Sintesi
Giovanna Fiume
Schiavitù mediterranee Corsari, rinnegati e santi di età moderna
Tutti i diritti riservati © 2009, Pearson Paravia Bruno Mondadori S.p.A. Per i passi antologici, per le citazioni,per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail
[email protected] [email protected] e e sito web www.aidro.org Redazione: Maria Diletta Strumolo Cartine: Studio Margil - Certosa di Pavia (PV) Realizzazione editoriale: Erregi - Milano www.brunomondadori.com
Elenco delle abbreviazioni AGS, Archivo General de Simancas AHN, Archivo Histórico Nacional di Madrid ARC, Arciconfraternita per la Redenzione dei Captivi di Santa Maria la Nova ASP, ASP, Archivio di Stato di Palermo Pale rmo SS, Archivio Storico Siciliano ASV, Archivio Segreto Vaticano BAC,Biblioteca de Autores Cristianos BAE, Biblioteca de Autores Españoles BCP, BCP, Biblioteca Comunale di Palermo BRS, Biblioteca Regionale Siciliana BS,Bibliotheca Sanctorum DIP,Dizionario DIP,Dizionario degli Istituti Isti tuti di Perfezione Inq. Sic.,Inquisición Sicilia Riv. Riv. Pa.,Riveli di cattivati cat tivati di Palermo SA, Schomburg Archives di New York York SCCS, Sacra Congregatio pro Causis Sanctorum SIHM, Les sources inédits de l’histoire du Maroc ULT, University Library di Toronto c./cc., carta/e col./coll., colonna/e fasc., fascicolo f./ff., foglio/i leg., legajo lib., libro ms., manoscritto n./nn., numero/i r., recto t., tomo v., verso vol./voll., volume/i
Introduzione
Negli ultimi decenni la schiavitù di età moderna in area mediterranea ha goduto di una straordinaria fortuna storiografica.1 Ricerche sistematiche hanno scavato in profondità mettendo in luce le modalità della cattura, le condizioni della vita in schiavitù, i mercati, i rinnegati, i riscatti, gli ordini religiosi e le istituzioni laiche impegnate nelle delicate transazioni finanziarie, gli scambi di schiavi, il ritorno in patria e le cerimonie di reintegrazione ecc. Si può affermare che la ricchezza delle fonti e dei “giacimenti” documentari, ancora in parte inesplorati, data la loro vastità, ha consentito una buona conoscenza della storia del fenomeno che, abolito nel corso del XIX secolo, oggi si riaffaccia con caratteri inediti che fanno parlare di “nuove schiavitù”. Quanto quella contemporanea assomigli a quella antica, medievale o moderna costituisce l’incipit obbligato di molte ricerche sociologiche che riconoscono le peculiarità della schiavitù dei nostri giorni, prima tra tutte il fatto di essere illegale, non consentita dal sistema di regole vigenti (quanto sia contrastata e repressa è un altro discorso), poi di essere estremamente differenziata per area geografica e contesto sociale: la tratta delle giovani nigeriane in Europa è diversa dalla schiavitù per debito delle famiglie addette alla fabbricazione di mattoni nel Punjab, o dei carbonai del Mato grosso, o delle adolescenti recluse nei postriboli in Thailandia o degli schiavi domestici della Mauritania (forse la forma di schiavitù che – fatte salve le debite distinzioni – più assomiglia a quelle di età medievale e moderna). Insisto sulle differenze per alcune buone ragioni: che il fenomeno si riaffacci nel nostro globalizzato mondo contemporaneo non deve farci pensare a un fenomeno invariante, astorico,
universale; basti solo guardare a come siano nel frattempo mutate le aree di provenienza e di destinazione dei flussi migratori dei “nuovi schiavi” e le forme di sfruttamento. Se nell’età moderna la tratta di popolazioni africane acquistate o razziate per essere imbarcate su navi negriere da intraprendenti mercanti portoghesi, francesi, inglesi, olandesi ha solcato l’Atlantico verso le piantagioni e le miniere del Nuovo mondo, la schiavitù mediterranea ha avuto provenienza e caratteristiche diverse, essendo prodotta dalla guerra da corsa e dal suo succedaneo, la pirateria. Le condizioni del prigioniero di guerra e dello schiavo si intrecciano in maniera peculiare nella figura del captivus, caduto in mano del nemico e ridotto in schiavitù, venduto e acquistato come una merce. L’arrembaggio a navi nemiche o la razzia di inermi popolazioni costiere producono un fenomeno quantitativamente consistente, ma diverso sotto molti aspetti dalla schiavitù che la tratta impianta nel Nuovo mondo. Nell’area mediterranea essa assume delle caratteristiche che possiamo così sintetizzare: la reciprocità (europei cristiani catturano e riducono in schiavitù nordafricani e “turchi” musulmani e viceversa); la temporaneità (i captivi possono essere riscattati o scambiati e, dopo un certo tempo, ritornare in patria); la reiteratività (si può cadere più di una volta in cattività, soprattutto se per mestiere si va per mare); la creazione di una rete finanziaria a maglie strette di mercanti, redentori, negoziatori, interessati a speculare sul riscatto oltre che a liberare amici e familiari. Gli strumenti di manomissione – fino alla metamorfosi più radicale che si possa concepire con la trasformazione dello schiavo da oggetto in soggetto di diritto – e di integrazione nel nuovo contesto passano per lo più attraverso l’abiura della rispettiva religione e l’adesione a quella del paese ospitante. Gli elementi caratterizzanti la schiavitù – spersonalizzazione (l’essere umano da soggetto diventa un oggetto, bene patrimoniale, proprietà privata), desocializzazione (lo schiavo è lo “straniero assoluto”), negazione della parentela (l’accesso al matrimonio gli è negato e i suoi figli appartengono al padrone), desessualizzazione (viene spogliato delle nozioni culturali di mascolinità e femminilità: l’eunuco è lo schiavo per antonomasia), decivilizzazione (la dipendenza esclusiva da un unico individuo, il padrone, e la conseguente mancata definizione in rapporto all’insieme della collettività) – 2 hanno una gradazione estremamente variabile di applicazione. Possiamo trovarli in tutto o in parte, al massimo del rigore oppure quasi del tutto inapplicati. La casistica è così ampia da rendere forzata ogni generalizzazione.
Anche l’aspetto dell’abiura e della conversione conserva una forte componente di reciprocità: così come ci sono i “cristiani di Allah”, ci sono anche i “musulmani di Cristo”, e di entrambi ho cercato di comprendere, fin dove è stato possibile aggirare il silenzio delle fonti, spostamenti, motivazioni e strategie. Poiché per la Chiesa i cristiani in cattività sono pezzi delle proprie membra caduti in mano ai nemici della fede, l’attenzione nei confronti del fenomeno è sempre stata grande e ha prodotto una serie variegata di documenti di straordinario interesse a cui gli storici hanno scarsamente attinto per illuminare il tema della schiavitù. La struttura di questo libro segue un procedimento vorticoso, disegnando con la maggiore densità possibile di dati il contesto nel quale ha luogo l’azione dei personaggi; gli schiavi lamentano nelle lettere inviate ai familiari l’occasione e la condizione della loro schiavitù; più diffusamente alcuni ne raccontano in memorie e autobiografie che mescolano i canoni della cronaca, della storia politico-diplomatica, del libro di viaggio, del racconto di avventura. I redentori, per lo più religiosi, incaricati del riscatto faranno altrettanto, dipingendo le società maghrebine (le reggenze barbaresche e il regno del Marocco) in maniera accurata, persino sociologica, e sempre molto critica. La geografia della corsa spazia per tutto il Mediterraneo, ma pirati marocchini, inglesi, olandesi, francesi battono l’Atlantico e le rotte della corsa si intrecciano frequentemente con quelle della tratta che conducono dal Centro Africa attraverso il Sahara sulle sponde del Mediterraneo o verso l’Egitto e i territori ottomani. L’abiura è messa al centro degli interrogatori del Santo Uffizio spagnolo in Sicilia, a cui debbono rivolgersi i rinnegati e più in generale quanti tornano dalla schiavitù trascorsa in territorio musulmano. L’archivio dell’Inquisizione costituisce una fonte giudiziaria particolarmente affluente che vuole scrutinare la coscienza religiosa e i suoi turbamenti, nell’intento di perdonare quanti sono stati costretti a rinnegare la loro fede per salvare la vita o opportunisticamente lo hanno fatto “di bocca”, ma non “di cuore”. Il collegio del santo tribunale di fronte alla confessione e al pentimento è pronto a perdonare il traviato e, dopo un rapido ripasso dei fondamenti della fede cristiana, a reinserirlo attraverso cerimonie apposite all’interno dell’ecclesia. Emerge dagli interrogatori una serie di credenze miste, a cavallo tra cristianesimo e islam, ma soprattutto questo andirivieni da una religione a un’altra, mutata insieme con il cambiamento di contesto, abitudini e condizione, ci mette in contatto con persone che
attraversano frontiere di mondi che appaiono separati da confini fluidi e permeabili in tutte le direzioni. La conversione diventa un modo praticabile di adattarsi a realtà sociali che le circostanze della vita impongono, una specie di passaporto di chi vive sulla linea delle frontiere geografiche, politiche, religiose, sociali in senso lato. Si apre in questo spazio anche la possibilità di una sorta di agnosticismo che fa aderire pragmaticamente a fedi diverse, di convinzioni comuni alle tre religioni monoteiste, considerate tutte capaci di procurare la salvezza dell’anima, spiragli per una individualistica libertà di coscienza. Un’attenzione altrettanto mirata viene esercitata dalla Chiesa nei confronti della conversione dei musulmani sia schiavi in terra cristiana o nei possedimenti africani, sia nei loro rispettivi paesi. Sulla conversione si combatte una battaglia squisitamente politica contro l’impero ottomano che fa paura, nonostante la vittoria delle armi cristiane a Lepanto, almeno fino al 1683. Dal punto di vista teologico, la posizione di quegli uomini di chiesa oggi si definirebbe “esclusivismo”, in quanto parte dal presupposto secondo cui se una religione è vera, tutte le altre debbono essere false, escluse dunque dalla verità e dalla salvezza.3 Un atteggiamento a lungo causa di chiusura, incomprensione, stigmatizzazione delle altre fedi religiose e in particolare delle due altre religioni monoteistiche nate nella medesima koinè mediterranea: l’ebraismo e l’islam. All’origine del mondo moderno vi sono, più che «culture in conflitto»,4 la definizione e l’espulsione violenta di minoranze (ebrei e moriscos dalla Spagna) e l’epurazione, fino alla pulizia etnica, dei soggetti portatori di diversità culturali e religiose, in uno scontro che si ripresenta drammaticamente irrisolto ancora ai nostri giorni. L’identità cristiana dell’Europa, a cui molti si rivolgono oggi per scoprirne le radici, è un frutto avvelenato, poiché nasce nel fuoco di tale conflitto. Le conversioni, tema arduo dell’indagine, rappresentano un processo che non può essere compreso se non all’interno di «specifici contesti storici, sociali e culturali e questi contesti occorre attendersi che varino enormemente da un tempo e un luogo all’altro».5 L’impressione di estrema frammentazione delle situazioni è giustificata dalla grande varietà delle circostanze di conversione (in giovane età o da adulti, effetto di una costrizione violenta o più insidiosa, sotto l’effetto di una azione di proselitismo o di un percorso più solitario ecc.), dello statuto giuridico dei neo convertiti (schiavi, affrancati o liberi). Inoltre, il quadro geografico è molto ampio e giunge dovunque si confrontino le religioni del Libro, quelle che in senso stretto possono definirsi “religioni di conversione”, se
la nozione di conversione e il suo opposto speculare, l’apostasia, è in funzione delle frontiere definite dalla parola scritta.6 Sbrigativamente, per i secoli dell’età moderna, si è preferito parlare di “turchi di professione”, alludendo sarcasticamente alle conversioni di opportunità, politiche o forzate, per uscire dal cul-de-sac rappresentato dal sentimento religioso, dove si annida l’apostasia. Abbiamo a che fare insomma con il «silenzio delle fonti, sia islamiche sia cristiane, quanto alla sincerità dei rinnegati e all’autenticità della loro conversione».7 Ma potrebbe essere altrimenti? Un progresso nelle nostre acquisizioni proviene dagli insegnamenti impartiti a chi mostrava di volersi convertire; parte dell’attività della Chiesa e degli ordini religiosi era dedicata alla conversione degli “infedeli”, non solo all’evangelizzazione dei “pagani” in terra americana. Questa attività è spesso coronata da successo, come dimostrano una consistente casistica e la piccola coorte di santi neri che, schiavi o figli di schiavi africani, percorrono la strada in salita che conduce sugli altari. Saranno i processi di canonizzazione di Antonio Etiope da Noto e di Benedetto il Moro da San Fratello a segnare il punto più alto dell’opera di conversione attuata dai francescani, che di questi due loro confratelli faranno lo strumento privilegiato dell’evangelizzazione degli schiavi africani, condotti dalla tratta nella penisola iberica e nelle Indie occidentali. I culti e le devozioni rivolte ai due santi neri rappresentano un esempio convincente di come la Chiesa dialoghi efficacemente con le “periferie”, ma anche di come queste ultime dialoghino tra loro: in età moderna, oltre al commercio, “triangolare” è anche la cultura religiosa, che da Roma trasmigra nel Nuovo mondo, e si intreccia con altre culture provenienti dall’Africa insieme alla “merce umana”, costruendo forme inedite di religiosità debitrici verso quelle originarie, forme nuove, meticce, figlie dell’ibridazione. Da più di un decennio studio i santi neri siciliani e in particolare san Benedetto il Moro, il cui corpo incorrotto è custodito nel convento palermitano di Santa Maria di Gesù e che gode in America del Sud di una popolarità straordinaria, declinata in patria e limitata alla borgata di periferia dove sorge il convento. Partecipare alle celebrazioni che gli vengono tributate ogni anno in Venezuela e in Brasile; vedere all’opera le confraternite dedicate al santo; seguire le processioni scandite dalla musica dei tamburi e delle marracas; “ballare il santo”, come fanno in suo onore, bevendo rum, i devoti in processione; studiarne l’iconografia in immaginette, tele, statue, affreschi e pale d’altare; parlare con gli “schiavi del santo schiavo”, il cui solo pensiero incute terrore, se non hanno
rispettato i voti fatti per chiedere una grazia; vedere come, a grazia ricevuta, i fedeli collochino nelle cucine delle abitazioni, in ricordo della sua mansione di cuoco del convento, una statuetta del santo, a cui offrono rispettosamente la prima tazza di caffè del mattino e che chiamano são Ditinho, diminuitivo del diminuitivo (Benedito, Beneditinho, Ditinho), tutto ciò mi ha insegnato quanto e forse più del lavoro di archivio e in biblioteca. Considero un prezioso trofeo la mia collezione di immagini e statuette del Santo Moro, il Negrito il Negrito di di Palermo, provenienti da Spagna e Portogallo, Brasile, Venezuela, Messico, Guatemala, Perù, Sud Carolina e naturalmente da Palermo e San Fratello, acquistate nel corso dei miei viaggi o regalatimi da colleghi e amici. L’iconografia è d’altronde anch’essa una fonte, estremamente loquace, di produzione religiosa alla stregua delle agiografie, di cui rappresenta il dinamico riflesso. Immagini e agiografie, a loro volta, incalzano o fanno sedimentare i risultati delle varie tappe dei processi di canonizzazione. Infine, ho studiato la missione evangelizzatrice dei francescani scalzi in Marocco attraverso i volumi relativi al processo di canonizzazione a Juan de Prado, martirizzato a Marrakech nel 1631, insieme alla cronaca scritta nel decennio successivo dal correligionario Matias di San Francisco, suo compagno di sventura nella missione in Marocco. Questa fonte, dal suo peculiare punto di osservazione, ci introduce nel mondo della schiavitù di età moderna nel regno del Marocco – meno conosciuto rispetto alle reggenze barbaresche di Algeri, Tunisi, Tripoli, legate strettamente all’impero ottomano – mettendone in luce ulteriori aspetti insospettati. Il mondo della schiavitù appare stratificato persino sulle galere e sulle navi da corsa; a terra, la topografia cittadina rispecchia la differenza di condizione tra gli schiavi del sultano, quelli sposati, quelli che vivono a casa dei padroni, quelli che vivono nei bagni e quelli incarcerati. Alloggiati in quartieri loro riservati, contigui alle aree dove abitano e operano mercanti ebrei, affaristi europei liberi, rinnegati, popolazione locale, gli schiavi vivono in un microcosmo conflittuale, sia perché risente dei conflitti politici tra gli stati di appartenenza (spagnoli e portoghesi litigano nel 1640, quando il Portogallo si separa dalla Spagna), sia perché la stratificazione genera conflitto. Questa dialettica si complica ulteriormente per la presenza di veri e falsi rinnegati, di criptocristiani e criptoislamici, di spie e doppiogiochisti, millantatori e agenti segreti. Perciò la schiavitù va letta nel contesto della realtà ospitante; vi influisce pesantemente la qualità dei rapporti politici e diplomatici con gli stati europei di provenienza
degli schiavi e risulta assai evidente il ruolo politico svolto dagli ordini religiosi nell’ambito della loro attività missionaria.
Ringraziamenti Ho contratto molti debiti nello scrivere questo libro: verso lettori affettuosamente severi, come Sara Cabibbo, Simon Ditchfield, Rita L. Foti, Maria Sofia Messana, che si sono sobbarcati la lettura di un testo ancora provvisorio, acerbo e caotico. Da loro ho ricevuto a tempo debito suggerimenti preziosi e critiche opportune che mi hanno consentito di maturare il mio punto di vista e, come spero, di migliorare la fruizione del testo. Ma mi sento debitrice anche nei confronti degli studiosi che ho chiamato a partecipare ai due convegni internazionali (il primo, “La schiavitù nel Mediterraneo medievale e moderno”, in collaborazione con l’Unesco, tenutosi a Palermo nel dicembre 19998 e il secondo su “Schiavitù e conversioni religiose nel Mediterraneo medievale e moderno”, tenutosi sempre a Palermo nel maggio 20079), organizzati mentre andavo riflettendo sui temi di questo libro o a quelli a cui ho partecipato, a Charleston,10 a Tolosa11 e a Rio de Janeiro.12 Maria Sofia Messana mi ha messo a disposizione con rara generosità i documenti dell’Inquisizione spagnola di Sicilia, reperiti presso l’Archivo Histórico Nacional di Madrid, ampiamente utilizzati nel corso delle sue ricerche e delle sue pubblicazioni e lo stesso ha fatto Felicita Tramontana con libri e riviste provenienti dalla biblioteca dell’Università di Tel Aviv, dove l’hanno condotta le sue ricerche. Ho scelto di tradurre in italiano tutte le citazioni di testi inglesi, francesi, spagnoli, portoghesi e latini; per le traduzioni dello spagnolo secentesco è stata preziosa la collaborazione di Maria Carmela Comella e Paula Bell Pesce; le traduzioni dall’arabo, così come la disponibilità dei libri da cui provengono, sono di Asma Gherib, a cui si deve la traslitterazione dei termini in lingua e alla cui profonda cultura religiosa ho potuto attingere con profitto. Marinella Fiume ha fatto un editing puntiglioso di tutto il libro, alla cui forma ha dato una maggiore chiarezza. Tiziana Lo Porto si è mostrata una affettuosa sostenitrice in un momento critico della gestazione del libro, concepito quando Tommaso Detti propose a questo editore il testo di una conferenza tenuta all’Università di Siena nel 2006. Con Alessio Campione, lettore onnivoro, ho
discusso le implicazioni politiche dei temi trattati con riferimento all’attualità. Li ringrazio tutti pubblicamente. Dedico questo libro alla memoria di mio padre, fiero come fossero i suoi dei successi dei figli. 1
Dopo le pionieristiche ricerche di Charles Verlinden, L’esclavage dans le Centre et le Nord de l’Italie continentale au bas Moyen-Âge, Moyen-Âge, in “Bulletin de l’Institut historique belge de Rome”, XLI, 1969, pp. 93-155; Id., L’esclavage dans l’Europe médiévale. Italie, colonies italiennes du Levant, Levant latin, Empire byzantin, byzantin, II, Gent 1977; Stephen Clissold, The Barbary Slaves, Slaves, Paul Elek, London 1977; Ellen G. Friedman, Spanish Captives in North African Early Modern Age, Age, University of Wisconsin Press, Madison (WI) 1983; Bartolomé et Lucile Bennassar, Les Bennassar, Les Chrétiens d’Allah. L’histoire extraordinair ext raordinairee des renégats (XVIe-XVIIe siècles), siècles), Perrin, Paris 1989. 2 Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù, schiavitù, Mursia, Milano 1992, particolarmente pp. 105-119. 3 Gerhard Gäde, Adorano Gäde, Adorano con noi il Dio unico, unico, Borla, Roma 2008. Il Concilio vaticano II rappresenta un passo avanti nella direzione dell’inclusivismo, che vede nelle altre religioni una certa partecipazione, seppure imperfetta, alla verità, valorizzandole in parte, ma rivendicando pur sempre una certa pretesa di superiorità alla religione cristiana. Il pluralismo, modello elaborato in ambito angloamericano, vorrebbe vedere in tutte le religioni, inclusa la propria, autentiche esperienze di una comune realty trascendente che in queste esperienze religiose si manifesta. I primi due modelli, sostiene il teologo, riescono a rivendicare la verità della propria religione soltanto a spese della altre, mentre il terzo riesce a valorizzare le altre religioni solo relativizzando la propria. L’interiorismo sarebbe l’unica valida alternativa ai tre modelli riconoscendo la verità insuperabile delle altre religioni dal momento che esse comunicano agli uomini una realty che, se è vera, solo Dio può comunicare. 4 Per parafrasare Bernard Lewis, Culture in conflitto. Cristiani, ebrei e musulmani alle origini del mondo moderno, moderno, Donzelli, Roma 1997. 5 Stephen R. Humphreys, Islamic Humphreys, Islamic History. A Framework for Inquiry, Inquiry, Princeton University Press, Princeton 1991, p. 276. 6 Jack Goody, The Logic of Writing and the Organization of Society, Society, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 4-6. 7 Jocelyne Dakhlia, Turcs de profession? Réinscription lignagères et redéfinitions sexuelles des convertis dans les cours maghrébines (XVIe-XIXe
siècles), siècles), in Mercedes García-Arenal (sous la direction de), Conversions islamiques. Identités religeuses en Islam Méditerranéen, Méditerranéen, Maisonneuve et Larose, Paris 1991, p. 152. 8 Gli atti, a mia cura, si trovano nei numeri monografici dedicati a La a La schiavitù nel Mediterraneo, Mediterraneo, “Quaderni storici”, n. 107, 2001 e Schiavi, corsari, rinnegati, rinnegati, “Nuove effemeridi”, A. XIV, XIV, n. 54, 2001. 9 Gli atti, a mia cura, in Schiavitù e conversioni nel Mediterraneo, Mediterraneo, “Quaderni storici”, n. 126, 2007 e Schiavitù, religione e liberty nel Mediterraneo tra medioevo ed età moderna, moderna, “Incontri mediterranei”, A. XVII, 1-2/2008. 10 “Saints and Pilgrims around the Atlantic”, University of South Carolina (Charleston, SC, 20-22 febbraio 2004); gli atti a cura di Margaret Cormack, Saints and their Cults in the Atlantic World, World, Charleston, South Carolina University Press, 2006. 11 Dieudonné Gnammankou, Yao Modzinou (sous la direction de), Les fricains et leurs descendants en Europe avant le XXe siècle, siècle, MAT, Toulouse 2008. 12 “Confronting Slavery. Towards a Dialogue of Cultural Understanding” (Rio de Janeiro, 22-25 novembre 2007), Brazilian Letters Academy e Fundación Tres Culturas, i cui atti sono in corso di pubblicazione, a cura di Paul E. Lovejoy.
1. Schiavi e rinnegati
1.1 La guerra mediterranea La schiavitù in area mediterranea ha una storia plurisecolare e la sua lunga persistenza, dalla società greca e romana fino al Medioevo cristiano, dalla repubblica di Venezia alle società arabe della penisola iberica, può trarre in inganno, inducendo a pensare a una sorta di immutabilità del fenomeno che, invece, ha dovuto di volta in volta fare i conti con caratterizzazioni diverse e differenze marcate circa la provenienza geografica degli schiavi, l’appartenenza etnica, la composizione per sesso, le loro condizioni di vita, le reti commerciali, i mercati, i modi dell’affrancamento ecc. I conflitti che tra Medioevo ed età moderna hanno attraversato il Mare nostrum sono stati essi stessi produttori di schiavi (i prigionieri militari) e, insieme, ne hanno accresciuto la necessità (negli eserciti e nelle marinerie militari). L’impero arabo, che si estende per secoli fino alla penisola iberica, toccando Sicilia e Provenza, e si arresta al Sahara, all’Etiopia e alla Nubia, si approvvigiona di questa utile merce nell’Africa subsahariana e orientale, non islamizzata. Verso oriente, ai confini dell’impero bizantino da un lato e delle popolazioni turche dell’Asia centrale dall’altro, l’endemica conflittualità produce ricchi contingenti di schiavi. Lo stesso accade nel mondo cristiano con le guerre di Riconquista in Spagna che producono schiavi musulmani anche per l’Europa del Nord. La schiavitù del Medioevo europeo, relativamente ben conosciuta,1 è soprattutto alimentata dalle regioni dell’Asia centrale, dal Vicino Oriente e dai
Balcani. In espansione tra XIII e XIV secolo, declina al principio del XV, insieme al flusso di schiavi dal Levante verso l’Occidente, mentre prende avvio un flusso proveniente dall’Africa occidentale.
Il Mediterraneo nel XVI secolo. Il Mediterraneo diventa un’area di conflitto quando Maometto II con la caduta di Costantinopoli (1453) mette fine all’esistenza millenaria dell’impero bizantino e, conquistando in rapida successione Serbia, Bosnia-Erzegovina, parte della Grecia (Morea, Eubea e Atene), Albania, il Sud della Crimea, si affaccia sul mar Nero, di cui i suoi successori faranno un “lago ottomano”. Ma ancora di più dopo il 1492, l’annus mirabilis,2 quando con la resa del regno di Granada cade l’ultimo baluardo islamico in Europa e i regni di Castiglia e di Aragona perseguono la conversione forzata o l’espulsione dei musulmani e degli ebrei dal loro territorio. Mentre i primi si dirigeranno verso il Maghreb e i territori ottomani (verranno chiamati “gli andalusi”), i secondi (provenienti da Sefarad,
perciò “sefarditi”)3 verso la Sicilia, la Francia, Amsterdam, Venezia, Livorno, la Turchia, la Grecia e i Balcani. Il “Mare interno” è nel XVI secolo, dunque, un’area di acuto conflitto politico.4 Nel 1571 la Lega santa composta dal papa, Venezia e la Spagna batte a Lepanto la flotta turco-barbaresca.5 La flotta cristiana infligge pesanti perdite a quella ottomana, uccide 30 000 nemici, fa 3000 prigionieri, ma Venezia esce provata dallo scontro, firma una pace separata, accetta la perdita di Cipro e versa un tributo annuo al sultano, in cambio di privilegi commerciali. «La flotta cristiana si ritira nel Mediterraneo occidentale e lascia ai turchi il controllo del Mediterraneo orientale».6 La tregua del 1581 tra impero turco e impero spagnolo aprirà le porte del Mediterraneo al dominio della corsa e della pirateria.7 Dopo il disastro dell’Invincibile armata nel 1588 e l’impegno dell’impero asburgico nella guerra dei Trent’anni (1618-1648), in mare il conflitto si gioca nell’Egeo, nel Tirreno, nello Ionio, nell’Adriatico e travalica Gibilterra. Solo nel 1683, con il fallimento del secondo assedio di Vienna (il primo è stato tentato nel 1529), inizia il lento declino dell’equilibrio che ha segnato in questi secoli il rapporto tra mondo cattolico e islamico nel Mediterraneo. Per le popolazioni mediterranee una delle conseguenze della guerra, aperta o latente, tra il mondo cristiano e il mondo musulmano è la riduzione in schiavitù di migliaia di prigionieri. “Schiavo” ha in questo contesto il significato di captivus, prigioniero catturato in armi, sia nel corso di azioni militari, sia a causa della corsa e della pirateria e, dunque, in occasione di arrembaggi, razzie e sbarchi di sorpresa. Una prima conseguenza è la reciprocità della riduzione in schiavitù di cristiani e musulmani, che appare come una macroscopica differenza tra la schiavitù mediterranea e quella atlantica. «Sebbene la schiavitù abbia esibito nel tempo e nello spazio diversità tali da fare apparire virtualmente impossibile generalizzare sulla sua natura, un particolare tipo di schiavitù, che esibisce certe comuni caratteristiche, emerge nel mondo occidentale (quello di derivazione europea) nel XVI e XVII secolo».8 Esamino qui solo una delle forme di schiavitù, quella di guerra, anche nella sua versione da corsa – dove «il captivo è un bottino vivente», da scambiare alla prima occasione9 – senza considerare quella conseguente a una condanna penale (il remo della galera o la “galera terrestre”),10 né quella per acquisto e per nascita, o il devşhirmé ,11 forme che perdurano per tutta l’età moderna, giungendo fino al primo Ottocento. Il punto di osservazione è costituito dalla Sicilia, che segna nel Cinquecento, a causa della sua posizione geografica al centro del Mare nostrum, il confine tra
due mondi e il baluardo militare della cristianità nella lotta contro l’islam, continuamente soggetta agli attacchi delle navi corsare provenienti dal Nord Africa che assalgono sia le imbarcazioni sia le città costiere, razziando, depredando, prendendo prigionieri per venderli come schiavi. Dalla Sicilia lo sguardo si apre a tutto il Mediterraneo, particolarmente a quello occidentale, senza giungere, però, al Levante. Tra XVI e XVII secolo l’attività corsara è così intensa, ossessiva e capillare da fare ricordare questo periodo – considerato l’età dell’oro della guerra da corsa12 – come il più terribile per le popolazioni costiere: le agili navi corsare – galere, fuste, galeazze, sciabecchi13 – arrivano all’improvviso, spesso senza lasciare il tempo di trovare rifugio e organizzare una resistenza; l’equipaggio e la ciurma si riversano sulla terraferma preparati a uccidere, incendiare, razziare donne, bambini, uomini validi, oppure abbordano le imbarcazioni incrociate sulla loro rotta, ne catturano mercanzie ed equipaggi e trainano navi e bottino nei porti di provenienza. La razzia dei borghi e delle popolazioni costiere contribuisce a incrementare il bottino della corsa. Gli arrembaggi delle navi corsare appaiono negli ex voto (alla Madonna di Trapani, a quella di Altavilla Milicia nel palermitano ecc.); cronache e diari li riportano con lo stesso senso di ineluttabilità con cui annotano i terremoti, le tempeste di grandine o le invasioni di cavallette. Le incursioni non risparmiano nessuna zona dell’isola, ma si addensano, com’è ovvio, attorno alle sue coste sud occidentali – le più prossime a quelle africane – da Gela a San Vito lo Capo, insistendo su Lampedusa, Pantelleria, Licata, Sciacca, Mazara, Marsala, Trapani, Favignana e, superato il capo di San Vito, si avvicinano alla capitale del viceregno, toccando Castellammare e Isola delle femmine; arrivano a Ustica, Trabia, Termini Imerese, Cefalù e si spingono fin dentro il messinese, raggiungendo Brolo, Milazzo, le Eolie. Nemmeno la costa orientale della Sicilia viene risparmiata e incursioni colpiscono Taormina, Mascali, Catania, Augusta, Siracusa, Avola, Scicli.14 Le incursioni barbaresche vengono segnalate numerose nei diari dei contemporanei; entrano prepotentemente in ogni storia della Sicilia moderna e vengono documentate con continuità per i secoli XVI e XVII, con propaggini sino ai primi decenni del XVIII secolo. Ma, tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo, ed è il rovescio della medaglia, la Sicilia conosce la maggiore presenza di schiavi.15 A questa data non finiscono né la schiavitù né la corsa, anzi quest’ultima viene percepita come una minaccia almeno fino a metà Settecento, quando entra in quella che è considerata generalmente la sua fase conclusiva.
1.2 Corsa cristiana, corsa barbaresca Dopo Lepanto – ha ragione Fernand Braudel – la guerra continua sotto altra forma, la corsa: una «guerra inferiore»,16 che produce nelle regioni costiere del Nord Africa le reggenze barbaresche, veri e propri “stati corsari”, vassalli del sultano ottomano, i quali sull’intraprendenza militare, sulla mobilità sociale e sull’economia di guerra fondano la loro fortuna.17 Algeri, Tunisi, Tripoli, le marocchine Tetuan, Tangeri e l’atlantica Salé si specializzano nella corsa, nonostante non sia la loro unica attività economica, raggiungendo il massimo splendore tra le ultime decadi del XVI e la prima metà del XVII secolo. Oltre ai barbareschi, gli slavi uscocchi, che dalla Dalmazia battono l’Adriatico; i “nordici” inglesi e olandesi che a partire dal 1580 cominciano a battere il “Mare interno”; i Cavalieri di Santo Stefano, l’ordine militare fondato da Cosimo dei Medici nel 1562 a Pisa e Livorno e i Cavalieri di San Giovanni, altro ordine militare, stabilitosi nel 1530 a Malta, che diventa la capitale della pirateria cristiana. Le loro rocambolesche imprese entrano nel repertorio dei cantastorie ( Maddāh), che nei centri urbani dell’impero ottomano si esibiscono con un racconto drammatizzato, infarcito di scene di vita quotidiana intrecciate con avvenimenti storici e motivi tratti dalla letteratura classica.18 L’endemico conflitto politico e militare del Mare interno nel XVI secolo punteggia in maniera capillare le coste di torri di avvistamento – il viceré Ferrante Gonzaga a metà Cinquecento ne fa costruire ben 137 in Sicilia,19 l’avamposto più avanzato dell’Europa cristiana verso l’islam barbaresco –; le città rinforzano mura e bastioni, anche le chiese si cingono di torrioni, le masserie e le tonnare si fortificano. Quando l’avvistamento degli assalitori non è tempestivo e la popolazione non ha il tempo di porsi al riparo dentro le mura di castelli e fortificazioni, può accadere come a Sorrento, dove, il 13 giugno 1558, un’invasione di turchi mette a ferro e fuoco la città, prendendo in ostaggio anche le monache del convento benedettino di San Paolo, portate insieme a un ricco bottino a Istanbul, dove aspetteranno dieci anni prima di essere riscattate. Alle poche superstiti devono aggiungersi, nel 1568, le monache del convento di San Giovanni Crisostomo per rimpinguare l’antica comunità monastica.20 Forse conserva la memoria di questo episodio il sorrentino Torquato Tasso quando canta il «tempo che passaro i Mori d’Africa il mar» nella Gerusalemme liberata. Talvolta è un miracolo a salvare dalla razzia, come quello compiuto dalle reliquie di sant’Andrea apostolo, custodite nella cripta del duomo di Amalfi, a
cui la comunità attribuisce la provvidenziale tempesta che, il 27 giugno 1544, ferma le imbarcazioni del terribile Barbarossa, prossime alla costa. In quella data si celebra annualmente sia il santo patrono sia la salvezza della città, come fanno con la processione alla chiesa della Madonna degli Angeli gli abitanti di San Remo per essere stati liberati dall’assalto dello stesso corsaro, sempre nello stesso anno.21 Il 4 maggio 1588 sette fuste al comando dell’algerino Sasan Agha sbarcano duecento uomini sul litorale di Pratica di Mare, non lontano da Roma. L’incursione, del tutto inattesa, trova impreparati gli abitanti e un centinaio di loro sono catturati, imbarcati e condotti presumibilmente a Biserta. Sarà la giovane Confraternita del Gonfalone a occuparsi del riscatto dei sopravvissuti. Ancora algerine le nove imbarcazioni che il 29 giugno 1630 gettano l’ancora ad Agropoli, nel golfo di Salerno, sbarcando ben settecento assalitori, contrastati dagli abitanti del luogo e dei comuni limitrofi, giunti tempestivamente in soccorso. Costretti a una fuga precipitosa, gli assalitori contano un centinaio di morti, a fronte di ventuno ostaggi. Il primo luglio 1637, a Ceriale, nel Ponente ligure, otto imbarcazioni algerine sbarcano settecento corsari che, stavolta con scarse perdite, razziano quasi trecento persone, tra cui un centinaio di bambini e ragazzi. Ustica è più volte spopolata, l’ultima volta nel 1762; Carloforte, nell’isola di San Pietro, in Sardegna, il 2 settembre 1798 perde per una incursione tunisina centinaia di abitanti (755 saranno i riscattati nel 1803). Cirò, sulla costa ionica della Calabria, tra il 1803 e il 1805 subisce ben cinque incursioni barbaresche. Allo stesso modo la corsa cristiana imperversa contro le coste maghrebine: nel settembre 1607 un convoglio dei Cavalieri di Santo Stefano, comandato da Iacopo Inghirami, giunge in prossimità di Bona (‘Annabah), in territorio algerino. Dopo gli scontri con gli uomini che ne difendono la fortezza, i combattimenti si trasferiscono dentro la città murata, trovando un’accanita resistenza. Infine gli assaliti si rinserrano nella moschea, che cadrà per ultima. Vengono razziati un ricco bottino e più di 1500 prede che il generale ha l’accortezza di fermarsi a vendere in buona parte a Cagliari per non abbattere, a causa di questa improvvisa abbondanza, il prezzo degli schiavi sul mercato di Livorno. Il sacco di Bona trova celebratori tra i poeti e i pittori della corte medicea. Nel 1602 un’incursione delle galere dell’Ordine dei Cavalieri di Malta contro Mahomedia (la tunisina Hammamet) si conclude con un bottino di circa settecento schiavi e nel 1611 un potente convoglio con imbarcazioni napoletane, siciliane, genovesi e gerosolimitane saccheggia presso la costa tunisina le isole di Kerkennah, nel golfo di Gabés, catturando cinquecento prede.
Le flotte degli stati rivieraschi sono vere e proprie città naviganti; non solo per la partecipazione degli ordini religioso-militari la lotta politica assume i toni del linguaggio religioso: non di guerra si tratta, ma di crociata, ad essa si contrappone lo jihād, alla croce la mezzaluna, al soldato di Cristo l’infedele. Intere città prosperano sulla guerra da corsa: città cristiane come Malta, Cadice, Lisbona, Livorno, Pisa, Genova, Palermo, Bordeaux, Nantes, La Rochelle, Liverpool; città musulmane come Tripoli, Algeri, Tunisi; marocchine come Tetuan, Meknés, Salé. Le incursioni barbaresche si spingono molto lontano, raggiungono le coste del Galles, fanno un migliaio di prigionieri a Plymouth in Inghilterra; tra il 1600 e il 1640 si impadroniscono di più di 800 navi commerciali e di circa 12 000 inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi in Mediterraneo e Atlantico;22 approdano nei porti dell’Irlanda meridionale dediti al contrabbando; nel 1627 un rinnegato fiammingo, Jan Janssen di Harleem, alias Morat Raìs, ordina il sacco di Reykjavik, da cui ricava pelli, pesce affumicato e quattrocento islandesi; sui banchi di Terranova corsari algerini catturano decine di pescherecci; nel 1749 pirati tunisini, forti di duecento uomini armati e di trenta cannoni, assaltano nelle acque di Scio una nave veneziana che riesce ad attraccare in porto, raggiunta a terra dagli inseguitori. Sarà l’ambasciatore veneziano a Istanbul a protestare presso la Grande Porta, e il sultano minaccerà pene severe per chi disturba le navi di Venezia, a cui lo lega un trattato di non belligeranza e di cooperazione commerciale.23 «La cattività in Barberia [...] sembrò trasformarsi per i sudditi britannici del secolo XVII e degli inizi del XVIII in una paurosa minaccia.»24 Ma non ci si illuda: «il rischio di essere ridotti in schiavitù era presente anche per chi non abitava lungo le coste o lungo le frontiere con l’impero ottomano».25 Potenza militare, frequenza delle incursioni, sorpresa, entità e caratteristiche del naviglio, qualità militare e navale dell’equipaggio e dei suoi comandanti, ampiezza del raggio delle operazioni (per mare e per terra) rendono estremamente temibili le incursioni barbaresche per tutto il periodo che va dal XVI al XIX secolo.26 Alcuni capi corsari divengono leggendari, come il greco Khayr ad-D īn (1466-1546), il Barbarossa, figlio di un albanese e di un’andalusa, che dal 1516 fa di Algeri una delle più agguerrite basi della corsa. A lui si attribuiscono i saccheggi di Reggio Calabria (1512 e 1526), Lipari e Tindari, delle calabresi Calanna, Ardore e Cariati (1543), di Ischia, Pozzuoli, Procida; il feroce corsaro «travaglia» Capri,27 in Liguria Sanremo e Diano marina (1544). Nel 1529 toglie El Peñon agli spagnoli che lo occupano dal 1510. Batte
l’ammiraglio Andrea Doria nella battaglia della Prevesa nel 1538, catturando alcune galere genovesi; accolto a Istanbul come un eroe, è insignito del titolo di kapudan pascià e del comando su tutta la flotta ottomana.28 Pietro Aretino gli si rivolge in termini ammirati e di velato timore: «Salve, re inclito, bassà degno, capitano invitto e uomo egregio. Salve, dico, perché la tua generosità, la tua altezza, il tuo valore e la tua prudenza ti sostengono con illustre titolo nella singolar grazia della tremenda e benigna maestà di Solimano massimo imperatore».29 Prima suo compagno, poi successore, il turco Dragut (Ṭurghud ‘Al ī, 14851565) è catturato nel 1540 a Gozo (Malta), di ritorno da una scorreria a Pantelleria, da Giannettino Doria (nipote dell’ammiraglio Andrea), che per quattro anni lo tiene incatenato al remo della sua nave ammiraglia; viene riscattato da Barbarossa nel 1544. Ritornato in libertà, diventa “la spada vendicatrice dell’islam”, leggendario per la spietatezza delle sue azioni, e torna a battere il Mediterraneo: attacca Palmi nel 1537; nel 1549 assedia Rapallo e razzia centinaia di persone; nel 1550 riconquista Tripoli agli ottomani; nel 1551 cattura a Gozo cinquecento prede; nel 1553 saccheggia numerosi borghi toscani; nel 1555 assedia Paola (Cosenza), depredandone anche il convento dei Minimi fondato da san Francesco di Paola. Muore nel 1565 per le ferite riportate nell’assedio del forte di Sant’Elmo a Malta. Gli succede Luccialì o Uccialì (‘Ulū j ‘Al ī) che conquista il forte e uccide – sembra – tutti i superstiti. Luccialì, detto Alì il Rinnegato, è il calabrese Giovanni Dionigi Galeni (1519-1587); in procinto di entrare in convento, nel 1536, viene catturato da Barbarossa e messo al remo. Diventa musulmano per potersi vendicare di un turco che lo ha schiaffeggiato, senza incorrere nella pena capitale prevista in questi casi. Così almeno racconta Cervantes nel Don Chisciotte. Sposata la figlia di un altro rinnegato calabrese, Ja‘far Pascià, intraprende la carriera di corsaro, che lo conduce a governare su Algeri, Tripoli e Tunisi. Le sue incursioni vanno da Pantelleria e Marettimo, nelle Egadi, alla Liguria, dalle coste napoletane a Nizza. Della sua leggenda fa parte l’incoraggiamento ad alcuni cospiratori calabresi per annettere la Calabria ai domini turchi; con certezza partecipa alla battaglia di Lepanto come ammiraglio, riuscendo nello scontro a mettere in salvo una trentina di navi. Il sultano Sal īm II gli conferisce il titolo di ammiraglio della flotta con l’appellativo di “Kiliç ‘Al ī”, Alì la Spada. Ancora nel 1574 riconquista Tunisi, espugnata solo l’anno prima dagli spagnoli. Gli algerini prediligono razziare le coste iberiche e italiane, tunisini e tripolini quelle siciliane, adriatiche ed egee, i marocchini le coste iberiche e atlantiche,
ma oltre Gibilterra verso le Canarie e le Azzorre a metà Seicento si spingono anche gli algerini: entrambi all’assalto delle navi dirette a Cadice e Lisbona, anche provenienti dalle Indie occidentali. La corsa ottomana e barbaresca colpisce soprattutto italiani, spagnoli e francesi; gli algerini sono i più aggressivi, non agiscono solo nel Mediterraneo, ma superano Gibilterra e in combutta con i pirati di Salé attaccano le navi spagnole, francesi, fiamminghe e inglesi sulle rotte atlantiche;30 tunisini e tripolini si muovono verso la Sicilia e il Sud Italia e si spingono oltre il mar Ionio, in Egeo e nel basso Adriatico, dove incontrano i Cavalieri di Malta e il naviglio veneziano; i Cavalieri razziano le Cicladi, molte isole dell’Egeo sono considerate loro basi, nonostante siano nominalmente sotto il dominio turco. Insieme ai Cavalieri di Santo Stefano cercano di intercettare i convogli di mercanti musulmani che fanno la spola tra Istanbul, Egitto e reggenze barbaresche. La guerra nella terraferma produce captivi veneziani e ungheresi, nemici giurati almeno per tutto il Seicento; le campagne ottomane contro territori balcanici e la Crimea si sommano alle razzie compiute dai tartari, vassalli dei turchi, lungo il Dniepr e il Don, contro russi e ucraini; la caduta di Morone (1534) apre l’esodo delle popolazioni slave dei Balcani ed espelle “schiavoni”, greci e albanesi; sin dal XVI secolo i tartari di Caffa procurano schiavi russi e polacchi31 per l’imponente flotta turca;32 gli equipaggi delle 15 galee turche catturate dai Cavalieri di Malta tra il 1652 e il 1661 contengono 2483 schiavi, per il 56% russi, l’ 11% italiani, l’8% polacchi e quasi altrettanti ungheresi, più del 7% provenienti dai possedimenti veneziani e dalla stessa Serenissima.33 I processi intentati a Istanbul nei primi decenni del Cinquecento contro schiavi fuggitivi indicano l’origine degli schiavi: dalla Russia (39%), dalla Croazia (31%), dalla Bosnia (11%). Il restante 19% comprende ungheresi, valacchi, bulgari e schiavi africani, più raramente circassi, albanesi, greci, europei.34 Anche gli stati cristiani praticano la corsa e il suo succedaneo, la pirateria.35 Autorizzata dai governi che ne traggono proventi, attraverso la concessione delle patenti, le imposte doganali e i diritti consistenti in una quota – generalmente un quinto – del bottino, la corsa diventa un buon affare per armatori, banchieri e mercanti (spesso ebrei e genovesi), capitani (raìs, plur. ru’asā’) e ciurma, che stipulano davanti al notaio l’atto costitutivo di “società per andare in corso”, come un qualunque contratto privato. Meno vistosa, ma più capillare e, insieme con il contrabbando, difficile da controllare, la pirateria è un’attività illegale,
abusiva, non autorizzata; coinvolge personaggi senza scrupoli e avventurieri, ma anche equipaggi di navi inglesi, fiamminghe, olandesi che transitano in queste acque e che approfittano dell’occasione se incrociano lungo la loro rotta un’imbarcazione carica di merci. Sappiamo anche di corsari, muniti di regolare patente, i quali, per non tornare a mani vuote dopo una spedizione sfortunata, vanno a razziare in terra cristiana, senza alcuna distinzione tra alleati e nemici; lo stesso avviene tra i pirati barbareschi che attaccano i vascelli degli stati con cui Istanbul ha stipulato accordi diplomatici. I governi incoraggiano i corsari, tollerano i pirati, sopperendo in tal modo alla debolezza delle marinerie da guerra e commerciali e alla difficoltà di pattugliare coste troppo lunghe e frastagliate.36 La guerra da corsa crea tra l’Europa e il Maghreb un sistema economico integrato e l’economia delle città barbaresche diventa sempre più dipendente dalla corsa e dal lavoro degli schiavi, così come la stessa corsa dipende dall’approvvigionamento del materiale da guerra donato o venduto da Olanda, Danimarca, Svezia per impedire le aggressioni corsare ai propri convogli.37 Molti termini del lessico nautico ottomano sono italiani e, nel primo Seicento, l’olandese Simon Simonsen (Simon Raìs, detto Danzer) «insegna ai corsari barbareschi come costruire grandi navi a chiglia profonda, adatti alla navigazione oceanica».38 L’attività corsara tende altresì a generare una “economia del riscatto” e i contratti stipulati allo scopo «si incastrano spesso in una serie di altre transazioni commerciali: noli, prestiti diversi, trasporto di passeggeri via mare, compensazioni finanziarie».39
1.3 Captivi e schiavi Il bottino è rappresentato da naviglio, merci, uomini (passeggeri e ciurma), divenuti prede di guerra. Il captivo è divenuto uno «schiavo provvisorio», in attesa di riscatto, e rappresenta, nel quadro dell’economia corsara, «la presa ideale: a differenza di altre merci, talvolta difficili da piazzare, lo schiavo è una derrata che cerca di vendersi da sola; per essere liberato al più presto, si sforza di mettere insime l’ammontare del suo riscatto».40 Con ciò la schiavitù medievale bianca, europea orientale, domestica, molto femminilizzata, frutto di approvvigionamento attraverso l’attività mercantile e destinata prevalentemente ai centri urbani, cede il passo a quella moderna, nord e
centroafricana, prodotta dalle scorrerie della corsa e della pirateria e composta da forzati e captivi per il remo e i lavori agricoli. Ma già nel XV secolo nel regno di Napoli e in Sicilia sono presenti schiavi africani e mori.41 Gli schiavi sono occupati principalmente come remieri nella marineria militare; sparuto il numero dei “buonavoglia” (lavoratori liberi salariati, tipici della marineria veneziana).42 La condanna “al remo” nelle galere regie,43 comminata da tribunali penali o ecclesiastici, asseconda il bisogno di vogatori delle navi europee e prolunga la schiavitù bianca in età moderna;44 la sostituzione del remo con la vela contribuisce infatti al declino della corsa.45 L’ambiguità stessa del lessico, che ancora in età tardomedievale spesso usa come sinonimi servus, mancipium, ancilla, maurus, sarracinus, sclavus, risale al vocabolario ereditato dalla tradizione latina di età imperiale che assegna a ciascun termine, attinente alla schiavitù propriamente detta e alla servitù di tipo domestico o agricolo o artigianale, una diversa gradazione di privazione di libertà. Ma lo schiavo della domus romana si mantiene durante il Medioevo con il nome di servo o captivus domestico. E dalle norme del diritto romano classico al servus «vengono riconosciute alcune specificità connesse con la sua intrinseca qualità “fisica” di uomo. Il fondamento giuridico della condizione del servus nel diritto romano classico è infatti una “quasi” assimilazione alla res, che consente, ovviamente, una notevole dose di flessibilità».46 È stato acutamente osservato come i processi di costruzione del cittadino romano e dello schiavo siano speculari (l’uno la controfigura dell’altro): un processo di inculturazione il primo, di deculturazione il secondo, in quanto lo statuto di schiavo viene associato alla fase presociale della vita umana, a una condizione puramente biologica, quando ancora la cultura non ha colmato e corretto «la grave e profonda incompletezza della natura umana».47 La condizione del captivus è, invece, ibrida e perciò particolarmente delicata: lo accomuna allo schiavo la privazione della libertà personale, l’imposizione di lavori e servizi obbligatori e non remunerati, la debolezza della tutela sociale. Tre possono essere le condizioni di non libertà: in mano del padrone (schiavitù, servitù); della giustizia (custodia, carcere); del nemico, anche di altra religione (cattività, prigionia). Nel linguaggio del diritto romano il captivus è in origine il prigioniero di guerra che, avendo perso lo statuto di cittadino, soffre della capitis deminutio, cioè della perdita della propria posizione nell’ambito di un ordinamento giuridico, perde la potestà se è pater familias, decade dal ruolo di tutore, il suo
matrimonio si scioglie, perde il dominium sui suoi beni e la stessa capacità di testare. L’istituto del postliminium cerca di limitare le conseguenze del venir meno della capacità giuridica dell’ex prigioniero che potrebbe ritornare in civitatem, da cui è stato sottratto con la forza e la violenza, e, poiché quella del prigioniero non è una justa servitus, il diritto romano prende in considerazione il reditus – colui che viene restituito, che ritorna –:48 con il ritorno in patria la titolarità dei rapporti giuridici ( jus postliminii) viene riacquistata, ad eccezione delle situazioni che implicano una continuità in atto, come il matrimonio e il possesso, entrambi considerati res facti. Poiché il matrimonio è, «non diversamente dal possesso, una situazione di fatto fornita di conseguenze giuridiche», e la sua validità si basa sul presupposto della reciproca capacità matrimoniale che può esistere solo tra persone libere appartenenti alla civitas, esso «esiste finché durano le condizioni della sua esistenza e, con il venir meno di queste, si scioglie definitivamente, così da indurre a considerare come un nuovo matrimonio la convivenza che si fosse eventualmente ristabilita tra coniugi al ritorno in patria del captivus».49 La cattività non consente, insomma, la permanenza del vincolo, anche se si cerca di limitare questo effetto imponendo, da Giustiniano in poi, che il coniuge rimasto libero abbia notizia certa della morte del captivus prima di contrarre un nuovo matrimonio, o nell’incertezza aspetti cinque anni. Ma disobbedire a queste prescrizioni non comporta l’invalidità del matrimonio nel frattempo contratto. Per il periodo classico anche la servitù per condanna penale (servitus poena) è considerata causa di scioglimento di matrimonio: la perdita della cittadinanza romana rende in ogni caso il deportato nullius civitatis. Il diritto romano si occupa della giurisprudenza legata alla liberazione, ripristinando lo status libertatis che restaura i diritti e gli obblighi precedenti la prigionia – salvo matrimonio e possesso – e ricostituisce e reintegra il gruppo di appartenenza. D’altronde, la schiavitù non riguarda il diritto naturale, poiché tutti gli uomini nascono uguali, riguarda però il diritto delle genti.50 Il prigioniero di guerra, dopo essere stato servus hostium, tornato in patria ridiventa cittadino romano, proprio grazie all’istituto del postliminium, anche se solitamente gli è riservata la morte o la schiavitù perpetua, dalla quale le famiglie cercano di riscattare i propri congiunti. Se redimere qualcuno è frutto di benignitas, beneficium, pietoso ufficio di quanti sono legati a lui da parentela, affetto, amicizia, nei confronti dei soldati è anche un atto politico e rientra come tale nelle competenze del Senato che li riscatta de publico quando ciò non avviene de privato. A partire dall’età dei
Severi la redemptio ab hostibus51 si trasforma in un’attività commerciale e per questa via il redemptor assume il possesso, anche se non la proprietà, dello schiavo riscattato. Per alcuni storici del diritto il redento acquista il precedente status al rientro dalla cattività, per altri resta schiavo del redentore sino alla restituzione del prezzo della redemptio.52 Teniamo a mente questi concetti, perché li si potrà leggere in controluce nell’attività di redenzione dei captivi di età moderna. La Chiesa ha avuto nei riguardi della schiavitù «una certa ambivalenza»: se da un lato tutti gli uomini sono fratelli e dunque uguali davanti a Dio, dall’altro la schiavitù fa parte – come ho detto – del diritto delle genti; il dominio dell’uomo sull’uomo è conseguenza del peccato e compito del Vangelo non è tanto quello di trasformare i servi in liberi, quanto piuttosto i servi cattivi in servi buoni; per Agostino è persino «giusto che la schiavitù colpisca alcuni uomini (colpevoli) e non altri, e ciò secondo i piani di Dio».53 Conventi e abbazie, papi e vescovi possiedono schiavi in gran numero e la legislazione pone enormi ostacoli alla loro alienazione ed emancipazione, regolata da norme restrittive in quanto proprietà ecclesiastica. La manomissione è definita ingiusta ed empia nel sinodo di Épaone del 517 e nemmeno i servi donati ai monasteri da pii testatori possono essere liberati, poiché è empio togliere alla Chiesa quello che le è stato donato. E se il sinodo di Mérida (666) deve prescrivere ai chierici di non punire gli schiavi con amputazione di membri, è segno che le truncationes membrorum devono essere state pratiche alquanto diffuse.54 «Forse è stato Brunone, fondatore dei Certosini, a teorizzare in maniera più netta la totale accettazione della condizione di schiavo da parte del singolo. Ciascuno è chiamato da Dio a uno stato di vita o a una condizione, la quale, purché non si opponga alla fede, deve essere vissuta come una vocazione. Pur avendo la possibilità di una emancipazione, il servo dovrà preferire di rimanere servo perché, più si è umiliati in questo mondo, più si sarà innalzati in cielo. Non solo, ma dovrà vedere la condizione servile come castigo divino di peccati propri o dei genitori. Nel caso di cristiani servi di pagani, la loro pazienza e accettazione diventa predicazione del cristianesimo, che insegna ai servi ad essere sudditi dei padroni.»55 Il passo successivo, teorizzato da Antonino da Firenze nel XV secolo, fonda la legittimità della schiavitù, oltre che nel diritto delle genti, nel diritto civile e nel diritto canonico, anche in quello divino, facendola risalire alla maledizione di Noè nei confronti del figlio Cam. Questi, visto nudo il padre ubriaco, irridendolo, chiama i fratelli, i quali, invece, volta la testa all’indietro, pietosamente lo coprono con un
mantello. «Maledetto sia Canaan, il figlio di Cam – tuona Noè –, sarà l’infimo servo dei suoi fratelli» e dei suoi zii (Genesi, 9, 22-27). Con i loro estesi possedimenti terrieri, i monasteri diventano grandi proprietari – e mercanti – di schiavi e servi di diversa provenienza, e non fanno distinzione tra cristiani (per lo più provenienti da Oriente) e non; stipulano vere e proprie assicurazioni contro la loro fuga, mentre i papi comminano la riduzione in schiavitù come pena per alcuni reati. Quando i musulmani invadono i territori cristiani, a Oriente e ad Occidente, il problema dei captivi si pone in rapporto alla difesa della fede e al jus belli. La redenzione diventa una preoccupazione della Chiesa dopo la capitolazione di Gerusalemme (1187),56 quando comincia ad emergere il tema della sofferenza del cristiano in mano ai saraceni. Giulio Cipollone rintraccia nelle lettere di Innocenzo III, scritte nel 1212 ai patriarchi di Gerusalemme e di Alessandria, la preoccupazione per la sorte dei cristiani captivi e il desiderio della loro liberazione onde evitare l’apostasia. Una terza lettera è rivolta agli stessi captivi che hanno proposto lo scambio con i prigionieri saraceni in mano dei Templari e degli Ospitalieri, chiedendo non tanto di essere affrancati, ma di cambiare padrone: un padrone cristiano avrebbe evitato loro il rischio di apostatizzare. Uno scambio siffatto avrebbe lasciato in piedi le pendenze giuridiche del vincolo con il nuovo padrone, nessun interesse delle due parti sarebbe stato leso e l’operazione sarebbe apparsa del tutto realizzabile, anche se i cristiani avrebbero potuto poi richiedere una totale libertà, cercando di tornare in patria e reclamando un trattamento diverso da quello che si riserva ai nemici vinti. Il papa minaccia quelli che non vogliono realizzare questo scambio, ma la sua volontà non produce grandi effetti sul piano pratico: la verità è che «la Cristianità era impreparata e disorganizzata per il riscatto dei propri captivi».57 Solo con l’istituzione dei Trinitari, ad opera del provenzale Jean de Matha,58 si organizza nel 1198 un ordine religioso che pratica «una liberazione totale, senza strascico di catene e senza pendenza di debito».59 Il trinitario disarmato si muove unicamente a dorso d’asino, anticipando di un ventennio Francesco d’Assisi; infatti il cavallo è lo strumento della guerra per antonomasia, mentre Cristo entra a Gerusalemme a dorso d’asino, esprimendo con questa cavalcatura la vittoria di un uomo inerme.60 A questi uomini il papa concede di riscattare prigionieri musulmani per lo scambio con cristiani, nonostante la commutazione rientri nell’ambito di un rapporto commerciale con i saraceni drasticamente proibito e severamente sanzionato. La Regola dei trinitari recita: «la terza parte [delle entrate dell’ordine] sia
riservata alla redenzione dei captivi, che sono incarcerati dai pagani a causa della loro fede in Cristo, o dando un prezzo ragionevole per la loro redenzione o per la redenzione dei pagani captivi, sì che poi con un ragionevole scambio e buona fede si redima il cristiano al posto del pagano secondo i meriti e lo stato delle persone».61 Il riscatto operato dall’ordine segna il passaggio di mano dalla cattività presso popoli di altra religione a quella presso correligionari, ma vi aggiunge un tassello ulteriore liberando i riscattati pro fide Christi e per nessuna ragione venale. La Chiesa, da un lato riconosce la redemptio pietatis causa, dall’altro non svalorizza moralmente quella iure commerci, riservando a sé la prima. Nelle Siete Partidas, enciclopedico codice di legge castigliano del XIII secolo, gli schiavi sono descritti come un «altro genere di uomini», senza diritti civili. Nel Portogallo medievale si trovano perciò scambiati contro appezzamenti di terreno, di cui i proprietari possono possedere un terzo, un quarto, la metà; da una parziale proprietà deriva una parziale manomissione.62 Poiché nella penisola iberica di età medievale la maggioranza degli schiavi proviene dalla guerra contro i regni musulmani, si tratta di schiavi di guerra. Tuttavia è presente anche la schiavitù legata alla nascita da madre schiava che trasmette al figlio la propria condizione, oltre alla schiavitù per debiti, volontaria e limitata nel tempo, fino alla vendita volontaria di un uomo libero per fame o estrema povertà. Queste ultime due tipologie sono chiamate di “schiavitù moderata” o “mista”, implicando un trattamento meno severo dello schiavo da parte del padrone. L’afflusso maggiore di schiavi proviene al Portogallo dalla conquista di Ceuta nel 1415 ad opera di re João I, dalla successiva conquista delle città costiere del Nord Africa e dai raid verso l’interno del paese; in generale, nella penisola iberica il protrarsi della schiavitù è certamente attribuibile alla lunga guerra tra cristiani e musulmani che si conclude solo nel 1492, con la resa del regno di Granada. La frontiera tra la Castiglia e il regno nazarì di Granada, ultimo stato islamico della penisola iberica, produce nei periodi di belligeranza e in quelli di tregua (con le incursioni e le imboscate) un certo numero di captivi: «la frontiera è come una fonte che genera schiavi».63 Alla loro liberazione si dedicano trinitari e mercedari, la prevedono gli accordi di tregua tra i contendenti, soprattutto se ne fa carico una istituzione di origine andalusa: gli al-fakk āk o alfaqueques, che nascono nel Duecento come boni homines, riconosciuti come mediatori dalle due parti in lotta, incaricati sopra tutto del riscatto dei captivi. Voglio sottolineare questo aspetto poiché la storiografia europea insiste nell’affermare che il riscatto
riguarda solo i cristiani, mentre i musulmani ottengono i loro prigionieri solo con lo scambio. In maggioranza gli schiavi sono, dunque, musulmani provenienti dalla guerra e, fino alla fine del XII secolo, di loro si occupano dei particulares musulmani, cristiani o mercanti ebrei (ma in minor numero), con autorizzazione regia; dal 1175 l’Ordine dei Cavalieri di Santiago, a cui viene concesso di tenere i soldati caduti in loro mano durante i combattimenti, si incarica di scambiarli con cristiani in mano nemica e di occuparsi in generale del riscatto di questi ultimi. Nascono così gli ospedali per captivi, al fine di accogliere i cristiani che tornano da alAndalus e i musulmani di cui si prepara lo scambio. Questi istituti – fondati nel XII e XIII secolo ad Avila, Toledo, Cuenca, Huete, Alarcón, Moya, Talavera, Saragozza, Teruel, Segorbe e Salamanca – 64 titolari di ricche rendite ed elemosine, donazioni e lasciti ereditari, diventano centri attivi di riscatto; esonerati dal divieto di commerciare con musulmani, scambiano moros de redención con cristiani, denaro, animali, mercanzie. Questi ospedali abbandonano progressivamente questa attività per sostituirla con quella verso gli infermi man mano che avanza la Riconquista, ma hanno costituito verosimilmente il modello per i successivi istituti di redenzione. Anche in età moderna, gli schiavi sono in parte soldati prigionieri di guerra, in parte “giuste prede” della guerra da corsa, che attendono dal riscatto la loro restituzione in civitatem e il ripristino del godimento dei diritti perduti. A giusto titolo venduti e acquistati, ma liberi per nascita, sono “schiavi a tempo”, anche se per un periodo molto lungo, talvolta definitivo. È stato calcolato in cinque anni il tempo medio di permanenza in cattività dei cristiani europei,65 ma ci sono piccole percentuali di captivi che restano fino a vent’anni e alcuni che restano per sempre, se di loro si perde ogni traccia. La schiavitù legata alla guerra da corsa è un fenomeno giuridicamente complesso, numericamente e socialmente rilevante nella storia del Mediterraneo moderno, la sua entità si sta solo da poco tempo cominciando a quantificare. Robert C. Davis parla di più di un milione di persone tra il 1530 e il 1780 in schiavitù in Barberia, per il 25% europei cristiani bianchi;66 e se il dato può sembrare sovrastimato, sfida però utilmente la legenda aurea dell’insignificanza quantitativa della schiavitù mediterranea rispetto a quella atlantica, della precoce trasformazione in servaggio, della sua residualità, del suo rapido declino, della particolare bonarietà del trattamento di cui si trovano scarse conferme documentarie. «Dimenticata» a causa della successiva presenza coloniale
europea in Africa, essa è diventata «invisibile», un’istituzione che, pur essendo sopravvissuta per secoli, sembra «svanita quasi senza lasciare traccia».67 Piuttosto, la sua presunta assenza o insignificanza costituisce il fondamento della mitologia di una modernità europea che sarà alla base della convinzione della sua superiorità, utile giustificazione della politica coloniale. La schiavitù come effetto della guerra da corsa è una delle forme della schiavitù mediterranea, non la sola; essa si incrocia con la tratta africana, intercettando il flusso di schiavi che giunge da una delle più importanti carovaniere transahariane,68 quella che da Bornou, nei pressi del lago Ciad, conduce a Barca in Libia e da qui al mercato di Scoglitti (Ragusa) e di Augusta (Siracusa) oppure che dall’Oriente raggiunge il bagno di Messina o da Tunisi e Tripoli il mercato di Palermo. Corsa e tratta fanno affluire schiavi in Sicilia dove, sin dal Medioevo, «possiamo dire che non sia esistita località, dalla città opulenta al misero casale, dove non siano esistiti schiavi in numero rilevante, proporzionalmente al numero degli abitanti. E possessori erano aristocratici, ecclesiastici, mercanti, grossi e piccoli borghesi. Si leggano tutti i Riveli di Sicilia e si ritroveranno comunemente elenchi di dozzine di schiavi e schiave di tutti i colori e di ogni età».69 Nel XV secolo questo traffico è controllato da catalani installati a Siracusa, che al ritorno esportano grano70 e da trafficanti arabi che vendono schiavi africani sul mercato di Trapani. Da qui sono diretti verso la penisola iberica, il Nord Italia, la Francia meridionale. E d’altronde i primi africani portati nel Nuovo mondo, forse a Hispaniola (Haiti) sin dal 1498, ma sicuramente dal 1502, giungono dall’Europa meridionale. E non ha ricevuto ancora la dovuta attenzione il ruolo dei banchieri fiorentini e genovesi nell’istituzione del sistema schiavista moderno. In generale, la schiavitù mediterranea ha costituito una fondamentale e solida esperienza a cui la tratta atlantica ha potuto guardare come a un antecedente, soprattutto nei confronti della tradizione giuridica e ideologica che qui si è costruita, attraversando l’età antica e quella medievale per giungere all’età moderna.
1.4 Cadere in cattività Ci si poteva imbattere nei corsari nelle circostanze più disparate, anche solo
durante piccoli spostamenti necessari al proprio lavoro o alle più svariate necessità: «Carissima mia madre e fratello, per disgratia o pecati mey questo mese di aprile [1592] fui capitato scavo di turqui nel capo di Santo Vito [...] e mi hanno portato qui in Biserta hove mi hano venduto in precio di cento scuti».71 «Io mi imbarcai a San Vito – scrive Antoni di Amico alla moglie il 2 settembre 1594 – portava dui cantara di chiappari et per non li potiri portari per terra mi imbarcai et su scavo tutto per travagliari per la nostra casa e camparvi.»72 Il piccolo cabotaggio, la navigazione costa a costa, sopperisce alla pessima viabilità dell’isola, le cui strade e trazzere sono spesso interrotte per le frane o l’esondazione stagionale dei fiumi per lo più a regime torrentizio o sono infestate dai banditi. Parte da Palermo per andare alla tonnara di Trabia Paolo Tartamella, ma viene catturato insieme ai suoi compagni di viaggio;73 provenienti da Napoli, il palermitano Cristofalo Lodi e gli altri passeggeri sono «presi e spogliati» dai corsari tunisini nei pressi di Ustica.74 Salvo Garofano scrive alla moglie il 9 agosto 1598: «Dopo che mi partio di Napoli per venirmindi in casa essendo per mare mi arrivarono quattro galeri di Turchi e con 19 personi dentro»; catturatolo lo conducono a Tunisi e lo vendono per ottanta scudi ai «crudeli ginizari». Una raccomandazione accorata chiude la missiva. «Direti a mio niputi Filippo che apra li ochi quando va per lo mare e supra tutto si guardi di non andare a la larga.»75 Viaggiare sottocosta per evitare l’assalto è una misura di prudenza, che non può essere osservata nei viaggi più lunghi, soprattutto quelli in direzione di Napoli; nelle isolette attorno alla Sicilia, i corsari barbareschi attendono al varco le navi cristiane: Ustica e le Eolie per chi va verso Napoli; Favignana sulla tratta Palermo-Trapani, Pantelleria e Lampedusa su quella verso Mazara. Superfluo aggiungere che queste isole vengono periodicamente spopolate dalle incursioni barbaresche. I captivi siciliani vengono condotti soprattutto a Biserta e a Tunisi, qui vengono distribuiti insieme alle altre prede tra chi ha partecipato all’impresa e coloro ai quali toccano per diritto (il dey di Tunisi riceve uno schiavo ogni otto), rinchiusi nei bagni pubblici (ce ne sono sei ad Algeri, undici a Tunisi, tre a Tripoli), portati al mercato. Appena venduto, comincia la dura vita del captivo, fatta di lavoro, stenti, malattie, maltrattamenti,76 speranze di riscatto. Nelle lettere che i captivi scrivono a familiari, amici e conoscenti per dare notizia di sé, informarli di essere vivi e in buona salute, chiedere aiuto e soprattutto il denaro occorrente per la loro redenzione c’è l’ovvia enfatizzazione delle condizioni della schiavitù: vogliono commuovere, persuadere, ispirare sentimenti di pietà e di solidarietà, recriminano, rinfacciano, ricordano la vita comune, minacciano
l’incombente pericolo dell’abiura. Queste lettere restano comunque una miniera di preziose informazioni sulla condizione schiavile nelle città corsare. Di tutt’altro genere i captivi di cui si occupa invece la curia del papa; essi provengono per un terzo dalla conquista ottomana di Cipro nel 1570 e 1571; un terzo sono soldati catturati nella conquista di Tunisi e La Goletta nel 1574 e nella guerra contro il Marocco nel 1578 (così come la presa di Chio nel 1566 e la battaglia di Lepanto del 1571 hanno prodotto soldati cristiani in cattività); un altro terzo è il contingente proveniente dalla guerra da corsa in tutto il Mediterraneo. Ma, inoltrandoci nel XVII secolo, la guerra si sposta sulla terraferma e cambia la proporzione tra soldati prigionieri e prede civili della corsa barbaresca. I rinnegati del Marocco possono comprendersi in tre categorie: i soldati portoghesi, reduci dalla disfatta di al-Ksar al-Kebir (l-qsar-l-Kb īr) nel 1578; in quella occasione ne sono catturati a migliaia, soprattutto giovani, e se centinaia di loro – in gran parte nobili – vengono riscattati negli anni successivi, non tutti hanno la stessa fortuna. Altri soldati provengono dai presidi spagnoli in terra africana (Orano, el Peñon de Vélez, Melilla, al-Ma‘mūrah), fuggiaschi, catturati nella campagna circostante mentre cacciano, cercano frutta o raccolgono legna. Infine, i captivi presi dalla corsa saletina o tetuanese, che, nel caso abbiano conoscenze tecniche in settori di interesse strategico (metallurgia, fabbricazione di armi, polveri da sparo ecc.), non si consente vengano riscattati. I captivi sono gli scarti delle singole guerre che le reggenze barbaresche hanno ben presto trasformato in risorsa. «Dal punto di vista islamico i captivi presi sul mare sono trattati allo stesso modo dei prigionieri di guerra, entrambi essendo definiti captivi [ast ī r, plur. asrà].»77
1.5 La richiesta di riscatto Il riscatto dei captivi viene affidato nel XII e XIII secolo agli ordini religiosi dei Trinitari78 e dei Mercedari,79 nel XVI secolo anche a istituzioni laiche e confraternali, quali la Santa Casa per la redenzione dei cattivi a Napoli (1548), l’ Arciconfraternita del Gonfalone a Roma (1581), l’ Arciconfraternita per la redenzione dei cattivi a Palermo (1595) e il Magistrato del riscatto a Genova (1597). Anche Bologna (1584), Lucca (1585), Venezia (1586) e Malta (1607) si
dotano di istituti per il riscatto. Ma si possono sospettare anche iniziative private, informali o formalizzate, singole o di gruppo: la Cercana che a Puerto de Santa Maria si occupa di rintracciare e riscattare schiavi in Nord Africa o la maestranza dei barbieri di Palermo, tra i cui capitoli è previsto – lo vedremo a breve – il soccorso ai soci della propria arte e, dunque, anche a quelli caduti in cattività. Un ottomano cristiano, Mihelaki ibn Yakomi, viene descritto dalla corte sharaitica (shar‘iyyah) di Salonicco come «un greco che redime sempre i prigionieri [turchi] a Malta»80 e, nel 1694, viene a capo delle complesse operazioni di riscatto di sei dei settantuno pellegrini di Larissa, catturati da corsari maltesi nell’Egeo, al largo di Samo. Possono essere state numerose le “società di affari” per la redenzione, come quella che, capeggiata da Jean Dupuy, console francese di Smirne, dal 1626 al 1651, da Malta riscatta sudditi ottomani.81 Infine, nei maggiori porti del Mediterraneo operano mercanti incaricati di avvertire circa la presenza di ebrei captivi, al fine di contattare le famiglie e organizzare il riscatto.82 Riscattare è soprattutto un “negozio”, che conosce anche forme di contrabbando: il contrabbandiere, ladrón de cautivos, li vende a prezzi inferiori a quelli di mercato. Il mondo musulmano non possiede organizzazioni equivalenti a queste o agli ordini redentori, ritenendo la liberazione dello schiavo da parte del fedele uno dei mezzi per avvicinarsi a Dio e per ottenere il perdono delle proprie colpe: un modo insomma di espiare i propri peccati. Dunque, «è una ricerca personale e un atto privato che non richiede un’organizzazione politica né un’istituzione religiosa. Rivela il carattere diretto dei rapporti che legano i credenti e il loro Dio, senza alcun intermediario. La fede, come i precetti coranici, è un dovere da compiere personalmente».83 Detto questo, l’attività di riscatto di captivi musulmani è documentata per la Valencia del XIV e XV secolo, da parte di capi di congregazioni musulmane, in qualche caso dell’intera moreria della città oppure da parte di mercanti cristiani specializzati in queste transazioni.84 Abbiamo appena incontrato gli alfaqueques che, nel corso della guerra di Riconquista, sin dal XIII secolo, negoziano il riscatto dei musulmani caduti in mano nemica e nei trattati bilaterali conclusi con alcune potenze europee nel XVIII secolo garantiscono la restituzione dei prigionieri, mentre interdicono la pirateria. Le centinaia di schiavi riscattati che con nome musulmano escono dal porto di Palermo, accompagnati da intermediari in Nord Africa, fanno supporre un’intensa e individuale attività di riscatto anche per i musulmani. A sua volta la curia romana interviene in modo peculiare concedendo, normalmente ai parenti dei captivi, delle Litterae hortatoriae con le quali, per un
lasso di tempo definito (per lo più tre anni), si concede la facoltà di raccogliere le elemosine necessarie per il riscatto del congiunto. Gli ottomani chiedono preferibilmente monete d’oro, ma di diversa provenienza: zecchini veneziani nel Mediterraneo orientale, scudi spagnoli in quello occidentale, ma anche talleri tedeschi, ducati, onze che vengono talvolta anticipati da mercanti del luogo dietro garanzia. Il prezzo medio di 100-150 zecchini a testa si arrotonda nel caso di riscatti a dozzina, come si usa nelle transazioni commerciali di merci qualsiasi. Ciò non dipende solo dal prezzo di mercato, ma dalle necessità di denaro del padrone, dalla supposta condizione economica dello schiavo – talvolta millantata, talaltra indovinata dalla meticolosa osservazione delle sue mani –, da molteplici considerazioni arbitrarie e personali. Il riscatto può essere immediato, sul luogo stesso della cattura o prossimo ( Alafía, dall’arabo al-fidyah, è il termine arabo usato per indicarlo),85 oppure, più comunemente, avvenire per l’interessamento dei parenti ovvero dei rappresentanti diplomatici in Barberia o a Costantinopoli. Infine, anche lo scambio tra prigionieri delle due parti non viene disdegnato.86 Gli schiavi sono il termometro dei rapporti tra stati: sono prigionieri di guerra. C’è spesso una ragion di stato nei riscatti87 e, a maggior ragione, negli scambi degli schiavi cristiani imposti dai mori ora con mercanzie, ora con schiavi musulmani. «La facilità, la comodità e la celerità che caratterizzano questi scambi sono alcune delle ragioni che spiegano l’estensione di questa pratica nei secoli XVI e XVII».88 Soprattutto dove non arrivano le redenzioni dei Mercedari o dei Trinitari, come ad esempio a Orano, sono documentati scambi di soldati catturati nel corso di «cabalcadas de moros», sortite fuori dalla piazzaforte, a caccia di nemici, contro grano o altre mercanzie. Più frequentemente, com’è ovvio, lo scambio avviene tra schiavi cristiani e schiavi musulmani e sono numerose, in Spagna come in Sicilia, le suppliche dei familiari di captivi che chiedono di potere comprare o ottenere dal re proprio quel “turco”, spesso parente del padrone del proprio familiare, con il quale operare uno scambio testa a testa. Che la congiuntura politica influisca sul riscatto o sullo scambio in maniera pressoché decisiva si comprende meglio guardando al caso dei 1300 e più soldati spagnoli catturati tra il 1689 e il 1690 dalle truppe di Mūlāy Ismā‘ īl nella caduta dei forti di Larache e al-Ma‘murah, tra cui molte donne e bambini per la liberazione dei quali il sultano, per ritorsione, chiede cento mori per ogni cristiano. Carlo II manda il cardinale di Portocarrero a confiscare tutti i moriscos che scontano condanne nelle carceri o nelle miniere o nelle galere reali, ma non
raccoglie che la metà di quanti gliene servono. Così la Corona deve rassegnarsi a comprare gli schiavi da proprietari murciani, andalusi e madrileni. Nemmeno questo sforzo però raggiunge i risultati sperati e, ancora nel 1691, si sono riscattati solo 234 captivi (tra cui 36 donne).89 Nella determinazione del valore economico del captivo entra talvolta più la politica che le leggi di mercato. Che siano considerati prigionieri di guerra è dimostrato altresì dall’attenzione riservata, da una parte e dall’altra, al loro trattamento: gli schiavi fanno giungere notizie di maltrattamenti che i rispettivi governi non possono ignorare. «Era un intrecciarsi di proteste ufficiali, di minacce di ritorsione, di proposte di accordo. [...] Nel 1683 Girolamo da Castelvetrano informava Propaganda fide di essere stato chiamato tre volte dal bey per le lagnanze giunte dagli schiavi di Livorno, Civitavecchia e Genova: chiedeva un attestato di buon trattamento degli schiavi tripolini per evitare che il bey potesse vendicarsi contro di lui.»90 La Deputazione palermitana per il riscatto, la cui giurisdizione si estende su tutta l’isola, trova il suo antecedente nella costituzione di un ufficio pubblico per la redenzione dei cattivi, a cui i re aragonesi concedono la gestione di una decima su alcuni lasciti testamentari ad pias causas.91 In età moderna, essa opera dalla fine del XVI al XIX secolo, cessa l’attività di riscatto nel 1830 e si estingue nel 1860. Con il denaro raccolto in patria tramite elemosine, donazioni e lasciti di pii testatori, l’istituzione provvede al riscatto di schiavi poveri e siciliani; chi può provvedere al proprio riscatto è tenuto, una volta in patria, a restituire il denaro. L’operazione di riscatto è complessa anche perché i barbareschi rifiutano la moneta siciliana e pretendono di essere pagati in moneta spagnola; così la deputazione per il cambio delle monete si rivolge a Genova, dove confluisce buona parte dell’oro spagnolo e, inoltre, i cambiavalute genovesi controllano la più importante fiera di cambio italiana che si svolge a Piacenza ogni tre mesi. Con questa fiera i banchieri genovesi controllano la circolazione e il corso dei cambi in tutta Europa, fissano i prezzi del denaro e rivendono le lettere di cambio (simili ai nostri titoli di credito). Anche per questa via, le monete spagnole invadono il mercato finanziario del Mediterraneo e sono ricercatissime a Costantinopoli, Tunisi, Algeri ecc. Ricevute le monete siciliane, i mercanti genovesi le trasferiscono ai redentori in Barberia tramite lettere di cambio. Lo stesso fanno i banchieri ebrei sefarditi di Livorno che si rivolgono, invece, ai loro corrispondenti in Nord Africa; nei riscatti (numericamente inferiori) del Levante sono coinvolti mercanti veneziani e ragusei. Questo complesso giro di denaro fa lievitare i prezzi del riscatto, che crescono sino al 30% della cifra iniziale a causa delle provvigioni richieste dagli intermediari (già nel cambio i
mercanti genovesi e livornesi lucrano il 4-6% di interesse), coinvolgendo in quello che è diventato un lucrosissimo affare numerosi operatori, compresi i missionari apostolici e i consoli delle nazioni cristiane in Barberia.92 Il greco che abbiamo visto occuparsi del riscatto dei pellegrini provenienti da Larissa, ottenendone un discreto guadagno, oltre al rimborso delle spese sostenute, ha dovuto prendere diverse misure di sicurezza per garantirsi dall’insuccesso: l’intesa verbale con i captivi è stata trasformata in una scrittura legalizzata da un tribunale, i parenti hanno depositato a Salonicco la somma pattuita presso una persona neutrale rispetto alla transazione, nel nostro caso il console veneziano, onde assicurare la certezza del pagamento; i captivi si costituiscono in società e si impegnano a rispondere in solido all’impegno preso nei confronti del greco. Ci vorranno tre anni prima che quattro di loro tornino in patria; due sono nel frattempo morti, senza che questo incida sul guadagno del mediatore.93
1.6 La schiavitù raccontata dagli schiavi Il ricco archivio della Deputazione palermitana conserva un numeroso gruppo di lettere, recapitate ai parenti di quanti sono finiti in potere dei corsari barbareschi. Si può così provare a raccontare la schiavitù con le parole di chi l’ha patita, pur senza dimenticare lo scopo della fonte che l’ha prodotta, che ne influenza fortemente contenuti e retorica. Apprendiamo per questa via che la schiavitù può costituire una fase transitoria del ciclo di vita e che può persino presentarsi più volte. Giorgio D’Alessandro, “patrone di barca” genovese trapiantato in Sicilia e divenuto palermitano per avere sposato una donna del luogo, percorre frequentemente la rotta tra Palermo e Tunisi per trasportare merci e passeggeri. Catturato la prima volta alla fine del Cinquecento, diventa schiavo del segretario del pascià di Tunisi; viene riscattato dalla Deputazione nel 1599 e riprende la via del mare. Ma nel 1619 lo ritroviamo di nuovo schiavo e, dopo un anno, viene nuovamente riscattato. Nel 1627 è catturato per la terza volta mentre naviga verso la Spagna e torna nuovamente schiavo a Tunisi, da dove riesce a liberarsi grazie all’aiuto di un rinnegato palermitano che garantisce per lui il futuro pagamento da parte della Deputazione. Quello che lo riporta in Sicilia sarà presumibilmente l’ultimo
viaggio per mare: Giorgio ha ormai sessantacinque anni.94 Il riscatto è la preoccupazione maggiore, quando non l’unica, che ispira la totalità delle missive: bisogna suggerire ai familiari come raggranellare i soldi necessari, persuadere amici e benefattori a quest’opera buona, influenzare i redentori ufficiali a inserire il proprio nome nella lista dei prossimi redenti dalla Deputazione, organizzare un riscatto in proprio. La via più breve è infatti quella di usare risorse private: «In Biserta mi hano venduto in precio di cento scuti però se io mi voglio riscatare n’ho di bisogno cento et però vi prego quanto umilmente posso che facciate tutto il possibile di cavarmi di qua et però vendete la mia casa co il vestimento mio [chiedete prestiti ai miei conoscenti che rimborserò al mio ritorno e se poteste] comprare un turco et mandarlo di qua con que lui [il padrone] mi facesse libero qua mi pare la via meglio comoda avisandovi come il mio padrone si chiama Iedic Valevente di Algeri [...]. Io vado con le galere con il mio padrone et dopo a la tornata anderemo in Algeri».95 Gli schiavi intervengono attivamente nelle trattative per la propria liberazione, preannunciano i loro successivi spostamenti, suggeriscono possibili scambi, tessendo reti di informazioni che dalla Barberia portano a Costantinopoli, a Napoli, passano per Malta, per Stromboli, giungono a Palermo e a Trapani, ripercorrendo le stesse rotte della corsa. Questa loro conoscenza di luoghi, uomini, istituzioni diventa un vero e proprio know how nel caso che, dopo il riscatto, intendano intraprendere un’attività commerciale, diventare collaboratori e spie, organizzare la lucrosa e rischiosa fuga di altri schiavi (da Tunisi in Sicilia e da Algeri alle Baleari si arriva dopo un giorno di mare, se il vento è propizio) o persino prestarsi al mestiere di “accalappiaschiavi” di professione (i fugitivarii dell’antica Roma),96 agendo d’intesa con gestori di locande, comandanti di navi dedite al contrabbando, mercanti, lenoni e gente malfamata. Il palermitano Cristofalo Lodi, catturato dai corsari tunisini a Ustica nel traghetto proveniente da Napoli, scrive alla moglie Bettucza: «Ora e tempo di mostrare il vostro vero amore et quanto mi amate come io amo vui non lasciate cosa a vendere ne che fare con parenti e amici et favori di signori et denari da Idio a provederme centocinquanta scuti et mandarmeli quanto più presto possite [...]. La morte e fine di tutto, ma perdenza di rroba con il tempo si travaglia et si torna in casa».97 La cattura può avere allontanato un figlio ribelle, un fratello litigioso o un coniuge non più amato, mille dubbi assalgono i captivi sulle reali intenzioni dei familiari rimasti in patria e Cristofalo spera che Bettucza gli dia una prova d’amore occupandosi del suo riscatto. I denari si raggranellano
vendendo quello che c’è in casa o ricevendoli in prestito da amici o chiedendo favori ai signori che possono intervenire in vario modo, non soltanto con “limosine”, ma soprattutto mobilitando la loro rete di relazioni. Le lettere chiedono, una dopo l’altra, di interessare il barone di Montemaggiore, il rettore della Deputazione per il riscatto, un mercante greco che abita in una certa strada di Palermo, uno zio cappuccino, e il giovane barbiere Paolo Tartamella suggerisce al padre di intervenire presso un non meglio identificato «principe venuto in porto con la sua feluca [...] con il signor Ferdinando e tante signori che aveti per amici in Palermo». Inoltre, è ancora lui a ricordare al padre che, oltre che dalla Redenzione, elemosine per il riscatto possono essere erogate dalla chiesa di San Nicola alla Kalsa e soprattutto «che li barberi di Palermo anno li soi capitoli che quando se retrova uno di l’arte in bisogno et in necessitate labiano ad giotare [lo abbiano ad aiutare], et mettiri un tanto per uno di la loro chiesa di Santo Antonio», e indica i consoli della maestranza che possono essere coinvolti nella faccenda. L’intraprendente giovane ha avuto da un francescano il recapito di un cardinale romano e anche a lui ha chiesto di essere inserito tra i beneficiari di qualche elemosina, al fine di racimolare i trecento scudi del suo riscatto.98 La richiesta di denaro è frequentemente accompagnata da quella di trovare in patria uno schiavo moro da scambiare: «che potessiti comprare un turco e mandarlo di qua», scrive Nocentio da Messina alla madre e al fratello;99 qualche volta i captivi vengono a conoscenza di familiari e amici dei loro padroni schiavi in terra cristiana e cercano di costruire una rete che renda possibile lo scambio. I barbareschi, infatti, piuttosto che riscattare i propri correligionari caduti in schiavitù nei paesi cristiani, preferiscono scambiarli attraverso complesse procedure, dando la precedenza sugli stessi mori ai turchi, che costituiscono la classe dirigente maghrebina. Silvestra Mulè scrive alla signora Antonia Saragusa, cui la lega un rapporto certamente asimmetrico – si firma «la vostra prontissima scava sempre che vi ama di core», una schiava catturata e fatta schiava o una forma di umiliazione verso chi ha in pugno la sua vita, potendola trarre fuori da quella situazione? –. «Per mala sorte mia mi trovo scava in Biserta con tanti travagli e mal patimento et andando scalza senza mangiare et bastonate senza fine...» Le racconta di essere caduta nelle mani di un uomo crudelissimo il cui fratello è a sua volta schiavo del generale delle galere di Sicilia. Un’informazione preziosa se la dama volesse intervenire presso il generale per perorare lo scambio tra i due schiavi.100 Il genovese Bartolomeo Paroto informa la moglie di avere incontrato a Scio un
rinnegato genovese, Mami Raìs, che ha gran desiderio di avere notizie dei suoi fratelli e nipoti rimasti in patria e, qualora la moglie riuscisse a ottenere dai parenti di stanza a Palermo delle lettere per il loro congiunto, «detto Mami raiso genuiso sarria causa di la mia liberta».101
1.7 «Carissima matri...», «Padre mio carissimo...» Quando dai parenti le risposte tardano ad arrivare, cresce la disperazione: «Carissima matri, la presenti si fa per donarivi aviso come io sto molto male di persona, di roba, di denari abandonato di tutti di matri di patri di frati che non tengo e sugno sulo et nato di la petra chi nun spera nixuno sicurso altro chi di lu eternu diu [...] non notte non giorno non mangio non vivo non dormo si non pensare a vui [e nomina una serie di persone] chi potissiro fari chi per via di faguri chi per via di limosina potissivo levari uno scavo di sopra li galeri chi fusse bonu a luvarmi a mia di gua».102 Iacomo Forno, alias Alì lo Genovese, scrive il 18 marzo 1593 alla «consorte carissima» del suo «cordoglio così crudele che io non feci altro che piangere» per essere stato dopo la cattura venduto a un capitano di Stromboli che chiamano Mami Corso. La lettera non lesina saluti ai familiari, cognati, nipoti, cugini, compari, amici, vicini a cui raccomanda le sue attuali necessità; «bizogna avere pacientia; [...] vi prego che non vi vogliati pigliare malinconia»,103 aggiunge, cercando di far loro coraggio. Si tratta dell’addio di chi ha già rinnegato ma cerca la comprensione della famiglia? Santo lo Sardo, schiavo a Scio, raccomanda alla moglie i figli «a li quali pensando ogni hura mi xippano l’anima e lu cori e mi fanni buttari lacrime di sangu». Una cupa malinconia e lo sconforto per la solitudine attanaglia l’animo dello schiavo che si descrive «scontentissimo», «abbandonato», privato degli affetti, maltrattato, stato d’animo che rappresenta un vero e proprio difetto che può persino deprezzarlo, rendendolo poco produttivo.104 Appresa in cattività la notizia della morte della moglie, Pietro Lupo scrive al padre una «dolorosa litera piena tutta di travagli pianto e lacrime e displacerio del mio core poiché mi morsi lu bastoni di la mia vita», ma se è questa la volontà di Dio, occorre avere pazienza, «che li travagli son signo che dio ci vuol beni».105 La mancanza di notizie da casa è la principale fonte di ansia: «Vi ho scritto
tanti et tanti litere», scrive Gioseppe de Girardo alla sorella il 5 settembre 1595, ma nessuna ha avuto risposta «et di questo ne sonno molto meravigliato come al tutto di me venni sete scordati [mentre] la mia consolatione [sarebbe di] havere da voi una litera, fatimi ariconoscere che mi amati».106 «Vui mi pari – rimprovera Iosephi Sanciza alla sorella – che aviti poco cura a li fatti mei che aio mandato multi literi e mai non fu inpossibuli recipiri da voi uno signo di litera.»107 «Nelli cinque anni che io sono schiavo non mi avete mai mandato una sola letera solamente per sapere se siete vivi o morti», rimprovera alla moglie Giulia Girolamo d’Elia, viste vane le richieste di soldi del suo riscatto precedentemente inoltrate alla famiglia: «è tanto tempo che sono schiavo che solamente a un carlino il giorno avresti fatto non cinquanta scudi ma ne averesti fatti dugento perché oggi il mio padrone mi laserebbe per cinquanta schudi».108 Si può sospettare in certi casi che la mancanza di notizie nasconda la scarsa volontà di occuparsi del destino del congiunto, per interesse o tirchieria. Chiede che venga utilizzata per il suo riscatto l’eredità della madre, defunta durante la sua cattività, il giovane Nardo Iuliano. I suoi rapporti con il padre sono stati in precedenza molto difficili: «Padre mio carissimo se per li tempi passati me habiate trovato per lo fiol de mala obidentia, voi prego per l’amor de signore Idio che mi perdonerete et rimetto li mi errori ala mia gioventu. Io ho havuto la nova qualmente la mia madre e stata morta et lassatu alcuno adiuto per cavar me da questo cativerio. Et per noi per l’amor di signor Idio prego che farete contento non guardando li tempi passati adiutar et cavar me da questo crudel pene et travaglio».109 Il palermitano Geronimo Galia rimprovera aspramente i suoi «figlioli li quali saluto tutti et benedico benche a me siano stati e sono ingrati io povero preso alla catena al martirio et stento con tanta pena et travaglio et essi a spasso [...] et sono tanto ingrati et discortesi che almeno di lettere non mi consolano in tanto affanno non sarrei stato se uno di essi fusse venuto per marinaro co tanti vascelli che ne veneno qui per mirarme et consolarmi se essi havessero voluto per lo ufficio di figliuoli amorevoli me haverriano rescattato».110 Vincenzo Mancuso ha chiesto più volte aiuto economico alla sorella «e sunnu tri anni che aspett[a] questi denari»; ora cerca di impietosirla scrivendole di non avere nemmeno pane a sufficienza, di vendere tutta la giornata acqua trasportata a dorso d’asino, di ricevere dal padrone per ogni piccola mancanza cinquanta colpi di bastone ai piedi per punizione, tanto che, se non fosse per l’aiuto di altri schiavi, certamente sarebbe già morto. Chiede alla sorella quattro botti di vino per ricavare spacciandolo al minuto quanto serve per riscattarsi.111 Senza notizie
da casa ci si «piglia gran fantasia», si «sta in travagli», ci si persuade che «di giorno in giorno [ci si vada] adimenticando»112 del congiunto in cattività. Di contro, ricevere lettere riempie «di conforto e consolacione quali generano allegrezza infinita»,113 permette di credersi amati e fa sperare di riabbracciare i familiari. Scritte subito dopo l’arrivo in Barberia, nonostante le difficoltà,114 da compagni di prigionia che sanno scrivere,115 le missive sono affidate a marinari o a rinnegati che prendono il mare (una feluca per Napoli, un patron di barca che torna a Genova). Ma i captivi continuano a scrivere anche successivamente, per avvertire dei loro spostamenti, a Costantinopoli, ad Algeri, a Valona,116 e per comunicare che vanno in mare nei mesi destinati alla corsa con l’equipaggio del padrone, che la flotta corsara sverna a Tunisi e nella bella stagione si trasferisce a Biserta. Soprattutto si contano gli anni trascorsi in cattività, con una vena di rimprovero, aperta o sotterranea, verso i familiari che non hanno saputo por fine alla dolorosa lontananza, mediamente protratta per cinque-dieci anni. Le lettere raccontano la vita nei bagni, il duro lavoro quotidiano, l’alimentazione insufficiente fatta di biscotto, fave, pane e olive, ma spesso solo di pane e acqua, le violenze: «bastunati assai et pani pocu», scrive uno, e un altro dichiara di non riuscire a saziarsi mai; enfatizzano le precarie condizioni igieniche, la sporcizia (pidocchi e cimici sono compagni abituali),117 il tormento di restare in catene anche la notte;118 le continue e crudeli punizioni corporali; il freddo, le malattie cardiache, polmonari, la tigna, la febbre, le paralisi, le fratture, le piaghe. La mortalità è alta tra i captivi che muoiono per le dure condizioni di lavoro, per le punizioni, per i tentativi di fuga. Un giovane manda alla madre pochi eloquenti versi: «Matri che haviti figli in barbaria / tucti piangiti et lagrimati / forti che vano per quella scura barbaria / morti di friddu e boni bastunati / che quando e lura di lavemaria / vanno a quatro et a cinque incatinati».119 I remieri incatenati ai banchi delle galere soffrono la condizione più disgraziata: lo sforzo fisico del remo è estremo, soprattutto nel momento dell’abbordaggio; sono continuamente frustati dall’aguzzino, muoiono spesso in massa nei naufragi perché restano incatenati al banco. «Lavoro, castighi, miseria, poco cibo, pidocchi, cimici, [li] hanno fatti diventare degli scheletri che se non fosse per la pelle che tiene insieme le ossa il corpo si sarebbe afflosciato.»120 I maltrattamenti aumentano se arrivano notizie dall’Europa di analoghi maltrattamenti inflitti agli schiavi musulmani in terra cristiana. La parola che ricorre più frequentemente nelle lettere è “pazienza”, sempre invocata poiché la schiavitù è sopportata con rassegnazione, come una pena
inflitta da Dio per le colpe commesse, una prova che conduce alla dannazione o alla salvezza: «Quanto ho patito e continuo a patire, il dio sa il tutto – scrive Lazaro Conforto da Alessandria alla madre il 20 aprile 1593 – che mi trovo scavo nella più triste parte di Turchia, il dio per li miei peccati mi mandò a purgarli in questo loco, et notte e giorno non fo altro il piangere e suspirare videndomi maltrattato [...] la mala sorti mia mi ha voluto conducere in questo termine che mi ritrovo con dui cateni al pedi et amuscialatu di mano di continuo et bastuniato et maltrattato che io non lo posso dire».121 Girolamo d’Elia prega il compare di non essere abbandonato «tale io non mora in mano di inimici perché saria dannato».122 «Et fu proprio voluntà di nostro signore cossì come esso mi feci andare scavo spero mi farrà andare in libertà», scrive Santo lo Sardo da Scio il 7 gennaio 1595.123 «Quanto al mundo succedi tutto dipendi de la mano de Dio e quel tanto ad opera con noi tutto lo fa a bon fine a gloria sua e a salute nostra si come si leggi claramenti per deus quos amat corrigat et castigat adunca nui essendo castigati signo e che semo amati e di questa tribulacioni piu presto doveriamo ralegrarci che attristarci.»124 Sottrarli alle pene è come «cavare una povera anima dal purgatorio», scrive al padre Nardo Iuliano, «fiol de mala obedientia per li tempi passati», mentre chiede perdono e attribuisce i suoi errori alla gioventù.125 «Cavandomi fora da questi intrichi scacciate una anima dal limbo», scrive Filippo di Salvatore alla «carissima e amorevole madre.»126 Da Dio dipendono la punizione della colpa e il perdono, la schiavitù e la redenzione nella sua doppia accezione di liberazione dalla schiavitù e dalla colpa. I nostri schiavi sono buoni cristiani. Nella schiavitù mediterranea sembra decisivo l’aspetto della reciprocità (cristiani schiavi di musulmani e viceversa), e non sono troppo diverse le condizioni della cattività presso i cristiani. Un solo esempio: William Davies, che non è musulmano, viene catturato dai Cavalieri di Santo Stefano mentre naviga come medico di bordo su un vascello britannico carico di merci turche. «Ci rasarono il capo e la barba e consegnarono a ogni uomo una giubba rossa, segno che il Granduca ci aveva fatto tutti schiavi [...]. Dispongono degli uomini, delle donne e dei bambini e li vendono nei mercati, come i cavalli, le mucche o le pecore, tenendo per sé quelli più forti. Lì ho vissuto per otto anni e dieci mesi: ho trascorso tre di questi anni, dall’alba al tramonto, incatenato a un carro come un cavallo, ricevendo più colpi di qualunque bestia da tiro in Inghilterra, ci tenevano a pane e acqua, e in tre giorni ci davano il pane che avremmo mangiato in una volta sola [...]: trasportavamo sabbia, o calce, o mattoni, o cose simili,
dove ordinavano i notabili per i loro palazzi. Gli italiani sono assai falsi, perché se ridono in faccia a qualcuno, vuol dire che cercheranno di ucciderlo, eppure sono vigliacchi, da veri italiani quali sono: le donne sono malvagie e lascive. Trascorsi tre anni in quella condizione, scelsero i più abili per andare sulle galere, io fui tra loro, lì le mie sventure si moltiplicarono, perché divenni un galeotto alla voga, il cibo diminuì, ma i colpi aumentarono e molti di noi persero la vita. Ci rasavano il capo e la barba ogni otto o dieci giorni, eravamo sempre nudi, tranne che per un paio di braghe di lino, e continuamente alla catena. In quel periodo partecipai alla presa di molte città e galere turche, anche se contro la mia volontà [...] e continuai come galeotto per altri cinque anni. La miseria delle galere supera ogni giudizio o immaginazione, nessuno penserebbe che al mondo esista una tortura o un tormento simile, solo chi la patisce; le estreme miserie spinsero molti schiavi a uccidersi, o a cercare di uccidere i loro ufficiali.»127 La prigionia di Davies finisce quando, negli anni venti del Seicento, il capitano di una spedizione inglese sul Rio delle Amazzoni, a cui contribuisce anche il granduca di Toscana, lo richiede come medico di bordo. Gli schiavi stanno sotto gli occhi di tutti, eppure è possibile non fare una piega di fronte alle loro sofferenze e rattristarsi solo per quelle sofferte dalla propria gente dall’altra parte del Mediterraneo. Sono così descritte le crudeltà inflitte ai cristiani in terra ottomana: «molto taglieggiati [...], altri posti in larghe campagne al caldo, al gielo, a pascere armenti con pochissimo cibo [...], altri posti al remo sotto durissima sferza con desiderio continuo d’impire il ventre [i morsi della fame sono i più costanti e crudeli compagni di schiavitù in tutte le testimonianze che mi è capitato di incontrare] di biscotto muffo e fracido, e acqua putrida, per essere consumati da lezo e immondizia [...] altro a guisa di animali posti a’ volger suoli. Altri accoppiati portargli il gioco in collo, come a’ buoi li convien tirar l’aratro mezo ignudi, e solcar la terra punti tuttavia da stimoli che versar gli fanno più gocciole di sangue che di sudore».128 La denuncia ha una funzione demagogica nel dibattito politico e giustifica la necessità della guerra contro l’impero ottomano. Questa descrizione e quella del medico inglese sono perfettamente speculari, ma la pietà verso i propri correligionari e l’assoluta indifferenza verso gli altri che versano nella medesima condizione rappresentano la spia della «disumanizzazione del captivo»129 che ha reso concepibile la schiavitù e la tratta, con il loro corredo di atrocità. Ascoltiamo le parole di un esperto per il quale sotto nessun aspetto questo commercio «ferisce il principio di equità», così che risulti condannabile: esso, anzi, risparmia la vita a un numero enorme di
prigionieri di guerra che andrebbero altrimenti incontro a morte certa; in secondo luogo essi, trasportati in Europa o nelle sue colonie e acquistati a caro prezzo dai padroni, saranno tenuti con tale cura da trovarsi in condizione migliore di quella in cui versano nel loro paese; in terzo luogo, soprattutto dove il clima assomiglia a quello africano, essi si sentiranno come a casa propria e saranno ottimi coltivatori; in quarto luogo, la tratta è un servizio che si fa ai «Negri», liberandoli efficacemente di quanti si sono resi colpevoli di crimini degni dell’esilio. «In una parola, si può assicurare che il bene che procura questo commercio sopravanza di molto tutti gli inconvenienti reali o presunti che vi si possano trovare»:130 i vantaggi sono per i paesi africani, i mercanti europei e gli stessi schiavi; il traffico si rivela una mano santa.
