparov de un complejo de inferioridad de las formas de verso silábico europeo respecto del verso clásico, que se veía mucho mejor organizado. Por eso se trataba de guardar cualquier reliquia que recordara, en la terminología al menos, un origen en los “pies” clásicos (Gasparov, 1996: 143). El prestigio del modelo clásico grecolatino de los pies métricos está atestiguado en la métrica española desde Nebrija (Díez Echarri, 1970: 153-158). Pero, aunque todavía en Luzán pesa el ejemplo del verso clásico latino, es muy destacable el cambio radical que se produce en el siglo XIX: el análisis de la estructura del verso se basa en el acento exclusivamente; y si en algún caso, como ocurre en Bello, conserva parte de la terminología de la métrica latina, el sentido de dichos términos está despojado de un significado relacionado con la cantidad, pues sólo se considera el número de sílabas y el lugar del acento. Como es sabido (Domínguez Caparrós, 1975: 83-111), Masdeu (1801), Sinibaldo de Mas (1832), Bello (1835) –seguido por E. de la Barra y por E. Benot– y Miguel Agustín Príncipe (1861-2) proponen distintas formas de análisis de la estructura del verso. Los versitos conforman los versos compuestos –son compuestos todos los versos que tienen más de tres sílabas– de Masdeu [«Temor / en este pecho / no reside»]. La colocación de los acentos en el verso conforma, en el sistema de Sinibaldo de Mas, lo que llama 1ª, 2ª, 3ª... para designar el lugar de la sílaba acentuada contando desde el principio del verso o desde el acento anterior [«El dúlce lamentár de dos pastóres»: 2ª, 4ª, 4ª]. La cláusula rítmica de Bello designa cada una de las partes que resultan de dividir el verso en grupos iguales de dos o tres sílabas con el acento en el mismo lugar del grupo, lo que da la lista de cinco clases distintas de cláusulas. Los grupos silábicos («o como deban denominarse») de Miguel Agustín Príncipe, que dan una idea aproximada de lo que eran los pies o metros de los antiguos, se constituyen a partir de un acento y las sílabas átonas —45—
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que siguen hasta el acento siguiente (que es el principio de otro grupo): «Nóchecrü / èl me / cércapavo / ròsa». Hay que destacar la similitud de este modo de dividir con el de Tomás Navarro Tomás. Sistemas como los mencionados no sólo sirven para analizar la estructura de todos los versos, sino que serán uno de los caminos por los que se propondrán nuevos tipos de versos castellanos, como ilustran muy bien Sinibaldo de Mas y Eduardo de la Barra.10 Del interés que tiene la lectura de estos tratados para la teoría moderna del verso, sólo voy a dar el ejemplo de Masdeu cuando considera como última de las tres formas de endecasílabo la que describe como resultado de la unión de tres versos menores; el primero de cinco pies [sílabas]; y los otros dos de tres pies cada uno. Sále la Auróra = con rúbios = cabéllos, 1.2. 3. 4.5. 1. 2. 3. 1. 2. 3. Dándo a las flores = colóres = muy béllos. 1. 2. 3. 4. 5. 1. 2. 3. 1. 2. 3.
Se trata del raro endecasílabo dactílico (también llamado anapéstico), que se confunde con el de gaita gallega. Pero lo curioso es lo acertado de su vinculación con una de las formas del italiano, cuando dice: 10
Hasta en un verso tan regularizado en el uso y en la teoría como el endecasílabo señala Eduardo de la Barra posibilidades de innovación: «Lo dicho hace ver que pueden componerse nuevos endecasílabos fuera de los conocidos, dáctilo y yambo, de dos maneras: o juntando dos versos, o combinando cláusulas rítmicas de modo que sumen once sílabas y agraden al oído» (1891: 58). Sólo por un afán de resaltar las innovaciones modernistas se explica que Max Henríquez Ureña, en sus Estudios de versificación (1913) afirme que los preceptistas del XIX (entre los que cita a Hermosilla, Arpa y López, Gil y Zárate, Coll y Vehí, Campillo) ignoran el secreto del ritmo, «desconocían la estructura íntima del verso» (1913: 91). En lo que respecta a Coll y Vehí, esto no es exacto; y, por supuesto, lo sería menos si hubiera mencionado a Bello. Para Max Henríquez: «La versificación tiene una estructura íntima que está sometida a fórmulas mecánicas y precisas, como lo está la música» (1991: 92). Destaca a Eduardo de la Barra como primer tratadista que intenta comprender el verso, al principio del modernismo. Tampoco resulta ocioso recordar que Masdeu (1801: 52) considera la «armonía intrínseca» del verso en función del número de sílabas y la disposición de los acentos.
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aunque muy del gusto de Dante, y de otros poetas antiguos; ya no se usa hoy día, sino en ciertos cantares proprios de marineros, en cuyo estilo han escrito algunos italianos elegantemente (1801: 73-74).
Elemento esencial de la estructura del verso es también la pausa, que en este período es objeto especial de discusión y análisis también. Con recordar a A. Bello y sus propuestas definitivas sobre el asunto, queda probada la atención que en este momento despierta el estudio del interior del verso. Cómpletese el esfuerzo de definición con las muchas observaciones acerca del mejor lugar de estos descansos en el interior del verso, sobre todo en los versos largos. En este sentido, el endecasílabo es objeto privilegiado de análisis. Sarmiento o Jovellanos, Maury o Bello, Lista o Coll y Vehí, entre otros muchos, pueden ofrecernos ejemplos de esta atención al lugar de los descansos en el interior del verso, por no hablar de la atención prestada al encabalgamiento (J. Domínguez Caparrós, 1975: 237-294, 424429). El sentido y la importancia de los análisis de la estructura interna quedarán más claros cuando digamos algo más del silabotonismo. Pero antes conviene referirse a la ampliación de los límites silábicos del verso.
3 Fundamentalmente se trata del ensayo de nuevas clases de verso silábico. Como punto de partida, para percibir las nuevas formas, podemos tomar la lista de tipos de verso que se establece en el libro clásico de Rengifo (1606: 12): Ay nueue maneras de versos. De Redondilla mayor, y su quebrado: de Redondilla menor: Italiano, y su quebrado: Esdrúxulo, y su quebrado: de Arte mayor: finalmente verso Latino imitado.
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Es decir, hay versos de ocho y de cuatro sílabas; de once y de siete; de once y de siete esdrújulos; de arte mayor, que Rengifo considera silábico, con acento en la segunda y quinta de cada uno de los dos hemistiquios hexasílabos; imitación del verso latino.11 En mi trabajo sobre historia de las teorías métricas (Domínguez Caparrós, 1975: 222-233) expuse los datos más destacables que explican cómo la lista de clases de versos silábicos no es única en los siglos XVIII y XIX. Sólo quiero subrayar, como novedad más importante respecto de Rengifo, la temprana presencia del verso de catorce sílabas o alejandrino en las propuestas de los tratadistas. Visto desde una perspectiva amplia, el silabismo de la métrica española se distingue, en su época posmodernista y contemporánea, por la integración y protagonismo del alejandrino, muchas veces mezclado con los ritmos endecasilábicos, que incluyen el heptasílabo.12 El establecimiento de la lista completa de los tipos del verso moderno es una tarea muy dificultosa. La mejor referencia sigue 11
Aunque el adicionador de Rengifo en el siglo XVIII, Joseph Vicens (1759: 15), da cabida en su lista a tres géneros de quebrados (de cinco, de tres y de dos sílabas) y a versos de nueve y de diez sílabas. Pero se trata, en el caso de los quebrados, de versos que «usan los más célebres Poetas, ya en las Seguidillas, ya en los Villancicos; como en otras Poesías, conformándose con la Música, que así requiere a veces los sobredichos Quebrados». En cuanto a los eneasílabos y decasílabos, se refiere a los del estribillo del villancico, de que trata en el capítulo 41. Parece que Vicens está pensando en formas de versos que aparecen en manifestaciones musicales casi siempre irregulares. Por eso no puede pensarse en una ampliación de la versificación silábica a principios del siglo XVIII. Más bien habría que decir lo contrario, si tenemos en cuenta que P. Henríquez Ureña (1961: 207-9) habla precisamente de una transformación, «por influjo de los hábitos literarios», de los metros irregulares en la poesía culta entre 1675 y 1725. Por ejemplo, la seguidilla fija su forma en la alternancia de heptasílabo y pentasílabo; la gaita gallega se reduce a la combinación deca-dodecasilábica, con posibilidad de algún quebrado hexasílabo y a veces endecasílabo anapéstico. Habría que pensar, entonces, que el siglo XVIII empieza con una regularización, por influjo de la literatura culta, pero, al mismo tiempo, habría que pensar también que esta regularización pudo influir, con sus nuevos ejemplos de versos, en la búsqueda de nuevos ritmos en el verso silábico. 12 Combinaciones muchas veces perceptibles en el verso libre moderno. Véase, entre los no escasos ejemplos de la poesía contemporánea, un libro como Variaciones sobre un tema de La Bruyère (1974), de Guillermo Carnero.
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siendo la de Tomás Navarro Tomás (1956), pero no hay duda de que todavía quedan parcelas por investigar y datos por sistematizar. Una de las dificultades mayores del estableciemiento del canon13 métrico del verso español es el del paso de una forma que se origina o vive en el extrarradio al reconocimiento oficial. Pues aquí se plantea el problema de historia literaria de la relación entre corrientes oficiales y otras no reconocidas como tales, o la cuestión de géneros altos y otros considerados menores. Si se fija previamente el canon de poetas y obras en el que se tiene que basar el establecimiento de las formas métricas canónicas, se dejarán al margen muchos datos sin duda interesantes para la historia de la versificación. Recuérdense las palabras de Rubén Darío en su prefacio a Cantos de vida y esperanza (1905): En cuanto al verso libre moderno..., ¿no es verdaderamente singular que en esta tierra de Quevedos y Góngoras los únicos innovadores del instrumento lírico, los únicos libertadores del ritmo, hayan sido los poetas del Madrid Cómico y los libretistas del género chico?
Otro ejemplo. El ovillejo, que en la historia canónica de la poesía va de su inventor, Cervantes, a Sor Juana Inés y luego al Don Juan Tenorio de Zorrilla, conoce otros episodios intermedios. Esta historia menos conocida explica cómo de las derivaciones barrocas de Sor Juana se pasa a una recuperación de la forma cervantina originaria en poesía no canónica de propaganda política en el siglo XIX, y es un juego al que no renuncia Rubén Darío –aunque se trate de muestras no recogidas en sus libros de poesía– y que aún sigue vivo en la poesía porteña argentina (Domínguez Caparrós, 2002: 147-151). Hay que estar de acuerdo una vez más con Pedro Henríquez Ureña (1961: 18) cuando dice: 13
El empleo del concepto de canon en métrica no data de la moderna discusión general sobre el canon en teoría literaria. Ya en 1913, en su estudio sobre la Avellaneda, R. E. Boti (1913: 387) habla de su rebelión «contra lo trillado del canon» para comentar las innovaciones de la cubana en la décima espinela. También Pedro Henríquez Ureña (1961: 213) se refiere al «canon isosilábico».
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El estudio de la versificación castellana es mucho menos sencillo de lo que hasta hace poco parecía.
Pueden trazarse, pues, dos historias de la métrica: una primera sería la de registro y recuento estadístico de todas las manifestaciones del verso en todos los géneros. El enunciado de tal proyecto da una idea de la casi imposibilidad de acabar una tarea semejante, aunque deba hacerse en parcelas concretas (por épocas, géneros, autores, formas determinadas); y de que la magnífica guía de T. Navarro Tomás no ha agotado el campo de la investigación métrica. La otra historia sería la que se pliega a la historia de la poética y analiza la versificación de las obras que han pasado la prueba del tiempo y perduran en el canon de modelos literarios. Por supuesto que esta distinción teórica no prohíbe el trasvase de datos de un tipo a otro de investigación. Por lo que se refiere al período que nos ocupa, el de la construcción premodernista del verso, parece que las innovaciones de Tomás de Iriarte, por ejemplo, sin la consagración posterior de los poetas más representativos, no hubieran pasado de simples curiosidades. Hay ensayos de poetas que no aparecen en las historias de la literatura canónicas y que sin embargo son muy innovadores en las formas métricas. ¿Hasta qué punto influyeron o son nada más que un síntoma que anuncia los nuevos tiempos? El caso del malagueño Juan María Maury (1772-1845), por ejemplo, no deja de llamarnos la atención. Su composición El festín de Alejandro. Oda en ritmo ditirámbico, traducción de un poema del inglés J. Dryden (1631-1700), es sorprendente desde el punto de vista métrico.14 Los cinco últimos versos son citados por Pedro Henríquez Ureña (1961: 212) como ejemplo del desorden de –combinaciones medianamente libres– que a 14
Publicado por Leopoldo Augusto de Cueto en el vol. 67 de la BAE, págs. 173-174, el poema consta de 141 versos, que van de las 3 a las 14 sílabas, pero no hay de 13 sílabas. Tiene rima consonante; sólo 4 versos quedan sueltos, de los que dos son esdrújulos (14 y 17), y dos terminan en eco (68: hunden, hunden; y 94: mera, quimera). Ninguna estrofa repite esquema, y en los versos hay un ritmo acentual muy marcado: eneasílabo (yámbico y anfibráquico), dodecasílabo anfibráquico, octosílabo trocaico, alejandrino yámbico, decasílabo anapéstico, heptasílabo yámbico, endecasílabo yámbico.
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veces aparecen en óperas, cantatas y otras creaciones cortesanas a principios del siglo XIX.15 Poetas consagrados que interesan para el proceso de construcción del verso moderno son Espronceda, Zorrilla, Bécquer, Rosalía de Castro y Rubén. Puede haber una línea de poetas menos influyentes, en la que estaría, por ejemplo, Gertrudis Gómez de Avellaneda, pero de gran interés para la historia de la métrica. Una vez más, T. Navarro Tomás nos da pistas útiles para comprender el significado de algunos de estos poetas en el proceso de construcción del verso moderno, cuando dice: Los poetas románticos de lengua española más señalados por la variedad de su métrica fueron Espronceda, Zorrilla, Echeverría y la Avellaneda (1973: 198).
Pero casi interesa más el lugar donde sitúa su originalidad: en la atención a «los efectos del ritmo y sonoridad del verso», más que en «la variedad de sus combinaciones estróficas». Y una nota que apoya la tesis que venimos defendiendo es que en esto se diferencia de la versificación del siglo de oro, que es «más rica en estrofas que en metros». El afán por desentrañar los principios de la estructura interna del verso y proponer nuevas formas tiene su máximo representante en Sinibaldo de Mas. Entre sus innovaciones, como recoge Navarro Tomás,16 se encuentran ejemplos únicos, o la primera manifestación de versos luego empleados en el modernismo. Es ésta una actitud que se desarrollará más adelante entre los tratadistas relacionados con el modernismo, empezando por 15
Hay que señalar que los cinco últimos versos, a que se refiere Henríquez Ureña, tienen un marcado ritmo acentual: ternario en los dodecasílabos (acento en 2ª y 5ª de cada hemistiquio) y decasílabos (acento en 3ª, 6.ª y 9.ª); binario en el último verso, que puede leerse como alejandrino (7 + 7) que acentúa las sílabas 2.ª, 4.ª y 6.ª de cada hemistiquio, o como tridecasílabo que acentúa todas las sílabas pares, si se hace sinalefa entre los hemistiquios: Y, a fuer de nueva Helena, incendia nueva Troya. Está claro que Henríquez Ureña está pensando exclusivamente en el número de sílabas, como cuando trata la versificación de cláusulas, si aplica el calificativo de «medianamente libres» a estos versos, sometidos a un ritmo acentual tan estricto. 16 Navarro Tomás tiene en cuenta la edición de 1845, que es la 3.ª de las cinco que conoció su Sistema musical de la lengua castellana entre 1832 y 1852.
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Eduardo de la Barra, pero también Eduardo Benot. Y ya en el siglo XX, Ricardo Jaimes Freyre (1912), Max Henríquez Ureña (1913), Pérez y Curis (1913) dan testimonio en sus tratados de la efervescencia teórica que indaga formas de distintos ritmos en el verso.17 Algo más tarde, Julio Vicuña Cifuentes (1929) o los estudios de Julio Saavedra Molina representan muy bien el interés por el análisis de los secretos del ritmo del verso moderno. Es Hispanoamérica quien tiene la ventaja sobre España en el terreno de la reflexión sobre el verso. Pero más que entrar ni siquiera en el índice de las muchas formas que puede presentar el verso desde las dos a las dieciséis sílabas, o la mezcla de versos de distintas medidas, me gustaría examinar las respuestas de algunos autores de este momento a la pregunta esencial sobre los límites y condiciones de la existencia de formas tan variadas de verso. Luzán plantea la cuestión, la pregunta esencial, de por qué once, siete u ocho sílabas forman verso, y no lo forman el conjunto de doce, trece, quince o diecisiete. La intención de Luzán es la de demostrar que el verso no depende sólo del número de sílabas, sino también de la cantidad, como en los clásicos, aunque en español la apariencia de cantidad depende del acento (Luzán, 1977: 347-348). Lo que supone lo mismo que decir que el acento es fundamental en el verso. Ahora bien, a esta pregunta de Luzán se le dio, en los ecos que tiene en tratadistas posteriores, 17
Un ejemplo típico que merece la pena mencionar por ser poco conocido es el de la propuesta de Luis Llorens Torres, director de la Revista de las Antillas, en cuyo número cuatro, de junio de 1913, publica su teoría, comentada por Max Henríquez Ureña en sus Estudios de versificación (1913: 93-103). Fundamentalmente se trata de basar el ritmo del lenguaje –tanto de la prosa como del verso– en la combinación de versos puros (los de dos y tres sílabas). Las posibilidades de combinación dan la clave de todas las clases posibles de versos. Si la combinación es simétrica tenemos verso; si se rompe la simetría, prosa. Así, por ejemplo, en el caso del endecasílabo, son nueve las combinaciones posibles. Algunas responden a tipos conocidos de endecasílabo, pero hay otros cuatro que son desconocidos, y que llevan acento en: 1, 3, 5, 8 y 10; 1, 3, 5, 7 y 10 –para este tipo el autor escribe un soneto, titulado “Germinal”, que reproduce Max Henríquez-; 2, 5, 7, y 10; 2, 5, 8 y 10. Como vemos, no hay reparos en ensayar continuamente nuevas formas de versos. La crítica a que M. Henríquez somete esta propuesta es un magnífico ejemplo de la efervescencia teórica del modernismo.
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un sentido más general y centrado en la cuestión de los tipos de versos y los márgenes silábicos aceptados o aceptables. En este sentido, Juan Gualberto González (1844, III: 31 y 34) responde a Luzán diciendo que la armonía de los versos depende de la costumbre. El que por la vez primera oyese recitar un verso de cualquier género, me parece a mí que no encontraría en él cadencia alguna particular, que no encontrase en cualquier período de los que tenemos por sonoros en la prosa.
Por eso, si los versos de trece sílabas «fueran más usados», y el oído estuviera acostumbrado a ellos como lo está al endecasílabo, «los hallaría igualmente armoniosos», pues, para J. G. González los límites del verso están entre las cuatro y las catorce sílabas. Sinibaldo de Mas, tras la descripción de los metros fundados en el acento prosódico –metros de siete a catorce sílabas–, cita las palabras de Luzán en apoyo de su tesis de que cualquier número de sílabas vale para hacer uno o varios tipos de verso: Estos ejemplos bastarán, me figuro, para hacer ver que con cualquier número de sílabas dado se puede hacer un verso, y no solamente uno, sino dos, tres o más diferentes (2001: 92).
Esto le da la posibilidad de proponer hasta 24 tipos de tridecasílabo, y aun a pensar en combinaciones de endecasílabo con nuevas cadencias. Como ejemplo, el acentuado en 4, 7 y 10 del poema La Aurora, cuya originalidad ha sido destacada por Navarro Tomás, y que ha sido puesto en relación con los versos de Pórtico, de Rubén Darío, que van al frente del libro de Salvador Rueda, En tropel (Sinibaldo de Mas, 2001: 94-95). Miguel Agustín Príncipe limita el número de sílabas del verso entre las dos y las catorce «mas no todos los acepta el oído con el mismo gusto y placer»; así, considera pésimos los de nueve y los de trece sílabas, «de cualquier modo que se construyan», y lo mismo ocurre con los de quince y diecisiete sílabas de que habla —53—
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Luzán, «y los de diez y seis y cualquiera otros que V. quiera agregar a ésos». Sólo si cambia la índole de nuestra prosodia podrán inventarse nuevos metros «que nuestros ultra-retataranietos acepten»; es mejor, pues, templar bien los versos que hay. El caso de Sinibaldo de Mas, «paladín el más esforzado de un nuevo método de versificar», sirve de ejemplo para aparcar cualquier intento de revolución, pues sus dodecasílabos, tridecasílabos y pentadecasílabos no constituyen un modelo para seguir. Más aceptables considera sus ejemplos de hexámetros (Miguel Agustín Príncipe, 1861-2: 390, 636-8). Sinibaldo de Mas y Miguel Agustín Príncipe significarían la posibilidad de dos actitudes teóricas diferentes ante la cuestión del canon: apertura y experimentación, por un lado; conservadurismo y sometimiento a la costumbre por otro.18 En cualquier caso, lo que está claro es que hay un ambiente de discusión, síntoma de que algo está pasando y de que algo tiene que pasar con la forma del verso. Las comparaciones de la lista de versos descritos en manuales de fechas distintas de este período nos proporcionarían muchos ejemplos de cambios en el canon. Pero, por dar sólo una muestra de cuál es la situación una vez que el modernismo ha triunfado, léase la lista de tipos de versos que registra Max Henríquez Ureña en sus Estudios de versificación (1913):
18
En nuestro mencionado trabajo sobre teorías métricas de los siglos XVIII y XIX pueden verse otros ejemplos de esta discusión (1975: 222-233). Así, José Manuel Marroquín, en sus Lecciones de métrica (1875), expone también la tesis de que la costumbre es la que hace que un determinado número de sílabas sea acogido como nueva especie de verso. En castellano sólo hay siete clases de versos: de cinco, seis, siete, ocho, nueve, diez y once sílabas, pues los de doce y los de catorce no son más que la unión de dos de seis y dos de siete, respectivamente. Pero no puede negar que el uso ya en su misma época acepta más especies de verso, que sólo admitirá «si la generalidad de los que hablan castellano llega a conocerlas y distinguirlas». Que está pensando incluso en versos usados por poetas de primera nota, lo dice explícitamente Marroquín, pero lo justifica porque el poeta es empujado por el pensamiento y no quiere sacrificarlo a la forma, lo que le lleva a adoptar una impropia (J. Domínguez Caparrós, 1975: 228-9). Léase allí, también (págs. 224-225), la opinión de Vicente Salvá (1859), que no cierra la puerta a versos de 16 y 18 sílabas.
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Versos simples (los que se componen de los distintos tipos de cláusulas bisílabas, trisílabas y tetrasílaba): pentasílabo (yámbico, dactílico) hexasílabo (trocaico, anfibráquico) heptasílabo (yámbico, anapéstico) octosílabo (trocaico, dactílico) eneasílabo (yámbico, anfibráquico) decasílabo (trocaico, anapéstico) endecasílabo (yámbico, dactílico) dodecasílabo (anfibráquico, trocaico) tridecasílabo (yámbico, anapéstico) alejandrino francés (mezcla de simples y compuestos) Versos compuestos (formas más usadas, de las 40 ó 50 posibilidades teóricas): octosílabo (3 + 5) eneasílabo (3 anfibráquico + 6 troqueo; 4 + 5) decasílabo (5 + 5; 3 + 7; 7 + 3; 6 + 4; 4 + 6) endecasílabo (6 + 5; 4 + 7) dodecasílabo (6 + 6; 7 + 5; 5 + 7) tridecasílabo (5 + 8; 7 + 6; 6 + 7; 8 + 5) alejandrino (castellano: 7 + 7; francés: 8 + 6; 9 + 5; 10 + 4; o viceversa) pentadecasílabo (6 + 9; 5 + 5 + 5) hexadecasílabo (8 + 8; 10 + 6; 6 + 10; 7 + 9) heptadecasílabo (7 + 10; 7 + 5 + 5; 9 + 8) octodecasílabo (9 + 9; 6 + 6 + 6; 11 + 7; 7 + 11; 5 + 5 + 8) eneadecasílabo (5 + 5 + 9; 10 + 9) veinte sílabas (10 + 10; 5 + 5 + 5 + 5)
Estas 61 especies de verso, todas atestiguadas con ejemplos, no agotan las posibilidades, pues hay que añadir el verso libre y las adaptaciones de hexámetros, como nos señala el mismo Max Henríquez. El verso moderno cuenta, así, con posibilidades insospechadas al principio de sus tanteos dieciochescos. Una idea del ambiente de curiosidad respecto a las formas métricas, nos la da el llamamiento de la nota con que termina su trabajo Max Henríquez (1913: 124):
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Agradeceré a cuantas personas tengan interés en esta clase de estudios, la remisión de los datos que posean sobre el uso de metros nuevos y combinaciones rítmicas, para tenerlos en cuenta en trabajos que me propongo llevar a cabo.
El canon está vivo y depende del uso innovador.19 Compárese con las listas cerradas de tiempos anteriores.20 4 Una última cuestión teórica que quisiera apuntar en relación con la forma en que hay que entender la construcción del verso moderno es la del silabotonismo. Dice M. L. Gasparov (1996: 269) que en la segunda mitad del siglo XIX es cuando la versificación silabotónica alcanza su apogeo en las literaturas europeas (inglesa, alemana y rusa). Sorprendentemente, este apogeo coincide temporalmente con los ensayos premodernistas y modernistas de versificación de cláusulas, de que da testimonio la polémica entre Eduardo de la Barra y Eduardo Benot. Pero estos 19
20
Esto no significa que no haya muestras anteriores de la vitalidad del canon. Coll y Vehí, por ejemplo, dice del eneasílabo, en sus Elementos de arte métrica latina y castellana (1854: 29), que apenas se pueden citar otros más que los de Iriarte, en su fábula El manguito, el abanico y el quitasol. En sus Diálogos Literarios (1866), sin embargo, se refiere a los de Espronceda (acentuados en 2, 5 y 8: Y luego el estrépito crece), que ya le parecen «otro cantar», y en los que las sílabas «están agrupadas de tres en tres, puesto que constantemente tienen acentuadas la segunda y quinta». Este mismo tipo de eneasílabo es registrado por Coll y Vehí en Zorrilla (Leyenda de Alhamar) y en la Avellaneda (La pesca en la mar, La Cruz) (Coll y Vehí, 1866: 314-5). Curiosamente el eneasílabo esproncedaico está registrado como posibilidad teórica en Masdeu (1801: 71-72), que da los siguientes ejemplos: saliendo del puerto la nave; balando la tímida oveja. Por ejemplo, con la que propone Alberto Lista (1840): «Tres son los metros más comunes en nuestra poesía: el verso de once sílabas, el de siete y el de ocho» (1840: 5). Respecto al alejandrino de Berceo, dice. «Trigueros y algunos poetas peores que él, solicitaron restablecerlo a fines del siglo pasado, empresa para la cual no bastaría el genio de Herrera» (1840: 9). Además de los versos de 4 sílabas, que son los más cortos, los hay de 6, 7, 8, 9, 10 y 11: «Más allá no hay metros; pues el de 12 se compone necesariamente de dos de 6, y el de 14 de dos de 7. Nadie, que nosotros sepamos, ha usado ni aun examinado el de 13. Parece que este es el término desde el cual en adelante no puede ya el oído percibir la medición del verso» (1840: 10).
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ensayos de versificación de cláusulas no hacen más que culminar un proceso de invención de nuevos metros silabotónicos, es decir, de versos con lugar muy fijo del acento interior, en el neoclasicismo y en el romanticismo. Proceso que como ya sabemos está bien testimoniado por los teóricos de la métrica que destacan en el análisis de la estructura interna del verso como Masdeu, Sinibaldo de Mas, Bello, y Príncipe. Sitúa Gasparov (1996: 270-273) el ímpetu inicial del silabotonismo de las métricas románicas en la primera mitad del siglo XVIII, en Italia, en estrecha relación con la música. El libretista Pietro Metastasio cultiva un heptasílabo con ritmo yámbico (acento en las sílabas pares) y un octosílabo de ritmo trocaico (acento en las sílabas impares). Por influencia francesa, además, empiezan a utilizarse, tanto en italiano como en español, el alejandrino y el eneasílabo, pero lo hacen con un esquema rítmico mucho más estricto que su modelo francés. El alejandrino se hace un hexámetro yámbico (seis grupos de dos sílabas con acento en la segunda), y el eneasílabo adopta las formas de un tetrámetro yámbico o un trímetro anfibráquico (acentos en 2ª, 5ª y 8ª). Además de alejandrino y eneasílabo, cita Gasparov, en lo que se refiere a España, el verso de arte mayor, regularizado en dodecasílabo con la forma de tetrámetro anfibráquico. A los versos nuevos y a los restaurados, hay que añadir los experimentos para silabotonizar las formas más tradicionales. No resulta difícil ilustrar estas tendencias anotadas por Gasparov. Bello, por ejemplo, habla en el alejandrino de manifiesto «predominio del ritmo yámbico». Masdeu ya registra el eneasílabo anfibráquico; Bello y Salvá, el yámbico. Y estos dos últimos autores, el ritmo anfibráquico del verso de arte mayor. Ejemplos de silabotonización de todos los tipos de versos se encuentran en las formas de versos registradas en cualquier página del diccionario final de mi trabajo sobre la teoría métrica de este período (1975). Sólo quiero mencionar el análisis que hace José Coll y Vehí (1866: 295-298) de los versos del poema de Gertrudis Gómez de Avellaneda, La noche de insomnio y el alba, donde dodecasílabos —57—
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y decasílabos, por ejemplo, están perfectamente vistos como versos silabotónicos de ritmo ternario. Sin olvidar la referencia histórica al uso de su tiempo: Espronceda, Zorrilla, y muchos otros reputados poetas de nuestros tiempos, han resucitado los versos alejandrinos, de arte mayor y decasílabos [...].
Y un verso tan característicamente silábico como el octosílabo no deja de ser analizado también en su estructura acentual. Así, son más enérgicos y frecuentes con acento en tercera (1866: 316-318). Pero no hay que insistir en algo que se impone en el primer contacto con la teoría y la práctica del verso moderno: la minuciosa atención a la repartición de acentos en el interior. Esto es muestra de una conciencia silabotónica que además coincide con las tendencias generales de la versificación europea. Así se carga de más sentido la afirmación de Bello cuando dice, en el prólogo de la primera edición de su Ortología y métrica (1835), que la versificación castellana, bajo el aspecto de sus «verdaderos principios o elementos constitutivos del metro... tiene grande afinidad con las de casi todas las naciones cultas modernas» (1981: 7). Sentido histórico, con su consiguiente relativismo, análisis detenido de las estructuras internas de acentos y pausas, fundados en principios silabotónicos, tienen como resultado la abundancia de formas ensayadas, a veces con vocación experimental de base para propuestas de futuro. Es en el modernismo cuando tales propuestas alcanzan su nivel de consagración, para unas, o de meros ensayos que se desechan casi del todo, para otras, como es el caso de la versificación de cláusulas.
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he sixteenth century witnessed the establishment of three metres as the canons of Spanish, French, and English long-line verse. In Spain the first Italianate endecasílabos appeared in a volume, published in 1547, containing the poems of Juan Boscán de Almogáver (b.?1487, d. 1542) and Garcilaso de la Vega (b. 1501, d. 1536). It was the latter’s verse design that served as the model for subsequent poets: Garcilaso converted the Italian endecasillabo into a metre intermediate between syllabic and stress-syllabic by imposing an iambic rhythm on the second half of the line.1 The endecasílabo succeeded the verso de arte mayor, a loosely stress-syllabic metre that had dominated long-line verse in Castilian and Galician-Portuguese since the 1380s.2 In France the alexandrin, a syllabic metre of 6 + 6 syllables, established its pre-eminence with the publication in 1558 of Les Regrets by Joachim Du Bellay (b. 1522, d. 1560). Until then, like Pierre de Ronsard (b. 1524, d. 1585), Du Bellay had composed sonnets in vers de dix of 4 + 6 syllables as well as alexandrins, but in his last and greatest work all the sonnets are in the longer metre, and this subsequently became the long-line 1
2
Gasparov uses a statistical technique termed probability modelling to show that the endecasílabo is an intermediate metre (1987: 330-32); Domínguez Caparrós confirms that all variants of the endecasílabo have an iambic rhythm in the latter part of the line (2000: 152-55). The verse design of arte mayor has been the subject of considerable controversy. The line comprises two hemistichs, each with two beats and a preponderance of (amphibrachic) triple time, in which some poets gave priority to accentual regularity and others to syllabic. See Clarke 1964: 51-211, Piera 1980: 109-14, Duffell 1999a: 55-85, and Duffell in press.
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canon. The alexandrin thus emerged victorious from a battle for dominance with its shorter rival that had begun in the middle of the twelfth century.3 In England the iambic pentameter, a stresssyllabic metre also derived from the Italian endecasillabo, became the canon in the 1580s when it was reintroduced by Edmund Spenser (b. c.1552, d. 1599) and Sir Philip Sidney (b. 1554, d. 1586).4 The peculiar circumstances that led to the need for that reintroduction, and the previous lack of an English longline canon are the subject of the present article. Before proceeding to examine those two issues, however, we should consider how metres evolve and why they endure. Hanson & Kiparsky put forward the hypothesis, termed the principle of ‘fit’, that metres evolve in such a way as to accommodate most of the lexicon and reflect the major phonological features of the language concerned (1996: 294). Although this principle confirms the insights of earlier scholars (in particular, Thompson 1961 and Jakobson 1973), there are notable exceptions to it; for example, the adoption of Greek quantitative dactylic hexameter denied Roman poets access to a large portion of their lexicon (Raven 1965: 11). Although the evolution of metres can hardly be unaffected by sociological factors such as emulation, fashion, and prestige, it is nevertheless true that most metrical systems employ the salient phonological features of the language concerned. Metres are also sometimes the victims of linguistic change: for example, the loss of vowel-length distinctions in Late Latin clearly affected the ability of its speakers to compose quantitative verse spontaneously (see Lote 1939: 220-22). The French, English, and Spanish canonical long-line metres are a remarkably good fit for the phonology of their languages. 3
The vers de dix was dominant c.1020 to c.1180, the alexandrin c.1180 to c.1350, and the vers de dix c.1350 to c.1550. See Kastner 1903: 142-48. 4 A concise linguistic description of the iambic pentameter is given by Hanson & Kiparsky, who employ the traditional term feet for the five weak/strong contrasts within the line (1996: 289n4). In this article I shall also follow the example of other metrists, such as Attridge, who proposes a single unified theory for all English metre (1982: 158-213), and describe these contrasts as beats and offbeats.
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The alexandrin employs three of the most salient features of that language’s phonology: right-strength (the right-most full syllables of words is the one with a potential for stress), phrasal stress (which the loss of word stress in modern French foregrounds), and syllable-timing (syllables are allocated what is perceived as equal time in delivery).5 The combination of these three features creates a simple primary rhythm, an event (the phrasal stress on every sixth syllable) that occurs at equal time intervals (Cornulier 1995: 115). In contrast, the iambic pentameter has a different type of rhythm, a complex secondary rhythm, produced by the regular occurrence of two types of event, stronger and weaker syllables, throughout the line (Chatman 1965: 29). The iambic pentameter also employs the distinctive properties of its language: English has strong word stress (including secondary stress), a plethora of monosyllables with no fixed prominence relationship (weak/strong) between them, and stress-timing, which admits an additional light syllable (resolution) in some lines. Similarly the endecasílabo employs the salient features of the Spanish language: strong word stress (as in English), syllable-timing (as in French), and a majority of words ending in a vowel (which merges with any initial one of a following word, a feature termed synaloepha). While the endecasílabo’s strict syllable count ensures that line-final stresses arrive at equal time intervals, its length (the only fixed unit has ten positions, not six) and its mid-line stresses hinder perception of this primary rhythm, which has to be supplemented by a secondary one in the second half of the line.6 5
The traditional analysis of the alexandrin is that its verse design is syllabic, regulating only the number of syllables in each hemistich (six) and the type of syllable (accented) that must occur in position 6 (see, for example, Grammont 1937: 817). A number of modern writers, however, have detected metrically significant structures (syntagms or mesures) within the line and have analysed the alexandrin on this basis. Proponents of this view include Volkoff (1976), Verluyten (1982 & 1989), and Pensom (1982 & 2000), but Billy (1989 & 2001) reveals the problems that such an analysis raises. Dominicy 1992 provides a modern linguistic account of the metre that confirms the traditional syllabic analysis and Cornulier explains how such a metrics of undifferentiated syllables works (1995: 111-15). 6 Duecento and Trecento Italian poets composed many triple-time lines with prominent syllables in positions 4, 7, and 10. By placing stressed syllables in position
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It can be argued that French phonology ensured that a syllabic metre would become the language’s long-line canon, and that the alexandrin prevailed over the vers de dix because of its greater regularity (phrasal stress on every sixth syllable) and greater length (enabling it to accommodate complex syntax more easily). It also seems reasonable to assume that the similarities between Italian and Spanish phonology played a role in the seamless transition from endecasillabo to endecasílabo.7 In English, however, linguistic change in the period 1066 to 1500 and the lack of an unbroken metrical tradition combined to make the connection between phonology and the eventual long-line canon much more problematic. In the sixteenth century there were a number of viable alternatives and, while hindsight may make the triumph of the iambic pentameter seem inevitable, its victory was clearly not foreseen at the time. A number of poets persevered with older verse designs or experimented with new ones, and some of them suited the phonology of English as well as the iambic pentameter. There were five other metres employed by sixteenth-century poets that might have become the English long-line canon and, if we include the iambic pentameter both as it had been employed in Scotland at the end of the fifteenth century, and as it reappeared in England in the last quarter of the sixteenth, we can compare seven types of line. The following analysis examines the verse designs of each and its fitness for the phonology of modern English; it also considers the role played by sociology in the evolution of the English canon: fashion, prestige, and foreign influence.
7
7 only when position 6 also contained one, Garcilaso made the second half of his line stress-syllabic, with no prominent syllables in odd-numbered positions after 3 (see Duffell 1999a: 37-44). It should be noted that the changes made by Garcilaso to the endecasillabo also occurred in the endecasillabi of Torquato Tasso (b. 1544, d. 1595); see Duffell 1991: 403-04.
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1. The Chaucerian Line of Dunbar The long line of Wiliam Dunbar (b. ?1456, d. 1513) clearly meets the definition of an iambic pentameter given in Hanson & Kiparsky 1996 and Duffell 2002.8 Its verse design can be described most economically as follows: its template has ten positions alternating weak-strong, and the correspondence rules for verse instances prescribe no mandatory mid-line word boundary.9 They also limit the size of each position to a maximum of one syllable and constrain the strong syllables (those with lexical stress in polysyllabic words and clitic groups) from appearing in weak positions.10 Although the traditional belief has been that strong positions normally contain stressed syllables and weak positions unstressed ones, Hanson & Kiparsky show that this belief is ill-founded: unstressed monosyllables frequently occur in strong positions, and stressed monosyllable in weak ones.11 8
The parametric theory of Hanson & Kiparsky defines metres on the basis of five key features, or parameters: (1) position number, (2) orientation, (3) position size, (4) prominence site, and (5) prominence type. They give the parameters of the iambic pentameter as (1) ten, (2) right-strong, (3) one syllable or one foot (which allows two light syllables in place of one), (4) weak positions (5) strength, the lexically determined greater stress in polysyllabic words (1996: 289-93). 9 Hanson & Kiparsky’s parameters ignore the question of caesura, which they see as no part of the verse design. Duffell 2002 argues that Chaucer and later English iambic pentameter poets cultivated variety in mid-line word boundaries and that this should be recognized in the metre’s definition. 10 Strong syllables are constrained from appearing in weak positions in the iambic pentameter other than: (1) line-initially and after a major syntactic boundary (justified by the closure principle of Smith 1968, which makes metrical rules more lax at the beginning of units than at their end; see Hanson & Kiparsky 1996: 293), and (2) very exceptionally in other positions, but only when foot and word boundaries coincide (termed the bracketing condition; see Kiparsky 1977: 201-02). 11 The secondary rhythms of verse are based on the contrast between prominent and unprominent syllables; the only fixed prominence relationship in languages with dynamic accent (stress) is that found in polysyllabic words, where the primary stressed syllable must be given more stress (making it stronger than) the others. The relative stress of monosyllables (other than in clitic groups, like ‘a song’ or ‘in tune’, where the second syllable is strong) is not fixed in this way, and they may thus appear in any position in the line. A metre with strength as its prominence type allows great freedom in a language that is heavily monosyllabic (monosyllables represent more than three-quarters of all words as items in English verse; see Bradley 1970: 61-63, Tarlinskaja 1976: 14, and Duffell 2002: 305).
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Their analysis demonstrates that, while every type of syllable occurs in strong positions, strong syllables are constrained from appearing in weak ones (1996: 291).12 The story of the iambic pentameter between Chaucer and Dunbar is a curious one: it had been invented by the former in the late 1370s, but had been abandoned by English fifteenth-century poets for linguistic reasons. Since I have told that story in detail elsewhere (Duffell 1996, 2000a, 2000b, and 2002), I shall discuss it only briefly here. Geoffrey Chaucer (b. ?1340, d. 1400) invented the iambic pentameter on his return from Italy in 1378, by promoting the favourite (iambic) rhythm of Boccaccio and Petrarch to a structural principle in his own long line.13 Chaucer’s friend John Gower (b. ?1330, d. 1408) and his disciple Thomas Hoccleve (b. ?1369, d. 1426) both adopted his metre for their English long-line verse, although to Hoccleve ten syllables were clearly much more important than an iambic rhythm (see Jefferson 2000). Chaucer’s successor, however, as the most esteemed poet in England was John Lydgate (b. ?1370, d. 1449), who rejected both key aspects of the new-fangled Italianate metre: isosyllabism and a uniformly iambic rhythm. Although he was clearly influenced by some of Chaucer’s innovations, he returned to an older tradition of English versifying, giving his long lines five beats (divided 2 + 3) rather than ten syllables (see Duffell 12
While a constraint on strong syllables in weak positions is the defining feature of the iambic pentameter, the content of strong positions plays a major role in determining the rhythm of individual lines. The iambic pulse becomes stronger with each strong position that contains a stressed syllable, and weaker with each one that does not, and this is the chief source of the rhythmic variety that is found in the work of the most skilled poets. 13 Chaucer modified the endecasillabo’s verse design by eliminating lines with accented syllables in positions 4, 7, and 10, which have a triple-time rhythm, and 3, 6, and 10, where the rhythm changes from anapaestic to iambic. The chief difference between Chaucer’s verse design and later iambic pentameters is that the former allows a void in initial weak positions (making headless lines). As noted above (n6), Garcilaso also avoided the 4-7-10 line; unlike Chaucer, however, he allowed 3-6-10 lines, which later poets employed even more extensively in their endecasílabos (see Dominicy in press).
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2000a: 247-48). Lydgate’s apostasy was almost certainly due the impossibility of writing isosyllabic verse for recitation by readers whose syllabification of word-final schwa could not be predicted.14 Chaucer’s iambic metre was kept alive in the fifteenth century by a series of Scottish poets, beginning with King James I (for nineteen years a prisoner in London, 1406-25), and including most notably Robert Henryson (b. ?1424, d. ?1506), William Dunbar (b. ?1456, d. ?1513), and Gavin Douglas (b. ?1475, d. 1522).15 Precisely why the Scottish ear fastened onto the rhythmic regularity of the London poet, when his own countrymen abandoned it along with antiquated schwa, is not clear.16 Certainly schwa loss occurred in Scots at least a century earlier than in the English of the East Midlands.17 We cannot even be sure that the Scots poets knew that Chaucer syllabified some of his final schwas: they may simply have been imitating the English poet’s many schwa-less iambic lines. The verse design of Robert Henryson is almost, but not quite, Chaucer’s iambic pentameter applied to a language in which word-final schwas are all deleted. But, while the Scottish poet’s lines are more consistently iambic than Hoccleve’s, they also have some features that are more typical of the French vers de dix. In particular most of Henryson’s lines have a wordboundary after syllable 4 (86 per cent, compared with only 70 14
The final loss of such schwas, a process begun two centuries earlier, not only prevented fifteenth-century poets writing syllabically regular verse, it also meant that readers of Chaucer’s verse increasingly recited it as if it were Lydgate’s, making many lines neither iambic nor decasyllabic. 15 My quotations and statistics for these poets are based on the text of Bawcutt & Riddy 1992. A different selection of their verse, together with a short introduction, can be found in Scott 1967. 16 Note that Charles Duc d’Orleans (b. 1394, d. 1464), who was a prisoner of war in England for twenty-five years (1425-50), also composed excellent Chaucerian iambic pentameters in schwa-deleted English; see Steele 1941 (for Charles’s text) and Steele & Day 1946: 47 (for comment on his metre). 17 Scots was a direct descendent of the Northumbrian dialect, which had evolved from that of the Northern Angles, but had acquired a large number of French loan words. For a concise note on the language of Henryson and Dunbar, see Bawcutt & Riddy 1992: ix. Minkova 1991 gives a geographical and diachronic account of schwa-loss in English.
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per cent in the Canterbury Tales) and he employs lyric caesura (the second-foot inversion abhorred by most English poets) in 7 per cent of his lines (Duffell 2002: 296).18 French influence on Scottish culture was, of course, strong throughout the fifteenth century, and Henryson seems to have had one eye on Chaucer’s versification and the other on that of contemporary French poets. To find fifteenth-century lines that fully meet the definition of iambic pentameter, we must turn to the work of William Dunbar, who seems to have realised that lack of caesura, and variety in the position of mid-line word-boundaries are essential features of Chaucer’s verse design.19 We do not know how familiar any sixteenth-century English poet was with Dunbar’s work, but we do know that none of those working in the first half of the century adopted his verse design. Instead each pursued his own vision of a long-line English metre. 2. The Experimental Line of Wyatt The long lines of Sir Thomas Wyatt (b. 1503, d. 1542) include many that meet the definition of iambic pentameter, and almost as many that do not. Although he was well able to compose regularly iambic decasyllables, he often chose to do something else, as the following lines from his sonnets illustrate: (the numbers are those in Rebholz 1978):20 18
Lyric caesura, as its name implies, arose in sung verse, where stress in position 3 was relocated to the e-atone in position 4. This was one of three ways of accommodating feminine words at the caesura in medieval French, of which only one is employed today, the elision of the e-atone before a vowel. 19 Dunbar’s language contains fewer monosyllables and more disyllables than that of other poets writing in English, including the Scottish ones. He ensures that a high proportion of his lines have no word break at position 4 by the liberal use in positions 4-5 of two Scots grammatical forms that are not available to modern English: syllabified plurals in –is and syllabified past participles in –it (see Duffell 2002: 296). 20 All texts in this article are presented with the following scansion aids: (1) words are double-spaced, (2) possible caesurae are further spaced, (3) separately counted syllables are hyphenated, (4) stressed syllables more prominent than their neighbours are in bold typeface, (5) atonic monosyllables and secondary stressed syllables are underlined when they occupy a strong position, (6) void weak positions are marked ‘V’.
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The li-vely sparks that is-sue from those eyes Like the im-mea-su-ra-ble moun-tains But of ha-ting my-self that date is past En-vy them be-yond all mea-sure With fei-gned vi-sage now sad now me-rry Who-so list to hunt, I know where is an hind I fly a-bove the wind yet can I not a-rise
(XXV.1) (XXIV. 1) (XII. 3) (XXII. 4) (XI.11) (XI. 1) (XVII. 3)
Instance (1) has both ten syllables to the final stress and an iambic rhythm but the remainder are clearly not iambic pentameters: (2) has 8F syllables, (4) 7F, (5) 9F, (6) 11F, (7) 12M, and (3), (5), and (6) do not have an iambic rhythm. A more detailed analysis of the twenty-two sonnets that are most certainly by Wyatt shows the following distribution of line lengths (Duffell 1991: 549):21 >10M/F = 19%;
10M/F = 59%;
9F = 15%;
<9F = 6%.
Thus fewer than 60% of Wyatt’s lines are decasyllables, unless we accept that both 10F and 9F are equivalent to 10M syllables. This creative method of accounting would make decasyllables of his 9F lines (like (5) above, where ‘mer-ry’ is rhymed on its second, weak syllable), but it would still leave a quarter of his lines with the wrong number of syllables. Instance (6) above is the clearest indication that Wyatt sometimes intended other than ten syllables and/or an iambic rhythm, because it is repeated elsewhere in the poem converted into a perfect iambic pentameter by the omission of its second syllable ‘-so’. But (6) makes a more dramatic and effective opening: each hemistich has three prominent syllables, the falling rhythm of the first contrasting with the rising rhythm of 21
These sonnets appear in the Egerton Manuscript (British Museum MS 2711) and have Wyatt’s name written against them; some are believed to be, or to have emendations in, his own hand. Together with other poems attributed to Wyatt, these twenty-two sonnets were published in 1557 by Richard Tottel in his Songs and Sonnets (usually known as Tottel’s Miscellany; ed. Rollins 1928-29). Tottel regularized many of Wyatt’s lines in his edition, but, since Wyatt’s emendations in the Egerton MS often make a line’s rhythm and/or syllable count less regular, there can be no doubt that this regularity was far from the poet’s metrical intention.
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the second, and this reinforces the semantic contrast in the image of predator and prey. The irregularity of this line is evidence not only of Wyatt’s metrical intention but also of his superb craftsmanship. Clearly the iambic pentameter is only one possible realization of his verse design, which can be deduced only from a close study the lines that do not meet that definition. Endicott’s dissertation is such a study, and she suggests that Wyatt’s frequent lapses into triple time may have been in imitation of the Italian endecasillabo with its variety of rhythms (1963: 108-09). But Wyatt employs twice as many triple-time lines as Petrarch when he adapts one of the latter’s poems (Rebholz, IX; see Duffell 1991: 556). A more likely explanation is that Wyatt was as intolerant of rhythmic monotony as he was of syllabic. Endicott also supports the conclusion of Baldi 1953 that Wyatt wished to mix flowing lines (iambic pentameters, with their 2 + 3 or 3 + 2 stresses) and balanced, or symmetrical ones like (5) above, with its 2 + 2 stresses, or (6), with its 3 + 3 (1963: 72). Another hypothesis of Wyatt’s verse design is that of Rebholz, who argues that Wyatt’s metrical intention was not the iambic pentameter as we know it, but a ‘flexible pentameter’, one in which weak positions may be occupied by zero or two syllables (1978: 44-55). Such a metre is termed a dol’nik by Tarlinskaja 1976 who classifies it according to the number of ictuses, or beats, that its verse design contains. But the number of beats in Wyatt’s long line varies from 3 to 6; only 61 per cent of lines have four beats, the most common number (Duffell 1991: 554). While this may disqualify Wyatt’s metre as a dol’nik, his verse does seem to work on similar principles. It is based not on syllable-count, but on beats and offbeats, and only when each of these corresponds to one syllable does an iambic pentameter result. Weak positions, or offbeats, comprising zero or two syllables are a characteristic of Lydgate’s metre (Duffell 2000a: 236-40) as well as of the dol’nik, and Wyatt’s metre can thus be seen as following a traditional English mode of versifying.22 22
Note that only 43 per cent of Wyatt’s non-decasyllabic lines fall into any of the four categories that Schick (1889) proposes for Lydgate’s (Duffell 1991: 554-55).
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Wyatt’s verse occupies a point in the history of English longline metre where everything appears to have been the meltingpot: rhyme, rhythm, stress/ strength, isosyllabism, all still have undecided futures, and all are available for experiment. In this state of flux Wyatt challenged the rules of Romance verse and often rebelled against the foreign practices of counting syllables and rhyming strong syllables. He set out to create an English line that differed significantly from its continental equivalents, one that embraced the rhythmical smoothness of the iambic pentameter when he felt it appropriate, and reverted to a traditional English pattern of beats when he felt it was not. The reason why it is so difficult to identify Wyatt’s template and correspondence rules may be because he was building on a greenfield site and hovering between alternatives. In this he was not being schizophrenic but was trying to embrace diversity. In subsequent centuries his verse has been esteemed whenever diversity has been in fashion, and regularized or criticized when it was not; It is not surprising, therefore, that the present age prefers Wyatt’s poetry to that of his friend and younger contemporary Surrey. 3. The French Line of Surrey Henry Howard, Earl of Surrey (b. ?1517, d. 1547), also composed a number of sonnets in which he attempted to develop a suitable long-line English metre. His verse design can be illustrated by the sonnet (Keene 1985: 40), which is an imitation of Petrarch’s Canzoniere, CCCXX: ‘Zefiro torna e’l bel tempo rimena’ (Vianello 1966): (8) (9) (10) (11) (12) (13) (14) (15)
The soote sea-son, that bud and bloom forth brings With green hath clad the hill and eke the vale; The nigh-tin-gale with fea-thers new she sings; And tur-tle to her make hath told her tale. Sum-mer is come, for e-very spray now springs; The hart hath hung his old head on the pale; The buck in brake his win-ter coat he flings; The fi-shes flete with new re-pai-rèd scale;
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The ad-der all her slough a-way she slings; The swift swal-low pur-su-eth the flies small; The bu-sy bee her ho-ney now she mings; Win-ter is worn that was the flo-wers’ bale. And thus I see a-mong these plea-sant things Each care de-cays, and yet my sor-row springs.
The verse design of this poem is readily identifiable as the French vers de dix; it has ten positions with a mandatory wordbreak after position 4, it is right-strong with rhyme, and position size is unfailingly one syllable. The poem also employs lyric caesura, in ‘sea-son’ (1) and ‘swal-low’ (17), although this device was falling from fashion in the French poetry of Surrey’s time. It may be argued that Surrey intended ‘season’ to be pronounced like saison in French, but this does not apply to many of the other examples in Surrey’s sonnets, which involve words like ‘people’ (8.4) and ‘weather’ (8.6). The metre differs from the French vers de dix in prominence site and type: it is almost perfectly iambic as well as perfectly decasyllabic. The metre of this poem is an iambic version of the vers de dix; it is not iambic pentameter because it lacks a key feature of that metre, which is neglected by Hanson & Kiparsky 1996. English Poets composing iambic pentameter make their lines a balanced mixture of pausing lines (those with a word-break immediately after position 4, as in the French vers de dix) and running ones (those with no such break, as in the majority of Italian endecasillabi; see Duffell 2002: 292 and 305). There are no running lines in the sonnet quoted above, and Surrey is simply regularizing English word stress within the French line.23 English word stress, however, seems to have given Surrey a problem at the caesura: sometimes he employs lyric caesura (for example, Poems 8 and 9), in some he employs running lines (for example, 11 and 13), 23
Surrey does use a few lines with no word boundary after position 4 in his rhymed verse, as in ‘With form and fa-vour taught me to be-lieve’ (Poem 13, l. 3). He uses even more in his most important invention, blank verse, but this may be because, when he translated Virgil’s Aeneid, he had access to the Scots version of Douglas, which is in Chaucer’s metre.
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and in some he employs both (for example, 10 and 18). It should be noted that the English language, while having fewer oxytonic words than French in its word stocks, had deleted word-final schwa, making many more words oxytonic, and had vastly more monosyllables.24 This made an iambic vers de dix (4 + 6) a very good ‘fit’ for English phonology except in one respect: lyric caesura broke the iambic pattern unless wrenched in a way that is unpleasing to English ears. As a result Surrey seems to have abandoned lyric caesura and had occasional recourse to the running line, something he would have encountered in Wyatt’s (and, perhaps, Douglas’s) verse. Nevertheless, running lines constitute only 4 per cent of total in Surrey’s rhymed verse, the same proportion that Billy 1999 finds in the décasyllabes of Jean Froissart (b.?1337, d. ?1410). These rare exceptions do not entitle us to classify either Froissart’s or Surrey’s lines as iambic pentameter. There are a number of indications that Surrey’s metre was experimental and tentative. The first is that his sonnets and other poems imitated from the Italian are composed in a very monosyllabic language: by my calculation 85 per cent of the words in Surrey’s rhymed verse are monosyllables; and monosyllables make counting easy. He was also a notable experimenter in other ways: he invented both the ‘Shakespearian’ sonnet and blank verse. Surrey was the first English poet to realise that a pattern of five iambs is strong enough to be recognizable without the prop of either alliteration or rhyme. Surrey had no means of knowing that the future English canon would be the iambic pentameter of Chaucer and his Scottish followers, and, like Wyatt, he used the English long line as a field for experiment. That experiment failed because of its monotony of caesura, something that is unnecessary in an iambic line with its complex secondary rhythm. 24
Strang 1980: 288 notes a significant increase in monosyllables between the eleventh century and the sixteenth; by my calculation early Modern English texts comprise + 75% monosyllables, Old French texts + 60%, and fourteenth-century Italian texts + 50% (Duffell 2002: 305).
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4. The English Line of Surrey The lack of a single, dominant long-line metre in the first half of the sixteenth century is evidenced by Surrey’s cultivation of an alternative native metre. Many of his poems are composed in couplets derived from traditional English folk-verse. Their metre was called poulters’ measure (because poulterers allegedly compensated for bad eggs by giving an extra one with every dozen). Poulter’s measure is a syllabically regularized version of an English nursery rhyme metre: (22) (23) (24) (25)
The grand old Duke of York, He had ten thou-sand men; He marched them up to the top of the hill, And he marched them down a-gain.
This rhyme, like most traditional English verse, is based on feet, or beats/offbeats and not syllable count: weak positions may contain two syllables if both are light. But poulter’s measure eschews this double-occupancy and is syllable-based; its hemistichs contain 3, 3, 4, and 3 iambic feet. An example from Surrey is: (26) Hot gleams of bur-ning fire and ea-sy sparks of flame (27) In ba-lance of u-ne-qual weight he pon-de-reth by aim. (15. 7-8)
Although popular in the first half of the sixteenth century, this metre soon fell from use. This is probably because the fixed 3 + 3 + 4 + 3 accentual structure becomes monotonous in long poems, and readers needed to stress all the syllables in strong positions in order to make the pattern in its anisosyllabic lines identifiable. By comparison the iambic pentameter has variety of accentual structure (2 + 3 and 3 + 2), and gains even more by making different strong positions prominent in different lines. The demise of poulter’s measure cannot be attributed to a bad fit for the phonology of the language; it represents an aesthetic choice by English poets and audiences. —74—
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5. The English Line of Tusser Another metre that enjoyed considerable popularity in sixteenth-century England was also derived from folk-verse. As Ker 1898 first pointed out, its line structure is almost identical to that of the most popular long line in Castilian and Portuguese during a long period from around 1380 until the introduction of the endecasílabo (see n2 above and Gomez Bravo 1998). In Spain the metre was known by the generic title the verso de arte mayor (‘the long-line verse’), in England it was called tumbling verse. Although derived from folk-verse, the English metre was employed by a number of educated poets and can be illustrated by the following lines by Thomas Tusser (b. ?1528, d. 1580). They are from Chapters 10 (81-82) and 13 (1-2) of the 1580 edition of his Five Hundred Points of Good Husbandrie (Payne & Heritage 1878), the shorter first edition of which was published in the same year (1557) as Tottel’s Miscellany. (28) (29) (30) (31)
Good hus-band he trud-geth, to bring in the gaines good house-wife she drud-geth, re-fu-sing no paines V North winds send haile V, V South winds bring rain East winds we be-wail V, West winds blow a-main
Piera 1980: 109-14 argues that the verse design of the cognate Spanish metre is essentially amphibrachic, i.e. the line contains four feet, each of three syllables accented weak-strong-weak; this analysis is confirmed by Duffell 1999a: 65. In terms of parametric theory (which Hanson & Kiparsky refrain from applying to triple-time verse (1996: 300)), such a verse design must be as follows: the template has eight positions orientated weak-strong; the correspondence rules make weak-position size equal one syllable, and strong-position size one syllable plus an optional post-tonic syllable; the prominence site/type constraints bar weak syllables from appearing in strong positions unless they share it with a preceding strong one. This verse design is most transparent in lines like (29), where word boundaries conveniently coincide with foot divisions. Note that in none of —75—
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the quoted lines does the final strong position contain a posttonic syllable, nor in (30) and (31) does position 4 (scanned here as a void). Both hemistichs of this line also contain the most common source of variety in the metre, a void initial weak position. The strong triple-time rhythm that runs through the quoted lines gives them a sing-song effect in stress-timed English; in syllable-timed Spanish such a rhythm appears ‘sonorous but not melodious’ (Lázaro Carreter 1972: 377). This metre doubtless reminded its English readers of proverbs and traditional sayings, and was therefore admirably suited Tusser’s content, helping endow it with rustic charm. Edmund Spenser (b. c.1552, d. 1599) also employed tumbling verse in a rural context: three sections (‘May’, ‘July’, and ‘September’) of his Shepheardes Calender (McCabe 1999: 23-156) are in this metre. In later centuries tumbling verse fell into disuse, although a closely related metre called the four-ictic dol’nik prospered (Tarlinskaja 1976: 10822). Two syllables are the maximum, rather than normal, weakposition size in the dol’nik, as, for example, in The Statue and the Bust (Williams 1954: 113-2) by Robert Browning (b. 1812, d. 1889). In contrast to the multi-purpose iambic pentameter, the dol’nik has mainly been chosen for verse in an informal register, and true tumbling verse, with a stress on every third syllable, has endured only as a vehicle for special effects. Thus in Browning’s How They Brought the Good News from Ghent to Aix (Williams 1954: 16-18) the tumbling verse emphasizes the galloping content of the poem. Although they have become limited in their use, the dol’nik and its antecedent tumbling verse were the strongest native candidates for the long-line canon. Both evolved from Old English four-beat verse, and it is a measure of how much the English language has changed that they no are longer a better fit for it than the iambic pentameter, ‘the rhythm of the foreigner’, as Saintsbury called it (1906: 75; see also Lewis 1898: passim).
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6. The French Line of Sidney and Spenser An important period in the development of a canonical long-line English metre was the years around 1580, when Sir Philip Sidney (b. 1554, d. 1586) completed Arcadia and began Astrophel and Stella, and Spenser was working on the Faerie Queene. Sidney and Spenser were familiar with sonnets in French and Italian composed, as I have noted, in two very different metres. The closest geographically of these two influences was undoubtedly the French, but that language no longer enjoyed the privilege of being the official language of England as it had been in Chaucer’s and Gower’s time. By 1580 French sonneteers had adopted the alexandrin. This gave the generation of poets active in England in 1580 another possible basis for an English longline metre, and both Sidney and Spenser experimented with it. As in Surrey’s experiments with the vers de dix, they realized that English phonology favoured a stress-syllabic version of the metre. The first sonnet of Astrophel and Stella (Bullett 1947: 173) is one of seven in which Sidney employed the longer metre. Its lines are strict French alexandrins, lines of 12M syllables divided by a word break after syllable 6; for example, the poem opens: (32) (33) (34) (35)
Lo-ving in truth, and fain in verse my love to show That she, dear she, might take some plea-sure from my pain Plea-sure might cause her read, rea-ding might make her know Know-ledge might pi-ty win, and pi-ty grace ob-tain
These lines, unlike iambic pentameters, are made up of two symmetrical and unvarying rhythmic units. Their metre is a double iambic trimeter, which should not be classed as a hexameter since the structure of the two hemistichs is identical (both are always 6M syllables, never 6F) and there is no metrical interaction between them. First-foot inversion is allowed in both hemistichs and half of the eight quoted here have it. Sidney seems to have cultivated initial inversion as an antidote to the rhythmic monotony of lines with an invariable 3 + 3 stress pattern. —77—
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Although instance (32), like many French vers de dix and alexandrins, has enjambment between the hemistichs, no line fails to contain a word break after syllable 6. Sidney’s choice of the alexandrin for some of his sonnets was undoubtedly influenced by contemporary French practice; that he composed so few in the metre (seven out of 108 in Astrophel and Stella) suggests that he found some features of the Italian endecasílabo more aesthetically pleasing.25 Spenser, too, was attracted by the alexandrine when he came to compose the Faerie Queene (probably in 1580, perhaps in late 1579, the year in which the Shepheardes Calender was published). The Faerie Queene’s strophe consists of eight pentameter lines followed by one in the longer French measure. Spenser’s alexandrin, however, has a striking innovation: the line is no longer 6 + 6 syllables; it is 12 syllables in total. The following lines (27, 36, 54, and 81) are from Canto I of the First Book of the Faerie Queene (Hamilton 1966: 80-100): (36) (37) (38) (39)
U-pon his foe, a Dra-gon, hor-ri-ble and stearne And by her in a line a milke white lambe she lad And this faire cou-ple eke to shroud them-selves were fain The car-ver Holme, the Ma-ple seel-dom in-ward sound
Spenser’s line is a unified hexameter: instances (36) and (39) have first hemistichs of 6F syllables and this is compensated in a second, which contains only 5M, thus preserving the syllable count of 12M. This type of compensation (termed coupe italienne in the vers de dix) is unknown in either the French alexandrin or its Italian derivative.26 And this compensation is 25
One feature of the endecasillabo that Sidney did not imitate was its almost invariable feminine ending; all lines in the sonnets of Astrophel and Stella have either 10M or 12M syllables. Sidney appears to have regarded the line of 10F as a separate metre and uses it only in strophes of mixed line lengths (see Bullett 1947: 213 and 215). Spenser was equally fastidious in finding masculine rhymes for the Faerie Queene. 26 When Italian poets began to imitate the French alexandrine in the eighteenth century, they made the line a settenario doppio (double hexasyllable) of 6F + 6F syllables, with thirteen syllables to the last stress in the line (see Elwert 1973: 79-80). The settenario doppio thus resembles the earliest medieval French alexan-
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what converts Spenser’s line into a true hexameter, a unified dodecasyllable, with twelve syllables and six feet, in contrast to Sidney’s alexandrin, which is a double trimeter of six and three.27 Although Spenser’s innovation added a measure of syllabic variety to the alexandrin that its model lacked, this did not lessen the accentual monotony (3 + 3) of an English stresssyllabic version. In the Faerie Queene Spenser offers a choice to subsequent English poets: pentameter or hexameter. In his stanza the pentameter predominates (in the ratio 8:1) for a good aesthetic reason: the opposite ratio would have been much more monotonous. Had he reversed the proportions, it is doubtful whether the resulting poem would have been as popular or influential as it turned out to be. 7. The Italian Line of Sidney and Spenser Hanson 1996: 80 attributes the rediscovery of the iambic pentameter to Sidney, who, like Chaucer, knew Italian and spent a substantial amount of time in Italy. There he would have learned to appreciate the variety provided by a line with an unobtrusive iambic rhythm and no fixed mid-line word boundary.28 Although he thought a fixed caesura appropriate to his alexandrins, in his decasyllabic verse he adopted and adapted the endecasillabo, just as Chaucer had done. The following lines, which open Sonnet IX of Astrophel and Stella, illustrate Sidney’s mastery of the metre and, in particular, his skill (far greater than drines with epic caesura (see Kastner 1903: 144), or lines of medieval Spanish cuaderna vía, which were modelled on the French (see Duffell 1999b: 151-54). 27 Although the alexandrin has never rivalled iambic pentameter in popularity, both Sidney’s divided and Spenser’s unified variants have continued into modern times. Poem 48 of A Shropshire Lad (Sparrow 1956: 83) by A. E. Housman (b. 1859, d. 1936) is a modern example of a poem in divided alexandrins, and Non sum qualis eram bonae sub regnae Cynarae (Gardner 1972: 807) by Ernest Dowson (b. 1867, d. 1900) is a modern poem in unified ones. Dowson’s lines are probably the most fluent and effective use of the metre in the English language. 28 Hanson 1996 uses as her examples of the Italian line the endecasillabi of Dante and Petrarch, but Sidney would probably also have encountered Tasso’s poetry of the 1560s, composed in endecasillabi that were much closer to his own English pentameters (see n7 above).
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Surrey’s) in deploying polysyllabic words of different accentual configurations: (40) Queen Vir-tue’s court, which some call Ste-lla’s face (41) Pre-par’d by Na-ture’s choi-cest fur-ni-ture
Thompson (1961: 139-55) argues that Sidney occupies a pivotal position in the development of EIP, because he adjusted the natural rhythms of English phrases to the iambic verse design more skilfilly than any poet before him. But this is more the result of his skilful employment of monosyllabic stress than of his cultivation of variety in midline word breaks. In the latter he was no more skilled than Dunbar: the proportion of flowing lines (like (41) above) is very close to the 24 per cent found in Chaucer’s early pentameters, and well below the 30 per cent found in the Canterbury Tales (see Duffell 2000b: 285 and 2002: 305). Spenser, on the other hand, employed mid-line word-boundary variation more skilfully than any of his predecessors. This can be seen from the following lines (19-21 and 25) of Canto I of the First Book of the Faerie Queene: they illustrate the rhythmic subtlety of the iambic pentameter and every mid-line word configuration that can be accommodated within it: (42) (43) (44) (45)
U-pon a great ad-ven-ture he was bond That grea-test Glo-ri-a-na to him gave That grea-test glo-rious Queene of Fae-rie lond To prove his pu-i-ssance in bat-tell brave
While (42) has a word break at position 4, (43) has a single word in positions 4-7, (44) one in 4-5, and (45) one in 4-6. According to my calculations, some 30 per cent of Spenser’s lines have no word break immediately following syllable 4, and this became the canonical proportion of subsequent English poetry (Duffell 2002: 305). Spenser was undoubtedly a superb metrical artist; George Saintsbury (1906: 350-58) and John Thompson (1961: 88-127) —80—
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rightly acknowledge the enormous contribution made by the Shepheardes Calender to the development of English stresssyllabic metrics.29 By the time William Shakespeare (b. 1564, d. 1616) came to write poems and plays in iambic pentameter, poets and audiences had internalized its rules, and every poet who subsequently employed it helped imprint those rules even more deeply in readers’ minds. The canon was thus a selfreinforcing phenomenon and, after a stuttering start, the iambic pentameter went on to dominate English long-line versifying for four centuries. Its ghost still haunts much of the free verse that has replaced it in popularity today: while many modern poets’ lines are defined by nothing but right-boundary irrationality, a substantial proportion of them can be sensed as echoes of the canon, virtual iambic pentameters. C. Conclusion To conclude, the struggle to develop an enduring long-line metre in English was a protracted one and ended only in the late sixteenth century. Although a number of other metres had some potential to become the canon, the examples of Sidney, Spenser, and Shakespeare were decisive in ensuring the victory of iambic pentameter. A long series of subsequent poets endorsed their choice, and the iambic pentameter’s dominance was only challenged at the end of the nineteenth century, when the panEuropean vogue for free verse swept over it and around it. While French metrics remained a rock that survived intact for almost a thousand years, English versification changed beyond recognition between 1066 and 1580. In the resultant metrical popularity contest the iambic pentameter emerged victorious for reasons that were linguistic, aesthetic, and sociological. It had in its favour that it was a good fit for the language, and that it offered a mixture of regularity and variety, appealing to the human desire for both security and stimulation. But it was also 29
Thompson devotes more than one third of The Founding of English Metre to Spenser and Sidney.
