SENSIBILIA 9 2015 GENIUS LOCI A cura di Silvia Pedone e Marco Tedeschini
MIMESIS
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INDICE
INTRODUZIONE
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di Silvia Pedone e Marco Tedeschini
ESPORTARE LO SPIRITO DEL GENIUS LOCI . UN PROGETTO IRREALIZZABILE NELLA ROMA DI FILIPPO NERI
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di Giulia Andioni
IL GENIUS LOCI NELL’EPOCA DELLA SUA DIGITALIZZAZIONE
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di Karim Ben Hamida
LEOPARDI. DA L’ INFINITO AL NULLA
39
di Stefano Bevacqua
L’ARTISTA COME GENIUS LOCI . L’ESEMPIO DI LORENZO DA VITERBO
51
di Gerardo de Simone
I LUOGHI COMUNI DELL’ARTE. SI PUÒ FARE UNA TEORIA DELLA GEOGRAFIA ARTISTICA?
75
di Michele Di Monte
LUOGHI DI UNA PEDAGOGIA ECCENTRICA . LO Z AUBERBERG DI THOMAS MANN di Silvia Ferretti
93
IL SENSO DEI LUOGHI, I LUOGHI DEL SENSO. SEGNI E AISTHESIS 109
TRA NATURA E TECNICA
di Riccardo Finocchi
L’EUROPA COME GENIUS LOCI
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di Elio Franzini G ENIUS LOCI E PITTURA IN KANDINSKY.
LO SPIRITUALE E LE FORME
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di Federica Frattaroli
TROVATO O CREATO? IL GENIUS LOCI COME ESPERIENZA (ATMOSFERICA)
155
di Tonino Griffero
183
G ENIUS LOCI E PSICOPATOLOGIA
di Marco Innamorati
IL DEMONE DELLA MONTAGNA. A PROPOSITO DELLA NOVELLA L ENZ DI GEORG BÜCHNER
195
di Micaela Latini G ENIUS LOCI E
fūdo: la filosofia mesologica di Watsuji tetsurō
211
di Lorenzo Marinucci
APPUNTI SUL GENIUS LOCI . SPAZIO, NARRAZIONE, AUTENTICITÀ
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di Massimiliano Napoli G ENIUS , ANIMA, daimon E PROCREAZIONE .
ORIGINI DI UN CONCETTO
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di Lorenzo Perilli
«BIANCO SU BIANCO». L’ASTRAZIONE CONCRETA DA GILLES DELEUZE A MICHELANGELO ANTONIONI di Giulio Piatti
263
LA CASA COME LUOGO DI DECIFRAZIONE DELLO SPAZIO NATURALE. CHRISTIAN NORBERG-SCHULZ E HANS VAN DER LAAN
275
di Tiziana Proietti G ENIUS LOCI E/O “LOCUS GENIALIS”?
QUALCHE RIVERBERO
LEVINASSIANO E PLATONICO
299
di Vittorio Ricci G ENIUS LOCI E L’ESTETICA DEL GIARDINO
311
di Mateusz Salwa SOMA E UTOPIA. RIFLESSIONI SU UN GENIUS LOCI ZEN
325
di Richard Shusterman PIERO DORAZIO. L’ASTRATTISMO MEDITERRANEO DALLA VOCAZIONE INTERNAZIONALE
335
di Gabriele Simongini LA DIFFERENZA DEL GENIO. PROBLEMA TEORICO, SOLUZIONE ESTETICA
351
di Marco Tedeschini PER UN PAESAGGIO DEL TUTTO NUOVO E ALLO STESSO TEMPO ANTICO
367
di Franco Zagari AUTORI
379
GENIUS , ANIMA, DAIMON E PROCREAZIONE.