1.8 Il mestiere di schiavo Cadere preda dei corsari e dei pirati trasforma uomini e donne liberi in schiavi, alla mercè di padroni: innanzitutto bey, dey, funzionari pubblici il cui diritto alla preda va soddisfatto prima che i captivi vengano avviati al bagno e al mercato. Gli schiavi sono obbligati a svolgere tutti i mestieri: oltre che al remo nelle galere, la maggior parte di quelli che appartengono allo Stato sono destinati come forzati alle miniere, agli arsenali o ai lavori pubblici: scavano, spietrano, sterrano, trasportano materiali pesanti, costruiscono fortificazioni, trincee, canali, pozzi, edifici, lavorano nei cantieri navali; fabbricano mattoni; fanno opere di muratura; tagliano e trasportano con corde e carrette grosse pietre (come ad Algeri per la costruzione del molo); lavorano nelle navi da corsa, caricando i cannoni, trasportando munizioni, rispondendo a ogni necessità degli armatori e dei raìs con sforzi spesso superiori alle proprie forze. Se sono abili e hanno esperienza fanno il pilota, il nocchiero, il chirurgo, il calafato, il marinaio sulle navi da corsa; sono soprattutto addetti al remo oppure vestono persino i panni di sanguinari ministri di giustizia: tocca agli schiavi il mestiere di boia quando i turchi condannano qualcuno a morte. Gli schiavi dei privati sono per lo più addetti ai lavori agricoli o domestici, mentre le donne partecipano a tutte le attività, in particolare a quelle legate alla sfera domestica. Certo, in paesi stranieri di cui non si conoscono lingua, leggi, istituti, si riducono le possibilità di praticare le attività svolte invece nei paesi cristiani, dove molti di questi
schiavi occupavano impieghi ed erano addetti a servizi di istituzioni locali e centrali.131 Nel Maghreb li vediamo per le strade a vendere l’acqua, dentro due otri portati a spalla legati a un bastone, e, se non guadagnano abbastanza durante la giornata, sono accolti al loro rientro da numerose bastonate; raccolgono mattina e sera l’acqua per la pulizia della casa; portano il pane a cuocere nei forni della città o lo fanno in casa; lavano tutti i pavimenti, dal cortile alle camere alle verande, mattonate «perché è loro [dei mori] costume di tenere molto alla pulizia della loro casa dove non camminano se non si sono liberati delle scarpe».132 Sono gli schiavi a candeggiare la biancheria nelle fontane fuori dalla città, usando il sapone e non la liscivia ricavata dalla cenere, alla maniera francese; ogni quindici giorni imbiancano anche le mura delle case, contro ragni e vermi; vendono frutta e verdura per strada; portano fuori dall’abitato le immondizie delle case e delle strade; pascolano vacche, pecore e capre; lavorano i campi, aggiogati insieme a cavalli o asini; coltivano i giardini; mietono. Chi non ha da svolgere altre mansioni gioca con i bambini e li porta a spasso. Questa minuziosa descrizione delle molteplici attività degli schiavi dedica solo tre righe al lavoro delle donne: sono schiave domestiche, sottomesse alla “lubricità” dei padroni, i cui figli sono subito circoncisi e dichiarati musulmani. Il lavoro più duro è considerato quello in mare, tanto che, «secondo gli schiavi di Algeri, se uno non è stato galeotto non può dire che è stato schiavo. E questo è proprio vero»,133 mentre sulla terraferma la fatica maggiore è quella dello schiavo addetto ai lavori pubblici, normalmente appartenente al sultano o ai suoi funzionari. La costruzione e la riparazione di muraglie, porti, strade, case, moschee con le catene ai piedi, dall’alba al tramonto, con poca acqua e cibo, è considerata una tortura: «Io fui messo a spietrare, altri a tagliare le pietre, alcuni a tirare il carro con la terra, altri ancora a preparare la malta, altri a trasportare le pietre tagliate e così fummo gettati in una specie di schiavitù senza scampo»,134 scrive un captivo inglese ad Algeri. Sotto il «governo dispotico» del Marocco, «le miserie degli schiavi sono più gravi che in ogni altro paese», scrive un anonimo; al confronto, «la schiavitù a Tunisi e Algeri può dirsi uno stato di riposo e di felicità».135 L’iperbole è evidente, anche di fronte alla descrizione di come gli schiavi di Fez e Marrakech, svegliati a bastonate per essere avviati al lavoro, fanno calce, scavano, sminuzzano sassi, trasportano pesi, senza cibo sufficiente (una pagnotta giornaliera di pane d’orzo con poco olio), e dormono dentro prigioni oscure e sotterranee come pozzi, dove si scende per mezzo di scale di corda. Nelle principali città delle reggenze e del regno del Marocco, le
grandi costruzioni dipendono dall’approvvigionamento di pietre, prese talvolta molto lontano dalle città, tagliate e trasportate dagli schiavi. In effetti, il contributo della cultura europea, “pietrificato” in palazzi, fortificazioni, strade e porti attraverso il lavoro di tutti gli schiavi coinvolti, è stato tanto importante quanto obliterato (ma lo stesso potrebbe dirsi per il contributo di manodopera musulmana nella costruzione della reggia di Caserta o di pezzi di mura vaticane), insieme con la cancellazione di questa forma di schiavitù, divenuta “invisibile”136 perché diversa da quella atlantica. Nell’Europa cristiana, d’altra parte, gli schiavi pubblici e gli schiavi di privati non trovano condizioni di vita e di lavoro molto migliori; gli schiavi domestici e agricoli, isolati dai compagni, non possono praticare la loro religione e parlare la loro lingua, né comunicare con le famiglie, e perdono ogni speranza di ritornare in patria: in tal modo vengono acculturati più facilmente. Sono utilizzati ampiamente dagli amministratori locali, da militari di vario ordine e grado, ecclesiastici (canonici, cappellani, presbiteri e sacrestani), inquisitori, liberi professionisti (medici, avvocati, giudici, procuratori), scrivani, maestri di scuola, mercanti, artigiani, musici e maestri di cappella, compagnie di teatro, pittori.137 Fresco di nomina cardinalizia, Ippolito dei Medici, figlio di Lorenzo II, possedeva nella sua casa romana «un vero serraglio», composto di schiavi «numidi, tartari, etiopi, indiani, turchi, che tutti insieme parlavano più di venti lingue»,138 e si diceva che il fratello Alessandro fosse in realtà figlio di una «schiava mora» e di papa Clemente VII. Quando in Europa questa merce si rarefà per la necessità del lavoro nelle piantagioni e nelle miniere americane, sale il prezzo e si accentua il valore di simbolo di status: un grande armatore algerino a metà Settecento «teneva diciotto schiavi cristiani e altro numero di neri e nere che manifestavano la magnificenza della casa»;139 gli aristocratici siciliani fanno sfoggio di lusso esibendo carrozze e schiavi in gran numero.140 Gli schiavi più di altri beni di lusso finiscono per simboleggiare non solo la ricchezza, ma anche lo status: «Era grande per potere e dignità; possedeva feudi e schiavi neri in quantità», si scrive del gran visir della cittadella del Cairo nel 1468; un proverbio egiziano vuole che «gli schiavi consumano le tue ricchezze, ma aumentano il tuo prestigio».141 Bisogna distinguere tra lo schiavo domestico e lo schiavo privato: il primo lavora nella domus, il secondo viene affittato dal padrone a terzi per mille servizi e incombenze. Come nelle colonie portoghesi e nella stessa Lisbona, dove «si trovano molti che, non avendo terre da coltivare, non tralasciano di acquistare e custodire un gran numero di schiavi e lasciano loro la libertà di impiegarsi per
conto proprio e di andare a lavorare per chi vogliono loro, guadagnando una certa somma che il padrone esige da loro settimanalmente»,142 così accade nei paesi mediterranei. Qui, quando non c’è da lavorare a casa, gli schiavi sono mandati dal padrone a lavorare a giornata.143 Le donne vengono affittate a lenoni che le fanno prostituire nelle locande «con impegnarle, e con danno venderle all’Hostieri, et altre persone, che tengono alberghi, in tanta gran baratteria, che dette donne eran serve, e schiave di detti Hostieri lo più tempo di lor vita, avanti che potessero restituire il debito»144 e ritornare libere. Ma la prostituzione, teoricamente vietata nelle due sponde mediterranee, non è che un esempio del loro largo utilizzo. Lo schiavo «risponde col corpo per tutte le offese. [...] Se lo schiavo è una proprietà con un’anima, non una persona, e tuttavia indubitabilmente un essere umano dal punto di vista biologico, bisognerà attendersi delle procedure istituzionalizzate che degradino o mettano in forse la sua umanità e in questo modo lo distinguano da quegli esseri umani che non sono proprietà. La pena corporale e la tortura costituiscono una procedura che risponde a questi requisiti».145
1.9 Schiave invisibili Tutti gli studiosi concordano che nella fase altomedievale le donne rappresentino una componente significativa del fenomeno a causa del prezzo e del tipo di approvvigionamento: provengono dai porti del mar Nero che raccoglie donne tartare (le mongole), “di stirpe russa” (circasse, georgiane, bulgare), slave bosniache, albanesi, greche. Caffa, base commerciale genovese, è tra i centri più attivi di questo commercio, e nell’Adriatico Venezia, mentre negli scali minori (come Ancona) operano numerosi mercanti occasionali che trattano piccole quantità di schiavi, poi rivendute nelle fiere di Lanciano o di Senigallia.146 Con la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453 e la perdita nel 1475 di Caffa, importante città commerciale sulle coste del mar Nero, per un insieme di circostanze legate al cambiamento della domanda e dell’offerta, ai modi di approvvigionamento e all’influenza della congiuntura politica internazionale, la composizione interna di questa speciale merce cambia la proporzione tra uomini
e donne e, in particolare, alle schiave bianche si sostituiscono man mano le more e le nere d’Africa. La nobildonna fiorentina Alessandra Macinghi Strozzi scrive nel 1465 al figlio Filippo che sta per sposarsi: «E pertanto ti ricordo el bisogno; che avendo attitudine avern’una, se ti pare, tu dia ordine d’averla: qualche tartera di nazione, che sono per durare fatica vantaggiate e rustiche. Le rôsse, cioè quelle di Rossia, sono più gentili di compressione e più belle; ma a mio parere sarebbeno meglio tartere. Le circasse, è forte sangue; benché tutte l’abbino questo. I’ te ne do avviso del bisogno: fa’ ora che ti pare».147 Negli stessi termini («per durare fatica assai») il mercante pratese Francesco Datini prega il suo socio residente a Genova di procurargli una schiavetta «giovane e rustica», così da poterla educare a modo suo.148 Anche lo storico musulmano al-Jā bart ī, nelle prime decadi dell’Ottocento, in segno di pietà e di devozione filiale, chiede alla madre di comprare con il suo denaro una bella e giovane schiava per allietare il vecchio padre.149 In Africa come in Oriente, il seguito di centinaia (talvolta migliaia) di schiavi rappresenta la ricchezza del padrone. Cortei di servitori, guardie personali, eunuchi, schiavi e concubine, vestiti di sete e broccati, sono al seguito di sultani e principi, simboli del loro status. Gli schiavi più belli sono un regalo gradito, esotico al pari di una giraffa. Le schiave di lusso destinate all’harem vengono educate appositamente al Cairo, Baghdad, Medina, Cordoba; imparano musica e canto, si addestrano nelle scienze e nella poesia; il mercato fa una netta distinzione tra schiave bene istruite (nei tre campi essenziali della lingua araba, del Corano e della poesia) e schiave ignoranti, e destina le prime alle classi dirigenti dei centri urbani. Quando una schiava assomma alla malizia delle donne di Medina la languidezza di quelle della Mecca e la cultura delle irachene, «merita allora di essere piazzata nella pupilla degli occhi e nascosta dietro la palpebra».150 La storia ha tramandato dell’harem – letteralmente «spazio inviolabile»151 – un’immagine da Le mille e una notte che ha «nutrito l’immaginario e i fantasmi dei popoli monogami»,152 anche se ora ne abbiamo un concetto meno letterario e idilliaco e sappiamo che molte di queste donne, insieme agli eunuchi addetti al loro servizio e al loro controllo, sono ben di più che un gingillo ornamentale, e gestiscono affari, operano transazioni e investimenti per conto del padrone, reggono con mano ferma l’esercito di servitori e di addetti alle manifatture del palazzo, ma soprattutto sono al centro di solide reti clientelari, reclutano spie, intavolano preliminari di trattative di pace, ordiscono congiure e assumono responsabilità di tipo squisitamente politico. «Il
potere delle schiave non si basa solamente sulla loro bellezza e attrattive fisiche e sessuali; piuttosto esse accumulano risorse addizionali di forza e di influenza [fino ad avere] una propria milizia.»153 Rasumah, schiava e concubina del comandante del distretto di Cipro, serve il suo padrone come tesoriera fino alla di lui morte, quando cercherà di nascondere parte dell’eredità per impossessarsene.154 Margherita Marsili, alias Rossellana, concubina di Solimano il Magnifico, diventa madre dell’erede al trono. A giudicare dai resoconti dei religiosi impegnati nella redenzione o, ancora di più, dalla letteratura di viaggio, la segregazione sembra il tratto dominante della condizione femminile in tutto il mondo islamico: senza istruzione, sposate ancora bambine senza essere interpellate nella scelta del futuro marito, divenute mogli non lasciano più la casa del marito; se escono, sono precedute da schiave e servi e in alcune tribù beduine agghindano le chiome con dei piccoli campanelli, il cui tintinnio avverte del loro arrivo. La leggendaria gelosia dei musulmani giustifica il delitto d’onore da parte di padre e fratelli delle fedifraghe e le fa confinare, «ignoranti e con pochi diritti, dentro le quattro mura di casa».155 Se si confrontano, però, le descrizioni letterarie degli osservatori stranieri con i documenti delle corti sharaitiche nella Gerusalemme del Seicento, emerge una realtà molto diversa: le donne si rivolgono alla giustizia musulmana per ottenere l’annullamento del matrimonio contratto senza il loro consenso, ricorrono contro fratelli e padri che le hanno forzate, vanno in giudizio senza farsi rappresentare per chiedere lo scioglimento del matrimonio, stipulano accordi di divorzio consensuale, pagando una certa somma, rinunciando a parte della dote ricevuta (mahr) e ritornando presso la propria famiglia, libere di risposarsi appena se ne presenti l’occasione; ereditano una quota dei beni mobili e immobili dei genitori, anche possedimenti terrieri. Soprattutto usano la dote per prestare denaro a interesse (a cristiani ed ebrei specialmente) e intraprendere attività commerciali: «Non solo queste donne vendono, ma spesso comprano, affittano, investono in beni e terre. Comprano case, campi, vigne e frutteti; vendono vari generi di mercanzie. [...] Donne di ogni ceto sociale frequentemente ricorrono alla corte per presentare i loro reclami al qādī ».156 Agli occhi dell’osservatore occidentale sfugge facilmente il reticolo di canali – da cui gli uomini sono esclusi – che lega il mondo femminile a più ampi circuiti; si accorgono solo della segregazione, senza vedere come questa consenta alle donne di mantenere la proprietà, di condurre a termine affari e adire in giudizio. La segregazione non equivale alla prigionia. Le donne cristiane in mano barbaresca sono destinate al servizio domestico:
anche per questo se ne perdono le tracce, inghiottite dalle famiglie dei padroni. I bagni sono, in ogni caso, riservati agli uomini: le donne spesso non passano nemmeno dal mercato, ma vengono vendute riservatamente in case private. Il vicario apostolico Giovanni Le Vacher, collaboratore di san Vincenzo de’ Paoli, nel 1654 scrive da Tunisi che «alcune non sono mai uscite dalli Case de’ loro Padroni, da dieci, venti, trenta, trentacinque e quarant’anni che sono schiave, volendo li Turchi assuefarle all’usanza delle loro Donne, le quali doppo esser maritate non escono più, almeno quelle delle Persone più grandi».157 E il cassinese Diego di Napoli menziona i maltrattamenti e le bastonate inflitti alle schiave, private «della metà di quel che è necessario sostentamento della vita».158 Violenze fisiche e fame caratterizzerebbero la condizione anche delle donne in schiavitù. Gli schiavi domestici sono in prevalenza minori, se non bambini, maschi e femmine, impegnati come tutti gli altri coetanei nella ricerca della sussistenza o nell’apprendistato attraverso l’espletamento di numerosi servizi. Estremamente mobili nella topografia urbana, cambiano frequentemente padrone e domicilio. La loro mobilità è accentuata nelle città musulmane dalla poligamia, dal divorzio, dal ripudio delle loro madri, dalla condizione di orfani, dalla prolungata assenza dei capifamiglia, oltre che da cause economiche (povertà, apprendistato, mestieri ambulanti) che li allontanano dalla casa natale. Una ricerca stima che nel 1848 il 19% dei bambini tra i cinque e i nove anni del Cairo non vivesse con i genitori, ma la percentuale si impenna al 70% per i ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. Di quest’ultimo gruppo il 58% non convive con nessun parente né diretto né collaterale. E per il primo Ottocento lo stesso sembra accadere a Istanbul, a causa del semipermanente stato di guerra dell’impero ottomano.159 Su questi bambini si esercitano violenze fisiche, a cui si vuole fare assumere la fisionomia di misure paternalistiche di correzione da parte dei padroni nei confronti di tutti i servi. Le violenze sono anche di natura sessuale, ma, mentre «i ragazzi crescendo escono dalla loro condizione di vulnerabilità sessuale, per le donne quest’ultima attiene al genere piuttosto che all’età».160 Vorrei insistere sul legame quasi familiare che la schiavitù domestica instaura: il servizio, il lavoro domestico (per lo più svolto da donne) si dicono «hizmet , lavoro come servizio loyalty-laced»:161 l’assoluta dipendenza corrisponde all’assoluta lealtà, e in numerosi testamenti gli schiavi sono ricompensati attraverso piccoli e grandi lasciti. «La mia schiava mi ha accudita nella mia malattia – dice davanti a testimoni una morente nel Cairo del 1230 –
come né mia madre, né mia sorella hanno fatto. Non dovrà mai più essere venduta, né comprata, né molestata [cioè presa come concubina] in alcun modo.»162 La formula: «La mia schiava o la mia serva non devono essere possedute da alcun altro dopo la mia dipartita» viene intesa come una dichiarazione di manomissione. Ma è frequente anche la manomissione in vita che lascia un certo legame tra padrone/a ed ex schiavo/a ora libero/a, espresso in arabo dal termine mawlà, che significa “l’attaccato”: «I documenti della Geniza del Cairo mostrano come prevalenti le relazioni simili a quelle tra parenti. Dentro o fuori dalla schiavitù, egli è un membro della famiglia».163 Ehud Toledano ha sottolineato con forza la necessità di articolare il concetto di schiavitù in area islamica, facendo notare la distanza tra la condizione dello schiavo nell’apparato militare e amministrativo, nell’harem, nell’agricoltura e nel contesto domestico: tra la schiavitù delle colonie americane e quella dell’impero ottomano la distanza è enorme, e imporre rigide categorie a un complesso fenomeno sociale rischia di causarne l’incomprensione. «La prossimità e l’intimità dei rapporti quotidiani tra padrone e schiavo producono quella relazione di parentela fittizia che incorpora lo schiavo – attraverso il gruppo domestico dell’élite – dentro la rete della società ottomana, spesso compensandolo realmente per la mancanza di relazioni con la famiglia naturale, sebbene con un certo costo psicologico.»164 Alienazione e disumanità perdono la valenza di uniche spiegazioni del fenomeno. Il termine patronage (wilā yah) indica una relazione implicante diritti e doveri, sia la “mutua alleanza” sul piano politico e militare, sia il rapporto tra lo schiavo e il suo padrone,165 spesso descritto come un rapporto tra padre e figlio: ciò dice di più sulla soggezione del figlio all’interno della famiglia musulmana che su quella dello schiavo manomesso. Insomma, il paternalismo che caratterizza il rapporto del padrone con lo schiavo ci informa della sua autorità assoluta sui figli, sottomessi alla stessa stregua degli schiavi; i figli sono “schiavi del padre”, mentre il servizio dello schiavo è come quello di un figlio verso suo padre. Sul versante europeo, l’opinione condivisa da molti storici che «le schiave tra XVI e XVIII secolo [siano] un aspetto secondario della schiavitù nell’Italia moderna perché sul mercato del lavoro non sono più concorrenziali con le serve libere»166 si fonda sulla considerazione che le loro attività prevalenti siano il servizio domestico e il baliatico e che siano accessibili sessualmente. Una ricerca ha attestato, invece, una netta prevalenza femminile nella composizione degli
schiavi di Granada per il Cinquecento, a Lisbona tra 1511 e 1522167 (il 71% dei moriscos, il 68% dei nordafricani, il 47% degli originari dell’Africa subsahariana)168 e, nel caso della Siviglia del XVII secolo, un’equilibrata percentuale di uomini e donne schiave, provenienti in maggioranza dall’Africa nera.169 Ma soprattutto, come sembra, la richiesta di schiave non è motivata né dalla loro capacità riproduttiva (in quanto il tasso di matrimoni e di natalità tra gli schiavi si mantiene basso e i figli delle schiave sono sentiti come un peso economico dai padroni), né dal generalizzato sfruttamento sessuale, né dalla loro maggiore longevità rispetto agli uomini. Si può ipotizzare, quindi, che sia la capacità produttiva la principale causa della loro richiesta sul mercato, nonostante il prezzo elevato. Queste donne sono filatrici e ricamatrici, producono alimenti, lavorano nelle botteghe artigiane, nei campi e nel servizio domestico. «La condizione di schiave permetteva loro di fare lavori socialmente destinati agli uomini, lavori cioè che le donne libere non svolgono [con l’esclusione dei settori solo maschili delle galere e delle miniere]. Produttività, flessibilità e docilità possono averle rese un investimento particolarmente vantaggioso.»170 L’invisibilità della schiavitù femminile può avere però un’altra spiegazione. L’accessibilità sessuale di queste donne deve avere occultato dentro la macrocategoria della schiavitù una serie di comportamenti sessuali e servizi domestici molto diversi tra loro e difficili da rubricare in modo adeguato. Ibn Baṭṭūṭah,171 giunto alle Maldive, si compiace della possibilità offerta a marinai, mercanti e viaggiatori di comprare una o più donne: «Sposarsi è molto facile, a causa della modicità della dote e del gradevole commercio delle donne. [...] Quando le navi attraccano sulle isole, i membri dell’equipaggio e i mercanti si sposano e, quando vogliono ripartire, ripudiano le loro mogli. Per quello che mi riguarda, ho sposato diverse donne alle Maldive; alcune, su mia richiesta, mangiavano alla mia tavola, altre no [...]. Infine sono partito, ho ripudiato mia moglie e l’ho lasciata là; ho ripudiato anche la donna a cui avevo fissato un termine e ho mandato a cercare una schiava che amavo».172 Altre donne sono date e ricevute in regalo, come segno di benvenuto da parte delle autorità dell’isola, ansiose di dimostrarsi ottimi padroni di casa. La descrizione è esotica, ma istruttiva: Baṭṭūṭah distingue con molta finezza tra la moglie, la donna a cui fissa un termine, la schiava e quella ricevuta come regalo di benvenuto; la donna in regalo, finiti i festeggiamenti, sparisce dalla sua casa dove a vario titolo permangono le altre mogli, quasi-mogli e concubine. Interessante anche la definizione di moglie a tempo, una forma di matrimonio conosciuta anche in
altre realtà africane e mediorientali; che alcune siedano alla sua tavola e altre no, che alcune vengano ripudiate alla partenza e altre no, ma che tutte restino sulle isole spinge a pensare che non di schiavitù in senso stretto si tratti, ma piuttosto che il nostro viaggiatore così l’abbia codificata a partire da un dato comune: l’accesso alla sessualità e la mancanza di responsabilità verso queste donne. I viaggiatori medievali e moderni sono colpiti dalla libertà delle donne di alcune popolazioni; dalle loro descrizioni sporadicamente emerge l’organizzazione matrilineare di quelle società, che è la presumibile spiegazione di quanto essi raccontano. Al-Bakr ī nella sua descrizione dell’Africa occidentale173 afferma che tra i berberi musulmani di Tadmakka le donne sono d’ineguagliabile bellezza e tra di loro «la fornicazione è consentita. Quando arriva in città un mercante le donne accorrono e ciascuna si impegna a portarselo a casa» e Ibn Baṭṭūṭah a proposito delle berbere di Oualata, della tribù Massufa, scrive che godono di grande indipendenza e di un vero potere: di religione musulmana, osservano strettamente la preghiera, studiano diritto e imparano il Corano, ma non si velano il capo e non manifestano alcun pudore. Né gli uomini sono gelosi delle loro mogli: le relazioni extraconiugali sono molto frequenti e la discendenza è strettamente matrilineare. Sarà lo stesso nelle Maldive di Ibn Bat$$$? Nelle città del deserto particolarmente attive nella tratta e nelle città minerarie, le donne di alcune popolazioni arabo-berbere gestiscono il traffico di schiavi, percepiscono la remunerazione, posseggono schiavi in proprio, accompagnano le carovane, mentre gli uomini tessono stoffe di cotone che dipingono con l’indaco. Presso un’altra tribù berbera, i Bardamah, le donne sono «perfette» (e grasse) e dominano le carovane: «chiunque voglia sposarle deve abitare a casa loro, nel luogo più vicino alle loro contrade e non deve andare più lontano da Gao e Oualata».174 Qui sono, come si vede, società anche matrilocali. Schiavitù e accessibilità femminile hanno a lungo occultato agli occhi dei viaggiatori prima e degli storici europei poi forme uxoriali plurime, ma è possibile che la relazione con una schiava abbia assunto anche in Europa aspetti di “quasi matrimonio”, nella schiava-concubina, una sorta di moglie vicaria. «L’identificazione tra domesticità e sessualità da un lato e del dovere maritale con il lavoro domestico e la disponibilità sessuale dall’altro, segnala una prossimità ideologica di portentosa risonanza oltre l’età moderna.»175 Raffaella Sarti nota che «entro certi limiti, l’esperienza delle schiave potrebbe essere rappresentata come una forma estrema, esasperata della quotidiana esperienza femminile».176 Alla fine del Settecento, Olympe de Gouges (1748-1793) propone
una stringente analogia tra la mantenuta delle classi alte a cui «bastava solo essere bella e gentile; quando possedeva queste due qualità vedeva mille fortune ai suoi piedi [...]. Anche la più indecente, con l’oro si faceva rispettare. Il commercio delle donne – conclude con un certo ottimismo – era una specie di industria ammessa nella classe più alta che, ormai, non avrà alcun credito».177 Tuttavia, proprio le “strade sbarrate” che le donne dei Lumi e della rivoluzione francese si trovano davanti producono l’effetto di ridurle alla stregua delle “schiave sulle coste africane”. Le norme matrimoniali, la mancata potestà sui figli, l’esclusione dai patrimoni familiari sono tra le maggiori cause di esclusione dalla cittadinanza, sentita come dispotica condizione di illibertà. Perciò Olympe si batte contemporaneamente per la causa delle donne e degli schiavi delle colonie, cogliendo con grande acume politico il nesso tra sesso e razza come fondamenti di ogni esclusione. Più avanti, in Italia, Anna Maria Mozzoni (18371920) denuncerà la schiavitù delle donne, aperta o mascherata, implicita dentro il matrimonio. Le schiave più giovani e belle entrano negli harem del sultano e dei suoi più importanti dignitari, da dove dopo un certo tempo escono per essere date in moglie a funzionari e notabili. I proprietari di schiavi delle classi più agiate traggono motivo di orgoglio dall’incorporazione delle favorite nei loro larghi gruppi domestici. «Una giovane schiava poteva diventare la moglie del padrone o poteva essere data come moglie o concubina o figlia surrogata a qualche altro membro della famiglia o di famiglie amiche. Molte delle schiave che fecero più fortuna, incluse le mogli dei sultani ottomani, entrarono nelle famiglie allargate come regali più che come acquisti.»178 Nelle case dei padroni entrano come schiave, ma, se ne divengono concubine e hanno un figlio (possibilmente maschio), acquisiscono la posizione di umm alawlād e il diritto di non essere vendute, di essere affrancate alla morte del padrone e di avere accesso a una parte della sua eredità. Essere madri di un figlio del capo famiglia le pone in una condizione a metà tra le schiave e le mogli; già nella stessa denominazione è iscritta la differenza: umm al-awlād significa “madre di bambini”, mentre la moglie è umm al-banī n, “madre di figli”.179 Infine, poiché le donne cristiane hanno una buona reputazione come mogli – sia Diego de Haedo sia Pierre Dan le giudicano più diligenti delle more nell’accudire la casa –, vengono sposate volentieri dai mori. In questo caso, ottengono l’affrancamento il giorno stesso delle nozze. Si spiega così anche come mai tra gli 846 rinnegati che si presentano dinanzi al Santo Uffizio
spagnolo in Sicilia, ci siano solo 86 donne, poco più del 10%.180 Immagino che rinuncino a essere riscattate per potere rimanere accanto ai figli. La proprietà della persona fisica dello schiavo include, nel caso delle donne, il diritto del padrone a un illimitato accesso sessuale e alla proprietà dei figli che dovessero nascerne. Come sappiamo, il riconoscimento della paternità fa di questi persone libere ed eredi delle sue sostanze – perciò è imposto un periodo di astinenza alle schiave che passano di mano per motivi di vendita, dono, scambio, successione o legato testamentario – mentre alla madre, riconosciuto lo status di umm al-awlād, spetta di non essere più venduta durante la vita del padrone e di venire automaticamente manomessa alla sua morte; può però essere affittata come serva in case altrui o essere sposata anche contro la sua volontà. Qualora invece i figli non vengano riconosciuti dal padre, restano suoi, ma schiavi. Il ruolo di oggetto sessuale della schiava, ma nello stesso tempo di madre di figli liberi, complica la sua posizione all’interno della società musulmana: il compito di una schiava è «il servizio e la gravidanza» (per lo schiavo è solo il primo: pur avvenendo lo sfruttamento sessuale dei ragazzi, i padroni non ne detengono il diritto); la formula della manomissione vuole «il suo organo sessuale libero» (farjuki ḥurrun). È stata notata l’analogia tra divorzio e manomissione: il primo scioglie la donna dalla soggiogazione del diritto di proprietà sul proprio organo sessuale, mentre la manomissione scioglie l’individuo dalla soggiogazione del diritto di proprietà sulla persona fisica. «La vera analogia non è tra divorzio e manomissione, ma tra matrimonio e schiavitù, entrambi coinvolgono infatti una sorta di diritto di proprietà (milk ).»181 E i giuristi descrivono il contratto di matrimonio come una transazione il cui scopo è il «diritto di proprietà all’accesso sessuale», così come l’acquisto, la vendita e la donazione dello schiavo attiene al diritto di proprietà della sua persona fisica. Ugualmente, come il padrone dello schiavo possiede l’esclusivo diritto di manomissione, il marito solo può avviare il divorzio «poiché egli è il proprietario che ha reso schiava la donna attraverso la dote».182 A scanso di equivoci, ciò non equivale a dire che matrimonio e riduzione in schiavitù siano la stessa cosa, poiché la moglie è libera, ha diritti sulla proprietà, una rete familiare di sostegno che può all’occasione intercedere presso il marito. Quello che mi preme sottolineare è la conseguenza della separazione della funzione procreativa – acquisita in esclusiva dall’uomo attraverso il matrimonio – dalla persona della donna. L’effetto di questa espropriazione, con la conseguente appropriazione del frutto del suo ventre, apparenta in un certo senso
la donna libera allo schiavo e, a maggior ragione, alla schiava domestica e concubina, entrambi più o meno deboli socialmente, più o meno incapaci giuridicamente. La condizione delle schiave rivela il “luogo” dove si annida il meccanismo dell’esclusione delle donne dalla piena capacità giuridica e indica come sottrarre a qualcuno una sua funzione serva a definirlo come infirmus, incompleto, imbecillis, insufficiente, non persona.
1.10 Schiavitù musulmana Lungi dal considerarla una bonaria commistione di «bontà, compassione e violenza»,183 vale la pena di ragionare sull’ipotesi che riconosce alla schiavitù la capacità di assegnare un posto (talvolta provvisorio) allo straniero. Se ci si ferma agli aspetti relativi alla definizione normativa della loro condizione giuridica, alla scarsa alimentazione, alla pessima igiene, alle cattive condizioni di vita, al lavoro coatto, alla brutalità dei maltrattamenti, all’acquisto e alla vendita ecc., finiamo per vedere gli schiavi come un corpo estraneo alla società, una specie di escrescenza, un’eccezione. L’indignazione dello storico verso la mercificazione di un essere umano rischia di fare aggio sulla realtà e occultare altri aspetti, non meno significativi, della loro situazione. Va considerato innanzitutto che lo schiavo è uno straniero, diverso talvolta anche per colore della pelle, lingua, abitudini alimentari, pratica religiosa, costumi, abbigliamento, comportamenti. In secondo luogo, non è libero: arriva quasi sempre per mare in condizione di cattività, spesso in catene, viene condotto nei bagni o direttamente nel mercato dove verrà venduto come bottino di guerra o come “presa” di corsari e pirati. Sottratto alla società di origine, viene “desocializzato”; inserito nella nuova società esclusivamente attraverso il legame con il padrone, viene “decivilizzato”; venduto come una merce, viene “reificato”; la desocializzazione ne fa un essere “desessualizzato”;184 pur tuttavia non è una mera appendice, ma un elemento del gruppo per cui svolge importanti mansioni. La schiavitù si presenta come una delle forme – aberrante fin che si vuole – per assegnare un posto a chi è diverso, per regolamentare l’ingresso in una società di chi non vi è nato e non ne condivide nulla. Perché ciò sia possibile occorre considerare gli schiavi non soggetti completamente passivi in conseguenza della loro natura di “merce”, quanto piuttosto capaci di intrecciare
relazioni e legami con altre persone, libere, semilibere e schiave, fino al punto di esercitare una forma di giustizia – la giustizia sommaria – dentro il pluralismo dei sistemi giuridici e giudiziari, espressione del particolarismo di antico regime. E dunque, in un certo senso, a rivendicare diritti riconosciuti per individui che prima di essere schiavi erano liberi e che possono prima o poi ridiventarlo. Gli schiavi mettono in atto varie forme di ribellione o resistenza (la fuga, l’assassinio, il sabotaggio, l’incendio doloso, l’ammutinamento, l’astenersi dal procreare, l’infanticidio e, infine, il suicidio), ma la loro condizione in terra cristiana e islamica è regolata strettamente dal diritto, di cui anche gli schiavi sono manipolatori. Direi, estremizzando, che la schiavitù è in primo luogo l’effetto di una condizione giuridica negativa: la sospensione della capacità assegnata invece a chi gode della libertà. Se è vero che «gli schiavi sono schiavi, dopo tutto, e dentro le relazioni che strutturano la schiavitù si trovano molte delle stesse caratteristiche dappertutto nel mondo dove c’è o c’è stata la schiavitù»,185 sulla forma della schiavitù incidono tuttavia in maniera significativa gli elementi del contesto, a partire dalle norme giuridiche che la regolano. Nel caso della schiavitù barbaresca, inoltre, l’aspetto religioso riveste un peso rilevante. Dal punto di vista musulmano la schiavitù diventa paragonabile alla condizione di pagano, una rappresentazione simbolica della vera antitesi dell’islam. Se con lo schiavo si fa strada la raffigurazione del paganesimo, è la sua sottomissione all’islam che rappresenta la possibilità di redenzione. «Lo spazio tra dār al-islām [la casa dell’islam] e dār al-ḥarb [la casa della guerra] è un terreno ostile attraversato solo dalla schiavitù, dove la mancanza di comunicazione e l’assenza delle regole di vita musulmana hanno inibito la diffusione dell’islam.»186 Il diritto islamico sostiene due principi: che la condizione innata dell’uomo è la libertà e questa condizione va presunta in assenza di stringenti prove contrarie; che solo i non credenti possono essere ridotti in schiavitù. «L’islam non ha dottrinalmente soppresso la schiavitù più delle altre due religioni monoteiste, giudaismo e cristianesimo, da cui deriva; ma a differenza di quelle due, benché in maniera diversa, si è sforzato di alleggerire l’istituzione e di assottigliarne gli aspetti giuridici e morali [...]. Spiritualmente lo schiavo ha lo stesso valore dell’uomo libero, e la sua anima è promessa allo stesso eterno destino; in questo mondo invece dimora il suo statuto di inferiorità, salvo affrancamento, ed egli deve sottomettervisi con pia rassegnazione.»187 Mi sembra che, mutatis verbis,
siamo ricondotti alla distinzione occidentale tra diritto naturale e diritto delle genti cui sopra ho accennato. Quando si afferma che il Corano considera conforme all’ordine delle cose stabilite da Dio questa discriminazione tra gli esseri umani, il fondamento della schiavitù viene radicato nel diritto divino. Lo stesso testo sacro fa dell’affrancamento dello schiavo (‘abd,raquī q) o della schiava (amah) un gesto meritorio, a cui vanno devolute le elemosine legali o che consente l’espiazione di alcuni atti delittuosi (come l’omicidio involontario), incoraggia l’affrancamento contrattuale, interdice di prostituire le schiave che, se virtuose, devono piuttosto essere avviate al matrimonio. Infine, protegge gli schiavi dalla legge del taglione, anche se la formula «uomo libero contro uomo libero e schiavo contro schiavo» sottolinea in sede penale la disuguaglianza. La tradizione afferma che la condizione degli schiavi fu una preoccupazione del Profeta a cui si attribuiscono numerose sentenze e aneddoti: «I vostri schiavi, uomini e donne, nutriteli come voi vi nutrite, vestiteli come voi vi vestite»; «non dimenticate che essi sono vostri fratelli (se sono musulmani)»; «Dio vi ha dato diritto di proprietà su di loro, avrebbe potuto dare loro il diritto di proprietà su di voi»; «Dio ha più potere su di voi di quanto voi ne abbiate su di loro»; «chi libera un credente, Dio lo libera dal fuoco...» ecc. L’affrancamento, 188 considerato opera meritoria e imposto al padrone per punizioni eccessive, serve altresì per espiare la rottura volontaria del digiuno del Ramadan oppure per un divorzio illegale: Dio si prende una proprietà del peccatore come espiazione della pena commessa. Una doppia ricompensa celeste è promessa a chi istruisce, affranca e sposa la sua ex schiava; un musulmano non può sposare una schiava, ma può averla come concubina; perciò molte donne si convertono prima delle nozze. Anche gli schiavi, come gli uomini liberi, possono prendere un certo numero di concubine, verso cui hanno obblighi economici e affettivi. La concubina di uno schiavo, però, deve essere sua schiava, anche se questa proprietà come qualunque altra proprietà dello schiavo deve essere subordinata al permesso del padrone, il quale potrà usurparla a suo piacimento per farne la sua schiava domestica o la sua concubina (ma non così con la moglie del suo schiavo). «Le proprietà dello schiavo sono legalmente un usufrutto che dura finché il padrone lo consente, ma senza dubbio il padrone non può vulnerare la surmah del matrimonio, una unione legale che non si sarebbe potuta produrre senza il suo consenso.»189 Mentre è possibile il matrimonio di una donna libera con uno schiavo, o tra schiavi, al momento del matrimonio con una schiava l’uomo libero preferisce affrancarla, poiché può tenere una schiava musulmana, concubina o no, solo se nata in schiavitù o convertitasi in
condizione di schiavitù. La conversione non comporta ipso facto la manomissione, di contro una musulmana libera non può mai venire schiavizzata. Da parte loro gli schiavi devono servire lealmente il padrone, che è tenuto a non disprezzarli, a chiamarli servi, figli, ragazzi, a condividere il nutrimento, a imporre un lavoro moderato, a punirli con misura, a perdonarli «settanta volte al giorno», a venderli a un altro padrone se non regna tra loro una buona intesa. Detto ciò, resta ancora poco persuasiva la tesi secondo cui per l’islam la schiavitù è «come focolare di correzione umanitaria [e] porre fine alla schiavitù repentinamente avrebbe avuto risultati nefasti, traumatici: [...] avrebbe nociuto agli stessi schiavi, privandoli della tutela e della sicurezza che il loro stato garantiva: un lavoro e un tetto».190 Sembra di sentire le argomentazioni sull’inoffensiva schiavitù dei neri nelle piantagioni americane a cui Condorcet e l’abate Henri Grégoire opporranno risposte persuasive e talvolta ironiche.191
1.11 Cliente, quasi parente L’individuo schiavizzato subisce una vera metamorfosi: egli transita dal regno degli esseri umani a quello delle merci, perdendo in questo passaggio la sua capacità giuridica; l’incapacità giuridica lo rende “legalmente morto”, i termini con cui ci si riferisce alla sua condizione sono “impotenza, mancanza, difetto, debolezza, morte”: è un essere “incompleto” e vulnerabile, relegato alla condizione assoluta di “cosa”. «Sacco plino d’ossi» è chiamato nei contratti di vendita siciliani del XVI secolo.192 Ciò nonostante, a dispetto di questa metamorfosi legale, egli conserva alcune qualità umane “naturali”. A differenza degli oggetti, considerati “proprietà muta”, alla stregua del bestiame, egli viene considerato “proprietà con voce”.193 Come i minori e i matti, si trova in uno stato di “restrizione legale” che non gli consente di stipulare contratti o dare disposizioni. Dunque, egli possiede l’ambiguo statuto di chi non è né una cosa né una persona; per la sua natura mista, egli partecipa contemporaneamente della natura della cosa e della persona. In quanto cosa è sottomesso al diritto di proprietà e può essere oggetto di tutte le transazioni giuridiche che ne discendono: acquisto, vendita, affitto, successione ecc. Non è distinguibile da ogni altra forma di proprietà. Se uno schiavo musulmano fugge, viene restituito al suo legittimo proprietario, se fugge uno schiavo non musulmano, viene ucciso
o crocifisso, a discrezione del giudice.194 Nel XV secolo il giurista marocchino Aḥmad al-Wanshar īs ī, affrontando il quesito se un etiope di fede musulmana e osservante le leggi dell’islam potesse essere venduto, stabilì che la conversione non poteva invalidare il possesso o la vendita dello schiavo. «I diritti di proprietà hanno la precedenza sui diritti della persona»;195 il problema diventa particolarmente spinoso man mano che si allarga la pratica di ridurre in schiavitù musulmani ad opera di musulmani196 e anche la conversione dopo la riduzione in schiavitù non diventa ipso facto un «passaporto verso la libertà».197 Lo stato musulmano considera illegale il possesso di schiavi che non siano nati in questa condizione: ribelli, catturati con le armi in pugno, o miscredenti, catturati anch’essi o importati come schiavi. Nel corso delle spedizioni militari del XVI secolo che causarono la distruzione dell’impero africano del Songhai, i marocchini presero numerosi schiavi, considerati bottino di guerra, nonostante si trattasse di musulmani di cui la legge coranica interdiceva la riduzione in schiavitù.198 Soprattutto la pirateria si rivela una fonte privilegiata per l’approvvigionamento di schiavi e i pirati, considerati i briganti del mare, senza fede né legge, sono i migliori alleati della flotta ottomana. Soldati ottomani sono accusati di razziare in maniera fraudolenta i sudditi circassi, russi, ucraini dei re vassalli di Istanbul. Bambini o orfani, accolti nelle case private vengono venduti alla prima occasione, solitamente nel corso di un viaggio; ufficiali del sultano arrestano, carcerano e poi vendono i viaggiatori di passaggio nelle aree di confine. Infine, c’è anche una “tratta individuale”, messa in atto da cacciatori di teste che non vanno molto per il sottile se si tratta di catturare un correligionario: le prede vengono vendute facilmente, purché ci si allontani dai luoghi di cattura. «In una società in cui la schiavitù è legale e relativamente corrente è difficile far valere la propria condizione di libero, in particolare quando si tratta di uno straniero [...]. Venduta la prima volta, la vittima diventa ufficialmente schiava, poiché il proprietario può disporre di un documento comprovante la transazione effettuata.»199 Per l’indebita riduzione in schiavitù si ricorre al-qādī ,200 ma anche direttamente al sultano che, dopo le opportune verifiche, può restituire alla condizione di libertà e condannare i colpevoli. Sotto molti aspetti, tuttavia, lo schiavo è considerato una persona e ciò finisce per temperare il principio di proprietà assoluta. È illegale vendere separatamente madre e figli piccoli, spingere la schiava alla prostituzione, impedire le nozze – lo schiavo può sposare la metà delle donne concesse a un uomo libero e ha
bisogno del consenso del padrone per stipulare il contratto matrimoniale; se uno schiavo non può accedere in giudizio, né rendere testimonianza e nemmeno accusare il padrone, egli può però appellarsi al giudice contro i maltrattamenti subiti per richiedere di essere venduto e, rispetto a un uomo libero, la pena comminatagli in giudizio è dimezzata. Lo schiavo può accedere alla corte di giustizia per contestare, ad esempio, agli eredi l’inosservanza di impegni presi dal padrone, per discolparsi dalle accuse di avere causato danni alle proprietà della casa per i quali vengono richiesti dei risarcimenti, per ingiusta detenzione quando, essendo stato manomesso, viene imprigionato come fuggitivo. Inoltre, può guadagnare il prezzo del proprio riscatto, comprando la propria manomissione: si tratta di un accordo contrattuale (muk ātabah) dal quale, una volta accordato, il padrone non può recedere e in base al quale lo schiavo paga un prezzo convenuto per un certo periodo di tempo, trascorso il quale ottiene un certificato di manomissione. Questo istituto dà allo schiavo l’importante diritto di non essere venduto, di guadagnare denaro e di usarlo per sé e di svolgere contemporaneamente al lavoro schiavile anche lavoro libero e, dunque, gli consente una certa mobilità. Di fatto, lo schiavo compra la sua libertà alla fine di un periodo pattuito e dopo l’espletamento di una serie di mansioni e incarichi, anch’essi contrattualmente stabiliti. Questi contratti, studiati per la Istanbul del Cinquecento, mostrano gli schiavi addetti al commercio, alle manifatture tessili, ai lavori agricoli, nell’artigianato, 201 dove guadagnano anche la somma dovuta al padrone per la loro manomissione. Ma questa può avvenire anche alla morte del proprietario, su disposizione testamentaria e senza pagamento di denaro.202 L’emancipazione non chiude i rapporti tra padrone e schiavo, ma li cambia di natura: il primo assume la qualità di agnate nei confronti del secondo, soprattutto in materia di scelta matrimoniale o di responsabilità penale. L’ex schiavo tuttavia non accede al diritto sull’eredità dell’ex padrone che, per sfuggire a questa eventualità, preferisce fondare un’istituzione caritatevole (waqf ) e legare i suoi beni in donazioni inalienabili, aggirando in tal modo le regole previste per la devoluzione dei beni. Poiché l’ex schiavo non può ereditare dal padrone, con la costituzione di un waqf il padrone si assicura la lealtà dell’ex schiavo ed evita che i suoi eredi, non avendo con lui lo stesso legame affettivo, lo escludano dall’asse ereditario. Lo studio della documentazione delle corti sharaitiche ottomano-egiziane dimostra come, ancora tra Ottocento e Novecento, accada frequentemente che i padroni appartenenti all’élite dei funzionari amministrativi, soprattutto se eredi diretti per la premorienza dei propri figli, stipulino gli awqā (plur. di waqf ) nominandone amministratori gli ex schiavi manomessi.203
Lo schiavo è in un certo senso l’alter ego del padrone, essendo i legami tra chi serve e chi è servito molto stretti: è una manifestazione del suo prestigio, assolve non solo a vari compiti, ma anche a doveri religiosi in sostituzione del padrone, in nome e per conto del quale diventa un guerriero dello jihād. Perciò, abbastanza comunemente il rapporto padrone-schiavo si configura come un rapporto patrono-cliente che si prolunga oltre la concessione della manomissione, quando gli ex schiavi continuano a lavorare per gli ex padroni. I figli delle concubine e delle schiave sono riconosciuti agli occhi della legge alla stessa stregua dei figli nati dalle mogli legittime; essi condividono lo status del padre e hanno i suoi stessi diritti. Con il proprio schiavo si fanno accordi, come appunto quello di allontanarsi per raggranellare il denaro del proprio riscatto, anche senza nessun contratto scritto, sulla base della parola d’onore dello schiavo, sancita da una stretta di mano. Per ovvie ragioni, i proprietari preferiscono che ci siano delle garanzie, ad esempio che un parente dello schiavo che si allontana resti in mano del padrone, oppure la garanzia di un mercante del luogo, ma ciò non accade frequentemente. Gli schiavi che tornano in Spagna per questa ragione, conosciuti con il nome di cortados, sono obbligati a rimettere nel tempo ragionevole di un anno il denaro promesso, che spesso troviamo richiesto al re, come “elemosina”. L’estensione di questa pratica nella Spagna della Controriforma pone un serio problema giuridico e di coscienza sull’obbligatorietà per un cristiano di soddisfare un contratto con un “infedele”. «L’opinione generalizzata su queste negoziazioni non concedeva dubbi: i patti degli schiavi cortados non vincolavano alla stessa stregua di un contratto tra battezzati, talché il loro adempimento era totalmente lecito»,204 al punto che due mercanti ebrei del Marocco si presentano davanti al Santo Uffizio di Granada per denunciare la morosità di due captivi portoghesi ai quali avevano affidato 200 000 reali per un patto di cortados. Ma né i captivi né l’ambasciatore spagnolo in Marocco, a cui essi hanno prestato 12 000 onze per riscattare cristiani, intendono pagarli e i due si rivolgono al tribunale per ottenere un salvacondotto che consenta loro di venire in Spagna a regolare i propri affari e, nel frattempo, occuparsi del riscatto di altri cristiani schiavi in Barberia. Gli inquisitori vi acconsentono, ma solo per due mesi, nel corso dei quali avrebbero dovuto regolare tutti i loro contenziosi; scaduto questo termine, minacciano di «procedere contro di loro con tutto il rigore richiesto dalle leggi».205 Scrive Diego de Haedo: «Ci sono dei Turchi che hanno fino a venti e più di questi rinnegati, che chiamano in molti casi i loro figli e come tali li considerano. Da quando si fanno musulmani, concedono subito loro le lettere di
affrancamento, danno loro schiavi e denaro. Quando questi padroni muoiono senza eredi, dividono tra i loro affrancati i loro beni e le loro proprietà come si fa con i figli».206 Allo stesso modo il padrone eredita a sua volta dal suo schiavo affrancato se questi muore senza eredi. L’affrancamento (‘itq) crea un legame particolare tra padrone e schiavo, chiamato walā’, patronage. Sancito giuridicamente, questo rapporto patrono-cliente impone degli obblighi ai due contraenti: l’affrancato da quel momento non può essere né venduto né legato per testamento. Il walā’ al-‘itq, diritto del padrone sul suo affrancato, crea in effetti un legame di filiazione tra le due parti in virtù della tradizione profetica che fa dire a Maometto che «il walā’ è filiazione (nasab)» o ancora che «il walā’ è un legame la cui natura è identica a quella della filiazione».207 La prossimità e l’intimità tra padrone e schiavo produce una «fictive skin», che compensa lo schiavo della mancanza di relazioni parentali.208 Il termine ‘abd, schiavo, «viene sentito come improprio e rimpiazzato da circonlocuzioni e sinonimi quali ghulām, ragazzo, giovane [...] come spesso vengono chiamati gli schiavi affrancati. [...] Inoltre, gli schiavi addetti principalmente al lavoro domestico erano chiamati waṣī f , servi, parola riservata alle persone non libere. [...] Le schiave non venivano mai designate con il corrispondente termine arabo, bensì con jāriyah, ragazza, che diviene quasi un sinonimo di schiava e viene spesso rimpiazzato da waṣī fah, serva».209 Anche nella Roma antica gli schiavi nati in casa (vernae) sono designati dal prenome del padrone seguito dal suffisso “-por” ( puer) per sottolinearne l’inserimento nella famiglia del padrone,210 ma per ribadirne nello stesso tempo la minorità e l’appartenenza: un altro modo per disumanizzare lo schiavo, insieme alla violenza dei mezzi di correzione. Se la schiavitù è percepita come “morte legale”, la manomissione è descritta come “resurrezione”. Il manomissore dà la vita al suo schiavo rimuovendolo dallo stato servile: «la manomissione viene intesa come un atto di creazione [...] i manomessi sono chiamati “creature” del loro padrone»;211 lo schiavo dunque come figlio sostituto, come congiunto a cui vengono restituiti tutti i diritti, rendendo la sua condizione giuridica uguale a quella di un nato libero. Anche fonti cristiane ci parlano di “sindrome del buon padrone”: William Okeley scrive dell’algerino suo terzo padrone, presso cui trova «pietà e compassione», «amore e amicizia», «rispetto e tenerezza di figlio»: «Sentii nascere dentro di me uno scrupolo, anzi, presi a domandarmi se dovevo tentare davvero di fuggire dal mio padrone, una persona che nutriva per me un sincero affetto. In fondo, dove avrei potuto stare meglio? O migliorare la mia
condizione? In Inghilterra avrei potuto trovare una situazione peggiore [...]. Libertà è una bella parola, ma un uomo non può procurarsi un piatto di carne con una parola; schiavitù è una dura parola, ma non spezza la schiena a nessuno».212 Solo la considerazione che, alla morte di questo padrone, avrebbe potuto trovarne uno peggiore lo spinge a lasciare l’Africa. Difficile districare la “natura della cosa” e la “natura della persona” che convivono nello stesso individuo senza affidarsi alla documentazione archivistica, da cui emergono le azioni compiute da padroni e schiavi e che, nei momenti di conflitto, ci rimanda per lo più l’immagine di padroni malvagi e avidi e schiavi oziosi e inetti, di carnefici e di vittime.
1.12 La conversione come rinascita L’aspetto intimamente individuale della conversione religiosa ne fa un tema sfuggente, forse inattingibile alla ricerca storica, per l’assenza di fonti specifiche su questo fenomeno, per i numerosi silenzi che offrono le fonti biografiche, a meno di casi straordinari, come le celeberrime Confessioni di sant’Agostino. Qui egli ci mostra il suo tormento alla ricerca dell’origine del male («Il mio cuore soffriva come per i dolori del parto; e che gemiti mio Dio!»);213 non trova pace («io ribollivo dentro di me»),214 la sua coscienza è sottoposta a «pungoli segreti», «sempre ammalato e tormentato»215 si dilania in un violento combattimento che lo vede impegnato contro se stesso: «Lottavano tra loro dentro di me due volontà; una vecchia carnale, l’altra nuova spirituale e nel loro contrasto la mia anima si disfaceva [...]. Io ero il mio avversario»,216 scrive. Attraversa «tempestosi momenti di incertezza»:217 è un uomo diviso, posseduto da due volontà contrastanti,218 finché non ha l’esperienza folgorante e tremenda dell’illuminazione219 e, dopo un lungo pianto liberatore, «come per una luce rassicurante infusa nel [suo] spirito, tutte le tenebre dell’incertezza scomparvero».220 Ho citato diffusamente il caso di Agostino per accostarlo significativamente a quello di uno schiavo africano del XVIII secolo che, come lui, ci ha lasciato un’autobiografia che si sofferma con dovizia di particolari sullo stesso avvenimento. L’undicenne Olaudah (il nome, in lingua igbo “mutamento, fortuna”, ne segna il destino), della regione di Essaka nell’attuale Nigeria, viene
rapito da predoni africani insieme alla sorella. Attraversa una vasta regione fino al mare, dove lo attende una nave negriera che lo conduce nelle Indie occidentali per farlo lavorare in una piantagione. Venduto a un capitano della Royal Navy, che gli dà il nome di Gustavus Vassa, poi a un mercante quacchero di Filadelfia, ventunenne riesce a riscattarsi con il denaro racimolato con piccoli commerci e diventa un marinaio, gira il mondo e si imbatte in mille avventure. Poiché ha imparato a leggere e scrivere, Olaudah/Gustavus legge la Bibbia e tra le sue curiosità molte sono quelle di natura religiosa, che lo spingono a frequentare i quaccheri, approfondire i principi della Chiesa cattolica romana, avvicinarsi persino agli ebrei; «trovando coloro che si definiscono cristiani non altrettanto onesti o di buoni principi morali quanto i turchi, pensav[a] proprio che questi ultimi fossero su una via di salvezza più sicura»221 degli altri e progetta di stabilirsi in Turchia per questa buona ragione. Le delusioni del rapporto con gli uomini fanno sì che si rivolga frequentemente a Dio, lamentandosi della sua sfortuna; prende a bestemmiare, è turbato da visioni notturne. A Londra entra in contatto con un gruppo di preghiera calvinista, discute con il pastore, fa delle letture e, angosciato dal dubbio se ci si salvi per mezzo delle azioni o della sola fede in Cristo, giunge sino a concepire l’idea di suicidio. Sulla nave per Cadice, «cominciai a pensare – scrive – che avevo condotto una vita morale e che avevo buoni motivi di credere che avevo diritto al favore divino [...]. Il Signore mi fece la grazia di irrompere nella mia anima con i luminosi raggi della luce celeste e in un attimo, per così dire, squarciando il velo [...] vidi chiaramente il Salvatore sanguinante sulla croce del monte Calvario. Le Scritture divennero un libro aperto. [..] Mi fu concesso in quel momento di sapere cosa significasse rinascere».222 Comprendiamo ora alla luce della storia personale della grazia di Gustavus quello che detto da sacerdoti e uomini di chiesa appare ipocrita: la schiavitù come mezzo attraverso cui si esplica la Provvidenza. Il nostro ex schiavo, prima in crisi di coscienza e alla ricerca della vera fede, riceve una particolare, vivida comprensione della sua esperienza: «Ora ogni principale circostanza provvidenziale accadutami, dal giorno in cui fui strappato ai miei genitori fino a quel momento, era sotto il mio sguardo come fosse avvenuta in quel preciso istante. Sentivo l’invisibile mano di Dio che mi guidava e mi proteggeva quando in verità non lo sapevo [...], ora il negro voleva essere salvato da Gesù Cristo».223 Sente avvenire una metamorfosi radicale, pervaso di gioia e di dolore, piange e prova un’angosciosa preoccupazione per la madre, gli amici e i non convertiti del mondo «senza Dio né speranza».
Non tutte le conversioni sono così ben documentate, non tutte hanno le stesse motivazioni. Non possediamo il tipo di fonte che possa farci rendere conto dell’illuminazione utile per il cambiamento di religione, che si dimostra in ogni caso un processo lungo e reversibile; per le conversioni dei nostri schiavi mediterranei dobbiamo accontentarci di notizie frammentarie, spesso indirette.
1.13 «Turchi di professione»: i rinnegati «La tentazione di rinnegare è inversamente proporzionale alla speranza di libertà.»224 La prospettiva di una schiavitù perpetua, qualora non si possano far giungere notizie alla famiglia o si finisca nei più sperduti luoghi dell’interno, oppure il desiderio di alleviare le sofferenze della schiavitù spinge molti captivi cristiani a “prendere il turbante” e, dunque, a “farsi turchi”, con vantaggi non indifferenti sulle proprie condizioni di vita. Possono essere molti i motivi che spingono a rinnegare: otto ne descrive con finezza Pierre Dan, trinitario francese che, a causa della sua attività di redentore, ha potuto lungamente osservare le condizioni dei captivi in terra d’Africa. L’insofferenza verso i lavori estenuanti e la speranza che, diventando maomettani, possano venire loro risparmiate le fatiche più dure spingono molti ad abiurare. In effetti, un rinnegato continua a essere schiavo e può essere ancora venduto dal padrone oppure riscattarsi da solo, pur tuttavia viene subito liberato dalle catene e tolto dai bagni. La paura di non essere più riscattati dalle famiglie e di dover restare in ceppi per tutta la vita, la scarsa fede religiosa che impedisce di considerare che Dio infligge loro queste pene per renderli meritevoli di ricompense future, la vendetta verso qualche turco che li ha maltrattati (a un cristiano, libero o captivo, non è consentito alzare le mani contro un turco, pena la morte), l’essere venuti alle mani con altri cristiani – e dunque non conservare rapporti di solidarietà con il gruppo dei compagni di prigionia – sono motivi sufficienti per l’abiura, che li sottrarrà alle pene di giustizia, ai lavori più usuranti e alle vendette degli ex correligionari. Divenuti turchi non Sarà più un reato avere percosso o ferito un cristiano. Un altro motivo sta nell’impossibilità o nella cattiva volontà di pagare il dovuto a un altro cristiano: l’adozione della legge coranica scioglie dai debiti contratti con non musulmani. Una conversione d’urgenza può evitare la morte se si è stati colti in flagrante relazione carnale con donne more dai loro mariti, padri, fratelli.
La sensualità gioca un ruolo non secondario: alcuni padroni di fronte all’avvenenza dei loro schiavi li persuadono ad abiurare, con la promessa di dar loro in sposa le figlie. L’ambizione può essere una spinta alla persuasione: si vedono donne turche che danno parte dei loro averi agli schiavi per spingerli ad abbandonare la loro fede; è anche frequente che dame di alta condizione sposino i loro schiavi per guadagnarli con quest’opera meritoria alla propria religione.225 Tutte le ragioni esposte dal trinitario francese sono la causa della rovina di molti schiavi e della loro condanna eterna. Dio ha una stima particolare per i giusti e perciò li mette alla prova: la virtù si rafforza nelle avversità e Dio permette che i suoi figli siano schiavi dei suoi nemici per far sì che questi ne ammirino la pazienza incomparabile, li prendano come esempio e siano spinti ad abbandonare i propri errori.226 In altre parole, la schiavitù ha la funzione di rafforzare l’animo dei cristiani, di evangelizzare gli infedeli, di fronteggiare la brutalità dell’anima dei maomettani, persuasi che l’uccisione di un cristiano guadagni loro le delizie promesse in cielo. Padre Dan ha accenti violenti nei confronti dei musulmani: «impostori e falsi religiosi» praticano «cerimonie barbare» e «superstizioni ridicole»; i corsari usano sacrificare montoni per auspicio di buone prede e olio per calmare le tempeste, ma quando le loro pratiche magiche e superstiziose non bastano, ordinano agli schiavi cristiani delle loro navi di fare voti alla Madonna, a san Nicola o a qualunque altro santo possa proteggerli dal pericolo incombente.227 Molti cristiani si arrendono alle violenze subite e abiurano, molti lo fanno solo in apparenza, vestendosi da turchi, ma non frequentano le moschee, non essendone d’altronde obbligati; molti gli confidano di odiare il turbante che portano sul capo e di continuare a nutrire, anche dopo molti anni, la speranza della fuga.228 Ma come ci sono i “mori di bocca”, ci sono anche “i mori di cuore”, rinnegati volontari, i peggiori nemici dei cristiani: più crudeli degli stessi turchi, perdendo la fede hanno perso la loro umanità.229 Quando rinnegano sacerdoti e frati, il giubilo dei mori è alle stelle, il morale dei captivi sotto terra: «tentati dal diavolo, ardirono temerariamente e sfacciatamente non solo lasciare l’habito del quale n’erano indegni, ma rinegar anche la santa fede cristiana, anzi l’istesso lor Creatore e redentori, abbracciando quella sporca, nefanda e bestiale e diabolica legge maomettana, facendosi turchi».230 Così quando il padre guardiano scopre gli abusi operati da Paolo da Nicosia, vicario della custodia di Terrasanta, costui viene privato del vicariato e rimpatriato; ma, arrivato a Famagosta, sull’isola di Cipro, viene fatto schiavo e messo al remo. Giunta la sua galera ad Alessandria, i suoi confratelli cercano
con ogni mezzo di riscattarlo, mobilitando consoli e mercanti, predisponendo il denaro per il suo riscatto e consegnandolo al pascià del luogo onde ottenerne «la solita carta di libertà»; ma Paolo, «oppresso da un chimerico timore, et accecato et ottenebrato dal diavolo, dubitando haver da patire nella religione molti travagli et afflizioni per il furto e per la spesa fatta per li suoi capricci [se ne era stato in giro per sette mesi prima di raggiungere da Venezia la destinazione di Gerusalemme] risponde al Bassà che voleva risolutamente farsi turco».231 Rinnega davanti al qādī la fede cristiana, gira per la città in groppa al cavallo «con pompa e festa di nacchere, tamburi e archibugiate, benché con molta confusione dei nostri poveri cattolici, ritornato tutt’allegro in palaggio, lo fè il Bassà tosto circoncidere; onde, e per il dolore del taglio del prepuzio, e per l’effusione del sangue che gli sopravvenne, in tre giorni se ne morì miseramente, e in tal guisa pagò tosto la pena del suo fallo».232 Questo di Paolo da Nicosia non è un caso isolato. In verità, prendendo le distanze dalle invettive del trinitario Dan, dalle dichiarazioni di alcuni rinnegati non si riesce a dedurre una conversione all’islam in senso stretto, quanto piuttosto un certo sentimento di indifferenza, una certa tiepidezza religiosa sia verso il cristianesimo, sia verso l’islamismo e talvolta una specie di mescolanza tra le due religioni, considerate, in fondo, equivalenti.233 «L’apostasia – è stato scritto – non sembra provocare gravi conflitti di coscienza nella maggioranza dei rinnegati.»234 L’abiura nella maggior parte dei casi documentati sembra anche l’effetto di un sentimento religioso tiepido (quando non di indifferenza religiosa tout court ).235 Nel Mediterraneo, d’altronde, tutto transita e si muove, niente resta uguale a se stesso: la mobilità è geografica, sociale, religiosa; il secolo d’oro della corsa è anche il secolo d’oro dell’apostasia, il cui rischio è sempre dietro l’angolo e compare in alcune lettere di captivi siciliani tra i motivi di sofferenza fisica e psicologica. Nardo Zumbico a Biserta è schiavo di un giannizzero che possiede già due schiavi rinnegati con cui va in corsa: «et me dicino fatti moro pero io dio me ne guardi che meglio voglio moriri che io lassari la mia fidi che spero che la nostra donna di trapani me darra la sua santa gracia».236 «Ca ogni giornu mi mangianu la testa che volissi arinegari», scrive Natalino Russo alla madre, e aggiunge drammaticamente: «Si io moru cà, moru dannatu».237 Quando vogliono, i turchi usano degli stratagemmi per persuadere gli schiavi a rinnegare – sempre a quanto scrive padre Dan – innanzitutto le minacce fisiche, poi le blandizie: li invitano a mangiare un pasto abbondante, poi
vedendoli di buon umore tra piatti e bicchieri, ubriachezza e deboscio, mettono loro un turbante in capo e, facendo alzare l’indice verso il cielo, inducono a pronunciare la formula di rito. L’indomani il poveretto si sveglia con il cranio rasato e riceve gli ossequi dei suoi compagni di bisboccia238 i quali, se vengono smentiti, sono pronti a condurlo presso il loro muft ī , giudice della legge coranica, a cui danno la loro versione dei fatti e l’ingenuo neoconvertito, rischiando una condanna al rogo per essersi preso gioco della religione musulmana, finisce per ammettere pubblicamente di avere rinnegato di sua volontà. Per questo è meglio sfuggire la compagnia dei mori e rifiutare i loro inviti. Altro stratagemma è quello di introdurre una donna disonesta nella camera del cristiano; trovato insieme a una musulmana, egli rischia una condanna al rogo, la donna di essere gettata in mare dentro un sacco. Non resta dunque che rinnegare se si vuole salva la vita. «Queste maledette creature si servono di tutte le seduzioni e di tutti gli artifici immaginabili»239 e si sa come la carne sia debole, commenta consapevole il trinitario. Sembrerebbe qui che si eserciti una certa pressione alla conversione. Ma questo non sempre è vero, anzi: poiché un rinnegato non può più essere venduto a un cristiano, l’abiura limita il valore commerciale dello schiavo e i padroni algerini, ad esempio, disincentivano a suon di legnate l’apostasia, mentre a Tunisi questa possibilità è maggiormente incentivata.240 Gli schiavi rinnegati valgono meno dei cristiani e i padroni resistono alla richiesta, anche perché perdono ogni speranza di ottenere un riscatto e per la stessa ragione i contatti tra rinnegati e cristiani sono assolutamente sgraditi ai padroni per l’influenza e la persuasione che i primi possono esercitare sui secondi. Alcuni missionari che svolgono il loro apostolato nel Maghreb sottolineano, al contrario di altri e di quanto scrivono i nostri schiavi nelle lettere citate, la scarsa violenza esercitata dai turco-barbareschi nei confronti dei cristiani che vogliono rinnegare. Non è facile essere accettati nella nuova religione; gli schiavi che vogliono rinnegare sono considerati bugiardi, disposti a tradire, capaci di trasgredire i precetti coranici, per cui in molti casi si vuole verificare la sincerità della nuova fede religiosa. Agli inizi del Seicento, don Diego da Napoli, monaco cassinese e schiavo a Tunisi, scrive: «Accade che molti Christiani scelleratissimi tentino di farsi Turchi contro la volontà del padrone, il che a nessuno è permesso, anzi sogliono averlo per male, e massime quando lo schiavo è utile al remo o ad altro mestiero che lo fanno mettere in catene, e con battiture e altri maltrattamenti [...] vedendosi in disgrazia de’ Turchi, e malvisti dalli Christiani ricorrono alla scusa d’haver peccato tentati dal Diavolo».241 I
rematori usualmente non sono rinnegati. D’Aranda racconta di un rinnegato che a bastonate viene fatto ritornare alla sua religione da Alì Pegelin.242 La casistica, come si vede, è estremamente variegata, e padre Dan ha difficoltà a fare rientrare ogni caso dentro la sua formulazione generale. Inoltre, traspare frequentemente una condizione di «relativa libertà religiosa di cui sembrano godere i rinnegati: mai emerge a carico dei turchi l’accusa di imporre, successivamente all’atto di apostasia, l’osservanza quotidiana della loro fede», tanto da far dire a uno di loro di avere deciso, falliti i tentativi di fuga, di restare fra i turchi e «godere di quella libertà»243 di coscienza. Ma quanti sono questi rinnegati? Difficile conoscere l’entità del fenomeno: nel 1580 Diego de Haedo ne conta ad Algeri 6000, che raggiungono gli 8000 (di cui 1200 donne) nel calcolo che ne fa padre Dan nel 1630. Algeri, «città piena di anime e di abitazioni come un ovo», conterebbe 130 000 anime di cui 20 000,244 forse 30 000245 o addirittura 35 000246 schiavi cristiani. Tra 20 e 25 000 sono captivi ad Algeri tra il 1580 e il 1620.247 A Tunisi se ne contano 3-4000 in totale (6-700 donne), ma c’è chi dice che siano 10 000,248 un centinaio a Tripoli. Un captivo inglese afferma che ce ne sarebbero stati 12 000 solo a Meknés, nei primi decenni del Settecento.249 Più disposti a rinnegare gli elementi più deboli e meno provvisti di denaro e relazioni o, per converso, i più audaci e ambiziosi; da un lato quelli che nel timore di non essere riscattati preferiscono perdere la vita dell’anima per salvare quella del corpo, dall’altro quanti vedono nell’abiura la possibilità di tentare la fortuna nelle reggenze o nel Levante, acquisendo onori e ricchezze. Inoltre, nell’età della Riforma e della diffusione delle idee luterane forte è il richiamo dell’islam da parte di uomini «allettati da una vita senza punizione» per i reati commessi (debiti, risse, diserzione), ma anche desiderosi di una religione più libera. Non va dimenticato però che nel Corano è scritto: «Non vi sia costrizione nella fede: la retta via ben si distingue dall’errore»,250 e che in questi paesi non esiste un tribunale di fede analogo al Santo Uffizio per controllare l’ortodossia religiosa dei propri fedeli. Poco disponibile all’avventura d’oltre oceano, la cristianità dell’area mediterranea spinge i suoi uomini verso l’Africa, un mondo caratterizzato dalla mobilità sociale che apprezza il coraggio, l’intraprendenza, l’ambizione. Niente di simile avviene sull’altra sponda dove il turco apre le porte, mentre il cristiano chiude le sue. La mobilità sociale caratterizza le città barbaresche, dove tra il 1453 e il 1623 su quarantotto visir, pascià, bey, trentatré sono rinnegati: Ḥasan Agha‚ eunuco e re di Algeri dal 1533 al 1543, è sardo; Asta Morato, bey di Tunisi nel 1637, è un
ligure; Mami genovese come Scipione Cicala; calabresi Ucciallì Pascià, re di Algeri dal 1568 al 1571 e Yūsuf, qādī di Tlemcen nel 1556; veneziano Alì Piccinino, padrone di Algeri dal 1638 al 1645, come Ḥasan Pascià, per tre volte re di Algeri e come Cecilia Baffo, figlia naturale del veneziano Nicolò Venier, la quale, presa a dodici anni, va sposa al sultano Sal īm III e diviene madre dell’erede dell’impero turco.251 Ben documentato il caso del nobile portoghese Sebastian Paez de Vega che, divenuto al-Qāyid Sulayman, secondo solo al sultano di Fez negli anni 1607-1608, vissuto nel lusso orientale degno di un principe, elenca le favorite del suo harem composto da ottantaquattro schiave e i figli che gli hanno dato. Scudiero di Mūlāy Xeque, Sulayman sei anni più tardi comanda 1500 cavalieri, è percettore delle imposte reali e delle tasse sulle merci, responsabile del pagamento del soldo ai soldati del re. In una parola è il tesoriere del sultano e il suo più potente favorito.252 Si possono costruire carriere nelle cariche pubbliche, nell’esercito e soprattutto nella corsa. Le città barbaresche in particolare attraggono non solo debitori insolventi o ecclesiastici pentiti, disertori dei presidi spagnoli in terra d’Africa, ma anche chi vuole fare fortuna; di esse si parla come di un Eden di libertà sessuale (praticata la poligamia, largamente consentito il concubinato, tollerata la sodomia253), di prosperità e di abbondanza. Riprovati dalla Chiesa come “ignobili”, “abietti”, senza onore, i rinnegati sono però “fabbri della loro fortuna”. «È cosa veramente degna di molta considerazione – scrive un funzionario veneziano venti anni dopo Lepanto – che le ricchezze, le forze, il governo, ed insomma lo stato tutto dell’impero ottomano sia fondato e posto nelle mani di gente tutta nata nella fede di Cristo; la quale per diversi modi è fatta schiava e tramutata nella setta Maomettana.»254 I rinnegati rendono «l’incredibile popolo di Algeri»255 assolutamente cosmopolita, composto com’è di moscoviti, valacchi, bulgari, polacchi, ungheresi, boemi, tedeschi, danesi, norvegesi, scozzesi, inglesi, irlandesi, fiamminghi, borgognoni, francesi, navarrini, aragonesi, catalani, maiorchini, galleghi, sardi, corsi, siciliani, calabresi, napoletani, toscani, genovesi, savoiardi, lombardi, veneziani, slavoni, albanesi, bosniaci, greci, candioti, cretesi, ciprioti, siriani, egiziani, abissini, e persino indi dei possedimenti portoghesi e spagnoli del Nuovo mondo. E cosmopolite sono Fez e Marrakech, Tunisi e Tripoli, ma soprattutto Istanbul.
1.14 Principi per un giorno La cerimonia con la quale si sancisce il passaggio alla nuova religione è abbastanza semplice: basta pronunciare la shahādah, formula della professione di fede («La Illaha illa’ Allahu ua Muhamad razul’ Illahi», «Non v’è Dio che Allah e Maometto è il suo profeta»), alzando l’indice della mano destra verso il cielo, prendere un nome musulmano, farsi circoncidere e partecipare alle preghiere collettive. Luca D’Angelo di Capri, nel 1601, confessa che è bastato pronunziare parole «quale usano in legge loro, cioè “la ila ilala Mahometta resulala” – e aggiunge – et me posero nome Mamut, et me circoncisero et retagliaro, et stando dentro lo serraglio faceva come facevano l’altri che haveano renegato, che andavano a una certa casa dentro lo serraglio dove se aquattano, e poi s’alzano, et uno davanti grida in lingua torchescha che non so che si diceva et io faceva come facevano l’altri».256 Quanto più di rango è il personaggio che si converte, tanto più la conversione rappresenta un fatto politico. Quando il marchese di Sangiuliano, il catanese Orazio Paternò Castello, fuggito a Tripoli dopo avere ucciso per gelosia la giovane moglie, o frate Alipio da Palermo, catturato nel luglio 1643 da corsari tripolini, si convertono, la loro conversione viene accolta «con giubilo universale» della città e «con straordinario scorno» dei cristiani, tanto più che l’esempio del frate è seguito da altri due schiavi. Anche sotto l’aspetto cerimoniale occorre distinguere tra rinnegamento subito e conversione volontaria. Il primo, sottratto allo sguardo pubblico, avviene con discrezione a casa del padrone. La conversione volontaria, invece, è ritualizzata pubblicamente con una cerimonia in pompa magna (questi rinnegati vengono chiamati ad Algeri benvenuti): «Solenne e festiva, essa impegna nel suo svolgimento tutta la città. Al contrario della “cattiva” conversione, quella “buona” è dunque mostrata, esibita, messa in scena come lo spettacolo di celebrazione di una vittoria; da qui il suo carattere di ordalia, vale a dire di una cerimonia dimostrativa nella quale deve prorompere la verità di una religione superiore e la prova della sua universalità attraverso l’esame del passaggio riuscito del neofita».257 Di norma la cerimonia ha inizio all’ingresso di una moschea o di un luogo sacro, dove viene introdotto il neofita, il cranio rasato, ad eccezione di una ciocca, il corpo purificato dalle abluzioni rituali, mutati gli abiti, indossato il turbante.258 Uscito dal luogo sacro, il “moro di cuore” viene fatto montare su un cavallo, con una freccia (o una “bacchettina”) impugnata con
la mano destra: lasciare cadere la freccia è un atto grave, dimostra che il passaggio alla nuova fede non è sincero. Un corteo si forma al suo seguito, con un porta-stendardo, circondato da una scorta di giannizzeri con le scimitarre sguainate e agitate verso il cielo. La marcia è ritmata lungo tutto il tragitto dalla banda militare, al suono di tamburi e oboe, mischiando aspetti delle processioni reali e di quelle nuziali, simboli politici, sociali e religiosi. «Principe per un giorno, il neofita è applaudito, accolto, osannato dagli abitanti delle strade attraversate, come un eroe»;259 uno schiavo ad Algeri definisce la cerimonia di cui è testimone come un formidabile strumento di integrazione, a partire dal quale il neo convertito riceve proposte di lavoro e persino di matrimonio.260 Le donne devono contentarsi di un rituale privato, domestico, che comprende abluzioni rituali, preghiere e una sforbiciata ai capelli, come accade per prepararsi alla cerimonia di nozze. L’affiliazione religiosa equivale al matrimonio con la ummah, la comunità di adozione. La circoncisione maschile, nonostante non sia un’imposizione coranica, viene praticata come «vera operazione di magia sociale» che trasforma in maniera definitiva la condizione del neofita: il passaggio da dār al-kufr a dār alislām, dalla condizione di cristiano a quella di musulmano, frequentemente dalla condizione di asservito a quella di uomo libero. Ma non è raro il caso in cui proprio l’emorragia o l’infezione causate dall’intervento chirurgico siano considerate come il castigo divino per il peccato di apostasia appena commesso. Il francese Mouette, catturato a diciannove anni e rimasto per undici anni in cattività a Fez e Marrakech, scrive nottetempo, rubando qualche ora al sonno, una relazione in cui anziché compiangere la propria sfortuna, come fanno gli altri che ne hanno scritto prima di lui, mostra di sopportarla con rassegnazione: il suo intento è di ringraziare la volontà divina che lo libera proprio quando ne aveva del tutto perduta la speranza. La relazione, ricca di descrizioni dei luoghi che ha conosciuto e di quanto ha imparato della società che lo ospita, spiega al suo presunto pubblico francese i fondamenti dell’islam, facendo intendere la facilità del passaggio dal cattolicesimo all’islam.261 Sono numerose e convergenti le testimonianze che ci avvicinano alla comprensione delle ragioni e dei modi del transito da una religione a un’altra.
1.15 Senza Dio né Mahoma
Ricapitolando, possiamo definire rinnegati quei captivi che abbracciano la religione musulmana e la schiavitù come l’occasione per transitare dal cattolicesimo all’islam – ma rinnegano anche ebrei, luterani, calvinisti, anglicani. In qualche caso il passaggio avviene più volte, in concomitanza con il valico delle frontiere tra il mondo musulmano e quello cristiano. Nelle fonti ecclesiastiche rinnegano i deboli che preferiscono perdere l’anima pur di salvare il proprio corpo e gli ambiziosi che vogliono conseguire onori e ricchezze irraggiungibili nel loro paese. Entrambi peccano! Rinnegano anche preti e frati, gettando nella costernazione gli altri schiavi che contano sul conforto religioso per restare saldi nella propria fede. Per scongiurare il pericolo dell’apostasia la Chiesa ha fretta di intervenire a riscattare i cristiani in mano ai turchi, ma soprattutto a dare assistenza religiosa dentro i bagni. Ad Algeri c’è una mezza dozzina di cappelle e di chiese dove all’alba viene celebrata la messa, si somministrano i sacramenti, si insegna la dottrina; i peccati più comuni sono maledizioni, blasfemia, ubriachezza, sodomia. Prima del 1650 sono preti, schiavi o liberi, a occuparsi dell’assistenza spirituale e del servizio religioso nei bagni; più difficili i contatti con gli schiavi domestici, soprattutto fuori dalle città, e con i condannati a morte. I religiosi seppelliscono i morti nei cimiteri cristiani sin dalla metà del XVI secolo con corteo funebre e orazioni. Nei tredici bagni di Tunisi, nel 1677, tra le migliaia di schiavi si trovano ventisei sacerdoti secolari e regolari di vari ordini con la funzione di dare “il sollievo” della religione a quei poveri afflitti. I sacerdoti vengono mantenuti dagli stessi schiavi, i quali raccolgono elemosine per pagare al padrone il corrispettivo del mancato guadagno del religioso, che può così occuparsi del loro conforto spirituale e preti e frati svolgono usualmente il loro ufficio con grande abnegazione e spirito di sacrificio.262 Molti religiosi, secolari e regolari finiscono in cattività e a loro dobbiamo numerosi resoconti di schiavitù e descrizioni di luoghi e costumi.263 Senza sottrarre nulla alla dura giornata di lavoro, la vita religiosa degli schiavi si svolge nottetempo e con grande discrezione, ma è ugualmente ricca e vivace se, la vigilia dell’8 dicembre 1641, nel bagno di Algeri si mette in scena una sacra rappresentazione in spagnolo, a cui assistono anche gli schiavi che non vivono nel bagno, i quali per l’occasione si fanno concedere dal padrone il permesso di dormire fuori casa. La cerimonia in onore della Madonna Assunta del 15 agosto 1641 tra i captivi di Algeri si trasforma in una bagarre a causa del conflitto tra spagnoli e portoghesi: questi ultimi in patria si sono rivoltati e resi indipendenti dalla Corona spagnola, a cui erano uniti dal 1580. Dunque,
giungono notizie dalla patria e se ne propagano i conflitti.264 Di fronte agli sforzi virtuosi di chi vuole conservare la fede, nella letteratura europea i rinnegati in quanto apostati sono dipinti come «demoni dell’inferno», «nemici di Cristo» e «figli del diavolo»; «gente estremamente cattiva, perché non credono né a Dio né a Mahoma; in pubblico sono mori e in segreto demoni; sono blasfemi, giocatori, ladroni, incostanti, amici delle donne e oltre del peccato nefando non c’è vizio che non abbiano, infine sono traditori del proprio Dio».265 Il rinnegato è considerato nella pubblicistica coeva l’essere più spregevole della terra, il “mostro” che ha abbandonato la legge di Cristo per seguire la falsa dottrina maomettana. «Turchi di professione» – come li chiama il redentore Diego de Haedo per distinguerli dai «Turchi per nascita» –, rifiutano la schiavitù perché sono pusillanimi e abbandonano la loro religione «per il piacere della vita libera e dei vizi della carne dove i Turchi vivono».266 Rinnegano facilmente i fanciulli educati nella casa del padrone e le donne che il matrimonio con un musulmano affranca dalla schiavitù, i poveri che in Barberia hanno trovato l’agiatezza, i disertori dei presidi spagnoli, attesi in patria dalla pena capitale. «Sogliono li Turchi e Mori – scrive un padre trinitario – prendere d’ordinario quei poveri ragazzi che servivano nelle navi e quei che nelle marine cristiane guardavano le pecore, che nei loro paesi non avevano che mangiare né che vestire, accarezzarli e lusingarli, e vedendosi adornati di sete con abbondanza di cibi e amati dal padrone, li pare gran felicità di rinnegare la fede in Cristo, la cui dottrina non avevano ancora ben appreso.»267 E i cristiani sanno bene che c’è un’altra insidia alla fede, poiché «con Turca viene Mahoma»; l’attrazione per una donna del posto può facilmente gettare un cristiano tra le braccia di Maometto: «il demonio che agitava le sue notti e lo trascinava verso l’Islam assumeva le sembianze di donna che gli parlava di libertà», confiderà un captivo ai suoi compagni.268 Giovanni le Vacher, scrive nel 1651 da Tunisi: «In quelle parti di Barberia si trovano moltissimi Christiani che non hanno mai ricevuto il Sacramento della Cresima; e [...] forse per mancare dell’effetti d’esso, viene che molti Christiani tanto facilmente abandonano la loro fede in Barberia».269 Questi «nemici di Cristo», destinati all’inferno, si accaniscono contro i cristiani con furia maggiore di quella degli stessi mori: «l’ira dello schiavo convertito in oppressore»270 genera sentimenti di crudeltà, odio, vendetta, disprezzo e risentimento verso chi pratica altra fede che non sia quella maomettana, per dimostrare al padrone la sincerità della propria conversione; sono i più accaniti nella persecuzione dei cristiani, contro cui lanciano i peggiori insulti (canes, perros, cornudos, canalla, traidor, enemigos de Dios, enemigos
de Mahoma, maldita sea tu ley y tu fe, maldito el Dios que adora y crees ecc.), sempre disponibili a bastonarli e tormentarli. Cane, raddoppiato anzi in cane perro, è l’insulto più comune per gli schiavi musulmani in terra cristiana, ma anche degli schiavi cristiani in terra musulmana e per gli ebrei ( perro judío) in entrambi i territori. L’insulto gode di lunga tradizione se già i Capitula regni Siciliae, emanati da Federico III nel 1310, vietano di chiamare i servi con l’ingiuria di canes renegatos, riservata secundum usum loquendi ai non cristiani.271 Il cane è per definizione l’infedele: c’è un nesso molto forte tra «l’incomprensione delle verità cristiane, una pervicace stupidità, analoga a quella degli animali, a sua volta contrassegnata da una vita “bestiale” [bestialis vita], e la scostumatezza impenitente ovvero la vita scandalosa di chi non può accedere a forme di superiore intelligenza».272 Si può risalire ai padri della Chiesa che riferiscono l’epiteto all’ebreo, figlio di Caino, riluttante a credere alle verità cristiane; il termine si allarga successivamente a indicare tutti gli uomini che «non possiedono lo spirito» e perciò si separano dal consorzio umano, in quanto “animali”.273 Per ciascuno quelli dell’altra religione. I cristiani captivi trovano talvolta un inatteso aiuto presso coloro che hanno abiurato senza vera convinzione, anzi, i rinnegati proteggono gli schiavi del proprio paese, li difendono dalle punizioni eccessive, li soccorrono, li difendono dagli abusi. Se poi il captivo viene riscattato, si ricorderà dell’amico o del parente rinnegato lasciato in Barberia, che a sua volta lo favorirà in intraprese commerciali, fungendo da agente, procacciatore di affari e intermediario. Quelli che rinnegano “di bocca”, senza una profonda convinzione, costituiscono «un vero partito di rinnegati»;274 la solidarietà al loro interno viene cementata da una stretta endogamia: il matrimonio, infatti, viene considerato un affidabile strumento di integrazione; aderiscono alla poligamia, praticano la sodomia, si arruolano nell’esercito, possono raggiungere grandi livelli di ricchezza e di prestigio. Le nozze uniscono famiglie di rinnegati e rinforzano le comunità di cristiani islamizzate, spesso gruppi di pressione e vere e proprie lobby di potere. Un “circolo di capresi” è stato messo in luce attorno al rinnegato Amato di Capri, figlio del marinaio Domenico di Perto di Anacapri, che a Tunisi raggiunge un grado elevato nella milizia dei giannizzeri e riesce facilmente a fare liberare i captivi del suo paese (tra cui il cognato), traffica in grano in collaborazione con mercanti ebrei, livornesi e veneziani, ma anche con i riscatti, se «fra il 1622 e il 1637 passano per le mani del nostro almeno una cinquantina di schiavi, provenienti da varie località del Mediterraneo. Per alcuni Amato fa solo da intermediario, anticipando l’importo del riscatto ai proprietari,
intascando poi una provvigione e lucrando sul cambio. Altri schiavi li detiene e vende personalmente, altri ancora li scambia col solito sistema “testa a testa”».275 Insieme al gruppo di capresi, una società di schiavi o rinnegati acquista e vende navi, ma soprattutto schiavi. Proprio così: «schiavi che anticipano somme per riscattare altri schiavi»,276 legati a doppio filo con rinnegati della loro stessa origine e con i parenti rimasti in patria. Ferraresi e corsi a Tunisi, maiorchini ad Algeri, portoghesi a Marrakech, andalusi a Fez, l’entourage di fiamminghi a Salé, attorno a Jan Janssen, diventato Morat Raìs, rappresentano dei veri e propri agglomerati di rinnegati, schiavi, mercanti che fungono da reti affaristiche e gruppi di pressione che si diramano per tutto il Mediterraneo. L’appartenenza etnica cementa solidarietà tra schiavi ed ex schiavi nella società ottomana, dove nel XVII secolo albanesi e bosniaci mantengono un forte ascendente politico e mobilitano i circoli di governo e di palazzo contro «gli occidentali».277 Non è escluso che circoli affaristico-mercantili possano occultare reti spionistiche. Quando Barthulo Marcelo Oliva, alias Xanan, marinaio all’epoca sessantatreenne, viene condotto di fronte al Santo Uffizio a Palermo, è accusato di essere bigamo e di avere rinnegato. Nato a Marsala, Barthulo è catturato all’età di tredici anni e, portato a Biserta, viene comprato da un rinnegato siciliano che dopo quattro anni riesce a farlo abiurare. Inviato in corsa contro i cristiani, racconta di essere riuscito a fuggire una prima volta. Tornato in corsa contro i turchi, viene nuovamente preso e condotto a Biserta; rinnega nuovamente e va in corsa questa volta nel Levante. Dopo altre rocambolesche avventure, inviato a Trapani per catturare i cappuccini di un certo convento, viene fatto prigioniero, ma cerca di persuadere i giudici che aveva intenzione di fuggire. In questo via vai, ha una moglie a Marsala, cristiana, e una in Barberia, e anche per questo il tribunale lo condanna nella vigilia di Natale del 1614 a partecipare a un’autodafé, ricevere cento frustate e trascorrere sette anni al remo. L’esecuzione viene però sospesa alla vigilia perché un biglietto viceregio informa che il re ordina di consegnarlo alle sue milizie. I soldati lo prelevano l’indomani e lo imbarcano per chissà dove.278 Tutti questi suoi viaggi può averli fatti al segreto servizio del re di Spagna che ha ancora bisogno di lui.
1.16 Martiri captivi
Nonostante gli insulti, le bastonate, le fatiche, gli stenti, le angustie, molti cristiani rifiutano di rinnegare, tanto che la letteratura spagnola, da Calderón de la Barca a Miguel de Cervantes, celebra la “fede di ferro” dimostrata da molti captivi.279 Tuttavia, c’è anche la possibilità di mantenere la propria fede in schiavitù, senza troppi drammi, senza l’obbligo di rinnegare, usufruendo all’occorrenza del conforto religioso. Ma, nel caso in cui si abiuri, avere ripensamenti è estremamente rischioso, perché diventa apostasia dell’islam, con conseguenze esiziali. Sono numerosi gli esempi di rinnegati che si pentono e si tolgono il turbante, andando incontro a morte certa.280 Da Noto proviene un Antonio di cui possediamo unicamente la breve agiografia raccolta dal gesuita Ottavio Gaetani. Questi riporta la versione della Vita di Antonio da Noto scritta dal presbitero Antonio Duca che racconta di avere appreso da Antonio Alemanno, cittadino di Cefalonia, i fatti che narra «brevemente e fedelmente». I pirati, che con assidue incursioni devastano le coste della Sicilia, catturano inaspettatamente Antonio: fustigato, messo ai ferri e atterrito dalle torture e dalle minacce di morte, egli non abiura. Vedendo il giovane prigioniero di animo irremovibile e fermo davanti ai tormenti, promettendogli libertà, ricchezze, fanciulle bellissime, lo costringono alla loro «turpissima superstizione».281 «Esecrata quindi la fede in Cristo, edotto nella barbara lingua e nei costumi perversi e corrotti, secondo l’uso dei Mauri, divenne Magrabito [Marabutto] e preferiva alle altre leggi quella della setta di Maometto e la professava con l’esempio di vita insozzata di ogni colpa e vizio e con la predicazione, per cui i seguaci di Maometto lo prediligevano e lo consideravano un beato e un secondo Maometto. Avendo trascorso per quarant’anni una vita miserabile da fangoso maiale, infine, ritenendo nel profondo del suo animo che tutti coloro che sono nati dalla terra devono ritornare alla terra, elevava l’animo dagli schifosissimi altari dei porci al cielo. [...] Pentito dei crimini compiuti, deposte le vesti secondo l’uso dei Mauri, si reca dal primo sacerdote, che allora dimorava nella nobilissima città di Cartagine, supplicandolo con preghiere di accoglierlo nel seno della Chiesa per fare penitenza. [Ricevuto il perdono] ritorna a Tunisi dove [...] il re ordina che sia trascinato in un carcere orrendo per le tenebre e il luogo. Coloro che venivano là per vederlo restavano ammirati ogni notte per uno splendore sceso dal cielo e per la soavità dell’odore, ma vedevano che Antonio rifiutava del tutto i cibi portati dai Barbari e si dedicava solo alla preghiera. Infine il re, comprendendo che quello di giorno in giorno diventa più ardente
di fede in Cristo fa sgozzare Antonio, che tiene le mani e gli occhi alzati al cielo e affronta alacremente la morte per la Verità. [...] Invero, dopo avere sgozzato Antonio, gli insensati Barbari colpiscono con le pietre il cadavere appeso per gli omeri alla forca, ma invano, perché le pietre non lo sfiorano, ma piuttosto ritornano verso chi le lancia. Per la qual cosa, indignati e furibondi, lo portano su una pira ardente. Ma il fuoco non brucia nemmeno un pelo del peloso corpo. Quindi lo gettano in un profondo pozzo che riempiono di terra fino alla sommità affinché i Cristiani non lo rapiscano. Alcuni commercianti liguri, riscattatolo sia con preghiere sia con denaro dalle guardie della città, estraggono da lì il corpo di Antonio e, costruita una cassa di legno, la collocano per alcuni mesi in un segreto tempietto e fanno celebrare su di essa delle messe. Infine, attraverso uomini fidati di Antonio Alemanno, ottimi uomini trasportano sulla nave il beatissimo martire di Cristo e lo conducono a Genova, capoluogo della Liguria. Per questa ragione Antonio da Noto meritò col martirio il perdono dei peccati, in breve: col martirio della morte conseguì la vita eterna, alle idi di gennaio.»282 Una storia edificante e pedagogica che diventa subito modello agiografico. A questo Antonio netino dedica una breve nota la Bibliotheca sanctorum, che, mentre lo definisce «santo e martire di Tunisi», ignorandone però data e luogo del martirio, avverte come «i bollandisti lo pongono tra i praetermissi».283 Il sardo Francesco Zirano, minore osservante, nel 1603 viene inviato dal re di Spagna presso un piccolo regno nei pressi di Algeri; il frate, appreso che nei bagni si trova un cugino di cui non ha notizia da tredici anni, commette l’imprudenza di recarvisi. Libera quattro schiavi, ma nella fuga è catturato, riportato in città, bastonato e gettato in prigione, dove apprende «con molta umiltà e meravigliosa pazienza» di essere stato condannato a morte. Si avvia all’ultimo supplizio «con animo lieto e giocondo», mentre i mori gli promettono che se abiurerà gli faranno grazia della vita. Il «santo religioso» comincia invece a predicare per persuaderli a «lasciare quella loro bestial legge», facendo balenare davanti ai loro occhi la dannazione a cui sono condannati nella «vitiosa e sacrilega setta di Manometto». Condotto dinanzi al re, come spia del re di Spagna e autore di un furto di schiavi cristiani viene condannato ad essere scorticato vivo. Risparmio al lettore la descrizione dell’operazione, dettagliata e raccapricciante; mentre lo legano mani e piedi a una croce, «prima che cominciassero a ferir le carni, cercarono di ferirgli l’anima con diaboliche persuasioni, per fargli negar la fede», ma inutilmente; mentre la pelle viene tolta
dal collo, dalla schiena, dalla testa, il «pazientissimo religioso» prega, quando i rasoi dei carnefici raggiungono l’ombelico, raccomanda la sua anima a Dio e va a «godere in Cielo il premio della gloria». La densa nube e il vento che si levano all’improvviso convincono i mori che «questo papasso era senza dubbio un santo», ma ugualmente ne riempiono di paglia la pelle e fattane un crocifisso, «l’attaccano sopra porta Babeson, ove ste’ sin tanto che dalli venti e tempeste fu gettata in terra e da cristiani raccolta in pezzi e con veneratione conservata per reliquia».284 Sono numerose le analogie con il martirio di Juan de Prado di cui si leggerà più avanti. Poco si sa del martirio di due missionari, i francescani Cherubino di Calatagirone e Francesco da Taranto, i quali nel 1633 arrivano a Gerusalemme per studiare arabo e poi decidono di guadagnare le Indie su un vascello portoghese; a Ormuz (sul golfo Persico) vengono però catturati dagli Olandesi, che sono, «per essere calvinisti, nemicissimi de’ religiosi». Dopo alcuni mesi vengono liberati a Mombasa (nell’attuale Kenia), dove alcuni frati agostiniani e i mercanti portoghesi del luogo si offrono di finanziare il loro viaggio; i due rifiutano, accettando due vacche che oltre a rifornirli di latte avrebbero trasportato i loro poveri bagagli. Superata Malindi, si addentrano nei boschi abitati dai feroci Caffari, «gente barbara, nuda e molto bestiali, dai quali assaliti per desiderio della preda o per mangiar le loro carni [...] furono li poveri Padri come inermi pecorelle barbaricamente ammazzati»;285 il corpo di Cherubino scompare mentre quello di Francesco finisce in pasto ai cannibali. Il cronista sospira di fronte all’incomprensibile disegno di Dio per tanta efferatezza. In Italia giunge invece un’altra e diversa versione secondo cui i due frati sarebbero stati uccisi per essere derubati delle due vacche, mentre da una relazione rintracciata presso l’archivio di Propaganda Fide risulta che essi, tre volte incarcerati, tre volte fuggitivi, dopo l’ultimo tentativo vengono «in alcuni gran spiedi conficcati e arrostiti vivi in una pubblica piazza»;286 una nube cala però dal cielo e rapisce il corpo di Cherubino. Per i miracoli operati a una terziaria a Girgenti e a un chierico a Messina, gli agiografi lo inseriscono tra i servi di Dio appartenenti alla famiglia francescana che potrebbero aspirare alla gloria degli altari. Il frate palermitano Alipio di San Giuseppe, agostiniano scalzo, navigando da Palermo alla volta di Napoli, viene catturato dai corsari barbareschi e condotto a Tripoli in schiavitù. Trascorso alquanto tempo, rinnegata l’empia superstizione di Maometto alla quale doveva essersi convertito, ritorna alla sua precedente confessione e per questa ragione è vessato con i più atroci tormenti; con braccia
e gambe fratturate, viene trascinato per terra, gettato in mare, colpito da pietre, infine percosso con mazze e trafitto da spade. «In odio alla vera Religione viene ucciso il 17 febbraio 1645. Le reliquie semicombuste del suo corpo vengono traslate in Sicilia e, religiosamente custodite nella città di Palma, aspettano [l’autorizzazione al] culto dalla Sede Apostolica.»287 In quegli stessi mesi, Palermo trema per un imminente attacco in forze della flotta musulmana che una grande processione del Cristo ligneo della cattedrale, protrattasi per diversi giorni, distoglie dalla città siciliana e dirotta in direzione di Creta. Alipio è accompagnato da un confratello, il converso Domenico di Santa Maria dell’Itria condotto schiavo a Tunisi, che riesce a impedire l’abiura di un compaesano trapanese e muore in fama di santità: le sue reliquie operano delle guarigioni di ernie tra gli schiavi.288
1.17 «Con rimordimento grandissimo della coscienza» Per i nostri agiografi il martirio di Alipio di San Giuseppe o di Antonio da Noto, che pagano con la vita il loro smarrimento, attesta la superiorità della religione cattolica, che si manifesta anche con la conquista delle coscienze degli “infedeli”. Grande risonanza viene data alla conversione di Maometto Celebi, genero del bey di Tunisi che, quasi a compensare lo smacco di Alipio, si converte al cristianesimo e nel 1646 fugge a Palermo, dove, ammaestrato dai gesuiti, riceve poco dopo il battesimo nella cattedrale della città, per mano dell’arcivescovo, padrini il viceré e la viceregina. Divenuto Innocenzo Filippo Pietro Ferdinando Ignazio, passa a Napoli, e a Roma viene ricevuto dal papa, quindi va in Spagna dove Filippo IV lo nomina cavaliere di San Giacomo e lo dota di un cospicuo appannaggio.289 Poi però si pente e, tornato a Tunisi, dopo un pellegrinaggio alla Mecca, ridiventa musulmano; va in corsa con le galere di Biserta e diventa governatore di La Goletta. Sarebbe stato nominato più tardi pascià di Algeri, ma le notizie che lo riguardano sono contraddittorie e lacunose. Abbiamo a che fare forse con una spia, un millantatore che, mentre è governatore, chiede il perdono al papa, proponendogli di conquistare Tunisi per farne un vassallo della Santa Sede; propone infine a Luigi XIV di fare di Algeri un protettorato francese; infine è costretto a fuggire a Istanbul dove muore in data imprecisata.290
Qui rinnegare sembra una scelta dettata da motivi opportunistici e una copertura di attività di intelligence. Altre volte rinnegare può essere un’esperienza traumatica, capace di produrre un potente senso di colpa: nel delirio della peste, un giovane nobile portoghese, catturato nel 1624, rinnegato per amore della nipote del suo padrone, «si mordeva in tutto il corpo, si straziava, agguantava le persone, camminava rasente i muri, e diceva che i diavoli se lo portavano via perché si era fatto Moro e aveva abbandonato la vera religione, quella del Cristo, [...] bestemmiava continuamente e si votava al diavolo».291 Lo stesso accade a un nobile francese, che ha visto innumerevoli persone morire in occasione della stessa epidemia e al quale, dopo che ha vissuto da musulmano per venticinque anni, Dio «tocca il cuore»; il conflitto interiore gli fa prendere in considerazione «la tentazione di appiccarsi», per la vergogna di ritornare in patria dopo tanto tempo. I frati lo dissuadono dall’insano intento e lo aiutano a fuggire verso la cristianità.292 Frate Giuseppe, dotto ed eloquente, scherzoso e godereccio, «il quale stimava specialmente il patriarca Noè, che aveva piantato la vigna»,293 non resse a una lunga schiavitù (venne liberato nel 1645, ma non sappiamo dopo quanto tempo dalla cattura) e, non intravedendo nessuna prospettiva di riacquistare la libertà o forse attirato dalla vita che il Corano consente, «fu dimentico al segno da rinnegare la fede cristiana, facendosi maomettano, con straordinaria gioia di tutti i Mori e Turchi, che lo fecero montare su un cavallo, gli misero una freccia in mano, lo condussero così attraverso tutte le strade della città come in trionfo. E si prendevano gioco dei cristiani a cui dicevano: “Ecco il vostro papas (i Turchi chiamano così i preti) che tanto avete stimato”».294 Gli schiavi cristiani, cattolici, riformati e scismatici biasimavano l’ex frate, ora Yousuf, per la vergogna che lo scandalo aveva fatto ricadere su tutti. Giunsero nel frattempo nello stesso bagno altri due frati, un gesuita e un carmelitano scalzo, chiamato frate Angelo da Genova, che, incuranti del rogo, comminato a quanti cercano di convertire un rinnegato, lo spinsero a pentirsi e lo riconciliarono con la sua precedente fede. L’indomani Yousuf uscì in strada «vestito alla cristiana, cosa che causò sbalordimento in tutta la città»:295 vestirsi alla turca o da cristiano è il segno più evidente dell’appartenenza religiosa.296 Condotto innanzi agli ufficiali di giustizia, rispose di volere vivere e morire da cristiano e di essere stato sino a quel momento sotto la suggestione del diavolo. La sua fine è scontata. Un ultimo esempio: a Gerusalemme fra Cristoforo di Santa Lucia cercò di persuadere un rinnegato siciliano a ritornare nel grembo della Chiesa, ma quegli «respondeva che trovandosi accasato con una mora dalla quale aveva cinque
figli, non sapeva che partito pigliare essendo che da una parte era dal timor di Dio tirato con rimordimento grandissimo della coscienza, e dall’altra dall’affetto de’ suoi figlioli»297 edagli enormi rischi che passare in terra cristiana avrebbe comportato. «Quella mora sua moglie portava grande affetto al suo sposo rinnegato» e decise di convertirsi alla sua fede; istruita adeguatamente sui comandamenti e le preghiere, venne battezzata insieme ai figli, mentre il rinnegato fu riconciliato. Alla prima occasione, i frati imbarcarono la famigliola ad Alessandria (altri riconciliati venivano nascosti nelle case francescane più vicine, a Nazareth soprattutto, poi inviati a Venezia, il Cairo, Famagosta, Damasco, ovunque appoggi e complicità fossero disponibili), con la collaborazione del console francese che li raccomandò al capitano di un vascello, «con una buona limosina e sufficiente provvisione e non senza gran pericolo».298 Fin qui le conversioni precarie, temporanee, ma sono molte le conversioni sincere, irreversibili, di chi, avendo rinnegato, si comporta da buon musulmano, osserva riti e obblighi della nuova religione, sposa una o più donne, partecipa alla corsa contro i cristiani, raggiunge una condizione agiata e muore nell’osservanza dei precetti islamici; o di chi, platealmente, dichiara di compiere questa scelta giusto al momento della redenzione, quando si accomiata dai compagni di sventura per salire sulla nave che lo restituirà alla famiglia, ma poi ci ripensa e torna sui suoi passi. Mateo Serra, trentacinquenne, nel 1714 si reca davanti al dey di Algeri per chiedere licenza di imbarcarsi essendo stato riscattato; con un colpo di scena l’uomo si presenta vestito alla turca e in compagnia del vecchio padrone, dichiarando pubblicamente di avere usato i soldi del riscatto per liberarsi dalla schiavitù, ma di essersi convertito alla religione musulmana, e chiede di restare libero ad Algeri.299 Anche un’abiura forzata può produrre una conversione sincera. Joseph Pitt, catturato all’età di quindici anni e condotto ad Algeri nel 1678, vi rimane fino al 1693; qui si converte all’islam, ma poi una lettera del padre lo spinge a fuggire. Egli non nasconde comunque nel resoconto della sua schiavitù l’affetto del padrone, che gli promette anche una piccola eredità; la vita da musulmano lo tenta perché gli offre onori e privilegi impensabili in Inghilterra. Pitt cita tre suoi compagni di prigionia inglesi che scelgono di restare ad Algeri. Uno di questi, riscattato, fa ritorno in patria, per poi tornarsene ad Algeri e «farsi maomettano di sua volontà, senza costrizione alcuna».300 C’è, insomma, un frenetico andirivieni da una religione all’altra tra le sponde mediterranee, e la conversione è in molti casi un’adesione sincera, tanto che chi
la vive è disposto ad accettarne le estreme conseguenze: vi sono casi di “irriducibili” rinnegati che restano “ostinati e pertinaci” fedeli del loro Mahoma e chiedono di morire nella loro “setta”, alla luce dei cui principi sono vissuti, meritando così di essere rilasciati dal Santo Uffizio, che ormai dispera della salvezza delle loro anime e può abbandonare i loro corpi alla giustizia del braccio secolare e al rogo.301 Se immaginiamo che questi individui, la cui identità religiosa si adatta alla lotta per la sopravvivenza,302 si siano convertiti per opportunismo, possiamo attribuire la loro fine alla sfiducia nei confronti dei giudici cristiani, all’odio verso le torture inflitte, alla ribellione verso la violenza subita, alla delusione per una grazia negata; non conosceremo mai i loro sentimenti e i loro pensieri reconditi, ma sappiamo che restano saldi nella nuova religione e muoiono nella certezza delle ricompense che il Corano promette a chi testimonia la propria fede con la vita.303
1.18 Il discarico di coscienza: la riconciliazione Quando un rinnegato viene catturato o un captivo fa ritorno in terra cristiana – la Sicilia è, come ho detto, quella più prossima alle coste barbaresche – si presenta dinanzi al tribunale del Santo Uffizio che deve attestarne la fede. Solitamente dichiara di essersi dovuto convertire a forza alla religione musulmana, per evitare maltrattamenti e pericoli per la propria vita, di avere osservato solo esteriormente le forme della nuova religione, ma di essere rimasto fedele al cristianesimo, cercando per quanto possibile di osservarne le prescrizioni più importanti. Tutti affermano di avere nutrito progetti e speranze di fuga appena se ne fosse presentata l’occasione: insomma, come hanno mantenuto segreto il desiderio di fuga, così hanno potuto custodire sotto il turbante e nella profondità del loro cuore la fede cristiana. Nel pensiero europeo la coscienza della simulazione ha una robusta tradizione: quella cinquecentesca si è formata nella battaglia religiosa della Riforma protestante. Calvino nella sua polemica antipapista riteneva che ci fossero circostanze nelle quali gli atti esteriori equivalessero a professioni di fede, a vere e proprie abiure, ma che si potesse «tutelare l’onore di Cristo [...] convivendo, tacendo, dissimulando».304 «La dissimulazione è tra le più notabili qualità di questo secolo»,305 affermava polemicamente Montaigne nel capitolo
dei suoi Essais dedicato a “Du dementir”; essa diventa sempre più una componente della saggezza, della “civiltà” e, nel Cinquecento, se ne rintracciano le radici umanistiche. La necessità della dissimulazione “onesta e utile” è d’altronde una massima di saggezza e quieto vivere («Quis nescit fingere, nescit vivere»); ha per nemici il vino e l’ira e nella letteratura barocca è associata alla tolleranza. Comprendiamo così il continuo riferimento, che abbiamo letto nelle missive dei nostri captivi, alla pazienza, con la quale si riesce a ottenere «la quiete interna che è bene inestimabile ed appartiene all’innocenza».306 Non per caso la natura ha tenuto il cuore nascosto, “chiuso”, perché ogni uomo accorto e intelligente possa avvalersi dei suoi “abissi”; solo nel giorno del giudizio non ci sarà più bisogno di quel “velo” e le anime potranno vedere finalmente Dio, come premio alla virtù della pazienza dei dissimulatori. «Nella divina essenza i beati godono della chiara vista [...] gli abitatori del Paradiso non hanno da nascondere difetto alcuno; e per conseguenza la dissimulazione rimane in terra, dove ha tutti i suoi negozi.»307 Il fatto che conti solo l’interiorità, e che solo Dio possa scrutare nel fondo delle coscienze, conferisce verosimiglianza all’affermazione dei captivi sulla fedeltà del cuore, al di là delle pratiche esteriori. Non di conversione all’islam si tratta, e dunque non di abiura, ma di adesione a comportamenti dell’altra cultura, in un contesto in cui, se non avessero rinnegato, si sarebbero trovati in condizioni di radicale illibertà e di pericolo di vita. Sono numerosi gli esempi di vita cristiana segreta di molti rinnegati, «forme di un più o meno larvato “nicodemismo” in apostati riconciliati segretamente, in donne sposate con turchi e desiderose di essere ammesse ai sacramenti, in rinnegati che vogliono battezzare segretamente i propri figli».308 Anche l’islam concepisce la tawqiyah, la precauzione, lo stare in guardia, la simulazione, l’ambiguità di adottare esteriormente la religione imposta in terra non musulmana. Il fedele in queste difficili condizioni può custodire nel segreto la sua fede, costretto a vivere in un mondo ostile: «Chi sarà per necessità costretto contro sua voglia e senza intenzione a trasgredire la legge, non farà peccato, perché Dio è clemente e misericordioso».309 L’atto di simulazione è accompagnato da alniyah, la ferma intenzione del cuore di operare secondo la propria legge.310 Solo l’intenzione dà valore all’atto rituale. Insomma, la tawqiyah, come la dissimulazione del cristiano, consente al credente di non mettere in pericolo la sua vita,311 poiché si tratta in ogni caso di un rimedio temporaneo.312 Il più famoso manuale per gli inquisitori del XVII secolo indica quali comportamenti e convinzioni sono considerati indizi di colpevolezza degli
apostati passati al «Maccomettismo» quando, ritornati «di Turchia in Cristianità», dicono e fanno molte cose contrarie alla religione cattolica. In particolare, vituperano la recita del rosario, il cordone di san Francesco, l’acqua benedetta, le immagini sacre e le orazioni; biasimano i riti cristiani, si vantano di aver preso un’altra moglie in Turchia, di averne avuto dei figli e di esser vissuti “turchescamente”, o di aver mangiato carne di venerdì; affermano di volere ritornare in Turchia perché vi si sta meglio. Gli inquisitori sanno per lunga esperienza che si rinnega dapprima strumentalmente, per opportunismo «a persuasione dei Turchi, e per timore d’essere da loro mal trattati [si dice] di voler essere Turco, alzando il dito e proferendo nel nome dell’empio Maometto e della sua profana e sacrilega setta quelle parole che in tal atto si sogliono proferire, e lasciandosi liberamente circoncidere, con ritenere per allora nel cuore detta Santa fede Cristiana; ma che poi, ivi ad un anno, avendo già imparata la lingua turchesca e le cose di quella setta, rinnegano anche col cuore e credono tutto quello in cui credono i Turchi, in specie: che la setta Maomettana fosse buona e che in essa potesse l’uomo salvarsi; che Cristo Nostro Signore non fosse Dio, ma solamente un uomo santo; che fosse lecito avere più mogli vive in un medesimo tempo [...]; sono entrati più volte nelle moschee e che all’usanza dei Turchi hanno adorato Maometto, con inginocchiarsi, por la testa in terra e recitare le orazioni ch’essi recitavano, digiunando e lavandosi secondo il loro costume e che in tale stato hanno vissuto per anni continui; [...] che i Santi non debbano aversi in devozione; che le sacre immagini non debbano venerarsi; che l’acqua benedetta non debba adoperarsi; che non è necessario fare orazione e dire il rosario; [...] fino a che, ammoniti dell’errore si sono convertiti alla santa fede cristiana».313 La condanna per chi non si pente e non abiura la fede islamica è il carcere perpetuo. In coscienza i giudici del tribunale inquisitoriale sanno che il diritto a salvarsi la vita precede qualunque norma di diritto canonico, sancito com’è dalla Bibbia, e dunque sono tolleranti nei confronti di chi abiura in queste difficili condizioni. Degli 846 casi di rinnegati (captivi cristiani e schiavi convertiti) presentatisi dinanzi al Santo Uffizio siciliano tra XVI e XVIII secolo, la maggioranza si conclude con un’assoluzione ad cautelam.314 Vediamone qualcuno più da presso. Un gruppo di rinnegati giudicati a Palermo nel 1595 si giustifica con la medesima formula. Guillermo De Jusepe Davit, di Marsiglia, soldato di un brigantino turco, «confessa di essere stato circonciso a forza all’età di dieci anni, ma di aver tenuto sempre un cuore da cristiano e di aver mangiato carne [di contro al divieto cristiano di cibarsene di venerdì e durante la quaresima] perché
non poteva fare altro a causa del suo padrone». Che un bambino educato alla religione musulmana abbia potuto mantenere un cuore cristiano sino all’età adulta è davvero poco plausibile;315 tuttavia nel 1595 viene assolto ad cautelam. Parole quasi identiche usa il provenzale Fornaire Guiran: essere circonciso da piccolo, senza averne piena consapevolezza, è certo una forte attenuante per il rinnegato.316 Il greco Joan De Alexandro dichiara che «digiunava nascostamente nella Quaresima e pregava di nascosto, avendo sempre intenzione di fuggire» e un altro greco, Gregorio David, giardiniere, racconta come «a vent’anni fu preso dai Turchi quando si perdette Cipro e per i maltrattamenti del suo padrone rinnegò, gli fecero alzare il dito e dire “Lei la la...”, lo vestirono alla turca e mangiò carne di venerdì pensando sempre di fuggire, come ha fatto».317 Un contadino di Noto, Vincencio Ginoves, riferisce che tre anni prima «è stato preso dai turchi a Valona e portato a Biserta, ha rinnegato perché il suo padrone gli ha promesso la libertà e certi cristiani lo hanno consigliato. È andato alla moschea, ma prima ascoltava nascostamente la messa a Biserta rimanendo sempre nel cuore cristiano».318 Sono una quarantina tra le carte del santo tribunale le dichiarazioni di questo tenore e gli imputati vengono quasi tutti assolti ad cautelam, stante la difficoltà della Chiesa a condannare per abiura chi afferma di aver dovuto con questo mezzo salvare la propria vita: il diritto all’autoconservazione obbliga il credente ad avere per prima cosa carità verso se stesso, “prima caritas in suis”. L’assoluzione ad cautelam è favorita, inoltre, dalla spontanea presentazione dei rei, che sarebbero condannati più severamente nel caso di reiterazione del reato. Il greco Juan Cucudo viene riconciliato nell’autodafé del 18 ottobre 1589. Accusato di aver vissuto per vent’anni da musulmano venendo in corsa contro i cristiani molte volte, confessa di aver cercato di convertire sua madre all’islam e di averla picchiata perché la donna si rifiutava di assecondarlo. Catturato una prima volta sulla costa spagnola, riconciliato a Cartagena, è ritornato a farsi turco, divenendo un corsaro. Essendo comitre in una galera veneziana, a Modone, sulle coste della Messenia (Morea sud-occidentale), porto strategico per chi viaggia da Venezia a Giaffa e verso la Terrasanta, fugge portando con sé quattro bambini cristiani che vende a Costantinopoli. Si sposa due volte con donne turche e andando da Costantinopoli all’isola di Syra con la moglie e un figlio di cinque anni viene catturato dai cristiani e portato a Messina dove, trattando il suo riscatto, presenta due testimoni al fine di provare di essere turco e non rinnegato. Confessa, infine, di avere rinnegato diciotto anni prima: essendo andato in corsa in qualità di capitano di una galera, viene catturato dai turchi nel
1574 a La Goletta. Rinnega per la prima volta, si sposa, ma poi si presenta spontaneamente all’inquisitore di Siviglia, dopo otto giorni di confessione abiura in ginocchio e giura di non andare più per mare, per evitare il rischio di una nuova cattura e di una seconda abiura. Il pericolo paventato si verifica puntualmente quando da Siviglia torna a Venezia dove viene ripreso dai turchi e, per non essere ucciso, ritorna alle cerimonie maomettane, restando in cuor suo – così sostiene – sempre cristiano. Gli inquisitori siciliani non credono a questo tortuoso susseguirsi di fatalità e scrivono diverse volte agli inquisitori di Siviglia per avere la conferma delle dichiarazioni del greco, ma quelli rispondono di non saperne nulla. Questo basta a sottoporre a tortura l’imputato, che confessa confusamente di aver vissuto per vent’anni da maomettano, di aver vissuto a Corfù da cristiano essendo comitre di una galera veneziana, di essere stato riconciliato nell’Inquisizione di Siviglia, di essere fuggito a Modone e poi a Costantinopoli dove, dietro pressione di un pascià, mentendo, rivela al sultano che i veneziani si preparano a bombardare il Trazenal di Costantinopoli, tanto che lo stesso pascià fa lanciare bombe da lui e da altri compagni.319 Il morisco Francisco Alonso, cacciato dal regno di Granada, si arruola presso i Cavalieri di Malta. Catturato, viene condotto a Costantinopoli e cerca subito di fuggire insieme agli schiavi cristiani di una galeotta, ma il tentativo fallisce; solo perché è “barbiero”, invece di essere ucciso gli viene tagliato un orecchio. Trovandosi a Scio, vede giungere un vascello francese carico di ebrei di Granada e uno di loro gli consiglia di fingersi parente di Santo Fimia, un ebreo bruciato dal Santo Uffizio, così da potere contare sulla solidarietà degli altri correligionari. Due ebrei “argentieri” attestano la sua falsa identità, sborsano 150 ducati ciascuno, lo liberano e lo fanno entrare al servizio del medico del Gran Turco, Havito Portugues, presso cui svolge mansioni di chirurgo. Il medico promette che, se fosse stato un buon ebreo, gli avrebbe dato in moglie la nipote e lo avrebbe condotto con sé a Gerusalemme. Lo porta alla sinagoga, gli fa seguire tutte le cerimonie (“la pasqua della legge”, “il digiuno della regina Ester”), finché Francisco trova l’aiuto del console francese che lo fa fuggire e sbarca in Sicilia, dove chiede di essere perdonato.320 Numerosi luterani, anglicani (spesso marinai), ebrei (talvolta medici) vengono catturati sulle navi corsare e interrogati dal Santo Uffizio dove compaiono con il nome “turchesco” e dove raccontano della loro conversione all’islam. Escono quindi dal tribunale inquisitoriale riconvertiti alla religione cattolica. Assolti ad cautelam, viene loro raccomandato di non riprendere il mare per non correre il rischio di cadere nuovamente preda dei corsari musulmani.