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JUAN FRAU 1. Introducción
L
a dicotomía tradicional que oponía fondo y forma, como medio de abordar el estudio del texto literario, perdió hace tiempo cualquier justificación y toda vigencia. Como ya pusieron de relieve los formalistas rusos primero y la nueva crítica anglosajona algo más tarde, no se trata de dos conceptos enfrentados o divergentes. Dicotomía (del griego dicotomia) conserva el significado etimológico de “división en dos partes”y no parece el término más adecuado para explicar la relación, mucho más compleja, dinámica y fructífera, que se da entre la forma y el contenido. La forma es, en sí misma, parte del contenido; no es un mero añadido al conjunto de ideas y sentimientos previos del poeta, sino que con frecuencia es posible reconocer en ella el elemento generador del texto. Si esto tiene validez en un plano general, conviene destacar la importancia que cobra la forma en el caso específico de la poesía en verso. El momento inicial de la creación poética, la génesis de un texto concreto, es con frecuencia, según el testimonio de numerosos poetas, fruto de la imprevista y súbita aparición de un determinado ritmo1 al que se van adhiriendo sucesivos vocablos; vocablos que, por otra parte, y en un estado posterior de 1
Cfr. Valéry, Paul: “Poesía y pensamiento abstracto”, en Teoría poética y estética, Visor, Madrid, 1990, págs. 102-103; cfr. Romero Luque, Manuel: Poesía y visión poética en don Miguel de Unamuno, Padilla, Sevilla, 2000, págs. 102-106.
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la composición, pueden venir requeridos o convocados por otro importante elemento formal: la rima. La necesaria repetición de los sonidos finales de un verso provoca la inclusión de ciertas palabras que pasan a ser elementos constituyentes del texto a causa de su materia fónica, pero que llegan acompañadas, necesariamente, de un contenido semántico. La escuela estilística, y Dámaso Alonso de forma destacable, ha defendido la existencia de una vinculación motivada entre el significante y el significado. La selección de las palabras dentro de un paradigma obedece con frecuencia a su carácter paronomástico o aliterativo con respecto a las que ya han sido utilizadas, o bien se produce, por idénticos motivos, la corrección y la sustitución de las palabras ya utilizadas por otras nuevas. El propósito de este artículo es, precisamente, el estudio de la métrica que emplea el poeta Blas de Otero y parte de la premisa –evidente, pero no siempre tenida en cuenta– de que el metro es un elemento esencial en la poética de todo autor que escribe en verso. El objetivo último de estas páginas es el de integrar el análisis de la métrica en la explicación de la obra del poeta vasco, y descubrir de qué manera los elementos rítmicos significan en su obra o determinan el texto resultante, así como mostrar y demostrar la continua correlación que se da entre la forma métrica y el contenido psíquico del poema, y cómo la evolución poética del autor incluye –y no es meramente paralela a ella– una evolución en los metros. No se pretende realizar aquí una simple descripción de los usos rítmicos de la poesía de Blas de Otero desvinculada del contexto, ni se persigue elaborar unas estadísticas que serían instrumentos útiles pero no objetivos suficientes.2 Se quiere, por el contrario, descubrir la verdadera significación –la importancia y al mismo tiempo el valor que tiene como signo– de la métrica en su obra. Sostiene Oldrich Belic en 2
Para una completa exposición estadística de los distintos tipos de verso que utiliza Blas de Otero, véase Ruano León, Juan: Blas de Otero. La lengua poética, Centro Asociado UNED, Córdoba, 1998, págs. 213-215, 221-223, 227-228, 243-250. Nos parecen erróneos, no obstante, todos los ejemplos aducidos de endecasílabos dactílicos y galaicos antiguos, que son endecasílabos comunes; cfr. op. cit., págs. 216-217.
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distintas ocasiones que el verso tiene potencia comunicativa; en la declaración de principios que encabeza Verso español y verso europeo declara que «el verso no es una serie de sonidos puros (vacíos), sino que es portador de significados»;3 más adelante insiste en que «el propio hecho de que el poeta se expresa en verso señala una actitud específica hacia la realidad comunicada»;4 no se trata sólo de que la versificación contenga cierta información previa, aquella que empuja al lector a considerar que muy probablemente no se encuentra ante una lectura de índole práctica sino ante una obra de arte,5 sino que, además, la enunciación versificada aporta algo más al significado global del texto, como se demuestra al prosificar los versos.6 El hecho de que el poeta haya decidido expresarse en verso y no en prosa, asumiendo las dificultades que ello implica, supone que espera que el texto resultante posea unos valores comunicativos añadidos. 2. Metapoesía. Reflexiones de Blas de Otero sobre la versificación Conviene comenzar por el análisis de aquellos textos en los que Blas de Otero reflexiona de manera explícita sobre algún aspecto de la métrica. Se trata de comprobar hasta qué punto es consciente el poeta del significado que tiene en su obra la elección de un metro determinado y en qué medida le preocupa la cuestión. Dado el objeto considerado, cabe distinguir en este respecto aquellas reflexiones que aparecen en textos en prosa de aquellas otras que se consignan en poemas en verso. Cuando se habla de la temática oteriana se alude de modo invariable y recurrente a asuntos como Dios, la muerte, España y lo social, pero suele olvidarse que uno de los temas principales es la pro3
Belic, Oldrich: Verso español y verso europeo. Introducción a la teoría del verso español en el contexto europeo, Instituto Caro y Cuervo, Santafé de Bogotá, 2000, pág. 28. 4 Ibidem, pág. 91. Vid. también pág. 68. 5 Ibidem, pág. 82. 6 Ibidem, pág. 88.
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pia poesía. Se ha de destacar que en la obra literaria de Blas de Otero, tanto en prosa como en verso, tiene una gran presencia e importancia la reflexión metapoética; en la totalidad de sus libros hay poemas que incluyen alguna reflexión sobre algún aspecto de la creación poética. Incluso en su primera publicación, que ve la luz en 1941 en el cuaderno de poesía Albor y que lleva por título 4 poemas, aparece un texto, el más extenso de los cuatro, titulado “La obra”, cuyo tema principal es la creación poética. La proporción es representativa con respecto a la totalidad de sus textos literarios; si partimos de los datos que ofrece Lucía Montejo,7 de los algo más de cuatro centenares de poemas escritos por Blas de Otero, ciento quince de ellos tratarían sobre la escritura, lo que supone más de una cuarta parte. En cuanto al porcentaje de textos metapoéticos, destacarían Mientras e Historias fingidas y verdaderas -ambos de 1970-, así como los poemas no recogidos con anterioridad en libro y que aparecen luego en Todos mis sonetos (1977) y Expresión y reunión (1981). Es decir, justamente los últimos libros de Blas de Otero –incluido uno póstumo–. El inmediatamente anterior, Que trata de España (1964), es el que, en términos absolutos, más textos metapoéticos contiene, treinta, aunque ello no constituye un alto porcentaje con respecto al número total puesto que se trata de la obra más extensa de Otero. La exposición de estos datos sólo pretende demostrar que nos encontramos ante un poeta consciente de su labor y preocupado por la esencia de la poesía. Ahora bien, dentro de ese centenar largo de textos metapoéticos son relativamente pocos los que se ocupan de la métrica y sus problemas. En su mayor parte, las reflexiones que hace Blas de Otero sobre la poesía tienen por objeto otros aspectos, tales como la función social del poeta, su lugar en la sociedad o la capacidad –o la incapacidad– que tiene de comunicarse con sus lectores deseados. Abundan también las reflexiones acerca de la forma poética, sobre todo en torno a cuestiones estilísticas, y hay, en fin, algún que otro texto que trata de la cuestión rítmica. 7
Montejo, Lucía: Teoría poética a través de la obra de Blas de Otero (Tesis doctoral), Universidad Complutense, Madrid, 1988, pág. 124.
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Tal como se ha anunciado, se distinguirán los textos metapoéticos escritos en prosa de aquellos otros que se presentan en verso, de manera que procedemos al análisis de los primeros. 2.1. Reflexiones en prosa sobre el verso Es en Historias fingidas y verdaderas donde se encuentran los comentarios en prosa más significativos en torno a la métrica. En el cuarto texto, titulado “El verso”, se puede leer: Entre la realidad y la prosa se alza el verso, con todas las ventajas del jugador de ajedrez y ninguno de sus extravagantes cuadros. Ni siquiera el soneto, tan recogido él, tan cruzado de brazos. Pues alguien lo acantiló, lo precipitó por dentro, abombando sus límites para que una historia completa cupiera en una palabra tan triste como ésta. [...] El verso es distinto, ni realidad encogida ni prosa en exceso descalabrada.8
Como puede verse, y en consonancia con la línea general del libro, no se trata tanto de una argumentación clara, lógica y razonada cuanto de una exposición basada sobre todo en intuiciones y expresada mediante un estilo figurado. Queda claro, en todo caso, que el poeta observa entre el verso y la prosa una separación fundamental que, aunque formal, determina y condiciona la relación del texto con su referente. Pone como ejemplo, y no es casualidad, al soneto, forma estrófica predilecta del poeta y que se constituye en tema destacado de varios de sus textos metapoéticos, como se verá más adelante. Se toma el soneto en este fragmento como ejemplo extremo de versificación sujeta a unos moldes y preceptos determinados; el carácter que aquí le atribuye Otero es el de una forma que destaca por su estructura ordenada, por su brevedad y por sus aparentes limitaciones –«tan recogido él, tan cruzado de brazos»–, pero incluso una forma tan constreñida como lo es ésta permite que el poeta encuentre la manera de expresarse suficientemente. En el texto siguiente de Historias fingidas y verdaderas, titula8
Otero, Blas de: Historias fingidas y verdaderas, Alianza, Madrid, 1980, pág. 33.
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do “Prosa”, Otero insiste en el carácter relevante y significativo de la forma poética y en la distancia que media entre la prosa y el verso –«no da lo mismo el tamaño de los renglones ni la longitud de la sintaxis»–,9 distancia que no disminuye con la introducción del verso libre, al que Otero concede la virtud y la riqueza de un ritmo menos previsible, pero contra cuyo uso excesivo previene: «porque el verso se hizo hombre no quiere decir que cualquier ciudadano alcance el don –así se llamaba, antes de Baudelaire, a mi mesa de trabajo»–.10 Es decir, el verso libre, y sobre este respecto Blas de Otero comparte la desconfianza de otros poetas anteriores como Eliot o Machado, no es, ni debe ser, excusa para el descuido o sinónimo de improvisación. En un texto posterior protesta en este mismo sentido: «toda la ciencia del poeta no es más que expresarse por la libre –no ese verso que no es libre porque no es verso, ni ritmo, ni muerto»–.11 De igual modo que tampoco la versificación, regular o no, es sinónimo de poesía: «te hiciste cómplice, amigo, y llamaste poetas a los que escriben versos o algo parecido»,12 se dice a sí mismo el autor. Es necesario ante todo, que el poeta se aplique a la tarea creadora con esfuerzo y rigor; Blas de Otero participa en el debate secular que enfrenta al poeta artífice con el poeta inspirado y se decanta por el primero, por la importancia del trabajo –un trabajo, además, llevado a cabo bajo las directrices del arte–. Podemos concluir que, según el autor vizcaíno, el dominio de la técnica es un requisito indispensable, aunque no suficiente. La primera afirmación del texto titulado “Del peligroso mundo” resume la paradoja: «Ésta es la cuestión: escribir libre, fluida y espontáneamente: al menos en apariencia».13 Ésa última precisión –“en apariencia”– matiza la defensa de la libertad de la escritura y expresa lo que tantos poetas y críticos han señalado como el mayor acierto del creador de textos poéticos: utilizar la técnica literaria con el último fin de ocultar al lector todo el andamiaje 9
Otero, Blas de: Historias fingidas y verdaderas, cit., pág. 34. Ibidem. 11 "Reglas y consejos de investigación científica", ibidem, pág. 39. 12 Ibidem, pág. 45. 13 Ibidem, pág. 35. 10
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que sostiene a la obra y conseguir la impresión de la facilidad y la naturalidad; como se defiende en Sobre lo sublime, «la mejor figura es aquella que hace que pase desapercibido precisamente esto: que es una figura».14 En cualquier caso, la idea de que «las palabras suenen libres, vivas, con dispuesta espontaneidad».15 se repite en varios pasajes de la obra de Blas de Otero. Pero, conviene insistir en ello –y subrayar el oxímoron–, se trata de una espontaneidad “dispuesta”, artificiosa, esto es, artística: basada en la técnica, y que en modo alguno está reñida con el uso cuidado de una determinada forma métrica. Junto a la preocupación de Blas de Otero por el verso libre, en sus textos en prosa también se ocupa del ritmo y la musicalidad. Tal como antes se decía, a veces un ritmo o un metro determinado abre el camino a una palabra que todavía se desconoce. Otero refleja este momento del proceso creativo en otra prosa de Historias fingidas y verdaderas, “La plegadera”, donde habla de una palabra que anda buscando: Es una palabra que existe puesto que la necesito, sé su sonido y su movimiento, casi su significado aunque ignore lo que deseo expresar en tanto no tenga la palabra; brota una sílaba y no sabe colocarse, toco el vacío lleno de un ritmo inquietante.16
En cierta medida, el poeta reconoce que en lo formal se encuentra la esencia de la creación, puesto que, cuando el significado apenas se intuye, algunos de los elementos fónicos –hemos de suponer que el acento, el número de sílabas, tal vez el tono o el timbre– están en cierto modo predeterminados, o al menos condicionan la selección del léxico. Junto a la técnica que hemos calificado de imprescindible hay, sin embargo, algo más –la poesía no es sólo cuestión de matemática–; queda espacio también para cierto grado de inspiración, aunque sujeta al orden: una vez que hay un ritmo establecido, señala Otero, todavía aparecen 14
'Longino': Sobre lo sublime, Gredos, Madrid, 1979, pág. 182. Otero, Blas de: “Poesía y palabra”, Historias fingidas y verdaderas, cit., pág. 37. 16 Ibidem, pág. 37. 15
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palabras que no encuentran acomodo y lagunas en el texto, hasta que «de pronto, surge la palabra, sencilla y única».17 2.2. Reflexiones en verso En los versos de Blas de Otero tiene una presencia considerable, como se ha dicho, la reflexión metapoética. La explicación de que sus poemas abunden en consideraciones estéticas se halla fundamentalmente en la confluencia de dos circunstancias: el evidente interés de Otero por comprender y explicar lo que hace -hay que tener presente que Blas de Otero renuncia a toda otra actividad profesional para dedicarse en exclusiva a la poesía- y, por otro lado, la idea de que toda explicación vertida al margen del texto poético constituye para el autor un rotundo fracaso artístico. Los poemas deben explicarse y defenderse por sí mismos, y por eso es en ellos donde Blas de Otero incluye lo que, en un sentido lato, podemos llamar su teoría poética. Como se ha adelantado, en lo que respecta de forma clara y directa a la métrica, apenas podemos encontrar entre los versos de Otero algunas referencias al soneto. Sin embargo, hay una serie de ideas y conceptos, varios de ellos recurrentes, que sin pertenecer al dominio de la métrica la incluyen en cierto modo o están cerca de ésta. Por ejemplo, es notable la relativa frecuencia con la que aparece la palabra “sílaba” en su obra. La sílaba, hecho de habla y elemento fundamental del verso, constituye para Blas de Otero el principio rítmico de la literatura en general y de su obra en concreto, la pieza básica que permite construir el verso, el poema y el libro: «sílaba / hilada letra a letra, / ritmo mordido».18 La metáfora que identifica escritura e hilado y que sitúa en este proceso la génesis del ritmo no es casual y se repite en otro poema posterior: «Y, línea a línea, hile / el ritmo de los días venturosos».19 La sílaba vuelve a asociarse al ritmo en el poema “Voz del mar, voz del libro”, y se convierte en una suerte de sinécdoque que, como parte del todo, puede desig17
Ibidem, pág. 38. Otero, Blas de: Que trata de España, Visor, Madrid, 1985, pág. 30. 19 Ibidem, pág. 137. 18
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nar al proceso entero de la creación; en este poema concreto se debate en torno a la condición popular o elitista de la poesía, y se opone el «ritmo / de trabajo manual» al lujo que supone la talla -no ya el hilado- del poema: «Y yo, sentado en una silla, sílaba / a sílaba, les silbo en los oídos / que sí, que estoy tallando una sortija».20 También en el soneto que se titula significativamente “Palabras sin sentido” se alude a las «sílabas silbantes que se abrasan», condición de «este endiablado oficio».21 En el poema “Prefacio” habla el poeta de su forma de escribir y destaca: «y silabeo de verdad, en plata».22 con lo que insiste una vez más en el papel fundamental que posee la sílaba en la construcción del discurso, al tiempo que utiliza un término con cierta raigambre en los estudios métricos, el que propuso Miguel Agustín Príncipe en 1862 para aludir a la pronunciación separada de las sílabas,23 aunque el término que finalmente se ha impuesto es el de escansión. En el fondo, si bien la utilización recurrente de “sílaba” en los poemas de Blas de Otero da una idea de la importancia que para él tiene la materialidad del texto, su condición fónica y la presencia del ritmo, no es menos cierto que el uso del término se inserta con frecuencia en una reflexión que excede a las consideraciones métricas y que tiene una gran importancia en su teoría poética: la oposición entre el cuidado de la forma y el valor del contenido, así como las implicaciones que esa relación tiene en el carácter popular o elitista de la obra. Esas «sílabas silbantes» a las que hemos aludido simbolizan el cuidado exquisito de la forma y el carácter seductor de un verso cuidado –“tallado”–, y se oponen a las «sílabas anchas» de las que habla Blas de Otero en repetidas ocasiones. En Pido la paz y la palabra queda patente la consideración positiva que le merece el término al poeta: «Pero tú, Sancho Pueblo, / pronuncias anchas sílabas»,24 en Que trata de España consigna también el contraste entre la palabra 20
Otero, Blas de: Que trata de España, cit., pág. 61. Otero, Blas de: Todos mis sonetos, Turner, Madrid, 1977, pág. 101. 22 Otero, Blas de: Ancia, cit., pág. 133. 23 Cfr. Domínguez Caparrós, José: Contribución a la historia de las teorías métricas en los siglos XVIII y XIX, CSIC, Madrid, 1975, pág. 198. 24 Otero, Blas de: Con la inmensa mayoría. Pido la paz y la palabra, Losada, Buenos Aires, 1972, pág. 42. 21
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del pueblo y la del poeta: «Da vergüenza encender una cerilla, / quiero decir un verso en una página, / ante estos hombres de anchas sílabas».25 El contexto de ambos poemas aclara aún más los términos de la polémica: habría una divergencia manifiesta entre la vida y los libros, el habla y la gramática ortodoxa, el poeta y el pueblo al que pretende llegar. Conviene insistir en ello: es un problema que excede al ritmo o a la métrica, pero lo incluye, y resulta significativo que Blas de Otero, en algunas ocasiones, se valga de la sílaba para cifrar ese enfrentamiento. El poema “Aquí hay verbena olorosa” trata de conciliar la oposición y ofrece una síntesis última que aglutina tesis y antítesis; dice en él que pretende hacer «un verso vivo y verdadero» y que, en última instancia, se dirige al pueblo y admira la forma clara y sencilla en que éste habla, pero la clave poética se encuentra al principio de la segunda estrofa: «Voy al fondo. / Voy al fondo dejando bien cuidada / la ropa. Soy formal».26 Se busca, en definitiva, el equilibrio o la confluencia entre el respeto a la forma y al contenido, de manera que ninguno de los dos resulte preterido o dañado. La crítica ha señalado, lógicamente, este conflicto, que determina la evolución métrica y poética de Blas de Otero y que tiene su momento culminante en el decenio 1955-1965; Claude Le Bigot, por ejemplo, afirma que «resulta clarísima la opción oteriana que supedita la creación poética (construcción de base estética) a un principio ético»27 y destaca la «reflexión sobre el uso social de su forma».28 Quizás sea el poema “Cartilla (poética)” el que mejor refleja la postura de Otero; el principio del texto expone los derechos y exigencias de la poesía, y el poeta, en alusión al rigor formal y al necesario trabajo, afirma ser «el primero en sudar tinta / delante del papel», pero concluye que también hay unos deberes insoslayables en el plano social. Ese difícil equilibrio entre la forma poemática, los temas y la rela25
Otero, Blas de: “Palabra viva y de repente”, en Que trata de España, cit., pág. 46. Ibidem, pág. 83. 27 Le Bigot, Claude: “El compromiso de la escritura en la trilogía Que trata de España”, en Ascunce, José Ángel (ed.): Al amor de Blas de Otero, Mundaiz, San Sebastián, 1986, pág. 282. 28 Ibidem, pág. 289. 26
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ción pretendida con el receptor determina la trayectoria literaria de Blas de Otero y la evolución métrica y estilística de sus poemas. Esa trayectoria queda reflejada, de manera subjetiva pero de acuerdo con los hechos, en “Impreso prisionero”, texto en el que el poeta repasa su obra desde los comienzos; hacia la mitad del poema llega a la que también es época central de su escritura, y señala : «Pido / la paz y la palabra, cerceno / imágenes, retórica / de árbol frondoso o seco, / hablo / para la inmensa mayoría». Son palabras sintomáticas y reveladoras de la progresiva voluntad de simplificación formal que rige su evolución poética y que, como también ha señalado con frecuencia la crítica, se traduce en ciertos cambios en la métrica que más tarde se analizarán. Para terminar con las declaraciones relativas a la métrica que se observan en los versos de Blas de Otero –aunque aún queda un espacio para el soneto–, cabe destacar un par de afirmaciones que inciden en la voluntad de una renovación métrica basada en la liberación del verso. Es un aspecto que se habrá de tratar con mayor detenimiento unas páginas más adelante, pero en Pido la paz y la palabra se puede leer, por ejemplo, que entre las razones del aprecio a Walt Whitman se encuentra «su hermoso verso dilatado»,29 y en un poema posterior de la misma obra se lee: «Romped / contra mi verso, resonad / libres»,30 En éste último caso se trata de una exhortación al mar y al viento, pero en una poesía tan cuidada como la de Blas de Otero no se puede atribuir a casualidad alguna la cercanía de “verso” y “libres”, sobre todo si se tiene en cuenta que el poema en cuestión está compuesto, precisamente, en verso libre, y resulta legítimo pensar que el autor tiene presente la alusión al verso libre cuando escribe estas palabras. 2.3. El soneto Blas de Otero ha sido reconocido como uno de los principales sonetistas de la poesía española, tanto por la cantidad proporcional dentro de su obra –Sabina de la Cruz cuenta un 50% de los poe29 30
Otero, Blas de: Pido la paz y la palabra, cit., pág. 30. Ibidem, pág. 60.
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mas de Ángel fieramente humano, un 66% de los de Redoble de conciencia, un 20% en Que trata de España–31 como por la calidad indiscutible de sus sonetos. En lo que respecta a su metapoesía, el soneto es uno de los asuntos con mayor presencia, lo que se corresponde con su predilección por esta forma estrófica. Dejando a un lado la prosa, hasta en ocho poemas distintos, todos ellos sonetos, la menciona el poeta. Cuando Otero habla del soneto, y ya desde el principio de su obra, deja traslucir una clara simpatía por él, y en ocasiones se adivina un cierto orgullo a la hora de aludirlo. Por ejemplo, cabe advertir cómo uno de los primeros poemas de Ancia, titulado “Estos sonetos”, comienza con los versos: «Estos sonetos son las que yo entrego / plumas de luz al aire en desvarío»;32 en cierto modo se está destacando la forma estrófica y, lo que es más importante, se está usando el soneto como representante del conjunto de los poemas del libro, o al menos de la sección en la que se encuentra el mencionado, pese a que no todos los textos que comparten tema, tono y estilo lo son –ni en la sección de Ángel fieramente humano ni en la de Ancia–. El afecto por la forma estrófica queda reflejado en ese mismo poema, en el que ella misma es interpelada con un significativo posesivo: «Soneto mío, que así acompañas mi palpar de ciego». La elección del término, por otra parte, no está determinada en ninguno de los dos casos por razones métricas o fónicas -de rima o aliteración-, y el autor hubiera podido escribir «estos poemas» o «poema mío» sin dificultad ni perjuicio alguno; lo mismo sucede cuando, en una prosa de Historias fingidas y verdaderas, afirma: «muchos sonetos de Quevedo adquieren esa facha escalofriante al ser escritos en Madrid»,33 con lo que Otero expresa de nuevo su aprecio por la forma estrófica y pretende destacarla dentro de la producción quevediana como género por excelencia. Hay que destacar, por otra parte, que casi siempre que Blas de Otero alude al soneto lo hace, precisamente, 31
Cruz, Sabina de la: “Los sonetos de Blas de Otero”, en Otero, Blas de: Todos mis sonetos, cit., pág. XII. 32 Otero, Blas de: Ángel fieramente humano, Ínsula, Madrid, 1950, pág. 61; Ancia, Visor, Madrid, 1984, pág. 33. 33 Otero, Blas de: Historias fingidas y verdaderas, cit., pág. 57.
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utilizando el soneto –con la excepción de las dos prosas mencionadas de Historias fingidas y verdaderas, aunque en la última de ellas la alusión es circunstancial–. El elogio mayor de Blas de Otero al soneto es sin duda el que contiene el poema titulado “Su íntimo secreto”, que comienza afirmando: «El soneto es el rey de los decires. / Hermoso como un príncipe encantado». Entre las características que atribuye al soneto en dicho texto destacan el carácter “cuadriculado”, así como la equivalencia a «unos remos de marfil y oro», con lo que se alude, en primer lugar, a su carácter racional, y en segundo lugar a su belleza y a la manera en que sirve de apoyo a la expresión del pensamiento. La primera idea no es novedosa: tradicionalmente se ha visto en el soneto la estructura ideal para desarrollar un concepto y se ha destacado su forma arquitectónica, equilibrada y favorable a la argumentación. La segunda idea es significativa y tal vez más interesante: se está atribuyendo a la forma estrófica la condición de instrumento auxiliar en la creación poética; la forma del soneto permitiría al poeta tomar impulso, o, dicho de otro modo, el pensamiento del poeta encuentra los asideros oportunos para construir el texto poético gracias a las exigencias de la forma estrófica: brevedad del texto, estructura dividida en cuatro estrofas, esquema de la rima, número de sílabas, disposición de los acentos, y también otras características tomadas de la tradición, como un tono y un estilo determinados, por ejemplo. Para Blas de Otero es primordial la idea de que las dimensiones del soneto y su estructura son adecuadas para una determinada exposición del pensamiento, pero más aún: de manera previa a la expresión, la estructura del soneto favorece la propia evolución del pensamiento, su desarrollo mismo; el soneto es un espacio idóneo para que las ideas tomen cuerpo. En cuanto a la relación entre esas ideas y el soneto, Blas de Otero insiste especialmente en dos factores: la condición retorcida del soneto y su capacidad para contener, pese a su breve dimensión, un pensamiento e incluso una historia completa. Por lo que respecta a lo primero, ya en “Su íntimo secreto” se —99—
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nos dice: «quede tu pensamiento destrozado / cuando te lances de cabeza y vires». Blas de Otero se refiere a su propio pensamiento y a su propio soneto; es consciente de que dicha forma estrófica puede ser, en general, paradigma de equilibrio, orden y claridad expositiva, pero entiende que el suyo es un soneto distinto; de ahí que diga en otro lugar: «La historia de mi vida es un soneto / encabalgado, con la rima coja».34 En estos últimos versos se expresa la otra característica fundamental que Otero atribuye al soneto, esa capacidad de contener una historia completa, en este caso la de su vida –de hecho hay un soneto que se titula, precisamente, “Historia de mi vida”–, al igual que se aprecia en “El huerto”: «Orozco cabe en un soneto».35 En “Tercer movimiento” la definición es más irracional e impresionista: «Qué es un soneto, un vaso, un hastaluego, / un granado florido, un hombre errante»; pero en este poema, en la siguiente estrofa, encontramos otra afirmación relativa a la métrica que resulta aún más interesante: «qué es verso libre y largo al que no llego / por más que estire el brazo hacia delante». Es significativa la confrontación entre el soneto y el verso libre; en tanto que el primero se identifica en mayor medida con elementos que evocan satisfacción como el vaso o el granado florido –aunque también se halla el hombre errante, connotando el conflicto–, el segundo, el verso libre, se nos muestra como aspiración y como objeto anhelado pero huidizo. De ésta y de otras afirmaciones se desprende que Blas de Otero es consciente de su dominio magistral del soneto, forma de la que conoce todos los secretos y en la que puede expresar cualquier sentimiento o concepto; la seguridad que se observa en este respecto contrasta con las reticencias que muestra ante el verso libre. Ya se vio antes cómo prevenía contra los excesos del verso libre, forma que sin embargo le atrae y en la que escribe gran parte de sus poemas, a pesar de las vacilaciones observadas. Puede observarse cómo Otero aspira a dominar el verso libre en la misma medida en que domina la construcción del soneto; al igual que el soneto le 34 35
Otero, Blas de: Todos mis sonetos, cit., pág. 113. Ibidem, pág. 115.
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ha servido perfectamente para expresarse en el pasado, el verso libre es la forma métrica apropiada para el futuro. Es la idea que culmina el libro Todos mis sonetos, cuyo último texto adopta una disposición gráfica que recuerda a la del soneto, sin serlo; el texto se titula “Hagamos que el soneto se extienda”, e incide en esa colisión entre el verso libre y el soneto: «Hagamos que el soneto se extienda, respire como un mar sin riberas, / el endecasílabo está gastado, romo, mordisqueado cual aquella carta mía a los dioses, / demos espacio, elasticidad al soneto y el endecasílabo».36 Se señala, pues, la crisis del soneto y la necesidad de su expansión, su ensanchamiento, lo que se expresa, como puede comprobarse, en un verso predominantemente libre; sin embargo, como ha revelado Esteban Torre en su análisis de este pseudo-soneto: al final del poema, la completa ametría del verso libre va volviendo a los cauces del verso regular. Tras un desmayado endecasílabo sáfico (con fuerte acento en la sílaba octava, y sólo insinuado en la cuarta), aparecen dos perfectos alejandrinos.37
Es un deseo, este del versolibrismo y la ruptura de moldes métricos, que recuerda a las connotaciones que atribuía Otero a las «sílabas anchas», y de hecho él mismo destaca, en otro poema, cómo su propio uso del soneto ha evolucionado desde sus primeros libros: «A los cincuenta y tres años de mi vida / el soneto es distinto, las vocales / más anchas».38 En Blas de Otero es constante esa revisión del pasado, el análisis de su trayectoria, la recapitulación, la evaluación y el apunte del camino que persigue; en otro poema se pregunta: «¿Qué ha sido del soneto en estos años / de libre verso y ritmo prometeo?»39 Sin embargo, pese a esa crisis explícita del soneto y a la volun36
Ibidem, pág. 132. Torre, Esteban: Métrica española comparada, Universidad de Sevilla, Sevilla, 2000, págs. 109-110. 38 Otero, Blas de: Todos mis sonetos, cit., pág. 96. 39 En Luis, Leopoldo de: Antología de la poesía religiosa, Alfaguara, Madrid, 1969, pág. 153. 37
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tad declarada de ensancharlo hasta llegar al verso libre, y pese a que puede comprobarse cómo la evolución métrica de la poesía de Otero se aleja, efectivamente, del predominio inicial del soneto y del endecasílabo, el poeta no puede evitar que la simpatía por esta forma estrófica perdure hasta el final de su obra. El libro Todos mis sonetos no es una mera recopilación de los sonetos publicados por Blas de Otero a lo largo de su trayectoria poética, sino que -al mismo tiempo que excluye varios de ellos- incluye más de cuarenta sonetos inéditos; la explicación que da el propio poeta en el encabezamiento es significativa: Durante estos últimos años he estado escribiendo mi nuevo libro Hojas de Madrid con La galerna, todo él en verso libre o versículo. Pero de vez en cuando se me cayeron de las manos algunos sonetos, que no forman parte de dicho libro e incluyo aquí.
La manera en que justifica o explica la aparición de los sonetos en una época en la que se dedica a escribir en verso libre implica varias cosas: que no hay planificación, que se trata de un hecho extraño en las coordenadas de su poética del momento, se puede decir que imprevisto e involuntario, y que, pese a ello, no le ha sido posible resistirse al impulso de escribirlos. En cierto modo, la propia forma poética parece asaltarle y se le impone casi de manera independiente a su voluntad. Hay que tener en cuenta, sin embargo, y tal como ha señalado la crítica, que una buena parte de los sonetos de Blas de Otero tiene, en palabras de Gianni Spallone, una «dudosa pureza fisiológica»,40 ya que está formada por modelos rítmicos que no se corresponden con el modelo petrarquista; Spallone encuentra hasta 27 esquemas irregulares y habla de sonetos, metasonetos e incluso antisonetos.41 Esa heterodoxia se produce como consecuencia de la disposición de la rima, de la introducción de distintos metros en el mismo poema, del uso de metros inusuales 40
Cfr. Spallone, Gianni: “Para un Inventario rítmico de los sonetos de Blas de Otero”, en Ascunce, José Ángel (ed.): Al amor de Blas de Otero, cit., pág. 205. 41 Ibidem, págs. 214-215.
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como el dodecasílabo o incluso de la construcción de poemas que siguen el modelo del soneto pero que no tienen catorce versos –carecen del último verso esperable, o añaden un texto a manera de estrambote–. Resulta significativo, en todo caso, ese juego de renovaciones de la estrofa clásica por excelencia, acorde con la voluntad explícita del poeta de «ensanchar el soneto», enriqueciendo el paradigma y aprovechando las tensiones que se producen entre el rigor de la norma y el placer de la variación, entre la tradición clásica y la innovación. Como conclusión provisional, conviene destacar que Otero admira al soneto pero entiende que dentro de su poética pertenece más bien a una etapa inicial y tal vez superada, aunque de vez en cuando, y al margen del plan general de su obra y de las directrices dominantes en su poética, el soneto se imponga de nuevo y sea recibido con simpatía por el poeta. El verso libre se presenta, por el contrario, como aspiración, aunque inspira al mismo tiempo ciertas reticencias y prevenciones. Podríamos oponer el plano teórico al plano técnico o artístico: en la teoría el verso libre se entiende como una forma cargada de connotaciones positivas en el plano ideológico; tal como Victoria Utrera afirma a propósito de Whitman –cuyo verso ha elogiado Blas de Otero–, «las cadencias libres se relacionan con la libertad métrica, pero también con la libertad política e ideológica»;42 además, sucede igual que en el versolibrismo francés, donde «el verso libre es considerado como verso fluido que se adapta fácilmente al pensamiento individual».43 O, como afirma Isabel Paraíso, el verso libre «permite al poeta una total libertad interior», «cada poeta opera una elección: escribe su verso libre».44 Pero, por el contrario, a la hora de llevar a la práctica ese deseo de libertad, Blas de Otero parece no quedar satisfecho: previene, como hemos visto, contra el uso descuidado y carente de arte del verso 42
Utrera Torremocha, María Victoria: Historia y teoría del verso libre, Padilla, Sevilla, 2001, pág. 67. 43 Ibidem, pág. 91. 44 Paraíso, Isabel: La métrica española en su contexto románico, Arco/Libros, Madrid, 2000, pág. 210. Cfr. Paraíso, Isabel: El verso libre hispánico. Orígenes y corrientes, Gredos, Madrid, 1985, pág. 401.
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libre por parte de algunos malos poetas, que se escudan en la ausencia de normas para ocultar su falta de rigor, y al mismo tiempo señala cómo él mismo no es capaz de dominar por completo y de manera plenamente satisfactoria esta forma huidiza. 3. Valor comunicativo de la métrica en la poesía de Blas de Otero Lamenta José Domínguez Caparrós el hecho de que se tienda «a pensar que la métrica se limita a la descripción de unos esquemas desvinculados de cualquier problema de significación»,45 rechaza que la forma métrica sea «un esquema vacío y carente de significado» y reivindica la importancia de la función organizadora que desempeñan el metro y la rima incluso en los planos morfológico, sintáctico y semántico.46 Esteban Torre afirma al respecto que «el ritmo del verso se apoya de una u otra manera en el significado y en el orden sintáctico» y que «el contenido morfosintáctico y semántico constituye el hilo conductor de la expresión rítmica, al tiempo que los elementos acústicos del ritmo facilitan la percepción y la memorización de los significados».47 Estas afirmaciones, cuya oportunidad y justicia están fuera de toda discusión, servirán de punto de partida y de referente constante en el estudio de la versificación de Blas de Otero; si tienen una validez general en lo que atañe a la literatura en verso, cabe esperar que la obra del poeta bilbaíno, tan cuidada y consciente, ha de revelar una solidaridad especialmente notable entre los elementos rítmicos y semánticos. Por lo pronto, debe destacarse el significado que tiene –y que trasmite– el hecho de que el poeta se decante por un metro determinado a la hora de crear un texto. Sería muy discutible, 45
Domínguez Caparrós, José: “Métrica y semiótica”, en Estudios de métrica, UNED, Madrid, 1999, pág. 13. 46 Ibidem, págs. 16-21. Cfr. Domínguez Caparrós, José: Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, UNED, Madrid, 1988, pág. 9. 47 Torre, Esteban: El ritmo del verso, Universidad de Murcia, Murcia, 1999, pág. 63.
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y en todo caso muy difícil, establecer de una manera objetiva y alejada de todo impresionismo cualquier vínculo entre una estrofa o una forma estrófica y determinado valor significativo. Un ejemplo histórico de tales vínculos es el del discor, canción trovadoresca cuyo nombre –del provenzal descort: “desacuerdo” o “discordia”– responde a la asociación entre la mezcla de metros y la turbación de los sentimientos que suele expresar;48 otro caso ejemplar es el de las escalas métricas, que, más allá del virtuosismo pretendido, responde al intento de acomodar el metro al asunto tratado.49 Esa asociación entre el metro y el significado de una manera más o menos sistemática es lo que intentó, por ejemplo, Lope de Vega en su célebre Arte de hacer comedias, donde recomienda: Acomode los textos con prudencia / a los sujetos de que va tratando. / Las décimas son buenas para quejas; / el soneto está bien en los que aguardan; / las relaciones piden los romances, / aunque en octavas lucen por extremo. / Son los tercetos para cosas graves, / y, para las de amor, las redondillas.50
También Luis Alfonso de Carballo, en su Cisne de Apolo, pide «que los versos y coplas sean conforme a la materia», y establece distintas reglas; el redondillo menor, por ejemplo, serviría «para donayres, y passatiempos, letras y cosas de niñerías», el verso de arte mayor «sirue a cosas deuotas y exemplares y doctrinas subidas», y «los seruentesios para relaciones».51 No resulta fácil, insistimos, reconocer el vínculo intrínseco 48
Cfr. Navarro Tomás, Tomás: Métrica española, Labor, Barcelona, 1995, pág. 164-166; Domínguez Caparrós, José: Diccionario de métrica española, Alianza, Madrid, 1999, pág. 115. 49 Cfr. Navarro Tomás, Tomás: Op. cit, pág. 393; vid. Paraíso, Isabel: “La escala métrica en la polimetría romántica”, en este mismo número, que es reproducción de la conferencia “La métrica romántica”, pronunciada en el seminario dirigido y coordinado por Esteban Torre, Métrica y Poesía, 2002, celebrado en la Universidad de Sevilla del 23 al 27 de septiembre. 50 Vega, Lope de: “Arte nuevo de hacer comedias”, en Obras selectas, Aguilar, México, 1991, tomo II, pág. 1010. 51 Carballo, Luis Alfonso de: Cisne de Apolo, CSIC, Madrid, 1958, tomo II, págs. 126-127.
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entre una forma estrófica y un contenido intelectual o afectivo, como querían Lope o Carballo, y autores como Jakobson o Tinjanov han mostrado su oposición a explicaciones de tipo simbólico.52 Sin embargo, es cierto que el buen poeta utiliza el metro que entiende más adecuado para expresar un determinado pensamiento -que puede surgir, de hecho, al hilo de ese metro-; las palabras de Clemente Cortejón, citadas por Domínguez Caparrós, son reveladoras en este respecto: Es una ley vaga, pero cierta y de buen gusto, aquella tan conocida de que cada asunto, por una afinidad inexplicable, por una razón oculta que no se nos alcanza, debe llevar siempre un metro especial, el metro que mejor cuadre a la manifestación de las ideas, a la expresión de los afectos que soliciten y embarguen el corazón del poeta.53
Aunque la sistematización de esas relaciones sea poco menos que impensable, también el crítico literario tiende a justificar, llegado el caso, el empleo de una cierta estrofa o a evaluar el acierto de un determinado ritmo en un poema concreto. Isabel Paraíso constata que «en el teatro, el poema mixto está justificado por la necesidad de acomodar la métrica a las circunstancias de la acción», y señala como asunto destacado en los estudios métricos el hecho de que existen relaciones «entre el molde métrico y el género que representa; entre la estructura métrica y la temática que esa forma aborda».54 Tampoco sería justo, por lo tanto, decir que todo ello se reduce a un puro impresionismo subjetivo y precipitado. La literatura, como sistema o institución cultural que es, participa de una serie de convenciones y, al encontrarse inmersa en una línea histórica, va conformando una tradición, de manera que los poetas de una época heredan nor52
Cfr. Domínguez Caparrós, José: Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, cit., pág. 59. 53 Cortejón, Clemente: Nuevo curso de Retórica y Poética, 1893, p. 281. Apud Domínguez Caparrós, José: Contribución a la historia de las teorías métricas en los siglos XVIII y XIX, cit., pág. 374. 54 Paraíso, Isabel: La métrica española en su contexto románico, Arco/Libros, Madrid, 2000, págs. 342 y 349.
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mas y procedimientos de épocas precedentes. Así pues, al margen de que por naturaleza pueda vincularse o no una determinada forma estrófica con una serie de contenidos, es innegable que se trata de algo que en ciertos casos sí puede hacerse apelando a la tradición poética. 3.1. La métrica de Blas de Otero en el contexto de su poética. El ritmo como herencia Con frecuencia un verso o una estrofa concretos vienen cargados de una determinada significación debido al uso que han tenido en el pasado, dentro de esa tradición a la que antes se aludía. Cuando el poeta es un artista consciente de lo que hace, la elección del verso nunca es casual, pero en estos casos lo es menos aún, puesto que se está haciendo referencia de una manera más o menos explícita a textos literarios que el lector competente debe conocer; en el supuesto de que no los conozca, evidentemente, no los podrá reconocer, y habrá un pequeño fracaso comunicativo o una pérdida de información, que será más o menos significativa según la importancia que, en el poema, tenga esa alusión formal. Por ejemplo, en un poema titulado “Copla” –el título ya anticipa la alusión contenida–, escribe Blas de Otero: «¿Qué se hizo aquel soñar, / aquel anhelar y ansiar, / qué se hizo? / ¿Qué fue de tanto clamar, / desesperadamente, en el vacío?».55 El receptor implícito de este texto es aquel que sabe reconocer el eco de Manrique, y ello por dos vías: por la del contenido y por la de la forma. Blas de Otero utiliza el tópico del ubi sunt?, y lo hace igual que Manrique, con una sintaxis similar y con el mismo molde estrófico, aunque al mismo tiempo introduce algunas variaciones y en rigor sólo compone media sextilla canónica, lo suficiente, por otra parte, para conseguir el efecto pretendido. Otero recurre a procedimientos semejantes en distintas ocasiones; no es casualidad, por ejemplo, que el poema “Vámonos al campo”, cuyo interlocutor es Don Quijote, y cuyo esquema es el del soneto, esté escrito en versos dodecasílabos–salvo un 55
Otero, Blas de: Que trata de España, cit., pág. 42.
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pie quebrado en el segundo cuarteto–, verso cuyo uso en la poesía de Blas de Otero es muy minoritario y desacostumbrado y que remite claramente al poema de Rubén Darío –mucho más extenso– “Letanía de Nuestro Señor Don Quijote”, escrito en dodecasílabos y que también contiene algunos pies quebrados. En este caso sólo el ritmo nos permite establecer una relación inequívoca entre ambos poemas; la alusión a la figura de Don Quijote es demasiado habitual en la literatura como para que podamos señalar un vínculo concreto, pero la lectura del primer verso del poema de Otero –«Señor Don Quijote, divino chalado»–56 ya nos recuerda, por su forma métrica, al poema de Darío –que comienza: «Rey de los hidalgos, señor de los tristes»–. No es, por otra parte, la única ocasión en la que Otero toma el ritmo de Darío; en el soneto “Inerme”, y más exactamente al principio del segundo cuarteto, se reproduce el ritmo dactílico del inicio de la “Salutación del optimista”. El poema de Cantos de vida y esperanza comienza con el verso: «Ínclitas razas ubérrimas, sangre de Hispania fecunda», que Otero convierte en «Ínclitas guerras paupérrimas, sangre / infecunda. Perdida. No sé nada»;57 en este caso Otero considera necesario importar, junto con algunos lexemas significativos –sólo se conservan sin cambio alguno dos palabras del original–, ese ritmo tan característico del primer verso del poema de Darío, que es el que todo lector recuerda, y lo hace a costa de sacrificar el ritmo endecasilábico que la preceptiva literaria prescribe para el soneto. El resto del soneto sí es ortodoxo: cuatro endecasílabos sáficos y nueve comunes, pero, sin embargo, el primero de los versos transcritos infringe las normas generalmente aceptadas de la combinatoria, al ir acentuado en la séptima sílaba y tener el mencionado ritmo dactílico. El conflicto acentual se complica además por la posibilidad que ofrece el poeta de escoger entre dos lecturas: la que prolonga el ritmo dactílico –hasta “perdida”– realizando una sinafía que pone en peligro la ortodoxia del segundo verso, o bien aquella otra que respeta la pausa final de verso; esta última 56 57
Ibidem, pág. 127. Ibidem, pág. 158.
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lectura presentaría menos problemas, pero precisamente el recuerdo del verso de Darío empuja a la primera. Se presenta un interesante dilema, por lo tanto, puesto que ante estos dos versos el lector tiene a su disposición más modelos de ejecución de los que suele encontrar habitualmente, y no se limitará a elegir entre una lectura más rítmica y otra más cercana a la prosodia de la prosa,58 sino que tendrá que resolver primero cuál es el modelo de verso que subyace en tales ejemplos de verso, y luego actuar en consecuencia. El procedimiento de utilizar la forma métrica para significar el apego a determinado poeta, escuela o texto del pasado no lo inventa, claro está, Blas de Otero, sino que también lo recoge de la propia tradición literaria que reivindica. Otero lo ha leído, por ejemplo, en la poesía de Antonio Machado; el poeta sevillano escribe: «El primero es Gonzalo de Berceo llamado», utilizando el alejandrino, verso predilecto del clérigo, para homenajearlo –Berceo había escrito: «Yo maestro Gonçalvo de Verçeo nomnado»–.59 Es llamativo el hecho de que en un poema propio, que a su vez constituye un homenaje a Machado, Otero alude a este mismo verso, que divide en dos y altera de la siguiente forma: «removidos los surcos (el primero / es llamado Gonzalo de Berceo)».60 Se observa cómo el paréntesis recoge íntegro el verso de Machado, pero con un cambio de orden -antepone el participio- y el consiguiente cambio rítmico. Son varios los motivos que provocan el desplazamiento; en primer lugar puede estar el simple deseo de introducir alguna variación con respecto del verso original, pero tienen más peso los motivos rítmicos y de nuevo observamos que Blas de Otero permite una doble lectura. La grafía, que en principio contiene la propuesta evidente del autor, indica que se trata de dos endecasílabos; el dístico se encuentra en un poema cuya apariencia es versolibrista –sobre 58
Cfr. Domínguez Caparrós, José: Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, cit., págs. 91-92. 59 Berceo, Gonzalo de: Los milagros de Nuestra Señora, Alce, Madrid, 1980, pág. 3. Edición de Antonio Narbona. 60 “Palabras reunidas para Antonio Machado”, en Blas de Otero: En castellano, Lumen, Barcelona, 1977, pág. 64.
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todo visualmente, pues alternan constantemente versos muy cortos, desde las dos sílabas, con versos largos–, pero que en realidad tiene ritmo endecasilábico, y el desplazamiento de “llamado” obedece a la exigencia de respetar la disposición acentual del endecasílabo, puesto que en caso de no cambiar el orden de las palabras de Machado resultaría de nuevo un verso de once sílabas con acento en la séptima, y esta vez sin la coartada del ritmo dactílico tan efectista que había en el verso de Darío antes citado. Pero hay una segunda lectura posible: el contenido del paréntesis, supuesta de nuevo una sinafía –licencia métrica infrecuente pero que Blas de Otero usa en más ocasiones–61 podría leerse aún como alejandrino, concorde por lo tanto con el verso original al que alude y también con el referente inmediato –la poesía de Berceo-, y de este modo los dos endecasílabos se convertirían en tres heptasílabos. La lectura más común es la primera, pero existe esta segunda posibilidad rítmica, y el oído experimentado advierte este juego de superposiciones o, como lo denomina Manuel Mantero, «simultaneidad rítmica»,62 producto del fino sentido del ritmo que demuestra el poeta a lo largo de toda su obra. Todos estos casos aducidos, en los que se incorpora el metro de determinados textos precedentes, deben considerarse en su conjunto como ejemplos de intertextualidad. Tales textos, lecturas del poeta, se encuentran presentes en la poesía de Blas de Otero, que con ello quiere significar su propia situación con respecto a la tradición de la poesía hispana en general y su apego a una parte selecta y concreta de esa tradición. La crítica ya ha señalado la importancia que tiene el fenómeno de la intertextualidad en la obra oteriana,63 y resulta evidente la abrumadora presencia de citas, alusiones e imitaciones, tanto en títulos, en61
Cfr. Torre, Esteban: Métrica española comparada, cit., págs. 46-47. Cfr. Mantero, Manuel: “Simultaneidad rítmica en la poesía de Ángel Crespo”, en Balcells, José María (ed.): Ángel Crespo: una poética iluminante, Biblioteca de Autores Manchegos, Ciudad Real, 1999, págs. 87 y 108. 63 Vid. Alarcos, Emilio: La poesía de Blas de Otero, Anaya, Salamanca, 1966, págs. 97-99; Montejo, Lucía: Op. cit., págs. 316-644; González, Ángel: "La intertextualidad en la obra de Blas de Otero", en Al amor de Blas de Otero, cit., págs. 63-78; Morales, Rafael: “Los préstamos versales de la poesía del siglo XVI a la de Blas 62
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cabezamientos y dedicatorias como, sobre todo, entre los versos; hay presencia efectiva en los poemas de Otero de otros textos de, por ejemplo y además de los ya mencionados, Fray Luis, Cervantes, Quevedo, Juan Ramón o Vallejo. Este hecho recurrente en la obra de Otero no es, resulta obvio, casual ni caprichoso, sino que tiene un significado determinado y específico en cada caso; lo que aquí se quiere destacar es que en algunas ocasiones la métrica colabora, adquiriendo mayor o menor protagonismo, en este procedimiento, y que aporta un claro valor comunicativo que complementa al contenido semántico de las palabras y lo refuerza o que, por expresarlo de un modo más preciso, significa conjuntamente y de manera solidaria con el resto de los elementos poéticos. Pero la métrica no tiene un valor comunicativo o semiótico sólo en estos casos. Al igual que el ritmo de un verso concreto, dado un contexto, es capaz de adquirir valor de cita, de establecer unas relaciones determinadas y de portar, como se ha visto, un cierto contenido referencial, se puede afirmar que la simple elección de un tipo de verso o de una estrofa es relevante desde el punto de vista comunicativo. Cuando Blas de Otero decide que el poema que crea sea un soneto, por ejemplo, está transmitiendo al lector una información adicional –o incluso esencial, según el caso–: está realizando una afirmación cultural y poética, señalando que acepta, elige y defiende una determinada poética, y toma posición, por ejemplo, en el debate que enfrenta a la innovación y a la tradición literaria. Del mismo modo, la elección de la lira en algún poema de su Cántico espiritual (1942) contribuye al homenaje –manifiesto, al margen del título, también en otros aspectos léxicos, sintácticos, temáticos– a Juan de Yepes. Blas de Otero es consciente del valor significativo de la métrica; en parte lo hemos visto al analizar sus reflexiones al respecto del soneto, de la prosa y del verso libre. La preocupación por este asunto le acompaña a lo largo de toda su obra y determina en buena medida su trayectoria poética. Para él no se trata tan 64
de Otero”, en Al amor de Blas de Otero, cit., págs. 239-247; Ruano León, Juan: Blas de Otero. La lengua poética, cit., págs. 186-196. Otero, Blas de: En castellano, cit., pág. 19.
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sólo de un problema técnico, sino de un punto cardinal en la escritura, que tiene que ver, como se ha dicho, con la postura que se adopta ante la tradición literaria, pero también con la relación que se establece o se pretende establecer con el receptor. Dejando a un lado los inicios de su carrera literaria, en exceso miméticos y luego rechazados por el propio autor, se puede constatar que en los primeros libros de Blas de Otero hay un claro predominio de las formas clásicas, sobre todo del soneto pero también, en general, de cuartetos y serventesios. El verso más utilizado es sin duda alguna el endecasílabo, la mayor parte de las veces de manera exclusiva pero algunas otras combinado con distintos versos de ritmo endecasilábico, sobre todo heptasílabos -tanto simples como dispuestos en alejandrinos-. También se observa el uso de verso libre y fluctuante y de algún poema en metros cortos, pero en una proporción mínima. El endecasílabo, y por lo tanto las estrofas en las que interviene, pertenece por tradición a la lírica culta, y su uso, combinado con constantes citas y alusiones, pone a Blas de Otero en relación inmediata con Garcilaso, Fray Luis o con la poesía culta de Quevedo, Lope y Góngora. En un principio, el poeta se encuentra cómodo con esta herencia, pero la evolución de su poética, la introducción de nuevos temas, de nuevas preocupaciones, y el progresivo aumento en el interés por alcanzar a un público distinto, mayoritario y popular, tienen como resultado un cambio importante en los planteamientos métricos. La crítica ha señalado la evidente tendencia a acortar el verso que se observa desde Pido la paz y la palabra, primer libro de la trilogía que completan En castellano y Que trata de España, y que supone el paso a una nueva etapa, calificada habitualmente como social. Si en Pido la paz y la palabra hay ya un equilibrio en la proporción de versos de arte mayor y menor, en En castellano se invierte la proporción en favor del verso corto, cuya presencia es también dominante en ciertas secciones de Que trata de España frente a otras en las que el verso largo vuelve a alcanzar el equilibrio –ya no el predominio–. Una vez más, tampoco es casual que el poeta se decante por el verso corto, —112—
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o que adquieran protagonismo coplas, cantares y romances. En la llamada etapa social de Blas de Otero se sustituye la preocupación existencial y religiosa por el análisis y la crítica de las circunstancias sociales –el mismo autor lo aprecia así: «antes fui -dicen- existencialista. / Digo que soy co-existencialista»–.64 de manera que la atención se desplaza del yo al nosotros; es cierto que se trata de una simplificación: en su primera etapa Otero ya habla en plural y se preocupa por un sufrimiento que comparten todos sus semejantes y, por el contrario, en esta segunda etapa sigue abordando sus conflictos personales; es una cuestión de prioridades y de proporciones. Tal como afirma Otero, «la literatura no es mayoritaria por el número de lectores, sino por el tema».65pero no deja de lamentar en repetidas ocasiones el hecho de que escribe fundamentalmente para quienes no tienen la posibilidad de leerle;66 el contraste entre su vocación universalista y la realidad de que los lectores se encuentran sobre todo entre una minoría privilegiada -uno de cuyos privilegios es el acceso a la lectura- provoca un conflicto de difícil resolución, pero que se traduce en una progresiva simplificación de la forma que afecta prácticamente a todos los niveles: a la selección del léxico, a la ordenación sintáctica y también a la métrica. La expresión cada vez más sencilla y desnuda de Blas de Otero, accesible a un mayor número de lectores, va unida en un primer momento a la elección de metros cortos, y más tarde al uso predominante del versolibrismo. Para explicar el uso del verso corto, de nuevo hay que acudir a la tradición literaria; cuando Blas de Otero cambia el metro largo por el verso de arte menor está abundando en lo mismo que afirma de manera explícita: que quiere ser un poeta popular. De nuevo es difícil establecer, a partir de consideraciones sobre el aspecto puramente fónico, una relación entre la longitud del verso y el mayor o menor carácter popular del mismo; puede argumentarse –como de hecho ha sucedido– que el octosílabo «tiene sus raíces en la medida básica de los grupos 65
Otero, Blas de: Que trata de España, cit., pág. 58. Cfr. Otero, Blas de: Que trata de España, cit., págs. 51, 58. 67 Navarro Tomás, Tomás: Métrica española, cit., pág. 71. Cfr. Quilis, Antonio: Mé66
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fónicos de la lengua»,67 o puede entenderse que la mayor cercanía entre las pausas finales de verso tiende a exigir una sintaxis más sencilla en tanto que el verso largo resulta más propicio para el desarrollo de la argumentación. La explicación más clara y evidente, sin embargo –aunque puede ponerse en relación con lo anterior–, parte del hecho de que los poemas populares, desde los más antiguos testimonios de la literatura romance, han sido compuestos en versos de seis, siete y ocho sílabas, y el uso de estos metros significa la voluntad de participar en esta tradición. El cambio métrico de Blas de Otero, pues, se corresponde con el conflicto entre ambas tradiciones, la culta y la popular, que se complica con la consolidación en su obra del versolibrismo, que había aparecido ya desde sus primeros libros pero en pequeña proporción, y que se utiliza de manera notable en la trilogía de la etapa social y luego de manera casi exclusiva en los últimos poemarios –con la excepción, claro está, de Todos mis sonetos–. Ya se ha expuesto cómo Blas de Otero expresa el deseo de que su verso «se ensanche» y llegue a ser verso libre, con las connotaciones que ello conlleva. La sencillez expresiva que persigue Blas de Otero y que se manifiesta en el uso de coloquialismos, refranes y frases hechas, en la selección de un léxico asequible o en una sintaxis menos convulsa, por ejemplo, se une, pues, al rechazo parcial –no absoluto– de los metros cultos clásicos en favor de los versos cortos populares y de la versificación libre. Hay que aclarar, sin embargo, que en algunas ocasiones se han descrito erróneamente como versos libres algunos versos de Blas de Otero que no lo son, a pesar de la apariencia gráfica –ausencia de puntuación y longitud muy desigual–; así, Montejo utiliza para ejemplificar el verso libre oteriano el poema “Oigan la historia”, que consta de 21 versos de los que trece pertenecen claramente a la combinatoria tradicional del ritmo endecasilábico: cinco son endecasílabos, tres heptasílabos, dos alejandrinos, dos pentasílabos y uno eneasílabo. En cuanto al resto, tres son versos compuestos que se integran sin dificultad en ese ritmo 68
trica española, Ariel, Barcelona, 1997, pág. 65; Torre, Esteban: Métrica española comparada, cit., págs. 91-93. Belic, Oldrich: Op. cit., págs. 591-592.
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endecasilábico: -perdidas en la historia (7) esa de los conquistadores (9) -el polvo (3) a los versos que se nos desvanecen (11) -en un poema si (6+1) lo sostiene su ritmo intransferible (11)
En este último caso puede parecer discutible la propuesta de establecer una cesura tras una partícula que normativamente es átona, pero se justifica –dado el contexto explicado– por la inequívoca presencia a continuación de un endecasílabo canónico. También podría justificarse, en este último verso, la lectura opuesta, si se apela de nuevo a la relación entre forma y contenido y se tiene en cuenta el significado del fragmento: «todo es posible / en un poema si lo sostiene su ritmo intransferible». Pero todavía quedan cinco versos por explicar. Uno de ellos es un tetrasílabo, que dada su brevedad no ofrece problemas de combinatoria, y que, además, intercalado entre dos alejandrinos podría unirse, en una lectura apresurada, al heptasílabo precedente o al posterior para formar con ellos un endecasílabo. En cuanto al resto de los versos, sólo uno de ellos queda sin una explicación rítmica del todo convincente y satisfactoria: «a aprender el abc» es un octosílabo salvo que se introduzca una dialefa algo forzada al principio. Por lo demás, esta sola excepción al ritmo endecasilábico no justifica la atribución del poema al versolibrismo. Resta hablar, sin embargo, de los tres versos que faltan para cerrar la cuenta del total. Esos versos también son octosílabos, extraños desde luego al ritmo endecasilábico pero cuya singularidad subraya el propio poeta mediante el sangrado gráfico: son un claro ejemplo de intertextualidad y se intercalan de manera consciente como alusión a otra poética, la de Lorca; escribe Blas de Otero: y dijo de esta manera soy más valiente que tu manera de hacer poemas
Tanto ese valor de cita incorporada al propio texto como el —115—
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hecho de ser el único uso del estilo directo en el poema singularizan el fragmento y justifican una métrica distinta a la del resto del conjunto; el primero de los octosílabos –que nuevamente permite sinafía con el verso anterior, con lo que pasaría a ser heptasílabo– se explicaría como transición o presentación del dístico posterior. Y aun así no se puede hablar de verso libre: son tres octosílabos consecutivos, perfectamente medidos, que aparecen insertos en un poema de ritmo endecasilábico. No deja de llamar la atención que el propio Oldrich Belic ejemplifique determinadas características del verso libre frente a la prosa –como una determinada jerarquización semántica– precisamente con un poema de Blas de Otero68 que, en realidad, tampoco está compuesto en verso libre. Se trata del poema “Pido la paz y la palabra”, del libro homónimo, que no puede ser considerado versolibrista porque de nuevo hay un constante ritmo de base endecasilábica: de los catorce versos que lo forman, seis son heptasílabos, y hay además dos eneasílabos, un pentasílabo, tres trisílabos, y sólo quedan dos versos cortos consecutivos que por su poca entidad no ofrecen resistencia a la combinación con los demás: «etc. / Digo». Hay, por lo tanto, que matizar la proporción del versolibrismo en Blas de Otero. Por más que haya muchos poemas en los que alternan versos muy desiguales gráficamente, el oído atento es capaz de descubrir con frecuencia la base del endecasílabo y el uso constante de versos que se inscriben dentro de la métrica regular. Ante la actuación de ese principio rítmico organizador no cabe hablar de verso libre, puesto que hay un claro sometimiento a una norma acentual que, aunque permite una mayor libertad al poeta, en términos relativos, no deja de condicionarlo y de dirigir su escritura. A la hora de establecer las conclusiones sobre la trayectoria rítmica de Blas de Otero y sobre las relaciones que se establecen entre su uso de la métrica y su teoría poética en general, es dado observar que el poeta, desde unos inicios en los que predomina claramente el uso de las formas métricas clásicas y cultas, que 69
Alonso, Dámaso: “Prefacio”, en Ancia, cit., pág. 20.
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domina a la perfección, evoluciona progresivamente, de manera consciente y acorde con su comprensión de la comunicación literaria y su voluntad de acercarse a un público mayoritario, hacia unas formas más sencillas y populares, cuya característica común y básica es el verso corto –lo que se une a factores como la construcción sintáctica o la selección léxica–. De modo paralelo, el deseo de lograr una expresión más personal y libre de condicionamientos, en la que sea posible una aparente naturalidad, acerca a Blas de Otero cada vez más al uso del verso libre, que ya aparece desde sus primeras obras pero que, sin embargo, no acaba de ser completamente satisfactorio para el poeta. Tal como sucedía en la paradoja de la paloma kantiana, Blas de Otero encuentra más facilidades para la expresión dentro de los parámetros de la métrica clásica, y aunque declara explícitamente su interés por el verso libre vuelve de continuo al soneto, cuyo cultivo ininterrumpido puede parecer incoherente dentro de las coordenadas métricas y poéticas descritas, pero expresa de manera inequívoca esa tensión bipolar en la que se encuentra Otero, que no quiere renunciar a nada, ni a las posibilidades del verso libre, ni a la herencia de la tradición poética. Es revelador el hecho de que dos de los últimos libros de Blas de Otero –Historias fingidas y verdaderas y Todos mis sonetos– estén compuestos en formas tan distantes entre sí como la prosa poética y el soneto, al mismo tiempo en que el poeta compone en verso predominantemente libre un tercer libro que quedará inédito. Cabe añadir que, como solución sintética, Otero recurre con frecuencia a distintas variaciones sobre la silva de ritmo endecasilábico, que es lo más cercano al verso libre que le permite el uso de los versos clásicos de la métrica regular. 3.2. Semántica particular del verso No sólo hay que tomar en consideración las líneas generales de la poética para explicar la elección de unos ritmos determinados; la interrelación entre la forma métrica y el significado del verso se observa sobre todo en textos concretos, especialmente —117—
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cuando la obra es el producto de una atenta y cuidadosa conciencia artística. Blas de Otero es, como lo demuestran la constante reflexión metapoética y la perfección formal de sus poemas, un poeta consciente de su labor, y ello se traduce en una exquisita correspondencia entre el ritmo y los contenidos psíquicos del poema, como cualquier análisis de su obra, por somero que sea, pone de manifiesto. En este respecto, Dámaso Alonso, en el comentario que dedica a Blas de Otero tras la publicación de Ángel fieramente humano y Redoble de conciencia, y que consiste fundamentalmente en un análisis temático, sólo se permite una nota estilística: Tendría que señalar, por lo menos, cómo en Otero la ligazón entre los versos sucesivos (en la forma especial que en otro sitio he llamado encabalgamiento áspero), produce un entrecortamiento, un desequilibrio brutal, una angustia de la palabra que se corresponde con la desolación.69
Emilio Alarcos, en su imprescindible estudio sobre la poesía de Otero, incluye un apartado en el que analiza este mismo fenómeno, que él denomina «dislocación del ritmo fluyente»;70 distingue en sus poemas los encabalgamientos que fomentan una elocución apresurada de aquellos otros que, por el contrario, la entorpecen y retardan, lo que concuerda con el contenido lógico de los poemas. Destaca también Alarcos la tendencia que se observa en Otero hacia la ruptura del ritmo poético mediante la introducción de apelaciones, y señala que ello se produce sobre todo «en los poemas métricamente más libres».71 También hace referencia a otro procedimiento muy habitual de la poesía oteriana: el recurso a las frases hechas con la introducción de alguna variante o adición que consigue renovar el sentido de las mismas.72 Lo que ahora resulta pertinente subrayar es el hecho 70
Alarcos, Emilio: Op. cit., págs. 102-110. Cfr. Zapiain, Itziar e Iglesias, Ramón: Aproximación a la obra de Blas de Otero, Narcea, Madrid, 1983, págs. 98-100. 71 Alarcos, Emilio: Op. cit., pág. 134. 72 Ibidem, págs. 88-96.
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de que con frecuencia esa renovación o transformación de la frase hecha se produce mediante el aprovechamiento de ciertos artificios rítmicos. Así se explican dos de los ejemplos de este tipo que aduce Alarcos: «Después, como un cadáver puesto en pie / de guerra, clamaría por los campos» y «hombro a hombro, hasta ver a un pueblo en pie / de paz, izando un alba» –podemos añadir "ponte / en pie / de paz", de En castellano–; el lector, que entiende que la expresión tiene un sentido determinado hasta la pausa, se ve obligado a corregir su interpretación cuando prosigue la lectura en el verso siguiente, sin dejar que esa primera impresión caiga en el olvido, lo que acrecienta la polisemia del texto y lo enriquece. Pero es posible encontrar muchos otros casos en los que el metro, sobre todo mediante las pausas, respalda el contenido semántico de los versos. Es lo que sucede en "Mientras tanto", donde leemos: a los que caen de espaldas), nos paramos un poco [...]73
En este caso la pausa coincide con el verbo parar y concuerda con el valor referencial de la expresión, que se refuerza. O, de forma similar, en “Hijos de la tierra” se significa la violencia de lo repentino a través del léxico, de la sintaxis y del ritmo: le descantilla; de repente [...]74
Aunque hay metristas partidarios de obviar durante la lectura la pausa final de verso en el caso de los encabalgamientos, en este texto, al menos, parece pertinente respetarla por motivos semánticos y rítmicos: sólo si se supone la pausa final cabe acentuar suficientemente la preposición de manera que resulte un heptasílabo, acorde con el contexto métrico del poema. En 73
Ancia, cit., pág. 60. Ibidem, pág. 140. 75 En castellano, cit., pág. 74. 74
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cuanto al significado de la ruptura, hay un empleo muy similar en “Un verso rojo alrededor de tu muñeca”, donde un posible endecasílabo se divide en dos versos –eneasílabo y bisílabo– para adecuar la métrica al sentido: «palabra viva y de repente / libre».75 También se corresponde con el significado léxico la división mediante la pausa final de «Ven. A- / lejémonos», en el poema “Paso a paso”,76 donde la lejanía se representa mediante la violenta tmesis del lexema. Otero recurre en más ocasiones a la tmesis, logrando una perfecta adecuación entre forma y sentido y logrando precisamente que la forma signifique de manera solidaria, como ocurre en el poema “Un momento estoy contigo”, donde el ritmo se enlentece de manera ostensible en perfecta armonía con lo que se declara explícitamente; allí se lee: Esta página suelta, giratoria, aleando en el aire lentamente, lentamente77
El hecho de que el texto literario sea compuesto y dispuesto en verso permite que aparezcan significados que en la prosa pasarían desapercibidos por completo. Es lo que se observa, por ejemplo, en los siguientes versos de “Entendámonos”, donde de manera doble y consecutiva se utiliza de nuevo la tmesis para lograr una valiosa ganancia semántica: Entendámonos. Yo os hablo de un árbol inclinado al viento, a la felicidad invencida de la luz.78
La polisemia derivada de la versificación, que se perdería en 76
Ancia, cit., pág. 156. Ibidem, pág. 108. 78 En castellano, cit., pág. 60. 79 Respectivamente: En castellano, págs. 50 y 52; Ancia, págs. 123 y 139. 77
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la prosa, es evidente; el primer impulso en la lectura, apoyado en el contenido fónico y la segmentación que aporta la pausa métrica, es el de leer «un árbol inclinado al bien» y «a la fe». Son innumerables los recursos de la versificación que aprovecha Blas de Otero para potenciar el significado del texto. Un claro ejemplo es la tendencia a componer versos extremadamente cortos. En varios poemas la negación se refuerza al constituir ella sola un verso completo y mínimo: «te amo directamente, / no / por caridad», «no / me sepulte tu sombra», «no / importa que se rompa. No lloréis» –caso éste en el que la agrupación de ambos versos en uno no afectaría a la ortodoxia del endecasílabo– o «no / veo más que sangre».79 El último ejemplo pertenece al poema “Crecida”, uno de los que exhibe una interrelación más evidente entre la forma métrica y el contenido del texto, como ya destacase Alarcos, quien observa cómo se produce «la impresión del continuo de la crecida», «movimiento continuo e incesante, regulado por impulsos sobrios y certeros».80 Los versos cortos, con frecuencia bisílabos y trisílabos, alternan de manera continuada con versos largos, hasta la medida máxima de un hexadecasílabo, reforzando la impresión de las acometidas de las ondas de esa “crecida”, y con un ritmo entrecortado por los continuos encabalgamientos que, con la constante interrupción de las unidades sintácticas potencia además la sensación de lentitud que se hace explícita en las palabras del poeta: «voy / avanzando / lentamente [...]». 4. Palabras finales Cabe concluir, después de todo lo expuesto, que el uso de la métrica que hace Blas de Otero tiene un valor significativo, tanto en el plano general de la poética como en el caso concreto del poema aislado. Dentro de la poética, la elección de un metro determinado o de una estrofa dada, supone, por un lado, la asun80
Alarcos, Emilio: Op. cit., pág. 119.