ORIGINI DI UN CONCETTO di Lorenzo Perilli
1. Every being has its ‘genius’, its guardian spirit. This spirit gives life to people and places, accompanies them from birth to death, and determines their character … ancient man experienced his environment as a revelation of definite ‘genii’… [he] understood that it is an existential necessity to come to terms with the ‘genius’ of the locality where his life takes place… The ‘genius’ thus corresponds to what a thing ‘is’, or what it ‘wants to be’. (Norberg-Schulz 1979b: 45)
Identificarsi con un luogo, per Christian Norberg-Schulz, significa aprirsi al suo carattere, cosicché precipuo compito dell’architettura è quello di dare senso ai luoghi dando visibilità allo specifico genius loci, solo così creandosi luoghi dotati di significato in cui la vita dell’uomo trovi adeguata collocazione. L’entità di un luogo si definisce attraverso la sua identità, e tale identità va ricercata nello specifico carattere ad esso assegnato dal proprio genius. Era il 1979-80 quando Norberg-Schulz proponeva il suo personale percorso verso una fenomenologia dell’architettura. Allo scopo, non trovò di meglio che rivitalizzare, brillantemente anche se tra qualche alzata di ciglia, quella nozione di genius loci che era stata tipica dello spirito dell’antica Roma, con radici che si prolungavano in territori storici, culturali e antropologici inesplorati e inesplorabili, per mancanza di documentazione (Norberg-Schulz 1979)1. È stata lunga la strada percorsa dal piccolo genius, il discreto compagno che si manifesta con un rossore sul volto e si placa sfregando la fronte, l’a1
L’ispirazione fu heideggeriana, in un’epoca in cui questa era la tendenza, ma su ciò sia consentito sorvolare. Su Norberg-Schulz e la sua interpretazione cfr. anche, con sguardo critico, Reza Shirazi (2008).
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mico mutevole ma rassicurante, umano e divino ad un tempo, e anzi dio della stessa natura mortale dell’uomo – giacché anche nell’uomo può esservi una scintilla divina –, Genius, natale comes qui temperat astrum, naturae deus humanae mortalis, in unum quodque caput voltu mutabilis, albus et ater,
il Genio, compagno che regola la stella natale, dio mortale di natura umana, che muta sempre volto, ora bianco, ora nero (Orazio, Epistole, II 2 187-9)2,
l’amichevole serpentello che i Romani usavano dipingere sui muri delle case auspicando protezione, cresciuto accanto al medico al quale da sempre si accompagna assicurando guarigione, avvolgendosi silenzioso attorno al caduceo, il serpente che nelle cerimonie di guarigione dei santuari si insinua sotto il velo che copre la testa dell’infermo e ne lecca le palpebre guarendolo dalla cecità, come nel caso del Pluto della commedia greca, dio della ricchezza, cieco e dunque incapace di distribuirla equamente tra gli uomini, pertanto condotto al santuario del dio della medicina Asclepio per essere curato e riacquistare la vista: e Asclepio gli siede accanto, e prima gli appoggia la mano sulla testa, poi piglia un cencio pulito e glielo passa sulle palpebre. Panacea gli stende un panno rosso sulla testa, compresa la faccia: allora il dio fa un fischio, dal tempio schizzano fuori due serpenti, di grandezza enorme …, si infilano tranquillamente sotto lo straccio rosso e gli leccano le palpebre, torno torno: almeno mi pareva. Il tempo che tu scoli due ciotole di vino, e Pluto, padrona mia, si alza e ci vede! Io batto le mani per la gioia e sveglio il padrone. Il dio subito sparisce e con lui i serpenti, dentro al tempio. (Aristofane, Pluto, 728-741)
Che il genius sia identificato con il serpente, e che ciò appaia rassicurante, non sorprenderà chi consideri l’immaginario degli antichi legato a que2
Incongrua è l’interpretazione del passo oraziano secondo cui il Genio è per ciascuno anche apportatore di morte, come ancora si legge nella Enciclopedia dell’Arte Antica dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, s.v (Fuchs 1960).