Chi opera tra stati europei e impero turco deve barcamenarsi tra culture e religioni diverse. I rinnegati appaiono come personaggi flessibili, adattabili alle condizioni che i contesti propongono: mutano abiti, abitudini alimentari e lingua, prendono mogli straniere e ne hanno figli; si scambiano idee religiose e conoscenze tecniche, dal momento che la marineria da corsa dipende largamente dall’approvvigionamento di materiale e tecnologia dall’Occidente. La loro identità è sfaccettata, la loro appartenenza multipla – anche se di volta in volta vengono richiamati all’obbedienza da parte delle istituzioni religiose e politiche –, tanto che vengono considerati come coloro che hanno gettato le basi di un nuovo tipo di identità, costituendo un momento importante nello sviluppo dell’individualismo moderno.321 Sono dei mediatori tra culture e rappresentano in fondo quello che le tre religioni monoteiste hanno in comune, più che quello che le divide. Vivono ai confini, appartengono a più mondi.
1.19 La restituzione alla cristianità Al ritorno in patria è necessario spogliarsi di quanto si è assunto in Barberia, ripulirsi, decontaminarsi, presentarsi al Santo Uffizio, che trattiene i riscattati ex rinnegati per verificarne la sincerità della fede: una sorta di quarantena dell’anima, uguale a quella subita nei porti cristiani da equipaggi, naviglio e mercanzie provenienti dai paesi dove c’è, o si sospetta ci sia, la peste. Vivere in una società musulmana necessariamente comporta per i cristiani una contaminazione; quelli che scongiurano la morte della propria anima devono essere curati, riconvertiti: oltre agli inquisitori, sono gli ordini religiosi a farsene carico. Riammessi infine in seno alla Chiesa, l’itinerario spirituale dei riscattati verrà pubblicamente esibito: il Santo Uffizio impegna proprie risorse per allestire una fastosa cerimonia, con «musica e trombette», tappeti e festoni, nel corso della quale lo schiavo di galera che torna cristiano, elegantemente rivestito, viene penitenziato.322 Al ritorno dalla cattività, la Deputazione palermitana prevede in dettaglio che, attraccato il vascello al molo, appurata l’assenza di infezioni ed epidemie, la si avverta subito, così che si possa inviare «qualche rinfrescamento» e trattenere i riscattati sulla nave finché la processione non abbia luogo e prima che scappino per le più diverse destinazioni. L’arrivo è comunicato all’arcivescovo per
stabilire insieme a lui la data della processione, coincidente per lo più con la festa religiosa più prossima, ma anche in caso contrario si imporrà la chiusura di tutte le botteghe del Cassaro, la strada principale della città. Si invitano gli ordini religiosi, le istituzioni civili, con i rispettivi stendardi e si recluta un gran numero di cavalieri, così da consentire che ogni riscattato sia affiancato da due di loro; infine sfilano i membri della Deputazione, le “Compagnie”, il capitolo e il clero, una banda di “trombette e pifare”. A porta Felice si sparano i mortaretti, quando i riscattati scendono dal vascello e si avviano per il Cassaro, e intanto si intona il Te Deum laudamus; l’arcivescovo recita un’orazione davanti al Senato e ai rappresentanti di tutte le magistrature, quindi ci si dirige verso la chiesa della Deputazione, Santa Maria la Nova, dove la processione si scioglie e tutti ricevono la licenza di tornarsene a casa, riscattati inclusi. A quelli che sono di altre città vengono date una “fede”– che ne attesta la condizione e incita le autorità dei rispettivi paesi a ripetere la cerimonia – e un’elemosina che consenta di raggiungere le proprie famiglie.323 Processioni siffatte hanno luogo a Venezia, Milano, Torino, Livorno, Ancona, Roma, in Francia, in Spagna, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, dovunque giungano i redenti. Un pubblico numeroso e partecipe si accalca su balconi, terrazze e tetti al passaggio degli ex schiavi che, riconoscibili dalle tuniche indossate, tengono in mano catene spezzate o rami di olivo. La cerimonia potrebbe rappresentare una forma di restituzione collettiva del prezzo del riscatto, ultima tappa del reditus romano, il vero atto di riattribuzione dei diritti perduti all’ex captivo che si vuole ora reintegrare nella sua comunità: con il pagamento del riscatto egli è in verità solo passato di mano da un padrone a un altro, ma ora la cerimonia lo restituisce alla città e con ciò alla libertà: rende un padre ai suoi figli, un suddito al suo principe, un cittadino alla patria, un fedele alla Chiesa, ma nello stesso tempo il redento è l’oggetto dell’azione misericordiosa che lo ha sciolto dalle catene, sfamato, dissetato, rivestito, curato nelle malattie. Alla stessa stregua Mercedari e Trinitari impongono ai credenti lunghe marce – da Marsiglia a Versailles, in undici mesi e dodici giorni, la più lunga che io conosca – 324 allo scopo di raccogliere elemosine per i successivi riscatti. Il popolo cristiano diventa imago Christi, che ha operato la redenzione di tutti gli uomini versando il suo sangue: l’obolo richiesto agli astanti – ma il denaro usato per il riscatto è a sua volta frutto di elemosine e di atti di liberalità – contrassegna la partecipazione a questa grande impresa collettiva. La società si conferma cristiana: la coppia di accompagnatori dei redenti rievoca i padrini che presenziano alla cresima e testimonia dell’«avvenuta riconversione», mentre
ricostituisce la società come «corpo mistico».325 Non in ultimo, e opportunamente, queste cerimonie hanno anche lo scopo di trattare «il trauma di profonda alienazione della riduzione in schiavitù».326 Nel corso di queste processioni dramma della schiavitù e grazia della redenzione sono sotto gli occhi di tutti, come in una sacra rappresentazione dove gli ex prigionieri fanno da attori e si rende evidente la vittoria del bene sul male e il trionfo dell’identità cristiana sugli infedeli. Il 29 settembre 1646, Thomas Sweet scrive dalla Barberia ai «cari amici» rimasti in patria: è l’ennesima missiva che l’uomo, catturato due anni prima dai turchi e condotto in schiavitù ad Algeri, invia ai parenti e alle autorità del suo paese. Il suo padrone è un barone francese, ora rinnegato, disposto a lasciarlo andare insieme a un altro schiavo, il protestante inglese mastro Richard Robinson, per una certa somma di denaro, che egli chiede agli amici rimasti in Inghilterra e ai familiari, il cui silenzio lo fa dubitare che siano in vita, piuttosto che della scarsa sollecitudine nei suoi confronti. Già alcune centinaia di schiavi inglesi hanno potuto prendere la strada di casa da quando Thomas si trova in cattività e ora egli supplica i «fratelli del rinnovato cristianesimo» di avere pietà e compassione di lui. A Londra c’è il mercante Stanner di Saint Mary-Axe che ha un agente in Barberia, mentre i mercanti londinesi Mico e Hodges, che hanno affari ad Algeri, sono in grado di intervenire nella transazione per la redenzione dei due captivi. Sempre a Londra c’è un luogo in cui si raccolgono le lettere giunte da ogni dove e da cui è possibile recapitare notizie in quattro-sei settimane. Una lettera del successivo 26 novembre informa che l’accordo di pace, siglato dal Parlamento inglese con il pascià, consente di riscattare allo stesso prezzo a cui sono stati venduti al mercato al loro arrivo tutti i captivi che nel frattempo non sono diventati mori. La Camera dei Comuni, il 18 agosto 1647, con un avviso pubblico «raccomanda la loro triste condizione alla considerazione della carità cristiana, ardentemente augurandosi e sperando» che possano essere redenti.327 La vicenda si svolge in piena “rivoluzione puritana”, in un clima di eccitazione religiosa, quando tutto appare realizzabile – la riforma agraria, l’egualitarismo religioso, l’eliminazione dei privilegi di nascita, la sconfitta della povertà, l’accesso per merito negli organismi di governo –, insomma quando «utopia e rivoluzione celebrano durante i rivolgimenti del 1640-1660 un matrimonio destinato a durare».328 Non sappiamo se questa vicenda abbia avuto un lieto fine, ma anche nei paesi
di religione riformata c’è senza dubbio un forte interesse al riscatto, soprattutto dopo il 1650. La chiesa anglicana, quella presbiteriana scozzese e le altre chiese riformate non sono attrezzate allo scopo alla stessa stregua degli ordini religiosi o delle deputazioni e arciconfraternite che negli stati cattolici si occupano di redenzione, e i prigionieri inglesi e irlandesi lamentano di essere abbandonati al loro destino. «Tutti quelli degli altri paesi hanno chi si occupa di loro – scrive nel 1716 alla moglie un inglese semianalfabeta, disperato, tenuto prigioniero in Marocco – ma noi poveri inglesi non abbiamo nessuna assistenza dal nostro paese.»329 Il governo inglese non sente alcun obbligo a redimere i propri sudditi, in maggioranza marinai, mercanti, pescatori, soldati, e Carlo II riceve un severo rimbrotto dal governatore di Algeri, che nel 1674, non essendo stato onorato l’impegno a riscattare i prigionieri, scrive: «Nella presente situazione i vostri sudditi non sono né veri schiavi né veri uomini liberi [...]. In questa vicenda non avete dimostrato alcuna sollecitudine, ma soltanto disdicevole negligenza».330 Fino agli anni venti del Settecento sono in ogni caso le chiese – quaccheri, presbiteriani, ugonotti – ad assumersi il compito di raccogliere le elemosine da destinare ai riscatti: ottenuto un Charity Brief (Brevetto di beneficenza), stampato in migliaia di copie, i pastori ne danno notizia dai pulpiti delle chiese dove uno speciale sermone viene pronunciato per sensibilizzare i parrocchiani a versare l’obolo; viene fatta anche una colletta casa per casa e l’elenco dei nomi dei sottoscrittori diventa l’elenco dei buoni cristiani, da cui sono esclusi solo i miserabili. Successivamente sarà anche l’Ironmongers’ Company di Londra a gestire un fondo di beneficenza creato per il riscatto dei captivi dalla Barberia. Le motivazioni religiose che sottostanno alla redenzione sono espresse dalla Esortazione loro rivolta, letta dal rettore della cattedrale di Saint Paul, nel corso della solenne processione tenuta l’11 marzo 1701, “giorno del ringraziamento” per il felice ritorno a casa da Meknés di un gruppo di inglesi. Liberare chi è stato ridotto nella condizione di “bestia più che di uomo” equivale a ridargli la vita, dunque a farlo risorgere dalla morte. La peggiore delle privazioni sofferte in cattività è l’impossibilità di eseguire le devozioni, di osservare le solennità, di avere una chiesa dove rifugiarsi, ministri di culto che stimolino alla preghiera, ricordino i propri doveri, esortino a prendersi cura della propria anima: in quelle dolorose circostanze il pericolo riguarda non solo la salute del corpo, ma anche la salvezza dell’anima. Una volta rientrati in patria, dimenticare quest’ultima equivale a non essere stati liberati dalla schiavitù; questo accade se non si santifica il giorno del riposo, se non ci si sottopone alle forme di culto, se ci si abbandona a bestemmie, maledizioni e imprecazioni, se non si prega.331
«Tu non sei tuo, ma di Dio – tuona dal pulpito il reverendo Sherlock –. Quando eri schiavo non eri tuo, non eri a disposizione di te stesso, comprato e venduto come al tuo padrone piaceva e [...] talvolta sei caduto in mani di padroni molto crudeli. Dio nella sua provvidenza ti ha redento. Credi che lo abbia fatto per te? Per renderti padrone di te stesso, per farti vivere come ti aggrada? Ti ha redento dalla schiavitù per farti vivere sotto il suo Governo e Obbedienza. Egli è il redentore e a questo titolo egli diventa il tuo padrone. Tu cambi padrone, non sei liberato da ogni Autorità e Governo: lo scambio è dunque dall’essere Schiavi di uomini [Slaves of Men] al diventare Uomini liberi di Dio [God’s Freemen], di cui siamo però ancora Servi [Servants] e a cui dobbiamo obbedire; in questa obbedienza c’è la nostra libertà.»332 Lo schiavo del peccato scambia una cattiva schiavitù con una ancora peggiore, dove il padrone è il Diavolo. Di solito le sofferenze svegliano la coscienza degli uomini se vi riconoscono le punizioni alle loro colpe; se così non accade, alla presente redenzione può conseguire una seconda schiavitù. Inoltre, questa redenzione che qui si celebra non è opera di privati, ma del governo, che impone all’ex schiavo la lealtà al suo principe, l’obbedienza al governo, che deve essere pronto a difendere con la vita e la libertà a cui è stato restituito nel suo paese.333 Qui il riscatto restituisce soprattutto un suddito al suo re.
1.20 Memorie di schiavitù La permanenza in cattività produce una documentazione in un certo senso imprevista. Scrivere il resoconto delle sofferenze subite, soffermandosi sulla forza della propria fede capace di resistere alla tentazione di abiurare, ha il valore di un ex voto, offerto per grazia ricevuta; serve a far conoscere agli altri la potenza di Dio, che ha prima voluto mettere alla prova i suoi figli, punendoli per i peccati commessi, e poi li ha premiati restituendoli alla libertà e alla famiglia. La memoria delle traversie affrontate vuole mettere in guardia il lettore dai pericoli dei viaggi per mare e indurlo nello stesso tempo a compassione, così da spingerlo all’opera di carità consistente nel finanziare i riscatti per sottrarre i propri compatrioti dalle grinfie di «una società la cui religione è crudele, i costumi stravaganti e gli usi pressoché intollerabili».334 Ma c’è chi, all’opposto,
consapevole che queste descrizioni finiscono per alimentare tra le nazioni europee fin troppi pregiudizi contro i musulmani, auspica una storia fedele e veritiera di quegli stati di cui si sentono narrare solo crudeltà e castighi. Nei paesi cattolici si vuole credere alle «false relazioni di schiavi supposti che vanno mendicando per i paesi cristiani trascinando catene che in Africa non gli legarono giammai. Costoro per meglio coprire l’impostura mostrano attestati dei Padri della Redenzione [...] che a forza di preghiere e di denari hanno avuto da quelli che veramente colà sono stati schiavi e poi riscattati».335 I redenti, tornati in patria, tendono più a raccontare oralmente che a scrivere e fanno di questo un modo per raccogliere elemosine, imitati ben presto da “redenti di professione”, furfanti che imbrogliano i creduloni, con racconti di sofferenze inventate di sana pianta. « Accattosi son detti questi dalla cattività e schiavitudine di cui dicono essere stati longo tempo. Fingono aver parenti o fratelli in mano di Turchi, Saracini o corsari, per poter con tal mezzo ottener elemosine da riscattarli, ancorché non sia vero.»336 In alcune zone vengono chiamati sbrisci – «fingono di essere stati presi dai Turchi ed esser scappati dalle loro mani; e in tal miseria venuti vanno girando per non lavorare»337 – oppure formigotti, finti soldati di ritorno da battaglie contro gli infedeli, esibendo ferite e fasciature sul corpo. Queste “figure della furfanteria” giungono nelle piazze e, facendo rumore di catene e di fruste, attirano capannelli di curiosi, oziosi e ragazzi: «Cominciano a gridare “Allah, Allah, Allah, heber, elhemdu, lillahi, la illah, illelhac”, et altre parole con sì strana lingua, e mostrare longhe catene e ferri con cui dicono essere stati legati e dalla galera fuggiti, danno ad intendere al volgo d’aver ricevuta ogni dì grandissima quantità di bastonate da’ Turchi, inimici della fede di Cristo, mostrando certi segni che artificiosamente hanno fatto nelle carni. [...] Dicono d’aver mangiato pane secco, biscotto nero come la terra e aver bevuto acqua verminosa [...] che sono stati rinchiusi in strettissime carceri, ove non si vedea mai lume [...] e pure per beneficio e grazia ricevuta da Dio son campati vivi».338 Oscurità, digiuni e catene mai davvero conosciuti da questi finti galeotti e veri ciarlatani. Non ci sono noti i racconti orali, ispirati all’arte di vivere. Di contro i testi scritti, di cui alcuni molto noti, sono innumerevoli e hanno da tempo attirato l’attenzione degli studiosi;339 sono di qualità difforme, a stampa o manoscritti, e i loro autori, talvolta anonimi, hanno quasi sempre cura di disegnare il contesto entro cui si svolge la vicenda, descrivendo ampiamente le rotte che li hanno condotti per mare e i luoghi e le città che hanno veduto, talvolta corredando il
testo con cartine geografiche o topografiche. Si può pensare che la letteratura di viaggio sia nata, oltre che dai resoconti dei pellegrini nei luoghi sacri, anche attraverso gli impervi tragitti della schiavitù, per trovare i suoi capolavori nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719) e nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726): Crusoe, catturato in mare dai pirati barbareschi e schiavo in Marocco, fugge e naufraga su un’isola deserta; Gulliver, partito da Bristol, porto negriero, viene fatto schiavo da uomini piccolissimi, poi da giganti, infine da uomini dalla cui società resta soggiogato al punto da mal sopportare i difetti della propria, quando potrà farvi ritorno. La cattività influenza concezioni e valori, trasforma le sensibilità e la stessa identità di chi ne fa esperienza. Queste memorie, scritte dal protagonista stesso delle vicende o da qualcuno per lui, vengono stampate e vendute al dettaglio. Nel Regno Unito si trova talvolta l’elenco dei sottoscrittori e la cifra che ha consentito la pubblicazione. Nella penisola iberica, l’autore stesso può diventare il banditore che annuncia e propaganda l’opera, convincendo i curiosi che gli si avvicinano a cui spesso, per essere più persuasivo, mostra le catene che lo avrebbero avvinto in schiavitù e che ha portato con sé come esotico souvenir. Questi libretti, venduti durante le fiere, nei mercati e nelle pubbliche piazze, appesi a una cordicella (cordel) di spago, potrebbero essere stati una componente originaria della letteratura popolare. Se si pensa alle polemiche sui falsi permessi (papali o delle deputazioni) esibiti da presunti parenti di captivi per raccogliere elemosine finalizzate a un improbabile riscatto, la cattività si presenta come una risorsa da sfruttare in molti modi. Tutti i resoconti dichiarano in apertura l’intento di raccontare la verità, attenersi ai fatti, rinunciare a qualunque artificio letterario per farvi onore, narrare «la storia di una vera disavventura, senza ornamenti linguistici o voli di fantasia», con il degno corredo di «riflessioni disadorne».340 Scritti in prima persona, contengono rari dialoghi, nessuna citazione letteraria, descrizioni geografiche prolisse: non sempre insomma avvincono il lettore. La condizione di cattività fa sì che gli usi e i costumi del luogo vengano percepiti come barbari, segnali evidenti dell’inciviltà della gente e del dispotismo dei suoi governanti. I nostri “viaggiatori per forza” soffrono il caldo in maniera insopportabile, il sole ustiona la loro pelle chiara e li acceca; hanno sete e devono piegarsi a bere l’acqua putrida o l’urina dei cammelli; disprezzano il paesaggio arido e montuoso o persino desertico; sono atterriti dai grandi animali selvatici che avvistano frequentemente; non sono abituati a camminare scalzi e i loro piedi si riempiono di tagli e vesciche; le manifestazioni di giubilo della popolazione
all’arrivo delle carovane sembrano loro una gazzarra insopportabile; i colpi di moschetto sparati in aria li inquietano; trovano invadente la curiosità nei loro confronti; non apprezzano nemmeno il cuscus e solo latte e frutta recano qualche sollievo alla loro fame; solo quando i mercanti europei li invitano nelle loro dimore riprendono il gusto per la “conversazione” e per il cibo. Certo non si trovano nelle migliori condizioni per potere apprezzare tutte le esotiche novità della loro nuova e indesiderata condizione. Molti uomini sembrano fare di necessità virtù, dimostrano un maggiore spirito di iniziativa e amore dell’avventura, organizzano ardite fughe341 o trovano moglie e status.342
1.21 Agenzie di integrazione Se viene accolto nella Casa dei catecumeni, lo schiavo che vuole convertirsi al cattolicesimo può coltivare una serie di aspettative; dopo il battesimo riceve una somma di denaro proveniente dalle elemosine; può aspirare a ottenere il diritto di cittadinanza, la possibilità di risiedere e di lavorare in terra cristiana; «vi sono quelli che vi entrano per sfamarsi, per farsi curare, addirittura per partorire. Fra gli scrocconi si contano persino i catecumeni di professione: gente che ha già pronunciato l’abiura e ricevuto il battesimo due-tre volte in altri ospizi d’Italia».343 Studiando i catecumeni torinesi provenienti dalla religione ebraica, Luciano Allegra suggerisce che la conversione si collochi in quella delicata fase del ciclo di vita che è l’ingresso nel mercato matrimoniale, l’occasione più importante per la ridistribuzione delle risorse all’interno delle famiglie del ghetto di Torino. Data l’importanza delle doti femminili, che rappresentano «un’isola di immunità che salvava i patrimoni dall’assalto dei creditori o serviva a finanziare le intraprese commerciali delle famiglie»,344 i giovani maschi ebrei possono essersi sentiti deprivati, insoddisfatti, frustrati e avere pensato di procurarsi con l’abiura «un’anima nuova di zecca»345 per cambiare identità e vita. Dunque, le strategie familiari e le logiche di trasmissione della proprietà entrano prepotentemente nelle scelte religiose, facendoci guardare alla questione in modo più sottile e realistico, fuori dalla contrapposizione tra opportunismo e sincerità. I 1300 musulmani accolti dal 1590 al 1670 nella Casa dei catecumeni di Venezia sono per lo più stranieri (la metà degli ebrei sono, invece, veneziani):
vengono dai Balcani ottomani, dalle isole greche, dall’Anatolia, dal Nord Africa, molti di loro sono soldati o marinai, la maggioranza schiavi domestici; arrivano soprattutto soli, essendo già avvenuta la separazione dalla famiglia e dalla loro comunità. L’istituzione religiosa si preoccupa, dopo che sono stati battezzati, di collocarli decorosamente presso botteghe o come soldati e marinai; alcuni convertiti sono occupati come collettori di elemosine per la pia Casa; le donne vengono collocate al servizio domestico e sposate con altri convertiti o con artigiani del luogo; i padrini di battesimo frequentemente si preoccupano di dotarle. Come si vede, oltre alla sollecitudine per le anime, l’istituzione veneziana si preoccupa di produrre soggetti socialmente bene integrati. Da questo punto di vista, «per i musulmani (soprattutto immigrati) e gli ebrei (soprattutto locali), diventare cattolici nella Venezia di età moderna avvia un processo prolungato di trasformazione sociale e di inserimento nelle nuove relazioni di patronage e di parentela surrogata. In questo senso, il battesimo segna l’inizio piuttosto che la fine di un percorso di trasformazione»346 e di integrazione sociale. I convertiti intrattengono buoni rapporti con la Casa per tutta la loro vita, rinegoziando la propria collocazione, e i deputati esercitano un controllo sulle famiglie dove questi sono allocati onde evitare maltrattamenti eccessivi e soprusi ingiustificati. I governatori della Casa e i benefattori diventano membri della fictive skin – la famiglia politica – dell’ex schiavo e, nello stesso tempo, gli esecutori del bene comune della Repubblica, adempiendo così a un compito pubblico. L’istituto usa anche mezzi coercitivi: la giovanissima Maria viene catturata dai veneziani nel 1652 sull’isola greca di Skiros e condotta a Creta dove, subito battezzata, viene messa in convento e fatta sposare con un luogotenente del conte Sabeni, un luterano tedesco, di nome Stefan, che poco dopo muore. Quando Sabeni torna a Venezia, porta con sé la giovane e la tiene al suo servizio; due anni dopo Maria chiede di tornare al suo paese e, invece, viene spedita in fretta nella Casa dei catecumeni: vi rimane per un anno e mezzo, quindi viene allocata a servizio a casa del veneziano Gerolamo Avogadro, finché non viene organizzato il suo matrimonio. Dunque, viene curata la nostalgia del paese natio e si scongiura il pericolo di una ricaduta nella religione musulmana grazie a una provvisoria permanenza nella Casa e alla definitiva sottomissione a un marito cristiano.347 Molte converse collocate a servizio domestico divengono concubine dei padroni. Ma la pratica del concubinato, diffusa nel patriziato, tra i mercanti, i funzionari pubblici ecc. assume qui una peculiarità: le figlie naturali dei patrizi
veneziani vengono cresciute, educate, dotate e destinate a un buon matrimonio, alla stregua delle figlie legittime, e la concubina rappresenta una “quasi-moglie”. Il concubinato – spesso protratto per anni o concluso talvolta con le nozze – assume le caratteristiche di un «matrimonio ombra»;348 soprattutto quello di uno scapolo assomiglia molto al matrimonio: la concubina governa la casa come «madonna e patrona»; è solita sedere a tavola con lui e i suoi ospiti, dare ordini alla servitù, non frequentare altri uomini. Talvolta è giunta vergine al concubinato; resta in ogni caso «riservata e a sola requisitione»349 dell’uomo che la mantiene. In sostanza, all’interno delle pratiche matrimoniali vanno ricercate molte delle ragioni delle conversioni, soprattutto, ma non solo, delle donne. E non solo in terra cristiana. La documentazione ottomana delle corti di giustizia basate sulla legge islamica tra il 1650 e il 1700 contiene centinaia di atti di conversione all’islam di schiave cristiane ed ebree. La corte islamica viene spesso usata da queste donne soprattutto per transazioni economiche: vendono e comprano beni, prestano denaro, stipulano usufrutti ecc. Anche da queste parti, le donne sono consapevoli delle leggi e accedono alla giustizia per difendere i propri diritti. Quando richiedono di essere affrancate alla morte del padrone, se sono convertite, rivendicano allo stesso tempo parte della sua eredità: affermano, come prevede la legge, sia la loro libertà sia il diritto ai beni del defunto. A donne non musulmane la conversione offre la possibilità di «sfuggire a mariti o a padroni indesiderati e l’opportunità di creare uno spazio per rinegoziare la loro condizione».350 Le schiave possedute da cristiani ed ebrei, una volta convertite, vengono liberate oppure rivendute all’élite musulmana; le donne libere, mogli di ebrei o cristiani, divenute musulmane ottengono la possibilità di potersi risposare e di tutelare giudizialmente la restituzione della dote. Le donne ebree e cristiane sembrano avvantaggiarsi della legge islamica e si convertono per rivolgere alle corti islamiche richieste di divorzio, per ottenere l’affidamento dei figli e per potersi risposare: i loro mariti, cristiani o ebrei “ostinati”, non comprendono la “superiorità” dell’islam e perdono per questa ragione i diritti e la custodia dei figli, sono obbligati alla restituzione della dote, mentre le neoconvertite accedono a un nuovo matrimonio con un musulmano, spesso dopo matrimoni di interesse o combinati. In un caso, un’adultera ebrea con la conversione all’islam riesce a evitare di morire lapidata. Questi atti di conversione, stereotipati e concisi, succintamente dichiarano
che l’esponente «rinuncia a essere un infedele, diventa musulmano e entra nell’islam»;351 pronuncia la formula di rito («Testifico che non c’è Dio se non Allah e che Maometto è il suo Profeta») e dichiara di avere preso un nuovo nome: un viaggio lineare dal buio alla luce, dal disonore alla condizione di fedele, dal passato al presente. La conversione anche qui si rappresenta come una seconda nascita. Le donne schiave, in particolare, raggiungono la migliore condizione quando sposano un musulmano libero e gli danno dei figli. Essere madre dei figli del padrone dà alla donna una serie di vantaggi legali: lo abbiamo già visto. I suoi figli nascono liberi, se la madre non viene liberata in questa circostanza viene affrancata alla morte del padrone e ne diviene erede (ricorre alla corte islamica se questo diritto le viene contestato). Questa forma di affrancamento, estremamente diffusa nella Istanbul del Seicento, comporta un certo rischio, poiché si basa sull’esplicito riconoscimento del bambino da parte del padre: il destino della schiava è legato, in ogni caso, alla volontà del suo padrone. Infine, una schiava divenuta musulmana viene sottratta al padrone di religione diversa e la corte islamica “supplica” l’imam di trovare per lei un’adeguata sistemazione. I muezzin lanciano l’appello dall’alto dei minareti e diffondono la notizia del caso. La soluzione arriva da pii musulmani di rango che si occupano di rivendere la schiava a un correligionario. La presenza tra gli acquirenti di ufficiali governativi, membri del clero islamico, maestri di scuole religiose dimostra come questi personaggi considerino un dovere e un atto di carità l’inserimento dei neoconvertiti nelle loro famiglie. Questi divengono così schiavi dell’élite musulmana e possono sperare di ottenere in breve tempo di essere affrancati. «La frequenza del remariage dopo il divorzio da parte di cristiane ed ebree, schiave e libere, dimostra come la conversione sia il prerequisito per un nuovo matrimonio.»352 Insomma, il matrimonio sembra continuare a svolgere la funzione “civilizzatrice” di trasformare una relazione sessuale in un con-jugium, creando legami, relazioni sociali. Ritorniamo brevemente a quanto dichiarano i rinnegati che si presentano spontaneamente in Sicilia dinanzi al tribunale del Santo Uffizio, per autodenunciarsi. Ho selezionato un gruppetto di donne di varia provenienza, soprattutto greche, ungheresi, dalmate, russe, ma anche di Venezia, Granada, Palermo, catturate in epoche diverse tra gli ultimi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento. Beatriz de Toro viene catturata a otto anni, insieme alla madre, da Barbarossa nella razzia di Cariati in Calabria. Viene condotta a
Costantinopoli dove, all’età di ventisei anni, abiura – dice all’inquisitore – per evitare maltrattamenti; la «vestirono alla turca» e la sposarono a un musulmano che rivestiva un ruolo importante, a cui diede dei figli. Non sappiamo nulla delle ragioni della sua fuga, messa in atto con l’aiuto di un calabrese, il quale riesce e farla imbarcare su un legno francese che la conduce a Messina, dove lei stessa richiede di incontrare il giudice per essere ammessa «nel seno della santa Madre Chiesa».353 Se nel 1543, data del saccheggio di Cariati, Beatriz aveva otto anni, nel 1577, anno del suo processo, ne ha quarantadue; i suoi figli devono essere ormai adulti e forse persino sposati a loro volta; il marito può avere sposato nel frattempo altre e più giovani mogli, ed essendo questi un musulmano, la Chiesa non le imputa l’abbandono del tetto coniugale. La sua vita da adulta è trascorsa in parte in cattività, da cui l’hanno tratta il matrimonio e la nascita dei figli. Può essere rimasta legata alla sua cultura e alla sua religione, soprattutto se la madre, insieme alla quale è stata catturata, le è rimasta vicino, oppure può avere praticato riti musulmani solo come adesione esteriore alla cultura del paese ospitante, avendo dimenticato quelli della propria religione. Si è adeguata insomma alle usanze, alle abitudini di un altro paese finché quel calabrese è entrato nella sua vita. Molte delle nostre rinnegate vengono catturate in tenera età: a sei anni la russa Margarita, a sette anni la ragusea Maria, a dieci anni la veneziana Magdalena, la hungara Ana e la greca Anastasia, a quattordici la hungara Bernica e la granadina Leonor; non è difficile credere che si siano ben presto e facilmente convertite all’islam. Il matrimonio con un musulmano è il modo più usuale di farsi affrancare, e il passaggio di religione, che avviene sempre in concomitanza delle nozze, può avere luogo più volte: la palermitana Susanna fa «amicizia» con un turco che la fa rinnegare, poi «tratta» con un ebreo e crede «nella legge di Mosè»; per otto anni pratica contemporaneamente le due religioni, mentre continua a confessarsi, per non insospettire il parroco, sebbene «in peccato mortale»; infine ricorre alla magia ad amorem, poiché si è innamorata di un uomo che non la ricambia, e chiama il diavolo per esaudire il suo desiderio amoroso.354 Questa donna, che si definisce concubina, rappresenta un caso certo straordinario: pratica insieme le tre religioni monoteistiche, e anche le arti magiche. Più comunemente accade come nel caso della greca Maria, la quale, «trovandosi nell’isola di Scio, abitata da turchi e da cristiani», si innamora di un turco, rinnega e lo sposa; ma rinnega solo esteriormente, poiché fa vita da cristiana, osservando le domeniche e le altre feste comandate. Almeno così dice all’inquisitore. Resta in questa situazione per ben diciannove anni, fin
quando, innamoratasi di un greco cristiano, lo sposa e, venendo in Sicilia, chiede misericordia al Santo Uffizio.355 Il cambiamento di religione concede una particolare libertà a queste donne che possono contrarre e sciogliere più di un matrimonio.
1.22 Pesci volanti Per riassumere la casistica descritta nelle pagine precedenti si può affermare che la conversione è una nozione densa; nella sua accezione di cambiamento di appartenenza religiosa presenta un’ampia scala di variabili: dalla conversione coatta, imposta da leggi di espulsione o da violenze fisiche, a quella volontaria, maturata e sofferta, all’adesione esteriore, opportunista (per salvarsi la vita), simulata, maturata nella crisi identitaria del deplacement della cattività e strumento di integrazione sociale e culturale. Più che una contrapposizione tra conversioni forzate e conversioni spontanee, ci troviamo di fronte a un ampio ventaglio di situazioni – conversioni di “contiguità”, di convenienza, individuali e di gruppo, simulate, incomplete, reiterate – con molte posizioni intermedie, zone di confine, dove si configurano credenze religiose “miste”, effetto dell’ibridazione di credenze e pratiche cultuali, come abbiamo visto tra i rinnegati. Casi di biconfessionalità, sincretismo, criptocristianesimo e criptoebraismo in terra islamica, ma anche criptomusulmani tra i cristiani, tutti «portatori d’una fede segreta».356 Talvolta strategie familiari complesse tendono a realizzarsi con appartenenze religiose diverse. C’è «una certa plasticità della conversione all’islam, che non è per forza una rottura brutale con l’ambiente cristiano. Si può scegliere di rinnegare come un male necessario, per preservare la propria famiglia, con la segreta speranza di morire cristiani, nella clandestinità, nell’esilio. Ci si può anche pentire e accettare il martirio, talvolta persino cercarlo. [...] Il rinnegamento sembra una decisione individuale che si impone come tappa dell’ascesa sociale, ma più spesso, nelle nostre fonti, come una risposta a una difficoltà sociologica o psicologica. [...] Dunque sono i conflitti confessionali intracomunitari e intrafamiliari che spingono a valicare le barriere [...]; infine, l’incursione dell’Occidente, con i suoi consoli, mercanti, missionari offre con la conversione al cristianesimo e l’emigrazione un’alternativa alla conversione
all’islam».357 La conversione non comporta quasi mai l’abbandono di tutte le credenze religiose precedenti, ristagna sempre qualcosa della religione lasciata. L’abbandono della propria religione e dei valori morali che vi si collegano esige un salto culturale gigantesco, fuori della portata della maggioranza degli individui. Questo è ancora più vero quando le conversioni sono motivate dalla paura di punizioni e di maltrattamenti, o dalla speranza di un profitto materiale. Il passaggio di religione appare avere un ruolo nell’integrazione dello schiavo in una società diversa da quella di provenienza. In un certo senso, la capacità inclusiva della conversione – non sembri paradossale – consente di assimilare lo straniero, l’“altro”, il diverso, il nemico. I rinnegati sono in verità un ibrido, non sono né mori né cristiani, in quanto il passaggio da una religione all’altra produce una sorta di posizione intermedia tra le due, un’area di confine, una terra di nessuno nella quale la manifestazione esteriore dell’appartenenza dipende dal contesto e dal caso: Hyeronimo de Mendoça scrive che i rinnegati, chiamati elches, «non sono cristiani, essi presentano una differenza tra il loro aspetto esteriore e le loro convinzioni profonde; a ragione alcuni dicono che gli elches sono le persone più disgraziate del mondo, perchè i mori li considerano cristiani e i cristiani mori. Né i cristiani né i mori hanno ragione perché essi non sono né l’uno né l’altro». Poco dopo racconta un aneddoto riguardante il sultano ‘Abd al-Malik: «Talvolta Molei Maluco, quando entrava nella chiesa dei cristiani a Marrakech, gettava per scherzo dell’acqua benedetta sugli elches, se essi se ne facevano scrupolo lui li derideva moltissimo, chiedendo loro perché negassero la verità; altre volte diceva loro: “Le vite e le persone mi servono fedelmente, le anime non mi interessano affatto”. In verità i re di Barberia sapevano bene che gli elches non sono affatto mori».358 Il pregiudizio musulmano verso i convertiti non sembra intralciarne l’integrazione e la carriera. I conversi sono guardati con sospetto da tutte e tre le religioni monoteistiche; da qualunque parte provengano sono considerati in una condizione liminare e quindi pericolosi, infidi, traditori, «perché dimostrerebbero che le religioni sono molto più vicine di quanto dichiarano. Questo è particolarmente significativo se si pensa che si tratta di tre monoteismi le cui somiglianze non sono poche. I conversi ricordano a chi vorrebbe farne a meno che tutto sommato c’è una base comune e una interscambiabilità delle “fedi”. Questo è forse lo scandalo maggiore. Coloro che apostatizzano e si convertono ad altro sono dei “traduttori” viventi tra fedi. Essi dimostrano che le professioni religiose diverse non sono
incommensurabili [...], gli apostati sono pericolosi perché introducono la relatività degli entusiasmi religiosi [...]. I conversi sono dei creoli [...] la conversione è una messa in relatività di religioni che si autoproclamano universali. Ogni conversione mette in dubbio questa universalità».359 Forse però c’è anche dell’altro: il 15 luglio 1660 viene registrato dall’autorità francese di Tunisi un accordo tra Francesco di Polo, di Cap Corse, e il qā yid Assano, rinnegato corso, al quale chiede in moglie la sorella Provincia; il rinnegato acconsente ed entrambi giurano sulle Sacre Scritture. Evidentemente la dote della donna servirà a pagare l’affrancamento del giovane schiavo. Ma perché farlo davanti a un ufficiale francese? E perché giurare sulle Scritture? Bartolomé e Lucile Bennassar suggeriscono che «questi cristiani arruolati all’Islam e, come sembra, bene integrati nella società musulmana mantenessero il sentimento di una doppia appartenenza, cristiana e musulmana, civile e religiosa...».360 Agiscono al confine tra sistemi normativi diversi che usano insieme, più spesso vittime dell’uno e dell’altro, talvolta abili (o fortunati) manipolatori. Le loro convinzioni non provengono dall’approfondimento di principi teologici, quanto piuttosto dall’assunzione di pratiche rituali condivise dall’ambiente in cui si trovano a operare e che producono inedite commistioni: Maometto siede alla destra del Padre, è figlio di Dio, è la terza persona della Trinità; le abluzioni precedenti la preghiera servono a lavare i peccati; Dio non ha moglie e dunque non può avere figli; Dio non può vivere in un’ostia che per di più viene inghiottita; nessun uomo può rimettere i peccati di un altro; i preti sono “ingannamondo”; castità e monogamia sono sbagliate; Giacomo (di Compostela) è genero di Maometto; “la, laha, illa...” significa “Gloria Patris et Filii...”. La convinzione diffusa sulla bontà di qualunque fede religiosa per la conquista della salvezza contiene l’eco sbiadita del versetto coranico «Ma coloro che credono, e i giudei e i sabei e i cristiani (quelli che credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e che operano il bene) nulla essi han da temere e non saranno attristati»,361 e il filosofo e mistico Ibn al-‘Arab ī,persuaso che Dio abbia rivelato qualcosa di sé a tutti i credenti, concependo l’unità di tutte le religioni,362 incoraggia a pensare che «ogni religione rivelata è una via che conduce a Dio, e sono vie diverse. Pertanto, le autorivelazioni non possono che essere diverse, come diversi sono i doni divini [...]. Ma Lui è Lui, non altri che Lui».363 «La maestà de Dio ha dato il Spirito santo a tutti: a christiani, a heretici, a Turchi, a Giudei, et li ha tutti cari, et tutti si salvano a un modo»,364 confessa il mugnaio Menocchio, che forse ha letto il Corano, all’inquisitore di fronte al quale viene
accusato nel 1583. «Oh Dio misericordioso – scrive Joseph Pitt, un giovane marinaio di Exeter, schiavo ad Algeri tra il 1678 e il 1693, a conclusione del suo resoconto di prigionia –, abbi pietà di tutti gli ebrei, turchi, infedeli ed eretici.»365 Al-Sasan al-Wazzan, ambasciatore del re di Fez, donato da un pirata spagnolo al papa Leone X, divenuto cristiano con il nome di Leone l’Africano, racconta l’apologo dei pesci volanti che stanno ora tra gli uccelli ora sott’acqua per sfuggire alla richiesta del re di ciascuno dei due regni di pagare il tributo: sfuggono così all’esazione, ma sviluppano una personalità doppia, sfaccettata, e la libertà di «muoversi strategicamente tra posizioni culturali diverse».366 Questi individui dalle credenze religiose ibride sono i “dissimulatori” di cui dicevo sopra, uomini e donne di frontiera, la cui conversione favorisce la libertà individuale367 e il cui «camminare ai margini ha portato alla vita il pensiero europeo [...]: pare che il problema della simulazione possa essere impostato secondo un’ottica di libertà progrediente, dove individui e gruppi, sia pure in modi contorti, si conquistano spazi autonomi, sottraendosi alla pressione sociale».368 Abitatori di una terra di mezzo, dunque, di una terra di nessuno. La pressione esercitata dalla religione dominante ha potuto condurre a diversi stadi di riflessione, a partire dalla costruzione di personali credenze e punti di vista, una “zona grigia” capace di condurre sino allo scetticismo e all’incredulità. 1
Charles Verlinden, L’esclavage dans le Centre et le Nord de l’Italie continentale au bas Moyen-Âge, in “Bulletin de l’Institut historique belge de Rome”, XLI, 1969, pp. 93-155; Id., L’esclavage dans l’Europe médiévale. Italie, colonies italiennes du Levant, Levant latin, Empire byzantin, II, Gent 1977; Jacques Heers, Les négriers en terres d’islam. La première traite des Noirs, VIIe-XVIe siècle, Perrin, Paris 2001. 2 Bernard Vincent, 1492. L’année admirable, Flammarion, Paris 19962. 3 Sefarad è un toponimo biblico del Vicino Oriente ma di incerta identificazione; dopo il 1492 designa gli ebrei di Spagna. Cfr. Joseph Pérez, Los Judíos en España, Marcial Pons, Madrid 2005, pp. 11-12, ma vedi il cap. “La diáspora sefardí”, pp. 221-266. 4 Le incursioni turche in suolo italiano datano dal 1472 al 1499 e a Otranto i turchi arrivano nel 1480 e ci rimangono per tredici mesi. Cfr. Giovanni Ricci, I Turchi alle porte, il Mulino, Bologna 2008, pp. 26 ss. 5 Niccolò Capponi, Lepanto 1571. La Lega santa contro l’impero ottomano, il Saggiatore, Milano 2008. 6 Lucette Valensi, Venezia e la Sublime Porta. La nascita del despota, il
Mulino, Bologna 1989, p. 104. 7 Philip Gosse, Storia della pirateria, Sansoni, Firenze 1962; Salvatore Bono, I pirati barbareschi, ERI, Torino 1964; Id., Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani tra guerra, schiavitù e commercio, Mondadori, Milano 1993; Id., Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vu’ cumprà, domestici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999; Id., Lumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento, Morlacchi, Perugia 2005; Sergio Anselmi (a cura di), Pirati e corsari in Adriatico, Silvana editoriale, Milano 1998; Marco Lenci, Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterraneo, Carocci, Roma 2006. 8 Peter Kolchin, American Slavery (1619-1877 ), Penguin Books, New York 1995, p. 5. 9 Wolfgang Kaiser, Introduction a Id. (sous la direction de), Le commerce des captifs, École Française, Roma 2008, p. 4. 10 Charles Dellon è ospite, nel 1676, di quella di Lisbona, dove sono rinchiusi i condannati del Santo Uffizio o dei tribunali laici, schiavi fuggitivi o “incorreggibili”, turchi fatti schiavi sulle navi corsare barbaresche, tutti obbligati a lavori forzati, incatenati a due a due, affamati e frustati selvaggiamente. Dellon, prigioniero dell’Inquisizione, racconta le sue avventure che lo conducono da Goa al Brasile in una straordinaria memoria illustrata, L’Inquisition de Goa. La relation de Charles Dellon (1686), étude, édition et notes de Charles Amiel et Anne Lima, Editions Chandeigne, Paris 1997. La descrizione della galera portoghese alle pp. 262-265. 11 Leva periodica, risalente al XII secolo, di bambini cristiani provenienti per lo più dai Balcani, dalla Grecia e in misura minore dall’Anatolia, sottratti alle famiglie a titolo di tributo e allevati in particolari scuole militari per farne dei soldati o degli amministratori dell’impero, giannizzeri o askeri. Truppa di élite, i giannizzeri ricevono un soldo, rimangono celibi e dedicano la loro vita al sultano. Gli “schiavi del sultano” provvedono il governo centrale di sudditi bene addestrati, leali ed efficienti: «le basi della lealtà consistono nell’essere teoricamente senza radici e senza legami». Metin Ibrahim Kunt, Ethnic-Regional (Cins) Solidarity in the Seventeenth-Century Ottoman Establishment , in “International Journal of Middle East Studies”, n. 5, 1974, p. 233. L’autore però ne rintraccia i legami con la lingua, i costumi, i conterranei di personaggi vicini al governo ottomano. 12 Quelli tra il 1620 e il 1660 sono gli anni cruciali, secondo Michel Fontenay, L’esclavage en Méditerranée occidentale au XVIIe siècle, in Association des Historiens Modernistes des Universités, La Méditerranée occidentale au XVIIe
siècle, in Actes du Colloque de 1989, Bulletin n. 14, Presse de l’Université de Paris-Sorbonne, Paris 1990, p. 20. 13 Mario Marzari, Galere, fuste, galeazze, sciabecchi: le navi dei corsari, in Anselmi (a cura di), Pirati e corsari in Adriatico, cit., pp. 23-36. 14 Dalle informazioni tratte dai Riveli di beni e di anime (dove troviamo registrati tra i beni anche gli schiavi e il loro rispettivo valore, come emerge ad esempio dallo studio di Rosaria Cancila, Fisco, ricchezza, poteri nella Sicilia del Cinquecento, s.e., Palermo 1999) sono state contate 138 incursioni nelle coste siciliane tra il 1570 e il 1606, ma occorre integrare questo dato con quelli provenienti da altre fonti, come suggerisce Giuseppe Bonaffini, La Sicilia e i Barbareschi. Incursioni corsare e riscatto degli schiavi (1570-1606), Ila-Palma, Palermo 1983. 15 Verlinden, L’esclavage dans le Centre et le Nord de l’Italie continentale au bas Moyen-Âge, cit., pp. 93-155; Giovanni Marrone, La schiavitù nella Society siciliana dell’età moderna, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1972, pp. 56-59. La quantificazione della popolazione schiavile siciliana è controversa: Antonio Franchina, Un censimento di schiavi nel 1565, in ASS, n. 32, 1907, pp. 374-420 parla di 12 000 schiavi; Corrado Avolio, La schiavitù domestica in Sicilia nel secolo XVI , Bucina, Firenze 1888 di 50 000 schiavi. Sul fenomeno in generale cfr. Henri Bresc, Une société esclavagiste médiévale: l’exemple de la Sicile, in Aa.Vv., Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo e età moderna, Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, Cagliari 1993, t. II, pp. 297-314. 16 Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II , Einaudi, Torino 19532, vol. II, pp. 895-974. 17 Jean Monlaü, Les Etats barbaresques, PUF, Paris 1973; Ciro Manca, Il modello di sviluppo delle città marittime barbaresche dopo Lepanto, Giannini, Napoli 1982; Jacques Heers, I barbareschi. Corsari del Mediterraneo, Salerno editrice, Roma 2003. 18 Il narratore improvvisa secondo la propria creatività, servendosi contemporaneamente di un repertorio il cui canovaccio è stereotipato, P.N. Boratav, Madāḥ, in Encyclopédie de l’Islam, Brill-Maisonneuve, Leiden-Paris 1991, alla voce. 19 Salvatore Mazzarella e Renata Zanca, Il libro delle torri. Le torri costiere di Sicilia nel secoli XVI-XX , Sellerio, Palermo 1985, p. 207. 20 Ringrazio Giulia Gargiulo per avermi segnalato l’episodio. 21 Rinaldo Panetta, Pirati e corsari. Turchi e barbareschi nel Mare nostrum, Mursia, Milano 2001, p. 145.
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«Complessivamente, nel corso dei secoli XVII e XVIII furono probabilmente più di 20 000 i prigionieri britannici in mano ai berberi», tolti i morti, i fuggitivi e i rinnegati. Così Linda Colley, Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo. 1600-1850, Einaudi, Torino 2004, p. 48. 23 Eyal Ginio, Piracy and Redemption in the Aegean Sea during the First Hal of the Eighteenth Century, in “Turcica”, n. 33, 2001, p. 138. 24 Colley, Prigionieri, cit., p. 80. 25 Raffaella Sarti, Bolognesi schiavi dei “Turchi” e schiavi “turchi” a Bologna tra Cinque e Settecento: alterità etnicoreligiosa e riduzione in schiavitù, in “Quaderni storici”, n. 107, 2001, p. 440. 26 Ricco di informazioni l’ormai classico lavoro di Mirella Mafrici, Mezzogiorno e pirateria nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), Edizioni Scientifiche Italiane, Salerno 1995 e più sinteticamente Ead., I mari del Mezzogiorno d’Italia tra cristiani e musulmani, in Walter Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annali 18, Einaudi, Torino 2002, pp. 73-121. 27 Annunziata Russo Osman, I grandi corsari e Capri: Khair ed-Din e Dragut , in Elisabetta Serrao e Giancarlo Lacerenza (a cura di), Capri e l’Islam, La Conchiglia, Capri 2000, pp. 151-163. 28 Aldo Gallotta, Le gazavāt di Kayreddī n Barbarossa, in “Studi maghreboli”, III, 1970, IUO, Napoli pp. 79-160. La carica di kapudan pascià è una delle massime dello stato turco (inferiore solo al gran visir), a cui il sultano assegna una cospicua rendita annuale. 29 Pietro Aretino, Il secondo libro delle lettere, a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1916, p. 54. Sul Barbarossa la letteratura è sterminata. 30 Tra il 1609 e il 1616 catturano 466 legni inglesi, e 80 francesi tra il 1628 e il 1634. Robert C. Davis, The Geography of Slaving in the Early Mediterranean, 1500-1800, in “Journal of Medieval and Early Modern Studies”, 37, 1, 2007, p. 68. 31 Luca Lo Basso, Reclutamento di galeotti e gestione dell’armata ottomana tra XVI e XVII secolo, URL http://www.assostoria.it/Armisovrano/Lo%20Basso.pdf. 32 Lo Basso ha calcolato che nel 1558 il sultano possedeva 80 galere, che diventano 164 – un picco ineguagliato – nel 1592. Nel Seicento il numero si assesta tra 30 e 76 per declinare ancora nel Settecento. Ivi, tabella di p. 8 e grafico di p. 9. 33 Michel Fontenay, Les galères de l’Islam, in Quand voguaient les galères, Rennes 1991, pp. 234-251.
34
Yvonne J. Seng, A Liminal State: Slavery in Sixteenth-Century Istanbul, in “Interdisciplinary Journal of Middle Eastern Studies”, Princeton Papers, 1999, p. 28. 35 Gino Guarnieri, I Cavalieri di Santo Stefano nella storia della Marina italiana (1562-1859), Nistri-Lischi, Pisa 1960; Franco Angiolini, I cavalieri e il rincipe. L’Ordine di Santo Stefano e la Society toscana in età moderna, Edifir, Firenze 1996; Ernle Bradford, Lo scudo e la spada. La storia dei Cavalieri di Malta, Mursia, Milano 1985; Alberto Tenenti, Venezia e i corsari (1580-1615), Laterza, Bari 1961; Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Sansoni, Firenze 1975. 36 Rosaria Cancila, Corsa e pirateria nella Sicilia della prima età moderna, in “Quaderni storici”, n. 107, 2001, pp. 363-377. 37 Maximiliano Barrio Gozalo, Esclavos y cautivos. Conflicto entre la Cristianidad y el Islam en el Siglo XVIII , Junta de Castilla y Leon, Valladolid 2006, p. 29. 38 Maria Pia Pedani, Breve storia dell’impero ottomano, Aracne, Roma 2006, p. 71. 39 Sadok Boubaker, Reseaux et techniques de rachat des captifs de la course à Tunis au XVIIe siècle, in Kaiser (sous la direction de), Le commerce de captifs, cit., p. 32. 40 Leïla Maziane, Salé et ses corsaires (1666-1727), Presse Universitaires de Caen, Caen 2007, p. 269. 41 Charles Verlinden, Le recrutement des esclaves à Venise au XIVe siècle, in “Bulletin de l’Institut historique belge de Rome”, XL, 1968, pp. 84-202; Id., L’esclavage dans le Centre et le Nord de l’Italie continentale au bas Moyen-Âge, cit., 93-155; Id., L’esclavage dans l’Europe médiévale, cit., t. II; Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Economie et societé en Sicile, 1300-1450, École Française de Rome, Roma 1986, vol. II; Jacques Heers, Esclaves et domestiques au moyen âge dans le monde méditerranéen, Fayard, Paris 1981; Marrone, La schiavitù nella Society siciliana dell’età moderna, cit. 42 Luca Lo Basso, Schiavi, forzati e buonevoglie. La gestione dei rematori delle galere dell’Ordine di Santo Stefano e della Repubblica di Venezia. Modelli a confronto, in L’Ordine di Santo Stefano e il mare, ETS, Pisa 2001. 43 Giorgia Alessi, Pene e remieri a Napoli tra Cinque e Seicento. Un aspetto singolare dell’illegalismo di Ancien Régime, in “Archivio storico per le province napoletane”, A. XV, 1977, pp. 235-251; Maurice Aymard, Chiourmes et galéres dans la seconde moitié du XVIe siècle, in Gino Benzoni (a cura di), Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olschki, Firenze
1974 e soprattutto André Zysberg, Les galériens. Vies et destins de 60 000 forçats sur les galéres de France (1680-1748), Le Seuil, Paris 1987. 44 Lo sostiene Michel Fontenay, L’esclave galerien dans la Mediterranee des temps modernes, in Henri Bresc (sous la direction de), Figures de l’esclave au Moyen-Âge et dans le monde moderne, L’Harmattan, Paris 1996. 45 Aymard, Chiourmes et galères dans la seconde moitié du XVIe siècle, cit., pp. 71-91. 46 Beatrice Pasciuta, Homines aut liberi sunt aut servi: riflessione giuridica e interventi normativi sulla condizione servile fra medioevo ed età moderna, in Giovanna Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e liberty nel Mediterraneo di età médiévale e moderna, in “Incontri mediterranei”, A. XVII, nn. 1-2, 2008, p. 48. 47 Giorgio Bonabello, La “fabbricazione” dello schiavo nell’antica Roma. Un’antropo-poiesi a rovescio, in Francesco Remotti (a cura di), Forme di umanità. Progetti incompleti e cantieri sempre aperti, Paravia, Torino 1999, p. 67. 48 Luigi Amirante, Postliminio (diritto romano), in Novissimo digesto italiano, UTET, Torino 1976, vol. XIII, pp. 429-433. 49 Eva Cantarella, Scioglimento del matrimonio, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano 1989, vol. XLI, p. 648. 50 Secondo la bella definizione di Gaio (1, 9): «Tutti gli uomini o sono liberi o sono servi»; ai padroni è dato illimitato potere di vita e di morte sui servi (Gaio 1, 52). Gennaro Francisci, Schiavitù, in Enciclopedia del diritto, cit., vol. XLI, p. 626. 51 Amirante, Redemptio ab hostibus, in Novissimo digesto italiano, cit., vol. XIV, pp. 1101-1104. 52 Una rassegna delle varie posizioni in Maria Virginia Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ad hostibus, Edizioni AV, Cagliari 2001. 53 Vedi l’utile rassegna del pensiero cattolico in Ernesto Gonzales Castro, Schiavitù e Captivitas, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1988, vol. VIII, col. 1042. 54 Ivi, col. 1043. 55 Ivi, col. 1044. 56 Che tra le clausole del trattato di tregua tra Riccardo Cuor di Leone e il Saladino non vi sia alcun cenno ai captivi di entrambe le parti attesta che ciascuno decide di tenere i propri prigionieri, piuttosto che scambiarli liberando in tal modo i propri correligionari.
57
Giulio Cipollone, La redenzione e la liberazione dei captivi. Lettura cristiana e modello di redenzione e liberazione secondo la regola dei Trinitari, in Id. (a cura di), La liberazione dei captivi tra Cristianità e Islam. Oltre la Crociata e il Ğihād: tolleranza e servizio umanitario, Edizioni dell’Archivio segreto vaticano, Città del Vaticano 2000, p. 356. 58 Fondato da Jean de Matha e approvato da Innocenzo III nel 1198, l’ordine aggiunge ai voti di obbedienza, povertà e castità il quarto voto di sangue che richiede di sacrificare la propria vita per la salvezza dei captivi; la terza parte degli introiti dei conventi viene destinata ai riscatti, i frati amministrano anche gli ospedali di Algeri e di Tunisi. Tra XVI e XVIII secolo sarebbero stati riscattati 16 332 captivi, secondo Dolores Torreblanca Roldán, La redención de cautivos malagueños en el antiguo régimen (siglo XVIII), Deputación provincial de Málaga, Málaga 1998, pp. 102 ss. 59 Cipollone, La redenzione e la liberazione dei captivi, cit., p. 357. 60 Il significato simbolico dell’asino quale cavalcatura del trinitario è estremamente sfaccettato: allude alla mancanza di ombrosità e scontrosità, avarizia e avidità, alla capacità di portare carichi pesanti, alla sua pazienza e perseveranza, umiltà, sottomissione, obbedienza, docilità; nei Vangeli l’asino si trova nella fuga in Egitto, nella stalla di Nazareth e all’ingresso di Cristo a Gerusalemme; di contro, Maometto prende possesso di Medina, la città del Profeta, con le armi in pugno e a cavallo. Così Maria Stella Calò Mariani, La scelta dell’asino, cavalcatura del Dio disarmato, in Cipollone (a cura di), La liberazione dei captivi tra Cristianità e Islam, cit., pp. 477-500. 61 Cipollone, La redenzione e la liberazione dei captivi, cit., p. 368. 62 François Soyer, Muslim Slaves and Freedmen in Medieval Portugal, in “AlQantara”, vol. XXVIII, n. 2, 2007, pp. 489-516. 63 Enrique Gozalbes Cravioto, La liberación de los últimos cautivos cristianos de Granada (1482-1492), in Cipollone (a cura di), La liberazione dei captivi tra Cristianità e Islam, cit., p. 750. 64 Ana Echevarría Arsuaga, Esclavos musulmanes en los Hospitales de cautivos de la orden militar de Santiago (siglos XII y XIII), in “Al-Qantara”, vol. XXVIII, cit., pp. 465-488. 65 Claude Larquié, Le rachat des chrétiens en terre d’islam aux XVIIe siècle (1660-65), in “Revue d’Histoire diplomatique”, n. 4, 1980, pp. 325 ss. calcola in quattro anni e quattro mesi la durata media della cattività ad Algeri, cinque anni e tre mesi per il Marocco. 66 Robert C. Davis, Christians Slaves, Muslim Masters. White Slavery in the
Mediterranean, the Barbary Coast and Italy, 1500-1800, Palgrave-McMillan, Houndsmills-New York 2002, p. 23. 67 Ivi, p. 26. Ma l’invisibilità è anche occultamento di una «embarassing institution» (Orlando Patterson, Slavery and Social Death: a Comparative Study, Harvard University Press, Cambridge MA, 1982, p. IX), anzi «a lasting source of anxiety» per tanti paesi (Michael Salman, The Embarrassment of Slavery: Controversies over Bondage and Slavery in the American Colonial Philippines, University of California Press, Berkeley 2001, p. 14, cit. in William G. ClarenceSmith, Islam and the Abolition of Slavery, C. Hurst & Co., London, 2006, p. 1). 68 Le altre vanno da Timbuctù verso Algeri e verso Agadir, cfr. Paul E. Lovejoy, Transformation in Slavery. A History of Slavery in Africa, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 25. 69 Matteo Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni (1926), Musumeci, Catania 1979, p. 38. 70 Olivier Pétré-Grenouilleau, Les Traites négrières. Essai d’histoire globale, Gallimard, Paris 2004, p. 41. 71 Giuseppe Bonaffini, La Sicilia e i Barbareschi. Incursioni corsare e riscatto degli schiavi (1570-1606), Ila-Palma, Palermo 1983; Aurora Romano, La Deputazione per la redenzione dei poveri cattivi in Sicilia (1595-1860), tesi di dottorato, University Suor Orsola Benincasa, Napoli 2005. ASP, ARC, Riv. Pa., vol. 523, c. 158. 72 Ivi, c. 16. 73 Ivi, c. 390. 74 Ivi, c. 252. 75 Ivi, c. 318. 76 Il 10% degli schiavi muore di morte violenta per mano dei padroni, secondo Barrio Gozalo, Esclavos y cautivos, cit., p. 116. 77 Ginio, Piracy and Redemption in the Aegean Sea, cit., p. 140. 78 Vedi supra nota 58. 79 Pedro Nolasco fonda l’Ordine di Nostra Signora della Mercede nel 1218, ratificato da Gregorio IX nel 1235. Professa il quarto voto di scambiare la liberty con quella del captivo per il cui riscatto l’ordine raccoglie elemosine. Si rivolge inizialmente ai territori dei regni ispano-musulmani (Valencia, Murcia, Baleari, Siviglia, Granada, Niebla), poi a quelli africani. La sua opera prosegue sino al 1769, data dell’ultima redenzione congiunta con i padri trinitari, per l’ordine di Carlo III di redimere tutti i captivi esistenti (1402 persone). Torreblanca Roldán, La redención de cautivos, cit., pp. 85 ss.
80
Ginio, Piracy and Redemption in the Aegean Sea, cit., p. 144. 81 La lista dei riscattati, il prezzo del riscatto e delle tasse di uscita in Pál Fodor, Piracy, Ransom Slavery and Trade. French Participation in the Liberation of Ottoman Slaves from Malta during the 1620s, in “Turcica”, n. 33, 2001, pp. 119-134. 82 Eliezer Bashan, Captivity and Ransom in Mediterranean Jewish Society (1391- 1830), Ramat-Gan, 1980, pp. 109-135, cit. in Ginio, Piracy and Redemption in the Aegean Sea, cit., p. 141. 83 Raoudha Guemara, La libération et le rachat des captifs. Une lecture musulmane, in Cipollone (a cura di), La liberazione dei captivi tra Cristianità e Islam, cit., p. 342. 84 Vedi il documentato saggio di Andrés Díaz Borrás, Los cautivos musulmanes redimidos en Valencia (1380-1480), in Cipollone (a cura di), La liberazione dei captivi tra Cristianità e Islam, cit., pp. 737-747. 85 Esemplare il riscatto di Martin Gomez, giurato di Vera, catturato nel 1572. I cittadini più abbienti della comunity portano i denari allo scrivano installato sulla spiaggia dove è avvenuta la cattura, mentre il captivo attende sulla nave corsara all’ancora il buon esito della transazione. Francisco Andújar Castillo, Los rescates de cautivos en las dos orillas del Mediterraneo y en el mar (Alafías) en el siglo XVI , in Kaiser (sous la direction de), Le commerce des captifs, cit., pp. 158 ss. 86 Le 1017 litterae hortatoriae, riguardanti 3142 persone, accordate dai papi nel XVI secolo, sono state analizzate da Wipertus H. Rudt de Collenberg, Esclavage et rançons des chrétiens en Méditerranée (1570-1600), Editions Le léopard d’or, Paris 1987. 87 Anita Gonzalez-Raymond, Le rachat des chrétiens en terre d’Islam: de la charité chrétienne à la raison d’état. Les elements d’une controverse autour des années 1620, in Bartolomé Bennassar, Robert Sauzet (sous la direction de), Chrétiens et Musulmans à la Renaissance, Actes du colloque international du Centre d’Études Superieures de la Renaissance (CESR), 1994, Honoré Champion Editeur, Paris 1998, pp. 371-389. 88 José Antonio Martínez Torres, Prisioneros de los infieles. Vida y rescate de los cautivos cristianos en el Mediterráneo musulmán (siglos XVI-XVII), Alborán Bellaterra, Barcelona 2004, p. 118. 89 Ivi, p. 119. 90 Girolamo da Castelvetrano a Propaganda Fide, Tripoli 22 maggio 1683, cit. da Mirella Mafrici, Propaganda Fide e schiavitù barbaresca: l’attività dei
Cappuccini, in Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e liberty, cit., p. 124. La Congregazione De Propaganda Fide è istituita nel 1622 da Gregorio XV con la bolla In Christi nomine, esito della commissione incaricata da Pio V nel 1568 di studiare i problemi dell’apostolato. 91 Salvatore Fodale, Solidarietà pubblica e riscatto dei cattivi (secc. XIV-XV), ivi, pp. 21-47. 92 Aurora Romano, Schiavi siciliani e traffici monetari nel Mediterraneo del VII secolo, in Mirella Mafrici (a cura di), Rapporti diplomatici e scambi commerciali nel Mediterraneo moderno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 275-301. 93 Ginio, Piracy and Redemption in the Aegean Sea, cit., pp. 145-146. 94 Romano, La Deputazione per la redenzione dei poveri cattivi in Sicilia (1595- 1860), cit., pp. 159-162. 95 ASP, ARC, Riv. Pa., vol. 523, c. 158. 96 Moses I. Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 124-125. 97 ASP, ARC, Riv. Pa., vol. 523, c. 252. 98 Ivi, c. 390. 99 Lettera del 4 maggio 1592, ivi, c. 158. 100 Ivi, c. 265. 101 Lettera del 29 marzo 1591, ivi, c. 96. 102 Lettera del 1593, ivi, c. 53. 103 Ivi, c. 150. 104 Essere nguttatu, angosciato, mingere a letto, l’indole rissosa e l’ubriachezza sono i maggiori difetti indicati dai contratti di vendita degli schiavi siciliani studiati da Corrado Avolio, La schiavitù in Sicilia nel XVI secolo, in SS, A. X, 1885, pp. 45-71. 105 Lettera del 25 aprile 1595, in ASP, ARC, Riv. Pa., vol. 523, c. 211. 106 Ivi, c. 121. 107 Lettera del 15 aprile 1596, ivi, cc. 122-123. 108 Lettera del 15 agosto 1596, ivi, c. 40. 109 Lettera del 21 aprile 1595, ivi, c. 194. 110 Lettera del 28 giugno 1598, ivi, c. 374. 111 Lettera del 22 gennaio 1598, ivi, c. 270. 112 Scrive alla moglie Benedicto Caffati nel 1597, ivi, c. 108. 113 Ivi, c. 374. 114 «Nun tegnu dinari di comprari carta», scrive Gio. Vincenzo Di Caro il 23
gennaio 1593, ivi, c. 53. 115 «Quista litera la fici scriviri di notti ala immuchiuni di nnautru scavu ginoisi», il 2 ottobre 1598, ivi, c. 432. 116 «Vi aviso che qua a Biserta ne pigliano per andare alla armata turchesca per vogare il remo non so se andrò o resterò», ivi, c. 41. 117 «Et iu adisiu una camisa lorida chi mi la lava lu sabatu la sira», ivi, c. 396. 118 «Et mi teni intra a lu so giardino con dui catini a li pedi et con guardie», ivi, c. 432. 119 Scrive Angilo La Galia, il 25 gennaio 1598, ivi, c. 261. 120 Barrio Gozalo, Esclavos y cautivos, cit., p. 121. 121 ASP, ARC, Riv. Pa., vol. 523, c. 132. 122 Lettera del 5 agosto 1593, ivi, c. 39. 123 Ivi, c. 128. 124 Così scrive Auliveri Lainzano alla famiglia da Algeri, il 3 dicembre 1595, ivi, c. 140. 125 Lettera del 21 aprile 1595, ivi, c. 194. 126 Lettera del 24 aprile 1595, ivi, c. 102. 127 Peter Partner, Corsari e crociati. Volti e avventure del Mediterraneo, Einaudi, Torino 2003, p. 106. 128 Orazione dedicata a Sisto V e ai principi cristiani da Gregorio Piccha, Oratione per la guerra contra i Turchi a Sisto Quinto Pontefice Massimo et a gl’altri principi christiani, Roma 1589, p. 143. 129 Yolande Behanzin, Femmes esclaves dans les Amériques (XVIe-XIXe siècles): infériorité imposeé, resistance assumeé , in “Cahiers des Anneaux de la Mémoire”, n. 5, Nantes 2003, p. 34. Il numero è interamente dedicato a Les femmes dans la traite et l’esclavage. 130 Capitaine William Snelgrave, Journal d’un négrier au XVIIIe siècle, Gallimard, Paris 2008, pp. 159-160. Tanto radicata è la persuasione della necessità e correttezza della tratta che il nostro negriero, di fronte ai sacrifici umani praticati da alcune popolazioni centroafricane, li stigmatizza come barbari perché non applicano il principio secondo cui non va fatto ad altri quello che ciascuno non vorrebbe fosse fatto a se stesso. «Il nostro Dio ci ha espressamente vietato di trattare i nostri simili in un modo così crudele», scrive. L’inosservanza del comandamento citato conduce a punizioni severe. Non ritiene con tutta evidenza che la riduzione in schiavitù rientri nel divieto. Ivi, p. 86. 131 Per esempio, Pedro de Casares ha incarico dal Consejo de Castilla «di fare conti e divisioni tra eredi», dando a ciascuno quello che spetta secondo le
clausole dei testamenti, e di rinviare poi ai giudici ordinari; insomma fa compromessi amichevoli senza contesa di giudizio e così campa insieme alla moglie (ASV, SCCS, Processus super martyrio servi Dei Johannis de Prado, vol. 1665, 295v.); Giovanni Stefano de Leon, per ventisei anni è stato «contadore delle rendite decimali di questo vescovado [di Cadice], tesoriero della Santa Crociata» (ivi, vol. 1668); Valentino Ranzan, alemanno, più comunemente, fa «assistenza ad alcuni negotij perché sa e intende diverse lingue» (ivi, vol. 1668, c. 224r.). 132 Pierre Dan, Histoire de Barbarie et de ses corsaires, divisé en six livres, ou il est traitté de leur gouvernement, de leurs moeurs, de leurs cruautez, de leurs brigandages, de leurs sortileges, et de plusieurs autres particularitez remarquables, Paris 1637, p. 398. 133 Davis, Christian Slaves, Muslim Masters, cit., p. 73. 134 Thomas Saunders, A True Description and Breefe Discourse of a most Lamentable Voiage, Made Latelie to Tripolie in Barbarie, in a Ship Named “Iesus”, London 1587, p. 17, ULT. 135 [Anonimo], Historia degli Stati di Algeri, Tunisi, Tripoli e Marocco (traduzione dall’inglese), Londra 1754, p. 371. Il volume si incentra soprattutto su Algeri, di cui si elencano i nomi delle navi e dei raìs, i luoghi della corsa ecc. Al Marocco è dedicato il cap. VI. 136 Davis, Christian Slaves, Muslim Masters, cit., p. 26. 137 Manuel Lobo Cabrera, Mamón López Caneda, Elisa Torres Santana, La “otra” población: expósitos, ilegítimos, esclavos (Las Palmas de Gran Canaria, siglo XVIII ), Universidad de Las Palmas de la Gran Canaria, Las Palmas de la Gran Canaria 1993, pp. 132-142. 138 Cit. in Natalie Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 86. 139 Barrio Gozalo, Esclavos y cautivos, cit., p. 142. 140 Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, Diario alermitano da gennaio 1780 a dicembre 1782, in Gioacchino Di Marzo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia (1880), Forni, Bologna 1974, vol. XVIII, pp. 411-413. 141 Le due citazioni stanno in Shaun E. Marmon, Domestic Slavery in the Mamluk Empire: A Preliminary Sketch, in “Interdisciplinary Journal of Middle Eastern Studies”, cit., p. 10. 142 L’Inquisition de Goa. La relation de Charles Dellon(1686), cit., p. 246. Negli stessi termini si esprime circa un secolo dopo Gustavus Vassa,
L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano (1789), Epoché, Milano 2008, p. 101. 143 Avolio, La schiavitù in Sicilia nel secolo XVI , cit., p. 49. 144 Pragmaticae, Edicta, Decreta, Regiaeque Sanctiones Regni Neapolitani, Pluribus additis, suisque locis optima methodo et labore collocatis Per V.I.D. Blasium Altimarum, advocatum neapolitanum; Deputatum per Supremum Regium Collaterale Consilium, cum superintendentia Ill. D. Caroli Calà, ducis Diani, collateralis consiliarii, Regiam Cancillariam Regentis, Neapoli MDCLXXXII, Tomus Secundus, De meretricibus, Pragmatica I, Data in Castro Novo Neap. die 25 aprilis 1470, p. 614. 145 Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, cit., p. 122. 146 Augusta Palombarini, Schiave orientali in Adriatico, in Anselmi (a cura di), Pirati e corsari in Adriatico, cit., p. 140. 147 Alessandra Macinghi Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figlioli esuli, a cura di Cesare Guasti, Sansoni, Firenze 1877, p. 475. 148 Iris Origo, Il mercante di Prato Francesco di Marco Datini (1957), Rizzoli, Milano 1988, p. 160. 149 Shelomo Dov Goitein, A Mediterranean Society. The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1967, vol. I, Economic Foundations, p. 134. 150 Ibn Butlan, nato a Baghdad dopo il 1000, nel 1047 lascia Baghdad per Aleppo, passa poi al Cairo e nel 1054 ad Antiochia, dove muore nel 1063. Autore di diciassette libri, anche di medicina, è famoso per una sorta di vademecum all’uso degli acquirenti degli schiavi, a cui spiega qualità e difetti di ciascuna etnia. La citazione in Heers, Les négriers en terres d’islam, cit., p. 195. 151 Lo spazio della casa il cui accesso è proibito e, in particolare, le stanze delle donne. “Encyclopaedia of Islam”, Brill on line, 2008, alla voce Ḥ arī m (harem in turco). 152 Alessandro Stella, Des esclaves pour la liberté sexuelle de leurs maîtres (Europe occidentale, XIVe-XVIIIe siècles), in “Clio. Histoire, femmes et société”, n. 5, 1997, http://clio.revues.org/document419.html, p. 2. «Da dove l’hanno tirata fuori, gli occidentali questa idea dell’harem come covo di lussuria?», si chiede, prima di analizzare in maniera serrata, ironica e comparativa la concezione di questo luogo nella pittura e nella cultura europea di Ottocento e Novecento, Fatema Mernissi, L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze 2000, p.
20. 153
Khalil ‘Athamina, How did Islam Contribute to Change the Legal Status o Women: the Case of the Jawārī or the Female Slaves, in “Al-Qantara”, vol. XXVIII, cit., p. 407. 154 Ronald C. Jennings, Christians and Muslims in Ottoman Cyprus and the Mediterranean World, 1571-1640, New York University Press, New York 1993, pp. 241-242. 155 Dror Ze’evi, Women in the 17th-Century Jerusalem: Western and Indigenous Perspectives, in “International Journal of Middle East Studies, vol. XXVII, n. 2, maggio 1995, p. 161. 156 Ivi, p. 166. 157 Cit. in Mafrici, Mezzogiorno e pirateria, cit., p. 116. 158 La lettera, del 3 settembre 1634, è citata ibid. 159 Le due ricerche sono citate da Madeline C. Zilfi, Servants, Slaves and the Domestic Order in the Ottoman Middle East , in “HAWWA”, vol. 2, n. 1, 2004, pp. 19-20. 160 Ivi, p. 28. 161 Ivi, p. 13. 162 Goitein, A Mediterranean Society, cit., p. 144. 163 Ivi, p. 145. 164 Ehud R. Toledano, The Concept of Slavery in Ottoman and Other Muslim Society: Dichotomy and Continuum, in Miura Toru, John E. Philips (eds.), Slave Elites in the Middle East and Africa, Kegan Paul, London 2000, p. 172. Ma più diffusamente cfr. Id., As if the Silent and Absent Bonds of Enslavement in the Islamic Middle East , Yale University Press, New Haven and London 2007. 165 Paul G. Forand, The Relation of the Slave and the Client to the Master or Patron in Medieval Islam, in “International Journal of Middle East Studies”, n. 2, 1971, pp. 59-66. 166 Franco Angiolini, Schiave, in Angela Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 95. 167 Contro il 33% dei maschi, le donne costituiscono il 46% del campione di 1248 schiavi censiti da António de Almeida Mendes, Africaines esclaves au Portugal: dynamiques d’exclusion, d’intégration et d’assimilation à l’époque moderne (XVe-XVIe siècles), in “Renaissance and Reformation”, 31, 2, primavera 2008, pp. 47-65. 168 Aurelia Martín Casares, La esclavitud en la Granada del siglo XVI , Universidad de Granada, Granada 2000.
169
Alexis Bernard, Le logiche del profitto. Schiavi e Society a Siviglia nel Seicento, in “Quaderni storici”, n. 107, 2001, cit., pp. 379-389. 170 Aurelia Martín Casares, Antropologia, genere e schiavitù, in “Genesis”, I/2, 2002, p. 170. Sembra applicarsi bene al caso studiato quanto scritto da Meillassoux, Antropologia della schiavitù, cit., pp. 89 e 116. 171 Nato a Tangeri nel 1304, grande viaggiatore, visita l’India e la Cina, poi torna in Marocco e se ne allontana nuovamente nel 1353 per visitare i paesi del Sudan, verso Gao e Timbuctù, visita il Mali; ritorna a Fez nel 1354. Sui suoi viaggi ha lasciato un’opera monumentale, fonte preziosa per storici e geografi. 172 Cit. in Heers, Les négriers en terres d’islam, cit., p. 191. Corsivo mio. 173 Abu ‘Ubaid al-Bakr ī al-Andalusu (1022-1094), letterato, storico, geografo ( Il dixionario dei termini stranieri, importante dizionario geografico arabo, e I sentieri e i regni, dedicato alla geografia dell’Andalusia, dell’Europa e dell’Africa settentrionale), botanico ( Le più pregiate piante e alberi andalusi), linguista e viaggiatore. 174 Ibn Baṭṭūṭah, cit. in Heers, Les négriers en terres d’islam, cit., p. 94. 175 Zilfi, Servants, Slaves and the Domestic Order, cit., p. 30. 176 Raffaella Sarti, Viaggiatrici per forxa. Schiave “turche” in Italia in età moderna, in Dinora Corsi (a cura di), Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Viella, Roma 1999, p. 273. 177 Olympe de Gouges, Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, Paris 1791, p. 23. 178 Zilfi, Servants, Slaves and the Domestic Order, cit., p. 24. 179 Umm al-awlād, in “Encyclopaedia of Islam”, cit., alla voce. 180 Maria Sofia Messana, Rinnegati e convertiti nelle fonti dell’Inquisixione spagnola in Sicilia, in “Nuove effemeridi”, n. 54, 2001, cit., p. 107. 181 Marmon, Domestic Slavery in the Mamluk Empire, cit., p. 18. 182 Ivi, p. 19. 183 Mohammed Ennaji, Soldats, domestiques et concubines. L’esclavage au Maroc au XIXe siècle, Editions Balland, Paris 1994, p. 60. 184 Sono le caratteristiche della schiavitù africana studiata da Meillassoux, ntropologia della schiavitù, cit., pp. 103-119. 185 Davis, Christian Slaves, Muslim Masters, cit., p. XXVII. L’autore fonda questo giudizio su studi comparativi con la schiavitù atlantica. 186 John Ralph Willis, Slaves and Enslavement in Muslim Africa, Frank Cass, London 1985, vol. I, The Ideology of Enslavement , p. 4. 187 Robert Brunschvig, ‘Abd, in “Encyclopédie de l’Islam”, cit., alla voce.
188
Uomo o donna di condizione libera si dice ‘itq, surr/surrah, da cui provengono la spagnola carta di haorro e la haorria, l’affrancamento, il termine portoghese forros per indicare i manomessi e l’italica “carta di alforria e liberty”. 189 Cristina de la Puente, Límites legales del concubinato: normas y tabúes en la esclavidud sexual según la Bidaya de Ibn Ruòd, in “Al-Qantara”, vol. XXVIII, cit., p. 422. 190 Milouda Charouiti Hasnaoui, La schiavitù e lo statuto socio-giuridico dello schiavo: lettura musulmana, in “Incontri mediterranei”, numero monografico dedicato a L’Islam in Europa tra passato e futuro, A. VI, n. 2, 2002, p. 53. 191 Condorcet (Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di), Riflessioni sulla schiavitù dei neri, Colonnese, Napoli 2003; Henri Grégoire, La nobiltà della elle, Medusa, Milano 2007. 192 Avolio, La schiavitù in Sicilia nel secolo XVI , cit., p. 46. 193 Yvonne Seng, Fugitives and Factotum: Slaves in Early Sixtheenth-Century Istanbul, in “Journal of Economic and Social History of the Orient”, n. 39, 2, 1996, p. 139. 194 Felicita Tramontana, Il diritto musulmano e la schiavitù, in Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e liberty, cit., pp. 61-82. 195 Murray Gordon, Slavery in the Arab World, New Amsterdam Books, New York 1989, p. 34. 196 Al quesito riguardante il possesso di schiavi importati da aree dove l’islam è fortemente stabilito, come Bornou, Kano, Gao, il Sudan musulmano, il giurista sudanese Ahmad Baba risponde che «la ragione per il possesso è la miscredenza». Cit. in Willis, The Ideology of Enslavement , cit., p. 5. 197 Gordon, Slavery in the Arab World, cit., p. 35. 198 Fu in seguito a questa massiccia violazione della legge religiosa che il famoso erudito di Timbuctù, Ahmad Baba, redasse un trattato sull’asservimento di neri, sostenendo che esso è legittimo solo nel corso di una guerra santa contro non musulmani. L’abuso doveva essere molto diffuso per essere così nettamente condannato. Cfr. ivi, p. 133. 199 Nicolas Vatin, Un affaire interne. Le sorte et la libération des personnes de condition libre illégalemente retenues en esclavage sur le territoire ottomane (XVIe siècle), in “Turcica”, n. 33, 2001, pp. 163-164. 200 Il qādī , appartiene al corpo dei dottori della legge (ulema) e non è solo un giudice, ma un amministratore in senso lato, tanto da costituire il punto di riferimento della burocrazia statale nelle città di provincia. Così Gilles Veinstein, L’islam ottomano nei Balcani e nel Mediterraneo, in Maurice Aymard (a cura
di), Storia d’Europa, Einaudi, Torino 1995, vol. IV, L’età moderna, secoli XVIVIII , p. 74. 201 Seng, Fugitives and Factotum: Slaves in Early Sixtheenth-Century Istanbul, cit., pp. 140 ss. 202 Charouiti Hasnaoui, La schiavitù e lo statuto socio-giuridico dello schiavo, cit., pp. 65-66. 203 Ron Shaham, Masters, Their Freed Slaves, and the Waqf in Egypt (Eighteenth-Twentieth Centuries), in “Journal of the Economic and Social History of the Orient”, n. 43, 2, 2000, pp. 162-188. 204 Martínez Torres, Prisioneros de los infieles, cit., p. 120. 205 AHN, Inq. Sic., leg. 1952, cit. in Martínez Torres, Prisioneros de los infieles, cit., p. 120. 206 Fray Diego de Haedo, Topographia e Historia General de Argel, Valladolid 1612, p. 49v. L’opera è dedicata all’omonimo arcivescovo di Palermo e c’è chi la attribuisce al benedettino Antonio de Sosa, compagno di schiavitù di Cervantes. 207 Houari Touati, Entre Dieu et les hommes. Lettrés, saints et sorciers au Maghreb (XVIIe siècle), Editions de l’EHESS, Paris 1994, p. 171. 208 Ehud R. Toledano, Slavery and Abolition in the Ottoman Middle East , University of Washington Press, Seattle 1998, p. 165. 209 Goitein, A Mediterranean Society, cit., p. 131. 210 Ad esempio, Marcipor, Gaipor ecc. Vedi Francisci, Schiavitù, cit., p. 624. 211 Forand, The Relation of the Slave and the Client to the Master or Patron in Medieval Islam, cit., p. 63. 212 William Okeley, Eben-exer: Or a Small Monument of Great Mercy, 1675, cit. in Colley, Prigionieri, cit., p. 130. 213 Sant’Agostino, Le confessioni, Garzanti, Milano 2007, p. 188. 214 Ivi, p. 221. 215 Ivi, p. 226. 216 Ivi, pp. 215 e 227. 217 Ivi, p. 222. 218 «Ma è debolezza dell’anima che non sa sollevarsi del tutto, spinta in alto dalla verità gravata in basso dall’abitudine. Due sono perciò le volontà, entrambe incomplete: l’una ha quello che manca all’altra», ivi, p. 223. 219 «Tremai d’amore e di terrore», ivi, p. 193. 220 Ivi, p. 229. 221 L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, cit., p. 203.
222
Ivi, pp. 216-217. 223 Ivi, p. 218. 224 Maziane, Salé et ses corsaires, corsaires, cit., p.97. 225 Dan, Histoire Dan, Histoire de Barbarie, Barbarie, cit., pp. 315-320. 226 Ivi, p. 37. 227 Ivi, p. 292. 228 Ivi, p. 305. 229 Ivi, p. 306. 230 Padre Pietro Verniero di Montepeloso, Croniche o Annali di Terra Terra Santa, Santa, in P. Girolamo Golubovich (a cura di), Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente francescano, francescano, N. S., t. VI, Documenti, Firenze 1929, vol. I, (1304- 1620), lib. l ib. V, V, cap. 47, p. 311, anno 1615. 231 Ivi, lib. V, cap. 47, p. 312. 232 Ivi, p. 313. 233 Lucia Rostagno, Mi faccio turco. Esperienze e immagini dell’Islam nell’Italia moderna, moderna, Istituto per l’Oriente, Roma 1983, p. 79 e Bartolomé Bennassar, Conversion ou reniément? Modalités d’une adhesion ambigue des chrétiens à l’Islam, l’Islam, in “Annales ESC”, n. 43, 1988, pp. 1349-1366. 234 Barrio Gozalo, Esclavos Gozalo, Esclavos y cautivos, cautivos, cit., p. 199. 235 «Come avrebbe dovuto comportarsi il povero diavolo finito tra le mani degli infedeli? [...] La dialettica di fondo sembra quella fra le contrapposizioni collettive da un lato e gli accordi individuali dall’altro [premiando] la capacità individuale di intessere accordi empirici, quotidiani e non ideologizzati.» Ricci, I Ricci, I Turchi alle porte por te,, cit., pp. 52 e 87. 236 Lettera del 15 luglio 1598, in ASP, ASP, ARC, Riv ARC, Riv.. Pa., Pa., vol. 523, c. 343. 237 Lettera del 2 ottobre 1598, ivi, c. 432. 238 Dan, Histoire Dan, Histoire de Barbarie, Barbarie, cit., pp. 308-9. 239 Ivi, p. 310. 240 Barrio Gozalo, Esclavos Gozalo, Esclavos y cautivos, cautivos, cit., pp. 184-185. 241 Mirella Mafrici, Meridionali schiavi di musulmani nel Mediterraneo moderno: l’abiura, l’abiura, in “Nuove effemeridi”, n. 54, 2001, cit., p. 127. 242 Relation de la captivité capt ivité et liberté libert é du Sieur Emanuel d’Aranda, jadis esclave à Alger, Alger, Bruxelles 16623, ora a cura di Latifa Z’rari, Edition Jean Paul Rocher, Paris 1997. La Relation La Relation XXXII è è a p. 165. 243 Rostagno, Mi Rostagno, Mi faccio turco, turco, cit., pp. 65, 72. 244 Secondo un rapporto del 1587 di due cavalieri di Malta al Gran Maestro dell’ordine citato da Federico Cresti, Gli schiavi cristiani ad Algeri in età
ottomana: considerazioni sulle fonti e questioni storiografiche, storiografiche, in “Quaderni storici”, n. 107, 2001, cit., p. 417. 245 Pierre Boyer, La vie quotidienne à Alger à la veille de l’intervention franVaise, franVaise, Hachette, Paris 1963, p. 248. 246 Ma Cresti mette in guardia dall’accettare acriticamente questi dati, dedotti da fonti esclusivamente europee e spesso inaffidabili. Vedi supra nota supra nota 244. 247 Risparmiati dalla peste, «ci sono ad Algeri circa ottomila captivi cristiani [...] fiamminghi, inglesi, danesi, scozzesi, tedeschi, islandesi, polacchi, moscoviti, boemi, ungheresi, norvegesi, borgognoni, veneziani, piemontesi, schiavoni, siriani d’Egitto, cinesi, giapponesi, brasiliani, abitanti della Nuova Spagna e del paese del Prete Gianni. E da tutti questi paesi e da molti altri proviene anche una grande quantità di rinnegati». João Mascarenhas, Esclave Mascarenhas, Esclave à lgier. Récit de captivité (1621-1626), (1621-1626), traduit du portugaise, Editions Chandeigne, Paris 1993, p. 75. 248 «Sine sacerdotibus et sine Dei cultu», così Angelo da Corleone a Propaganda Fide nel 1624, cit. da Mafrici, Propaganda Fide e schiavitù barbaresca: l’attività dei Cappuccini, Cappuccini, in Fiume (a cura di), Schiavitù, religione e liberty, liberty, cit., p. 115. 249 Description of the Nature of Slavery among the Moors and the Cruel Suffering of Those that Fall into it , London 1721, p. 5, ULT. 250 Il Corano, Sura della vacca, vacca, II, 256. 251 Heers, Les Heers, Les négriers en terres d’islam, d’islam, cit. 252 Bennassar, Les Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, d’Allah, cit., pp. 405 e 421. 253 In verità il Corano recita: «E Lot, quando disse al suo popolo: “Compirete forse voi questa turpitudine, tale che mai nessuno la commise prima di voi al mondo?”. Poiché voi vi avvicinate per libidine agli uomini anziché alle donne, anzi voi siete un popolo senza freno alcuno». Sura del limbo, limbo, VII, 80-81. 254 Valensi, Venezia e la Sublime Porta, Porta, cit., p. 40. 255 Bennassar, Les Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, d’Allah, cit., p. 147. 256 Mafrici, Meridionali Mafrici, Meridionali schiavi di musulmani, musulmani, cit., p. 127. 257 Touati, Entre Touati, Entre Dieu et les hommes, hommes, cit., p. 171. 258 Ma padre Dan scrive che la sequenza è: testimonianza di fede in Allah e nel suo profeta Maometto, rasatura del cranio, cambio di vestiti, banchetto, circoncisione, cambio di nome. Histoire nome. Histoire de Barbarie, Barbarie, cit., pp. 341-350. 259 Touati, Entre Touati, Entre Dieu et les hommes, hommes, cit., p. 172. 260 Mascarenhas, Esclave à Algier, cit. 261 Relation de d e la captivité du Sr. Sr. G. Mouette dans les Royaumes des Fez et de
Maroc(1683), Maroc(1683), in SIHM , par Henri de Castries, Paul Geuthner, Paris 1924, t. II, pp. 153-199. 262 Il gesuita Manuel Mendes, schiavo di Morato Corso, uno dei più ricchi rinnegati di Algeri, fu incatenato con una pesante catena per incitarlo a cercare il suo riscatto. Al contrario egli volle rimanere nonostante imperversasse la peste, a causa della quale morivano 6-700 persone al giorno, «perché era più utile pregando, confessando e dicendo messa tutti i giorni e visitando (con straordinario coraggio e dando l’esempio) le vittime della peste, di cui morì il suo compagno. In capo a tre anni, dopo mille avversità, ritornò nel regno, essendo costato il suo riscatto più di 3000 cruzados» (p. 62). Anche frate Gregorio era stato coraggioso, prima di morire di peste, andando nelle case dei Turchi per confessare gli schiavi cristiani che i loro padroni non lasciavano uscire di casa e confessava e comunicava anche rinnegati e rinnegate «che non erano tali in fondo al loro cuore» (p. 62). A lui si deve il restauro dell’ospedale, portato a dieci letti e dotato di risorse proprie, provenienti dagli alambicchi per distillare l’acquavite prodotta dagli schiavi del bagno del re, dotato di personale (un medico, un barbiere e un apotecario). Inoltre cura in modo esemplare le sepolture degli schiavi, la raccolta delle elemosine e la cera e gli ornamenti della chiesa. Anche nel bagno de la Bâtarde ci sono una quindicina di religiosi, sacerdoti e frati di vari ordini, catturati a più riprese che operano nelle due chiese di quel bagno, mentre le elemosine degli altri schiavi servono per pagare i loro padroni perché non li inviino al lavoro e possano così dedicarsi alla cura delle anime. Ugualmente nel bagno di Ferrato Bey e nel bagno di Coloris, in ognuno dei quali sono rinchiusi 120 schiavi custoditi da mori e rinnegati, responsabili sia della custodia sia del loro lavoro, ci sono due cappellani. Mascarenhas, Esclave Mascarenhas, Esclave à Algier, Algier, cit. 263 Jeronimo Gracián (1545-1614), carmelitano riformato, amico di Teresa d’Avila, preso nel 1592 mentre costeggia l’Italia e condotto a Biserta, poi a Tunisi, schiavo di un pascià che lo crede un cardinale, pratica un attivo apostolato presso captivi e rinnegati. Vede i corsari pulire le armi nelle pagine della sua opera manoscritta, Armonia manoscritta, Armonia mistica. mistica. Redige a Bruxelles un Tratado de la redencion de cautivos (1609), cautivos (1609), dove descrive in maniera dettagliata la vita dei captivi captivi in Tunisia, dove rimane per poco più di due anni. José de Siguenza, schiavo dal 1600 al 1605, dell’Ordine di San Geronimo, descrive la conquista portoghese del Marocco. Pedro Ordonez de Ceballos, che nel 1616 scrive dell’Africa nel suo giro del mondo, non è schiavo. José Tamayo, gesuita (16071685), preso dai barbareschi nel 1641 vicino alle Baleari, mentre va da Valencia
in Italia, è inviato prima ad Algeri, poi a Tetuan, di cui descrive la terribile mazmorra. mazmorra. Riscattato quando il governatore di Tetuan si reca a Ceuta per ratificare un trattato di pace, passa a Gibilterra e poi a Siviglia, dove giunge nel 1643, dopo due anni di prigionia. Scrive una Relacion una Relacion de las costumbres, ritos y gobierno de Barberia, Barberia, pubblicata nel 1897 nel “Mensajero del Sagrado Corazon”. Queste notizie sono tratte da Robert Ricard, Ibero-Africana. Textes espagnols sur la Berberie (XVe, XVIe et XVIIe siècles), siècles), in “Revue africaine”, nn. 402-403, 1945, pp. 26-40. 264 In questo caso la scritta che sta sull’altare “Exaltat humiles et deponit superbos” viene interpretata da due schiavi spagnoli come dispregiativo della loro “nazione” e ciò aizza due opposti partiti di schiavi spagnoli e portoghesi che se le danno di santa ragione. Relation ragione. Relation de la captivité captivi té et liberté du Sieur Emanuel d’Aranda, d’Aranda, cit. La Relation La Relation XXXII è è a p. 181. 265 Ricard, Ibero-Africana, cit., p. 38. 266 De Haedo, Topographia e Historia General de Argel, Argel, cit., p. 9v.; Pérez, Los Pérez, Los Judíos en España, España, cit., p. 225. 267 Cit. da Giovanni Ricci, Modelli Ricci, Modelli di schiavitù in una città italiana di Antico regime: il caso di Ferrara, Ferrara, in “Nuove effemeridi”, n. 54, 2001, cit., p. 80. 268 Bennassar, Les Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, d’Allah, cit., p. 414. 269 Mafrici, Mezzogiorno e pirateria, cit., p. 126. 270 Emilio Temprano, El Temprano, El mar maldito. mald ito. Cautivos y corsarios en el siglo de oro, oro, Mondadori España, Madrid 1989, p. 116. 271 Capitula regni Siciliae, Siciliae, cap. 63 a cura di Francesco Testa, Palermo 1741, vol. I, p. 78. 272 Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, moderna, il Mulino, Bologna 2007, p. 26. 273 La citazione di Agostino è ivi, p.17. 274 Bartolomé Bennassar, La Bennassar, La vida de los renegados españoles y portugueses en Fez (hacia 1580-1615), 1580-1615), in Mercedes García-Arenal, María J. Viguera (eds.), Relaciones de la península ibérica con el Maghreb. Siglos XIII-XVI , Actas del Colloquio (Madrid 17-18 dicembre 1987), Consejo Superior de Investigaciones Scientificas y Instituto hispano-árabe de cultura, Madrid 1988, p. 672. 275 Giuliana Boccadamo, Schiavi rinnegati capresi tra Barberia e Levante, Levante, in Serrao, Lacerenza, Capri e l’Islam, l’Islam, cit., p. 223. 276 Ivi, p. 226. 277 Kunt, Ethnic-Regional (Cins) Solidarity in the Seventeenth-Century Ottoman Establishment , cit., pp. 235 ss.
278
AHN, Inq. Sic., lib. 899, f. 463, 1614. 279 Ampi riferimenti alla letteratura del Siglo de oro oro in Temprano, El mar maldito, maldito, cit., pp. 97-125. 280 Felicita Tramontana ne ha censiti diversi, tra Seicento e Settecento, nei Registri delle conversioni al cattolicesimo conservati nell’Archivio della Custodia in Terrasanta, Fondo parrocchie. 281 «L’immagine della donna si associa spesso all’idea di liberty nelle rappresentazioni mentali dei “rinnegati”.» Bennassar, Les Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, d’Allah, cit., p. 414. La possibility di matrimoni multipli, durevoli o meno, di avere concubine, di ripudiare la moglie fa identificare la legge musulmana con la soddisfazione degli istinti sessuali, considerati sfavorevolmente dalla religione cattolica. Anche alcune imputate di pratiche superstiziose dall’Inquisizione siciliana dichiarano di desiderare di “farsi turche” per poter godere di maggiore liberty. Ad esempio, Marta Frazeta Bonacolta, vedova quarantenne di Alcamo, ma residente a Messina, confessa di essere stata l’amante di un turco prima di essere carcerata, che il diavolo evocato durante i suoi rituali magici con il quale intrattiene commercio carnale si chiama Alì e che le compare «in forma di Turco». AHN, Inq. Sic., Sic., lib. 900, 1618, cc. 63-77. Ringrazio Maria Sofia Messana per questa indicazione. 282 Ottavio Gaetani, Vitae Sanctorum Siculorum, Siculorum, Palermo 1657, p. 278. Diversamente da Salvatore Bono (Schiavi (Schiavi musulmani nell’età moderna, moderna, cit., pp. 297298) credo che Antonio da Noto e Antonio Etiope, schiavo di Iandavola, siano due individui distinti. 283 Acta sanctorum, sanctorum, Ianuarii, vol. I, Venezia 1734, p. 752. La voce dedicata ad Antonio in BS, BS, Città Nuova Editrice, Città del Vaticano 1962, t. II, col. 154 è di Thomas Spidlik. 284 Verniero di Montepeloso, Croniche, Croniche, cit., lib. V, cap. 31, anno 1603, pp. 251-253. 285 Francesco da Serino, Croniche, Croniche, in Golubovich, Biblioteca biobibliografica, bibliografica, cit., t. I, parte II, lib. II, cap. 22, anno 1638, pp. 243-246. 286 Pietro Tognoletto, Paradiso serafico del fertilissimo Regno di Sicilia, Sicilia, Palermo 1667, vol. II, p. 569. 287 Rocco Pirri, Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, Palermo 1733, vol. I, col. 238. 288 ASP, Corporazioni religiose soppresse, soppresse, Agostiniani, San Nicolò da Tolentino, vol. vol . 506, c. 127r. 289 Cfr. Pierre Grandchamp, La Grandchamp, La fuite fuit e de Tunis et le baptême de Don Philippe à
Palerme (3 Mars-6 Mars- 6 Mai 1646), 1646), in “Revue africaine”, t. LXXXIV, I e II semestre, 1940. Ma l’autore ha pubblicato sullo stesso tema, in collaborazione con M. de Bacquencourt, una serie di documenti in “Revue tunisienne”, nn. 33, 34, 35 e 36 del 1938. 290 Teobaldo Filesi, Un principe tunisino tra Islam e Cristianesimo (16461686), 1686), in “Africa”, XXV, XXV, 1970, pp. 25-48. 291 Mascarenhas, Esclave à Algier, cit., p. 138. 292 Verniero di Montepeloso, Croniche, Croniche, cit., lib. VI, cap. 39, anno 1627, pp. 130-131. 293 Relation de la captivité, captivit é, cit., p. 185. 294 Ivi, p. 186. 295 Ivi, p. 187. 296 «Un vestito alla turca mi starà meglio di una cotta alla spagnola», risponde la schiava che, innamorata di un musulmano, rifiuta il riscatto che il marito, tornato in patria, aveva racimolato per lei. Ivi, p. 180. 297 Verniero Verniero di Montepeloso, Croniche, Croniche, cit., lib. VI, cap. 39, anno 1627, p. 129. 298 Ivi, lib. VI, cap. 39, anno 1627, p. 130. 299 Barrio Gozalo, Esclavos y cautivos, cit., p. 194. 300 Joseph Pitt, A Pitt, A True and Faithful Account of the Religion and Manners o the Mahomettans […] with an Account of the Author’s Being Taken Captive, Captive, 1704, cit. in Colley, Prigionieri Colley, Prigionieri,, cit., p. 131. 301 Maria Sofia Messana, La Messana, La “resistenza” musulmana e i “martiri” dell’islam: moriscos, schiavi e cristiani rinnegati di fronte all’Inquisizione spagnola in Sicilia, Sicilia, in “Quaderni storici”, n. 127, 2007, cit., pp. 761-767. 302 Vedi anche il caso di Alì, giovane schiavo tunisino, condannato nel 1607 dall’Inquisizione romana al rogo per non avere voluto abiurare, cit. in Partner, Corsari e crociati, crociati, cit., p. 40. 303 «E non dire di coloro che sono stati uccisi sulla via di Dio: “Sono morti!”. No, che anzi essi sono viventi, senza che voi li sentiate. […] I pazienti quando li colga una disgrazia esclamano: “In verità noi siamo di Dio e a lui torniamo!”.» Il Corano, Sura della vacca, vacca, II, 154 e 156. 304 Albano Biondi, La giustificazione della simulazione nel Cinquecento, Cinquecento, in Aa.Vv., Eresia e Riforma nell’Italia del Cinquecento, Cinquecento, Miscellanea I, Sansoni, Firenze 1974, p. 50. 305 Cit. ivi, p. 59. 306 Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta(1641), onesta(1641), Einaudi, Torino 1997, p. 58.
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Ivi, p. 66. Ma ha ragione Biondi a sostenere che in Accetto la tensione che accompagna il tema nel Cinquecento si è ormai dissolta e «le vie della dissimulazione conducono dunque anche alla consolazione e al sogno privato». Biondi, La giustificazione della simulazione nel Cinquecento, cit., p. 67. 308 Rostagno, Mi faccio turco, cit., p. 26. 309 Il Corano, Sura della vacca, II, 173. 310 Ivi, Sura dell’ape, XVI, 105-110. 311 Leonard Patrick Harvey, Crypto-Islam in Sixteenth-Century Spain, Imprenta Editorial Maestre, Madrid 1964, pp. 163 ss. 312 Leila Sabbagh, La religion des moriscos entre deux fatwas, in Aa.Vv., Les morisques et leur temps, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1983, pp. 45-56. 313 Eliseo Masini, Il manuale degli Inquisitori ovvero Pratica dell’Officio della santa Inquisizione (1665), Xenia edizioni, Milano 1990, pp. 200-202. 314 Messana, Rinnegati e convertiti nelle fonti dell’Inquisizione spagnola in Sicilia, cit., pp. 97-112. 315 AHN, Inq. Sic., lib. 898, f. 316v. Sull’Inquisizione siciliana, vedi Ead., Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782), Sellerio, Palermo 2007. 316 AHN, Inq. Sic., lib. 898, f. 317, 1595. 317 Ivi, f. 317v., 1595. 318 Ivi, f. 318, 1595. 319 Ivi, f. 354v., 1589. 320 Ivi, lib. 900, f. 282v., 1621-1622. 321 Lucetta Scaraffia, I rinnegati. Per una storia dell’identità occidentale, Laterza, Roma-Bari 1993. 322 Vedi il caso di Juan Antonio, penitenziato a Palermo il 23 dicembre 1673, in ASP, Sant’Uffizio, Ricevitoria, vol. 177, cc. non numerate. Per lui si spendono 2 onze e 24 tarì e il vestito gli viene regalato dall’inquisitore, don Sebastian Mongellos. 323 Capitoli dell’Arciconfraternita della redenzione dei poveri Cattivi, Palermo 1653. 324 Relation de la captivité du Sr. G. Mouette, cit., pp. 160-161. 325 Paola Vismara, Conoscere l’Islam nella Milano del Sei-Settecento, in Aa.Vv., L’Islam visto da Occidente. Cultura e religione del Seicento europeo di fronte all’I-slam, Marietti 1820, Milano 2009, pp. 219-220. 326 Davis, Christian Slaves, Muslim Masters, cit., p. 187.
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Il foglio a stampa, pubblicato a cura delle autorità, porta la data 16 aprile 1647, ULT. 328 Nino Recupero, Storia, provvidenza, utopia. Forme ideologiche nel Seicento inglese, Maimone, Catania 1994, p. 111. 329 Cit. in Colley, Prigionieri, cit., p. 60. 330 Cit. ivi, p. 59. 331 «Sarebbe come ringraziare un Benefattore e nello stesso tempo rivolgerglisi con il più volgare e scurrile dei linguaggi tu possa inventare.» Così William Sherlock, Dean of St. Paul’s, Exhortation to those Reedimed Slaves, London 1702, p. 7, ULT. 332 Ivi, p. 11. 333 «Essi vi hanno redento, perché voi possiate servirli, non come Schiavi, ma come Soggetti nati liberi [free-born Subjects]. […] Una Obbligazione aggiuntiva a questo genere di Carità.» Ivi, pp. 16 e 18. 334 Così confessa al suoi lettori Francis Brooks, Barbarian cruelty. A True History of the Distress [illegibile] .. dition of the [illeggibile]… under the Tiranny of […] Ismael Emperor of Morocco and King of Fez and Macquines in Barbary. In wich is likewise given a particular Account of his late Wars with the lgerines. The manner of his Pirates taking the Christians and others. His breach of Faith with Christians Princes. A Description of his Castles and Guards, and the Places where he keeps his Women, his Slaves and Negroes (1693), Boston 1700, p. 6, ULT. La copia del documento è danneggiata nella copertina e il titolo solo parzialmente leggibile. 335 [Anonimo], Historia degli Stati di Algeri, Tunisi, Tripoli, Marocco, cit., pp. 2-3. 336 Pietro Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973, p. 115. 337 Ivi, p. 163. 338 Ivi, p. 115. 339 Salvatore Bono, Lumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento, Morlacchi editore, Perugia 2005, in particolare il cap. 7, “Memorie di schiavi”, pp. 113-129; Id., La schiavitù di Hans Nicol Fürneisen ad Algeri e Istanbul (1712-1719), in “Oriente moderno”, XXV n.s. (LXXXVI), n. 2, 2006, pp. 211222. Linda Colley ne fa un largo uso, per raccontare, a partire dall’esperienza di prigionia di singoli personaggi, la storia dell’impero inglese prima, britannico poi, in Nord Africa, America, India e Afganistan. Colley, Prigionieri, cit. 340 [Elizabeth Marsh], The Female Captive: a Narrative of Facts wich
Happened in Barbary in the Year 1756, Written by Herself , 2 voll., London, 1769, vol. I, pp. 3 e 4, ULT. Si tratta della prima narrazione femminile di una cattività in Barberia pubblicata in Gran Bretagna; sulla sua importanza cfr. Colley, Prigionieri, cit., pp. 141-148. 341 A Narrative of the Adventures of Lewis Marott, Pilot-Royal of the Galleys o France. Giving an Account of his Slavery under the Turks, his Escape out of it, and other strange Occurrences that ensued thereafter, London 1677, ULT. 342 Memoirs of Mister George Fane, a London Merchant. Who suffered Three Years of Slavery, in the Country of Algiers; which was occasioned by an Amour with the Duke of…’ Natural Daughter after which he returned to England, married the Lady, and with her possessed an Estate of 6000 l. per Annum, London 1746, ULT. 343 Luciano Allegra, Modelli di conversione, in “Quaderni storici”, n. 78, 1991, p. 906. 344 Ivi, p. 912. 345 Ivi, p. 914. 346 Natalie Rothman, Becoming Venetian: Conversion and Transformation in the Seventeeth-Century Mediterranean, in “Mediterranean Historical Review”, vol. 21, n. 1, giugno 2006, p. 57. 347 Ead., “Examina matrimoniorum and the Study of Slave itineraries in Venice”, paper unpublished: ringrazio l’autrice per avermi consentito di citarlo. 348 Alexander Cowan, Mogli non ufficiali e figlie illegittime a Venezia nella rima età moderna, in “Quaderni storici”, n. 114, 2003, p. 856. 349 La testimonianza è riportata ivi, p. 856. 350 Marc Baer, Islamic Conversion Narratives of Women, in “Gender & History”, vol. 16, n. 2, agosto 2004, p. 427. 351 Ivi, p. 437. 352 Ivi, p. 450. 353 AHN, Inq. Sic., lib. 898, f. 80. 354 Ivi, lib. 898, ff. 243v. e 588v. La donna viene processata una prima volta nel 1580 e una seconda nel 1592, quando si presenta spontaneamente per denunciare di comunicarsi in peccato mortale diverse volte al giorno, per recuperare l’ostia e metterla nella vagina per accoppiarsi con il demonio che viene a trovarla in abito da frate. 355 Ivi, lib. 899, f. 271v. Maria viene assolta ad cautelam il 13 marzo 1605. 356 Gilles Veinstein, Sur les conversions à l’Islam dans les Balkans ottomans avant le XIXe siècle, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, n. 2, 1996,
p. 165. Il numero, curato da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, è interamente dedicato alle Conversioni nel Mediterraneo. 357 Bernard Heyberger, Se convertir à l’Islam chez les Chrétiens de Syrie, VIIe-XVIIIe siècles, ivi, pp. 144-145. 358 Cit. in Mercedes García-Arenal, Fernando Rodriguez Mediano, Rachid el Hour, Cartas marruecas. Documentos de Marruecos en Archivos españoles (siglo XVI-XVII), Consejo superior de investigaciones scientificas, Madrid 2002, p. 189. 359 Franco La Cecla, Intervento senza titolo alla tavola rotonda conclusiva in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, n. 2, cit. 360 Bennassar, Les Chrétiens d’Allah, cit., p. 418. 361 Il Corano, Sura della mensa, V, 69. 362 «Il mio cuore accoglie ogni forma; / è un pascolo per le gazzelle / e un monastero per i monaci cristiani, / è un tempio per gli idoli, ed è la / Ka’ba del pellegrino, / esso è le Tavole della Torah / e il libro del Corano.» Cit. in Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, cit., p. 247. 363 La citazione di Ibn al-‘Arabu sta ivi, p. 296. 364 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1976, p. 13. 365 Cit. in Colley, Prigionieri, cit., p. 138. 366 Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano, cit., p. 120. 367 Foa, Scaraffia, Introduzione. Le conversioni tra costruzione dell’identità e intrecci di culture, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, n. 2, cit., p. 11. 368 Biondi, La giustificazione della simulazione nel Cinquecento, cit., p. 66. Il corsivo è nel testo.