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ción de una determinada actitud ante el lector deseado y ante la tradición poética en su conjunto; de este modo, el predominio de determinados ritmos varía según la época literaria de Blas de Otero y en función de sus preocupaciones estilísticas y temáticas. Sin embargo, en ninguna de las etapas de su trayectoria el predominio de una tendencia rítmica supone el rechazo de las demás, y en la práctica totalidad de su obra conviven, más o menos representados, el soneto, la prosa poética y el verso libre, el endecasílabo, el versículo y los versos de arte menor. Además, las reflexiones del poeta, casi siempre en verso, evidencian su preocupación metapoética y muestran cómo Blas de Otero atribuye a cada forma métrica unos valores determinados. Por otro lado, el análisis de los poemas concretos demuestra que la elección métrica no es un simple asunto fónico relativo tan sólo a la distribución acentual y la segmentación del discurso entre dos pausas, sino que de continuo se puede poner en relación con el significado global del texto, que sería muy distinto supuesta una hipotética composición en prosa. Blas de Otero no sólo aprovecha las connotaciones que tienen los modelos estróficos, sino que, como se ha visto, utiliza las pausas para potenciar el valor semántico de algunos términos y para introducir o fomentar la polisemia de algunas expresiones. Además, como se ha comprobado, puede hablarse incluso de una intertextualidad métrica en la que el ritmo tiene calidad de cita y constituye la presencia efectiva en el poema de otros textos ajenos y anteriores. Tanto la teoría poética general más o menos explícita de Blas de Otero, como la actualización de la misma en los poemas concretos, en fin, demuestran que la métrica adquiere un papel protagonista en su obra y que el poeta no sólo posee un gran dominio técnico de la versificación sino que aprovecha de manera consciente todas las posibilidades artísticas y comunicativas que la métrica le ofrece.
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l tridecasílabo es un metro raro, así lo califican los preceptistas.1 Ocasionalmente se cuentan como tales algunos versos de arte mayor, claro está que con la estructura rítmica de esa modalidad. Es difícil hallarlos en el periodo clásico (siglos XVI-XVII) a no ser que se escandan como un solo verso estribillos y coplas que normalmente se presentan cortados en arte menor, tal «Estábase la monja / en el monesterio...; A los baños del amor / sola me iré / y en ellos me bañaré; Desciende al valle, niña: / non era de día...; En Sevilla quedan ambos / los mis amores...». Así aparecen con cierta frecuencia en Góngora, quizá ya trabajados por el exquisito arte del poeta cordobés. La época de esplendor de los tridecasílabos –a veces llamados tricasílabos– es la del siglo XIX,2 pues fue objeto de análisis y ensayos no solo de los poetas, sino sobre todo de los preceptistas. Todo ello culminó, con la renovación de los alejandrinos, a los que se sometieron los tridecasílabos durante el modernismo, y con ciertos ensayos curiosos para hacerlo funcionar como verso exento. 1
Los habitantes del pueblo no le creyeron. En muchas, suele incluso faltar como tipo de verso, por ejemplo en la de Rudolf Baehr, Manual de versificación española, Madrid: Gredos, 1970. «No es un verso muy utilizado en poesía castellana» (D. Caparrós, Diccionario de métrica española, Madrid: Paraninfo, 1985, s.u.) Véase también edición más moderna en Madrid: Alianza, 2001. 2 I. de Luzán ya habla de ellos, pero como versos compuestos: «También los versos de trece sílabas de Francisco Patrizio, los de diez y sei del Informe, y los de diez y ocho del Guastalla, son compuestos de dos especies de versos». Cf., La poética..., ed. R. P. Sebold, Barcelona: Lábor, 1977, 9. 352.
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Como metro raro, pues, aparece ocasionalmente en los talleres de algunos poetas. Existen, en efecto, en nuestra historia literaria unos cuantos libros que fueron laboratorio métrico: la Diana de Gil Polo,3 la obra poética de Góngora y particularmente las Soledades, las fábulas y en general las poesías de Iriarte, las Rimas de Bécquer, los libros centrales de Rubén Darío y, a su arrimo, de muchos modernistas y postmodernistas (por ejemplo: Gabriela Mistral); libros enteros como Rimas (1902), de Juan Ramón Jiménez, los de Valle-Inclán, Alegría de José Hierro, algunos hitos del ciclo de Bronwyn de Cirlot... De algunos de ellos extraeremos la sustancia para este breve ensayo, que se nutrirá también de los preceptistas, particularmente de esa rara joya que sigue siendo el Sistema musical de la lengua castellana, de Sinibaldo de Mas, pero también de Miguel Agustín Príncipe, Julio Saavedra Molina y Navarro Tomás, que son los que con mayor cuidado se ocuparon de este metro. A todo ello se accede ahora, fácilmente, con la batería de estudios de los críticos actuales, particularmente de Domínguez Caparrós, que nos mantiene al día sobre el estado de la cuestión. 3
En la que no hay ejemplos de tridecasílabos, aunque sí Versos franceses, en el Libro cuarto, es decir, alejandrinos (De flores matizadas se vista el verde prado...), con acentuación siempre de tipo heroico (2....) o sáfico (4....), ocasionalmente plenos (vuestros ganados crezcan cubriendo el ancho suelo). Cuando el encuentro de hemistiquios es entre vocales, las trece sílabas reales muestran la dialefa: floridos ramos mueva el viento sosegado... (13= 2.4.6+4.6), lo que ocurre solo en dos casos más, uno de ellos con h- probablemente aspirada: y el corazón esquivo hacer dichoso amante. Y el otro entre vocales iguales... y tal cantidad de oro os haga entrambos ricos. Las coplas castellanas o de arte mayor que aparecen luego (¿Decidme, señores, cuál ave volando...) son siempre de doce sílabas métricas. Cito por la ed. de F. López Estrada, Gaspar Gil Polo, Diana enamorada, Madrid: Castalia, 1987. La fábula X de Iriarte (cito por la ed. de A. Navarro, en Madrid: Espasa-Calpe, 1963), con gran variedad rítmica ya, evita el encuentro de vocales entre hemistiquios, por lo que no se produce ningún tridecasílabo ocasional. Sin embargo, en la fábula VII, en la que hace abundante uso de sexta aguda, las trece sílabas mantienen el ritmo del heptasílabo hemistiquial siempre (En cierta catedral una campana había...) y permiten el encuentro vocálico, sin sinalefa: y pudo tanto aquello en la gente aldeana... con chico campanario, a modo de una ermita... y piensan que con esto imitan a los sabios... etc. El paso final que todavía no se ha dado es el de colocar una palabra puente ocupando al menos las posiciones ...5.6.7..., lo que provocaría o bien una escansión desigual (por ejemplo 5+8, 6+7, etc.) o bien un encabalgamiento léxico entre hemistiquios.
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Es, para comenzar con buen pie, el tridecasílabo un verso de trece sílabas métricas; no consideraremos más que de pasada las secuencias de trece sílabas con un ritmo repetido basado en la imitación de pies, esto es, en la repetición de secuencias a intervalos siempre fijos de átonas y tónicas, lo que produce los característicos ritmos dactílicos o anapestos, más o menos cortos o largos. Yo no interpretaré como secuencia rítmica la que se realiza sobre el esquema acentuada / no acentuada (pie llano o troqueo o yámbico: óo, oó), que es la base del español, sino sobre pies forzados o logrados sorteando esa base o “término no marcado” (óoo; ooóo...) Tampoco se observa efecto ninguno cuando el ritmo repetido se produce ocasionalmente sobre algún verso corto, por ejemplo sobre un heptasílabo. En el caso del tridecasílabo las posibilidades de este ritmo, que situamos en la secuencia de menor a mayor de sus versos semejantes, son: oo ó o oo ó oo ó o oo ó oo ó oo ó o oo ó oo ó oo ó oo ó o oo ó oo ó oo ó oo ó oo ó o
(3ª) (3ª, 6ª) (3ª, 6ª, 9ª) (3ª, 6ª, 9ª, 12ª) (3ª, 6ª, 9ª, 12ª, 15ª)
tetrasílabo heptasílabo decasílabo tridecasílabo hexadecasílabo4
He aquí el ejemplo de uno de esos laboratorios métricos a los que nos referíamos, Rimas (1902), de JRJ: Va cayendo la tarde con triste misterio; inundados de llanto mis ojos dormidos, al recuerdo doliente de amores perdidos, en la bruma diviso fatal cementerio. Un sol lúgubre vierte morados fulgores, esfumando entre nieblas la verde espesura;
4
Las convenciones de la notación se basan en marcar mediante guarismo árabe seguido de punto la posición de los acentos rítmicos (por ejemplo: 4.7.10); cuando damos dos o más guarismos trabados por el signo + nos referimos, sin embargo, a secuencias hemistiquiales de ese número de sílabas (por ejemplo 7+7).
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dulce ritmo armonioso de vaga amargura me despierta... A mi lado se duermen las flores.5
Aun en estos casos, como veremos enseguida, si no se tratara de una serie, el obligado acento en sexta permitiría que el tridecasílabo pasase desapercibido en una serie de alejandrinos. Lo mismo ocurre, aunque sin la secuencia, en el soneto “Los piratas” de Rubén Darío (de El canto errante), en donde todos los versos son de trece sílabas métricas, y se pueden leer como alejandrinos, probablemente imitación de los alejandrinos franceses, con encabalgamiento léxico y otras curiosas circunstancias que se producen entre hemistiquios: Remacha el postrer clavo / en el arnés. Remacha el postrer clavo en la / fina tabla sonora.6 Ya es hora de partir, / buen pirata; ya es hora de que la vela pruebe / el pulmón de la racha.
(2.6+4.6) (4.6+1.3.6) (2.6+3.6) (4.6+3.6)
Volviendo a las secuencias de anapestos, no es posible acoplar a versos de ritmo impar la secuencia ooóo, pues ello implicaría acentos ooóo ooóo ooóo en 3º, 7ª, 10ª, etc., es decir un número par de sílabas. Como tampoco es posible la secuencia óoo, sin romperla necesariamente al final del verso: óoo óoo óoo óo ó o (ello conduce a una secuencia 1ª, 4ª, 7ª, 11ª; incompatible con el acento en 12ª del tridecasílabo). En fin, este tipo de combinaciones teóricas, fácilmente deducibles, representan las posibilidades rítmicas del tridecasílabo en series rítmicas, aquellas que pueden realizar el verso sin cesura hemistiquial. 5
Es el llamado tridecasílabo anapesto (3.6.9.12; por ejemplo por E. de la Barra, 1891, p. 168, que lo encontraba en Valera y Gertrudis Gómez de Avellaneda); nosotros lo anotaremos en nuestro sistema métrico, cuando se integra en cadenas de tridecasílabos variados, con su propio ritmo (3.6+3.6), melódico puro; en esos casos sí es posible el encabalgamiento y la compensación entre hemistiquios. 6 En el segundo verso uno estaría tentado a repetir la dialefa del primer hemistiquio (“clavo en”), aunque no se dan las mismas circunstancias rítmicas. En el siguiente, el primer hemistiquio termina en aguda; en el tercero no se da la sinalefa entre “pruebe el”.
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La siguiente salvedad nos viene provocada, con la opinión común, precisamente por esa realización. Decimos que lo posible, a partir de versos de diez sílabas, y lo normal, a partir de versos de doce, es que el verso se escanda en dos o más hemistiquios y que allí donde se produce la cesura hemistiquial puedan aparecer fenómenos métricos como la compensación silábica o la dialefa. Bien, aunque el asunto es de enorme importancia y este no es el lugar adecuado para plantearlo en profundidad, hace falta enunciar las reglas mínimas por las que se rige el fenómeno de la escansión hemistiquial en español. Es importante señalar que tal escansión no es, como se suele pensar, léxica, semántica, ni siquiera entonacional: no depende, por tanto, de que declamemos el verso más despacio o más deprisa; sino precisamente rítmica, es decir, a partir de las marcas acentuales, que como suelen confluir con el acento léxico y otras marcas sintácticas se suele creer que tiene razones de ese tipo. La escansión es posible a partir de la quinta sílaba acentuada, y tanto más probable cuanto más se alarga la secuencia versal a sexta, séptima... Por eso la escansión hemistiquial no se produce en versos de arte menor. En los versos de arte mayor y sobre todo en los versículos, por encima de las dieciséis sílabas, la realización del verso está mucho menos sujeta a normas rítmicas fijas, hasta el punto de que en los versículos depende sencillamente de la realización del lector. Tal libertad fundamenta frecuentemente la realización abierta de los versos peor regulados, entre los que se encuentra el tridecasílabo. Tal supuesto es absolutamente necesario para entender todo lo que sigue. Consideraremos, después de todo lo dicho, que el tridecasílabo se rompe o escande en hemistiquios cuando no se trata de una serie rítmica (como las citadas arriba). ¿En cuántos hemistiquios? Lo normal es que los versos de arte mayor se partan en dos hemistiquios, que pueden ser de igual o diferente tamaño silábico (en cuyo caso se suelen denominar de otro modo); pero sobre ellos operan las normas arriba citadas, de manera que la —129—
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preferencia es que los hemistiquios ocupen el tamaño de un verso de cinco, seis, siete, ocho o nueve sílabas. Hemistiquios menores suelen aparecer solo en las cadenas rítmicas como las arriba enunciadas. Los versículos, de extensión mucho más amplia e irregular, permiten la escansión en hemistiquios o semiversos muy variados, en donde sí entra como determinante la entonación y el componente semántico: son versos poco codificados internamente en la tradición métrica española: el lector juega con esa posibilidad, que no existe, por ejemplo, en el alejandrino, muy trabajado y codificado. Podríamos enunciarlo señalando que el tridecasílabo no tiene imagen rítmica. Cuando se realiza la escansión hemistiquial de los tridecasílabos insertándolos en una cadena de alejandrinos, se acoplan automáticamente los tridecasílabos con séptima sílaba en sinalefa en alejandrinos; los de sexta terminados en aguda o esdrújula, en modalidades de heptasílabos hemistiquiales, según estos ejemplos de Guillermo Carnero: Me gusta contemplarte al salir de la ducha El eco de la luz designa tu cintura y recobro en la piel los colores del sueño
(2.6.9.12 = 2.6+3.6) (2.6.8.12 = 2.6+2.6) (3.6.9.12 = 3.6+3.6)
El tridecasílabo no existe históricamente como verso exento y en serie, por la sencilla razón de que casi siempre puede funcionar como alejandrino (7+7), de modo que las únicas posibilidades reales de aparición, las que se derivarían de las secuencias 5+8, 6+7; 7+6 y 8+5 se suelen acomodar rítmicamente a la secuencia 7+7: todos los hemistiquios acentuados en sexta pueden acomodarse a la secuencia de un hemistiquio de seis sílabas con terminación aguda; todos los hemistiquios con acento en octava pueden soportar un acento secundario en sexta, que los trasforma en hemistiquio terminado en sexta acentuada, es decir, en hemistiquio del tipo 7. Al deshacerse ese hemistiquio se deshace, lógicamente, la estructura 8+5 ó 5+8, que pasa a ser 7+7. De la misma manera que todos los hemistiquios de cinco sílabas –acentuados en cuarta– pueden desarrollar un acento secundario en sexta, con lo que se asimilarían a los hemistiquios —130—
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de 7 sílabas. Tan solo en algunos casos de la secuencia 6+7 (es decir, acento en quinta del primer hemistiquio) parece funcionar autónomamente. El detalle de todo ello necesita mostrarse con ejemplos y analizarse en cada caso. Acento esencial del primer hemistiquio en tercera: ** ooóo / oo oo oo ooo ooó/ oo oo oo ooo7
Así pues, los que presentan acento en tercera (teóricamente 4+10) han de presentar otro acento rítmico antes de sexta (recuérdese la norma fonética en español de no mantener una secuencia de más de tres sílabas inacentuadas, consecuencia de una tendencia general a producir ritmo en secuencias que no lo tienen), con lo que se resuelve sea ooó oó
(y entonces 6+8)
sea ooó ooó (y entonces 7+7)
La otra posibilidad sería la formación de un primer hemistiquio de cuatro sílabas, lo que automáticamente podría provocar la aparición de dos hemistiquios más (4+5+4, por ejemplo), como dijimos factible cuando el verso no se inserta en una cadena de alejandrinos o de versos que sugieren su ritmo. Excepto en este último caso, no parece posible, de todos modos, que se tomen en consideración criterios semánticos y no rítmicos para la realización de tridecasílabos 4+9.8 7 8
Lo más probable es que, con este esquema, funcione como dodecasílabo. Existe siempre, la posibilidad de ejecución de un verso o un ritmo en zonas marginales, con lecturas originales; pero esas realizaciones se pueden producir cuanto menos rígida haya sido la versificación, por eso ocurre en versos poco codificados, en versificación libre y en versículos.
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Los que presentan acento esencial del primer hemistiquio en cuarta: oo oóo/ oooooooo
y teóricamente forman hemistiquios 5+8, han de presentar otro acento rítmico antes de octava (por la misma razón de antes, por las variaciones de una cadena o secuencia sin ritmo); y entonces se resuelven sea oo oó oó (con lo que 7+7)
sea oo oó ooó (y entonces 8+6).
En este segundo caso, si tratáramos de reconstruir otro tipo de alejandrino (7+7) mediante un acento secundario en quinta, se produciría un extrarrítmico: oo oóó oó´/9 (5.6.)
Y entonces nos encontraríamos con un caso de los ya señalados. Es la siguiente posibilidad la formación de un primer hemistiquio de cinco sílabas, lo que automáticamente podría provocar la aparición de dos hemistiquios más (5+4+4, por ejemplo), como veremos en algún caso raro, más adelante; o de la secuencia 5+8. Parece que este habría de ser el tridecasílabo más común, como muestran estos ejemplos: 5+8 = 2.4+4.7 Tus ojos eran / un infinito camino (Delmira Agustini) emite cargos / contra mi labio inferior (C. Vallejo) 9
Aunque no se va a hablar ahora de los extrarrítmicos, esos acentos solo son posibles subsumidos o vicarios de otro acento rítmico.
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aún tengo sangre / para teñir una rosa (Dulce Mª Loynaz)10 y vamos juntos / atravesando la tierra (A. Gamoneda)
Sin embargo, en todos estos casos se podría forzar el ritmo del alejandrino, pronunciando así (4.6), como enseguida explicaremos a propósito de los que llevan acento en sexta: Tus ojos eran un / infinito camino 2.4.6+3.6 (Delmira Agustini) emite cargos con / tra mi labio inferior (César Vallejo)
2.4.6+3.6
aun tengo sangre pa / ra teñir una rosa (Dulce Mª Loynaz)
2.4.6+3.6
y vamos juntos a / travesando la tierra (Antonio Gamoneda)
2.4.6+3.6
De ese modo se integran tales versos en series o estrofas de alejandrinos sin que se produzcan estridencias. El mayor grado de independencia se consigue con la aparición de tridecasílabos con acento esencial en quinta, lo que determina un primer hemistiquio del tipo ooo oóo / ooo oo óo 6+7. Nótese sin embargo que el acento en quinta para los versos de ritmo impar resulta, como en el endecasílabo, muy extraño al oído.11 No es posible resolver así: ooo oóo / ooo oo óo = * ooo oó ó / oo oo óo
Es decir, no es posible realizar como alejandrinos este tipo de versos: He aquí ejemplos:
10
Con extrarrítmico en primera: 1.2.4+4.7. También permite la lectura 2.5+4.7 (6+8). 11 Analizaremos en nuestro próximo Manual de Métrica las razones.
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todos comenzamos en un rincón sin nadie (Roberto Juarroz)
(1.5+4.6)
Perder es el gesto más noble de la vida (L. A. de Villena)
(2.5+2.6)
putos) y en las sombras / reptantes se confunden (Caballero Bonald)
(1.5+2.6)
Retengamos esta posibilidad, por tanto, como irreducible e incompatible con los alejandrinos. No es eso lo que ocurre con los ejemplos normalmente aducidos para la existencia de tridecasílabos: los de secuencia de versos de trece sílabas métricas con acento en sexta, lo que produce un segundo hemistiquio más corto, hexasilábico: Mientras ruedan los siglos / sobre nuestros ojos (Salvador Novo)
1.3.6+3.5
Si una gota del río / que pasa nos moja (Unamuno)
3.6+2.5
Va cayendo la tarde / con triste misterio; inundados de llanto / mis ojos dormidos... (JRJ)
1.3.6+2.5 3.6+2.5
Y es igual que tardemos / muchos años que (Carlos Piera)
3.6+1.3.5
Parecería, por tanto, que la secuencia 7+6 tendría que ser otra modalidad del tridecasílabo como verso exento, sobre el patrón siguiente: ooo oo óo / oo oo óo
No es así, ya que la ejecución del verso escande sobre sexta, que en series de alejandrinos puede funcionar como aguda, y pasar la sílaba final de una palabra llana a primera del hemistiquio —134—
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siguiente, con lo que se equipara a un alejandrino 7+7: ooo oo óo / oo oo o óo = ooo ooó / o oo oo óo Mientras ruedan los si/ glos sobre nuestros ojos (Salvador Novo)
1.3.6+4.6
Si una gota del rí / o que pasa nos moja (Unamuno)
3.6+3.6
Va cayendo la tar / de con triste misterio; 1.3.6+3.6 inundados de llan / to mis ojos dormidos... 3.6+3.6 (JRJ) Y es igual que tarde/ mos muchos años que (Carlos Piera)
3.6+2.4.6
En efecto, es frecuente en todos los casos en los que el acento hemistiquial cae en sexta que se haga funcionar como final de hemistiquio, aunque la palabra no sea aguda y, sobre todo, aunque estemos en interior de palabra,12 por lo que todos los alejandrinos con acento en sexta (a lo que se añaden, como vimos, los acentuados en tercera o cuarta) se asimilan a la estructura 7+7. Precisamente si la palabra es aguda o monosilábica la solución —lo veremos enseguida— no es tan fácil. Los que presentan acento en séptima suelen crear una variedad 8+5 difícil de asimilar a la del alejandrino, pues el segundo de los hemistiquios resultantes (oo oóo), con acento en cuarta, no puede desarrollar evidentemente un acento secundario y tomar la sílaba octava del primer hemistiquio; ooo oooó o/ oo oóo 8+5 oo ooo oóo / oooóo (= oooo oo ó / ó oooóo)*
Sobre todo cuando la la séptima del primer hemistiquio es aguda; entonces el verso no puede escapar a una medida silábica 12
Se suele hablar entonces de encabalgamiento entre hemistiquios y de alejandrinos a la francesa.
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de trece. Volvamos a recoger este dato, que nos servirá para delimitar el campo del tridecasílabo como verso exento. Mientras que, finalmente, los que llevan acento en octava se acomodan al alejandrino, sobre todo si admiten –lo que ocurre casi siempre– un acento secundario en sexta: 9+4 (=7+7) oooo oooóo / ooóo = ooo ooó oó / oooóo = ooooo ó / oó ooo óo
Los varios tipos de posibilidades que presta la terminación aguda, la esdrújula, la llana o la aparición del acento en el interior de una palabra producen soluciones diversas, entre las cuales ya hemos señalado una irresoluble como alejandrino (la de séptima aguda); ahora añadiremos que puede funcionar como tridecasílabo exento el verso de doce sílabas métricas con acento sobre palabra aguda en sexta: ooo oóo / ooooooo ooo oó / ooooooo ooo óoo / ooooooo = 4+7 = endecasílabo compensado
Véanse algunos ejemplos: 7+6= 6.+5. Entre la soledad / y la compañía (Roberto Juarroz)
La terminación aguda del primer hemistiquio permite medirlo como tridecasílabo; probablemente el poeta lo ha pensado como dodecasílabo. 6+7 = 2.5+2.6 Al poema confío / la pena de perderte (Salvador Novo), pero quizá mejor leer “po-e-ma” (= 7+7)
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6+7 = 4.6+2.6 La claridad está debajo de las cosas (Roberto Juarroz) 6+7 ya no puede seguir doblando las esquinas (Roberto Juarroz) 1.3.6+2.6 tanta vida y jamás me falla la tonada (César Vallejo) 6+7 =2.3.6+2.4.6 (el alejandrino se produce con alguna dialefa en el primer hemistiquio y admite varias realizaciones) He aquí que hoy saludo, / me pongo el cuello y vivo (César Vallejo) 7+6 = 4.6+ 2.5 para que el niño juegue, / las rosas más blancas (Dulce Mª Loynaz) “para que el niño jue / gue las rosas más blancas” (es decir: 4.6+3.6) 7+6= 3.6+5 y sudamos blasfemias y melancolías (M. Benedetti) y sudamos blasfe / mias y melancolías (3.6+6) 4.6+6 el espesor de un tiempo cada vez más débil (G. Talens) el espesor de un tiem / po cada vez más débil 7+7 (4.6+3.6) 2.6+3.6 Cuando era como vos / me enseñaron los viejos (M. Benedetti) 1.4.6+2.6 quiero expresar mi angustia / en versos que abolida (Rubén Darío)
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Ni siquiera pueden considerarse tridecasílabos cuando la pausa hemistiquial está ocupada por palabra puente, de este tipo: 2.6+2.6 Loor a su natu /raleza amarillenta (César Vallejo)
En realidad el tridecasílabo es el primer verso largo hemistiquial que permite fracturas complejas y muy ricas, semejantes a las del dodecasílabo ternario, pero con menores posibilidades rítmicas, por la invasión del alejandrino de su campo de realización. Tales fracturas se presentan como realizaciones en los casos en los que no se presente como variante de los alejandrinos; probablemente también en los que no forme serie de ningún tipo. Y así es posible, aunque más forzado, la escansión en tres hemistiquios, siempre que el sistema acentual soporte esa realización, algo forzada, pues la voz tiende hacia la secuencia larga que llega a los once versos, y solo pide cesura a partir del séptimo u octavo: Para que el niño /de los ojos mansos / juegue (Dulce Mª Loynaz) 4+ 6+ 2= 4.8.10.12 ó 4+3.5+ 1
La escansión triple puede provocarse claramente en muchos casos, cuando se da preferencia semántica o léxica a un verso, lo que no ocurre en el automatismo rítmico, cuando los versos rompen todo tipo de secuencias para lograr su ritmo, como en la escansión entre nombre y sustantivo de este verso: La mirada del viejo / pintor no es de este mundo (G. Carnero) 3.6.9.13 = 3.6+2.6
La preferencia semántica de estos otros: 4+5+4 Para el amor / más olvidado / cantaré (Dulce Mª Loynaz)
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9+4 = 5.8+3 sería su lectura como tridecasílabo; pero también puede ser 6+4+4; 10+4; etc. En la sumergida lentitud de lo informe (Neruda) 6+4+4
Si se han conseguido analizar adecuadamente los más de los casos, concluiremos que el tridecasílabo, normalmente, aparece asociado al alejandrino, pues casi todos sus tipos aceptan el ritmo del verso de catorce sílabas, con dos hemistiquios regulares (7+7). Pero son irreductibles a ese esquema las variedades siguientes:13 1º) Tipo uno. Tridecasílabos con acento esencial en quinta, lo que determina un primer hemistiquio del tipo ooo oóo / ooo oo óo (6+7). 2º) Tipo dos. Tridecasílabos con acento en séptima, sobre palabra aguda o sobre monosílabo, lo que produce: oo ooo oó / ooo óo (8+5) 3º) Tipo tres. Tridecasílabos que procederían de la variada escansión de dodecasílabos (del mismo modo que hicimos con otros metros). Sea el poema de J.M. Caballero Bonald, “Apostillas a un apólogo moral” (de 1969), en donde además de alejandrinos perfectos y de algún endecasílabo se leen versos como los siguientes: los que aspiran al rango / de sobrevivirse
7+6 = 3.6+5,
pero que puede leerse como los que aspiran al ran/ go de sobrevivirse
13
7+7 = 3.6+ 6
También lo son, obviamente, los que exceden al alejandrino, tal el arranque de “Noche de los vencejos”, alejandrinos de G. Carnero: Realidad, puerto de niebla, engaño de los ojos, / circunferencia de aire que desmiente el sentido...
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severamente sus esfuerzos postergando
5+8= 4+ 3.7,
pero puede leerse como severamente sus / esfuerzos postergando
4.6+2.6
putos) y en las sombras / reptantes se confunden 6+7= 1.5+2.6
Se trata de uno de los casos de auténtico tridecasílabo en la furtiva madrugada, cuando el turno
9+4 ó 5+8,
en realidad puede leerse en la furtiva ma/ drugada cuando el turno 7+7= 4.6+2.6
Otros ejemplos para señalar variedades de tipos asimilables al alejandrino o irreductibles, todos ellos de Cernuda, quien versificaba con cierta dificultad, sobre todo en sus últimos libros: Hasta que un día la quemadura se borra, volviendo a ser piedra en el camino de nadie Dame la guitarra para guardar las lágrimas oyendo en el pausado retiro nocturno que unos pocos instantes rescatar consiguen
1.4+4.7= 4.6+3.6 2.5+4.7 1.5+4.6 2.6+2.5 =2.6+3.6 1.3.6+3.5=1.3.6+4.6
Los preceptistas clásicos no dijeron mucho sobre este tipo de versos, hasta que apareció Sinibaldo Mas y publicó la serie de ediciones de su Sistema musical de la lengua castellana,14 en donde se distinguen nada menos que 23 modalidades de tridecasílabo, en realidad el resultado de una combinación de números respetando algún principio rítmico; pero solo las modalidades 13, 16 y 23 no se asimilan a otros tipos de versos, al alejandrino particularmente, pues son las tres únicas que llevan acento en quinta, y que S. Mas califica como “asonantes”, porque cambian el ritmo de sílaba par a impar: 14
Véase la excelente edición de José Domínguez Caparrós, en Madrid: CSIC, 2001.
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13.—2-3-3-4.15 e=quivalente a 2.5.8.12 16.—2-3-3-2-2, equivalente a 2.5.8.10.12 23.—3-2-4-3, equivalente a 3.5.9.12
Desde entonces, los diversos tratadistas han intentado recopilar y definir distintas modalidades, como recoge finalmente Navarro Tomás, que habla de: Tridecasílabo compuesto de 6-7 Tridecasílabo compuesto de 7-6 Tridecasílabo dactílico Tridecasílabo ternario
Todos ellos a propósito del modernismo. Ya sabemos que el dactílico o anapéstico es una verso de tipo serie, aunque insertado entre alejandrinos de todo tipo puede funcionar como tal.16 El “ternario”, por su parte, con acentos en 4ª, 8ª y 12ª, “incluye un eneasílabo trocaico, prolongado con una tercera cláusula análoga a las dos de que tal eneasílabo se compone”. Los ejemplos que citan –como era previsible al señalar la posición de los acentos– muestran su clara adaptación al ritmo de los alejandrinos: Himnos de zumbos en el viejo colmenar (1.4.8.12) (González Martínez) Himnos de zumbos en / el viejo colmenar (1.4.6+2.6)
Se trata de uno de esos casos en los que la múltiple escansión de un verso largo viene provocada por el canto o por razones 15
En el curioso y bien compuesto sistema de Mas, se cuenta a partir de la primera sílaba tónica, cuyo número de orden la identifica, y luego se salta a la siguiente señalando nuevamente su número de orden a partir del último acento ya señalado. 16 Lo que también señala Tomás Navarro Tomás, p. 442 y nota. Y antes, a propósito de Gertrudis Gómez de Avellaneda, que los empleo en una octava: “Yo palpito tu gloria mirando sublime”. «Pueden interpretarse igualmente estos versos como alejandrinos de hemistiquiosn encabalgados: “Yo palpito tu glo/ria mirando sublime”, pero en el caso de la Avellaneda, por lo menos, cultivadora de los dactílicos simples de nueve y diez sílabas e inventora de los de quince y dieciséis, hay motivos para pensar que concibiera también los de trece como tales versos simples»(ob. cit., p. 374).
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semánticas, como resulta claro de su empleo en composiciones cantarinas de Santos Chocano o Francisco Luis Bernárdez, o como metro usual de los tangos argentinos y de los corridos mexicanos: adiós muchachos compañeros de mi vida (1.4.8.12) adiós muchachos / compañeros / de mi vida
Nótese que se trata de un ritmo secuencial, tipo oooó oooó oooó o
difícil de lograr si no es utilizando palabras agudas, pues la lengua española tiende a reponer acentos secundarios en tales series (ooo). En cuanto a los compuestos, aunque Navarro Tomás solo cita la unión de un hexasílabo dactílico y un heptasílabo trocaico (es decir de ritmo 2.4.6), la variedad de posibilidades es grande. Nótese que es el tipo que nosotros hemos admitido como uno, pues lleva acento en quinta: 2.5+2.4.6. La variedad inversa de 7+6, al reproducir el juego verso breve+largo recrea el aire de seguidilla; pero como verso único es fácilmene asimilable a un alejandrino, desde luego: Háganme si muriere la mortaja verde (Góngora) Háganme si murie/re la mortaja verde
Me ha parecido de modo sistemático analizar este verso en dos libros de poetas de muy distinto cariz, pero en ambos casos muy representativos del uso moderno del tridecasílabo. Se citará primero a Juan Eduardo Cirlot, quien en uno de sus últimos libros del ciclo de Bronwyn, concretamente en Bronwyn, y (de 1970) ensaya nuevos metros y entre ellos el tridecasílabo, en combinaciones atrevidas. Se terminará analizando todos los 17
Suelo calificar como verso libre el que se mezcla en series y estrofas sin cuidar de pautas tradicionales o mezclas consagradas por la métrica, por ejemplo la mezcla de eneasílabos, decasílabos y endecasílabos en un mismo poema corto. Por el contrario es verso irregular el que no obedece a patrones rítmicos clásicos, por
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casos de verso largo tridecasílabo o alejandrino en Los secretos del bosque, de Clara Janés (2002), poetisa que ejemplifica las posibilidades e imposibilidades del verso libre y también del verso irregular,17 que ella utiliza frecuentemente, como se ve por la serie siguiente: Hay un recodo donde crecen los muscaris18 Hay un recodo don/de crecen los muscaris (1.4.6+2.6) Y me dejó en el conocimiento del rojo19 Y me dejó en el cono/cimïento del rojo (4.6+2.6) El viento se apoderó de mi cabeza. un olor de algas se elevaba de las aguas como un arco verde en el cielo lunar. En las dunas emergió entonces su dorada figura...20 El viento se apoderó / de mi cabeza 2.7.11 (12 sílabas, sin posibilidad de escandir 6+6; pero sí 8+5). Tridecasílabo tipo dos. un olor de algas se elevaba de las aguas ejemplo un endecasílabo con acentos en 2.7.10, 3.5.8, etc. Los versos pueden ser irregulares y libres al mismo tiempo, desde luego. Lo normal es que se aluda con verso libre a la mezcla de versos silábicamente distintos en una misa composición, sin intento de lograr un conjunto de estructura reconocible. 18 Contexto: verso inicial de un poema de 13 versos libres, de 9, 3, 12, 7, 3, 6,4, 9,7, 5, 6 y 6 sílabas; la regularidad rítmica se logra acudiendo a versos de arte menor; el verso de 12 es de 8+4=4.7+3). Este verso inicial puede realizarse de modo regular, como alejandrino, por tanto, aun cuando los versos iniciales de cualquier poema son siempre los más abiertos a la irregularidad de un ritmo todavía no empleado. 19 Trece sílabas. Contexto: noveno de 11 versos libres, con un dodecasílabo clásico (2.5+2.5) y tres decasílabos, además de los versos de arte menor. La regularidad pide un alejandrino). 20 Es el curioso comienzo de un poema de 23 versos; seguirá luego una serie de octosílabos y versos de arte menor, solo entreverados por un dodecasílabo. Lo curioso de este comienzo es que su esquema rítmico se contradice y son realmente libres e irregulares; además si se intentan realizar como dodecasílabos la escansión alarga los hemistiquios, o porque terminan en sílaba aguda o monosílabo o porque deshacen sinalefas.
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3.4.8.12 (13 sílabas, con monosílabo en sexta; puede asociarse a series de alejandrinos: un olor de algas se e/ levaba de las aguas (3.4.6+2.6) como un arco verde en el cielo lunar. 3.5.8.11 (12 sílabas, con posibilidad de escandir 6+7). Tridecasílabo tipo tres. emergió entonces su dorada figura... 3.4.8.11 (12 sílabas, con posibilidad de escandir 7+6=3.4.6+2.5. Tridecasílabo tipo tres.)
Idéntica construcción se encuentra en el poema 36, seis versos que así arrancan: Dormido un ánsar se deslizaba por el río, y los ciervos entre el ramaje se tendieron, las hojas silenciosas quedaron inmóviles...21
Al final de uno de los poemas más largos, el 62, encontramos la siguiente serie, que analizo ya de modo esquemático, aplicando los patrones explicados: Voy a la muerte esgrimiendo tan solo el arma del amor.
7+7= 3.6+2.6
Y el bosque llorará la muerte mía como la muerte de una ráfaga de viento.
7+7= 4.6+2.622
21
Dormido un ánsar se deslizaba por el río: catorce sílabas, el monosílabo en sexta evita el corte hemistiquial después de se, aunque no es muy forzado leer Dormido un ánsar se des/lizaba por el río [2.4.6+2.6]). Solo puede leerse como alejandrino o como pentadecasílabo22 (o bien 5+9= 2.4+4.8; de modo más forzado 7+8= 2.4.6+3.7). Y los ciervos entre el ramaje se tendieron, (trece sílabas con monosílabo en sexta, que al sinalefear con la preposición anterior exige una lectura algo forzada: y los ciervos entre el/ ramaje se tendieron (3.5+2.6); tridecasílabo tipo uno. Las hojas silenciosas quedaron inmóviles... (Trece sílabas métricas, por el esdrújulo final, con fácil ritmo de alejandrino 2.6+2.5= 2.6+3.6). 22 Con una aire de seguidilla (7+5), con pausa después de muerte y rápida pronunciación de ráfaga.
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Tomó mi espada y aproximó su boca... 2.4+4.6 =2.4.6+3.5 Tridecasílabo tipo tres. Aves oscuras que cruzaban el aire... Tridecasílabo tipo tres. Roba tu belleza eternidad a la muerte... Alejandrino tipo (1.5+3.7), aunque puede ser realizado también como 10+4. Oleajes de plata, la blanca y fina arena, Tridecasílabo tipo uno: 2.5+2.4.6 O alejandrino tipo 3.6+2.4.6, por el hiato en oleajes.23
El caso de Cirlot, decíamos, representa el extremo opuesto: su control sobre la estructura métrica es absoluto y quiere formas consolidadas, de manera que confiesa haber intentado el ritmo impar, aprovechando versos tridecasílabos. Elegimos solo uno de entre todos sus poemas de la segunda parte de Bronwyn, y. Debe quedar claro que, por la voluntad expresiva del autor, hemos de intentar realizar los versos como tridecasílabos y no como alejandrinos, tipo este último, además, que no cubre el total del poema imponiendo su ritmo, sino del que se intenta diferenciar el tridecasílabo: Como si el estremecimiento de una orquesta 9+4 (8+3), también posible como 7+6 (6.+3.5)
23
Alejandrinos canónicos, sin problemas, son: el mar que se endereza hasta ponerse en pie... Y vuela como el mar, tal luminosa nube Su süave blancura de llama adromecida Una nube se extiende como pluma naranja Y veo todavía que, con un manto negro El ábaco nocturno no alcanza a dar razón Fuertes amurallados como insomnes gigantes Y de nuevo las cumbres, extensiones de cedros Y selvas y mandas de cebras y girafas...
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pudiera levantar desde la roca blanca la tan lejos de todo su cristal belleza de mar y transitoria dos brazos extendiéndose desnudos en los grises de lo solo cielo e ir Como si el abandono de los campos ellos pudieran olvidarse de la negra piedra tan cerca
7+7 (2.6+4.6) 7+6 (3.6+3.5) 7+6 (2.6+3.5) 7+6 (6+3.5) 7+6 (2.6+3.5)
Y perderse en el sueño de las manos alas 6+7 (3.5+3.6) [tipo uno] aprendidas de pronto entre las luces hierbas 7+7 (3.6+4.6) [Es evidente que Cirlot está pidiendo que se haga sinalefa en pronto entre, o que se escanda 8+5]. suyas Bronwyn y se morir entre palabras
El análisis nos permite extraer nuevas consecuencias: la utilización consciente y sistemática de un tipo de verso en un contexto adecuado apoya precisamente esa realización: un tridecasílabo de los que hemos ejemplificado como de acento en 4ª, situado en una sereie de alejandrinos, se acopla perfectamente al ritmo que lleva todo el poema. Lo mismo ocurre con los restantes tridecasílabos forzados (a ser alejandrinos). Pero lo contrario también es verdad: los tridecasílabos colocados en un contexto de versificación irregular, como la mayoría de los de Clara Janés, pueden conservarse como tales, pues es la irregularidad rítmica su contexto apropiado. No suele ser lo más usual, pero en un contexto de tridecasílabos, hasta los dodecasílabos pueden forzar su ejecución para acoplarse al ritmo general. En realidad, solo son tridecasílabos puros, que no aceptan otro tipo de ejecución, aquellos que llevan acento en 5ª y, en determinadas condiciones, los que lo llevan en sexta aguda o monosilábica sin posibilidad de sinalefa. Hemos ejemplificado el tipo en estos versos: —146—
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Oleajes de plata, la blanca y fina arena, y los ciervos entre el ramaje se tendieron Dame la guitarra para guardar las lágrimas
Solo los versos de trece sílabas con acento en quinta no son asimilables al alejandrino, y solo sobre ellos puede funcionar –al margen de cadenas rítmicas– el tridecasílabo.
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VERSO Y PROSA EN LA ETAPA AMERICANA DE JUAN RAMÓN JIMÉNEZ
MIGUEL ÁNGEL MÁRQUEZ 1. ESPACIO
J
uan Ramón Jiménez, con 59 años de edad, en la Florida, tras otro internamiento hospitalario, y después de casi un lustro sin escribir poesía alguna, inició una nueva etapa de su “Obra”. Era enero de 1941, cuando comenzó a escribir Espacio; poco antes, una madrugada se encontró componiendo romances y canciones, como sabemos por una carta a Enrique Díez-Canedo (6 de agosto de 1943), muchas veces reproducida: En la Florida empecé a escribir otra vez en verso. Antes, por Puerto Rico y Cuba, había escrito casi esclusivamente crítica y conferencias. Una madrugada me encontré escribiendo unos romances y unas canciones que eran un retorno a mi primera juventud, una inoncencia última, un final lójico de mi última escritura sucesiva en España. [...] Pues en 1941, saliendo yo, casi nuevo, resucitado casi, del hospital de la Universidad de Miami [...], una embriaguez rapsódica, una fuga incontenible empezó a dictarme un poema de espacio, en una sola interminable estrofa de verso libre mayor. Y al lado de este poema y paralelo a él, como me ocurre siempre, vino a mi lápiz un interminable párrafo en prosa, dictado por la estensión lisa de la Florida, y que es una escritura de tiempo, fusión memorial de ideolojía y anécdota, sin orden cronolójico; como una tira sin fin desliada hacia atrás en mi vida. Estos libros se titulan, el primero, Espacio; el segundo, Tiempo, y se subtitulan Estrofa y Párrafo (Garfias, 1992: 243).
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La crítica parece estar de acuerdo en que Espacio es una poesía muy innovadora1 y su valor literario, sorprendente y excepcional.2 También Juan Ramón Jiménez expresó un juicio crítico positivo sobre Espacio, como se ve en la carta a Juan Larrea de 24 de julio de 1943 que acompaña el envío del primer fragmento para su publicación en Cuadernos Americanos: «Creo que es lo mejor que tengo ahora, y por eso va a esos Cuadernos» (Garfias, 1992: 237). La historia textual de Espacio parece estar muy clara para la crítica (Albornoz, 1982: 66; Villar, 1986: 49; Alegre, 1999: 433436) y puede resumirse así: el libro se inició en enero de 1941 como poema en verso libre (denominación que le da Juan Ramón Jiménez y que la crítica ha aceptado); durante ese año y el siguiente, Juan Ramón Jiménez compuso los dos primeros fragmentos en verso. La revista Cuadernos Americanos (vol. XI, nº 5, septiembre-octubre, 1943) publicó el primero de ellos como “Espacio (una estrofa)” y, al año siguiente (Cuadernos Americanos vol. XVII, nº 5, septiembre-octubre, 1944), el segundo como “Espacio (Fragmento primero de la segunda estrofa). Cantada”. Por otra parte, diferentes segmentos de Espacio se publicaron en los años sucesivos como poemas independientes en verso libre. El 11 de enero de 1953, La Nación de Buenos Aires publicó una parte del fragmento tercero, en prosa. La versión definitiva de Espacio, tres fragmentos en prosa, vio la luz en la revista Poesía Española (abril de 1954). Esta versión se incluyó en la Tercera antolojía poética (1957).3 1
“Espacio, sencillamente, no era poesía como la que había urdido Juan Ramón hasta entonces” (Young, 1981: 190); Aurora de Albornoz (1982: 63) señala que Enrique Díez-Canedo creía que con Espacio se abría una nueva etapa en Juan Ramón Jiménez; para Villar (1986: 26) Espacio y Tiempo son excepciones en la obra de Juan Ramón; aunque quizá más que excepciones, sean los inicios de una nueva forma de escribrir poesía. 2 Según Octavio Paz (1956: 94-95) “Espacio es uno de los monumentos de la conciencia poética moderna y con ese texto capital culmina la interrogación que el gran cisne hizo a Darío en su juventud”. Para Aurora de Albornoz “una de las máximas creaciones poéticas de este siglo, en cualquier lengua” (Albornoz, 1982: 63). 3 Se conserva además un original mecanografiado con correcciones manuscritas de la versión en prosa, anterior a la publicación en Poesía Española; de este original existen ediciones facsímiles.
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Sin embargo, debemos tener en cuenta que conservamos una grabación de Juan Ramón Jiménez en la que recita varios poemas suyo y, entre ellos, el fragmento primero de Espacio. La versión que podemos oír de boca de Juan Ramón Jiménez difiere tanto de la primera versión (la publicada en verso por Cuadernos Americanos) como de la versión definitiva en prosa (publicada por Poesía Española). Podemos decir que es una versión intermedia, puesto que conserva versos de la primera versión que después fueron cambiados en la defintiva.4 Ahora bien, en otros casos la versión leída introduce cambios con respecto a la versión en verso libre que quedarán en la versión en prosa.5 Por otra parte, algún cambio introducido en la segunda versión es desechado en la definitiva que adopta la lectura de la primera. Por último, no faltan versos que muestran tres lecturas diferentes que corresponden a las tres versiones que conservamos.6 Mientras que la aceptación de la versión en verso libre de los dos primeros fragmentos nunca ha resultado problemática,7 la crítica no ha sabido comprender los motivos que indujeron a Juan Ramón Jiménez a publicar como prosa Espacio. Gerardo Diego, a pesar de que fue uno de los primeros críticos en señalar la importancia del poema cuando leyó su versión en verso libre (o quizá por eso mismo), personifica la incompresión extrema de este proceso: [El poema Espacio] Presenta en la última disposición, la de Poesía Española, repetida en la Tercera Antolojía, un asustante aspecto de mazacote en prosa sin puntos y aparte. Capricho poco explicable 4
Por ejemplo, Espacio 1.77: “delicado presente de oro ideal,” en la primera versión; “delicado presente de oro de ideal”, en la versión grabada; y “dedicado presente de oro de ideal”, en la versión definitiva. 5 Por ejemplo, Espacio 1.410: “consuelo universal de hombre y mujer”, frente a la versión leída y a la definitiva: “consuelo universal de mujer y hombre”. 6 Por ejempo, Espacio 1.276: “de la dulce obediente, plena gracia” (así en la primera y en la definitiva) frente a la lectura de la versión leída: “de la dulce obediente, gracia plena”.; o Espacio 1.451: “tú”; “y tú seas, seas”; “y tú seas” (véase igualmente el verso Espacio 1.453, que se comenta más abajo). 7 Aunque no haya hasta ahora un análisis detallado del verso libre de Espacio. Para el verso libre juanramoniano en general, véase Paraíso (1985), dentro del tratamiento del verso libre hispánico.
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del poeta, como no sea por ahuyentar al filisteo y quedarse sólo con sus fieles (Gerardo Diego, 1984: 343).8
La explicación de Gerardo Diego como un «capricho de última hora» puede haber provocado la respuesta de Aurora de Albornoz, quien, a pesar de que contextualiza la “prosificación” de Espacio en un proceso más general, parece distinguirla de los otros casos: en sus años últimos andaba poniendo en prosa lo antes escrito en verso libre. Sin embargo, en el caso de Espacio la alteración no obedece a capricho de última hora: se trata, a mi juicio, de una corrección necesaria (Albornoz, 1982: 69).
¿Quiere decir Aurora de Albornoz que en otros casos distintos de Espacio la prosificación era un capricho de Juan Ramón Jiménez, o que la prosificación de Espacio y de otros poemas pueden tener una razón y un objetivo distintos? Según Aurora de Albornoz el objetivo del poeta era lograr un “poema seguido” y para ello: era necesario romper incluso con la tradicional distribución del texto en versos; era necesario el paso de líneas cortas y largas a esas líneas ininterrumpidas –que parecen prosa– que fluyen torrencialmente, desde el comienzo hasta el final, llenando de palabras las páginas; inundando de palabras el espacio de las páginas (Albornoz, 1982: 69).
Sin embargo, no se nos ofrece ninguna reflexión sobre la naturaleza de ese “poema seguido”, que parece prosa pero que no es prosa. ¿Es, simplemente, poesía camuflada como prosa y Juan Ramón Jiménez se complace en utilizar un “engaño del 8
Véase también: “Por un capricho de tantos como los que él abrazaba en un momento u otro de sus proyectos y de sus publicaciones terminó por publicar este poema como en prosa, en forma amazacotada, en apretados rectángulos de letra no grande, tal como apareció completo en la revista Poesía Española de Madrid” (Gerardo Diego, 1984: 344).
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ojo” plástico, casi pictórico, como sugiere la profesora Paraíso?9 Este tipo de explicación ofrece también H. Young: el poeta quería libertarse de los recursos visuales tradicionalmente asociados con la poesía, la estrofa y la extensión del verso, los cuales, según él, no ayudaban al lector a entender mejor el verso libre (Young, 1981: 192).
Ahora bien, podemos preguntarnos si estas razones visuales, indiscutibles en la medida en que constatan la presentación del texto y nuestra visión del mismo explican todos los aspectos del fenómeno que tratamos. En los dos últimos poemarios de Juan Ramón Jiménez (Dios deseado y deseante y De ríos que se van) hallamos el mismo fenómeno de “prosificación” que hemos visto respecto a Espacio. Por ejemplo, “El desnudo infinito” (Dios deseado y deseante) tuvo una primera versión en verso, titulada “No quiero exaltación de las eternidades” y que data del final del 1948, y otra definitiva en prosa, que Juan Ramón Jiménez fechó en 1950 (Alegre, 1999: 472).10 Otro ejemplo pertenece al poemario De ríos que se van: “Tú, animal hembra, mujer mía” se conserva en dos originales, el más antiguo sin título está escrito en verso y el más reciente, también en verso, lleva escrito de la mano de Juan Ramón Jiménez “En forma de prosa” (Alegre, 1999: 484). Juan Ramón Jiménez pretendía publicar como prosa toda su poesía anterior escrita en verso libre. Es decir, pretendía extender retroactivamente su evolución personal en la concepción de las formas génericas de verso y prosa, a toda su obra y no sólo a la escrita en la etapa americana. Esta tendencia general de la última etapa de Juan Ramón Jiménez se cifran en la revisión total
9
“Y sólo la voluntad del poeta de verter sus poemas en la tipografía de la prosa, ese engaño de los ojos, [...]” (Paraíso, 1971: 264). 10 Alegre (1999: 416-418) ofrece la versión en verso libre de “El desnudo infinito”, bajo el título “No quiero exaltación de las eternidades”, que puede verse en el Anexo correspondiente.
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de su poesía que dejó al morir (1958) y que ha sido editada con el título de Leyenda por A. Sánchez Romeralo (1978).11 2. ANÁLISIS MÉTRICO DE LOS POEMAS ESCRITOS EN VERSO LIBRE Antes de abordar las relaciones de prosa y verso, parece conveniente describir el verso libre que utiliza Juan Ramón Jiménez en su etapa americana (Espacio, Dios deseado y deseante y De ríos que se van), porque sin duda puede ayudarnos a comprender mejor esas relaciones. Al margen del problema de cuándo entra el verso libre en su obra (Paraíso, 1985; Romero López de las Hazas, 1992) y de su origen en Unamuno, como apunta Juan Ramón Jiménez, debemos indagar en la clave el verso libre de nuestro poeta. Para Juan Ramón Jiménez verso libre o “verso desnudo” es el verso sin rima, por eso dice de Espacio «una sola interminable estrofa de verso libre mayor». La profesora Paraíso acepta esta idea juanramoniana y añade que su verso libre es parecidísimo a la silva impar modernista: La mayor diferencia entre el verso libre juanramoniano y su silva estriba en la carencia de rima (o uso de alguna asonancia dispersa y accidental); y, como diferencia menor, la posibilidad de que algún verso de otra medida (generalmente muy corta) pueda deslizarse (Paraíso, 1985: 203).
Creo que deberíamos partir de un análisis métrico exhaustivo de Espacio, para poder llegar a una nueva conclusión sobre la esencia de ese tipo de verso, se denomine como se denomine. Para ello he medido los 537 versos que lo componen. ¿Qué encontramos en Espacio?
11
Según anota Urrutia, “en Leyenda, aparte de modificaciones y de reconstrucciones de los poemas, casi todos aquellos que fueron inicialmente escritos en verso libre adquieren forma de prosa” (Urrutia, 1981: 725).
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Endecasílabos: Versos compuestos Eneasílabos: Heptasílabos: Resto
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288 129 67 39 14
(54 %) (24 %) (12,5 %) (7,3 %) (2,6 %)
Más de la mitad de los versos son endecasílabos (54%), que se combinan con heptasílabos, siguiendo la pauta de la silva clásica, pero mucho más con eneasílabos, desarrollando la innovación de la silva modernista. Los pentasílabos y otros versos cortos ocupan una posición marginal. Junto a estos versos simples, encontramos un grupo numerosísimo de versos compuestos (24%).12 En un trabajo anterior (Márquez, 2000), he expuesto el modelo que propongo para explicar el verso libre de ritmo endecasilábico: la innovación fundamental del verso libre de ritmo endecasilábico (o como cada cual quiera llamarlo) frente a la silva modernista es la utilización de versos compuestos de dos o más hemistiquios distintos del alejandrino; esta innovación aparece en Unamuno pero con una frecuencia muy reducida; la desarrolla Juan Ramón Jiménez y llega a su culminación en algunos poetas del 27. Podemos denominar “versículo” a este verso compuesto. Sus componentes, sean dos o más, “hemistiquios” en un sentido lato permitido por el DRAE, presentan también el ritmo endecasilábico general, es decir, tienen número impar de sílabas (5, 7, 9 u 11 sílabas). La clave del sistema es el versículo (En Espacio, nada menos que el 24% del total de los versos), que cumple una doble función rítmica. Por una parte, innova la tradición porque no se parte de un metro fijo ni el receptor conoce el metro de antemano. Pero, por otra parte, su base rítmica es la tradicional de la poesía culta española y puede ser reconocida por el oído del receptor a pesar de la apariencia nueva y extraña. El versículo consigue renovar la métrica tradicional y permite, al mismo tiempo, que el 12
No quiero entrar en un debate, pero me parece razonable aceptar como verso simple el que tiene once o menos sílabas, y verso compuesto el que tiene más de once sílabas.
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receptor se adapte al nuevo sistema inconscientemente. Además de esta función rítmica, el versículo ofrece variaciones estilísticas, pues enlentece el tiempo del poema con su tono más grave que el de los versos simples. Como ejemplo de este tipo de análisis que propongo, veamos el comienzo de Espacio en su primera versión en verso libre (Espacio 1.1-9): Los dioses no tuvieron más sustancia [11] que la que tengo yo. Yo tengo, como ellos, la sustancia de todo lo vivido [11] y de todo lo porvivir. No soy presente sólo, sino fuga raudal de cabo a fin. Y lo que veo a un lado y otro, en esta fuga, rosas, restos de alas, sombra y luz es sólo mío, recuerdo y ansia míos, presentimiento, olvido.
[7+7] [9+7] 5 [11+5, 7+9] [9] [11] [5] [7+7]
Este tipo de análisis, que sin duda tienes sus precedentes como señala Utrera (2001: 243), sólo será válido si se demuestra que el versículo es una realidad rítmica distinta a la serie de versos simples que resultaría de su descomposición. En el ejemplo anterior, no serían equivalentes los dos versículos de Espacio 1.4-5 y los cuatro versos que obtendríamos de su descomposición: y de todo lo porvivir. No soy presente sólo, sino fuga raudal de cabo a fin. Y lo que veo 5
9 7 11
Como es obvio, estamos cuestionando la existencia misma del versículo, la existencia métrica y rítmica del versículo, más allá del efecto visual que provocan las diferentes tipografías. La resolución del problema se basa en la distinción de la pausa de final de verso y la pausa de final de hemistiquio, distinción que no se ha hecho antes, según creo, y que no tiene precedentes. Resumo mi posición, expuesta en un trabajo anterior (Márquez, 2000). La teoría métrica no distingue ambas pausas por una serie —156—
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de características comunes: 1) rechazan la sinalefa (salvo caso de sinafía); 2) igualan los finales agudos, llanos y esdrújulos; 3) delimitan verso y hemistiquio. Pero propongo que distingamos ambas pausas basándonos en el concepto “tiempo del poema”. El tiempo del poema (tempo) es la percepción emocional que se tiene del ritmo global de un poema y queda marcado por las pausas de final de verso, en las que se introduce un elemento rítmico esencial: el silencio, que rompe el desarrollo lineal y continuo del discurso. El verso es la unidad rítmica menor perteneciente a un plano no teórico:13 es el módulo más pequeño por el que se nos transmite el contenido poético. Si admitimos que el tiempo continuo de la realidad para transformarse en tiempo vivencial de la poesía (tiempo humanizado) debe hacerse discontinuo y ser capaz de soportar un ritmo, admitiremos igualmente que ese tiempo poético ya dividido debe coincidir con las unidades rítmicas menores, es decir, con los versos. El poeta nos envía la sustancia poética en “cuantos” sucesivos, de una manera rápida o lenta, constante o no, en lo que habitualmente se denomina segmentación del discurso poético. La pausa de final de verso es una marca pertinente para el tiempo del poema. La pausa de final del hemistiquio, por el contrario, no lo es. Podemos partir de la intuición de que una serie de alejandrinos no equivale al conjunto de heptasílabos que resultaría de su descomposición. Pero incluso podemos percibir los distintos tiempos en el ejemplo anterior de Juan Ramón Jiménez. En resumen, si para el ritmo acentual el versículo es equivalente a la serie de versos simples que lo constituyen, para el tempo del poema de ninguna manera equivalen el versículo y la serie de sus hemistiquios. Los poemas de Dios deseado y deseante y De ríos que se van escritos en verso libre pueden ser analizados con el mismo modelo que hemos aplicado a los primeros versos de Espacio. 13
Aunque se aceptara un análisis por pies métricos (unidades mínimas del ritmo en el plano teórico), es evidente que, en un poema concreto, nunca se da un pie aislado.
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Como ejemplo, veamos la primera estrofa de “No quiero exaltación de eternidades” (Ddd).14 No, dios, no me deslumbres con relumbres, que yo no quiero que esta costumbre recargada de historia acumulada dé relumbre. Déjame con mis ojos en lo mío, déjame con mi fuego 5 [7] del sol, mi sol de cada día, carbón y luz de cada hora; con la luz de mi hierba verde; con el ansia de lo que quiero contener y retener en mi mirada.
[11] [5+9] [11] [11] [9] [9] [7+7] [9+9]
El verso 8 requiere un comentario. E. Torre (2001: 79-99) ha estudiado a fondo la segmentación del alejandrino, tanto en la poesía francesa como española, y cita precisamente un verso de Juan Ramón Jiménez similar al que analizamos (Torre, 1999: 95): «por la ventana –piedras dentro–, ¡luna blanca!». Se produce en los dos versos un encabalgamiento léxico, pues la cesura rompe la palabre pie / dra, o hier / ba. La primera sílaba se comporta como un monosílabo tónico (acento en 6ª) y, por tanto, el hemistiquio es un heptasílabo. E. Torre expone su posición así: «tales peculiaridades en el verso alejandrino español no son más que variedades rítmicas de un mismo y único patrón métrico: el verso tetradecasílabo, compuesto por dos hemistiquios heptasilábicos» (Torre, 1999: 96).
3. VARIANTES TEXTUALES EN LA VERSIONES EN PROSA Antes de plantearnos la razones por las que Juan Ramón Jiménez decidió presentar como prosa toda su poesía escrita en verso libre, debemos estudiar con criterios filológicos las variantes textuales que diferencian la versión en prosa de la versión en 14
Poema denominado “El desnudo infinito” en su versión definitiva en prosa.
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verso libre. A la crítica parece haberle pasado desapercibida la importancia que las variantes textuales tienen para comprender cabalmente el proceso de presentación como prosa y de adaptación rítmica.15 La mayoría de las veces, la versión en verso libre no cambia sustancialmente con respecto a la definitiva en prosa. La coincidencia de los finales de verso con las pausas sintácticas o con los grupos fónico-semánticos, facilita que no se altere el texto entre ambas versiones. Véase, por ejemplo, Espacio 1.142-147 y compárese con su versión en prosa: Entramos por los robles melenudos; rumoreaban su vejez cascada, oscuros, rotos, huecos, monstruosos, con colgados de telarañas fúnebres; el viento les mecía las melenas, en medrosos, estraños ondeajes.
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Entramos por los robles melenudos; rumoreaban su vejez cascada, oscuros, rotos, huecos, monstruosos, con colgados de telarañas fúnebres; el viento les mecía las melenas, en medrosos, estraños ondeajes,
Podemos comprobar que el texto se mantiene sin cambios y que las pausas sintácticas permiten que en la prosa se “oiga” fácilmente la serie de endecasílabos de la primera versión. Sin embargo, en ocasiones, cuando el final de verso no coincide con pausa sintáctica o final de grupo fónico-semántico 15
Así, por ejemplo, H. Young apunta: «Esta [supresión de alusiones contemporáneas en el tercer Fragmento] es la única diferencia importante entre las varias versiones de Espacio. Lo demás, aun cuando se trata del cambio del verso libre a la prosa, es sólo una cuestión de la puntuación o alguna que otra palabra» (Young, 1981: 183 n.1). Véase igualmente Albornoz (1982: 66 n.10).«En las dos primeras partes hallamos mínimas variantes enriquecedoras (de palabras y de sintagmas)»; y Villar (1986: 48): «Nació en verso libre [Espacio] en enero de 1941 y así lo continuó Juan Ramón al año siguiente, pero hacia 1953 decidió prosificar todo su verso y Espacio cambió su forma, aunque las variantes sobre los versos sean pocas y sin importancia».
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(encabalgamiento), Juan Ramón Jiménez tiende a alterar el texto de la primera versión. En el verso libre el final de verso, la pausa de final de verso, cumple una función esencial: marcar el límite de la unidad métrica, independientemente de las pausas y unidades sintácticas. Puesto que la prosa carece de esa marca, Juan Ramón Jiménez con frecuencia varía la puntuación y pone comas en la versión en prosa o sustituye comas por pausas más fuertes como el punto y coma.16 Encontramos un cambio de puntuación muy significativo en uno de los poemas conservados en dos versiones, en verso libre (“No quiero exaltación de las eternidades”) y una segunda versión en prosa (“El desnudo infinito”), incluido en Dios deseado y deseante; véase “No quiero exaltación de las eternidades” 5456: Que la atmósfera tuya quiera situar[7+7, 7+5] con una luz o un fuego de aureola 55 [11] cierta, aureola no pintada, [9]
Compárese con la versión definitiva en prosa de “El desnudo infinito”: Que la atmósfera tuya quiera situar, con una luz o un fuego de aureola, cierta aureola no pintada,
Como puede observarse la nueva puntuación sirve para marcar los límites de las unidades sintáctico-rítmicas de la versión 16
Sobre la función rítmica de las comas en la prosa de Juan Ramón Jiménez, véase Gullón (1981: 222): “Y esto me lleva a decir algo acerca del uso de la coma en la prosa de Juan Ramón Jiménez. El lector observa en seguida la prodigalidad de signos ortográficos, y especialmente la sobreabundancia de comas [...].En esta breve oración las comas sirven para destacar todos y cada uno de los períodos, que a la vez lo son de ritmo y de significación; ellas dan plenitud a la frase al realzar, enumerándolos, cada uno de los incisos, obligando al lector a fijarse en lo que van añadiendo o, mejor dicho, a notar cómo van completando el sentido de la imagen, transmitiéndonos en su perfección la figura del Achúcarro según la intuyera el poeta”; y Gullón (1981: 223): “En el retrato de Solana es quizá donde el empleo de la coma resalta con trazo más acusado y sirve más eficientemente a la técnica del caricaturista. Las comas separan las imágenes sin aislarlas, y gracias a ellas, como en el ejemplo anterior. La acumulación no estorba al dinamismo del conjunto”.
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en prosa: se introduce una coma al final de lo que era el verso 55 y se elimina la coma del verso 56 que producía un encabalgamiento fuerte, de modo que “cierta” determina ahora a la segunda aparición de “aureola”. Junto a los cambios de puntuación, encontramos otros fenómenos como adiciones, supresiones o sustituciones textuales. Ejemplo: “No quiero exaltación de las eternidades” este fenómeno se repite en varios pasajes; veamos a modo de ejemplo los versos 39-44: Quiero tu nombre, Dios, orijen nada más; y fin luego y no fin como término sino como propósito. [7] Quiero, nombrado Dios, que tú esta vez te hagas de veras por mi amor esto que soy, un ente, un ser, un par, un hombre
[11] 40 [?] [11] [9+5] [9]
La dificultad en la medida del verso 40 es evidente: podría ser un octosílabo, inesperado en el métrica general del poema; si consideramos que se produce una diéresis en “lüego”, obtenemos un eneasílabo, aunque con acentuación irregular en 1ª, 5ª y 8ª. La división en dos hemistiquios (2+7) parece arbitraria. Leamos la versión en prosa de este pasaje en “El desnudo infinito”: Quiero tu nombre, dios, orijen nada más y fin; y no fin como término, sino como propósito. Quiero, nombrado dios, que tú te hagas por mi amor esto que soy, un ente, un ser, un hombre,
En primer lugar, observamos que se ha cambiado la puntuación del verso 39 para delimitar mejor la unidad métrica en la prosa, como acabamos de ver. En el verso 40, de difícil medida, se ha eliminado “luego” con lo que se obtiene un heptasílabo nada problemático y además se añade una coma para separarlo del miembro siguiente. El verso 42 ve cómo desaparece “esta vez”; el verso 43, “de veras”; y el verso 44, “un par,”, y se introduce una coma al final de este último verso. Estas últimas supresiones no implican obligatoriamente un cambio en la segmentación, aunque ello es posible: —161—
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Quiero tu nombre, dios, orijen nada más y fin; y no fin como término, sino como propósito. [7] Quiero, nombrado dios, que tú te hagas por mi amor esto que soy, un ente, un ser, un hombre,
[11] [7] [7] [9+5] [7]
4. PRESENTACIÓN TIPOGRÁFICA Y MODELO DE EJECUCIÓN Ha llegado el momento de hacernos la pregunta clave: ¿por qué razón Juan Ramón Jiménez decidió presentar como prosa su producción poética escrita inicialmente como verso libre? Creo que el proceso por el que llegan a confundirse “verso desnudo” y “prosa jeneral”, como llama Juan Ramón Jiménez al verso libre y a su prosa, llena de ritmo, hay que entenderlo como culminación de la desaparición de los límites que separan prosa y verso durante el siglo XIX. Por conversaciones con R. Gullón (1958: 114-116 y 149) sabemos que Juan Ramón Jiménez tenía la intención de dar forma de prosa a toda su poesía en sucesivas ediciones. Si Gerardo Diego no comprendió el proceso, R. Gullón se escandalizaba ante las intenciones de Juan Ramón Jiménez, que le confesaba su rebelión personal contra la tiranía de la rima (refugio para el poeta débil), la molestia que le producía el “tope del asonante”, etc. [...] no hay prosa y verso […]; lo que les diferencia es la rima. Si no la hay, todo es prosa, y ésta puede recortarse y escribirse en verso. Por eso estoy pensando, para sucesivas ediciones de mis obras, en dar el verso como prosa. –¡No haga eso!– le pido [...]; a muchos lectores les produciría, inútilmente, gran confusión–. ¿Por qué no hacerlo? –replica–. Tome un poema y recítelo pensando que todos los oyentes son ciegos. Precisamente, la mayoría de los lectores se hacen cargo del poema, en primer término, por como lo
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ven. El verso libre es prosa y puede escribirse como tal. Si no fuera por la rima no habría verso, y no encuentro inconveniente en que el poema se escriba seguido (Gullón, 1958: 114-115).17
La cercanía de verso libre y prosa rítmica, prosa jeneral, para Juan Ramón Jiménez se desprende de su combinación en poemarios como Diario de un poeta recién casado, Dios deseado y deseante y De ríos que se van, pero sobre todo de los numerosos poemas que presentan dos versiones, una en verso y otra en prosa. Estos poemas comparten el ritmo endecasilábico con los poemas de los que sólo conservamos o bien la versión en verso libre o bien la versión en prosa. La indiferenciación de estas variedades poéticas en la conciencia de Juan Ramón Jiménez se acrecienta cuando observamos que Juan Ramón Jiménez lee sus poemas de acuerdo con un “modelo de ejecución” expresivo, es decir guiado por la sintaxis y la semántica.18 Es decir, en su lectura no se produce pausa entre los versos encabalgados. Por tanto para Juan Ramón Jiménez, la lectura de un poema como Espacio en su versión en verso libre no se diferencia de la lectura de la versión en prosa. Su “ejemplo de ejecución” de Espacio explica su concepción de que para un ciego no se diferencian verso y prosa (Juan Ramón Jiménez “Poesía cerrada y poesía abierta”): Para un ciego el verso y la prosa serían iguales. Y en realidad no existe el verso más que por el consonante o el asonante, por la rima.