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sto animale, pericoloso e tuttavia affascinante, che già un antichissimo trattato egizio di ofiologia del grande tempio di Eliopoli classificava in ogni dettaglio, con sorprendente precisione zoologica e medica, descrivendone caratteristiche, ma anche la tipologia del morso e le cure specifiche per ciascuno, incluse formule di invocazione magica3. E Roma, diceva Plinio, era ormai invasa da serpenti proprio a seguito di una sorta di infatuazione per quel che l’animale rappresentava, il genius. Ma andiamo per gradi.
2. Da genius a genius loci il passo si può spiegare, ma non è breve – per quanto lo sia sembrato. Il concetto è antico, ma non antichissimo. Si incontra già nella prima letteratura romana (dico romana e non latina perché qui interessa non la lingua ma il luogo), al tempo della seconda guerra punica, un’epoca di inquietudine religiosa, accresciuta dal susseguirsi di eventi inspiegabili se non miracolosi, considerati segno dell’ira degli dei che si cercava di placare con offerte e preghiere (Livio, Ab urbe condita, XXII 56). Cresceva la paura di fronte al divino, idee provenienti da paesi lontani trovavano facile accesso nella società romana, tra i timori di perdere quei rassicuranti mores maiorum che saranno al centro di ogni dibattito politico. Tra i soggetti che entrano in scena, spicca il Genio. Gli viene in genere recisamente negata ogni ascendenza greca, per riconoscerne piuttosto, tentativamente, una etrusca. Quest’ultima poggia però su fondamenta assai labili; l’altra, invece, permette di spiegare molto più di quanto appaia, dimostrandosi che sotto un nome del tutto originale – genius, il genitore, nel senso letterale di colui che genera – e iconicamente celato sotto fattezze varie e diverse e non stabili, riaffiorano concezioni che sono invece tipicamente greche, ma che rivelano anche, e sempre di più riacquistano, tratti propri della religiosità ebraica che, attraverso la mediazione cristiana, vanno a mescolarsi con i tratti locali romani: non si vorrà infatti trascurare che la nozione cristiana di angelo, e poi di angelo custode, ha il suo diretto antecedente nella concezione ebraica già prototestamentaria di una entità intermedia tra dio e uomo, che penetrerà più tardi nella cultura araba con la figura dello jinn, figura però negativa, caratterizzata dalla cattiveria, ma anche etimologicamente legata al genius romano. 3
Si tratta del Papiro del Museo di Brooklyn n. 47.218.48 + 85, Trattato egiziano di ofiologia, egregiamente edito, tradotto e annotato da Sauneron 1989.
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Il genius rientra, non v’è dubbio su questo, tra le più importanti e più antiche componenti della religione di Roma4, e trova la rappresentazione più efficace nei testi più tipicamente e sapidamente romani, quelle commedie di Plauto che – siamo nel terzo secolo a.C., inizio del secondo, Plauto nasce intorno al 250: se si considera che la letteratura latina si fa iniziare con il 240 (Livio Andronico), si vede come si tratti di testimonianze tanto più preziose perché arcaiche – lo fanno esordire sul palcoscenico del teatro, sempre accanto alla persona a cui si accompagna: di cui è appunto comes, come in Orazio, tenuto magari per mano (teneo dextra Genium meum , Plauto, Menaechmi, I 2 138-139), oppure felice all’aumentare della ricchezza (nunc et amico meo prosperabo, et Genio meo multa bona faciam – per ora arricchirò il mio amico e farò del gran bene al mio Genio, Plauto, Persa, II 3 263-264), o defraudato quando il denaro viene a mancare (egomet me defraudam, amicum meum Geniumque meum – o me sventurato, con il mio amico e il mio Genio , Plauto, Aulularia, IV 9 724), coinvolto quando qualcuno sa apprezzare il buon cibo (sapis multum ad Genium, che si dovrà rendere con un banale ma non aggirabile «sai vivere bene, tu», Plauto, Persa, I 3 108), cercato quando si ha bisogno di un amico e sodale (ecquis est qui mihi commostret Phaedromum, Genium meum? – qualcuno sa dirmi dove trovare Fedromo, il mio Genio? Plauto, Curculio, II 3 301), identificato con la natura dell’uomo e il suo destino (nam hic quidem meliorem Genium tuum non facies – qui non renderesti migliore il tuo Genio , Plauto, Stichi, IV 2 622), e destinatario di sacrifici nel culto domestico, come nei Captivi : Genio suo ubi quando sacruficat, / ad rem divinam quibus est opus Samiis vasis utitur, / ne ipse Genius surripiat .