2. Mori sugli altari
2.1 Il pantheon africano Alla titanica impresa di evangelizzare gli infedeli si accompagna la costruzione di modelli di santità più adatti alle schiere dei neoconvertiti, mori e neri in maggioranza e il pantheon africano è tra Cinquecento e Seicento particolarmente povero. Della mitica regina di Saba, regnante in una vasta regione compresa tra l’Egitto e l’Arabia, è incerto lo stesso nome: Nicaula per alcuni, Nitrotes o Macheca per altri, oppure Candace, appellativo comune a tutte le regine di quel regno dove governano le donne. Anche Mosè ha sposato una principessa ereditaria di quell’opulentissimo impero, nonostante le mormorazioni dei suoi fratelli «sulla donna etiope, che è come dire sulla donna negra»1 e una delle figlie, «di colore negro, chiamata Sephora», la accasa con Yetro, a sua volta «di colore bruno». Etiope è anche Gaspare, uno dei re Magi, «come confermano i dipinti, tanto antichi quanto moderni, che lo raffigurano nero, come naturale dell’Etiopia».2 Ma il vero iniziatore dell’evangelizzazione dell’Etiopia, secondo gli Atti degli Apostoli, è l’Eunuco, tesoriere della regina Candace, battezzato da san Filippo; miracolosamente, in un solo istante diventa credente e santo, da discepolo diviene maestro e, per suo merito, «il primo regno dove pubblicamente si professò la fede di Cristo, abbattendo idoli, scacciando l’idolatria, edificando chiese, consacrando templi ed erigendo altari, fu l’Etiopia».3 Dalla stessa area geografica viene l’esempio eremitico dell’imperatore Elesbao, che rifiuta le ricchezze della sua condizione per rinchiudersi nella più
buia delle grotte, vestito di aspro cilicio, si sottopone alle più dure penitenze, non mangia altro che erbe crude e opera molti miracoli; come lui l’abate san Mosè da bandito e assassino diventa un famoso eremita e «converte molti ladroni, riducendoli al monastero e alla vita religiosa».4 Abate etiope è anche san Serapione, che dedica tutta la sua vita ai poveri, ai quali «un giorno, non avendo niente da dare, cresciuta tanto la sua carità, dona se stesso, vendendosi ad alcuni gentili e distribuendo il prezzo che è stato pagato per lui. Serve il suo padrone con tanta cura [...] che lo converte».5 Infine, la principessa nubiana Ifigenia, vergine e martire, convertita dall’apostolo Matteo, è associata a santo Elesbao nella devozione tributatale a Cadice, a Siviglia e in Portogallo.6 Storicamente «il culto dei santi africani [...] è strettamente connesso agli spostamenti del clero cattolico africano a seguito delle persecuzioni vandaliche [anche se] dopo la metà del V secolo la Sicilia era rimasta troppo sotto l’influsso dei vandali per poter costituire la meta privilegiata di chi fuggiva dall’Africa»,7 e si dirigeva piuttosto verso la Campania, il basso Lazio e la Sardegna. Dopo l’ondata antica, la guerra corsara produce un nuovo contingente di santi neri, poiché la schiavitù, già nel tardo Quattrocento, è prevalentemente maschile e nera, e tale resterà nel secolo successivo, anche in Sicilia.8 Di «Antonio Etiopo, terziario di San Francesco, morto il 14 marzo 1550, VIII Indizione, dopo una vita esemplare per miracoli e santità [...], sepolto nel cenobio dei Minori Osservanti»9 di Noto, e di Benedetto il Moro, nato da schiavi africani a San Fratello (Messina) nel 1524, parlerò tra breve diffusamente. Ma ci sono un secondo e un terzo Antonio Etiope, l’uno terziario del convento di Santa Maria di Gesù, presso Camerano, in quel di Messina, morto nel 1561; l’altro, schiavo di Giovanni Frumentino di Caltanissetta, morto nel 1580 nel convento di Santa Maria di Gesù di Caltagirone: anche di questi dirò più avanti. E ancora, Benedetto “Negro” da Palestina, che partecipa alla ricerca delle reliquie di santa Rosalia sul monte Pellegrino e muore nel convento di Sant’Antonino di Palermo nel 1647, anch’egli in fama di santità.10 Infine, anche Violante Nastasi, «di genitori schiavi e di colore nero», nipote di Benedetto il Moro, divenuta settenne suor Benedetta, cresciuta all’ombra della fama di santità dello zio, compie miracoli in vita e dopo la morte, avvenuta nel 1648. Dello stesso colore di pelle è la nipote Eulalia Barbarici, anch’essa terziaria nella stessa famiglia francescana, che si dedica attivamente a tenere vivo, attraverso ritratti e reliquie, il culto dell’illustre prosapia.11 Più che casi isolati, tutti questi schiavi, ex schiavi o presunti schiavi neri, convertiti, eremiti e francescani vanno considerati come effetto dell’opera di
evangelizzazione presso le vittime della guerra da corsa:12 il francescanesimo siciliano del XVI secolo sembra proporsi come un efficace strumento di integrazione sociale attraverso la conversione religiosa. Ma, più in generale, «glorioso fu questo secolo per i negri»,13 che, convertiti in gran numero, rappresentano altrettante vittorie della religione cattolica contro il paganesimo o la “setta” maomettana. Queste figure di servi di Dio, beati e santi dalla pelle nera, vanno strettamente legate al contesto della lotta religiosa che il cattolicesimo conduce al Nord contro i protestanti, al Sud contro i musulmani: uno jihād cattolico, la guerra santa contro gli infedeli, che si inserisce nel momento di maggior vigore dell’offensiva turco-barbaresca nel Mediterraneo. La guerra di corsa – lo abbiamo visto prima – produce il fenomeno del transito da una religione all’altra, spesso temporaneo, sempre problematico. In questa guerra di religione l’entità e l’importanza della “preda” meritano considerazione, assieme alla radicalità della conquista: vantare la trasformazione di un maomettano in un santo cattolico rappresenta il massimo traguardo raggiungibile. Perciò troviamo una particolare insistenza su santi, beati, servi di Dio schiavi o ex schiavi all’interno della formazione del modello di santità francescano, che assume, in Sicilia, l’eremitismo e lo stato laicale come cifre peculiari, e in questo periodo si traduce nella forte pressione alla canonizzazione di santi francescani. Anzi, com’è stato osservato, «la componente eremitica [è] elemento costitutivo della spiritualità francescana di Sicilia»,14 che, nel corso del XVI secolo, sarà spinta verso il cenobitismo. Antonio da Noto e Benedetto da San Fratello rappresentano due esempi straordinari di evangelizzazione perfettamente riuscita. Le loro vite sono quasi coeve: Antonio muore «ben vecchio»15 (in verità forse appena sessantenne) il 15 marzo 1549 (più verosimilmente nel 1550) a Noto; Benedetto, il 4 aprile 1589 a Palermo, a sessantacinque (o forse sessantaquattro) anni. Sono entrambi neri africani, ma il primo è musulmano, nato sui monti di Barca (Libia), catturato dalle galere siciliane e fatto schiavo; il secondo è nato in Sicilia, figlio di schiavi africani. Manomessi dai padroni in differenti occasioni, laici francescani entrambi con una forte vocazione eremitica e una spiritualità di tipo ascetico, entrambi taumaturghi e in fama di santità già in vita. Non è dunque solo il dato razziale ad assimilarli, a maggior ragione se si considera che il primo ha tratti somatici “etiopi”, lineamenti sottili, colorito bruno e una corporatura longilinea,16 mentre il secondo ha i lineamenti di alcune popolazioni dell’Africa centro-occidentale, naso camuso, bocca carnosa, corporatura brevilinea, colorito
scuro, tendente all’ebano. Si può riconoscere la loro “vera effigie” nel magnifico dipinto di Pietro Novelli, detto il Monrealese,17 raffigurante san Francesco che consegna il cordiglio a san Luigi, re di Francia, conservato nella chiesa palermitana di Santa Maria di Monte Oliveto.18 Più tardi, nella devozione iberica se ne europeizzano i tratti somatici e l’agiografo Pedro Mataplanes ci lascia una curiosa descrizione di Benedetto: «Sebbene Negro, aveva un viso gradevole, grazioso e allegro: gli occhi azzurri [sic]e vivaci, arcuate le ciglia, il naso piccolo e decente, le orecchie medie, grossette le labbra e la bocca molto piccola; tanto gentile che sembrava stesse sempre ridendo».19 Antonio e Benedetto sono entrambi conosciuti per merito delle iniziative, prese subito dopo il loro trapasso, dai confratelli dell’ordine francescano di Noto e di Palermo e dal gruppo di devoti e fedeli, sollecitati dalle grazie che, dapprima in vita, poi post mortem, le loro reliquie continuano a elargire. Subito dopo la morte di entrambi, infatti, ha inizio la raccolta delle testimonianze che consente l’apertura da parte del vescovo della diocesi della inquisitio, cioè l’indagine che accerta le virtù dei canonizzandi e l’esistenza di miracoli. I due “Etiopi” – il termine viene usato dalle fonti dell’epoca per indicare la provenienza genericamente africana e il colore nero della pelle20 –Antonio da Noto e Benedetto da San Fratello completano dunque utilmente quello che ho chiamato pantheon africano. Il primo rappresenta in particolare la capacità della religione cattolica di convertire i musulmani: Antonio, come sappiamo, nasce «nella mortifera setta di Maometto, per essere figlio di genitori mori per negri [sic], poiché è usanza molto antica di venire i mori di Barberia in carovana per i deserti di Libia in Guinea a riscattare molti piccoli negri e negre di sette e otto anni che, essendo allevati sin dalla tenera età nella sua maledetta setta, l’hanno così profondamente naturalizzata come se dentro di essa fossero nati. Tra questi furono i genitori del nostro santo, il quale per sua grande fortuna Dio portò in terra di cristiani e nel grembo della Chiesa cattolica».21 In questo caso la grandezza di Dio si manifesta nella liberazione dalla falsa religione della setta maomettana; nel caso di Benedetto essa si rivela nel contrasto tra l’umiltà della nascita da genitori schiavi e l’eccezionalità delle virtù, «perché è tanta la sapienza di Dio che di tizzoni fa santi e di carboni neri, come questo era nero, brace d’amore e preziosi carbonchi di carità [...] e così come un carbone accende gli altri, così sembra che la bellezza della sua anima quanto potè essere rimase e si sparse nel carboncino del suo annerito corpo».22 E così può accadere che «sebbene negro», Benedetto sia «il più bianco tra tutti gli
uomini spirituali di quel tempo», tanto che da vivo divenne il padre guardiano del convento di Santa Maria di Gesù, da morto il campione della religiosità degli schiavi neri africani in tutto l’impero spagnolo.23 L’altare ligneo della chiesa di Nostra Signora della Grazia di Lisbona, un tempo convento dei carmelitani calzati, diruto per il terremoto del 1755 e ricostruito verso la fine del XVIII secolo, raffigura insieme Elesbao e Ifigenia, Antonio e Benedetto sovrastati dalla statua della Vergine. Ma l’iconografia di Elesbao è mutata rispetto a quella secentesca: «sotto i piedi dell’imperatore non c’è alcun re Dunáan e l’antica lancia del santo nero matablancos si è trasformata nel dorato bastone che la croce patriarcale dell’Etiopia incorona».24 Qualche altro elemento è necessario per comprendere il significato di questa trasformazione e il nesso che la lega a Benedetto e Antonio. Al tempo dell’imperatore Giustino (518-527), governando da imperatore l’Etiopia, Elesbao castiga crudelmente il re arabo Dunáan, «il quale era Giudeo di legge e credenza» e maltrattava i cristiani del suo regno: cosa che attira sul «perfido Iudío» l’ira di Elesbao che distrugge la sua città e lo trucida assieme a tutti i suoi vassalli. Dopo questa guerra, Elesbao si ritira in romitorio, indossa un asperrimo cilicio e muore da santo. Un santo nero, vendicatore e matablancos, raffigurato con un lungo bastone simile a una lancia nella mano destra, mentre nella sinistra sorregge una chiesa, strenuamente difesa, è inserito da Cesare Baronio negli Annales Ecclesiastici,25 nonostante la sua storia sia definita dai bollandisti «incertissima». L’inserimento in tale opera di Elesbao, di Ifigenia, del santo Eunuco e di Mosè avviene nel momento dell’apogeo del traffico negriero in Europa, di cui Lisbona e Siviglia26 sono le piazze più importanti. Baronio vuole suggerire l’antichità della presenza della Chiesa in Etiopia, che, come profetizza il Salmo 67, 32, aveva anticipato i gentili nell’accogliere la fede di Dio: «Aethiopia giunse per prima nelle mani di Dio» e meritò per questo di essere la sposa di Cristo, raffigurata nella sposa nera di Mosè. I santi neri soccorrono Baronio nel ricordare alla smemorata cristianità negriera che la letteratura patristica aveva rappresentato l’“etiope” come simbolo della salvazione dei gentili. La chiesa di Etiopia, purificata dalla fede, diventava «candida y hermosa», anzi, «negra sì, però bella», come recita il Salmo citato e analogamente a come verranno descritti dagli agiografi i nostri Antonio e Benedetto. E il gesuita Antonio Vieira nei suoi Sermoni poteva presentare la Etiopissa moglie di Mosè e gli amori di Salomone con la nera regina di Saba come favori divini dati prima agli africani, in cambio della «precoce devozione dei Neri» a Dio, dimostrata dall’immediata fede del re Mago e dal battesimo
dell’Eunuco della regina Candace.27 Ma la devozione dei neri viene facilmente dimenticata quando si tratta di farne degli schiavi. Com’è largamente noto, la dottrina della Chiesa in materia si basa sul concetto di “giusta schiavitù”, esplicitato nella bolla Dum diversas del 16 giugno 1452, con la quale papa Nicola V autorizza Alfonso V, re del Portogallo, a rendere schiave le popolazioni della Guinea. Per i moralisti del XVI e XVII secolo la schiavitù legale è anche legittimata dalle Scritture e dalla condanna dei discendenti di Cam. San Paolo e san Pietro avevano raccomandato agli schiavi di obbedire con lealtà ai loro padroni, sia nel caso condividessero la stessa fede religiosa sia nel caso di padroni pagani. San Tommaso, correggendo la dottrina aristotelica, secondo cui la schiavitù è una istituzione naturale, la considerava piuttosto che nell’ordine della natura, nell’ordine della società; tuttavia numerosi testi di ascendenza patristica ricordano che lo schiavo non è per il cristiano una semplice proprietà, quanto piuttosto un servitore a cui va riconosciuto il diritto al matrimonio legittimo, per concludere che la liberazione di uno schiavo è un’opera pia. «Le cose sembrano cambiare a partire dal 1230 circa, quando la conversione degli infedeli al cristianesimo diventa sotto l’effetto della predicazione degli ordini mendicanti e in particolare dei Francescani, una preoccupazione maggiore per la Chiesa.»28 Mentre fino al XII secolo gli stati latini di Terrasanta avevano liberato gli schiavi convertiti, ora il domenicano Raimondo di Peñafort ammette che, dove la schiavitù è consuetudinaria e legale, il battesimo dello schiavo pagano non può giustificare il suo affrancamento. E in questo senso si esprimerà nel 1238 il papa, affermando che il battesimo non cambia la condizione sociale del convertito. È la scoperta del Nuovo mondo e delle sue popolazioni a scompaginare posizioni ben consolidate. Il breve papale del 29 maggio 1537, inviato all’arcivescovo di Toledo, e la bolla del 2 giugno dello stesso anno, che proibisce la schiavitù non solo degli indi, ma di tutti gli uomini di ogni razza e religione, cadono rapidamente nell’oblio. Nelle opere dei moralisti e nella casuistica di età moderna la schiavitù si fa risalire alla legge divina e dunque è considerata non solo moralmente lecita, ma talvolta persino una questione di fede.29 Si registra, dunque, una pluralità di posizioni, dalla condanna della violenza che sta all’origine della tratta alla necessità di chiudere gli occhi, stante l’importanza cruciale dei neri nell’economia americana; ma soprattutto prevale il timore a mettere in crisi lo statu quo.30 Le voci favorevoli alla liberazione degli schiavi non sono molte nel Seicento, quando il culto di Benedetto da Palermo si
pone come “alternativa abolizionista” a quello di sant’Elesbao matablancos. Enrique Martínez López suggerisce, con acume e profonda erudizione, che l’immagine di Benedetto si avvicina a quella del lusitano Antonio da Padova e ricorda come sia molto frequente vederlo raffigurato, soprattutto in Brasile, con il Bambino in braccio. Lo stesso tono “lusitaneggiante” contiene la versione che vede il santo tenere una manciata o un canestro di rose nel saio, come solitamente fa santa Isabella, figlia di Pietro III d’Aragona e di Costanza di Sicilia, sul modello di santa Elisabetta d’Ungheria, imparentata con la santa portoghese, capaci entrambe di mutare in rose il cibo destinato ai poveri.31 La disparità fisica tra il bambino bianco e l’adulto nero «rendeva manifesti i rischi inerenti alla sproporzione demografica del Brasile schiavista, dove una maggioranza di neri e mulatti al servizio della minoranza bianca poteva ricorrere alla violenza e capovolgere i ruoli [...]. Pur di prevenire questo esito, l’immagine propone che il padrone bianco e lo schiavo nero si amino come certamente si amano Cristo e Benedetto».32 I moralisti cattolici, nella migliore delle ipotesi, auspicano che i padroni dispensino libertà e salario allo schiavo; nella peggiore, che quest’ultimo accetti, con cristiana letizia, le sue catene come mezzo di salvezza spirituale. Se i padroni sono obbligati a provvedere alle loro necessità, provvedendoli di cibo, abitazione, vestiti e salario e a non eccedere nel lavoro e nelle punizioni, e sono tenuti a essere dei buoni giudici, poiché Dio è padre e non despota («fuori signori, dentro uguali»), gli schiavi, di contro, devono imparare a conservare la coscienza pura, nonostante le circostanze avverse, soffrire con pazienza le afflizioni che, anche ingiustamente, causano loro i padroni, accettando di essere puniti persino per una azione meritoria. L’obbligo è di obbedire non solo ai padroni che li trattano con blandizie, ma anche a quelli che ricorrono a metodi aspri e brutali: se non sono loro a ripagare il buon servizio reso dallo schiavo, sarà Dio e, se non in questa vita, nell’altra.33 D’altronde, «cosa potrà dire a un contadino il gran San Gregorio Magno o l’egregio San Tommaso d’Aquino? Proporre a quella sacrificata gente della gleba un individuo della loro stessa razza, abbellito con il nimbo della santità, constatare che anche egli era schiavo come loro [...] avrebbe loro aperto le grandi porte della religione e della fede».34 Da altre fonti apprendiamo che l’iconografia del Nuovo mondo ha dovuto sottomettersi a qualche innovazione etnica, poiché i neri «dipingono San Michele negro e il demonio che sta dabbasso ai suoi piedi bianco; [...] perché essendo negri, vogliono che il santo somigli loro, perché ritengono il nero un colore migliore».35 Dunque è un modo di abbellire i santi verso i quali nutrono
nuova devozione, cui si accompagna la forte tensione all’assimilazione del simbolo, alla stessa stregua di quanto avviene per l’iconografia della Madonna, che popolerà gli altari del Centro e Sud America di fanciulle «morenite».36 «I negri non si appassionano della gente bianca perché ritengono che il colore bianco sia brutto e che sia bello il nero. Così si sa che gli Etiopi gentili dipingono di nero i loro dèi, i cristiani gli angeli e i santi, gli uni e gli altri dipingono bianchi i demoni.»37 Benedetto e Antonio da questo punto di vista rappresentano gli schiavi ideali, analfabeti («santo idiota» e «di poche parole» per Daça), lavoratori docili e fidati, pastore e cuoco.38 «Sant’Elesbao matablancos non rappresentava quel negro buono soltanto come frate laico, quanto piuttosto un imperatore poderoso che la Chiesa aveva benedetto come strumento dell’ira divina contro quei bianchi che erano crudeli nemici della cristianità [...]. Era, dunque, un possibile modello per lo schiavo non sottomesso, una alternativa bellicosa a quella rappresentata da san Benedetto.»39 Insieme alla pacifica Ifigenia, i mansueti Antonio e Benedetto si prestano alla rappresentazione della santità nera: Benedetto viene beatificato nel 174340 da quello stesso Benedetto XIV che due anni prima ha condannato l’ingiusta schiavitù e i maltrattamenti degli indi nel breve Immensa Pastorum, diretto ai vescovi brasiliani. Insegneranno agli schiavi africani che la tratta negriera ha trapiantato nel Nuovo mondo come andare «in Paradiso per la strada de’ patimenti».41
2.2 L’«etiope» eremita Quando nel 1589, presso il convento palermitano di Santa Maria di Gesù, Benedetto passa a miglior vita, il processo di canonizzazione di Antonio è già in corso. La sua fama è certamente diffusa almeno nei conventi siciliani: l’Ordine di San Francesco alimenta la devozione a questo suo figlio che ne rappresenta le virtù serafiche in modo così eccelso da suscitare forme spontanee di culto. Sin dalle prime agiografie di Benedetto, cronologicamente vicine alle tappe iniziali del processo di canonizzazione, viene citata la circostanza che vuole al capezzale del moribondo sant’Orsola e il beato Antonio, detto anche da Caltagirone. Benedetto, rivolgendosi ai suoi due frati infermieri, dice: «“Et dove volemo mettere tanti virginetti che qui in questa cella non càpino?” le risposse
l’infermiero: “Padre li meteremo dentro un monasterio”; onde respose: “O gran cosa padre”, et subgiunse: “Ecco il beato Antonino da Calatagirone”. Ma advidendosi che non tutti vedevano la visione che esso vedeva, si posse in silentio et non parlava restando per quella vissione fuor di sé, vedendosi la sua faccia tutta illuminosa et resblendente; et si sentì una fragrantia grande come di Paradiso dove per questa causa si comprese chiaramente che santa Ursula con le sue sante vergine l’havessiro venuto per consolarlo [...] delli quali vergine si dice anche solino demonstrarsi alli soi devoti et agiutarli in tempo della morte sì come si legge in molti esempii».42 Il momento del “transito” riveste qui una particolare importanza, e se la presenza di sant’Orsola rafforza la speranza della buona morte,43 Antonio che viene a raccogliere l’anima di Benedetto per condurla in trionfo simboleggia la forte continuità tra i due frati e tratteggia un modello di santità nera e francescana. Il beato Antonio da Caltagirone è, come abbiamo visto, «un Negro nato sui monti di Barca», non solo è «negro come quelli della Guinea, Xaloffe e Monicongo, ma è anche Moro, nato e allevato nella legge di Maometto e figlio di genitori Mori e negri».44 Antonio è un moro d’Africa e un maomettano, Dio lo riconduce alla sua Chiesa per mezzo delle galere di Sicilia che lo catturano come schiavo e lo vendono a Giovanni Iandavola,45 cittadino di Avola, presso la città di Noto, che lo destina alla custodia delle sue greggi. La guerra di corsa attraversa nei primi decenni del Cinquecento la sua fase più acuta: le galeotte di Khayr ad-D īn, detto il Barbarossa, continuatore delle imprese del fratello Arug, “terrore dei cristiani”, di Dragut e di Uccialì pattugliano il Mediterraneo, contrastate dalla marineria spagnola e da quella corsara dei cristiani. Il nostro schiavo non cerca mai di fuggire, per quante occasioni si presentino «per i tanti Mori corsari [che] navighino in quei mari».46 Si converte al cristianesimo per la particolare inclinazione del suo animo «senza alcun tipo di doppiezza o di malizia» e viene battezzato con il nome del glorioso padre santo Antonio. Il 22 aprile 1549, poche settimane dopo la morte, su mandato del vice vicario della città di Noto, Giovanni de Donno, vengono raccolte testimonianze e informazioni de vita, morte et miraculis di Antonio il Nero.47 Vengono interpellati trentotto testimoni che potrebbero essere sentiti qualora si aprisse un processo ordinario, e le cui testimonianze intanto dipingono il destino certamente eccezionale di uno schiavo che, appena catturato, viene venduto e trasferito nei possedimenti del padrone e addetto all’allevamento del bestiame. Giovanni Iandavola è infatti proprietario di armenti sul feudo del Celso, dove lo
schiavo ben presto, guadagnata la fiducia del padrone, diventa «zambataro della mandria»,48 ossia curatolo. Sappiamo, inoltre, che nello stesso feudo ci sono dei giovani «bestiamari»,49 che una testimonianza descrive quali destinatari della carità di Antonio,50 il quale non segue le greggi al pascolo, ma si occupa della lavorazione del formaggio e delle necessità dei garzoni, cucinando per loro, sparecchiando, lavando le scodelle, e occupa i momenti di ozio, oltre che nella preghiera, intrecciando sporte, scope e cestini di palma («coffi, scupi et certi panarelli di curina»).51 Già in questo periodo Antonio conduce una vita di penitenza: gli stenti dello schiavo cambiano di registro e si trasfigurano nella penitenza cristiana. Digiuna frequentemente, nonostante il duro lavoro, dorme poco e in un pagliaio (il suo letto è fatto di «ligna e frasche»), si alza a mezzanotte, si denuda e si sferza con una disciplina intrecciata con aghi appuntiti, sta frequentemente rapito in orazione.52 Mai annoiato o insofferente, sempre quieto e pieno di contegno, amicissimo dei poveri,53 aborrisce l’ozio e la bestemmia: si percuote il petto con una grossa pietra ogni volta ne sente pronunciare una, chiede perdono a Dio lacrimando – tanto che chi gli sta attorno, per evitare la sua reazione, si astiene dal blasfemare – e, quando non è impegnato con gli animali, intreccia corone di rosario che regala ai poveri, per incoraggiarne la devozione alla Vergine. Il mercoledì e il venerdì si carica addosso una pesante pietra, come forma di particolare mortificazione. È taciturno («di poche parole e lento nel parlare», lo descrive l’agiografo spagnolo), forse per sottrarsi allo scherno che suscita il suo “negresco”, come viene chiamato il gergo tipico degli schiavi che hanno imparato da adulti a esprimersi in una lingua straniera, più spesso un dialetto, che padroneggiano poco; anche la sua devozione alla «corona di nostra Donna» e al rosario, continuamente citato dai testimoni come una sua particolare inclinazione, può essere ricondotta all’uso che doveva essergli familiare del rosario musulmano. Antonio è un uomo pio, che si confessa e comunica frequentemente nella chiesa di Santa Venera ad Avola o all’altare di san Iacopo «con la lampa allumata» e anzi compra una volta un palio per questo altare e un paio di candelieri.54 Antonio ama accompagnarsi all’onorevole Corrado de Cortisi e a Blandano (o Brandano) Terranova, con cui conversa di «cose spirituali» e di come debba «osservarsi la vita cristiana», e tanto gli piacciono quelle conversazioni che i due gli fanno «tagliare da mastro Giorgio custureri [sarto] maltisi una gunnella di lana, a guisa di tonaca e Blandano lo incoraggia ad andare nel loco di sancto Corrado», dove Corrado de Cortisi lo accompagna per
un anno, conducendo insieme a lui vita penitenziale e contemplativa, digiunando a pane e acqua quattro giorni a settimana e disciplinandosi ogni mercoledì e venerdì. Ma non solo la tonaca gli appresta Corrado: trovando nella sacca di Antonio la disciplina insanguinata, gliene fa confezionare un’altra con rondelle di argento al posto degli aghi che possono causargli infezioni.55 Come dirà in punto di morte, ha preso l’abito, cioè ha pronunciato i voti, presso il convento di Santa Maria di Gesù. C’è solo questa notizia relativa alla pronuncia di voti da parte di Antonio nelle testimonianze del 1549 e alla sempre maggiore propensione per la vita eremitica, contrassegnata nell’area netina dall’esempio di Corrado Confalonieri e di Guglielmo da Scicli.56 Blandano Terranova, un nobile molto pio, legge a casa sua «libri devoti a persone timorate di Dio che si riunivano con lui»; Antonio si unisce «a quella congregazione e compagnia» dalla quale è «ben ricevuto» e che lo recluta nella religione «del terzo Ordine del glorioso San Francesco», consigliandogli di andare nel deserto, come aveva fatto anni prima «Corrado Piacentino della stessa regola e abito».57 Il barone Blandano Terranova è noto ai contemporanei per avere viaggiato a lungo «come pellegrino nei luoghi santi, acquistando per la sua onestà profonda stima in Sicilia e in Italia».58 La tonaca fatta indossare ad Antonio può rappresentare una semplice forma di devozione, oppure si può ipotizzare che Blandano, capo di una conventicola di terziari, abbia potuto riceverlo come novizio e, con la sua autorità, inviarlo all’eremo. Possiamo immaginarlo a capo di una comunità di meditazione e di preghiera, una delle forme nelle quali la vitale spiritualità della prima età moderna si dedica alla «ricerca della perfezione», sotto la direzione spirituale talvolta di un ecclesiastico, talaltra di un laico, seguendo l’inclinazione diffusa tra i ceti urbani più colti per una pietà appartata e severa che «incoraggia la propensione di piccoli gruppi a coltivare in comune una più intensa vita interiore».59 Apprendiamo in modo indiretto che Antonio si è nel frattempo sposato: in generale, i padroni non favoriscono le nozze degli schiavi perché «il matrimonio presupponeva qualche limite al loro sfruttamento e quindi al diritto di servitù».60 I doveri imposti dal matrimonio religioso – la coabitazione, l’assistenza reciproca, l’educazione dei figli – finiscono per addolcire la schiavitù e ostacolare la sua pratica mercantile: l’esistenza di una famiglia rappresenta un intralcio alla vendita, perchè gli schiavi non possono più essere venduti separatamente, soprattutto se devono essere imbarcati per raggiungere le colonie oltremare. Dunque, dopo trentotto anni di lavoro nelle campagne tra Avola e Noto, Antonio chiede licenza alla moglie e se ne va prima a San Corrado “di
fuori”, com’è chiamato il luogo dell’eremitaggio di questo santo e poi “a li grutti caldi” con altri eremiti, elemosinando a favore dei poveri. Costituisce una comunità eremitica o si aggrega a una preesistente che ha scelto i Pizzoni come luogo di insediamento.61 Il presbitero Michele Vinturino si reca per due anni consecutivi a «conversare» con lui nell’eremo,62 mentre il trapanese Franciscus Galvanius vive per quattro anni a San Corrado di fuori con “cio Antonio nigro” e può attestarne l’umiltà e la santa vita.63 Il rispetto di cui gode è tale che l’honorabilis Paula, uxor Petri Jamblundo, parente dunque di Michele e Vincenzo, i due fratelli di Noto a cui Antonio passa in eredità alla morte del padrone, incontrandolo lo chiama «Messeri per la reverentia che ci havìa» e gli chiede: «Sànami et liberami di questa infermità», mentre si china per baciargli la mano.64 “Cio Antonio” la solleva e l’abbraccia, guarendola miracolosamente dal tremore alla testa che la tormenta da tempo. Dei miracoli di cui si raccoglie notizia a poche settimane dalla morte, avvenuta nel marzo nel 1550, dieci sono stati compiuti in vita, nove post mortem. Itestimoni della prima redazione della Vita sono trentotto (di cui ventidue donne e sedici uomini), tra questi sei sono i religiosi, una donna e cinque uomini; essi attestano, oltre ai miracoli, anche le qualità spirituali e morali del nostro schiavo eremita. Tra loro ci sono Primavera, che ha la mano sinistra paralizzata, «serva nigra» di Mariano Mangiameli, detto “Malvizo”, della terra di Buscemi, e Caterina, schiava di Michele e Vincenzo Iamblundo, già padroni di Antonio, la quale dopo quattro giorni di travaglio ha partorito «ponendosi un paio di bertoli [bisacce] chi erano del ditto cio Antonio adosso».65 Il santo da vivo è un taumaturgo: guarisce infatti una «apostema allo stomaco», una «rottura» (ernia), una tumefazione ai «bottoni» (testicoli), un «tremore di testa», una «reuma di rini» (reni), un imprecisato «male», un buco al palato. In quest’ultimo caso usa la sua saliva, elemento che appare frequentemente nei miracoli cinquecenteschi di guarigione,66 mentre sempre essenziale resta il ruolo dell’orazione.67 Le sue reliquie operano gli stessi prodigi: la «calcina» del suo sepolcro guarisce un’ustione alla mano, un’ernia, una «reuma» al braccio e ad un occhio, un arto paralizzato e una «gonfiagione di corpo» (idropisia). Il suo mantello sana un piede «alterato», la sua bisaccia accelera e risolve un parto difficile. Nei miracoli operati in vita è frequente il richiamo all’orazione: quando Antonio Gambacurta porta Antonio a casa, dove la moglie e la figlia «hanno preso il male e il medico fisico Vincenzo Bellassai non li ha potuti sanari», Antonio, dritto in piedi, dice l’orazione a mani giunte, si fa il segno della croce
sulla fronte e raccomanda loro di avere fede in Dio che li guarirà entrambi.68 Un altro malato di «apostema» allo stomaco, dopo aver perso la speranza nella medicina, disperato di dover ricorrere al chirurgo sotto i cui ferri è certo di trovare la morte, si rivolge ad Antonio, raccontandogli della sua malattia molesta e dei suoi cinque figli, presto orfani, e implorandolo: «Ti prego chi mi ci metti la mano di supra». E Antonio replica: «Io sugnu povero servo di Christo et mischino piccaturi, como vi pozo sanari; habiate fide a Dio et venite ad sancto Corado chi vi ascutirà».69 La sera il teste lo incontra mentre fa la questua per i poveri e ritorna alla carica per farsi «mettere la mano di supra dicta infermitati»: durante tale operazione Antonio dice «certi orationi», fa il segno della croce e lo manda a confessarsi e comunicarsi. La malattia impiega dodici giorni per risolversi. Nei trentotto anni trascorsi ad Avola, cresce la sua reputazione di santità al punto che don Nicola de Eaxone, suo confessore per quindici anni, dichiara di non averlo mai dovuto assolvere da peccati mortali, ma solo da colpe lievi. Dona generosamente ai poveri quello che possiede, tanto che i suoi compagni lo accusano di sperperare i beni dei padroni, i quali, conoscendone l’onestà, lo incoraggiano piuttosto a fare elemosina per loro conto e in loro nome. Tutti lo chiamano “cio Antonio”, in segno di rispetto, nonostante si tratti di uno schiavo. Durante un’epidemia in cui muoiono ottocento pecore, Antonio rincuora il padrone promettendogli che Dio avrebbe moltiplicato il gregge entro un anno. La premonizione puntualmente si avvera. Diventando i miracoli sempre più numerosi, i padroni «ebbero timore di avere per schiavo chi aveva Dio per amico e così gli diedero licenza di affrancamento e il permesso di abitare liberamente dovunque gli piacesse».70 Antonio sta con loro per altri quattro anni, per l’amore che lo lega alla loro famiglia.71 Lo manomettono, dunque, ormai vecchio. Avranno i padroni voluto sbarazzarsi di un’inutile bocca da sfamare? In generale, i sentimenti di devozione verso i padroni potrebbero velare una realtà ben più cruda: l’affrancamento può essere condizionato a un ulteriore periodo di lavoro (sappiamo infatti che molti schiavi guadagnano il denaro per pagare la carta di affrancamento, in poche parole si riscattano da soli dai propri padroni); inoltre, liberare uno schiavo vecchio o malato, più che essere segno di generosità, rappresenta il modo di abbandonarlo al suo destino proprio quando è meno produttivo. Ad ogni modo, finiti i quattro anni, Antonio prende licenza e si offre al servizio dei poveri all’ospedale di Noto, fa la questua e la spartisce tra i malati e i carcerati; si reca ogni mattina in chiesa, rimanendovi due ore in orazione.
Ormai vecchio e malato, si ritira all’ospedale di Noto, dove assiste per lunghi anni gli infermi,72 chiedendo di potersi sistemare vicino all’altare, sì da potere sentire messa. Quando il sacerdote Lucas Zicurde gli propone di essere seppellito nella chiesa del Crocifisso nell’omonima cappella, Antonio replica di non meritare tanto onore «perché era il più indegno schiavo del mondo e che voleva essere seppellito nella casa di suo padre San Francesco nel convento di Santa Maria di Gesù di quella città dove aveva ricevuto l’abito».73 Quando il 14 marzo 1550 muore, miracolosamente le campane si mettono a suonare a distesa senza intervento umano, chiamando a raccolta la città; una folla si precipita a fare incetta di reliquie dall’abito, dalle suppellettili, dalla terra della stanza, mentre una guardia armata, comandata da Andreas Iamblundo, di certo della famiglia degli ex padroni di Antonio, «uomo coraggioso e valente», custodisce il «prezioso tesoro», il corpo del santo che gli abitanti di Avola vorrebbero sottrarre a quelli di Noto.74 «Dopo una vita esemplare per miracoli e santità, è sepolto nel cenobio dei Minori Osservanti»75 di Noto. Nel 1565 il vescovo di Siracusa, Giovanni Orosco de Alzès, «autorizza il vicario foraneo di Noto di collocare la cassa del beato Antonio in posto decoroso dentro la parete dell’altare maggiore. La traslazione delle reliquie in cassa lignea si trasformò in apoteosi dell’indimenticabile fratello dei poveri; anche i Giurati della città vollero prendervi parte. Il 13 aprile 1599, il vescovo siracusano Giovanni Castellano Orosco eseguì la ricognizione canonica delle ossa del Beato negro, prima di autorizzarne l’esposizione in un’altra arca lignea migliore e decorata, custodita con grata di ferro per evitarne il trafugamento».76 Alla riapertura della cassa, il corpo viene trovato incorrotto, mentre si diffonde l’odore «celestiale» che caratterizza i corpi santi e, atteso il gran numero di miracoli e la venerazione cui è fatto segno, la Chiesa concede che le sue immagini portino splendori a diadema, in segno di gloria. Nel frattempo è stato certamente beatificato. Nel Martyrologium franciscanum, al giorno 14 marzo troviamo brevemente annotato: «Noto, in Sicilia, il Servo di Dio Antonio, di cognome il Nero, Confessore, Terziario, che, a pie opere continuamente intento, migrò felicemente verso i premi eterni e si segnalò per i miracoli».77 Il beato Antonio appare come un antecedente di Benedetto nella costruzione di un modello di santità nera, laica e francescana,78 e insieme saranno associati nel culto sin dall’inizio del XVII secolo, sia nella penisola iberica sia nel Nuovo mondo.79
2.3 Antonio da Caltagirone Corrado Confalonieri viene beatificato nel 1515, nel 1538 Guglielmo da Scicli. Ma si verificherà alla fine del Cinquecento la vera ondata di beatificazioni, di raccolte di vite e processetti, di spontanee devozioni: nel 1580 muore fra’ Giacomo de Parisio di Caltagirone, accomunato a tutti i santi francescani dalle medesime caratteristiche di una vita e di una morte sante. Anche di lui i confrati tramandano i prolungati digiuni, le continue orazioni, l’insonnia, la durezza delle discipline, l’umiltà e i numerosi miracoli, di cui avrebbero beneficiato, tra gli altri, due correligionari, fra’ Cherubino da Piazza e fra’ Antonio da Girgenti.80 Cherubino di Santa Lucia, di famiglia nobile e doviziosa, prende l’abito a diciannove anni e inizia una vita di penitenze e di preghiere: si fustiga con catene di ferro due-tre volte a notte, mangia solo pane e acqua, dorme per terra con un ciocco di legno per cuscino. È tanto “fiacco” da non avere la forza di aprire la bocca per nutrirsi e i confrati lo imboccano come un bambino, aprendogli la bocca con una chiave. Come tutti i venerabili, prevede l’ora della sua morte, avvenuta il 30 agosto 1587.81 L’avvio del suo processo di beatificazione82 coincide con quello di Benedetto e di Matteo di Agrigento (1376-1450), discepolo di Bernardino da Siena e riformatore dei monasteri siciliani.83 Ancora più emblematico è il caso di un altro schiavo africano, anch’egli terziario francescano ed eremita, «nativo di Etiopia, di padre e madre gentili, che fu preso da christiani essendo figliolo e fu comprato da un certo Giovanni Frumentino di Caltanissetta, il quale lo fece ammaestrare nella legge di Christo, lo fece battezzare e lo teneva nella massaria fuori otto miglia lontano da Caltanissetta».84 Antonino è «di buona inclinazione e costumi», obbediente al suo padrone «più che uno figlio al padre», dedito alla penitenza, ai digiuni, pacificatore delle discordie; si confessa e comunica frequentemente; devotissimo della Madonna, impara a leggere per poterne recitare l’officio. Chiede di entrare nell’ordine – non sappiamo se prima o dopo l’affrancamento ottenuto solo quando Frumentino è ormai sul letto di morte – ma viene in un primo tempo rifiutato «perché era negro». Accolto nel convento di Santa Maria di Gesù di Caltagirone, dove è guardiano fra’ Guglielmo da Caltagirone, che gli dà l’abito e il nome e lo sottopone ad una «asprissima vita», diviene un campione di serafiche virtù: «di semplicità e purità colombina», «fugge li parlamenti oziosi», indossa un saio di lana ruvida e un cinto di ferro, mangia una sola volta al dì
pane e erbe, sta in continua orazione mentale e vocale, talvolta rapito in estasi. Insomma è «honestissimo et prudenti in tutti li soi apportamenti talché non pareva scavo negro». Il riferimento alla sua caratteristica razziale ritorna anche nella particolare compassione verso «uno scavo negro leproso nel suo convento»; vinta la sua ritrosia quando gli si chiede di intervenire a favore di un infermo, «con humiltà ricusa dicendo che esso era scavo nigro et brutto et che non faceva miraculi», ma poi lo guarisce «perché era negro del suo colore». Travagliatissimo dai demoni che lo prendono di peso e lo buttano nel fosso delle immondizie o lo piantano nel bel mezzo di una catasta di legna bruciandogli i piedi, un giorno in chiesa dà in escandescenze, e al frate che lo redarguisce risponde: «Perché non mi agiuti, non vedi che la Ecclesia è piena di demoni?». È solito seppellirsi dentro la sabbia per cercare refrigerio, poiché il demonio lo ha ustionato con «caldari di acqua bollenti». Con l’imposizione delle mani e l’orazione opera mirabili guarigioni su persone e animali; profetizza e prevede il futuro, legge nei cuori, ritrova le cose scomparse. Tra i suoi devoti ci sono il principe di Licodia, a cui predice che il suo corpo sarà accidentalmente bruciato durante le esequie, il principe di Paternò, di cui presagisce la prossima morte, donna Eleonora Guarina, marchesa di Francofonte, la quale, preoccupata per la lunga assenza del consorte, apprende dal frate che, diretto in Spagna per un importante incarico militare, si è fermato a Napoli malato. «Finalmente carrico di meriti si infirm[a] a morte», prende i sacramenti, benedice i presenti e si fa da loro benedire, quindi si gira nel letto volgendo le spalle agli astanti e muore. «Prodigiosamente convertito alla Santa Fede per mezzo della miracolosa statua della SS. Vergine di Santa Maria di Gesù del convento di Caltagirone, quivi servendo a’ Padri risplendette per le virtù eroiche, specialmente dell’Umiltà, Carità e colombina Semplicità, e per la gloria dei miracoli. Nel 1580, li 21 di Agosto se ne passò alla patria dei Beati, lasciando il prezioso tesoro del suo corpo, che quasi totalmente incorrotto si conserva onorevolmente nella sagrestia dell’istesso convento colla facoltà dell’Ordinario.»85 La notizia produce un concorso di popolo a caccia di reliquie. «Il beato Antonio Etiopo morse il venerdì santo 1592. Si conserva in Caltagirone sotto l’altare delli Sette Martiri.»86 I francescani siciliani scrutinano febbrilmente i propri confratelli da elevare agli altari. Cercano notizie di frate Simone di Calascibetta, morto tra il 1535 e il 1540, tra quanti possono averlo conosciuto, di Vincenzo di Nicosia, al secolo di cognome Ferro, di cui si conosce una sola devota. Raccolgono per merito di Antonino da Randazzo ogni informazione ricavata da testimoni e da «processi
autentici», al fine di mettere a punto il santorale dell’ordine. Una grande impresa questa, che però non riesce ad Antonino da Randazzo, precocemente venuto a mancare, e trova compimento nel Paradiso serafico di Pietro Tognoletto, che si avvale del materiale collazionato dal suo predecessore, tramandandoci le agiografie dei più importanti beati e servi di Dio, della levatura di Antonio Etiope da Noto e di Benedetto da San Fratello, inserendo così nel modello francescano la santità nera.
2.4 Santo Scavuzzu Benedetto nasce a San Fratello (nell’odierna provincia di Messina) nel 1524 (o forse nel 1525: l’atto di battesimo non è stato rintracciato), da due africani: Cristoforo, schiavo di casa Manasseri, cavalieri al servizio della casata dei Lanza, e Diana, schiava della famiglia Larcan. Al processo di canonizzazione del figlio, il padre viene ricordato dai testimoni come «vaccaio e huomo da bene», di particolare generosità verso i poveri; «essendo di tanti buoni costumi, non era reputato come scavo negro, ma come qualsivoglia persona, respetata et virtuosa».87 Dei genitori, il biografo più vicino agli atti processuali dice che erano «di colore negri, discendenti de Etiopia, benché fossero nati cristiani nella istessa terra, la madre era franca et il padre soggetto, ma dopo la morte del padrone restò libero et benché fossero negri furono bene nutriti et erano buoni cristiani et timorosi di Idio».88 Tutti concordano sull’adesione profonda della coppia al cattolicesimo, sulla loro stretta osservanza dei precetti religiosi, sui buoni costumi che avrebbero ispirato il precoce sentimento religioso del figlio. Ma il primo agiografo di Benedetto, nel 1611, scrive una cosa diversa, mentre insiste con forza sull’aspetto razziale del canonizzando: «Nacque negro e schiavo [...] e sua madre fu una negra, schiava di un cavaliere della casa dei Lanza [sic] e così il figlio seguendo la condizione di sua madre nacque negro, e schiavo, ma di grande e bella inclinazione per le cose di virtù».89 Sebbene negro, continua l’agiografo, fu però aggraziato e onesto, a conferma del detto secondo cui «la terra nera fa buon pane».90 Anche un figlio di schiavi con la pelle nera può essere strumento della grazia divina. La schiavitù di nascita crea un particolare imbarazzo, poiché in questo caso Benedetto non avrebbe dovuto essere ammesso nell’ordine sicché, a partire da
Antonino da Randazzo – nominato nel 1620 dal ministro generale dell’Ordine dei frati Minori procuratore della causa di canonizzazione, nonché custode della riforma francescana di Sicilia –, si crea una versione opposta che vuole il canonizzando nato libero, da madre “franca” e padre “soggetto”, ma entrambi buoni cristiani. La maternità di una schiava, inoltre, avrebbe potuto fare sospettare una nascita non legittima, stante l’accessibilità sessuale delle schiave da parte dei padroni. Il conflitto che contrappone tra loro diversi agiografi, alcuni favorevoli (Daça, Cagliola), altri contrari (Randazzo, Tognoletto) alla schiavitù della madre, viene composto da Pedro Mataplanes, canonico della chiesa metropolitana di Palermo, che nel 1702 propone la versione di un presunto voto di castità della coppia per non procreare figli schiavi e della concessione del padrone di liberare il loro primogenito. «Aveva Cristoforo, sin dall’inizio del suo matrimonio, concertato con sua moglie Diana di osservare perpetua castità in quella condizione [di schiavitù], perché non nascessero schiavi anche i loro figli. [...] Il suo padrone, Vincenzo, promette che il primo figlio che Diana avesse dato alla luce, sarebbe stato franco e libero.»91 Così si trasforma qui, agiograficamente, nella scelta della castità quello che è il rifiuto di procreare degli schiavi, una forma di resistenza – insieme all’uccisione del padrone, alla fuga e al suicidio – alla condizione schiavile.92 Secondo gli agiografi Benedetto sarebbe nato libero, ma non così il fratello Marco (o Mario) e le sorelle Baldassara e Fradella – la quale sposa a sua volta uno schiavo di proprietà di Vincenzo Nastasi di Militello (in provincia di Catania) da cui ha quattro figli, schiavi come i genitori e appartenenti, oltre che a Vincenzo Nastasi, anche all’arciprete di quella terra, Vincenzo Di Thomaso. I due padroni decidono di affrancare tutti i fratelli, a condizione di esserne serviti vita natural durante, stipulando allo scopo un atto notarile. Mi sono però persuasa che le cose possono essere andate diversamente. Gerolamo Lanza, eremita dell’ordine minore e già in fama di santità,93 un giorno rimprovera alcuni mietitori che prendono in giro il giovane schiavo (ha ventun anni), del quale presagisce il destino: «Voi altri giocate con questo schiavetto e fra pochi anni sentirete la fama sua». Dunque Benedetto è ancora schiavo. Più tardi, alla masseria dove il giovane custodisce per il suo sostentamento alcuni buoi, lo apostrofa: «Che fai qua Benedetto. Va’ a vendere questi buoi, et venitene all’heremitorio».94 Il possesso di due buoi mostra una schiavitù assai vicina al servaggio. I Manasseri sono cavalieri del casato cui appartiene Gerolamo; l’eremo è probabilmente sui loro possedimenti; il nobile eremita avrebbe potuto portare con sé uno schiavo che, con la vendita dei due
buoi, avrebbe pagato al padrone il prezzo del suo riscatto. I testimoni al processo lo chiamano “santo schiavo”, anzi, con il diminutivo affettuoso di “Scavuzzu”; un frate che vuole insultarlo lo apostrofa come si fa comunemente con gli schiavi: «Cane perro!»; egli stesso, per schernirsi dall’assalto dei suoi devoti, dice di essere solo un povero schiavo ignorante. Lo scherno e l’offesa reiterata degli anni giovanili hanno potuto contribuire a formare il suo carattere schivo e umbratile, propenso all’eremo, dove è un pregio essere «di poche parole e lento nel parlare», come Antonio Etiope. Anche con le donne è estremamente timido, e la possibilità di contatti è ad ogni modo limitata alle schiave; così, «per trovarsi di colore negro, non aveva avuto il fallace mondo [la possibilità] di poterlo machiare et perciò si era restato nella sua purità e inocentia et di essere anco vergine».95 Un altro elemento incerto riguarda la data in cui prende i voti. Al processo una delle preoccupazioni dei promotori riguarda l’assenza di notizie sicure sulla pronuncia dei voti, su cui espressamente si interrogano i testimoni, che affermano come egli abbia fatto professione nelle mani di Gerolamo Lanza, che ne aveva autorità apostolica, e con lui sia rimasto a lungo, prima sui monti di Santa Domenica, non lontano da San Fratello, poi alla Mancusa, tra Partinico e Carini, infine a Monte Pellegrino, sopra Palermo. Anche nel caso di Antonio Etiope abbiamo sentito testimoniare di un’ascrizione fatta a casa del barone Blandano Terranova che fa cucire una gonnella di lana «a guisa di tonaca» dal sarto maltese, alludendo evidentemente con grande semplicità all’accoglienza dello schiavo etiope come novizio. Nell’uno e nell’altro caso due personaggi importanti hanno arruolato due schiavi neri, “infami” che l’Ordine dei Minori di San Francesco sa rendere “famosi” dando loro un’inedita uguaglianza con gli aristocratici patroni,96 e dunque ne costruisce la “fama” ascrivendoli a una famiglia spirituale. Per entrare negli ordini religiosi occorre nascere liberi (“franchi”) e di madre libera; gli affrancati stessi sono in una condizione di irregolarità, poiché sono rudes (non civilizzati) e dunque infames, ai quali il diritto riconosce una condizione di minorità civica. Invece, la famiglia francescana sembra accettare schiavi nei suoi ranghi: li ammaestra a scampare senza peccato da un mondo malvagio, ne fa i campioni della superiorità del cristianesimo sulle altre religioni e modelli di sopportazione della schiavitù, di sottomissione ai padroni e di amore tra le razze, dimostrando una grande capacità di integrazione. L’ingresso nell’ordine dove tutti gli uomini sono fratelli – non è consentita ai frati alcuna proprietà, meno che mai quella di un altro uomo – assume il senso e il valore di uno straordinario processo di integrazione.
In termini generali, il francescanesimo si propone come linguaggio capace di contrastare le logiche dell’esclusione dalla società attraverso la valorizzazione dell’identità di figure sociali considerate indegne di partecipare alla vita civica. Gli “infami”, sprovvisti di buona fama e dunque non affidabili dal punto di vista giuridico e confessionale (“fedele” significa sia degno di fede sia cristiano, ergo solo i cristiani sono degni di fede), sono figure eterogenee: criminali, eretici, malfattori, infedeli, poveri, caratterizzati dalla cattiva reputazione, a cui si aggiungono quanti sono considerati fisicamente “incompleti”: le donne, i minori, i matti, i servi, gli schiavi. Inoltre, i nostri schiavi vengono da fuori, sono alieni, nati altrove, estranei, stranieri, adepti di altre religioni: straniero e infedele apparentano i loro significati. Inattendibili se testimoniano in giudizio,97 esclusi dal sacerdozio, per la loro identità degenerata inadatti a rappresentare i cives christiani. Francesco si proclama fratello di tutti e la sua fratellanza abbraccia il mondo animato e inanimato, ogni elemento della natura con la quale vive in comunione: predica agli uccelli; accudisce senza paura i lebbrosi incontrati per strada sino a condividerne la scodella; stringe un patto con il lupo «ladro e omicida», degno della forca, e lo riconcilia con la gente di Gubbio (addomesticato dal santo, andrà di casa in casa trovando cibo e cure); addomestica alla stessa stregua i due ladroni di Borgo San Sepolcro, assassini e crudeli come belve, «presuntuosi e isfacciati», riconciliandoli con la legge e inducendoli a prendere il saio. Gli schiavi vengono caratterizzati in particolare per la loro “bestialità” (cane è l’insulto più frequente) e per la carnalità, ciò non tanto in dipendenza della loro alterità razziale, quanto della loro estraneità religiosa: per Agostino sono «animali» «coloro che non possiedono lo Spirito», e che per questa ragione sono separati dal consorzio umano. Essi percepiscono la realtà attraverso i sensi e non attraverso la psiche o lo spirito, i soli a consentire a chi ne è dotato di convertirsi al cristianesimo, che si rivela in tal modo una potente strategia di civilizzazione. I padri della Chiesa sviluppano e precisano nei loro testi «il forte legame di significato esistente tra l’incomprensione delle verità cristiane, una pervicace stupidità analoga a quella degli animali, a sua volta contrassegno di una vita bestiale (bestialis vita) e la vita scandalosa di chi non può accedere a forme superiori di intelligenza».98 Comprendiamo meglio la spinta alla conversione degli schiavi e la loro partecipazione alla vita religiosa e, anzi, l’intensa partecipazione alle “conversazioni spirituali” nel caso di Antonio Etiope o alla vita dell’eremo con la conventicola di “perfetti” del Lanza a cui si accompagna Benedetto: queste esperienze ne riscattano agli occhi del mondo la natura
“animale” e li assimilano con tutta evidenza ai credenti dotati di spirito. L’entrata in religione reintegra la reputazione di una persona prima giudicata “infame”, letteralmente ne cancella l’infamia. La reputazione, l’appartenenza a una famiglia religiosa e, dunque, una parentela spirituale diventano la base della cittadinanza cristiana da cui erano stati fin lì esclusi perché minori. Ora la minorità francescana rovescia la minorità sociale nel suo contrario: gli infami diventano famosi. E così, un francescano di ascendenza africana e schiavo, a lungo eremita e vissuto, dal 1562 al 1589, anno della morte, presso il convento di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo, considerato un santo già in vita, oggetto di continue richieste di guarigioni da parte dei numerosi devoti, avviato alla gloria degli altari subito dopo il trapasso, venerato come un santo, raffigurato con aureole e splendori nelle immagini e nei dipinti che, insieme alle reliquie, ne diffondono il culto e la fama di santità, nel 1652 viene eletto dal Senato cittadino patrono di Palermo. I Francescani ne coltivano la devozione nel Nuovo mondo per evangelizzare gli schiavi africani che la tratta preleva dall’Africa e destina alle piantagioni e alle miniere di oltre Atlantico. I culti riservatigli nel Nuovo mondo destano «gran maraviglia», perché «senza essere stato con industria umana predicato, ma solo con vedere dipinte le sue figure e per essere stato di colore negro doverìa essere incognito et poco reverito, ma al contrario (volendo il Signore essaltare gli humili) lo manifesta per tutto con miracoli et li fa accendere alla devotione tutti i popoli, non solo per l’Italia, Spagna, ma anco nelli Indi».99 Un santo nero è certo il simbolo più adatto all’evangelizzazione dei neri, a cui basta guardarlo per convertirsi, senza troppe (spesso incomprensibili) parole.
2.5 Nicolò Faranda gesuita e Antonio Daça francescano Nella Sicilia spagnola, l’ultimo decennio del Cinquecento, successivo all’ondata di peste e alla carestia, registra un’incisiva iniziativa istituzionale quando il viceré Diego Enriquez de Guzman, conte di Albadeliste (1585-1592), ordina, su suggerimento del gesuita Nicolò Faranda, una ricognizione e una sistematizzazione delle fonti agiografiche siciliane e la compilazione di tabulari sacri al fine di dotare l’isola di un patrimonio sacrale.100 Il viceré successivo,
Arrigo de Guzman, conte di Olivares (1592-1595), sollecitato nel 1595 da Filippo II, appassionato collezionista di reliquie, imprime un’accelerazione al lavoro,101 nel quale a Faranda subentra Ottavio Gaetani, che lo continua fino al 1620, data della sua morte. Il materiale del volume Vitae, processus et miracula è poi confluito nella raccolta di Gaetani, della quale è nota la complicata vicenda editoriale: edita – e rimaneggiata – dal confratello Pietro Salerno, il quale la correda anche di una prefazione e della dedica a Filippo IV, viene da lui pubblicata solo nel 1657.102 Il processo per la beatificazione di Antonio Etiope ci è stato conservato grazie alla solerzia del gesuita Nicolò Faranda (1539-1612), messinese, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1557 circa, ordinato sacerdote nel 1567 e vissuto tra Siracusa,103 Catania e Palermo, dove muore nel 1612. Probabilmente l’intero volume, intitolato Vitae, processus et miracula aliquot Sanctorum Siculorum, conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo è stato collazionato da Faranda, ricordato come «ricognitore e fornitore» dei materiali che vengono inviati a Gaetani. Nel volume in questione, composto da trentatré fascicoli relativi a vari santi, nell’incartamento relativo al processo ad Antonio da Noto, a tergo leggiamo: «Nota come a 26 di giugno 1595 in Palermo hebbe queste informationi della vita et miracoli del beato Anthoni di Notho, dal signor Aurelio Ardito, quali glieli mandò il signor Alphio la Noce, siracusano, capitano della città di Notho, che me le dasse a me, delle quali io gli diedi commissione particolare quando era qui a Palermo quest’anno passato, innanti che andasse a Notho capitano. Et cossì complì la commissione fidelmente. Questo per nota. Sit mihi Deipara Virgo semper devota. Haec Nicolai Faranda, Societatis Jesu sacerdos». Il materiale procacciato direttamente da lui riguarda sant’Agata, i santi Vito e Modesto, «Santo Calogero, lo grande Santo Pellegrino»,104 san Filippo di Agira, santo Fantino, santo Zosimo siracusano, san Gregorio vescovo di Girgenti, Leone Luca abate, beato Lorenzo di Frazanò. «Si può riconoscere e individuare il lavoro di Nicolao Faranda e quello di Ottavio Gaetani»,105 stante la precedenza cronologica delle ricerche del primo, già conosciuto come «protettore della historia de’ santi siciliani»?106 Quale che sia la risposta al quesito, è indubbio il merito del gesuita messinese il quale, nel breve profilo che lo riguarda, viene definito «buon confissor et assai versato sui casi di coscienza», «desideroso di andar alli Indi Occidentali fra infedeli».107 Non compare tra i missionari gesuiti all’epoca in Brasile, ma l’attenzione al “santo scavuzzo” e al “nigro eremita” discendono dall’ansia evangelizzatrice che assale molti religiosi della Compagnia di Gesù, gli Indípeti, per l’appunto. Nel
materiale collazionato da Faranda e da Gaetani trovano spazio i frutti delle ricerche di Antonino da Randazzo e le agiografie di Benedetto il Moro, di Antonino di Etiopia e di Antonio da Noto, per i quali è preminente l’impegno dell’Ordine francescano. Voglio sottolineare per il caso in questione l’importanza, da un lato, dei Capitoli per la promozione e la diffusione di nuovi culti, dall’altro, dell’opera di Antonio Daça (o Daza). Quest’ultimo presenzia al Capitolo del 1606 e di lì a poco darà alle stampe una monumentale opera, indispensabile per la conoscenza delle missioni francescane. Nel 1611 pubblica a Valladolid la Quarta parte de la chronica general del nuestro Serafico Padre San Francisco y su Apostolica Orden, ideale seguito dell’opera di Marco da Lisbona, vescovo di Porto (morto nel 1580), il quale ha redatto una Chronica Ordinis Minorum tribus partibus distincta che il Nostro continua fino al 1600, stampandola appunto a Valladolid e dedicandola a Filippo III. Lo spagnolo Daça, «Difinidor de la provincia de la Concepción» e «Cronista general de la Orden del Serafico Padre», custode e «insigne guardiano del convento di Valladolid, commissario generale della Curia per la famiglia ultramontana in Urbe sotto Gregorio XV»,108 scrive «le vite di novecentoquarantatre santi che in questi ultimi tempi ha prodotto la Regolare Osservanza del nostro Padre San Francesco, [...] dei quali settecentoquarantadue [...] versarono il loro sangue per la confessione della fede». L’autore dichiara di avere attinto ampiamente a memoriali di prima mano, relazioni autentiche, processi tratti da archivi, testimoni giurati e libri di storie fededegni, documentazione di prima mano disponibile in latino, italiano, portoghese, catalano, e castigliano. L’insieme di queste informazioni divide in quattro libri rispettivamente dedicati alla conversione delle Indie orientali, delle Indie occidentali, alla persecuzione dell’ordine e all’apostasia in Inghilterra e, infine, nel libro quarto raccoglie le notizie di «ventisei Ministri generali dell’Ordine; le vite di alcuni santi e religiosi, martiri e confessori, con molti miracoli e vari avvenimenti», tra i quali, appunto, Antonio da Noto e Benedetto da San Fratello. Entrambi, dunque, sono ben conosciuti nell’ambiente francescano, impegnato senza tregua nell’evangelizzazione degli indi e degli schiavi africani, frutto della tratta negriera. Ha origine così nella penisola iberica, per volontà e intervento dell’Ordine serafico, un progetto devozionale, concepito sulla base delle necessità dell’evangelizzazione nelle terre di conquista: sono santi neri e per i neri vanno a meraviglia! Nei Capitoli i delegati dell’ordine affrontano i problemi della conversione dei popoli neri delle Americhe e, nello stesso tempo, dei venerabili servi di Dio che in Sicilia, terra di confine, hanno attirato con le virtù
e le grazie la devozione di ogni genere di persone. Daça dedica a Benedetto poche pagine, e non annota in margine, contrariamente a quanto dichiara, alcun riferimento archivistico o bibliografico; presumibilmente possiede del caso solo una conoscenza indiretta, per aver sentito dire del processo e delle testimonianze emerse in quella circostanza. Insiste sulla caratteristica razziale del frate in modo ossessivo: «sua madre fu una negra schiava di un cavaliere di casa Lança: e così il figlio, seguendo la condizione della madre, nacque negro e schiavo»; era, «sebbene negro, aggraziato e onesto»; divenuto eremita, «sebbene negro, fu il più bianco tra tutti gli uomini spirituali di quel tempo».109 Il fatto che venga venerato in effigie e che un’immagine miracolosa sia collocata nel convento di San Francesco della Città degli Angeli rappresenta cronologicamente la prima indicazione sul culto nelle Americhe. Inoltre, riferisce espressamente che l’Inquisizione siciliana ha dato l’autorizzazione a che si dipingesse «con raggi di splendori e diadema sulla testa». Più spazio Daça dedica ad Antonio da Caltagirone o da Noto, morto nel 1549 [sic] e il cui processo di canonizzazione è in fase avanzata:110 «negro» e maomettano, figlio di genitori «negri» e maomettani.111 Benedetto è nero e figlio di schiavi, ma almeno i suoi genitori sono divenuti cristiani e lo hanno allevato secondo i precetti di questa religione; nel caso di Antonio, invece, il contrasto è ancora maggiore: egli, il peggiore degli uomini, per razza e religione, può ben rappresentare l’apoteosi del «primo artefice», poiché, quanto più la materia è vile e spregevole agli occhi degli uomini, tanto più Egli la perfeziona, mostrando la sua onnipotenza. Entrambi i mori, comunque, sono accomunati dallo stesso destino missionario: li ritroviamo spesso, da Lisbona a Ouro Preto (nella regione brasiliana di Minas Gerais), sugli stessi altari e viaggiano insieme verso il Nuovo mondo. Ancora agli inizi del XIX secolo i manuali di pietà dedicati agli uomini di colore mettono Antonio da Caltagirone, «detto il Santo Nero, a causa del suo colore», spalla a spalla con «Benedetto da Palermo, detto il Moro, a causa del suo colore».112 Antonio viene raffigurato con saio francescano e aureola; ha in mano la pietra con la quale si colpiva il petto ogniqualvolta udiva una bestemmia; lo si trova nelle chiese francescane dalla Colombia al Venezuela, dal Messico al Brasile. Benedetto, cuoco, e Antonio Etiope, pastore, rappresentano gli schiavi ideali, analfabeti, lavoratori docili e fidati: il mite Antonio indica un modello ascetico incentrato sul lavoro, la preghiera, la penitenza; Benedetto impersona lo schiavo ideale, «analfabeta, mansueto lavoratore e tanto fedele da potergli affidare la cura dei bambini bianchi come si danno alla balia africana per allattarli».113
L’immagine del bambino Gesù teneramente tenuto tra le braccia, allude alla necessità che in una condizione di sproporzione demografica tra bianchi e neri, come accade nelle piantagioni e nelle miniere delle colonie, padroni e schiavi si amino come il frate nero ama quel bambino bianco che fissa con lo sguardo adorante di una nutrice africana. Benedetto da Palermo facilita l’opera di evangelizzazione dei missionari, indicando un modello di santità incentrato sull’umiltà, l’obbedienza, l’amore tra le classi e le razze.
2.6 La devozione a Benedetto il Moro nelle Americhe Nel 1715, a Roma, presso la chiesa di Santa Maria della Minerva, ha luogo una tappa decisiva del lungo iter della canonizzazione del francescano Benedetto da San Fratello. La canonizzazione è stata avviata subito dopo la sua morte e ha già visto svolgersi le fasi più importanti: un processo ordinario nel 1595 a Palermo, due processi apostolici nel 1620 (rispettivamente a San Fratello, dove Benedetto era nato nel 1524, e a Palermo, dove aveva a lungo vissuto ed era morto nel 1589), altri due nel 1625 negli stessi luoghi. Sono stati i decreti di Urbano VIII (1625, 1628, 1631 e 1634) a fermare la sua corsa verso l’altare, insieme a quella di tutti gli altri candidati alla santità i cui processi erano iniziati prima che fossero trascorsi settant’anni dalla morte. Nel frattempo, però, la devozione di cui Benedetto è stato fatto oggetto in vita e dopo la morte ha spinto le autorità locali, l’Ordine francescano e altolocati devoti a chiedere che si trovi per le sue spoglie una collocazione più adeguata: traslate nel 1591 dalla fossa comune dei frati del convento di Santa Maria di Gesù alla sacrestia della chiesa, nel 1611, forse consenziente la Sacra Congregazione dei Riti, sono state ammesse nella chiesa stessa, in una posizione «elevata» da terra, sotto uno degli altari laterali.114 In questa ultima traslazione115 si vorrà vedere la conseguenza della volontà di beatificazione, mai ufficialmente promulgata e che le autorità apostoliche dovranno sancire con un provvedimento ad hoc, emanato solo nel 1743. Il processo del 1715 ha uno scopo del tutto peculiare che consiste nell’accertamento dell’esistenza di un culto pubblico nei confronti del canonizzando nei regni ispanico, lusitano, peruviano, messicano, brasiliano, dove – a dispetto dei decreti urbaniani che impongono di destinare culto e
devozione solo ai santi già canonizzati e comminano pene assai severe nei confronti dei contravventori – «ab antiquissimo tempore» vengono dipinte, stampate e scolpite immagini di Benedetto, con raggi e splendori sul capo, collocate in luoghi pubblici e privati; gli vengono eretti altari e sacelli nelle chiese e celebrate messe; le stesse immagini e statue vengono portate in processione e venerate pubblicamente dai fedeli. Nelle Americhe, Benedetto è venerato «cum ingenti pompa et Populi concursu et devotione», con messa solenne e orazione panegirica celebranti le sue virtù e i suoi miracoli; il titolo di beato e santo può leggersi stampato su libri e scritture, nelle epigrafi dei suoi monumenti, antichissimi e recenti. Con l’autorizzazione degli Ordinari e l’approvazione della Sede apostolica vengono poste sotto il suo titolo e patrocinio numerose confraternite nelle quali «sopratutto si iscrivono Mori, ovvero Negri, i quali tributano al predetto Beato una peculiare devozione tale che non facilmente, né senza danno o scandalo ad essi si possa proibire il culto che al predetto Beato esibiscono».116 La “peculiare devozione” dei neri di origine africana che la tratta atlantica ha condotto nel Nuovo mondo rimanda alla caratteristica razziale di Benedetto: egli, come ho detto, è nato da una coppia di schiavi africani, Cristoforo Manasseri e Diana Larcan. Il gruppetto di quattordici testimoni del processo romano, tutti religiosi secolari e regolari (ad eccezione di uno), si trova a Roma, proveniente dalle lontane sedi americane per testimoniare in altri processi. Alcuni di loro sono postulatori della causa di Martin de Porres, altri di Nicolò di Dio, di Sebastiano dell’Apparizione: il Nuovo mondo cerca febbrilmente i suoi santi locali, spesso effetto dell’ibridazione etnica ormai largamente avvenuta. La deportazione di masse africane verso l’Europa mediterranea, ma soprattutto verso le Americhe, spinge la Chiesa a cercare un nuovo modello di santità nera e meticcia. Nel nuovo santorale trovano posto il mulatto Francisco Solano, morto nel 1610 e beatificato nel 1675; l’arcivescovo di Lima, Toribio Alfonso de Mongrovejo, morto nel 1606, beatificato nel 1679 e canonizzato nel 1726. Juan Macías (15851645) e il mulatto domenicano Martin de Porres (1579-1639), figlio di una nera africana e di uno spagnolo, patrono dell’uguaglianza razziale, non vengono beatificati se non nel 1837. Solo la domenicana Rosa da Lima (1586-1617), il cui processo di canonizzazione comincia pochi giorni dopo la sua morte, sale rapidamente sugli altari: beatificata nel 1668, è proclamata nel 1670 patrona principale d’America, Filippine e Indie occidentali; Clemente X la canonizza, «primo fiore di santità del Nuovo mondo», il 12 aprile 1672.117
Il processo del 1715 avvia una sorta di censimento delle forme del culto a Benedetto, a partire dalla sua iconografia che vede aureole, raggi e splendori sul capo e iscrizioni ed epigrafi con l’attribuzione del titolo di beato e di santo su statue e ritratti. Le sue statue si trovano persino sull’altare principale di talune chiese, accanto a quelle di san Francesco e san Diego, come a Cañete de las Torres, nella diocesi dell’andalusa Cordoba, oppure al fianco dell’Immacolata e di santa Rosa, a Olinda, vicino alla brasiliana Recife; una statua di legno lo raffigura con abito francescano, mentre tiene in una mano «un canovaccio o stoppaglio che è un pezzo di panno tutto insanguinato che denota il miracolo che il santo fece in vita»,118 nell’altra, il bambino Gesù. Nella spagnola Cordoba, nel corso della processione per la festa del Corpus Domini, la statua di Benedetto precede quella di san Francesco, affinché egli «sia foriere al grande alfiere di Cristo che è il Padre San Francesco»; la processione entra nella cattedrale ricevuta dai canonici e da tutto il Capitolo e le statue si poggiano sull’altare maggiore durante la messa cantata.119 Anche le processioni che si fanno in Messico non possono avvenire se non «con scienza e approvazione dell’Ordinario», poiché passano davanti al palazzo regio e al palazzo arcivescovile.120 Parimenti della raccolta di elemosine di Rio de Janeiro «hanno notizia gli ordinari, perché niuna confraternita, senza licenza de’ medesimi puote andar chiedendo limosine»,121 né può passare loro inosservato «l’immenso concorso di popolo» che si reca ogni 2 agosto alla Porziuncola della città di Pernambuco per guadagnare indulgenza plenaria, mentre nell’occasione un padre predicatore tiene un panegirico «con l’intervento di un popolo immenso il quale tutto acclama San Benedetto»,122 o la grande processione di neri che ha luogo il lunedì e il martedì santo a Città del Messico, richiamando devoti anche dal circondario.
2.7 «In Paradiso per la strada de’ patimenti» Ma perché la devozione a questo santo riesce a trasmigrare così lontano dalla Sicilia?123 Che cosa hanno in comune l’andalusa Cañete de las Torres oppure Cadice, Madrid e Lisbona con le americane Lima, Bahia di tutti i Santi, Recife di Pernanbuco, Città del Messico, Città degli Angeli e Rio de Janeiro o L’Avana? Il governo di Spagna e Portogallo riuniti sotto un unico cattolicissimo re (1580-
1640), un forte impulso evangelizzatore della Chiesa cattolica e l’enfasi missionaria dei suoi ordini non hanno sortito sempre e dovunque gli stessi duraturi successi e non bastano a spiegarli. La devozione a Benedetto è sostenuta in questi luoghi da confraternite di «Mauri, vel Nigri, hispanice Pardos», poste sotto il suo titolo e patronato. Il trentaduenne Paolino de Velasco è uno dei testimoni al processo, giunto a Roma proveniente dalla lontana Città dei Re (l’odierna Lima), insieme al gesuita procuratore della provincia peruviana. La sua testimonianza ci introduce immediatamente in un contesto caratterizzato dalla schiavitù e dagli effetti della tratta. «Mio padre si chiama Diego de Figueroa, nato in Etiopia da dove fu portato al Perù e mia madre si chiama Maria de la Cage, parimenti nata in Etiopia da dove fu portata in Perù soggetta a schiavitù.» E prosegue: «Non si meraviglino le Signorie Loro Illustrissime che io porti il cognome diverso da quello di mio padre e mia madre: poiché si stila in quei paesi per chi nasca da un Etiope schiavo, nel tempo della sua schiavitù, prendere il cognome non del padre, ma del padrone al quale sta soggetto. E così come io nacqui essendo mio padre e madre schiavi e servi, comprati mio padre da donna Giovanna Francesca Figueroa e mia madre da Don Pietro de Velasco nella casa del quale io nacqui in tempo che mia madre ancora lo servia e perciò io mi chiamo col cognome di Velasco».124 Il nostro testimone è capitano della «Nazione etiope» e «Officiale» della confraternita intitolata a Santa Rosa, ma la sua devozione a Benedetto risale all’infanzia, quando ha imparato a inginocchiarsi davanti al suo altare e a pregarlo: «Dal tempo che cominciai ad avere l’uso di ragione [...] a quella chiesa volentieri andavo essendo piccolo per vedere l’immagine del detto servo di Dio, nella quale mi compiacevo di vederlo perché era nero come me».125 E a Lima la devozione è diffusa tra i neri, come il nostro testimone, che compongono la confraternita, autorizzata a raccogliere le elemosine per celebrare la festa annuale in onore del santo. Come vedremo, nazioni e confraternite sono due organizzazioni distinte nell’America coloniale, l’una su base etnica, l’altra devozionale, anche se la confraternita in questione accoglie solo neri. La devozione al santo nero è così profondamente radicata da comparire nella risoluzione della crisi di una possessione diabolica. Nell’esorcismo a cui viene sottoposta, Rosa, una schiava proveniente dalla Costa da Mina, nel golfo di Guinea, giunta in Brasile nel 1725, dichiara di essere invasata da sette diavoli; agitandosi a terra dice di essere vessata in particolare da Lucifero che le causa violenti dolori al viso e al ventre, e descrive il suo stato di trance, nel corso del quale le sembra che dal cielo le si rovesci addosso acqua bollente che le fa
perdere conoscenza; quando rinviene, le esce sangue dalla testa «che era rotta e messa ai piedi di San Benedetto».126 Ma torniamo al nostro processo. Giovanni Fernandez Zagudo, un sessantenne francescano osservante, proviene dal Messico per postulare la causa di un altro servo di Dio. «Nel mio ordine non è stato mai altro santo ethiope nero professo formale [...] – dirà, chiamato a testimoniare – e i neri ethiopi si gloriano del re santo, uno dei Re magi e San Benedetto da Palermo, ethiope e nero»127 e accusano i mulatti di non avere nessun santo. La santità diventa dunque un emblema razziale e rappresenta il ruolo e la gerarchia sociale delle varie etnie nella società ispanoamericana, dove la stratificazione assume i toni del conflitto razziale tra i meticci, ossia i nati dall’incrocio di europei, per lo più ispanici, e indioamericani, i mulatti, nati dall’incrocio di neri africani e indioamericani, e i zambaigos, cioè i figli di europei e neri africani. I testimoni scoprono a Roma che il Santo nero è abusivamente collocato sugli altari delle chiese centro e sudamericane e che l’autorità ecclesiastica potrebbe imporre di toglierlo; cercano con ogni argomentazione plausibile di offrire una ragione – la particolare devozione degli schiavi africani nei suoi confronti – capace di scongiurare questo pericolo. Il nostro francescano aggiunge: «A questo Santo [Benedetto] si porta tanta venerazione che se [gli schiavi africani] vedessero proibito o rimosso il culto ne concipirebbero scandalo grandissimo e [...] entrerebbe in essi il dubbio anche negli altri santi. [Levarlo dagli altari] fusse male maggiore di quel gran bene che là s’è fatto da tanti uomini che vi han predicato e piantato la Religione cattolica».128 E temendo di non essere stato abbastanza chiaro «circa lo scandalo che nasce[rebbe] in quei popoli delle Americhe», per amore di verità, chiede di essere ammesso nuovamente a testimoniare. Questa volta, per essere più persuasivo, pone questioni cruciali in maniera estremamente esplicita: di Benedetto si conoscono vita, virtù, miracoli; se lo si toglie dagli altari, che cosa si deve pensare di altri santi o canonizzandi che hanno titoli di gran lunga inferiori? Ancora, gli eretici inglesi e olandesi che dimorano nelle isole vicine e commerciano con la terraferma e chiamano Papisti i cattolici, criticandoli per la loro fede nell’infallibilità del pontefice e per la canonizzazione dei santi, «potrebbero pervertire più persone di quante Lutero non ne pervertì nell’Europa cattolica». Ma, di più, i neri che vedessero «rimosso il culto ad un loro [con]nazionale senza dubbio resterebbero tanto confusi, et a loro giudizio svergognati, che potrebbero cadere in diffidenza della bontà divina et in disperazione». La rimozione del culto «rovinarebbe l’incitamento e fomento di tanti esercitij di pietà cristiana che si continuano al presente a pratticare tanto
dagli Etiopi quanto dai Mulatti, le due Nationi che compongono le confraternite del detto Santo [...]. La prattica del suddetto culto ha cagionato qualche rispetto alla natione del servo di Dio che ha mitigato assai l’ordinario disprezzo che si facea d’essa e delle altre due composte da Indij e Mulatti che sono per lo più schiavi in quelle parti, atteso che i loro padroni li trattano con qualche piacevolezza et humanità maggiore per tale risguardo, et essi schiavi scambievolmente sopportano con maggiore patientia la loro debolezza e dura conditione, animati dall’onore che vedono e pratticano verso il loro santo, alla di cui compagnia confidano di avvicinarsi in Paradiso per la strada de’ patimenti [...]. Ma quando per la remotione del culto apprenderebbero d’essere come esclusi dal cielo e ricaduti nell’antico disprezzo presso i loro Padroni, lo sentirebbero tanto che forse tumultuarebbero da disperati, essendo essi bellicosi».129 Se il culto non fu rimosso dopo i decreti di Urbano VIII, come avvenne per Rosa da Lima, per il beato Solano e per Sebastiano dell’Apparizione, perché farlo ora che è ben radicato e condiviso? Dirà padre Alessio della Solitudine: «La veneratione degli Ethiopi Christiani è al sommo grado [...] per essere questo santo della loro Natione e riconoscere che anche loro possono essere santi: li padri pongono il nome di Benedetto ai loro figli per meglio eccitarli alla devozione».130 Se si abolisse il culto gli Etiopi ne resterebbero scandalizzati e supporrebbero che «la proibizione fusse promossa ad onta e disprezzo dei medesimi, come di color negro, o pure si darebbero a credere che nessuno della natione negra potesse arrivare al grado di santo [...]. “Dio ti faccia come San Beneitto da Palermo” si dice da essi per significare il concetto sommo della virtù e della perfettione a cui possono arrivare», conclude il testimone. Insomma, questi fratelli si sentirebbero ingannati dall’abolizione del culto, mentre l’esigenza di mitigare gli effetti della schiavitù attraverso gli esercizi di pietà che inducono i padroni a trattarli con maggiore umanità e permettono loro di sopportare con più pazienza la loro condizione e di disciplinare elementi potenzialmente ribelli gioca a favore del riconoscimento della santità di Benedetto. Abolire il culto equivale a privare i neri della speranza del paradiso, ricacciandoli dentro relazioni sociali improntate al disprezzo. La perdita della speranza potrebbe indurli al tumulto: essi, per l’appunto, sono bellicosi. L’esempio di uno schiavo ubbidiente, pio, operoso e sempre sorridente come Benedetto può aiutare a disinnescare questa minaccia sempre latente.
2.8 Le confraternite nere Il culto si radica, dunque, grazie all’attività delle confraternite che raggruppano gli schiavi, conosciute con l’appellativo di negros o mulatos in Spagna, pretos in Portogallo.131 Le confraternite rappresentano «la prima e principale forma istituzionalizzata di organizzazione dei neri africani e dei loro discendenti, schiavi manomessi e liberi»;132 intitolate soprattutto alla Madonna del Rosario e in subordine a santa Ifigenia, sant’Antonio da Catagerona (così chiamano talvolta il nostro Etiope), sant’Elesbao e san Benedetto, sono uno dei primi frutti dell’evangelizzazione dell’America coloniale, dove assumono un’importanza persino maggiore di quella che hanno in Europa. La devozione al rosario, incentivata soprattutto dai Domenicani dopo la battaglia di Lepanto (1571), attecchisce nella penisola iberica tra gruppi innumerevoli, come gli uomini di mare di Porto, ed è considerata miracolosa soprattutto tra i marinai. A un’immagine della Vergine del Rosario riscattata ad Algeri si attribuiscono miracoli nella conversione dei mori. Inizialmente composta da bianchi, la confraternita intitolata alla Madonna del Rosario si trasforma gradualmente, grazie al proselitismo domenicano presso gli schiavi, in associazione di schiavi africani. Il rosario lega senza intermediari il devoto alla divinità a cui chiede la grazia133 e somiglia straordinariamente al rosario de Ifà o al comboloya, strumento divinatorio dei sacerdoti africani, costituito da una cordicella di quaranta nodi, o alla corona di grani di noci di palma, usati con carattere divinatorio:134 sono questi gli elementi che contribuiscono a spiegare la facilità con cui i neri lo adottano. Anche la confraternita come organizzazione devozionale si impone facilmente per l’uso già africano di celebrare in comune i culti degli spiriti e degli antenati, di affidare la conduzione del rito a un sacerdote e di fare processioni con musica e danze. A Lima, il giovedì santo, si radunano i membri della confraternita che esce in pubblica processione con lo stendardo (di taffettà, con una piccola immagine centrale del santo protettore) retto da un alfiere, assistito da due capitani che ne sostengono le due corde laterali. Sin dal 1685, nel porto della Vera Croce, la settimana santa si festeggia con una processione aperta dalla statua di Benedetto, portata a spalla da neri e mulatti, seguita dai “misteri” della via crucis. E ancora: «Nel Perù e nella Nuova Spagna i Padri della Compagnia di Gesù tengono molti di questi christiani neri al loro servizio in certi casali o fuochi dove si suole fare zuccaro. [La devozione al santo consiste] non solo in avergli erette cappelle,
altari, in farli processioni, in farli musiche, celebrar Messe, sonar campane, fare luminarie [...] ma musiche di tre sorte, cioè al modo spagnolo, al modo indiano e al modo ethiope, talmente che detti Ethiopi christiani in quelle parti, benché siano fuori delle loro terre e che pare che potrebbero dire quello che dicevano gli Israeliti quando erano schiavi in Babilonia: “Quomodo cantabimus in terra aliena”, nondimeno con tanto giubilo sogliono cantare canzoni e musiche al modo della loro natione e terra como se fussero nella propria Ethiopia».135 E i neri contribuiscono alle spese della festa raccogliendo elemosine, esibendo, come a Rio de Janeiro, delle tavolette della larghezza di circa due palmi «quali sogliono portarsi da qualche d’uno degli Ethiopi christiani delle confraternite erette al santo [...] ad effetto di richiedere l’elemosine che servono per mantenimento del culto e della stessa confraternita».136 A Rio la devozione a Benedetto è molto precoce se, già nel 1639, si costituisce la Confraternita di Nostra Signora del Rosario e San Benedito, formata da neri di Angola e da creoli, i cui statuti saranno approvati trent’anni più tardi; è ospitata nella chiesa di San Sebastiano, che nel 1659 sarà sede di una prelazia, e i suoi membri sono schiavi e manomessi, ma le cariche vanno a questi ultimi, che, acquistata la libertà, sono stati talvolta in grado di accumulare piccoli patrimoni.137 Confraternite di neri sono associate a Bahia alla Vergine del Rosario, a Città del Messico a santa Ifigenia, mentre in Brasile possono essere miste, poiché «vi sono ascritti non solo li christiani Ethiopi, ma ancora per la loro devozione alcuni christiani bianchi».138 “Nazione ethiope”, “nazione negra” non riflettono la cultura africana e sono in verità termini usati dai colonizzatori nell’intento di costruire l’identità degli schiavi. Alcuni studiosi suggeriscono di usare al loro posto la categoria di “gruppo di provenienza” come elemento di identificazione e organizzazione degli africani nelle Americhe, una configurazione etnica più mobile e in continua trasformazione.139 I gruppi etnici nell’America coloniale sono molteplici e si organizzano in quanto tali: in Brasile, nel distretto minerario del Gerais, alla fine del XVIII secolo, ci sono “nazioni” Dagomé (Daomé), Tapa, Congo-Cabinda, Moçambique, Maqui, Sabará, Timbu, Cobu, Xamba, Malé. A Rio de Janeiro, ancora a metà del XIX secolo, ci sono Mina, Cabinda, Congo, Angola (o Luanda), Cassanje, Benguela e Mozambique. Nel primo caso partecipano insieme alla stessa confraternita, «una vera società di nazioni, [...] mistura di razze diverse», con l’unica discriminante del colore della pelle.140 Più comunemente, ogni “nazione” africana elegge un suo re, organizza feste annuali con canti, processioni in strada, danze, tamburi, bevute. Queste feste, attestate
per tutto il Seicento e più frequentemente nel Settecento in Colombia, Haiti, Martinica, Giamaica, Cuba, Venezuela, Uruguay, Argentina, Perù, Brasile, sostenute da irmandades, cabildos, imperios, confraries ci istruiscono sulle organizzazioni ausiliarie della Chiesa nel grande spazio coloniale: «Irmandades de homens pretos, forros ou livres» (confraternite di schiavi, manomessi e liberi), attorno a un santo protettore, un altare, una cappella o un luogo di culto, sostengono il cattolicesimo più che la Chiesa; l’irmandade, «forza ausiliaria, complementare e talvolta sostitutiva della Chiesa stessa», è responsabile della costruzione del tempio e della chiamata dei sacerdoti.141 Gli schiavi africani, a differenza degli indi delle reducciones, i villaggi dove i gesuiti raccolgono gli indi guaranì, vengono cristianizzati attraverso «due strade: il battesimo e il culto dei santi, che ha permesso un processo di confluenza e interazione con le divinità africane. Istituzionalmente la loro partecipazione si svolgeva nelle cappelle rurali e nelle confraternite urbane».142 Elemento essenziale nella religiosità coloniale, come nell’Europa barocca caratterizzata dal culto dei santi, dalla pompa devozionale delle processioni e delle feste, le confraternite sono caratterizzate dalla grandiosità delle manifestazioni esteriori della fede, dove convivono inevitabilmente elementi sacri e profani. Ad esse si affida anche la soluzione di importanti problemi pratici nella vita degli associati, ai quali statutariamente si destina una parte del patrimonio costituito dalle quote, dai lasciti testamentari e dalle elemosine. La celebrazione della festa annuale e di messe si accompagna all’assistenza ai soci malati, ma soprattutto alla sepoltura cristiana degli schiavi defunti, altrimenti sommariamente interrati. Nel 1687, la Confraternita di Nostra Signora del Rosario e San Benedito ottiene la licenza di interrare i suoi soci nelle casse di legno, e non più avvolti in un semplice lenzuolo, per sopire il loro timore di essere abbandonati dai padroni (anche quelli che si sono tanto prodigati per il loro battesimo) davanti alle chiese o lungo le spiagge. Gli schiavi esprimono nei testamenti la grande preoccupazione per la propria sepoltura: «l’affiliazione a una confraternita è praticamente l’unica risorsa offerta a schiavi e manomessi di essere seppelliti cristianamente».143 Le confraternite di neri, create già nel XVI secolo, proliferano rigogliosamente nel XVIII, quando, solo nel Brasile, ne vengono censite 165 (86 intitolate al Rosario), 65 delle quali menzionano l’origine etnica dei propri componenti,144 la cui denominazione collettiva è “Angola”. Quando le confraternite sono miste, violenti conflitti interetnici possono esplodere al loro
interno, come è attestato nella regione di Minas Gerais145 o a Rio de Janeiro: l’ingegneria etnica delle confraternite è estremamente complessa e altamente instabile. Le funzioni svolte dalle confraternite sono molteplici e di natura diversa: strumenti di integrazione dei neri nella società locale, rappresentano innanzitutto un mezzo di mobilità sociale, ma altresì creano uno spazio fisico e politico che conferisce ai suoi membri un sentimento orgoglioso di identità; costituiscono all’occorrenza un centro di resistenza culturale e rivendicazione razziale, capaci di produrre e formare una seppure embrionale “coscienza nera” e dei leader; offrono una base di resistenza verso le forme più estremizzate di schiavitù e talvolta un paravento per attività illecite o sovversive e progetti di fuga; costruiscono uno spazio di acculturazione dei neri, un organismo di aiuto reciproco e di mutualismo; offrono, infine, un luogo di esercizio della sociabilità. In Portogallo, le confraternite avanzano petizioni per trovare agli schiavi compratori idonei e persino per acquistarne in proprio; reclamano contro gli ufficiali di giustizia che irrompono nelle case alla presunta ricerca di schiavi fuggitivi e di refurtiva, esercitando intimidazioni, soprusi e interventi arbitrari. L’atteggiamento delle autorità nei confronti di queste organizzazioni e dei loro momenti ludici e cultuali è contraddittorio: alcune ne temono l’autonomia e il rischio di rivolta già insito nel momento festivo, altre le considerano strumenti insostituibili di conciliazione tra i gruppi e le classi sociali.
2.9 Re Congo Antonio Andreoni, un gesuita italiano vissuto in Brasile dal 1681 al 1716, scrive: «Non si può negare agli schiavi l’unico sollievo della loro schiavitù e vederli sconsolati, malinconici, di poca vita e salute. Così i signori non impediscono di eleggere i loro re, cantare e ballare onestamente per alcune ore, in alcuni giorni dell’anno, e stare allegri fino a tardi, in vista della festa dell’indomani in onore della Madonna del Rosario e di San Benedetto e del santo della cappella dell’azienda, senza spese a carico degli schiavi, accudendo il signore con liberalità ai giudici, dando loro un premio per il loro lavoro continuativo».146 Nel Compromisso, lo statuto della confraternita, il termine “giudice/giudici” sta a indicare i soci che, incaricati di organizzare la festa, si
prestano a esserne i garanti. Non sostenere con contributi la festa, poiché sono pochi i giudici ad avere disponibilità di mezzi, equivarrebbe a impedirla, e questa offesa a Dio sarebbe causa di molti inconvenienti. Benedetto è festeggiato con elezioni di re e magistrati già alla fine del Seicento, quando Andreoni scrive il libro I della sua opera. L’elezione del re lega gli schiavi al loro passato idealizzato e alla terra natale come luogo astratto, e in molti casi l’eletto appartiene alla etnia dei confratelli: la Irmandade del Rosario nella regione di Minas Gerais, ad esempio, nel 1767 chiede al viceré che i negri di nazione Benguela possano eleggere un re della propria nazione. Quando i soci appartengono a diverse etnie, nascono delle rivalità e forti conflitti all’interno delle confraternite di neri. A Rio, nel XVIII secolo, nell’Imperio di Santo Elesbao ci sono sette re di etnie diverse,147 il che ci fa comprendere come sia complessa l’ingegneria etnica di una confraternita:148 i vari gruppi etnici possono congregarsi sotto un’unica confraternita e restare sotto l’autorità di un re proprio, distinguendosi dalle altre durante le processioni, oltre che per il re, per i tatuaggi, la musica e i particolari dell’abbigliamento. Nelle processioni sfilano rettori, giudici, maggiordomi, bandiere, stendardi, baldacchini, dimostrando che la confraternita è un organismo composito e rappresentandone la gerarchia interna. I padroni garantiscono che il denaro della confraternita non sia di provenienza furtiva e pagano in diversi casi le quote per i propri schiavi, a cui consentono di assentarsi dal lavoro per assolvere agli obblighi imposti dalla vita confraternale, e a cui danno in prestito vestiti e ornamenti per ben figurare nelle sfilate processionali. Non possiamo sottovalutare «il prestigio che l’ingresso nella confraternita attribuisce ai confratelli (in particolare se ne detengono cariche ufficiali) e persino ai signori di cui quelli sono schiavi».149 Il re ha grande autorità nel periodo festivo – può persino ottenere di liberare schiavi da castighi corporali –, ma conserva un trattamento di riguardo nella sua comunità anche a festa finita. I registri dei soci riportano accanto al nome la dicitura “fu re”, e a chi ha ricoperto tale carica viene riservato un luogo speciale per la sepoltura.150 Il contributo per la festa dovuto dal re spesso è pagato dal suo padrone, su cui cade il prestigio dell’atto di liberalità. Le cariche necessitano di una certa disponibilità di denaro e agli schiavi viene concesso in questi casi persino di svolgere una piccola attività economica aggiuntiva o il permesso di coltivare un pezzetto di terra. Un’ulteriore suddivisione sociale deriva dalla condizione lavorativa e dall’appartenenza a una corporazione di mestiere. Neri liberi e schiavi, di diverse etnie e di diverse occupazioni, stratificano le gerarchie sociali all’interno della
componente africana in area coloniale. Nel 1549 re João III permette alla Confraternita del Rosario di raccogliere elemosine per le strade di Lisbona, portando in processione la statua del santo per la cui festa si fa la questua, facendola accompagnare da suonatori (per lo più di tamburo). Nella madrepatria, già nel 1565, è attestata nel convento di San Domenico a Lisbona la Irmandade de Nossa Senhora do Rosario dos Homen Pretos, forse la più antica confraternita nera in terra portoghese,151 il cui statuto stabilisce che tra i membri si eleggano le cariche di re, principe, conte, giudice, provveditore, tesoriere, scrivano, procuratore e ufficiale della tavola amministrativa. Proviene dunque dal modello portoghese l’organizzazione della confraternita nera e ugualmente l’uso della colletta, raccolta per strada con musica e stendardo. Le stesse pratiche devozionali sono ampiamente attestate nella penisola iberica, a Cadice, nella diocesi di Cordoba e in tutta l’Andalusia, dove pure le confraternite nere sono protagoniste della festa. L’arcivescovo Giuseppe Saporiti ha occasione di assistervi: «Mi meravigliai molto – testimonia al processo di canonizzazione nel 1716 – perché vedevo per la prima volta San Beneitto da Palermo, e mi fece specie e novità vedere un Santo moro e nero, particolarmente osservando tutte le circostanze proprie de’ Mori, come sono [soliti] non aver capelli lunghi, ma bensì certi piccoli gruppetti di capelli propri della schiatta de’ Mori».152 Qui è l’acconciatura etnica a colpire il nostro testimone, mentre abbiamo visto il precedente soffermarsi sulle «musiche di tre sorte». Almeno dalla metà del Cinquecento sono attestate le modalità etniche delle processioni dei neri: «C’è una casta più bassa dei negri schiavi di Guinea? – si chiede un testimone oculare –. Eppure senza dubbio si consente loro che ballino e cantino con i propri strumenti, le proprie canzoni e i propri linguaggi», mentre ciò viene vietato alla comunità morisca.153 E i balli tipici dei neri, la sarabanda, la chacona, il guineo, il paracumbè, lo yè yè, lo zarambeque o zumbè, hanno ispirato spesso la diffidenza, talvolta la ripugnanza, degli ecclesiastici. «Turpissime danze» le definisce un gesuita a metà del XVI secolo, e padre Juan de Mariana ha una reazione sdegnata davanti alla sarabanda che vede ballare durante la festa del Corpus Domini a causa delle sue movenze lascive e indecenti.154 «Il nostro è un popolo di danzatori, musicisti e poeti – scriverà con innocenza tempo dopo uno schiavo affrancato – e pertanto ogni grande evento viene celebrato con danze collettive assieme a canti e musica adatti all’occasione.»155 Non sembra sia stato possibile disciplinare la devozione degli schiavi africani sino al punto da farli rinunciare all’espressione della ritualità loro tipica: essi
hanno imposto il loro stile alle forme del culto tributato al santo. Il governatore portoghese dispone, nel 1780, che esse siano «oneste e decenti», facendo intendere di volerne correggere la licenziosità, e il Santo Uffizio dichiara la sua totale riprovazione per le danze e per le pratiche superstiziose e idolatre che le accompagnano in tutto il viceregno brasiliano.156
2.10 Le congadas C’è dunque già in età moderna una forte connotazione etnica nelle manifestazioni dei neri, le cui confraternite eleggono un re e una regina con funzione onorifica, che sfilano riccamente addobbati durante la processione del santo. Si tratta di un ottimo esempio per comprendere come l’evangelizzione non sia un processo che si irraggia dal centro verso le periferie, nel corso del quale il primo influenza le seconde in maniera univoca; esiste piuttosto una “reciprocità all’interno dell’ineguaglianza” e la religiosità africana ha in questo caso fortemente influenzato i culti e le devozioni tributate al santo nero. Di più, non tutte le influenze passano per il centro (la Chiesa e i suoi missionari), ma possono transitare tra le periferie: nel XVII secolo alcuni regni africani intrattengono rapporti diplomatici e commerciali con il Brasile, e il re del Congo invia almeno due volte ambasciatori a Recife a chiedere sostegno militare nelle sue guerre; i regali scambiati sono estremamente ricchi e il re africano invia duecento neri con collare d’oro.157 Il Congo è un regno cristiano sin dal 1489, quando il re chiede di convertirsi (si farà chiamare João) e di ospitare sacerdoti, artigiani e contadini lusitani; il successore, Afonso I, regna dal 1507 al 1542 e si considera “apostolo” del suo popolo; il figlio Henrique, inviato in Portogallo per avere una buona educazione religiosa, viene consacrato vescovo; molti schiavi provenienti da quell’area possono essere stati evangelizzatori a loro volta. Come tutte le dicotomie, anche questa di evangelizzatori ed evangelizzati può rivelarsi fuorviante, perché irrigidisce la realtà invece di spiegarla, e rende necessaria la ricollocazione dell’azione della Chiesa all’interno di una “storia globale”. «Fare del cattolicesimo romano la prima religione del pianeta è la diretta conseguenza del grado in cui le sue forme europee furono possedute e si adattarono alle necessità locali dei popoli indigeni di Asia, America, Africa e (non dimentichiamolo) parti della stessa Europa.»158 Senza dubbio «il semplice
concetto di cristianizzazione occulta la complessità delle risposte e delle soluzioni religiose dettate dall’appartenenza di classe, da quella etnica, geografica e dalle singole personalità.»159 Non è ancora possibile, a questo stadio della mia ricerca, sviluppare compiutamente la relazione tra Africa e Nuovo mondo a questo proposito, ma alcuni aspetti della devozione al Negrito di Palermo vi alludono fortemente. Le congadas hanno una complessa ritualità, che accompagna i festeggiamenti in onore dei santi neri.160 Un cappuccino spagnolo assiste nel 1633 a Lisbona alla processione in onore della Madonna di Guadalupe161 e lascia la descrizione di un corteo in cui i neri, vestiti secondo le loro usanze, quasi nudi con lacci legati al capo, alle braccia, al petto e panni colorati alla cintola, «andavano ballando per le strade accompagnandosi con strumenti musicali africani, oltre che con viole, nacchere, tamburi, flauti. Alcuni uomini portavano archi e frecce, le donne ceste sul capo, offerte dai loro padroni. E cantando e ballando entrarono nella chiesa del convento di San Francesco sfilando in processione due o tre volte e, assistendo poi alla messa, lasciando le offerte, finirono di ballare».162 Gli ufficiali della confraternita lusitana teatralizzano la corte del re; in Brasile la tradizione africana rinforza la sua identità nella figura del re che in Africa governa ogni cosa e che si incorpora nella festa religiosa, non a caso governata da un re con corona e scettro, simboli del potere portoghese, e con il bastone del comando, simbolo africano, tutti oggetti considerati alla stregua di nkisi, feticci. La congada, festa in onore dei re per antonomasia, il re Congo e la regina Njinga,163 si trasforma nella festa religiosa in onore di santi neri come Benedetto, e serve a celebrare “miti di origine” della comunità nera.164 L’immagine del santo scolpita in legno è un nkisi, un oggetto sacro che incorpora le qualità dell’entità divina effigiata di cui rappresenta il medium di contatto; un viaggiatore francese che assiste alla sfilata delle statue di san Giovanni, san Pietro, san Benedito, santa Lucia e una santa Maria negra le definisce «caricature veramente sacrileghe». Gli abitanti della regione del Pacoval, sul fiume Curuá, venerano santi che sono feticci più che santi cattolici. Anzi, sono dei veri e propri amuleti che li mettono in comunicazione con le proprie divinità ancestrali, recentemente incorporate nel nuovo universo religioso. Da qui la necessità di affidare la festa alla confraternita, onde sopperire in qualche misura allo scarso controllo della Chiesa sulle pratiche devozionali in area coloniale, dove il Santo Uffizio lancia offensive tanto radicali quanto inefficaci contro il paganesimo e la superstizione degli africani, liberi e schiavi. Descrizioni analoghe a quella di età moderna già citata fanno i viaggiatori
stranieri, attestando la permanenza delle processioni di neri almeno fino al XIX secolo, per evidenziarne l’aspetto grottesco e curioso o quello superstizioso. Nel primo Ottocento, la processione della Irmandade del Rosario, che si tiene nella chiesa del convento del Salvatore di Lisbona, è accompagnata da un’orchestra di più di trecento strumentisti, soprattutto percussionisti, che producono «una bizzarra dissonanza».165 La musica di origine africana in epoca moderna fa parte del divertimento popolare, mentre è notoria la bravura dei neri come strumentisti, soprattutto trombeteros e timbaleros (suonatori di timbales, due tamburi legati insieme), arruolati anche nei gruppi musicali reali, dove suonano charanelas e sacabuxa (una specie di trombone). Portoghesi e spagnoli si divertono a vedere ballare gli schiavi tra loro e applaudono i loro spettacoli musicali,166 e musica e danza hanno un ruolo non secondario nella popolarità delle commedie e nelle sacre rappresentazioni ispirate alla vita dei santi. Nel corso del XIX secolo, l’elezione del re va perdendo il suo originario significato e si trasforma in folclore, e la congada in una «festa di poveracci», «formalità senza significato», «spettacolo così bizzarro che sembra di stare davanti a un branco di scimmie», repellente per i viaggiatori stranieri che ne sono testimoni, «stravagante carnevale», «gazzarra caotica e indescrivibile», «spettacoli pittoreschi che cominciano a cadere in disuso».167 Con la progressiva perdita di legittimazione della schiavitù e la diminuzione del numero degli schiavi, i signori perdono interesse alla festa, decadono le confraternite e la congada, la danza drammatica afrobrasiliana, diventa folclore.
2.11 «Pregava per la conversione delli populi negri dell’Indie» Ma com’è arrivato nella penisola iberica il culto a Benedetto? E da qui, quando e come è stato portato sino alle Americhe? Le tappe di questo viaggio prendono certamente le mosse da Giovan Domenico Rubbiano, mercante palermitano che, per la personale conoscenza e la particolare devozione che lo hanno legato in vita a Benedetto, impegna tempo e risorse per il riconoscimento della santità del frate nero e, subito dopo la sua morte, raccoglie in un memoriale, «con grandissima fatica et diligentia», le testimonianze di miracoli operati in vita dal frate e post mortem dalle sue reliquie, dal sepolcro e dalle sue
immagini, per informarne l’arcivescovo palermitano, Giannettino Doria, e convincerlo ad avviare in sede locale l’iter della canonizzazione. Le Informationes raccolte risulteranno sufficienti a fare avviare nel 1594 dalla Sacra Congregazione dei Riti il processo apostolico, l’ Inquisitio super virtutibus et miraculis. Insomma, il devoto mercante Rubbiano è riuscito a tessere una rete a maglie larghe e a mobilitarla attorno al «negocio sacro» della canonizzazione di Benedetto, raggiungendo, attraverso i più alti vertici istituzionali siciliani, sia la corte madrilena sia la curia romana. La prima traccia di una vocazione evangelizzatrice di Benedetto nei confronti degli indi si trova nella lettera del giugno 1607 di Giovan Domenico Rubbiano al re di Spagna, nella quale il mercante ricorda virtù e miracoli del «santo servo di Dio operati per il tramite dei suoi retratti in Spagna come nelle parti de l’India. Nel quale regno s’intende abbia convertito un re il quale era cieco e suo figlio, il quale era gravatissimo di una infirmità e, venuto quasi all’ultimo fine della sua vita, il quale re, avendo havuto avviso di tal retratto e figura di detto Beato Benedetto, et essendoci stato portato, Nostro Signore Iddio li concesse la gratia et li dette la vista dell’occhi delli quali era cieco et ci sanò il figlio; per il che si battizzorno ambidui, con un gran numero di Populi et genti alla Santa Fede Cattolica, sottoponendosi alla Santa Romana Ecclesia».168 Nel 1608 Filippo III ordina la traslazione del corpo del frate dalla sagrestia a un luogo più acconcio, facendo riferimento ai miracoli avvenuti non solo a Palermo, ma ovunque siano giunte le sue reliquie: «Al Signore have piaciuto di servirsi di questo humile servo et di color negro per agiuto alla conversione delli populi negri nell’Indie il che non è senza decreto divino, poiché questo suo servo in sua vita di continuo intercedeva al Signore per la conversione di quelle genti e quello che fece in vita con il desiderio, fa adesso il Signore per suo mezzo operando per la devozione che tieneno quelli popoli a questo suo servo humilissimo».169 Del fatto che abbia pregato per gli indi e che ne abbia guarito il re e suo figlio non v’è menzione nella Vita raccolta da Rubbiano nel 1591, né nei processi del 1594, 1620 e 1625. Nella prima breve agiografia del nostro frate, scritta da Antonio Daça nel 1611, c’è però un unico riferimento alla devozione a una sua immagine custodita presso la chiesa di San Francesco della Città degli Angeli. Dunque, quello della conversione degli indi e degli schiavi africani deportati nelle Indie, a giudicare dai documenti coevi, sembrerebbe un motivo agiografico iberico più che siciliano, almeno per due ragioni: la diffusa devozione palermitana tra tutti i ceti e non solo tra gli schiavi africani da un lato e,
dall’altro, la limitata entità del fenomeno della schiavitù nell’isola170 rispetto a quella iberica e americana. Il motivo agiografico in questione, ad ogni modo, si sviluppa presto se, già nel 1608, Filippo III vuole dotare il corpo incorrotto di Benedetto della caxa de plata, l’urna argentea che gli renda onore per i suoi meriti e soprattutto «per la conversione delli populi negri nell’Indie». Nel 1606 arrivano in Spagna le sue reliquie, insieme alle notizie dei miracoli largamente descritti nel memoriale di Rubbiano, e Lope de Vega ne trae senza indugio materia per le sue commedie.171 Ma di più, «nella [chiesa] del monastero di Santa Anna, a Lisboa, nell’anno 1609 si istituì una Confraternita di S. Benedicto, al quale da molto tempo si faceva festa con grande solennità. Così afferma la certificazione di Padre António Madeira, giustificando il sommario delle indulgenze che il Pontifice Paulo V concederà alla sua confraternita».172 Andrea Ortolani, compagno d’armi del famoso condottiero Ottavio d’Aragona, vincitore dei barbareschi nella battaglia delle Cercine (Cherchell) del 1613173 e Luigi La Farina, marchese di Madonia, nonché barone d’Aspromonte e senatore di Palermo, inviati in missione ufficiale dal viceré di Sicilia conte di Castro, testimoniano al processo del 1625 di avere assistito a una processione svoltasi nel 1618 a Lisbona alla presenza di Filippo III, nella quale era «non tanto honorata la pompa, quanto ammirabile la devozione [...]. S’ammirava tra l’altre cose una spessa moltitudine di huomini Negri, i quali ad honorare il loro patrono alla nerezza de’ volti contraponevano la candidezza degli animi. Scorgevasi ultimamente [per ultimo] l’immagine di un frate zoccolante nero il quale da coloro era chiamato il Beato Benedetto da Palermo [...]. Circondò gran parte della città la processione e andò finalmente a terminarsi alla chiesa de’ nostri Padri [francescani]».174 Il 5 agosto 1620 Gaspare della Concezione, della provincia del Portogallo, scrive a Paolo da Vizzini, guardiano del convento palermitano di Santa Maria di Gesù, della devozione verso il santo nero che «in nostra Lusitania floret», insistendo sulla necessità di iscriverlo al più presto nel Catalogo dei santi. Chiede perciò al guardiano di raccogliere tutti gli episodi della vita e dei miracoli che, rimessi a lui, gli consentiranno di investigare anche nella sua provincia «affinché, sia si invii nelle Cronache della Sacra Religione, sia da tutti gli atti si conosca e si lodi un tanto benedetto Benedetto».175 Insomma, qualcuno deve pur scrivere l’agiografia del santo padre e i francescani portoghesi si dichiarano pronti a farlo, pur riconoscendo ai confratelli palermitani una sorta di diritto di prelazione, essendo Benedetto morto e sepolto nel convento di Santa Maria di Gesù di Palermo.
La devozione al santo nero nella penisola iberica si diffonde soprattutto tra gli schiavi africani, promossa inizialmente dall’instancabile attività di Rubbiano e con la distribuzione di immagini e reliquie, successivamente, da Antonino da Randazzo, procuratore della causa di canonizzazione, che donerà una reliquia al «Padre Commissario delle Indie [...] onde non solo nell’Orientali, ma nelle Occidentali si sono fabbricati altari, fondate Congregazioni»176 ecc. Credo di potere affermare che tra il 1595 e il 1620 Benedetto è già il santo dei neri africani deportati nella penisola iberica.