Para Juan Ramón Jiménez la división en líneas era un artificio tipográfico, por eso en numerosos lugares de su producción crítica insiste en la imagen del ciego. Es evidente que al suprimir los saltos de línea, Juan Ramón Jiménez pretendía hacer concorde la tipografía con el modelo de ejecución que él adoptaba: la lectura como prosa, sin marcar los finales de verso con una pausa. 17 18
Conversación mantenida el 10 de diciembre de 1952. Para los conceptos “modelo de ejecución” y “ejemplo de ejecución”, véase Domínguez Caparrós, 1993: 41-43.
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Ambos fenómenos son coherentes y restan énfasis al poema, cuando se lee o cuando se oye; unas palabras de Juan Ramón Jiménez dejan patente la cercanía de esos dos fenómenos: Cuando leemos poesía lo que se busca es el tope del asonante. El lector parte el romance con el ojo, porque tiene que leer y va hasta el final de cada línea para volver luego al comienzo de la otra. Conviene siempre evitar eso y el latiguillo del recitado (Juan Ramón Jiménez, citado por Gullón: 149).
Juan Ramón Jiménez no sólo anula las pausas de finales de verso en su “ejemplo de ejecución”, sino también expresa claramente su disgusto ante el “tope del asonante” (Gullón). Así pues, es coherente que decidiera dar forma de prosa a su poesía. No podemos obviar el hecho que «la disposición gráfica es importante, por cuanto que manifiesta la intención rítmica del autor» (Domínguez Caparrós, 1993: 33). Quizá uno de los objetivos que Juan Ramón Jiménez pretendía con la presentación tipográfica como prosa de sus poemas escritos inicialmente en verso libre fuera que los “ejecutaramos” siguiendo el modelo sintáctico-semántico que él solía adoptar.
5. VERSO DESNUDO Y PROSA JENERAL El fenómeno es muy complejo, y postular que la “prosa” de la etapa americana de Juan Ramón Jiménez no es más que verso libre enmascarado tipográficamente es simplificar el problema. Refiriéndose a las formas poéticas que Juan Ramón Jiménez creía todavía válidas, escribió las siguientes palabras (Juan Ramón Jiménez “Poesía cerrada y poesía abierta”): Canción, romance y verso libre (y prosa jeneral) son las tres formas en que yo libertaría hoy gustosamente toda la poesía española o, al menos, la mía.
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A partir de esta declaración, no es difícil discernir que Juan Ramón Jiménez consideraba que verso libre y “prosa jeneral” se subsumen en una sola forma, que se diferencia del verso (canción, romance) por la rima, como veíamos en las citas anteriores de Gullón. La misma opinión aparece en “Poesía abierta y poesía cerrada”: para un ciego el verso y la prosa serían iguales. Y en realidad no existe el verso más que por el consonante o el asonante, por la rima. El ciego es siempre una gran autoridad para la escritura poética.
Para Juan Ramón Jiménez, el verso, el verso libre y la prosa comparten la organización rítmica y el verso libre y la prosa se diferencian del verso porque no tienen rima. Así pues, la prosa para Juan Ramón Jiménez no se distingue rítmicamente en nada del verso libre, luego la presentación tipográfica carece de importancia. De hecho, los poemas de los que sólo conservamos su presentación en prosa, bien porque se haya perdido su versión en verso libre o bien porque ésta nunca existiera, presentan el mismo ritmo endecasilábico que los que fueron escritos en verso libre. El fenómeno ha sido estudiado por E. Torre, quien recoge este interesante fenómeno en Métrica española comparada: En ocasiones, el autor decide escribir su poema con la apariencia tipográfica de la prosa. En un grado más avanzado de 'liberación' de las ataduras del metro, pasaríamos así del verso libre al poema en prosa: Gracias, ta las doy siempre. ¿A quién las doy? A la belleza inmensa se las doy, que yo soy bien capaz de conseguir; que tú has tocado, que eres tú. Sila belleza inmensa me responde o no, yo sé que no te ofendo ni la ofendo. (Juan Ramón Jiménez)
Pero una segmentación del poema, como la que sigue, nos revelará un conjunto de versos totalmente regulares: Gracias, ta las doy siempre. ¿A quién las doy? A la belleza inmensa se las doy,
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que yo soy bien capaz de conseguir; que tú has tocado, que eres tú. Si la belleza inmensa me responde o no, yo sé que no te ofendo ni la ofendo. (Juan Ramón Jiménez) (Torre, 2000: 105)
Este análisis en segmentos métricos propuestos por el Profesor Torre se basa naturalmente en el ritmo endecasilábico (11, 11, 11, 9, 11, 7, 7), que hemos visto a propósito de Espacio. En la última etapa de Juan Ramón Jiménez, su “verso desnudo” y su “prosa jeneral” son indiferenciables rítmicamente. Su poética en ese punto busca una expresión formal en la presentación tipográfica como prosa. Esa forma común, que engloba verso libre y prosa rítmica; “verso desnudo” y “prosa jeneral”, y que puede aparecer bajo forma de verso o de prosa, no es una forma intermedia entre versificación regular y prosa. Más bien, es la evolución coherente desde el verso libre; es una depuración más del verso libre, al que se le quita otro componente “artificial”: el tope de fin de verso. En esta evolución liberadora, quizá haya sido uno de los factores principales el versículo, que, sin la limitación del verso ni la continuidad de la prosa, posee una naturaleza intermedia. El versículo se segmenta rítmicamente sin tener en cuenta la marca visual de final de verso ni las unidades sintáctico-semánticas. Es como si Juan Ramón Jiménez, al convertir en prosa los maravillosos versos de Espacio, hubiera formado un único e interminable versículo.
6. COHERENCIA EN EL PLANTEAMIENTO Volvamos a enunciar la razón por la que Juan Ramón Jiménez presenta esta poesía escrita en verso libre como prosa: el poeta distingue dos formas genéricas, que incluyen naturalmente diversas variedades: 1) el verso, necesariamente con rima asonante o consonante, que puede ser romance, canción, etc. —166—
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2) El verso libre, que carece de rima, y que no se distingue de la prosa y por tanto es susceptible de ser presentado tipográficamente como prosa. Juan Ramón Jiménez no pensaba que se trataba de una concepción rítmica sin importancia y pretendió ser coherente hasta el extremo. Así, el poema titulado “El terrible desvelo” supone un terrible descubrimiento. Cito palabras literales de Alegre para que nos hagamos una idea de la historia textual de esta composición: He visto tres originales de este poema; el más antiguo se titula “Más que la muerte y la nada”, luego tachado y sustituido por “El sueño terrible”; este original, escrito en verso, está lleno de correciones y variantes manuscritas del poeta, y fechado en 1952 con una interrogante. El segundo original lleva el título de “El terrible sueño” y no tiene ningún tipo de anotación manuscrita. Por último, el original más reciente, del que partimos en esta edición se titula “El terrible desvelo”, está fechado en 1951 y en la parte superior izquierda de la página se lee: «De ríos que se van: 3» (Alegre, 1999: 480).
Antes de ver los originales en verso, al intentar analizar en miembros el poema, se encuentra uno con dificultades casi insalvables: no hay forma ni medio de encontrar ningún verso de ritmo endecasilábico, ni comenzando por el principio ni comenzando por el final. Parece prosa sin ritmo: Estás sola de ti misma, sola mía, más de ti que de mí que más te quise que tú te quisiste... ¿Y cómo podrá ser que estés tan sola si estuve todo contigo? ¿No quepo en tu soledad? Yo soy más grande por ti que mi vida y que mi muerte; y quepo donde tú estés tan sola en ti misma. ¡No, no me lo puedes decir; eres más grande que yo, eres más grande que el mundo, eres más grande que el cielo, más que la muerte y la nada! ¡Eres ya tu eternidad! ¡No sé qué hacer con lo mío!
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El problema se presenta casi irresoluble, si se aplica el método habitual: la sorpresa es que, midiendo con rigor, se comprueba que se trata de un poema escrito en octosílabos: Estás sola de ti misma, sola mía, más de ti que de mí que más te quise que tú te quisiste... ¿Y cómo podrá ser que estés tan sola si estuve todo contigo? ¿No quepo en tu soledad? Yo soy más grande por ti que mi vida y que mi muerte; y quepo donde tú estés tan sola en ti misma. ¡No, no me lo puedes decir; eres más grande que yo, eres más grande que el mundo, eres más grande que el cielo, 15 más que la muerte y la nada! ¡Eres ya tu eternidad! ¡No sé qué hacer con lo mío!
5
[8] 10
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[8] [8] [8] [8]
Cuando al finales del año 2001, durante una estancia de investigación en la Sala Zenobia y Juan Ramón Jiménez de la Universidad de Puerto Rico, pude colacionar los originales en verso a los que se refería Alegre, su lectura confirmó este análisis en octosílabos. Teniendo en cuenta estas reflexiones sobre el carácter de la rima, que clasificaría para Juan Ramón Jiménez un texto como verso o como prosa, podemos comprender la razón que llevó al poeta a presentar como prosa un poema escrito en octosílabos, “El terrible desvelo”, donde sólo los versos 11 y 13 parecen presentar el fenómeno de la rima: tan sola en ti misma. ¡No, no me lo puedes decir; eres más grande que yo,
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La importancia de la prosificación de este poema es esencial, en tanto demuestra que la prosificación no afecta sólo a los poemas en verso libre de ritmo endecasilábico ni está determinada sólo por la cercanía del verso libre y la prosa, sino que descansa fundamentalmente en la existencia o carencia de rima.
7. ¿Y LA RIMA EN ESPACIO? Ahora bien, el problema se va complicando porque en los poemas escritos en verso libre de ritmo endecasilábico que Juan Ramón Jiménez presentó como prosa (Espacio, y otros pertenecientes a los dos últimos poemarios, Dios deseado y deseante y De ríos que se van), la rima no ha desaparecido ni siquiera es un fenómeno esporádico, como se cree generalmente. La rima es un componente esencial en este tipo de verso libre, como he demostrado en un reciente artículo publicado en Hispanic Review sobre la poesía última de Aleixandre (Márquez, 2001). Así pues, la coherencia juanramoniana que le lleva a presentar como prosa las composiciones que se clasificaría como “verso desnudo” parece encontrar una falla insoluble cuando comprobamos que la rima juega un papel importante en poemas como Espacio, a pesar de la opinión expresada por el poeta contra la rima tanto asonante como consonante en su última época.19 Tres aspectos destacan en la rima del verso libre de Espacio: la gran cantidad de versos con rima (el 29%); las numerosas disposiciones que adopta; y las funciones rítmicas y eufónicas que desempeña. La descripción de las numerosas variedades tiene dos objetivos: por una parte, hacer ver la importancia cualitativa 19
Recogidas por Domínguez Caparrós (1999: 152): “El consonate lo aborrezco hoy creo que nos quita nuestra poesía para darnos la suya, nos hace esclavos. Ejemplo, Jorge Guillén, el poeta virtuoso más esclavo, en su limitación, del verso impuesto desde fuera. El asonante tampoco me gusta hoy más que en la canción y en el romance, donde es tan naturalmente español. Ejemplo, Bécquer. En el verso libre todo es uno, nada viene traído de la palabra aconsonantada ni de la asonantada”. Domínguez Caparrós ha analizado el funcionamiento de la rima en dos poemas de Juan Ramón Jiménez, “Paisaje del corazón” y “El idilio”.
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y cuantitativa de la rima en unos poemarios escritos en verso libre y, por tanto, en los que no se espera a priori su aparición; por otra parte, aportar los datos suficientes para desterrar cualquier sospecha de subjetivismo.20 Dejando al margen todos los fenómenos de rimas extrasisteméticas estudiados por Domínguez Caparrós (1997 y 1999), y limitándonos a la definición tradicional de rima, encontras en Espacio las siguientes disposiciones: 1) Rima pareada, Espacio 1.104-112: me rodean, me envuelven en su ritmo, en su gracia, en su fuerza delicada, y yo me olvido de mí entre ello, y bailo y canto, y río y lloro por los otros, embriagado. ¿Esto es vivir? ¿Hay otra cosa más que este vivir de cambio y gloria? Yo oigo siempre esa música que suena en el fondo de todo, más allá; ella es la que me llama desde el mar;
2) Rima cruzada, Espacio 2.20-23: otra vez, de mi soledad y mi silencio, tan igual en mi piso 9 y sol, al cuarto bajo de mi calle y cielo. Dulce como este sol es el amor.
3) Rima abrazada, Espacio 1.242-245: Todo lo rodeaban piedra, cielo, río; y cerca el mar, más muerte que la tierra, el mar lleno de muertos de la tierra, sin casa, separados, engullidos
20
Se cita un solo ejemplo de cada esquema de rima, auqnue los datos podrían multiplicarse.
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4) Rima continua, se aducen ejemplos al tratar la rima idéntica y la rima interna. 5) Rima alterna, Espacio 1.184-188: escena fiel, que yo, que la creaba, creía de otros más que de mí mismo. Los otros no lo vieron; mi nostaljia, que era de estar con ellos, era de estar conmigo, en quien estaba.
6) Rima con esquema a, ø, ø, a, Espacio 1.253-256: viene a mis manos, ya más duras, como un cordero blanco a beber la dulzura21 del amor. Amor el de Eloísa; qué ternura,
7) Rima con esquema a, ø, a, Espacio 1.117-123: ¡Qué letra, luego, la suya! El músico mayor tan sólo la ahuyenta. Pobre del hombre si la mujer oliera, supiera siempre a rosa. ¡Qué dulce la mujer normal, qué tierna, qué suave (Villon), qué forma de las formas,
En este último ejemplo hallamos también una caso de rima interna (ahuyenta-oliera). La rima interna precisa un análisis más detallado; adopta diversos esquemas entre los que destacan los siguientes: final de verso y final de hemistiquio del verso siguiente; finales de los primeros hemistiquios de versos consecutivos; finales de los hemistiquios de un mismo verso (rima leonina); véase, por ejemplo, Espacio 1.241: 21
“dulzura” no entra estrictamente en esta rima, pero sobre esa palabra recae el acento rítmico de 6ª sílaba.
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Como en el lento anochecer, del lento amanecer
[9+7]
Por otra parte, hallamos en Espacio casos de rima idéntica. La preceptiva rechaza unánimemente su uso. Sin embargo, sus posibilidades expresivas hacen que la encontremos en todas las épocas y lenguas europeas. Micó ha estudiado exhaustivamente su empleo en la poesía de Herrera y, al final de su trabajo, alude a su pervivencia en la poesía de la generación del 27 y cita un bello ejemplo de Borges. La presencia de rimas idénticas presupone la conciencia poética del fenómeno, puesto que no se puede achacar a descuido si se encuentra reiterada o se acompaña de otros recursos basados en la repetición. Espacio presenta numerosos casos de rima idéntica. Véase el siguiente, como ejemplo, Espacio 1.330-334: Yo te oí, perro, siempre, 330 desde mi infancia, igual que ahora; tú no cambias en ningún sitio, eres igual a ti mismo, como yo. Noche igual, todo sería igual22 si lo quisiéramos,
[7] [7+7] [9] [11] [11]
Juan Ramón Jiménez a veces utiliza la rima idéntica con un matiz en la diferenciación de significado, rasgo por el que la preceptiva admite ocasionalmente este uso; en Espacio 1.93-95 parece percibirse un significado diferenciado del verbo “volverse”, “darse la vuelta” y “devolvérsenos”: Hermoso no tener lo que se tiene, nada de lo que es fin para nosotros, es fin, pues que se vuelve contra nosotros, y el fin nunca se nos vuelve.
Si nos adentramos en la funciones que la rima desempeña en el verso libre, comprobamos que, como señala Domínguez 22
Esta última aparición de “igual” no puede considerarse una rima, pero en esa palabra recae el acento rítmico de 6ª sílaba.
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Caparrós (1997: 1), la rima es, al mismo tiempo, un fenómeno eufónico y rítmico. Se diferencia de otros hechos eufónicos por su función rítmica y es evidente que ayuda a percibir la segmentación poética. El verso libre, en el que el patrón métrico está establecido menos rigurosamente que en la versificación tradicional, utiliza frecuentemente la rima como un elemento rítmico necesario. Pero además la rima interna, como la final, provoca una repetición en el curso de la frase; el sonido que se repite nos devuelve, por un instante, como si fuera un eco, la palabra del verso anterior. La rima interna de la poesía en verso libre facilita la percepción de los hemistiquios. El recurso se hace tan general que se emplea incluso con los alejandrinos no necesitados de ese apoyo, Espacio 1.389-390: Que mi oído es tan justo por tu canto; ajústame tu canto más a este oído mío
[11] [7+7]
Mediante la rima interna se percibe más fácilmente la segmentación en hemistiquios de los versos compuestos y se puede seleccionar la medida correcta, descartando otras posibilidades permitidas por la secuencia acentual y el cómputo silábico. Así, por ejemplo, en Espacio 1.276-277, la rima interna gracia-hermana selecciona la medida 7+7 para el segundo verso, frente a una medida 5+9 posible por la serie acentual y el cómputo silábico: De la dulce obediente, plena gracia. Amante, madre, hermana, niña tú, Eloísa
[11] [7+7]
O en Espacio 1.124-125 la rima idéntica e interna (sustanciasustancias) selecciona la medida 5+11, frente a la posible 9+7: Qué esencia, qué sustancia de las sustancias, las esencias, qué lumbre de las lumbres
[7] [5+11]
Domínguez Caparrós (1997: 14) ha señalado que la rima en el verso libre refuerza su función eufónica por un desdibujamiento —173—
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de su tradicional función rítmica.23 En este sentido, Espacio 1.150-157 nos proporciona ejemplos de rimas y asonancias expresivas: “rico” (acento rítmico de 4ª sílaba), “grito”, “gritillos” (acento rítmico de 6ª sílaba), “niños” parecen evocar los sonidos que denotan y se adscriben a la vida; por el contrario, la asonancias en e-o que le siguen sugieren todo lo mortuorio: Venía el rico olor del azahar, 150 de las tierras naranjas, grito ardiente con gritillos blancos [9] de muchachas y niños. ¡Un árbol paternal, de ven en cuando, [11] junto a una casa, sola en un desierto 155 (seco y lleno de cuervos; aquel tronco huero, gris, lacio, a la salida del verdor profuso, con aquel cuervo muerto, suspendido [11]
[11] [9] [7] [11] [11] [5+11]
8. EL PROSIMETRUM FINAL DE JUAN RAMÓN JIMÉNEZ Pero podemos estar seguro de que Juan Ramón Jiménez en sus últimos años percibió esta contradicción o esta incoherencia: presentaba como prosa su “verso desnudo” porque no tenía la rima del romance o la canción, pero el poeta debió descubrir que esas composiciones contenían esencialmente fenómenos de rima (casi un tercio de los versos contienen fenómenos de rima). Por eso, Juan Ramón Jiménez adoptó ya en los años cincuenta una nueva forma genérica que combinaba la prosa y el verso, y de la que la crítica parece no haber dicho nada. 23
“quizá la rima, en la época del verso amétrico, no tiene más función que la meramente eufónica, de leve contraste entre sonidos que se repiten y lo que no, para producir la sensación del tiempo sobre el recuerdo. […] La rima parece cambiar al mismo tiempo que los otros factores rítmicos. ¿Qué sentido tiene la rima, aparte de su carácter eufónico, en los versos libres, por ejemplo? Y sabemos que se ha empleado la irma también en el verso libre. Pero volviendo, lógicamente, al campo del que salió, al campo retórico de la eufonía” (Domínguez Caparrós, 1997).
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Algunos poemas escritos en “verso desnudo” de la última época adoptan una disposición especial, muy característica y novedosa, como he podido comprobar en la Sala Zenobia y Juan Ramón Jiménez. Encontramos originales mecanografiados que comienzan con presentación tipográfica de prosa: son poemas compuestos de segmentos rítmicos endecasilábicos (para nosotros serían versos escritos en verso libre de ritmo endecasilábico presentados como prosa). De pronto, Juan Ramón Jiménez adopta una nueva disposición tipográfica: ahora con sangría y con saltos de línea. Y tras una estrofa, se vuelve a la tipografía de prosa. ¿Cuándo ocurre esto, cuándo se cambia de la tipografía de prosa al verso? Naturalmente cuando se producen fenómenos de rima; pero deberemos observar que en nada ha cambiado el ritmo. A esta forma que combina las tipografías de la prosa y del verso podríamos denorminarla prosimetrum, recogiendo la terminología de un fenómeno similar que se da en la Antigüedad tardía. Este fenómeno no ha llamado la atención de la crítica y ha pasado desapercibido a algunos editores tan minuciosos como Alegre. Incluso en algunas composiciones de Leyenda, Sánchez Romeralo ha susituido la forma original de prosimetrum por una simple forma en prosa. Vamos a ver el poema titulado “Sobre una nieve (Entre un sol y la eternidad)”, perteneciente a De ríos que se van. En todas las ediciones [Tercera antolojía poética, Leyenda y la edición reciente de Alegre, Lírica de una Atlántida] aparece esta composición como pura prosa. Ni su esbeltez de peso exacto, tendida aquí, mi mundo, y como para siempre ya; ni su a veces verde mirar de fuente ya con agua de sol sólo; ni el descenso sutil de su mejilla a la callada cavidad oscura de la boca; ni su hombro pulido, tan rozado ahora de camelia diferente; ni su pelo de oro gris un tiempo, luego negro, ya absorbido en valor único; ni sus manos menudas que tanto trajinaron en todo lo del día y de la noche, y sobre todo en máquina y en lápiz y en pluma para mí; ni..., me dijeron, por suerte mía:
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Mi encanto decisivo residía, ¡acuérdate tú bien, acuérdate tú bien!, en algo negativo que yo de mí tenía; como un aura de sombra que exhalara luces de un gris, sonidos de un silencio (y que ahora será de la armonía eterna), incógnita fatal de una belleza libertada; residente, sin duda y más visible quizás en los eclipses. Por mi suerte, quedó la eternidad para más tarde; y ella salió, como después me dijo, por la otra boca del pensado túnel y vio salir también el rojo sol sobre la nieve.
De este poema he tenido la suerte de encontrar cinco versiones distintas en la Sala Zenobia y Juan Ramón Jiménez. Cuatro de estas versiones coinciden en líneas generales con las ediciones de Sánchez Romeralo y Alegre, aunque presentan pequeñas variantes textuales sin importancia decisiva. Pero resulta que la quinta versión presenta la peculiar presentación tipográfica que combina verso y prosa: Ni su esbeltez tendida aquí, mi mundo, y para siempre ay; ni su verde mirar de fuente ya con agua de solo solo; ni el descenso sutil de su mejilla a la callada cavidad oscura de la boca; ni su hombro plasmado y tan rozado de camelia diferente; ni su pelo de oro gris un día, luego negro, ya absorbido; ni sus manos menudas que tanto trajinaron en todo y sobre todo en máquina y en pluma para mí; me dijeron, por suerte para mí –mía-: Mi encanto decisivo residió en algo negativo que yo de mí tenía, como un aura de sombra que exhalaba (y que ahora será de la armonía eterna) luces de un gris, sonidos de un silencio, incógnita fatal de una belleza más visible, sin duda, en los eclipses. Por mi suerte, salió, como después me dijo, por la otra boca del pensado tunel y vio salir también el sol sobre la nieve.
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En este poema la forma de prosimetrum es especialmente significativa y emotiva: son palabras en estilo directo de Zenobia, tras la operación a la que se sometió en Boston, mientras que el poeta permanecía hospitalizado en Puerto Rico. Al día siguiente de la operación, Zenobia le escribió una carta a Juan Ramón en la que decía: «Queridísimo Juan: estoy en el sitio más lindo que puedas imaginar porque después de la nevada de ayer ha salido el sol y el mundo está limpio y reluciente»; alegre cree que estas palabras de Zenobia sirvieron de punto de partida del poema. En cualquier caso, su contenido es conmovedor. Hagamos una comparación exhaustiva. Segmentación métrica del primer párrafo en las ediciones de Sánchez Romeralo y Alegre. En las primeras unidades, hay una reducción sensible (un esfuerzo de concisión evidente), se pasa de 48 sílabas métricas a 36 (9+9+9+7+7+7 a 11+7+11+7). Ni su esbeltez de peso exacto, tendida aquí, mi mundo, y como para siempre ya; ni su a veces verde mirar de fuente ya con agua de sol sólo;
[9] [9] [9] [7] [7] [7]
Y su versión definitiva según uno de los originales de Puerto Rico: Ni su esbeltez tendida aquí, mi mundo, y para siempre ay; ni su verde mirar de fuente ya con agua de solo solo;
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El texto en líneas generales se mantiene, con alguna supresión y en el final de ese primer párrafo volvemos a encontrar el mismo esfuerzo de concisión: ni sus manos menudas que tanto trajinaron en todo lo del día y de la noche,
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[7] [7] [11]
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y sobre todo en máquina y en lápiz en pluma para mí; ni..., me dijeron, por suerte mía:
[11] [7] [9]
ni sus manos menudas que tanto trajinaron en todo y sobre todo en máquina y en pluma para mí; me dijeron, por suerte para mí –mía-:
[7] [7] [7] [11] [7] [5]
Hay una reducción y, sobre todo, una reorganización de las unidades rítmicas. Ahora bien, los grandes cambios se producen, en el segundo párrafo, que transmite el estilo directo, y que va a pasar a forma de verso, frente al primero y al tercero que conservan la forma de prosa. Veamos, en primer lugar, la segmentación del texto de Leyenda: Mi encanto decisivo residía, ¡acuérdate tú bien, acuérdate tú bien!, en algo negativo que yo de mí tenía; como un aura de sombra que exhalara luces de un gris, sonidos de un silencio (y que ahora será de la armonía eterna), incógnita fatal de una belleza libertada; residente, sin duda y más visible quizás en los eclipses.
[11] [7] [7] [7] [7] [7] [9] [7] [7] [7] [7] [9] [11] [7]
Mi encanto decisivo residía en algo negativo que yo de mí tenía, como un aura de sombra que exhalaba (y que ahora será de la armonía eterna) luces de un gris, sonidos de un silencio, incógnita fatal de una belleza [11] más visible, sin duda, en los eclipses. [11]
[11] [7+7] [11] [7+7] [11]
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Hay una reducción sustancial desde la versión en prosa y la final que adquiere forma de prosimetrum; la eliminación de texto busca reforzar los fenómenos de rima y aproximarlos. Así pues, esta forma del prosimetrum deberá tenerse en cuenta para las nuevas ediciones de los poemarios de la etapa americana de Juan Ramón Jiménez. BIBLIOGRAFÍA ACEREDA, A. (1995) “Juan Ramón Jiménez y el verso libre en la poesía española: Del simbolismo francés al Diario de un poeta recién casado”, Estudios Humanísticos: Filología 17, 11-27. ALBORNOZ, AURORA DE (1982) “Estudio de la obra”, en Espacio, Madrid: Editora Nacional. ALEGRE HEITZMANN, A. (1999) “Prólogo y notas”, Lírica de una Atlántida, Barcelona: Círculo de Lectores-Galaxia Gutenberg. BERMÚDEZ-CAÑETE, F. (1981) “Notas sobre la prosa poética en Juan Ramón Jiménez”, Cuadernos Hispanoamericanos 376-378, 768-776. BLASCO, J. Y GÓMEZ TRUEBA, T. (1994) Juan Ramón Jiménez: la prosa de un poeta, Valladolid: Grammalea. CORNULIER, BENOÎT DE (1984) “Des vers dans la prose. Une strophe de Bremond-Vauglas”, Poétique 57, 76-80. DEVOTO, D. (1980-1982): “Leves o aleves consideraciones sobre lo que es el verso”, Cahiers de Linguistique Hispanique Médiévale 5, 67-100; 7, 5-60. DIEGO, G. (1984) “Recuerdos y poemas de Juan Ramón”, en Crítica y poesía, Madrid: Júcar, 325-354. DOMÍNGUEZ CAPARRÓS, J. (1988a) Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, Madrid: UNED. —(1988b) “Los conceptos de modelo y ejemplo de verso, y de ejecución”, Epos IV, 241-258. —(1988b) Contribución a la bibliografía de los últimos treinta años sobre la métrica española, Madrid: CSIC. —(1988c) “Prosa y verso”, en Métrica y Poética. Bases para la fundamentación de la Métrica en la Teoría Literaria Moderna, Madrid: UNED, 21-30. —(1990) “Métrica y poética en Rubén Darío”, en El Modernismo. Renovación de los lenguajes poéticos, ed. T. Albaladejo, J. Blasco y R. de la Fuente, Valladolid: Universidad de Valladolid, 31-46. — (1992) “La métrica y los estudios literarios”, Epos VIII, 245-260.
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MIGUEL Á. MÁRQUEZ
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MODULACIONES DE LA LIRA EN LA OBRA DE ANTONIO CARVAJAL
JOSÉ ENRIQUE MARTÍNEZ FERNÁNDEZ
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n la Canción V, titulada “Ode ad florem Gnidi”, Garcilaso de la Vega dio la pauta de una estrofa cuyo nombre se debe al primer verso de la composición: “Si de mi baxa lira”. Se trata, como se sabe, de una combinación de versos heptasílabos (1º, 3º y 4º) y endecasílabos (2º y 5º) que riman en consonante de acuerdo con esta disposición: aBabB. La estrofa no era original de Garcilaso; la había utilizado ya en Italia Bernardo Tasso (1493-1569) –con quien Garcilaso se relacionó en Nápoles- en “O pastori felici”, poema del Libro Segondo degli Amori, publicado en 1534. Suele aludirse a la lira con el nombre de “lira garcilasiana”; pero debido al abundante uso que hizo de ella Fray Luis de León, que en liras compuso sus grandes odas y a liras redujo sus traducciones horacianas, la estrofa es conocida también como “lira de Fray Luis de León”; también San Juan de la Cruz adecuó la lira a sus ardores místicos en “Noche oscura” y en el “Cántico espiritual”. Son, sin duda, los cultivadores más excelsos del esquema métrico importado por Garcilaso y, según creo, los modelos sobre los que Antonio Carvajal modula sus composiciones en liras, dentro de una tradición que renueva e innova. Las razones del éxito de la lira las ha resumido Domínguez Caparrós (1999): «La armonía y el éxito de esta combinación se debe a que responde perfectamente al intento renacentista por encontrar un molde breve que se ajusta a la limitación característica del modelo horaciano que se intenta imitar». —183—
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La crítica ha subrayado la pericia métrica de Antonio Carvajal desde su primer libro, Tigres en el jardín (1968), bien acompasada con el uso magistral de todo tipo de recursos retóricos (de cuño barroco, se ha dicho), aspectos que han hecho de él, en frase adaptada al caso por Ignacio Prat, il miglior fabbro de la lírica española contemporánea. No me importaría sumarme al tópico si eso no implicara negar otros valores de igual relieve, como el impulso interior que mueve esas formas, nunca gratuitas, sino “expresivas”, es decir, necesarias, consecuentes; me refiero también a las formas métricas, conforme al título que dio a su estudio de las teorías métricas de Miguel Agustín Príncipe: De métrica expresiva frente a métrica mecánica (1995). Se trata de enfrentar el mero ejercicio métrico con la necesidad expresiva, el molde arbitrario con la elección consecuente. Conviene afirmar que el poeta Antonio Carvajal es, por lo tanto, un profundo conocedor de los fenómenos métricos, que ha estudiado en el libro mencionado y en el más reciente, Metáfora de las huellas (estudios de métrica) (2002). A tal conocimiento se añade una práctica poética que ha de entenderse como diálogo con la tradición, tal como ha explicado Antonio Chicharro (1997), cuyas ideas en torno a la métrica carvajaliana me atrevo a resumir en cinco puntos esenciales: 1º) El uso de determinadas formas métricas es consecuencia de «concretas necesidades expresivas y resultado a un tiempo de ese vivificador diálogo que mantiene con la tradición poética, tanto finisecular [alude al siglo XIX] como áurea»; 2º) «Apertura a todo molde rítmico, a todo modelo estrófico, ya sea de corte tradicional o moderno e incluso innovado»; 3º) «Combinación en un mismo libro de recursos métricos que van desde las estrofas tradicionales a las series de versos libres»; 4º) Experimentación de diferentes recursos métricos, con el fin de explotar las posibilidades rítmicas y expresivas del idioma; 5º) Evolución, manifiesta en sus últimos libros –a partir de Testimonio de invierno (1990)– hacia «un ancho horizonte creador de libertad métrica coincidente con la aparición de una mayor gravedad y sobriedad poéticas».
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Antonio Carvajal mantiene con la tradición un diálogo respetuoso, pero no sumiso, es decir, lo ejerce con derecho a réplica. Como en todo diálogo, se producen asunciones y disensiones. La tradición está ahí y, desde el conocimiento profundo, desde la lectura y la memorización, se origina la nueva creación gozosa y libre. Se renueva la tradición y, sobre ella, en un paso de mayor audacia, se innova. Tradición e innovación son conceptos básicos para entender buena parte de la obra lírica de Antonio Carvajal y, singularmente, el alarde de recursos retóricos y métricos que en ella nos sorprenden y nos mueven a interpretarlos. A tal asunto, referido a un aspecto rítmico concreto, dediqué en su día algunas páginas (Martínez Fernández, 2001). En esta ocasión voy a fijarme en ese par de conceptos, tradición e innovación, entrañablemente unidos en la obra carvajaliana, para referirme a las modulaciones que el poeta ha introducido sobre el esquema métrico de la lira, esquema que, con las correspondientes matizaciones, lo encontraremos presente desde los primeros libros del poeta –desde Serenata y navaja (1973), concretamente– hasta las últimas entregas por ahora –Granada sugerida (2002) y Antonio carvajal (2002)–. La obra poética de Carvajal se inició con Tigres en el jardín (1968), si bien fue anterior la escritura de Casi una fantasía (1975). Los dos suponen, con Serenata y navaja, «la presentación y consolidación de una nueva y renovadora voz poética, voz de agudo refinamiento y gran musicalidad, que trataba de dar cauce discursivo a una tensión existencial, que no eludía un básico compromiso ético, en inevitable estrecha relación con el deseo y la necesidad de construir un mundo poético de belleza que habría de retomar a un tiempo la tradición áurea y la modernidad poética con la que se inaugura el siglo XX»(Chicharro, 1999: 27). Sin embargo, desde el punto de vista métrico, Serenata y navaja supone una consciente desarticulación de las formas clásicas, acorde con una simultánea concepción desarticulada del mundo; a ello se ha referido el propio Carvajal: «Cualquier lector de mi poesía puede apreciar, con una simple mirada, la evidente quiebra de las formas, manifestación sensible de una subversión más honda: El acompasado fluir de —185—
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los alejandrinos, los equilibrados endecasílabos, casi siempre unos y otros agrupados en sonetos [en Tigres en el jardín] se ven sustituidos en Serenata y navaja (1973) por una versificación generalmente abrupta, en la que la melodía del verso y el fluir de los conceptos entran en colisión. La lira, la silva, otras estrofas polimétricas, delatan una nueva visión, alterada, deformada, del mundo» (Carvajal, 1994).1 Entre los esquemas métricos vulnerados en Serenata y navaja nombra Carvajal la lira. De las veintiocho composiciones del libro, siete siguen el patrón métrico de la lira: “Serenata y navaja”, “Vista de Badajoz al atardecer”, “Imagen fija”, “Otoño ante el sentido”, “Pájaro de la sombra”, “Una perdida estrella” e “Hijo yo de la tierra”. En los siete poemas observamos determinados fenómenos gráficos y rítmicos que contribuyen a la desfiguración de la estrofa clásica. Visualmente cada poema es un todo, pues no hay separación gráfica de estrofas. A esa visión del poema como una unidad, y no como una suma de unidades estróficas, contribuye, asimismo, el encabalgamiento en serie a lo largo del poema, no sólo entre versos, sino entre estrofas. Tradicionalmente la rima era marca sonora de fin de verso y de fin de estrofa, pero el encabalgamiento interestrófico acaba diluyendo tal función en favor de ese todo que es el poema. El encabalgamiento encadenado tiene a desdibujar la pausa versal y la pausa estrófica, creando, en cambio, pausas internas que afectan al ritmo, un ritmo que más que melodioso llamaríamos quebrado, en consonancia con una pareja visión del mundo. No cabe duda que la presentación gráfica del poema como una sola unidad y el encabalgamiento en serie (singularmente el interestrófico) rompen la concepción tradicional del poema como suma de estrofas cerradas, memorizables como unidades sueltas; rompen también el ritmo consabido y esperado de la lira y se proponen nuevas opciones de lectura o, si se quiere, un ritmo diferente al ritmo canónico de la estrofa garcilasiana.
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Tomo la nota de Chicharro, Antonio. 1999: 41-42.
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Fijémonos, de momento, en el poema que abre Serenata y navaja, título que el poemario toma prestado, justamente, de este poema inicial: SERENATA Y NAVAJA [Mozart y Salieri] La aurora tarda inclina su cuello leve, brevemente humano; nebulosa sanguina que una fígara mano –trocando la navaja por el vano arco de la viola gemidora– dibuja: De iris rica pero privada, sola en su silencio, abdica nácares últimos. Grité. Salpica mi celo los violines y chirrían, chirrían. No esta pálida confusión de jazmines sobre el odio, la impávida desolación de quien mató, la sápida condena: Amor, envidia. La minuta incluía un minué de blonda de oro, lidia galante y un bouquet de muguete. La lluvia puede que ser lleve tu lamento, pero yo acecho, yo acechaba, yo vertí en tu copa, siento la muerte y no tembló mi mano, y ahora duda, lento el no sonreír, el veneno. ¡Pobre enemigo! Triste. Y aproxima su labio un ángel bueno al borde firme, opima fuente de mis desgracias. ¡Que redima tu muerte tanta bruma! Te odié. ¡Cuánto te odié! ¡Cómo te amaba!
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Subía, como pluma de irisación y lava, tu gracia esbelta hasta mi sien, rozaba un momento mi olvido y allí, donde la luz siempre amanece, donde tuvo su nido mi ser, lento le mece, le da calor, le da vigor, le acrece ya sabio cuanto hermoso, en una primavera si fragante del blanco más gozoso de los blancos: delante de mí, la aurora en flor, el susurrante transcurso de la estrella más bella. Todo noche. ¡Serenata inmortal! Y destella la sangre. La desata, negro de mi rencor, filo de plata.
De forma velada, el poema asume la leyenda según la cual Salieri envenenó a Mozart, su rival musical en Viena. A niveles más hondos, Antonio Chicharro ha interpretado el título del libro y del poema de la siguiente manera: «Opera con dos elementos que simbolizan la creación y la destrucción, la vida y su belleza y su negación, la naturaleza y el genio en libertad y su amenaza, con el referente de una historia de envidia análoga a la padecida por el poeta a raíz de la publicación de un novedoso primer libro» (Chicharro, 1999: 30). Alude el crítico a Tigres en el jardín, título del cual el de Serenata y navaja viene a ser, dicho por el propio poeta, una especie de reescritura, «identificando al tigre con la serenata y el jardín con la navaja que poda o socializa» (Chicharro, 1999: 30). El poema “Serenata y navaja” se compone de diez liras (cincuenta versos); todas ellas van enlazadas gráfica y sintácticamente, de forma que visualmente el poema es una unidad donde —188—
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sólo la lectura atenta percibe unidades estróficas que se repiten y que el análisis de las mismas va a precisar. Dejando al margen puntos de interés que nos llevarían por camino diferente al que nos hemos propuesto (por ejemplo, los efectos estilístico de los distintos encabalgamientos), nos fijaremos en diferentes aspectos que tienden a alterar el ritmo y la forma de la estrofa canónica, manteniendo la tensión entre tradición e innovación, entre un ritmo esperado y las nuevas expectativas que se van originando. El aspecto de mayor relieve visual, después del hecho de presentar el poema como una sola unidad gráfica, es el escalonamiento que se produce en la última estrofa; dentro de tal estrofa, el verso segundo se escalona en tres líneas, y el verso tercero en dos: Más bella. Todo noche. ¡Serenata inmortal! Y destella
Es un procedimiento que vamos a encontrar en la mayor parte de los poemas en liras antes citados. Quizá convenga destacar el escalonamiento que se produce en un verso de “Hijo yo de la tierra”: se trata del verso último de la tercera lira, roto por un blanco de línea y por el propio escalonamiento; de esta forma se produce una ruptura gráfica violenta dentro de la estrofa e incluso dentro del poema, distribuido sobre la página en dos grandes partes separadas por el blanco de línea. Copio dicha estrofa y la que sigue en el poema: del mediodía- hubo un agruparse de jazmines, toda la floración que anduvo de azahar en la boda por las algas finales. Como coda de aquel musicalísimo rocío, hijo yo de tanta tierra,
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durísimo, blanquísimo, ceder debía a la guerra cerúlea de ti mismo: cuanta encierra
Con la poesía de vanguardia varió, como se sabe, la disposición tipográfica del texto poético, con funciones específicas en cada caso. Dejando a un lado lo que supuso como novedad, lo cierto es que la tipografía de la llamada “poesía nueva” penetró parcialmente en los esquemas tradicionales del verso. El escalonamiento, en concreto, aísla o pone de relieve determinados elementos sintácticos o versales y los subraya visualmente. El escalonamiento crea nuevas pausas internas, al tiempo que la palabra en escalera queda realzada, intensificada. Desde mi punto de vista, lo que hace el poeta es una nueva propuesta rítmica, una estrategia de lectura; acaso lo que desee el poeta sea «dejar constancia de su propio tempo de lectura», como señaló Isabel Paraíso (1976: 85), bien es verdad que refiriéndose al versolibrismo. Se trata, en fin, de relevar unas palabras frente a otras que se dejan en sombra, de marcar nuevas pausas, de establecer silencios, de buscar efectos audiovisuales como auxiliares de la expresión poética. Cuestión de gran interés es la rima. Carvajal sigue el esquema tradicional de la lira, pero propone nuevas opciones. Una de ellas afecta únicamente al poema “Serenata y navaja”: el uso en la tercera estrofa de la rima simulada entre pálida – impávida – sápida: mi celo los violines y chirrían, chirrían. No esta pálida confusión de jazmines sobre el odio, la impávida desolación de quien mató, la sápida
No puede decirse lo mismo de la rima entre minué – bouquet – que, pues el galicismo bouquet se pronuncia ordinariamente buqué. En todo caso, se trata de un fenómeno ocasional, al igual que algunas rimas internas: «...el susurrante / transcurso de la —190—
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estrella / más bella. Todo noche ¡Serenata...»; en “Vista de Badajoz al atardecer”: «Su espada de sopor, / su espada de terror, su triste amor...»; en ocasiones, estas rimas internas parecen tener algo de juego ingenioso, como sucede en “Pájaro en la sombra”: «Te ríes, constelados los costados...»; en “Una perdida estrella”: «...de una estrella que, encima / de las cimas, se yergue y aproxima...»; y en “Imagen fija”: «...¡Feliz quien ve su cara / sin máscara!...». De mayor trascendencia son otros fenómenos que afectan profundamente a la desfiguración de la estrofa canónica y a los que me referí ya en su momento (Martínez Fernández, 2001): el final de verso en partícula átona (lo que supone introducir rimas fónicamente débiles) y el encabalgamiento léxico extremadamente violento (lo cual origina compuestos fónicos provisionales y rimas eventuales o esporádicas, de aparición circunstancial y única). El final de verso en partícula átona (de, que, etc.) genera el encabalgamiento consiguiente; los dos fenómenos combinados contribuyen a diluir el efecto de la rima y la marca de fin de verso, apenas subrayada por la debilidad fónica de la rima. A mi parecer, el mecanismo combinado de monosílabos átonos a fin de verso y el encabalgamiento en serie contribuyen decisivamente a la desarticulación de la lira en su concepción tradicional: de nuevo tradición e innovación operan tensionados y al unísono. En “Serenata y navaja” la conjunción que rima con palabras de mayor entidad fónica y significativa: bouquet y minué; pero la calidad desarticulatoria es mayor cuando riman entre sí partículas átonas, pues la marca final de verso, visualizada gráficamente, es casi imperceptible acústicamente; así ocurre en “Vista de Badajoz al atardecer”: de abnegaciones, que los ojos y sus lágrimas, los labios y la memoria de los besos, de tan sabios no sabían. Tiene el agua resabios
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La innovación supera el marco tradicional en los casos de encabalgamiento léxico, verdadera ruptura de la palabra; tal hecho no sorprende en los casos de palabras compuestas (recuérdese el “miserable- / mente” de Fray Luis de León): «Oh sobre- / cogedora armonía de la nube...» (“Vista de Badajoz al atardecer”). En otros casos se rompe la palabra como unidad morfológica (endemo- / niado) y, dispuesta en versos diferentes, recibe dos acentos fónicos (endémo- y niádo) en la pronunciación; además, endémo-, átona inicialmente, y no propicia para la rima, soporta ahora tal apoyo rítmico: hasta el último extremo de la injusticia... Todo sea por ella soportado, el endemoniado terror, la estrella fugaz, la melodía dura y bella (“Una perdida estrella”)
Más aún, en algunos casos, la ruptura de la palabra en dos versos encabalgados crea nuevos compuestos fónicos ocasionales (si ve- [hemente], que rima con vive, y trampa, go- [zoso], que rima con relámpago), como observamos en dos estrofas de “Vista de Badajoz al atardecer”: No eres tú que la sueñas; soy yo quien la contempla que la vive. Ese cielo que enseñas, música oscura si vehemente pájaro que al cielo escribe [...] del trueno y el relámpago del existir, vorágine de besos, irresistible trampa, gozoso esplendor de ilesos ángeles, que no humanos, inconfesos
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Como puede colegirse, en la tensión entre tradición e innovación, el poeta introduce elementos de carácter rupturista que originan profundas desarticulaciones en la estrofa canónica. No quisiera terminar con “Serenata y navaja” sin referirme, finalmente, a un hilo de enlace sutil con la tradición: «y allí, donde la luz siempre amanece, / donde tuvo su nido / mi ser, lento le mece...»; ahí resuena un eco de la elegía II de Garcilaso («Allí mi corazón tuvo su nido / un tiempo ya»); de igual forma, el verso último de “Otoño ante el sentido” evoca a San Juan de la Cruz («un no sé qué que quedan balbuciendo»): «El día es tan hermoso, / el aire tan gozoso, / y tengo, todavía, un no sé qué de fe». Ambas alusiones son hilos tendidos hacia dos de los más insignes cultivadores de la lira. Al igual que ocurre con el esquema estrófico, se está dentro de la tradición, pero se la reelabora con fines expresivos. Debemos referirnos aún a las variaciones que el poeta introduce en el esquema de la lira o en la sucesión de liras en algunos de los poemas citados de Serenata y navaja. “Otoño ante el sentido” cierra una serie de cuatro liras con una quinta y última de seis versos con esta disposición: aBabbA, donde A es un alejandrino cuyo segundo hemistiquio –el que concluye el poema- está formado exclusivamente por monosílabos: “un no sé qué de fe”; transcribo las dos últimas estrofas del poema para que se advierta el contraste: a una, o que recoge el hortelano con extraños mimos y depone en el troje o solas o en racimos. Veo también lo pobres que vivimos, este no ser más que fracaso y voluntad de ser dichoso. Ah, pero yo ¿qué sé? El día es tan hermoso, el aire tan gozoso, y tengo, todavía, un no sé qué de fe.
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“Una perdida estrella” se cierra también con un esquema métrico que rompe el de las catorce liras precedentes. Frente al esquema de la lira garcilasiana, aBabB, la estrofa final se ordena así: aBaBB, donde el cuarto verso es endecasílabo y el quinto alejandrino: de las monedas que suenan mejor que el verso. Hay quien no puede vivir sin luz ni fe. Quien no ha visto la luz, que venga; hiede a cadáver; que el hombre está muerto, aunque en pie.
El lector tendrá en cuenta lo que “Una perdida estrella” tiene de homenaje a Gustavo Adolfo Bécquer, cuyo nombre forma el subtítulo del poema; el título mismo procede de un verso de Bécquer; el poeta sevillano deja distintos ecos a lo largo del poema hasta la alusión final (“Porque el muerto está en pie”, Rima XLVI). El alejandrino final, de carácter intertextual, emparienta la conclusión métrica del poema con la que observamos en “Otoño ante el sentido”. En “Hijo de la tierra” es la lira inicial la que presenta alguna irregularidad, frente a las ocho siguientes. El esquema de la estrofa inicial es el siguiente: aBABB, donde los versos de arte mayor son todos endecasílabos ( el último, con diéresis en “bien”: ) Y cuando, al fin, llegado a tus orillas, mi desnudo viste, no con el esplendor enamorado del que siempre habitó en tus aguas, triste antes bien, al sumergirme, diste
Más compleja es la organización de “Imagen fija”, un poema en que naturaleza y amistad se conjugan en comunión vivida como instante único, de esos que la vida ofrece con parquedad y que como prodigio perviven en el recuerdo; comienza con un pareado endecasilábico: —194—
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...y hemos subido la ladera, cuando más aprieta el estío sosegando
Los puntos suspensivos y la conjunción y minúscula como inicio del poema sugieren una acción anterior no textualizada. A lo largo del poema, distintas series en número variable de liras alternan con pareados consonantes de diferente tipo; en esquema: pareado (11+11) – serie de tres liras – pareado (7+7) – serie de dos liras – pareado (7+11) – serie de ocho liras – pareado (7+11) – estrofa final de seis versos. He aquí los trece últimos versos del poema (lira – pareado – estrofa final del seis versos): barbilla...” Me detienen tus manos en el barro. ¡Con qué arte me saben y sostienen mi vida, parte a parte y gesto a gesto! En el milagro quieto, en el pequeño lago entre los días, reto al rostro vago del transcurrir, mi rostro ya, sujeto a la perenne hermosa tierra, queda para siempre. ¡Feliz quien ve su cara sin máscara! Conceda te la existencia clara verdad, como por ti me la depara.
Como puede observarse, también la lira que precede al pareado presenta irregularidades en la rima, pues el verso con que concluye («y gesto a gesto! En el milagro quieto») se desliga de la rima de su estrofa para rimar con el verso que inicia el sexteto final (“del transcurrir, mi rostro ya, sujeto”); los restantes cinco versos últimos se disponen a manera de lira, aunque con un verso primero endecasílabo: ABabB. Una vez más, las irregularidades con respecto al esquema canónico deben entenderse como innovaciones que responden a necesidades expresivas, sin —195—
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que oculten el deseo previo de reconocerse en el ámbito de la tradición para reelaborarla de forma personal, de acogerse al esquema canónico tradicional para forzar desde dentro su estructura. Como quiebra de la forma clásica debe entenderse también, en “Imagen fija”, la ruptura de una lira por un blanco de línea; anteriormente comentamos el hecho en relación con el verso escalonado; en “Imagen fija”, el continuum gráfico del poema se rompe en mitad de una lira, estableciendo divisiones dentro del poema y, con mayor calidad rupturista, dentro de la estrofa: De luz– tan engañosa, cáliz para el veneno, o ella misma letal y muy hermosa. De espacio, uno se abisma en sí mismo. No piensa. El crisma
Todos los aspectos analizados desmienten la visión que de la poesía primera de Antonio Carvajal dieron algunos críticos, motejándola de mimética y arcaizante. Lo que puede decirse es que sólo tras un conocimiento profundo de los recursos formales y métricos de nuestra poesía clásica y de su asunción previa puede tenerse la osadía de forzarlos desde dentro mismo para quebrar su dispositivo y hacerlo apto (dúctil y maleable) para tramitar las necesidades expresivas de un poeta contemporáneo. En Extravagante jerarquía (1983), Antonio carvajal reunió todos sus libros publicados hasta 1981. Entre ellos está Sol que se alude, que no ha sido publicado de forma exenta: «Es un libro en donde el poeta, aparte de agrupar poemas escritos a la luz de sus auténticos [...] amores literarios –Aleixandre, Lorca, Otero, Guillén, Juan Ramón Jiménez, Alberti, entre otros- y algunos dedicados a las artes de la música, de la propia poesía, etc., experimenta nuevas técnicas» (Chicharro, 1999: 31). Los dos poemas en liras que aparecen tienen como motivo, en efecto, un poeta (Alberti) y la música, y en el segundo de los poemas se manifiesta la experimentación con la estrofa clásica. Se trata de “Canción para el regresado” y “Oda a la música”. En la canción —196—
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para el poeta que ha regresado de un largo exilio, el poeta más joven suma su voz al coro que celebra el regreso de aquél, al tiempo que da razones más hondamente vitales para su propio apartamiento del “vano tumulto” que la mera exquisitez artística; llegado ya el momento de soltar la lengua, “de trabas libre y miedo”, el poeta joven –Carvajal- le da la bienvenida al maestro –Alberti- y, tal como éste hizo respecto a Garcilaso, se ofrece de escudero (o de hortelano), al tiempo que le desea feliz ventura de paz al que ya es “nuestro”, nuestro regresado. El poema se llena de ecos luisianos, garcilasianos y albertianos, con un recuerdo para García Lorca, “aquella sangre hermana”. Son nueve liras canónicas, separadas por blancos, a las que sigue, como conclusión del poema, un pareado endecasilábico. “Canción”, pues, bajo el patrón de Fray Luis de León, tan presente en las tres primeras estrofas: Al coro, que adivino si disforme solícito en ser grato al claro peregrino, sumo mi voz, y trato -bien que sin consonar- de hacer más lato. No exquisitez ni exceso de desdén ni pureza pretendida, más por silencio leso (que no es pequeña herida mentira hallar donde se busca vida), me han tenido apartado –sordo a lisonja, a vanidad inculto– y como desgajado de ese vano tumulto donde el sabio hace a pena más que bulto.
La “Oda a la música”, dedicada al organista granadino Juan Alfonso García, es una verdadera exaltación de “la pura música eterna que el sentido embarga”, consoladora y luminosa, ajena a la tristeza, la soledad y la sombra del hombre, y a la que, como —197—
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“fuente de nuestros consuelos” que es, se le pide que nos acoja, que nos guíe hacia los atisbos de una antigua y “exigua pureza nuestra” y que nos dé “cada mañana el ser de luz ante la nada”. Métricamente se trata de nueve liras en las que Antonio Carvajal experimenta con la combinación de dos metros aparentemente inconciliables: el octosílabo y el endecasílabo. La combinación de metros de ocho y de once sílabas es inusual: «En una composición heterométrica no todos los metros resultan concordantes, armónicos en su combinación. En general, los metros impares se mezclan sin discordancias, y los pares a su vez también. Por el contrario, la mezcla de pares e impares, sobre todo si son de medidas próximas [...], produce choques e inestabilidad rítmica» (Paraíso, 2000: 113). Pero Antonio Carvajal gusta de contradecir en la práctica normas arraigadas entre los preceptistas. Las liras de la “Oda a la música” responden a este esquema: 8a - 11B – 8a - 8b –11B. Aunque delimitadas visualmente las estrofas, todas ellas van enlazadas sintácticamente, encabalgadas, diluyendo así la pausa estrófica, bien marcada, en cambio, gráficamente. He aquí las dos primeras: Baja del cielo la pura música eterna que el sentido embarga, tan ajena a nuestra oscura tristeza y a nuestra carga de soledad, consoladora y larga en luces frente a la pobre sombra de que surgimos, que se queda suspensa en su gozo sobre nuestras frentes, como pueda el iris permanente quedar, seda
De la pauta general se aparta, sin embargo, la penúltima estrofa, combinación de versos de ocho (el primero y el tercero), nueve (el cuarto), once (el quinto, con acentos en tercera, quinta y décima) y doce sílabas (el segundo), y con variabilidad acen—198—
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tual y uso de rimas llanas y agudas en la misma estrofa, práctica extraña al cultivo de la lira:2 nuestro temblor en ti. Danos tu calor, que no queremos ni pensar ni sentir. Con nuestras manos en tus mejillas, para amar te mejor, enséñanos a buscar
Una vez más, el verso se pone al servicio del poeta y no al revés, al igual que ocurre con el poema “Piedra de fuego”, de Raso milena y perla (1995), que utiliza el esquema formal de la lira en las cinco primeras estrofas, para disponer los diez versos últimos como una sucesión de heptasílabos y endecasílabos siguiendo esta disposición: 7 – 7 – 11 – 7 – 11 – 7 – 11 – 7 – 11 – 11; en cualquier caso, todos los versos son blancos, como se observa en la lira inicial: Puedes tender las manos hacia una sombra que huye y es tu cuerpo, pero nunca te niegues al rayo que te llega y se tiende a tu lado como dádiva
Hemos dado un salto cronológico, porque once años antes, en Del viento en los jazmines (1984) –libro que en conjunto, según propone el poema inicial, se decanta «por asumir renovadoramente los signos de la tradición» (Chicharro, 1999: 32)– había utilizado de nuevo la lira, y renovadoramente, claro está. Lo hizo en la parte o colección de odas que titula “Retórica de mármol”, oda V: Contempla el cielo vasto. Dime si hay esplendor que lo supere, si algún pájaro, pasto 2
«Algunos teóricos [del Siglo de Oro] llegan a rechazar tajantemente la mezcla de rima aguda y llana en los endecasílabos y heptasílabos» (Domínguez Caparrós, 1999: 320).
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de luz en él, pudiere oscurecerlo. ¡Oh campo que no muere
Es la primera de las once liras de que consta el poema. La separación gráfica de las estrofas contrasta con el encabalgamiento entre las mismas. Por otro lado, la lira sexta vuelve a recordarnos procedimientos de Serenata y navaja, al terminar en partícula átona que ocasionalmente forma unidad con la palabra precedente para salvar la rima en –ola (culminó la): Saber que no termina nuestra materia y que, fundida y sola, ya se agrupa y germina y en ola sobre ola nos lleva a culminar, cual culminó la
Anotamos también la “rima andaluza falsa” entre gozo – pozo – reposo en la séptima estrofa. El poema “Laudes”, del “libro segundo” de Del viento en los jazmines, así titulado también, introduce dos interesantes modulaciones: una disposición distinta de heptasílabos y endecasílabos y la rima asonante, conforme a esta fórmula: 7a - 7b – 7a, 11B - 11B: La voz que nos llamaba astral era en su gozo; ¡era una voz tan clara! Resonaba en los pechos, y en los ojos repetía la luz de un cielo de ópalo.
A las tres liras carvajalianas, separadas gráficamente, suceden dos endecasílabos finales que riman en asonante: «Casi ardíamos ya en los cielos altos: / ¡Arriba, amor, arriba que llegamos!». Diecisiete versos tiene “Laudes”. En 1986 la Universidad de Granada reunió una serie de composiciones de distintos poetas en una Antología poética en honor de García Lorca. Antonio Carvajal participó con una exquisita —200—
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composición en tres partes, conforme reza el título: “Paisaje, evocación y tránsito para un juego de agua”: siete liras para “Paisaje”, seis para “Evocación” y siete para “Tránsito”, que, en conjunto, forman una composición unitaria de tono delicado, cuyas tres partes se inician con la misma alusión: «Dormita el agua y sueña...», «Con el agua dormida...», «Dormida el agua...». El agua que dormita sueña sus “juegos”: se eleva, se enciende con el sol, se mueve con el viento y, cerrada en su caz, añora acaso la libertad de los caminos, mientras el amanecer de escarcha despierta una quietud casi congelada en un ámbito de levedad y belleza; pero en ese paisaje de la primera parte aparece ya la “herida”, que cobra mayor presencia en las dos partes siguientes del poema; en “Evocación” no es ya el agua la que sueña sus juegos: «Sueña y juega / el niño con su herida»; el sueño trasciende el paisaje de las rosas, el ruiseñor y el arroyo dorado de sol: «Pero sueña otra fuente...»; «Quiere una rosa aún no amanecida...»; con ello queda en contraste lo externo, por primoroso que sea, con la íntima punzada de dolor que en “Tránsito” sigue ahondando, a la vez que el agua «eleva un muro / de sueños sin huida / y un corazón oscuro, / su corazón sediento y sin futuro». “Paisaje, evocación y tránsito para un juego de agua” es un poema en liras garcilasianas canónicas de impecable factura y de extraordinaria belleza. En todos los casos las liras van delimitadas gráficamente, pero en la parte primera (“Paisaje”) las estrofas se encabalgan, en sintonía con los encabalgamientos versales en serie a lo largo de esa parte inicial, en un uso peculiar que hemos venido observando en muchas composiciones carvajalianas en liras; el recurso tiende a subrayar, no tanto la individualidad de la estrofa, como la unidad de la composición. Añadamos –siempre en “Paisaje”– la presencia de algún verso escalonado y un esquema acentual singular en uno de los endecasílabos (acentos en sílabas tercera, quinta, octava y décima sílabas) que recuerda al llamado “endecasílabo galaico antiguo”; se trata del verso final de la estrofa tercera, que transcribo a continuación: sobre su caz, y ríe y mientras duerme y sueña, con espada
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de plata, que deslíe su filo en la ondulada superficie, pone la escarcha en cada
La lira con rima asonante, profundamente innovadora, que habíamos observado en el poema “Laudes”, del libro Del viento en los jazmines, reaparecerá en el cuaderno Antonio Carvajal (2002), de diecisiete páginas, publicado por el “Centro cultural de la generación del 27”. De tal cuaderno nos interesan aquí dos de los poemas, “Trances” y “Ámbitos”.3 Los dos, que viran en torno a motivos arquitectónicos granadinos, se desarrollan sobre el esquema de la lira garcilasiana. Lo común a los dos poemas es, como he indicado, la rima asonante.4 “Ámbitos” sigue, por lo demás, la pauta clásica de la lira; transcribo las dos primeras, de las seis que componen el poema: Cumplido cielo, prisma de penumbra: Otra tierra nos sustenta. Ordenación y química disponen en la senda el fácil paso por la puerta estrecha. Siempre la sosegada distribución del agua y del deseo: 3
Los poemas “Remansos”, “Trances” y “Ámbitos”, del mencionado cuaderno, son los que acompañan, respectivamente, a las fotografías de Francisco Fernández, Alfredo López y Sánchez Montalbán en Granada sugerida (Carvajal, 2002). Dejamos fuera de nuestro análisis el poema “Remansos”: pese a su disposición en estrofas de cinco versos, la combinación de versos endecasílabos y pentasílabos y la rima interestrófica (la asonancia en ae cruza toda la composición), lo apartan del esquema clásico de la lira. 4 Anotamos que en Miradas sobre el agua (1993) practicó también Carvajal la asonancia con una estrofa cercana a la lira de cinco versos, el sexteto-lira, disponiendo los versos, salvo alguna variante ocasional, de la siguiente manera: 7a – 7b – 11C – 7a – 7b – 11C: se trata del poema inicial de la sección IV, titulada “Vísperas de Granada”: «Así es la paz, me dicen. / Así es la muerte, espero, / cerrada a cal y canto la esperanza. / Desde los montes ágiles / baja un rumor de yelo / que por las venas se desliza y clama». Transcribo esta estrofa porque en ella está presente el fenómeno que el propio Carvajal bautizó como “rima en caída”, que disocia la rima del acento, haciendo que rimen en asonante dicen / ágiles.
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carta sellada y carta que despliega del cielo las rutas de promesas y luceros.
“Trances” ofrece un desarrollo más complejo. Respeta la solución de tres versos heptasílabos y dos endecasílabos, pero su disposición varía en cada estrofa, siguiendo una pauta precisa, según la cual los endecasílabos (fijándonos sólo en ellos para esta explicación) van ocupando todas las posiciones dentro de la estrofa, según este orden de estrofas y versos: 1ª estrofa (versos 4º y 5º) – 2ª (1º y 2º) – 3ª (2º y 4º) – 4ª (3º y 4º) – 5ª (2º y 3º) – 6ª (2º y 5º). Como puede observarse, sólo la estrofa sexta sigue la disposición canónica. Por otro lado, la rima asonante se dispone de forma inversa a la de la lira garcilasiana; tomamos como modelo la primera estrofa: aabAB; si invertimos el orden de la lira canónica, del quinto verso –«y la furia del mar y el movimiento»- al primero –«Si de mi baxa lira»–, tendríamos la disposición de la rima de “Trances”, bien que con el cambio de la consonancia a la asonancia. Merece la pena transcribir el poema: Subir. Alguien nos llama: una intensa granada de jugo no gustado. Grano a grano, la piedra, las barandas, la quieta luz, ascienden paso a paso y en el ángulo brusco, justo donde la mirada se quiebra, el llano rompe su oscuro espejo, justo para que el horizonte se multiplique brusco y hallar tras una duda breve que la subida y la confusa trama de nuestros pasos sueñan la misma escala y sorda música que el zumo de los granos; que siempre más arriba una puerta, una línea
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cegada, no es descanso, sí promesa. El mosto de granadas cifra en cifras ascenso y primavera. Pero entre luz y sueño, a vueltas con los pasos del silencio, a vuelta con la cimbra de los árboles, la luz es un perplejo pájaro envuelto en cales. Escala de blancura, ávida escala en que la aurora duda del grano y su fruto. Todo en la luz es música; todo en la sombra tiembla y sufre mucho.
Tradición e innovación una vez más. Bajo el experimento de la nueva lira anida el esquema tradicional. Leemos las liras de “Ámbitos” o de “Trances” a manera de palimpsesto sobre las líneas canónicas de la lira que sustentan la innovación. Ésta se origina, no sobre el vacío, sino sobre la existencia previa de unas formas métricas seculares. Es un hecho que no puede olvidarse cando, refiriéndose al poeta Antonio Carvajal, se habla de ingenio o de destreza. Podemos concluir afirmando que en su obra lírica la tradición no es un peso muerto, sino un mecanismo dispuesto para ser activado; en el diálogo que el poeta contemporáneo establece con la tradición, ésta se muestra como un operativo dinámico capaz de generar nuevas formas expresivas, las que el poeta elige o crea libremente para dar cauce a determinados impulsos artísticos y vitales.
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i objetivo en este artículo es analizar algunas de las soluciones métricas que han utilizado los traductores de los Sonetos de William Shakespeare, al castellano y al catalán. No voy a aventurarme por los pantanosos terrenos de la inexistente relación entre métrica y sentido: la forma exterior de un poema jamás ha venido impuesta por el mundo imaginativo que crea el poema. Ni viceversa: como decía Gabriel Ferrater, la elección de la terza rima, pongamos por caso, no obliga a tener que escribir un viaje al infierno. Entiendo que la métrica de un poema forma parte de su forma exterior, que es la que incluye la organización del material sonoro de la lengua, y que su función básica es ayudar a cancelar la función referencial del texto y hacer que los signos se dirijan hacia la imaginación del lector para que éste reproduzca allí el mundo virtual del poema. Los sonetos de Shakespeare constituyen la cumbre de la lírica universal por muchísimas razones, entre las cuales está el dominio del material lingüístico de su autor así como su capacidad para acumular energía moral en los signos del poema. Shakespeare llevó esta capacidad a su máxima expresión en sus obras más tardías, sobre todo en El rey Lear. Pero fue en los sonetos donde primero se ejerció en esa difícil tarea. La lengua inglesa, —207—
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repleta de monosílabos, es adecuadísima a esta ambición. Véase por ejemplo el siguiente fragmento de Otelo: It is the cause, it is the cause, my soul, Let me not name it to you, you chaste stars: It is the cause, yet I’ll not shed her blood, Nor scar the whiter skin of hers than snow, And smooth as monumental alabaster. (V, 2, 1-5)
En los cuatro primeros versos hay 38 monosílabos y una sola palabra de dos sílabas: whiter. En el verso quinto, siguen tres monosílabos más y luego ese impresionante contraste con dos palabras de cuatro sílabas cada una, las cuales, gracias al contexto de monosílabos donde están situadas, adquieren un magnífico realce. Constituyen el primer tropo (aparte, de “castas estrellas”, que es una mera personificación, pero con connotaciones a lo que Otelo cree que le falta a Desdémona: la castidad). Es un símil: su piel [...] suave como el alabastro de los monumentos. Ninguna lengua románica puede incorporar en diez sílabas en cada verso todo lo que el original ofrece. Y mucho menos si tenemos en cuenta que “causa”, como explica Luis Ángel Pujante en una nota de su excelente traducción, encierra por lo menos cuatro sentidos.1 En castellano, con la finalidad de traducir en verso, ningún traductor podría permitirse, para ahorrar sílabas (es un decir), una sinalefa que unificara las sílabas cuarta y quinta: «Ésta es la causa, ésta es la causa ....», porque ni el mejor actor español podría pronunciar un verso con una sinalefa donde se requiere una pausa, no solo porque hay una frontera de sintagma de entonación, sino porque la repetición la exige. Y además (eso ya pertenece a mi parecer personal) el segundo pronombre demostrativo tiene que pronunciarse con acento contrastivo o de énfasis: «ESTA (y no otra) es la causa, alma mía». Aunque los sonetos no sean literatura dramática, un buen traductor de poesía sabe que no se pueden traducir sin tener en cuenta que tienen que funcionar leídos en voz alta. 1
W. Shakespeare, Otelo, Espasa Calpe, Col. Austral, Madrid, 1991, pág. 221.
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Las lenguas románicas, con sus palabras siempremás largas que las inglesas, no aconsejan una traducción en endecasílabos.2 Obligarse a traducir diez sílabas métricas inglesas por diez sílabas métricas castellanas, significa dejar sin traducir una buena parte del sentido del original; y no sólo del sentido: el traductor deberá renunciar también a sustituir una buena parte de los juegos sonoros del lenguaje, simplemente porque diez sílabas no dan más de sí. Naturalmente, se puede argumentar, y no sin razón, que es mejor dejar sin traducir que añadir cosas de cosecha propia. Cuando un traductor competente deja algo sin traducir, es porque sabe que un lector competente puede recuperarlo imaginativamente, mientras que poner cosas que no están en el original es injustificable. Aun así, es muy aventurado decidirse por el endecasílabo, y la verdad es que cada vez que leo una traducción en este metro, no puedo dejar de imaginar lo mucho que se hubiera podido recuperar con dos sílabas más. Paradójicamente, se podría recuperar mucho más de lo que el número dos puede sugerir. Pues lo que pasa es análogo a la utilización, pongamos por caso, de un verso trisilábico: un verso que obliga a no poder utilizar palabras de más de tres sílabas (contando desde la primera hasta la última tónica). El uso del endecasílabo obliga a prescindir de palabras largas o a sustituirlas por sinónimos más cortos, lo cual deja fuera del alcance del traductor un bloque léxico muy considerable. En catalán, pasa casi lo mismo. Digo “casi” porque hay muchísimas palabras masculinas que tienen una sílaba menos que en castellano. La solución de las diez sílabas métricas, en catalán, es menos aventurada, pero, de todas maneras, el catalán se parece en eso mucho más al castellano que al inglés, lo cual nos indica que la solución es casi igualmente temeraria.