Se mai offre un sacrificio al suo Genio, per la cerimonia usa vasi di Samo perché lo stesso Genio non se ne approprii. (II 2 291-3)
Già nell’età più antica, dunque, è presente un intero ventaglio di opzioni, che conferma piena cittadinanza al concetto di genio come compagno dell’individuo, con lui anzi identificato. Interessa qui aggiungere che genius si alterna talora, in Plauto, ad animus, avvicinandosi così, almeno quanto al contenuto, al concetto di anima – qualunque cosa essa sia. Se sussista anche una connessione con il concetto greco di ψυχή è apparso incerto, piuttosto negato che riconosciuto: sbagliando, probabilmente. La mancan-
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Riassumo qui le risultanze dei principali studi sul tema e delle testimonianze antiche.
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za di chiarezza dipende innanzitutto dalla necessità di una definizione univoca di psyché , di cui non disponiamo; è risultato dubbio in particolare se il genius debba essere pensato come originatosi da una proiezione esterna della psyché interna e autonoma propria dell’individuo: per certo, esso dispone di una sua propria individualità ben distinta da quella di chiunque altro, ed è dunque in relazione con i tratti profondi della persona a cui si accompagna. Il genius è chiamato deus, e comes dell’uomo, compagno cioè dello specifico individuo al quale pertiene (o appartiene), come nell’Orazio citato; a lui si rivolgono preghiere, si presentano offerte, in suo nome si giura e si maledice. Tipicamente romana è la concezione del Genius come un principio vitale personificato che accompagna l’uomo standogli accanto e, appunto, tenendolo per mano come sulla scena plautina. Non va trascurato che alla stessa età di Plauto risale presumibilmente la stesura del deuterocanonico Libro di Tobia compreso nella Bibbia cristiana (ma non in quella ebraica), nel quale all’esortazione del padre di cercare, prima di mettersi in viaggio, «un uomo di fiducia che ti faccia da guida», il giovane Tobia «uscì in cerca di uno pratico della strada che lo accompagnasse nella Media. Uscì e si trovò davanti l’angelo Raffaele, non sospettando minimamente che fosse un angelo di Dio», il quale «conosce tutte le strade» (Tb 5, 3-6). Le due concezioni romana (cioè pagana) e cristiana procedono in parallelo, inevitabilmente incrociandosi, e nel quarto secolo d.C. un Padre della Chiesa come Basilio di Cesarea dirà esplicitamente che «ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore per condurlo alla vita» (Basil. Adv. Eunomium III 1): ma già Matteo 18,10 ne assegnava uno a ciascun fanciullo. Oltre che all’angelo del Cristianesimo, è fuor di dubbio la vicinanza all’ἀγαθὸς δαίμων dei Greci, a cui il genius somiglia anche nella forma in cui si presenta, quella di serpente; i romani chiamano genii i serpenti, e i serpenti in greco erano talora chiamati con il nome di ἀγαθοὶ δαίμονες, demoni buoni, come esplicitamente ricorda il grammatico Servio nel suo commento alle Georgiche di Virgilio (III 417), dove trattando di varie specie di serpenti tra cui la vipera, richiama il comportamento degli ἀγαθοὶ δαίμονες, quos latine genios vocant. Non solo dunque la connessione con il mondo greco è evidente – non potendosi qui rifarne la storia, si pensi soltanto al Fedone platonico, e agli altri dialoghi socratici –, ma è anche esplicitamente richiamata dagli autori latini. Sono autori tardi, si dirà, influenzati dalla sempre maggiore penetrazione della filosofia greca nel mondo romano: è vero; ma altrettanto vera è la presenza di tratti che già nel periodo
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arcaico rinviano a un analogo modo di intendere. Con il tempo, effettivamente, al genio si vengono sempre più attribuendo le caratteristiche del δαίμων dei Greci, sorta di spirito custode strettamente legato all’uomo nella sua individualità: lo stesso – non si dovrà mancare di sottolinearlo – accadeva con la psyché . 3. Si diceva: genius vale genitore, letteralmente. Lo scrive Censorino, in quella curiosa opera che è il De die natali, redatto nel 238 d.C.: Genius est deus, cuius in tutela ut quisque natus est vivit. Hic sive quod ut genamur curat, sive quod una genitur nobiscum, sive etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur, certe a genendo genius appellatur.