2.12 Strategie francescane La devozione prende il via molto presto, forse già nel 1593, quando Bonaventura da Caltagirone,177 ministro generale dell’ordine e già custode dell’unica provincia siciliana, presiede il 62° Capitolo che si tiene a Valladolid, a cui partecipa un nutrito gruppo di francescani siciliani (tra gli altri, Bartolomeo da Siracusa, Atanasio da Messina, Serafino da Trapani, Agostino da Palermo). Il 63° Capitolo si tiene invece a Roma nel 1600 e il 64° si apre a Toledo nel 1606. Qui, Arcangelo da Messina, ministro della provincia siciliana, è divenuto ministro generale, e da conventi palermitani provengono numerosi frati presenti (Bonaventura da Polizzi, Angelo da Piazza, Bonaventura da Trapani, Clemente da Messina, Auditus da Palermo, Cataldo da Catania e altri). Tra i rappresentanti della famiglia cismontana, che si dirama sin nelle Indie orientali, c’è il nostro Antonio Daça. Questo Capitolo deve in particolare affrontare e conciliare il conflitto apertosi tra i frati «oriundi dalla Spagna e quelli nati presso gli Indi che con termine comune sono chiamati criollos e quelli che dalla Spagna sono inviati in quelle provincie».178 Gli spagnoli della metropoli ( peninsulares) e gli spagnoli d’America (criollos) sono in continuo conflitto tra loro perché i conquistadores e i loro discendenti sono riluttanti a riconoscere l’autorità dei funzionari della Corona, ai quali Madrid riserva le maggiori cariche di governo. Il conflitto si riflette anche dentro l’Ordine serafico che lo risolve in modo egualitario, cassando «ogni singola Costituzione che stabilisse tra di loro qualunque differenza»,179 sia per quanto riguarda la ricezione dell’abito dei novizi, sia per l’esecuzione di qualunque ufficio, sia per tutti gli oneri e onori nell’ordine. I Francescani, soprattutto osservanti spagnoli e portoghesi, erano accorsi nel
Nuovo mondo insieme agli scopritori: la partecipazione minoritica nelle Americhe risale al primo viaggio di Colombo con i padri Giovanni Perez e Antonio da Marchena. Un gruppo numeroso aveva accompagnato Perez nei viaggi successivi (1493-1502); approdando ad Haiti e a Santo Domingo (1500), Giovanni de la Deule aveva evangelizzato le Antille (1493-1510) e Giovanni da Trasierra, nominato commissario generale delle Indie orientali, aveva raggiunto nel 1514 il Venezuela, dove aveva eretto la prima provincia osservante d’America (Santa Cruz), mentre i frati portoghesi, giunti con Cabral a Coimbra nel 1500, avevano fondato nel 1516 la prima chiesa francescana a Porto Seguro. Tra mille difficoltà aveva preso le mosse l’evangelizzazione nel Nuovo mondo. Il Sud America diventava la più grande area di missione francescana nell’epoca coloniale: in alcune zone i Francescani erano stati i primi e talvolta i soli missionari e il loro numero non teme confronti con quello di altri ordini religiosi.180 Tra il 1553 e il 1675 si stabiliscono nove ben organizzate province, a partire da quella dei Dodici apostoli in Perù: da Lima l’ordine si spinge verso Bolivia, Argentina e Cile. La sua attività di evangelizzazione è ben rappresentata da Francisco Solano (1549-1610), che, dopo una straordinaria carriera a Tucumán, in Argentina, dal 1590 al 1601 – dove converte gli indiani di Talavera, di cui prodigiosamente in meno di quindici giorni impara la lingua e, armato del solo crocifisso, seda una rivolta contro gli spagnoli della guarnigione –, è chiamato a Lima a ricoprire il compito di guardiano del convento di San Francesco, dove muore nel 1610.181 I Francescani raggiungono il Venezuela da Española (Santo Domingo) e dal regno di Granada (Colombia), provenienti dalla Spagna. E la prima provincia, intitolata alla Santa Cruz, raggrupperà insieme Caracas, Cuba e Santo Domingo. La prima fondazione sulla terraferma è sulla Costa de las perlas, a Cumaná (1514-1522), sostenuta dal cardinale reggente Cisneiros al Capitolo generale di Rouen e largamente provvista di mezzi e risorse dalla Corona. Le cronache francescane e le innumerevoli relazioni di viaggio, rapporti ai superiori dell’ordine, diari e memoriali – numerosi dei quali sono conservati ancora manoscritti presso l’archivio della Curia generalizia francescana di Roma – descrivono vividamente l’atteggiamento contraddittorio verso le popolazioni locali con cui i frati vengono in contatto. Le difficoltà dell’opera di evangelizzazione si sommano alla risposta, talvolta violenta, degli indi nei confronti dello sfruttamento a cui i conquistadores e le autorità spagnole li sottopongono. In due anni si costruiscono due chiese e due conventi, accolti festosamente dai nativi, «i quali da principio si mostrarono facilissimi alla
conversione, ma poi, per le guerre e le atrocità patite, si levarono a trucidare i conquistatori».182 Nel 1520 ha inizio una sollevazione degli indi che demoliscono chiese e conventi e trucidano i missionari. La conversione degli indi delle nazioni Cumanagotos, Palenques, Pirítus e dei Caribes è particolarmente difficile, perché si tratta di gente «che come fiere nei campi vivevano senza obbedienza né ragione, né altre leggi che quelle del loro appetito e brutale paganesimo».183 Queste popolazioni si sottraggono alla vita stanziale a cui le missioni le obbligano e frequentemente disertano. Le missioni non rappresentano mai conquiste definitive: devono venire difese dagli assalti che costringono talvolta i frati ad abbandonarle per rinserrarsi nel più vicino convento. Nel 1647 le autorità civili di Nueva Barcelona chiedono licenza alle autorità religiose di fondare un convento francescano, in considerazione del numero di frati dell’Ordine serafico: una ottantina in tutta la provincia di Santa Cruz e Caracas divisi in quattordici conventi (nelle isole a Santo Domingo, Puertorico, Jamaica, Trinidad, Margarita, sulla terra ferma a Cumaná, Caracas, Valencia, Barquisimeto, Tocuyo, Carora, Trujillo, Coro e Maracaibo). Altri ne seguiranno, ogni volta che l’ordine viene ristabilito manu militari, e nonostante le epidemie, le invasioni di insetti, le alluvioni e ogni altra piaga di biblica memoria si abbatta su di loro. L’evangelizzazione degli indi è, in questi anni, il tema dominante nell’ordine; nessun cenno fanno queste fonti sulle strategie rivolte agli africani deportati dalla tratta, perché ancora numericamente inferiori alle popolazioni locali e lasciati, semmai, alle cure dei padroni. Provvidenze pro Indiarum provinciis vengono prese al Capitolo del 1600 e il Capitolo del 1606 ritorna a prendere decisioni pro Indiis, nel quadro dell’evangelizzazione delle Americhe di cui riferiscono i frati che, provenienti dalle aree di missione, cominciano a partecipare ai lavori dei Capitoli e delle congregazioni che si tengono tra un Capitolo e l’altro. Nel 1618, eletto al Capitolo di Salamanca, diviene ministro generale Benigno da Genova,184 colui che, nella qualità di protettore dell’ordine darà incarico ad Antonino da Randazzo di rappresentarlo nei processi di canonizzazione di Benedetto del 1620 e del 1625. Nei sette anni del suo generalato detterà gli Statuta generalia dell’ordine, regolamentandone ogni aspetto: dal noviziato alle orazioni, dal silenzio alla disciplina, dall’uso del denaro al prestito e all’usura. I Capitoli devono tra l’altro affrontare i contraccolpi sull’ordine dell’ondata missionaria, i problemi del reinserimento in patria dei frati provenienti da lunghe missioni nelle Indie, indisciplinati se non inselvatichiti, talvolta in possesso di oro e argento, cosa che viene espressamente proibita («è illecito trasferire oro e
argento», anche se ricevuti «per suffragio dei defunti»). Vengono riorganizzate le province americane: a Lima quella dei Dodici apostoli, a Hispaniola-Santo Domingo quella di Santa Cruz; la custodia della Florida diventa provincia di Sant’Elena, la custodia del Paraguay diventa provincia della Vergine Maria Assunta.185 Questa è la sede dove si diffondono e si scambiano informazioni sui confratelli che si distinguono per virtù e grazie, e si cominciano a sentire notizie delle gesta, spesso eroiche, dei primi evangelizzatori, talvolta martiri della fede. I frati siciliani hanno certamente riferito di Antonio da Noto e di Benedetto da San Fratello, entrambi neri e frutto della capacità evangelizzatrice dell’Ordine serafico. Antonio Daça è presente al Capitolo del 1606 e di lì a poco scriverà la monumentale opera sulle missioni francescane di cui ho detto prima.
2.13 I tambores di san Benito Osservando la penetrazione francescana in Sud America, risalta con tutta evidenza come sia stato l’ordine, nella sua componente prevalentemente iberica, a portare Benedetto incontro agli schiavi africani. Anche i Domenicani sono all’opera e iniziano l’azione missionaria nella Nuova Andalusia. Guardiamo all’area venezuelana: a Caracas nel 1575-1576 si fonda il convento di San Francesco, nel 1578 c’è un convento a Trujillo, mentre si registrano continui arrivi di missionari francescani dalla Spagna (dodici nel 1580, quattordici nel 1590, dodici nel 1601 e altrettanti nel 1605, venti nel 1613 e così via nel 1618, nel 1633, nel 1655...). I frati partecipano da qui ai Capitoli generali, affrontando lunghe e pericolose traversate (ad esempio, Juan de Galvez va nel 1617 al Capitolo di Salamanca, Bonaventura Lopez Generes a quello del 1638); conventi di novizi si organizzano a Barquisimeto, a Guanare e a Maracaibo. Un convento francescano sorge a Maracaibo sin dal 1608 e uno a Valencia nel XVIII secolo. Agli esordi del XVIII secolo ci sono già frati criollos e canarios nei conventi venezuelani di Trujillo, Maracaibo e Puertorico.186 Un asiento – la convenzione con cui la Spagna concede il permesso di importare schiavi neri – stipulato nel 1663 da due mercanti, Domenico Grillo e Ambrogio Lomellino, per conto di una compagnia olandese, li impegna a fornire per sette anni 3500 schiavi neri l’anno nei porti di Cartagena, Portobelo e Vera Cruz. E il prezzo di ogni schiavo sano e
con le caratteristiche richieste nei porti della costa di Barlovento, Santa Marta, Cumaná e Maracaibo è di 300 pesos.187 Insomma, nella stessa area troviamo due dei protagonisti principali della nostra storia: francescani evangelizzatori e schiavi africani. Nel 1585 viene istituita anche in Brasile una custodia francescana con sede a Olinda, nello stato di Pernanbuco, da dove si irraggia su tutto il paese.188 Notizie indirette attestano l’introduzione del culto a Benedetto da parte dei Francescani sulla costa del lago di Maracaibo sin dal 1607;189 fonti ecclesiastiche testimoniano di una visita pastorale, il 14 febbraio 1775, nella chiesa di Nostra Signora del Rosario nella Villa del Rosario di Peijá dell’arcivescovo Mariano Martí, che descrive i santi presenti: «In detta chiesa ci sono i seguenti altari: l’altare maggiore di nostra signora dell’Immacolata Concezione, l’altare di San Giovanni Battista, quello del Santissimo Cristo e quello della madre Santissima della Luce, detto San Benedicto di Palermo».190 Il fulcro della devozione al santo africano è sulla costa del lago, con epicentro a San Pedro, tra San José e Santa Maria, la cui chiesa è stata saccheggiata nel 1669 dal pirata Morgan, e dove è raccolta la maggior quantità di schiavi africani della zona. La Villa del Rosario è stata fondata da famiglie di canarios e nel 1722 da Juan de Chourio, proprietario di varie aziende, che riceve in quell’anno licenza di introdurvi seicento schiavi: i pescatori bianchi del lago, discendenti dalle famiglie canarie, adottano lo stesso santo venerato dagli schiavi neri delle piantagioni di zucchero e cacao e per devozione nei giorni della sua festa si dipingono la faccia di nero con il petrolio di cui la zona è ricca. Alla fine del Settecento, anche a causa delle agitazioni degli schiavi di etnia Mina e Carabali attorno alla città di Caracas, il vescovo si preoccupa della «estirpazione di balli nelle processioni», soprattutto dei bailes de tambor che hanno trasformato in «disordine» quello che prima era «devozione e riverenza».191 Una preoccupazione che ho visto protrarsi talvolta sino ai nostri giorni. A tutt’oggi, tra Natale e Capodanno, si svolgono sentiti festeggiamenti in onore di san Benito de Palermo nei villaggi e nelle città situati attorno al lago di Maracaibo e in generale negli stati di Zulia, Trujillo e Merida (ma in tono minore anche a Lara, Portuguesa, Falcón, Aragua, Carabobo e Bolivar). Spesso copatrono del municipio (insieme alla Madonna del Carmine a Bobures e El Batey, a sant’Antonio di Padova a Gibraltar; a santa Lucia nei centri costieri del lago di Maracaibo), Benito viene festeggiato con la musica e il ballo e si irrora la sua statua con il rum che anche i suoi devoti bevono generosamente. Gli
strumenti musicali più usati sono flauti, maracas, sayas, caracolas; ma sono i tamburi lo strumento principale della festa, anzi i tamburi chiamati chimbangueles e i cui suonatori, i chimbangueleros, sono organizzati in confraternita con un proprio governo. Le funzioni principali sono quelle di mayordomo, portatore del bastone del comando, la carica più importante, talvolta vitalizia; di primer capitan o capitan del Santo, che dirige i passi di danza, guida il percorso della processione e, insieme al maggiordomo, esercita l’autorità civile durante la festa; di capitan de lengua o de plaza (anche questa carica vitalizia, spesso ricoperta dal più anziano della confraternita, conoscitore delle formule, delle litanie e dei versi recitati durante i riti e dei momenti precisi in cui devono venire cantati lungo il tragitto della processione); di capitan de brigada, il capo dei mandadores che reggono il fercolo del santo, di supporto agli altri capitani. Il director de banda, conoscitore dei colpi di tamburo e dei luoghi esatti della loro esecuzione, ne esige dai percussionisti un’esecuzione impeccabile; gli abanderadores, di numero variabile, portano gli stendardi bianco-azzurri che precedono la processione; i cargadores sostengono sulle spalle il fercolo riccamente adorno di fiori e festoni; gli hachoneros illuminano con torce il tragitto durante le processioni notturne; i tamboreros o chimbangueles, responsabili del tocco dei tamburi, suonano anche per adempiere le promesse personali fatte al santo.192 Della confraternita fanno parte i vasallos, ma sfilano anche i devotos, i credenti che hanno ricevuto delle grazie e che partecipano alla festa per mantenere delle promesse e adempiere i voti, mentre gli esclavos del santo sono quanti custodiscono per tutto l’anno un Santo Chiquito nelle loro case; el Santo Grande, invece, appartiene alla chiesa locale, da cui esce solo il giorno consacrato alla sua festa. I tamburi sono sessuati, quattro maschi e tre femmine, a seconda della loro forma e del suono. Variabili per diametro e altezza, sono generalmente fabbricati dagli stessi suonatori e vengono accompagnati dal suono delle marracas che tutti tengono nella mano sinistra e che sarebbero di ascendenza india, tanto quanto i tamburi sono di ascendenza africana. Chimbanguele conterrà la parola Angola? Durante la processione si susseguono diverse musiche suonate dai tamburi (golpes de tambor)193 e nelle strofe rimate della gaita de tambora risuonano ancora numerose parole di origine africana.194 Nel giorno di Capodanno, la festa ha inizio con una messa a cui assistono tutti gli abitanti del pueblo e i capi della confraternita, mentre i tamburi tacciono fuori dalla chiesa. Finita la messa, il maggiordomo accompagna il santo fuori dalla chiesa e lo consegna alla responsabilità dei capitani. Il capitan de lengua, mentre la folla già balla e canta
freneticamente, intona il primo canto in suo onore: è lui che, ritualmente dentro la chiesa con l’invocazione prontamente raccolta dalla moltitudine, «Ajé, Ajé, Ajé, Ajé, Benito Ajé», crea il “doppio” del santo, realizza la trasformazione di Benito in Ajé. La processione ha inizio, preceduta dagli sbandieratori, mentre la statua del santo è irrorata di profumo e di rum. «San Benito come santo della Chiesa fu astemio e anacoreta. Benito-Ajé beve rum, gli piace ballare, passeggiare e che le donne ballino per lui; Benito el bailón, lo chiama la sua gente».195 Al contario, a dimostrazione di questa duplicità, la festa religiosa che si svolge il 30 dicembre è una processione seria, sobria, composta, l’antitesi di quella del primo gennaio che raggiunge momenti di euforia parossistica. I tamburi rimandano alle etnie e i musicologi cercano per il loro tramite di rintracciare le origini etniche degli insediamenti di schiavi africani tra gli Yoruba (provenienti dall’attuale Nigeria, Benin e parte del Togo), Kongo Ntoleta (Congo, Zaire e Angola), Bushongo e Luanda (Zaire e Angola) ecc., per lo più tutti provenienti dalle regioni dell’Africa subsahariana. Dalle etnie si può risalire alle loro divinità: gli Orishas (o Orixá).196 Ci troviamo nel cuore dell’area della estrazione di schiavi destinati alla tratta. Nella festa di San Benito a sud del lago di Maracaibo, i devoti cantano «Ajé, Songorogomeyaya, Ajé y misericordia». Chi è dunque Ajé? La difficoltà di reperire documentazione scritta a proposito della devozione a Benito-Ajé può essere parzialmente aggirata grazie a una raccolta di fonti orali a Bobures, protrattasi dal 1954 al 1986 ad opera di uno studioso del luogo che ha interrogato i vecchi del villaggio, ottenendone sessantacinque differenti leggende. La tradizione prevalente non fa riferimento alcuno all’opera evangelizzatrice della Chiesa, ma vuole che il santo sia giunto sul lago con uno degli schiavi sbarcati a Gibraltar197 che, ammalatosi nella casa del nuovo padrone, invocò san Benito da Palermo, di cui il cuoco della barca negriera che lo aveva condotto al porto di Maracaibo gli aveva regalato una estampita, malauguratamente smarrita nel corso di una tempesta. L’immagine del “Negrito de Palermo” gli era rimasta però così impressa, insieme con la certezza che si trattasse di un santo miracoloso, da votarsi a lui e offrirgli, in cambio della guarigione, una statuetta di legno e la sua personale devozione. In breve tempo si accrebbero i devoti di san Benito, che raccolse sotto le sue bandiere anche i devoti africani di Ajé. Ajé è nella tradizione orale il figlio del re del Dahomey, vissuto nella capitale Abomey ed educato come un principe a governare il suo popolo. Alla ricerca della madre – che, avendo rifiutato di condividere il marito con altre sessanta spose, era ritornata alla casa paterna –, lungo il cammino sfama gli affamati,
sana gli infermi e si cura degli abbandonati e dei derelitti, restituendo loro amore e fiducia. Alla sua morte, avvenuta prima che possa incontrare sua madre, per il servizio sacro reso al suo popolo viene incorporato nel pantheon del Dahomey e celebrato in ottobre, alle prime piogge, in un ciclo festivo che dura tre mesi, dalla prima settimana di ottobre fino alla prima settimana di gennaio, quando, ogni anno, Ajé riprende il cammino alla ricerca della madre. Il dio regna sulle acque azzurre dei fiumi, delle lagune e dei laghi africani. Viene portato in processione su una portantina, agitata dai cargadores a imitazione di una canoa in balia delle onde; il fercolo, preceduto da una bandiera azzurra e bianca (i colori del mare), si muove ondeggiando, come per ripulire il cammino che si para innanzi alla divinità delle energie negative e creare perciò uno spazio sacro;198 il santo indossa talvolta cappello e uniforme da marinaio. Anche in Brasile, nel ballo chiamato moçambique, si canta che san Benedetto «fu già marinaio e diede la Congada a noi Congueiro discendenti dal Congo dei mozambiquero».199 Nella festa in suo onore nella regione di Espírito Santo, a poppa di una enorme imbarcazione, chiamata Palermo, il santo si erge come un capitano nero, in divisa bianca.200 Come sappiamo, l’acqua assume nella cultura africana un significato peculiare: la stessa Madonna del Rosario è venerata spesso a partire dalla sua apparizione sopra le acque del mare o del fiume, raccolta dagli schiavi e portata, danzando e cantando, in un luogo dove si riuniscono in preghiera. A lei, «Signora del mondo», per difenderli da «fuoco in terra e fuoco in mare», ogni devoto di Sergipe chiede «un sorso d’acqua / sennò vado a fondo».201 Inviati da un altro mondo per il tramite dell’acqua sono anche la Vergine dell’Aparecida, e il simulacro di san Giovanni che si ritiene rinvenuto dentro una cassa galleggiante sul mare. Le credenze bantù202 sono centrate sull’esistenza di mondi separati dall’acqua: quello dei vivi e quello degli antenati, elementi del quale sono racchiusi negli oggetti religiosi (nkisi) – talvolta statuette antropomorfe di legno intagliato –, ribattezzati fetiches dai portoghesi, usati ritualmente dai sacerdoti per comunicare con il mondo degli spiriti. Alcune raffigurazioni di Benedetto, intagliate su legno di diverso tipo o su radici, ricordano decisamente questa provenienza.203 La contaminazione delle informazioni provenienti dalla tradizione folclorica e da quella religiosa produce un effetto di grande ricchezza inventiva: secondo una tradizione locale, san Benito sarebbe il frutto di illegittimo amore tra la regina di Sicilia e uno schiavo africano.204 I tamburi, maschi e femmine a seconda della dimensione e del suono, il ballo, il rum creano per gli schiavi uno
spazio di libertà, consentito dai padroni. San Benito e Ajé diventano un’unica divinità, e lo stesso accade anche in altre aree del Venezuela per san PedroLegba, la Virgen del Carmen-Damballa, la Madonna della Candeleira-Dada, santa Barbara-Shangó, santo Antonio-Chopkono,205 a rappresentare forme peculiari di culto e devozione che la nozione di sincretismo206 si rivela del tutto insufficiente a spiegare. Notoriamente dall’area del golfo di Guinea proviene il maggior numero di schiavi destinati all’area venezuelana e brasiliana: dalla Costa degli schiavi (Nigeria e Dahomey) e dalla Costa d’oro (Fanti-Ashanti), in misura inferiore dal Congo e dal Sudan maomettano (Senegal). Nel XVII secolo, quando il Dahomey centrale dominava sopra gli altri popoli del litorale africano, era la città di Ajudá, o São João de Ajudá (Waydah), il grande emporio commerciale degli schiavi dell’Africa occidentale. Tra il Dahomey (Benin) e Bahia si intrattenevano all’epoca persino relazioni diplomatiche. I neri schiavi del Dahomey si chiamavano Evés o Eués (Ewes in inglese e Géges in portoghese). Si trattava di tribù litoranee che subivano l’oppressione dei conquistatori del Dahomey centrale e, attraverso gli schiavi, la cultura del Dahomey passa nelle Americhe.207 Si può pensare che, attorno al lago di Maracaibo, dove Benito è Ajé, gli schiavi provenissero proprio dal regno del Dahomey, come fa credere nella tradizione orale il riferimento alla madre di Ajé. La poligamia dei reali dahomeyani, la loro residenza nel palazzo di Abomey insieme a centinaia di mogli, schiave dell’harem e amazzoni, arruolate nell’esercito permanente, è nota agli studiosi.208 La tradizione orale allude anche a un rifiuto della poligamia, certamente influenzato dalla cristianizzazione in area coloniale. Ma c’è un altro elemento che può aiutarci a capire la facilità dell’accoglienza a Benedetto dentro il pantheon dahomeyano, ed è il dualismo, «elemento capillare» di quella cultura, la «predilezione per il due» che lascia la sua impronta nella semantica della parentela, nell’organizzazione del pantheon, nell’organizzazione dello stato. «L’idea della perfezione della dualità si presenta ossessivamente ovunque, dalle prime nozioni mitologiche di un ordine metafisico fino alla predilezione familiare per i parti gemellari [...]. Al vertice del pantheon dahomeyano era una divinità dualistica [...], una coppia di gemelli di sesso opposto o dello stesso sesso.»209 Mi pare di potere ipotizzare che Ajé, dunque, non sia il doppio di Benito, ma il suo gemello dahomeiano.
2.14 Re Congo in Sicilia: un’ipotesi di lettura Abbiamo visto come i Francescani attraverso l’affiliazione all’Ordine serafico promuovano meccanismi di grande efficacia e potenza sul piano simbolico di integrazione degli schiavi africani, conducendone qualcuno sin sugli altari. I processi di esclusione dei soggetti dotati di “identità deboli” sono rivolti a donne, minori, schiavi, poveri, in una parola “le figure dell’infamia”, portatrici di minorità economica e sociale, morale e fisica, che si collocano, in maniera mobile, ai margini della civitas. Tra di essi, gli stranieri, a causa di una «perturbante estraneità morale o religiosa», sono dunque facilmente considerati infedeli.210 Gli schiavi, cambiando padrone, come tutti gli itineranti (mercanti, pellegrini, soldati, stranieri, zingari) cambiano frequentemente di residenza e partecipano anch’essi all’area della “debolezza giuridica”. L’incompetenza delle norme dei tribunali ordinari, trasformata progressivamente per alcune categorie sociali in irresponsabilità, rende necessaria nei loro confronti l’applicazione della procedura sommaria che annulla «gli effetti dei privilegi legati all’appartenenza locale e rappresenta così una tutela per quanti non sono iscritti a pieno titolo nella cittadinanza».211 Residenza stabile, pagamento delle imposizioni fiscali «sono gli indicatori di una partecipazione alla vita comunitaria»:212 non si tratta di diritti associati a persone fisiche o giuridiche, ma a dei luoghi; essere straniero equivale a una iscrizione imperfetta nella “località” e dunque nella città. Rito abbreviato, poco costoso, caratterizzato dal ruolo arbitrale del giudice e svolto in tempi brevi, senza strepito e sine figura judicii, ispirato dal diritto naturale piuttosto che dal diritto positivo, e rifiuto della mediazione degli avvocati e procuratori rappresentano le caratteristiche essenziali della giustizia sommaria, insieme alla delega ad attori non professionali senza che ciò ne diminuisca la legittimità a giudicare e l’efficacia della sentenza. Farò un esempio siciliano che mi ha aiutato a capire cosa potrebbe nascondersi dentro le congadas. In un manoscritto del 1595, Giovan Francesco Pugnatore descrive nella Historia di Trapani soprattutto «la mutazione di Prencipi e Re che in tutta Sicilia hanno ordinatamente regnato e ciò che sotto di loro è di ricordevole nella Città medesima accaduto».213 Diverse annotazioni di questa cronaca riguardano gli schiavi: apprendiamo così che «il regno de’ negri» della città possiede una «consolar potestà», durata «insino al presente», ma ormai ridotta a una «certa
reliquia», risalente, secondo «istorie straniere», ai saraceni. A quell’epoca, infatti, «i mercatanti moreschi» portavano dalle montagne dell’Etiopia, dal fiume Niger, dalle falde del monte Atlante e dalla costa della Guinea grandi carovane di merci, di oro e di schiavi, acquistati dagli stessi africani che li detenevano quali prigionieri di guerra o che li razziavano. I mercanti arabi li rivendevano poi «con assai bon guadagno». Occupata dai saraceni la Sicilia, questo commercio raggiunge anche Trapani e i trapanesi «incominciarono a comprarne per servirsene nei bisogni della casa, come eziandio in quelli della villa. [...] Ma non passando il lor maggior prezzo trenta ducati, poco anco li stimavano, assai mal li trattavano [...] non dandogli altro per vivere che pane, acqua e sale, col quale condivano qualche erbe selvagge, e nell’avanzo dandogli sferze per ogni picciol errore, ponendogli ferri al collo et a’ piè, e talvolta con una catena per banda, e d’altri varj strazj aggravandoli».214 Un ennesimo esempio, se ce ne fosse bisogno, del disumano trattamento degli schiavi. Qui, però, gli schiavi ricorrono ai governatori a cui rivolgono le loro «doglianze» nei confronti dei padroni e quei magistrati, assillati continuamente ora dall’uno ora dall’altro schiavo, e tanto più per la loro «barbarissima e perciò malintesa prolazione, che quei schiavi hanno d’ogni lingua straniera, e per liberarsene fra loro [si] istituì quel consolare, piuttosto che regal, magistrato, affine che egli le costoro querele, e così pure le risposte dei loro padroni, intendesse, et al tutto appresso senza dimora provedesse. Ordinando di più che, ciò che questo offiziale determinasse, fosse con effetto esseguito del medesimo modo che saria se l’istesso governatore comandato l’avesse».215 L’ufficiale in questione veniva nominato dai «medesimi negri» che in massa si raccoglievano il primo giorno dell’anno (come nei festeggiamenti venezuelani: una coincidenza?) «in un loco fuori dalla città» dove conveniva la «moltitudine» degli schiavi del circondario. I padroni concedevano ai propri schiavi una licenza di tre giorni per partecipare all’assise, nel corso della quale si eleggeva il magistrato «che re era da loro per vana ambizione chiamato» e che «per bontà di giudizio, per destrezza di procedere e per intelligenza del parlar siciliano»216 sembrasse agli altri schiavi il più adatto. Incoronato con ghirlande di fronde, veniva accompagnato da largo seguito e da uno stuolo di giovani che cantavano, suonavano, ballavano e condotto in corteo nella casa del padrone. Questi era obbligato per l’occasione ad allontanarsi dal proprio domicilio con tutta la sua famiglia, lasciando sul posto «gli arnesi della camera e della cucina per uso del re suo schiavo, mentre egli s’adoprava nel regno che era lo spazio di soli tre giorni, assegnatigli per necessarj all’audienza che aveva di dar a cotanti schiavi
querelanti, et insieme ai loro padroni».217 Nessun padrone ha mai trovato «un minimo mancamento delle cose lasciatevi, per la grande custodia che tutti gli stessi negri ne avevano»,218 nel timore che, in caso contrario, venisse loro revocato l’ufficio. Insediatosi, il re nominava alcuni ministri e un prefetto «che erano come littori, i quali riparavano a’ tumulti di quella turba indiscreta»219 e che provvedevano a citare padroni e schiavi in giudizio. Gli schiavi per lo più accusano i padroni di aver fatto loro patire la fame, «intolerabili catene», «troppe sferze», «pochi denari», una «servitù assai più grave del giusto». I padroni contrattaccano con le accuse di schiavo fuggitivo, ubriacone, scioperato, infingardo o «malservente»; sentite le due parti, il re ristabilisce i buoni rapporti tra loro, persuadendo i padroni a lasciare agli schiavi rurali un piccolo appezzamento dove seminare grano o lenticchie per proprio uso e consumo e alle schiave domestiche la possibilità di allevare un paio di colombi per le proprie necessità. Se il padrone non ottempera quanto stabilito, l’anno successivo gli schiavi «averian la libertà in perpetuo in cambio».220 Qualora, invece, emerga un comportamento colpevole e troppo crudele da parte del padrone, il re può condannarlo a liberare lo schiavo, «avendo da lui l’istesso prezzo per lo quale comprato lo avevano e non per più, o a venderlo per quello medesimo ad altri che per intercessione del proprio schiavo comprar il volesse».221 Lo schiavo, insomma, può autoriscattarsi o scegliersi un nuovo padrone da cui farsi acquistare. La giustizia sommaria così amministrata ha piena efficacia, poiché «le accuse e le prove avanti a questo re fatte, e così pure le sue condanne, erano tutte dal mastro notaro della Civile Corte di Trapani in un proprio libro e nel medesimo tempo [an]notate»222 e hanno effetto legale anche se, al tramonto del terzo giorno dall’elezione, il re decade dalla carica e funzione, mantenendo per tutto l’anno il solo titolo. Il «regimento» degli schiavi assomiglia al «consolato civile» con il quale si reggono le varie «nazioni» presenti sul territorio trapanese, per lo più rappresentate da mercanti di varia provenienza, ma in più la giurisdizione del re sugli schiavi avviene in esclusiva, occupandosene solo lui e nessun’altra magistratura civile. Questa magistratura sommaria viene mantenuta, finita la dominazione araba dell’isola, anche dai re cristiani, che la considerano «assai giusta e alla ragione conforme, fino al tempo presente».223 Però il numero degli schiavi, che sono stati a Trapani fino a duemila, diminuisce quando i traffici tra Sicilia e Africa declinano e i trafficanti portoghesi preferiscono portarli a Siviglia, dove li imbarcano per il Perù e le altre destinazioni del Nuovo mondo.
Anche i proprietari di schiavi siciliani trovano più redditizio venderli in Spagna a «cento scudi e più l’uno», così che le nuove rotte, insieme all’azione martellante dei «corsari infedeli», all’epoca dei fratelli Barbarossa e di Dragut, causano la decadenza della città e lo spopolamento delle isole di Favignana e di Marettimo.224 Infine, l’ultimo colpo alla presenza degli schiavi in quest’area proviene dalla peste, che, nell’estate del 1574, si insedia in città per due anni, nel corso dei quali falcidia un terzo degli abitanti e fa strage di schiavi,225 di cui, finita l’epidemia, non rimangono che tre o quattro decine. «Per lo che, restando egli sì pochi che, ciò essi stessi vedendo, giudicarono che quel picciol lor numero non fosse più degno di sostener né il privilegio, né l’autorità di quel lor regal magistrato che avuto avevano in fin a quell’ora, lasciarono gir la sua elezione in abbandono»;226 ne rimase «picciol reliquia» nell’uso introdotto dagli schiavi fattisi cristiani di far comparire il loro re nella solenne processione dei Cerei, insieme alle maestranze. Si accontentano di questa presenza simbolica, insomma, a cui non corrisponde più il foro speciale della cui protezione hanno goduto. Nella processione tutti gli schiavi neri sono preceduti dal loro re, «al cui lato va eziandio la moglie, se l’have, in loco di regina [...] et ambi con corone reali in testa e nell’avanzo più splendidamente guarniti che ponno. Innanzi ai quali solamente va per più maestà pur a cavallo, e degnamente vestito, un altro negro invece di quel sovrano ministro che già si eleggeva per capo sovrano dei suoi serventi minori; e questo all’or porta uno stendardo reale arborato, il quale è delle figure dei tre magi depinto. [...] Appresso a cui poi seguono ordinatamente tutti gli altri negri con l’imagine di San Giorgio, la quale si hanno eletto per santo lor protettore».227 A Trapani la devozione religiosa conserva le vestigia di una antica magistratura; in Brasile il re Congo, accompagnato da una regina, da schiere di ballerini e di suonatori, apre le processioni in onore di santi neri (são Benedito o preto, soprattutto) o della Madonna del Rosario, per mantenere in vita, ormai poco riconoscibili, alcuni elementi della cultura e della storia africana.228 Avviene quello che ci aspettavamo: interi sistemi di legittimità vengono resi inoffensivi attraverso il processo di folclorizzazione.229 Anche nelle Americhe, la devozione a san Benito nell’Ottocento declina e si trasforma in festa popolare interclassista, in folclore.230 L’abolizione della schiavitù nella seconda metà dell’Ottocento e i cambiamenti conseguenti sembrano allentare il legame tra il santo e i suoi devoti, che, però, riprende nel Novecento, divenendo strumento di visibilità sociale dell’identità religiosa e culturale della componente africana in tutta
l’America Latina.
2.15 Chicaba diventa Teresa La stessa difficoltà a fare emergere la presenza femminile nella schiavitù si trova anche a volere ricercare se e come si sia costruito un modello di santità nera femminile. Ho già fatto cenno alla principessa nubiana salita sugli altari come santa Ifigenia, ma ci sono altri tentativi in età moderna di dare alle schiave un modello cui conformarsi per «avvicinarsi in Paradiso per la strada de’ patimenti» imposti dalla loro condizione, a cominciare da quello di Violante Nastasi, nipote dello stesso Benedetto. Un poemetto manoscritto risalente alla metà del XVIII secolo racconta la vita esemplare della figlia del re di Guinea Abar I, nata nel 1676 sull’isola – fortunata per averle dato i natali – chiamata la Mina Baja del Oro, preferita dal padre ai suoi tre fratelli (Juachipiter, Crisù e Juachin) perché «di carattere docile / e di vivace e acuto intelletto».231 In Guinea la gente è del colore del carbone e così la nostra Chicaba, nata «incastonata nell’oro» della sua patria, è nera, ma è destinata ad essere come la fenice, risorgendo bianca dalle sue ceneri. Comincia da bambina a porsi domande inquietanti: ammira la bellezza dei fiori e si chiede chi li abbia creati, interroga il padre sulla sua origine e sui suoi dèi; non soddisfatta delle risposte del padre, si rivolge confusa al fratello, che trova il Dio vero nella stella del mattino; ma contemplare la luce dell’alba non la rasserena: «Chi è l’artefice di quella stella così luminosa? Mostratemi l’Autore – va chiedendo. – Chi ha creato i fiori del prato?». Domande senza risposta che la rendono inquieta. L’incontro nei pressi di una fonte con una donna e un bambino con cui si intrattiene a giocare la spinge a lasciare al fratello la sua parte di regno: si persuade la niña che «non si sposerà con gente negra / poiché ha pensato di sposarsi con il niño che vide così bianco».232 Il padre, seppur con dispiacere, a otto anni la segrega in una lontana provincia del regno, secondo il crudele costume – «barbara cosa!» – di queste popolazioni, nonostante il pianto di Chicaba. Da questa clausura fugge, sorprendendo le sentinelle e, cercando riposo sotto un albero, incontra un «giovane coraggioso, grazioso e bianco» che la conduce sulla spiaggia, presso la quale passa una nave che «issa la bandiera di Gesù
Cristo: / vede la sua Gente / e a costo di mille rischi / viene a raccoglierla».233 Il giovane bianco la accompagna sulla lancia: non avrebbe invece dovuto opporsi al suo rapimento e cercare di liberarla? Perché non punisce la gente della nave che cattura la niña? Si sarà trattato certamente dell’angelo custode che, con superiore intelletto, la accompagna e la guida al suo destino. Una signora la accoglie e la consola sulla nave: è la stessa che ha conosciuto alla fonte. La nave arriva a São Thomé, secondo il tragitto delle navi negriere che catturano le loro prede nella Costa d’oro o Costa degli schiavi e le conducono verso la penisola iberica prima di salpare per il Nuovo mondo. Appena giunta in porto, la bambina viene battezzata – senza essere stata minimamente istruita nei rudimenti della religione – e le viene imposto il nome di Teresa e come secondo nome Juliana, per vendetta contro Giuliano, apostata di Cristo.234 Il padre viene a conoscenza dell’accaduto e il suo «ruggito come di leone» si ode per tutto il regno; cerca di raggiungere la figlia, ma non fa in tempo, poiché sembra volare la nave che conduce Teresa a Siviglia; portata subito alla corte di Madrid, viene presentata a Carlo II e alla madre e tutrice («per essere bambino») Marianna d’Austria, che regala la preziosa fanciulla («tanto prezioso gioiello») al marchese di Mancera. «Poiché i Grandi / amano per simpatia / il sangue reale»,235 Teresa si intende alla perfezione con il nuovo padrone, che affida la sua istruzione a un maestro e ad un confessore. Ma nella stessa casa patrizia si annidano i nemici di Teresa: la marchesa, cattiva padrona, «mala madre» e «madre bestia» e i suoi servi che la maltrattano continuamente; una turca schiava domestica la osteggia e la accusa ingiustamente; i criados giungono a picchiare il confessore per farsi riferire le colpe dell’impeccabile giovane. Forse per sottrarsi a questo clima di gelosie e maltrattamenti chiede di entrare in convento, ma qui saranno le monache a respingerla: non hanno mai visto un così brutto ceffo («un rostro tan malo»), il colore della sua pelle le fa coalizzare contro di lei: «Cristo ci aiuti e ci liberi da una negra!».236 Viene a trovarla a casa del marchese uno zio che, catturato e offerto a Luigi XIV, ora riscattato, sta ritornando in Guinea e vorrebbe condurre con sé la nipote, facendola ragionare su come sia «forte cosa / il voler essere schiava / essendo una signora»;237 ma la giovane sembra irremovibile e, dopo tanta dimostrazione di fermezza, finalmente ottiene di essere rinchiusa in convento. Dopo un anno di noviziato, pronuncia i voti nelle mani di Maestro Garcia, priore dei Domenicani e subito iniziano fenomeni soprannaturali: nell’orazione il suo volto si accende di luce, dalla sua bocca escono in volo bianche colombe. La sua vita trascorre tra digiuni e mortificazioni (mangia alimenti guasti, persuasa che non possano corrompere
il suo corpo già impuro), cura della chiesa e degli arredi sacri, orazione e rosario nella particolare devozione a san Vincenzo Ferrer;238 si disciplina crudelmente con una catena intrecciata con punte di ferro, usa diversi cilici, indossa sulla carne la croce di legno dell’ordine, ma con settantadue spine. Il duro letto e il cuscino di legno trasformano la sua cella piuttosto in un sepolcro. E quando, avanti con gli anni, il confessore le imporrà di cambiare costume, riempie il suo cuscino di «schegge di legno / con pietre, messe / per spezzare il sonno / e la testa».239 Riesce così nell’intento di dormire solo tre ore per notte, dedicandone il resto alla preghiera. Dall’età di dodici anni rinuncia alla cioccolata: che duro sacrificio deve essere stato! A quell’età, infatti, le giovani chiedono due cose: cioccolata e matrimonio, e Teresa ben conosce «il dispotismo» di quella straordinaria bevanda, che considera «il grande nemico dei suoi intenti».240 Tante rinunce e mortificazioni ne fanno una persona diversa «e se fu negra / ora di pelle l’ha cambiata la penitenza»,241 mentre la metà del suo corpo diventa «debole e fiacco», «tutto paralizzato», obbligandola in tal modo a occultare il «fuoco divino» che le arde dentro: «fu di Theresa il suo corpo schiavo»,242 piegato alla sua volontà: la schiava è diventata infine padrona di sé. Certi segnali preannunciano la sua morte: fiorisce fuori stagione il roseto del convento, come se il mese di maggio ritornasse per la seconda volta, mentre a dicembre si riempie di spine: il 4 dicembre («mese omicida») Teresa, inferma, annuncia la sua morte alle monache che la accudiscono, si prepara cristianamente al transito, assistita da frate Alonso Rincon, priore e maestro a Salamanca. Ricevuti i sacramenti, avverte in petto un dolore acuto, penetrante, come se le si conficcasse una freccia lanciata dal cielo: muore di paralisi o d’amore? Spira la sera dell’Immacolata, con volto sereno e sorridente; alle sue esequie partecipano «Dotti, Nobili e Plebe»243 che cominciano a venerarla, considerandola già beata, in assenza di qualunque riconoscimento ecclesiastico. Certo Teresa ci ha offerto una piccola summa di storia della schiavitù. 1
Padre Alonso de Sandoval lavorò all’evangelizzazione dei neri che giungevano a Cartagena de las Indias dal 1607 al 1611 (il suo magistero fu poi continuato da san Pietro Clavero). Il suo libro Naturaleza, Policia Sagrada y Profana, Costumbres yRitos, Disciplina y Catechismo Evangelicos de todos los Etiopes fu pubblicato a Siviglia nel 1627; una seconda edizione uscì a Madrid nel 1636 con il titolo latino De instauranda Aethiopum salute. Le citazioni provengono dall’edizione spagnola El mundo de la esclavidud negra en merica, Bogotà 1956, p. 180.
2
Ivi, p. 181. 3 Ivi, p. 182. 4 Ivi, p. 183. 5 Ivi, p. 184. 6 Dove il suo culto sarebbe stato introdotto nel 1737, attraverso una nobilissima congregazione composta da centoventi bianchi che dovevano «essere puri di sangue», ospitata nel convento del Carmine di Lisbona. Così Fray José de Santa Ana, Chrónica dos Carmelitas, Lisboa 1745, t. I, parte IV. 7 Francesco Scorza Barcellona, Santi africani in Sicilia (e siciliani in Africa) secondo Francesco Lanzoni, in Salvatore Pricoco (a cura di), Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità, Rubbettino, Soveria Mannelli 1988, p. 54. 8 Verlinden, L’esclavage dans le Centre et le Nord de l’Italie continentale, cit.; Marrone, La schiavitù nella Society siciliana, cit., pp. 39, 48-49; Bresc, Une société esclavagiste médiévale, cit., t. III. 9 Vincenzo Littara, De rebus netinis, Palermo 1593, trad. di Francesco Balsamo, Storia di Noto antica, Ciranna, Roma 1969, p. 120. 10 Pietro Tognoletto, Paradiso serafico del fertilissimo Regno di Sicilia, Palermo 1667, vol. II, p. 419 e Benedetto da Mazara, Leggendario francescano, Venezia 16892, vol. II, p. 446, alla data 28 febbraio. Ma cfr. Ludovico M. Mariani, Albero serafico di Sicilia, Kefagrafica, Palermo 1995, vol. II. 11 Tognoletto, Paradiso serafico, cit., vol. II, pp. 468-483; ma vedi “Il santo come risorsa familiare”, in Giovanna Fiume, Il Santo Moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo (1594-1807), Franco Angeli, Milano 20082, pp. 108 ss. 12 Vedi Nelson H. Minnich, The Catholic Church and the Pastoral Care o Black Africans in Renaissance Italy, in Thomas F. Earle, Kate Lowe (eds.), Black Africans in Renaissance Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 280-300. 13 Fray Manuelo Barbado de la Torre y Angulo, Compendio historico y lego seraphico, Madrid 1745, t. I, p. 409. 14 Marilena Modica,La prima agiografia francescana della Sicilia moderna e il modello eremitico di santità del “Frate nero di Palermo”, in Giovanna Fiume, Marilena Modica (a cura di), San Benedetto il Moro. Santità, agiografia e primi rocessi di canonizzazione, Biblioteca Comunale, Palermo 1998, p. 103. 15 Fra’ Vincenzo da Noto, Vita del beato Antonio, ms. del XVI secolo, in Vitae, rocessus et miracula aliquot Sanctorum Siculorum, BCP, ai segni 3QqC36,
fasc. 30, c. 3r. 16 Alla ricognizione medico-legale compiuta sulle ossa di Antonio, il 22 agosto 1977, il reperto presume che «lo scheletro appartenga ad un individuo adulto di sesso maschile dell’altezza di m. 1,80 circa». Verbale di ricognizione medico-legale, – Antonio da Noto e Benedetto da San Fratello completano dunque in Salvatore Guastella, Lui e noi per loro. Fonti di archivio e documenti sul B. Antonio di Noto, Caritas, Noto 2000, p. 162. 17 Nato a Monreale (Palermo) nel 1603, dal famoso pittore e musicista Pietro Antonio, nel 1636 è nominato dal Senato di Palermo ingegnere e architetto delle «fabbriche» della città e, nel 1647, riceve l’incarico di fortificarne i bastioni. Dipinge per una committenza aristocratica e religiosa, «tra i dipintori siciliani massimo imitator della natura», come lo definisce nel 1828 Agostino Gallo. Muore nell’agosto 1647 per una ferita d’arma da fuoco nel corso del tumulto capeggiato da Giuseppe D’Alesi. Guido Di Stefano, Pietro Novelli il Monrealese, Flaccovio, Palermo 1989, p. 322. 18 Giovanna Fiume, Lo schiavo, il re e il cardinale. L’iconografia secentesca di Benedetto il Moro (1524-1589), in “Quaderni storici”, n. 121, 2006, pp. 165208. 19 Pedro de Mataplanes, Vida de Fray Benito de S. Fradelo […] nombrado el Santo Negro, Madrid 1702, p. 161. 20 Lo stesso avviene nelle fonti giudiziarie di Nicosia (Cipro), dove lo schiavo nero è chiamato in maniera intercambiabile etiope o abissino o arabo nero, pur provenendo a preferenza probabilmente dal Sudan e dal Darfur. Ronald C. Jennings, Black Slaves and Free Blacks in Ottoman Cyprus, 1590-1640, in “Journal of the Economic and Social History of Orient”, vol. XXX, 1987, pp. 286-302. 21 De Sandoval, De instauranda, cit., p. 185. 22 Ivi, p. 186. Su questo contrasto si incentrano le poesie prodotte nel 1652, in occasione della sua elezione da parte del Senato palermitano a patrono della città, che non riescono a nascondere il turbamento verso un «sì fosco e tenebroso aspetto», un «volto pien di notturno horrore, fosco oggetto e tetro», «spento carbon [...] del tesoro del ciel carbonchio eletto», apprezzandone «l’alma [...] cinta in lui di veste oscura». Così recita l’appendice a Pietro Tognoletto, Vita e miracoli del venerabile servo di Dio Frate Benedetto da San Fratello, detto comunemente il Nero, Palermo 1652. 23 Oltre alle numerose Vite, Benedetto entra nei manuali di pietà, come quello di Henri Grégoire, Manuel de piété à l’usage des hommes de couleur et des
noirs, Paris 1818, SA. 24 Enrique Martínez López, Tablero de Ajedrez. Imágenes del negro heroico en la comedia Espanola y en la literatura e iconografía sacra del Brasil esclavista, Fundaçao Calouste Gulbenkian, Paris 1998, p. 125, nota 141. 25 Roma 1586, tomo VII. 26 Alfonso Franco Silva, La esclavitud en Andalucía, 1450-1550, Universidad de Granada, Granada 1992 e António Pedro de Carvalho, Das origens da escravidão moderna em Portugal, Lisboa 1870. 27 Antonio Vieira, XX Sermone del Rosario(predicato nel 1685, ma pubblicato nel 1688), in Sermões, a cura di Gonçalo Alves, Lello & Irmaõ, Porto 1959, t. XII, pp. 99-100. La stessa strada intraprenderanno nelle colonie i brasiliani frate José Pereira de Santa Ana, che scrive un volume su Elesbao e uno su Ifigenia (Os dous Atlantes da Ethiopia, Santo Elesbão, Emperador da Abessina, advogado dos perigos do mar e Santa Ifigenia, princeza de Nubia, advogada dos incendios dos edificios, ambos carmelitas, 2 voll., A. Pedrozo Galram, Lisboa 1735 – I vol. su Elesbao – e 1738 – II vol. su Ifigenia) e frate Antônio Jaboatão de Santa Maria e frate Manuel da Madre de Deus, che a metà Settecento scrivono l’agiografia di Gonçallo Garcia (Fray Antônio Jaboatão de Santa Maria, Discurso historico, geographico, genealogico, politico e encomiastico, recitado na nova celebridade, que dedicarão os Pardos de Pernanbuco, ao Santo da sua cor, O Beato Gonçallo Garcia, na sua Igreja do Livramento do Reciffe, Lisboa 1751 e Fray Manuel da Madre de Deus, Summa triunfada nova e grande celebridade do glorioso e invicto martyr, San Gonçalo Garcia, Lisboa 1753). 28 André Vauchez, Notes sur l’esclavage et le changement de religion en Terre Sainte au XIIIe siècle, in Bresc (sous la direction de), Figures de l’esclave au Moyen-Âge, cit., p. 94. 29 Viene ripudiata di fatto solo con l’enciclica di Leone XIII ai vescovi del Brasile In plurimis del 5 maggio 1888. 30 Antonio José Saraiva, Le Père Antonio Vieira S. J. et la question de l’esclavage des Noirs au XVIIe siècle, in “Les Annales”, A. XXII, n. 6, nov.-dic. 1967, pp. 1289-1309. 31 Scrive Dell’Aira che «Joseph Pereyra Báyam ( História das prodigiosas vidas dos gloriosos santos António, e Benedicto, mayo honra e lustre da gente reta, Lisboa 1727) cita una cronaca di Fernando da Soledade (1620), oggi perduta, che riferisce un curioso miracolo del santo nero, ignoto in Sicilia: un giorno Benedetto, che spazzava il dormitorio, raccattò dell’immondizia e la nascose nel saio. Interrogato dal viceré che voleva sapere cosa avesse lì dentro,
gli mostrò alcune manciate di rose». Alessandro Dell’Aira, Introduzione a Lope de Vega Carpio, Commedia famosa del santo nero Rosambuco della città di Palermo, Palumbo, Palermo 1995, p. 28. Il parallelo iconografico con santa Isabella è di F.de Vasconcelos, Um problema de iconografia religiosa, in “Provoa de Varzim”, A. XXVI, n. 2, 1989, pp. 701-709. 32 Così Martínez López, Tablero de Ajedrez, cit., p. 122. 33 Dietro questo atteggiamento paternalistico, che raccomanda pazienza, tempo e dottrina, Alonso de Sandoval ha convinzioni profondamente razziste, poiché è persuaso che i neri derivino da un difetto nella generazione, alla stregua della spiegazione che Aristotele dà dei mostri. «Così possiamo spiegare questi che hanno sembianza di animali bruti, non hanno ragione, ma istinto naturale, così sviluppato», sono cannibali, non credono alla vita eterna, né all’inferno, si fanno seppellire con le armi per combattere contro gli spiriti, venerano idoli e credono che i preti siano il demonio…» Cfr. de Sandoval, De instauranda, cit., pp. 28-34, 67 e passim. 34 Così Antonio E. Vaquero Rojo, San Benito de Palermo. El primer negro canonizado, Atenas, Madrid 1985, p. 273. 35 Così Fray Luis de Urreta, Historia moral, ecclesiástica, política y natural de los grandes y remotos reynos de Etiopía, monarchía del emperador llamado Preste Iuan de las Indias, Valencia 1610, cit. in Martínez López, Tablero de jedrez, cit., p. 120. 36 A mo’ di esempio, il caso della diffusione del culto della Vergine di Guadalupe a Potosì dei primissimi anni del Seicento a opera del gerolimita Diego de Ocaña, che scrive: «Poiché la dipinsi un po’ scura, e gli Indi lo sono, dicevano che quella Signora era più bella delle altre immagini e gli piaceva molto perché era del loro stesso colore». Cit. in Kenneth Mills, Diego de Ocaña e l’organizzazione del miracoloso a Potosì, in Giovanna Fiume (a cura di), Il santo patrono e la città. San Benedetto il Moro: culti, devozioni, strategie di età moderna, Marsilio, Venezia 2000, p. 380. 37 Così Fray Benito Jerónimo Feijoo, Obras escogidas, III, BAE,142, Ed. A. Millares Carlo, 1961, discorso sul Color etiópico, p. 398. 38 Ma vediamo anche Martin de Porres impugnare la scopa di criado, di servo domestico del suo convento. Nel ritratto forse secentesco conservato presso il monastero di Santa Rosa a Lima, il santo impugna la scopa nella destra, in stridente contrasto con l’elegante abito domenicano. Cfr. M. Sardoc Bertucci, San Martino de Porres, in BS, cit., vol. VIII, 1966, coll. 1240-1245. Fu canonizzato solo nel 1926.
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Martínez López, Tablero de Ajedrez, cit., pp. 123-124. 40 Escono in quel torno di tempo le opere di Fray Antonio Vicente de la Cruz Morado, o de Madrid, El negro más prodigioso. Vida del Beato Benito de San Philadelpho, Madrid, 1744 e 1758; Fray Diego de Albarez, Sombra ilustrada con la razón. Admirabile vida de el Beato Benito de San Fradello, conocido por el Santo Negro de Palermo, Alcalá 1747 e Joseph J. Benegassi y Luxán, Vida del ortentoso negro San Benito de Palermo, descripta en seis cantos jocoserios del reducidíssimo metro de seguidillas, con los argumentos en octavas, Madrid 1750. 41 Cfr. su ciò Giovanna Fiume, Saint Benedict the Moor, from Sicily to New World, in Margaret Cormack (ed.), Saints and Pilgrims around the Atlantic, Charleston University Press, Charleston 2007. 42 Antonino da Randazzo, Vita et miracoli del Beato Benedetto di San Fradello, in Vitae, processus et miracula, cit., fasc. 19, ora in Fiume, Modica, San Benedetto il Moro, cit., p. 167. 43 Orsola, figlia di un re bretone, nata circa nel 975, fugge insieme a undicimila compagne alle nozze con un pagano a cui il padre l’ha destinata; giunte a Colonia conquistata dagli unni, le giovani vengono tutte uccise. Cfr. la sua historia in Jaco-podaVaragine, Legenda aurea, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1998, pp. 712-718. Alla santa martire Angela Merici intitola nel 1535 la comunity di “madri spirituali” che prestano la loro assistenza alle giovani che vivono in famiglia, ispirandosi alle regole della chiesa primitiva. Paolo III ne approva la regola nel 1544. Orsola era insieme a Ninfa, Agata, Cristina e Oliva tra le sante protettrici dei mandamenti palermitani. 44 Antonio Daça, Quarta parte de la chronica general del nuestro Serafico Padre San Francisco y su Apostolica Orden, Valladolid 1611, l. III, p. 156. 45 Iandavula, Iandanula, Landanula, Landavula, tutte corruzioni di Ian di Avola. 46 Ibid. 47 Olim servi condam Joannis Jandanula et consequenter Michaelis et Vincentii de Iamblundo heredum dicti Joannis Jandanula et ab eis manumissi et ex inde sequuta dicta manumissione in heremo habitantis.Il manoscritto sta in De vita, morte et miraculis condam Antonii Nigri, olim servi condam Joannis Jandavula, in BCP, ai segni 3QqE36, n. 15. 48 Zambataro è colui che fa il formaggio, ma qui ha funzioni di controllo e di direzione del lavoro altrui. 49 Guardiani di mandria. I prezzamari sono i soci delle «associazioni pastorali
siciliane» tra proprietari di greggi di pecore, capre, mandrie di cavalli ecc., rette dalla consuetudine secondo Sidney Sonnino, I contadini in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1925, vol. II, p. 19. Sul tema vedi Orazio Cancila, Il reddito della astorizia. Un’impresa del Seicento, in Id., Impresa, redditi, mercato nella Sicilia moderna, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 215 ss. 50 «Vedendo alcuni bestiamari pichotti che haveano fame», divise tra loro il suo pane. De vita, morte et miraculis, cit., c. 9. 51 Così Franciscus Galvanius, di Trapani, che ha abitato per quattro anni con Antonio, De vita, morte et miraculis, cit., c. 25. Coffi equivale a sporte; panarelli apiccole ceste, canestri; curina sono le foglie tenere di palma. 52 «Essendo in la mandra di dicto so patruni per quella poco di intervallo chi havìa lo giorno si pigliava li paternostri in mano et quelli continuamenti dicìa cum grandi devotioni et la nocti similmenti sempri in lo pagliaro lo sentìa vigilanti et ci intendia diri orationi et multi volti la nocti si levava quando tutti erano quietati et cum destriza chi non lo sentissi alcuno, nexia di lo pagliaro et spogliato in genochioni ad un loco secreto si donava disciplini [...] et domandava perduno a nostro Signore Idio.», De vita, morte et miraculis, cit., c. 7. Antonio de Gamba, che ha «conversato» con lui per otto anni nel feudo del Celso, aggiunge che allo scoccare della mezzanotte e all’alba si «disciplinava senza tumulto et strepito» per non farsi sentire dai garzoni, ivi, c. 10. Se veniva sorpreso, immediatamente si rivestiva e tornava a dormire. 53 «Tutto quello che era del suo paraspolo lo donava et dispartia a li poveri», ivi, c. 8. 54 Ivi, c. 9. 55 Honoratus Corradus de Cortisi, ivi, c. 22. 56 Filippo Rotolo, Vita beati Corradi. Precisazioni sulla vita di San Corrado e suo itinerario spirituale, Editrice Alveria-Biblioteca francescana, Noto-Palermo 2000. 57 Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., pp. 161, 162. 58 «Il 4 luglio 1558 a Montabbodi lasciò questo mondo verso il premio eterno, dopo una vita costantemente dedicata a Dio e ai poveri ai quali sempre aveva rivolto le sue premure. Per interessamento del vescovo di Senigallia ebbe un importante funerale e fu sepolto in una tomba onorevole fra il pianto e il lutto di quanti vollero assistervi, rammaricandosi di aver perduto un uomo simile.» Littara, De rebus netinis, cit., p. 121. 59 Gigliola Fragnito, GliOrdini religiosi tra Riforma e Controriforma, in Mario Rosa (a cura di), Clero e Society nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1995,
p. 195. 60 Per questa ragione i padroni accusano di paganesimo o di bigamia gli schiavi che intendono sposarsi, e perciò questi ultimi frequentemente si mettono sotto la protezione della Chiesa. Così Bernard, Le logiche del profitto, cit., p. 384. Ma cfr. Alessandro Stella, Histoires d’esclaves dans la péninsule iberique, Editions de l’EHESS, Paris 2000, pp. 142-145. 61 De vita, morte et miraculis, cit., c. 9. «Stava ad sancto Corrado di fora et illà habitava cum certi eremiti», dirà Antonio de Mure (ivi, c. 6), e anzi uno di questi è Antonio de Gamba che testimonia di avere vissuto con lui per quattro anni in tre luoghi diversi, tra «la Virgini Maria de la cava et a lo loco di fora chi habitava sancto Corrado et consequenter a li grotti caldi» (ivi, c. 12). 62 Michael de Vinturino, ivi, c. 47. 63 Franciscus Galvanius, ivi, c. 25. 64 Paula de Jamblundo, ivi, c. 43. 65 Michael de Jamblundo, ivi, c. 15. 66 Martin de Porres, nella Lima del XVI secolo, cura un novizio per una «apostema» al braccio che gli procurava grande afflizione: «Cominciò facendo con la sua saliva una S. Croce sull’apostema […] senza usare nessun rimedio o medicamento». Fernando Iwasaki Cauti, Fray Martín de Porras: Santo, ensalmador y sacamuelas, in “Colonial Latin American Review”, vol. 3, n. 1-2, 1994, p. 167. Il più recente agiografo di Benedetto dedica molta importanza all’uso della saliva nella taumaturgia del santo nero, collegandola all’usanza popolare di sputare per scongiurare il malocchio e per altri molteplici usi con valore apotropaico. Vedi Stanislas Lukumwena, vescovo di Kole (Zaire), La spiritualità di San Benedetto il Moro o l’Africano, Edizioni Palermo-Grafiche, Palermo 2000, pp. 106-110. 67 Le orazioni sono l’ingrediente principale della sequenza taumaturgica anche nel caso di Benedetto. Su ciò vedi Giovanna Fiume, I primi processi di canonizzazione di Benedetto da San Fratello, in Fiume, Modica (a cura di), San Benedetto il Moro, cit., pp. 55 ss. Ma le orazioni fanno parte, com’è noto, del rimedio magico e rappresentano l’ambiguo confine tra taumaturgia religiosa e stregoneria. Cfr. tra gli altri Maria Pia Fantini, La circolazione clandestina dell’Orazione di Santa Marta, in Gabriella Zarri (a cura di), Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1996, pp. 45-65. Anche Martin de Porres è un santo ensalmador, che cura cioè con i salmi: «Dicendo in un certo modo per curare con le orazioni, altre volte applicando alcuni rimedi. Lo si chiama ensalmo, perché ordinariamente usano
versi di Salmi di cui si servono per sortilegi e altre cose in realty superstizione». Iwasaki Cauti, Fray Martín de Porras, cit., p. 166. 68 «Et ci pigliava una volta al giorno […] et cossì [Antonio] si mise a la dricta in pedi in orationi cum li manu junti et quella complita fece lo signo di la sancta cruci in la frunti [...] et dissi: Hagiati fidi a Dio chi entrambo starriti beni.» De vita, morte et miraculis, cit., c. 39. 69 Magister Antonino, ivi, c. 19. 70 Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., p. 160. 71 Normalmente la manomissione è subordinata a un ulteriore periodo di servizio per una durata determinata da chi concede la manomissione o dai suoi eredi, come in questo caso. Cfr. Heers, Esclaves et domestiques au Moyen-Âge dans le monde méditerranéen, cit., pp. 286 ss. 72 Per la tradizione delle “spezierie conventuali” e per la pratica empirica della medicina, i frati svolgono negli ospedali un “servizio corporale”, oltre all’assistenza spirituale. Vedi, ad esempio, Aa.Vv., San Camillo de Lellis e il suo tempo, s.e., Roma 2000. 73 Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., p. 165. L’agiografo francescano dà per scontata un’ordinazione formale, ben al di là della tonaca improvvisata dal sarto maltese su iniziativa del barone Blandano Terranova, cui accenna invece il processetto. 74 Ivi, p. 168. 75 Littara, De rebus netinis, cit., p. 120. Ma, dopo il terremoto del 1693, i suoi resti sono trasportati presso il nuovo convento di Santa Maria di Gesù che, abbandonato alla fine del XVIII secolo, viene trasformato nel 1866 in un istituto per orfanelle. È custodita qui, quasi dimenticata, l’arca lignea con le sue reliquie. Salvatore Guastella, Fratello Negro. Antonio di Noto, detto l’Etiope, s.e., Noto 1991, p. 75. 76 Id., Lui e noi per loro, cit., p. 178. 77 AuctoreArturo a Monasterio, recognitum et auctum a PP.Ignatio Beschin et Iuliano Palazzolo, Romae 1938, p. 94. «Idem videtur esse ac Antonius Aetiopis, de quo Art. sub die 23 Augusti», ivi, p. 95. Più recentemente vedi, di Salvatore Guastella, la voce Antonio Etiope, in Dizionario Netino di Scienze, Lettere ed rti, Ifasc. (A-F), s.e., Noto 1986, p. 14. 78 Modica, La prima agiografia francescana della Sicilia moderna, cit., pp. 77116. 79 Fray Diogo do Rosario, Flos sanctorum, Lisboa 1869-1870, vol. III; inoltre Corrado Gallo, Il beato Antonio di Noto, francescano sulle orme di Corrado, in
“Italia francescana”, XXXI, n. 10, 1956; Salvatore Bono, Due santi negri: Benedetto da San Fratello e Antonio da Noto, in “Africa”, XXI, n. 1, 1966. 80 Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., pp. 7-9. 81 Ivi, pp. 53-55. 82 Il processo comincia su istanza di fra’ Ambrogio da Polizzi, custode dell’ordine, nel 1588, e da un commissario della corte arcivescovile «che è terziario nostro»; un secondo processo si terrà nel 1590, su istanza di fra’ Innocenzo da Girgenti, allora custode dell’ordine per conto della corte arcivescovile di Girgenti; un terzo processo avrà luogo nel 1611; un quarto «si prese da Antonino da Randazzo», essendo protettore dell’ordine il cardinale Fabrizio Varallo, nel 1619. Nel 1625 si risolse la Sacra Congregazione di procedere ad ulteriora; il processo, affidato a fra’ Ludovico da Girgenti, «doppo non si prosequì e restò imperfetto per l’incuria de’ frati». Così Tognoletto, Paradiso serafico, cit., l. II, p. 211. 83 Sulla complessa vicenda della canonizzazione di Matteo da Agrigento vedi il documentatissimo Serafino M. Gozzo, Studi e ricerche sul Beato Matteo, vescovo di Agrigento, s.e., Roma 1987; l’agiografia di Ludovico M. Mariani, Beato Matteo, frate minore, vescovo di Agrigento, Kefagrafica Edizioni, Palermo 1993 e Filippo Rotolo, Il beato Matteo d’Agrigento e la provincia francescana di Sicilia nella prima metà del sec. XV , Biblioteca francescana di Palermo-Officina di studi medievali, Palermo 1996. 84 Questa e le citazioni seguenti sono tratte da Vita del servo di Dio frate ntonino di Etiopia terziario, sepolto a Santa Maria di Gesù di Caltagirone de’ Minori Osservanti, scritta da fra’ Antonino da Randazzo, cavata dal suo rocesso, preso dall’istesso padre per ordine del suo generale, BRS, ms. miscellaneo ai segni IIE13, ff. 109r/128v. La citazione è di f. 109r. 85 Francesco Aprile, Della cronologia universale della Sicilia. Libri tre, Palermo 1725, p. 543. 86 «Feci cercare i processi, ma dicono i superiori che il loro ministro se li portò.» L’incartamento contiene un biglietto firmato Paolo Pellizzeri, a cui Ottavio Gaetani aveva chiesto notizie. Vita del servo di Dio frate Antonino di Etiopia terziario, cit., f. 110r. Non sono sicura che la data della morte sia il 1592, poiché una riesumazione, «operata dopo molto tempo dalla sepoltura, con licenza del vescovo di Siracusa», trovò il 28 marzo 1589 il corpo incorrotto. Ivi, f. 123r. 87 Antonino da Randazzo, Vita et miracoli, cit., p. 125. 88 Ivi, p. 127.
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Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., p. 66. Il libro III dell’opera è dedicato ad Antonio Etiope, il libro IV a Benedetto. 90 Ibid. 91 Pedro de Mataplanes, Vida de Fray Benito de S. Fradelo, cit., p. 5. 92 Prosper Ève, Les formes de résistance à Bourbon de 1750 à 1789, in Aa.Vv., Les abolitions de l’esclavage, Ed. Unesco, Paris 19982, pp. 49-71. 93 Gli eremiti del Lanza, autorizzati nel 1551 a fondare eremi, nel 1560 si avviano verso una forma di vita claustrale nel conventino fondato per loro dal viceré duca di Medinaceli e, nel 1562, vengono soppressi e autorizzati a passare ad altre famiglie francescane. Benedetto sceglie il convento di Santa Maria di Gesù di Palermo. Vedi Giovanni Odoardi, Eremiti di San Francesco, di Monte Pellegrino, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1977, vo1. III, coll. 1199-1202. Su Hieronymus Lancea a Sancto Marco, cfr. Filippo Cagliola, Almae Siciliensis Provinciae Ordinis Minorum Conventualium Sancti Francisci, Venetiis 1644, rist. an. a cura di Filippo Rotolo, Officina Studi Medievali, Palermo 1984, pp. 154-155 e Giovanni Odoardi, Girolamo Lanza, DIP, Edizioni Paoline, Roma 1973, vol. V, coll. 451-452. 94 Dal processo del 1626, cit. in Fiume, Il Santo Moro, cit., p. 101. L’episodio riecheggia il reclutamento dell’apostolo Matteo da parte di Gesù (Marco, 2,14). 95 Antonino da Randazzo, Vita et miracoli, cit., p. 127. 96 Giacomo Todeschini, Francescani, minori, infami: i percorsi contraddittori dell’emancipazione, in “Quaderni storici”, n. 126, 2007, cit., pp. 731-742. 97 «È necessario invalidare la testimonianza di coloro che professano una fede falsa: infatti non bisogna credere a quelli che hanno rifiutato di credere nella verità», scrive Ivo di Chartres, codificatore del diritto canonico, alla fine dell’XI secolo. Cit. in Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007, p. 33. 98 Ivi, p. 26. 99 Antonino da Randazzo, Vita et miracoli, cit., p. 135. 100 Nella dedica di Pietro Salerno (1598-1666), curatore dell’edizione delle Vitae Sanctorum Siculorum di Ottavio Gaetani, si legge: «D. Didacus Enriquez de Guzman Comes Albadelista cum pro Rege Siciliam administraret, auctore ac monitore Nicolao Faranda e Societate Iesu, componendis Sanctorum Siculorum Vitis, sicula tabularia primus perquiri iussit». 101 Sara Cabibbo, Il Paradiso del Magnifico regno. Agiografi, santi e culti nella Sicilia spagnola, Viella, Roma 1996.
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Molto importante il lavoro di Maria Stelladoro, Contributo allo studio delle “Vitae Sanctorum Siculorum” di Ottavio Gaetani: inventario delle carte reparatorie, in Gennaro Luongo, Erudizione e devozione. Le Raccolte di Vite di santi in età moderna e contemporanea, Viella, Roma 2000, pp. 221-307. Sulla vicenda editoriale vedi Sara Cabibbo, Santa Rosalia tra terra e cielo, Sellerio, Palermo 2004, particolarmente pp. 41 ss. 103 Nel 1569 il viceré, marchese di Pescara, vuole una relazione sulle condizioni dell’isola e invia alcuni aristocratici di fiducia a visitare terre e città e dispone che a ciascuno di loro si accompagni un padre della Compagnia di Gesù «per guida e scorta». Da Siracusa è inviato Nicolò Faranda che trasforma l’obbedienza dovuta al viceré in occasione di esercitare la carità. Così Domenico Stanislao Alberti, Dell’istoria della Compagnia di Gesù, Palermo 1702, p. 231. 104 Vitae, processus et miracula aliquot Sanctorum Siculorum, cit. 105 Stelladoro, Contributo allo studio delle “Vitae Sanctorum Siculorum”, cit., p. 237. 106 Così la nota manoscritta che accompagna la richiesta di restituire a Faranda la Vita di san Calogero che la città di Sciacca gli invia, per ordine del viceré di Albadeliste, cit. ivi, p. 250n. 107 Neap. Sicula Catalogi, 1553-1571(Sic. 59), catalogus a Sicilia missus a. 1567 mense januario, in Archivio generale della Compagnia di Gesù, Roma, p. 194, cit. in Guastella, Lui e noi per loro, cit., p. 213 nota 8, p. 214. 108 Lucas Waddingus, Scriptores Ordinis minorum, Roma 1906. 109 Tutte le citazioni da Daça, Quarta parte de la chronica general, cit., pp. 66-68. 110 Ivi, pp. 155-169. 111 Ivi, p. 156. 112 Grégoire, Manuel de piété, cit., pp. 89-92 su Antonio e pp. 93-103 su Benedetto. 113 MartÍnez LÓpez, Tablero de Ajedrez, cit., p.123. 114 La Sacra Congregazione dei Riti accoglie in questa occasione la richiesta dell’ulteriore traslazione avanzata dal re di Spagna, ma raccomanda al cardinale di Palermo, Giannettino Doria, che il trasferimento avvenga «privatamente e senza sorte alcuna di processione […] secretissimamente e senza sorte alcuna di pubblica ostentazione o demostratione» poiché non c’è ancora stata nessuna beatificazione ufficiale da parte della Chiesa. Antonino da Randazzo, Vita et miracoli, cit., p. 178. La lettera è dell’11 marzo 1611. 115 Questa traslazione fa intravedere il conflitto tra la canonizzazione
vescovile, di lunga tradizione, e la recente istituzione della Sacra Congregazione dei Riti, tribunale apostolico istituito da Sisto V con la costituzione apostolica Immensa nell’ambito di una più generale sistemazione della Curia e a cui, sin dal 1588, è delegata l’istruttoria per la canonizzazione dei santi. Giuseppe Dalla Torre, “Processo di beatificazione e canonizzazione”, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Giuffrè, Milano 1987, pp. 932-943. Ma una dettagliata cronologia sta in Ludwig Hertling, Materiali per la storia del processo di canonizzazione, in “Gregorianum”, n. 16, 1935, pp. 170-195. 116 Cfr. ASV, SCCS, vol. 2179, Articuli pro canonizatione, c. 36v. 117 Èper l’America quello che Caterina da Siena è per l’Italia e Teresa d’Avila per la Spagna. Nicolò Del Re, Rosa da Lima, in BS, cit., vol. XI, 1968, coll. 396400. Aa.Vv., Santa Rosa de Lima y su tempo, Lima 1995; Francesca Cantù, Rosa da Lima e il “mistico giardino” del Nuovo Mondo: identità e trasfigurazione di una santa nell’immaginario sociale peruviano, in Gabriella Zarri (a cura di), Ordini religiosi, santità e culti: prospettive di ricerca tra Europa e America Latina, Congedo editore, Lecce 2003, pp. 87-108. 118 Benedetto avrebbe incitato i confratelli a non sprecare nemmeno una briciola del cibo, perché rappresentava il sangue dei poveri, dato loro in elemosina e, quando egli strizzava lo “stoppaglio” (italianizzazione dello spagnolo estropajos, stracci talvolta legati a un bastoncino, con cui si lavavano le stoviglie), ne usciva sangue. Così testimonia al processo Antonio Maria Bonuccio, il 26 agosto 1716, ASV, SCCS, Articuli, c. 402v. 119 Fra’ Baltasar de San Diego, al secolo Morillo, 13 agosto 1716, ivi, c. 360r. 120 Fra’ Giovanni Fernandez y Zagudo, 4 luglio 1716, ivi, c. 236r. 121 Fra’ Francesco di Sant’Elena, 5 agosto 1716, ivi, c. 323r. 122 Fra’ Filippo del Portogallo, 1° marzo 1731, ivi, c. 470v. 123 Alessandro Dell’Aira, La fortuna iberica di San Benedetto da Palermo, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti”, Palermo 1992; Id., Da San Fratello a Bahia. La rotta di San Benedetto il Moro, Magazzini di Arsenale, Trento 1999; Vittorio Morabito, San Benedetto il Moro da Palermo, protettore degli schiavi di Siviglia, della penisola iberica e d’America latina, in Berta Ares Queija, Alessandro Stella (eds.), Negros, mulatos, zambaigos, Escuela de Estudios Hispano-Americanos, Sevilla 2000. 124 ASV, SCCS, Articuli, vol. 2179, cit., Don Paolino de Velasco, 28 settembre 1715, cc. 67r. e v. 125 Ivi, c. 72r. 126 La testimonianza dell’energumena è tratta dal processo intentato a carico di
Rosa dal Santo Uffizio per affettata santità, studiato da Luiz Mott, Rosa Egipcíaca: de escrava da Costa da Mina a Flor do Rio de Janeiro, in Mariza de Carvalho Soarez (organizadora), Rotas atlânticas da diáspora africana: da Baía do Benim ao Rio de Janeiro, Editora da Universidade Federal Fluminense, Niterói 2007, p. 141. 127 ASV, SCCS, Articuli, vol. 2179, cit., fra’ Giovanni Fernandez y Zagudo, 4 luglio 1716, ivi, c. 193r. 128 Ivi, cc. 270r. e v. 129 Ivi, cc. 238v. e 279v. 130 Padre Alessio della Solitudine, 29 luglio 1716, ivi, cc. 300r. e 312r. 131 Bernard Vincent, Les Confrèries de Noirs dans la Péninsule Ibérique (XVeVIIIe siècles), in David Gonzáles Cruz (a cura di), Religiosidad y costumbres opulares en Iberoamérica, Actas del primer encuentro internacional, Almonteel Rocío (España), 19-21 febbraio 1999, Universidad de Huelva-CER, 1999. 132 Mariza de Carvalho Soares, O Imperio de Santo Elesbão na cidade do Rio de Janeiro no século XVIII , in “Topoi”, marzo 2002, p. 61. 133 A.C. de C.M. Saunders, ASocial History of Black Slaves and Freedman in Portugal, 1441-1555, Cambridge University Press, Cambridge 1982, p. 152. 134 Alessandro Dell’Aira, Il santo nero e il rosario: devozione e rappresentazione, in Fiume, Il santo patrono e la città, cit., pp. 164-179. Dallo studio delle fonti inquisitoriali siciliane, apprendiamo che l’uso del rosariocomboloya e la devozione alla Vergine del Rosario erano diffusissimi presso la comunity nera e mora di Sicilia, per la quale era anzi motivo di identificazione. Così Messana, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna, cit., e José Ramos Tinhorão, Os Negros em Portugal. Uma presença silenciosa, Editorial Caminho, Lisboa 1988, pp. 126-127. 135 ASV, SCCS, Articuli, cit., cc. 217v. 218r. Nazione etiope e nazione negra sono qui usati come sinonimi; comunemente con il riferimento alla Ethiopia si intende evocare la priorità della conversione di quell’area rispetto alla stessa Europa. 136 Fra’ Francesco di Sant’Elena, 5 agosto 1716, ivi, c. 323r. 137 Lo apprendiamo dai loro testamenti (dal 1790 al 1835), che lasciano case terrane, talvolta con il tetto di paglia, i ricavati di un’attività di piccolo commercio e lo schiavo che tutti posseggono. Vedi Mariza de Carvalho Soares, Devotos da cor. Identidade etnica, religiosidade e escravidão no Rio de Janeiro, seculo XVIII , Civilização brasileira, Rio de Janeiro 2000, pp. 135, 139. 138 ASV, SCCS, Articuli, cit., c. 332r.
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Paul E. Lovejoy, Enslaved Africans in the Diaspora, in Id. (ed.), Identity in the Shadows of Slavery, Continuum, London-New York 2000. 140 Julita Scarano, Devoção e escravidão, Companhia Nacional, São Paulo 1978, p. 108. La stessa caratteristica interetnica hanno le confraternite nere in Portogallo, secondo Didier Lahon, Le confraternite nere in Portogallo, in “Nuove effemeridi”, n. 54, 2001, cit., pp. 83-96. 141 Caio César Boschi, Os leigos e o poder, Editora Atica, São Paulo 1986, p. 3. 142 Oscar Beozzo, Il culto dei santiedella Vergine nella prima evangelizzazione del Brasile, in Zarri (a cura di), Ordini religiosi, santità e culti, cit., p. 148. L’autore fa notare la scarsa influenza degli schiavi, nonostante la loro maggioranza numerica tra i fedeli, nella struttura della Chiesa: al loro santo più popolare (são Benedito) è dedicata a tutt’oggi in Brasile una sola parrocchia. 143 De Carvalho Soares, Devotos da cor, cit., p. 153. 144 Ann Mulvey, The Black Lay Brotherhoods of Colonial Brazil, Ph.D. University of New York, New York 1976, cit. in Marina de Mello e Souza, Reis negros no Brasil escravista, Editora UFMG, Belo Horizonte 2002, pp. 162 ss. 145 Célia Maia Borges, Devoção branca de homens negros, cit. ivi, p. 195. 146 João Antonio Andreoni (André João Antonil), Cultura e opulência do Brasil, Itatiaia, Belo Horizonte 1982, p. 164. 147 De Carvalho Soares, Devotos de cor, cit., p. 196. 148 Sui conflitti che oppongono neri, schiavi e liberi a meticci, mulatti e creoli vedi Scarano, Devoção e escravidão, cit. 149 De Mello e Souza, Reis negros, cit., p. 200. 150 Scarano, Devoção e escravidão, cit., p. 113. 151 Ma il suo Compromisso, approvato nel 1565, menziona la costruzione della cappella per «neri venuti da terre lontane» nel 1460. Nel 1549 re João III avrebbe consentito la collazione di elemosine per le strade di Lisbona. Così Mulvey, The Black Lay Brotherhoods, cit., pp. 17 e 23. Nel 1586 (nel 1589 secondo altri), i Gesuiti organizzano la Irmandade de Nossa Senhora do Rosario «con il fine di promuovere la pietà e l’istruzione religiosa di Indi e di Negri». Così Júlio Santana Braga, Sociedade protetora dos desvalidos, Ianamá, Salvador de Bahia 1987. Non va taciuto il ruolo propulsore dei Gesuiti nell’organizzazione religiosa degli schiavi africani, insieme ai Domenicani, agli Agostiniani e ai Francescani. 152 ASV, SCCS, Articuli, cit., c. 646r. 153 Ascrivere è Nuñez Mūlāy, difensore della comunity morisca di Granada,
che testimonia la persistenza dell’espressione delle culture tradizionali dei gruppi africani. Cit. in Martín Casares, La esclavitud en Granada del siglo XVI , cit., p. 423. 154 Cit. in Baltasar Fra Molinero, La imagen de los negros en el teatro del Siglo de Oro, Siglo XXI Editores, Madrid 1995, p. 38. 155 L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, cit., p. 11. 156 De Carvalho Soares, Devotos da cor, cit., p. 158. 157 De Mello e Souza, Reis negros, cit., p. 303. 158 Simon Ditchfield, Decentering the Catholic Reformation: Papacy and Peoples in the Early Modern World, paper given to the Summer School “Belief and Unbelief”, University of Warwick, 15 July 2008, p. 28 del dattiloscritto. Ma cfr.Id., On Dancing Cardinals and Mestizo Madonnas: Reconfiguring the History of Roman Catholicism in the Early Modern Period, in “Journal of Early Modern History”, 8, 3-4, 2004. Ringrazio Ditchfield per avermi richiamata all’importanza di questa reciprocità. 159 Ronnie Pochia Hsia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), il Mulino, Bologna 2001, p. 223. 160 Carlos Rodrigues Brandão, A festa do Santo Preto(Funarte, Rio de Janeiro 1985), descrive e illustra la complessa ritualità della festa del Rosario, l’ordine dei gruppi che sfilano nella parata, la disposizione dei figuranti, le canzoni ecc. Alfredo JoãoRabaçal, As Congadas no Brasil(Secretaria da Cultura, Ciência e Tecnologia, Conselho Estadual de Cultura do Estado de São Paulo, São Paulo 1976), fa una rassegna di tutti i tipi di congadas dandone un calendario città per città. Ma vedi sul tema l’aggiornata bibliografia contenuta in de Mello e Souza, Reis negros, cit. 161 Ma già nella prima decade del Seicento è installata dentro il monastero di San Francesco la Confraria da Virgen de Guadalupe e de San Benito. Vedi Didier Lahon, O Negro no coraçao do Império, Ministerio da Educaçao, Lisboa 1999, p. 67. Della Confraria de Nuestra Señora de la Salud y San Benito de Palermo y Santa Ifigenia abbiamo notizia a Cadice nel 1664, secondo Hipólito Sancho de Sopranis, Las cofradías de morenos a Cadíz, Libreria García, Madrid 1958. 162 Così William Beckford, Voyage au Portugal. La descrizione riguarda la processione del 13 giugno 1787, cit. in Lahon, O Negro no coraçao do Império, cit., p. 163 Njinga Bandi, nata nel 1582, fu dal 1623 al 1633 a capo dei popoli Ambundos-Jagas. Il popolo Jaga è guerriero, abita in accampamenti chiamati
quilombos e pratica il cannibalismo rituale. Poiché non ci sono antecedenti di regalità femminile, Njinga governa dapprima in nome del figlio minore del fratello, finché non lo uccide e ne usurpa il trono. Divenuta regina (Ngola), capeggia battaglie e veste da donna i suoi concubini. Si fa battezzare nel 1622 a Luanda con il nome di Ana de Sousa. Dopo di lei, per altri cento e quattro anni altre donne saliranno sul trono del regno Ndongo e Matamba. La fama di Njinga è costruita nell’ambito della lotta contro il dominio portoghese. Cfr. Joseph C. Miller, Queen Nzinga of Matamba in a New Perspective, in “Journal of African History”, 16, n. 2, 1975, pp. 201-216. 164 Nel caso del cordão de Marambiré, festa cattolica di un quilombo dell’area amazzonica. Cfr. Eurípedes Funes, “Nasci nas matas, nunca tive Senhor”, cit. in de Mello e Souza, Reis negros, cit., p. 222. 165 Carl Israel Ruder, Viagem em Portugal (1798-1802), cit. in Lahon, ONegro no coraçao do Império, cit., p. 73. 166 Ivi, p. 76. 167 Le citazioni sono tratte da de Mello e Souza, Reis negros, cit., pp. 278, 283, 288, 298. 168 AGS, Estado, leg. 1162, doc. 195. 169 L’ordine, del 1° giugno 1608, sta in BCP, ms. ai segni 3QqC36, n. 19, c. 304v. 170 Antonino Giuffrida, Schiavitù e mercato del lavoro nella Sicilia rinascimentale, in “Nuove effemeridi”, n. 54, 2001, cit., pp. 30-46. 171 Sulle comedias de santos di Lope de Vega e degli altri scrittori del Siglo de oro cfr. Fiume, Il santo moro, cit., particolarmente pp. 192 ss. 172 Fray Diogo do Rosario, Flos sanctorum, cit., al cap. su Benedetto. 173 Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, Sellerio, Palermo 1989. 174 Tognoletto, Paradiso serafico, cit., I, p. 323. 175 Ivi, p. 324. 176 Ivi, p. 319. 177 Su Bonaventura Secusio da Caltagirone, primo generale dei frati Minori Osservanti cfr. Alvise Spadaro, Note sulla permanenza di Caravaggio in Sicilia, in Maurizio Calvesi (a cura di), L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, Arnaldo Lombardi Editore, Siracusa 1987, pp. 289292. 178 Così il Capitolo di Toledo del 1606, in Chronologia historico-legalis Seraphici Ordinis Fratris Minorum, Napoli 1650, p. 6101. 179 Ibid.
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In Brasile, invece, «in confronto ai Gesuiti, gli altri ordini erano meno attivi all’inizio dell’era coloniale», secondo Charles Verlinden, Le origini della civiltà atlantica, Avanzini e Torraca, Roma 1968, p. 259. Sui Gesuiti vedi Paolo Broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Europa e America, secc. XVI-XVII , Aracne, Roma 2004. 181 Fray Diego de Córdoba y Salinas, Vida, virtudes y milagros del nuevo póstol del Pirú, Lima 1630. «Apostolo del Perù» fu per la sua attività di evangelizzazione di molti «infelici Indiani schiavi di Satana e che vivevano come animali selvatici». Beatificato da Clemente X nel 1675 e proclamato patrono di numerose città di Bolivia, Perù, Uruguay, Paraguay, Cile, Argentina e poi canonizzato da Benedetto XIII nel 1726. 182 Marcellino da Civezza, Storia universale delle missioni francescane, Prato 1891, vol. IX, p. 33. 183 Relación histórica de la erección de la provincia de Franciscanos, Bogotà 1853, p. 4. 184 Su Benigno da Genova vedi Tognoletto, Paradiso serafico, cit., I, pp. 566568. 185 Chronologia historico-legalis Seraphici Ordinis Fratris Minorum, cit., pp. 526-537. 186 Lino Gómez Canedo, La provincia franciscana de Santa Cruz, Academia Nacional de la Historia, Caracas 1974, t. I. Id., Las misiones de Píritu, Academia Nacional de la Historia, Caracas 1967, t. I, voll. I e II. L’autore analizza l’evangelizzazione domenicana e francescana dell’area sita tra Orinoco e Rio Negro, dove si fonda la città di Nueva Barcelona. 187 Cit. in Jesús Alberto García, Africanas, esclavas y cimarronas, Ediciones Los Heraldos Negros, Caracas 1996, pp. 35-36. 188 Nel XVII secolo le missioni francescane raggiungono in quest’area una straordinaria diffusione territoriale, estendendosi dal Rio delle Amazzoni a San Paolo, contando su un commissariato nel Pary, su due province e varie fraternity terziarie, costruite queste ultime non solo vicino ai conventi, ma anche in aree che ne erano del tutto prive, come esemplifica il caso di Ouro Preto in Minas Gerais. Anche le province brasiliane inviavano rappresentanti ai Capitoli. 189 Come scrive Vaquero Rojo, San Benito de Palermo, cit., p. 25. In Brasile sarebbe giunto intorno al 1610, secondo Apolinario da Conceição, Flor eregrina por Preta, Lisboa 1744, p. 238. 190 Cit. in Juan de Dios Martínez Suárez, El culto a San Benito de Palermo en Venezuela, Editorial La Llama Violeta, Maracaibo 1999, p. 20. Dal 1880 il culto
è ampiamente documentato nell’area di Maracaibo. 191 Il governatore era intervenuto, su istanza del tribunale ecclesiastico nel 1793, ma con scarsi risultati, nonostante raccomandazioni, minacce di pene e promesse di premi «al fine di estirpare dalla radice questo disordine». Real hacienda, t. 1429, Libro de Cofradías, Archivo Nacional Venezuela, cit. ivi, p. 87. 192 C. Fuentes, D. Hernandez, San Benito de Palermo, in “Revista Bigott”, A. VI, n. 10, 1987, pp. 7-8. 193 Chocho prima che il santo lasci la chiesa; Ajé per chiedere che venga fuori; Chimbanguelero Vaja quando è già per strada; poi Misericordia e Cantica, infine Los saludos a los Capitanes. Tutti questi canti sono anche ballati dai partecipanti alla processione. Cfr. le figure del ballo in Juan de Dios Martínez Suárez, Como bailar Chimbangueles, Cultura de la Universidad del Zulia, Caracas 1992. Id., San Benito de Palermo, cit. I tamburi di San Benito sono di 70-100 cm di altezza e di 20-40 cm di diametro (ma più stretti alla base) e sono di provenienza africana, secondo Jesús Alberto García, Bartolomé Duysens, Afrovenezuelan Reflections. The Drums of Liberation, Ediciones Los Heraldos Negros, Caracas 1999. 194 Juan de Dios Martínez Suárez, Gaita de tambora, Colección danzas étnicas y tradicionales, no. 2, Consejo Nacional de la Cultura-Fundajé, Maracaibo, senza data. 195 Stalin Gamarra Durán, La semiosis entre el mito, el rito y la fiesta, http://w1.461/.telia.com[chimbangle.html]. 196 Come Shango, dio del tuono; Ogun, dio della guerra e del ferro; Olukum, divinità femminile del mare e Oko, dio dell’agricoltura. 197 Gibraltar, fondata nel XVI secolo, ha – per la sua collocazione sul lago di Maracaibo e per essere l’approdo commerciale della zona andina – un ruolo cruciale nella geografia della tratta, che lì smerciava gli schiavi per le coltivazioni di cacao e tabacco della zona e li raccoglieva per inviarli verso Vera Cruz e altre destinazioni; fu incendiata sette volte dal 1600 al 1678 – nel 1669 dal pirata Morgan. Attorno al lago, tutti conoscono vita e miracoli del Santo Moro «che per il negro del Sud del lago è il suo protettore completo. [Amando Soto, uno degli informatori] poiché è negro africano non crede a nessuna immagine bianca […] Per il signor Simón Arrieta Gibraltar senza San Benito è come Maracaibo senza la Chinita». Britto García, La Pascua negra de San Benito, http://www.ultimasnoticias.com.ve). 198 La descrizione della festa sta anche in Carlos Rafael Bellorín Carmona, Los
ojos del pueblo, s.e., Mérida 20012, pp. 147-170. Ma Axé/Ajé è per il candomblé brasiliano «forza sacra legata a un Orisha», «forza o potere contro le influenze malefiche» e anche «fondazione magica di una casa di culto», oppure «oggetti consacrati dotati di una forza specifica». Per Bastide equivale all’energia vitale, una specie di mana (Roger Bastide, Les religions africaines au Brésil, PUF, Paris 1998). Proveniente dal termine yoruba àsè, «ordine, comandamento, autorità» è un attributo di Exu, il dio mediatore, messaggero e interprete degli Orisha, che si divide in numerose figure miticorituali. Anche Exu ha origine yoruba. Cfr. Stefania Capone, La quête de l’Afrique dans le camdomblé , Karthala, Paris 1999, pp. 234-235. 199 Maria de Lourdes Borges Ribeiro, Adança do Moçambique, cit. in Luís da Câ-mara Cascudo, Made in Africa, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1965, p. 31. 200 Hermógenes Lima da Fonseca, Rogério Medeiros, Tradições populares no Espírito Santo, Departamento Estadual de Cultura, Divisão de Memória, Vitória 1991. 201 Mello Moraes Filho, Festas e tradições populares no Brasil, Itatiaia, Belo Horizonte 1979, pp. 104-105. 202 Nell’area dell’Africa centrooccidentale, la macroregione bantù (macrogruppo con lingua e cultura simili, organizzato in famiglie, aldeie, clan, regni e confederazioni) fu lo scenario ideale per la produzione di schiavi per le rivality e le contraddizioni interne delle Society africane, esacerbate dalla richiesta pressante di schiavi che uscivano dal porto di Loango (controllato da inglesi, francesi e olandesi) e di Luanda e Benguela (controllati dai portoghesi). La cultura panbantù si può rintracciare dove prevalgono schiavi dell’Africa centrooccidentale, come ad esempio in alcune regioni del Brasile. 203 Come accade anche per sant’Antonio, scolpito nella radice di pino dagli schiavi dello stato di San Paolo nel XVIII e XIX secolo, secondo Francisco de Castro Ramos Neto, “No de pinho”, in Emanoel Araújo et al., Os herdeiros da noite, Pinacoteca do Estado, São Paulo 1994. La parola portoghese feitiço significa magia, sortilegio. 204 La madre ordina di metterlo in una cesta e gettarlo nel fiume, ricordando molto da vicino la vicenda di Mosè. Santa Ifigenia e un gruppo di donne che andavano a lavare i panni nel fiume raccolgono la cesta e, portatala a casa, la aprono evi trovano un bambino bianco e con gli occhi azzurri. Cresciuto nel loro convento, dove svolge la funzione di cocinero, ottiene dal Signore il colore nero della pelle così da sottrarsi alle profferte amorose delle donne.
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Per il Venezuela cfr. Santos patronos, in Atlas de tradiciones Venezolanas, n. 5, Fundación Bigott, Caracas, senza data. Ugualmente in Brasile são Jorge fu riconvertito in Odé, Oxóssi e Ogum; são Antônio in Exu; são Jerônimo in Xangô; santa Bárbara in Iansã e Nossa Senhora in Iemanjá. Sui culti a san Bartolomeo in Brasile vedi Vittorio Giustolisi (a cura di), São BartolomeoOshoumaré nella Bahia de todos os Santos, Centro di documentazione Paolo Orsi, Palermo 2002. E in Brasile Benito corrisponderebbe allo spirito del vaiolo, l’Orisha chiamato in yoruba Omulu-Obaluayé (Bastide, Les religions africaines au Brésil, cit., p. 366) oppure a Ossâim, il difensore della fitomedicina, una divinità che vive solitaria nella foresta di cui conosce tutti i segreti (Gérard Police, La fête noir au Brésil, L’Harmattan, Paris 1996 pp. 246-7). 206 La «colonizzazione dell’immaginario» non è un atto unilaterale e presuppone un forte dinamismo dei colonizzati che spiega parte dell’esito del processo (Serge Gruzinski, La colonizzazione dell’immaginario, Einaudi, Torino 1994; Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino 1984). Accettazione-adatta-mentoreazione: gli africani tratti in America erano popoli con complessi sistemi sociali, politici e religiosi che la condizione di schiavitù traslocava nel Nuovo mondo, senza distruggerne habitus mentali, modi di pensare e sentire. Il concetto di sincretismo non considera a fondo la relazione di dominio presente nel contatto tra culture, come sostiene Melville Jean Herskovits, The Myth of the Negro Past , Beacon Press, Boston 1958. 207 Dove però, in Brasile, per la preponderanza numerica degli schiavi yoruba, importati nel XVII secolo in massa dalla costa degli schiavi (Lagos divenne il punto strategico del traffico negriero del golfo di Guinea) produce l’intreccio, soprattutto religioso, della cultura gegenagô. I Vodoun del Dahomey, soprattutto a Bahia, vennero assorbiti dagli Orisha dei Nagô. 208 Alle donne erano inoltre affidati delicati incarichi nel governo e nell’amministrazione: ad ogni funzionario statale era assegnata una controparte femminile, o «madre», con funzione di sorveglianza e di controllo sulle sue decisioni e scelte. Un gruppo di otto donne, inoltre, era sempre presente alle riunioni del re con i suoi consiglieri e un altro a quelle con i ministri e i sacerdoti. Herskovits, The Myth of the Negro Past , cit., p. 84, 111. Ma sul regno del Dahomey cfr. Paul Mercier, The Fon of Dahomey, in Daryll Forde (ed.), frican Worlds. Studies in the Cosmological Ideas and Social Values of African Peoples, Oxford University Press, London 1954. 209 Karl Polanyi et al., Dahomey and the Slave Trade, University of Washington Press, Washington 1966, p. 50.
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Todeschini, Visibilmente crudeli, cit., p. 54. 211 Simona Cerutti, Giustizia sommaria. Pratiche e ideali di giustizia in una Society di Ancien Régime (Torino XVIII secolo), Feltrinelli, Milano 2003, p. 77. 212 Simona Cerutti, Robert Descimon, Maarten Prak, Premessa a Cittadinanze, “Quaderni storici”, n. 89, 1995, p. 282. 213 Giovan Francesco Pugnatore, Historia di Trapani. Prima edizione dell’autografo del secolo XVI ora a cura di Salvatore Costanza, Trapani 1984, p. XVII. 214 Ivi, p. 63. 215 Ibid. 216 Ivi, p. 64. 217 Ibid. 218 Ivi, p. 65. 219 Ivi, p.64 220 Ibid. 221 Ivi, p. 64. 222 Ivi, p. 65 223 Ibid. 224 Poiché «le navigazioni e i cambi di denari da’ banchieri esercitati vadano di sua natura insieme congiunti […] i Biscaini, tosto che da Cristofor Colombo furono scoperti i novi paesi del mondo, dalle navigazioni di queste parti a quelle nove co’ loro vasselli si volsero. Le navi de’ Portoghesi parimente, dapoi che i re loro dell’occidental costa della Guinea e dell’Indie orientali appresso si impadronirono, altrotanto pur fecero il camino di qua a quei novi paesi voltando. I vasselli catalani, che il porto di questa città spesso usare solevano per il passaggio che quindi in Alessandria a caricar spezierie facevano, lasciarono ancor essi di venirvi, andando a caricarle a Lisbona in Portogallo, venutavi ormai un grande et abbondevol mercato di esse. E finalmente i Francesi […] hanno già infin da molti anni adietro giudicato esser meglio d’usar nelle loro bisogne il porto di Messina che questo», contrariamente a quanto facevano per l’addietro. Ivi, p. 141. 225 «Perciò che, siccome erano persone che, per cagion prima dell’aere assai improprio alla naturale lor complessione, e poi dei grandi e continovi loro disagi, erano più dell’altre corruttibili, così eziandio erano più di tutt’altre a quel contagioso morbo soggette.» Ivi, p. 189. 226 Ibid. 227 Ivi, p. 190.
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De Mello e Souza, Reis negros no Brasil escravista, cit. 229 Edward P. Thompson, Customs in Common, Penguin, Londra 1991. 230 Vedi Moraes Filho, Festas e tradições, cit. 231 Luis Soler y las Balsas, Vida de la venerable negra, la madre Sor Theresa Juliana de Santo Domingo, de feliz memoria: religiosa profesa de la Tercera orden de N.P. Santo Domingo en el religiosissimo convento de Dominicas, vulgo de la penitencia, de la ciudad de Salamanca, la escrivia un devoto de San Vicente Ferrer, y la consagraba al mismo santo, ms. del 1757, in SA, c. 4r. 232 Ivi, c. 14v. 233 Ivi, c. 22r. 234 Il riferimento è all’imperatore Giuliano (331-363), definito nella tradizione cristiana “l’apostata” per avere abbandonato il cristianesimo e cercato di restaurare la religione romana. 235 Soler y las Balsas, Vida de la venerable negra, cit., c. 29r. 236 Ivi, c. 50r. 237 Ivi, c. 54r. 238 Vicente Ferrer o Vincenzo Ferreri (1350-1419), sacerdote spagnolo dell’ordine domenicano, nella sua pluridecennale attività di predicatore attraversa l’Europa e in particolare la Spagna ottenendo, grazie al tono apocalittico dei suoi sermoni, alla sua abilità oratoria e alla sua fama di taumaturgo, numerose conversioni, soprattutto di musulmani e di ebrei. Le sue predicazioni in Castiglia e Aragona avrebbero trascinato gruppi di ebrei al fonte battesimale (e spinto le autorità cittadine a misure antiebraiche). In contemporanea alle sue accese predicazioni nel 1413 ha luogo la celebre disputa di Tortosa, un vero e proprio processo al Talmud a cui gli ebrei erano obbligati ad assistere, nel corso della quale il neoconverso Girolamo di Santa Fè dibatte con i maggiori esperti spagnoli di ebraismo. «Le conversioni a quanto pare furono numerosissime, specie tra […] rabbini ed ebrei di corte. Per le comunity ebraiche, già minate dai pogrom del 1391, gli effetti di questa disputa furono disastrose.» Alessandro Vanoli, La Spagna delle tre culture. Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Viella, Roma 2006, p. 156. 239 Soler y las Balsas, Vida de la venerable negra, cit., c. 79v. 240 Ivi, c. 78v. 241 Ivi, c. 85v. 242 Ivi, c. 98r. 243 Ivi, c. 107v.
3. Dalle parti degli infedeli
3.1 Canonizzare in schiavitù Il 30 maggio 1631 ha inizio il processo di canonizzazione di Juan de Prado, uno dei tanti che la Chiesa avvia per scrutinare i servi di Dio degni di aspirare alla gloria degli altari. Sin dalle prime pagine dell’incartamento, però, emerge la peculiarità di questo caso: Matias de San Francisco, dei frati Minori Scalzi della più stretta osservanza, nonostante abbia avuto patente da Bernardino da Siena, generale di tutto l’ordine, autorità dal nunzio apostolico del regno di Spagna e licenza dal ministro provinciale Giovanni Ximenez, dichiara: «Poiché io sto preso in una carcere o priggione oscura con il mio compagno e non posso accudire personalmente alla verificazione et esame delli testimoni, nomino et sostituisco per la detta verifica il dottor Andrea Camelo, schiavo e medico del re del Marocco, dottore graduato in medicina, nativo di Conil in Andalusia dandogli tutte le facoltà e privilegi e facendolo giurare sugli Evangeli».1 Dunque, un frate prigioniero affida a un medico schiavo il compito di collazionare le testimonianze che, inviate all’autorità apostolica, consentono di avviare il processo vero e proprio. Questi, a sua volta, nominerà segretario Emanuel Alvarez, «schiavo e capitano delli altri schiavi cristiani di questa città».2 Spagnoli o portoghesi, sono tutti schiavi i testimoni a questo processo: uno dopo l’altro, mentre raccontano le imprese del «glorioso atleta di Cristo» – come lo definirà successivamente il breve papale di beatificazione –, essi dipingono il multiforme mondo della schiavitù di età moderna in terra d’Africa.
Dalle loro parole ricostruirò la figura e l’opera del frate e il contesto entro cui si svolge e conclude la sua tragica esperienza. Processo dopo processo, per tutto il Seicento si ascolteranno i testimoni de visu degli avvenimenti in questione, infine quelli che hanno udito da chi ha visto (de auditu a videntibus, ad esempio a Sociis Patris Johannis) oppure solo da chi a sua volta ha udito da chi ne aveva sentito parlare (de auditu ex audientibus dai presenti all’evento ecc.) ochi ne ha letto dalle prime agiografie (de auditu ex lectura librorum), in un procedimento che accoglie testimoni fededegni e possessori di reliquie, tutti attestanti le virtù e i miracoli legati alla tragica fine del nostro frate, costruendo e amplificando la sua fama di santità. I processi seguono l’ordine stabilito dai decreti di Urbano VIII sul modo di procedere in questa delicata materia, e le domande diventano via via più selettive, interessate ad appurare inizialmente l’intera esperienza della missione e il suo tragico epilogo, successivamente aspetti sempre più minuziosi e solo apparentemente secondari del martirio del frate. Ma chi è Juan, che cosa lo ha spinto in Marocco e come ci è arrivato?
Il regno del Marocco in età moderna
3.2 Andare tra gli infedeli Nato nel 1563 a Mongrovejo (Morgovejo) da Sancio, secondogenito della casata de Prado, notissima nel regno di León, e dalla catalana Isabella d’Armenson, presto orfano, viene istruito da un parente, l’arcipresbitero Floran de Pedrosa, e poi inviato all’Università di Salamanca;3 prende l’abito della stretta osservanza di san Francesco nel convento di Roccamador (provincia di Badajoz) nel 1584, dimentico di patria e famiglia si esercita nello studio e nella penitenza e prende i voti nel 1585. Questi cenni biografici sono tratti dalla prima biografia del futuro martire, scritta nel 1652 da un frate che ha accesso agli archivi della provincia cui appartiene Juan e contatti con molti laici e religiosi che lo hanno conosciuto.4 Un’accurata ricerca genealogica negli archivi notarili, accolta come veritiera dagli agiografi successivi, farebbe ipotizzare invece la sua nascita illegittima da Francisco de Prado (XII signore della casata),5 messa in ombra dal biografo dell’ordine – se la sua origine fosse stata a suo tempo maliziosamente occultata, la sua professione non sarebbe stata valida. L’arciprete a cui sarebbe stato affidato, in questo caso, potrebbe essere parente della madre, appartenente anch’ella a una famiglia di piccola nobiltà provinciale. Ad ogni modo, Juan, quasi a compensare la sua condizione di figlio naturale, «poteva gloriarsi di provenire da ambo i lati, tanto paterno, quanto materno, da lignaggi di hidalgos».6 Dagli otto ai quattordici anni studia nel collegio dei gesuiti di León e passa poi, come già detto, all’Università di Salamanca, in quegli anni al suo apogeo, frequentata da cinquemila studenti spagnoli, portoghesi, irlandesi, appartenenti a tutti gli ordini religiosi. Nel 1584 interrompe gli studi e si fa frate, rifiuta l’offerta di raggiungerlo fattagli da uno zio paterno, abate benedettino a Valladolid, e si dirige verso l’Estremadura, dove, nel convento di Roccamador, pronuncia i voti. Qui continua i suoi studi e, nel 1591, ottiene l’ordinazione sacerdotale; quindi passa nel convento degli scalzi della provincia di San Gabriele. Nonostante sia sacerdote e predicatore, non disdegna di sottoporsi ai lavori più umili: «S’esercitava nel pulire la casa con la scopa alla mano, lavava i piatti nella cucina, poliva e purgava d’erbe i viali dell’orto, [...] portava sopra le spalle la legna alla cucina, e si adattava a ogni più vile esercizio, come [fosse] il più infimo del convento. Essendo Superiore sparecchiava le mense, baciava li piedi alli Religiosi, e prostrato per terra diceva le sue colpe con tanta umiltà, come se fusse un Novizio»;7 si fa calpestare alcune volte dai frati che entrano in
refettorio, mettendosi disteso davanti alla porta, e va alla questua come tutti gli altri religiosi. Conduce una vita di digiuni e penitenze, «vile, aspro e grossolano» il saio, scalzi i piedi, una tavola, un sughero o una pelle di pecora il suo letto, veri strumenti di tortura i suoi cilici: un «cilicio di latta grumosa gli cinge il petto fino alla cintura, un altro di maglia gli abbraccia il petto e le spalle a maniera di corazza [...]. Aveva altro cilicio di punte di cardi a guisa di gippone [...] e portava continuamente una Croce di acciajo con trenta e tre punte stretta al petto».8 L’ordine francescano è impegnato nell’attività di evangelizzazione del Nuovo mondo e Juan condivide con molti confratelli il desiderio di recarsi nelle Indie – non è solo gesuita il fenomeno degli Indípeti –, pensando al «frutto» di conversione che la predicazione della fede presso i popoli barbari poteva produrre. «Andava cercando occasioni di vedere che modo poteva tenere per andare fra gli Infedeli a predicare la Fede e questo era molti anni che lo desiderava, [...] da che era corista lo desiderava»,9 finché non gli si presenta l’occasione di andare a Guadalupe. Ma «un santo frate il quale era stato suo maestro nella provincia di San Gabriele, gli disse che terminasse i suoi studi [...] e che non era tempo di pigliare l’impresa, che a tempo suo compirebbe Iddio li di lui desiderij, e con questo passarono alcuni giorni e anni nelli quali lo fecero Guardiano tre o quattro volte e Definitore altrettante e, quando si divise la provincia di San Diego dell’Andalusia da quella di San Gabriele, lo fecero provinciale e disse che ammise quel Provincialato solamente con intenzione di havere occasione di andarsene in Affrica».10 Vi furono anche altri impedimenti all’agognato viaggio nelle Indie, in quanto «quell’anno si perse la flotta della nuova Spagna il generale Benavides, pigliandosela l’Olandese, e così quell’anno non vi fu flotta in Spagna per il Messico»11 e i frati non poterono andare. Nel settembre 1629, in effetti, Piet Heyn intercetta e cattura il convoglio che porta l’argento della Nuova Spagna: «era la prima volta che l’argento americano cadeva in mani nemiche».12 Durante il suo provincialato invia ad al-Ma‘mūrah due frati, Michele di San Diego e Biagio di San Raffaele, «perché procurassero aprire il passo per entrare in quella Terra, incaricandoli di prendere amistà coi Mori, perché lo ingresso fusse più facile».13 I due francescani restano nel presidio, governato da don Diego de Escovedo, cavaliere di San Giacomo, per un anno e mezzo; imparano l’arabo e avvisano Juan delle necessità degli schiavi, che, senza conforto religioso, rinnegano con gran facilità. Nel convento di Cadice si trova anche Matias de San Francisco, già tornato dalle Indie «stracco», il quale dichiara nella
sua deposizione del 30 agosto 1631: «Poiché avevo mostrato inclinazione nella conversione degli infedeli, Juan mi volle per primo compagno»14 nella missione che ha in animo di compiere. Juan gli dice: «“Fratello che facemo qui? Che sappiamo se arriveremo ad un altro anno? E così aspettare un altro anno e un’altra flotta mi pare grande dilazione; procuriamo un’altra cosa spirituale, come andare tra gli Infedeli”. E questo lo diceva con tanto grande fervore e imbriacato in spirito, che pareva di essere fuori di sé. E io gli risposi: “Fratello e padre mio, dove dobbiamo di andare?” [e Juan rispose:] “Fratello andiamo tra questi Mori di Barberia”».15 Stabilita la destinazione, comincia a questo punto la ricerca dei contatti che possano servire a realizzare l’impresa per cui i due frati vanno a trovare Alonso de Herrera Torres, un facoltosissimo e devoto mercante che da Cadice commercia con il Marocco, dove tiene agenti e servitori. Questi prospetta loro sin dal primo istante le enormi difficoltà del progetto, «poiché i mori aborriscono i preti», e la scarsa probabilità che quelle autorità concedano il visto d’ingresso. Ciò nonostante, cedendo alle insistenze dei due religiosi, scrive una lettera ai suoi agenti. A Marrakech16 ci sono seicento schiavi cristiani, rimasti da tre-quattro anni senza conforto religioso, che hanno fatto una colletta per riscattare un sacerdote schiavo a Salé o a Tetuan o in altri porti nordafricani; dell’affare si occupa Francisco Roque, il destinatario del plico inviato da Cadice, mercante catalano (della città di Vich) e agente di Herrera, che tiene la sua famiglia a Mazagan,17 una delle fortezze spagnole in terra d’Africa, ma ha casa, servi e mercanzie anche a Marrakech. Una coincidenza fortunata che accende le speranze degli schiavi, che si rivelano attivi, capaci di iniziativa, di disegnare strategie e mobilitare risorse: essi fanno regali ai consiglieri del re e ai castellani delle fortezze e ottengono per i frati un salvacondotto che, nel breve volgere di un mese, giunge a Cadice. Questa circostanza apparirà ex post miracolosa. Roque descrive minuziosamente i pericoli a cui i frati andranno incontro, cosa che, lungi dallo spaventarli, li «infiamma» ancora di più. Si tratta ora di procurare tutte le licenze e le autorizzazioni necessarie. Qui il demonio mette lo zampino, creando altre difficoltà: Matias va a Madrid a chiedere la «patente», ma il Consiglio delle Indie gliela nega; anche il ministro dell’ordine è contrario, poiché Juan «faceva gran frutto nel servitio di Nostro Signore in Cadice che non era giusto levare il pane delli figlioli e darlo ai cani».18 Il provinciale, «essendo vassallo del re nel temporale», vuole il suo consenso; il duca di Medina Sidonia, Manuel de Guzman «el Bueno», a cui ricorrono i due frati, pur «essendo egli Cristianissimo Principe e tanto virtuoso e
bene inclinato a tutto il bene e tanto gran devoto dell’Ordine di Padre San Francesco e in particolare della provincia degli scalzi di Andalusia»,19 cerca a sua volta di dissuaderli finché il vecchio Juan non si butta ai suoi piedi, «così fondato nella sua pretenzione di conquistare la Corona del martirio, che con tale ansietà e lacrime lo sollecitava che intenerì molte volte Sua Eccellenza [...] accioché non gli impedisse la corona del martirio che Dio per sua pietà gli avesse disposta».20 Comincia a emergere con tutta evidenza come Juan vada in Africa a cercare il martirio, acceso dall’infuocato clima religioso della Spagna meridionale, dove non è ancora conclusa la stagione di appassionate dispute teologiche sulla immacolata concezione della Madonna.21 Ce lo conferma un agiografo: «Partecipò alla controversia sulla immacolata concezione di Maria, difendendo in sintonia con la scuola francescana il gran privilegio concesso da Dio alla Vergine».22 Juan resta per un paio di anni in corrispondenza con Francisco Roque e da Cadice «lo pregava molto instantemente che gli avvisasse se ci fusse comodità di passare a questi regni in compagnia di altro religioso».23 I due frati che vogliono andare in Marocco hanno già sessantasei e settant’anni, ma osservano da più di quarant’anni la regola e «così ancora erano robusti per menare qualsivoglia vita per aspera che fosse».24 Il mercante, allora residente a Mazagan e sovrintendente alla «amministrazione e traffichi delli porti di Azamor in corrispondenza con il re del Marocco Muley Abdel Melech crudelissimo»,25 auspica ugualmente l’arrivo dei religiosi, poiché gli schiavi cristiani di quella città sono da tempo senza sacerdote, morto l’ultimo in tempo di peste. Mazagan, a due leghe dalla marocchina Azamor (Azemmour), obiettivo delle frequenti incursioni portoghesi, è abitata da trecento cavalieri e dalle loro famiglie;26 insieme a Orano, Mazalquivir, Melilla, Alhucemas, el Peñón de Velez, Ceuta, Tangeri, Larache e al-Mahdiyyah fa parte del sistema di piazzeforti costruite dalla Spagna sul suolo africano, le «fortezze d’Africa»,27 che formano lungo la costa atlantica una linea difensiva contro le grandi spedizioni di pirati e strategicamente segnano l’aggressiva politica iberica verso il Nord Africa. «I portoghesi avevano preso Ceuta nel 1413, Tangeri nel 1471, come Arzila; quest’ultima, resa nel 1553, era stata rioccupata dal 1577 al 1588; nel 1507 era stata la volta di Safi, poi di Santa Croce, presso capo Aguer [Agadir]; quest’ultima viene persa nel 1536 e Safi, che aveva resistito a numerosi assedi, è smantellata ed evacuata nel 1539, perché la sua difesa è troppo costosa per la corte portoghese. I portoghesi hanno maggiore fortuna con Mazagan che il re Emanuele fonda nel 1506 e che essi detengono fino al Settecento; infine, nel
1513 si impadroniscono di Azemmour; prendono La Mamora [al-Ma‘mūrah] nel 1515, ma non riescono a conservarla. Gli spagnoli possiedono Melilla dal 1496; Peñón de Velez, sull’isoletta di fronte a Badis, occupato dal 1508 al 1522, resta loro definitivamente nel 1564; Larache cade in loro mano nel 1610, Mamora nel 1614»,28 al-Mahdiyyah nel 1614, nel 1619 viene bombardata Asilah; si favoleggia dell’intenzione di Mūlāy Z īdān di passare in Spagna a fare guerra a Filippo III, dove lo spinge l’ambizione e lo spirito di rivalsa dei moriscos espulsi tempo prima. Solo negli ultimi anni del Seicento il sultano marocchino recupera alcune enclaves cristiane inserite nel suo regno: al-Ma‘mūrah (1681), Tangeri (1684), Larache (1689), Asilah (1691), ma non riesce a impadronirsi di Ceuta e Melilla, nonostante gli assedi a cui le sottopone nel 1694 e nel 1727. Intanto la reggenza di Algeri si impadronisce di Orano e Mazalquivir che la Spagna riconquista nel 1732 e che nel 1791 cede ad Algeri (ma Orano è andata praticamente distrutta nel terremoto del 1790), in cambio di privilegi commerciali.29 Come si vede, in questo lembo africano Spagna e Portogallo, unite sotto un’unica corona dal 1580 al 1640, mettono in atto un’aggressiva strategia di penetrazione. Ugualmente sulle coste spagnole per 400 chilometri si susseguono le torri di avvistamento e la difesa contro le aggressioni corsare è parzialmente vanificata dall’intervento occulto o palese del naviglio olandese, inglese, francese.30 In queste tempestose congiunture, la preoccupazione relativa alla sicurezza personale dei frati e al buon esito della missione non è senza fondamento. Infine, giungono i permessi con la licenza del nunzio apostolico31 di recarsi «a seminare la parola di Dio, coltivare la vigna del Signore [...] ad amare coloro che avevano fede in Cristo servendoli e consolandoli e a esercitarsi in qualunque altra pia e caritatevole opera».32 Il riferimento alla vigna del Signore richiama la bolla Vineae Domini custodes del 1225, con la quale Onorio III invia chierici e sacerdoti in Marocco per cercare di convertire i saraceni, rialzare i caduti e sostenere i deboli, somministrando loro i sacramenti. La licenza dei superiori dell’ordine è limitata però a soli sei mesi; quella del pontefice per il tramite della Sacra Congregazione Propaganda Fide accorda la facoltà di dire messa, confessare, comunicare, leggere libri eretici per confutarli, concedere indulgenze e trasmettere le stesse facoltà ad altri sacerdoti.33 Ora c’è tutto il necessario perché l’avventura abbia inizio.