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Como ya es sabido el catalán, como el francés, da nombre a los versos a partir de sus sílabas métricas. El castellano, en cambio, como el italiano, les da nombre añadiendo una sílaba más. Así, por simplicidad expositiva, cada vez que nombre un verso, lo haré según la convención castellana, lo cual significa que, en catalán, habría que nombrarlo como si tuviera una sílaba menos.
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Vamos a empezar con un ejemplo tomado al azar: el primer verso del soneto 96, Some say thy fault is youth, some wontonnes podría ocupar fácilmente más de veinte sílabas en una traducción literal al castellano: «Algunos dicen que tu defecto es la juventud, otros la lascivia». Veamos como los traductores nos las hemos arreglado para superar este problema.3 Como las traducciones no siempre son (ni tienen por qué ser) verso a verso, citaré la primera estrofa entera. 1
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Some say thy fault is youth some wontonness; Some say thy grace is youth and gentle sport. Both grace and faults are loved of more and less; Thou mak’st faults graces that to thee resort. (a) Quien dice “Es juventud su falta”, quien “Descaro” quien que es tu gracia juventud y donosura; más gracia o falta, en más o menos se mesura: tú haces gracias las faltas que entran a tu amparo. (A. García Calvo) (b) Tu capricho y tu edad, según se mire, provocan tus defectos y tu encanto; y te aman por tu encanto o tus defectos, pues tus defectos en encanto mudas. (c) Mocedad o lujurias pueden ser tus delitos, mocedad o deleite tus encantos mayores; unos y otros por todos son amados de un modo que en encantos visibles tus delitos transformas. (d) Unos dicen que pecas de joven o juerguista; tu gracia está en lo joven y alegre, dicen otros; pero gracia y pecados que gustan más o menos: de los pecados haces gracias que en ti concurren.
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(M. Mújica)
(C. Pujol)
(G. Falaquera)
No voy a citar las traducciones en prosa, naturalmente, aunque se le haya dado apariencia tipográfica de verso, ni tampoco citaré todas las existentes en verso, sino las que tengo ahora mismo a mi alcance. Entre otras, no incluyo las versiones de Mariano de Vedia (1954) y las de Miguel Ángel Montezanti (1987), por ser versiones endecasilábicas y alejandrinas respectivamente, ya representades en los ejemplos de (2).
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(e) Frivolidad y juventud alguno dice son tus faltas; otro que es esa mocedad y su alegría tu atractivo. Gracia y defectos todo es uno, adorable: pues todo lo conviertes en algo fascinante.
(J.M. Álvarez)
(f) Qui ton jovent, qui ton humor acusa, qui lloa ta frescor i gentil port: als ulls de tots, però ton vici excusa el gran encís que et guanya tota amor.
(C. Monturiol)
(g) L’un t’acusa de jove i de lleuger, l’altre per jove et lloa i per l’encant; admira encís i tares un tercer, quan tares en encís vas transformant. (h) Sigui lascívia o joventut el teu defecte, sigui la teva gràcia joventut o deport, rics i pobres t’admiren pel que tens. I l’aspecte que mostres fa que en ells no hi hagi desacord.
(G. Vergés)
(S. Oliva)
(i) Pour les uns ton défaut est ta jeunesse ardente, quand pour d’autres ta grâce est jeunesse et déduit. Grâce autant que défaut grands et humbles enchantent: les défauts qu’on te voit en grâces tu traduis. (J. Fuzier)
Ante tal diversidad de soluciones (sin contar con las que están en prosa o las que tipograficamente se presentan como si fueran en verso, pero no lo son), los lectores que no se han aventurado nunca a traducir deben pensar que esta profesión es poco seria. Hace falta un examen muy minucioso para darse cuenta de que todas tienen sus virtudes y sus defectos, y que sus diferencias son menores de lo que parece a primera vista. No es necesario decir que las traducciones con rima, muchísimo más difíciles, tienen que apartarse un poco más del original y apoyarse más en las capacidades poéticas del traductor. Pero no es mi objetivo aquí hacer una valoración de las traducciones, sino examinar las distintas soluciones métricas. Podríamos clasificarlas de la manera siguiente:
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Endecasílabos: 2 b, f, g Tridecasílabos (con rima): 2a Combinación de alejandrinos y tridecasílabos (con rima): 2 h Alejandrinos: 2 c, d, i Métrica compleja: 2 e
2 Vamos a hablar primero la solución del endecasílabo y el alejandrino. Agustín García Calvo desaconseja el uso del primero en el prólogo a su traducción (1974). Dice que una versión fiel del inglés exige más número de sílabas, porque el cuento silábico medio de las palabras españolas es bastante más largo que el de las inglesas. De ahí que su elección sea el tridecasílabo, que, según él, le evita «el fastidio del endecasílabo». Con palabras análogas se expresó en un encuentro de traductores de Shakespeare en Toledo el traductor francés. Se resistía a traducir el verso blanco del teatro de Shakespeare en alejandrinos, puesto que, según él, el resultado hubiera sonado como “un mal Racine”. Lástima que optara por lo que W.H. Auden llamó chopped-up prose, prosa recortada, o mejor: prosa disfrazada (tipográficamente) de verso, lo cual no acaba de funcionar, por la simple razón de que el disfraz tipográfico es un disfraz transparente, que muestra todo lo que pretende ocultar. ¿Cómo hay que entender eso del “fastidio del endecasílabo” (castellano) y del alejandrino (francés)? Si comprendí bien a ambos traductores, creo que el ideal que los movió a alejarse de estos metros es muy comprensible. Se trataba simplemente de apartarse de lo conocido, del mismo tipo de recursos métricos que, con su espesor de archisabido sonsonete y ronroneo, hubiera podido crear un obstáculo entre el lector contemporáneo y los textos de Shakespeare.4 4
De todas maneras, no podemos olvidar que C. Pujol nos ofrecería, dieciocho años más tarde, una admirable versión en alejandrinos de ritmo ternario casi todos ellos y con cesura después de la sexta posición. Más abajo volveré sobre la propuesta de C. Pujol.
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La solución tridecasilábica de García Calvo evitaba el fastidio perfectamente. Uno podía tropezar bastantes veces al principio de la lectura puesto que cuando el verso tiene un acento en la sexta sílaba y la palabra es paroxítona o proparoxítona, la costumbre de leer alejandrinos nos “hacía creer” que habíamos llegado a la cesura y, por consiguiente, esperábamos seis sílabas más. Y sólo venían cinco. Además estaban los tridecasílabos con frontera de palabra después de la sexta sílaba, que pasan perfectamente como alejandrinos, como veremos más adelante. Cuando nos venía un segundo segmento de cinco sílabas, teníamos que retroceder para leer el verso sin cesura e intentar borrar de la mente la idea de hemistiquio y cambiarla por la de colon (los lectores no versados en métrica pero con buen oído, hacían lo mismo, pero de instinto).5 Pero, si cuando leemos un decasílabo a minore con una palabra paroxítona con el acento en la cuarta sílaba del verso, sabemos (conscientemente o “de oída”) que la quinta pertenece al segundo colon, de la misma manera podemos saber que lo mismo ocurre con el tridecasílabo, el cual presenta exactamente el mismo fenómeno, pero no en la cuarta sílaba, sino en la sexta. Cualquier amante del verso puede superar este pequeño escollo mucho antes de terminar la serie de sonetos sobre la procreación, que contiene los diecisiete primeros. Veamos todo esto con un poco más de detalle. Dejando aparte la jerarquía del modelo de verso y fijándonos solamente en la secuencia más dominada, podemos obtener estos resultados (utilizo los símbolos usuales que utiliza el inglés: W (weak) para las posiciones débiles y S (strong) para las fuertes. La barra vertical indica el corte entre colon y colon. Parto de la base usual en los estudios de métrica según la cual, en el modelo, dos posiciones (o tres) están dominadas por un pie; que dos (o tres) pies están dominados por un colon, y que dos o tres cólones están dominados por un verso. Los pies en negrita indican que no pueden 5
García Calvo confiaba en que la presencia de los “tridecasílabos enterizos” (con encabalgamiento sobre la séptima posición) desacostumbraría al lector de la tendencia de la escansión alejandrina de los tridecasílabos que podían pasa por alejandrinos.
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aceptar anaclasis o inversión yámbica.6 Y, finalmente, (3 a-d) representan el modelo bimembre y (3 e) el modelo trimembre: 3 (a) (b) (c) (d) (e)
W S W S W S | W S W S W S
W W S W W S | W W S W W S W S W S W S | W W S W W S W W S W W S | W S W S W S W S W S | W S W S | W S W S
Observando las cinco posibilidades que vemos en (3 a-e), es fácil darse cuenta de que en (3 a-d) todos los modelos tienen dos secuencias (dos cólones), mientras que en (3 e) vemos representado el modelo de tres secuencias (de tres cólones), llamado también tridesasílabo trimembre. En el primer grupo, solamente (3 a) presenta seis pies binarios W S. En (3 b) tenemos cuatro pies ternarios W W S.7 En (3 c) tres pies binarios y dos ternarios. Y finalmente en (3 d), dos ternarios y tres binarios. Naturalmente (3 a) tiene cuatro pies binarios que, con la inversión yámbica, 6
En realidad, la explicación de por qué los últimos pies WS de cada secuencia no aceptan la inversión es porquè las posiciones forman pies y los pies que permiten la inversión son pies débiles (W) y los que no los aceptan són fuertes (S). 7 García calvo, en el prólogo a su traducción de los sonetos (pág. 27), interpreta este modelo (o submodelo) ternario como la aplicación de una inversión en el segundo y quinto pie. Pero esta explicación sería insuficiente para explicar los tridecasílabos con ritmo anapéstico del tipo que acabamos de ver en (3 b). La prueba es que el mismo ejemplo suyo (a mis ojos sin vista tu sombra y tu idea) es interpretado de la manera siguiente (subrayo las inversiones): a mis o-jos sin vis-ta tu som-bra y tu i-de- W S S W W S W S S W W S Que se trata de una explicación inadecuada lo muestra la misma prosodia del ejemplo de verso: ambos posesivos, suponiendo que fueran tónicos, quedarían desacentuados porque los acentos adyacentes de “ojos” y de “sombra” absorbirían los acentos de los posesivos. El lector puede comprobar que este verso se adapta perfectamente al submodelo ternario sin necesidad de hablar de anaclasis. Véase nota 5. El tridecasílabo trimembre también es interpretado, inadecuadamente a mi parecer, como un verso cesurado de dos secuencias, por ejemplo 8 + 4 en “y en frescos números contar tu flor completa”. Es mejor explicar este verso como un tridecasílabo trimembre con acentos en las sílabas cuarta octava y doceava. El tridecasílabo no tiene cesura ni está formado por hemistiquios.
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aceptan convertirse en una secuencia trocaica: S W. (3 b) no tiene ningún pie binario. (3 c) y (3 d) tienen dos cada uno que aceptan la misma inversión yámbica que aceptan los de (3 a). Y finalmente en (3 e) vemos que cada colon tiene solamente un pie, el primero, que acepte la inversión. Esas y sólo esas son las posibilidades del tridecasílabo bimembre. Veámoslo con algunos ejemplos. En (4) vemos ejemplos donde la frontera de colon coincide no solamente con una frontera de palabra sino que también coincide con una frontera de sintagma fonológico (o unidad de emisión). Los ejemplos de (5), en cambio, presentan encabalgamiento sobre la frontera de colon. Cada sílaba tónica que ocupa una posición marcada está en negrita y subrayada:8 No todos estos acentos son máximos o imprescindibles (o centos primarios de sintagma fonológico), pero no vamos a entrar ahora en este aspecto: 4 (a) Me gusta oírla hablar | y empero, bien conozco (b) a secarme la faz | que el chubasco ha azotado (c) Tal como el rico soy | cuya llave bendita (d) para siempre en tu honor | hacer de centinela. (e) Deja que yo, | fiel en amor,| fielmente escriba, 5 (a) En nuestros [dos amo- |res] sólo un fin se ejerce (b) y llamada [simple- | -za] la simple verdad (c) ¿Deseas tu [que quie-|-bre] mis sueños inciertos (d) que cambiarme [con re- | -yes] tengo ya a desdoro. (e) [En cuenta] [cár- | -game intencio- |nes] [y descuido,]
(130, 9) (34, 6) (52, 1) (61, 12) (21,9) (36, 5) (66, 11) (61, 3) (29, 14) (117, 9)
Los ejemplos se multiplicarían mucho si buscáramos todas las posibilidades de inversión yámbica que permiten lo modelos de (3). Basten los dos siguientes (subrayo las inversiones): 6 (a) Cuando en desgracia con fortuna y con el mundo. (29, 1) (b) que escándalo vulgar grabó sobre mis cejas; (112, 2 8
Se entiende que la primera sílaba tónica seguida de otra tónica, pertenecientes ambas a un mismo sintagma, presentan una desacentuación de la primera. Y asimismo tres sílabas átonas seguidas, presentan una reacentuación en la segunda de las tres.
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Ya vimos al principio de este apartado que: cuando las fronteras prosódicas (de palabra e incluso de sintagma fonológico) coinciden con las fronteras métricas (básicamente la frontera de colon), como hemos visto en los ejemplos de (4), los versos resultantes tienen seis sílabas en cada colon y, puesto que la terminación del primero es masculina, es imposible saber, sin el contexto, si se trata de una frontera de colon (coupe) o una frontera de hemistiquio (cesura). La prueba es que todos los ejemplos de (4) pueden pertenecer a un modelo tridecasilábico así como a un modelo de verso alejandrino.9 Son, pues, ejemplos métricamente ambiguos. De ahí que también se encuentren tridecasílabos como éstos en la traducción de G. Falaquera (los que reproducimos se corresponden a (4 a) y a (4 b) respectivamente: 7 (a) (b)
Tú puedes serme infiel | y puedo no saberlo (92, 14) Los que tienen poder | para herir y no pueden (94, 1)
La razón por la cual los versos de (4) y (7) se adaptan a los dos patrones mencionados lo podemos ver visualmente en (8) Las dos líneas verticales indican cesura10 (o frontera de hemistiquio); La línea sola vertical indica coupe (o frontera de colon) y, finalmente la línea inclinada indica ambigüedad: 8 (a) 1 2 3 4 5 6 <7> (b) 1 2 3 4 5 6 | 7 8 Tú pue-des ser-me fiel <>
| 1 2 3 4 5 6 <7> Alejandrino 9 10 11 12 <13> Tridecasílabo | y no pue-do sa-ber -
El problema que ahora quisiera examinar es el que presentan los tridecasílabos con encabalgamiento sobre la frontera de colon; es decir los que hemos visto en (5). Así como los de (4) combinan perfectamente con los alejandrinos como consecuen9
García Calvo confia en que la presencia de “tridecasílabos enterizos” (con encabalgamiento sobre la séptima posición desacostumbraá al lector de la tendencia de la escansión alejandrina de los tridecasílabos con frontera de palabra después de la sexta sílaba. 10 Como ya se ha dicho al final de la nota 4, Garcia Calvo, al igual que algunos otros autores, llama también “cesura” a lo que los franceses llaman coupe y que no es más que la frontera de colon.
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cia de su ambigüedad métrica, los de (5) combinan muy mal con los alejandrinos, puesto que jamás pueden adaptarse a su modelo de verso. Así como en (8) hemos visto la adaptación del verso a ambos metros, en (9) vemos que la adaptación solo se realiza con el modelo tridecasilábico. Veamos como eso ocurre como consecuencia del encabalgamiento: 9 (a) W S W S W S | W S W S W S Alejandrino 1 2 3 4 5 6 <7> | 1 2 3 4 5 6 <7> En nues-tros [dos a-mo – res] só-lo un fin se e-jer- 1 2 3 4 5 6 | 7 8 9 10 11 12 <13> (b) W S W S W S | W S W S W S Tridecasílabo
Todo esto nos muestra que mezclar en un mismo poema alejandrinos y tridecasílabos de las características que hemos visto en (5) presenta problemas de lectura, ya que cuando el lector se encuentra con una palabra paroxítona cuyo acento coincide con la posición 6 del primer segmento, no puede saber si está ante una cesura o ante una frontera de colon con encabalgamiento. Con otras palabras: son ejemplos de lectura mucho más compleja. Éste, sin embargo, no es el caso de García Calvo, puesto que la traducción, salvo algunas excepciones de verso corto añadido, trabaja exclusivamente con tridecasílabos. O mejor dicho, no lo es a partir del momento que el lector “se olvida” del modelo alejandrino y, ayudado por el contexto, acepta que la séptima sílaba, si es átona, representa al encabalgamiento sobre la frontera de colon.
3 Veamos ahora que pasa con la opción de los alejandrinos, representada aquí por la traducciones de C. Pujol y la de G. Falaquera. A pesar de usar el mismo modelo, los versos son, rítmicamente, muy distintos. La versión de C. Pujol, extraordinaria, a mi parecer, es mé—217—
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tricamente la más monótona, puesto que, como ya he dicho, los alejandrinos son en su mayoría de ritmo ternario. Y la mayoría de los hemistiquios son femeninos. Esta última característica es una característica de la lengua; pero la primera es, a mi parecer, elegida voluntariamente por el traductor. Al tratarse de una versión que prescinde de la rima, Pujol quiso compensar esta ausencia con un énfasis rítmico que funciona perfectamente. Los sonetos de Shakespeare son muy formalizados y pertenecen a una estética barroca en la cual la retórica, en el buen sentido de la palabra, juega un papel importante. Si el lector relee, bajo esta perspectiva la traducción en prosa de Luis Astrana Marín, se dará cuenta de que a pesar de la fidelidad al original, es un texto pálido y sin vida mientras que la de Pujol palpita formidablemente. Y eso se ha conseguido con un verso que, en castellano no es nada fácil, un verso que casi siempre presenta acentos en las sílabas tercera y sexta de cada hemistiquio, evitando al mismo tiempo el martilleo anapéstico que se hubiera derivado inevitablemente de esta elección a base de colocar un primer hemistiquio femenino en casi cada verso. En las versiones de Gustavo Falaquera, se elige también el verso alejandrino, pero con más alternancias binarias y ternarias. Es una buena versión: la alternancia de ritmos binarios y ternarios le da una variedad que, a mi parecer se hubiera adecuado perfectamente a una versión con rima. Y finalmente, la traducción de José María Álvarez, hay que decir que contiene más prosa que verso, aunque a menudo domina la métrica compleja, que no es más que la combinación de segmentos de un número par de sílabas. Además de alejandrinos, tridecasílabos y decasílabos, encontramos versos que constan de segmentos como los siguientes: 8 + 6, 6+ 8, 10 + 4, 4 + 6, 10 + 6, 6 + 10, 10 + 8, etc. Estas secuencias pueden estar formadas por hemistiquios o cólones, es decir: pueden tener cesura o coupe. A mi entender es una buena solución para el verso blanco del teatro de Shakespeare, pero es más discutible cuando se encuentra en composiciones tan regulares y formalizadas como es el soneto. Y mucho más tratándose de los sonetos de Shakespeare. —218—
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4 Por lo que se refiere al catalán, lo primero que hay que decir es todas las traducciones existentes tienen rima. Es probable que este factor sea debido a una aportación de la lengua; es decir: la abundancia de palabras oxítonas hace que la rima sea menos conspicua y además el catalán tiene un amplio abanico de palabras rimantes. En español, en cambio, tiene muchas más palabras en cada grupo rimante, pero un abanico de rimas menos amplio. En cuanto a la métrica, creo que mis predecesores, tres de ellos, M. Morera i Galícia, C. Montoliu y Gerard Vergés se impusieron los límites innecesarios y, en este caso, reduccionistas del decasílabo. Tampoco en catalán, a pesar de que el catalán tiene palabras más cortas que el castellano, puede, con diez sílabas métricas, contener el mismo sentido que las diez sílabas inglesas. Y mucho menos con Shakespeare, que es capaz de comprimir en muy pocos monosílabos una gran cantidad de energía de sentido, como ya hemos visto al principio de este artículo. Ahí va otro ejemplo que puede proyectar luz desde otro ángulo: los dos últimos versos del soneto 151: 10 No want of conscience hold it that I call Her “love” for whose dear love I rise and fall.
Una traducción absolutamente clara de estos dos últimos versos, hechos con monosílabos, exceptuando “conscience”, que es la única palabra bisilábica, diría lo siguiente: “Me levanto y caigo por el amor de esta mujer a quien llamo“amor”, y no penséis que llamarla así sea una falta de conocimiento moral”. Hay que añadir que esta traducción no explica que “levantarse” también significa por sinécdoque “tener una erección” y “caer” significa también “dejar de tenerla después del orgasmo”. Ya sé que se —219—
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trata de un ejemplo extremo, pero, aunque extremo, no deja de explicar que el decasíl·lab catalán es una elección que requeriría que el traductor tuviera incluso más capacidad de compactación que Shakespeare. En las soluciones endecasilábicas que vienen a continuación, la primera no tiene nada que ver con el original y la segunda se ve obligada a dejar una gran parte de sentido sin capturar: 11 (a) I, amb tot, ¿de remordî és qui em pot parlar qui es plau així, vilment amb mi jugar? (C. Monturiol) (b) Si et dic “Amor” no em manca enteniment, que pel teu amor m’alço i vaig caient. (G. Vergés)
Mucho más fiel la segunda que la primera. Pero G. Vergés tiene que sacrificar algo que yo creo importantísimo. El poeta se dirige a la mujer por quien se siente sexualmente esclavo. Pero en los dos últimos versos se dirige al lector: “ ...I call / Her “love” ... (...le llamo a ella “amor”). El “tú” desaparece en el pareado final y es una reflexión moral que el poeta propone al lector. Como vemos en (11 a), Monturiol se fue por los cerros de Úbeda. Y por lo que se refiere a (11b), no es que Vergés no sea competente como traductor. Lo es. Lo que a mi parecer lo lastra es precisamente el metro elegido.11 No voy a hablar de las cualidades ni los defectos de mis soluciones, pero sí que quisiera describirlas de la manera más neutra posible. Las razones que me hicieron desechar el “decasíl·lab” ya han quedado claras. Las razones que me hicieron desechar uno de los tipos del tridecasílabo son las siguientes: solamente los que vimos en (4) se adaptan al alejandrino. He usado estos, 11
Digamos, de pasada, que la restricción del endecasílabo obliga a Vergés a licencias como la siguiente: cuando dos sílabas tònicas adyacentes no pertenecen al mismo sintagma fonológico, la primera no se desacentua. Con lo cual el segundo verso de (11b) no es métrico en su contexto, puesto que sólo se puede leer como un decasíl.ab de 5 + 5. “Que pel teu amor /m’alço i vaig caient”. Y este tipo de decasílabo no ha figurado jamás en un contexto de decasílabos a minore o a majore.
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pero no los de (5a-d) porque combinan mal con el alejandrino, como ya hemos visto.12 Y mi convicción era y continua siendo que el alejandrino es la mejor solución métrica. El de (5 e) es distinto. Es la solución ideal para huir del sonsonete de seis más seis. Las traducciones con rima, como ya he dicho más arriba, no requieren con tanta fuerza una métrica conspicua. Quizás sería necesario terminar con una característica del tridecasílabo que no he mencionado todavía y sobre la cual no tengo nada muy sólido que decir, pero creo que, aun así, vale la pena mencionar-lo. Una de las características del arte menor consiste en la libertad total de la posición de los acentos. Hasta el eneasílabo, no se requiere que los acentos caigan en determinadas sílabas. Es como si los modelos fueran más flexibles a adaptarse a los ejemplos de verso. Con que el verso tenga un número determinado de sílabas, ya es métrico. Pero en el arte mayor, las cosas son muy distintas. A un endecasílabo, no le basta tener diez sílabas métricas, es decir: contando desde la primera de todas hasta la última tónica. Es necesario que tenga un acento máximo (o primario de sintagma fonológico) en la sílaba cuarta o en la sexta o en ambas.13 Hay muchos poetas, en catalán y en castellano, que incluso tienden a regularizar la posición de los acentos en el eneasílabo. Todo ello significa que cuanto más largo es el verso, más necesita, para ser sentido como verso, que también se regularicen las posiciones de los acentos máximos. Habría que estudiar más detalladamente de lo que he hecho yo hasta que punto es percibido un tridecasílabo con encabalgamiento sobre el colon y con ritmo distinto en cada colon. Veamos los mismos ejemplos que hemos visto a (5) de la traducción de García Calvo, que repetimos por comodidad: 12 (a)
Me gusta oírla hablar | y empero, bien conozco
12
(130, 9)
Sé que se me ha colado alguno, pero ha sido por incapacidad de encontrar una solución semejante con los otros metros usados a lo largo del libro. 13 Esporádicamente pueden aparecer endecasílabos con acentos en la segunda y octava. El siguiente es un ejemplo de “Plou”, de J. Carner: “a to-tes les es-ta-ci-ons de Fran-ça”. Ya he demostrado en otro lugar que estos endecasílabos pueden ser métricos con la condición de que la sílaba cuarta o la sexta sea reacentuable; es decir: que tenga una sílaba àtona a la izquierda y otra átona a la derecha.
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(b) (c) (d) (e) 13 (a) (b) (c) (d) (e)
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a secarme la faz | que el chubasco ha azotado Tal como el rico soy | cuya llave bendita para siempre en tu honor | hacer de centinela. Deja que yo, | fiel en amor, | fielmente escriba,
(34, 6) (52, 1) (61, 12) (21,9)
En nuestros [dos amo-|res] sólo un fin se ejerce (36, 5) y llamada [simple- | -za] la simple verdad (66, 11) ¿Deseas tu [que quie-|-bre] mis sueños inciertos (61, 3) que cambiarme [con re- | -yes] tengo ya a desdoro. (29, 14) [En cuenta] [cár- | -game intencio- | nes] [y descuido,](117, 9)
Los ejemplos de (12) por el mero hecho de que se puedan leer como alejandrinos no presentan ningún problema. Ni tan solo los cambios de ritmo binario /ternario o viceversa en (12 c, d) respectivamente son problemáticos. Al contrario, el cambio les favorece. Tampoco los ejemplos de (13, a, b, e) lo son. Pero (13 c, d), a mi parecer, tienen el inconveniente de que el ritmo del segundo colon empieza en la última sílaba del primero. Ya sé que, una vez acostumbrado el oído a ese fenómeno, no tiene por qué dejar perplejo a nadie. Es simplemente el hecho de que, si un eneasílabo presenta tan a menudo una acentuación regular (sobre la sílaba cuarta a demás de la octava), un tridecasílabo, que es un verso bastante más largo, será mucho más eurítmico si los acentos son regulares, como ocurre en (13 a, b, e). A mi parecer es obvio, además, que (13c) es más eurítmico que (13d) y la razón està en que siempre es mejor tener las secuancias más largas a la derecha. En (13c) los ritmos ternàrios están a la derecha y los binarios a la izquierda, mientras que (13d) tiene los ternarios a la izquierda y los binarios a la derecha.14 El problema, si es que hay realmente un problema a estudiar, es la relación entre la recursividad del ritmo y la longitud del verso.
14
Seguramente por la misma razón los endecasílabos a mínore (4+6) son más eurítmicos que los a majore (6+4).
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LA ESCALA MÉTRICA EN LA POLIMETRÍA ROMÁNTICA
ISABEL PARAÍSO I. Polimetría y heteroestrofía en la métrica romántica
E
l Romanticismo tiene, en la historia de nuestro verso hispánico, la gran misión de transformar el lenguaje poético en un instrumento altamente sensible, muy dúctil y maleable, que por una parte prolongará un conjunto de formas (heredadas de los períodos anteriores y modificadas a menudo ahora); y, por otra parte, conducirá hasta las puertas mismas del verso libre en las décadas finales del siglo XIX –sobre todo en sus poetas más tardíos: Bécquer (1836-1870), Rosalía (1837-1885), Rafael Núñez (Colombia, 1828-1894)–. Los tres rasgos distintivos de esta métrica romántica son, a nuestro entender: tradicionalidad, innovación y espíritu de libertad. Dentro de sus numerosas manifestaciones, vamos a centrarnos hoy en un tipo de versificación muy llamativo y característico. Es el que mezcla diversos esquemas en una misma composición poética. Nuestros estudiosos lo denominan polimetría. Como su nombre indica, la polimetría consiste en la mezcla de muchos metros (o al menos varios) en un mismo poema. El concepto de “polimetría”, sin embargo, a menudo va más allá de su nombre, puesto que engloba no sólo la mezcla de varios metros, sino también la mezcla de varios tipos poemáticos. Una composición polimétrica (por ejemplo, una “ensaladilla” del Siglo de Oro), puede contener unos trozos en —223—
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romance o romancillo, otros en copla castellana o en canción trovadoresca, y otros en redondilla. La polimetría, por tanto, es un paso adelante respecto a la “heterometría”, que combina en una forma poemática dos metros, raramente tres, y casi siempre de manera regulada: las coplas medievales de pie quebrado, o los cuartetos-lira y las silvas en el Renacimiento, nos suministran ejemplos de heterometría. La polimetría supone una mezcla mayor que la heterometría: reúne diversos metros y tipos poemáticos, y su aparición queda al arbitrio del poeta. El poema polimétrico, a menudo extenso, parece compuesto por trozos de varios. Los estudiosos franceses hablan en este caso de “hétérostrophie”. Entienden por ello la mezcla, en un solo poema, de varios esquemas estróficos. En nuestro libro La métrica española en su contexto románico hemos utilizado ambas palabras (polimetría y heteroestrofía) como cuasi-sinónimas, puesto que habitualmente los poemas polimétricos son también, al mismo tiempo, heteroestróficos. Hacíamos en este libro la salvedad de que, a menudo, para la literatura española la denominación de “heteroestrofía” no es exacta, puesto que los poemas polimétricos suelen contener partes en romance o romancillo, que es un tipo de poemático no estrófico. Pero, en conjunto, éramos partidarios de introducir el concepto de “heteroestrofía” junto al de “polimetría”. Y denominábamos “poema mixto” a aquél que contiene más de un tipo poemático en su interior, englobando bajo esta denominación tanto a la polimetría como a la heteroestrofía. La métrica romántica es la más idónea para examinar estos conceptos, ya que la polímetría (y/o heteroestrofía) es una de sus manifestaciones más destacadas. Tanto, que un poeta como Zorrilla en sus escritos primeros sólo utiliza tipos poemáticos polimétricos y heteroestróficos. Por ejemplo, el primer poema de sus Obras Completas, el que le dio a conocer en el entierro de Larra (“A la memoria desgraciada del joven literato D. Mariano José de Larra”, 1837) contiene versos endecasílabos seguidos de partes intercaladas en octosílabos; y en cuanto a —224—
LA ESCALA MÉTRICA
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los tipos estróficos incluye quintetos, octavas agudas, redondillas y quintillas. Poema mixto, pues, con polimetría y con heteroestrofía. Creemos que el Romanticismo, más acusadamente aún que el Neoclasicismo, busca la musicalidad del verso, y en esta búsqueda a menudo vuelve los ojos hacia el teatro y sus formas cantadas.1 Por ejemplo, la llamada octavilla romántica (y su expansión al arte mayor, en la octava romántica o bermudina),2 se remonta a la quartina doppia de las odi e canzonette del Settecento italiano.3 Nos parece, pues, que esta predilección romántica por el poema mixto procede, fundamentalmente, de la lírica cantada,4 y de modo secundario, del amor a la poesía tradicional española del Siglo de Oro, en cuyo teatro y lírica también se encuentra la polimetría abundantemente representada. La poesía romántica, que tanto utiliza el poema mixto, nos enseña que debemos distinguir entre heteroestrofía y polimetría, aunque a menudo coincidan. Un ejemplo de coincidencia lo tenemos en “El mendigo” de Espronceda. Por una parte vemos polimetría (versos de 11 sílabas en ciertas partes, versos de 8 y de 4 en otras,y mezcla de 11 y de 8 en otras); y además tenemos heteroestrofía, pues usa coplas asonantes endecasílabas, 1
«La libertá metrica é una caratteristica anche della poesía scenica, tendente alla polimetria», señala Pietro Beltrami (1994: 125) para la poesía italiana. 2 Cfr. I. Paraíso (2000: 272-274). La octavilla aguda –también llamada octavilla romántica, por el amplísimo uso que el Romanticismo hace de ella– es italiana de origen: surge en los cantabili del siglo XVIII, y es divulgada por los melodramas de Metastasio (1698-1782). En España está documentada en Gerardo Lobo (16791750). A su vez, la octava romántica o aguda fue popularizada por Salvador Bermúdez de Castro entre 1835 y 1840. Su majestuosidad la hace apta para la narrativa y la lírica. 3 Cfr. Francesco Bausi y Mario Martelli (1993: 205-208). Concretamente, sobre el esquema más difundido en España (Øaaé:Øbbé), señalan que en la literatura italiana es fortunatissimo, y citan poemas de Frugoni, Meli, Fantoni y Parini. 4 Tomás Navarro Tomás (1991: § 283) señala que la lírica cantada, que se había mantenido al margen de la Métrica durante el Neoclasicismo, es una de las influencias de la métrica romántica. «La diversidad de metros y estrofas se había aplicado también al poema narrativo. La poesía romántica venía a desarrollar esta práctica, aplicándola principalmente a su nuevo género de cuentos o leyendas en verso».
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cuartetas heterométricas, sextillas heterométricas agudas, octavillas, sextillas y decimillas románticas. 2. La escala métrica El poema mixto más llamativo del Romanticismo es, sin duda, la escala métrica. Frente a la inmensa mayoría de poemas mixtos que poseen polimetría (o heteroestrofía) libre (es decir, combinan metros o tipos poemáticos a gusto del poeta, sin orden previo), la escala métrica es un caso claro de polimetría regulada. Entendemos por “polimetría regulada” la mezcla de versos que viene condicionada por un patrón externo, al cual el poeta se ajusta. La escala métrica es un poema mixto, extenso, que va utilizando sucesivos esquemas versales en orden gradualmente creciente de sílabas (de menor a mayor), o bien en orden decreciente (de mayor a menor). Incluso a menudo se encuentra en orden doble: ascendente-descendente (en figura de rombo), o descendente-ascendente (en figura de dos triángulos unidos por el vértice). Supone, para el poeta que la cultiva, una proeza técnica. El reto consiste en ajustar ese lenguaje de molde prefijado a un contenido específico, a unas situaciones temáticas cambiantes, que justifiquen la gran diversidad formal. El poeta que escribe escalas métricas exhibe su dominio del lenguaje poético. El poema “Les Djinns” de Victor Hugo (1828) marcó una forma métrica para las escalas, y también una temática: la manifestación súbita de lo pavoroso o sobrehumano. Esta “fantasía” oriental de Hugo describe el ataque nocturno de un enjambre de pequeños seres maléficos. La nota de horror, tan romántica, cuaja y se prolonga, con variantes, en las escalas hispánicas. A lo largo del Romanticismo hispánico, la escala métrica va a servir para transcribir sufrimiento nocturno, horribles pesadillas, o espectrales situaciones sobrenaturales. El poema de Hugo es imitado por el venezolano Andrés Bello en 1843. Y en la literatura española, entre 1836 y 1889, —226—
LA ESCALA MÉTRICA
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encontramos un conjunto de escalas: dos en Espronceda (ambas en El estudiante de Salamanca, escrito entre 1836 y 39); una en Gertrudis Gómez de Avellaneda (“La noche de insomnio y el alba”, 1841); y cuatro en Zorrilla. Tres de las cuatro de Zorrilla fueron escritas en su plenitud poética: “La azucena silvestre”, 1845; “Un testigo de bronce”, 1845; y “Leyenda de Al-Hamar”, 1852. Y la cuarta fue escrita en su vejez: “Recuerdo del tiempo viejo” (1889). Tiene la peculiaridad de ser triple y descendentes en sus tres partes. De una manera epigonal, hallaremos aún otra en el jovencísimo Rubén Darío (“Tú y yo”, c. 1880-86). La escala de Darío, tan tardía, cambia de temática y recoge las ensoñaciones amorosas del poeta. En cuanto a la adaptación al español de la forma métrica de Hugo, el único poeta que sigue estrictamente sus medidas –ha señalado T. Navarro Tomás–5 es Andrés Bello. Porque «las escalas de Espronceda y Zorrilla y en especial de la Avellaneda ensancharon considerablemente el marco del modelo francés». Podemos fechar, pues, la vida literaria de la escala métrica entre 1828 y 1889: sesenta y un años. Con un introductor genial, Víctor Hugo, entonces en su plenitud poética, y con dos poetas igualmente geniales que la cierran: Zorrilla en sus postrimerías poéticas, y Rubén Darío en sus años de aprendizaje adolescente. 2. 1. Víctor Hugo, el creador (1828) La invención de la escala métrica se debe a Victor Hugo (1802-1885), con su poema “Les Djinns”. Fue compuesto el 25 de agosto de 1828, y apareció incluido en Les Orientales, 1829. En la “Préface” de este libro, Hugo se refiere a “Les Djinns” como «fantaisie», «caprice», y también «de la poésie pour les yeux». Después de las visiones apocalípticas, dantescas y miltonianas, que cultiva entre 1821 y 1823, después de las Ballades (1825) donde evoca una Edad Media fantástica, se inclina Hugo por el ensueño oriental. En 1824 considera a la Edad Media y a Oriente como los dos “mares de poesía”, y en 1825 escribe 5
T.Navarro Tomás (1991: § 360).
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su primera “Oriental”.6 La investigación rítmica del poeta, que había empezado en Ballades, se intensifica en Les Orientales y culmina en “Les Djinns”. El poema fue encomiado por SainteBeuve y gozó de fama mundial. Temáticamente, describe un ambiente nocturno, fantástico, en medio del cual aparece de pronto el enjambre de los “djinns” que se abate sobre la ciudad y ataca ferozmente la casa del poeta. Implora éste al “Profeta”(Mahoma), le promete ir a La Meca («prosterner mon front chauve / devant tes sacrés encensoirs!»), y los “djinns” se alejan hasta desaparecer en la noche.7 Métricamente, encontramos versos que, según el cómputo francés –que toma en consideración desde la primera sílaba hasta la última acentuada del verso, desentendiéndose del resto–, tenemos metros con estas sílabas: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 10, 8, 7, 6, 5, 4, 3, y 2. (Sólo faltan los versos de 9 sílabas, pues, entre las 2 y las 10).8 En cuanto a la estrofa empleada, es siempre la misma: una octavilla u octava romántica (el «huitain romantique»),9 cuyo esquema es: AÉAÉ:BBBÉ. Podemos hablar, por lo tanto, de polímetría, pero no de heteroestrofía. Hugo consagra exactamente una estrofa a cada uno de los metros citados, reservando los más breves para la descripción del apacible ambiente nocturno, y los más largos para el ataque furioso de los “djinns”. La octava culminante, aquella en que 6
Lord Byron había muerto en 1824, en la batalla de Missolonghi, luchando por la independencia de los griegos. La simpatía en toda Francia por la causa griega repercute sobre Les Orientales, dándoles actualidad. Hugo toma algunos epígrafes árabes y persas en Odes et Ballades, y en junio de 1820 reseña el libro de Thomas Moore Lalla-Roukh, o La Princesa Mongola. 7 Pierre Albouy, en sus notas a este poema en las Œuvres poétiques de Hugo, señala que estos “djinns” tienen poco que ver con los del Corán o Las mil y una noches (aunque puedan atacar al viajero o colarse en las casas mal cerradas). Pero por el ruido de cadenas y su espectralidad se parecen más a los de la mitología medieval (ronda del Sabbat, vampiros, etc.). 8 Véase el análisis que de “Les Djinns” realiza Maurice Grammont (1967: 182-184). 9 Michéle Aquien (1992: 106) menciona el «huitain romantique» y señala su rima: ababcccb. Nosotros indicamos la rima aguda mediante vocal, como es costumbre entre los autores españoles.
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el enjambre de “djinns” se abate sobre la morada del poeta, es precisamente la de metros más largos.10 2. 2. La imitación de Bello (1843) Dentro de su amplísima labor educativa, en la cual la poesía propia ocupa un puesto menor, el venezolano Andrés Bello (Caracas, 1781 - Chile, 1865), autor de las “Silvas americanas” (1823 y 1827), también cultiva la escala métrica. Se inspira en ella para su poema “Los duendes. Imitación de Víctor Hugo” (1843). Lo primero que observamos es su extensión muy superior. Frente a los 120 versos de Hugo, Bello escribe nada menos que 311. En segundo lugar, frente a la uniformidad estrófica de las octavas de Hugo, la irregularidad de las partes (numeradas) de Bello, que contienen diversos conjuntos de versos entre los 10 y los 34. Bello, por tanto, mantiene la polimetría de Hugo, pero la acompaña con heteroestrofía. En lo que el poeta venezolano sigue “casi” fielmente al francés es en la estructura de la polimetría: en el rigor ascendentedescendente de la escala (forma de rombo), y también en el número de sílabas de cada metro. Recordemos que Hugo va desde el bisílabo hasta el decasílabo francés. Según el cómputo español, que tiene en cuenta la sílaba átona final o computa un tiempo más en las rimas agudas, esos versos se transformarían en estas medidas: 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 9, 8, 7, 6, 5, 4 y 3 sílabas. Éstos son exactamente los metros que Bello emplea; pero además “repara” la omisión de Hugo, el decasílabo, introduciendo en las dos ramas –ascendente y descendente– conjuntos de versos decasílabos dactílicos. 10
Oigamos cómo suena la octavilla (u octava) de Hugo en dos de sus estrofas más destacadas: la primera y la número ocho –la más extensa en sílabas: décasyllabes–. (Transcribimos los versos seguidos, separados por trazos oblicuos, con el fin de ganar espacio): «Murs, ville, / Et port, / Asile / De mort, / Mer grise / Où brise / La brise, / Tout dort.» [...]// «Cris de l’enfer! voix qui hurl’e et qui pleure! / L'horrible essaim, poussé par l’aquilon, / Sans doute, ô ciel! s'abat sur ma demeure. / Le mur fléchit sous le noir bataillon. / La maison crie et chancelle penchée, / Et l’on dirait que, du sol arrachée, / le vent la roule avec leur tourbillon!».
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Aquí se terminan las semejanzas métricas entre Bello y Hugo, ya que los tipos poemáticos que integran ambas escalas son totalmente diferentes. Hugo opta por la regularidad de las octavillas u octavas (huitain romantique); Bello, por el romancillo para los conjuntos de versos más breves (entre las 3 y las 6 sílabas), y por la serie con rima de libre distribución, para los conjuntos de versos más extensos (entre las 7 sílabas y las 11, y desde éstas nuevamente a las 7). En algunas de estas series, la rima adopta disposiciones juguetonas ocasionales: tendente al pareado (V, XI),11 tendente al monorrimo (VII),12 o reuniendo rimas próximas (X: -ina / -ana/ -ena: en onomatopeya del tañido de la campana de la iglesia, que finalmente ahuyenta a los duendes).13 Temáticamente también hay divergencias menores, fruto de la “adaptación” que Bello realiza de la “oriental” a su ambiente vital americano: La invocación al Profeta se transforma en invocaciones a la Virgen del Carmelo (parte V) y a San Antón (VII); la irrealidad semifantasmal de la noche en Hugo se convierte en una serena ambientación del atardecer (parte I) y de la noche (XVII). Incluso Bello, tras comprobar que su huerta no ha sufrido daño (XIII), se apiada de los duendes (XIV, XV, XVI). En todo caso, la escala de Bello es la que, desde el punto de vista de los metros empleados, en la temática, e incluso en el tratamiento juguetón del tema, sigue más fielmente a su predecesor, Victor Hugo. De ahí el subtítulo de “imitación”.
11
Por ejemplo, en el grupo V: «A casa me recojo; / echemos el cerrojo. / ¡Qué triste y amarilla / arde mi lamparilla!» (etc.) O bien en el XI: «¡Partieron! La sonante nota/ a la hueste infernal derrota. / Uno a otro apresura, excita, / estrecha, empuja, precipita» (etc.). 12 «San Antón, no soy tu devoto, / si no le pones luego coto / a este diabólico alboroto. / ¡Motín semeja, o terremoto, / o hinchado torrente que ha roto» (etc.). 13 «¡Ah! Por fin en la iglesia vecina / a sonar comenzó la campana... / Al furor, a la loca jarana, / turbación sucedió repentina. / El tañido de aquella campana / a la hueste infernal amohína, / sobrecoge, atolondra, amilana. / Como en pecho abrumado de pena / una luz de esperanza divina; / como el sol en la densa neblina, / de los montes rizada melena» (etc.).
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2. 3. La escala en Espronceda (1836-39) Cronológicamente, el primer poeta que en España cultiva la escala métrica es el extremeño José de Espronceda (18081842). Sus dos escalas aparecen en El estudiante de Salamanca (subtitulado “cuento” y escrito entre 1836 y 1839). En la primera parte vemos una escala ascendente bastante breve (51 versos), que consta de: trisílabos (4 versos), tetrasílabos (11), octosílabos (12) y dodecasílabos (24). Los tipos poemáticos que aparecen son, respectivamente: series con rima de libre distribución, romances y serventesios. Esta primera escala de Espronceda presenta, pues, tanto polimetría como heteroestrofía. En la cuarta parte de la misma obra, El estudiante de Salamanca, encontramos otra escala mucho más famosa, que da forma precisamente a la escena culminante del poema: la boda de don Félix de Montemar con la Muerte. Esta segunda escala es mucho más extensa (296 versos). Es ascendente-descendente (en forma de rombo, como la de Hugo). Comienza con versos de 2 y 3 sílabas14 (6 versos), continúa con tetrasílabos (9), pentasílabos (13), hexasílabos (27), heptasílabos (8), octosílabos (22), eneasílabos dactílicos (16), decasílabos dactílicos (16), endecasílabos (20) y dodecasílabos compuestos (32). A partir de aquí comienza el descenso con endecasílabos de nuevo (16), decasílabos dactílícos (16), eneasílabos dactílicos (16), octosílabos (16), heptasílabos (16), hexasílabos (16), pentasílabos (12), tetrasílabos (8), trisílabos (8) y bisílabos15 (3). 14
Por abreviar, decimos que el primer conjunto de la escala, una sextilla, consta de versos de 2 y 3 sílabas. Son los siguientes: «Fúnebre / Llanto / De amor, / Oyese / En tanto / En son». Computando estrictamente, encontraríamos estas medidas: 2-2-3-2-3-3 sílabas. Sin embargo, creemos que Espronceda, en estos versos como en otros muchos lugares (comienzo de El diablo mundo, por ejemplo) se deja llevar por la música de las palabras, y comienza a enlazar unos versos con otros, en sinafías y compensaciones que desdibujan el cómputo estricto silábico. Personalmente, leemos: «Fúnebre / Llanto de a- / mor, / Oyese en / tanto en / son»: 3-3-1: 3-3-1 sílabas gramaticales (no métricas; éstas serían: 3-3-2: 3-3-2). 15 Es sintomático que Espronceda termine su escala con palabra monosílaba («Leve, / Breve / Son»). Muestra la atención del poeta no sólo a los valores métricos, sino también a los valores gramaticales y semánticos.
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Espronceda amplía, pues, los metros usados por Hugo. Por debajo, incluyendo los bisílabos (los bisyllabes de Hugo en español son interpretados como trisílabos); y por encima, incluyendo los metros de 12 sílabas. En cuanto a los tipos poemáticos que aparecen en esta escala, encontramos fundamentalmente serventesios junto a octavas y octavillas agudas, romance, sextilla, y series de versos breves con rima de libre distribución. Al igual que Bello (a quien antecede cronológicamente), Espronceda usa no sólo polimetría sino también heteroestrofía. Esta escala de Espronceda constituye una de las piezas más famosas de la literatura española. Citada hasta nuestros días en libros de texto y en libros de métrica, es un referente para la literatura nacional.16 2. 4. La escala en Avellaneda (1841) La cubana Gertrudis Gómez de Avellaneda (1814-1873) compone en “La noche de insomnio y el alba. Fantasía” (Poesías, 1841) la escala más sistemática y con mayor abundancia de metros que existe en lengua española: Contiene versos de todas las medidas, entre las 2 y las 16 sílabas. Espronceda –acabamos de verlo– había ampliado la escala de Hugo con metros entre las 2 y las 12 sílabas. Avellaneda irá mucho más lejos, al incluir los metros de 13, 14, 15 y 16 sílabas. 16
Veamos algunos versos de este inmortal poema: algunos octosílabos y algunos endecasílabos de la rama ascendente, y luego, de la descendente, algunos pentasílabos además de los trisílabos y bisílabos finales. «Y algazara y gritería, / Crujir de afilados huesos, / Rechinamiento de dientes / Y retemblar los cimientos, / Y en pavoroso estallido / Las losas del pavimento / Separando sus junturas / Irse poco a poco abriendo, [...] // ¡Es su esposo! los ecos retumbaron, / ¡La esposa al fin que su consorte halló! / Los espectros con júbilo gritaron: / ¡Es el esposo de su eterno amor! // Y ella entonces gritó: ¡Mi esposo! Y era / (¡Desengaño fatal! ¡triste verdad!) / Una sórdida, horrible calavera, / La blanca dama del gallardo andar!... [...]// Y siente luego / Su pecho ahogado, / Y desmayado, / Turbios sus ojos, / Sus graves párpados, / Flojos caer [...] // Tal, dulce / Suspira / La lira / Que hirió / En blando / Concento / Del viento / La voz. // Leve, / Breve / Son».
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Es una escala sólo ascendente (en forma de triángulo), igual que la primera de Espronceda. En ella narra sus angustiosas sensaciones en las tinieblas del desvelo, y el progresivo renacer de su espíritu con la llegada del alba, primero tenue y luego esplendorosa al salir el sol. He aquí el textos:17
17
Noche Triste Viste Ya, Aire Cielo, Suelo, Mar.
(2)
Brindándole Al mundo Profundo Solaz, Derraman Los sueños Beleños De paz;
(3)
Y se gozan En letargo Tras el largo Padecer, Los heridos Corazones Con visiones De placer.
(4)
Para mejor visualización de sus estrofas, las separamos mediante blancos y las transcribimos como octavillas u octavas (en las Poesías de Avellaneda aparecen sangradas de cuatro en cuatro versos, en forma tipográfica de cuarteta o serventesio doble, y además con los versos todos seguidos, sin espaciados entre las estrofas cuyos metros van cambiando). Añadimos también, en el margen derecho, el número de sílabas de cada conjunto.
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Mas siempre velan Mis tristes ojos; Ciñen abrojos Mi mustia sien; Sin que las treguas Del pensamiento A este tormento Descanso den.
(5)
El mudo reposo Fatiga mi mente; La atmósfera ardiente Me abrasa doquier; Y en torno circulan Con rápido giro Fantasmas que miro Brotar y crecer.
(6)
¡Dadme aire! Necesito De espacio inmensurable, Do del insomnio al grito Se alce el silencio y hable! Lanzadme presto fuera De angostos aposentos... ¡Quiero medir la esfera! ¡Quiero aspirar los vientos!
(7)
Por fin dejé el tenebroso Recinto de mis paredes... Por fin, ¡oh espíritu!, puedes por el espacio volar... Mas, ¡ay!, que la noche oscura, Cual un sarcófago inmenso, Envuelve con manto denso Calles, campos, cielo, mar.
(8)
Ni un eco se escucha, ni un ave Respira, turbando la calma; Silencio tan hondo, tan grave, Suspende el aliento del alma.
(9)
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El mundo de nuevo sumido Parece en la nada medrosa; Parece que el tiempo rendido Plegando sus alas reposa. Mas ¡qué siento!... ¡Balsámico ambiente Se derrama de pronto!... El capuz De la noche rasgando, en Oriente Se abre paso triunfante la luz. ¡Es el alba! Se alejan las sombras, Y con nubes de azul y arrebol Se matizan etéreas alfombras, Donde el trono se asiente del sol.
(10)
Ya rompe los vapores matutinos La parda cresta del vecino monte; Ya ensaya el ave sus melifluos trinos; Ya se despeja inmenso el horizonte. Tras luenga noche de vigilia ardiente Es más bella la luz, más pura el aura... ¡Cómo este libre y perfumado ambiente Ensancha el pecho, el corazón restaura!
(11)
Cual virgen que el beso de amor lisonjero Recibe agitada con dulce rubor, Del rey de los astros al rayo primero Natura palpita bañada de albor. Y así, cual guerrero que oyó enardecido De bélica trompa la mágica voz, Él lanza impetuoso, de fuego vestido, Al campo del éter su carro veloz.
(12)
¡Yo palpito, tu gloria mirando sublime, Noble autor de los vivos y varios colores! ¡Te saludo si puro matizas las flores! ¡Te saludo si esmaltas fulgente la mar! En incendio la esfera zafírea que surcas Ya convierte tu lumbre radiante y fecunda, Y aún la pena que el alma destroza profunda Se suspende mirando tu marcha triunfal.
(13)
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¡Ay! de la ardiente zona do tienes almo asiento, Tus rayos a mi cuna lanzaste abrasador... ¡Por eso en ígneas alas remonto el pensamiento, Y arde mi pecho en llamas de inextinguible amor! Mas quiero que tu lumbre mis ansias ilumine, Mis lágrimas reflejen destellos de tu luz, Y sólo cuando yerta la muerte se avecine La noche tienda triste su fúnebre capuz.
(14)
¡Qué horrible me fuera, brillando tu fuego fecundo, Cerrar estos ojos, que nunca se cansan de verte; En tanto que ardiente brotase la vida en el mundo, Cuajada sintiendo la sangre por hielo de muerte! ¡Horrible me fuera que al dulce murmurio del aura, Unido mi ronco gemido postrero sonase; Que el plácido soplo que al suelo cansado restaura, El último aliento del pecho doliente apagase!
(15)
¡Guarde, guarde la noche callada sus sombras de duelo, (16) Hasta el triste momento del duelo que nunca termina; Y aunque hiera mis ojos, cansados por largo desvelo, Dale, ¡oh sol! a mi frente, ya mustia, tu llama divina! Y encendida mi mente, inspirada con férvido acento, –Al compás de la lira sonora– tus dignos loores Lanzará, fatigando las alas del rápido viento, A do quiera que lleguen triunfantes tus sacros fulgores!
La escala de Avellaneda es la más perfecta de la literatura hispánica, ya que –igual que Víctor Hugo– va dedicando la misma extensión a cada uno de los metros: 8 versos, una octavilla u octava (según sean los metros de arte menor o mayor). No obstante –a diferencia de Hugo–, el tipo de octavilla u octava no es siempre exactamente el mismo: Tenemos dos tipos, que en el poema funcionan como variantes: la octavilla u octava aguda, y la que podríamos llamar octavilla de doble cuarteta18 u octava de doble serventesio (ampliación al arte mayor de aquélla). Los dos 18
Recordemos la quartina doppia italiana del Settecento.
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núcleos de este segundo tipo no están unidos por la rima, a diferencia de los del primer tipo. La variedad aguda predomina al principio del poema, en el arte menor, y la de doble serventesio al final. La aguda aparece en 7 ocasiones: En los conjuntos de 2 sílabas, de 3, de 4, de 5, de 6, de 8, y de 13 sílabas. A su vez, en 8 ocasiones encontramos octavilla de doble cuarteta u octava de doble serventesio: En los conjuntos de 7 sílabas, de 9, de 10, de 11, de 14, de 15 y de 16 sílabas. Predominan, pues, en el arte mayor. El hecho de que formalmente sean dos tipos distintos, no quita para que el lector del poema los perciba como una sola forma: la octava, los 8 versos. El esquema estrófico impone su periodicidad por encima de las diferencias que establece la rima. (Sobre esta curiosa octava compuesta por dos serventesios, digamos que ya Espronceda la había utilizado en “El canto del cosaco”). Interpretando, pues, ambos tipos de octavillas u octavas como variantes, podríamos hablar en Avellaneda, igual que en Hugo, de polimetría, pero no de heteroestrofía. Obsérvese, por otra parte, la fuerte tendencia al monorritmo en la mayor parte de las octavas. La octavilla bisílaba contiene necesariamente un esquema trocaico; al igual que la trisílaba, con la primera sílaba en anacrusis, y la tetrasílaba, con las dos primeras sílabas en anacrusis. A partir de la octavilla de 6 sílabas, el monorritmo se focaliza sobre la cláusula dactílica, y en ritmo dactílico uniforme encontramos también la octava de 9 sílabas, la de 10, la de 12, la de 13, la de 15, y finalmente la de 16 sílabas.19 Las demás son polirrítmicas: mezclan varios esquemas acentuales. El esquema ternario, dactílico, además de uniformar el ritmo de todas esas octavas, tiene otra importante consecuencia: permite que –salvando el alejandrino–, los versos largos pares, que 19
Por ejemplo: «El mudo reposo» (v-vv-v); «Ni un eco se escucha, ni un ave» (v-vvvv-v); «Yo palpito, tu gloria mirando sublime» (vv-vv-vv-vv-v); «Cerrar estos ojos, que nunca se cansan de verte» (v-vv-vv-vv-vv-v); «Hasta el triste momento del sueño que nunca termina» (vv-vv-vv-vv-vv-v).
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tienen la posibilidad de ser simples o compuestos, sean todos simples: decasílabo simple dactílico, dodecasílabo simple dactílico,20 e incluso –mucho más original–, el hexadecasílabo simple dactílico. Digamos, para finalizar nuestro examen, que la escala de Avellaneda es muy importante en la métrica hispánica, no sólo por su sistematicidad en los metros usados y en el ritmo, sino sobre todo porque en ella aparecen por primera vez algunos metros: el tridecasítabo dactílico simple, el pentadecasílabo dactílico simple, y el hexadecasílabo dactílico simple. El ritmo dactílico sirve de base a la poetisa cubano-española para sus innovaciones. Espronceda en “El verdugo” había usado ya el decasílabo dactílico simple y el dodecasílabo dactílico simple; pero ahora Avellaneda extiende ese mismo ritmo dactílico simple hasta unos límites –las 13, las 15, las 16 sílabas– inéditos en nuestra lengua. Los futuros modernistas prolongarán su audacia. 2. 5. La escala en Zorrilla (1845-52; 1889) El vallisoletano José Zorrilla (1817-1893) usará la escala métrica de manera más persistente que sus predecesores: 4 veces. Aparecen estas escalas en “La azucena silvestre” (1845), “Un testigo de bronce” (1845); y “Leyenda de Al-Hamar” (1852). A ellas se puede añadir una escala triple, en las partes II, III y IV de “Recuerdo del tiempo viejo” (1889). Además de cultivar la escala más que los anteriores poetas, hay que señalar que en las tres primeras ocasiones Zorrilla presentará la originalidad de invertir la figura geométríca de Víctor Hugo, continuada por Bello y por Espronceda en su segunda escala: el rombo se transforma en doble triángulo unido por el vértice. Sus escalas, en lugar de ser ascendente-descendentes, lo 20
La única duda que podría cabernos en este considerar dactílicos simples los versos largos pares, estribarla en el dodecasílabo, que puede ser interpretado como simple, o bien como compuesto (verso de arte mayor). Nos inclinamos por verlo como simple («Cual virgen que el beso de amor lisonjero», v-vv-vv-vv-v) por asimilación a los demás conjuntos simples.
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serán descendente-ascendentes, de más a menos y luego de menos a más. No conocemos precedente para esta forma de escala, por lo que nos inclinamos a pensar que pueda ser innovación del poeta vallisoletano. Por el contrario, en la escala triple tardía de “Recuerdo del tiempo viejo”, la figura es descendente, de más a menos. Inversa, pues, al triángulo creciente de Avellaneda. En tercer lugar, hay que destacar que dos de estas escalas (“Un testigo de bronce” y “Leyenda de Al-Hamar”) tienen la peculiaridad de que ambas ramas, la descendente y la ascendente, están separadas entre sí por un amplio conjunto de versos. Podrían ser interpretadas, pues, como dos escalas en cada caso. No obstante, preferimos considerarlas como entidades únicas con versos incrustados en el vértice de ambos triángulos. Veámoslas ahora con mayor detención. En el capítulo cuarto de “La azucena silvestre” Zorrilla nos avisa de su escala mediante este subtítulo: “Donde verá el lector un capricho que tuvo el autor al escribir la presente leyenda”. El “capricho” consiste en una escala descendente-ascendente que incluye 328 versos. Éstos se reparten entre los metros siguientes: de 14 sílabas (8); de 12 (dodecasílabos compuestos, 4); de 11 (4); de 10 (simples dactílicos, 4); de 8 (4); de 7 (12); de 6 (20); de 4 (167);21 de 3 (31); de 2 (6); de 3 (8); de 4 (8); de 5 (8); de 6 (8); de 7 (10); de 8 (6), de 12 (16) y de 14 (4). En comparación con Espronceda, Zorrilla aumenta la escala en los metros mayores, ampliándola con el alejandrino. Igual que él, omite el tridecasílabo, bastante insólito en español. Pero, a diferencia de Espronceda, omite también el eneasílabo en las 21
Dentro de esta larguísima serie de tetrasílabos hay que destacar dos octosílabos tipográficos (que hemos computado como 4 tetrasílabos, para no romper el esquema de la escala): «en el fondo de su pecho / con su luz iluminó./ Luz postrera / de esperanza», (etc.). La unión o la prolongación en estructuras próximas se aprecia también al final de la escala: en los dodecasílabos incluye dos sextetos de 2 rimas alternas, el segundo de los cuales se prolonga en los 4 versos de un serventesio que rima con el segundo sexteto («quizá» // «ciudad» / «paz»), y rimará a su vez con el serventesio alejandrino siguiente («ya» / «va»).
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dos ramas de la escala. Igualmente suprime el pentasílabo en la rama descendente, y el decasílabo y endecasílabo en la ascendente. Es una escala amplia pero incompleta. En cuanto a los tipos poemáticos, tenemos, respectivamente: octava de dos rimas alternas; tres serventesios, cuarteta, serie, doce octavillas agudas,22 serie (87 versos), octavilla aguda, serie, cuatro octavillas agudas, serie, sextilla de 2 rimas alternas, dos sextetos de 2 rimas alternas, y dos serventesios. “La azucena silvestre” presenta, pues, polimetría y heteroestrofía. La segunda escala la hallamos en el capítulo primero de “Un testigo de bronce”. La rama descendente de la escala y la ascendente están separadas por un romance heroico de 48 versos. Dejando éste aparte, encontramos en la rama descendente las siguiente medidas: 14 sílabas, 12, 11, 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3 , 2 y 1 . Por tanto, menos el tridecasílabo, todos los demás metros entre las 14 y la 1 sílaba están representados. En la rama ascendente volvemos a encontrar las mismas medidas en el orden inverso. Podemos afirmar que ésta es la escala más breve de Zorrilla, con 227 versos (93 en la rama descendente, y 134 en la ascendente).23 (“La azucena silvestre” tenía 328 versos, y la “Leyenda de Al-Hamar” tendrá nada menos que 513) . Al mismo tiempo, “Un testigo de bronce” es la más regular, pues repite con exactitud los mismos metros en ambas ramas de la escala. En cuanto a los tipos métricos que configuran esta escala, encontramos, para la rama descendente: cinco serventesios (uno para cada conjunto de versos, entre las 14 y las 9 sílabas), tres cuartetas (para los conjuntos de 8, 7 y 6 sílabas), y cuatro 22
En los hexasílabos de la rama descendente de la escala encontramos una curiosidad métrica: dos octavillas agudas tipografiadas seguidas, sin blanco, en forma de serie, y prolongadas por otros cuatro versos a modo de coda, que enlazan mediante el verso agudo («quizá») tanto con la estrofa anterior («ya») como con la siguiente, tetrasílaba («va»). 23 El reparto de los distintos conjuntos de versos es éste: 4+4+4+4+4+4+4 +4+9+11+29+12 = 93 versos; 16+31+10+14+11+10+8+7+5+6+5+5+6 134 versos. (Total: 93+134=227 versos).
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series (para los versos más breves de 5, 4, 3, 2 y 1 sílabas), –gramaticales estas últimas, no métricas–). En la rama ascendente volvemos a encontrar: series para los metros más breves, que ahora afectan a los de 1 y 2 sílabas, 3, 4 y 5, extendiéndose la serie a las 6 y las 7 sílabas; octavilla aguda en los octosílabos; séptima en los eneasílabos; quinteto en los decasílabos dactílicos; sexteto agudo en los endecasílabos; quinteto en los dodecasílabos compuestos; nuevamente quinteto en los cinco alejandrinos primeros; y finalmente sexteto agudo en los alejandrinos finales. Por último, la “Leyenda de Al-Hamar” contiene una escala métrica descendente-ascendente. Cada parte aparece con un título próximo pero independiente: “La carrera, I” y “La carrera, II”. Ambas están separadas por el “Libro de las Nieves” (16 octavas reales). Presenta esta escala métrica la sobrenatural galopada que realiza el caballo del príncipe de Granada Al-Hamar, y su aquietamiento posterior. En el ramal descendente de la escala encontramos metros de: 14 sílabas (16); 12 (dodecasílabos dactílicos compuestos: el verso de “arte mayor”, 16); 11 (16); 10 (decasílabos dactílicos, 32); 9 (16); 8 (16); 7 (64); 6 (72); 5 (59); 4 (102); 3 (23); 2 sílabas gramaticales –3 métricas– (7) y 1 sílaba gramatical –2 métricas– (7).24 Todos los metros, pues, entre las 14 y la 1 sílaba menos el tridecasílabo. Los mismos metros, menos el hexasílabo –por tanto, entre 1 sílaba y 14, exceptuando de nuevo las 13– volvemos a encontrar en el ramal ascendente, “La carrera, IV”. Respectivamente son: monosílabos gramaticales –métricamente bisílabos– (4); bisílabos (2: 1 gramatical y métrico, más 1 trisílabo métrico); tetrasílabos (10); pentasílabos (11 ); heptasílabos (8); octosílabos (4); eneasílabos dactílicos (4); decasílabos dactílicos simples (4); 24
He aquí el número de versos contenido en los distintos conjuntos: 14 sílabas (8+8); de 12 (dodecasílabos dactílicos compuestos: el verso de “arte mayor”, 8+8); de 11 (8+8); de 10 (decasílabos dactílicos, 8+8+8+8); de 9 (8+8); de 8 (8+8); de 7 (64 versos: 8 octavillas); de 6 (72 versos: 7 octavillas y 2 conjuntos de 8 versos unidos por la rima); de 5 (16+8+35); de 4 (25+17+25+35); de 3 (9+14); de 2 sílabas gramaticales (3 métricas) (7) y de 1 sílaba gramatical (2 métricas) (7). Total: 454 versos.
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endecasílabos (6); dodecasílabos dactílicos compuestos (3) y alejandrinos trocaicos (3).25 En cuanto a los tipos poemáticos incluidos en “La carrera, I” –la rama descendente–, encontramos, de modo correlativo: octava de 2 rimas, tres octavas de Víctor Hugo; 26 dos octavas agudas (una simétrica y otra asimétrica); octava de Víctor Hugo; cinco octavas agudas; diecisiete octavillas agudas; serie de 8+8 versos unidos por la rima; octavilla aguda; y ocho series. La rama ascendente, “La carrera, II”, presenta estos tipos poemáticos: serie; dos series de 10 y 11 versos enlazadas por la rima; octavilla aguda con coda (8+3); octavilla aguda; cuarteta; dos serventesios; sexteto agudo; y sexteto agudo dividido entre dos metros: el de 12 y el de 14, a manera de doble terceto: (12) Ya cambia: ya el trote medido levanta, y, el cuello engallado, segura la planta, altivo en la sombra mirándose va. (14)Ya lenta y suavemente su dueño le refrena: se acorta: ya en el paso su marcha va serena, recógele: obedece: paró. ¡Loado Alah!
En resumen, Zorrilla –al igual que Espronceda–, plantea estas escalas con metros entre el monosílabo gramatical y el alejandrino, omitiendo el tridecasílabo, del que seguramente ambos poetas no tenían conciencia. A diferencia de Esponceda y de Hugo, Zorrilla no gusta de los “rombos”, y en cambio configura sus escalas en la forma más rara de dos triángulos unidos por el vértice, por tanto como escala descendente-ascendente. Tratamiento aparte merece la escala triple contenida en el poema “Recuerdo del tiempo viejo” (1889). Concretamente, en las partes II (“Salmodia”), III y IV (sin título propio). Decimos que merece tratamiento aparte, primero por encontrarse descolgada 25
El cómputo de versos en los distintos metros de “La carrera, II”, presenta estas cifras: 4+2+10+11+8+4+4+4+6+3+3. Total: 59 versos. Así pues, sumados los dos ramales de la “Leyenda de Al-Hamar”, tenemos: 454+59=513 versos. 26 Esquema AÉAÉBBBÉ, tal como aparecía en “Les Djinns”.
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cronológicamente de las anteriores (es 37 años posterior a la última). Segundo, porque viene cinco años después de un terrible ataque que el propio Zorrilla propina a la escala métrica en 1884 –como veremos en seguida–. Y tercero, porque aquí Zorrilla, siempre tan creativo y original, trata a la escala métrica no como si fuera un extenso poema –como hemos venido viendo hasta ahora–, sino como si fuera una estrofa o unidad métrica que puede repetirse para insertarla en una unidad superior o poema. Nadie había hecho esto nunca con la difícil escala. “Recuerdo del tiempo viejo” aparece inserto en el hermoso discurso que pronunció Zorrilla con motivo de su solemne coronación en Granada (22 de junio de 1889). Agobiado por la edad, las enfermedades, el ánimo depresivo y la sensación de que su estro se encuentra en decadencia, traza aquí un panorama sintético de lo que ha sido su vida. En la parte II, “Salmodia”, encontramos versos de 12, 6 y 3 sílabas,27 rematados por una palabra bisílaba aguda: “fugaz”. La parte III, a manera de “antiestrofa” de la “estrofa” anterior, presenta los mismos metros (12, 6 y 3 sílabas), con numerosos paralelismos y repeticiones de la parte II. Sobre todo los hexasílabos y trisílabos son idénticos a los de la parte II, con ¡o que el poeta produce un efecto de larguísimo estribillo. Y, por último, la parte IV actúa como “épodo” o remate de los dos conjuntos anteriores. Comienza igualmente con versos de 12 sílabas, pero luego pasa a los de 8 sílabas, después a los de 4, y finalmente termina con tres monosílabos (bisílabos métricos): «¡Se / fue/ ya!». Zorrilla cierra la escala métrica en la literatura española. (Sólo Rubén Darío, unos pocos años antes, la cultiva en Nicaragua). Y, curiosamente, también de Zorrilla va a venir la crítica más acerba que recibirá este poema mixto. Podríamos decir, pues, que Zorrilla escribe, junto con el mayor número de escalas métricas, su acta de defunción. 27
Igual que en “La azucena silvestre”, donde entre la serie de tetrasílabos hallábamos algún octosílabo, aquí Zorrilla intercala en las series de trisílabos algunos hexasílabos, que no rompen el ritmo pero sí la imagen visual de la escala.