Il genio è quel dio sotto la cui protezione ognuno vive una volta nato. Si occupa del fatto che noi siamo generati, viene generato insieme con noi, ci accoglie e protegge una volta generati; si chiama genius da generare. (Censorin. De die natali 3,1) Ne conferma Paolo Diacono (nella Epitome – da lui predisposta per Carlo Magno alla fine del sec. VIII – del perduto De verborum significatione di Festo, II sec. d.C.): Genius meus nominatur, quia me genuit .
È chiamato il mio genio, perché mi ha generato. (Paul. Diac. 95,1)
Il genius ha un ruolo nella generazione, e questo ruolo sembra essere attivo, di soggetto che genera o presiede alla generazione (si ricorderà che anche il greco usa la stessa radice gen- per γένεσις, γενέσθαι); sebbene, evidentemente sotto l’influenza del passo di Censorino, sia stato proposto di interpretare la connessione con il generare anche nel senso di colui che, al momento della generazione (nascita), prende sotto la sua protezione colui che nasce, oppure nel senso che il genius nascerebbe insieme con la persona a cui appartiene. Spirito vitale in tutti gli aspetti della vita, destinata a finire: come il δαίμων, il genius è legato alla condizione di mortalità dell’uomo (è in Isocrate il δαίμων θνητός, Evag. 72), anche se non muore con lui: piuttosto si
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disgiunge dal mondo della vita, proseguendo il suo cammino, così come l’anima – una concezione tipica di tutta la grecità, che ancora una volta si può osservare magistralmente raffigurata da Platone. Attraverso il suo genius si maledice il nemico, per tuom te genium obsecro (è ancora Plauto, Captivi, 977); come al genius, al δαίμων si rivolgono offerte votive. Il nesso con la grecità è innegabile. Essendo il genius il principio capace di generazione presente nell’uomo, la vita dell’uomo è detta avere inizio con l’ingresso del genius in lui; o anche, viceversa, l’ingresso del genius nell’uomo è detto avvenire al momento della nascita: il principio generatore di chi nasce risiede infatti in colui che genera, il padre, non in colui che è generato (si vedrà meglio il rilievo di questa distinzione). Il genius opera anche nel godere della vita, ed è felice di chi sia propenso a spendere denaro (Plauto, Trucul., 183); ha un ruolo nel preservare la vita, e in questo modo si spiega forse il fatto che esso sia frequentissimamente collegato al cibo, come ancora nelle commedie di Plauto ma anche ad esempio nella espressione homines geniales, che definisce non intelletti brillanti ma coloro che sono particolarmente pronti e disposti ad invitandum et largius apparandum cibum (così il grammatico di età ciceroniana Satra, citato da Nonio nel De compendiosa doctrina, 168,15). Spirito vitale in ogni senso, il genius gioisce per tutte le forme di piacere che alimentano la vita. A lui è sacro perciò il letto nuziale, che di qui trae il nome, lectus genialis: tutto ciò che viene alla vita deve avere il suo genio, ed è pertanto comprensibile che esso venga onorato proprio laddove si prevede che abbia inizio la nuova esistenza dell’uomo, il letto nuziale appunto. In assenza del marito (lontano o morto che fosse), il genio ne prende il posto: e lo fa sotto forma di serpente, intorno e nel letto, unendosi alla donna per concepire, come nel caso della nascita di