3.3 Gli antecedenti. «I frati non facciano liti e dispute» La storia delle missioni in Marocco è particolarmente irta di difficoltà. Attorno alla schiavitù dei cristiani si sviluppa una fiorente attività religiosa, soprattutto da parte di ordini che immolano molti correligionari al compito del conforto e dell’assistenza spirituale dei captivi, con una dedizione spinta sino al martirio. La missione tra i mori ha una forte valenza politico-diplomatica, facilmente riconosciuta dagli stessi storici francescani, che la fanno risalire alle ultime volontà della regina Isabella di Castiglia – «non cessino nella conquista dell’Africa di combattere per la fede contro gli infedeli»34 – pienamente recepite dal cardinal reggente, il francescano Francisco Ximénez Cisneiros, che esegue gli ordini della regina con la conquista di Orano. E Carlo V conduce con sé alla conquista di Tunisi il francescano Antonio de Guevara. I francescani si rifanno al Capitolo generale del 1219, nel quale Francesco pose il tema dell’apostolato presso i saraceni, che lo condusse di fronte al sultano di Damietta. La missione successiva ebbe però esito disastroso, con l’uccisione, nel 1220, di Bernardo e dei suoi quattro compagni, Pietro, Ottone, Aiuto e Accursio. Alla domanda del sultano al-Muntasir billah sul motivo della loro venuta Bernardo risponde: «Siamo stati inviati dal Re dei re, Dio nostro signore, per la salvezza della tua anima, affinché abbandonata la setta superstiziosa del vilissimo Maometto, tu creda nel Signore Gesù Cristo e riceva il suo battesimo senza il quale non puoi essere salvato. – E prosegue: – Sappi, o re, che tu sei il capo tanto dei culti quanto di quella legge tanto iniqua promulgata da quell’impostore di Maometto pieno di spirito maligno, così tu sei il peggiore tra i malvagi e a te sarà riservata nell’inferno la pena più grave. Perciò diciamo queste cose principalmente a te, affinché possiate essere ricondotti tu e i tuoi sulla strada della verità, nella quale finalmente sarete salvati».35 Raccontano le cronache che il frate ha pronunciato tali definitive parole hilari vultu, suscitando le ire del sultano, il quale commina carcere e tormenti, poi offre oro, donne e ogni possibile ricompensa, in ultimo, di fronte alla fermezza dei frati, li condanna a morte. Ma la vendetta divina raggiunge il sultano – a cui si paralizza il braccio con cui ha colpito i frati – e la sua gente, su cui si abbattono pestilenze, cavallette e carestia. Nel corso della nostra storia vedremo riproporsi questa modalità di relazionarsi ai saraceni: la non argomentata opposizione della verità cristiana alla falsità della “setta maomettana”, la proposta del battesimo come unica alternativa alla dannazione,
l’effusione di sangue, la vendetta divina.36 La vicenda di Bernardo verrà letta dagli storici delle missioni come l’antecedente di quella di Juan de Prado.37 Quando i cinque frati italiani vengono martirizzati è ancora vivo Francesco di Assisi, ma «essi fecero esattamente il contrario di ciò che Francesco prescriveva ai suoi frati. In varie occasioni erano stati avvertiti di non predicare contro Maometto e l’Islam, ma essi colsero ogni occasione per attaccare “la superstizione spregevole” di Maometto finché non furono catturati e uccisi».38 Se altri avevano paragonato i saraceni ai lupi,39 Francesco del lupo di Gubbio si era fatto fratello e poteva suggerire: «I frati non facciano liti e dispute». Le dispute non gli sembravano il modo più adatto per entrare in contatto con i saraceni, di cui lo aveva colpito il grande rispetto per il loro libro sacro, per la recita dei nomi santi di Dio, per i quotidiani e pubblici appelli alla preghiera. Dio non poteva essere rinchiuso entro i confini del cristianesimo. Ma il carattere laicale del metodo missionario di Francesco a partire dal 1225 lascia il posto al nuovo tipo del missionario francescano: il missionario chierico e sacerdote. Del resto nemmeno la risposta di Francesco alla notizia della morte dei suoi frati («Ciascuno si glori del suo martirio...») sembra volerli additare come esempio. Il richiamo alla tradizione può non essere dogmatico. Non si è ancora spenta l’eco di questo sacrificio quando, nel 1225, con la bolla Vineae Domini custodes, Onorio II invia chierici e sacerdoti in Marocco; nello stesso anno il sultano S īd ī Abū ya‘qūb Yūsuf pubblica un editto che, quasi come gesto di riparazione, autorizza i compagni dei frati martirizzati all’erezione di una chiesa e alla cura dei cristiani dimoranti nei suoi territori, a condizione «che il prelato o superiore sia dello stesso ordine di quelli a cui era stata tolta la vita».40 Nel 1226 lo stesso pontefice nomina il francescano frate Angelo primo vescovo del Marocco; i buoni rapporti tra il nuovo vescovo e il sultano fanno affidare al primo l’importante compito diplomatico di intercedere presso due capi ribelli all’autorità del sultano, dichiaratisi rispettivamente l’uno re di Tremecen e l’altro di Fez e Meknés. L’anno successivo, però, altri sette frati, Daniele e i suoi compagni, vengono martirizzati a Ceuta (saranno canonizzati da Leone X nel 1516). Frate Angelo riesce a raggiungere una tregua tra i contendenti e, nonostante gli accordi si rivelino sempre provvisori, le missioni si estendono a Ceuta, Tangeri, Asilah, Safi. Non passi inosservato il ruolo politico assunto dal nostro francescano. La memoria, scritta e orale, di questi eroi del cristianesimo diventa più fitta quando assume maggiore rilievo la presenza dei captivi. Le «agiografie di santi captivi» passano di mano in mano e di bocca in bocca, lette con avidità,
raccontate attraverso i sermoni, dai pulpiti, nei conventi, nelle piazze, e si innestano nella fiorente letteratura di pietà, di più vecchia tradizione, redatta con un miscuglio di fervore di fede e di fantasia per «affascinare il credente con la descrizione di miracoli, sacrifici, sofferenze e martiri».41 Uno dei modelli potrebbe essere il Resumen de la vida del glorioso mártir San Pedro Pascual de Valencia,42 catturato nel 1297 dai mori del regno di Granada, la cui cattività fu un rosario di disgrazie, di gesti eroici, di conversioni di mori (non faceva che «illuminare quei barbari»), tanto da spingere la città di Granada a metterlo a morte. Un esempio che, conclusasi la riconquista cristiana dei territori iberici, trasmigra verso il Nord Africa. I Francescani ritornano in Marocco con l’osservante Andrea da Spoleto, giunto a Fez nel 1531 per convertire gli infedeli e cercare il martirio dopo una vita da soldato sanguinario, risolta dalla illuminazione e dalla scelta dell’abito francescano.43 Nella città marocchina, «come ebbro di amore divino»,44 comincia a predicare; giunta la notizia alle orecchie dello sharī f (o jerife, discendente dalla famiglia del Profeta) mūlāy Ibrāh īm, questi, fattolo venire al suo cospetto, gli chiede a cosa debba la venuta nella sua città, avendone la seguente risposta: «Per nessuna altra ragione vengo se non per rendere a voi manifesta la verità della fede e la falsità sotto la quale come dei ciechi militate che desidero eradicare con l’aiuto divino dai vostri cuori».45 A questa provocazione lo sharī f risponde di volere segni, miracoli o testimonianze di quanto così arditamente sentenziato dal frate, che spavaldamente afferma di essere in grado di compiere una serie di prodigi, a riprova della necessità del battesimo per conseguire la beatitudine eterna: intende resuscitare il padre dello sharī f, chiedere a Dio di ridare la vista a un cieco, introdursi inerme nella gabbia di un leone rendendolo inoffensivo con il solo sguardo, ma soprattutto entrare indenne dentro una pira accesa per la gloria di Dio e la salvezza dell’anima dello sharī f e dei suoi. mūlāy Ibrāh īm rifiuta, spiegandogli pazientemente che un trattato firmato con il re portoghese gli impedisce di imprigionare o torturare alcun cristiano e gli ordina di tornarsene piuttosto al suo paese. Forse per impedirgli di predicare, un paio di giorni dopo lo invia nella sinagoga: nonostante abbia lungamente disputato coi rabbini, manifestato la verità della sua fede, li abbia «confusi» numerose volte mostrandone gli errori, non riuscendo però a piegare verso il bene «la durezza dei loro cuori», il frate, incapace di controllarsi, esce a predicare tra i musulmani pubblicamente e ad alta voce, inutilmente trattenuto dagli schiavi cristiani che lo supplicano di tenere a freno il suo zelo, presagio di prossimi ritorsioni e castighi. Ma nulla raffredda il suo fervore, che lo spinge verso la casa dello sharī f,
dove reitera la richiesta di essere destinato alla pira. Questa volta egli decide di accontentarlo, non senza richiedere ai più importanti tra i suoi schiavi cristiani – i nobili Pierre Arias e Ferdinand de Meneses – di firmare una dichiarazione per il re del Portogallo, nella quale essi attestano come sia stato il frate stesso a chiedere con insistenza il rogo. Ciò nonostante lo differisce di tre giorni, nella speranza che nel frattempo Andrea addivenga a più miti consigli. La dilazione invece affligge, intristisce e angoscia il frate, che teme ogni possibile intralcio all’agognato martirio. Il giorno stabilito si raccoglie una folla di musulmani e di cristiani; di fronte a loro lo sharī f chiede ad Andrea se sia rimasto fermo nella sua decisione e ne riceve una risposta affermativa. Avviandosi verso la pira, il frate esclama: «Ascoltami, scongiuro te e tutti i presenti: ricevete le mie parole da parte di Dio Onnipotente, che per voi e per tutto il mondo si è fatto uomo, sopportando una morte orrenda. Vi esorto affinché vi convertiate alla verità della sua fede; posso affermare con certezza che, se non crederete nella santa Trinità e non sarete purificati nella fonte del battesimo, non potrete essere salvati. Infatti nella condizione in cui vi trovate sarete tutti perduti e il più infelice tra gli esistenti è quel maledetto Maometto di cui siete seguaci».46 All’udire ciò, i mori, pieni di indignazione e di sdegno, lo prendono di peso e lo collocano dentro la pira predisposta per la sua cremazione. Qui Andrea si denuda fino ai fianchi, si genuflette e prega devotissime, e continua a pregare mentre i suoi carnefici cercano inutilmente per ben tre volte di appiccare il fuoco. Aggiungono allora zolfo e polvere da sparo, riuscendo finalmente a produrre le fiamme con il fragore di una decina di bombarde. Diradatosi il fumo, i presenti scorgono il frate sorridente in mezzo al fuoco che non sembra avergli arrecato alcun danno: «la carne del suo corpo [era] bianchissima, come quando vi era entrato. Camminando tra le fiamme della pira, gioiva e lodava il Signore».47 La scena è concitata e suggestiva al punto che alcuni cristiani presenti, galvanizzati dall’esempio del frate, si lancerebbero tra le fiamme se, per intervento di Satana, i mori non lo impedissero mentre, come invasati da furore parossistico, cominciano a correre attorno al rogo, lanciando pietre, bastoni, dardi, fino a spaccare la testa ad Andrea che continua, come se niente fosse, a pregare, mentre in quella baraonda non se ne intendono più le parole, e infine rende l’anima a Dio. È il 9 gennaio 1532. Avendo compreso che i religiosi si occupano solo del loro ministero e non collaborano al riscatto degli schiavi, i mori cominciano a vessarli, al punto da costringere un religioso a recarsi in Portogallo per raccogliervi elemosine pur di operare alcuni riscatti, compiuti i quali l’anno successivo i francescani
richiamano la loro missione dal Marocco e per novantasette anni (1533-1630) non vi rimettono piede. Durante questa interruzione pochi sacerdoti e regolari di altri ordini, soprattutto gesuiti, si occupano dei soccorsi religiosi dei captivi. Dal 1539 al 1548 si consacra a questa impresa il sivigliano padre Contreras, che si reca a Fez e Tetuan, uno dei maggiori mercati di schiavi cristiani. Vi sono trecento captivi nel bagno: assieme a loro Contreras trascorre le notti per curarli nel corpo e nello spirito e soprattutto per farli pregare. Grazie al suo magistero, molti captivi rinunciano al gioco delle carte a causa del quale sono soliti perdere anche la camicia. Nel 1548, a richiesta del governatore di Ceuta, il re del Portogallo chiede e ottiene che la Compagnia di Gesù invii tre religiosi, i quali sono in un primo tempo bene accolti dai mori, nella speranza che si sarebbero occupati del riscatto dei captivi da cui provengono loro ottimi profitti. Louis Gonçalves da Camara, João Nunes Barreto e Inacio Vogado vengono istallati a Tetuan (ma ben presto mandano Louis Gonçalves a al-Ksar al-Kebir, dove stanno «abbandonati» senza soccorso religioso circa centocinquanta schiavi), nel fondaco dei mercanti cristiani; confessano, amministrano i sacramenti, soccorrono un prete francese moribondo e lo seppelliscono cristianamente. Vent’anni dopo giungono i gesuiti Gabriel Batista del Puerto e Gaspar Lopez, che si dividono tra Tetuan e Marrakech, finché, nel 1574, le autorità del regno, mal tollerando la loro presenza, li fanno espellere.48
3.4 Il Capitano del mare oceano: il duca di Medina Sidonia Il processo di canonizzazione di Juan de Prado vuole fugare l’impressione che i frati siano andati allo sbaraglio, avventurandosi in terra Infidelium di ropria iniziativa e senza l’assenso dei superiori. I testimoni variamente depongono sulla loro personale conoscenza dell’autorizzazione dei superiori dell’ordine, del nunzio apostolico e di Propaganda Fide; sanno che il re del Marocco ha inviato delle lettere al duca di Medina Sidonia, «offrendogli qualsivoglia buona amicizia e corrispondenza nelli suoi regni e domandandogli alcune cose per il suo real servitio»49 e ha fatto consegnare queste lettere perché le recapitasse in Spagna a Roque, che a Mazagan abbiamo visto impegnato nel ruolo di «affittuario del porto». Negli anni dell’apogeo della corsa barbaresca
intercorrono rapporti diplomatici tra le due parti per ottenere il salvacondotto che tuteli i viaggiatori per terra e per mare. Juan Manuel Pérez de Guzman y Sandoval, VIII duca di Medina Sidonia, grande di Spagna, cavaliere dell’ordine del Toson d’oro, è a capo di una grande casata: il ducato comprende i paesi di Medina Sidonia, Vejer, Chiclana, Conil, Jimena e Sanlucar; come XI conte di Niebla possiede la metà dell’attuale provincia di Huelva. Nel palazzo reale di Madrid, nel 1598, ha sposato donna Juana de Sandoval y Rojas, figlia del duca di Lerma. Il monopolio della pesca del tonno nelle tonnare della costa di Cadice e il privilegio di trarne sale, oltre ai proventi derivanti da censi e diritti di roprietà si aggiungono al prestigio della carica di «Capitano Generale del mare oceano e delle coste di Spagna e d’Africa»; discendente di Alonso Pérez – duca di Medina Sidonia e comandante supremo della Invincibile armata50 – e appartenente allo stesso casato di Gaspar de Guzman, conte di Olivares – che dal 1621 al 1643 governa la Spagna di Filippo IV –, il nostro duca è tra i ersonaggi più eminenti del Regno.51 La carica attribuitagli, per quanto non retribuita, si accompagna a una serie di competenze su tutta la fascia costiera dalla foce del Guardiana fino allo stretto di Gibilterra: la sovrintendenza del complicato sistema di torri di difesa e di avvistamento, voluto da Filippo II per consentire la comunicazione visiva tra il largo e le città costiere e quelle dell’interno; l’approvvigionamento del legname dalle montagne del distretto per le navi dell’armata; la leva di soldati per l’esercito e per la milizia locale; la tenuta del registro generale degli schiavi sotto la sua giurisdizione. Dipendono da lui la difesa dell’Andalusia e dell’Algarve, la conservazione di muraglie e fortezze, la piazza d’armi di Jerez, l’arsenale della regione, il presidio di Cadice, le piazzeforti di al-Ma‘mūrah e Larache, in Nord Africa, che vanno provviste di truppa e rifornimenti. Veglia anche sulle altre piazzeforti, incorporate nel regno di Castiglia, ora unito alla corona portoghese, specialmente sulla Casbah (al-Qaṣabah) di Salé, cioè l’area del palazzo reale e le sue adiacenze, «affidata dal re magrebino in regime di semi-protettorato, a moriscos spagnoli, alleati di Spagna e in special modo dei Medina Sidonia. Improduttiva in quanto a redditività, la Capitania non è esattamente un incarico da salotto».52 La cattiva condizione delle fortificazioni africane assilla il nostro capitano: il governatore di Larache manca di artiglieria e di munizioni; i soldati sono pressoché nudi; ad al-Ma‘mūrah è crollato il baluardo; i marabutti avanzano verso Salé forti di 40 000 uomini, decisi a espellere dalla zona fino all’ultimo cristiano e ogni loro alleato; di questo tenore sono le notizie provenienti dall’archivio privato del duca, che, a causa della cattiva fama di cui
godono i presìdi, non riesce ad arruolare soldati disposti a recarvisi. Con il Marocco, invece, è buona la corrente commerciale, soprattutto di grano e di pesce. L’alto ufficio resta appannaggio della famiglia sino al 1645, quando il titolo passa ai nemici storici della casata, i Medinaceli. Per alcuni decenni il duca di Medina rappresenta per i mālāy marocchini l’intermediario del re di Spagna, come attesta la ricca corrispondenza intercorsa tra loro:53 Medina sembra rappresentare lo snodo diplomatico tra Spagna e Marocco. Manuel “el Bueno” muore nel 1636 e gli succede il primogenito Gaspare, IX duca di Medina Sidonia e XIII conte di Niebla, nato a Valladolid nel 1602, commendatore dell’ordine di Calatrava e dal 1624 alla corte di Madrid per assolvere all’onorifico e dispendioso incarico di gentiluomo di camera di Filippo IV. Gaspare si sposa due volte: la prima con la zia, Ana de Guzman,54 la seconda con Juana Fernandez de Cordoba, figlia dei marchesi di Priego. Le relazioni con il Portogallo si fanno molto strette per il matrimonio della sorella Luisa con il duca di Braganza, che nel 1640, dopo la sollevazione del Portogallo, diviene re con il nome di Juan IV. Gaspare partecipa a una cospirazione ordita dal cugino, Francisco Antonio de Guzman y Zúñiga, marchese di Ayamonte (nella quale avrebbero un ruolo anche Francia e Olanda), con l’intento di promuovere un’insurrezione nell’Andalusia per allontanare il conte duca di Olivares dalle grazie del re e restaurare una Camera nobiliare nelle Cortes castigliane, ma anche per fare dell’Andalusia uno stato indipendente, sull’esempio di quanto era accaduto nel 1640 in Portogallo e in Catalogna.55 La scoperta della congiura conduce alla condanna a morte del marchese di Ayamonte e all’arresto del duca di Medina Sidonia, «il cui avallo alla trama era forse da riconnettersi con la sua parentela con i ribelli duchi di Braganza»; Medina Sidonia confessa i contatti con i congiurati, stabiliti tuttavia, a suo dire, non con l’obiettivo di «titolarsi Re delle Andalusie», ma al fine di «liberarle di molti tributi, allontanare da S.M. il conte duca di Olivares e ristabilire le corti e i privilegi della nobiltà».56 In seguito all’allontanamento forzoso del duca dai suoi possedimenti, dopo il 1640 egli fissa la sua residenza a Madrid; altre cariche in Catalogna e a Murcia, assegnate alla fine del Seicento, non arrestano il declino della grande casata, a cui non è estranea l’inimicizia dell’Inquisizione per la protezione del duca nei confronti dei conversos.57 Già nel 1643, dopo l’allontanamento del duca di Olivares, è riammesso a corte. I rapporti dei Medina con i sultani del Marocco sono stati saldi in passato, e soldati andalusi hanno talvolta servito i re della dinastia saadita (1550-1660),58 anzi, «si dice che l’origine della favolosa fortuna dei Medina Sidonia fossero le
ricchezze che Don Alonso Pérez Guzman portò dal Marocco come premio del suo aiuto militare».59 Successivamente, nel 1630-1640, i potenti moriscos di Salé negoziano segretamente la possibilità di dichiararsi vassalli del re di Spagna e l’intermediario nella trattativa è il duca di Medina Sidonia nella sua qualità di capitano della costa andalusa, con ampia giurisdizione sopra le coste africane e l’oceano che le bagna.60 Insomma, non è escluso che Medina abbia l’intenzione di fare di Juan e Matias i suoi emissari in Marocco, così come ha fatto con Francisco Roque, ricco uomo d’affari, confidente del precedente duca di Medina e, di conseguenza, della Corona di Castiglia; il figlio Gaspare farà lo stesso – lo vedremo più avanti – con il francescano scalzo Nicola de Velasco. Approfittando della sua condizione, Roque ha stabilito un rapporto di amicizia con il re del Marocco, diventando assiduo visitatore del palazzo. Lucido e intelligente, è in grado di informare con estrema esattezza su tutto quello che bolle in pentola nel paese nordafricano, finché il nuovo re marocchino non ne ordina la reclusione e il sequestro dei beni.
3.5 I mujāhidūn del mare: i corsari di Salé La corsa è la guerra santa marittima, combattuta, secondo quanto recita il Corano, contro «quelli che non credono in Allah né nell’ultimo giorno», con un’azione persino più meritoria, secondo diverse tradizioni profetiche, della guerra santa terrestre. Al grido di «Allahu Akbar! Allahu Akbar!» (“Allah è grande, Allah è grande”) avvengono tutti gli arrembaggi.61 Tra la resa di Granada (1492) e le rivolte delle Alpujarras (1578) buona parte dell’élite granadina passa in Marocco: emigrano intellettuali e ribelli politici, giuristi e uomini di scienza. Molti di loro si sono diretti verso la Francia e l’Italia, perché, secondo i primi decreti, sarebbero stati obbligati a lasciare i propri figli in Spagna se si fossero recati in terra islamica, poi a migliaia scelgono come destinazione le città di Fez (fondata da immigrati, in maggioranza andalusi, nell’Ottocento), Salé, Tetuan (distrutta nel 1437 dai portoghesi di Ceuta e riedificata dai granadini), Xauen (perfetta riproduzione dei modelli insediativi dell’Alpujarras), Orano, Tunisi, Istanbul, in misura minore Egitto e Siria. Altri moriscos avevano raggiunto Sarajevo e Salonicco, gran centro di raccolta di ebrei espulsi dalla Spagna, e infine Istanbul, pochi l’Egitto e
la Libia (Tripoli) e la Francia (Aquitania e Provenza).62 I catalani, preceduti dagli andalusi, colonizzano le pianure litoranee dei dintorni di Tunisi: ottantamila secondo calcoli pessimistici; ottanta o forse centomila sono quelli (per lo più valenciani e murciani) che raggiungono le città costiere di Algeri, Tremecen, Bona, Blida, Chercell. In Africa fanno comunella con i rinnegati e con gli ebrei spagnoli, si dedicano alla corsa, traducono in arabo opere scientifiche (ad esempio sulle armi da fuoco), consentendo utili acquisizioni tecniche e scrivono libri di polemica religiosa. In Marocco arriva «un quarto di milione di moriscos [per lo più andalusi e estremaduregni] che si somma ai molti altri arrivati nelle decadi precedenti; un avvenimento che debilita la Spagna nella stessa misura in cui rafforza il paese nordafricano».63 Estremaduregni e andalusi si dirigono verso il Marocco, valenciani e murciani ad Algeri, la quasi totalità degli aragonesi e pochi catalani a Tunisi; pochi andalusi li avevano preceduti, perché Tunisi è stata, dall’impresa di Carlo V nel 1535 fino a poco dopo Lepanto, nel 1571, in mano spagnola. A Salé i tremila moriscos provengono da Hornachos, paesino dell’Estremadura, nella provincia di Badajoz; geograficamente isolata dalle maggiori vie di comunicazione, tra XVI e XVII secolo la sua popolazione è di quasi cinquemila abitanti, in maggioranza moriscos, mori convertiti e non e cristiani islamizzati; se ne aggiungono altri diecimila provenienti dall’Andalusia. Pessima la loro reputazione: vivono di «assassinio, aggressione, furto e fabbricazione di moneta falsa»; terrorizzano l’intera regione e si considerano come una repubblica; riuniscono un presunto «consiglio di Stato in una grotta della Sierra».64 Difficile il controllo da parte del governo spagnolo; l’Inquisizione interviene solo nel 1590-1592, ma l’arcivescovo di Siviglia, Alonso Manrique, già nel 1530 ha fondato nella regione un convento francescano, ottenendo che gli hornacheros lapidino la statua di Santiago e strappino gli occhi a quella di San Pietro! Corrompono funzionari regi e personaggi influenti a corte, così da ottenere da Filippo II il privilegio di portare armi. Attorno al 1610 emigrano verso la costa africana, installandosi sull’estuario del fiume Bu Regreg, di fronte alla vecchia Rabat, dove si erano insediati gruppi di andalusi, mentre nella Salé vecchia si stabilisce Musammad al-‘Ayyāsh ī, allievo del marabutto Ibn Ḥassūn, “il santo di Salé”. Ricostruiscono la Casbah ormai in rovina della vecchia Salé e la fortificano; la cessione del forte di Larache nel 1610 e la presa spagnola di al-Ma‘mūrah nel 1614 fanno di Salé
l’unico porto marocchino nella costa nordatlantica e lo convertono in rifugio di pirati. Vi convivono marocchini, moriscos di varia provenienza e hornacheros che per la loro coesione impongono la loro supremazia su rinnegati e mercanti stranieri, nella pirateria e nel governo della città. I moriscos di Salé hanno la spregiudicatezza di intavolare negoziati con la Spagna (nel 1614, 1619, 1632, 1637 e 1663), disponibili a cedere la loro piazza, fino ad ammettere la possibilità di dichiararsi vassalli e convertirsi in una sorta di protettorato spagnolo. I negoziati si intavolano in assoluta segretezza tra il 1630 e il 1640 ed è il duca di Medina nella sua qualità di Generale della costa di Andalusia a portarli avanti, ma senza che si raggiunga nessun accordo. «Il carattere profondamente ibrido della cultura morisca si fece più manifesto con l’espulsione; se in Spagna erano considerati musulmani irriducibili, corpo alieno e inassimilabile [...] anche in Nord Africa furono alieni, in sospetto di cristianesimo [...], ma nel Maghreb impiegarono meno di un secolo per assimilarsi completamente alla popolazione del luogo.»65 Una prova a contrario del fatto che «l’islam in Europa [aveva] cessato di essere un islam trapiantato, per convertirsi in un islam autoctono».66 «Salé costituisce il centro più famoso, quasi mitico, della corsa marocchina, se non – con Algeri – di tutta la corsa barbaresca.»67 La posizione geografica favorevole, al margine delle rotte atlantiche dell’Europa percorse dalle navi che vanno incontro agli alisei, il controllo di quello che è stato chiamato il «Mediterraneo musulmano», dalla foce del Guadalquivir all’estuario del Sebou, l’equidistanza dalle due capitali (Fez e Marrakech), le ricche risorse agricole e forestali alle spalle sono tutti requisiti che si sommano con una risorsa esterna e imprevista: l’arrivo dei moriscos cacciati dalla Spagna, e in particolare degli hornacheros, che apportano il loro spirito di rivalsa, le loro ricchezze e le loro conoscenze; raggiunti da ondate successive di fuorusciti in seguito ai decreti del 1609 e 1610; «ricchi, desiderosi sia di far fruttare il loro capitale, sia di vendicarsi degli Spagnoli, si lanciarono nella corsa, insieme economica e religiosa».68 Nel 1608 Mūlāy Z īdān li impiega a rialzare le mura e restaurare le fortificazioni della città e dà loro una organizzazione militare, sotto uno sharī f. Nel 1610 arrivano gruppi di tagarini o granadini, provenienti soprattutto da Sanlucar, Cadice e Llerens, chiamati dispregiativamente «cristiani di Castiglia».69 Inoltre, nel 1614 gli spagnoli hanno preso al-Ma‘mūrah,70 sulla riva sinistra del fiume Sebou, sin dal 1600 nido di pirati inglesi, i quali rifluiscono a Salé, portandovi le proprie navi e avanzate conoscenze tecniche e marittime. Gli spagnoli perderanno al-Ma‘mūrah nel 1681, ma si stima che nel 1611 vi siano
annidati una quarantina di vascelli e duemila uomini. Salé diviene così una “città corsara”, rifugio di avventurieri, rinnegati e convertiti che organizzano dal 1627, anno in cui rifiutano di consegnare il 10% del valore delle prede al sultano, una straordinaria “repubblica plutocratica”, formata da tre nuclei urbani distinti: Salé vecchia, la nuova Salé o Rabat e il quartiere della fortezza, con una propria popolazione e il proprio qā yid (governatore). L’insieme è gestito da un consiglio (dī wān) di dodici potenti armatori e da un Gran Almirante, come governatore del porto, e da due alcaydes (qādī ) che, eletti annualmente, esercitano il potere giudiziario, in analogia con la Justicia y Regimiento che governa le città spagnole. Questa «repubblica corsara» era organizzata «alla spagnola». L’organizzazione della ṭā’ifah dei ru’asā’ (plurale di raìs), ammiragli corsari eletti annualmente, come la quindicina di rappresentanti del dī wān, e la nomina di tutte le cariche e gli uffici burocratici (dogana, dazi, porto, giudici ecc.) mantengono fluida la struttura di tutte le istituzioni e alta l’instabilità politica. Qualcuno vi vuole persino intravedere la realizzazione di un antecedente delle idee repubblicane che animarono le rivoluzioni inglesi del Seicento, o dell’«utopia pirata» che ispirò esperienze sopratutto d’oltreoceano.71 Una tale organizzazione – «su istigazione di Algeri»72 –lede gli interessi degli indigeni che chiamano in soccorso Mūlāy Zūdān. Questi tratta con i saletini un tributo annuo di quattro schiavi, lasciando loro la sovranità sulla Casbah, riservandosi la nomina del qā yid. Le finanze sono alimentate dalla dogana, le entrate del porto e la decima delle “prese”, navi, merci e uomini catturati in corsa, non più versate al sultano, la cui autorità finisce per essere puramente teorica. Emerge qui con grande evidenza la debolezza della monarchia marocchina nella centralizzazione degli strumenti della violenza e dell’organizzazione dello stato moderno. La città attira per la sua vitalità economica ebrei marocchini o sefarditi, mercanti inglesi, danesi, italiani e persino spagnoli che smerciano i prodotti della corsa: popolazioni diverse che vivono in luoghi di residenza strettamente delimitati e non si mescolano alla popolazione araba del luogo. Hornacheros della Casbah e andalusi di Rabat sono in dissidio per gli introiti doganali che i primi si rifiutano di condividere, utilizzandoli per la difesa e le riparazioni dei bastioni. Ben presto il conflitto si trasforma quasi in guerra civile: la vecchia Salé si schiera con gli hornacheros e nel 1630 si assiste a una più netta separazione tra i due gruppi, seguita da un temporaneo accordo grazie alla mediazione del console britannico John Harrison, che stabilisce l’autonomia delle tre entità cittadine, anche se in realtà «la Casbah finisce per diventare la
capitale della repubblica moresca e il suo governo giunge a esercitare un’autorità più o meno preponderante sulle città delle due sponde»73 del fiume. Il precario equilibrio dura meno di un anno e il conflitto tra le tre comunità si protrae tra alterne vicende; ancora nel 1637 sarà l’ammiraglio Rainsborough a sedare una rivolta bombardando il porto, poi bloccato in più occasioni da olandesi e francesi. La lotta intestina permanente e i nemici naturali (il sultano, le potenze europee) gettano i semi della disfatta della repubblica corsara. Nel 1631 un marabutto bombarda la città; nel 1644 il figlio di un marabutto la porta al massimo della sua potenza. La corsa saletina, che scorrazza sino all’Islanda e, attraverso Gibilterra, talvolta nel Mediterraneo occidentale,74 giungendo sino alla penisola di Terranova e in Brasile, e arma vere e proprie flottiglie contro i convogli mercantili provenienti dalle Americhe o dalle Antille, ha la sua età dell’oro tra il 1615 e il 1650 – nel solo decennio 1630-1640 avrebbe operato mille “prese” –. Questa corsa, contro cui nulla possono le spedizioni europee, alternate a negoziati e a trattati di non aggressione, inizia a declinare nel decennio 16701680 e riceve un colpo mortale dalla decisione presa nel 1682 dal sultano del Marocco di attribuirsi la proprietà di tutti i captivi e di concentrarli a Meknés. I profitti di armatori e raìs crollano disastrosamente, gli equipaggi vivono del “soldo” e non partecipano più alla spartizione delle prede.75 La corsa da impresa privata è divenuta affare di Stato; dal 1790 al 1830 conosce la sua agonia.
3.6 «Vadano i frati con licenza dei suoi ministri» La questione del salvacondotto, che torna continuamente nella vicenda di Juan, fa riferimento a un documento autografo del sultano, datato 10 aprile 1630, che concede a donna Anna, moglie del medico Camelo, di recarsi a Marrakech insieme a figli, servi e religiosi, essendo «assistiti e indirizzati» da tutti i funzionari e i familiari del sultano a cui è fatto espresso divieto di ridurli in schiavitù. Vi si legge: «E se volessero i detti religiosi venire alla presenza del nostro stato, potranno con sicurezza venire sicurissimi, che do la mia Reale sicurezza stabile a tutto il detto».76 Juan e i suoi compagni, Matias de San Francisco e Gines de Ocaña, non fanno riferimento all’istituto giuridico della dhimmah, patto di protezione, sancito dal pagamento di una imposta che assicura
ai cristiani il diritto di risiedere nel territorio islamico, oltre alla garanzia della libertà e alla possibilità di godere di alcuni diritti. Al pagamento di tributi sono sottoposti gli ebrei: ad esempio, in Algeri vi sono una cinquantina di case di ebrei suddivise in due quartieri, ciascuno con una propria sinagoga: sono francesi, maiorchini, spagnoli, ma per lo più di Barberia. Pagano al re 1800 doppie (350 patacche) l’anno per potere risiedere ad Algeri, ma questo è nulla rispetto a quanto viene fatto pagare loro in ogni circostanza: «Essi sono scorticati vivi; sono presso i Turchi le persone più disprezzate e miserabili del mondo. Un ragazzino moro darà mille schiaffi all’ebreo più importante e più ricco, e sia che sia solo o che con sé abbia cento altri, agirà ugualmente senza che i malcapitati ebrei alzino gli occhi, senza che si difendano, senza che dicano una sola parola. Essi sopportano molti altri oltraggi, peggiori persino a quelli sopportati dagli schiavi».77 A casa di ebrei i turchi portano le prostitute e i giovani con cui praticano la sodomia; e quei meschini lasciano loro la casa e il letto per tutto il tempo necessario e le loro mogli, «più sottomesse di una schiava»,78 devono preparare loro da mangiare, e quando l’indesiderato ospite se ne va ripaga i padroni di casa a colpi di cinghia e anzi, senza che si possa recriminare, prende tutto quello che nella casa più gli aggrada. Sono inoltre obbligati ad abbigliarsi in modo da risultare riconoscibili: «i loro abiti sono davvero tristi. Per essere distinti dai Turchi e riconosciuti come ebrei, portano una specie di cotta nera di sargia o di flanella, un burnus [il lungo mantello di lana con cappuccio a punta] bianco e un cappello nero in testa. Per quelli che sono originari della Spagna o di Maiorca, questo cappello nero è provvisto di una coda simile a una manica, così lunga da scendere sulla schiena sino alla cintura. E ai piedi portano delle ciabatte, poiché è loro proibito di indossare scarpe».79 Non possono nemmeno accedere alla sessantina di bagni (ḥammām) che ci sono nella città di Algeri e a Fez fuori dalla Giuderia ( Millāḥ).80 «Detestano a tal punto gli ebrei che benché essi [i turchi] commettano senza essere puniti i peccati della carne più abominevoli e vergognosi che si possano immaginare, non guarderebbero una ebrea per tutto l’oro del mondo, anche se fosse bellissima.»81 E infine, anche gli inviati stranieri incaricati di negoziati commerciali o diplomatici oppure i pellegrini devono ricevere una autorizzazione, un salvacondotto per un periodo limitato, l’aman, grazie al quale godono di immunità assoluta, di sicurezza personale, e sono nello stesso tempo autorizzati a praticare i propri riti religiosi. Le reggenze offrono anche la possibilità di sottrarsi agli attacchi delle proprie navi corsare attraverso il pagamento della izyah, tassa coranica, imposizione, definita dalla legge religiosa come «quello
che è preso agli Infedeli in contropartita della loro sicurezza e della preservazione del loro sangue mentre restano infedeli».82 La tregua, contrattualmente sottoscritta, offre la salvaguardia dei beni e della vita e non è altro che un accordo per sospendere le ostilità per un periodo stabilito e ha dunque un carattere transitorio, temporaneo, limitato nel tempo. Questo insieme di regole non va sottovalutato giudicandolo alla stregua di una semplice forma di tassazione; se visto nella giusta luce, «il rispetto di questi documenti permise lo sviluppo delle relazioni tra paesi musulmani e non musulmani».83 Non sappiamo quale forma abbia il salvacondotto di Juan – se sia stato acquistato o concesso dal re marocchino al duca spagnolo, se addirittura gli sia stato concesso di accompagnare la moglie del medico Camelo –; di certo esso implica una serie di regole di cui il religioso non sembra avere alcuna cognizione o che consapevolmente infrange.
3.7 Tappa a Mazagan «A costo suo» il duca di Medina Sidonia manda i religiosi in Marocco, fornendo ai frati «imbarcatione, comodità, provisione, credito e lettere per il governatore di Mazagan».84 Già la traversata è travagliata da diversi incidenti: una tempesta e il pericolo di essere catturati dai corsari saletini costringe la nave a rifugiarsi in un porto spagnolo, dove resta all’ancora qualche giorno prima di riprendere il mare. Il 7 dicembre 1630 giunge finalmente alla fortezza di Mazagan che fa parte della Corona di Castiglia da quando Filippo IV è stato incoronato re del Portogallo e ha assunto il dominio sui possedimenti portoghesi in Africa. Le famiglie portoghesi continuano come per il passato a ricoprirne le cariche principali. Qui i frati ricevono ulteriori raccomandazioni; tutti sono consapevoli del rischio che l’impresa comporta e cercano di evitare il peggio: il governatore, Francisco de Almeyda,85 li accoglie e li ospita a casa sua per tre mesi; ritenendo non ci siano ancora le condizioni che garantiscano la loro sicurezza, non si decide a congedarli. Così Juan rompe gli indugi e organizza una vera e propria fuga che, scoperta dopo alcune ore, mette in allarme l’intera fortezza; centotrenta cavalieri vengono mandati in ricognizione, nonostante il pericolo rappresentato dai mori di stanza nella vicina fortezza di Azemmour, distante da Mazagan solo poche leghe. La cavalleria cristiana passa vicina ai due
frati che, acquattati, sfuggono anche alla perlustrazione dei cavalieri mori usciti a loro volta, nel timore di un attacco cristiano. Insomma, quella sera è stata sfiorata la carneficina per colpa dell’avventata iniziativa di Juan, che, finalmente scoperto e raggiunto dagli spagnoli, viene pregato in ginocchio da Almeyda di tornare al forte, con la promessa che ne sarebbe ripartito al più presto. Anche qui ex post si parlerà di miracolo: «Tutte le grida e schiamazzi successero tanto vicino dove stavano li Mori imboscati che, se Nostro Signore non l’havesse turato le orecchie, era impossibile che non lo sentissero e se l’havessero sentito, chiara cosa era che haverebbero tagliato la testa a tutta quella Gente, perché erano molti li Mori e stavano nelle loro Terre e per essere pochi li Christiani e per star fuori delle loro Terre».86 Anche le impronte di leone rinvenute sulla spiaggia attraversata dai frati rafforzano la convinzione che essi abbiano ampiamente goduto, quella notte, della generosa protezione celeste. La tiepida accoglienza di Almeyda potrebbe essere ispirata dai predicatori portoghesi della Compagnia di Gesù: «Fu anche per l’istigazione di quei venerabili religiosi, un po’ invidiosi – ma santamente – della missione dei tre Francescani che egli si mostrò, se non contrario, almeno poco solerte a mettersi al servizio della loro causa».87 Dell’atmosfera conflittuale con i gesuiti abbiamo contezza solo in termini agiografici: «Mentre si tratteneva nella suddetta fortezza, si ordinò dalla pietà di quei fedeli una divota processione ad onor del Redentor Crocifisso [...]; e acciò questo pietoso esercizio riuscisse di profitto alle anime, fu destinato un padre della Compagnia a muovere per mezzo d’un breve ragionamento la pietà e devozione nel cuore di ciascheduno. Fuvvi tra gli altri presente anche il Beato Giovanni, che mosso dall’efficacia di quel sagro oratore [...] con le braccia aperte, con il volto grondante di lagrime, e con alta voce, che eccitò in tutti una singolar tenerezza, gridò: “ove andate Signore affaticato dal peso delle mie colpe? [...] Se cercate peccatori non andate più oltre, che qui vi siete incontrato col maggior peccatore del mondo”. E ciò detto inalberò nelle sue mani un Crocifisso, che seco sempre portava, e cominciò a predicare con tanto fervore che [...] a un tratto venne sollevato nell’aria, restando immobile, e senza parola».88 Con il coup de théâtre dell’estasi Juan ruba la scena ai gesuiti di stanza nella fortezza che non devono sembrargli troppo solerti se egli, sin dall’arrivo, deve darsi un gran daffare a confessare, predicare e consolare afflitti. «Si dié poi a correggere la negligenza dei Ministri di Dio nel custodire le sue Chiese e suppellettili destinate al servigio dei sacerdoti; onde co’ suoi compagni s’impiegò per molti giorni a risarcire i paramenti sacri, a racconciare i messali e a rassettare gli altari.»89
Non è mai stato offerto dai tre francescani un motivo plausibile della loro fuga da Mazagan verso Azemmour per guadagnare da lì la strada per Marrakech; la concorrenza missionaria tra i due ordini religiosi potrebbe avere indotto Juan a cercare di precedere i gesuiti. Il 16 marzo 1631, affidate le preziose licenze dei superiori in custodia ad Almeyda, i frati lasciano Mazagan, dopo uno struggente commiato, «un ragionamento spirituale» di Juan che commuove gli astanti fino alle lacrime, e la benedizione; senza che nessuno li disturbi per la strada, si incamminano verso Azemmour. Qui giunti, alloggiano a casa di un «Giudeo Rabì della Legge di Mosè [...] e il venerabile hebbe molte dispute con Giudei quanto con Mori, che non potevamo – dirà Matias – raffrenare il suo spirito, che se noi due Compagni non l’havessimo trattenuto, senza dubbio non haveressimo passato più avanti [...]. Però non ne poteva più quello spirito acceso di amore di Dio e già tanto infiammato nel zelo della difesa del suo honore e della sua Legge».90 Trascorsi tredici giorni, si forma una carovana (qāfilah) di muli, cammelli, mercanti e mori diretti ad Azemmour, a cui si aggregano i frati, affidando a un moro il salvacondotto, «seu passaporto». Il re che glielo ha concesso, «ancorché crudelissimo, era molto amico delli Cristiani perché desiderava molto la corrispondenza con Sua maestà Cattolica, il re Filippo, e sapendo che li detti religiosi già stavano a Mazagan, ordinava che un Alcalde suo, chiamato Hamuda, e Franceso Rocco [sic], suo affittatore del porto di Azemmour, andassero a Mazagan per condurre li detti Religiosi con molta autorità e applauso».91 Il nuovo atteggiamento del re segna forse un riorientamento della sua politica estera, fin qui vicina all’Inghilterra e antispagnola,92 verso la ricerca del dialogo con Filippo II.93 Juan non aspetta la scorta destinatagli da mūlāy ‘Abd al-Malik, che nel frattempo si ammala e muore, o forse, come dicono gli schiavi cristiani, è ucciso nella lotta fratricida per la successione al trono. Ora regna mūlāy al-Wal īd, «nemico grande delli Cristiani, il quale subito che cominciò a regnare, dichiarò guerre pubbliche contro li cristiani e cominciò a perseguitare crudelmente i suoi schiavi».94 Il mercante Roque che, munito del nuovo salvacondotto, avrebbe dovuto raggiungere il frate ad Azemmour, il 2 aprile se lo vede arrivare a Marrakech, per sfuggire «agli honori mondani» di cui il re, secondo Juan, avrebbe potuto farlo oggetto. E, inoltre, il suo spirito «non soffriva più dilazione». Con tutta evidenza Juan non conosce il luogo e la situazione in cui si sta cacciando e, ingenuo e sprovveduto com’è, prende continuamente iniziative inopportune che mettono a repentaglio l’incolumità e la vita stessa dei soldati
della guarnigione di Mazagan prima, dei suoi frati e degli schiavi cristiani ora. Una mina vagante!
3.8 L’arrivo a Marrakech Marrakech, la “città rossa” dai mille palmeti, era stata eletta capitale politica dal re Aḥmad al-Manṣūr sin dalla sua ascesa al potere nel 1578. Alla pianura dove si stende la città puntano tre piste importanti che attraversano il deserto del Sahara: una dal Mali, dai paesi dell’alto Senegal o dal Ghana passa per Aoudaghost, le saline di Idjil, Zemmur e Tamedelt; l’altra, più a est, raggiunge Oualata, le miniere di sale di Taghaza, poi la città di Sijilmasa; infine, la più avventurosa attraversa Bilād al-Sūdān (la terra dei Neri), oggetto di grande attenzione da parte dei sultani del Marocco, partendo da Gao, Timbuctù o Djenné, e raggiunge Taghaza attraverso Toudemi. Da Sijilmasa, principale crocevia di tutto l’Ovest sahariano, altre piste, meno frequentate di queste per Marrakech, raggiungono Fez e Tremecen. Sono quelle battute da trafficanti berberi, arabi o mori che conducono carovane di schiavi neri con uomini, donne e bambini, sale e avorio, rame, pepe della Guinea e oro del Sudan.95 Al-Manṣūr dota la città di ricchi edifici, incitando i cittadini più abbienti a costruirne altri, abbellendoli di orti e giardini murati, ricostruendo importanti opere di canalizzazione delle acque. Il re intende attrarvi mercanti di ogni nazione, ai quali offre la sicurezza delle persone e delle merci, facendo a questo scopo aggiungere alle case delle mura con garitte per i soldati di guardia. Le botteghe, concentrate in alcune strade, espongono alla vendita merci italiane, francesi, spagnole e inglesi; non volendo dipendere dal commercio estero, il re installa in città una serie di laboratori per produrre pezzi di artiglieria, polvere da sparo, pistole, spade, selle ed equipaggiamenti per cavalli, ma anche manufatti di maiolica e vetro, prodotti da maestri artigiani stranieri e giovani captivi catturati nella battaglia di al-Ksar al-Kebir. Nel Sud del paese, invece, fa installare numerosi zuccherifici (alla sua morte, nel 1603, se ne inventariano diciotto), in ciascuno dei quali sono occupati fino a duemila uomini. Anche la giudecca, il Millāḥ, brulica di viaggiatori e inviati stranieri, mentre i moriscos fuggiti da Granada dopo le rivolte delle Alpujarras si installano nel quartiere laterale all’Alcaçava, chiamato Riyāḍ al-Zaytūn, recandosi a lavorare nella pianura
circostante dove hanno ottenuto dei lotti di terra trasformati in orti, palmeti e oliveti, in ricordo del loro paese perduto. Per sé al-Manṣūr fa costruire un grandioso palazzo, il Bad ī‘, con l’intento di emulare l’Escorial di Filippo II, non lontano da Madrid.96 Il 2 aprile 1631 i frati giungono a Marrakech e gli schiavi, aspettandone con ansia l’arrivo fuori dall’abitato, vanno loro incontro; Juan li abbraccia e li consola e, se non lo trattenessero, predicherebbe ad alta voce attraversando la città. Subito Roque lo avverte che «quando vederebbe il Re e i suoi giudici maggiori raffrenasse il suo spirito e considerasse che ne risulterebbe il martirizzarli subito e fare restare li poveri schiavi senza rimedio».97 Il 4 aprile Mūlāy al-Wal īd fa venire al suo cospetto i frati, a cui si para dinnanzi «un ometto [hombrecito] di ben poca fortuna, delicatino e di media statura, scuretto [denegredillo] e sciupatino [chupadillo] in viso, seduto in una sedia con le gambe nude e incrociate e senza portamento né autorità alcuna».98 A Juan «il re fece alcune domande sulla sua teologia morale e [...] a che era [dovuta] la sua venuta e disse il medesimo Padre che erano venuti a consolare gli schiavi cristiani e a insegnarli l’obbligo che havevano di servire il loro Signore [quello attuale di cui erano schiavi] e [sic]come che questo Re è tanto geloso della sua Setta, aborrì notabilmente la venuta di detti Padri. Fece consiglio con i suoi e il Cadì che fa l’offitio come di vescovo in terra di cristiani e gli altri savi decisero che, poiché erano venuti con il salvacondotto del re morto con quello se ne tornassero, ché nella loro legge non era permesso che se gli facesse danno».99 Il consiglio (dī wān), un organismo molto importante che raccoglie alti ufficiali dell’esercito e funzionari del governo, si riunisce regolarmente per prendere decisioni politiche, ricevere ambasciatori stranieri, redigere ordini, indagare su lagnanze e rispondere a petizioni, in particolare riguardanti gli abusi di potere. Il qāḍī (dūr al-quḍāh sono gli uffici dei giudici sharaitici) che qui si dice avere un ufficio religioso ha invece funzioni giudiziarie: tratta le cause civili, cercando di mettere d’accordo le parti ed emana il verdetto nelle controversie, registra transazioni finanziarie (vendite, prestiti, donazioni, contratti), divide eredità in forma coerente con la sharuī ah, la legge sacra.100 Proprio l’aspetto religioso di questo diritto induce in confusione i nostri testimoni che spesso assimilano la figura del qāḍī a quella del vescovo. Poiché sultano e consiglio non gradiscono il motivo che ha condotto i tre frati nel loro paese, vogliono rimandarli indietro, garantendone tuttavia l’integrità fisica, dato che il re precedente ha accordato loro la sua protezione. Invero c’è un’altra versione dell’episodio, raccontata da Andrea Camelo, lo schiavo medico
del re, la cui testimonianza aggiunge un elemento inquietante all’incontro dei frati con il «crudelissimo» re che chiede la ragione della loro venuta e si sente rispondere «che venivano a predicare alli Mori la legge delli Cristiani».101 Non sarebbe stato però imprudente Juan a dare questa risposta, dichiarando apertamente di volere fare una cosa del tutto proibita dalle leggi del paese, quanto malizioso «l’interprete Mosè Palanche il quale bene esercitò l’ufficio di Giudeo e di Giuda».102 Per Camelo, dunque, i nemici di Juan non sono solo i musulmani, ma anche e più subdolamente gli ebrei, spesso in conflitto con i cristiani.
3.9 Mercanti, spie, ambasciatori: gli ebrei Pallache Non è difficile riconoscere nel cognome Palanche, corruzione di Pallache, il patronimico di una famiglia ebrea che ha svolto un ruolo di grande importanza nella storia della dinastia saadita. Alla fine del Cinquecento, il Marocco assume un certo protagonismo nello scacchiere internazionale europeo; per la sua strategica posizione atlantica e per la sua politica antispagnola attira l’attenzione delle Province Unite, con le quali, il 24 dicembre 1610, stipula un trattato di alleanza. I due paesi hanno rappresentato la destinazione finale di un flusso di emigrati ebrei, soprattutto marrani, formalmente convertiti ma praticanti nascostamente l’ebraismo, cacciati dalla Spagna e dal Portogallo nel 1492. Ma Fez ha ricevuto contingenti di popolazione ebrea sin dal XIII secolo, e la dinastia merinide (1216-1645), del cui regno la città è la capitale, ne ha fatto servitori e amministratori di corte, costruendo per loro il Millāḥ, dove gli ebrei risiedono sotto la protezione regia (anche Meknés e Tetuan diventano importanti centri ebraici). Sinonimo di giuderia, giudecca, accoglie dopo il 1492 un forte contingente di espulsi spagnoli che si specializzano in alcuni negozi e attività: prestito di denaro, lavorazione di metalli, commercio, amministrazione, diplomazia, medicina. Molti di loro si convertono, altri accettano il patto della dhimmah. Gli esuli conoscono il castigliano e gli usi e i costumi delle corti di cui sono stati scrivani o contabili e diplomatici; conoscenze che mettono a disposizione della nuova patria. Insieme ai protestanti banditi dalle Fiandre e dal Brabante, gli ebrei accrescono l’attività commerciale olandese, sviluppano il commercio di
Amsterdam a detrimento di Lisbona e quello di Rotterdam a scapito di Anversa, teatro di accese lotte religiose. Anche nei confronti di Inghilterra e Francia il Marocco sviluppa un’intensa attività commerciale esportando pelli, olio, zucchero, cera, mandorle, miele, fichi. Verso i Paesi Bassi emigra anche la famiglia Pallache, forse dal Portogallo o dalla Spagna, oppure, secondo un’altra ipotesi, dalla nativa Spagna emigra a Fez, dove un Isaac Pallache è rabbino nel 1588, mentre un Isaac Uziel di Fez sarà all’inizio del Seicento uno dei primi rabbini della comunità ebraica di Amsterdam. Nella documentazione spagnola la prima informazione che li riguarda consiste nella richiesta del sultano Aḥmad al-Manṣūr di inviare dei suoi criados udíos in Spagna a comprare pietre preziose, pagandole con un migliaio di quintali di cera. Forse, già nel 1602, Samuel insieme al fratello Joseph è un informatore del duca di Medina e della Corona spagnola, a cui entrambi ritengono di potere offrire i loro servigi. I Pallache giungono a Madrid nel 1603, ma, temendo il contatto tra i conversos spagnoli e questi giudei di Barberia, potenziali «dogmatizzatori»,103 il re si rivolge al duca di Medina Sidonia, per conto del quale i due fratelli sembrano svolgere attività di spionaggio. Che siano informatori di Medina e della Corona spagnola si evince ancora più chiaramente quando, nel 1605, si pongono come intermediari e informatori nel «negozio» di Larache, la piazzaforte in terra d’Africa che al-Manṣūr ha promesso di cedere a Filippo II in cambio di determinate concessioni, e di cui gli spagnoli vogliono impossessarsi. I due Pallache ritornano alla carica nel 1606, quando li si ritrova a Madrid, dove cercano di vendere la propria mediazione ponendosi sotto la protezione di un altro aristocratico, il conte di Puñoenrostro, che scrive al re di averli al suo servizio. Nelle stesse circostanze offrono i loro servizi a Enrico IV (furono i Pallache a mettere in rapporto i moriscos rivoltosi di Aragona con il re di Francia?) e al granduca di Toscana tramite l’ambasciatore francese. Nel 1607 sono ancora a Madrid e chiedono una cedola reale per poter trasferire lì tutta la famiglia, dichiarandosi pronti a convertirsi. Sarà il Santo Uffizio a espellerli dalla Spagna, cosa di cui si lagneranno con il re, ricordandogli gli anni di fedele servizio prestato alla Corona, rimpiangendo di avere sprecato inutilmente tempo, denaro e rinfacciandogli di avere fatto perdere loro con l’espulsione anche l’onore. Dal 1608 Samuel svolge la funzione di ambasciatore del Marocco presso gli Stati generali delle Province Unite: in una lettera del 1° ottobre, Mūlāy Zūdān scrive a Maurizio di Nassau, principe di Orange, di avere nominato servitore della sua augusta casa il dhimmī Samuel Pallache (Chamouyal Balyach nel
testo), che gestisce con zelo i suoi interessi e si occupa assiduamente dei suoi affari; il mūlā y si impegna a trattare benevolmente tutti i mercanti di quella nazione, così come ha risparmiato, per rispetto verso l’Orange, l’agente olandese Pietre Maertensz Coy che, nel 1605, ha osato inseguire dei pirati inglesi sin dentro il porto di Safi. In effetti Coy, prima imprigionato, poi rilasciato, viene fatto ripartire nel 1609.104 Samuel appare come «un cittadino europeo della prima ora»,105 pronto a offrire i suoi servigi diplomatici alle potenze europee che vogliono servirsene. Come lui, le famiglie Maymoran e Toledano, Ben ‘Attār e Mesquita divengono nel XVII e XVIII secolo «gli intermediari obbligati di tutte le transazioni diplomatiche o commerciali tra Europa e Barberia»,106 monopolizzando il mercato lecito e illecito del denaro. Da allora in poi, «la storia delle relazioni marocco-olandesi diventa indissociabile da quella della famiglia Pallache di cui numerosi membri si distinguono per la loro partecipazione attiva alla politica, al commercio o alla corsa».107 Le traversie della carriera di Samuel, personaggio «ambiguo ed elusivo»,108 i suoi abusi di potere e la ricerca di profitti privati nel corso delle sue missioni diplomatiche illustrano l’ambiguità della sua figura e i limiti della sua devozione al sovrano del Marocco. Non è chiaro per chi svolga azioni segrete, se promuova la corsa per suo conto o per conto del re africano; conosce la bancarotta, il carcere e il sequestro di beni, ma alla sua morte, nel 1616, i suoi successori, il fratello Joseph (che muore tra il 1638 e il 1639) e i figli di questi, Mosè, David, Isaac e Josuè, continuano l’attività diplomatica e commerciale non solo sotto Mūlāy Zūdān, ma anche con ‘Abd al-Malik (1627-1631), alWal īd(1631-1636) e Muḥammad ash-Shaykh aṣ-Ṣagh īr (1636-1655). Gli anni 1609-1614 sono d’oro per i Pallache, che monopolizzano il commercio tra Marocco (che esporta soprattutto zucchero) e le Province Unite (che inviano armi e collaborano anche nella pirateria contro gli Spagnoli); la famiglia sembra talvolta differenziare i propri interessi economici e le posizioni politiche, ma finge diversità di intenti come strategia di sopravvivenza o di potenziamento del gruppo, che ha in Samuel il capo, in Joseph il braccio destro e nel cugino Mosè il primo collaboratore, e che gode dell’incondizionato appoggio di Maurizio di Nassau. «Samuel appare come un tipico rappresentante dell’era del mercantilismo, un uomo che scommette forte, puntando anche quello che non ha, che non ne lascia passare una, rasenta o forza la legalità, non retrocede di fronte a nessun litigio. Commercio legale, contrabbando, pirateria si convertono in attività difficili da delimitare. E nello stesso tempo favorisce gli interessi di Mūlāy Z ūdān»,109 per il quale compra navi e armi. Nel 1610 Z īdān, sfidato dal
movimento di un riformatore illuminato e capo religioso e militare chiamato Ibn Ab ī Maḥall ī, che occupa Marrakech nel 1612, fugge a Safi e chiede di riparare in Olanda. Mosè Pallache scrive un libello a difesa della legittimità di Z īdān, ma l’alleato olandese resta tiepido, finché Maḥall ī non viene ucciso. In queste concitate circostanze il tesoro di Z īdān – lo vedremo meglio più avanti – viene incautamente affidato al francese Castellane, che lo ruba, venendone a sua volta derubato dagli spagnoli.
3.10 Il pirata ebreo In questi frangenti Pallache ha una segreta intesa con Medina Sidonia, con cui tratta lo scambio di Mazagan con al-Ma‘mūrah. Nel 1614 gli olandesi, secondo gli accordi con il re del Marocco di cui Samuel è stato mediatore, avrebbero dovuto entrare ad al-Ma‘mūrah per costruirvi un forte che avrebbero difeso e approvvigionato; ma, mentre le truppe del sultano sono impegnate a sedare una ribellione nel Sud del paese, gli spagnoli, quasi senza colpo ferire e sotto gli occhi degli olandesi, si impossessano di al-Ma‘mūrah. Tutti ne ritengono responsabile Pallache, che cade in disgrazia anche presso Z īdān. Nello stesso 1614, però, la fortuna torna ad arridere al corsaro Pallache che mette a segno un buon colpo: cattura tre navi, una spagnola e l’altra portoghese presso le Azzorre e una inglese. Invece di venderle a Safi, le porta verso i Paesi Bassi, ma la sua nave finisce in Inghilterra dove, su istanza dell’ambasciatore spagnolo, viene arrestato come «pirata ebreo». Si scatena così una vera guerra diplomatica che vede intervenire Maurizio di Nassau in persona, mentre Giacomo I, sollecitato dalla Spagna, decide di consultare il grande giurista olandese Ugo Grozio. La questione legale, di estremo interesse dal punto di vista giuridico, si chiude con una soluzione politica che dichiara l’imputato colpevole non in sede penale, ma civile, e lo condanna al pagamento di trentamila sterline, pagate le quali Pallache se ne ritorna in Olanda pieno di debiti e ormai in rovina. La sua stella declina anche presso i suoi protettori olandesi, per i quali egli rappresenta ormai solo un fastidio; chiede dei soldi per spostare tutta la famiglia a Istanbul, ma muore nel 1616 e con lui scompaiono Madrid e Istanbul dall’orizzonte della famiglia. Il figlio Isaac e il fratello Joseph (con i suoi figli Isaac, Mosè, Josuè, David, Abraham e Amalia) continuano a vivere ad Amsterdam; Mosè, già
braccio destro di Samuel, avendo studiato lingue orientali a Leyda e avendo fatto da interprete e traduttore per tutti i sultani della dinastia saadita, ancora nel 1618 svolge questo ruolo per il sultano. Il cugino Isaac, figlio di Samuel, si installa a Safi dal 1623 e si occupa del riscatto di captivi olandesi. Sin dal 1619 Z īdān cerca di aprire un porto oltre a quello di Safi, poiché la corsara Salé è praticamente indipendente, Santa Cruz in mano a ribelli, Mazagan, al-Ma‘mūrah e Larache in mano spagnola; chiede aiuto agli olandesi offrendo in cambio tutto il salnitro del paese, molto ambito dagli europei per la fabbricazione della polvere da sparo. Il progetto è irrealizzabile e viene abbandonato, ma dal diario di Albert Ruyl, commissario olandese per l’affare, conosciamo meglio la posizione dei Pallache e la loro intimità con il sultano. Ruyl detesta Pallache e non perdona alle autorità olandesi di fidarsi di lui; odia tutti gli ebrei che definisce «vanos, pueriles y mentirosos», litiga violentemente con Joseph che, a sua volta, lo accusa di essere inetto e brutale. Mosè è però l’intermediario del trattato di pace franco-marocchino del 1631; David è ricevuto a Parigi come ambasciatore e, nel 1632, porta con sé il prezioso documento firmato dal re in Olanda, dove si trattiene per qualche tempo per affari personali. A questo punto Luigi XIII ne chiede l’arresto e l’estradizione agli Stati generali, essendo stato da lui ingannato, poiché si è spacciato per inviato del re del Marocco, ha predisposto un trattato di pace tra i due paesi, si è impegnato al rilascio dei prigionieri francesi nel paese africano, ha fatto qualche affaruccio personale ed è restato in Olanda, senza condurre a termine la missione. Chiede perciò agli olandesi di arrestare David, e questi girano la richiesta al re del Marocco, anch’egli favorevole all’arresto. Anche Mosè viene accusato dal sultano di avere falsificato il trattato – avrebbe sostituito dhimmī con «fedele e onorabile deputato» riferito a se stesso – e di essersi presentato come suo ambasciatore, senza averne titolo. Nel 1634 il re di Francia scrive di Pallache a mūlāy al-Wal īd: «Vi ha ingannato, ritirandosi in un paese lontano»,110 senza riportare le lettere di ratifica del trattato approvato dalla Francia il 12 aprile 1632, destinate al re del Marocco. Nell’attesa, lo stesso sultano, poiché non gli era giunta nessuna ratifica della pace, aveva ripreso la corsa contro i francesi, facendo altri schiavi. Due anni dopo il mūlā y marocchino riabilita e reintegra nel suo incarico David e, nel 1636, il suo successore as-Ṣagh īr conferma ai Pallache i loro incarichi, riconosce l’innocenza di David e lo riaccredita come suo agente diplomatico in Olanda. Anche Mosè viene reintegrato nelle sue mansioni e prerogative. E, ancora, è firmato «Mosse Pallache»111 il trattato del 18 maggio 1638 tra Carlo e mūlāy ash-Shaykh, che
stabilisce rapporti amichevoli e decreta la cessazione di qualunque atto di ostilità tra Marocco e Inghilterra. Ma un fiero colpo alla famiglia lo infligge Isaac, la figura forse più avventurosa della prosapia, che, prima docente all’Università di Leyda, nel 1631 abiura per convertirsi al protestantesimo, quindi tronca la carriera universitaria per lanciarsi nel contrabbando di armi a favore del marabutto S īd ī‘Al ī Ben Mūsà, uno dei più grandi nemici del sultano ash-Shaykh: la sua posizione politica, i suoi interessi e le sue scelte si separano così da quelli della sua famiglia, fedele servitrice del sultano, la quale perciò lo esclude dall’asse ereditario e lo trascina in tribunale. Imbarcatosi su una nave della Compagnia delle Indie orientali, raggiunge il Brasile, gettandosi nell’avventura coloniale che gli olandesi hanno avviato dal 1630 con grande successo, grazie proprio all’aiuto dei mercanti ebrei di Amsterdam.112 Fa ritorno nel 1640. Al 1650 risale l’ultima notizia su Mosè, che, come scrive il re del Marocco agli Stati generali delle Province Unite, chiede di sposare per levirato la cognata, così da ereditare il patrimonio del fratello. La vedova però rifiuta di trasferirsi in Africa e le leggi del paese europeo non consentono di obbligarla.113 Mosè doveva avere più di settant’anni. La famiglia è coinvolta molto attivamente anche nel commercio e nel riscatto degli schiavi. Nel 1637 Isaac Pallache stipula un contratto con i genitori di giovanissimi captivi marsigliesi per il cui riscatto vengono promessi 17 000 fiorini. Il mercante anticipa la somma in Marocco, facendosi rimborsare dai suoi soci installati in Italia, Spagna e Portogallo, che gli restituiscono il denaro sotto forma di tabacco, spezie e altre merci richieste dal mercato marocchino.114 L’affare non va a buon fine: tornato nel 1640 dal Brasile nei Paesi Bassi, Isaac deve rendere conto dell’insuccesso della sua missione e del denaro del riscatto. Il processo che segue ne accelera la rovina economica. La famiglia Pallache condivide senza dubbio la sorte della dinastia saadita, alla cui ombra ha costruito la propria fortuna e conosciuto il proprio declino: dalla morte del sultano al-Shayj nel 1663 non si fa più menzione di loro, che si disperdono tra Livorno, Smirne, Amsterdam. Nel 1900, un Isaac van Juda Palache è rabbino della comunità portoghese di Amsterdam; un Juda Lion Palache, professore di lingue semitiche in quella università, è deportato ad Auschwitz, dove muore nel 1944.115 Oggetto della diffidenza verso i mediatori che non appartengono a nessuna delle due parti in causa, non hanno lealtà «innate», poiché sono giudei per «nazione»; definiti come «cangianti, traditori, mutevoli, traditori e praticanti doppiezza e inganno [...]; come ebrei i Pallache avevano pochi diritti e pertanto
poche lealtà».116 I mercanti ebrei, al di là dell’occasionale, infelice esito del riscatto dei captivi marsigliesi di cui si è occupato Pallache, svolgono nel Maghreb un importante ruolo che si affianca a quello delle varie redenzioni per il riscatto di schiavi, eleggendo Livorno a centro di un’importante rete mediterranea.117 A Livorno, «nuova terra promessa»,118 il granduca Ferdinando nel 1593 accorda loro asilo e protezione, diritto di commerciare (con divieto di esercitare l’usura, manifesta o nascosta) e di praticare i loro riti.119 L’opera di intermediazione produce una lievitazione dei prezzi del riscatto, non solo per la percentuale dovuta ai mediatori (dal 15 al 30%, talvolta persino il 40%), che lucrano sugli interessi e sui cambi,120 ma anche perché spesso questi vengono accusati di essere disonesti e di usare i soldi dei riscatti per le loro operazioni commerciali o come garanzie delle operazioni creditizie in corso con il re. L’opinione di una connivenza degli ebrei nella corsa saletina, appoggiati dai fiamminghi, è diffusa e non priva di qualche fondamento; in questi anni una petizione anonima al parlamento inglese li accusa apertamente di finanziare la corsa marocchina e di esserne i principali beneficiari, suggerendo di rifondere i mercanti delle loro perdite in mare con le proprietà degli ebrei in Inghilterra.121 Non sono dunque troppo ben visti dai captivi, e l’avversione assume una coloritura religiosa. Un grave episodio si è verificato tempo prima del viaggio di Juan a Marrakech, quando, «avendo comandato il re si gettasse a terra la Sinagoga delli Giudei che stavano in quella Città, questi, vedendo che gli si rovinavano le sinagoghe e non la Chiesa delli Cristiani che stava vicino a quelle, diedero querela al re [...] e il re comandò che ponessero un tributo alli religiosi per permettergli la loro Chiesa e non rovinarla come la Sinagoga delli Hebrei. E andò una turba di Mori al convento e per capo di quella era Aly Granada che era Segretario del re e figliolo di Moro fatto cristiano, di quelli che cacciarono da Spagna dal regno di Granada e vennero al convento a domandare il tributo, al quale questo testimonio e il prelato che si chiama fra’ Antonio della Croce e fra’ Alonso di Gesù e Maria, che solo questi tre erano in quel tempo al convento per essere morti gli altri, [...] risposero che non avevano quatrini alcuni [...] e subito [am]manettarono li tre religiosi e rovinarono l’Altare dove si diceva Messa e profanarono e oltraggiarono la Chiesa. [Alla reazione dei tre frati] il Moro Aly Granada irritato e stizzato, diede boffettoni e scapezzoni e li gettò tutti e tre per le scale a basso a spintoni e boffettoni e il re comandò che si ponessero in prigione e si posero nelle carceri con gran rumore e fracasso dei Mori e contento degli Hebrei».122 La vicenda viene composta con il pagamento di una pena pecuniaria di mille pezze che gli schiavi, però, non sono in grado di approntare e
che vengono prestate loro da mercanti francesi a cui le restituisce Filippo IV in persona. La storia della schiavitù nell’area maghrebina è punteggiata da frequenti episodi di conflitto tra ebrei e cristiani, di natura religiosa ma nutrito dall’odio politico, in seguito all’espulsione dalla Spagna. «I Giudei sono ricchi, orgogliosi e nemici dei Cristiani. Ogni anno in occasione della disfatta del re Sebastiano [nella battaglia di al-Ksar al-Kebir, detta dei tre re, del 1578] non lavorano, banchettano e si fanno visita, felicitandosi di essere sfuggiti ai poteri dei Ceres o Cafres [dall’arabo kafir] che vuol dire miscredenti. Però sono molto maltrattati dai Mori.»123 Un conflitto che si riflette nel racconto degli avvenimenti anche nel nostro processo. Ad onor del vero, almeno sin dalla agiografia di Francisco di San Buenaventura e, di qui, nelle agiografie settecentesche di Juan – di cui parleremo tra breve – Mosè Pallache, «Giudeo di rispetto, Xequé, e Governatore degli Ebrei di Marocco, Interprete, e Segretario» del re124 non compie nessuna delle cattive azioni addebitategli, anzi, «stava dalla parte delli Religiosi e schiavi perché gli aveva scritto l’Eccellentissimo Signor Duca di Medina Sydonia, supplicandolo che loro favorisse; e avea fatto grande stima della sua lettera»;125 i Pallache collaborano persino al recupero delle reliquie di Juan, avendo ricevuto una lettera del duca di Medina che mette i frati superstiti sotto la loro protezione.126 L’astio espresso dalla fonte secentesca può derivare dalle spregiudicate attività di intermediazione nel riscatto degli schiavi e della corsa.
3.11 Clandestini come i primi cristiani Ad ogni modo, dopo il colloquio di Juan malamente tradotto dal Giudeo, i frati vengono ospitati, in vista della partenza, nella Sesena dei cristiani,127 il bagno degli schiavi. La Sesena, dove sta il maggior numero degli schiavi, è un «grande cortile così fatto che ci sono quattro quarti di case messe a quadrato come nei cortili [dei collegi] degli studenti, così grandi queste case che lasciano in mezzo una piazza ragionevole che quasi ci si potrebbe fare una corrida, e a queste quattro case così grandi le cinge una muraglia che misura 15 tapie e quattro torrioni agli angoli, così larga la muraglia da camminarci sopra tutto intorno e tra le case e la muraglia rimane una strada tutto intorno alle case di 5 o 6 pertiche di larghezza. Le stanze delle case sono così vaste che vengono divise a
metà da una spessa parete, così che ci sono stanze e case attorno al patio grande e la stessa quantità attorno alla strada. Ogni casa è divisa in due piani e hanno le proprie scale e sopra e sotto ci abitano i prigionieri».128 Decisi a restare, improvvisano a casa del medico Camelo un altare per dire messa. Questa volta sono gli stessi schiavi (ancora una volta i Giudei nella testimonianza di Camelo, i rinnegati secondo altri) a riferire al re che Juan «aveva intento di far fare Christiani molti Mori e Turchi», contrastando apertamente la volontà del re, «il quale aveva intenzione di fare molti delli Christiani Mori».129 Per questa ragione, portati fuori dalla Sesena per evitare che incontrino gli schiavi cristiani, vengono rinchiusi nella Giudearìa (il ghetto) ed è reiterato l’ordine di lasciare subito il paese. «Alla Giudearìa che è il luogo dove si sogliono alloggiare gli ospiti fu ordinato dal re a un Giudeo chiamato Ieque Israel, il quale tiene l’affitto del porto di Safi, affinché a conto del re dasse alli tre Padri casa nella quale decentemente alloggiassero e tutto il necessario per il loro sostentamento.»130 Dunque sembrerebbero ospiti del re, per quanto indesiderati, impediti solo di frequentare gli altri cristiani. Nonostante gli schiavi facciano presente il timore della vendetta del re, Juan prosegue la sua opera pastorale: confessa e comunica, sposa quelli «ammogliati di parola», benedice i fanciulli. Matias va a stare invece alla Casbah, dove c’è un edificio del re chiamato Daxcana, residenza degli schiavi ammogliati: entrambi i frati, temendo di essere espulsi dalla città da un momento all’altro, cercano di fare in fretta: «Tutti gli schiavi andandoli conducendo di vinti in vinti e trenta in trenta, come si poteva, in segreto il Capitano degli schiavi, il quale è un cristiano ammogliato, che è il carceriero, e come capitano ha cura di tutti – dirà Matias – e di notte li confessavamo e comunicavamo, e il venerabile Padre sposò alcuni delli schiavi e schiave li quali si erano dati parola e con il contratto fatto da essi con Testimonij coabitavano insieme con intenzione di ricevere il Sacramento del matrimonio avendo un Sacerdote. Ciò in questa necessità è lecito e si puole fare, perché con questo si liberano di essere sforzati a farsi Mori, e da altre fatiche e inconvenienti [...] e altre volte perché il medesimo Re li sforza a ciò fare, e fa questa forza acciò si maritino schiavi con schiave, e alle volte quelli che non possono essere ammogliati, per esserlo già in terra di cristiani o altri impedimenti e queste e altre cose delle coscienze si rimediarono».131 Un altro altare si innalza «con ogni segretezza in casa di Catarina Camacha, che era una schiava christiana molto ricca la quale era nata in Marocco, e già era libera dalla schiavitudine, che ivi chiamano Cortarse».132 Dal 6 al 14 aprile, dilazionata la loro estradizione dal regno grazie all’alcayde
Lamin Embarca, tutti gli schiavi possono adempiere al precetto pasquale. Juan «con bocca ridente e spirito divino diceva: Iddio non inganna persona alcuna, è Iddio che mi ha condotto in questo luogo, sa ben lui il perché e io non lo so, so solamente che questa è la mia vocazione [...] e non so altro se non che Iddio mi ha condotto in questo luogo ed esso sa il perché e io non lo so e non ho che vedere che cosa faccia il re e che dica che ci ne torniamo perché Dio sa li suoi modi ed è la causa prima di tutto».133 Appare tutto preso da «zelo» e grande «vocazione», lungi dallo scoraggiarsi, si «infiamma» di fronte alle difficoltà, «il suo petto non poteva riposare né quietare», dice il mercante Roque,134 cominciando a temere che tanto fervore possa produrre conseguenze indesiderate. Anche Matias vede che Juan è franco, sincero e ogni tanto persino eccessivo; quando gli è toccato di doverlo raffrenare, si è sentito replicare che la sua è la «santa schiettezza» della colomba. Nelle peggiori condizioni di detenzione Juan «non capiva in sé di allegrezza, tanto che – dice Matias al processo – parendomi smisurato e che non stava bene alla gravità di un religioso così prudente e provetto, l’andavo riprendendo e il venerabile Padre mi rispondeva: Fratello, fratello, non ci vuole tanto sussiego, ma rallegrarci in questi travagli li quali Dio ci manda, godiamo in essi, dimostrando bene con quanto gusto lo riceveva dalla mano di Dio».135 Ciò nonostante, Matias non attribuisce le sofferenze subite all’imprudenza del compagno: «Siamo – dice con rassegnazione – il bersaglio di qualsivoglia cattivo fastidio o mali li quali succedono al Re per qualsivoglia cosa».136 Nella sua deposizione giurata, Andrea Camelo sostiene che sono i Giudei della Giudearìa a fare la spia, così che, il 14 aprile, il re ordina di mettere ai tre frati i ceppi ai piedi e di condurli in una prigione: «e di questa sorte li condussero con grande ciurma e concorso di Mori per la Città alla Sesena delli cristiani, e dalla Sesena alla casa di alcuni Alcaldi per determinare la prigione che gli darebbono e ogni uno diceva, Io mi lavo le mani di questo negozio con una parola in arabico, la quale suona Matacani».137 Infine li rinchiudono alla Darlada,138 la casa dove il re imprigiona i suoi debitori e dove ora è carcerato anche il mercante Francisco Roque, «per denari che il re diceva che gli doveva».139 La misura detentiva non trova tutti d’accordo: «La città era divisa in diversi pareri, alcuni dicevano che non era giusto, quello che facevano con quelli Caziçi; perché essendo venuti con salvo condotto, non si dovevano trattare in quella maniera, perché era mancare alla parola delli Re; e con quell’esempio non saria chi si volesse fidare delli salvi condotti, per venire alli Regni delli Mori a
trafficare e contrattare e ad altri negozi che si sogliono offerire nelle Corti; e questo era contro l’autorità e grandezza delli Re del Marocco, e contro quello che si stila in tutte le Corti delli Principi. Altri dicevano ch’era gastigo benissimo fatto, perch’erano venuti a far cristiani li Mori, e predicavano alli schiavi e a loro dicevano Messa, e che tutto era in disprezzo del suo Alcorano, e Legge. [...] Tutto era confusione e grida».140 La prigione è dentro «un cortile grande che chiamano il Mejuar vecchio che ha una fontana in mezzo da cui partono canali tutti intorno, e sotto questa mazmorrilla141 o tugurio dove ci hanno messo – scrive Matias, descrivendo la sua prigione sotterranea – corrono le acque che vengono dalla fontana e da un’altra fonte che ci deve essere intorno, ed era un posto così umidissimo che ci cresceva l’erba e lo chiamo mazmorrilla per la sua cattiva posizione, perché oltre a essere tanto umida e piccola aveva le pareti semidistrutte e facevano passare umidità e terra, e il tetto era fatto di un impasto di terra ormai vecchio che quando pioveva faceva passare l’acqua, e tanto male stava messo che era come stare in mezzo alla strada. E per i bisogni corporali che, essendo noi religiosi, era la cosa più penosa perché non c’era niente di più di un angoletto del tugurio con una separazione così piccola che appena copriva una persona, e nello stesso angolo un vaso che poche volte potevamo vuotare, motivo per cui era gioco forza ci fosse cattivo odore e delle tre carceri dove ci hanno tenuto, questo era il migliore».142
3.12 Prigioniero, non schiavo Per avere disobbedito al divieto di svolgere attività pastorale, la condizione dei frati è dunque cambiata in maniera significativa: da visitatori protetti da un salvacondotto e in attesa di essere rimpatriati a reclusi. Nel carcere buio, umido e stretto al punto da non poter dormire distesi, trovano dunque Francisco Roque, rinchiusovi per la collaborazione offerta ai frati o per debiti pregressi con il re, secondo un’altra ragionevole testimonianza, o ancora più plausibilmente – come reputo – per essere sospettato di spionaggio. Juan bacia le catene esclamando: «Dio mio, quando meritai io un tanto bene? Adesso conosco che mi volete bene e compite li miei desideri [...] questi travagli e questi ceppi voi faceste suavi»;143 incoraggia i suoi due confratelli e gli schiavi a sopportare le disavventure; dice
messa, somministra i sacramenti, a mezzanotte con i compagni prega e si disciplina. Si dà da fare per «havere alcuni libri della setta dei Mori in volgare per sapere li principali punti sopra li quali era appoggiata la loro setta per prevenirli».144 Il frate in fondo spera di essere fatto schiavo, «per conseguire con questo mezzo il suo intento»145 e, intanto, sia nella casa del medico Camelo che li ospita sia presso un’altra abitazione nel Trasenal – «un barrio grande di Cristiani prigionieri, che sta dentro l’Alcaçava,146 dove sta il palazzo del re e le sue abitazioni, molto vicino alla Sajena»147 –, dove vivono gli schiavi ammogliati, si erigono altari di fortuna, si confessa giorno e notte, si celebrano i matrimoni di coppie che si sono scambiate la sola promessa («la parola»). La «domenica delle Olive» si benedicono i rami, ma tutto di soppiatto, proprio mentre il re passa da lì, meravigliato che nessuno schiavo sia in strada. Come i primi cristiani nelle catacombe, tutti trattengono il fiato e considerano un miracolo che il seguito e la scorta reale non si accorgano di nulla. Quando apprendono che il re, il successivo 18 aprile, venerdì santo, «voleva far fare Mori alcuni schiavi giovani e di poca esperienza», i frati cercano di dissuadere uno di questi, il ragazzo che porta loro il cibo in carcere, il quale però, lungi dal cambiare idea, dà prova di fermezza, raccontando tutto ai Mori e aggravando così la già difficile condizione dei reclusi. Il 13 maggio il re li riceve nuovamente in una accesa udienza e impone loro una più pesante punizione: da quel giorno viene installato nella loro cella «un molino di polvere [mortaio] e un soprastante» che li picchia di santa ragione. Il soprastante in questione «è un Moro figliolo di un cattivo renegato genovese e di una Giudìa, la quale per maritarsi con suo padre si fece di Giudìa Mora, di mala conditione il quale gli faceva maltrattamenti».148 Juan considera macinare sassi nel mortaio la giusta punizione per i peccati commessi e incita i confratelli e Roque a farne anch’essi uno strumento di espiazione. Si sbraccia come si fa nei conventi per lavare i piatti, impugna il pestello del peso di più di dieci libbre dicendo: «“Signor Roque dica Viva la fede del nostro Signore Gesù Christo, e preghi che Dio converta quello che ci ha dato le bastonate e salvi la di lui anima”. E diceva: “Date ora tante mazzate in honore di Christo nostro Capitano, e tante in honore di tanti anni che il Nostro Signore andò per il mondo, e settantatré [mazzate] in contemplazione degli anni che la Nostra signora visse nel mondo” [...] e in queste contemplazioni e altre spiritualità il Venerabile Padre e i suoi Compagni esercitavano il lavoro corporale».149 Altre volte, pestando nel mortaio, «inalzando i nostri cuori a Dio con l’orationi giaculatorie dicevamo in voce alta: Questo colpo sia per l’amore della Santissima Trinità, e questo per il Padre e
questo per il Figlio Crocifisso per noi altri, questo per il Spirito Santo consolatore questo per la Serenissima regina degli Angioli, questo per San Pietro, San Paolo e così via. Altre volte davamo tanti colpi per la Passione di Nostro Signore Gesù Cristo; altri tanti per li dolori della Vergine, altri tanti per ciascheduno dei Misteri, altri tanti per il Rosario, altri tanti per la Corona».150 Tutti i santi del paradiso vengono chiamati in soccorso dei loro crudi patimenti. Quando Andrea Camelo e altri schiavi cercano di alleggerirne «i travagli» chiedendo qualche favore ai mori, li trovano tutti ostili («tutti erano contro li Cristiani»).151 Dunque il terzetto è sgradito non solo al re, ma anche ai mori e ai rinnegati, gli elches; tutti li chiamano Cacifes (o Cacizes), termine che indica una autorità religiosa, ma con tono dispregiativo. La posizione di Roque intanto si aggrava quando, il 20 maggio, cerca di impedire al soprastante di picchiare Juan, prendendosi le legnate destinate al frate. Questi comincia a urlare a squarciagola, «chiamò tutti tiranni, senza legge, senza fede e senza Dio»,152 salvando con questo inatteso diversivo la vita al povero Roque, poiché il moro si ferma «confuso», «come stupefatto». Il moro, però, accusa Roque di avergli alzato le mani e questo gesto da parte di un cristiano contro un musulmano è punito con la morte. Il mercante la evita solo per i buoni uffici interposti a suo favore da due alcaydes: uno, Ayagena, è un generale dell’esercito del mūlā y, l’altro, Mustafà, è il suo maggiordomo. Anche alcuni schiavi vogliono corrompere i carcerieri per alleggerire le punizioni dei prigionieri, ma Juan li persuade a non togliergli «il merito presso Dio e che per questo essi erano venuti e che il maggior bene che desideravano erano questi travagli».153 Non sempre «tutte le cose turchesche si mitigano con denari»154 e anche un’iniziativa delle schiave che chiedono al re di poter portare del cibo ai reclusi riceve uno sprezzante diniego: «“Mangino veleno” risponde il Re, e con rabbia le cacciò di sua presenza».155 Nel carcere, però, i frati riescono nottetempo a dire messa e «dalle fissure della porta della prigione vanno alcune volte gli schiavi a consolarsi e confessarsi secretamente».156 A dir la verità, il re fa più di un tentativo per salvare la vita di tutti e tre i frati: dichiara inizialmente che non li avrebbe fatti schiavi per rispettare il salvacondotto concesso dal suo predecessore e propone una prima volta di scambiare Juan con la biblioteca che, sottratta al suo genitore Mūlāy Z īdān, il re di Spagna teneva all’Escorial; una seconda volta che li avrebbe liberati «se gli volevano vendere Mazagan»;157 una terza volta che gli restituissero in cambio un suo alcayde, chiamato Amuda, che il 13 maggio era fuggito a Mazagan insieme a tre compagni. Non si può dunque dire che il re agisca d’impulso, ma, anzi,
secondo una logica diplomatica che cerca di negoziare uno scambio di prigionieri. Infine, minaccia che se a Mazagan accolgono l’alcayde fuggiasco, per ritorsione ridurrà Roque, al momento prigioniero, in stato di schiavitù.158 Più che schiavi veri e propri, i nostri frati sembrano piuttosto ostaggi, prigionieri politici, e la loro condizione risente in modo diretto della variazione dei rapporti internazionali. La biblioteca di Z īdān, composta da più di tremila volumi di poesia, medicina, filosofia, politica e religione, contenente, si dice, le opere manoscritte di sant’Agostino, è stata forse sottratta dal console francese Jean Philip de Castellane, insieme a una quantità di pietre preziose, per portarla in Francia; o forse rubata da un rinnegato francese; o affidata a un capitano provenzale che farà vela verso la Francia invece che trasportarla da Safi a Santa Cruz (Agadir).159 Come che sia, gli spagnoli pattugliano l’Atlantico e, sotto il comando di don Luigi Faxardo, intercettano l’imbarcazione (che alcuni dicono pirata); il re marocchino offre subito a Filippo II 70 000 ducati per il riscatto, e il re di Spagna rilancia chiedendo la liberazione di tutti gli schiavi spagnoli, ma, coinvolto nelle guerre intestine, Z īdān non dà corso alla transazione. Filippo dispone che tutti i volumi vengano depositati alla biblioteca dell’Escorial, dove, nel 1671, «un terribile incendio divorò quasi tutti quei preziosi libri».160
3.13 Dialogo tra sordi Ebrei e rinnegati intanto soffiano sul fuoco, mettono in giro false notizie e supposizioni fuorvianti: dal momento che Matias è stato nelle Indie per convertire quei popoli, il precedente re, fratello dell’attuale, essendo qās ī161 (che vuol dire «disgraziato da Dio»), doveva averlo chiamato per convertire i mori; poiché Juan è parente del duca di Medina Sidonia e il papa lo considera santo, i due influenti personaggi non gli avrebbero negato niente: da qui probabilmente proviene la reiterata richiesta del re marocchino di usare i frati come mezzi di scambio. E quando, alla proposta di scambiarli con la biblioteca di Z īdān, questi replicano «che essi non sapevano cosa si fossero li detti libri e che non farebbono niente per riaverli»,162 il sultano ordina loro di scrivere al re di Spagna. I frati si rifiutano, poiché sono certi che il re di Spagna non avrebbe fatto «cosa alcuna» a loro favore. I dialoghi in questione, riferitici da testimoni
cristiani, amici e compagni di schiavitù di Juan, mostrano l’intransigenza e la perentorietà delle risposte del frate, che nelle condizioni di prigionia avrebbe dovuto usare maggiore prudenza. Non stupisce che il re si adiri e minacci di ridurre Roque in schiavitù e poiché «li Religiosi cristiani venivano a fare li Mori cristiani e che lui farebbe li cristiani mori»,163 obbliga cinque giovanissimi cristiani a rinnegare, sotto la minaccia di una pistola. A don Emanuel de Campo, poiché conosce il latino, Juan raccomanda «che rivedesse tutta la libraria della Chiesa della Sesena, dove vi è quantità di libri, accioché vedesse se ne troverebbe alcuni che trattassero dell’Alcorano dei Mori, che haverebbe potuto essere, che essendovi stati in quella schiavitù molti Religiosi e huomini dotti che avessero avuto curiosità di havere tradotto l’Alcorano in volgare e li punti principali nelli quali li Mori si fondavano nella loro Setta per prevenirli e essere fondato in quelli; e avendoli veduti tutti [don Emanuel] non trovò cosa alcuna e lo pregava [di vedere] se vi erano Andalusiani che li avessero in volgare».164 Il frate sembra volersi preparare a un dibattito religioso. Difatti, il 24 maggio Juan viene nuovamente chiamato in udienza e il re «lo interroga sopra la sua legge»; dopo un’ora e mezza esce dal colloquio molto «afflitto», essendo stato «tormentato». A queste udienze pubbliche, che vertono sempre su questioni religiose, partecipa il frate, presenziano i saggi consiglieri del re, i suoi magistrati e i quḍāh (plur. di qāḍī ): alle domande del sultano seguono risposte assertive, definitive, e prediche ispirate. Anche nel corso di un precedente incontro il re ha chiesto a Juan «come potevano gli uomini perdonare li peccati»:165 il principio della confessione, infatti, non trova corrispettivi nel Corano dove solo alla divinità spetta questa prerogativa. I marabutti non possono perdonare i peccati di nessuno, poiché sono semplicemente degli uomini che hanno avuto la grazia di essere illuminati e ispirati da Dio, ma questi non permette nemmeno ai profeti di perdonare i peccati degli uomini – «Chi mai potrebbe perdonare i peccati, se non Dio?»,166 recita il Corano – o di interferire nel suo modo di governare le sue creature perché è solo lui che conosce davvero quello di cui gli uomini hanno bisogno.167 Nell’islam c’è però un concetto molto vicino a quello messo in pratica dai sacerdoti quando assolvono i cristiani dai loro peccati, che viene chiamato al-shaf ā‘ah, l’intercessione: è uno dei più importanti concetti dell’islam, ritenuto miscredenza dai dottori di alcune scuole, ma che si ritrova nel Corano e negli aḥādī th, la tradizione che riporta vita e atti del Profeta.168 Diventa plausibile ipotizzare che i quesiti che il sultano pone ai frati siano ispirati dalla lotta interna all’islam, diviso tra varie scuole e al
momento dilaniato da particolarismi, ispirati o capeggiati da marabutti che agitano motivazioni religiose come arma politica. Le domande che si pongono i musulmani sono tante e invero non dissimili da quelle che agitano anche molte coscienze cristiane: esistono per davvero il paradiso e l’inferno? E se esistono come sono? Saranno eterni? Possiamo comprendere la loro natura? La resurrezione è un ritorno o una seconda creazione? Torneremo corpo e anima? Solo anima? Solo corpo? Il re chiede a Juan se sia suo nemico, Juan risponde che tutti gli uomini sono fratelli, che tutti i re governano per volere di Dio e che quindi bisogna ubbidire loro, e che egli stesso vuole bene al re. Questi replica: se mori e cristiani sono nemici come può dire di amarlo? Risponde il frate che «voleva tanto bene a sua Maestà e che solo il desiderio del suo bene lo aveva condotto lì» e che è venuto, anzi, per portargli un’ambasciata: «Da parte di Dio gli diceva e faceva sapere che non c’era che una legge e una fede e un battesimo e che tutti quelli che questo non professavano non si potevano salvare, che vedeva Sua Maestà bene inclinato e di buona intentione e così gli dispiaceva che si perdesse [...] e parlò tanto che lui medesimo non sapeva quello che disse, perché solo Dio parlava che non poteva lui senza particolare spirito di Dio dire quello che diceva».169 Per queste parole – che a noi ricordano quelle di Bernardo – il re lo fa legare a una colonna di marmo e frustare violentemente.170 Roque non assiste alla scena, ma gli viene raccontata dagli altri due frati, ammessi subito dopo alla presenza del re. «Quelli che li menavano andavano dicendo: “Fatevi Mori, sinon vi taglieremo la testa”, al che quelli rispondevano: “Viva la fede di Cristo, tagliateci la testa”».171 Proprio questo farebbe il re se l’alcayde non ne raffrenasse la furia: legati alla colonna, anche i due frati vengono frustati così da essere lasciati «quasi morti». Il rinnegato che fa da paggio al re rivela che alle domande sulla religione i padri rispondono con brio – ritorna anche il «volto ilare» del primo martire – e arroganza, senza timore del re. Ricondotti in carcere, i religiosi si abbracciano e confortano l’un l’altro, baciano le piaghe di Juan, abbracciano un’immagine del Crocifisso e pregano: «Signor mio Gesù Christo, quando meritassimo noi altri un tanto bene come [quello] di patire per vostro amore in una colonna a vostra somiglianza».172
3.14 Il martirio
Di lì a poco i servi del re vengono a prendere Juan per sottoporlo a un ennesimo interrogatorio. Juan chiede un buon interprete, onde evitare l’infausto intervento dell’ebreo Pallache; viene chiamato Emmanuele Suarez (lo stesso che farà da notaio nella causa di canonizzazione del 1631), testimone della durezza del contraddittorio tra i due e di un Juan assai «infervorato». Il chirurgo Salomon de la Farxa, anch’egli presente alla scena, aggiunge che, nel dire «che la legge di Macometto non è buona e non ci si può salvare, [Juan avrebbe aggiunto]: “Io rinnego quella e il maledetto Macometto il quale la fece” e sputò».173 Oppure, secondo un altro testimone, Juan avrebbe sputato quando il re gli avrebbe detto: «Come può essere che tu sij nostro fratello, se li Mori e li Cristiani sono nemici. Fatti moro e saremo fratelli».174 In questa atmosfera drammaticamente concitata, il re ritorna a chiedere: «Perché dici male del mio profeta?».175 Tutti sanno che ci sono tre interdizioni assolute ai cristiani in terra islamica, che meritano la punizione più dura: «cristiani e giudei che entrano nelle moschee, che sono trovati con maomettani o che parlano male di Maometto devono essere bruciati».176 Senza preoccuparsi delle conseguenze, Juan risponde: «Perché è vero e la verità deve dirsi in ogni tempo».177 Queste parole, che suonano ad Andrea Camelo come «piacevoli e amorose»,178 devono essere sembrate provocatorie e irriguardose al re che, stizzito, lo «saettò e ferì minutamente e il medesimo fecero gli altri rinnegati e l’alcayde, e Juan levandosi e cadendo predicava la legge di Dio. E da lì lo portarono vicino alla porta del palazzo e lo bruciarono ancora essendo vivo».179 Trascinano fuori anche i suoi due compagni perché assistano al supplizio e quindi li riportano in prigione. La drammatica sequenza che conduce al martirio è raccontata in tutti i particolari da testimoni per lo più presenti: il re lo ferisce alla testa con un pugnale, «che è un’arme come uno stiletto, di giusta misura, grande e acuta e forte e ritorta e quando lo volse ferire dimandò una scimitarra e con quella lo ferì [...] e caricando una balestra con le saette, così adirato e conturbato, che non gli veniva fatto d’armarla [...] e il Venerabile che havea perso tutto il suo sangue, cascò in terra di fianco e vedendo il re che gli voleva tirare la saetta s’alzò e si mise in ginocchioni per riceverla e non potendo restare così, tornò a cadere e [...] si mise di fianco steso il viso e il petto per ricevere le saette».180 Si avvicina un moro, chiamato Axilbeque «e gli metteva la punta della scimitarra sfoderata nella bocca e il venerabile padre, come quello che sentiva pena per la tardanza dell’Amato, e dimostrando bene la di lui brama che aveva di giungervi col mezzo di questa morte, zinnava e poppava e si spingeva verso la medesima punta della scimitarra dentro della sua bocca».181 E come se ciò non bastasse, «li
Negri soldati castrati li quali stavano con il re gli fecero molte ferite e, lasciandolo per morto, lo cavarono di lì quattro schiavi»182 e lo portano nel giardino dove è stata allestita la pira. Mentre ve lo conducono a braccia, Juan comincia a parlare, anzi a predicare, sopra «il pulpito delle fiamme, qual canoro Cigno»;183 l’alcayde Melen Imbarca [Embarca], «crudelissimo», bastona gli schiavi cristiani dicendo: «Cani, perché ascoltate questo cane che disse male del re? E il Santo Martire lasciò di parlargli e si mise a parlare latino».184 «Era vivo quando lo buttarono nel fuoco»185 e «due Mori lo rivoltavano con due bastoni e altri tiravano sassi e così lo bruciarono mezzo e il re comandò senza levarsi dalla finestra [da cui assisteva alla scena] che lo sotterrassero acciò che li cristiani non ne pigliassero le reliquie».186 Cosa che gli schiavi faranno ugualmente, poco tempo dopo, nel corso di scavi nel giardino del re, traendo le parti incombuste del corpo e «alcuni tizzoncini della bragia nella quale fu abbrugiato il servo di Dio».187 Già sulla scena del martirio, però, i presenti cominciano a raccogliere le reliquie (il sangue e la terra che ne è inzuppata, l’asta di una saetta sporca di sangue, il rosario e il cingolo) e a distribuirle tra gli schiavi che ne fanno oggetto di venerazione. Maria de la Concepcion, balia della figlia del re, accorre a prenderne, ma viene fermata da un Moro: «“Dove vai Maria, cagna, a raccogliere le ceneri e reliquie di questo cane Cazis?” E questa testimonia se ne tornò al Palazzo perché quel renegato non lo dicesse al re che l’haveva veduta lì e perché il re non la trovasse assente».188 Per questa ragione, con grande suo disappunto, non può assistere al martirio né assicurarsi alcuna reliquia. I testimoni del «Processus Madritensi auctoritate ordinaria confecto», un ulteriore grado del processo, celebrato nel 1636, aggiungono altri particolari miracolosi della morte di Juan: per tre giorni continui c’era stata «una luce» nel luogo del martirio; «dalla sua faccia erano usciti come due splendori tanto belli e risplendenti che esso testimonio e gli altri rinnegati e mori si erano intimoriti»,189 anzi, il «globo di splendore» stazionava proprio sopra il suo capo190 e non poteva che trattarsi di un «miracolo grandissimo e molto prodigioso».191 Infine, mentre stava nel rogo, Juan «si levò in alto, come in estasi e al re e agli altri Mori spaventati gli pareva che saliva in Cielo e fuggirono per il timore».192 Di più, in mezzo alle fiamme, «non terminava la sua vita»193 e predicava sino all’ultimo respiro, senza che né le pietre che gli vengono lanciate né le fiamme lo offendano. Mentre sembrava morto, «come lo gettarono nel fuoco, ritornò in sé e si pose in ginocchioni in mezzo alle fiamme, le mani elevate e li occhi al cielo e
stette così sempre predicando la fede di Cristo in grande spirito e voce».194 Si noti che sono mori a riferire queste informazioni: «Un Renegato chiamato Florenzio disse che avea veduto nel Santo Padre un gran splendore e che usciva fuoco dalla sua faccia; l’Alcayde Morato Laguna disse che si pose sopra le punte delli piedi, e che gli parve che si voleva salire al cielo. Un Alcayde Renegato disse che la faccia del Venerabile Padre stava risplendente come il Sole. Altri Renegati affermarono che stava il Servo di Dio risplendente come un Angiolo».195 Imori si introducono per bocca di testimoni cristiani dentro il processo: che è come dire che i testi de visu, da cui i testi de auditu apprendono i fatti per riferirli al processo, sono musulmani. Oppure possiamo supporli criptocristiani: ormai sappiamo che in molti casi l’adesione all’islam è apparente, esteriore, e che molti che hanno «preso il turbante» dichiarano, mutate le circostanze, di essere rimasti cristiani in fondo al loro cuore. Bachafar e Raduam, essendo vicini al rogo, testimoniano de visu che Juan è stato fermo nella sua fede sino alla morte.196 «Un Giudeo amministratore della sinagoga di Azamor testificò che nella circostanza del martirio, sollevato per aria e rapito come in profondissima estasi, spargendo da tutte le parti del corpo raggi e splendori di luce sovrumana fu veduto dal Re, dai Mori e dai rinnegati, alcuni dei quali testificarono che la di lui faccia risplendeva come il sole, e altri come un Angiolo. E uno depose d’aver in quel tempo veduto nel santo padre un gran splendore e che dal suo volto usciva fuoco. Per la qual cosa ne sentì così gran tenerezza che non poté trattenere le lagrime benché procurasse di reprimerle, e dissimulare, affinché non fosse veduto dal Re e dagli altri circostanti.»197 Se la mia supposizione è esatta, troveremmo musulmani ed ebrei almeno come testimoni de auditu al processo di canonizzazione di Juan, in barba a qualunque regola procedurale e decreto papale. Anche gli altri frati sono stati tormentati, legati per i piedi a un palo, sospesi da terra, frustati crudelmente sulle piante dei piedi, beffeggiati, fatti oggetto di lanci di pietre dai rinnegati, incoraggiati a «farsi Mori se non volevano lavorare senza mangiare e se non volevano essere abbrugiati come il loro compagno».198 Ma, nonostante il re voglia uccidere anche Matias, i suoi rinnegati lo persuadono che è proprio il martirio che i frati vanno cercando e che sarebbe molto meglio farli morire poco a poco. L’alcayde Aya avrà avuto un ruolo decisivo in questa opera di persuasione; di contro un altro alcayde, di nome Morato, «lamentandosi che il detto fra’ Matias gli haveva detto in faccia sua che era dannato all’Inferno e che la legge delli Mori non è buona, andava dicendo: “Questo Cafis è un cane, che
meritava che lo bruciassero” ed era molto stizzato perché si pregiava assai di Moro e è quello che ha cura di castrare li rinegati piccoli».199 Invece Gines viene risparmiato perché uno dei rinnegati fa notare al re «che poiché quello non era sacerdote né gli predicava, non era cosa giusta dargli il castigo, e così lo lasciò e lo ricondusse in carcere».200 C’è sempre il concetto di giustizia alla base della repressione dei mori: «giusta pena», «giustiziare» sono i termini più spesso usati nonché le coordinate delle azioni in corso. Il re è sempre presente con i suoi funzionari e consiglieri, il dibattito religioso avviene in udienza pubblica e il re si ritira poi con il suo stretto entourage,lacongregazionedei qudāh,i faqueres [fuqarā’] e i suoi Marabutti, per prendere le decisioni: «Si faceva le sue Congregazioni con li Capitani, Governatori, e il Cady che è il medesimo che tra i cattolici il Vescovo e ivi essi chiamano Maestri della Legge e benché questo non era di parere che il servo di Dio venisse martirizzato, ciò nonostante quel pessimo re non volse condescendere a questo senso, perché diceva che l’Alcorano ordinava che quello che parlasse male di Mahoma fosse abbrugiato vivo, al che replicò il Cady: “Muley, io sono Maestro della Legge, la sto insegnando alli miei discepoli e quello che scrivono li Dottori di quella è che quello che volontariamente senza essere provocato né irritato dirà male della nostra legge e del nostro Profeta, questo sia abbrugiato vivo. Però se tu e li capitani governatori avete provocato il Caffis (che lo diceva per il Servo di Dio), e dite male della sua legge e la condannate, [egli] l’ha da difendere e così non merita la morte che gli volete dare”. E nonostante questo, il detto re lo abbrugiò vivo».201 Il mondo religioso musulmano è meno concorde di quanto a prima vista non appaia, più diviso, plurale; comprende moderati come il qāḍī ed estremisti come i rinnegati, che colgono ogni buona occasione per infierire contro i cristiani, onde dimostrare ai mori la sincerità della loro conversione, o anche solo spinti dall’entusiasmo dei neofiti. Il dialogo tra i credenti delle due religioni sembra occasionalmente possibile: lo stesso frate, protagonista dell’episodio di cui sopra, ci racconta che una volta si trovò a parlare con un marabutto di santa vita che comprava passeri e uccelli per restituirli alla libertà e che, richiesto del motivo di questo bizzarro comportamento, diede la seguente spiegazione: «Dava libertà a quelli uccelli e passeri, li quali avendoli Dio creati liberi, li cacciatori li facevano schiavi e vendevano. E questo testimonio gli rispose: “Ma come, voialtri non vi fate scrupolo di armare navigli e andare in Spagna a fare schiavi li Christiani avendoli Dio fatti liberi e dassivo la morte a mio fratello Juan del Prado”, al quale rispose il detto Morabito: “Tuo fratello, il Cazis, parlò avanti del
re e delli capitani male della mia legge, havea cattiva bocca e così meritò bene la morte”».202 Il re ascolta con molta considerazione anche le opinioni dei suoi rinnegati, che in qualche occasione ne raffrenano l’impeto, ma che in generale lo accompagnano in ogni momento, essendo loro affidato lo svolgimento della gran parte dei servigi relativi alla sua persona, poiché di loro il mūlāy «si fida più che delli propri Mori».203 C’è un baccanale di sangue e tormenti in quei giorni – Juan bruciato vivo, Matias ridotto in fin di vita per le percosse, presi anche due dei mori fuggitivi (non Amuda), tormentati e uccisi pubblicamente. L’atmosfera è al calor bianco. Roque può dichiarare sotto giuramento che quel 24 maggio Juan è stato martirizzato, cosa indispensabile per aprire il processo di canonizzazione senza che tra la morte del canonizzando e l’apertura della causa intercorra il lasso di tempo stabilito dai decreti di Urbano VIII. Ma aggiunge che il re, dopo la morte del frate, lo manda a chiamare per dirgli: «Se in Spagna in presenza del re si mettesse un Moro a predicare la legge dei Mori, e dir male delli cristiani e delli santi della loro legge, pure lo martirizzerebbero».204 Anzi, gli chiede di scrivere in Spagna, perché anche laggiù si sappia come sono andate davvero le cose. E Mosè Pallache aggiunge: «Ben sa vossignoria, che nella Spagna nel dire alcuno male della sua Legge lo prendono nella Inquisizione, e lo abbrugiano».205 Dunque, il re vuole che l’avvenimento venga correttamente riferito: era accaduto «quello che i frati volevano, così dicevano che morivano martiri».206 In altre parole, se la sono proprio cercata. E al mancato addebito di questo gravissimo reato agli altri frati, oltre che all’intercessione dell’alcayde maggiore, si deve forse il ripensamento che lo induce a far salva la vita degli altri due francescani. Andrea Camelo è, come abbiamo visto, il medico personale del re, e tra i due intercorre un rapporto di confidenza e fiducia reciproca: il re chiede anche a lui se creda che Cristo è Dio e non piuttosto uno dei suoi grandi profeti, gli perdona di essersi interessato a suo tempo del salvacondotto per la venuta dei frati, ma resta diffidente quando Camelo insiste nel sostenere che questi sono venuti non per convertire i mori, ma per riscattare gli schiavi prigionieri che rappresentano per il sultano il tramite privilegiato con il duca di Medina e con lo stesso re di Spagna. Il 14 luglio dalla fortezza di Mazagan arrivano lettere di risposta alla richiesta di restituire i fuggiaschi al re, nelle quali si descrive enfaticamente il giubilo seguito alla morte di Juan, celebrata con tre giorni ininterrotti di festeggiamenti, balli e spari di artiglieria, e si esprime l’auspicio che anche gli altri due frati
possano guadagnare a loro volta la corona del martirio. A queste parole «il re si adirò e con una furia diabolica mandò otto o dieci rinnegati che conducessero detti religiosi per ammazzarli».207 Fortunatamente, mentre si tarda a trarli di prigione per condurli al suo cospetto, il medico Camelo riesce a rabbonirlo. Non è detto che le cose si spingano fino a tanto. Più comunemente in Barberia vediamo finire sul rogo i religiosi che prima rinnegano la fede cattolica, poi tornano sui loro passi e pubblicamente fanno professione della precedente fede cristiana. Così accade al palermitano Alipio di san Giuseppe, degli Agostiniani scalzi, martirizzato il 17 febbraio 1645; la stessa sorte tocca ad Algeri al domenicano frate Giuseppe che, avendo rinnegato «sotto la suggestione del diavolo»,208 viene persuaso da un altro frate, il carmelitano scalzo Angelo da Genova, a ricredersi: bastonato non recede dalla sua posizione, che gli fa meritare il rogo. Tra le fiamme domanda perdono per i suoi peccati e raccomanda agli altri cristiani di conservare la fede. «Infine, soffocato dal fumo, cadde a terra, finendo la sua vita dando a tutti gli schiavi cristiani un esempio di vera religione.»209 Frate Angelo, principale artefice del pentimento di Giuseppe, è un buon religioso e in poco tempo entra nella grazie di tutti gli schiavi, anche «luterani, calvinisti, puritani, scismatici et nicolaiti, perché questo bagno è fornito di religioni di tutti questi tipi»;210 regola i conflitti tra schiavi di varia nazionalità e fede e tutti lo invitano alla loro tavola. Accrescendosi la sua fama di uomo pio, il suo padrone, di nome Alì Pegelin, lo manda a chiamare e gli chiede: «Che cosa ne sarà di me?», dimostrando un interesse quasi ossessivo per un dialogo impossibile. Il frate, restio a rispondergli, dice prudentemente: «Vostra Signoria è capitano generale delle Galere, e io sono un povero religioso. Vostra Signoria è il mio padrone e io sono suo schiavo. Mi sembrerebbe [rispondendo] di oltrepassare il rispetto che io debbo a Vostra Signoria».211 Pegelin gli promette che non si vendicherà di una franca risposta e il frate soggiunge di essere sicuro che il diavolo lo prenderà con sé. Il padrone gliene chiede il motivo e il frate gli rinfaccia che non ha altra religione che il furto, in particolare cattura cristiani, non esercita nessuna opera di misericordia, non crede in nessun Dio, si prende gioco del Corano, non va alla moschea e non recita le preghiere a cui chiama il muezzin. La dura requisitoria produce una risata di Pegelin e l’affermazione spavalda di voler gioire del tempo che gli resta e di infischiarsene di quello che accadrà alla sua morte: «Dopo la mia morte, che il diavolo faccia di me quello che vorrà»212 e rimanda il frate al bagno. Ma qui la differenza sta anche nel fatto
che Pegelin non è un musulmano osservante e che il frate è prudente e ben consapevole dei rischi insiti nella loro vistosa disparità di condizione. Senza facili generalizzazioni, bisogna ammettere che non sono pochi gli episodi che possiamo definire prossimi al dialogo tra religioni, anche se duro, diffidente. Un esempio tra i più dotti: spagnolo di origine, Musammad al-Quas īr, qāḍī del sultano marocchino Mūlāy Zūdān, è un convertito all’islam. Nel 16101611 è inviato come ambasciatore in Olanda e, nel corso del suo soggiorno a Le Hague, invitato a un banchetto con il principe Maurizio di Nassau; richiesto della sua opinione su Gesù, l’ambasciatore preferisce non rispondere subito, annunciando una successiva risposta scritta. Un banchetto non gli sembra l’occasione più adatta per la discussione di un tema religioso che gli impone di consultare il Corano e i commenti arabi al Vangelo. Nel 1611, al suo ritorno a Marrakech, effettivamente invia uno scritto in latino, traducendo dallo spagnolo un suo polemico libello anticristiano.213
3.15 «Tutti lo avevano per santo» A Marrakech prosegue intanto la raccolta delle testimonianze sul martirio di Juan. Il 9 giugno testimonia Gines de Ocaña, che lo conosce da un decennio e ne dipinge il carattere dolce e sorridente, la carriera che lo vede più volte ricoprire la carica di guardiano, poi di provinciale, il desiderio ardente di recarsi nelle Indie. Apprendiamo da lui episodi già noti e pochi altri particolari inediti; ma lo vediamo già attivo nella costruzione di elementi agiografici, a partire dall’esordio – «tutti lo avevano per santo» – e dalla raccolta dei primi miracoli: lo schiavo che ne raccolse i vestiti insanguinati li fece lavare alla moglie e, una volta asciugati, ci «si medicava», come fossero una reliquia.214 Il guascone mastro Salomon de la Farxa, chirurgo del precedente re, è un estimatore di Juan perché «dava consigli sulle cose di virtù dichiarando il premio che sta apparecchiato a quelli che per amore di Dio sopportano patimenti».215 Racconta come il frate si sia messo in ginocchio per ricevere i colpi mortali in pieno petto, come il sangue versato sia stato raccolto già dagli astanti come reliquia, nella diffusa convinzione di stare assistendo a un avvenimento straordinario, mirabile. Infine, già dentro la pira di legna, gli schiavi presenti lo vedono illuminarsi in volto, mentre qualcuno afferma di avere visto «che un moro gli diede [un colpo]
con una pietra di maniera che gli spaccò il cranio sino al cervello».216 Tutti gli schiavi cominciano a chiamarlo il «santo martire» e, mentre lo scontro con i rinnegati si fa ancora più acuto, vanno alla ricerca di reliquie: la terra insanguinata al catalano Raphael Soler «gliela dimandarono nella maggior parte le schiave e schiavi cristiani e la sparse tra essi».217 Sarebbero rinnegati quelli che perseguitano i frati superstiti, spiano le mosse dei cristiani e riferiscono a chi di dovere, mentre quelli incaricati del rogo sarebbero mori, «neri manigoldi», i famigerati eunuchi neri della guardia reale. Il biscaglino mastro Giovanni de Lugo, di Bilbao, sa che il mūlāy «è molto zelante della sua legge e setta e nemico grande dei Christiani, perché subito che cominciò a regnare non trattava di altra cosa che di volere far guerra a li Cristiani».218 La crudeltà del re è risaputa: il frate trinitario francese Pierre Dan gli dedica nella sua Histoire de Barbarie un capitolo intitolato “Des cruautez de Muley Abdelmech, Roy de Marrocq, exercées sur plusieurs Chretiens captifs”, nel quale racconta come sia dedito al vino e come del suo «cattivo umore» facciano le spese gli schiavi cristiani, obbligati a combattere contro i leoni che il re tiene nel suo parco, e delle punizioni inflitte a tre religiosi che non acconsentono a rinnegare la fede.219 Un ritratto ancora peggiore ne fa John Harrison, agente del governo inglese inviato a riscattare i suoi connazionali schiavi dei pirati di Salé,220 al principe Carlo Luigi, figlio di Federico V ed elettore palatino del Reno: figlio di Mūlāy Zūdān e di una nera, e dunque mulatto, è straordinariamente dedito all’alcol e all’hascich, incline alla crudeltà sin dall’infanzia, buon cavallerizzo e coraggioso in combattimento; la sua spada non ha requie e «uccide a suo piacimento per qualunque mancanza di rispetto».221 Stermina i ribelli del padre, uccide nemici e servitori, ogni giorno ama vedere scorrere il sangue e gli stessi mori pensano che egli sia posseduto da un diavolo; talvolta uccide per provare il filo della sua spada, punisce tagliando mani, orecchie, nasi... Gli episodi di efferatezza sono numerosi, non ha rispetto né di persone, né di circostanze, né di religione; fa gettare per divertimento nella gabbia dei leoni, fa circoncidere a forza i rinnegati, castrare i più giovani. Il catalogo delle sue vendette è davvero raccapricciane. Mastro Giovanni è falegname e questo gli offre l’opportunità di entrare spesso a palazzo, e inoltre «intende la lingua dei Mori»; gli ha sentito dire una volta che «per essere Re non havea bisogno altro che delli suoi schiavi cristiani e li suoi rinnegati e della sua artiglieria e trattava molto male li Mori».222 Gli stessi mori lo considerano un flagello, proni alla sua volontà, ripetono il proverbio: «Ogni giorno un nuovo cuscus, una nuova moglie e un nuovo re», a indicare la speranza e l’attesa di un
successore. Sarà uno dei suoi rinnegati, un francese subornato da due qā yd, a ucciderlo, nottetempo, ubriaco nella sua tenda. Viene liberato e proclamato suo successore il fratello al-Wal īd, che giaceva in prigione sin dalla sua ascesa al trono. Pur non avendo la stessa crudele natura del predecessore, anch’egli si rivela un tiranno verso i poveri cristiani, e Harrison ne denuncia l’«intollerabile schiavitù sotto questi infedeli, insieme Turchi e Mori»,223 verso i quali vuole attirare l’attenzione dei principi cristiani. La fama del martirio giunge prima di tutto al presidio di Mazagan e da qui in Portogallo; si spande da Marrakech alla Spagna, soprattutto aCadice, Porto, Sanlucar de Barrameda, Xerez de la Frontera, Siviglia, mano a mano che gli schiavi «uscivano da quella schiavitudine»,224 e raggiunge la corte di Madrid con gli schiavi che mūlāy Mahomet Xeque Xaffeni invia alla regina, donna Elisabetta di Borbone,225 come segno di distensione nei rapporti diplomatici tra Marocco e Spagna. I racconti ribadiscono gli elementi essenziali del martirio di Juan, in primis l’assenza di ogni tentennamento di fronte al tormento del fuoco, la fermezza nella fede sino all’ultimo respiro. Vi si aggiungono, inoltre, elementi distanti dagli avvenimenti: la colonna a cui i frati sono stati frustati diventa «un arbore»; l’attimo di crisi del re a cui qualcuno «sentì dire in lingua arabica: questo Cazis mi convince in tutto, però non posso sopportare che esso dica male del mio profeta Mahoma, esso me la pagarà e si ricorderà di me».226 In altre parole, Juan era a un passo dal convertire il re musulmano.