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2. 6. Decadencia y desaparición de la escala métrica En la reimpresión de la leyenda “Un testigo de bronce”, en 1884, el propio Zorrilla escribe estas palabras, muy reveladoras de que en ese momento ya la escala métrica había pasado de moda y le molestaba haberla cultivado: Precede a esta leyenda una especie de sinfonía, que no parece otra cosa la escala métrica en que describo la pesadilla del primer personaje que en mi relato presento. Eran, por los años en que esto se publicó [1845], una manía los alardes de versificación, y desde que Víctor Hugo escribió sus Djinns no pudimos creernos poetas sin hacer un rombo o escala métrica. Espronceda y la Avellaneda tienen el suyo, y yo he perdido mi tiempo en confeccionar tres o cuatro, uno de los cuales es esta introducción del TESTIGO DE BRONCE. [...] [...] Basta para prueba de los desvaríos de escuela y de los extravíos del gusto; por más que sea también prueba del poder del estudio y de la facultad de versificar. [...] [H]oy sólo me toca lamentar mi audacia juvenil y reconocer mis desatinos; entre los cuales no ha sido el menor la manía de amplificar los pensamientos y de miniar y afiligranar la versificación.
Para terminar, señalemos como curiosidad que, además de existir escalas métricas en la literatura francesa y en la española, existe también en la italiana. Zorrilla, en la misma reimpresión de “Un testigo de bronce”,28 cita una italiana, «mejor que todas las castellanas, del autor anónimo de “In solitudine”: su argumento es también el sueño, más amplio que el del mío, que no es más que una pesadilla». Señala igualmente que la pieza italiana no le pudo servir de inspiración para las suyas «porque es moderna». Y añade que la lengua italiana sería la única «a la cual podría perdonarse tan extravagante capricho» como una escala métrica. Primero –sigue diciendo Zorrilla–, porque sus plurales terminan en vocal (y no en eses silbantes y ásperas como la castellana), y segundo porque es rica en monosílabos, «dos ventajas inmensas 28
Páginas 2216-2217 de Obras Completas, I.
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que Italia tiene sobre nosotros para su armonía y la melodía de la metrificación». 2. 7. Una escala rezagada: Rubén Darío (c. 1884) Podríamos, pues, suponer que hacia 1884 el uso de escalas métricas había caído en desgracia. Y sin embargo, por esas mismas fechas (entre 1880 y 1886), el adolescente Rubén Darío (1867-1916) compone una escala ascendente-descendente (en forma de rombo, como las de Victor Hugo y Espronceda): “Tú y yo”. Forma parte de las poesías dispersas anteriores al viaje a Chile del poeta (1886). La escala de Rubén es bastante extensa: consta de 201 versos. Incluye metros entre las 2 y las 14 sílabas, descendiendo nuevamente. Son éstos: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 14, 12, 11, 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3 y 2.29 Al igual que Espronceda y Zorrilla, Rubén Darío no incluye el tridecasílabo –metro que cultivaría más tarde, sobre todo en su variedad de tridecasílabo ternario, inserto entre alejandrinos–.30 Como ellos también y como Avellaneda, prefiere las variedades dactílicas de los eneasílabos, decasílabos y dodecasílabos (compuestos, en este caso). La dificultad de la escala métrica para el joven poeta se evidencia en un rasgo no visto en los autores anteriores: Con una cierta frecuencia, Darío se sale de la obligada isometría dentro de cada uno de los conjuntos de metros, para introducir pies quebrados, rompiendo la igualdad de cada conjunto.31 La polimetría típica de la escala recibe, en Darío, un suplemento de heterometría. En cuanto a los tipos poemáticos englobados en esta escala, son los siguientes: octavilla romántica (7), series (2), decimillas 29
La distribución de los 201 versos entre estos metros es, respectivamente: 8+8+12+ 8+10+10+10+8+9+4+4+8+4+12+4+4+5+9+12+9+8+8+11+8+8. Para un estudio exhaustivo del metro de 13 sílabas, véase Julio Saavedra Molina: “El Tredecasílabo” (1946: 24-62). Sobre los tridecasílabos y sus tipos, I. Paraíso (2002: 132-133 y 135-139). 31 Así en rama ascendente, en los grupos de 3 sílabas (donde introduce un monosílabo) y 12 (con un hexasílabo); y en la rama descendente, en los grupos de 12 (nuevamente con hexasílabo), y 10 (con un tetrasílabo). 30
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románticas (2), romance (2), cuarteto asonante ØAØA (3), cuartetos pareados (4), serventesios (3), cuarteto (1), quintetos (2), novenilla romántica (1), y undécima romántica (1). En el uso de la heteroestrofía, pues, Rubén continúa la práctica de Espronceda y Zorrilla. Por todos estos rasgos, “Tú y yo” forma parte del aprendizaje poético del jovencísimo nicaragüense, que en este momento se alimenta de fuentes románticas. Podemos también sospechar que el inquieto y fértil joven poeta posiblemente se planteó la escala como reto personal. Con toda su carga romántica, no deja de ser ilustrativo encontrarla en quien poco después (1888) pasaría a encabezar el Modernismo con su libro Azul. La escala métrica en él ya ha perdido su temática característica de horror, sobrenaturalidad o pesadilla, para quedar reducida a un ejercicio métrico de temática amorosa y ligera. 3. Huida del ritmo regular: la experimentación rítmica El ataque de Zorrilla en 1884 a la escala métrica muestra su finísima sensibilidad literaria. Aunque reconoce en quien la cultiva la habilidad versificatoria, la califica de “alarde”, y critica en ella la amplificación de pensamientos y la filigrana métrica. Sobre todo, la considera como forma poemática de moda en torno a 1840; y cuarenta y cuatro años después, pasada ya su efervescencia, deplora haberla usado. (Ello no le impide volver a utilizarla en los momentos finales pero más gloriosos de su vida, en el solemne acto de su coronación como Poeta: en “Recuerdo del tiempo viejo”. La emplea tal vez como nostálgico emblema de su pasada capacidad poética y facilidad métrica. Pero aun en esas patéticas circunstancias de exaltación externa y conciencia interna de declive, la genialidad de Zorrilla le conduce a emplear la escala de manera estrófica, en una última y hermosa innovación). Pero hacia 1884, cuando Zorrilla ataca la escala métrica y Rubén Darío está escribiendo la suya, estaban variando muchas —246—
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cosas en la poesía occidental y en la española, y todas iban en la dirección de flexibilizar el ritmo, hacerlo cambiante, imprevisible incluso. La escala, con su sistemática polimetría, tenía que resultar anacrónica. Recordemos que Walt Whitman publica Leaves of Grass entre 1855 y 1892. Que el verslibrisme francés cuaja en textos entre 1886 y 1888. Que en 1885 aparece En las orillas del Sar, de Rosalía de Castro, donde –como hemos analizado en otro lugar–32 se condensan las rupturas rítmicas románticas (mezcla de metros pares e impares en la estrofa; fractura de la estrofa) e incluso aparece algún metro nuevo (18 sílabas) y, sobre todo, alguna forma versolibrista. Recuérdese también que lo que hemos llamado “heterometría cambiante”, surgida en el siglo XVIII, intensifica su presencia en Bécquer (1836-1870; Rimas, escrito hacia 1867) y en Rosalía. Y, por último, tengamos presente que en 1892, ocho años después de las duras palabras de Zorrilla y sólo tres después de su “Recuerdo del tiempo viejo”, aparecerá el verso de cláusulas libres en José Asunción Silva.33 No seríamos, sin embargo, justos con la escala métrica de los años 1828-1889 si no viéramos precisamente en ella, en la fastuosidad de su polimetría, una búsqueda del contraste rítmico sucesivo, en el inquieto ir pasando de unos metros a otros. No en balde surge en Victor Hugo en un momento personal de intensa indagación rítmica. Incluso en la versión heteroestrófica de la escala, que los poetas hispánicos realizan siempre (salvo Avellaneda), podemos ver un debilitamiento de la estrofa, rasgo que irá acentuándose en las décadas siguientes (Rosalía, p. ej.) hasta desembocar en las series versolibristas.
32 33
I. Paraíso (1986, 11: 285-293). Sobre la historia y la tipología del verso libre en lengua española, cfr.: María Victoria Utrera Torremocha (2001) e Isabel Paraíso (1985). Para un enmarque del verso libre en la versificación irregular occidental, véase también Esteban Torre (1999: 15-26).
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Y, por último, señalemos que esa «poésie pour les yeux» que, en palabras de un contemporáneo34 de Victor Hugo es la escala (con su tipografía creciente y decreciente, que pone a prueba la habilidad del linotipista), constituye un importantísímo precedente de Mallarmé («Jamais un coup de dé n’abolira le hasard») y de toda la poesía visual de las Vanguardias. Dentro de la amplia serie de poemas mixtos que surcan toda la Literatura, la escala métrica constituye, sin duda, un caso de brillantez extrema.
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Un crítico en Le Globe, enero de 1929. Apud Pierre Albouy, cit.: 1229.
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—“La audacia métrica de Rosalía de Castro (En las orillas del Sar)”. Actas do Congreso internacional de estudios sobre Rosalía de Castro e o seu tempo. Universidade de Santiago de Compostela, 1986, t. II: 285-293). —La métrica española en su contexto románico. Madrid, Arco / Libros, 2000. SAAVEDRA MOLINA Julio: Tres grandes metros: el Eneasílabo, el Tredecasílabo y el Endecasílabo. Tirada aparte de Anales de la Universidad de Chile, 1946. TORRE, Esteban: El ritmo del verso. Murcia, Universidad de Murcia, 1999. UTRERA TORREMOCHA, María Victoria: Historia y teoría del verso libre. Sevilla, Padilla Libros, 2001. ZORRILLA, José: Obras Completas, 2 vols. Ordenación, prólogo y notas de Narciso Alonso Cortés. Valladolid, Librería Santaré, 1943.
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PROTEO EN METRO. LA POESÍA DE LUIS ANTONIO DE VILLENA
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L
a obra lírica de Luis Antonio de Villena se apoya en el afán de llevar a la realidad vital los ideales más elevados del arte y, recíprocamente, de colmar éstos con la experiencia cotidiana. La exigencia idealista que el arte plasma y que Villena persigue en su poesía se corresponde bien con unas formas perfeccionistas que logren una armonía bien alejada de las formas con que la vida inmanente se expresa. Formas que, por otro lado, Villena no desea olvidar, porque en la realidad más pedestre descubre motivos poéticos. Y así, su poesía encuentra la unión de las formas de la tradición más artificiosa, que no desecha la vanguardia, junto a las maneras de lo coloquial. Y lo más llamativo es que es la prosodia más cercana a un registro coloquial –«leer como quien habla», dice el autor– la que desenvuelve los ritmos clásicos, pero que paradójicamente se ven rotos, quebrados por la configuración métrica. En una entrevista de 1992 comentaba Villena los intentos de renovación métrica de su poesía: yo tenía la idea de que el poema tenía que ser básicamente un ritmo, pero un ritmo creado en el propio poema. Cada poema tiene que tener un ritmo. A mí me gustaba mucho –pero es aplicable no sólo al ritmo sino al poema en general– la mezcla entre lo muy cotidiano y lo muy alambicado. [...] Y también me apetecía que el poema tuviera algo coloquial –que se pudiera leer como quien
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habla– pero al mismo tiempo con un ritmo que rompiera el ritmo del habla y que introdujera el ritmo de la literatura, el ritmo de la cadencia (Le Bigot, 1992: 87).
Las palabras del autor apuntan a la característica básica de su ritmo poético: el entrelazado de las exigencias métricas que tradicionalmente han delimitado distintas estructuras. Como habremos de ver, en un mismo poema coinciden los rasgos de la prosa poética con los de la silva, o los del verso libre y los del soneto. Integra todas estas formas, que permanecen reconocibles, pero en tensión con aquellas otras supuestamente incompatibles, con lo que la diferenciación entre estructuras a través de la clasificación métrica queda en entredicho y, sin embargo, sus criterios permanecen, aún más destacados en el collage de rasgos que se mezclan sin solución y se enfrentan sin ella y que es un poema de Villena. Sobre esta sanción que destaca los modelos a la vez que los rebaja ha escrito Túa Blesa: Desde aquí llega la reconstrucción de un tipo de texto que deja atrás la oposición [...], el sistema, por cuanto hay algún poema que es tanto lo uno como lo otro, las dos cosas a un tiempo y, sobre todo, algo más que todo eso. Y habrá que conceder a estas prácticas de escritura el que llevan a cabo la deconstrucción de todo un sistema, no sólo el del caso específico que representan, sino, en último término, el de toda tipología textual y la posibilidad misma de establecerla. Por otra parte, los textos [...] que cumplen esta desestabilización del sistema literario [...] serían de verdad los auténticamente literarios si se acepta la idea de Maurice Blanchot, leída en su [...] El libro que vendrá, según la cual «la esencia de la literatura consiste en escapar a toda determinación esencial, a toda afirmación que la estabilice o realice» [...], textos que además hacen exhibición de esa fuga al consignar el nombre de la determinación a la que escapan. Nos enseñan, por último [...] que el ser un texto ejemplo de un determinado tipo es el resultado de haberse sometido a un conjunto de prescripciones sobre cómo han de organizarse algunos de sus elementos compositivos, pero también que tales prescripciones contienen en sí mismas su propia cláusula de prescripción, si bien
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de un modo según el cual su prescripción no impide, más allá de ella, la inscripción de su prescripciones en la escritura. Prescribir: decretar y caducar. A la vez (Blesa, 2001: 231).
La poesía de Villena fluye entre una pulsión de vida y una pulsión de muerte. La poesía es alienación, caos del sinsentido, el otro mundo de la imaginación y de la palabra sin lógica, representadas como muerte. Pero tensa su poesía en la búsqueda de un orden platónico que le aclare la distinción entre idea y realidad, un orden racional que delimite las fronteras lógicas entre realidad y ficción, donde luz y verano, vida, belleza y placer se muestren pulidos en su transparencia, significativa y ordenadamente opuestos a la vejez y la muerte que, no obstante, siempre vuelven, como pálida imagen del caos sin tiempo ni rostro, imagen de otro lado indefinible que no pertenece a la vida ni a la muerte porque no está, como ellas, sometido a la temporalidad, pero asimilado a la muerte por la tosca mirada de la vida. Vida y muerte son palabras, conceptos, pertenecen a este lado, el de la razón, el tiempo y el sentido. El poeta no debe morir; el poeta debe sumergirse en el sinsentido. Y no obstante, este espacio concebido como muerte puede ser para Villena el único no lugar donde escapar a ésta y encontrar la vida que no se halla en la vida de los límites racionales. Si para algunos pensadores «el acto creador del poeta significa precisamente la ordenación –entre otras cosas, rítmica– de un universo que se les presenta como caos» (Spang, 1983: 108), la poesía de Villena es la pugna por la ordenación en unas formas clásicas, que lo vinculen a una segura tradición heredada, junto al desasosiego de librarse de sus ataduras para entrar en el caos que todo lo subsuma, sin que por ello se fundan los opuestos –orden y libertad– en armonía, sino que bullen torturados en el texto –vida y muerte, realidad y ficción, tiempo y eternidad–, como los opuestos se unen sin fundirse en la tensión del oxímoron. Esta polivalencia métrica de la poesía de Villena se atestigua en las afirmaciones de algunos críticos. J.M. Godoy opina que —253—
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«para conseguir efectos rítmicos, Villena, salvo algunas excepciones, se despreocupa de las formas tradicionales, utilizando el verso libre que, juntamente con los bruscos encabalgamientos y la disposición gráfica de los versos, hace que sus poemas se parezcan, como en la mejor tradición simbolista y surrealista, a la prosa poética» (Godoy, 1997: 22). Pero José Gutiérrez habla del «peculiar ritmo falsamente prosaico (predominando el alejandrino, como en toda la poesía de Luis Antonio de Villena)» (Gutiérrez, 1982: s. p.) al tratar de uno de sus poemarios (Huir del Invierno). Por su parte, J.L. García Martín comenta al tratar El viaje a Bizancio: «A un poeta tan dado a derramarse en el irregular verso libre o en la enjoyada prosa poética, el soneto le supuso una contención intensificadora» (García Martín, 1984: 67). Y el propio Villena, en respuesta a las palabras del crítico habla de la suya como de «una poesía no escrita en versos regulares, que ha necesitado huir de los sabidos soniquetes de endecasílabos o alejandrinos clásicos, porque toda métrica usual no sólo conlleva un ritmo, sino un mundo» (Villena, 1985: 78). Para más abajo, y en aparente contradicción, aportar una clave: «Busca, desde la base regular, irregularizada en las combinaciones, una sensación (coloquial o retórica) distinta» (ibíd.). Lo cierto es que todos llevan razón. Porque hay poemas villenianos que son y no son sonetos, compuestos por versos libres pero más bien endecasílabos y alejandrinos. Y así, algunos poemas de Sublime Solarium parecen a primera vista poemas en prosa. Es la impresión que produce “Ibn Arabi busca la rosa en el laberinto” (sigo la recopilación de sus libros La Belleza impura). La disposición y longitud de las estrofas, así como la compleción casi perfecta de la caja de escritura, dan la impresión a una mirada desatenta de que se halla ante un poema en prosa. La regularidad silábica de los grupos fónicos y el ritmo lógico-lingüístico, producido por la semejanza de estructuras sintácticas, corroboran esta intuición. Transcribo el fragmento inicial: Destroza el mar la noche cual pálidos amantes que en sus lechos vacíos de la boca exhalasen arroyos como nardos.
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Despide el mar sus vahos en la noche de estío, y fresas en los labios dos amantes desnudos caminan por la arena, dibujos de oxiacantos en los dientes, como nieva en tu cuerpo cuando el arpa se quiebra por las noches en tus patios vacíos. Rompe la espuma negro silencio de océanos como manos ardientes tracean caracolas y retuercen las urnas de los fondos donde su luz desgranan aromas como abismos.
Las tres comienzan por la estructura V-Sto-Comp. Y todas incorporan una proposición comparativa. La monotonía se evita por la incorporación de otro tipo de proposiciones como amplificatio. Si se atiende a la configuración de cada unidad, la mayor longitud de la primera línea, que ocupa toda la caja de escritura, seguida por una o más líneas que comienzan tras una sangrada de tres espacios (cada renglón es un verso siempre y cuando éste no comience con sangrada, vid. Spang, 1983: 78), lleva a la conclusión de que cada estrofa estaría constituida por un único versículo mayor, según I. Paraíso (1985), verso libre que supera las veinticinco sílabas, basado en un ritmo de pensamiento. Éste se apoya básicamente en los paralelismos sintácticos, las repeticiones léxicas y las asociaciones semánticas, que entretejen una red por la que la noche, el mar y el amor se imbrican, donde cada término recoge múltiples sentidos: «destroza el mar la noche», «despide el mar sus vahos en la noche de estío», «rompe la espuma negro silencio de océanos», y así el mar y la noche se asimilan en el negro silencio, como los vahos y la espuma se asemejan a la nieve en la noche sobre los cuerpos amantes. Los fondos y abismos marinos son los de la noche, pero también profundos como los patios y lechos vacíos de las bocas que exhalan arroyos, que son fresas en los labios pero mejor dibujos de oxiacantos, laberínticos como las caracolas del mar que dibujan los amantes o como los abismos del cuerpo, que son los del mar: «que en sus lechos vacíos de la boca exhalasen arroyos como nardos», «las urnas de los fondos donde su luz desgranan —255—
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aromas como abismos», que se corresponden a las imágenes del mar: «despide el mar sus vahos en la noche de estío». Una nueva lectura, siguiendo un modelo lógico-sintáctico de recitado, lleva a la observación de que los grupos fónicos son secuencias heptasilábicas y endecasilábicas, que forman una silva libre. Isabel Paraíso la describe como poema en verso libre de base tradicional, y basada en ritmos fónicos (vid. Paraíso, 1985: 395). Su medición, a diferencia de la de versos libres de ritmo de pensamiento, se ajusta a los cánones tradicionales (se suma o resta sílaba según la palabra final de verso sea oxítona o proparoxítona). La rima en nuestro poema es suelta asonante, que marco en cursiva (para facilitar la visualización, señalo en cursiva todos los fonemas a partir de la última vocal acentuada, aunque sean rimas en asonancia). También señalo en cursiva las armonías vocálicas, aunque no sean rimas secuenciales. Respeto la distribución versal y estrófica del poema, pero lo configuro de manera que se muestren los ritmos más claramente (por supuesto, las secuencias heptasilábicas podrían agruparse en alejandrinos): Destroza el mar la noche cual pálidos amantes que en sus lechos vacíos de la boca exhalasen arroyos como nardos. Despide el mar su vahos en la noche de estío, y fresas en los labios dos amantes desnudos caminan por la arena, Dibujos de oxiacantos en los dientes, como nieva en tu cuerpo cuando el arpa se quiebra por las noches en tus patios vacíos. Rompe la espuma negro silencio de océanos
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como manos ardientes tracean caracolas y retuercen las urnas de los fondos donde su luz desgranan aromas como abismos.
Es interesante observar que las armonías vocálicas interiores dividen los versos endecasílabos en un heptasílabo y un tetrasílabo, con lo que su posición es altamente rítmica, muy acorde con el ritmo del poema. La secuencia «Rompe la espuma negro silencio de océanos» admite la división tras “espuma”, con lo que no se rompe el sirrema, por otra parte enlazado por la armonía vocálica e-o; las secuencias serían igualmente de número impar de sílabas, compuestas en tal caso por un pentasílabo y un eneasílabo (se mantiene el hiato en «de océanos», partiendo de la base de que tales secuencias ocultan ritmos tradicionales, que incluyen las licencias métricas). Si se desea continuar el análisis, se observará que todo el texto es divisible en unidades de número de sílabas impar (raramente aparece alguna octosilábica o hexasilábica), con rimas frecuentes que confirman el ritmo silábico. La rima es especialmente interesante en sus juegos. La asonancia i-o abre y cierra en poema (vacíos-olvido), y aparece a lo largo de todo él, logrando una unidad sobre la división en estrofas, que vienen en buena medida marcadas por la aparición de nuevas rimas, que dan variedad y diferencia a unas y otras. Las secuencias heptasílabicas vienen acentuadas predominantemente en segunda o tercera y sexta sílabas, por lo que es llamativa la acentuación en cuarta sobre mar, quizá la palabra más representativa del poemario, en «Destroza el mar la noche» y «Despide el mar sus vahos», secuencias paralelas sintácticamente y que inician estrofa. En este sentido, la acentuación en cuarta sílaba de “espumas” y “luz”, en la tercera estrofa, sobre la vocal u (y, a su vez, con “urnas”) enlaza ambas palabras y su relación con el mar. Atendiendo a la caja de escritura, son poemas en prosa, por ejemplo, “Paulo Orosio al declinar su historia” y “El poeta Helvio Cinna expresa la melancolía” (Sublime Solarium). En el —257—
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primero predomina la secuencia heptasilábica, agrupada en secuencias alejandrinas, combinadas con otras endecasilábicas. En los primeros versos el ritmo acentual propicia la armonía fónica entre “ignora-misericordia” y “amante-enramajes-blancos” Ignora el amante / la misericordia / como la noche ignora / los enramajes blancos. Paseamos plegarias / por un mundo encendido, / donde es flor la azucena / o la forma que tibiamente desmaya / los límites de un vaso. / Me dijiste la nieve / entre el fulgor del sol, / el precipicio dulce / donde habitan tus labios, / cálida cornalina / que mancha en la sangre turgente / mis pálidos escudos, / pulseras de niñas / que he amado en la noche / o suavidad de aljamas / donde anidan deseos / como indóciles pájaros. / Yo soy como la llama sin descanso, / precipitado aluvión / que detienen tus ojos, / arena tus caderas / donde cimbrea omnímoda en el lirio / la caña de tu talle, / tus fúlgidos labios… La inútil aquiescencia de los siglos, / el polvo de las dunas como historia, / tu solitaria voz / clamando entre los mórbidos rosales / más allá del espacio. / El resto lo conoces. Ignora el amante la misericordia / como la noche ignora / los enramajes blancos.
“El poeta Helvio Cinna expresa la melancolía” es poema en prosa que se apoya en la repetición dispersa con variaciones de los primeros sintagmas del texto («Una tarde de abril es igual a una dalia a un ramo de tristeza a una indivisada sombra sobre el claror del agua», «a un ramo de tristeza», «a una sombra alargada», «una tarde de seda», «una dalia en tus ojos un ramo de tristreza una indivisada pálida sombra», «una tarde de abril», «a una sombra de lluvia», «a una dalia...»), insertos en una enumeración de sintagmas que se suceden con asíndeton alternando con la reiteración de la preposición “a” o del sirrema “es igual a”. El ritmo que este esquema repetitivo, lleno de paralelismos cuya monotonía se rompe por la amplificatio por inserción de proposiciones, se ve no obstante corroborado porque las unidades —258—
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lógico-sintácticas corresponden fundamentalmente a secuencias de número impar, y por la presencia de rima. Nuevamente el poema es una silva, oculta tras la forma de poema en prosa. Una tarde de abril / es igual a una dalia / a un ramo de tristeza / a una indivisada sombra /sobre el claror del agua /piove su le tue ciglia / nere tambor de tu garganta / palimpsesto tus labios / de infinitas plegarias /dos leones de nácar / a un ramo de tristeza / a un silabario etrusco / donde los días yacen / como frutas acedas / a una sombra alargada / a una esperanza oblonga / una tarde de seda / balsámicas y grises / mañanas de febrero / cuando late nuestro corazón / un poco más aceleradamente / una dalia en tus ojos / un ramo de tristeza / una indivisada pálida sombra. / Y tendida en su concha de espumas / la diosa fenece / rojas de erizo de mar / las altas estancias / donde las rosas provocan placeres / una tarde de abril / la luz de una pupila / un retrato barroco de serpientes / y frutas tus labios o el otoño / una perla en la copa / es igual / a una sombra de lluvia / es igual / a una diosa de cera / es igual / a un espejo de oro / a una bruma / a una voz / a una dalia...
Destaca la ruptura del número impar tras el único punto del texto. Supone el fin de la enumeración anterior, cerrado por una secuencia paralela a la que lo inicia. Y seguidamente la mención del acontecimiento en torno al cual gira todo el poema (y todo el libro): «Y tendida en su concha de espumas / la diosa fenece». El cambio rítmico resulta entonces muy expresivo y aísla este periodo central del poema. Ciertamente cabría otra posible medición, buscando el número impar: «Y tendida en su concha / de espumas la diosa fenece». Pero es que la disposición del texto en prosa no es gratuita: el lector tiende a recitar siguiendo una segmentación lógico-sintáctica. Por ello realizo la división en secuencias siguiendo la segmentación recitativa de la prosa más que la del verso tradicional, la cual viene impuesta por la disposición gráfica de los versos (y de ahí los problemas que el encabalgamiento plantea). Es destacable también la aceleración del ritmo en los últimas secuencias, apoyándose en metros heptasilábicos y sus quebrados tetrasílabos, así como el juego del quiasmo fónico en la línea seis («a una sombra alargada, a una esperanza oblonga»). —259—
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Interesa plantear el problema del desfase entre el ritmo lógicosintáctico de la prosa y el ritmo fónico del verso. Señala I. Paraíso la diferencia entre el ritmo del verso y de la prosa poética: Tenemos verso cuando hay predominio de los ritmos cuantitativo, acentual y, secundariamente, de timbre (rima), siempre que estos ritmos se presenten con fuerte periodicidad. En el verso es imprescindible también la combinación de, al menos, dos de los tipos rítmicos antedichos: el cuantitativo y el acentual. Y también es importante el desfase entre el esquema rítmico versal y el esquema lingüístico. [...] En la verdadera prosa poética es frecuente que los ritmos cuantitativo, acentual y timbral aparezcan, pero no lo hacen con periodicidad suficiente para que el esquema rítmico se imponga sobre el lingüístico (Paraíso, 1976: 119).
Lo mismo apunta Domínguez Caparrós respecto a la distinción entre prosa y verso: Lo fundamental para comprender lo que distingue la prosa del verso es observar que la división de las unidades rítmicas de la prosa (periodos y miembros de los periodos) se funda en razones lógico-sintácticas, mientras que en el verso el esquema rítmico impone su división; por eso el verso no tiene que coincidir con periodo, miembro de periodo o cualquier otra unidad lógico-sintáctica; si se da coincidencia, ésta será casual (Domínguez Caparrós, 1993: 29).
La configuración exterior del poema es en prosa, por lo que el lector tiende a recitarlo siguiendo los patrones lógico-sintácticos. Sin embargo, este ritmo se ve quebrado por la aparición tan frecuente de ritmos fónicos (isosilabismo, rima), que lleva a calificar el texto como silva. No obstante, la ruptura es también a la inversa, porque si se descubren ritmos de tipo par (en grupos fónicos de medida silábica impar) en el texto, es porque la lectura –que no cuenta con la ayuda visual que la disposición tradicional del verso supone y que sigue el modelo de recitado de la prosa– los incluye. Es decir, que coinciden de un modo muy —260—
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regular unidad lógico-sintáctica y verso. Este caso conculca la condición que Domínguez Caparrós anotaba para el verso: aquí la coincidencia no es casual. Todo esto supone una prescripción del canon, a la vez que un acercamiento de las normas respectivas del verso y la prosa: la unidad lógico-sintáctica-verso es el lugar de encuentro. Allí donde la prosa se acerca más al verso, es también el punto donde el verso tradicional se parece más a la prosa. Y no obstante permanecen en sus diferencias, contrastando. Lo mismo ocurre con los poemas en versos libres. Dice Villena en la entrevista antes citada: «los versos no terminan al final del verso sino que encabalgan con el siguiente. Y las rimas no están al final del verso sino en la mitad del verso, son rimas “mediales”. En mi poesía, hay muchas rimas mediales» (Le Bigot, 1992: 88). “Un arte de vida” (Hymnica) es un poema en verso libre. Sin embargo, si seguimos las unidades lógico-sintácticas —aquí en buena medida marcadas por los signos de puntuación— hallamos de nuevo versos heptasílabos y endecasílabos. Las armonías vocálicas de un verso libre son aquí auténticas rimas que acentúan el ritmo silábico:
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Vivir sin hacer nada. / Cuidar lo que no importa, tu corbata de tarde, / la carta que le escribes a un amigo, / la opinión sobre un lienzo, / que dirás en la charla, / pero que no tendrás el torpe gusto / de pretender escrita. / Beber, / que es un placer efímero. / Amar el sol y desear veranos, / y el invierno lentísimo / que invita a la nostalgia / (¿de dónde esa nostalgia?). / Salir todas las noches, / arreglarte el foulard / con cariño esmerado ante el espejo, / embriagarte en belleza cuanto puedas, / perseguir y anhelar jóvenes cuerpos, / llanuras prodigiosas, / todo el mundo que cabe en tanta euritmia. / Dejar de amanecida / tan fantásticos lechos, / y olerte las manos mientras buscas taxi, / gozando en la memoria, / porque hablan de vellos y delicias / y escondidos lugares, / y perfumes sin nombre, / dulces como los cuerpos. / ¡Qué frío amanecer entonces, /
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qué triste es, qué bello! / Las sábanas te acogerán después, / un tanto yermas, / y esperarás el sueño. Del día que vendrá no sabes nada. / (no consultas oráculos.) / Te quemarán hastíos y emociones, / tertulias y bellezas, / las rosas de un banquete suntuario, / y las viejas callejas, / donde se siente todo, / en el verano, / como un aroma intenso. / Vivir sin hacer nada. / Cuidar lo que no importa. / Y si todo va mal, / si al final todo es duro, / como Verlaine, /saber ser el rey / de un palacio de invierno.
La libertad del verso libre se ve constreñida por el ritmo más estricto de la silva y, a la inversa, los metros tradicionales son vulnerados por la libertad del versolibrismo. Vanguardia y tradición, si bien ni el verso libre es ya hoy tan vanguardista, ni la silva es estructura rígida. Nuevamente, como en los poemas anteriores, el autor juega con los cánones métricos. El encabalgamiento ha supuesto para los estudiosos fuente de controversia. Problema debatido al tratar del encabalgamiento es el de la existencia, o no, de pausa en el verso que separa unidades sintácticas [...]. Porque el poema es música, ritmo fónico, pero también comunicación de ritmos lingüísticos, con sus exigencias. Por eso, quienes dicen que en el encabalgamiento se hace siempre pausa tienen razón: están hablando de un ejemplo de ejecución ajustado al modelo de ejecución rítmica. Y, además, podrían decir que, si no se hace pausa, se perdería precisamente el efecto estilístico, cifrado frecuentemente en la sorpresa, la desautomatización de sintagmas normales de la lengua. Quienes dicen que no se hace pausa están hablando de un ejemplo de ejecución fundado en un modelo de ejecución como el de la prosa. Y para ellos el efecto estilístico estaría precisamente en el contraste con los versos que se ajustan a la segmentación sintáctica (Domínguez Caparrós, 1993: 107-109).
En “Un arte de vida” se superponen dos juegos. Atendiendo a la estructuración en versos libres, asistimos a encabalgamientos (vv. 4-5, 6-7, 18-19, 22-23) que plantean el problema descrito —262—
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por Domínguez Caparrós. Como silva, el poema parece estar constituido por versos que han sido quebrados en dos renglones diferentes. De hecho, para que la medida se ajuste, es necesario hacer sinalefa entre dos renglones distintos porque, originariamente, antes de la hipotética división gráfica del verso, las habría habido: «(¿de dónde - esa nostalgia?)» (vv. 7-8), «gozando - en la memoria» (vv. 14-15) entre otros. Es decir, aquí el criterio lógico-sintáctico, propio de la interpretación de la prosa, y que no hace pausa entre dos versos aquí libres, es aquel que paradójicamente contribuye a la captación auditiva del ritmo fónico de los versos tradicionales de la silva, pues mantiene su unidad y las sinalefas entre renglones, como hemos visto. La interpretación rítmica, que sigue las pausas que la disposición gráfica visualiza, en cambio, rompe el ritmo fónico de la silva, mientras que su rentabilidad es más bien escasa ante versos libres que admiten con facilidad la fluctuación silábica. No obstante, la interpretación rítmica mantiene el versolibrismo, que de otra forma quedaría anulado por los ritmos de la silva, sus rimas, y el fácil sonsonete creado al coincidir grupo lógico-sintáctico con verso. Por ello, es llamativo que sea precisamente aquello de lo que el verso libre ha huido, es decir, los límites métricos, los que ahora lo mantengan presente, aunque tan sólo sea gracias a la pausa a la que la disposición gráfica de los versos obliga. El problema se mantiene, pues, pero con los términos invertidos: una interpretación rítmica, que haga pausa al final del verso tal como se dispone gráficamente, mantiene la libertad del verso libre. Una interpretación siguiendo los modelos prosísticos da lugar a una silva. La superposición de posibilidades métricas conduce a una potente musicalidad, muy especialmente si atendemos a la rima: “llama la atención la presencia de rimas internas en un mismo verso y aún más en una serie de versos: la multiplicación de esos fonemas determina la instauración de redes musicales y semánticas que se interpenetran en la trama del tejido poético” (Zimmermann, 1993: 127). La bi- y trimembraciones son frecuentes en Villena, como en —263—
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el verso final del poema visto, donde se juega con la armonía vocálica y la acentuación de “Verlaine” y “rey” (junto a “saber” “ser”) que divide el verso en tres miembros. Armonías internas como la de los versos 20-21, en á, se disponen rítmicamente: el endecasílabo «Del día que vendrá no sabes nada» queda dividido en una parte de siete (por su final oxítono) y otra de cinco, seguido de un heptasílabo, y el endecasílabo siguiente «Te quemarán hastíos y emociones» queda dividido en una parte de cinco y la siguiente de siete sílabas. El resultado es : 7-5-7-5-7. Juegos de este tipo se repiten en la musical poesía de Villena. Así, en los segundos hemistiquios de los versos 1 y 2 el acento en segunda sílaba provoca la armonía fónica paralela ar (“cuidar”-”carta”, a su vez con “tarde”, con presencia de fonemas dentales, como también en los versos 8-9: “arreglarte” “foulard”). En el verso 5, la división en heptasílabos viene confirmada por el paralelismo acentual en cuarta sobre los fonemas er (“pretender”, “placer”; en sexta cae en i: “escrita”, “efímero”), que se repite en el braquistiquio “Beber”, que separa y enlaza ambos heptasílabos. Y es que el poema no yerra en el verso 12: “todo el mundo que cabe en tanta euritmia”. Un juego muy interesante es el que aparece en “La mort de l’artiste” (Huir del invierno), también una silva libre bajo la apariencia de verso libre. Si atendemos a los versos siguientes (vv. 5-9): Los veladores saturados / de libros y tarjetas, / y lienzos sin corniche / —retratos de Serov y de Matisse— / aupados en las sillas / doradas Luis XIV. / Sobre el aparador, / bajo una luna gigantesca, / paquetes de Kedives / y ampollas de morfina /
La división actual de los versos presenta algunas curiosidades, como la pronunciación suave de la -e final en “Matisse” (posibilidad que ofrece la métrica francesa), como en “Kedives”, necesaria para lograr el endecasílabo, y para la rima con “corniche”. Lo interesante es que la rima entre “Serov” y “aparador” posibilita —264—
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la división del verso 6 en tres miembros de 7-7-5 sílabas respectivamente, de modo que el verso admite esta división tanto como la primera (o no dividirlo de ninguna manera, atendiendo al verso libre), sin que una excluya a las demás. La ambigüedad es mayor en los versos 29-33. La división posible en miembros, que sigue la disposición gráfica, podría ser: El vino del Rhin, la morfina, / los cabellos dorados / de los ángeles, / el olor del incienso, / Misia Sert / se aproxima, / los grandes decorados / del Pájaro de fuego, / Coco Chanel, / el invierno terrible, / la esmeralda / Dolguroki brillando / como un dolor pagano, /
Las múltiples trimembraciones, que siguen las pausas sintácticas y métricas, producen un juego de rimas muy potente (i-a, a-o, é, e-o). A esta posible estructuración se superpone otra que mantiene más fácilmente el ritmo de la silva y que juega con los encabalgamientos: El vino del Rhin, la morfina / los cabellos dorados de los ángeles, / el olor del incienso, / Misia Sert se aproxima, / los grandes decorados / del Pájaro de fuego, / Coco Chanel, / el invierno terrible, / la esmeralda Dolguroki brillando / como un dolor pagano /
Esta disposición permite la aparición de dos endecasílabos y un heptasílabo. Las palabras “dorados” y “Sert”, finales de verso y que presentan rima, parecerían perderse dentro del verso endecasílabo y heptasílabo, al no hacer pausa entre un renglón y otro; sin embargo, se superpone la disposición gráfica, con lo que su sonoridad y su fuerza de final de verso se mantienen porque el lector se ve obligado a una lectura en la que se entremezclan los valores de la estructuración gráfica con la de los ritmos que la lectura lógico-sintáctica conlleva. El texto de Villena presenta todas estas ambigüedades y su potencial rítmico, y el autor lo comenta en la entrevista mencionada. Se refiere a Hymnica, pero es extrapolable a su poesía toda: —265—
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Algún crítico lo señaló cuando salió el libro; se dio cuenta del engaño entre la apariencia tipográfica del poema y lo que en realidad el ritmo era. Entre los estudiosos del tema, algunos piensan que actualmente existe en la última poesía española, la de mi generación, una renovación muy grande de la métrica tradicional. Claro, los que siguen pensando a nivel de endecasílabos o alejandrinos, estos no lo entienden porque aquí ven endecasílabos rotos por la mitad; la verdad es que nadie pensaba escribir endecasílabos o alejandrinos sino al contrario potenciar el ritmo y no olvidarlo. [...] A mí me parece —no fui el primero en darme cuenta de esto— que las rimas mediales eran una forma distinta de sonido, porque hacen surgir la rima en un lugar donde no la espera el lector. Cuando la rima no cae al final del verso, el lector tiene ya una sorpresa porque no sabe en donde va a estar. Al ignorar donde cae ésta, el esquema musical del poema, se hace muy irregular, por lo tanto muy novedoso. Entonces, no responde a las estructuras tradicionales del uso de la rima (Le Bigot, 1992: 88-89).
La ambigüedad no se da sólo entre una configuración en verso libre y una subyacente en silvas. Se complica aún más si se introduce una tercera estructura. El poema “El durmiente” (El viaje a Bizancio) —que parece una respuesta al de Jorge Guillén del mismo título— es un soneto. La fluctuación en la medida de los versos (entre nueve y quince sílabas) y la aparición de rimas sueltas, que dan unidad al texto, pero que no siguen la distribución tradicional, hace pensar en la renovación de formas tradicionales que ha buscado Villena, en su afán de aunar vanguardia y tradición. De modo que el versolibrismo y el soneto se combinan en este poema. No obstante, si seguimos otra configuración interna, tal como hemos hecho hasta ahora, descubriremos nuevas posibilidades insertas dentro de la estructuración externa. Lo mismo puede decirse de poemas como “Fauno en el parque” (El viaje a Bizancio) o “Dios del amor” (La muerte únicamente). Transcribo el poema y señalo las rimas finales asonantes, pero superpongo otra división versal que conlleva nuevas rimas. Es interesante el paralelismo sintáctico y de rima en los versos 4 y 8, así como las armonías vocálicas en e-o de la tercera estrofa. El único acento antirrítmico, en el verso 12, es especialmente —266—
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expresivo como comienzo de epifonema. Sólo apunto como licencias reseñables la diéresis en “todo esplendor suave”, y quiza también en “El cuerpo se mueve”. Levemente en el sol / cruje un girar de esferas. / Un gozo se desprende de los árboles. / El agua bulle deliciosamente / y el aire orea / el silencio como un ave. / La mano busca tenue / el deseo del raso, / hay un volar de plumas en el cuarto / mientras el labio tiembla silencioso / y la vista desea / todo esplendor suave. / El cuerpo se mueve, / y el cabello se ondula vaporoso, / ajeno a los instantes, / presa del día el cuerpo y de sus oros. / ¡Qué importan los instantes! / Pura delicia joven, / el sol renueva al sueño. / ¡Y el amor continúa / palpitando en la carne!
La tensión rítmica entra en ebullición en “Somnium divos” (La muerte únicamente). En este poema se produce quizá un efecto inverso al de los textos anteriores. En éstos, las armonías internas se transforman en auténticas rimas finales de los versos de una silva, y su potencial métrico contribuye a que el ritmo latente, oculto, llegue a superar al que se propone por la disposición gráfica. En este poema, sin embargo, la recurrencia de la rima final de verso gráfico es muy poderosa, y supone una tensión entre dos configuraciones rítmicas, de las que quizá la propuesta por la configuración externa sea más contundente, matizada en su facilidad, no obstante, por la virtualidad de los otros juegos rítmicos que el poema incluye. Transcribo el poema. El ritmo que la configuración gráfica marca presenta dieciséis versos distribuidos en cuatro cuartetos, compuestos por versos fluctuantes, con rima asonante a-a en nueve de ellos. Junto a esta distribución, señalo la posible división en —267—
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versos de base impar, predominantemente heptasílabos —que pueden formar alejandrinos, como en otros poemas ya vistos—, y endecasílabos, aunque también algún pentasílabo y eneasílabo. No es totalmente regular, y aparece un verso de seis y otro de ocho sílabas. Era todo un desierto / de pura luz dorada. / Y su cuerpo era rubio, / como el ámbar de oro, / y la melena oscura, / y espesas y muy negras las pestañas. / Húmeda la boca; / profunda y más marina la mirada. / Desnudo, un arco portaba, / y sin carcaj, dos flechas. / Cayendo entre la arena brilladora, / herido joven cuya sangre roja / sobre la piel aurífera / serpenteaba. / Cabello entre los labios, ya tendido. / Música en aroma derramada. / Yo con arco también, / e invisible montura, / ahí estaba delante. / Acaso ajorca en lóbulo, / dicha en el alma. / Había dos palmeras. / Y un aura que lo áureo oreaba. / No sé quién fuese nadie, / ni cuál toda la fábula. Descabalgué. / Tomé su cuerpo herido, / lo besé deleitado, / y me tintó —sabía dulce— / la escarlata de su sangre. / Perfecto era aquel hermoso cuerpo, / y cual el aire, fulguraba. / Y ése mi hondo beso, / no fue elección (lo sé) sino destino.
Algunos versos admiten posibles bi- y trimembraciones. El verso “ahí estaba delante”, dividido entre los versos gráficos 910, pudiera no serlo: Yo con arco también, / e invisible montura, ahí estaba / delante. / Acaso ajorca en lóbulo, / dicha en el alma. /
El primero estaría formado por una secuencia heptasilábica más una endecasilábica (con hiato favorecido por el acento en “ahí”), y el siguiente por tres miembros de 3-7-5 sílabas cada uno. Que “delante” forme un braquistiquio viene favorecido por —268—
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la independencia de miembros como “descabalgué” (v. 13) o “serpenteaba” (v. 7). Del mismo modo, el eneasílabo “y me tintó —sabía dulce—” podría ser dos pentasílabos, o el endecasílabo final pudiera considerarse un heptasílabo más un pentasílabo. Es interesante, por otra parte, el juego fónico e-o-e / e-o-e, en segunda, cuarta y sexta de las secuencias heptasilábica y endecasilábica (¿o bien 7-7-5?) del verso final (con hiato en la primera), que aísla y realza las palabras “sino destino”, en las que no sólo se juega com la distinta rima i-o, sino con la homofonía de la conjunción y el sustantivo “sino”, que se repite semánticamente en “destino”. Si nos atenemos a la diposición gráfica, vemos que los versos 1-4, 5, 8, 9, 11, 12, 14 y 15, están formados por dos hemistiquios, no siempre de la misma medida. Los versos 10 y 13 responden casi a lo mismo, más allá de los braquistios. De estos versos, el 1, 3, 4, 8, 9, 10, 11, 12 y 15 riman en asonancia. Hay que sumar las rimas mediales en el verso 5 y la final del trimembre verso 7. La configuración en versos fluctuantes, divididos en hemistiquios y de rima asonante continuada, recuerda ineludiblemente al cantar de gesta. Lo cual no es extraño si consideramos el aspecto narrativo y caballeresco del poema. Naturalmente, es un simulacro evidenciado, por ejemplo, por la facilidad de la rima a-a, tan manida. La irregularidad de este poema, que no es fiel al tradicional, declara precisamente aquello que quiere recordar, el metro del cantar de gesta, pero que no es. Este poema no es un cantar de gesta, aunque su máscara nos recuerde aquellos cantares. No es un intento de renovación, aunque por la intromisión de versos (vv. 6, 7, 13, 14, 16) que rompen la monotonía del metro del cantar, así como por el ritmo latente de una silva, pudiera parecerlo. Es más bien un montaje. El poema es un artilugio que contiene otras piezas: la silva, el cuarteto, el versolibrismo. No es ninguno de ellos, pero juega con la apariencia de todos. En los otros poemas vistos, el juego de formas parecía buscar ritmos propios, a través de la superposición y la mezcla, para el poema, tal como indicara Villena en sus declaraciones. En este el juego se convierte mascarada, de modo que todo es posible: —269—
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la efectividad de los multiplicidades rítmicas, pero también la deconstrucción de sus técnicas. Y de toda la sutilidad que los poetas reclaman para sí en la elaboración de un buen poema, lleno de un ritmo presente pero no ostentoso, con que se glorian los poetas de versos libres, pero también los de versos tradicionales, que los renuevan huyendo siempre de las rimas fáciles, las metáforas manidas, etc. Este poema, lo sepa o no el autor, es una parodia de los afanes renovadores de tantos poetas, incluido él mismo. Y sin embargo, en un nuevo giro del texto lírico, inaprensible e indeterminable, va más allá de la deconstrucción, englobándola. Es un poema (con toda la ambigüedad de la expresión, como no podía ser de otra forma). A lo largo de este trabajo, hemos intentado seguir cómo los patrones métricos de la versificación ofrecen unas formas poéticas que se ven contaminadas por otros ritmos que brotan si se siguen pautas lógico-sintácticas. La poesía de Villena adopta las formas métricas arraigadas en la creación literaria, sea de tradición clásica o vanguardista, para seguidamente boicotearlas desde dentro con la filtración de otros ritmos latentes. El poema adopta una forma que deviene en otra. Ante quienes quieren apresarlo, se transforma, desliza y escapa, como Proteo, el metro desmedido.
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LA POESÍA DE LUIS ANTONIO DE VILLENA
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LE BIGOT, CLAUDE (1992): “Entrevista a Luis Antonio de Villena”, Les Langues Neolatines, 283, pp. 83-92. PARAÍSO, ISABEL (1976): Teoría del ritmo de la prosa. Barcelona, Planeta. —(1985): El verso libre hispánico. Madrid, Gredos. SPANG , Kurt (1983): Ritmo y versificación. Teoría y práctica del análisis métrico y rítmico. Murcia, Universidad. VILLENA, LUIS ANTONIO (1985): “Precisiones críticas a García Martín (un homenaje)”, Fin de Siglo, 9-10, p. 78. —(1996): La Belleza impura. Madrid, Visor. ZIMMERMANN, MARIE-CLAIRE (1993): “Tres voces y su territorio poético. Les Langues Neolatines, 284, pp. 119-130
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SÍLABAS Y ACENTOS FUNDAMENTOS FONÉTICOS Y FONOLÓGICOS DEL RITMO
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as sílabas y los acentos son, sin duda alguna, los elementos básicos del metro, y constituyen el armazón rítmico del verso (Torre 1999: 102). En el cómputo silábico y en el análisis de la distribución acentual residirían, en fin de cuentas, la clave y el objetivo último de los estudios métricos y rítmicos. La Métrica, o la Rítmica, sería, por consiguiente, la ciencia más sencilla del mundo. Y realmente lo es, al menos en lo que concierne a la vivencia personal y concreta de la experiencia literaria, tanto en el terreno de la creación poética como en el de la espontánea y atenta lectura. Las cosas se complican cuando la obra poética deja de ser objeto de intuitivo deleite y se convierte en materia de disección, definición y taxonomía. El concepto de sílaba llega a hacerse sumamente problemático, en especial cuando se introduce el término de sílaba métrica para eludir, por ejemplo, la espinosa cuestión de las vocales en contacto. Navegando en el inseguro mar de las sinalefas y las dialefas, las diéresis y las sinéresis, la sílaba métrica se nos presenta a veces como un ente de razón, totalmente desvinculado de la realidad acústica. El número de sílabas –el número exacto de las sílabas de un verso– desciende claramente, en el sentir de algunos autores, al rango de lo meramente convencional. —273—
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Del mismo modo, en lo que respecta al acento, las cualidades físicas del sonido –tono, timbre, intensidad– no son tenidas suficientemente en cuenta, y se otorga en cambio una excesiva importancia a la duración silábica, identificándose las sílabas tónicas con las sílabas largas de la tradición grecolatina, y las átonas con las breves. En un reciente trabajo (Pardo 2001: 98), se ha llegado a afirmar que, en el endecasílabo común, la sílaba sexta acentuada, si pertenece a palabra oxítona, conserva «algo del alargamiento de sílaba acentuada final de verso o de hemistiquio», y que incluso el mismo recitado «parece confirmar la diferencia de duración». Tengo el propósito de ocuparme, en sucesivos artículos, de estas y otras cuestiones relativas a la escansión del verso y el cómputo silábico, que ya fueron objeto de atención en anteriores trabajos (Torre 1999 y 2000). En este número inaugural de la revista Rhythmica, me limitaré a reiterarme en algunos aspectos fundamentales de la ciencia métrica, partiendo de ciertas aportaciones a la teoría del ritmo que provienen tanto de la Fonética Acústica, de base experimental, como de la Fonología Métrica, de filiación estructuralista y generativista. En el dominio de la Fonética Acústica, los conceptos que han tenido una mayor incidencia en relación con el cómputo silábico son los de isocronía e isosilabia. Conviene precisar el valor de estos términos, porque, en diversos contextos, y según los distintos autores, pueden aparecer investidos de muy dispares significados. Por isocronía se entiende específicamente la isocronía acentual, esto es, la hipotética igualdad de las distancias temporales entre los acentos, independientemente del número de sílabas inacentuadas que existan entre ellos. La isosilabia designa, por el contrario, la igualdad en la duración de cada una de las sílabas. A este respecto, las lenguas naturales se han venido tradicionalmente clasificando de acuerdo con dos tendencias rítmicas opuestas: la tendencia a la isocronía acentual, o isocronía entre los pies acentuales, y la tendencia a la isosilabia, o isocronía silábica con anisocronía acentual. Dado el indiscutible dominio que la lengua inglesa —274—
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ha venido ejerciendo en gran parte de la historia de los estudios sobre el ritmo (Cuenca Villarín 1997), no es extraño que las lenguas del primer grupo sean muchas veces denominadas stress-timed, y las del segundo grupo syllable-timed, siguiendo las pautas de Abercrombie (1967). En la bibliografía especializada española, pueden encontrarse varias denominaciones para los términos ingleses stress-timed language y syllable-timed language. Así, Quilis y Fernández (1982) los traducen, respectivamente, como lenguas de ritmo acentualmente acompasado y lenguas de ritmo silábicamente acompasado. Toledo (1988) distingue entre lenguas de isocronía acentual y lenguas de anisocronía acentual. Cantin i Mas y Ríos Mestre (1991) las consideran como lenguas de compás acentual y lenguas de compás silábico. Para Almeida (1994), habría que hablar de lenguas de ritmo acentual, con isocronía localizada en el pie, como en las lenguas germánicas, y lenguas de ritmo silábico, con isocronía localizada en la sílaba, como en la mayoría de las lenguas románicas. Al primer grupo, caracterizado por la recurrencia acentual con distancias similares, se adscriben, en fin, lenguas tan dispares como el inglés, el ruso y el árabe. Al segundo grupo, definido por la similitud temporal entre las sílabas, se asignó el español, junto con otras lenguas romances, como el italiano, el francés y el catalán. En estudios posteriores sobre el español, se rechazó esa tendencia a la isocronía silábica. Para Pointon (1978, 1980), no existe similitud temporal ni entre las sílabas ni entre las distancias temporales de los acentos o pies acentuales. Al no haberse podido comprobar isocronía silábica o acentual en la producción del habla, se defiende en su lugar (Allen 1973) una cierta isocronía en la percepción, como una tendencia del oyente a igualar perceptivamente las sílabas, o los pies acentuales, aunque éstos difieran considerablemente. Se ha llegado también a proponer la existencia de una isocronía profunda, es decir, una estructura rítmica subyacente, que sería modificada en el curso de la concreta realización del habla. Como prueba de esta supuesta isocronía subyacente, se aduce la existencia de dos hechos (Cantin i Mas y —275—
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Ríos Mestre 1991): la introducción de acentos secundarios cuando la distancia entre las sílabas acentuadas excede de una cierta magnitud, y las omisiones de sílabas, que, más que como errores del habla, habrían de ser consideradas como perfeccionamiento de la estructura rítmica, ya que consiguen acompasar, igualando los periodos, el ritmo de la cadena fónica. Las lenguas de ritmo acentual (stress-timed) se verían, además, afectadas por un fenómeno de compresión silábica, de forma que la duración de la sílaba tónica puede verse reducida en virtud de la influencia que sobre ella ejercen las sílabas átonas que la siguen y que la preceden. Lindblom (1975) observó que en la lengua sueca las sílabas inacentuadas, precedentes y siguientes, influyen decisivamente en la duración de la sílaba acentuada: a mayor número de sílabas inacentuadas, menor es la duración de la sílaba acentuada. El efecto de acortamiento de la sílaba tónica se hace más ostensible por la acción de la sílabas átonas siguientes; hablamos, en este caso, de “compresión anticipada”. Las lenguas de ritmo silábico (syllable-timed) mostrarían, en cambio, una escasa o nula compresión silábica. En cualquier caso, la clasificación de las lenguas en dos grandes grupos, con características métricas bien definidas, dista mucho de constituir un cuerpo de doctrina sólidamente fundado. Y, desde luego, no puede basarse en esta división dicotómica de las lenguas una separación tajante entre la métrica silábica y la métrica acentual. Recientemente, Couper-Kuhlen (1993) ha insistido en que la isocronía no es meramente una cuestión de regularidad temporal, y sugiere un estrecho paralelismo entre los procesos de percepción visual y auditiva, lo cual implica el reconocimiento de grupos estructurados o gestalts en la captación de las imágenes acústicas. El concepto de un ritmo isócrono, físico o subjetivo, viene desde luego determinado por un hecho incontrovertible: la existencia de un patrón rítmico, consistente en la alternancia de sílabas acentuadas e inacentuadas. El principio de alternancia, o lo que es lo mismo, de eufonía o eurritmia (prefiero esta grafía, eurritmia, a la académica euritmia, que puede llevar y lleva —276—
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a una errónea pronunciación), parte de la observación de que las lenguas evitan la sucesión de sílabas con el mismo grado de tensión, haciendo que alternen las sílabas fuertes con las sílabas débiles. En algunas lenguas, puede llegarse al desplazamiento acentual a fin de asegurar el principio de la eufonía. Así, en inglés, mediante la regla de “inversión yámbica”, se impide la sucesión de dos sílabas tónicas. Véase, por ejemplo, la pronunciación del conocido aeropuerto de Heathrow. El nombre de la localidad es Heathrów, con acentuación de la última sílaba; pero, en cambio, si nos referimos al aeropuerto, la pronunciación ha de ser Héathrow Áirport, con acento en la primera sílaba. En la lengua española, Eduardo Benot había llamado ya la atención sobre el hecho de que, en el verso endecasílabo, “no deben concurrir inmediatas i tocándose dos sílabas intensas y vigorosas”. Y, a renglón seguido, especifica: Esto es verdad cuando el primer acento es obstruccionista del segundo, i no deja sentir el ritmo métrico; pero un hábil versificador, cuando no tenga a mano más que sílabas naturalmente acentuadas, logrará que el acento natural constituyente ofusque i desvanezca (con la resultante de intensidad natural i de posición que sabrá darle para hacer sentir el ritmo) al acento contiguo supernumerario, cuya intensidad no podrá ya perjudicar a la constitución endecasilábica (Benot 1892: I, 198).
Es evidente que el acento no constituye en el verso español una entidad absoluta, sino relativa (Torre 1986: 39). La sílaba acentuada lo es siempre en relación a un entorno. Una sílaba, con relieve acentual en la palabra aislada, puede perderlo en la línea del verso. Y, a la inversa, una sílaba menos relevante puede experimentar un incremento acentual por su posición en el verso, la entonación o el énfasis que se ponga en la lectura para destacar el sentido. En el verso inglés, Susanne Woods advierte que, dadas dos sílabas consecutivas, una deberá ser relativamente más acentuada que la otra («one will be relatively more —277—
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accented than the other») (Baker 1996: 286). Y lo mismo ocurre en el verso italiano, donde se hace notar la imposibilidad de que existan dos acentos rítmicos consecutivos (Pazzaglia 1990: 82), ya que, si se encuentran dos acentos, uno de los dos debe ser suprimido o trasladado. Con todo, algún autor (Bausi y Martelli 1993: 27) defiende la tesis contraria: podría haber dos sílabas adyacentes provistas ambas de acento rítmico, esto es, los versos –y, en concreto, los versos italianos– podrían presentar dos ictus consecutivos («i versi italiani possono presentare due ictus consecutivi»). En realidad, se trata de una cuestión puramente conceptual y terminológica. El mayor relieve de la sílaba acentuada se refiere siempre a un entorno, a un antes y a un después menos acentuados. Entra así en juego el concepto de alternancia, que ha sido desarrollado por investigadores de signo muy diverso, tanto en el aspecto teórico (Fonología Métrica) como en el práctico y experimental (Fonética Acústica). En Fonología Métrica, el acento se entiende como una relación sintagmática entre dos componentes, uno fuerte y otro débil, que, como ya hemos indicado, no constituyen entidades absolutas, sino relativas. En torno al contraste relativo de tensión –o prominencia– entre estos dos componentes, se organizan las reglas métricas. El deseo de ofrecer una precisa gradación acentual llevó a algunos autores al establecimiento de distintos niveles en el acento. Así, en 1900, Otto Jespersen (“Notes on Metre”, reimpreso en Gross 1979), aun reconociendo que en realidad existe una gama infinita en el acento (stress), distinguió cuatro niveles en la lengua inglesa, marcados numéricamente: 4, fuerte (strong); 3, semifuerte (half-strong); 2, semidébil (half-weak); y 1, débil (weak). Otros autores (Trager y Smith 1951) establecieron un sistema parecido de cuatro niveles acentuales: primario (primary), secundario (secondary), terciario (tertiary) y débil (weak). Este sistema, empleado por metristas como Seymour Chatman (1965), pretendería realizar una más fina discriminación del ritmo, al menos desde un punto de vista teórico.
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En la práctica, sin embargo, se ha puesto de manifiesto (Baker 1996: 31) el carácter inviable de esta gradación acentual. Si ya el sistema convencional de dos niveles acentuales (débil y fuerte) puede resultar en ocasiones discutible, un sistema de cuatro niveles multiplicaría los desacuerdos y sólo nos llevaría a crear una confusión todavía más elaborada. Una fórmula de compromiso es la que distingue tres grados en el acento (Hayes 1995: 16): acento principal (main stress), acento secundario (secondary stress) y sílaba inacentuada (stressless). En los planteamientos teóricos de la Fonología Métrica (Kager 1989, Vish 1990, Hayes 1995, Toledo 1996), se propuso que las representaciones mentales de los patrones de acento estarían organizadas jerárquicamente y no en forma lineal. Una cuadrícula métrica abstracta (metrical grid) representaría las relaciones acentuales en la palabra o en la frase. El nivel acentual, en una sílaba dada, viene simbolizado por la altura de una columna de marcas. La relativa prominencia (s = strong, fuerte; w = weak, débil) de cada uno de los segmentos aparece representada en forma de árbol: S
S W
W
S
S
W
S
W
S
W
X
X X
originality X X X X X
W X
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S X X
WS
W
compensation X X X X X
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Cada sílaba recibe una marca en el nivel más bajo. Las sílabas que sólo llevan una marca se perciben como inacentuadas, y las que tienen dos o más marcas se perciben como acentuadas, bien con acento principal, bien con acentos secundarios. Puede tener lugar un desplazamiento acentual (stress shift), debido a la proximidad de un elemento más prominente, como ya se indicó en el caso de la inversión yámbica: Heathrów y Héathrow Áirport. Al cambiar el lugar del acento, y por tanto, la configuración de la cuadrícula, cambia también la distribución de los segmentos “s” y “w” en el árbol. Es lo que ocurre, por ejemplo, cuando la palabra thirteen pasa a formar parte de la frase thirteen men. En la palabra aislada, la primera sílaba es menos prominente que la segunda: thirtéen. En la frase, la mayor prominencia de men produce la inversión del acento en la palabra contigua, cuya primera sílaba es ahora la más prominente: thírteen. Se puede esto ilustrar de la siguiente manera:
W
W
W
S
S
S
thirtéen mén X X X X X X
W
S
thírteen mén X X X X X X
En español, la alternancia ha sido documentada por autores como Navarro Tomás (1966), Gili Gaya (1975), Harris (1983), Halle y Vergnaud (1987) y Toledo (1996). Se han descrito dos patrones de acentuación en el interior de la palabra: a) gèneratívo, gràmaticalidád. b) genèratívo, gramàticalidád.
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Los acentos secundarios pueden aparecer: (a) en la sílaba inicial, o (b) en las sílabas impares, contando a partir del acento principal hacia la izquierda. Según Harris, el patrón (a) sería coloquial, mientras que el (b) tendría un tinte retórico. Para Gili Gaya, estas normas serían más bien la manifestación de tendencias lingüísticas particulares (primer tipo) y universales (segundo tipo). Cuando no hay una causa en contra, como, por ejemplo, una focalización precisa, esto es, una carga enfática extraordinaria sobre algún segmento (Canellada y Madsen 1987), lo más general es que el discurso se desarrolle con alternancia de acentos. No hay duda de que, por poco empeño que se ponga en ello, colocando acá y allá, cada dos o tres sílabas, acentos primarios y secundarios, se consigue una perfecta segmentación del discurso en troqueos y dáctilos. Y, si fácil es segmentar un texto en prosa, estableciendo en él una división en grupos fónicos o pies acentuales, mucho más sencillo ha de resultar el análisis rítmico del verso, “más medido y más regulado”, según autores como María Josefa Canellada y John Kuhlmann Madsen (1987: 154-156), para quienes «el verso es la cristalización de la prosa, más amorfa». Dividen los versos estos autores en varios grupos. Uno de ellos se caracteriza por poseer un ritmo que «se mantiene a base solamente de tiempos musicales, fuertes y débiles», sin que exista «igualdad de sílabas en el verso, ni de cláusulas». Y en este grupo incluyen la siguiente composición de Juan Ramón Jiménez: Siento que el barco mío ha tropezado, allá en el fondo, con algo grande. ¡Y nada sucede! Nada... Quietud... Olas... ¿Nada sucede; o es que ha sucedido todo, y estamos ya, tranquilos, en lo nuevo?
Sorprende que se cataloguen como irregulares (sin igualdad de sílabas ni de cláusulas, esto es, fuera de toda norma en lo —281—
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relativo al cómputo silábico) unos versos que se encuentran perfectamente dentro de los cauces del más exacto ritmo endecasilábico. Se trata, en efecto, de una serie de seis versos, de los que el tercero aparece escalonado: «con algo grande. ¡Y nada». Obviamente, ni la puntuación ni el escalonamiento impiden la sinalefa: «con-al-go-gran-de¡Y-na-da». Constituye, así pues, un heptasílabo, al igual que el verso primero. El segundo y el cuarto son eneasílabos; el quinto, un alejandrino, compuesto por dos hemistiquios heptasilábicos («¿Na-da-su-ce-de-oés-[0] / quehasu-ce-di-do-to-do»); y el sexto y último, un verso endecasílabo. Pero Canellada y Madsen ignoran la existencia del escalonamiento del verso tercero, y consideran el quinto como un verso compuesto por dos hemistiquios de cinco y ocho sílabas. Por otra parte, el uso distributivo que hacen de los acentos, principales (´) y secundarios (`), es totalmente caprichoso. Es evidente que los meros criterios fonéticos y fonológicos no nos proporcionan un instrumento de análisis que pueda ser aplicable, sin más, al estudio de la métrica. Los mismos conceptos de sílaba y acento son problemáticos. La noción de sílaba es tan poco clara, desde un punto de vista científico, como intuitiva en la conciencia de todo hablante (De Rosa y Sangirardi 1996: 20). Si para la Real Academia Española (1973: 12) se trata efectivamente de una noción más intuitiva que científica, para la Academia Húngara la sílaba carece prácticamente de función lingüística y consiste tan sólo en una unidad rítmica, de base fisiológica y acústica, cuya existencia depende de la convención y el uso de una determinada comunidad lingüística (Nyéki 1973: 138). Para el metricista italiano Pietro Beltrami (1996: 31), que considera asimismo la sílaba como unidad rítmica -sería preferible llamarla elemento rítmico, reservando para el verso la denominación de unidad rítmica-, es desde luego una noción difícil de definir científicamente. Aunque, a pesar de la oscuridad de la noción de sílaba, no hay duda de que en el habla alienta una especie de pulso o de latido (pulse phenomenon) que se percibe antes y mejor que los fonemas mismos (Lotz 1974: 972). Di Girolamo, inspirándose en la métrica generativa de Halle y Keyser (1971), —282—
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ha propuesto sustituir el término sillaba metrica por el de posizione: «La posizione è l’unità minima del verso» (Di Girolamo 1976: 22). Un número fijo de posizioni conformaría el modelo métrico de cualquier tipo de verso. A la imprecisión del concepto de sílaba viene a añadirse el problema de los diptongos, y, en el caso particular del verso francés, el de la e muda. Ambos constituyen «les points vulnérables du syllabisme» (Kibédi Varga 1977: 76). El carácter inestable de la e muda francesa amenaza, en efecto, el silabismo en sus mismos fundamentos (Kibédi Varga 1977: 80). Algo similar ocurre en el estado actual de la lengua portuguesa, donde es habitual la elisión de las vocales átonas. En alemán, las frecuentes contracciones que se producen en el lenguaje ordinario plantean un análogo problema. Ninguna de estas circunstancias se dan, desde luego, en el verso español; pero sí está presente la cuestión del encuentro de vocales (Torre 1986: 27-32), bien entre palabras (sinalefa y dialefa), bien en el cuerpo de una misma palabra (diéresis y sinéresis). Si los términos sinalefa y dialefa son utilizados de una manera unívoca por la generalidad de los tratadistas, no ocurre lo mismo en el caso de la diéresis y la sinéresis. Algunos autores dan una definición correlativa (Spongano 1974: 18, Pazzaglia 1990: 42) de ambos términos: si dos vocales contiguas, en el interior de una palabra, forman una sola sílaba métrica, existiría sinéresis; el fenómeno contrario sería la diéresis. Se iguala, así, la diéresis al hiato; y la sinéresis, al diptongo. La preceptiva española tradicional consideraba estos fenómenos como licencias poéticas, es decir, como transgresiones de las leyes gramaticales, que se permitían sólo en nombre de las necesidades métricas. Pero pienso que no es así. Se trata simplemente de un hecho de habla, que el poeta utiliza de una manera intuitiva y espontánea. También en los tratados de métrica italiana, se conceptúan frecuentemente estos fenómenos como transgresiones de la norma. Así, diéresis y sinéresis indicarían una escansión distinta de la normal (Beltrami 1996: 34), y consistirían en pronunciar dos vocales contiguas en el interior de la palabra de forma diferente —283—
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a la de la norma italiana (Orlando 1993: 26). Se daría el fenómeno de la diéresis cuando se hacen artificialmente dos sílabas de lo que, en la lengua, constituye una sola (Menichetti 1986: 17). En alguna ocasión, la interpretación que recibe este fenómeno es, en verdad, sorprendente. Es lo que ocurre, por ejemplo, con el siguiente endecasílabo del Dante (Par. XXXI, 37): io, che al divino dall’umano...
La lectura correcta es, sin duda alguna, la que introduce una diéresis en io y una dialefa entre che y al. Pues bien, Mario Fubini (1975: 37) afirma que lo que existe no es una diéresis, sino una “sílaba silenciosa” («non una dieresi ma una sillaba silenziosa»). Cuando el número de sílabas de un endecasílabo no es el de once, entonces «la voce tende o a eliminare o a passare in sordina le sillabe eccessive, o a porre delle pause dove le sillabe sono mancanti» (Fubini 1975: 39). La presencia de esta pretendida sílaba silenciosa, interpretada como una pausa que sustituye a una sílaba, fue oportunamente tildada de extravagante por parte de la misma crítica italiana (Menichetti 1986: 7). A decir verdad, la escansión del verso puede entrañar algunas dificultades, aun en circunstancias aparentemente sencillas. Consideremos, por ejemplo, estos versos de Juan Ramón Jiméez: Ya están las rosas primeras dispuestas a embriagarnos.
La lectura del primer verso como octosílabo no ofrece la menor dificultad. Nadie dudaría en realizar la sinalefa entre “ya” y “es-” (de “están”): “yaes-tan-las-ro-sas-pri-me-ras”. En cambio, en el segundo verso, que también es un octosílabo que forma parte de la serie arromanzada, pueden surgir discrepancias a la hora de elegir entre dos posibles interpretaciones: a) Diéresis en “embrïagarnos” y sinalefa entre “a” y “em-” (de “embrïagarnos”): “dis-pues-ta-saen-bri-a-gar-nos”. —284—
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b) Dialefa entre “a” y “em-” (de “embriagarnos”, sin diéresis): “dis-pues-ta-sa-em-bria-gar-nos”. La primera lectura es, a mi modo de ver, la correcta; pero no dispongo de un procedimiento objetivo que me permita demostrarlo científicamente. Con el fin de obtener un correlato físico, objetivo, de los fenómenos fonéticos implicados en la escansión del verso, he llevado a cabo diversas experiencias en el Laboratorio de Fonética de la Facultad de Filología, en la Universidad de Sevilla. Como más representativas, ofrezco aquí las gráficas que recogen respectivamente el oscilograma y la curva melódica, realizadas por ordenador con el sistema xwaves+ de Entropic para entorno UNIX, a partir de los siguientes versos de Federico García Lorca: ¿Qué es aquello que reluce por los altos corredores? Cierra la puerta, hijo mío; acaban de dar las once.
El oscilograma, representado en la primera gráfica de las FIGURAS I-IV, recoge las intensidades de los sonidos emitidos en el decurso de la lectura de cada uno de los versos. Como es sabido, la intensidad acústica es la cantidad de energía que, en la unidad de tiempo, atraviesa una unidad de superficie situada perpendicularmente a la dirección de propagación de las ondas sonoras. Se mide en Watios/m2 y es proporcional a la amplitud de la onda. Se observa, en las gráficas, en el eje vertical de las ordenadas. La duración se mide, en fracciones de segundo, sobre el eje horizontal de las abscisas. El espectrograma de la curva melódica, representado en la segunda gráfica de las FIGURAS I-IV, nos da el tono musical, esto es, la frecuencia o número de ciclos por segundo de los sonidos emitidos. Se mide en Hercios sobre el eje de ordenadas. Es de advertir que la frecuencia que se recoge en esta curva melódica es la frecuencia fundamental, que es precisamente la que cons—285—
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tituye el tono musical, si bien existe un cierto número de armónicos, que determinan el timbre y que no se tienen en cuenta en el presente estudio. En la FIGURA V, puede apreciarse la gráfica del tono musical en sentido estricto, ya que se recogen concretamente varias notas (cuarta ascendente y cuarta descendente) de la escala musical. En el primer verso (FIGURA I), que es un octosílabo de ritmo marcadamente trocaico, podemos observar en el oscilograma cómo las sílabas impares presentan una intensidad ligeramente superior a la de las sílabas pares. Especialmente, entre la sílaba tercera y la cuarta existe una marcada diferencia de intensidad acústica, en estrecha relación con el énfasis que se pone en la lectura del deíctico “aquello”. Por su parte, la línea melódica que se observa en el espectrograma refleja muy bien la alternancia tonal, con una importante caída de la frecuencia fundamental de la última sílaba postónica con respecto a la tónica precedente. El acento rítmico está en función, por lo tanto, no sólo de la intensidad acústica, sino también de la frecuencia fundamental o tono de cada una de las sílabas. La cuantificación temporal, en fracciones de segundo, carece de relevancia. El oscilograma del segundo verso (FIGURA II) es el que más claramente refleja la mayor intensidad de las sílabas impares, siendo ostensible la materialización acústica del ritmo trocaico. Aquí también la sílaba tercera y la cuarta acusan la máxima diferencia de intensidad acentual, en íntima conexión con el contenido semántico del la palabra “altos”. La tercera sílaba presenta, asimismo, la mayor altura tonal de la serie silábica del verso. Tanto del oscilograma como del espectrograma del verso tercero (FIGURA III) podemos extraer los datos más significativos. También en este caso, en el ritmo del verso, que es ahora dactílico, es el segundo pie el más marcado. Obsérvese que existe sinalefa entre “-ta” (de “puerta”) e “hi-” (de “hijo”). En virtud de la sinalefa, “puerta, hijo” (puér-tahi-jo) es una secuencia trisilábica con acento sobre la primera sílaba, tal como se recoge en la gráfica del oscilograma. El acento de la palabra aislada “hijo” queda anulado en la línea del verso. —286—
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Pero, además de la intensidad acústica, hay que tener en cuenta las diferencias tonales. La palabra “hijo” conserva una cierta independencia acentual con respecto a la palabra “puerta” en virtud de la frecuencia acústica, no de la intensidad. El espectrograma de frecuencias recoge lo que ya habíamos observado por audición directa: un cambio de tono entre “puer-” y “-tahi-”, lo cual confiere una matización acústica a la segunda sílaba métrica de la secuencia trisilábica, supliendo así la pérdida de intensidad acentual. El análisis acústico de las sílabas finales, “mí-o”, presenta un gran interés. El oscilograma no acusa prácticamente diferencia alguna entre las intensidades de las dos sílabas que constituyen la palabra “mío”. Por otro lado, al no existir entre ambas sílabas ningún tipo de cerrazón consonántica, no se interrumpe en ningún momento el fluir sonoro, como se aprecia en la gráfica. Ahora bien, si el oscilograma no contiene señal alguna que nos permita establecer unos límites silábicos, el espectrograma muestra con toda claridad la gran diferencia tonal que existe entre ambas sílabas. En otras palabras: el correlato físico del acento es, en este caso, el tono. Un desdoble del tono, como el que acabamos de señalar, no implica necesariamente una duplicidad silábica. En la línea melódica correspondiente al cuarto y último verso (FIGURA IV), puede apreciarse cómo la sílaba final tónica, “on-” (de “once”), sufre un desdoblamiento tonal muy marcado. El segundo tono corresponde, según se aprecia en la gráfica del espectrograma, a la sonoridad de la coda nasal; pero la unidad de la sílaba permanece inalterada. Es muy ilustrativa, por otra parte, en el oscilograma de este mismo verso, la distribución de las intensidades acústicas en tres pies métricos bien definidos: acaban / de dar / las once. Utilizando, mutatis mutandis, la terminología de la métrica clásica, podríamos decir que el verso consta de los siguientes pies: anfíbraco, yambo y anfíbraco. Cualquier otro tipo de segmentación, que considerando, por ejemplo, como anacrusis la sílaba átona inicial de “acaban”, tratara de adscribir el verso a un ritmo mixto —287—
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dactílico-trocaico, supondría no sólo el olvido del componente sintáctico-semántico del verso, sino también un desconocimiento del mismo sustrato fónico que la gráfica del oscilograma pone claramente de manifiesto. De pies métricos y grupos fónicos me he ocupado en otro lugar (Torre 1999: 15-26). Sólo quiero indicar aquí que la confusión de estos segmentos con los hemistiquios ha dado también origen a inexactas apreciaciones. Así, por ejemplo, para Maurice Grammont (1974: 49-60) los “cortes” (coupes) que tienen lugar entre los grupos rítmicos, esto es, entre los pies métricos, se confunden con la pausa que marca la “cesura” (césure). Para este autor, la cesura no sería más que un simple corte (une simple coupe). Estoy convencido de que la falta del adecuado reconocimiento de la pausa –o la cesura– como factor demarcativo, junto con las ya señaladas imprecisiones en la segmentación silábica del verso, es causa de frecuentes errores en el cómputo silábico y punto de arranque de un larvado relativismo en los estudios métricos, según el cual el silabismo se reduciría a un sistema meramente aproximativo, del que no tendríamos en absoluto un conocimiento intuitivo y directo, y mucho menos científico. Un análisis fonético y fonológico de la línea del verso, profundo y detenido, sin apriorismos ni lastres conceptuales, contribuirá poderosamente a su mejor conocimiento, y al disfrute, en última instancia, de eso que hemos convenido en llamar poesía.
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¿Qué es aquello que reluce...
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... por los altos corredores?
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Cierra la puerta, hijo mío...
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...acaban de dar las once.
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entro de la tipología de la versificación irregular y de la versificación amétrica, el verso libre aparece a menudo como la forma de expresión más cercana a las inquietudes de la poesía moderna, la forma que supuestamente cumpliría en el último siglo con las expectativas estéticas de un nuevo arte caracterizado, desde sus raíces románticas y pre-románticas, por la ruptura con la tradición anterior. El nacimiento del verso libre moderno se sitúa generalmente en Francia, aunque hay que advertir que se trata, en realidad, de un fenómeno internacional. En este sentido, junto a poetas franceses como Gustave Kahn (18591936), Jules Laforgue (1860-1887) o el belga Emile Verhaeren (1855-1916) destaca también Walt Whitman (1819-1892), quien tempranamente experimentaría con el verso libre en su obra Leaves of Grass, cuya primera edición, a la que seguirían otras con importantes variantes, es de 1855. El fenómeno versolibrista no surge de repente. Se va gestando desde tiempo atrás y está precedido por distintos experimentalismos métricos. Son muchos los autores que han relacionado el versolibrismo tanto con la métrica acentual no silábica como con los intentos de recuperación del verso de ritmo hexamétrico. Es lo que sucede, por ejemplo, con la métrica bárbara de Carducci, o con los diferentes intentos de adaptación del hexámetro en la obra titulada Der Messias (1747-1773), de Klopstock, por ejemplo.1 Hay
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Sobre estos intentos hexamétricos y formas afines, vide M. Méndez Bejarano, La ciencia del verso. Teoría general de la versificación con aplicaciones á la métrica española, Buenos Aires, Talleres Gráficos de la Penitenciaría Nacional, 1906, pp.
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que considerar, además, la influencia de la prosa, la prosa litúrgica y los salmos bíblicos y de las traducciones poéticas en prosa. La obra de Klopstock, integrada por cinco himnos religiosos, publicados en 1758 y en 1759, sin rima y sin organización silábica, recibe su principal influencia de la Biblia, de ahí el empleo de los paralelismos como recurso estructural característico. Además, según ha estudiado Kohl, la cualidad rítmica de los himnos se explica por la unidad sintáctica de los versos, a lo que se suman las repeticiones que obedecerían a un principio retórico.2 En la literatura inglesa, aparte de algunas adaptaciones del hexámetro y de ciertos casos de versificación anisosilábica tónica, hay otras bases para el desarrollo del verso libre inglés. Ph. Hobsbaum, por ejemplo, al referirse a los distintos tipos versolibristas en la tradición anglosajona, cita también el verso de carácter bíblico, con tendencia a repeticiones de palabras o frases, paralelismos, rimas internas, aliteraciones, etc. Su relación con la prosa lírica y exaltada es clara, así como con el perdido hexámetro, de ahí que se le llame cadenced verse. Como antecedentes del verso libre, W. Crombie indica además en el XVII los sermones de Donne y el estilo barroco de su prosa.3 El tipo de
2
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226-235; B. Tomashevski, Teoría de la literatura, Madrid, Akal, 1982, p. 113; K.M. Kohl, Rhetoric, the Bible, and the Origins of free Verse. The early “Hymns” of Friedrich Gottlieb Klopstock, Berlín, Walter de Gruyter, 1990; B. Bjorklund, “Klopstock’s poetic Innovations: The Emergence of German as a prosodic Language”, The Germanic Review, 56, 1 (1981), pp. 20-27; B. Lawder, Vers le vers, París, Nizet, 1993, pp. 175-210; M. Gasparov, Storia del verso europeo (1989), Bolonia, Il Mulino, 1993, pp. 303-304. Klopstock debió de ser consciente de la rudeza rítmica de estos versos y ya en las últimas versiones revisadas y publicadas de los himnos, en 1771, tiende a la regularidad en los pies métricos aunque el número de sílabas sea todavía irregular. Vide K.M. Kohl, op. cit., pp. 1-9 y 213-234. Vide W. Crombie, Free Verse and prose Style. An operational Definition and Description, Londres-Nueva York-Sydney, Croom Helm, 1987, pp. 57-61; Ph. Hobsbaum, Metre, Rhythm and verse Form, Londres-Nueva York, Routledge, 1996, p. 112; J. Saavedra Molina, “Los hexámetros castellanos y en particular los de Rubén Darío”, Anales de la Universidad de Chile, 18 (1935), pp. 6-61; H.T. Kirby-Smith, The Origins of free Verse, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1996, pp. 48-103; V. Zirmunskij, Introduction to Metrics (1925), La Haya, Mouton, 1966, pp. 192-195; O. Belic, Verso español y verso europeo. Introducción a la teoría del verso español en el contexto europeo, Santafé de Bogotá, Instituto Caro y Cuervo, 2000, p. 276.
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verso libre de carácter prosaico, fundamentado especialmente en el ritmo paralelístico y en las repeticiones de carácter retórico tiene una temprana manifestación en la obra de Walt Whitman titulada Leaves of Grass (1855). El verso de Whitman, anterior al verslibrisme francés, se fundamenta precisamente en el paralelismo originario de la métrica bíblica, y en especial de los Salmos y de sus traducciones inglesas en prosa. No cabe duda de la base prosaica de tales textos, los cuales, aunque en ocasiones presentan versos y grupos de versos de base rítmica métrica reconocible, no se diferencian de la prosa sino por su disposición tipográfica. Aunque algunos autores han querido ver en el tipo de verso libre de Whitman una herencia de la corriente poética de verso acentual isocrónico derivado del antiguo verso anglosajón aliterativo, no parece ser ésta una explicación adecuada al verso whitmaniano, cuya innovación respecto a la tradición versificatoria anterior reside más bien en la extremada longitud de algunos de sus versos y en el hecho de que dejan en un lugar secundario el ritmo métrico para favorecer el ritmo del pensamiento propio de la lógica prosística.4 Whitman no deja dudas sobre su intención anti-métrica, que se resume en el deseo de destruir y abandonar las viejas formas. En una carta a Emerson de 1856, que sirvió de segundo prefacio a Leaves of Grass: 4
H.T. Kirby-Smith llama al verso libre de Whitman cadenced verse por su relación con la prosa y otros antecedentes como los bíblicos. Tampoco Gates, que considera el versículo de Whitman como verso, deja de ver la relación con el ritmo de la prosa. No hay que olvidar, en este sentido, la aproximación entre versículo y prosa, bien apreciable, por ejemplo, dentro de la tradición anglosajona, en la prosa de Oscar Wilde, quien ensaya el versículo bíblico de claro ritmo prosaico. Cfr. H.T. Kirby-Smith, op.cit., pp. 48-103; R.L. Gates, “The Identity of American free Verse: The prosodic Study of Whitman’s Lilacs”, Language and Style. An International Journal, 18, 3 (1985), p. 248; M.V. Utrera Torremocha, Teoría del poema en prosa, Sevilla, Universidad de Sevilla, 1999, p. 219; M. Gasparov, op. cit., p. 304; E. Bollobas, Tradition and Innovation in American free Verse: Whitman to Duncan, Nueva York, State Mutual Book and Periodical Service, 1986; J. Silkin, The Life of metrical and free Verse in twentieth Century Poetry, Londres-Nueva York, McMillan Press-Saint-Martin’s Press, 1997, p. 4; C. Miller, “The iambic Pentameter Norm of Whitman’s free Verse”, Language and Style, 15, 4 (1982), pp. 289-324.
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Old forms, old poems, majestic and proper in their own lands here in this land are exiles […]. Authorities, poems, models, laws, names, imported into America, are useful to America today to destroy them, and so move disencumbered to great works, great days.5
La libertad que Whitman reivindica se cifra en la destrucción de los moldes métricos. En el prefacio a la edición de 1888 –“Mirada retrospectiva a los caminos recorridos”–, insiste, como en los anteriores, en que no hay reglas ni convenciones fijas para la poesía, cuya indefinición va unida a su esencial grandeza: «Ninguna de las definiciones que se han dado jamás encierra suficientemente al nombre poesía, ni hay regla o convención que puedan prevalecer tan absolutamente que no pueda surgir alguna gran excepción que las desobedezca y las eche por tierra».6 La expresión de un nuevo espíritu y de una nueva nación libre exige otra forma poética, para la cual reconoce la importancia de la literatura bíblica, además de otras fuentes. Whitman explica esta nueva forma, además, como expresión de la libre personalidad creadora: En realidad, Hojas de Hierba [...] han sido principalmente el afloramiento de mi propia naturaleza emocional y personal; el intento, de principio a fin, de poner a una persona, a un ser humano (a mí mismo, en la segunda mitad del siglo XIX, en los Estados Unidos), libre, íntegra y fielmente en un libro.7
La tradición whitmaniana alcanza en la literatura anglosajona a buen número de autores; pero también está presente en el nacimiento del verslibrisme francés, y, desde luego, en otras literaturas occidentales. En el ámbito hispánico, por ejemplo, se ha indicado la presencia del versículo whitmaniano en diver5
W. Whitman, Leaves of Grass, Nueva York, New York University Press, 1965, p. 734. Véase B. Lawder, op. cit., p. 98. W. Whitman, “Mirada retrospectiva a los caminos recorridos” (Prefacio a la edición de 1888), Hojas de Hierba, traducción al español de F. Alexander, Barcelona, Ediciones Mayol Puyol, 1981, pp. 59-60. 7 Ib., p. 73. 6
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sos autores: Pablo Neruda, León Felipe, Vicente Aleixandre o Dámaso Alonso, por ejemplo, todos ellos con diferencias en el tipo de versículo empleado, según se tienda al ritmo prosaico o al versal.8 En Francia, además de otras influencias, la huella whitmaniana en los simbolistas es aceptada sólo por parte de algunos críticos, aunque se admite, generalmente sin reservas, su impronta en autores posteriores como Saint-John Perse, Claudel, Valéry o Gide.9 Aunque la influencia de Whitman se suele identificar con el verso largo o versículo bíblico, I. Paraíso considera que los simbolistas franceses no toman del poeta americano el versículo paralelístico ni su temática, sino sólo «su aspiración a la libertad métrica».10 Uno de los aspectos determinantes en la aparición del verso libre y el versículo es la valorización de la prosa literaria a lo largo de todo el siglo XIX, ya iniciada en épocas anteriores, que venía a confirmar la idea de que la poesía no tenía necesariamente que ser expresada en verso. El prosaísmo versolibrista y ciertas clases de verso libre de ritmo irregular derivan directamente de esta revalorización de los textos escritos en prosa. Desde el pre-romanticismo y el romanticismo muchos poetas quisieron encontrar una forma pura que devolviera al verso su sentido primitivo totalizador y que uniera, así, el misterio del verso a la pretendida espontaneidad y autenticidad de la prosa. Esta aspiración a fundir verso y prosa en una tercera forma expresiva se manifiesta en diversos autores y es un fenómeno especialmente apreciable en Francia, que se extiende a otras literaturas. Así, pues, el movimiento del versolibrismo en Francia se explicaría 8
Véase I. Paraíso, El verso libre hispánico. Orígenes y corrientes, Madrid, Gredos, 1985, pp. 243 y 269. 9 Cfr. G. de Torre, La aventura y el orden, Buenos Aires, Losada, 1948, pp. 119-120; R.L. Gates, art. cit., pp. 261-162. Sobre el versículo de Apollinaire, véase C. Scott, Vers libre: The Emergence of free Verse in France. 1886-1914, Oxford-Nueva York, Clarendon-Oxford University Press, 1990, pp. 269-294; J. Mazaleyrat, “Problèmes de scansion du vers libre: À propos d’un poème d’Apollinaire”, en W.D. Lange y H.J. Wolf (eds.), Philologische Studien für Joseph M. Piel, Heidelberg, Winter, 1969. 10 I. Paraíso, La métrica española en su contexto románico, Madrid, Arco/Libros, 2000, p. 186.
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más bien por el auge de la prosa poética, del poema en prosa y de las traducciones de poesía, vertidas en prosa, entre las que se encuentran las del propio Whitman, algunos de cuyos poemas se publicaron en 1886 en la revista La Vogue. No hay que olvidar también que en esta misma revista se publican en ese mismo año los poemas en prosa de las Illuminations de Rimbaud, que hace acompañar de dos poemas más, “Mouvement” y “Brise marine”. En éstos, especialmente en “Marine” (1875), muchos críticos han visto la primera manifestación del verso libre moderno.11 Del deseo de unir prosa y verso, característico de Mallarmé y otros poetas, se parte muchas veces para explicar teóricamente las formas líricas modernas, como el poema en prosa y el verso libre, las cuales se justificarían por el afán de volver a las formas puras primitivas.12 Una concepción análoga se plasma después en las poéticas de vanguardia, como en Jorge Luis Borges, o en las de algunos autores surrealistas que entienden prosa y verso –verso libre– como expresión original primitiva ligada a fuerzas terrestres primarias, según es apreciable en la poética de Vicente Aleixandre. Jorge Luis Borges, por ejemplo, relaciona ese mundo primero con la ausencia de límites entre prosa y poesía, donde habría sólo la magia y el misterio del todo: «En el principio de los tiempos, tan dócil a la vaga especulación y a las inapelables cosmogonías, no habrá habido cosas poéticas o prosaicas. Todo sería un poco mágico. Thor no era el dios del trueno; era el trueno y el dios.»13 La filiación del verso libre simbolista con la prosa poética y 11
Véase I. Paraíso, “La silva y el modernismo”, en T. Albaladejo, J. Blasco y R. de la Fuente (coords.), El Modernismo. Renovación de los lenguajes poéticos, vol. I, Valladolid, Secretariado de Publicaciones de la Universidad de Valladolid, 1990, p. 111, La métrica española..., pp. 181-209, y El verso libre..., p. 14; J.-M. Bobillot, “Rimbaud et le ‘vers libre’”, Poétique, XVII, 66 (1986), pp. 199-216; M. Murat, “Rimbaud et le vers libre: Remarques sur l’invention d’une forme”, Revue d’Histoire Littéraire de la France, 100, 2 (2000), pp. 255-276. 12 Vide Paraíso, El verso libre..., pp. 191-192. Véase M.V. Utrera Torremocha, op. cit., pp. 356-362. 13 J.L. Borges, “Prólogo” a El oro de los tigres (1972), en Obra poética. 1923/1985, Buenos Aires, Emecé Editores, 1989, p. 365.
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con el poema en prosa explica que el ritmo del verso libre sea en muchas ocasiones un ritmo basado en la sintaxis y la imagen. Como el verso libre, el poema en prosa de los simbolistas se fundamenta en la idea mallarmeana del ritmo y la música como bases de toda escritura poética. El ideal wagneriano de un arte total disuelve las fronteras entre formas expresivas y géneros. Los límites entre versículo, verso libre y poema en prosa, prosa rítmica, novela o drama se hacen cada vez más difusos. Los primeros simbolistas, en busca de una nueva expresión individual, mezclan, pues, verso regular, verso libre y poema en prosa.14 En efecto, una década después de haber mezclado poemas en prosa y verso libre en los Palais Nomades (1987), Gustave Kahn proclama la abolición del poema en prosa, con lo que el verso libre se erige entonces como modalidad poética mucho más moderna y afín a la expresión y la libertad personal. Con Kahn, poetas como Dujardin, Laforgue o Mockel, ven el género del poema en prosa como una etapa necesaria, como una especie de transición, para la llegada del verso libre. En este sentido, ya Mallarmé, que había experimentado con el alejandrino y el verso liberado, había anunciado la necesidad de crear una forma nueva que no fuera ni verso ni prosa, sino la expresión absoluta de la música interior. Este deseo se resolvió en su Un coup de dés, antesala simbolista de las vanguardias europeas y de la poesía visual. La relación entre la interioridad subjetiva del poeta y los experimentalismos métricos es evidente en “La música y las letras” (“La Musique et les lettres”), de 1894, donde relaciona el verso libre con el desequilibrio espiritual del hombre moderno y la modulación rítmica personal, que ha encontrado en la nueva forma su plenitud expresiva: «Un hermoso hallazgo, con el que queda, poco más o menos, clausurada la búsqueda de ayer, lo tenemos en el verso libre, modulación (digo a menudo) indivi14
Cfr. I. Paraíso, La métrica española..., p. 185; M.V. Utrera Torremocha, op. cit., passim; S. Bernard, Le poème en prose de Baudelaire jusqu’à nos jours, París, Nizet, 1959, pp. 404-405. Sobre los inicios versolibristas franceses, vide H. Morier, “Vers libre”, en Dictionnaire de poétique et de rhétorique, París, P.U.F., 1961, pp. 462-466.
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dual, ya que toda alma es un nudo rítmico».15 Las definiciones que poetas y estudiosos han dado a lo largo del tiempo del verso libre suelen presentar problemas por su ambigüedad, por la imposibilidad de ser aplicadas a distintas manifestaciones del verso libre y, muy especialmente, porque son en buena medida definiciones negativas, es decir, definiciones que no vienen a explicar el verso libre por sus valores y elementos distintivos respecto al verso regular, sino que sólo niegan la existencia de determinados elementos de éste en aquél. Definir el verso libre por negación del concepto de verso es implícitamente definir la prosa. Ante este hecho evidente, poetas y estudiosos afirman repetidamente que, fuera de las convenciones métricas tradicionales, a las que el verso libre escaparía, aún queda en él el ritmo. Pero, de nuevo las formas de entender el ritmo se multiplican, ya alejándose de cualquier referencia métrica, ya acercándose a ella. La libertad, ya defendida por Whitman con un sentido a la vez literario y político, está presente en las primeras definiciones del verso libre, y junto a ella, la novedad, la sorpresa y la idea de que el nuevo verso es reflejo y expresión directa de la interioridad personal, por lo que su ritmo no obedecería a la realización de un canon previo, sino a la armonía interior, al ritmo personal del autor. Estas ideas aparecen tanto en Whitman como en los primeros versolibristas del simbolismo francés y se repetirán por buena parte de poetas y estudiosos posteriores para explicar cualquier tipo de versificación libre. El primer teórico del versolibrismo francés es Gustave Kahn, cuyas ideas sobre el verso libre se recogen, entre otros escritos, en la respuesta que dio a la Enquête sur l’évolution littéraire de Jules Huret en 1891 o en el prefacio a sus Premiers poèmes de 15
S. Mallarmé, Prosas, edición de J. del Prado, Madrid, Alfaguara, 1987, p. 211. Cfr. C. Scott, A Question of Syllables. Essays in nineteenth Century French Verse, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 157. Sobre la confusión verso y prosa en Mallarmé, vide M.V. Utrera Torremocha, op. cit., pp. 195 y ss.; W.Th. Elwert, “Mallarmé entre la tradition et le vers libre: Ce qu’en disent ses vers de circonstance”, en M. Parent (ed.), Le vers français au XXe siècle, París, Klincksieck, 1967, pp. 123-138.
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1897, donde aparecen bien sintetizadas sus ideas versolibristas. En el prefacio de 1897, señala la importancia de la nueva técnica versificatoria, que asocia a la armonía del ritmo individual: L’importance de cette technique nouvelle, en dehors de la mise en valeur d’harmonies forcément négligées, sera de permettre à tout poète de conçevoir en lui son vers ou plutôt sa strophe originale, et d’écrire son rythme propre et individuel au lieu d’endosser un uniforme taillé d’avance et qui le réduit a n’être que l’élève de tel glorieux prédécesseur.16
Establece Kahn la idea de las células rítmicas, ya liberadas de la antigua prosodia y de las reglas de acentuación tradicionales, células que llama «cellules organiques»17 y que sirven de fundamento a una nueva técnica versificatoria. Las “cellules organiques” serían el equivalente a las medidas antiguas de la prosodia, pero libres del patrón métrico prefijado, de las reglas convencionales. La unidad rítmica del verso, para Kahn, se basaría en la unidad de sentido, de manera que el poeta libre prescindiría del encabalgamiento al dejarse arrastrar por el sentido de la frase breve, producto del impulso interno. Así, la unidad del verso se define como «un fragment le plus court possible figurant un arrêt de voix et un arrêt de sens».18 Estas unidades de sentido se unen para formar un todo coherente que permita calificarlas como versos. La cohesión de estas unidades en la totalidad del poema, necesaria para que éste se constituya como tal, se lograría por las relaciones fónicas, la armonía de sonidos entre los versos, es decir, por las aliteraciones. Este principio armónico se conjuga con otro principio interno que cohesiona el poema y sus estrofas: el de la unidad de sentido, no ya de cada verso en particular, sino 16
G. Kahn, “Préface sur le vers libre”, en Premiers poèmes, París, Mercure de France, 1897, p. 28. Véase B. Lawder, op. cit., p. 54; F. Carmody, “La doctrine du vers libre de Gustave Kahn”, Cahiers de l’Association Internationale des Études Française, 21 (1969), pp. 37-50. 17 G. Kahn, art. cit., loc. cit., p. 24. Cfr. B. Lawder, op. cit., pp. 54-55. 18 G. Kahn, art. cit., loc. cit., p. 26.
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de cada conjunto estrófico que integra el poema, de modo que, respecto al sentido, hay también una pauta interna de organización.19 Pensamiento y forma se unen no sólo en el verso, sino en la estrofa y en el poema. Es así como el impulso del pensamiento y, con él, el ritmo de la sintaxis se imponen en la elaboración de la unidad rítmica versal y de la unidad estrófica para construir el poema de versificación libre. Así lo expuso también en 1891: Qu’est-ce qu’un vers? C’est un arrêt simultané de la pensée et de la forme de la pensée.- Qu’est-ce qu’une strophe? C’est le développement par une phrase en vers d’un point complet de l’idée.- Qu’est-ce qu’un poème? C’est la mise en situation par ses facettes prismatiques, qui sont les strophes, de l’idée tout entière qu’on a voulu évoquer.20
Sin embargo, Kahn insiste en que, a pesar de la importancia concedida al ritmo de pensamiento, el verso libre no es prosa cortada tipográficamente en forma de verso. El juego aliterativo de los sonidos impediría tal asimilación al ritmo de la prosa.21 En consonancia con estas ideas, el también poeta y crítico versolibrista Édouard Dujardin en la obra de 1922 titulada Les premiers poètes du vers libre resume las inquietudes que animaban la práctica de los versolibristas de fines del XIX y principios del XX. Como Kahn y otros autores, hace depender el verso libre de los experimentos de Mallarmé y, en especial, de Verlaine respecto al alejandrino y proclama la entera libertad del poeta 19
Véase ib., pp. 26-27. G. Kahn, “Enquête sur l’évolution littéraire”, L’Écho de Paris, 4 de julio de 1891, p. 2; J. Huret, Enquête sur l’évolution littéraire (1891), ed. de D. Grojnowski, París, Corti, 1999, p. 379. 21 Cfr. Ib. Véase B. Lawder, op. cit., pp. 55-56. Los ataques al verso anterior y la defensa de la libertad personal como base del verso libre se repiten en autores coetáneos: René Ghil, Vielé-Griffin, Adolphe Retté, Henri de Régnier, Jean Moréas, etc., que, con otros autores, relacionan siempre el verso libre con la expresión de un ritmo personal. Cfr. B. Lawder, op. cit., pp. 52-54; S. Bernard, op. cit., p. 488; M. Parent, “La versification française au XXe siècle a-t-elle évolué d’une façon comparable à celle du XVIe siècle. Des recherches analogues. Des trouvailles nouvelles”, en M. Parent (ed.), op. cit., pp. 293; C. Scott, Vers libre: The Emergence..., pp. 120-126. 20
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en la expresión de su ritmo personal, defendiendo la abolición de la rima, de la cesura entre hemistiquios y de la igualdad en el número de sílabas de los versos, así como la eliminación en la escansión de la e muda si ésta no se pronuncia. Estos aspectos, entre otros, diferenciarían el verso libre simbolista del “verso liberado” anterior.22 Como en Kahn, es fundamental que la unidad versal se corresponda con una unidad sintáctica. El verso, unidad musical y unidad de visión y de sentido, se diferenciaría, así, de la prosa, y volvería al mismo tiempo a su verdadera esencia primigenia, a su unidad primitiva –“unité primitive”–.23 Contrariamente a lo que podría parecer, la unidad sintáctica es lo que hace posible la definición del verso como verso. El poeta deberá evitar a toda costa el encabalgamiento, que acercaría el verso libre a la prosa al romper su unidad esencial.24 El problema del encabalgamiento ha sido repetidas veces tratados a propósito del verso libre. Frente a los primeros teóricos versolibristas franceses, el encabalgamiento en el verso libre ha sido entendido a menudo como recurso expresivo fundamental, que vendría a atenuar aún más, si cabe, el ritmo métrico aproximativo de algunos poemas versolibristas de base endecasilábica, efecto que es perceptible igualmente con un uso excesivo del encabalgamiento en los poemas de versificación regular.25 No obstante, la unidad del verso en estos casos nunca llega a perderse gracias a la equivalencia dada entre la igualdad silábica de los versos. En la bibliografía anglosajona sobre el verso libre se 22
Vide E. Dujardin, Les premiers poètes du vers libre, París, Mercure de France, 1922, pp. 8-9. 23 Ib., pp. 12-13 y 58. Véase B. Lawder, op. cit., pp. 56-58; C. Scott, Vers libre: The Emergence..., pp. 145-150. 24 Vide E. Dujardin, op. cit., pp. 12-13 y 27; B. Lawder, op. cit., pp. 57-58. Es necesario distinguir los experimentalismos del verso “liberado” del puro versolibrismo. Para Mazaleyrat el vers libéré es un verso “de mètre traditionnel (ex.: “alexandrin libéré”), mais de formule assouplie par une prosodie variable, un large usage des discordances, et des changements de rythme fréquents (du binaire au ternaire notamment)” (J. Mazaleyrat, Éléments de métrique française, París, A. Colín, 1965, p. 158). Cfr. S. Bernard, op. cit., pp. 367-370; I. Paraíso, El verso libre..., pp. 14 y 20, y La métrica española..., p. 187; P. B. Garnelo, “El modernismo literario español”, La ciudad de Dios, XCVI (1914), pp. 34-46, 331-342 y 345-359. 25 Véase J. Domínguez Caparrós, Diccionario de métrica española, Madrid, Paraninfo, 1985, pp. 54-55.
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ha estudiado especialmente el encabalgamiento por su frecuente aparición en numerosos poetas, hasta el punto de que a veces se ha visto como un rasgo de estilo de los autores versolibristas. En la tradición inglesa y americana se habla de un vigoroso enjambed free verse, usado por poetas como Williams, Frank O’Hara, Robert Bly, Robert Creeley o William Merwin.26 Hartman se refiere a distintos fenómenos de tensión o counterpoint en el verso libre, entre los que incluye el encabalgamiento, característico del segundo momento en el desarrollo del versolibrismo, frente a un primer momento en el cual sí se hubiera respetado, como en la poesía francesa, la unidad gramatical. Precursores de esta forma versolibrista encabalgada serían Whitman, Blake, Cowley, Arnold, Henley y MacPherson, además de Milton.27 La moda del encabalgamiento en el siglo XX ha llevado a algunos críticos a distinguir el verso libre sintáctico del verso libre antisintáctico.28 Según J. Cohen,29 el encabalgamiento en el verso libre sería una clara desviación de la gramaticalidad que vendría a confirmar la esencial agramaticalidad de la poesía en verso. José Domínguez Caparrós ha destacado también el valor expresivo del encabalgamiento, pero indica acertadamente que es un «fenómeno puramente estilístico, ya que su aparición no está regulada por las normas de la métrica y sólo depende de la voluntad o la intención del poeta».30 En efecto, ni el encabalgamiento ni la esticomitia son privativos de la versificación libre. En 1909, después de la encuesta de J. Huret (1891), se publica una encuesta sobre el verso libre, preparada por Filippo Tommaso Marinetti, Enquête internationale sur le vers libre, en la que aparecen nuevos nombres que defienden el verso libre. En ella se mantiene, caso de Camille Mauclair, por ejemplo, la idea del verso libre como expresión del ritmo personal, de acuerdo 26
Véase P. Fussel, Poetic Meter and poetic Form, edición revisada, Nueva York, McGraw Hill, 1979, pp. 81-83. 27 Cfr. Ch.O. Hartman, Free Verse. An Essay on Prosody, Princeton, Princeton University Press, 1980, pp. 14-28 y 52-80. 28 Véase M. Gasparov, op. cit., p. 307. 29 Cfr. J. Cohen, Estructura del lenguaje poético, Madrid, Gredos, 1970, pp. 53-71. 30 J. Domínguez Caparrós, op. cit., p. 55.
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con los impulsos psicofisiológicos. Como Kahn, condena el encabalgamiento de la poesía anterior y no niega la presencia del verso regular, sometido a la unidad de sentido, en los versos libres. Henri Ghéon, sin embargo, rechaza la libertad individual del verso libre y su propia condición de verso a no ser dentro de la estrofa, que sería expresión armónica al someterse a la unidad lógica del pensamiento.31 Pero todas estas afirmaciones y otras posteriores parecen, no obstante, demasiado vagas y faltas de precisión. Hay que advertir, además, que la estructura pseudoestrófica no es definitoria de la composición en verso, pues ya aparece en las primeras manifestaciones de los poemas en prosa, como sucede, por ejemplo, en el Gaspard de la Nuit, de Aloysius Bertrand.32 En el ámbito hispánico Ricardo Jaimes Freyre en sus Leyes de la versificación castellana (1912) hace un intento de sistematización del verso libre y se refiere a él como verso polimorfo, un verso sin ritmo o arritmo. Este “verso”, que realmente responde a la idea de libertad y del que él mismo se atribuye la invención en 1894 sería «una forma diferente del verso y de la prosa», una “tercera forma” en la que se mezclan todos los períodos prosódicos y en la que cada unidad se ajusta a una sola idea o imagen, de manera que cada pensamiento crea su propia forma.33 Es evidente que el poeta modernista tiene en cuenta las ideas simbolistas de Vielé-Griffin o Kahn sobre la necesaria unidad sintáctica del verso libre. A este respecto, Jaimes Freyre cita como antecedentes del verso libre arrítmico el ritmo ideológico de los hebreos, árabes, chinos y otros pueblos primitivos, y los versículos de herencia bíblica de San Jerónimo y otros autores. También Rubén Darío liga el verso libre al ritmo interior y al pensamiento. Así, a propósito de su poema “Heraldos”, de Prosas profanas, expone en Historia de mis libros: «En Heraldos de31
Cfr. F.T. Marinetti, Enquête internationale sur le vers libre, Milán, Poesia, 1909, pp. 69-71. Véase también É. Verhaeren, en F.T. Marinetti, ib., p. 36; R. de Souza, ib., p. 99. 32 Véase M.V. Utrera Torremocha, op. cit., pp. 58-68. 33 Cfr. R. Jaimes Freyre , “Del moderno verso libre o polimorfo”, Poemas. Leyes de la versificación castellana, México, Aguilar, 1974, pp. 223-240.
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muestro la teoría de la melodía interior. Puede decirse que en este poemita el verso no existe, bien que se imponga la notación ideal. El juego de sílabas, el sonido y el color de las vocales, el nombre clamado heráldicamente, evocan la figura oriental, bíblica, legendaria, y el tributo y la correspondencia».34 A la luz de estas palabras, parece clara la herencia simbolista de Mallarmé, así como de los primeros versolibristas franceses: melodía interior, juegos de sonidos, etc. Tras las primeras manifestaciones de fines del siglo XIX y de principios del siglo XX, el versolibrismo se extiende y desarrolla con la llegada de las vanguardias literarias, hasta llegar de forma definitiva la destrucción del concepto de verso. Muchos de los tópicos aplicados al verso libre se dejan ver en la teoría de otros ámbitos artísticos.35 La teoría y la práctica literarias tienen un correlato en la pintura y su tendencia a la transformación de las antiguas formas y a la abstracción como expresión de la individualidad. La metamorfosis del verso se conjuga en la nueva literatura con la problematización del sentido y la ruptura con el concepto de mimesis. Las expectativas creadas en torno al verso libre se corresponden plenamente con la libertad y la ruptura de la vanguardia. Así lo manifiesta, por ejemplo, E. Díez-Canedo: «Hemos llegado, en poesía, al sumo de las libertades. Adolescentes que se horrorizarían de componer un soneto a semejanza de los de Lope, no vacilarían en lanzar, después de Marinetti, a voleo, palabras en libertad».36 En muchos casos, estas palabras en libertad 34
R. Darío, Obras Completas. Crítica y ensayo, vol. I, Madrid, Afrodisio Aguado, 1950, p. 209. Paraíso incluye “Heraldos” dentro de la modalidad de verso libre paralelístico menor. Con Pedro y Max Henríquez Ureña, y frente a T. Navarro Tomás y a las propias dudas de Darío, considera este poema como escrito en verso y no en prosa, arguyendo que la “música de la idea”, es decir, el ritmo de pensamiento, concretamente el paralelismo, es suficiente base rítmica, sin necesidad de otros ritmos versales, para entender estas líneas como auténticos versos. Para la autora, con “Heraldos” se iniciaría en la poesía hispánica el verso libre paralelístico, de carácter retórico, caracterizado por «renunciar a los ritmos fónicos versales (metro, acento, rima, estrofa) y anclarse, en cambio, en procedimientos retóricos (paralelismos, acumulaciones, etc.)». (I. Paraíso, El verso libre..., p. 106.) 35 Véase ib., p. 271.
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se transforman en prosa poética, en caligramas, en discursos fragmentados que no pueden llegar a definirse ni desde los presupuestos de la prosa ni desde los del verso. Estos extremos aparecen, en efecto, en muchos de los textos que reivindican las palabras en libertad de Filippo Tommaso Marinetti y de los futuristas (1909), anulando, así frecuentemente el verso en favor de los juegos tipográficos. La premisa estética de las palabras en libertad apunta indudablemente a la ruptura no sólo del verso tradicional sino del mismo concepto de prosa.37 Evidentemente, junto al futurismo, otras vanguardias incidían en esta misma misión destructora, caso de Dadá, que, con la asunción del tedio y del vacío, quiere abolir todo sistema establecido.38 En España e Hispanoamérica los escritos teóricos de los nuevos poetas ultraístas y creacionistas muestran un talante rupturista equivalente. En el artículo “Ultraísmo”, Jorge Luis Borges señala entre los puntos básicos del grupo la reducción de la lírica a lo que considera su elemento primordial: la metáfora.39 Aparte de la clara relación con el movimiento imaginista del modernism inglés y su defensa de la imagen, hay que señalar que se cumple ya aquí la consecuencia última de la concepción simbolista de la poesía. Dejar la imagen, el símbolo, el procedimiento a secas y eliminar otros elementos que se consideran innecesarios. Así, la esencia de lo lírico se identifica con la imagen, mientras que 36
E. Díez-Canedo, “Tópicos”( 1921), en I. Paraíso, ib., p. 270. El futurismo implica la ruptura del verso con un efecto inarmónico que atenta contra la simetría clásica en favor del movimiento y de las palabras en libertad: el “verbolibre” y el verso sin ataduras o verso libre en su sentido más nato irían de la mano. En esta línea, Ramón Gómez de la Serna, siguiendo a Marinetti señala: «La danza futurista será ‘inarmónica, desgraciada, asimétrica, dinámica, verbolibre’». (R. Gómez de la Serna, “Futurismo”, en Ismos, Madrid, Guadarrama, 1975, p. 110.) 38 Ib., p. 248. Véase también A. Gómez Torres, La retórica de la nada: En torno a la poética de las vanguardias, Málaga, Publicaciones del Congreso de Literatura Española Contemporánea, 1998. 39 Véase J.L. Borges, “Ultraísmo”, Nosotros (Buenos Aires), año XV, vol. XXXIX, 151 (1921), en O. Collazos, Los vanguardismos en la América Latina, Barcelona, Península, 1977, p. 135; P. Aullón de Haro, La modernidad poética, la vanguardia y el creacionismo, Málaga, Universidad de Málaga, 2000, p. 193; I. Paraíso, El verso libre..., p. 276; T. Navarro Tomás, Métrica española, Barcelona, Labor, 1991, p. 471. 37
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el verso, además de otros aspectos, deja de ser un procedimiento elemental de la poesía para convertirse en un mero ornamento accesorio y, por lo tanto, ajeno al verdadero núcleo poético, ornamento del que hay que liberar al poema en favor de la imagen pura y simple. En este sentido, se manifiestan poetas como Guillermo de Torre, que ve en la imagen creada por la metáfora algo desligado de la realidad objetiva, y años después, José Ortega y Gasset definiría la poesía como «el álgebra superior de las metáforas».40 La cuestión del ritmo en el verso libre se ve dificultada con la llegada de las vanguardias y el llamado verso libre de imágenes. Especialmente, el creacionismo se acoge plenamente al verso libre moderno.41 Como poeta de vanguardia española que lleva al extremo la máxima de Marinetti de las palabras en libertad, destaca Vicente Huidobro, no sólo por la novedad de sus combinaciones tipográficas sino por el empleo del vanguardista verso de imágenes libre, el tipo versolibrista más característico de la vanguardia,42 cuyo desarrollo se explica por el rechazo de la poesía anterior. La negación de la estética precedente se manifiesta en varios textos de Huidobro especialmente significativos: el conocido manifiesto “Non serviam”, el prefacio al poema Adán o los escritos recopilados en Pasando y Pasando y Manifiestos. En el “Prefacio” al poema Adán, de 1916, Huidobro desestima absolutamente la poesía retórica de los modernistas: Todos los metros oficiales me dan idea de cosa falsa, literaria, retórica pura. No les encuentro espontaneidad [...]. La poesía castellana está enferma de retoricismo; agonizante de aliteratamiento, de ser parque inglés y no selva majestuosa, pletórica de fuerza y ajena a podaduras, ajena a mano de horticultor.43
Es interesante hacer notar la exaltación de la selva como 40
J. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte y otros ensayos de estética, Madrid, Revista de Occidente, 1976, p. 43. Cfr. A.M. Gómez Torres, op. cit., pp. 68 y ss; P. Aullón de Haro, op. cit., p. 193. 41 Cfr. T. Navarro Tomás, op. cit., pp. 471-472. 42 Véase I. Paraíso, El verso libre..., pp. 274-275. 43 V. Huidobro, “Prefacio” a Adán, en Poética y estética creacionistas, selección y prólogo de V. Quirarte, México. U.N.A.M., 1994, p. 32. Cfr. P. Aullón de Haro,
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ejemplo del desorden que habrá de traducirse en una forma equivalente. Por ello cree Huidobro que el verso libre es necesario en la composición del nuevo tipo de poesía que quiere hacer en Adán. Es entonces cuando explica el ritmo en un sentido amplio, supeditándolo, como otros autores versolibristas, a la armonía de la estrofa, de modo que la idea poemática despliegue en el conjunto lírico un ritmo propio.44 La relación de la nueva poesía, una poesía del futuro, con la selva tiene que ver con la comunión que se establece entre el personaje de Adán y la naturaleza. La correspondencia de carácter panteísta entre el alma individual y los componentes naturales se concreta, además de en la selva, en el mar, nueva fuerza primigenia de vida, que, como en otros autores anteriores, queda asociado al verso libre. Lo primitivo vital, pues, pleno de autenticidad y sin ningún retoricismo, ha de ser expresado en verso libre, forma espontánea única capaz de expresar el absoluto de la nueva realidad adánica.45 En un artículo sobre el futurismo, Huidobro alaba precisamente, frente a las muchas críticas del movimiento, la proclamación de Marinetti del verso libre.46 Pero la destrucción del verso y de la lógica deriva en la plena desintegración de las palabras y su significado. Es lo que sucede, por ejemplo, en el “Canto VII” de Altazor (1931): Ai aia aia ia ia ia aia ui Tralalí Lali lalá Aruaru urulario Lalilá Rimbibolam lam lam op. cit., pp. 177 y ss., y “La teoría poética del creacionismo”, Cuadernos Hispanoamericanos, 427 (1986), pp. 49-73. 44 Véase V. Huidobro, op. cit., pp. 30-31. 45 Cfr. Ib., p. 30. 46 Véase ib., pp. 117-118; P. Aullón de Haro, op. cit., p. 199.
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Uiaya zollonario lalilá Monlutrella monluztrella lalolú Montresol y mandotrina Ai ai Montesur en lasurido Montesol Lusponsedo solinario
Al lado del verso libre que rompe en muchos casos cualquier regularidad rítmica y que tiende a prescindir de la linealidad de la escritura para convertirse en representación icónica y a dejar, por lo tanto, ya de ser verso en sentido estrictamente métrico, continúan otras clases de verso libre, en las que, con o sin juegos tipográficos, se respeta generalmente la escritura lineal y se mantiene una tendencia rítmica dominante continuada o interrumpida tan sólo en ocasiones. Juan Ramón Jiménez, que también asoció el verso libre a la naturalidad de la prosa y al principio de expresión auténtica de la subjetividad y el ritmo personal,47 es el gran y principal maestro de esta clase de verso libre, dominado por ritmos versales y que tanto había de influir en la poesía posterior. Para Juan Ramón, la naturalidad del verso libre, por estar liberado de la rima, facilita la pura expresión personal. Esta idea, repetida una y otra vez por distintos poetas del siglo XX, queda ligada desde muy temprano en Juan Ramón Jiménez al ritmo misterioso y profundo del oleaje marino. A propósito del Diario explica que «en él usé por vez primera el verso libre: éste vino con el oleaje, con el no sentirse firme, bien asentado».48 Como ha indicado I. Paraíso, la idea del vaivén del mar asociada al verso libre no es más que una fanta47
48
J.R. Jiménez, Estética y ética estética, Madrid, Aguilar, 1962, p. 308. En algunas conferencias recogidas en su Política poética, como “Poesía y literatura” (1940), “Poesía cerrada y poesía abierta” (1948) y “El romance, río de la lengua española” (1954), desarrolla estas ideas, cuyo germen hay que situar en los años de escritura de Platero y yo y del Diario de un poeta reciencasado. Cfr. J.R. Jiménez, Política poética, edición de G. Bleiberg, Madrid, Alianza, 1982, p. 249. R. Gullón, Conversaciones con Juan Ramón Jiménez, Madrid, Taurus, 1958, p. 84.
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sía juanramoniana, ya que antes del viaje por mar había escrito verso libre tanto en el Diario como en su poesía anterior.49 En realidad, Juan Ramón sigue el conocido tópico whitmaniano que asocia el ritmo libre a las olas del mar, tópico repetido por un buen número de poetas anglosajones, y por otros como Mario de Andrade. Para Whitman, el mar mismo es un gran poema versolibrista, cuyas línea son «the liquid, billowy waves, ever rising and falling, perhaps wild with storm, always moving, always alike in their nature as rolling waves, but hardly any two exactly alike in size or mesure».50 No lejos de este concepto ondulante del ritmo está la visión de Vicente Huidobro, antes expuesta, o la de Gerardo Diego cuando se refiere a la elasticidad y la espiritualidad del verso, que liga a la música y la idea interior.51 La euforia versolibrista experimenta un claro auge hacia finales de la década de los 20, con las poéticas surrealistas y la poesía política de protesta, no sólo en algunos autores del 27 –Alberti, Lorca, Aleixandre, Cernuda–, sino en autores hispanoamericanos como Pablo Neruda, de tanta influencia posterior. Sin embargo, a menudo el versolibrismo de estos autores se ajusta también a alguna pauta rítmica que se interrumpe con fines expresivos. Como demuestran los estudios sobre la métrica de estos y otros autores la base rítmica de sus poemas es indudable, de ahí que se haya hablado, más que de versificación libre, de versificación semilibre, precisamente por la acusada tenden49
Véase I. Paraíso, El verso libre..., pp. 201-202. Apud P. Fussel, op. cit., pp. 82-83. 51 Cfr. G. Diego, “Elasticidad y espiritualidad del ritmo”, en VV.AA., Elementos formales en la lírica actual, Santander, U.I.M.P., 1967, pp. 29-44, y “Defensa de la Poesía”, Carmen, 5 (1928), pp. 11-16. Sobre G. Diego, vide F.J. Díez de Revenga, La métrica de los poetas del 27, Murcia, Universidad de Murcia, 1973, pp. 292303; I. Paraíso, “El orden en la pirueta: Notas sobre la métrica libre de Gerardo Diego”, Crisol (Nanterre), 9 (1988), pp. 47-63, y “Retórica y Poesía. Comentario retórico sobre un poema de Gerardo Diego”, en I. Paraíso (coord.), Téchne Rhetoriké. Reflexiones actuales sobre la tradición retórica, Valladolid, Universidad de Valladolid, 1999, pp. 131-149. Sobre la relación entre el ritmo poético y el movimiento de las olas en Rubén Darío y Pablo Neruda, véase A. Sicard, “Mar, ritmo y poesía en Rubén Darío y Pablo Neruda”, en G. Areta Marigó, H. Le Corre, M. Suárez y D. Vives (eds.), Poesía hispanoamericana: Ritmo(s)/métrica(s)/ruptura(s), Madrid, Verbum, 1999, pp. 222-235. 50
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cia al ritmo endecasilábico, que alcanza incluso al versículo de algunos autores. En este sentido, Rafael Alberti indica: «Todos falsificamos, mejor dicho, trucamos la métrica, cortando el verso por donde nos conviene, o nos viene en gana, con el fin de ofrecer un verso libre, largo, de más nueva apariencia; verso que leído con picardía no pasa de ser, casi constantemente de once a catorce sílabas; al fin, ese mismo que repitiéndose sin consonante la preceptiva literaria llama verso blanco».52 También Jorge Luis Borges reconoce la tradicionalidad endecasilábica de su verso libre, aunque conviene advertir que no todo su verso libre es de ritmo endecasilábico. Así, en el prólogo a Elogio de la sombra, después de apuntar las relaciones entre versículo y prosa, afirma: «Yo anhelé alguna vez la vasta respiración de los psalmos o de Walt Whitman; al cabo de los años compruebo, no sin melancolía, que me he limitado a alternar algunos metros clásicos: el alejandrino, el endecasílabo, el heptasílabo».53 La ruptura del ritmo silábico, unida ocasionalmente a ciertos cambios acentuales, como sucede, por ejemplo, en el endecasílabo español, es lo que realmente suele ser percibido como versificación libre en la mayor parte de la poesía occidental, y especialmente en la tradición de las lenguas romances. Sería este último tipo de versificación libre el más conservador y el que, a lo largo de todo el siglo XX, más tiempo se ha mantenido y más ha calado en los grandes escritores versolibristas. Ello explica, por ejemplo, la permanencia de las combinaciones basadas en la silva. Uno de los estudios que, junto al de Amado Alonso sobre Pablo Neruda, ha demostrado ampliamente la tendencia rítmica endecasilábica del verso libre ha sido el de Carlos Bousoño sobre la poesía de Vicente Aleixandre. Sin prescindir de las apoyaturas retóricas, el verso libre o versículo aleixandrino, tal como aparece en Sombra del Paraíso, posee en cuanto al ritmo 52
Rafael Alberti, Poemas diversos (1945-1956), en Poesías completas, Buenos Aires, Losada, 1961, p. 790. 53 J.L. Borges, Obra poética, p. 317. Cfr.I. Paraíso, El verso libre..., p. 376; E. Torre, Métrica española comparada, Sevilla, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Sevilla, 2000, pp. 106-107.
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“un punto de clasicidad”, que, según Bousoño, es extensible en lo sustancial a toda la obra de Aleixandre y a la versificación libre en general. En el 95% de los versos de Sombra del Paraíso descubre Bousoño, tras un profundo análisis, la presencia de los ritmos endecasilábicos sucesivos o yuxtapuestos en el verso extenso o versículo, que a veces se suman y otras se solapan, de modo que la novedad aleixandrina respecto a épocas anteriores, como el modernismo, residiría sólo en la reunión en un solo versículo de diferentes versos breves de tipo endecasilábico. Las posibles irregularidades dentro del general predominio del ritmo endecasilábico se asumirían perfectamente dentro de la estructura poemática, ya que las unidades rítmicas dislocadas quedan absorbidas por la masa rítmica mayoritaria del poema. Es básicamente lo que sucede también en los escasos textos con alguna disonancia del Diario de un poeta reciencasado de Juan Ramón Jiménez. La presencia de estos versos irregulares se explicaría por motivos puramente estéticos y expresivos.54 En la poesía actual se siguen las directrices marcadas a partir de la postguerra española con una clara vuelta a formas tradicionales con momentos de auge versolibrista menos frecuentes. Luis Antonio de Villena ha estudiado recientemente el panorama poético de los últimos veinticinco años, que vendría determinado por una serie de poetas muy heterogéneos, pero que comparten el deseo de recuperar la tradición, algo que sucede especialmente en las distintas tendencias poéticas que surgen en los años ochenta. Una consecuencia lógica de esta vuelta a los valores tradicionales es la recuperación de la métrica, aunque, según Villena, el versolibrismo no esté ausente de la tradición clásica.55 ¿Cómo entender entonces el problema del ritmo en la teoría 54
Véase C. Bousoño, La poesía de Vicente Aleixandre, segunda edición corregida y aumentada, Madrid, Gredos, 1968, pp. 281-286: A. Alonso, Poesía y estilo de Pablo Neruda (1951), Barcelona, Edhasa, 1979, passim; P. García Carcedó, “Variedad rítmica en la poesía de Pablo Neruda”, en J. Marco (ed.), XXIX Congreso del Instituto Internacional de Literatura Iberoamericana, Universidad Complutense de Madrid, 1992, vol. II, Barcelona, P.P.U., 1994, pp. 659-665. 55 Véase L.A. de Villena, Teorías y poetas. Panorama de una generación completa en la última poesía española, 1980-2000, Valencia, Pre-Textos, 2000, pp. 24 y 75.
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del siglo XX? Partiendo de las primeras opiniones de los poetas, la crítica que se ha ocupado del verso libre a menudo ha continuado algunos de los tópicos versolibristas. En este sentido, casi la totalidad de los críticos explica la aparición y desarrollo del verso libre como el resultado de la pura expresión del ritmo personal, del pensamiento y las emociones individuales.56 En su estudio sobre Pablo Neruda, por ejemplo, Amado Alonso relaciona el ritmo interior del verso libre con el de la prosa, a lo que se añade, fuera ya de la lógica prosística –y en ello consistiría el ritmo poético libre–, la manifestación lineal de «las intuiciones que dan salida y forma al sentimiento». La vinculación con la prosa se evidenciaría en la manera de expresión, generalmente en entidades sintácticas independientes, como querían los primeros versolibristas franceses. Se trata, en parte, de un ritmo regido por moldes sintácticos, pero unidos entre sí porque el impulso emocional los enlaza, como en una cadena.57 La expresión de este ritmo en cadena, presidido por impulsos intuicionales o emocionales internos, deriva en imágenes encadenadas, enumeraciones, repeticiones de determinados elementos de un verso a otro, en un juego de tensiones y distensiones, encabalgamientos –cuando los hay– de gran valor expresivo, y la repetición obsesiva del tema.58 Se trata de lo que Paraíso llama la equivalencia afectiva de imágenes, dada en muchos casos por ese movimiento envolvente del ritmo en cadena, que sería el soporte básico del llamado verso libre de pensamiento.59 Es lo que sucede, por ejemplo, en los siguientes versos citados por Amado Alonso en su estudio: 56
Cfr. J. Domínguez Caparrós, op. cit., p. 179; C. Scott, Reading the Rhythm. The Poetics of French free Verse. 1910-1930, Oxford, Clarendon Press, 1993, p. 6; G.B. Cooper, Mysterious Music. Rhythm and free Verse, Stanford, Stanford University Press, 1998, pp. 30-35; V. Zirmunskij, op. cit., pp. 26-27; I. Paraíso, El verso libre..., p. 55; P. Henríquez Ureña, “En busca del verso puro”, Estudios de versificación española, Buenos Aires, Universidad de Buenos Aires-Instituto de Filología “Doctor Amado Alonso”, 1961, p. 254. 57 A. Alonso, op. cit., p. 88. 58 Vide ib., pp. 89-114. 59 Cfr. I. Paraíso, El verso libre..., p. 31.
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Si solamente me tocaras el corazón si solamente pusieras tu boca en mi corazón, tu fina boca, tus dientes, si pusieras tu lengua como una flecha roja allí donde mi corazón polvoriento golpea, si soplaras en mi corazón, cerca del mar, llorando, sonaría con un ruido oscuro, con sonido de ruedas [de tren con sueño como aguas vacilantes, como el otoño en hojas, como sangre, con un ruido de llamas húmedas quemando el cielo, sonando como sueños o ramas o lluvias, o bocinas de puerto triste, si tú soplaras en mi corazón, cerca del mar, como un fantasma blanco, al borde de la espuma, en mitad del viento, como un fantasma desencadenado, a la orilla del mar llorando.
El poema revela, por otra parte, una tendencia al ritmo endecasilábico, interrumpido por algunos versos: Si solamente me tocaras el corazón si solamente pusieras tu boca en mi corazón, tu fina boca, tus dientes, si pusieras tu lengua como una flecha roja allí donde mi corazón polvoriento golpea, si soplaras en mi corazón, cerca del mar, llorando, sonaría con un ruido oscuro, con sonido de ruedas de tren con sueño como aguas vacilantes, como el otoño en hojas, como sangre, con un ruido de llamas húmedas quemando el cielo, sonando como sue ños o ramas o lluvias, o bocinas de puerto triste, si tú soplaras en mi corazón, cerca del mar, como un fantasma blanco,
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9+5 8+8 8 7+7 9+7 10+7 10+7+5 7 7 4 (7+4:11) 9+5 14 9 11+5 7
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al borde de la espuma, en mitad del viento, como un fantasma desencadenado, a la orilla del mar llorando. 11+9
7 6
A este marcado ritmo de pensamiento, de naturaleza retórica, Amado Alonso añade en la práctica del verso libre de Neruda la presencia generalizada de un canon métrico, normalmente alrededor del ritmo endecasilábico, que organiza métricamente el texto.60 Caracterizado también como expresión del sentimiento y la pulsión personal, siguiendo el tópico de la lírica asociada a la subjetividad, aparece el verso libre en Tomás Navarro Tomás, para quien el único elemento tradicional que el versolibrismo admite es el ritmo, que «se funda en la sucesión de los apoyos psicosemánticos que el poeta, intuitiva o intencionalmente, dispone como efecto de la armonía interior que le guía en la creación de su obra».61 A partir de esta idea nuclear, advierte que el verso libre no excluye la presencia del verso regular, de la rima o de la estrofa.62 Respecto a Vicente Aleixandre, Dámaso Alonso indica cómo su verso libre a menudo se remansa en la «conocida música de los endecasílabos tradicionales»63 –como años más tarde concluirá Bousoño respecto a Sombra del Paraíso– y hace 60
A. Alonso, op. cit., pp. 87 y 114. T. Navarro Tomás, op. cit., p. 454. 62 Véase ib., pp. 41 y 500; I. Paraíso, El verso libre..., p. 40. No obstante, más adelante sufre un cambio en su opinión sobre el verso libre. Aparte del verso libre con tendencia al ritmo endecasilábico, el verso libre verdaderamente amétrico, consecuente con su espontaneidad -el arritmo de Jaimes Freyre-, cae para Navarro Tomás fuera del concepto de verso y se aproxima claramente a la prosa, justificándose sólo como verso por su apariencia tipográfica. Vide T. Navarro Tomás, “En torno al verso libre” (1970), en Los poetas en sus versos. Desde Jorge Manrique a García Lorca (1973), Barcelona, Ariel, 1982, pp. 381-387, y “Apuntes sobre versificación moderna”, en VV.AA., Homenaje a la memoria de Don Antonio Rodríguez-Moñino. 1910-1970, Madrid, Castalia, 1975, pp. 514-515. 63 D. Alonso, Poetas españoles contemporáneos, tercera edición aumentada, Madrid, Gredos, 1965, p. 278. 61
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notar igualmente el “énfasis retórico”, presente en otros poetas versolibristas de su generación –Alberti, Lorca–, que se plasma en enumeraciones, repeticiones, etc., relacionadas con las obsesiones oníricas en Espadas como labios y La destrucción o el amor,64 aunque este ritmo sintáctico o de pensamiento aparece igualmente en otros poemarios versolibristas no surrealistas. Asimismo señala la importancia del ritmo interior. El recurso a explicar la ametría versolibrista como resultado del ritmo personal es, como se ve, frecuente en los estudios métricos y se vincula igualmente al ritmo de pensamiento, marcado por la unidad sintáctica de cada verso, las repeticiones y el paralelismo además de otros elementos retóricos. Al prescindir de los factores métricos, la explicación rítmica del verso libre se hace a veces a partir del dominio de la estilística. La efectiva dificultad y la variabilidad del verso libre han llevado a no pocos críticos a explicar la versificación libre teniendo en cuenta el amplio concepto de ritmo de pensamiento.65 64 65
Cfr. ib., pp. 278 y 284-287. Dentro de los escasos estudios de conjunto dedicados en España al verso libre, Francisco López Estrada parte de la premisa del ritmo interior tanto en su Métrica española del siglo XX, de 1969, como en un artículo anterior titulado “La métrica nueva” (1967). En ambos estudios pretende desligar la nueva poesía, que él asocia especialmente a la vanguardia, de la métrica tradicional. Cfr. F. López Estrada, “La métrica nueva”, en VV.AA., Elementos formales en la lírica actual, ed. cit., pp. 104-105, y Métrica española del siglo XX, Madrid, Gredos, 1969, pp. 99-111 y 120-122. Fernando Lázaro Carreter ha explicado el verso libre, diferenciándolo de la prosa, a partir de las repeticiones sintácticas y en relación con la función poética de Jakobson, justificando el ritmo a partir del impulso dictado por la emoción artística, en la línea de Amado Alonso. Véase F. Lázaro Carreter, “Función poética y verso libre” (1971), en Estudios de poética (La obra en sí), Madrid, Taurus, 1976, pp. 58-61. Ya R.D. Bassagoda mencionó algunos procedimientos estilísticos del verso libre, como frases repetidas, paralelismos, metáforas e imágenes, etc. Cfr. R.D. Bassagoda, “Del alejandrino al verso libre”, Boletín de la Academia Argentina de Letras, XVI, 58 (1947), pp. 110-111; S. Gili Gaya, “Observaciones sobre el ritmo de la prosa”, en Estudios sobre el ritmo, edición de I. Paraíso, Madrid, Istmo, 1993, pp. 55-56; A. Quilis, “Sobre el verso libre en español”, en J. Romera, A. Lorente y A.M. Freire (eds.), Homenaje al Profesor José Fradejas Lebrero, t. II, Madrid, U.N.E.D., 1993, pp. 896-900, y Métrica española, Barcelona, Ariel, 1984, p. 165; F.J. Díez de Revenga, op. cit., p. 277.; I. Paraíso, El verso libre...; J. Cohen, op. cit., pp. 30-43; J. Domínguez Caparrós, Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, Madrid, U.N.E.D., 1988, p. 28, Métrica española, Madrid, Síntesis,
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Isabel Paraíso entiende también que los factores semánticos y sintácticos son esenciales en la explicación del ritmo poético. Así, en su amplia tipología sobre el verso libre se refiere a la versificación paralelística, que se apoyaría en el ritmo de pensamiento. Independientemente de que esta versificación paralelística contenga o no ritmos fónicos, se caracteriza sobre todo por «un retorno ideológico, bien en forma positiva (paralelismo sinonímico), en forma negativa (paralelismo antitético), o en forma de emblema o símil que se desarrolla en el verso siguiente (paralelismo emblemático). Este retorno se plasma frecuentemente en recurrencias sintácticas (isocolos de todo tipo: en quiasmo, en paromoeosis, etc.) y en recurrencias léxicas (“repetitio” en sus múltiples formas: geminación, anáfora, complexión, epímone, etc.) o en recurrencias semánticas (enumeración, acumulación, sinonimia, percusión, etc.)».66 La retórica explicaría, pues, en buena medida la “poeticidad” de estos textos. Paraíso considera, además, en relación a la versificación que se basa en el ritmo de pensamiento, el verso de imágenes acumuladas o yuxtapuestas libre, en el que predominan las 1993, p. 51 y Diccionario de métrica española, pp. 176-179; E. Alarcos Llorach, “Secuencia sintáctica y secuencia rítmica”, en VV.AA., Elementos formales en la lírica actual, ed. cit., pp. 11-16, y La poesía de Blas de Otero, Madrid, Gredos, 1966; J. Silkin, op. cit., pp. 7 y ss.; G.B. Cooper, op. cit., pp. 30-35 y 101-109; P. Fussel, op. cit., pp. 78-80; O. Belic, op. cit., pp. 192-193 y 582; P. Jauralde Pou, “Poesía española actual. La cuestión métrica”, Voz y Letra. Revista de Literatura, X, 1 (1999), p. 119; Véase A. Kibédi-Varga, “Syntaxe et rythme chez quelques poètes contemporains”, en M. Parent (ed.), op. cit., pp. 176-177 y 178-181; Ch.O. Hartman, op. cit., pp. 81-103; K.M. Kohl, op. cit., pp. 9-12, 252-254. Si bien es cierta, según se ha visto ya, la profunda importancia de ciertos elementos retóricos, es excesivo hablar de desprecio hacia las pautas versales dentro de la poesía contemporánea, sobre todo si se tiene en cuenta la influencia métrica tradicional en la poesía de los últimos años. En este sentido, Esteban Torre considera que en el poema la forma del contenido es esencial en la conformación del ritmo de pensamiento, aunque son las iteraciones fónicas, en concreto el número de sílabas y la disposición del acento, los fundamentos rítmicos del verso. A ello se añadirían secundariamente otras repeticiones fónicas importantes, como la rima o la aliteración. Vide E. Torre, El ritmo del verso (Estudios sobre el cómputo silábico y la distribución acentual, a la luz de la Métrica Comparada, en el verso español moderno), Murcia, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Murcia, 1999, p. 12, y Métrica española comparada, p. 55. 66 I. Paraíso, La métrica española..., p. 204. Cfr. I. Paraíso, El verso libre..., p. 399.