3.16 Convertire i musulmani Non sarebbe stata del tutto velleitaria l’intenzione del frate. Un flusso ragguardevole di conversioni al cristianesimo si è verificato nel XVI secolo, quando la carestia del 1521-1522 spinge «diverse migliaia di musulmani, forse decine di migliaia»227 a cercare asilo in terra cristiana. Bernardo Rodriguez, autore delle cronache contenute negli Anais d’Arzila, testimonia del numero di Mori che, più per necessità che per vocazione, domandano il battesimo e si sottomettono all’obbedienza dei cristiani. La periferia di Lisbona pullula di mori, che hanno chiesto di essere portati in Portogallo per guadagnarsi da vivere, cosa impossibile nel loro paese; molti sono così deboli per gli stenti da venire facilmente catturati, «altri venivano di propria volontà a farsi cristiani poiché i
cristiani avevano la fama di avere da mangiare».228 Questa situazione fa crollare sul continente il prezzo degli schiavi. Le autorità portoghesi incentivano le conversioni premiandole con denaro, cavalli, prestigio, e un convertito spiega di aver fatto tale scelta «sia perché ne aveva la volontà, sia perché vedeva come gli altri moriscos erano onorati».229 Né, in linea di principio, è esclusa la possibilità di abiurare l’islam: una lettera del 1529 del sultano Aḥmad alA’raj al re João III su un tale che si trova in Portogallo, precisa le forme da osservare nella circostanza in questione: «Il diritto applicabile nella nostra religione a chi si trova in quella situazione è che egli si ritiri dal vostro paese e dalla vostra giurisdizione con un salvacondotto da parte nostra e che trascorra in compagnia del suo waludieci o quindici notti: quale che sia la religione che sceglierà in questo lasso di tempo, la potrà abbracciare. Questo è il diritto».230 Le conversioni possono essere provvisorie o dimostrarsi definitive. Il cronista portoghese prima citato riferisce il caso di Ines, soprannominata “a Soiça”, catturata bambina e condotta ad Asilah, dove si converte al cristianesimo. Catturata nuovamente in mare insieme alla padrona, restituita alla famiglia, si sposa e viene riaccolta nella comunità di provenienza. Nel 1521, la fame la spinge a vagare per i campi alla ricerca di erbe commestibili sino ad Asilah; con grande emozione quegli abitanti la riconoscono appena, tanto la fame l’ha sfigurata. Ines si reca subito, da buona cristiana, al santuario di Nostra Signora della Misericordia per il dovuto ringraziamento; quindi sposa un onesto ciabattinoda cui ha dei figli. Crede nella religione del posto in cui vive, insomma, senza le forzature e il pathos che si trovano in alcune conversioni mantenute a prezzo della vita. Bernardo Rodriguez racconta con dovizia di particolari di Gonçalo Vaz, un musulmano convertitosi al cristianesimo, incaricato di guidare i soldati della guarnigione di Asilah nelle scorrerie nelle campagne circostanti, a lui ben note. Sfortunatamente viene catturato e condotto a Tetuan; «la legge islamica è inesorabile con gli apostati, soprattutto quando si sono posti al servizio degli infedeli»,231 così, quando gli viene richiesto di abiurare il cristianesimo, rifiuta insultando Maometto e meritandosi un atroce supplizio: gli vengono strappate la lingua e le unghie di mani e piedi, mentre gli si risparmiano gli occhi perché possa vedere i suoi tormenti. È il 1516. La stessa sorte, nel 1524, spetta a suo fratello João, che né la giovane età nella quale si converte (è stato catturato a quattordici anni), né il prezzo elevato offerto per la sua liberazione dal governatore di Asilah riescono a salvare dal rogo. All’età di venticinque anni e in presenza di due prigionieri portoghesi, testimoni della sua
volontà di morire da cristiano e di avere respinto le profferte della madre e della famiglia naturale, dichiara di non avere altri genitori che Gesù Cristo e Maria Diaz, la vedova del fratello, una musulmana convertita anche lei.232
3.17 Esiliati di sangue reale Sempre nel primo Cinquecento un flusso speciale di transfughi è composto da esiliati di stirpe reale, re, principi, infanti e aristocratici del loro seguito, appartenenti alle diverse dinastie regnanti (Wattasidi, Saaditi, Zayaniti, Afsidi) nel Maghreb. Quest’area presenta un territorio e un potere politico frammentato che alcune dinastie cercano di centralizzare, attestandosi a Fez, Tremecen, Tunisi e in altri centri urbani di zone dominate però da tribù arabe e berbere, in gran parte nomadi. I Merinidi in Marocco, gli Zayaniti a Tremecen e gli Afsidi a Tunisi cercano di consolidare il proprio potere politico, e in questa lotta sono spesso obbligati a rifugiarsi in Spagna e ad abbandonare, in maniera talora temporanea, talora definitiva, il mondo musulmano. La mancanza del diritto di primogenitura, inoltre, favorisce lo scontro dei pretendenti al trono al momento della morte del sultano e rappresenta una delle cause della debolezza delle diverse dinastie succedutesi nel Nord Africa. Questi «grandi sconosciuti della storia del Mediterraneo e delle relazioni tra le due religioni in età moderna» operano tre «trasgressioni»: quella geografica, quella religiosa e infine la nuova fedeltà politica verso la corona spagnola, contraddicendo qualunque generalizzazione sull’alternativa secca tra sincerità o strumentalità delle scelte operate nella condizione di sradicamento dal proprio milieu. Nel 1578 mūlāy Xeque, figlio di uno dei tre re uccisi nella battaglia di al-Ksar al-Kebir, fugge verso il Portogallo e raggiunge lo zio paterno, mūlāy Nazar (o Nas.r), che cerca di ottenere l’appoggio delle armi cristiane per recuperare il trono di Fez. I due pretendenti trascorreranno dieci anni in esilio, accompagnati da parenti, servitori e largo seguito (solo quello di mūlāyXeque comprendeva cinquantasette persone), a spese della Corona. Nel 1593 mūlāyXeque si converte – lo zio torna in Barberia nel 1595 – e, condotto a Madrid, viene battezzato all’Escorial dall’arcivescovo di Toledo, García de Loaisa, padrini il re e l’infanta Isabella Clara Eugenia. Il nuovo cristiano, chiamato Filippo d’Africa, occupa un posto importante a corte, ottiene il trattamento di grande di Spagna, l’abito
dell’Ordine di San Giacomo e, nel 1596, le ricche rendite di Bédmar e Albanchez, nella diocesi di Jaén, dove egli hadeciso di convertirsi, che gli procureranno rendite annue per 12 000 ducati, oltre ai 1000 ducati mensili concessi dal re per il suo mantenimento. Ottiene anche il grado di capitano generale della cavalleria di Milano, con il relativo trattamento economico, carica davvero ambita e segno di grande considerazione. In una lettera del 1596 al Santo Uffizio, «il saadita comunica la sua soddisfazione perché Dio lo ha condotto alla conoscenza della vera fede, ma chiede contestualmente che i suoi figli e successori possano essere ammessi nei collegi, università, chiese collegiali e cattedrali e in qualunque altra istituzione che richieda lo statuto della limpieza de sangre, Santo Uffizio incluso».233 Ben presto il Consiglio del re comincia a considerare la sua vita, trascorsa oziosamente tra gli agi, troppo onerosa per le casse reali e decide di mandarlo nei Paesi Bassi, dotandolo dei mezzi necessari. Nel 1609 don Felipe d’Africa è inviato in terra italiana e, dopo una visita a Pio V, giunge nel ducato di Milano, stabilendosi a Vigevano, dove l’antico pretendente al trono saadita trascorre i suoi ultimi anni. Muore nel 1621, all’età di cinquantacinque anni, dopo avere nominato sua erede universale la figlia naturale Josefa d’Africa, che sarà monaca professa nel monastero di San Paolo a Zamora, non lontano dal Portogallo. Tra i principi marocchini convertiti al cristianesimo c’è Gaspar de Benimerin, «Infante di Fes», come si definisce in un suo autografo, forse figlio dell’ultimo re della dinastia dei Beni Ouattas,234 che regna su Fez e contende al re di Marrakech nella battaglia campale del 1554 la supremazia sul Marocco. Un cronista racconta la fine della battaglia che coincide con la fine della dinastia: quando i figli del re di Fez vedono la morte del padre e della loro gente, «con i loro domestici marciarono fino a Meknés, dove il maggiore aveva la sua residenza, e facendo prendere i suoi mobili e altri averi, che non fu tanto per il poco tempo adisposizione, si ritirarono tutti a Larache, dove una nave di Cristiani, che essi pagarono molto bene, doveva condurli in Spagna. E stando ancora in mare, quando furono alla vista di Cadice, i Luterani li assalirono. E questa fu la fine dei Merinidi, re di Fez, e dei loro discendenti».235 Secondo un’altra fonte, il giovanissimo principe ‘Allal sarebbe sfuggito al massacro della battaglia e, attraverso il Sahara in compagnia di centocinquanta mori e venticinque schiavi cristiani, si sarebbe imbarcato per la Spagna. Durante una tempesta sarebbe scampato alla morte, da qui la sua conversione al cristianesimo e il battesimo, a cui fa da padrino il governatore delle isole del piccolo arcipelago maltese, Gaspar de Andrada, di cui prende il nome.236 Probabilmente
si tratta di un nipote, piuttosto che di un figlio, dell’ultimo re di Fez; ad ogni modo, Gaspar de Benimerin ricopre importanti e accertati incarichi alla corte del re di Spagna, che lo invia nei Paesi Bassi nella guerra contro i protestanti, quindi è al seguito dell’imperatore Rodolfo dal 1604 al 1606 per sedare la rivolta di Ungheria. Nel 1606 da Napoli mostra la sua preoccupazione per la guerra civile che può travolgere il Marocco dopo la morte del re Aḥmad al-Manṣūr, avvenuta nel 1603 e, in effetti, la lotta fratricida tra i figli del re fa paventare la disintegrazione del regno, gettandolo in una situazione assai difficile, con il rischio di disgregazione del proprio territorio a causa delle ambizioni dei diversi membri della famiglia reale. Un’opera, scritta in quella occasione da Juan Vicente Escallon, fratello di sua moglie Giulia, racconta la vita di questo esiliato e ne rivendica il diritto, come ultimo esponente della dinastia dei Benimerin, a contrastare i saaditi, nella loro pretesa di regnare sul Marocco. In un memoriale inviato a Filippo III, don Gaspar si dichiara il legittimo successore di quel regno. «Il Benimerin non intende rinnegare la sua fede cristiana, e divenire sultano di un regno islamico, ma cerca l’aiuto di Filippo III per instaurare un grande dominio cristiano in Nord Africa»:237 si sente designato da Dio per restituire al cristianesimo l’Africa che l’islam gli ha sottratto. Il suo ambizioso (e anacronistico) progetto non viene però sposato dal re spagnolo, che ha ormai abbandonato la velleità di occupare le basi della corsa barbaresca e sembra del tutto privo di mire africane. Il principe aderisce all’Ordine della Milizia cristiana, fondato a Parigi nel 1617, che coltiva ancora progetti di crociata e tiene i suoi Capitoli nel palazzo del Laterano. L’ordine è «particolarmente informato delle dotazioni militari delle isole mediterranee e degli assetti strategici ai confini dell’impero ottomano negli anni settanta del Seicento, e delle possibilità di inedite alleanze finalizzate a ribellioni simultanee in grado di contare anche su contatti con agenti commerciali occidentali e orientali».238 Di questo ordine don Gaspar è «una delle glorie»,239 e partecipa al progetto di insediarlo in una delle isole del Mediterraneo orientale, facendone una fortezza ben rifornita e raggiungibile facilmente da Otranto, alla stregua di Malta, baluardo difensivo del Mediterraneo occidentale. Sotto Urbano VIII è insignito del titolo di cavaliere commendatore dell’Immacolata concezione della Madre di Dio e, «aspirando all’immortalità per le sue virtù cristiane, eroiche e reali, centenario lascia le sue spoglie mortali e una rendita perpetua per offrire quattro volte a settimana l’incruento sacrificio della messa a favore della sua anima».240 Nell’epitaffio, dettato nel 1641, si definisce XXII re d’Africa, e nel testamento redatto a Napoli241 ricorda l’ausilio
chiesto al re cattolico contro i tiranni saaditi che rovesciarono la dinastia dei Beni Ouattas, il suo essersi affrancato «dalla tirannia di Maometto», la cui «empia legge aveva succhiato con il latte» e la sua orgogliosa appartenenza alla «legge cattolica». Altri importanti transfughi sono mūlāyXeque, figlio di al-Manṣūr, 242 che giunge in Spagna nel 1635 e solo dopo due mesi chiede di convertirsi al cristianesimo, prendendo con il battesimo, ricevuto nel 1636, il nome di Felipe Gaspar Alonso de Guzman; esule anche Don Alonso di Fez, è detto «figlio del re di Fes» nella gratifica accordatagli a Bruxelles nel 1564. Don Filippo d’Austria, detto «fratello del re del Marocco»; Henri Shar3f, principe del Marocco, ha trentanove anni nel 1603, quando si fa battezzare a Leyda, avendo abbracciato la religione cristiana riformata, di cui fa pubblica professione. Su richiesta del principe di Nassau agli Stati generali, entra al suo servizio nel 1603. Portano il nome di Filippo d’Africa i numerosi – e difficili da identificare – principi rifugiatisi in Spagna. Tra questi si può riconoscere con certezza mūlāy ashShaykh, battezzato nel 1593 da Filippo II e vicino di casa di Miguel de Cervantes a Madrid. Un altro Filippo d’Africa si può identificare con lo sharī mūlāy Ahmed, nipote di mūlāy Aḥmad al-Manṣūr, battezzato nel 1649 e inviato da Filippo IV nel regno di Napoli. Pedro de Jesu si firma re di Meknés, principe di Tafilet e imperatore del Marocco in una lettera inviata nel 1708 a Luigi XIV (la sua identità è incerta). Don Felipe Gaspar Alonso è un nipote di mūlāyalWal īd, essendo la madre figlia di Z īdān. Alla fine del 1635 il governatore di alMa‘mūrah, in un raid contro i mori, lo cattura insieme al fratello maggiore, che offre di lasciarlo in ostaggio, mentre egli va a prendere il denaro per il riscatto. Il fratello minore, però, preferisce fuggire in Spagna dove viene ricevuto dal duca di Medina Sidonia, il cui fratello, patriarca delle Indie, gli somministra il battesimo a Madrid, nella cappella reale. Servirà Filippo IV nelle Fiandre. Juana, «regina di Fes», Juan di Castiglia, Alonso di Fes, Felipe di Aragona e poi altri, tunisini, «persiani», algerini: nomi cristiani per questi esiliati e profughi neoconvertiti. Fra di loro vivono veri e falsi convertiti, sinceri e bugiardi, che elaborano conversioni temporanee o definitive, spinti da molteplici ragioni e interessi. «Toccato dallo spirito santo», «aprì gli occhi», «ammise il suo errore», sono le espressioni generalmente usate per descrivere il cambiamento, spesso annunciato da una visione, in sogno, nel corso di una malattia, di fronte a un pericolo mortale. La religione cattolica non dubita della sincerità della scelta, non la mette alla prova, piuttosto – a differenza della religione musulmana che pretende la dichiarazione pubblica dell’abbandono delle vecchie credenze, la
recita della shahādah (formula di rito e professione di fede) e la circoncisione – sottopone il convertito a un periodo di catechesi di due-quattro mesi, per farlo istruire nelle preghiere e nei precetti fondamentali della nuova fede, sacramenti, peccato, salvezza. Il battesimo riscuote – lo abbiamo visto – una grande importanza simbolica, non per caso fanno da padrini membri della famiglia reale, viceré, primi titoli del regno, governatori dei presìdi; il sacramento viene somministrato da cardinali e vescovi, solitamente viene assegnato un appannaggio al neocristiano onde impedire che la conversione si associ a una condizione di bisogno e povertà. L’imponenza e la partecipazione alla cerimonia del battesimo, lussuosa negli abiti, negli addobbi, nel cerimoniale,243 consente a un folto pubblico di assistere alla vittoria della croce sull’islam. Che il Santo Uffizio non si sia dovuto mai occupare di questi nuovi cristiani, tranne che in un caso, sembra deporre a favore della sincerità della loro conversione, insieme all’ingresso di alcuni di loro o delle loro figlie nei vari ordini religiosi. Non mancano, però, casi di ripensamento: nel 1670 Antonio Agostino da Tafilete, sharī f filalita chiamato mūlāy al-‘Arbi, fugge ad al-Ma‘mūrah dopo che, ucciso il padre nel 1664 dallo zio del futuro convertito, i suoi fratelli, cercando di vendicarne la morte, vengono sconfitti e uccisi a loro volta. Dal forte di alMa‘mūrah raggiunge la Spagna, dove viene battezzato nel 1671, padrino il duca di Medinaceli. Rientrato in Marocco nel 1676, ritorna alla religione musulmana. Un ultimo esempio: mūlāy Aḥmad nasce nel 1704 a Taroudant, capitale della provincia di S3s, di cui il padre mūlāy Ben Nas.ir, figlio del sultano Isma‘ul, è governatore. Rivoltatosi e ucciso Ben Nas.ir, Aḥmad partecipa alle lotte per la successione di mūlāy Isma‘ul schierandosi contro lo zio paterno. Poiché ha la peggio, si rifugia con i suoi servitori a Mazagan, da cui raggiunge le Azzorre, poi il Portogallo; attraversa la Spagna e giunge a Roma, dove abiura e si converte: alla fastosa cerimonia di battesimo, celebrata in San Pietro il 6 marzo 1633, assistono Giacomo III, pretendente al trono d’Inghilterra, diciassette cardinali e gran parte della nobiltà romana. Il suo padrino è Bartolomeo Corsini, nipote di papa Clemente XII, ma prende il nome anche del cardinale Lorenzo Trojano, padrino della cresima che gli viene somministrata lo stesso giorno nella stessa basilica vaticana. Lorenzo Bartolomeo Luigi Trojano muore a Roma nel 1739.244 La «debole cohorte di membri musulmani di famiglie reali di Barberia, rifugiati in Europa e passati alla fede di Cristo» comprende anche algerini e tunisini.245
3.18 Una «crisi d’anima»: la seconda vita del principe marocchino Nel 1654 i pellegrini marocchini che su navi inglesi si recano alla Mecca vengono catturati al largo di Capo Bon dalle galere dell’Ordine di Malta; condotti nell’isola, vi rimangono due anni in cattività. Tra di loro si trova un personaggio di rango che, pur dissimulandosi per non far crescere il prezzo del suo riscatto, si rivolge al bey di Tunisi di cui è amico, ottenendone alcune navi cariche di grano, a sollievo della popolazione maltese, flagellata dalla carestia. Il grano, valutato in 40 000 scudi, sarebbe servito a riscattare tutti i prigionieri marocchini. Il comandante dell’isola, Balthasar de Mandol, si rende conto della qualità del suo prigioniero, che gli altri mori catturati dicono figlio del re del Marocco e trattano come tale. Si tratta in realtà di S īd ī Musammad, della dinastia degli shuraf ā’ (plur. di sharī f) dilaiti che, dopo la dinastia saadita, contrasta l’ascesa degli shuraf ā’ filaliti.246 Una serie di impedimenti ritarda la partenza dall’isola, a cui il nobile prigioniero, a un certo punto, inspiegabilmente rinuncia. «Molto esaltato» a partire da questo momento, provò una «crisi d’anima» a cui i suoi biografi hanno dato i nomi diversi di sogno, visione, apparizione e sulla quale è impossibile pronunciarsi, essendo letteralmente «ineffabile» la caratteristica di questi fenomeni. La visione terrificante di essere contemporaneamente sul punto di annegare tra onde tempestose e bruciato dalle fiamme si rasserena di fronte a un vecchio dall’aspetto venerando che gli tende la mano per salvarlo dalla furia degli elementi e, interrogato sulla sua identità, risponde: «Io sono il Battesimo»,247 il mare è la «maledetta Setta, che ti affoga» e il fuoco è l’inferno che ti è stato preparato. In un sogno successivo una «bellissima Signora» gli predice che lo porterà in terra di cristiani per farne un suo servitore e, dopo un combattimento con un angelo durato tutta la notte, alle prime luci dell’alba lo colpisce con «un raggio efficace della Divina grazia», che lo ubriaca di fervore tanto da farlo andare errabondo per le strade, gridando ora in italiano e ora in arabo: «Io sono Cristiano, rinnego Maometto e la sua falsa setta: voglio seguire Gesù, la cui Croce porto in petto».248 Una grande agitazione si diffonde in città; alcuni schiavi lo considerano impazzito a causa della condizione di prigionia, altri pensano si tratti di una finzione messa in scena per paura o per opportunismo; gli schiavi mori, scandalizzati, cercano inutilmente di rabbonirlo;
i Cavalieri di Malta invece se ne rallegrano, pur nutrendo ancora qualche dubbio sulla sincerità della conversione. Il comandante de Mandol, per sottrarlo alla folla e alla prevedibile vendetta dei suoi ex correligionari, gli offre asilo nel suo palazzo. Lo schiavo gli rivela la sua vera identità e, la sera della festa di sant’Antonio del 1656, gli racconta la sua storia. «A partire da questo avvenimento ha inizio la seconda vita del principe marocchino.»249 Imori procurano di incontrarlo e gli parlano con «affetto ed eloquenza»; gli ricordano gli obblighi verso suo padre, il regno di cui avrebbe ereditato la corona, i doveri verso la moglie e i figli, l’antico zelo verso la sua religione, sentendosi rispondere: «Non ho più genitori, né figli, né moglie, se non la Legge di Cristo; mio Padre è Dio, mia Madre Maria Santissima, i miei fratelli sono i Cristiani [...]. È vero, sono vissuto ingannato dalla mia Legge, che ora aborro, poiché la luce del desinganno mi ha illuminato [...]. Io che rinnego Maometto, non sto bene in compagnia di chi vive ostinato».250 Istruito nel collegio gesuita insieme ad allievi di varie nazionalità, coltiva una particolare attrazione per la figura di Ignazio di Loyola, identificandosi con l’uomo d’armi divenuto santo. Dopo avere provato invano con la persuasione, i mori mettono in campo altre strategie: fanno circolare la falsa notizia della morte del padre del neofita, che apre il problema della successione al regno di Fez, per sentirgli però ribadire di non avere altro padre che Dio e di rinunciare a qualunque diritto alla successione; si veste a lutto, per dovere di figlio, ma, «poiché a Fez solo quelli della casa degli Sharif possono indossare il turbante verde a significare la speranza, che presso di loro fonda la propria salvezza [nella finta convinzione che] il sangue di Maometto scorra nelle loro vene, per mostrare ai Mori quanto calpestava le loro false superstizioni si vestì con alcuni nastri verdi nelle scarpe, del che si sentirono molto offesi gli schiavi, al punto che fu necessario proteggerlo dalla loro furiosa rabbia, e ciò nonostante corse voce che lo avevano ucciso».251 Il Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, il provenzale Paolo Lascaris, lo riceve in udienza pubblica, trattandolo con tutti gli onori dovuti al suo rango, chiamandolo «Altezza» e accogliendo la richiesta del giovane di ricevere il battesimo. La scelta del padrino cade sul bajulo Balthasar de Mendez, che ne è anche il padrone e lo «adotta come figlio e in verità come tale gli destinò delle sue ricche rendite quanto basta per una moderata decenza di Principe incognito».252 Il 31 luglio 1656 viene battezzato con cerimonia solenne, con corteo di autorità e cavalieri nei vestiti di gala, e dal padrino, «padrone e padre», prende il nome, aggiungendo quello del santo dell’ordine che ha curato
la sua educazione religiosa. Balthasar de Loyola Mendez chiede perdono agli astanti e viene accolto nella comunità dei cristiani con grande giubilo della città, pavesata per l’occasione, e con triplice salva di artiglieria. Ha del prodigioso che proprio in quei frangenti giunga la notizia della sconfitta inflitta ai turchi dalla flotta veneziana e maltese, nonostante i primi abbiano armato sessanta galere, nove galeoni e venticinque vascelli al comando dell’intrepido Sinan Baxà, contro la flotta cristiana composta da sette galeazze, venticinque navi, ventiquattro galere veneziane e sette galere maltesi al comando del generale Gregorio Carafa, priore di la Rochelle. La disfatta degli ottomani risparmia solo quattordici galere, mentre tutto il resto cade in mano cristiana e i Cavalieri di Malta in particolare ottengono un ricco bottino, composto da undici galere e da un gran numero di schiavi. «Lo stesso giorno 31 luglio [è] felice in tutto, glorioso nella memoria, e di universale negozio per il Cielo nella conversione del Moro, per l’Isola nella confusione del Turco.»253 Vittoria delle armi e vittoria della fede ricevono entrambe una lettura politica; per quanto riguarda la seconda il messaggio è chiaro: la cattura può essere lo strumento con il quale la Provvidenza divina conduce alla fede attraverso i suoi imperscrutabili disegni. A casa del padrino, il neofita studia l’italiano, sforzo che appare in un certo senso una prova ulteriore impostagli da Dio per esercitare la sua pazienza, a causa della difficoltà di passare dalla pronuncia gutturale dell’arabo alla suavidad dell’italiano. Al disconoscimento della sua patria e della sua famiglia a cui abbiamo appena assistito, si aggiunge ora quello della sua cultura: «Però non poteva, ormai Cristiano, restare Arabo, e gli conveniva dimenticare la sua nascita, come dimenticava il suo Regno, e si impegnava come studente, o come bambino allo studio della Lingua».254 In un’ultima occasione viene messa a dura prova la sua conversione: quando riceve una lettera dal padre che lo crede convertito a forza o per convenienza e gli ricorda la necessità di preparare la sua successione al regno. Nell’argomentata risposta egli mette il suo futuro regno ai piedi della croce di Cristo, insieme con tutte le ricchezze mondane che possono soddisfare solo bisogni materiali, condivisi con le bestie, mentre la superiorità dell’uomo consiste nella sua anima, i cui appetiti solo Dio può soddisfare. Passa poi ad affrontare i segni della divinità, riconosciuti anche dal Corano, che, non potendo negare Dio, offusca la ragione e non ne permette la conoscenza. Scritta questa lettera in arabo e in italiano, la invia a Fez e la fa circolare a Malta, dove i cavalieri gli assegnano alloggio e vitto a spese dell’ordine e gli aprono anche un credito presso un mercante per provvedersi di degno vestiario. Di più,
«considerando il Gran Maestro che passare dalla licenziosa vita di Re in mezzo ai Mori alla delicata e scrupolosa coscienza di un voto di castità era impresa nella quale non si poteva avere fiducia nella prudenza umana, e soprattutto in un giovane tanto risoluto, [...] gli fa proporre da parte sua che giudica conveniente che si sposasse con qualche Signora europea, con la quale potesse trovare sollievo alla sua solitudine».255 Avrebbe cercato per lui l’appoggio del sovrano dello Stato dove avrebbe voluto stabilire la sua residenza e un adeguato appannaggio per la sussistenza della nuova famiglia. Ma il giovane non intende sposarsi, vuole invece proseguire gli studi e, per potersi sottrarre alla curiosità della gente e «vivere più tranquillo, dove è meno conosciuto e avere più tempo per il penoso studio della lingua»,256 chiede di potersi trasferire in Sicilia. Il viceré di Sicilia viene avvertito del suo arrivo in compagnia di Martin de Redin, mentre il progetto di recarsi a Roma per offrire la propria obbedienza al papa viene annullato a causa della peste; si stabilisce dunque a Palermo, ma dopo quattro mesi il viceré lo conduce con sé a Messina. Nella casa professa dei gesuiti della città dello stretto resta dal 1657 al 1661 a fare il suo apprendistato della vita religiosa, quindi passa a Roma, dove ha come maestro dei novizi padre Domenico Brunacci: egli ci ha lasciato le notizie più attendibili della biografia di Balthasar e degli sforzi fatti per dominare il suo temperamento «focoso, altezzoso e caparbio», che talvolta prende il sopravvento, nonostante la dura disciplina alla quale l’ordine lo sottopone. Il padre generale dell’ordine raccomanda a chi ha a che fare con lui di avere pazienza con questo figlio di re convertito alla fede e di «avere riguardo alla sua qualità, senza dissimulargli i suoi mancamenti».257 Viene ordinato sacerdote nel 1663, non senza che si sia fatta svolgere in Marocco un’inchiesta, purtroppo perduta, sulla sua vita precedente alla scelta religiosa. Una lettera di Gian Paolo Oliva258 loda la sua attività nella conversione, a Genova, di numerosi musulmani detenuti in cattività, cosa che spinge il padre generale dell’ordine a inviarlo a Napoli, dove vi è un’«incredibile moltitudine di schiavi».259 Tra i documenti che lo riguardano vi sono una sorta di apologia del cristianesimo e una pressante esortazione a rientrare «nel grembo della Santa Chiesa»,260 la traduzione dell’Ave Maria in arabo e una lettera scritta il 28 aprile 1665 ad Ahmed Khodja, figlio del re di Tunisi, che, prima convertitosi al cristianesimo, torna poi all’islam. Da Napoli chiede di andare a evangelizzare il gran Mogol, passando per il Marocco, ma, giunto a Madrid, il 15 settembre 1667 muore di febbre. «Questa esistenza misteriosa e romanzesca si prestava alle leggende e alla sua morte ne produce una fioritura. La sua conversione fu il
soggetto di numerose pièces teatrali che, nella tradizione pedagogica più consueta della Compagnia di Gesù, furono messe in scena nei collegi della Germania, in Tirolo, Baviera, Polonia.» 261 Tra i numerosi convertiti, figurano molte personalità ambigue262 e numerosi altri che si potrebbero definire impostori, la cui sincerità, però, trova comunque dei sostenitori. Tra questi c’è Osman, che ha pochi mesi quando, nel 1644, viene catturato nelle acque di Rodi dalle galere dei Cavalieri di Malta e condotto sull’isola. Qui, in seguito alla morte della madre, viene collocato in convento e, il 23 febbraio 1656, dodicenne, viene battezzato. Due anni dopo entra nell’Ordine dei Predicatori e riceve il nome di Domenico di San Tommaso, anche se lo si continuerà a chiamare padre Ottoman. Per essere considerato il figlio del sultano Ibrāh īm, mentre ne è stato forse fratello di latte, riceve nell’ordine un trattamento di favore: non consuma i pasti insieme agli altri frati, segue un regime alimentare particolare, è esonerato dal digiuno del venerdi, gli si suona il violino per scacciarne la malinconia. Fa un ingresso solenne a Parigi nel 1665 e il re lo riceve al Louvre; lascia la Francia nel 1667 per recarsi in Grecia, incaricato di negoziare con il Turco; tornato in Italia nel 1669 viene nominato priore e vicario generale dei conventi maltesi. A Malta, nel 1676, ha termine la sua vita «insieme misteriosa e movimentata».263 In generale questi personaggi, di cui il tempo dimostra la fedeltà alla nuova religione, non riescono a integrarsi nella società di accoglienza: non ne conoscono lingua, storia, sistema giuridico; difficile inserirli nella burocrazia statale o nelle istituzioni politico-amministrative. Mandarli a combattere fuori dalla Spagna, soprattutto nelle Fiandre (come Juan de Castiglia, Gaspar de Benimerín, Felipe Gaspar Alonso de Guzmán, Carlos de Africa, figlio del re di Tremecen, e Felipe de Africa) e in Italia (come, ancora, Gaspar de Benimerín e un altro Felipe de Africa) risponde a numerose esigenze: da un lato si usa la loro destrezza nell’uso delle armi, dall’altro essi stessi procacciano il proprio sostentamento nel servizio del re, cementando così la loro fedeltà politica. Dalla Corona ottengono in cambio protezione, sostegno economico, onori e prebende. Diversa fortuna tocca agli esiliati di condizione non regale, che non acquisiscono le stesse posizioni di preminenza e dei quali sappiamo di meno. Forse Felipe de Africa rappresenta il massimo esempio della fortuna e dell’integrazione in terra cristiana. Nel 1604 assiste al funerale di Pietro de’ Medici (che aveva presenziato al suo battesimo all’Escorial), portandone a spalla il feretro, insieme ad altri aristocratici; nel 1608 presenzia al giuramento del primogenito di Filippo III come erede della corona, insieme al duca di Maqueda,
della Feria, di Sessa, di Alba, ai conti di Lemos, di Albadeliste, di Miranda; giunti alla chiesa di San Geronimo reale, il re saluta i suoi cortigiani e davanti a don Felipe d’Africa, «vestito di bianco, e nero nella pelle del viso e delle mani, Sua Maestà si tolse il cappello quando gli fece la riverenza».264 1 ASV, SCCS, Processus super martyrio servi Dei Johannis de Prado, vol. 1669, c. 1r. 2 Ivi, c. 1v. 3 Qui improvvisamente lo zio non finanzia più i suoi studi: «il suo Zio mancava alla obbligazione, oltre ch’era tenuto per leggi di carità assisterlo, e non appropriarsi del suo patrimonio, violando il diritto della giustizia, e farsi usurpatore delle altrui sostanze». Così Francisco di San Buenaventura, Sol de Marruecos, Sevilla 1691, ma tradotto in italiano da Giovanni Battista Vaccondio Romano, con il titolo Vita, martirio e miracoli del Venerabile Padre e servo di Dio F. Giovanni de Prado, Roma 1714, p. 4. Il suo tenore di vita ne risente e i suoi colleghi di studi lo abbandonano. Concepisce in queste circostanze l’idea di aderire a un ordine mendicante. 4 Fray Juan de la Trinidad, Chronica de la Provincia di San Gabriel de frailes descalços de la Apostólica Orden de los Menores de la regular Observancia de Nuestro Seráfico Padre San Francisco, Sevilla 1652, p. 972. 5 Juan sarebbe stato, invece che figlio unico, l’undicesimo nato; cinque delle sue sorelle diverranno monache benedettine presso il convento di Santa Cruz a Sahagún; la sorella Juana, illegittima anche lei, entrerà nel convento di Santa Cruz di Carrión; il secondogenito sarà sacerdote. Esempio paradigmatico della politica matrimoniale dell’aristocrazia del Seicento, che destina al monastero o alla carriera militare gli ultrogeniti. José Maria Canal Sanchez-Pagin, El santo martyr Juan de Prado, Emprenta diocesana, León 1981, p. 98. 6 Ivi, p. 86. 7 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 83. 8 Ivi, p. 108. 9 ASV, SCCS, Beatificatio servi Dei Ioannis de Prado, Processus, vol. 1097, p. 2, deposizione di Gines de Ocaña. 10 Ivi, pp. 2-3. Fra Diego da Milano è l’autorevole consigliere che raffrena l’empito missionario di Juan, in Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 136. 11 Lo dice Matias de San Francisco, SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 17. 12 John H. Elliott, La Spagna imperiale (1469-1716), il Mulino, Bologna
19822, p. 388. Questa perdita è particolarmente grave perché la Spagna è impegnata nella guerra di Mantova (1628-1631), che la obbliga a cercare nuove fonti di entrata. 13 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 137. 14 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 282v. 15 Ivi, vol. 1097, p. 17. 16 Nelle fonti il nome della città è Marruecos (Marrākuò). Uso il termine contemporaneo per non ingenerare confusione tra la città e il regno, indicati all’epoca con lo stesso nome. 17 Fondata dai Portoghesi con il nome di Castello reale, «in essa esercitarono le maggiori prodezze gli eroici figli di Lusitania durante i 260 anni che la conservarono in loro potere, a prezzo di ininterrotte eroiche azioni e cruenti sacrifici che riempirono di gloria la nobile nazione lusitana che tante gloriose e brillanti pagine di storia ha scritto con il sangue dei suoi nobili figli in tutta la Barberia». Così Fray José Lopez annota curando l’opera di Fray Matias de San Francisco, Relación del viage espiritual, y prodigioso, que hizo a Marruecos el Venerable Padre Fray Juan de Prado Predicador, y primer Prouincial de la Prouincia de san Diego del Andaluzia(Madrid 1643), Tipografia ispano-arábica de la misión católica, Tangeri 19454, p. 31. L’enfasi traduce la difficoltà di tenere una piazzaforte siffatta per i tre secoli dell’età moderna: Mazagan viene abbandonata nel 1769 da re José I, su consiglio del ministro Pombal. Cfr. D. Levi Maria Jordan, Memorias para la Historia de la plaza de Mazagan(Lisboa 1864), Tangeri 1910. 18 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 15. Troviamo l’epiteto ingiurioso verso gli «infedeli» di cui ho detto infra. 19 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 36. 20 Deposizione del duca di Medina Sidonia, SCCS, Processus, cit., vol. 1669, ff. 15-16. 21 Le elaborazioni devozionali muovono il passo decisivo verso la formalizzazione del dogma proclamato da Pio IX nel 1854. Cfr. Adriano Prosperi, L’Immacolata a Siviglia e la fondazione sacra della monarchia spagnola, in Ida Fazio, Daniela Lombardi (a cura di), Generazioni. Legami di arentela tra passato e presente, Viella, Roma 2006, pp. 125-162. 22 J. M. Pou y Martí, Martirio y beatificación del B. Juan de Prado, restaurador de las Misiones de Marruecos, in «Archivo Ibero-Americano», n. 14, 1920, p. 323. 23 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 2r.
24 Ibidem. 25 Ibidem. La storia politica del Marocco tra XVI e XVII secolo è particolarmente complicata, così da consigliare di dare qui una volta per tutte alcuni dati essenziali. All’inizio del XVI secolo i Merinidi hanno perduto tutta la loro influenza erisiedono ormai senza grande autorità a Fez, mentre la famiglia degli Sceriffi saaditi (ash-shuraf ā’assa‘diyyī n), discendenti dal Profeta, cresce d’importanza al Sud. Il fondatore della loro potenza muore nel 1517, e il figlio Muḥammad al-Mahd ī, nel 1550, caccia gli ultimi merinidi da Fez. Gli succede nel 1557 il figlio Mūlāy Abū Muḥammad ‘Abd Allah, che regna fino al 1573. Due dei suoi fratelli, ‘Abd al-Malik e Abū‘Abbās lo cacciano con l’appoggio dei Turchi di Algeri. Musammad, ricondotto in patria da re Sebastiano del Portogallo, muore insieme a lui e allo zio ‘Abd al-Malik nella battaglia di alKsar al-Kebir, detta dei tre re (4 agosto 1578). Abū‘Abbās, noto come alMansūr, “il vittorioso”, resta il solo padrone del Marocco, vi regna sino al 1603, portando al suo apogeo sia la potenza degli Sceriffi (ash-shuraf ā’), sia la prosperità del suo paese. I suoi generali conquistano il Touat e il Gourara nel 1581 e Timbuctù, Gao e il Sudan nel 1591. L’oro del Sudan prende la strada del Marocco, guadagnando al sultano l’epiteto di al-Dhahb ī, “il dorato”. Alla sua morte si scatena una guerra fratricida tra i figli: al-Ma’mūn ash-Shaykh, Z īdān e Abū F9ris: ci saranno almeno due re, uno a Fez e l’altro a Marrakech, finché Abū Fāris non è strangolato nel 1609 e Mūlāy ash-Shaykh (o Xeque) assassinato nel 1612. Zūdān lotta contro il nipote, figlio di quest’ultimo fratello, ed entrambi sono alle prese con una situazione di anarchia nelle due rispettive città. ‘Abd alMalik rimpiazza suo fratello ‘Abd Allāh a Fez nel 1624 senza che la situazione migliori. L’impero degli Sceriffi saaditi è in piena decomposizione e ciò favorisce l’apparizione di capi religiosi. ‘Abd al-Malik e Z īdān muoiono nel 1627; i tre figli di Z īdān, ‘Abd al-Malik (1627-1631), al-Wal īd (1631-1636) e Musammad ash-Shaykh (1636-1655) si succedono, mentre diversi marabutti si impadroniscono della maggior parte del paese. Così Paul Masson, Histoire des établissements et du commerce français dans l’Afrique barbaresque (15701793), Hachette, Paris 1903, pp. 61-62 in nota. Ma cfr. anche Aa.Vv., Histoire du Maroc, Hatier, Paris-Casa-blanca 1967. 26 Relation de la captivité du Sr. G. Mouette dans les Royaumes des Fez et de Maroc, cit. 27 Sul sistema difensivo integrato (galere, eserciti, piazzeforti) e lo sforzo economico rappresentato dai presidi spagnoli, vedi Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, cit., vol. II, pp. 907-916.
28 Masson, Histoire des établissements et du commerce français dans l’Afrique barbaresque (1570-1793), cit., pp. 66-67. In verità MūlāyXeque, che contende il regno a Zūdān, contratta con Filippo III la cessione di Larache in cambio di una quantità di denaro e 6000 archibugeri per recuperare il suo regno. Così, le truppe del marchese di San Germano entrano a Larache nel 1610 ed evacuano la popolazione locale. 29 Juan Bautista Vilar Ramírez, Relaciones diplomáticas y comerciales ispano-ar-gelinas en la postrimerías de la Argelia otomana (1814-1830), in “Hispania”, n. 36, 1976, pp. 623-638. Ma una spedizione spagnola nel 1783 bombarda Algeri per imporre il rispetto del trattato firmato l’anno prima con l’impero turco. 30 «Se la pirateria maghrebina non soccombette sotto i terribili colpi inferti dalla Spagna, specialmente al tempo di Filippo III e Filippo IV, si dovette all’egoismo dei governi di Francia, Inghilterra e Olanda, che in occulta o aperta maniera aiutavano i mori per quanto era nelle loro possibility.» Così Fray Manuel Castellanos, Historia de Marruecos, Emprenta Hispano-Arabica, Tangeri 18983, p. 405. 31 Giovan Battista Pamphili, patriarca di Antiochia e futuro papa Innocenzo X, è nunzio apostolico in Spagna dal 1626 al 1630; Cesare Monti rappresenta la Santa Sede in Spagna dal 1630 al 1634. L’autorizzazione e le licenze dei nostri missionari, essendo dell’8 novembre 1630, dovrebbero essere state firmate da quest’ultimo. 32 Cfr. SCCS, Processus, vol. 1097, del 14 giugno 1630, p. 21. 33 Ivi, del 1° novembre 1630, pp. 22-23. 34 Manuel Castellanos, Apostolato serafico in Marruecos, o sea Historia de las Misiones Franciscanas en aquel imperio desde el siglo XIII hasta nuestros dias, Madrid-Santiago 1896, parte I, p. IX. 35 Liber Chronicorum Sancti Francisci, cit. in Pedro Anagasti, Africa: apostolato francescano en Marruecos, Istituto español de misiones extranjeras, Burgos 1951, p. 4. Le spoglie del martire sono custodite nel convento agostiniano di Coimbra in Portogallo. 36 Al sultano al-Malik dopo aver ucciso Juan de Corral si paralizza il braccio, che il medico Andrea Camelo cura e guarisce; anni dopo il martirio di Juan de Prado una violenta carestia si abbatterà su tutto il Marocco. La vicenda di Juan de Corral e la descrizione della brutta fine di tutti i suoi carnefici sono in Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., rispettivamente alle pp. 149151 e 307-309.
37 Castellanos, Apostolato serafico in Marruecos, cit., pp. 79 ss. 38 Jan Hoeberichts, Francesco e l’Islam, Edizioni Messaggero, Padova 2000, p. 137. 39 Forse applicando la raccomandazione di Matteo: «Io vi mando come agnelli tra i lupi. Siate dunque prudenti come serpenti» (Matteo, 9, 16). 40 Fortunato Fernández y Romeral, Los Franciscanos en Marruecos, Tangeri 1921, p. 11. 41 Temprano, El mar maldito. Cautivos y corsarios en el siglo de oro, cit., p. 98. 42 Felipe Colombo, Resumen de la vida del glorioso mártir San Pedro Pascual de Valencia, Valencia 1704. 43 Nato a Cassia, presso Spoleto nel 1482, Andrea de la Rosa, pur avendo scelto il sacerdozio già in età adulta, non smette di prendere parte alle bande che la lotta tra fazioni guelfe e ghibelline contrappone violentemente. Si mostra «il più inumano e il più crudele, oggetto di scandalo per i suoi compatrioti, che lo guardano come un soldato sanguinario piuttosto che come un ministro di Cristo. Toccato dalla grazia, prende l’abito francescano della provincia di San Francesco e si volge all’austerità e alla penitenza; ma avendo appreso che i suoi genitori erano esposti alle minacce e alle vendette dei suoi antichi avversari, il suo ardore guerriero si risveglia e lascia il convento. Vi rientra poco tempo dopo con la ferma risoluzione di perseverare nella vita monastica. Fa tali progressi negli studi della Sacra scrittura che i suoi superiori lo inviano a predicare tra le stesse popolazioni che egli ha un tempo scandalizzato con le sue violenze. […] Il suo zelo religioso aspira tuttavia a più grandi sacrifici […], passa perciò in Corsica dove imperversa la peste e dove si dedica con grande carità ai malati e ai moribondi. Finita l’epidemia, ottiene dal Generale dell’ordine e dalla Santa Sede l’autorizzazione a imbarcarsi su una nave genovese che fa vela per il Marocco; ma, assalita da una tempesta, la nave deve rientrare a Genova. Decide allora di guadagnare il Marocco attraverso la Spagna, che attraversa a piedi fino a Siviglia. Da qui raggiunge Cadice, dove si imbarca per Ceuta. I francescani portoghesi gli fanno la migliore accoglienza; ma quando vengono a conoscenza del suo disegno di andare a predicare il Vangelo ai Mori e di versare il suo sangue in testimonianza della sua fede[corsivo mio], cercano di dissuaderlo, obiettandogli che il paese è al momento sconvolto dalle lotte tra lo sharuf ei Beni Ouattas. Niente può però trattenere il padre Andrea da Spoleto che parte per Fez nel 1530». La ricostruzione biografica sta in Relation du martyre de André de Spolete, in SIHM , par Henri de Castries, Archives et Bibliothéques d’Espagne, t.
I, Editions Ernest Leroux-Ruiz Hermanos, Paris-Madrid 1921, p. 15n. 44 Le citazioni sono tratte dalla memoria del suo martirio scritta dal francescano portoghese Antonio de Olave, del convento di Setubal, pubblicata a Tolosa nel 1532, di cui esistono due traduzioni, francese e spagnola, con alcune differenze e persino falsificazioni che de Castries raccoglie insieme nell’opera succitata. La citazione latina sta ivi, p. 17. 45 Ivi, p. 18. 46 Ivi, p. 20 47 Ibid. La versione più completa del martirio sta in Maurice Desmazieres, Un Martyr Franciscain à Fes au XVIe siècle, Editions franciscaines, Paris 1937. 48 SIHM , vit., vol. I, pp. 146 ss. e vol. IV, pp.297 ss. 49 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 175r. 50 E corresponsabile del disastro del 1588, quando la Invincibile armata trasportata dalla flotta spagnola comandata da Medina Sidonia, sconfitta dagli inglesi, è costretta a lasciare le acque della Manica; ciò non impedisce al suo successore di recuperare la carica nel 1605. 51 Elliott, La Spagna imperiale, cit., p. 404. La fortuna politica della casata raggiunge il suo apice quando, nel 1520, in seguito alle nozze del duca Alonso con Ana de Aragona, nipote di re Ferdinando e figlia naturale dell’arcivescovo di Saragozza, Carlo V gli assegna la Capitania generale del mare oceano. 52 Luisa Isabel Alvarez de Toledo (duquesa de Medina Sidonia), Historia de una conjura. La supuesta rebelión de Andalucia en el marco de las conspiraciones de Felipe IV y la Independencia de Portugal, Deputación provincial de Cadiz, Cadiz 1985, p. 44. 53 Ivi, documento 102, pp. 404-405. 54 Ana muore dopo il padre (1636) e poco prima del suo ultimo figlio (1638), lasciando il duca nella più cupa malinconia: «Sto in maniera tale da non avere umano conforto – scrive il duca – né trovo qualcosa che non mi accresca la pena. Ho provato sollievo oggi soltanto offrendo doni con la maggior devozione, solennità e grandezza possibili in questa Corte»; avendogli la principessa di Melito, sua zia, inviato da Madrid alcune schiave musiciste, che Gaspare aveva ereditato, le scrive: «Non è rimasta in questa casa cosa alcuna con cui divertirmi un poco, se non queste schiavette che cantano e sono accompagnate dai musicisti della mia cappella e che talvolta intrattengono questi bambini per cui non me ne voglio disfare». Cit. in Alvarez de Toledo, Historia de una conjura, cit., p. 36. 55 Antonio Domínguez Ortiz, La conspiración del Duque de Medina Sidonia el Marqués de Ayamonte, in “Archivo hispalense”, 2° época, n. 106, 1961, ora
in Id., Crisis y decadencia de la España de los Austrias, Ariel, Barcelona 1989. 56 Franco Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Marsilio, Venezia 1992, p. 117. 57 Marcos Ramos Romero, Medina Sidonia: arte, istoria y urbanismo, Deputación provincial de Cadiz, Cadiz 1981. 58 La dinastia saadita rappresenta la reazione alla debolezza dei sultani Wattasidi che regnavano dal 1472 e contro la presenza portoghese che dal 1471 al 1506 occupa da Tangeri a Santa Cruz de Aguer [Agadir] una dozzina di porti e di fortezze a sud dell’oued Draa. I Saaditi, arabi del Hedjaz, si erano installati in Marocco solo dal XV secolo nella regione di Zagora, al confine con il Sahara. Nel 1511 dichiarano la guerra santa e attaccano Agadir, prendono Marrakech nel 1517 e Fez nel 1554. Verso il 1550 gli Askia rivendicano il controllo delle saline di Teghaza, lungo la rotta del Niger, sfruttate allora dal sovrano dell’impero africano di Songhai. I marocchini riuniscono un grande esercito, affidato a un eunuco rinnegato spagnolo, Djoudar, eformato in gran parte da mercenari andalusi. Nel marzo 1591 i marocchini occupano la città di Gao. L’impero di Songhai è affidato a un pascià nominato dal sultano del Marocco che ottiene l’accesso all’oro, avorio, legno e soprattutto schiavi. «La conquista di Songhai provoca immediatamente uno straordinario sviluppo della caccia ai captivi nei paesi del Niger.» Heers, Les négriers en terres d’Islam, cit., p. 42. 59 Antonio Domínguez Ortiz, La esclavidud en Castilla en la edad moderna y otros estudios de marginales, Editorial Comares, Granada 2003, p. 90. 60 Ivi, p. 98. 61 Touati, Entre Dieu et les hommes, cit., p. 163. 62 Antonio Domínguez Ortiz, Los Moriscos en el Norte Africa, in Bernard Vincent, Domínguez Ortiz, Historia de los Moriscos: Vida y tragedia de una minoria, Alianza, Madrid 1985, pp. 87-110. 63 Ivi, p. 90. 64 Bartolomé Bennassar, Inquisición española: poder politico y control social, Editorial Critica, Barcelona 1981, p. 166. 65 Mercedes García-Arenal, La diáspora de los andalusíes, CIDOB edicionsIcaria editorial, Barcelona 2003, p. 136. 66 Maribel Fierro, Al-Ándalus: saberes e intercambios culturales, CIDOB edicions-Icaria editorial, Barcelona 2001, p. 12. 67 Jean-Louis Miège, Aspects de la course marocaine du XVIIe au XIXe siècle, in Aa.Vv., La guerrede course en Méditerranée(1515-1830), s.e., Bonifacio 1999, p. 44.
68 «Questa jihād risarcitrice suscitò delle vocazioni» per Miège, ivi, p. 46.Cfr.anche Andrés Sanchez Peréz, Los moriscos de Hornachos, corsarios de Salé , in “Revista de Estudios Extremeños”, Badajoz, XX, 1964, pp. 93-152. 69 Roger Coindreau, Les corsaires de Salé , Societé d’Editions Géographiques, Maritimes et Coloniales, Paris 1948, p. 37. 70 Gli spagnoli la chiameranno nel 1614 San Miguel de Ultramar, i marocchini nel 1681 el Mehedia (al-Mahdiyyah), il regalo. 71 A Hispaniola e Bahamas o in Madagascar, dove «i bucanieri crearono la loro caduca Society altamente anarchica», Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey), Le repubbliche dei pirati. Corsari mori e rinnegati europei nel Mediterraneo, Shake, Milano 2008, p. 164. L’autore ritiene che il bicameralismo algerino e poi saletino (di t.a’ifah e dī wān) precorra di un secolo i governi repubblicani nati dalla rivoluzione americana e francese; interpreta la pirateria come «forma di resistenza sociale» e sostiene la tesi originale secondo cui l’attrazione per l’esoterismo motiva molti rinnegati, alcuni dei quali avrebbero potuto avere contatti con i Rosacroce. 72 Così Auguste Cour, L’établissement des dynasties des chérifs au Maroc et leur rivalité avec les Turcs et la Régence d’Alger, 1509-1830, Ernest Leroux éditeur, Paris 1904, p. 160. In realty la collaborazione tra le due marinerie è molto stretta: i pirati di Algeri, allorché un trattato li obbligava a rispettare una nazione qualunque, se il controllo dei consoli impediva loro di vendere le merci catturate ad Algeri, andavano a venderle a Salé. Dall’altra parte i saletini vendevano ad Algeri quanto la sorveglianza del sultano del Marocco impediva di vendere in patria. Ivi, pp. 163-164. Ancora maggiore la collaborazione con i corsari di Tetuan. 73 Coindreau, Les corsaires de Salé , cit., p. 44. 74 Insieme a Salé, l’altro importante centro corsaro è Tetuan: distrutta nel 1437 dai portoghesi di Ceuta e in rovina sino alla caduta del regno di Granada, è stata riedificata dai granadini, che ne fanno un centro corsaro le cui galere scorazzano nel Mediterraneo occidentale, in collaborazione con la corsa algerina, battendo le coste spagnole da Malaga alle Baleari. I mercanti ebrei di Tetuan si associano direttamente alle imprese della corsa, accrescendo il loro ruolo nel Settecento, allorché gli ebrei di Gibilterra forniscono il capitale e quelli di Livorno un mercato per le merci catturate. Jean-Pierre Filippini, Livourne et l’Afrique du Nord au XVIIIe siècle, in “Revue d’histoire maghrébine”, nn. 7-8, 1977, pp. 125-149. 75 Maziane, Salé et ses corsaires, cit., pp. 301-303.
76 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 155. 77 Mascarenhas, Esclave à Algier, cit., p. 75. 78 Ivi, p. 76. 79 Ibid. 80 [Anonimo portoghese], Description du Maroc sous le regne de Mulay hmed El-mansour, traduit par Henri de Castries, s.e., Marrakech 1995, p. 57. Siccome ai cristiani è concesso calzare scarpe e stivali, gli ebrei si rivolgono al re di passaggio a Fez e gli offrono una somma di denaro per fargli ritirare questo privilegio. Il re ci pensa sopra, si consulta e non accoglie la loro richiesta (Ivi, p. 58). L’autore dell’opera potrebbe essere uno dei soldati di re Sebastiano, scampato alla battaglia del 1578, rimasto poi diciassette anni in schiavitù. 81 Mascarenhas, Esclave à Algier, cit., p. 77. 82 Touati, Entre Dieu et les hommes, cit., p. 166. 83 Dominique et Janine Sourdel, La civilisation de l’Islam classique, Arthaud, Paris 1983, p. 434. 84 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 16. 85 Francisco de Almeyda fu governatore della piazzaforte di Mazagan dal 1627 al 1631. Levi Maria Jordan, Memorias, cit., p. 100. «Cavaliere più che cinquantenne, di grande carità e nobile sangue, grande intelligenza e sagacità, molto caritatevole e devoto cristiano» lo descrive Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 43. 86 CCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 6. La numerazione ricomincia daccapo ogni documento. 87 Henri Koehler, L’église chrétienne du Maroc et la mission franciscaine, 1221-1790, Societé d’Edition Franciscaine, Paris 1934, p. 71. I due gesuiti sono Emanuel Agnello e Antonio Pereira, secondo Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 122. 88 Giovanni (Diaz) della Concezione, Vita, virtù, doni, martirio e miracoli del B. Giovanni de Prado, minore osservante scalzo e primo provinciale della Provincia di S. Diego di Andaluzia, Roma 1728, pp. 54-55. 89 Ivi, p. 83. 90 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, pp. 33-34. Il rabbino della sinagoga di Azemmour, Samuel Arroio, dirà a un testimone di avere molto disputato con Juan e di non avere mai conosciuto un uomo più dotto nelle Scritture. Così Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 195. 91 Ivi, p. 28. La deposizione è di Andrea Camelo, captivus et medicus Regis Marochi.
92 Edmund Hogan, ambasciatore della regina Elisabetta, ricevuto nel 1577 amichevolmente da ‘Abd al-Malik aveva scritto ottimisticamente che il re «sente verso la nostra nazione un’affezione più viva che verso le altre, poiché la nostra religione non venera gli idoli», cit. in Stephen Clissold, The Barbary Slaves, Paul Elek, London 1977, p. 145. Era stata persino ipotizzata un’alleanza anglomarocchina contro la Spagna, che però cadde nel nulla dopo la morte di Elisabetta e di al-Mans.3r, il successore di ‘Abd al-Malik. 93 L’ambasciatore spagnolo don Pedro Venegas da Cordoba viene ricevuto da Xerif (sharuf )AbūAl-‘AbbāsAsmad con tanto onore da ottenere la liberty dei prigionieri della battaglia di al-Ksar al-Kebir. Castellanos, Historia de Marruecos, cit., p. 395. Ma altre fonti riconoscono che non li si riuscì a riscattare tutti. 94 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 29. 95 Catherine Coquery-Vidrovitch, La découvert de l’Afrique, L’Harmattan, Paris 2003 raccoglie le descrizioni di questi luoghi lasciate da geografi, viaggiatori, mercanti. Per l’area citata vedi in particolare pp. 36-56. 96 Queste notizie provengono dalla Crónica de Almançor, sultão de Marrocos (1578-1603), a cura di Antonio Dias Farina, IICT, Lisboa 1998, pp. 70 ss. La Crónicaèanonima, ma il curatore la attribuisce a António de Saldanha, un nobile portoghese, catturato ad al-Ksar al-Kebir, riscattato nel 1605, due anni dopo la morte del re marocchino, verso cui l’autore nutre grande ammirazione. 97 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 3v. 98 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 67. 99 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 4r. 100 Vedi Albert Hourani, Storia dei popoli arabi, Mondadori, Milano 1998, pp. 225 ss. 101 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 180r. 102 Ibid. 103 Sono numerosi all’epoca i processi del Santo Uffizio contro «maestri dogmatizzatori», individui provenienti soprattutto dal Nord Africa e accusati di sedurre i conversos, di portare loro libri e rinfrescare la memoria dei loro rituali, in breve di farli ricadere nella «eresia» giudaica. 104 SIHM, Dynastie sa’dienne, t. III, 1626-1660, Paul Geuthner, Paris 1936, p. 607-608. 105 Nicole S. Serfaty, Les courtisans juifs des sultans marocains. Hommes olitiques et hauts dignitaires XIIIe-XVIIIe siècles, Editions Bouchene, Saint Denis 1999, p. 140.
106 Maziane, Salé et ses corsaires, cit., pp. 106-115. 107 Serfaty, Les courtisans juifs des sultans marocains, cit., p. 141. 108 Mercedes García-Arenal, Gerard Wiegers, Un hombre en tres mundos. Samuel Pallache, un judío maroquí en la Europa protestante y en la católica, Siglo XXI Editores, Madrid 2006, p. XIII. 109 Ivi, pp. 119-120. 110 SIHM, t. III, cit., p. 208. 111 Ivi, p. 401. 112 Herbert Bloom, The Economic Activities of the Jews of Amsterdam in the VII and XVIII Centuries, Williamsport 1937, pp. 123-144. 113 SIHM , Pay Bas, vol. V, cit., pp. 192 ss. 114 Leïla Maziane, Les captifs européens en terre marocaine aux XVIIe et VIIIe siècles, in «Cahiers de la Méditerranée», vol. 65, dedicato a L’esclavage en Méditerranée à l’époque moderne, a cura di Robert Escallier, 2005. 115 García-Arenal, Wiegers, Un hombre en tres mundos, cit., p. 197. 116 Ivi, p. 205. 117 Romano, Schiavi siciliani e traffici monetari nel Mediterraneo del XVII secolo, cit., pp. 275-301. 118 «Questa gente guarda Livorno e gli altri Stati del Granduca come una nuova terra promessa. In effetti lì sono liberi, non portano segni di riconoscimento che li distinguano dai Cristiani, non sono rinchiusi nei loro quartieri, sono ricchi, gestiscono un esteso commercio, hanno quasi tutte le aziende del principe e sono protetti al punto che c’è un proverbio in Toscana secondo cui è meglio beffare il Granduca che un Giudeo. Sono in odio a tutti, ma non se ne curano e io non credo ci sia un luogo nel mondo dove siano più arroganti e più fieri.» Voyages du Père Labat en Espagne et en Italie…, Paris 1730, t. II, p. 132. L’autore stima al 1716 con una certa esagerazione 22 000 gli ebrei di Livorno, su una popolazione di 50 000 abitanti. 119 Il testo dei 44 articoli della «livornina» sta in Gino Guarnieri, Livorno marinara, Benvenuti e Cavaciocchi, Pisa 1962, pp. 261-268. 120 Giuliana Boccadamo, Mercanti e schiavi fra regno di Napoli, Barberia e Levante (secc. XVII-XVIII ), in Mafrici (a cura di), Rapporti diplomatici e scambi commerciali, cit., pp. 237-273, segue passo passo le transazioni del riscatto. 121 Clissold, The Barbary Slaves, cit., p. 140. 122 Il teste è frate Alonso di Santo Agostino, SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 178. 123 [Anonimo portoghese], Description du Maroc, cit., p. 57.
124 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 357. 125 Ivi, p. 349. 126 Angelico di Vicenza, Ragguaglio delle virtù, missione e martirio del gran servo di Dio Giovanni de Prado, Venezia 1721, p. 205. 127 Sagena, dallo spagnolo Sejena, in arabo sijn, prigione. Gli schiavi sono tutti di proprietà del re e sono alloggiati in vari luoghi della città, ci sono dunque diverse Sesene o Sagene, la principale delle quali è dentro il palazzo, presso le scuderie e poi spostata in un’altra ala del palazzo. A pochi passi dalla Giuderia c’è una Sagena dove alloggiano gli schiavi cristiani. La Douane invece non è una prigione, ma l’edificio dove trafficano e alloggiano i mercanti che ha vicino un’altra prigione. Oltre alla grande Sagena del palazzo reale (fatta demolire dal re nel 1660), nella Casbah ci sono strade interamente abitate da schiavi; altri ancora, ma meno numerosi, abitano nel fellah, cioè nelle case dei grandi qā yd, a cui il re li ha prestati. Così Koehler, L’église chrétienne du Maroc, cit., pp. 8485. 128 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 69. 129 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 180r. 130 Lo testimonia Balthaxar Fernandez, miles di Badajoz, ivi, vol. 1097, p. 52. 131 Matias, ivi, vol. 1097, p. 77. 132 Ivi, p. 94. I cortados sono gli schiavi, chiamati anche facis, a cui viene accordata una certa autonomia nell’esercizio di un mestiere contro il pagamento di una corresponsione molto gravosa, ma che lascia un piccolo margine di guadagno e la possibility di costituire un peculio con il quale si possano eventualmente riscattare. Antonio Domínguez Ortiz, La esclavidud en Castilla durante la edad moderna, in «Estudios de Historia Social de España», t. II, Madrid 1952, pp. 386, 400. Con maggiore precisione un redentore ci spiega che persone di rango trovano convenienti i cortes, prezzi concordati, per sfuggire al remo o, peggio, alla deportazione tierra adentro, verso l’interno del paese, dove le condizioni di vita sono più dure e gli schiavi non possono essere raggiunti dai redentori. Ma tra i cortados ci sono anche individui «muy ordinarios y baxos», che promettono al padrone prezzi esorbitanti per il loro riscatto. Così GonzalesRaymond, Le rachat des chrétiens en terre d’Islam, cit., p. 386. 133 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 5r. 134 Ibid. 135 Ivi, vol. 1097, p. 79. 136 Ibid.
137 Ivi, p. 71. 138 Dar alsarb significa la casa della guerra, dell’inimicizia, in altre parole, la dimora del nemico. 139 Lo testimonia Damasus Noguera, captivus lusitanus, vol. 1097, p. 57. Avendolo diverse volte confessato ed essendo «consapevole della di lui coscienza», di Roque frate Matias dice un gran bene: è un buon cristiano, non si cura della «robba», ha avuto «buona intenzione in tutto» e vuole che «resti conosciuta di questo buon huomo tutta la di lui bontà»; SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 78. 140 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 219. 141 Mazmorra eil diminuitivo mazmorilla, dall’arabo matmūrah, pozzo, silos sotterraneo. 142 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 77. Anche della Sagena di Safi la «disumanità si poteva inferire dalla sua architettura; perché c’erano alcune cripte con il soffitto a volta di grossa muraglia, sotto terra, come dieci o dodici pertiche di profondità, tanto umide che il pavimento trasudava acqua perché da nessuna parte vedeva il sole né alcuna luce; l’ambiente era freddo e malsano; le pareti basse, sgretolate e minaccianti rovina; c’erano molti animaletti immondi e velenosi. Non c’erano scale per scendere nella gattabuia né si poteva entrare se non per una piccola e robusta porta di ferro con una inferriata, nella quale si metteva una corda a nodi e afferrandosi a questa andavano entrando, mettendo le punte dei piedi in una concavità tagliata a mo’ di feritoia; con il che, stando i piedi imprigionati e il corpo coperto di ruggine, ben si comprende la possibility del rischio di caduta, la quale sarebbe stata certamente pericolosa, date le dodici pertiche di altezza». Così Esteban Ibañez, Accion española de los Franciscanos en Marruecos. Labor político-diplomática, benéfico-social y culturaledagógica, Conferencia pronunciada en el Istituto de Estudios Africanos del 7 de mayo de 1948, Madrid 1948, p. 20. 143 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 5v. 144 Ivi, c. 6r. e v. La lettura dei libri «eretici», onde confutarli, gli era stata espres-samente permessa dalla licenza di Propaganda Fide. Vedi supra. 145 Ivi, c.182v. 146 Alcaçava (in arabo al-Qas.abah) o Retiro è «dove i re di Marruecos [Marrake-ch] tengono il proprio palazzo e le proprie case. […] Vi sono vicini molti torrioni e vi si entra attraverso porte come fosse una fortezza e dentro c’è un sito come un paese di un migliaio di persone e ci sone tre o quattro piazze buone per la corsa dei tori e le giostre e ci sono molte strade e quartieri e molti
caseggiati, e tende con ogni mercanzia, carnezzerie e tutto quello che serve per le necessità di un paese. E nel mezzo di questo Retiro ci stanno le case reali […] e poiché la maggior parte dei servitori del re sono cristiani captivi o rinnegati, o figli di rinnegati, così in questo Retiro e paese tanto grande quasi tutti sono o cristiani captivi o rinnegati di ogni nazione». Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 83. 147 Ivi, p. 71. 148 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 191v. 149 Ibid. 150 Ivi, vol. 1097, p. 81. 151 Ivi, vol. 1669, c. 192v. 152 Ivi, c. 8r. 153 Ivi, c. 8v. 154 Verniero di Montepeloso, Croniche o Annali di Terra Santa, cit., l. V, cap. 40, A. 1612, p. 282. 155 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 9r. 156 Raphael Soler cathalanus, ivi, vol. 1097, p. 66. 157 Ivi, vol. 1669, c. 37r. 158 Ivi, c. 190v. 159 Vedi i riferimenti alle tre ipotesi in Masson, Histoire des établissemnts et du commerce français, cit., pp. 71-72 e n. 160 Castellanos, Historia de Marruecos, cit., p. 403. 161 QāSī o quesie vuol dire avere il cuore duro e sigillato, al punto di essere considerato lontano da ogni clemenza o misericordia divina. Ringrazio Asma Gherib per questa informazione. 162 Testimonianza di Andrea Camelo, SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 72. 163 Ivi, p. 73. 164 Ivi, p. 69. 165 Testimonianza di Gines di Ocaña, ivi, p. 45. 166 Il Corano, Sura della famiglia di ‘Imrān, III, 135. 167 Quando Dio decise di far vedere ad Abramo il suo regno e alcuni segreti della terra, intravide in una lontana camera una coppia che stava commettendo adulterio. Abramo, infuriato, pensò che quel che stava vedendo potesse provocare l’ira di Dio perciò maledisse la coppia condannandola all’eterno inferno, e lo stesso fece non appena vide sulla terra altri adulteri. A questo punto intervenne Dio e chiese ad Abramo di smetterla di condannare all’inferno le sue creature, dicendogli: «Non devi maledire nessuna delle mie creature, perché tu
reagisci da uomo con la tua rabbia e gelosia ed io reagisco da Dio con la mia misericordia e clemenza e so cosa serve alle mie creature, i loro peccati non mi corrompono e le loro opere di bene non mi cambiano. Abramo, lascia che sia io a guidarli perché sono l’unico a sapere quanta misericordia serve loro». E il concetto della misericordia che vince la rabbia di Dio nei confronti delle sue creature e nei momenti più difficili dell’uomo, Dio l’ha trasmesso a Gesù quando gli disse di essere dolce con gli uomini come la terra sotto i loro piedi, generoso come l’acqua e misericordioso come il sole e la luna che sorgono ogni giorno su tutti gli uomini credenti e non credenti. Ringrazio Asma Gherib per questa segnalazione. 168 Il 168 Il termine shaf ā‘ah viene ‘ah viene citato nel Corano trenta volte e percepito in due maniere: una shaf ā‘ah illecita ‘ah illecita e un’altra lecita. La prima riguarda l’associazione di Dio a oggetti, come idoli, statue o altre persone, operata dai credenti, per la quale Dio dice: «E temete un giorno nel quale nessun’anima potrà pagare per un’altra in nulla e non sarà accettata intercessione di nessuno, né compensazione, e i malvagi non troveranno aiuto». Il Corano, Sura della vacca, vacca, II, 48. La shaf ā‘ah lecita ‘ah lecita è quella consigliata, concessa da Dio stesso a persone da lui scelte, quindi l’intercessione richiede due basilari condizioni: il permesso di Dio («chi mai potrebbe intercedere presso di Lui senza il suo permesso?». Ivi, II, 255) e la scelta della persona alla quale sarà concessa l’intercessione («Ed Egli conosce quel che è avanti a loro, e quel ch’è dietro di loro, ed essi non possono intercedere se non per coloro dei quali Ei si compiace, e nel timore di Lui stan trepidanti». Sura dei profeti, profeti, XXI, 28). Dio ha concesso il permesso di intercedere presso di lui anche agli angeli e al profeta Maometto: «E quei che costoro invocano oltre Lui, non hanno potere alcuno d’intercessione, eccetto quelli che avran testimoniato della Verità e la Verità conoscono». Sura degli ornamenti d’oro, d’oro, XLIII, 86. Inoltre il Profeta stesso insegnava ad alcuni dei suoi compagni come chiedere l’intercessione presso Dio, come racconta la famosa storia di un uomo cieco che si recò dal Profeta per chiedergli un rimedio alla sua cecità. Quegli gli disse di fare le abluzioni, di pregare effettuando due genuflessioni e di dire, dopo aver finito la sua preghiera: «Mio Signore, ti chiedo, in onore del tuo profeta Maometto, messaggero della misericordia e dico: oh Maometto intercedo presso il mio Signore tramite te per realizzare ciò di cui ho bisogno, ti prego Signore di accettarlo come mio tramite»; così fece il cieco, e, non appena finito di pregare, gli fu ridata la vista. Al-T.abaru, Al Mu‘qam Al-S.aghur, Al-S.aghur, Dar Al-Fikr (Libano) 1997, p. 419. Ringrazio Asma Gherib per questo contributo.
169 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 10r. 169 SCCS, 170 La 170 La scena ripete quella della flagellazione di Cristo alla colonna che, nelle testimonianze de auditu diventa talvolta un «arbore», ivi, vol. 1097, p. 141. 171 Ivi, 171 Ivi, vol. 1669, c. 10v. 172 Ivi, 172 Ivi, vol. 1097, p. 97. 173 Ivi, 173 Ivi, p. 103. 174 Il teste è il miles Balthasar Fernandez, ivi, p. 109, ma anche il catalano 174 Stephanus Gonzales, p. 117. 175 Nel catechismo cinese tradotto a metà del XVII secolo dai Gesuiti si 175 legge il seguente dialogo: «Q: Who made Heaven? A: God made Heaven. Q: Is Buddha a good person? A: Buddha is also a human created by God. Since he was created by God, he should have worshiped the Lord of Heaven. But not only did he not worship God, he wanted others to serve him instead […]. He was the greatest sinner in history». Cit. in Ronnie Pochia Hsia, Translating Christianity. Counterreformation Europe and the Catholic mission in China, 1580-1780, 1580-1780, in Kenneth Mills, Anthony Grafton (eds.), Conversions. Old Worlds and New, New, University of Rochester Press, Rochester 2003, pp. 103-104. 176 Relation 176 Relation de la captivité du Sr. Sr. G. Mouette dans les l es Royaumes des Fez et d Maroc, Maroc, cit, p. 158. 177 SCCS, 177 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 106. 178 Ivi, 178 Ivi, p. 127. 179 Ivi, 179 Ivi, vol. 1669, c. 12r. 180 Così 180 Così frate Matias, ivi, vol. 1097, p. 136. Salomon de la Farxa dice: «Il re pieno di rabbia si levò da sedere e si avvicinò al santo e venerabile Padre e gli diede con una gomia che gomia che è un’arma piccola come un pugnale una molto grande ferita alla testa […] sicché Juan cadde svenuto per il gran sangue che dalla ferita gli usciva e stando nel suolo gli tirò il re una frezza con una balestra che ancorché fosse vicino non lo colse, volendogliene tirare un’altra il venerabile padre provò di levarsi e di mettersi in ginocchioni per riceverla». Ivi, vol. 1669, c. 42v. 181 Ivi, 181 Ivi, vol. 1097, p. 137. 182 Ivi, 182 Ivi, p. 110. 183 Vaccondio 183 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, miracoli, cit., p. 291. 184 SCCS, 184 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 124. 185 Ivi, 185 Ivi, p. 110. 186 Ivi, 186 Ivi, pp. 125-126, 139. 187 Ivi, p. 147. Testimonianza di frate Didaco dello Spirito Santo, tolosano, 187
ma abitante a Cadice; Francesco da Tolosa ricevette delle reliquie dal suo avo a cui le diede uno che era stato in Marocco. 188 Ivi, 188 Ivi, p. 153. 189 Ivi, 189 Ivi, p. 191. 190 Ivi, 190 Ivi, p. 194. 191 Ivi, 191 Ivi, p. 193. 192 Ivi, 192 Ivi, p. 195. 193 Ivi, 193 Ivi, p. 197. 194 Ivi, 194 Ivi, p. 201. 195 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, 195 miracoli, cit., p. 281. Florenzio aggiunge «che fu così grande il suo doloroso sentimento, che gli soprabbondarono le lacrime, benché procurò reprimerle, e dissimularle, perché il Re e gli altri non lo vedessero». Ibid vedessero». Ibid.. 196 SCCS, 196 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 182. 197 Giovanni (Diaz) della Concezione, Vita, virtù, doni, martirio e miracoli 197 del B. Giovanni de Prado, Prado, cit., p.115. 198 SCCS, 198 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 14r. 199 Ivi, 199 Ivi, vol. 1097, p. 129. 200 Ivi, 200 Ivi, p. 106. «A fra Gines, poiché dissero che non era sacerdote e che non disputava della legge lo lasciarono» (ivi, vol. 1669, c. 138v.), mentre a un violento pestaggio fu sottoposto frate Matias, «divenuto come un Ecce homo e con la faccia che non havea figura di huomo» (ivi, c. 138r.). 201 Questo 201 Questo dialogo è raccontato da frate Pietro de Alcantara, ivi, vol. 1097, p. 154. 202 Ivi, 202 Ivi, p. 155. 203 Lo 203 Lo dice frate Matias, ivi, p. 132. 204 Ivi, 204 Ivi, vol. 1669, c. 13r. 205 Vaccondio 205 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, miracoli, cit., p. 297. 206 SCCS, 206 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 13v. 207 Ivi, 207 Ivi, c. 211r. 208 Relation 208 Relation de la captivité et liberté du Sieur Emanuel d’Aranda, cit. 209 Ivi, 209 Ivi, p. 188. 210 Ivi, 210 Ivi, p. 153. 211 Ivi, 211 Ivi, p. 154. 212 Ivi, 212 Ivi, p. 155. 213 Gerard 213 Gerard A. Wiegers, European converts to Islam in the Maghrib and the olemical writings of the Moriscos, Moriscos, in Mercedes García-Arenal (ed.), Islamic
Conversions. Religious Identities in Mediterranean Islam, Islam, Maisonneuve & Larose, Paris 2001, p. 211. 214 SCCS, 214 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 28r. 215 Ivi, 215 Ivi, cc. 33v. e 42v. 216 Ivi, 216 Ivi, c. 59r. 217 Ivi, 217 Ivi, c. 160r. 218 Ivi, 218 Ivi, c. 148r. 219 Si tratta di padre Cipriano del Portogallo, domenicano, di padre Jean 219 Coural, agostiniano spagnolo e del domenicano francese Pierre Morel. Questi frati sarebbero stati tormentati nel 1629; Dan ne ha notizia nel 1631 quando il comandante Rassilly libera tutti gli schiavi francesi del Marocco, subito dopo la morte di ‘Abd al-Malik, avvenuta nel dicembre del 1630, per mano di uno dei suoi rinnegati che stava per diventare eunuco. Questa minuziosa descrizione, «appresa da quattro schiavi che erano di quel numero», tace stranamente l’episodio di Juan de Pradoedegli altri due frati spagnoli. Vedi Dan, Histoire Dan, Histoire de Barbarie et de ses corsaires, corsaires, cit., pp. 460-462. 220 Nell’agosto del 1625 ci sono a Salé 800 inglesi catturati in mare e un 220 anno dopo il loro numero sale a 1500. Una petizione delle mogli di «quasi duemila poveri marinai rimasti miseri captivi a Salé» è presentata a lord Buckingham perché interceda presso il re per il loro riscatto. In maniera spregiudicata, Harrison riscatta gli inglesi schiavi in cambio di denaro, ma anche di cannoni e munizioni. Sui rapporti politici e diplomatici degli inglesi con Algeri, Tunisi e il regno del Marocco, vedi Clissold, The Barbary Slaves, Slaves, cit., p. 146. 221 [John 221 [John Harrison], The Tragical Life and Death of Mulay Abdala Melek, the Late King of Barbarie, Barbarie, Delfh 1633, in SIHM , Dynastie sa’dienne, sa’dienne, Archives et Bibliothéques d’Angleterre, t. III, 1626-1660, Paul Geuthner, Paris 1936, p. 193. 222 SCCS, 222 SCCS, Processus, cit., vol. 1669, c. 148r. Racconta una versione un po’ diversa della scena di Juan di fronte al sultano: qui, quando questi lo saetta, il frate si alza «in piedi a forma di croce, gli occhi fissi al cielo». 223 Harrison, The Tragical Life and Death of Mulay Abdala Melek , cit., p. 223 206. 224 SCCS, 224 SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 149. 225 Ivi, 225 Ivi, p. 158. 226 Così Maria de la Concepcion, vedova di Juan Ramon Flores, ex balia 226 della figlia del re, ivi, p. 152. 227 Bernard 227 Bernard Rosenberger, Moriscos Rosenberger, Moriscos et elches: conversions au Maroc au début
du XVIe siècle, siècle, in Mercedes García-Arenal, María J. Viguera (eds.), Relaciones (eds.), Relaciones de la península ibérica con el Maghreb. Siglos XIII-XVI , Actas del Colloquio (Madrid 17-18 dicembre 1987), Consejo Superior de Investigaciones Scientificas y istituto hispano-árabe de cultura, Madrid 1988, p. 626. 228 Ibid. 228 Ibid. 229 Ivi, 229 Ivi, p. 631. 230 Ivi, 230 Ivi, p. 625. 231 Robert Ricard, Martyrs marocains (1516-1524), 231 (1516-1524), in Id., Études et documents pour l’histoire missionaire de l’Espagne et du Portugal, Portugal, AUCAM, Lovain-Paris 1930, p. 229. 232 Ivi, 232 Ivi, p. 231. Conclude l’autore: «Erano dei rudi guerrieri Gonçalo e João Vaz, rudi e spesso crudeli e poco scrupolosi; la loro vita non fu certamente irreprensibile e non si può approvare senza riserve la loro condotta verso i musulmani. Ma occorre ricordare che essi erano Marocchini e che la loro conversione non aveva potuto fare sparire completamente i loro istinti ancora un po’ primitivi». Sic!p. Sic!p. 232. 233 Beatriz 233 Beatriz Alonso Acero, Sultanes de Berbería en tierras de la cristianidad, Bellaterra, Barcellona 2006, p. 95. 234 I BanuWat.t.as o Ouattas sono berberi, giunti dal sud della Tripolitania; 234 alleati dei Beni Merinidi allora al potere, si installano nel Rif e intraprendono la conquista del Marocco. Il loro capo, Musammad ash-Shaykh, si impadronisce di Fez nel 1472. Bernard Lugan, Histoire du Maroc des origines à nos jours, jours, Perrin, Paris 2000, pp. 151-182. 235 Il 235 Il cronista e storico degli shurafa’ di shurafa’ di Fez, Diego de Torres, cit. in Henri de Castries, Trois princes marocains covertis au christianisme, christianisme, in Memorial Henri Basset, Nouvelles études Nord-africaines, Nord-africaines, vol. I-II, Librairie orientaliste, Paris 1928, p. 145. 236 Questa versione si deve a Juan Vicente Escallon (Giovan Vincenzo 236 Scaglione), Origen y descendencia de los serenissimos reyes Benimerines, señores de la Africa hasta la persona del senor D. Gaspar Benimerin, infante de Fez, Fez, Napoli 1606, scritto dedicato a Gaspar, il cui ritratto appare nelle pagine iniziali del libro, cit. in de Castries, Trois princes, princes, cit., p. 146. 237 Alonso Acero, Sultanes de Berbería en tierras de la cristianidad, cit., p. 237 248. 238 Stefania Nanni, Figuredell’impero 238 Figuredell’impero turco nella Roma del Seicento, Seicento, in Aa.Vv., L’i-slam Aa.Vv., L’i-slam visto da occidente, occidente, cit., p. 210. 239 De 239 De Castries, Trois princes, princes, cit., p. 148.
240 L’epitaffio marmoreo è destinato alla chiesa del convento napoletano di 240 Santa Maria della Concordia. In de Castries, Trois princes, princes, cit., p. 150 e Alonso Acero, Sultanes de Berbería en tierras de la cristianidad, cristianidad, cit., p. 278. 241 Dove aveva sposato Giulia Escallon e dove risiede una sua figlia, 241 «principessa del Marocco», che sposa verso il 1642 Gil de Torres. De Castries, Trois pinces, pinces, cit., p. 148. 242 Dal primo matrimonio di al-Mansūr con Lālla Yorra erano nati mūlāy 242 Mu-sammed ash-Shaykh (o mūlāy Xeque) e mūlāy ‘Abdallah AbūFāris (elBuferes); dalla seconda moglie, Lālla Shibāniah, nasce Mūlāy Zūdān. Proprio la divisione stabilita dal padre produce un’aspra lotta tra i tre figli e, mentre Z īdān cerca l’appoggio ottomano, Xeque, obbligato a rifugiarsi nel forte di Larache, chiede aiuto alla Spagna e lo ottiene in cambio della promessa di cedere Larache, contro una certa quantità di denaro. Nel 1609 Xeque finisce per doversi rifugiare in Spagna, da dove nel 1610 rientra in Marocco. Cfr. Alonso Acero, Sultanes de Berbería en tierras de la cristianidad, cristianidad, cit., pp. 102-104. 243 La descrizione del battesimo (e della contemporanea cresima) di mūlāy 243 Xeque, nel 1593, sta ivi, p. 222. Alla cerimonia assiste Lope de Vega, che ne dà una vivace descrizione, cit. ivi, pp. 223-224. I cortigiani del mūlā y y sono molto ostili alla sua conversione e progettano persino di assassinarlo per evitare non solo l’onta, ma soprattutto la perdita dei diritti dinastici. 244 De 244 De Castries, Trois princes, princes, cit., pp. 155-158. 245 Come Ḥam īda, ultimo discendente della famiglia afsida, rifugiatosi in 245 Italia nel 1574 dopo la riconquista ottomana di Tunisi, battezzato a Napoli con il nome di Carlo d’Austria, divenuto francescano e sepolto nel 1601 nella chiesa napoletana di Santa Maria la Nuova. Charles Monchicourt, Études kairouanaises, kairouanaises, VI, Les VI, Les Haf-sides en exil de 1574 à1581, à1581, in “Revue tunisienne”, VII, 1936, p. 201 ss. 246 Non 246 Non molto credito riscuote la tesi secondo cui Balthasar sarebbe figlio del re del Marocco ‘Abd al-Malik (1627-1631) e di una andalusa. Vedi piuttosto la genealogia dei principi dilaiti in Le rev. rev. P. Balthazar Loyola Mendez, notice biographiques biographiques che precedono una corrispondenza tra gesuiti contenente molte notizie del Nostro, in SIHM , dynastie filalienne, filalienne, Archives et Bibliothéques de France, t. I, Editions Ernest Leroux-Ruiz Hermanos, Paris 1922, pl. II. La terza illustrazione ci mostra il ritratto di S īd ī Musammad adula’v in abito gesuita. 247 Joseph 247 Joseph Cassani, Glorias del segundo siglo dibuxadas [...] de algunos de sus varones illustres que han florecido desde el año de 1640, 1640, t. III, Madrid 1734, p. 633.
248 Ibid. 249 De Castries, Trois princes, cit., p. 152. 250 Cassani, Glorias del segundo siglo, cit., p. 634. 251 Ivi, p. 636. 252 Ibid. 253 Ivi, p. 638. 254 Ibid. 255 Ivi, p. 639. 256 Ivi, p. 640. 257 Domenico Brunacci, viterbese, è maestro dei novizi a Palermo, provinciale a Roma (1674-77) e Venezia (1679); muore a Roma nel 1695. Lascia manoscritti due volumi su Balthasar de Loyola. Cfr. Le rev. P. Balthazar Loyola Mendez, notice biographiques che precedono una corrispondenza tra gesuiti contenente molte notizie del Nostro, in SIHM , dynastie filalienne, cit., t. I, p. 207. 258 Genovese, nasce nel 1600 e già nel 1616 è novizio. Eletto nel 1664 undicesimo generale della Compagnia, la regge fino al 1681, data della morte. Carlos Sommervogel, Bibliothéque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1894, t. V, coll. 1884-1892. 259 Le rev. P. Balthazar Loyola Mendez, cit., p. 207. 260 De Castries, Trois princes, cit., p. 153. Le notizie su Balthasar Loyola si devono al confratello Domenico Brunacci, che ricevette dall’ordine l’incarico di scriverne la biografia. Ne scrive due tomi nel 1695. Ivi, in nota. 261 Le rev. P. Balthazar Loyola Mendez, cit., t. I, p. 208. 262 Tra i più famosi, il tunisino Mahomet Celebi su cui cfr. cap. 1, p. 91. 263 Le rev. P. Balthazar Loyola Mendez, cit., t. I, p. 205 e nota. Daniele M. Callus, Il padre Domenico Ottomano(fu vero principe?), Roma 1918; Amy A. Bernardy, L’incidente di Malta (1644-1645) e il Padre Ottomano (1641?-1676), in “Archivio storico di Malta”, VII, 1936, pp. 448-462. 264 Cit. in Alonso Acero, Sultanes de Berbería en tierras de la cristianidad, cit., p. 271.
4. Santità antimoresca
4.1 Il Viaggio spirituale e prodigioso di Matias de San Francisco Le agiografie, com’è ovvio, si addensano attorno agli snodi cruciali dei processi di canonizzazione. Anche nel caso di Juan, la prima agiografia è scritta dal suo correligionario e compagno di prigionia, Matias de San Francisco, che, dopo avere raccolto sul luogo stesso del martirio le Informationes indispensabili a istruire il processo, ritornato in patria, scrive una Relación del viage espiritual, y rodigioso, que hizo a Marruecos el Venerable Fray Juan de Prado.1 In verità questo scritto è preceduto da una Relación del riguroso martyrio [...] la qual Relación embió el Governador de Mazagan a el Excelentissimo Señor Duque de Medina Sydonia, stampata a Siviglia nel 1631, pochi mesi dopo il martirio, con le armi della casata (scudo con cinque piaghe con corona ducale) nel frontespizio. La breve relazione è stata probabilmente inviata dal carcere dai due frati superstiti, che la fanno seguire da una Segunda relación,2 anch’essa stampata a Siviglia nel 1631. Poco prima che sia edita la Relazione di Matias, il sesto ministro della provincia di San Diego, Juan de Puelles, invia a Roma le Informationes, inserite vari anni dopo in un’ampia Memoria che rappresenta il primo atto orientato alla beatificazione di Juan.3 A Roma si tiene nel 1639 un Capitolo generale presso il convento di Araceli e la Memoria è destinata a Benigno da Genova, che ricopre la carica suprema dell’Ordine Serafico e si è molto prodigato a suo tempo per ottenere il breve di Paolo V che divideva la
provincia di San Gabriele, creando quella di San Diego, di cui Juan sarebbe stato nominato primo provinciale. Per il grande prestigio di cui Benigno gode, il suo interessamento, dentro e fuori dall’ordine e particolarmente presso la curia romana, sarebbe stato decisivo per ottenere il patrocinio nella causa del martire. La Memoria4 di Juan de Puelles è di estremo interesse perché si fonda sulla diretta conoscenza dei fatti che si svolgono in Spagna: la trafila delle autorizzazioni, ma anche il refresco di pane, pesci e frutta, personalmente inviati quando la nave che conduce i frati a Mazagan deve rifugiarsi per alcuni giorni sulle coste spagnole per sfuggire all’inseguimento dei corsari. Per il resto si rifà a una fonte privilegiata: quel Francisco Roque Bonete che ha condiviso con i frati carcere e tormenti, e che avrebbe scritto un resoconto dei fatti di più di centosettanta fogli; Juan de Puelles ha avuto modo di leggerlo nel 1638 a Lisbona, ma poi, inviato a Roma, tale resoconto è andato perduto.5 In diversi punti la ricostruzione differisce da quella proveniente dagli atti dei processi, e anche da quanto scrive Matias de San Francisco. Ma la divergenza più stridente è relativa al quarto e ultimo incontro di Juan con il sultano nel corso del quale il primo avrebbe esclamato: «“Tiranno che cerchi di prevaricare le anime che Dio ha creato per Lui”. Non capì il re la parola tiranno e chiese cosa voleva dire. Rispose un ebreo che si chiama Moyse Pelache, grande interprete della lingua arabica, per non esasperare il re, molto diversamente da quello che significa la parola tiranno. E frate Matias rispose: “Non ha detto così il mio Padre, ma che sei un tiranno” e ripeté le parole dette dal servo di Dio».6 Dunque, piuttosto che istigatore e ipocrita, l’ebreo Pallache avrebbe gettato acqua sul fuoco, censurando la violenza verbale del frate per non fare infuriare il sultano. Grande rilievo assumono in questa breve ricostruzione i ripetuti interventi del duca di Medina, con cui l’autore è in rapporto diretto: sia quello prima della missione, sia quando appronta i mezzi per compierla, sia, dopo il martirio, quando invia dietro suo suggerimento («Io glielo comunicai...», «Io glielo chiesi...» ecc.) Nicola de Velasco a prelevare le ossa del martire, e un cavaliere portoghese “in abito di Cristo” come ambasciatore al nuovo giovanissimo re (indicato erroneamente come nipote, invece che figlio, di una rinnegata andalusa). Le ossa del martire sarebbero state consegnate da Velasco a Medina, che avrebbe chiuso la cassetta con il suo sigillo, ponendola nella cappella del suo palazzo, dopo aver affermato solennemente che appartenevano alla provincia di San Diego a cui le avrebbe restituite appena richiesto. «Successivamente le reliquie vengono traslate nella chiesa di Nostra Signora della Carità, dove il duca tiene la sua sepoltura, ma le poggiarono a terra, in basso, senza venerazione,
come conviene per potersi trarre le Informazioni sulla canonizzazione. [...] Ma il duca di Medina ha promesso alla provincia di costruire un convento e una bella chiesa non appena la Chiesa lo dichiara vero martire.»7 Da queste promesse deriva forse l’enfasi del narratore sull’operato del duca. Matias scrive un testo straordinario, poco rassomigliante alle altre agiografie dell’epoca e più simile a una cronaca degli eventi dei quali è stato diretto testimone, e che, se prendono le mosse dalla iniziativa di Juan, si concludono ben oltre la sua morte e abbracciano la storia della missione francescana a Marrakech. Il martirio descritto non è solo quello di Juan, ma anche quello sfiorato dallo stesso autore, da frate Gines de Ocaña e dal mercante Francisco Roque; il tono non è enfatico, gli stessi (pochi) miracoli sono raccontati molto sobriamente, la descrizione dei luoghi è minuziosa, la successione cronologica puntigliosa. Soprattutto il giudizio è equilibrato sul comportamento dei mori e dei rinnegati, severo verso i cristiani, il Consiglio del re di Spagna e la lentezza burocratica con cui si risponde ai bisogni dei captivi in Marocco; è esplicito sulle necessità della missione francescana e sull’appoggio alle proposte politiche avanzate dall’ultimo re con cui Matias ha avuto a che fare. Apprendiamo da lui quello che i testimoni al processo omettono oppure tacciono consapevolmente. Ma, innanzitutto, chi è Matias? Nato a Villarejo de Salvanés (Madrid),8 prende l’abito francescano nella provincia di San José de los Descalzos e si aggrega, in qualità di commissario, al gruppo di trenta frati che vanno in missione in Giappone e nelle Filippine. Vi trascorre quindici anni, nel corso dei quali fa ritorno in Spagna quattro volte. Le segrete «conversazioni spirituali» intrattenute con Juan de Prado nel convento di Siviglia lo determinano ad affiliarsi nel 1623 alla nuova provincia francescana di San Diego. Con Juan condivide l’ansia missionaria e il desiderio di martirio, e insieme decidono di recarsi nell’isola di Guadalupe, tra «gente nuda e selvaggia». Il progetto non va in porto per la malattia di Matias, patita per quattro interminabili anni, con la certezza interiore, nonostante i medici disperino di salvarlo, che avrebbe realizzato il viaggio agognato. Che non siano potuti partire a causa della cattura da parte olandese della flotta di galeoni che porta in Spagna l’oro delle colonie americane (nel 1629) è certamente – a detta del frate – un impedimento frapposto dal demonio, che vedremo numerose volte all’opera in questa storia. Decidono così di cambiare destinazione e si consigliano con Alonso Herrera Torres, «che teneva in Marocco suoi agenti e criados, molto devoto e cortigiano»,9 il quale ritiene sia «cosa impossibile fare entrare in Marocco dei
religiosi», perché i mori odiano tutti i cristiani e in particolare i sacerdoti. E, «sempre ripetendo che era impossibile», promette di scrivere ai suoi agenti in terra africana. Il progetto dei due frati si incrocia con quello dei captivi di Marrakech che non hanno un sacerdote da tre-quattro anni e vogliono comprarne uno, schiavo a Salé o a Tetuan. Di questo affare si sta occupando Francisco Roque Bonete, il quale intrattiene relazioni commerciali con Marrakech e si rivela decisiva l’influenza di Andrea Camelo, che ha guarito il sultano da una “paralisìa”. Gli altri personaggi cruciali nell’autorizzare e realizzare la missione sono, come già sappiamo, il duca di Medina Sidonia, persuaso che Juan sia il secondo Francesco, il vescovo di Cadice, il nunzio apostolico e Propaganda Fide: insomma, dopo varie traversie, tutti si persuadono della bontà dell’impresa e la autorizzano debitamente. La partenza è ostacolata dall’inseguimento di navi corsare e dal vento contrario che li obbliga a ritornare in Spagna, accidenti risolti entrambi miracolosamente; infine, dopo l’arrivo a Mazagan, Matias insinua una plausibile spiegazione della permanenza dei frati, trattenuti contro il loro volere dal governatore della fortezza, Francisco de Almeyda. Egli descrive minutamente tutta la loro attività: le funzioni della settimana santa, le confessioni generali, la cura per la chiesa, per gli arredi e i paramenti (rilegano messali, rappezzano tovaglie d’altare e pianete con l’aiuto di donzellitas devotas), in «santa emulazione» con i padri della Compagnia di Gesù portoghesi che il governatore tiene come predicatori e confessori nella fortezza. I frati scoprono che non è stata data alcuna comunicazione ufficiale della loro presenza e del loro passaggio da Mazagan in terra marocchina, ed è andato smarrito il dispaccio con la richiesta del salvacondotto. I gesuiti avrebbero tramato presso il governatore «per entrar essi per primi»10 a Marrakech, così da spingere i tre francescani a darsi a un’ardimentosa fuga, in territorio sconosciuto e ostile, tra mille pericoli e difficoltà; fuga che Juan, «vecchio di più di sessanta anni e uomo grasso e pesante»,11 affronta con l’agilità di un ragazzo. Qui sembra Matias il più determinato ad andare avanti, mentre Juan, più tiepido, si lascerebbe persuadere dalle argomentazioni di Almeyda. «Però io no – scrive – io non gli credevo», e dice a Juan «di non credere a nessuno, che lo stavano ingannando, e che venisse in terra di Mori»,12 dove Matias è pronto a recarsi anche da solo. «Quel religioso segue il suo spirito, che è lo spirito di Dio», dice Juan ad Almeyda, che arriva a ordinare ai suoi uomini l’arresto del frate ribelle. I soldati, titubanti, mettono rispettosamente di peso Matias in groppa a un cavallo per ricondurlo alla fortezza, da cui è evaso per la seconda volta. Cavalieri mori, miracolosamente
sordi, battono la zona; per puro caso non si arriva a una scaramuccia che sarebbe stata disastrosa per i cristiani, di gran lunga inferiori di numero. Insomma, questi frati creano un sacco di problemi al buon governatore che, nonostante apprenda della morte del sultano al-Malik, ucciso dal fratello al-Wal īd, e comprenda la necessità per i frati di un nuovo salvacondotto, si risolve a lasciarli partire. Nel fare un ultimo tentativo di dissuaderli, viene apostrofato violentemente da Matias: «Non teme Dio? Vogliamo solo prendere la strada del martirio che siamo venuti a guadagnarci e dobbiamo essere Martiri di Dio»;13 più pacatamente Juan gli spiega come i frati non abbiano bisogno di nessuna licenza, poiché l’hanno ricevuta direttamente da Dio, che li ha tratti dalla Spagna e condotti fin lì. Ad Almeyda non resta che scrivere una lettera al governatore moro di Azemmour, informandolo che il frate porta con sé delle carte del duca di Medina Sidonia per il sultano del Marocco. A poche leghe dalla fortezza spagnola, tre cavalieri mori li prendono in consegna, credendoli dei fuggitivi, e li scortano sino alla fortezza marocchina, dove, interrogati da un alcayde tramite un interprete giudeo, fingono di non sapere della morte del re al-Malik. Ospiti dell’interprete, attendono per un paio di settimane che si formi la carovana per Marrakech, mentre molti ebrei e mori vanno a trovarli e Juan coglie ogni occasione per «disputare delle loro cattive credenze, parlando della maledetta setta di Mahoma e della cecità dei Giudei che li confondeva, e minacciavano che gli avrebbero tagliata la testa».14 Matias teme che non li si faccia proseguire e cerca di calmare Juan, incapace di raffrenare il suo impeto di fronte alle insistenti domande e all’ostinazione dei suoi interlocutori. Si forma infine la carovana, indispensabile maniera di viaggiare in una terra malfida come la Barberia, dove non sono sicuri né cristiani né mori a causa dei continui conflitti, con corredo di furti e uccisioni che contrappongono paesi e “nazioni”. I tre religiosi, insieme a mori ed ebrei, percorrono le 38 miglia che li separano da Marrakech, dove giungono dopo quattro giorni di marcia a tappe forzate in territorio desertico, senz’altra acqua che quella putrida che dividono con gli animali. Gli schiavi cristiani vengono loro incontro a due leghe dalla città, li rifocillano vicino a una fonte e li conducono a casa dell’«Arraez dei cristiani, che è il captivo più onorato ed è come un Capitano, giustizia e governo di tutti i cristiani, che li governa e tiene in carico».15 Questi li ospita a casa propria e l’indomani li fa presentare al re: si trovano di fronte un «ragazzetto di bassa fortuna e sostanza e di non molta intelligenza, ma scherzosetto»,16 con il vizio della carnalidad, da cui provengono tutte le sue perversioni. Juan gli dice di avergli portato delle lettere del duca di Medina, ma il re non
le vuole poiché sono destinate al fratello e non a lui; i suoi cortigiani insinuano che il suo predecessore sia stato «mezzo cristiano» e che abbia chiamato i frati per convertire i mori; Juan suggerisce che la loro presenza può indurre gli schiavi cristiani a servirlo meglio; il re, adirato, ribatte che i suoi schiavi lo serviranno bene a suon di bastonate, e intima loro di lasciare il paese. A questo punto Juan chiede almeno un salvacondotto, che il re gli promette. I rinnegati sono in prima fila, insieme ai ragazzini, nelle gazzarre che accompagnano i frati ogni volta che vengono tratti dalla prigione e attraversano le pubbliche vie: più si burlano della religione che hanno abbandonato, più ritengono di essere considerati buoni musulmani dai nuovi compagni di fede. Così organizzano una pagliacciata mentre li traducono al palazzo reale: si inginocchiano dinanzi a loro, chiedendo perdono dei loro peccati, si burlano del sacramento, inscenano una messa con tanto di calice di vino e ostia tra risate di scherno e bestemmie. Condotti dinanzi al re, i frati pensano bene di somministrargli una predica, premiata con un fracco di legnate; così, appesantiti da catene, vengono ricondotti in carcere, dove li attendono il mortaio per far polvere e crudeli sorveglianti. Sono i rinnegati a suggerire al re di chiamarli in sua presenza separatamente perché non si facciano coraggio a vicenda, a cominciare da Juan, che chiede un interprete, ma rifiuta «Piliache [sic [sic], ], che era un Giudeo gran satrapo, baccelliere e bravo nel suo mestiere, che sa bene il fatto suo, e questo Giudeo conosce cinque o sei lingue ed è l’interprete del re e gran consigliere suo [...] e il venerabile padre, sentendo che chiamavano il Giudeo e temendo che come imbroglioni, come sono tanto questi Giudei, non fosse fedele nella narrativa e nella spiegazione di quello che avrebbe detto, disse al re: “Non chiamare il Giudeo che i cristiani non si intendono bene con i Giudei” e il re rispose: “E dunque sia, non chiamerò il Giudeo, che se voialtri cristiani state male con i Giudei, noi Mori stiamo peggio e non li possiamo vedere e li aborriamo più di quanto non facciate voi”. E detto ciò mandò a chiamare un ragazzino molto grazioso, nato lì da genitori captivi cristiani, che pochi giorni prima aveva costretto a farsi moro».17 Così Juan può parlare al re del disprezzo del mondo e della vanità delle ricchezze, dell’inferno, della messa, della grazia, della Trinità e del battesimo. «“Dunque – chiede il re – non mi salvo nella legge di Mahoma?” “Come può salvarti – replica il frate – un uomo tanto maledetto, un demonio dell’inferno con i suoi inganni?”.»18 Mori e rinnegati cominciano a protestare violentemente, non potendo soffrire le ingiurie al loro profeta, e mentre lo prendono per legarlo alla colonna
cominciano a fustigarlo con una speciale frusta di pelo di cammello, dura come il ferro.19 Juan, chiamandoli fratelli, spiega loro che sono tutti ingannati. Lo riportano, dolorante e insanguinato, dinanzi al re, che gli chiede quale tra le loro leggi sia la migliore, e Juan riprende la predica, dando l’occasione ai mori di riprendere le frustate. Lo stesso trattamento viene riservato ai due confratelli che sopraggiungono e lo trovano in terra. Quando il sultano lo chiama per la terza volta, Juan si toglie i sandali, per andare incontro al suo destino imitando Gesù, si congeda dai compagni di prigionia e predice a Roque la prossima libertà e una vita onorata. Nel corso di questo colloquio – iniziato con la solita domanda sulla migliore legge, che il re pone per vedere quando riuscirà a piegare la volontà del vecchio frate – Juan sputa dopo avere pronunciato il nome di Maometto, guadagnando il martirio che abbiamo già sentito raccontare dai testimoni al processo. Apprendiamo anche che il gruppo che lo prende di peso per portarlo sulla pira è composto da tredici «eretici» francesi, inglesi, olandesi, tedeschi, e anche a loro Juan rivolge esortazioni religiose, commuovendoli fino alle lacrime. Un moro li bastona per questa debolezza, ma la potente tensione drammatica della scena fa sì che alcuni di loro si convertano. Un ultimo miracolo di Juan vivo, raccontato in modo molto diverso dai testimoni al processo. Le sue reliquie vengono sotterrate nel luogo del rogo per espresso ordine del re, avvertito dai suoi rinnegati dell’importanza presso i cristiani delle reliquie di un martire; poiché quel luogo si riempie d’acqua che è necessario drenare, e poiché quell’anno Dio manda piogge abbondanti, nel corso dei lavori gli schiavi cristiani riescono a sottrarre le reliquie, che giungono a Sanlucar grazie al duca di Medina e successivamente sono traslate al convento di San Diego di Siviglia.
4.2 «Perros Christianos: o Moros o morir!» A metà del libro, il martirio di Juan cede il posto al martirio sfiorato di Matias, che riuscirà, tra mille sofferenze e difficoltà, nell’impresa di ristabilire la missione francescana in Marocco. Alla provocazione che gli rivolge l’alcayde l’alcayde Morato, se il fuoco destinato a Juan non lo abbia per caso persuaso a lasciare la sua fede, il frate risponde che i tormentillos tormentillos inventati dai mori lo lasciano del tutto indifferente; il vecchio alcayde risponde alcayde risponde che Maometto è santo, come santo
è Sinaiza (in arabo classico Sayyidunā ‘Isà, “il nostro signore Gesù”), che egli giudica santo e gran profeta, ma non figlio di Dio, così come non crede che abbia istituito alcun sacramento né che sia morto per noi; crede invece nella verginità di Maria, che reputa santa – tanto da dare il nome Miriam alle figlie –, e in altre verità contenute nel Vangelo. Secondo Matias, come lo zucchero della pillola nasconde il veleno, così buoni precetti e virtù morali coprono il veleno della «maledetta setta». «La legge di Mahoma è una insalata, composta dalla legge evangelica e mosaica e da eresie e da idolatrie: con questo pervertendo e oscurando tutta la legge di Cristo, invenzione del demonio per la quale egli prese per la sua esecuzione il maledetto Mahoma e Sergio e Paolo, monaci in Arabia, e grandi teologi che fecero grandi eresie.»20 In queste parole si sente forte l’eco della trattatistica antimusulmana prodotta in quegli anni. Su questi temi Matias dibatte con un vecchio musulmano, che riferisce il tutto al re, cosicché il frate viene fatto bastonare, legare a una corda e trascinare per le strade della città, cosa che fa esclamare agli schiavi cristiani: «Sia benedetto Dio, abbiamo un altro martire!». Lasciatolo nella sua cella credendolo morto, i suoi compagni, Gines e Francisco Roque, passano la notte in orazione e conversazioni spirituali, premiate al mattino da un sospiro di Matias, miracolosamente ancora vivo. In queste condizioni – Matias perde i sensi continuamente, non riesce a parlare, devono prenderlo di peso – lo portano davanti al re e al suo qāḍī , «che è il suo Papa, vestito come un vescovo o un cardinale, con abito largo, mozzetta e cappello con fiocchi: un vecchio di più di ottanta anni, con grande barba e molto venerabile».21 Un rinnegato gli riferisce le malefatte e le affermazioni blasfeme di Matias, ma il vecchio sacerdote, «vedendolo così malridotto e in stato pietoso ebbe grande pena e, aperte le braccia e alzatele in alto, disse “Ala, Ala, Ala, mezquin, mezquin, mezquin [Allah, Allah, Allah, poveretto, poveretto poveretto] che cosa gli avete fatto? [...] così come noi non abiuriamo la nostra legge, così costui non abiura la sua”»22 e dà torto al rinnegato. Ma per un qāḍī compassionevole c’è un cattivo satrapo ebreo (Pallache, forse, ma non se ne fa il nome) che persuade il re e il suo consiglio a non ammazzare Matias – i cristiani vanno cercando il martirio per essere esposti sugli altari –, piuttosto a riservargli una dura prigionia. E spiega loro che i cristiani «tengono nella loro terra un carcere molto duro, che chiamano Inquisizione e lì hanno gettato una [sua] cugina per trent’anni perché perseverò sempre nella sua legge e in questo tempo le diedero feroci tormenti e in ciascun tormento morì la sua morte; allo stesso modo metti questo in un carcere duro, da cui non veda né sole né luna, e conducilo nudo alla tortura, e con questo morirà
molte morti e ti vendicherai di più».23 Il consiglio dell’ebreo viene accolto dal re, che fa sottoporre Matias a una crudele punizione. A Gines questo tormento è risparmiato per l’intervento di un alcayde, alcayde, rinnegato murciano, proveniente dallo stesso villaggio del giovane, i cui genitori erano stati tra loro amici: questi fa notare al sultano che Gines non è cazis, cazis, cioè sacerdote (non dice messa, non confessa, non predica), ma è piuttosto il criado criado dei due cazises, cazises, e che ai servi non si possono addebitare le colpe di cui si macchiano i padroni e, dunque, non sarebbe giusto tormentarlo. Queste stringenti argomentazioni persuadono il sultano, che risparmia a Gines le torture, ma non il carcere. Cambia, intanto, la strategia nei confronti di Matias: alla persecuzione per mezzo della tortura fisica seguono le lusinghe; il frate viene chiamato molte volte dinanzi al re, che mette alla prova la fermezza della sua fede. Il dialogo verte su alcune questioni (cosillas (cosillas per per il frate): sull’immortalità dell’anima, sulla sua destinazione lasciato il corpo, sulla possibilità che talvolta ritorni a questo mondo e sotto quale forma, sull’esistenza o meno del purgatorio; ma è una discussione superficiale, poiché «tra di loro non ci sono studi di Scienze o di Filosofia o di Teologia, non studiano né sanno, così non approfondiscono né tanto né poco».24 La prigionia è fatta soprattutto di duro lavoro anche per i frati, che per anni sono addetti agli orti reali: prelevati all’alba e condotti carichi di catene sui campi, mangiano alle quattro e mezza del pomeriggio quello che riescono a procurarsi da soli, dopo la giornata di lavoro per il re. Svolgono per lo più piccoli servigi, ma soprattutto gli schiavi vendono vino: i mori giudicano un peccato veniale bere il vino e si ubriacano spesso, ma, considerando un peccato grave produrlo, lo lasciano fare volentieri ai cristiani, che senza queste entrate accessorie potrebbero tutti morire di fame. In verità, il Corano proibisce l’uso del vino,25 ma proprio perché vietato esso è legato alle sensazioni proibite, e il divieto viene frequentemente aggirato. Il re visita personalmente i suoi orti e i giardini dell’Albadea, casa e giardino di delizie dove vive la sua favorita e chiede a Matias se il re di Spagna ne abbia di così belli: insomma gli rivolge continuamente la parola, facendogli domande banali ( preguntillas), preguntillas), perché lo considera un «cane ostinato», difficile da far diventare moro. A questo scopo, forse, interloquisce spesso con lui e una volta gli fa visitare l’Albadea, mostrandogli i quadri dei suoi antenati, spiegandogli che tenere immagini di uomini da poco è un peccato di cui, invece, i cristiani si macchiano continuamente. Anche in questo caso si tratta di una semplificazione del concetto, probabilmente espresso dall’interlocutore musulmano, secondo cui il
Libro sacro bandisce le immagini, insieme al vino, al gioco e alla divinazione, e purtuttavia esiste una ricca tradizione di pittura profana, come ad esempio nella miniatura, mentre è l’uso delle rappresentazioni pittoriche nei riti religiosi a essere assolutamente proibito. Alla domanda di Matias su quali siano i libri sacri che contengono tale proibizione, il sultano risponde «“Qui non si disputa” e poi tace e non parla più». Sta qui per il frate la maggiore difficoltà di convertire i musulmani: «attenersi al precetto di Mahoma, di non disputare della Legge, ma difenderla con la spada, li trattiene molto e li acceca di più, per non poter conoscere la propria cecità e sapere la verità».26 Durante gli anni di schiavitù, Matias, Gines e Roque rischiano più volte di essere uccisi e rasentano in varie circostanze l’agognato martirio. Quando ad Almeyda succede de Silva, vengono catturati venti mori del forte di Azemmour, tra questi un alcayde parente alcayde parente del re, che lascia in ostaggio al suo posto due cugini e il fratello, mentre va a cercare il denaro del suo riscatto. Nel frattempo il fratello si converte, scandalizzando tutto il regno, e rifiuta di tornare dalla sua gente. La scena è teatrale: i mori ritengono che il giovane sia stato convertito a forza; il governatore schiera i suoi soldati fuori dalla fortezza, di fronte a una squadra di mori e lascia al neoconvertito la possibilità di andare via con loro. Egli fa invece ritorno alla fortezza, lasciando i mori costernati e affranti. Si recherà di lì a poco in Spagna – è il 1631 o il 1632 – e sarà battezzato a Madrid; Filippo IV farà da padrino. Un ennesimo Filippo d’Africa! Per ritorsione il sultano decide di uccidere i religiosi, che vediamo in ostaggio, alla mercé di qualunque evento critico nei rapporti tra Spagna e Marocco. In particolare Roque viene accusato di essere una spia del re spagnolo, di averlo informato di quanto accade in Marocco, di aver fatto venire qui i tre frati, e più recentemente di aver fatto giungere lettere a Mazagan con le notizie dei miracoli fatti dal martire e della luce che emana il suo sepolcro. Forse per questo è finito in carcere. Su istigazione dell’alcayde dell’alcayde da da poco riscattato, il re decide di circoncidere tutti i bambini cristiani come ritorsione dei maltrattamenti fatti agli schiavi mori nella fortezza di Mazagan, ai quali non viene dato cibo sufficiente e viene impedito di recitare le preghiere, mentre ci si burla di loro e si cerca continuamente di persuaderli, in particolare i bambini, a diventare cristiani. Come si vede, si tratta degli identici maltrattamenti lamentati dai cristiani schiavi di mori. Il sultano è crudele con gli schiavi cristiani, ma anche con i suoi mori e rinnegati; timoroso di essere spodestato, uccide parenti e consanguinei (due fratelli, due nipoti, sette primi cugini) che possono aspirare a succedergli al trono
e sopprime per le ragioni più banali membri della sua stessa casa, mogli e servi fedeli, mentre tiene segregato in una cella del palazzo reale il fratello minore, sempre per paura che possa spodestarlo. Da quando ha ucciso Juan la sua paura è cresciuta, e gira sempre armato anche nel palazzo, dove lo sorprendono alcuni rinnegati, fuggiti dalle sue segrete, i quali, il 21 febbraio 1636, lo uccidono ai piedi della stessa colonna dove è stato flagellato Juan; liberano quindi il fratello prigioniero, che viene riconosciuto re dagli stessi fedelissimi del sultano, intervenuti sulle prime a dargli man forte.
4.3 Il mūlā y mezzo y mezzo sangue Il nuovo re Musammad ash-Shaykh aṣ-Ṣagh īr è figlio di una schiava cristiana – nata da una coppia di spagnoli caduti in cattività ma rimasti cristiani e sepolti nella chiesa della Sagena –, fatta mora a forza e poi sposata dal re, padre dell’attuale. Proprio la discendenza da Castellanos viejos viejos produce le sue particolari virtù: salito al trono libera molti schiavi spagnoli, tra cui Gines e Roque, che vengono mandati a Mazagan; apre le porte del carcere a molti prigionieri, restituisce patrimoni sequestrati senza giusta causa, sposa una sola donna (ma vedremo che non è davvero così), esonera i cristiani da lavori troppo pesanti e distribuisce loro denaro, suscitando la violenta reazione dei mori, che lo considerano quasi un cristiano. Quindi manda a chiamare Matias, che non ha voluto lasciare la città27 e cerca di capire se il frate sia una spia e quali siano le sue reali intenzioni: le spiegazioni esclusivamente religiose non lo persuadono. Matias gli ricorda di essere giunto lì come ambasciatore del gran principe di Medina per rendere grandi servigi al re del Marocco, destinatario di doni di valore che sarebbero giunti dalla Spagna se la situazione non avesse preso quella brutta piega, e di non aver potuto assolvere al delicato incarico conferitogli. Il sultano è disposto a dargli tutto quello che gli serve e il frate, illustrandogli la regola francescana della povertà, gli chiede il possesso per il suo ordine della chiesa, l’autorizzazione a costruire un convento e a farsi raggiungere da altri confratelli. Con la nuova libertà di movimento di cui gode, riesce a fare giungere a Mazagan le reliquie di Juan, che ha tenuto in una cassetta sepolta sottoterra per sottrarle ai mori. Matias smentisce qui Juan de Puelles,28 secondo cui Nicola de
Velasco, e non lui, aveva richiesto e ottenuto dal re la donazione di chiesa e convento agli Scalzi. L’edificazione del convento può avvenire grazie alla collaborazione di tutti gli schiavi, tra cui si annoverano molti bravi artigiani, e grazie al buon prezzo dei materiali da costruzione: i mori sono curiosi e ammirati dinanzi agli altari addobbati con fiori e ceri; la celebrazione delle feste, vera consolazione e unica distrazione degli schiavi, li spinge a riconoscere «che queste cose che fanno i cristiani sono buone».29 Molte di queste attività sono di competenza delle confraternite: ce ne sono ben tre a Marrakech, quella di Nostra Signora del Rosario, con vessilli ricamati e baldacchino per ostentare il Santissimo Sacramento retto dal sacerdote, del Santissimo Sacramento e della Misericordia. Tutte le liturgie si svolgono in tranquillità quando l’Arraez dei captivi che tiene la chiave della Sagena serra le sue tre porte di ferro e i cristiani restano chiusi dentro, mentre con un presentillo all’alcayde moro che ha ricevuto dal re l’autorità su tutti i captivi, si riesce a farli esonerare dal lavoro almeno nei giorni di festa. I captivi si tolgono il pane di bocca per darlo in elemosina e la Confraternita del Santissimo Sacramento si occupa di reperire la cera, il vino per la messa, la farina per le ostie e rispondere a ogni necessità della sua chiesa. La Confraternita della Misericordia ha invece fondato un ospedale dentro la Sagena, con sei-otto camere destinate agli infermi, ai vecchi poveri, monchi o gozzuti che non sono in grado di lavorare; inoltre fa seppellire i morti e dire messe di suffragio. Insomma, Matias è riuscito, da solo, dopo la morte di Juan e la partenza di Gines, nell’impresa di ripristinare la missione francescana in Marocco, che tante lacrime e sangue è costata al suo ordine. Egli si sente ben a ragione l’epigono di un’illustre prosapia che ha i suoi capostipiti nei cinque martiri italiani che stabilirono la Chiesa in Marocco, e di tutti i loro discepoli, per lo più anonimi, i cui sepolcri egli stesso ha veduto in diversi siti, la cui memoria custodiscono e si tramandano i cristiani qui captivi. Molti di loro sono veri martiri, morti per aver voluto conservare la propria fede. E «in alcuni torrioni grandi della porta del re che circondano le mura della città ha visto molte sepolture con iscrizioni alla parete che dicono del martire che vi sta lì sepolto e sommariamente di come e perché morì, e chiedendo maggiori informazioni su quei corpi ha saputo che alcuni sono stati presi e portati in terra di cristiani, ma, per mancanza di tempo e per la collocazione in luoghi pubblici dove bazzicano molti mori, di altri non hanno potuto aprire le sepolture e prendere le reliquie, anche di martiri crocifissi in croce con piedi e mani inchiodati come Gesù Cristo, che in queste condizioni sono rimasti vivi tre giorni predicando giorno e notte la fede del Signore, e di
altri che l’hanno predicata ugualmente mentre venivano bruciati vivi in grandi roghi».30 Tra i martiri senza fama né culto, Matias ricorda il cappuccino chiamato Ballester, che i cristiani di Marrakech riscattano dalla schiavitù in Algeri e che lascia un vivo ricordo in tutto il regno; il domenicano fiorentino Costanzo Magno, che con tal vigore fustigava i vizi e i peccati dei cristiani da essere da questi denunciato e rinchiuso nelle carceri destinate ai giudei, con i quali fece molte dispute, perseguitato da questi oltre che dai mori. La sua fama di santità attirava molti marabutti che venivano a visitarlo e a conversare con lui e lo lasciavano ammirati ed edificati dalle sue virtù. A causa dei miracoli che operava venne liberato dal carcere, ma non volle lasciare la schiavitù, ed è sepolto nell’Almayeta, un campo consacrato e recintato alla periferia della città. E ancora l’agostiniano Tommaso di Gesù, di nobili natali, il quale viene acquistato da un marabutto che lo tiene in catene per molti anni, e pur in quelle proibitive condizioni scrive un libro intitolato Trabajos de Jesus. L’irlandese domenicano Antonio di Santa Maria, catturato proprio mentre si reca in Irlanda e condotto qui, fondatore della Confraternita del Rosario; il francescano Cipriano della Concezione, che il ruolo di guardiano in Brasile conduce in Spagna e da lì schiavo a Marrakech, dove amministra la chiesa e per questo rifiuta di essere riscattato. Ancora: il chierico Juan Gabriel de Ortega, il francescano Cristoval Flores, dotto teologo, definidor della provincia della Nuova Spagna, catturato mentre si reca a Roma per l’elezione del ministro generale dell’ordine. Ancora ricorda tre cappuccini francesi morti di peste; uno di loro, Pietro Peccador (Picado), presente al martirio di Juan, «morì parimenti martire in Algieri per le mani delli Barbari Mori di quella città che saranno sedici anni [...] il sopradetto fu un huomo di una vita tanto esemplare che, disingannato dalle cose di questo Mondo le abbandonò tutte e si retirò e scelse quel modo di vita per servire a Dio».31 Infine, l’agostiniano Juan del Corral, della provincia di Castiglia, naturale della città di Soria, che i mori catturano mentre si reca in Giappone e conducono a Salé, ucciso dal fratello del re che ora regna, a sua volta fratello del re che uccise Juan. Il braccio del re che ha colpito il frate, raggiunto dalla vendetta divina, si paralizza. Matias raccoglie le spoglie anche di questo martire e, insieme a quelle di Juan, le fa giungere in Spagna.
4.4 Conquiste sotterranee
Insomma, non c’è solo Juan; i martiri qui sono tanti, noti e anonimi, il loro sangue ha innaffiato il terreno su cui attecchisce la Chiesa in Africa. Dio l’ha voluta e mantenuta con i suoi miracoli: è un miracolo tutto quello che è accaduto, se si pensa al contrastato inizio del «viaggio spirituale» che ha condotto i tre francescani sin qui, e a come ora si celebrino con regolarità le funzioni religiose, si assistano spiritualmente i cristiani, si impedisca loro di rinnegare e si convertano molti mori. Dopo quaranta anni trascorsi tra gli infedeli, Matias ha compreso che molti di loro sono buoni e compassionevoli, adorni di virtù naturali, persino più degli stessi cristiani; ha in più occasioni ricevuto da loro soccorso, nonostante il Corano lo proibisca, già durante il difficile viaggio da Azemmour a Marrakech. La difficoltà, ribadita per l’ennesima volta, della loro conversione dipende dal fatto che «non disputano della loro Legge, ma la difendono con la spada»;32 dunque non li si può persuadere dei loro errori, «perché se è vero che la detta setta e il Corano sono fondati su alcune buone credenze, e alcune in sé sono sante, però quello che si crede è come una insalata di legge evangelica, legge giudaica, eresie e idolatrie».33 Se si potesse discutere, facilmente li si convincerebbe e invece occorre cambiare strategia e «attrarli con amicizia, regalini e altre cosette, invitandoli a mangiare e facendo loro altre carezze e benefici, tenendoceli amici e nello stesso tempo predicando e facendo conversazione con loro [...] e dopo che li abbiamo disingannati sugli errori del Corano, considerando che qui non possono restare senza pericolo, perché se lo venissero a sapere i mori tutto sarebbe perduto e ucciderebbero noi e loro, diamo loro una carta e li inviamo alla fortezza di Mazagan o di Larache o di Mamora [...] e lì li battezzano e li accomodano in parte di cristiani e in questa forma abbiamo una quantità di mori fatti cristiani e nella strada della salvezza».34 Ugualmente occorre considerare che se molti cristiani si fanno mori per risparmiare le sofferenze a costo di perdere la loro anima, tuttavia c’è qui una grande quantità di falsi rinnegati che hanno solo l’abito di moro, ma conservano l’attaccamento e la credenza nella legge cristiana. Cinque o sei di questi rinnegati, che possono muoversi liberamente ed entrare in tutte le case, aiutano Matias a battezzare segretamente i figli dei mori in fin di vita, e anche Matias ne battezza «dissimulatamene», salvando una gran quantità di anime. Il frate pensa che la considerazione verso i cristiani sia cresciuta ed essi abbiano ormai guadagnato il rispetto dei mori, i quali dicono che «se credessimo in Mahoma, saremmo meglio di loro».35 L’attuale re, particolarmente «inclinato» verso la Chiesa e verso la Spagna (ha liberato spontaneamente cinquantasei
schiavi spagnoli), espone i suoi dubbi religiosi a Matias, pur senza mai convertirsi. In seguito alle rivolte di alcune tribù, egli guarda con interesse alla Spagna, dove vuole inviare il frate con un incarico delicato e della massima segretezza, per il quale nessun ambasciatore moro gli sembra adatto: volendo lasciare il suo paese per rifugiarsi in Spagna, intende chiedere l’aiuto del duca di Medina. Nel frattempo ammassa le sue ricchezze a Safi, meditando di trasferirle al suo seguito. Il tesoro reale è legato alla Corona ed è considerato sacro; ogni re lo accresce e lo custodisce a Safi per metterlo in salvo da qualunque minaccia nemica, interna o esterna. Matias vede molto di buon occhio questo progetto: il re, «sebbene moro», ha buone intenzioni; in terra spagnola «con molta rapidità e facilità sarebbe divenuto cristiano»36 e con lui le sorelle, i figli e le numerose mogli (prima ha detto che ne ha una sola), molte delle quali sono more per finta. Le bambine, infatti, vengono accolte nelle case del re in attesa che siano in età da marito, diventano more a forza e concubine del re, ma alcune hanno scritto al frate chiedendogli di raccomandarle a Dio e di toglierle da quello stato di perdizione. La venuta del re e del suo tesoro in terra cristiana rappresenta un gran bene senza alcun inconveniente: questo dice Matias innanzi al Consiglio del re di Spagna. Il progetto, però, non si realizza, non per la mancata volontà del re moro, ma «per la indeterminazione e dilazioni che ogni cosa pare abbia dalle nostre parti. Con cortese risposta», allora, il re cristiano rimanda il frate in Marocco e il duca di Medina lo fa affiancare da un suo criado, mentre a Mazagan un marabutto rivoltoso uccide il governatore, conte di Castelnuovo. Insoddisfatto, il mūlā y, «per la sua naturale condizione generosa, prodiga e liberale»,37 invia una nuova missione in Spagna, facendo accompagnare Matias da un suo ambasciatore e da molti doni, offrendo al re cristiano 30-40 000 mori per le sue guerre, grano, salnitro (oltre a cavalli, pregiati uccelli da gabbia, oggetti di curiosità e d’intrattenimento), armi e cinquantacinque captivi di cui undici bambini. Giunta a Sanlucar, la delegazione viene ricevuta con tutti gli onori dal duca di Medina, ma l’ambasciatore moro comincia a essere ossessionato dalla paura di essere ridotto in schiavitù e venduto, per cui ritorna precipitosamente in patria, dove lo attende l’ira del re che lo giustizia per tradimento, poiché non ha eseguito la sua volontà. Matias si dovrà recare solo a Madrid, insieme agli schiavi liberati. Anche questa missione non ha esito migliore della precedente e il frate comincia a temere la reazione del mūlāy: i Consigli di stato e di guerra decidono che è importante conservarne l’amicizia, che bisogna inviargli un regalo come segno di cortese intesa e che sarà lo stesso frate e portarlo in Marocco.
Non vi giungerà: Matias muore sulla strada per l’Andalusia il 14 maggio 1644; il curatore della sua opera stigmatizzerà la «lentezza e passività» degli organi di governo, la «mentalità sommamente povera e piccina», l’«incomprensione con la infeconda passività che la caratterizza, che condanna alla sterilità le nobili ansie e il patriottico anelito cristiano dell’apostolo francescano della Chiesa di Spagna, sorpreso dalla morte prima di veder realizzati i suoi propositi di stabilire religione e patria in Marocco».38
4.5 Un «labor españolista» I religiosi giocano un ruolo politico complesso tra il duca di Medina e il re di Spagna, e la congiuntura politica internazionale amplia o restringe gli spazi del loro intervento, che sembra di natura squisitamente diplomatica; che non si tratti solo di intavolare un ipotetico dialogo religioso è di tutta evidenza: piuttosto, l’opera missionaria va intesa come un «labor españolista», motivato dalla «preoccupazione patriottica che si manifesta attraverso la ricerca di strette e amichevoli relazioni politiche ed economiche tra la Spagna e il Marocco».39 Si deve a quegli umili frati, al loro lavoro, abilità, pazienza, abnegazione, sacrificio e costanza, «il legame tra Maghreb e Europa, se oggi esiste in Marocco la tolleranza religiosa, se la civilizzazione europea ha potuto esibire qui le sue manifestazioni e progressi, se la cultura è giunta a penetrare in questo paese».40 Non sono del tutto leggibili gli avvenimenti narrati dalla documentazione ecclesiastica fin qui usata, se non si allarga lo sguardo alla politica spagnola nei confronti dell’area barbaresca, alla politica interna del Marocco e contemporaneamente alla strategia dell’ordine francescano e della chiesa. La missione di Juan ha avuto un precedente nel 1621, quando i frati Miguel de San Diego e Blasi di San Raffaele si sono spinti sino alla fortezza di Mehedia (al-Mahdiyyah), dove si sono fermati per diciotto mesi; informato il loro provinciale, sono da lui autorizzati a spingersi sino a Marrakech, dove si recano, in due riprese, travestiti da mercanti per dare conforto religioso agli schiavi cristiani. Ma il tentativo viene abbandonato allorché, nel 1623, il Capitolo della nuova provincia nomina Juan de Prado guardiano del convento di Cadice. Sappiamo del desiderio di Juan e del suo compagno Matias di raggiungere l’Africa e dei loro tentativi presso il mercante Herrera Torres e, per suo tramite,
presso Francisco Roque Bonete, «commerciante facente funzione di agente politico»,41 bene introdotto nella corte di Mūlāy Zūdān e di cui il duca di Medina Sidonia ha motivo di fare l’elogio a Filippo IV. La fortuna (e il fiuto) del mercante non cambia nemmeno sotto il successore ‘Abd al-Malik, pur contrastata dall’ammiraglio francese e cavaliere di Malta Isaac de Rassilly.42 Proprio Roque, insieme ad Andrea Camelo, schiavo e medico del re, che ne sta curando la «paralisìa», riesce a ottenere il salvacondotto, impresa a cui avrebbe collaborato, secondo un rapporto del duca di Medina e del vescovo di Cadice al nunzio apostolico, il segretario del re del Marocco, che, sotto l’apparenza di buon musulmano, è un religioso di Madrid, espulso dal suo ordine e dalla Spagna come morisco. Insomma, un altro informatore, una spia, in questo universo pieno di dissimulatori e di agenti segreti sotto mentite spoglie. Nel 1624 c’è stata una iniziativa dei cappuccini francesi di stabilire una missione, approfittando della schiavitù di due confratelli. Nel 1629 Rassilly ha condotto con sé quattro frati che si dovevano installare a Salé e a Marrakech presso i consoli francesi; essi lasciano il Marocco il 12 ottobre 1630, firmando i consoli una dichiarazione secondo cui partivano perché non c’erano più schiavi francesi, essendo stati tutti riscattati, e dunque la loro missione non aveva più ragion d’essere. Il titolo di “Prefectus missionum ordinis ad Marrochium” di uno di essi, frate Giuseppe, viene trasferito al futuro martire. I religiosi spagnoli potrebbero ridimensionare l’influenza di Francia, Inghilterra e Olanda che vogliono coinvolgere Z īdān nell’ostilità contro la Spagna. Quando il 27 novembre la piccola truppa di frati lascia Cadice sulla nave messa a disposizione dal duca di Medina, è dotata di facoltà apostoliche molto ampie, concesse da Urbano VIII, insieme alla nomina decennale di Juan quale «prefetto apostolico delle missioni in Marocco». Il frate ha con sé delle lettere per il governatore di Mazagan, don Francisco de Almeyda e per il sultano, con il quale evidentemente spera di allacciare relazioni diplomatiche. Isaac de Rassilly è un militare di ampie vedute: il 29 novembre 1626 propone al cardinale Richelieu un pregevole memoriale nel quale contesta l’opinione, serpeggiante anche tra i consiglieri del re, secondo cui i francesi non sono buoni navigatori né sono in grado di impiantare colonie. Propone di «andare a gettare l’ancora di sei navi presso la rada di Salé, trattare nello stesso tempo la pace con il re del Marocco, così da farsi consegnare i poveri francesi detenuti come schiavi».43 Nello stesso viaggio propone di lasciare una guarnigione di cento uomini nell’isola di Mogador, a portata di cannone dalla terraferma e facilmente fortificabile; di piazzare sei cannoni e lasciare del biscotto ai cento uomini, di
costruirvi delle case, poiché non vi è bisogno di altre fortezze, essendo l’isola naturalmente fortificata. Si potrebbe stabilire nell’isola un commercio di tela, ferro, drappi e altre mercanzie minute con un introito di diecimila scudi l’anno. In pagamento si riceverebbero polvere d’oro, datteri, piume di struzzo e cavalli berberi dei migliori d’Africa, con un profitto del 30%; il viaggio dalla Francia è breve e con vento favorevole si può essere lì in otto giorni. «Si tratta di avere un piede in Africa per andare a estendersi più lontano.»44 La memoria viene accolta con favore, ma nei tre anni successivi Richelieu è assorbito dalla guerra ai protestanti; assicurata la sottomissione degli ugonotti, padre Giuseppe e Rassilly sono fatti partire con l’incarico di offrire al re del Marocco 100 000 lire, concludere un trattato di pace e di commercio, riportare in patria i captivi, occupare Mogador. Autorizzato a usare la forza, nell’estate del 1629 Rassilly blocca con sette navi il porto di Salé, dove due frati francescani della regola dei recolleti costruiscono una cappella e sviluppano anche un’attività di intelligence, d’intesa con il console e i due ambasciatori francesi (Monsieur de Rajali e Monsieur de Talart), su istanza di due cappuccini della stessa nazione (di cui uno si chiama Pietro d’Alanzon), schiavi in Marocco, inviati dal re di Francia per riscattare tutti i francesi prigionieri del sultano. Apprese le mirabolanti notizie del martirio e dei miracoli di Juan, «con grande ansietà desiderarono portare in Francia le sue reliquie sante, sembrando loro ch’entreriano in Francia gloriosamente trionfanti, se tra li Cristiani riscattati portavano le reliquie di un Uomo così meraviglioso».45 Perciò scrivono agli schiavi, si valgono del console in loco, Pierre Mazet, e questi, a sua volta, di Morato, rinnegato francese suo grande amico, promettendogli molto denaro in cambio delle reliquie. Ma, nonostante l’avidità del rinnegato, il sito è troppo centrale e frequentato perché il piano trovi realizzazione. Il trattato tra i due regni sarà stipulato nel 1631 e conosciamo l’equivoco «doppio gioco»46 fatto in quell’occasione da Samuel Pallache. In realtà gli sforzi di Richelieu, ispirati da Rassilly e da padre Giuseppe, riescono a stabilire rapporti diplomatici tra i due paesi, mantenere la pace, limitare le perdite della pirateria, liberare gli ostaggi. Nell’ottobre 1634 schiavi e rinnegati spagnoli, con uno stratagemma e molte complicità, disseppelliscono furtivamente le reliquie di Juan47 e le danno in custodia a Matias. Nello stesso anno mūlāy al-Wal īd libera tutti i sudditi francesi presenti nel regno del Marocco. Perciò, quando nel 1631 il sultano ordina ai frati appena giunti in Africa di ritornare in patria, si configura un disastro per la spedizione, la catastrofe di tutte le speranze missionarie di Juan, ma anche di quelle diplomatiche del duca di
Medina. Quando mūlāy Walud, anticristiano e antispagnolo, che odia il fratello al-Malik, per il suo atteggiamento verso la Spagna chiamato dispregiativamente «mezzo cristiano», lo fa assassinare, il vento spira a favore della Francia.48 Molti personaggi, anche religiosi, attorno alla corte del re sono agenti politici, aperti o segreti. Juan si pone fuori dal gioco politico-diplomatico e ne paga le conseguenze. L’ambasciata di Juan arriva dunque nel momento meno propizio: l’umile condizione degli ambasciatori che giungono a mani vuote promettendo beni spirituali, i sentimenti antispagnoli del re, l’arresto di Roque accusato di intelligenza con il ministro Asmad (plausibilmente il fuggitivo Amuda che il sultano cerca con ogni mezzo di far tornare nelle sue mani), che in passato ha persino imprigionato al-Wal īd, si sommano alla ostinazione del frate. Dopo avere più volte subito la provocazione della mascherata sacrilega inscenata dai rinnegati che si mettono in ginocchio davanti a lui chiedendogli, tra lazzi e sberleffi, il perdono, al-Wal īd lo attira nella sua trappola, chiedendogli in pubblica udienza quale sia la religione migliore. Il destino di Juan è così segnato.
4.6 Il francescano ambasciatore Il fratello del re ucciso, Musammad ash-Shaykh as.-Óaghur, uscito dalla prigione, dà una svolta alla politica estera del suo paese: forse non solo perché figlio di una spagnola e circondato da donne andaluse, libera Roque e i due compagni di Juan, affidando a Matias il libero uso della chiesa della Sagena e autorizzandolo a farsi raggiungere da altri due frati. Può non essere un atto di liberalità la liberazione di Roque: «la natura del reato di cui era accusato e la qualità della persona avevano intralciato il riscatto, dando luogo a negoziati ardui e prolungati che avevano imboccato spesso un punto morto. Intervenne tra gli altri il conte di Castelnuovo, governatore di Mazagan che le avviava verso una soluzione positiva finché non cadde ucciso in una imboscata. [...] Poiché i servigi di Roque erano stati utili a Filippo IV, questi si preoccupò della sua liberazione, concedendo 15 000 reali per il suo riscatto».49 Il re di Spagna paga per riavere un suo uomo di fiducia e navigato servitore. Il papa nomina Matias de San Francisco prefetto apostolico e spedisce in Marocco Nicola de Velasco, Juliano Pastor, Bartolomeo di San Bernardino e
Tommaso di Santa Maria. Il primo, ambasciatore personale del duca di Medina, viene scortato da sessanta cavalieri indigeni prima a Mazagan e poi sino a Marrakech e ricevuto dal governatore del Millāḥ, il cuore della Casbah, da Mosè Pallache, incaricato dal sovrano. Accorre una folla di mori, meravigliati di vedere accolto con tutti gli onori un frate, modestamente vestito, ma seguito da carri recanti lo stemma del duca di Medina, colmi di ricchi regali. La tempra dell’ambasciatore e l’autorevolezza di cui si sente rivestito emergono sin dall’incontro con il cerimoniere di corte che lo istruisce su come occorre comportarsi in presenza del sultano. «Entrando dove stava il Re avea da baciar la terra, e subbito fare tre riverenze colle ginocchia per il suolo, e la terza avea da restare in ginocchioni, per parlare all’Imperatore, ché così lo facevano gli altri Ambasciatori. A questo rispose il Padre: che la terra non avea da baciare se non avanti al Re del Cielo e della Terra, né piegar tampoco le ginocchia avanti del Re Moro; poiché li Principi Cristiani piegavano il ginocchio, per baciare l’abito. Che se quelle cerimonie erano precise, e così lo facevano gli Ambasciatori, che dicesse a sua Maestà, che lo avesse solo per un Corriero, che le aveva portato una lettera, poiché in essa si conteneva quanto a bocca le poteva dire.»50 Il re manda a chiedergli come vuole comportarsi e il frate gli fa rispondere «che gli farìa tre riverenze, all’uso che si pratica nella Spagna, senza piegar le ginocchia, e che assiso gli avea a parlare. Rispose l’Alcayde: che l’Imperatore di Marocco a nissuno dava sedia»51 e che gli stessi alcaydi si sedevano sopra dei cuscini. «Io mi ho da sedere, o commandi Sua maestà che [gli alcaydes] stiano in piedi, o ch’eschino fuori.»52 Insomma, una rivoluzione del cerimoniale della corte marocchina, che acconsente a che tutti restino in piedi e che l’ambasciatore gli renda omaggio con tre riverenze. Ugualmente il frate rifiuta i doni che gli vengono offerti per non dare l’impressione che il duca di Medina avesse lesinato sulla missione e per obbedienza al voto di povertà del suo ordine: sarà Mosè Pallache a far sì che il rifiuto non abbia a offendere il generoso sultano. Frate Nicola prende possesso della chiesa, che intitola alla Immacolata concezione, e dell’edificio della nuova missione che il re attribuisce da questo momento in poi all’Ordine francescano.53 Nicola Velasco, residente a Sanlucar, ha servito Gaspare Guzman nel 1637, quando, salito al trono del Marocco Musammad ash-Shaykh as.-Óaghur, figlio di una cristiana rinnegata, sfidato il suo potere da un potente marabutto, cerca alleati in Spagna, in particolare tra i vicini andalusi. «Venuti questi disegni all’orecchio di Filippo IV, il re incarica Medina di stabilire e proseguire le relazioni con il regno infedele, approfittando dei tradizionali contatti della casata che suole mantenersi amica dei rivieraschi
dello Stretto le cui acque devono essere condivise da pescatori e commercianti delle due civiltà. Il duca nomina ambasciatore Nicola Velasco,54 che passa in Marocco, dove è magnificamente ricevuto, non tardando a conseguire un importante accordo. In cambio del soccorso economico e militare offerto a Salé, si ottengono concessioni nel campo della navigazione, commercio e scambio di captivi, particolarmente favorevoli per gli stati e il distretto militare di Guzman.»55 Lo stesso frate recupera le spoglie di Juan de Prado e di Juan de Corral, nelle cassette predisposte all’uopo da Matias de San Francisco, ottenendo la liberazione dalla schiavitù di un importante personaggio, Francisco Roque. Il 23 settembre 1637 Nicola torna in Spagna con Gines, portando con sé le reliquie di Juan, non senza aver dovuto sedare «la maggior contraddizione e furia degli schiavi, che volsero rubbare le Sante reliquie, perché dicevano che se essi le avessero, la Religione, e i Principi Cristiani li avevano da riscattare, perché gliele dessero; e unendosi molti di essi con picconi e altri strumenti, volsero rompere la chiesa per cavarle».56 Solo l’ascendente di Matias evita il peggio. La dedizione dei nuovi missionari, la loro azione umbratile, l’accoglienza nel convento anche di rinnegati producono grandi frutti: Matias e Juliano convertono venti musulmani, che si guardano bene dal battezzare, ma che dotano di un biglietto attestante la nuova condizione, utile nel caso in cui riescano a fuggire verso presidi o terre di cristiani, dove finalmente potranno essere battezzati e accolti. Per quelli impossibilitati a fuggire occorre «inventare un compromesso tra la pratica esteriore dell’islam e la loro coscienza ridivenuta cristiana».57 E soprattutto imparare a dissimulare. Il successo della missione produce spirito di emulazione.58 Il regno di as.-Óaghur viene sfidato dal movimento degli shuraf ā’ filaliti, una dinastia che lancia la sua sfida dal Nord del paese, e l’Inghilterra si propone ufficialmente come alleata del sultano, il cui entourage però propende per la Spagna, e sappiamo che Matias viene inviato ufficialmente da Filippo IV – insieme al dono di ventisei schiavi liberati – per preparare la fuga del re che ha già trasferito segretamente il suo tesoro a Safi. Il duca di Medina si reca personalmente a Madrid per persuadere il governo dell’importanza dell’affare, ma la situazione critica nei Paesi Bassi e la rivolta della Catalogna lasciano ogni decisione in sospeso, mentre in Marocco le cose precipitano quando i nemici del re lo accusano di volersi fare cristiano per porre il regno sotto il protettorato spagnolo. Una seconda ambasciata nel 1640 si conclude – come sappiamo – con la permanenza di Matias alla corte madrilena per quattro anni, fino al 1644, quando il frate muore.
Sarà Francisco de la Concepcion, provinciale dell’Andalusia, a prendere in mano risolutamente tutta la questione, facendosi affidare da Filippo IV il ruolo di ambasciatore: dopo due anni di preparativi, il 18 giugno 1646 parte per il Marocco con un bastimento stipato di artiglieria, fanteria, doni e lettere per il re marocchino. Entra a Marrakech trionfalmente, vestito di abiti secolari, inscenando una cavalcata solenne, preceduto dai soldati spagnoli, dagli ascari del sultano, da ufficiali, musicisti, da trentasei muli carichi di regali. Lancia seicento pezze d’argento sulla folla, provocandone l’entusiasmo e le grida di «Viva il re di Spagna», dando inizio alla leggenda che vuole che l’ambasciatore seminasse di argento la strada verso il palazzo reale. Ma se privilegi porta alla comunità monastica, niente di decisivo arreca al sultano, che gli fa condurre con sé altri diciotto schiavi, insieme con la concessione di esportare dal regno grano e vettovaglie soggetti a bassi dazi, nella cattiva congiuntura attraversata dall’economia spagnola. «Il religioso aveva in effetti ottenuto per il suo paese la libera esportazione dietro pagamento di un diritto niente affatto eccessivo di tutti i prodotti alimentari che abbondavano nella regione. Gli spagnoli che a quell’epoca mangiavano pane bianco di grano marocchino, pollame e uova di struzzo, non immaginavano di dovere il miglioramento della loro esistenza all’umile francescano di Cadice che si era rivelato un ambasciatore di prim’ordine.»59 Dopo la missione di Francisco de la Concepcion, i rapporti con il Marocco restano buoni: le conversioni di musulmani avvengono segretamente e i neofiti vengono trasferiti con prudenza in terra cristiana, come il vecchio musulmano che si fa battezzare, ha delle visioni e diventa terziario. Ma, a causa della conversione di una famiglia israelita, l’intera Giudearìa si agita e protesta presso il sultano, mettendolo in guardia sulla reale possibilità che lo stesso accada tra i suoi musulmani: i contendenti vengono ascoltati dal Consiglio, che non ritiene il conflitto di sua competenza, poiché non si abiura il Corano: degli infedeligiudei, passando al cristianesimo, restano infedeli. Juliano Pastor impone ai suoi frati «la grande regola missionaria: non inquietarsi affatto per le sciocchezze che si potevano sentire né permettersi tenzoni verbali con i musulmani, ma se i giudici o il sultano venivano a portare attacco diretto alla fede, bisognava difenderla fino alla morte».60 Anche il sultano, assunto lo stesso atteggiamento di moderazione, impedisce ai musulmani di discutere questioni religiose con i francescani, acconsentendo però che essi difendano la propria religione se provocati. Nelle nuove condizioni, Juan avrebbe avuto salva la vita.
Il sultano non solo è un uomo accorto, ma è anche paziente: un’altra ambasciata parte per la Spagna nel 1646, reiterando le vecchie richieste e avanzando anche quella della restituzione della biblioteca di Z īdān, depositata all’Escorial. Trascorso un lungo lasso di tempo, irritato dall’attesa, il sultano manda i frati Pedro de Alcantara e Martino de Luna da Francisco de la Concepcion, che si reca personalmente a Madrid a perorare la causa davanti al Consiglio reale. Le risposte spagnole arrivano solo nel 1652, come al solito evasive: «Alla vista dell’insperato quanto impolitico procedere del governo spagnolo, il sultano, istigato dai nemici di Spagna e della religione, cambia condotta verso i nostri missionari, facendoli oggetto di una terribile persecuzione».61 La delusione del sultano è enorme e il suo atteggiamento diventa ostile nei confronti dei religiosi, ritenuti responsabili dell’andamento e dell’esito delle trattative: i frati vengono obbligati a vestirsi da rinnegati per uscire fuori dal convento, non possono circolare per la Sagena e, in seguito alla fuga di uno schiavo, sono costretti a risarcire il sultano vendendo tutti gli arredi sacri e facendosi prestare il resto del denaro. Gli anni 1647-1653 sono segnati da rivolte interne e carestia, gli abitanti di Azemmour e Oualidya vanno a offrirsi come schiavi a Mazagan, la città di Marrakech si spopola: «Non solamente cambiano paese per sfuggire alla fame, ma anche religione e chiedono di farsi cristiani [com’era accaduto nel 15211522]. I captivi non sono più di diciotto spagnoli e undici o dodici inglesi, eretici d’altronde; questi hanno ancora qualcosa, i nostri non hanno più nulla».62 I frati vengono flagellati, il convento spogliato e saccheggiato; si vedono costretti a chiedere aiuto alla loro provincia. L’atteggiamento del sultano è dettato, dunque, non da attitudine personale, ma da puro calcolo politico, e la politica si riflette in modo diretto e brutale sulla condizione della schiavitù. Nel 1654 interviene il duca di Medina, pagando quanto richiesto dal sultano che sembra disinteressarsi per un po’ dei frati. Intanto, a as.-Óaghur è succeduto il figlio mūlāy ‘Abbas, ucciso a sua volta nella congiura di palazzo che porta sul trono ‘Abd al-Kr īm ben Bakr. Le rivolte degli shuraf ā’ filaliti del Nord, i disordini di Marrakech, la prossimità della Sagena con le sue porte bordate di ferro e le alte torri che incombono sul palazzo reale, una vera e propria cittadella in caso di insurrezione, convincono il re a farla radere al suolo. Il 19 marzo 1660 trenta schiavi lasciano la più vecchia prigione della città e i frati vengono invitati, se lo desiderano, a lasciare il Marocco. La chiesa di Santa Maria Immacolata viene interamente distrutta. Richiamati in Spagna i missionari, restano sul posto solo due frati, Francisco e Alonso, un prete e un laico,
abbandonati a se stessi e in grande povertà. Dopo nove anni di regno di ‘Abd al-Kr īm, il figlio Ab3Bakr regna per soli due mesi, rovesciato e decapitato dallo sfidante vincitore che viene dal Nord, il filalita arRashud, che conserva nei confronti dei frati un atteggiamento ostile (curiosamente misconosciuto da Castellanos e altri storici come Juan del Puerto). Nel 1672 la missione di Marrakech è costretta a traslocare verso il Nord del Marocco. Ancora nel 1685 scrive un francescano a Propaganda Fide: «Siamo agnelli in mezzo ai lupi [...] quando veniamo in città ci scherniscono, ci lanciano pietre e ci gridano “Cani cacises che non credete in Dio” e chi ci molesta di più sono i moriscos, figli di quelli che furono espulsi dalla Spagna, sia per accreditarsi presso i mori che non tengono sangue cristiano, sia per il sentimento che gli hanno trasmesso quelli che furono espulsi. Ma tutte le molestie che ci fanno le riceviamo con allegria dei nostri cuori perché ci vediamo perseguitati come figli di Gesù Cristo».63 Dopo le persecuzioni del 1696 e del 1697, per l’intelligente mediazione e la diplomazia di Diego de la Concepcion, mūlāy Isma‘ul fa ai francescani straordinaria concessione di movimento, ordinando a tutti i suoi ufficiali di non molestarli per terra e per mare. Ma il successore sarà nuovamente sfavorevole ai frati e, con la scusa che sono spie delle potenze europee, il conquistatore di Larache ottiene dal sultano il loro allontanamento: ne rimangono solo quattro a Meknés, Salé, Tetuan, Fez. Nello stesso torno di tempo, i Francescani stringono importanti accordi con i sultani del Marocco: nel 1715 mūlāy Ismā‘āl «rinnova la licenza di restare nel paese a sedici frati dell’ordine francescano di Andalusia della provincia di San Diego, e con essi al medico cristiano chiamato Luis Montero, lo spagnolo, con l’oggetto di curare i cristiani captivi e di prestare loro assistenza»64 a Fez, Salé e Tetuan. I privilegi saranno ancora rinnovati dai mūlāy successivi.65 Nel 1727, alla morte di mūlāy Ismā‘ īl, si aprono trenta anni di contese dinastiche. Se le relazioni riprendono sotto Carlo III, si interrompono nuovamente con la dichiarazione di guerra al Marocco da parte della Spagna nel 1774, e da parte del Marocco alla Spagna nel 1790. I missionari, prima arrestati, vengono rimpatriati; ritornano nel 1795, finché nel 1816 il sultano Sulayman decreta l’abolizione della schiavitù, libera tutti gli schiavi, abolisce la corsa. Con il ritorno in patria dei captivi – la peste del 1800 ne ha fatto strage e ha costretto alla fuga tutti i mercanti europei – declinano le missioni, essendo proibito l’apostolato nei confronti dei musulmani. La crescente penetrazione francese e la morte di Sulayman nel 1822 chiuderanno questa ingarbugliata e appassionante pagina di storia.
4.7 Un santo per la casata Medina Sidonia Ad appena un lustro dall’eccidio di Juan, il processo riprende a Madrid, dove il procuratore della causa, Gregorio di San Luigi, raccoglie le Informationes di testimoni intenzionati a deporre che sono capitati a corte. L’interesse per il processo è duplice: da un lato, si vuole attestare che Juan ha ricevuto licenza da Propaganda Fide di recarsi missionario per «soccorrere l’afflitti christiani prigioni»66 e che, dall’altro, in Marocco «lo incamminò» il duca di Medina Sidonia, «capitano generale di Spagna e d’Africa»: insomma non era lì per un’iniziativa personale, per un colpo di testa. La sua historia è già fissata nei punti essenziali nella Sequentia interrogatoria, l’insieme di domande che, al fine di accertare le conoscenze del testimone, episodio dopo episodio, ripercorre la vita del frate, la missione, il martirio, i miracoli delle reliquie. L’infante don Ferdinando, amministratore perpetuo per autorità apostolica del vescovado di Toledo,67 riceve a Madrid a partire dal 16 gennaio 1636 i testimoni interessati alla causa, in tutto undici: quattro frati francescani;68 don Francisco de Almeyda, ex governatore di Mazagan; Giovanni de Suarez, alcayde della casa del duca di Medina; don Geronimo de Cajapretoria, pagatore generale dell’armata reale; don Martino Martinez de Medrano, segretario di Sua Maestà; don Filippo Gaspare Alonso de Guzman, “Affricano”; Domenico Ravata e donna Maria de Inoxossa [?]. Oltre ai testi elencati, vengono ammesse le copie delle testimonianze rese nel 1631 da Matias de San Francisco, Gines de Ocaña, Salomon de la Farxa e altri, tutti già ascoltati a Marrakech.69 La tappa successiva deve verificare il non cultu, in osservanza del divieto di Urbano VIII di ogni forma di culto per i servi di Dio in via di canonizzazione. L’azione è avviata da Gregorio di San Luigi, in qualità di rappresentante della provincia francescana di San Diego, che si rivolge al nunzio, Giulio Rospigliosi, arcivescovo di Tarso e collettore apostolico, perché autorizzi l’apertura della causa. Il processo ha inizio nel 1638 e le udienze si svolgono nel palazzo episcopale della città di Cadice (il vescovo è frate Domenico Cano), ma alcune anche a Siviglia e Sanlucar de Barrameda; procuratore della causa è frate Giovanni della Madre di Dio. Il culto presuppone l’esistenza di reliquie, ma sappiamo che Juan è stato bruciato. Il principale testimone in questa causa è don Gaspare Alonso Perez de Guzman, duca di Medina Sidonia, «capitano Generale del mare oceano e delle
coste dell’Andalusia e dell’Affrica», che ha testimoniato anche al processo precedente. Nato a Valladolid trentasette anni prima, da don Emanuele e donna Giovanna Sandoval e Cerda, «possiede entrata bastante per mantenersi secondo l’obbligatione della sua Grandezza e Stato».70 Dichiara in maniera autorevole che le ossa di Juan salvate dal fuoco sono state prese da Nicola de Velasco, guardiano del convento di Arcos, e sotterrate nella predella dell’altare maggiore della chiesa di Nostra Signora della Carità della città di Sanlucar, e che, nonostante la loro collocazione in chiesa, non sono mai state oggetto di culto, prima di ottenere l’autorizzazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Alcune sedute del processo si svolgono a Sanlucar, e il duca gestisce e governa la questione sia nella doppia veste di membro del collegio e di testimone, sia facendo intervenire suoi servitori e familiari: don Diego de Ormaça, cavaliere di San Giacomo, è suo maggiordomo maggiore; don Giovanni de Sandoval fa parte del suo Consiglio e consulta; dello stesso abito di San Giacomo è don Luigi del Castillo, mentre don Alonso Cavaña, cavallerizzo maggiore del duca, è cavaliere di Calatrava. Sembra paradossale che i primi due testimoni, avendo dichiarato di essere stati scomunicati, anziché essere esclusi dal processo vi depongano ampiamente: il primo afferma di essere «assente dalla giurisdizione dell’ordinario a causa del suo abito e religione [dei Cavalieri di San Giacomo maggiore] e perciò non voleva pagare la decima e fu scomunicato dal vescovo per due mesi, nonostante che li theologi e li dotti l’assicuravano che non era scomunicato rispetto alle bolle concesse alli cavalieri della sua Religione».71 Il secondo, «essendo giudice in questa città acciò che restituisse alla Chiesa un huomo ch’haveva preso in Chiesa fu scomunicato dal Signor Vicario che lo tenne scomunicato per tre settimane».72 L’uno e l’altro raccontano di conflitti di giurisdizione tra autorità ecclesiastiche, ordini militari, magistrature, tipici della pluralità dei fori di una società di antico regime; la loro presenza in questa sede sembra imposta dalla autorevolezza del loro patrono e padrone. Un altro testimone cavaliere, questa volta dell’abito di Calatrava come il precedente Alonso Cavaña, è don Cipriano de la Cueva e Aldana. Oltre al duca sono interessati alla questione un gruppo di sacerdoti della chiesa che accoglie le reliquie di Juan: Bartolomeo Cubillos, amministratore di Nostra Signora della Carità, afferma che è stato merito del duca se le ossa sono giunte sin qui.73 Sono sacerdoti gli altri testimoni: Luigi de Leon Garavito, giudice subdelegato in questa causa, testimonia a sua volta (anche in questo caso si tratta di un doppio ruolo a indicare la ristrettezza del gruppo promotore); Filippo de Inarte Salazar, cappellano e maestro di cerimonie della stessa chiesa;
Diego de Osorio, cappellano della cappella maggiore della stessa chiesa. Insomma, pare proprio che il processo lo facciano il duca e i suoi famigli, laici ed ecclesiastici. Insieme al triangolo di conventi francescani compresi tra Cadice, Sanlucar e Arcos, è la casata del duca e la chiesa di Sanlucar a promuovere la canonizzazione di Juan. A questi dobbiamo aggiungere la famiglia francescana degli scalzi della provincia di San Diego. Fatta la ricognizione delle reliquie, Nicola de Velasco, francescano scalzo e sacerdote, teologo, predicatore e guardiano del convento di Arcos, abitante – guarda caso – a Sanlucar, riconosce le ossa di Juan che gli sono state consegnate dai frati Matias e Juliano Pastor, da Francisco de Saragoza e altri schiavi cristiani e che ha depositato a Sanlucar in una cassa la cui doppia chiave è stata consegnata nelle mani del duca di Medina e del padre provinciale dell’ordine. Lo stesso ribadisce Gines de Ocaña e confermano i detentori delle due chiavi. Il duca di Medina, il pensiero rivolto già al di là da venire regno indipendente di Andalusia e al suo santo patrono, ha la chiave del paradiso dei santi. Declinata la fortuna della casata negli anni quaranta del Seicento, l’interesse per la canonizzazione si attesta sull’ordine e sui suoi referenti politici: la provincia di San Diego interessa Filippo IV, che nel 1651 scrive al suo ambasciatore a Roma, il duca dell’Infantado, perché si adoperi per il felice esito della causa; nel 1673 e nel 1674 interviene la regina Marianna d’Austria e nel 1683 e 1685 il figlio, re Carlo II; Filippo V scrive nel 1716 al cardinale Acquaviva, suo ambasciatore, richiedendogli «zelo e applicazione» e nel 1716 al papa Clemente XI in persona. Nel gennaio del 1717 il cardinale Acquaviva lo informa di una lettera della regina Isabella rivolta al papa, nella quale si sollecita un «negozio di tanta importanza, che suole Sua Santità dilazionare molto più di quanto i pretendenti anelino».74 Dalle lettere intercorse tra il cardinale Acquaviva e il marchese Grimaldi sappiamo di altri ordini del re e della regina Isabella tra il 1716 e il 1726; nel 1727 il cardinale Bentivoglio scrive al segretario del re di avere soddisfatto gli ordini reali e di avere sollecitato la pronta spedizione della causa alla Congregazione dei Riti. La corrispondenza si addensa nel 1727, finché il 13 marzo 1728 il cardinale Bentivoglio manda al re il decreto di beatificazione di Juan de Prado, «per conforto della Real pietà e devozione».75
4.8 Un santo per gli Scalzi
A parte un processetto tenutosi a Marsiglia per consentire la testimonianza di quattro ex schiavi,76 la fase successiva è rappresentata dal “Processus particularis super non cultu in Urbe”77 che si svolge a Roma nell’oratorio di San Francesco Saverio dal 2 aprile al 22 maggio del 1677. Man mano che trascorrono gli anni e ci si allontana dalla Spagna, scompaiono i testimoni de visu e resistono i frati dello stesso ordine, testi de auditu di una fama di santità trasmessa come modello di virtù nei conventi. Sintomatica la deposizione di Christophano di Santa Maria, scalzo della provincia di San Diego, che ammette di non avere conosciuto Juan, ma di averlo sentito nominare dai padri della sua provincia come un paladino della fede contro i saraceni, parola che compare per la prima volta in questo processo; afferma inoltre che mai ha visitato il suo sepolcro o udito che altri lo facessero, mai visto ad Arcos immagini, epitaffi, iscrizioni, tabelle, lampade, dipinti, e che però la sua fama è universale nella «provincia Bethica». La risposta corrisponde esattamente alle prescrizioni canoniche che richiedono che, nonostante la assoluta assenza di forme di culto, la fama permanga universaliter. Alcuni testimoni transitano dal processo precedente a questo: primo tra tutti il duca di Medina, de la Cueva e Aldana, Diego de Ormaça, a cui si aggiungono il capitano Alonso de Hereida, don Giovanni Lubana, don Giovanni de Sardina e otto religiosi. Nel 1683 si svolge a Siviglia il “Processus in specie” che raccoglie dodici testimoni, di cui otto frati della provincia di San Diego di Andalusia, dei conventi francescani di Cordoba, Cadice, Siviglia. Tra i laici c’è Francisco Gaudin, sessantaseienne nato a «Nissa de Provenza del ducato di Savoia» da genitori nobili e capitano dell’armata reale di Cadice, vedovo, padre di un «navigante sulla strada delle Indie» temporaneamente residente a Città del Messico e di una ragazza che vive con lui; al momento il nostro testimone non va per mare, a causa di alcuni acciacchi e malattie. Francisco è stato molte volte in Marocco, «terra di infedeli»; la prima volta nel 1646 per comprare cera e altri generi vi si è fermato solo quarantacinque giorni; l’anno successivo, essendoci in Spagna «sterilità di frumenti», torna in Marocco, portando regali per il re e per «Mahameth Pascià, la seconda persona del re»: un vestito di panno di Segovia e alcune «cassette di fiaschi di acquavite», generi di molto pregio presso quei «Barbari». Il re, «al ricreo de Monsarrâ», riceve volentieri i regali e gli vende il suo grano, autorizzandolo a trasportarlo a Cadice. Nel 1649 l’Andalusia è colpita da un’epidemia e Francisco va a prendere grano e pollame, fermandosi questa volta due anni, soprattutto ad Azemmour, ma recandosi spesso a Marrakech, Safi e Golleria, che sono i porti di quel regno, dove si ferma duetre mesi «perché
aveva ottenuto dal Re di arrendare le dogane dove si riscuotono i diritti di tutto quello che entra e esce da quel Regno e lì stava molto ben trattato e stimato dal Re e dalle Persone principali»,78 finché non torna in patria, lasciando lì un suo “criado giudeo chiamato Leonardo” per badare ai suoi negozi. Quanti mercanti in questa storia! Siamo nel bel mezzo di una fiorente e ben radicata corrente di traffici commerciali frequenti e sicuri; gli spagnoli vi fanno buoni affari e assumono incarichi lucrosi, come “arrendare” un intero porto, prendendolo in affitto e gestendone il traffico. Francisco Gaudin non ha conosciuto Juan de Prado, ma durante i suoi lunghi soggiorni ha sentito molte persone, «captivi cristiani e mori principali e rinnegati che gli riferivano tutto quello che era successo nel suo martirio [... sin dal suo arrivo qui] per fortificare i captivi nella fede».79 I suoi informatori sono persone del tutto affidabili: tra gli altri, il mercante catalano Francisco Roque Bonete, che – come apprendiamo ora – risiede ancora lì a quasi venti anni dai fatti; la captiva portoghese Cathalina Camacha e il portoghese, captivo anch’egli, Manuel de Sossa, un altro portoghese di nome Manuel (che potrebbe essere un rinnegato, anche se il teste sorvola su questo particolare), addetto al delicato incarico di sellare il cavallo del re e di stargli al fianco quando lo monta, compito (chiamato esquilma) di grande fiducia, che fa tenere in grande considerazione chi lo svolge. Il teste ha avuto l’onore di sedere alla tavola dell’alcayde Zelin, governatore di Safi, rinnegato francese, dell’alcayde Morato, altro rinnegato francese, e di Baxa Mahamet Moro (sopra lo ha chiamato Mahamet Pascià), figlio di una rinnegata. Tutti costoro gli hanno raccontato del martirio del canonizzando. Dunque, anche attraverso i rinnegati si spande la fama di santità del martire. Lo stesso testimone ha anche sentito parlare di lui dai frati del convento della Regina degli Angeli di Cadice e dalla sua vecchia e virtuosa suocera: si è pertanto persuaso che lo scopo che ha condotto Juan in Marocco sia stato quello di consolare gli schiavi cristiani dalle afflizioni e dai travagli inflitti da quei «barbari», di rafforzarli nella fede perché vi perseverassero con fermezza, nonostante la «mala vita» delle condizioni di cattività, sino a preferire la morte all’abiura della propria religione. Con il passare del tempo, il racconto fissa alcuni particolari (il re che propone a Juan di farsi moro)80 e la commendatio animae (i santi muoiono sempre dopo aver affidato l’anima a Dio); nel corso di questo processo si definiscono insieme sia lo scopo della missione sia la violenza gratuita del martirio inflitto dal re barbaro e tiranno. L’alcayde Morato autorizza alcuni cautivos, tra cui il catalano Ramon Flores, a raccogliere in gran segreto le ossa rimaste incombuste che alcuni frati portano in Spagna al duca di Medina Sidonia, a Sanlucar de
Barrameda. La complicità dell’alcayde Morato consente di prendere le reliquie; questi è rinnegato, ma amico dei cristiani, a cui fa favori e di cui cerca di mitigare i castighi.81 Si può sospettare con qualche fondamento che si tratti di un criptocristiano. I frati sopravvissuti, gli schiavi liberati e le reliquie sono il tramite che fa giungere in Spagna la fama del martire.
4.9 Alla ricerca di un miracolo... I testimoni laici a questo processo sono spesso “figli spirituali” di questi frati e introducono un aspetto sin qui carente, ma indispensabile nel processo di canonizzazione: il miracolo. Il tema è delicato perché si iscrive in una contraddizione nella procedura della canonizzazione: solo un santo può operare il miracolo facendosi tramite della potenza divina; ma mentre non abbiamo ancora un santo, poiché il processo è ben lungi dall’essere concluso, il miracolo resta ugualmente un ingrediente indispensabile dell’accertamento della santità. Lo stesso circolo vizioso si avvita sulla questione del non cultu: il culto si può rivolgere solo a un santo e la Chiesa punisce come superstiziose le forme di culto non autorizzate; nello stesso tempo la presenza di culto, meglio se da tempo immemorabile, è un segno indubitabile della santità del canonizzando. Nel caso in questione, la luce che accende il viso di Juan nella pira, per quanto agiograficamente avvincente, non basta certo come manifestazione miracolosa. I testimoni di Siviglia aggiungono, tra gli altri, elementi in questa direzione. Inoltre, alcuni testimoni hanno una conoscenza degli avvenimenti del tutto libresca, formatasi sulla lettura delle prime agiografie: Diego dello Spirito santo82 conosce quanto scrive Juan de la Trinidad nelle Cronache della provincia di San Gabriele83 e lo scritto del vescovo di Cadice, Alfonso Basques di Toledo, intitolato Vita e martyrio del venerabile padre Juan de Prado. Quando gli chiedono cosa intenda per miracolo, dottamente risponde, con Duns Scoto, essere «effetto suprannaturale da causa soprannaturale» e, con Agostino, «ciò che di rado capita o che raramente accade»,84 raccontando poi dell’effetto taumaturgico delle reliquie su Cathalina Calderon, moglie di quel Pedro de Loaysa (altrove Loyassa) a cui vengono consegnate appena arrivate in terra di Spagna. La donna ha difficoltà a partorire, ma la sola apposizione delle reliquie di Juan le permette di sgravarsi istantaneamente senza dolore. Cathalina le usa
ancora una volta quando il figlio Melchiorre, di sette-otto anni, afflitto da «apostema alle orecchie», viene abbandonato dai medici impotenti a guarirlo, dopo cure rivelatesi inefficaci, e anche quando lo stesso Melchiorre ha un flusso di sangue che sgorga «come acqua» dalla bocca, senza vomito o tosse o altra apparente causa. In questo caso, credendolo in agonia, si arriva a somministrargli il viatico; lo assiste «il barbero», specialista di salassi ed emorragie, quando improvvisamente ci si ricorda della reliquia che, ormai conservata in convento, seppur fisicamente lontana, solo evocata gli fa ritrovare la salute.85 Ancora de auditu,86 fra Diego riferisce come, andando Juan e i suoi due confratelli in Barberia stanchi e affaticati, avendo Juan predetto che Dio avrebbe loro provveduto, trovano in mezzo alla campagna una tavola imbandita con pane e altre vivande. Un prodigio di cui fin qui nessuno ha raccontato e che in verità, con alcune varianti, rappresenta un topos di molte agiografie. Francesco Guerriero di San Giuseppe, del terzo Ordine della Penitenza, sessantenne pittore di Cadice, ricorda come, accompagnando bambino il padre al lavoro, abbia incontrato Juan che si appresta a partire per l’Africa. Ce lo descrive «non molto alto, grosso, molto calvo, viso grazioso e sorridente, molto modesto e composto»87 e racconta come, nell’atto di benedirlo, gli abbia posato la mano sul capo dicendo: «Ha da essere uno dei nostri», dimostrando con ciò il suo spirito profetico. Più importante la testimonianza della ottantacinquenne cordobana Maria de la Concepcion, che da giovane, morto il padre, pensa di andare da Siviglia al presidio di al-Ma‘mūrah ma, desiderando dopo un anno di permanenza ritornare in patria, approfitta di un’imbarcazione di passaggio, il cui nocchiero, per errore, segue una caravella di mori dentro il porto marocchino di Azemmour, credendo si tratti del porto spagnolo di Mazagan. Sbarcati, si rendono subito conto del madornale errore: vengono spogliati di tutti i loro averi e ceduti come schiavi a Mūlāy Zūdān. Dopo tre mesi, la donna passa a Marrakech, dove trascorre sedici anni in schiavitù. Dopo i primi cinque anni, nel 1628, sposa il catalano Juan Ramon Flores, criado della figlia di mūlāy Wal īd (quello che martirizza Juan de Prado). Il matrimonio è celebrato da frate Cipriano della Concezione che si occupa della cura dei captivi. Nel 1640 torna insieme al marito a Madrid, inviata con altri schiavi cristiani dal mūlāy alla regina Isabella di Borbone, moglie di Filippo IV, che le assegna una rendita vitalizia di due reali giornalieri; morto il marito, passa al servizio del marchese di Monte Alegre, poi ne segue il fratello, conte di Villaermosa, a Siviglia. Morto anche questo suo benefattore, vive con la piccola rendita e confidando nella pietà e nel soccorso di «buoni cristiani». Passa
poi a Puerto de Santa Maria, in quanto una sua figlia di otto anni «le restò captiva a Marrakech»,88 perché il re «non gliela volse dare»:89 proprio a Puerto c’è la “Cercana” che serve ad acquisire notizie sui captivi. Testimonia della devozione degli schiavi cristiani per il martire,90 e della propria in particolare: grazie all’imposizione del rosario del frate, gravida di cinque mesi, si libera di un feto morto, e successivamente partorisce prima un bimbo che, appena battezzato, muore, e subito dopo una bambina, ancora vivente. Ha pagato lei la cassetta di ferro dorato che raccoglie i resti di Juan. Lo stesso anno, contemporaneamente al processo di Siviglia, se ne svolge un altro davanti al vescovo di Cadice, che interroga altri testimoni, conferma vecchie acquisizioni e ne fa di nuove, soprattutto in ordine ai miracoli. Sono questi evidentemente l’oggetto della ricerca di questa fase processuale, poiché, tra quanti ne verranno testimoniati, si eserciterà lo scrutinio severo della Sacra Congregazione dei Riti e del suo «avvocato del diavolo», che ne derubricherà la maggior parte. Uno dei testimoni, Valentino Ranzan, è un «alemanno» di sessant’anni, sposato con una donna di Cadice, dove vive facendo «l’assistenza ad alcuni negotij perché sa e intende diverse lingue».91 Ha girato il mondo, fino alle Indie; nel 1633 giunge a Sanlucar, dove non si parla d’altro che dei frati che in Marocco «consolavano e invigilavano» sugli schiavi cristiani e del martirio di Juan, ucciso dal re perché in udienza «gli contraddisse e refutò i suoi errori maomettani e con le sue prediche sollecitò ridurlo al gremio della Santa nostra fede».92 Qui non è più il re che vuole conquistare Juan alla sua fede, ma l’esatto contrario. Fermatosi per quattordici anni a Malaga come «Visitatore maggiore delle Regie dogane», a causa della generale sterilità del 1648 si imbarca per il Marocco, dove ritorna nel 1650, fermandosi ogni volta da due a cinque mesi e facendo buoni affari e ottime conoscenze. «Praticò con il re Mūlāy Mahametdeque [sic] che successe a Mūlāy Qualì [Walud] che martirizzò Juan e con li capitani Mustafà e Selim rinnegati, e il Bassà Mahamet parimenti rinnegato e con li principali capitani Mori e li schiavi cristiani e con i frati di San Francesco che stavano nel loro convento nel Bagno, o carcere delli Cristiani.»93 Il luogo dove Juan è stato ucciso viene ora venerato e Ranzan lo visita con la guida, «un rinnegato di Andalusia, chiamato Hafar [o Jafar], che era nella musica del Re chiamata Nuba».94 Questi gli racconta dello stupore dei mori, rimasti «attoniti e meravigliati» dalla fermezza di Juan in mezzo ai tormenti. I frati, i rinnegati e gli schiavi cristiani in Africa trasmettono la memoria
oralmente ai visitatori e per iscritto attraverso le lettere inviate in patria. Ma sono soprattutto i guardiani dei conventi di Cordoba, Siviglia, Arcos e Cadice a tenere viva la fama del frate e a rinverdirla come possono. Da una lettera di cinquant’anni prima lo scalzo Giovanni de Sossa apprende di un miracolo avvenuto a Mazagan (di cui in verità già parla Matias nella sua Relazione), quando Juan fugge dal presidio con i suoi frati, inseguito dai soldati portoghesi, uno dei quali scende da cavallo per chiedere la benedizione e dimentica a terra la sua lancia; tornato a prenderla, chiede a Juan di benedirla e questi lo fa di buon grado. Tempo dopo, con questa lancia, involontariamente, il soldato infilza un fanciullo che, nonostante il colpo, viene trovato sano, perché il ferro della lancia si è miracolosamente ritorto.95 Un altro miracolo ha operato il rosario donato nel 1628-1629 da Juan a donna Luisa Leon y Vargas, di Cadice: dopo quarantacinque anni la donna morente, a cui il medico ha fatto somministrare il viatico, lo mette al collo, sorprendendo tutti con un’improvvisa guarigione. Torna a testimoniare donna Cathalina Calderon y Loaysa sui suoi parti e la guarigione del figlio Melchiorre, anch’egli teste al processo; Giovanni de Balmasseda y Zarzosa ha sentito uno zio raccontare di quando vide il frate pregare sollevato da terra. Tutti gli altri testimoniano della sua fama di santità.
4.10 ... anzi, di due Nel 1689 si celebra il “Processus apostolicum in Urbe super miro”. Si è verificato un importante miracolo di guarigione che può imprimere un’accelerazione decisiva all’intero iter. Gabriello de Casacegada, minore osservante del convento Araceli di Roma, il 12 dicembre 1687, si ammala con «febre continua e dolori articolari, con perdita del moto e tutto il suo corpo appariva cadaverico».96 Rimane paralitico e in un primo momento riesce a girarsi nel letto attaccandosi alla corda che pende dal soffitto, in seguito non può muovere le braccia nemmeno per mangiare e così bisogna imboccarlo «come una creatura». Gli vengono applicati rimedi «universali, particolari e specifichi» e, nel gennaio 1688, viene condotto su una seggiola alle «stufe» per cinquanta giorni, ma ai «sudatorii» deve essere portato in braccio. Riportato nell’infermeria del
convento, i medici gli somministrano altri rimedi, infine «l’abbandonano per disperato e l’infermo rimase così derelitto».97 Il 15 agosto lo fanno confessare e un confratello gli suggerisce di rivolgersi a Juan per la cui canonizzazione il malato «aveva fatto molti passi». Toccata con una mano la reliquia del martire – un pezzetto d’abito sfuggito al fuoco – che teneva sotto il capezzale, l’infermo recupera nello stesso istante le capacità motorie, senza nessun sintomo di crisi precedente (sudorazione, vomito, evacuazione ecc.) «a cui possa naturalmente attribuirsi la detta subita sanatione».98 La guarigione per essere considerata miracolosa non deve essere dovuta alla vis medicatrix della natura che, grazie alla sua vis espultrix degli umori corrotti, ripristina l’equilibrio dell’organismo. Essa, inoltre, non deve essere dovuta all’effetto dei farmaci somministrati dai medici al malato. Infine, deve avvenire in continenti, in instanti, confestim, subito, statim e cioè senza «ulla intermedia hominum concotione».99 E ancora, «sine dolore», cancellando le conseguenze della malattia quali lassitudo, debilitas, cicatrix ecc. L’evento deve essere definitivo e perfetto: se dopo la guarigione si dovesse infatti ricadere nella malattia o si dovesse morirne, non si tratterebbe di un vero miracolo. La paralisìa in questione è per la scienza incurabile, i medicamenti somministrati al malato gli hanno persino nociuto, la guarigione non è stata progressiva ma improvvisa, è avvenuta «al momento dell’invocazione» e perdura fino al momento in cui il frate è chiamato a testimoniare. Al processo, le cui audizioni si tengono nella chiesa del Gesù, nell’oratorio della Congregazione dei nobili, testimoniano sei frati dello stesso ordine del miracolato e i due medici che lo hanno avuto in cura: Rodolfo Guidarelli di Fano, cinquantunenne medico chirurgo e Giulio Cesare Caccia, quarantenne medico fisico, romano. Il primo descrive i trentatré giorni di febbre e la successiva paraplegia del malato, i «rimedi evacuanti e scioglienti» somministrati, i cinquanta giorni di stufe essudatorie, il ritorno in infermeria senza miglioramento alcuno; «poiché si era indotta una intemperie così secca nelle parti che non si rendeva possibile a sciogliere, fu lasciato con la semplice regola del vivere»100 solo in un letto, accanto a un frate francese idropico che ogni tanto gli dava un’occhiata. La malattia dura da gennaio ad agosto, non gli si cava sangue né si aprono cauterii; la dieta è costituita da minestre, qualche uovo, poca carne; da bere si somministrano acqua d’orzo e acqua di lentisco e raramente un po’ di vino. Non avendo usato «nessun rimedio chirurgico né farmacotico» e, nell’ultimo mese, nemmeno medicamenti, si sente di affermare che «la sanatione è accaduta
miracolosamente per due casi: uno quo ad modum e l’altro quo ad tempus; il male si era reso incurabile e è stata istantanea».101 Semplicemente, venendo il 25 agosto a visitare il frate francese, trova vuoto il letto di Gabriello, che se ne è andato da solo nella cappella a pregare e va gironzolando per il convento e per Roma. Il medico ammette anche di essere devoto di Juan, di cui sente continuamente parlare dai frati dell’Araceli, di tenere sempre con sé un pezzetto del suo abito (un altro!) e di desiderare la sua canonizzazione.102 Dunque è un testimone interessato. Giulio Cesare Caccia, invece, non ha nessuna particolare devozione verso il canonizzando, di cui certamente i frati gli hanno parlato. Essendo un medico fisico, la sua mansione è quella di medicare il frate delle «metastasi da decubito [quando] dalla spinal midolla si distribuì l’humus peccante per li nervi e di lì si congelò negli articoli».103 Si consulta con Guidarelli, medico primario dell’infermeria, e insieme diagnosticano una «paraplegia e paralisìa», ma forse più precisamente una «paraplesìa». Lo purgano con «alteranti e refrigeranti», gli somministrano Lapis e cordiali, consultano anche Ridolfo Flerumagagi [?], infine risolvono di mandarlo alle «stufe» e al ritorno per mezzo di altri rimedi cercano di «sciogliere, mollificare, ottemperare, corroborare li nervi».104 Il dottor Caccia è dotto e non vuole sfigurare di fronte al più illustre collega: la sua testimonianza è piena di citazioni di Ippocrate e Galeno, recita a memoria passi del De tremore et palpitatione, detta lunghe citazioni latine, ammette di non avere mai visto, nella sua ventennale esperienza, guarire nessuno da quella malattia. Ce n’è abbastanza per concludere il processo.
4.11 La legenda agiografica Le gesta di Juan rimbalzano da un capo all’altro dell’Europa cristiana che ha respinto gli infedeli a Vienna e sta ridimensionando l’impero ottomano. Adesso che i turchi fanno meno paura, il modello di santità martiriale rappresentato dal frate scalzo deve essere adattato alle esigenze del nuovo secolo. I santi venerati sugli altari servono ad animare i cristiani a intraprendere azioni virtuose: devono perciò essere «simili a noi» e «il sudore e il sangue dei martiri sono rinforzante medicina contro la ignominiosa debolezza».105 L’umanità di Juan risalta nello scontro tra «il dominante crudele» re musulmano e «il coraggioso vecchio»,
insieme alla lotta tra la «porzione inferiore della sua umanità» che teme il martirio e quella superiore che lo desidera; di lui, insomma si devono ammirare «non tanto la virtù de’ miracoli, quanto i miracoli della virtù»,106 a cui tutti i credenti devono tendere. Non c’è bisogno di farsi ammazzare per diventare santi. Così le agiografie settecentesche enfatizzano sempre più le virtù della vita monastica, peculiari dell’ordine di appartenenza del martire, descrivendole con ricchezza di particolari e lasciando al martirio la funzione di epilogo. La storia del frate è la storia dell’ordine, della sua vocazione missionaria e dei suoi eccellenti risultati in terra africana. Il corpus agiografico si costruisce a partire dall’opera di Matias de San Francisco, ma soprattutto dalle Cronache della rovincia di San Gabriele107 a cui tutti attingono, passando per Francisco di San Buenaventura108 e Francisco de San Juan del Puerto,109 che costituiscono la genealogia degli agiografi ufficiali110 del frate scalzo, il cui ordine si trova a doverne difendere l’origine spagnola, avvicinandosi la beatificazione. Giovanni (Diaz) della Concezione, un frate spagnolo della provincia andalusa di San Diego, procuratore generale degli scalzi, è postulatore della causa di Juan. Subito dopo la decisione della Sacra Congregazione dei Riti, volendo correggere la «falsa opinione», anzi la «sfacciata menzogna» della stampa secondo cui lo spagnolo Juan de Prado sarebbe invece il toscano Giovanni da Prato, sottraendolo alla schiera degli scalzi spagnoli, resa illustre da san Pietro di Alcantara e da san Pasquale di Baylon, scrive una Vita e la dedica a Matteo da Pareta, ministro generale di tutto l’ordine.111 Apprendiamo elementi nuovi rispetto ai processi, tutti precedenti la trasferta marocchina: la discendenza da «prosapia reale» del padre di Juan, la scelta conventuale, lo studio per avanzare nel «cammino della perfezione», la sua attività di «infiammato» predicatore. «Saliva sui pergami tutto infiammato dell’amor di Dio [...] e ora sgridando con acerbe parole il vizio, ora eccitando con forti ragioni la virtù; e altre volte con ragionamenti pieni di soavità, ed asprezza; intenerito e commosso alla ponderazione di tante e sì gravi scelleraggini, colle quali ad ogni momento si offende la divina bontà, distruggevasi in lacrime così copiose che, non potendone rattenere il corso, era spesse volte costretto di cessare, e fermarsi, per non iscender dal pulpito, e lasciar senza predica l’uditorio. E questi, già ferito dalle sue parole, e confuso delle proprie iniquità, contrito e dolente spargeva dagli occhi abbondantissime lacrime, e dal cuore dolenti singhiozzi.»112 La celebrazione del Corpus Domini era il momento di maggiore «fuoco di carità», nel quale il frate «distruggevasi per la tenerezza in copiosissime lacrime, uniti alli sospiri infocati del suo amorosissimo petto»113 e impressionava l’uditorio.
Anche nel corso della meditazione gli accadeva frequentemente di venire «alienato da’ sensi, rapito dalla terra, e sollevato a godere le delizie del Paradiso. [... da qui] nascevano gl’infocati sospiri e quell’aria meravigliosa del suo sembiante nel tempo istesso infiammato dal fuoco, e bagnato dalle lacrime».114 Anche durante le processioni gli accadeva di andare in estasi, «a un tratto sollevato nell’aria, restando immobile e senza parola».115 Uno stile di predicazione centrato sulla tenerezza del cuore e sulla commozione fa delle lacrime l’acme del crescendo emotivo e lo strumento di guarigione dell’anima dal peccato: come la vis medicatrix della natura produce l’espulsione degli umori del corpo, considerata dai medici il passaggio alla fase della sanazione, attraverso la quale l’organismo ritrova l’equilibrio che la malattia ha messo in crisi, così il sacerdote, medico dell’anima, attraverso l’espulsione delle lacrime, crea le condizioni per riacquistare la salvezza. Salus, d’altronde, ha un significato pregnante: salute e salvezza, corpo e anima sono governati da principi simili. E le lacrime, sfogo dell’eccesso di fervore, di commozione, di «fiamma», le troviamo come segno distintivo dell’esperienza religiosa di Juan che riesce a intenerire («rapisce») i cuori più duri, facendoli «struggere in lacrime e sospiri».116 L’espiazione delle colpe è lo scopo di una congregazione di penitenti da lui organizzata, dedita alla preghiera e alla disciplina, praticata con estremo rigore da lui stesso, che indossa un cilicio di latta sul petto, uno intessuto di aculei di cardo alle spalle e una croce d’acciaio a trentatré punte sempre sul petto; dorme sulla nuda terra, va sempre a piedi scalzi, possiede una sola lacera tonaca, si nutre quasi solo di pane e acqua, e quando nella solennità di qualche ricorrenza mangia «alcuna vivanda, la condi[sce] con la cenere affine di tenere mortificato l’appetito. Finalmente fu egli così perfetto in queste virtù che solo nella penitenza trovava le sue delizie, nelle mortificazioni il suo riposo, nelle pene la sua allegrezza, nelle astinenze il suo ristoro e contento».117 Alla luce di queste caratteristiche, il suo comportamento in Marocco acquista, in effetti, maggiore plausibilità.
4.12 Un beato contro i mori La Sacra Congregazione dei Riti riassume tutti gli atti fin qui prodotti, solleva Animadversiones mettendo in luce tutte le contraddizioni tra le
testimonianze, le incongruenze, gli errori e le difformità, anche quelle più minute. Dedica spazio a un punto cruciale, se cioè si sia trattato di un vero martirio, per il quale occorrono tre requisiti: «I. Che sia stato tollerato con ordinata Carità verso Dio e il Prossimo e che siano state usate nei confronti del tiranno la serpentina Prudenza e la colombina Semplicità alle quali Cristo ammaestrò gli Apostoli; e anche la Mansuetudine che parimenti Cristo nella Sua Sacratissima Passione soffrì. II. Che il tiranno sia stato particolarmente mosso ad ucciderlo spinto dall’odio della Fede e della Virtù. III. Che consti la Perseveranza nella Carità e nella Fortezza d’animo sino all’ultimo respiro».118 Riguardo alla prudenza si sottolinea come il frate si porti in Africa non solo per confortare i cristiani schiavi, ma anche «per illuminare gli Infedeli accecati dagli errori del Corano»,119 perciò vuole imparare l’arabo già prima di recarsi in Marocco. Al processo si verbalizza: «E dimandava a questo testimonio molti vocaboli della lingua arabesca e successivamente se si potrebbe imparare facilmente per cominciare di fare qualche frutto in servitio di Dio»120 e potrebbe avere imparato l’arabo nei cinque mesi di attesa della licenza apostolica di andare in Africa e nei tre mesi di residenza a Mazagan; noi sappiamo invece dagli atti che nelle udienze dinanzi al re si è servito sempre di un interprete. Ancora al processo: «Il detto fra Juan raccomandò molto in particolare a questo testimonio, per sapere bene il latino, che rivedesse tutta la libraria della Sesena, dove vi è quantità di libri acciocché vedesse se ne trovarebbe alcuni che trattassero dell’Alcorano delli Mori che avrebbe potuto essere ch’essendovi stati in quella schiavitù molti Religiosi e Huomini dotti, che avessero avuto curiosità di aver tradotto l’Alcorano in volgare e li punti principali nelli quali li Mori si fondavano nella loro setta per prevenirli e essere fondato in quelli»;121 ma non se ne trovano. Già a Mazagan «rimproverò ai Mori la falsità della loro setta e ai Giudei la perfidia ostinata di non volere adorare il Messia già venuto».122 Frate Gines racconta che già ad Azemmour egli «subito cominciò a far dispute con li Giudei e li Mori di maniera che questo testimonio lo tratteneva molto e gli diceva che arrivassimo a Marocco [a Marrakech] che non gli mancherebbono occasioni».123 E frate Matias: «Era tanto il spirito e fervore del venerabile Padre che venendoci a vedere alla detta Casa gran quantità di Mori e Hebrei e sapendo la nostra lingua molti di quelli [...] disputava con essi della loro mala credenza e della verità della fede di Cristo e parlandogli così chiaro della loro maledetta setta di Mahoma e della cecità degli Hebrei che li confondeva e uscivano d’intendimento e li viddi in disperatione di poner le mani in persona del Venerabile Padre
minacciandolo che gli tagliariano la testa di modo che non fosse bisogno di andar a Marocco [a Marrakech] per essere martire».124 In quel momento i frati temono che, a causa di quelle dispute, non li facciano più ripartire. Juan è sprezzante di fronte al re fino a sputare al nome di Maometto e ad affermare: «Rinnego te e la tua cattiva setta e il maledetto Maometto che la fece, che io sono Cristiano fino alla morte [...] e il re si stizzò maggiormente».125 Dirà Maria de la Concepcion: «Il servo di Dio gli predicava a quel maledetto re nell’occasioni delle udienze»126 e continua a predicare anche mentre lo portano al rogo. Sono i rinnegati ad adirarsi quasi più dei mori di fronte a queste reazioni e a queste parole, e sono molto attivi nella delazione, nelle beffe e nelle punizioni dei frati. E sappiamo che è andata proprio così. Una volta riconosciuto, nel 1687, innanzitutto il martirio,127 i segni miracolosi sono elencati nel Restrictus della Positio super dubio an constet de signis, seu miraculis in casu et ad effectum de quo agitur:128 ottiene velocemente il salvacondotto che lo conduce in Marocco; durante il viaggio non si sono presentati i pericoli costituiti dalle incursioni dei mori; lo splendore del viso del martirizzando; lo stupore dei mori alle sue parole (alcuni fermano i colpi di bastone, altri lo gettano a terra, altri lasciano il luogo dell’esecuzione); continua a predicare anche tra le fiamme; queste non toccano il suo corpo per «gran pezza di tempo»; il fuoco risparmia il suo cingolo e il rosario; un fanciullo colpito dalla lancia da lui benedetta rimane illeso; il tiranno colpevole della morte di Juan è trucidato poco dopo dalle sue stesse milizie; l’incremento della religione cattolica in Marocco dopo il suo martirio; il duca di Medina Sidonia con le reliquie fa esorcizzare una ossessa; l’improvvisa guarigione di frate Diego dello Spirito Santo; il mirabile odore delle reliquie; l’improvvisa guarigione di una «paralisi seu paraplegia». Si collazionano in tutto tredici miracoli che la Sacra Congregazione dei Riti vaglia con grande severità; di questi approva solo quello avvenuto a Roma nel 1687 a favore di Gabriello Telles, malato di «paralisìa», di cui abbiamo appreso i particolari dalle pagine precedenti. Dopo aver accertato il martirio e il miracolo di cui sopra, si propone la beatificazione di Juan, ma il promotore della causa ritiene che un solo miracolo non sia sufficiente e si deve fare ricorso a quello ottenuto da Melchiorre de Loyassa, testificato sin dal processo di Cadice. Intanto, morto Clemente XI, si deve supplicare il nuovo pontefice Innocenzo XIII di approvare il miracolo in questione. Sarà Benedetto XIII a decretare che Melchiorre de Loyassa (al cui padre è stata consegnata la cassetta con le reliquie di Juan appena giunte in Spagna e la cui madre Cathalina ha goduto di una
particolare predilezione da parte del frate, in vita e post mortem) è stato guarito miracolosamente a più riprese da una emorragia agli occhi, da una «apostema» all’orecchio e da un flusso inarrestabile di sangue dalla bocca. Viene affidata alla Sacra Congregazione dei Riti la licenza di istruire la «causa sul martirio del servo di Dio Giovanni de Prado, sacerdote professo e primo ministro provinciale della provincia Betica di San Diego dell’Ordine dei frati Minori di San Francesco dell’Osservanza chiamati Scalzi», il quale, preposto da Propaganda Fide ad annunciare il vangelo «e mandato a insegnarlo alle genti dei regni di Fez e Marrakech, in odio alla fede cattolica dopo atrocissimi e disumanissimi tormenti, nell’anno MDCXXXI trucidato, è stato asserito che abbia ricevuto la palma del martirio, e sopra i segni, prodigi e miracoli». Si acconsente altresì che venga chiamato con il titolo di beato, che le sue reliquie siano esposte alla venerazione dei fedeli – «non tuttavia di portarle in processione» –, che le sue immagini si adornino con raggi e splendori, che si reciti l’officio nel giorno del suo felice transito, che si celebri la messa sia nel luogo di nascita (Mongrovejo, in León) sia in quello della morte (Marrakech) in tutto l’ordine francescano. Patrono delle missioni francescane in Marocco, la celebrazione della sua festa liturgica viene fissata il 24 maggio.129 Ora l’iter è completo e al pontefice non rimane che chiedere l’ispirazione celeste e promulgare la bolla di beatificazione, agli agiografi successivi che divulgarne il modello di santità130 e alla committenza devota che adornare chiese e altari con dipinti e statue.131 Le sue spoglie vengono traslate da Siviglia al collegio francescano di Santiago de Compostela nel 1888, custodite dunque vicine a quelle di Santiago matamoros,132 il cavaliere che brandisce la spada e monta un cavallo bianco che calpesta sotto le sue zampe gli infedeli nemici della fede. I due «atleti di Cristo» rappresentano la battaglia di età medievale e di età moderna combattuta dalla Spagna cristiana contro i «Saraceni», alludendo all’indissolubile legame della monarchia spagnola con la religione e, insieme, alla legittimità del potere cristiano sull’Occidente. 1
Edita per la prima volta a Madrid nel 1643, riedita nel 1644 sempre a Madrid e per la terza volta a Cadice nel 1675. Le citazioni successive sono tratte dall’edizione a cura di frate José Lopez, missionario in Marocco, Tangeri 19454. Vedi supra, cap. 3, nota 17. 2 Segunda relación embiada de la Carcel real de Marruecos al Padre fray Joan Xi-menez, Provincial de la Provincia de San Diego, de Andaluzia de Padres descalzos de San Francisco escrita por uno de los compagneros…,
Sevilla 1631. Reca nel frontespizio l’immagine di un santo che abbraccia la croce. Un foglietto volante tra le pagine del volume recita: «Da questa prigione e città di Marrakech il sette giugno 1631», ad attestare, se necessario, la paternità di Matias. Uscito di prigione e tornato in Spagna, il frate darà alle stampe la sua relazione, pubblicandola a Madrid nel 1643 con lo scudo dell’ordine nel frontespizio e la dedica a donna Ana Fernandez de Cordoba, duchessa di Feria. 3 José M. Diaz Fernández, Año cristiano. V Mayo, BAC, Madrid 2004, p. 532. 4 Juan de Puelles, Memoria del martirio del Vble. P. Fr. Juan de Prado, primer Provincial que fué de la Provincia de San Diego en Andalucía, martirizado en Marruecos por la confesión y predicación de la fe, el año 1630[sic]. La memoria, conservata presso l’archivio del convento dei Santi Quaranta a Roma, insieme ad altre relazioni su altri servi di Dio, sta ora in Fr. José Maria Pou y Martí, Martirio y beatificación del B. Juan de Prado, restaurador de las Misiones de Marruecos, in “Archivo Ibero-Americano”, t. XIV, 1920, pp. 325331. Juan de Puelles era stato segretario di Juan quando questi era provinciale, e ministro provinciale di San Diego a sua volta dal 1637 al 1640; aveva avviato a Roma le Informationes giunte dal Marocco per la canonizzazione di Juan. 5 Juan de Puelles, Memoria, cit., p. 331. 6 Ivi, p. 328. 7 Ivi, p. 330. 8 Presumibilmente nel 1573. Matias dichiara di avere settant’anni quando scrive la Relazione, e di averne passati quarantasei in religione. Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 24. Ma altri suoi biografi scrivono che muore il 14 maggio 1644 all’avanzata età di circa ottant’anni. Potrebbe essere nato dunque tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del Cinquecento. Ivi, p. 12. 9 Ivi, p. 29. 10 Ivi, p. 45. Annota il curatore: «Ad esser sinceri dobbiamo insinuare l’idea che nello strano comportamento del governatore Almeida, influì certo la preoccupazione della responsabilità della cattura e dell’uccisione dei tre missionari spagnoli, ma anche il suggerimento o consiglio degli ecclesiastici portoghesi che, influenzati da ragioni di umana prudenza, pretesero ostacolare la penetrazione apostolica dei figli di San Francesco nel cuore dell’impero marocchino. I nostri sospetti si fondano sulla serie di bastoni tra le ruote e umani ostacoli che, con abilissima diplomazia, frapponeva per tutto il tempo il governatore ai zelanti missionari per la loro venuta in Marrakech. Bastoni tra le ruote e difficoltà che con superiore integrità, zelo e patriottismo gli eroici Restauratori delle nostre missioni nel Maghreb seppero vincere». Ivi, p. 52 n.
11
Ivi, p. 47. 12 Ivi, p. 53. 13 Ivi, p. 58. 14 Ivi, p. 62. 15 Ivi, p. 66. L’ufficio lo ha lo schiavo «tra i più onorati, perché è come capo, o giudice di tutti». Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 203. 16 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 79. 17 Ivi, p. 90. Il giovane rinnegato si chiamava Mostafà Toscano ed «era nell’interno così cristiano, che sapendo dagli schiavi che li religiosi dicevano Messa nel carcere, loro diede denaro, perché li comprassero da mangiare, e loro disse che pregassero Dio per li suoi defunti, e che domandassero a Dio che lo cavasse da quel miserabile stato nel quale si trovava». Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 256. 18 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 92. 19 Questi flagelli, chiamati sofeles, «solo una barbara crudeltà poté inventarli; perché sono fabbricati di pelle di cammello, della quale tagliano strisce, e le tessono di maniera che dopo secche tagliano come rasoi, perché rimangono forti, e toste come il ferro». Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 264. 20 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 108. L’eresia di Sergio consiste nell’affermare che Cristo ebbe una libera volontà umana distinta da quella divina (monotelismo), a cui avrebbe potuto ribellarsi, peccando. L’obiezione degli ortodossi è che negandogli una volontà umana si attribuisce a Cristo una umanità imperfetta, togliendo valore alla redenzione. Paolo (di Samosata?) afferma che nella Trinità il Figlio e lo Spirito santo non sono “persone”, ma attributi o appellativi del Padre. 21 Ivi, p. 114. 22 Ivi, p. 116. 23 Ivi, p. 117. 24 Ivi, p. 123. 25 «O voi che credete! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono sozzure, opere di Satana: evitatele, a che per avventura possiate prosperare. Perché Satana vuole, col vino e col maysir, gettare inimicizia e odio tra voi, e stornarvi dalla menzione del Santo Nome di Dio e dalla Preghiera. Cesserete dunque?» Il Corano, Sura della mensa, V, 90-91. Maysir sta per gioco d’azzardo, scommessa. 26 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 145. 292 27 «Perché rimani in una terra dove hai sofferto tanto? [...] Domani un altro re
potrà darti altri tormenti», dice a Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 171. 28 Attestato «da una cedola regia originale in arabo, esistente presso l’archivio della provincia di San Diego in Siviglia e che egli, debitamente autorizzato, trasse dall’archivio della provincia per portarla a Benigno da Genova nella riunione del capitolo». Juan de Puelles, Memoria, cit., p. 330. 29 Per quante persecuzioni siano state fatte ai cristiani, mai nessun moro ha attaccato la chiesa e, anzi, in una occasione, entrandovi di furia sulle tracce di un ladro, si lasciano intimorire dalle statue della Madonna e dei santi sull’altare. Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 180. 30 Ivi, p. 187. 31 Lo dice frate Pietro della Madre di Dio, in SCCS, Processus, cit., vol. 1097, p. 174. 32 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 201. 33 Ibid. 34 Ibid. La Chiesa ribadisce ancora nel Settecento la necessità per i maomettani convertiti di «rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo a ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi» che attestino la sincerità della conversione. Benedetto XIV, Quod provinciale, Roma, 1° agosto 1754. 35 Matias de San Francisco, Relación, cit., p. 204. 36 Ivi, p. 206. 37 Ivi, p. 209. 38 Ivi, p.136, n 25. 39 «Se la politica spagnola avesse dato autorizzazione ufficiale alle proposte francescane godrebbe oggi di una supremazia quasi unica che avrebbe evitato le guerre sostenute alla fine dell’Ottocento e nel primo quarto del Novecento.» Ibañez, Accion española, cit., p. 12. 40 Ivi, p. 22. 41 Koehler, L’église chrétienne, cit., p. 67. 42 Vedi De Castries, France, Saadiens, cit., t. III, p. 216. Isaac de Rassilly, insieme con il capitano Priam Pierre du Chalard, ha effettuato due spedizioni sulle coste marocchine. Nel 1631 cattura, in vista di Salé, quattro navi corsare, bombarda la città e libera 240 schiavi francesi. Aveva provato a convincere il cardinale Richelieu a occupare Mogador; l’operazione sarà prima differita, poi abbandonata. Il blocco del porto di Salé – insieme ad altre manifestazioni di forza e interdizioni al commercio – sarà messo dai francesi negli anni 1629,
1631, 1635, 1671, 1681, 1687, 1698, 1737 e 1765, quando la flotta francese subisce un disastro a Larache. 43 Masson, Histoire, cit., p. 76. 44 Ivi, p. 77. 45 Ibid. 46 Ivi, p. 82. 47 Dopo mesi di siccità, i primi giorni di ottobre 1634 la pioggia cade copiosa e allaga la piazza antistante il palazzo reale, dove Juan è stato arso e sepolto. «Il giorno otto del medesimo mese, l’Alcayde Mostafà (ch’era il Superiore degli Alcaydi della Casa reale e Alcayde degli schiavi) comandò a due di essi chiamati Giorgio Rebelo, naturale della Città di Porto in Portogallo, e Sebastiano Ramires, naturale della Città di Sanlucar de Barrameda, che aprissero una chiavica, o scolo, perché si desse sfogo all’acqua della piazza. Era questo il mezzo unico che avevano discorso poter aversi per cavare le Sante Reliquie.» L’operazione va in porto tra mille difficoltà, e solo grazie alla collaborazione del dottor Andrea Camelo, di Stefano Gonzales (ministro e capo del giardino del re) e di due schiavi spagnoli (Francesco di Zaragozza e Antonio Perez). Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 348. 48 Le navi da guerra di Rassilly battono le coste marocchine, mentre l’ammiraglio tratta la restituzione di 400 schiavi di cui però circa 180 sono già stati venduti e allontanati da Salé; i fratelli Pallache si sono visti confiscare un vascello carico di mercanzie dalla flotta francese e trattano per recuperarlo, interponendo i propri buoni auspici per il miglioramento dei rapporti francomarocchini. Koehler, L’église chrétienne, cit., passim. 49 Alvarez de Toledo, Historia de una conjura, cit., p. 110. 50 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 361. 51 Ivi, p. 362. 52 Ibid. 53 Con il breve di Urbano VIII del 13 novembre 1637, il prefetto della missione riceve l’autorità di fare scritture di contratti, testamenti, codicilli ecc. dei cristiani in Marocco. La traduzione dell’atto di cessione della chiesa, datato 22 settembre 1637, è citata ivi, pp. 365-366. 54 Personaggio ambiguo, infiltrato dagli spagnoli nella congiura portoghese del 1640, in Alvarez de Toledo, Historia de una conjura, cit., pp. 111-113; la contessa di Castelnuovo, che ha conosciuto il chierico a Mazagan, lo definisce «uomo di torbido ingegno e grande inquietudine», in Domínguez Ortiz, La esclavidud en Castilla en la edad moderna, cit., p. 128.
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Alvarez de Toledo, Historia de una conjura, cit., p. 109. 56 Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 353. 57 Koehler, L’église chrétienne, cit., p. 91. 58 Un altro religioso dello stesso ordine, ma di altra provincia, ottiene dal papa il titolo di prefetto apostolico di Fez e in tal modo statuisce la Congregazione De Propaganda Fide il 19 agosto 1639, che però rimette la questione nelle mani del generale dell’ordine: sarà questi ad assegnare il compito alla sola provincia di San Diego, e in tal senso si pronuncia la Congregazione l’11 marzo 1641. 59 Henri Koehler, La pénétration chrétienne au Maroc, Librairie religieuse H. Oudin, Paris 1914, p. 98. 60 Koehler, L’église chrétienne, cit., p. 101. 61 Ibañez, Accion española, cit. p. 15. 62 Koehler, L’église chrétienne, cit., p. 105. 63 Pascual Saura, Los Franciscanos en Marruecos. Relación inedita de 1685, in “Archivo Ibero-Americano”, n. XVII, 1921, pp. 79-100. 64 Ignacio Bauer Landauer, Las misiones franciscanas en Marruecos, Editorial Ibero-Americana, Madrid 1926, p. 26. Lo scritto, il testo di una conferenza tenuta all’University di Siena, paradossalmente tace su Juan de Prado. 65 Nel 1727 da mūlāyAsmad; nel 1728 da ‘Abd al-Malik; nel 1745 da mūlāy ‘Abd Allah; nel 1786 da Musammad Ibn ‘Abd Allah; nel 1794 da mūlāy Sulayman. 66 SCCS, Processus, cit., vol. 1662, c. 7r. 67 L’infante Ferdinando, fratello minore di re Filippo IV, fu fatto cardinale-arcivescovo di Toledo nel 1619, a soli dieci anni. Nel 1636 riporta uno spettacolare successo militare invadendo la Francia dalle Fiandre. Vedi Elliott, La Spagna imperiale, cit., pp. 374, 395. 68 Pietro della Concetione, sacerdote, predicatore e commissario dell’ordine di San Francesco in Giappone e Filippine; Michele di San Diego, sacerdote; Giovanni Malo, predicatore, e Gregorio di San Luigi, nel doppio ruolo di testimone e procuratore della causa. 69 SCCS, Processus, cit., vol. 1662. 70 Ivi, vol. 1663, c. 87r. 71 Ivi, c. 91v. 72 Ivi, c. 96r. 73 E «sotto l’ombra della sua ambasciata la quale fu per negotij concernenti il servitio di Sua Maestà che il detto padre [Velasco] col recapito e con la segretezza convenienti cavò le ossa del martire» e le portò in patria. Ivi, c. 105v.
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Pou y Martí, Martirio y beatificacion, cit., p. 340. L’importante carteggio ivi, pp. 336-343. 75 Pou y Martí, Martirio y beatificacion, cit., p. 343. 76 «P. Croizet, teste oculare e all’hora schiavo, Berenguier, teste all’hora schiavo, Giovanni Vescovo, per all’hora schiavo, Luigi Martin», il 7 luglio 1641. SCCS, Processus, cit., vol. 1097, pp. 187-190. 77 Ivi, vol. 1664. 78 Ivi, vol. 1665, c. 114r. 79 Ivi, c. 115r. 80 Ivi, c. 179v. 81 Ivi, c. 180v. 82 Sacerdote professo dell’Ordine di San Francesco della più stretta osservanza, del convento di San Diego di Siviglia, nei suoi quarantuno anni trascorsi in religione è stato tre volte guardiano: a Xerez de la Frontiera, a Puerto Real e a Siviglia. È nato sessant’anni prima a Medina Sidonia da Christobal de Luna, «maestro mayor de obra y edificacion», e Ana de la Peña, oggi defunti. Ivi, c. 146v. 83 Libro III, f. 972, cap. 61. 84 SCCS, Processus, cit., vol. 1665, c. 155v. 85 Ivi, c. 157r. 86 Don Alfonso de Tolosa, avvocato ormai defunto all’epoca del processo, gli ha raccontato che suo padre, «hijo de confession» e amico di Juan era venuto a conoscenza dell’episodio in questione da uno dei suoi confratelli. Ivi, c. 158r. 87 Ivi, c. 133r. 88 Ivi, c. 173v. 89 Ivi, vol. 1097, p. 91. 90 «Operava ogni giorno molti miracoli verso quei prigionieri cristiani che nei loro travagli e necessità invocavano i meriti del detto servo di Dio.» Ivi, vol. 1665, c. 182v. 91 Marochitana. Interpretatio Processus Gadicensis in specie, ivi, vol. 1668, c. 224r. 92 Ivi, c. 233r. 93 Ivi, c. 226r. I frati cui si fa cenno sono Pietro d’Alcantara, Giuliano Pastore, Martino de Luna, Antonio de la Cruz e Francesco de las Torres (ivi, c. 226v.). Li abbiamo trovati come testimoni in alcune fasi del processo. 94 Ivi, c. 232r. La Nuba «è la musica reale di tamburi con sonagli, sistri, flauti e sordini, e alcuni piatti di metallo, che suonano l’uni coll’altri. Tutti questi
stromenti suonavano fino a quaranta rinnegati vestiti di ciambarluchi di scarlatto molto politi». Così Vaccondio Romano, Vita, martirio e miracoli, cit., p. 361. 95 SCCS, Processus, vol. 1668, cc. 296v.-297r. e v. Dal racconto che ne fa Francisco de San Juan del Puerto, sappiamo che il soldato in questione era il capitano di piazza don Gaspar Rodriguez Torres, un portoghese, in servizio a Mazagan dal 1617 al 1631 e poi dal 1640 al 1652; il re del Portogallo gli conferì il titolo no-biliare nel 1641. Morì nel 1654. Anche i suoi discendenti prestarono servizio a Mazagan. Così Robert Ricard, Un hidalgo portugues amigo del Bto. Juan de Prado, in “Archivo Ibero-Americano”, gennaio-marzo 1956, pp. 119121. 96 Processus apostolicum in Urbe super miro, in SCCS, Processus, cit., vol. 1670, c. 25r. 97 Ivi, c. 26r. 98 Ivi, c. 27r. 99 Paolo Zacchia, Quaestiones medico-legales in quibus eae materiae medicae quae ad legales facultates videntur pertinere, proponuntur, pertractantur, resolvuntur (1623), Amsterdam 16512, p. 226. 100 SCCS, Processus, cit., vol. 1670, cc. 89v.-90r. 101 Ivi, cc. 91v-93r. 102 Ivi, c. 89r. 103 Ivi, c. 101r. 104 Ivi, c. 102v. 105 Angelico di Vicenza, Ragguaglio delle virtù, missione e martirio del gran servo di Dio Giovanni de Prado, Venezia 1721, pp. introduttive non numerate. 106 Ivi, p. 242. 107 Fray Juan de la Trinidad, Chronica de la Provincia di San Gabriel de frailes descalzos de la apostólica Orden de los Menores de la regular Observancia de Nuestro Seráfico Padre San Francisco, Sevilla 1652. 108 Ricordiamo che lo scritto di Francisco di San Buenaventura, Sol de Marrue-cos, è stato tradotto in italiano da Giovanni Battista Vaccondio Romano, con il titolo Vita, martirio e miracoli del Venerabile Padre e servo di Dio F. Giovanni de Prado. Vedi supra cap. 3, n. 3. 109 Francisco de San Juan del Puerto, Mission historial de Marruecos, Sevilla 1708. 110 Francesco della Concezione, Epitome itineris Servi Dei ad Marrochum, Sevilla 1657; Giovanni Bagnos de Velasco, Istoria pontificiale, Madrid 1678; Benedetto da Mazara, Leggendario francescano, Venezia 1679; Fortunato
Huvero, Menologio serafico, Monaco 1698; Pietro Antonio di Venezia, Giardino serafico, Venezia 1710. 111 Giovanni (Diaz) della Concezione, Avvertimento, in Vita, virtù, doni, martirio e miracoli del B. Giovanni de Prado, cit., pp. non numerate. 112 Ivi, p. 12. 113 Ivi, p. 49. Uguale devozione nutre per la Madonna. Il pontefice ha emanato una bolla che ne riconosce l’immacolata concezione, questione su cui si era svolto un acceso dibattito, che aveva contrapposto gli ordini religiosi in Andalusia e in tutta la Spagna. 114 Ivi, pp. 52-53. 115 Ivi, p. 55. 116 Ivi, p. 14. 117 Ivi, p. 19. 118 Beatificatio servi Dei Iohannis de Prado sacerdotis espresse professi Ordinis Fratrum Minorum Sancti Francisci de Observantia Excalceatorum nuncupatorum, Roma 1728, p. 26. 119 Ivi, p. 27. 120 Ibid. 121 Ivi, p. 28. 122 Giovanni (Diaz) della Concezione, Vita, virtù, doni, martirio e miracoli del B. Giovanni de Prado, cit., p. 84. 123 Ivi, p. 29. 124 Ibid. 125 Ivi, p. 30. 126 Ivi, p. 35. 127 Vedi il Compendium in Bullarium Fratrum Ordinis Minorum Sancti Francisci Strictioris Observantiae Discalceatorum, Madrid 1744, t. II, coll. 628631. 128 Restrictus della Positio super dubio an constet de signis, seu miraculis in casu et ad effectum de quo agitur, Roma 1690. 129 Gloriosos Christi Athletas, breve dato in Roma il 14 maggio 1728 da Benedetto XIII, in Bullarium Diplomatum et Privilegiorum sanctorum Romanorum Pontificum, t. XXII, Augustae Taurinorum, MDCCCLXXI (1871), pp. 650-652. Per una puntuale ricostruzione delle tappe del processo di canonizzazione vedi Benedetto XIV papa, De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, in Opera omnia, t. I, Bassano 1767. Nell’Indice contenuto nel tomo V alla voce Ioannes de Prado, si possono ricostruire i