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imágenes reiteradas y, sobre todo, la metáfora,67 y que es frecuente en la vanguardia. Se caracteriza por prescindir del paralelismo sintáctico para dar el protagonismo a una «red de imágenes afectivamente equivalentes, que traducen un especial estado anímico del poeta». Este tipo de composiciones suele aparecer con una disposición tipográfica anómala, propia de los juegos vanguardistas, y tiende a eliminar cualquier rasgo métrico, por lo que habitualmente «su ritmo no radica en la forma versal».68 Supone, pues, un paso más extremo que el versículo whitmaniano en la efectiva destrucción del concepto de verso.69 El juego de las imágenes es evidente en el siguiente fragmento del poema “Mar” de Gerardo Diego:70 Cuántas tardes viudas arrastraron sus mantos sobre el mar Pero ninguna como tú tarde grave hermana mía dolorosa como una señorita de compañía Aquel poema desplegó sus velas y escribió con la quilla sus estelas versos horizontales salpicados de acentos que cantan sacudidos por los vientos
Obsérvese, sin embargo, que, aparte de la rima, hay también un claro ritmo endecasilábico, con versos de cinco sílabas –versos 3 y 6–, siete sílabas –versos 1, 7, 11 y 12–, nueve sílabas –verso 8– y once sílabas –versos 2, 9, 10 y 13–. Por su parte, los versos 4 y 5, de cuatro sílabas tomados separadamente, si se unen en la lectura forman un heptasílabo. 67
Cfr. I. Paraíso, La métrica española..., p. 190. I. Paraíso, El verso libre..., p. 400. Véase La métrica española..., p. 207. 69 Cfr. I. Paraíso, El verso libre..., p. 284. 68
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El ritmo de pensamiento en sus distintas vertientes, no obstante, es perceptible en otras composiciones en verso regular, como ya vio Carlos Bousoño en “La correlación en la poesía española moderna”.71 El paralelismo –apunta Domínguez Caparrós– es frecuente no sólo en el verso libre, sino “en toda manifestación poética en verso”.72 Pero igualmente puede encontrarse como recurso rítmico de la prosa, por lo que en sí mismo no es, desde luego, como sucede también con la acumulación de imágenes caóticas, un procedimiento que justifique el verso como tal, aunque pueda contribuir a su “poeticidad”. José Domínguez Caparrós se ha referido frecuentemente al ritmo sintáctico o de pensamiento no sólo respecto al problema del encabalgamiento, sino a las repeticiones léxicas, de estructuras sintácticas, etc. Sobre el verso libre, que define como verso «caracterizado porque la falta la regularidad en el número de sílabas no está sometida a ningún límite ni a ninguna norma acentual», señala que su caracterización rítmica «reside en una segmentación del discurso basada fundamentalmente en la entonación»,73 segmentación que permite aislar unidades de imágenes, de figuras, de pensamiento, las cuales derivan de la intuición que expresa el sentimiento personal. Aparte de los elementos fónicos, las repeticiones sintácticas y semánticas son en el verso libre esenciales, ya que en él «el elemento rítmico dominante es de índole sintáctica, semántica o visual».74 Junto a estos aspectos, indica la amplia diversidad versolibrista y la posible presencia de estructuras regulares y tradicionales, o de la rima, al lado de versos arrítmicos. Así sucede en el ejemplo de verso libre del Canto General de Neruda, que él mismo ofrece en su Métrica española75 donde el ritmo se funda en unidades 70
Véase I. Paraíso, La métrica española..., pp. 190 y 207. Véase C. Bousoño, “La correlación en la poesía española moderna”, en D. Alonso y C. Bousoño, Seis calas en la expresión literaria española, tercera edición aumentada, Madrid, Gredos, 1963, p. 269. 72 J. Domínguez Caparrós, Métrica española, p. 51. 73 Véase J. Domínguez Caparrós, Diccionario de métrica española, pp. 187-188, y Métrica española, pp. 45-46 y 183. 74 Ib., p. 46. 75 Vide J. Domínguez Caparrós, Diccionario de métrica española, p. 18, y Métrica española, pp. 186-187. 71
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sintácticas y de contenido, aunque es evidente, además, la medida endecasilábica de los versos, de 7, 11 y 14 sílabas: Qué luna como una culata ensangrentada, qué ramaje de látigos, qué luz atroz de párpado arrancado te hacen gemir sin voz, sin movimiento, rompen tu padecer sin voz, sin boca: oh, cintura central, oh, paraíso de llagas implacables. De noche y día veo los martirios, de día y noche veo al encadenado, al rubio, al negro, al indio escribiendo con manos golpeadas y fosfóricas en las interminables paredes de la noche.
Conviene insistir en que el llamado ritmo de pensamiento no puede ser considerado con propiedad como un sistema de versificación, ni es algo exclusivo ni intrínseco a la poesía libre. ¿Cómo decidir entonces en qué consiste el ritmo del versículo y del verso libre? Es éste una cuestión continuamente debatida. El problema de decidir si un versículo ha de estudiarse como prosa o como verso largo producto de la suma de distintos versos cortos dependerá, sin duda, de sus estrictas cualidades métricas o de la ausencia de éstas. Como ocurre en la silva juanramoniana, también el versículo se explica muchas veces por el ritmo endecasilábico. Con apariencia de verso libre el siguiente poema de Antonio Carvajal se ajusta, en general, a la regularidad rítmica, donde une el versículo y el verso de ritmo endecasilábico: Te busco en esta última mañana de verano, tan grata a los sentidos, con jazmines en ramas y en el suelo, y evoco tu dolor y tus gozos que pobremente fueron míos. Oigo el rumor del mundo, algo lejano, que no apaga ni mis pulsos ni mi respiración, y sé que vivo por tu recuerdo, porque tú me hiciste de ti, fruto de amor y de esperanza, y yo me sé nacido de ese amor hacia otro y de ese otro que se fundió
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contigo y sois mi vida. Y ahora miro al cielo con mejillas de lluvia y en el azul que empañan leves nubes no distingo tu rostro y me faltan tus manos que crucé en gesto último de súplica y entrega, y alzo la voz, aun a sabiendas de que no puedes oírme, de que no volverás esos tus ojos misericordiosos a esta pobre criatura que tú hiciste, esta voz que te dice madre, no puedo perdonarte que me dejaras solo.
La longitud, cercana a la prosa, de los versículos no impide la percepción de los versos endecasilábicos perfectamente regulares: Te busco en esta última // mañana de verano, // tan grata a los sentidos, // con jazmines en ramas // y en el suelo, y evoco // tu dolor y tus gozos 7+7+7+7+7+7 que pobremente fueron míos. // Oigo el rumor del mundo, // algo lejano, que // no apaga ni mis pulsos // ni mi respiración, y sé que vivo 9+7+7+7+11 por tu recuerdo, porque tú me hiciste 11 de ti, fruto de amor y de esperanza, 11 y yo me sé nacido // de ese amor hacia otro y de ese otro // que se fundió contigo y sois mi vida. 7+11+11 Y ahora miro al cielo // con mejillas de lluvia 7+7 y en el azul que empañan leves nubes 11 no distingo tu rostro 7 y me faltan tus manos // que crucé en gesto último // de súplica y entrega, 7+7+7 y alzo la voz, // aun a sabiendas de // que no puedes oírme, // de que no volverás esos tus ojos 5+7+7+11 misericordiosos a esta // pobre criatura que tú hiciste, 9+9 esta voz que te dice 7 madre, 2
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no puedo perdonarte 7 que me dejaras solo. 7
La impresión de regularidad y periodicidad del ritmo del verso libre y del versículo reside en la continua aproximación a unos modelos conocidos por el lector competente.76 En muchos casos, la tradición métrica está claramente presente en el versolibrismo. Ya Henri Morier demostró en su estudio sobre el verso libre francés la base tradicional del mismo, que se erige en el fundamento de su teoría sobre el versolibrismo.77 Independientemente de las dificultades que pueda plantear la escansión de los versos libres, es necesario un estudio métrico de los mismos, único modo de llegar a discernir si se trata o no de versos, sean cuales fueran sus componentes métricos.78 Estudiar el verso libre prescindiendo de la base del verso clásico es obviar una gran parte de la poesía versolibrista que se asienta en la tensión y continua confrontación con el verso tradicional.
76
Vide J. Cohen, op. cit., pp. 217-218; F. Deloffre, “Versification traditionnelle et versification libérée d’après un recueil d’Yves Bonnefoy”, en M. Parent (ed.), op. cit., p. 55, y “Vers libre et vers rénové”, en Le vers français, París, SEDES, 1973, pp. 156-167. 77 Cfr. H. Morier, Le Rythme du vers libre symboliste, étudié chez Verhaeren, Henri de Régnier, Viélé-Griffin, et ses relations avec le sens, vol. I, Ginebra, Les Presses Académiques, 1943, passim; M. Parent, art. cit., loc. cit., p. 292; C. Scott, Vers libre: The Emergence..., pp. 92-94, y A Question of Syllables, pp. 158-175; D. Grojnowski, “Poétique du vers libre: Derniers Vers de Jules Laforgue”, Revue de’Histoire Littéraire de la France, LXXXIV, 3 (1984), pp. 405-410; A. García Ortega, “Jules Laforgue: Vida y tedio”, Revista de Occidente, 74-75 (1987), pp. 231-233; J. Filliolet, “Problématique du vers libre”, Language Français, 23 (1974), p. 71; J. Mazaleyrat, “La tradition métrique dans la poésie d’Éluard”, en M. Parent (ed.), op. cit., pp. 25-32. 78 E. Torre, El ritmo del verso, pp. 12-13. Véase también E. Torre, Métrica española comparada, p. 23. Cfr. I. Tinianov, El problema de la lengua poética (1924), Buenos Aires, Siglo XXI, 1972, pp. 20-39; H. Morier, op. cit., p. 19.
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FRIEDRICH HÖLDERLIN: L’Arxipèlag. Elegies. Edición bilingüe, traducción y presentación de Jordi Llovet, Quaderns Crema, Barcelona, 1999.
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l extenso poema Der Archipelagus de Friedrich Hölderlin y una selecta muestra de sus Elegien (Der Wanderer, Menons Klagen um Diotina, Heimkunft an die Verwandten, Brot und Wein y Stutgard), junto con su traducción a la lengua catalana, llevada a cabo por Jordi Llovet, integran este libro, que ha sido cuidadosamente editado por Quaderns Crema. La edición, bilingüe, incluye una erudita introducción del traductor, que proporciona al lector todas las claves y puntos de referencia necesarios para la mejor comprensión del poemario. Son encomiables, por muchos conceptos, tanto la traducción como el estudio previo. Pero reviste un especial interés la actitud que se adopta a la hora de reproducir las formas métricas, ya que se ha logrado una exacta y hermosa equivalencia de los versos de la lengua catalana receptora a los de la lengua alemana original. El ritmo, en efecto, se traduce, en ritmo, y el verso reaparece como verso, cuya medida se ajusta perfectamente en la lengua de llegada a las pautas iniciales de la lengua de partida. En la lengua alemana, los poemas están escritos en unos metros que fueron directamente heredados de la tradición grecolatina: hexámetros por lo que respecta a El Archipiélago, y dísticos elegíacos, esto es, hexámetros y pentámetros alternados, en lo que atañe a las Elegías. Naturalmente, los versos de Hölderlin no son, propiamente hablando, ni hexámetros ni pentámetros, sino tan sólo un intento de adaptación al alemán de estas formas clásicas, uno más entre los múltiples realizados en las literaturas europeas, en especial desde mediados del siglo XVIII hasta principios del XX. Por limitarnos al hexámetro, recuérdese la “Salutación del optimista” de Rubén Darío, cuyo verso inaugural –«Ínclitas razas ubérrimas, sangre de Hispania fecunda»– sugiere y remeda, con su marcado ritmo dactílico y sus seis grupos acentuales, los seis pies del hexámetro clásico. El mismo Rubén hacía ver, en el
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prefacio de Cantos de vida y esperanza, cómo se había estado ya utilizando el hexámetro en todos los países cultos de Europa, y concretamente citaba a Carducci y a Longfellow. A decir verdad, una aclimatación aceptable del hexámetro a las métricas europeas nunca tuvo lugar. La asimilación sistemática de las sílabas largas a las tónicas, y las breves a las átonas, en el hexámetro dactílico, daría como resultado una repetitiva serie ternaria, que, de ser mantenida, redundaría en una monotonía insufrible. Por otra parte, la utilización del espondeo como alternativa al dáctilo, y la consiguiente asimilación de sus dos sílabas largas a sílabas tónicas, nos llevaría al ritmo imposible de dos tónicas consecutivas. Por definición, la sílaba acentuada lo es siempre en relación a un entorno, ya que el acento no es una entidad absoluta, sino relativa. Una sílaba, con relieve acentual en la palabra aislada, puede perderlo en la secuencia fónica del discurso ordinario, o en la línea del verso, ante la proximidad inmediata de la sílaba tónica de otra palabra. O dicho de otro modo, dadas dos sílabas tónicas consecutivas, una de ellas deberá ser relativamente más acentuada que la otra. Esto explica que, en la adaptación del hexámetro clásico a las lenguas modernas, se optara por sustituir el espondeo por el troqueo, en el que se da la secuencia de una sílaba larga y otra breve, asimilables a tónica y átona. Ahora bien, ocurre que en la lengua griega y en la latina son obviamente intercambiables el dáctilo y el espondeo, puesto que ambos pies constan de cuatro moras o unidades silábicas: las dos de la sílaba larga y una más por cada una de las dos breves, en el dáctilo, y dos por cada una de las dos largas, en el espondeo. Pero, en las lenguas modernas europeas, no sucede lo mismo. El dáctilo importado consta de tres sílabas, y el troqueo de dos. Y no es razonable el tratar de encontrar una equivalencia rítmica entre ambos pies métricos. Durante algún tiempo, se pretendió aducir la existencia de una supuesta isocronía acentual entre dichos grupos silábicos. Se hizo al efecto una distinción entre lenguas de isocronía acentual y lenguas de anisocronía acentual, considerándose como isocronía la igualdad de las distancias temporales entre los acentos, independientemente del número de sílabas inacentuadas que pudieran existir entre ellos. En las llamadas lenguas de isocronía acentual, serían de ese modo equivalentes el dáctilo y el troqueo. Pero el estado actual de la investigación, tanto en el terreno de la fonética acústica como en el de la fonología métrica, ha echado por tierra dichas hipótesis. Y, más allá de toda consideración teórica, en la práctica sucede que –en
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las lenguas europeas modernas, neolatinas o no– el oído no percibe en modo alguno como rítmicamente equivalentes las tres sílabas del dáctilo y las dos del troqueo. En estas circunstancias, es comprensible que los repetidos intentos de adaptación del hexámetro conserven en la actualidad tan sólo un valor histórico, y en ocasiones meramente anecdótico. En lo que concierne a la traducción del verso clásico, se han venido formulando las más variadas propuestas, que van desde una simple versión en prosa hasta la utilización de los sistemas métricos propios de las lenguas receptoras y, en especial, en la literatura española, los versos de ritmo endecasilábico. En todo caso, para la traducción y la naturalización del hexámetro en las lenguas modernas, cualquier procedimiento sería en principio aceptable, siempre que diéramos de lado definitivamente al quimérico deseo de conservar la oposición larga/breve, o la pretensión de reproducir la peculiar estructura fonológica y morfosintáctica del original griego o latino. La versión catalana de los versos de Hölderlin requiere una consideración radicalmente distinta. El traductor no ha tenido que habérselas aquí con el problema de adaptar a la lengua catalana las formas métricas de la antigüedad grecolatina, sino que parte de unos versos ya escritos en una lengua europea moderna, unos versos alemanes, que fueron creados por Hölderlin a imitación de las formas métricas antiguas. A este respecto, el profesor Llovet nos asegura que ha intentado decir, desde el punto de vista del contenido, lo mismo que dice el original. Y certeramente apunta que, en dicho contenido, participan también la misma forma del verso y la arquitectura del poema. De ahí que los versos de la traducción aparezcan con la misma factura que los originales, es decir, con los mismos seis periodos rítmicos o grupos acentuales que utilizó el poeta alemán en su imitación del hexámetro. De la exactitud de la traducción dan fe algunos ejemplos: Kreta steht und Salamis grünt, umdämmert von Lorbeern... Creta roman, Salamina verdeja, a la llum dels llorers... (Der Archipelagus, v. 13) Warm ist das Ufer hier und freundlich offene Thale... Càlides són les riberes, amigues les valls espaioses... (Heimkunft an die Verwandten, v. 49)
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Offen steht jezt wieder ein Saal, und gesund ist der Garten... S’obren les sales extenses de nou i el jardí s’engalana... (Stutgard, v. 3) Es asombrosa la sonoridad de los versos catalanes, animados de un ritmo claramente dactílico, en la exquisita traducción de Jordi Llovet. No obstante, como el mismo autor señala, la lengua catalana tiene grandes dificultades para construir de una manera sistemática versos que comiencen por sílaba tónica. Nos advierte que dicha lengua tiende más bien al ritmo anapéstico que al dactílico, como lo demuestra la preferencia del lenguaje coloquial por el hexámetro anapéstico: «Ja et vaig dir que portessis les prunes en una cistella a ca l’àvia», frente al hexámetro dactílico: «Prunes vaig dir que portessis a l’àvia en cistella o en cove». Confiesa que prefiere haber cometido, en alguna ocasión, una posible “incorrección métrica” en lugar de haber incurrido en la extravagancia de ofrecer unos versos forzados y contrahechos. Y considera que, en fin de cuentas, la versión al catalán de un hexámetro no está obligada a ser más que un verso de seis acentos con predominio de secuencias de dos sílabas átonas alternadas con una tónica. Fundamentalmente, lo que el traductor se ha esforzado por ofrecer al lector catalán actual es una “forma eufónica” que sea asimilable a la musicalidad de los versos alemanes de Hölderlin. Y es que, para Jordi Llovet, una traducción ha de “sonar” siempre como una melodía homologable a la sonoridad del verso original. Esto es lo que justamente ha conseguido con este hermoso libro el profesor Llovet, quien ya con anterioridad había traducido la tragedia La muerte de Empédocles, del mismo Hölderlin, publicada también en Quaderns Crema. Las letras catalanas quedan ahora, una vez más, enriquecidas con un trabajo de auténtica recreación poética. ESTEBAN TORRE
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ESTEBAN TORRE: Métrica española comparada. Publicaciones de la Universidad de Sevilla, Sevilla, 2000 (1ª reimpresión 2002).
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a Métrica como disciplina encargada del estudio sistemático del verso ha ocupado siempre un lugar destacado dentro de los estudios de Poética o, según la denominación hoy más generalizada, de Teoría de la Literatura, y a ella ha dedicado no pocas de sus numerosas publicaciones el profesor Esteban Torre. En la obra que nos ocupa, el Dr. Torre aúna sus intereses por la poesía que van desde su labor investigadora y docente, ejercida durante más de veinte años en la Universidad de Sevilla, de la cual es en la actualidad Catedrático de Teoría de la Literatura, o su conocimiento de diversas lenguas y literaturas, que le permiten un ejercicio riguroso de comparatismo, hasta su aquilatado juicio como crítico y poeta que interviene en la selección de los textos poéticos, proporcionando al lector un notable panorama lírico en el que tiene cabida algunos de los mejores poetas de la pasada centuria y que viene a subrayar, no sólo el excelente cuidado que se ha puesto en todos los aspectos de la confección del libro, sino también ese ideal que debe presidir cualquier estudio relacionado con algún aspecto del arte literario como es el de que un lector debe gozar siempre con la lectura. En esta línea, y en consonancia con otros destacados trabajos publicados sobre Métrica en los últimos años por diversos investigadores españoles y europeos, lo que viene a suponer, sin duda, un reconocimiento de la vigencia de esta antigua disciplina dentro de los estudios literarios, se enmarca la investigación del profesor Esteban Torre titulada Métrica española comparada. Esta obra pretende, ante todo, acercar al lector a la problemática del verso de una manera precisa y, a la vez, clara y exhaustiva. Para conseguirlo, cuenta este libro con una sólida estructura que se desarrolla en torno a cuatro focos de estudio: los conceptos básicos de la disciplina, la noción de verso, sus distintos tipos y las combinaciones que estos permiten; sin olvidar una
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imprescindible selección bibliográfica donde figuran las investigaciones de mayor interés relacionadas con la materia objeto de esta obra y la excelente elección de textos poéticos tomados como modelos de las nociones desarrolladas por el profesor Torre. Así pues, se expone en la presente obra la teoría métrica huyendo de toda ambigüedad y relativismo, lo que, sin duda, constituye el eje básico en torno al cual debe girar toda auténtica investigación. De este modo, se precisan los conceptos de poesía y verso, entendiendo el primero como la expresión de valores estéticos mediante la palabra, mientras que el segundo hace referencia a una unidad de ritmo que debe cumplir un conjunto de condiciones. Lo mismo ocurre con los términos de metro y ritmo, donde el primero de ellos debe entenderse como patrón abstracto frente al segundo que se corresponde con la actualización del modelo de verso. No olvida el profesor Esteban Torre, al situar la Métrica como disciplina integrante de la Poética, el referirse a la Teoría del ritmo de origen estructuralista o generativista, como tampoco elude la consideración de las aportaciones efectuadas por la Fonética acústica que, con su base experimental, resulta decisiva para entender algunos aspectos relacionados con el verso. Así, analiza los conceptos de isocronía e isosilabia y su influencia en la posible distinción de lenguas naturales de acuerdo con esas dos supuestas tendencias rítmicas, descartando la solidez de dicha doctrina y defendiendo la existencia de un patrón rítmico en el que alternan sílabas acentuadas e inacentuadas y la constatación subsiguiente de un principio de alternancia que se basa en la observación de que las lenguas combinan sílabas fuertes y débiles. De este modo pone de relieve cómo el acento del verso debe ser considerado en cuanto entidad relativa que funciona por contraste de tensión y en torno al cual se organizan las reglas métricas. Por ello, cabría hablar de acentos principales, o constituyentes del verso, y secundarios; de manera que cada uno de ellos viene a cumplir una misión distinta en el verso, pues mientras los primeros –junto con el número de sílabas– configuran el modelo métrico del verso, los secundarios afectan a la actualización rítmica del mismo. En este sentido, el autor de la obra que enjuiciamos sostiene que el verso es la unidad esencial del conjunto artístico que constituye el poema y que, pese a la existencia de diversos sistemas de versificación en la literatura universal, podemos encontrar unos elementos estructurales comunes cuales son el cómputo silábico y la distribución acentual. Por tanto, el verso va a ser examinado con profundidad desde
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estos dos parámetros y se pasará revista a cuestiones cardinales como el encuentro de vocales, la terminación del verso en palabra aguda, llana o esdrújula, el ritmo acentual, los pies métricos, las iteraciones fónicas o las relaciones entre ritmo y sintaxis. Importa señalar a este respecto la atinada exposición del profesor Torre sobre la terminación del verso y su relación con el cómputo silábico, haciendo hincapié en el hecho de que el verso, como entidad rítmica, concluye con la última sílaba acentuada por lo que podría prescindirse de la sílaba o sílabas postónicas finales a la hora de efectuar la suma final. Este hecho hace que sean equivalentes métricamente versos que inicialmente pueden ofrecer medidas diversas y que el método tradicional castellano, que frente a otras lenguas se inclina por atender al cómputo total de las sílabas, hable de añadir una sílaba más en los finales agudos o de restar otra en el caso de los esdrújulos; cuando, en realidad, lo que sucede es un problema meramente terminológico como se demuestra con los múltiples ejemplos aducidos por el autor pertenecientes a otras literaturas. Igualmente es digno de resaltar en el capítulo dedicado al examen de los distintos tipos de versos el apartado referido al alejandrino o tetradecasílabo constituido por dos hemistiquios heptasílabos, donde se documenta con toda precisión el carácter de verso compuesto que lo caracteriza, haciendo especial mención de las inadecuadas denominaciones de alejandrinos a la francesa o alejandrinos ternarios que desvirtúan la esencia del metro analizado, al considerarlo un verso simple de trece sílabas, lo que constituye un contrasentido flagrante. En definitiva, podemos afirmar que nos encontramos ante un utilísimo estudio de métrica que expone con precisión los conceptos imprescindibles que debe conocer sobre la materia cualquier persona interesada en la poesía, que afronta los problemas existentes sin rehuirlos y con absoluta claridad y que, de la misma manera, cumple el precepto clásico de deleitar aprovechando. De este modo, la obra se dirige tanto a los alumnos universitarios como a toda persona interesada por los problemas de la poesía en general, pues, dentro de ella, la Métrica ocupa un lugar esencial para la comprensión del problema del lenguaje poético y, sobre todo, para ese disfrute que solicita del receptor en cuanto expresión artística. MANUEL ROMERO LUQUE
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JOSÉ DOMÍNGUEZ CAPARRÓS: Métrica de Cervantes. Centro de Estudios Cervantinos, Alcalá de Henares, 2002.
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l éxito de un trabajo de investigación no se limita a la bondad de los resultados obtenidos, pues la propia elección del objeto de estudio es susceptible de evaluación, y, en este sentido, las primeras consideraciones acerca de la presente obra resultan obvias y pueden hacerse por anticipado, antes incluso de iniciar la lectura del libro. Ya el título, Métrica de Cervantes, anuncia su oportunidad y conveniencia y promete el remedio de un olvido notable por parte de los estudios literarios. El nombre que figura sobre el título, el de su autor, garantiza, además, que la propuesta va a llevarse a cabo de una manera rigurosa. Como uno de los principales especialistas en la materia, José Domínguez Caparrós se ha dedicado con anterioridad al estudio de la métrica en las vertientes histórica y teórica; a él se deben trabajos fundamentales sobre las teorías métricas de los siglos XVIII, XIX y XX, y obras de consulta obligada como Métrica y poética, compilaciones de artículos como Estudios de métrica, o útiles instrumentos de referencia como el Diccionario de Métrica. Con este trabajo, pues, extiende a los Siglos de Oro el alcance de su análisis, sobre todo teniendo en cuenta que, como se comentará algo más adelante, no se limita a un estudio aislado de la métrica cervantina, sino que la sitúa en el contexto teórico de su tiempo. En cuanto al objeto de análisis, es sorprendente que hasta el momento de su aparición no se hubiera realizado ningún estudio integral y profundo de la métrica cervantina. Tal como explica Domínguez Caparrós en el prólogo de su trabajo, apenas existían unos cuadros descriptivos de la producción dramática de Cervantes, a cargo de Schevill y Bonilla, y algunos comentarios dispersos y carentes con frecuencia de seriedad, rigor y fundamento. La sorpresa es mayor por cuanto se trata del escritor por antonomasia de las letras hispanas y uno de los escasos autores en nuestra lengua que forman parte invariable e indiscutiblemente en las distintas redacciones y propuestas del canon occidental. Bien es verdad que tanto su fama como los derechos
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que ostenta para acceder a dicho canon le vienen dados fundamentalmente por su condición de narrador, y sobre todo por la redacción del Quijote, pero no es menos cierto que dicha novela es inconcebible sin ciertos versos –son 1.110 los que contiene, según certifica el propio estudio reseñado– y que algunos de los poemas cervantinos pertenecen también, sin duda alguna, al canon de la lírica española. No se oculta o evita en ningún momento el debate sobre la calidad estética de la versificación cervantina, y se recuerdan y comentan las opiniones encontradas sobre el mayor o menor acierto de Cervantes en los aspectos técnicos del verso, aunque lo que se discute es, más que nada, si su poesía es, en general, mediocre o abiertamente defectuosa y pobre, y pocos abogados hay que postulen un mejor calificativo. Demuestra el autor del estudio, sin embargo, que muchas de esas opiniones están viciadas desde su origen, pues aplican en el juicio premisas actuales y achacan al escritor vicios que lo son ahora, pero que en su época se encontraban, en mayor o menor medida, en consonancia con la poética al uso. Haya lugar o no para tal discusión, el mismo Domínguez Caparrós hace especial hincapié en el hecho de que determinados poemas de Cervantes se han constituido como paradigmas de su especie, y son un referente casi obligado, tanto en antologías generales de la lírica como en repertorios métricos, igual que sucede, por ejemplo y sobre todo, con el soneto con estrambote. Tales son los casos, así mismo, de formas métricas artificiosas que inventa el propio Cervantes, cual el ovillejo, o que compone en una época muy temprana, como ocurre con los versos de cabo roto, a todas las cuales se dedica la quinta sección –la última– del libro, en la que son analizadas con detenimiento. En cuanto a la organización de la obra, y además de esa última parte dedicada a formas métricas poco frecuentes y poco frecuentadas, el libro consta de un primer capítulo titulado Versificación y formas métricas cervantinas, de una segunda parte dedicada en exclusiva a la rima, y de otras dos secciones que se reparten el estudio, respectivamente, de las formas castellanas y las formas italianas. En el primer capítulo se proporcionan los datos que serán objeto de posterior comentario en el resto de las secciones, y se ofrece, a lo largo de casi cuarenta páginas, una serie de tablas sistemáticas con las estrofas empleadas por Cervantes en cada una de sus obras, con indicación del nombre de la estrofa, la localización exacta en la obra concreta –número de página, si va intercalada entre la prosa, o de línea en que aparece, si la obra está compuesta por completo en verso–, el número de oc-
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tosílabos, heptasílabos, endecasílabos y otros versos frecuentes, y el esquema de la rima. Se anotan al pie de la página las particularidades e irregularidades dignas de comentario, y se añade una tabla final que hace las veces de compendio. Se trata en esta primera parte, pues, de ofrecer los datos desnudos –pero ordenados– que resultan de un trabajo exhaustivo y riguroso, previo a cualquier análisis y necesario para poder extraer las conclusiones pertinentes y realizar las posteriores afirmaciones con seguridad y sin caer en el impresionismo que Domínguez Caparrós denunciaba en un principio. Quedan así expuestos y clasificados los más de cuarenta mil versos considerados auténticos de Cervantes. Cabe destacar, por otra parte, que para la recopilación de datos, según manifiesta el autor, se han utilizado como herramientas «poderosos instrumentos informáticos actuales», algo que cada vez es más habitual y sorprende menos, y que sin duda no sólo hace el trabajo más llevadero, sino también más exacto. El segundo capítulo, dedicado a la rima, comienza por retomar el debate sobre la capacidad técnica de Cervantes al respecto, y frente a la denuncia de la torpeza que refleja el uso de rimas pobres, idénticas, homónimas, simuladas, rimas entre una palabra y su compuesto, rimas que arrancan antes de la última vocal tónica o asonancias entre rimas consonantes en una misma estrofa, se contrapone el atrevimiento del poeta en ciertas ocasiones en las que busca la dificultad o no rehuye la complicación. Así pues, los vicios en la rima cervantina se explicarían, más que por incapacidad o poco talento por parte del autor, por un descuido más o menos voluntario y acorde con una excesiva tolerancia de época, y, al mismo tiempo y una vez más, serían en parte la consecuencia de la evaluación a partir de una óptica actual de usos que hoy se consideran defectuosos pero que no lo eran entonces. Además, se destacan también algunos valores positivos de la habilidad cervantina, sobre todo en la consecución de efectos jocosos. Al margen de las valoraciones, Domínguez Caparrós ofrece también la descripción técnica de cuanto hay de reseñable en la rima de Cervantes: la acentuación de los enclíticos, el uso de palabras átonas en posición de rima, la combinación de consonancias esdrújulas o agudas con las llanas o el recurso al verso suelto, a la rima interna y los casos particulares de rimas jocosas y versos de cabo roto. El capítulo se completa con una exposición de las teorías sobre la rima en los Siglos de Oro, útil por cuanto, aunque sumario, permite contrastar la práctica cervantina con lo que sus contemporáneos –hay referencias
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a Rengifo, Caramuel, Sánchez de Lima, el Pinciano o Manuel de Faria– consideraban tolerable, oportuno o inadecuado. Las secciones tercera y cuarta, como se ha dicho, se dedican a las formas castellanas e italianas que emplea Cervantes. Entre las primeras –reliquias a veces de otro tiempo– se encuentran el verso de arte mayor, las coplas, las décimas, el lexaprén, el perqué, el romance, la seguidilla y la canción medieval y, entre las últimas, la canción, el madrigal y el soneto. La estructura empleada a la hora de abordar el estudio de todas estas formas consiste, habitualmente, en una exposición sobre el origen histórico y la trayectoria de las mismas, a menudo apoyada en los testimonios de los tratadistas de la época, y en una descripción demorada con referencias a las variantes más significativas. A continuación, lógicamente, se analizan los usos cervantinos; se da cuenta de dónde se emplea la forma en cuestión, con qué esquemas de rima y con qué particularidades, y qué terminología métrica utiliza Cervantes. El examen es detallado y se repara en todo aquello que merece reseña, como las pocas ocasiones en que el poeta introduce un comentario metamétrico –por ejemplo el de aquellas ansias «que no pueden caber en un soneto»–. Especialmente destacable, dentro de un estudio que ya lo es en su conjunto, resulta el hecho de que su autor no se quede en el mero inventario y la pura descripción histórica, sino que proceda al análisis crítico de los usos métricos, tratando de explicar la utilización de determinadas estrofas en relación con la materia tratada o el género al que pertenece la composición. Así, el empleo del verso de arte mayor, tan poco frecuente a la sazón, se explica por su asunto, un conjuro que remite a cierta parte del Laberinto de Fortuna, en un claro ejercicio de intertextualidad; la copla de arte menor del epitafio de Grisóstomo tiene una intención arcaizante; el romance, por otra parte, se utiliza en el teatro para relatar hechos, según recomendaba Lope. Ya en estudios precedentes lamentaba José Domínguez Caparrós la tendencia a creer que la métrica se limita a la descripción de unos esquemas desvinculados de todo problema de significación,1 rechazaba que la forma métrica sea un esquema vacío y carente de significado y reivindicaba la importancia de la función organizadora que desempeñan el metro y la rima incluso en los planos morfológico, sintáctico y semántico.2 1
José Domínguez Caparrós: “Métrica y semiótica”, en Estudios de métrica, UNED, Madrid, 1999, p. 13. 2 José Domínguez Caparrós: Métrica y poética. Bases para la fundamentación de la métrica en la teoría literaria moderna, UNED, Madrid, 1988, p. 9.
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Coherente, pues, con su propia doctrina, el análisis métrico que nos ofrece en la presente obra se completa con frecuencia con la explicación de las causas que justifican el empleo de una cierta estrofa o de una determinada rima, del efecto que pretenden causar o de la relación que tiene su uso con el contexto y el significado. Estamos, en fin, ante un completo y riguroso estudio de la métrica cervantina que, al mismo tiempo, contiene un pequeño tratado de métrica con referencias continuas a algunas de las cuestiones rítmicas más debatidas en la poética del siglo de oro. Este estudio cubre un espacio vacío hasta el momento en los estudios literarios hispánicos, aunque el propio autor señala la necesidad de continuar el camino que él ha abierto y, por ejemplo, subraya la conveniencia de llevar a cabo un análisis detenido de la prosodia rítmica del verso cervantino, y destaca como tareas pendientes las de analizar fenómenos como el de la diéresis o realizar estadísticas fiables sobre la proporción de los endecasílabos acentuados en sexta y los acentuados en cuarta y octava. En todo caso, estas páginas ya suponen, por sí solas, un considerable paso adelante en el conocimiento de la métrica cervantina y, por extensión, en el de una parte de la historia de la métrica hispana. JUAN FRAU
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ESTEBAN TORRE: El ritmo del verso. Publicaciones de la Universidad de Murcia, Murcia, 1999 (1ª reimpresión 2002).
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ntre las más recientes contribuciones a la ciencia de verso, hemos de destacar la publicación del libro El ritmo del verso (Estudios sobre el cómputo silábico y la distribución acentual, a la luz de la Métrica Comparada, en el verso español moderno) escrito por el profesor Esteban Torre, Catedrático de Teoría de la Literatura y Literatura Comparada en la Universidad de Sevilla. No es ésta, por supuesto, la primera incursión del profesor Torre en temas relacionados con la Métrica Comparada. Traductor y recreador de antiguos y modernos es también autor, entre otros estudios, de un importante tratado de Teoría de la traducción literaria (1994) y de un manual de Métrica española comparada (1999), modelo de claridad, sencillez y erudición. Estamos hablando pues de un verdadero especialista en la materia, que aúna en sus saberes la reflexión teórica y la praxis de la traducción poética sin olvidarnos, claro está, de su amable e inspirada relación con las musas, recogida en varios libros de poesía y de publicaciones periódicas. Razones metodológicas llevan al profesor Torre a delimitar el corpus que sirve de base a su investigación: la comparación del verso español moderno y contemporáneo con el de otras lenguas principalmente el francés, el italiano, el portugués, el catalán, el inglés, el alemán y el ruso. A un lado quedan los problemas que se originan de la métrica medieval y de la métrica clásica, griega y latina, ya que, según nos dice, «se trata de modelos distintos de versos» (p.13). Así, a la luz del método comparativo sobre la teoría del ritmo, que tiene su base principal en la Teoría Métrica, de filiación estructuralista y generativista, y en la Fonética Acústica de carácter experimental, el profesor Torre analiza los debatidos y conflictivos conceptos sobre los que se fundamentan el cómputo silábico y la distribución de los acentos en el verso español. «Si me ocupo aquí, inicialmente, –dice– del número de
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sílabas y de la situación de los acentos, es porque considero que acento y sílaba constituyen el armazón básico e imprescindible del ritmo del verso»1 (p. 12). De ahí que este trabajo se nos presenta no solo como una acertada y sintética revisión de los principales tratadistas de métrica española y extranjera sino también como un esfuerzo serio y bien logrado de tratar de insertar los criterios métricos tradicionales en la teoría literaria moderna. Y aquí estriba precisamente su aporte fundamental. Aunque El ritmo del verso no tiene un estricto carácter polémico, encierra sin embargo una toma de postura muy clara y convincente sobre la bibliografía al uso y los temas tratados. Sin afán de contradecir, menospreciar o anular, con un recto y honrado sentido crítico, el profesor Torre nos entrega sus propias opiniones en medio de otras de otros autores, diversas y contradictorias. Se trata nada menos, en algunos casos, de poner orden y concierto en el caos terminológico de la Teoría Métrica. En el capítulo segundo, “Regularidad métrica y versificación irregular”, donde además de hacer un repaso apoyado en fuentes bibliográficas especializadas sobre la coexistencia en la poesía española del verso regular y el verso libre y donde también considera inútil a la altura de nuestro tiempo oponer, como es usual en ciertos estudios recientes, los conceptos de metro y ritmo dice: “Prefiero, no obstante, utilizar ambos términos con el sentido más estricto que les confiere la teoría métrica: metro como “patrón abstracto” y ritmo como “patrón real” (p. 20). De igual modo en el capítulo tercero, “Fundamentos fonéticos y fonológicos del ritmo”, insiste en la necesidad de precisar y aclarar el uso, desde la Fonética Acústica en relación con el cómputo silábico, de los conceptos de isocronía e isosilabia y su correspondiente y contradictoria clasificación de las lenguas naturales con tendencia unas a la isocronía acentual, o isocronía entre los pies acentuales, y otras con tendencia a la isosilabia, o isocronía silábica con anisocronía acentual. «Conviene –nos dice el catedrático andaluz– precisar el valor de estos términos, porque, en distintos contextos, y según los diversos autores, pueden aparecer investidos de muy dispares significados» (p. 27). Y más adelante puntualiza: «la clasificación de las lenguas en dos grandes grupos, con características métricas bien definidas, dista mucho de constituir un cuerpo de doctrina solidamente fundado. Y, desde luego, no puede basarse en esta división dicotómica de las lenguas 1
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una separación tajante entre la métrica silábica y la métrica acentual» (p. 30). De ahí que considere insuficientes los meros criterios fonéticos y fonológicos como instrumentos de análisis que puedan ser aplicables sin más al estudio de la métrica. En cambio, el profesor Torre, encuentra en el principio de alternancia, desarrollado en el aspecto teórico desde la Fonología Métrica y en el práctico y experimental desde la Fonética Acústica, un patrón válido e incontrovertible para el estudio del ritmo y la escansión del verso. «El principio de alternancia –dijo– o lo que es lo mismo, de eufonía o euritmia, parte de la observación de que las lenguas evitan la sucesión de sílabas con el mismo grado de tensión, haciendo que alternen las sílabas fuertes con las sílabas débiles» (p. 30-31). Y es desde este punto de vista, con estimación de los mismos conceptos problemáticos de sílaba y acento como elementos básicos del metro, que términos como sinalefa y dialefa, diéresis y sinéresis, adquieren un nuevo sentido al no ser considerados de acuerdo con la preceptiva española tradicional, como simples“licencias poéticas” sino como hechos de habla que el poeta utiliza de manera intuitiva y espontánea. Conviene señalar que el profesor Torre, para confirmar su tesis de un modo objetivo y experimental, reproduce en su trabajo las gráficas de los fenómenos fonéticos implicados en la escansión del verso, intensidad y tono, especialmente este último, tomando como ejemplo la lectura de un poema de Federico García Lorca en el Laboratorio de Fonética de la Facultad de Filología de la Universidad de Sevilla. «El acento rítmico –dice– está en función, por lo tanto, no sólo de la intensidad acústica, sino también de la frecuencia fundamental o tono2 de cada una de las sílabas» (p. 45). Este mismo espíritu crítico de revisión de conceptos, análisis de teorías y busca de claridad, que alienta la obra del profesor Torre, lo ejemplifica una vez más el capítulo cuarto, «El verso como unidad rítmica: el problema de los finales agudos, graves y esdrújulos”. Aquí el profesor Torre, como en otras ocasiones, se sitúa al lado de preceptistas tradicionales, como Juan Díaz de Rengifo o el mismo Ignacio de Luzán, y comparte con Domínguez Caparrós, principios y explicaciones de teoría métrica. Así, frente a las aseveraciones y elucubraciones sobre la teoría del verso como unidad rítmica de Canellada y Madsen, Quilis, Graña Etcheverry y el mismo Tomás Navarro Tomás, el profesor Torre sostiene que efectivamente el verso termina realmente en 2
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la última sílaba acentuada y que la pausa es un factor demarcativo esencial, que distingue y separa los versos en la serie poemática: «si después de la última sílaba acentuada, –dijo– y precediendo a la pausa, aparecen una (en las palabras llanas) o dos (en las palabras esdrújulas) sílabas tónicas, es algo que carece de interés desde el punto de vista métrico» (p. 64). De ahí que podamos considerar el período de enlace como la sílaba o las sílabas postónicas finales, que median entre la última acentuada y la pausa. Conviene aclarar aquí que el profesor Torre no acepta la división de Navarro Tomás entre periodo rítmico interior y periodo rítmico de enlace porque, junto con Belic, ve en ella una concepción problemática y mecanicista con su sobrevaloración del concepto erróneo de anacrusis en total desacuerdo con la versología moderna que sostiene que en la poesía «la unidad rítmica fundamental es el verso, todo el verso» (p. 68). El profesor Torre cierra sus consideraciones con ejemplos tomados de la teoría métrica portuguesa, catalana, italiana y alemana. El capítulo quinto, «La segmentación del verso: el alejandrino como paradigma» es, como lo indica el título, una aplicación de las teorías métricas y rítmicas aplicadas al estudio de las diversas clases de alejandrinos especialmente en lengua francesa y española. Del mismo modo que en los capítulos anteriores el profesor Torre discute, aclara y deduce términos y teorías, en éste se ocupa de la distinta, ambigua y compleja nomenclatura del verso alejandrino, inspirada fundamentalmente en la métrica francesa, para llegar a la conclusión de que «hemos finalmente de reconocer que tales peculiaridades en el verso alejandrino español no son más que variedades rítmicas de un mismo y único patrón métrico: el verso tetradecasilábico, compuesto por dos hemistiquios heptasílabos» (p. 96). Así pues las consideraciones de Henríquez Ureña sobre el alejandrino tripartito, de Andrés Bello sobre el alejandrino a la francesa, de Grammont sobre el alejandrino como verso simple, de Kibedi Varga sobre la dislocación o incluso destrucción del silabismo, y sobre todo del alejandrino, etc., quedan como bienintencionadas y eruditas referencias, que tal vez no haya que olvidar, pero que no resuelven los problemas que plantea la correcta distribución acentual y el cómputo silábico del verso alejandrino español y de otras lenguas y literaturas. Termina El ritmo del verso del profesor Esteban Torre con “Algunas propuestas analíticas e interpretativas” que constituyen un verdadero prontuario teórico y metodológico, para el análisis e interpretación, desde la Métrica Comparada, de los elementos estructurales –cómputo silábico y distribución acentual– que están en la base del verso
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español moderno. Lo acompaña finalmente una bibliografía amplia, especializada, completa y puesta al día de la materia en cuestión. En definitiva, El ritmo del verso es uno de esos libros, no tan frecuentes en nuestro medio, de lectura y consulta imprescindible para todos los estudiosos de la métrica y del ritmo del verso, especialmente profesores y alumnos de las facultades de filología, porque como bien se recuerda al comienzo del mismo, en palabras de Pietro Beltrami,«A chi non abbia interesse per la poesia la metrica non serve a niente». NOEL RIVAS BRAVO
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ISABEL PARAÍSO: La métrica española en su contexto románico. Arco/Libros, Madrid, 2000.
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n la colección Perspectivas de la editorial Arco/Libros, Isabel Paraíso, Catedrática de Teoría de la Literatura de la Universidad de Valladolid, ha publicado La métrica española en su contexto románico. En este nuevo libro, que se suma a numerosas investigaciones de la autora en varios campos, entre ellos el de la métrica, se aborda fundamentalmente el estudio de la poesía española y de sus formas métricas con una orientación comparatista muy útil para comprender en su justa medida las cuestiones teóricas del verso en diferentes literaturas, con sus caracteres generales y específicos, así como los problemas y detalles de la evolución histórica. La métrica se divide en tres amplias partes. En la parte I, “Contexto de la métrica española” trata Isabel Paraíso en sucesivos capítulos de los aspectos básicos de métrica general, comunes a distintos sistemas de versificación, así como de la evolución en formas específicas de la versificación latina a la romance. En la parte II, la autora se centra en los “Constituyentes métricos de la poesía española”: rima, acento, pausa, metro, estrofa y poema. En la parte III, “Los poemas españoles en su contexto románico”, estudia por extenso diferentes tipos poemáticos de carácter estrófico y no estrófico. Como es apreciable, se trata de un tratado de métrica española dirigido, como la propia autora indica en unas “Palabras previas”, a los estudiantes de Universidad y a los profesores de Enseñanzas Medias, de ahí la presentación didáctica de los contenidos, con cuadros sinópticos, resúmenes, selección de la bibliografía determinada por las fuentes esenciales, etc. No obstante, La métrica española en su contexto románico es, además, un tratado sumamente útil también para los profesores de Universidad interesados en el campo teórico e histórico de la métrica, ya que Isabel Paraíso sabe aunar la claridad expositiva didáctica y la pulcritud y erudición que
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caracterizan su actividad investigadora. Así, se encuentran a lo largo del libro aportaciones teóricas y comentarios de carácter histórico sobre distintos aspectos, de interés para el investigador de la métrica, especialmente en lo que se refiere a la relación de la poesía española con otras lenguas y culturas. Según explica Isabel Paraíso en el capítulo I, “Métrica general”, el estudio de la métrica es esencial para la poesía. No hay más que recordar que más de la mitad de nuestra literatura está escrita en verso, de ahí que la métrica sea parte fundamental de la Poética o Teoría de la literatura, de la Teoría del lenguaje poético, concretamente del lenguaje versificado. Éste habrá de ser abordado tanto desde un punto de vista sincrónico, que correspondería a una métrica sistemática, como desde un punto de vista diacrónico, del que se ocuparía la métrica histórica. Además, se puede estudiar el verso de una lengua particular –métrica general– o las similitudes y diferencias entre varias métricas nacionales –métrica comparada–. Partiendo de estas matizaciones, el manual de Isabel Paraíso es un estudio de la métrica española que si bien atiende, sobre todo, a la métrica sistemática de la lengua española no desatiende las otras tres perspectivas. Tras comentar las relaciones entre verso, poesía y prosa, Paraíso se ocupa del concepto fundamental de ritmo, entendido como repetición de uno o varios elementos lingüísticos que pueden cambiar a lo largo de la historia, de ahí los distintos sistemas versificatorios y la posible aparición de novedades métricas en una misma lengua. El soporte material del ritmo sería el verso, la unidad rítmica menor que se combina con otras unidades en una serie rítmica que en su unidad superior constituye el poema. Los elementos fundamentales del ritmo del verso español son el metro o número de sílabas, la distribución de los acentos, la rima, la posible existencia de las estrofas y las pausas. De los diferentes sistemas de versificación existentes, que Paraíso comenta ampliamente en su estudio, la versificación paralelística, la versificación cuantitativa, la versificación acentual, la versificación irregular -ametría y fluctuación- y la versificación silábica –o métrica–, esta última es precisamente la dominante en la poesía española, aunque es posible encontrar otros sistemas. En este sentido, por ejemplo, la versificación irregular primitiva, propia de los modos de versificar de la Romania entre los siglos IX y XII, y que se suele considerar como defectuosa e inculta por ser anterior a la regularización métrica, es tratada por Isabel Paraíso atendiendo a su raíz rítmica acentual, relacionada con la música, y, por tanto, sin ningún matiz peyorativo. En el capítulo 2 de esta primera
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parte, se estudian las formas autóctonas latinas, caso del saturnio y el versus quadratus y su adaptación y continuación en formas medievales, la poesía latina medieval, la métrica eclesiástica, en la que se trata también de la poesía litúrgica en prosa, y otras clases de poesía romance regidas por el número de palabras o de acentos, en que la influencia de la prosa rítmica, el canto y la poesía acentual germánica son especialmente destacados, además de la poesía en la que es determinante el número de sílabas de los versos, nuevas imitaciones clásicas y algunas innovaciones, como es, por ejemplo, el caso del verso goliárdico. Respecto a los fundamentos de la poesía española, que se abordan en el capítulo 3, la rima es considerada como el componente más llamativo y que mejor identifica al verso ante la mayoría de los receptores. En este capítulo se establece una amplia tipología de la rima según el número de sonidos que la integran, el tipo prosódico de la palabra que la porta, la disposición en la estrofa o el poema, etc., y se atiende también a su origen histórico. Igualmente útil y completo resulta el siguiente capítulo dedicado al acento, aspecto que es esencial en el verso, y no sólo en los sistemas acentuales sino en aquellos otros sistemas basados en el número de sílabas. Se plantea, entre otras cuestiones, aquí el problema de la acentuación y desacentuación rítmicas. En el caso de dos sílabas tónicas seguidas, puede suceder que dos sílabas tónicas en contacto mantengan en la lectura sus acentos, de manera que ambos sean perceptibles (acentuación enfática), o bien que se anule uno de ellos en favor del otro (desacentuación rítmica secundaria). Estas dos soluciones no son consideradas por Isabel Paraíso como incompatibles, ya que dependerían en cada caso de la lectura del receptor. La consideración del acento en el verso lleva a la autora al estudio y clasificación de las cláusulas, que se considera en relación con el sistema musical de Tomás Navarro Tomás, en que se distinguen conceptos como la anacrusis y el período rítmico interior y de enlace. Especialmente interesante es el comentario sobre el efecto estilístico del ritmo según las cláusulas dominantes, que Paraíso ejemplifica certeramente con el poema titulado “Canción del jinete” de Federico García Lorca. Al estudio de la pausa y sus clases, la cuestión de la sinafía y de la compensación, se suma el problema del encabalgamiento y sus tipos y valores expresivos, dentro de los cuales destaca un caso especial que denomina contra-encabalgamiento abrupto, llamado en métrica francesa contre-rejet y que consiste en que un fragmento versal breve –inferior a la mitad del verso– está aislado por pausa interna en posición final de verso y enlaza con el verso siguiente.
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El elemento básico en la versificación española y en todas las lenguas románicas sería el metro, sobre el que se sustentan los demás ritmos versales de la poesía culta. A partir de esta idea básica, Paraíso estudia la diferencia entre versos simples y compuestos, versos de arte mayor y menor y poemas isométricos y heterométricos. Se ocupa de la medida de los versos según su terminación, relacionando la métrica española con el cómputo silábico de otras métricas europeas, y se refiere a distintos fenómenos que se dan en la pronunciación de las vocales en contacto, como la sinéresis y la sinalefa, dentro de la cual distingue la sinalefa métrica, en la que las vocales que se unen pertenecen a dos grupos fónicos contiguos, la diéresis y la dialefa, además de una serie de licencias métricas por las que se añade o suprime una sílaba: prótesis, epéntesis, paragoge, aféresis, síncopa y apócope. El capítulo 7 se centra ya en los metros hispánicos, desde las 2 hasta las 22 sílabas, que se estudian y ordenan según sean de arte menor o mayor y según su importancia en la tradición poética española. Dentro de los versos de arte menor es el octosílabo el más usado. Aparece ya en los poemas más primitivos y se sigue empleando hoy. Aunque el octosílabo trocaico tendría un importante precedente en el versus quadratus o tetrámetro trocaico cateléctico, no descarta Paraíso un primer desarrollo autóctono del octosílabo en España, además de en Provenza y Francia, en Italia o Portugal, en que es más frecuente el octosílabo polirrítmico. Este tipo de apreciaciones tipológicas, teóricas e históricas, con continuas alusiones al contexto románico, se extienden al estudio de otras clases de versos, como el heptasílabo o el hexasílabo. Tras tratar los versos de 5 a 2 sílabas como versos auxiliares sobre todo, pasa la profesora Paraíso al apartado de los versos de arte mayor simples, en los que el endecasílabo ocupa un lugar especial. Después de establecer una completa tipología del endecasílabo y de exponer sus raíces y momentos de mayor plenitud en el panorama europeo y en la historia métrica española, se abordan otros metros simples de arte menor, mucho menos usados, como los de 9, 10, 12, 13, 15, 16, 17 y 18 sílabas. De entre los metros de arte mayor compuestos es el alejandrino el más frecuente y de mayor importancia, del que se expone su origen y desarrollo histórico y sus tipos rítmicos. A propósito del alejandrino, Paraíso se refiere al verso tridecasílabo de carácter ternario, que los simbolistas y modernistas mezclarían en un mismo poema con el verso bimembre alejandrino. Entendido como trímetro, y a diferencia de otros autores que ven en él un verso alejandrino con encabalgamiento léxico entre hemistiquios o con terminación aguda -
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incremento acentual- de una sílaba átona a final de hemistiquio, la profesora Paraíso defiende que se trata de versos de 13 y no de 14 sílabas, aunque en algunos casos admite las dos interpretaciones: «entre las hojas / del día / que se derrumba» (5+3+5) y «entre las hojas del / día que se derrumba» (6+1=7+7). Como versos compuestos se estudian también variantes del dodecasílabo, entre ellos el verso de arte mayor de los siglos XIV y XV, así como el hexadecasílabo y el decasílabo compuesto, además de los metros de 17, 18, 19, 20 y 22 sílabas. El siguiente capítulo de esta segunda parte se ocupa de la estrofa y sirve de planteamiento a un desarrollo mucho más amplio que se cumple en toda la tercera parte del libro. Es considerada la estrofa como conjunto de versos con una estructura métrica determinada y un sentido completo. Sus orígenes se remontarían a la poesía litúrgica y remitirían al canto. Si se considera la unidad superior, el poema, puede distinguirse entre poemas isoestróficos o poemas polimétricos -denominados en la métrica francesa como heteroestróficos-, es decir, poemas unitarios y poemas mixtos. Pero también es posible encontrar poemas no estróficos, como el romance. Dentro de los estróficos, se pueden hallar una o varias estrofas, es decir, poemas monoestróficos y poemas poliestróficos, estos últimos generalmente de carácter más culto. A su vez el poema poliestrófico puede ser cerrado –de estrofismo fijo, con un número de estrofas ya determinado previamente, frecuente en la época medieval– o abierto, de estrofismo libre, más numeroso. Paraíso parte de la clasificación de Antonio Quilis en la consideración de la estrofa y el poema y añade el concepto de poema poliestrófico cerrado. Una nueva distinción útil en esta densa tipología del poema es la que se refiere a los poemas poliestróficos para separarlos entre poemas enlazados o con estribillo y poemas sueltos. En el último capítulo de esta segunda parte se aplican las anteriores consideraciones a la unidad superior del poema en relación también al género y a la época histórica. En las primeras manifestaciones poéticas románicas, la poesía épica es no estrófica, mientras que la poesía lírica usa formas monoestróficas o poliestróficas con estribillo. Después el estribillo se va dejando de usar, al independizarse el poema del baile y de la música y surgen los poemas poliestróficos cerrados y abiertos. Si las primeras estrofas de la literatura románica son isométricas y de escaso número de versos, después –siglos XII y XIII– se aumenta el número de versos por estrofa y se introduce la heterometría. A partir de estas distinciones se enumeran los poemas españoles no estróficos y se clasifican los poemas estróficos españoles
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–monoestróficos y poliestróficos sueltos– según el número de sus versos, desde el mote –1 verso–hasta la décimotercera –13 versos–, teniendo en cuenta los criterios de si son versos de arte mayor o menor y si son heterométricos o isométricos. También se enumeran los poemas mixtos o heteroestróficos, los poemas estróficos con estribillo y los poemas poliestróficos cerrados o formas fijas. A esta extensa y completa clasificación se añade otra basada en la cronología de los poemas españoles: Edad Media, Renacimiento y Siglo de Oro, Ilustración y Romanticismo, Modernismo y siglo XX. El desarrollo de los conceptos teóricos anteriores se produce en la tercera parte del libro, la más amplia de todas y, en nuestra opinión, la más interesante y densa. Comienza la autora con los poemas no estróficos, tratados desde un punto de vista histórico y teórico para los que se da cuenta de las posibles variaciones y modificaciones la serie o tirada, el romance, los versos sueltos o formas métricas sin rima, las imitaciones del hexámetro y el pentámetro, el madrigal, la silva y sus clases, la casida y el verso libre, al cual se le dedica, por su complejidad e importancia en el siglo XX, el siguiente capítulo. En éste la profesora Paraíso recoge con algunas matizaciones fundamentalmente terminológicas la clasificación y caracterización del versolibrismo de su trabajo ya clásico en este ámbito titulado El verso libre hispánico. Orígenes y corrientes (Gredos, Madrid, 1985). Establece las fuentes versolibristas y las principales corrientes y formas, destacando la tradicionalidad del verso libre hispánico. La tipología del verso libre se dividiría en dos grandes apartados que corresponden a las variantes versolibristas basadas en los ritmos fónicos y a las basadas en los ritmos semánticos. Entre las primeras modalidades se hallan las siguientes: verso de cláusulas libre, verso métrico libre, verso rimado libre y verso libre de base tradicional, en que se incluyen la silva libre, el verso fluctuante libre, el verso estrófico libre y la canción libre. Entre las segundas, de ritmo semántico, se mencionan el verso paralelístico menor y mayor, con el versículo y el versículo mayor, ya cercano al poema en prosa, y el verso de imágenes acumuladas o yuxtapuestas, el más vanguardista de todos. Los siguientes capítulos tratan ya de los poemas estróficos según el esquema previamente establecido de poemas monoestróficos y poliestróficos, sueltos y abiertos, poliestróficos enlazados y abiertos, poliestróficos cerrados sueltos o enlazados. Se atiende en la exposición a dos criterios: primero, el sistemático, según el número de versos integrados en cada estrofa; segundo, el histórico, según el orden
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cronólogico de aparición. Se repasa así un gran número de formas populares y cultas, procedentes de diversas culturas y pertenecientes a distintas épocas, para las cuales se ofrece un marco histórico preciso en que se consideran la evolución de cada forma y sus posibles variantes. La consideración de estas formas poemáticas permite también acceder a formas afines de otras métricas que explican y aclaran la conformación de las estrofas hispánicas. A este exhaustivo recorrido por las formas poéticas hispánicas se suma en el capítulo 16 el estudio de los poemas polimétricos o heteroestróficos y la interesante y sugestiva relación que se establece entre formas métricas y géneros del apéndice final, que Paraíso ejemplifica con la cantiga de loor y la oda, haciendo ver la necesidad de evitar las denominaciones métricas dentro de los géneros y las denominaciones de géneros dentro de las formas métricas. Se trata, en definitiva, de un complejo y denso recorrido teórico e histórico de la métrica hispánica, hecho con rigor y con un claro afán de exhaustividad, que se inserta, como justamente indica el título, en los estudios de carácter comparativo tan necesarios en la comprensión de la literatura. MARÍA VICTORIA UTRERA TORREMOCHA
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MARÍA VICTORIA UTRERA TORREMOCHA: Historia y teoría del verso libre. Padilla Editores & Libreros, SEVILLA, 2001.
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a autora del presente trabajo lo es también de una monografía sobre el poema en prosa publicada dos años antes, Teoría del poema en prosa, Sevilla, Universidad, 1999. Parece, pues, sentir atracción por el amplio espacio de las formas que ilustran no tanto el problema de la poesía sin verso, sino el más complejo de los límites entre verso y prosa, especialmente tal como se plantean en la literatura contemporánea desde el siglo XIX. La introducción al libro de 1999 plantea la cuestión, centrada en el poema en prosa; allí se verá cómo es inevitable la referencia al verso libre, pues, como ya dijera Pedro Henríquez Ureña, en palabras que reproduce la autora (p. 13), «la separación entre verso y prosa no es absoluta». Ahora aborda la cuestión desde el campo del verso y sitúa su estudio en la tradición que incluye el conocido libro de Isabel Paraíso (1985) sobre el verso libre hispánico, y la sección de 50 páginas que más recientemente consagró Oldrich Belic al verso libre en su Verso español y verso europeo (Bogotá, Instituto Caro y Cuervo, 2000, pp. 552-602), que interesan especialmente por las referencias a la versología eslava. Para hacernos una idea más precisa del significado de la obra de María Victoria Utrera, siguen unas notas de resumen de la lectura del trabajo. El capítulo I, “Versificación irregular y verso libre”, trata como cuestiones más destacables: el lugar del verso libre en propuestas y consideraciones generales sobre la versificación irregular (por ejemplo, las de P. Henríquez Ureña, T. Navarro Tomás o Isabel Paraíso); el problema de la versificación semilibre, el versículo, la línea poética, la pluralidad de acepciones de verso libre. Este mismo capítulo –que, como se ve, trata de centrar el concepto y el origen del verso libre–, a partir de la página 36, incluye una breve historia de los antecedentes del fenómeno internacional del versolibrismo; y, junto
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a las inevitables menciones de los ejemplos de la literatura inglesa y francesa, hay otras, menos familiares entre nosotros, a las literaturas alemana (pp. 38-41), rusa (pp. 43-44), o italiana (p. 45). No falta la indagación en los orígenes del verso libre en intentos de ampliación de la métrica también española, con una amplia discusión sobre las formas de versificación irregular. La autora se alinea con quienes piensan que el verso libre moderno no supone una recuperación de la tradición española de versificación irregular, sino una forma nueva que tiene sus raíces en el cambio de ambiente métrico de fines del siglo XVIII, y sobre todo del romanticismo y postromanticismo (pp. 60-61). Estamos de acuerdo con esta forma de plantear la cuestión, pues para nosotros no hay duda de que el verso moderno español, pero también el de otras literaturas europeas, empieza a conformarse en el siglo XVIII. Y en el ambiente entonces creado es en el que más tarde aparecerá el verso libre. El capítulo II, “Walt Whitman y las corrientes simbolistas y modernistas”, atiende a las primeras manifestaciones del verso libre consideradas canónicas. Importante es el esfuerzo que hace María Victoria Utrera para trazar las líneas de la tradición versicular whitmaniana en la literatura francesa (pp. 69-71) o en la española (pp. 71-74). La otra base del versolibrismo europeo es la constituida por el núcleo simbolista francés, y de ella trata a continuación (pp. 74-97), con referencias al alejandrino renovado por Rubén Darío (pp. 77-79), o a una cuestión tan conocida por la autora como es la del poema en prosa. «Es indudable –dice– la filiación del verso libre simbolista con la prosa poética y con el poema en prosa, de ahí que, como se verá después, el ritmo del verso libre sea en muchas ocasiones un ritmo basado en la sintaxis y la imagen» (p. 80). El resto del capítulo está dedicado a la expansión del verso libre, especialmente en la literatura española (pp. 99-124), después de una breve alusión a la literatura rusa y brasileña (pp. 97-99). Imposible es entrar en los detalles de una riquísima documentación de tipo teórico que completa el tratamiento que del asunto ya se hiciera en otros trabajos anteriores de distintos autores. Sí quiero señalar, como un índice de la complejidad e implicaciones de todo tipo que pueden encontrarse en cualquier página del libro, cómo la autora se desvincula de la consideración de la versificación de cláusulas inaugurada por el colombiano José Asunción Silva como forma versolibrista (pp. 115-116). Ofrece en el capítulo III, “El verso libre de la vanguardia y otras manifestaciones versolibristas”, un rico panorama de formas
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relacionadas con las vanguardias, aparte de las del mundo hispánico. Por ejemplo, las de la versificación acentual rusa, o el versolibrismo de la poesía inglesa. Llega el panorama histórico hasta la poesía reciente en español: Luis A. De Villena, por ejemplo, y su llamada a la creación de un nuevo verso libre (p. 179). Pero también se estudia, por ejemplo, a Juan Ramón Jiménez (pp. 150-157), la generación del 27 (pp. 155-161), la postguerra o la poesía visual (pp. 166-167). El punto de vista adoptado es esencialmente histórico, sin faltar la recensión de las opiniones de poetas sobre el verso libre: poetas de los 70 o de los 80 (pp. 171-172). El capítulo IV, “Ritmo interior y ritmo de pensamiento”, se centra en cuestiones más teóricas, pues intenta indagar en la naturaleza del ritmo del verso libre. Para ello analiza opiniones y propuestas de autores bien conocidos, como Amado Alonso, Samuel Gili Gaya, T. Navarro Tomás, Dámaso Alonso, Rafael Lapesa, F. López Estrada, Kurt Spang, P. Jauralde Pou, F. Lázaro Carreter, C. Bousoño, E. Alarcos. El problema de encabalgamiento y verso libre, o la teoría formalista del ritmo, son ejemplos de la riqueza de cuestiones implicadas en el estudio del verso libre. El capítulo V, “La cuestión tipográfica. Verso y prosa”, entra en un asunto de gran importancia. No es raro que los analistas del verso libre, por encima de la disposición gráfica, quieran encontrar un esquema fónico emparentado con las formas del verso tradicional. Recuérdese el recurso frecuentísimo a la base endecasilábica para la explicación de muchas manifestaciones de verso libre moderno (Aleixandre ofrece los ejemplos más frecuentemente estudiados). Pero más allá del enunciado, este capítulo plantea cuestiones esenciales de la definición del verso libre, que, aparte de lo tipográfico, ideológico o sentimental, debe centrarse en la ruptura con el principio de la igualdad silábica: «Es la igualdad silábica, sobre todo, el factor rítmico con el que el versolibrismo pretende romper, igualdad silábica que, en el ámbito francés, iba unida a una serie de reglas que alejaban la pronunciación del verso del lenguaje hablado» (p. 229). A partir del criterio métrico (silábico) agrupa en tres las explicaciones del verso libre: 1) verso libre aliterativo o con rima; 2) verso libre acentual; y 3) verso libre que gira alrededor de una medida y sus medidas afines (p. 229). En la discusión de este último tipo, que es el “de mayor importancia en la poesía española”, es cuando se plantea el estudio de la base endecasilábica antes mencionada, por ejemplo, con la aparición de nombres bien conocidos en relación con
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el tema, como C. Bousoño o F. Lázaro Carreter. Una lista de autores que han visto la repetición de esquemas métricos en el verso libre, se encuentra en p. 239. Reproduzco un párrafo que describe muy bien el nudo del problema del verso libre: «A la luz de las opiniones recogidas sobre el verso libre es evidente que el principal problema para su definición tiene su origen en la variedad versolibrista y en sus formas afines, así como en las sólidas interrelaciones que se dan con la tradición métrica regular. Hay que descartar, por lo tanto, un único concepto de verso libre válido para explicar toda la gama versolibrista. Las tipologías existentes niegan, sin duda, la opinión de que haya tantos poemas libres como autores versolibristas y de que, en consecuencia, el estudio sistemático de verso libre sea sólo una quimera» (p. 252). Así se justifica la relación de tipologías del verso libre que encontramos en las páginas siguientes (pp. 252-259): de Robert de Souza, Tomachevski, H. Morier, Beltrami, N. Tomás, I. Paraíso. A continuación empieza el tratamiento de la relación del verso libre y la prosa. No hay que decir que es inevitable la referencia al poema en prosa (p. 259). Hay autores que aproximan el verso libre a la prosa (Benoît de Cornulier, o Beltrami, entre los modernos más conocidos), otros, como O. Belic, defienden la existencia de normas rítmicas propias del verso libre. De cualquier forma, la segmentación específica es lo que separa el verso libre de la prosa. En la importancia de la segmentación coincide O. Belic con Tinianov o Tomachevski, pues se trata de marcar otro tipo de función diferente de la de la prosa. La tipografía es un indicador pragmático (p. 273). La semiótica representada por I. Lotman tiene en cuenta también la disposición tipográfica como señal que predispone a una lectura. El capítulo incluye en su última parte consideraciones sobre la importancia del contexto histórico para entender el verso libre, lo que hace basándose en la autoridad de Mukarovsky, y le lleva a la estética de la recepción. En este ambiente surgen afirmaciones, con aire de tesis general, tan claras como: «Las diferentes opiniones sobre el verso libre y su consideración como verso o prosa dependen, pues, de los lectores y de sus expectativas» (p. 274). En definitiva, la innovación versolibrista es un problema estético y no exclusivamente métrico, como señala en el párrafo final, que es una especie de resumen y conclusión de este capítulo. Capítulo que nos parece ser el que entra más directamente en lo que es una definición del verso libre tal como la piensa María Victoria Utrera Torremocha.
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El último capítulo, “El verso libre en la poesía española de los últimos treinta años”, es una descripción utilísima de las tendencias versolibristas actuales. Sorprende, contra una idea que parece ir inseparablemente unida a la poesía moderna, que el 68% del corpus analizado (constituido por unos 950 poemas de cuatro antologías) son regulares; el 12% corresponde a verso libre atenuado de base rítmica interrumpida; y el 20%, verso libre más prosaico o que mezcla ritmos conocidos (pp. 292 y 314). Hay que destacar los ejemplos de análisis de poemas concretos de distintos poetas (Miguel D’Ors, Luis García Montero, Rosa Romojaro, Juan Luis Panero, Pere Gimferrer, Antonio Carvajal, Andrés Sánchez Robayna, Leopoldo María Panero, Luis Antonio de Villena, Blanca Andreu, Roger Wolfe). Estos análisis son imprescindibles para demostrar la construcción de muchos versos sobre base tradicional, y la opción personal en la comprensión de formas ambiguas. Véase, a este respecto, en otro capítulo anterior, el comentario de la calificación de algún poema fundada en una escansión errónea (p. 241). Entre las conclusiones se lee: «El retorno a la métrica tradicional es generalizado en la poesía actual y, con él, el claro descenso del verso libre arrítmico» (p. 315). Seguramente esta conclusión será válida también si se analiza un grupo de poetas no exclusivamente españoles. La aportación de María Victoria Utrera Torremocha, en el contexto de los estudios sobre el verso libre, debe ser destacada en los siguientes aspectos, me parece: una consideración de gran número de teorías referidas al verso libre en las principales literaturas europeas; una indagación detenida en los orígenes de las formas de verso libre en las mencionadas literaturas; un análisis detallado de cuestiones centrales de la discusión, como son las del ritmo y las de la tipografía; y la descripción de las últimas tendencias en las manifestaciones del verso libre en una muestra elegida de la poesía española última. Añádase la apertura de la consideración de la métrica más allá de lo descriptivo (que es imprescincible, y siempre hay que dar por supuesto) a lo estético e histórico, como se ha visto en los frecuentes apoyos en escuelas vigentes en el pensamiento teórico actual de la literatura. Con este trabajo, el estudio del verso libre cuenta con los apoyos teóricos firmes para las imprescindibles descripciones de manifestaciones concretas que dibujen el cuadro de sus formas y vigencia. JOSÉ DOMÍNGUEZ CAPARRÓS
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