Scipione Africano minore, il conquistatore di Cartagine. In altri casi, due sono i serpenti che appaiono, dunque due genii, maschio e femmina, ancora sul letto, simboleggiando l’uomo e la donna. Si è pensato che per le donne fosse la Iuno a prendere il posto che il genius ha per l’uomo: ma la distinzione non è così rigida, non mancano eccezioni e specialmente nel periodo più antico il genius vale per entrambi i sessi. La Iuno ad ogni modo esiste, ed è di esclusiva pertinenza femminile (cfr. Plinio, Naturalis Historia, II 16), nominandosi come la dea (Giunone) protettrice del matrimonio e del parto, e poi anche dello Stato: la distinzione sarebbe allora tra il principio maschile, che genera, e quello femminile, che riceve. In realtà, il genius si sottrae a questo tipo di distinzione.
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4. La conferma della femminilità del genius coincide con l’associazione della nozione di genio a quella di luogo, del luogo per eccellenza: la città di Roma. Si ha allora il genius loci, di un luogo per il quale maschio e femmina non hanno più senso, e coincidono: «Sul Campidoglio – scrive Servio, stavolta nel commento all’ Eneide, II 351 – fu consacrato uno scudo, In Capitolio fuit clipeus consecratus , sul quale vi era un’iscrizione: genio urbis Romae, sive mas sive femina , al genio della città di Roma, maschio e femmina insieme». Dunque non soltanto l’uomo, l’individuo, ha il proprio genius, ma anche, e già in età molto antica, ogni locus, nel qual caso esso appare di nuovo in forma di serpente, e anche ogni edificio, ogni città, ogni associazione di persone; persino gli dei hanno i loro genii. Come un’anima, il genius accompagna il singolo individuo dimorando nel suo corpo, in quello stesso modo nel quale siamo abituati a pensare la ψυχή; ma esso è anche uno spirito che protegge qualunque entità, sia essa personificata o meno, nella quale si sviluppa la vita: questa sì, è idea peculiarmente romana. Il genio si accompagna allora a tutto ciò che possiede un esserci autonomo e determinato, tutto ciò che ha una personalità, una entità e identità, un certo carattere. Gli spiriti protettori dei luoghi fanno parte delle concezioni più antiche e già primitive, ma chiamarli genii significa un passaggio dalla sfera dell’individuale umano a una dimensione condivisa, collettiva, sociale. Esiste, così, un genius populi romani, e insomma genium dicebant antiqui naturalem deum uniuscuiusque loci vel rei vel hominis, «gli antichi chiamavano genio il dio naturale di qualunque luogo o cosa o persona» (così Servio a Virgilio, Georgiche, I 302). Massima diffusione e significato ebbe proprio il concetto di genius loci. La descrizione più famosa e più espressiva di questo concetto è da considerarsi quella offerta da Virgilio nel quinto libro dell’ Eneide, quando raffigura Enea che celebra il funerale del padre Anchise. Verso la fine della scena, si legge: Qui (sul tumulo) offre due coppe di vino puro, lo versa in terra, e due di fresco latte, due di sangue sacro, e sparge fiori purpurei, e dice: «Salve, santo genitore, di nuovo salve, ceneri ritrovate invano, anima e ombra del padre. … Aveva detto così, quando dai profondi recessi un viscido grande serpente trasse sette cerchi,
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sette volute, aggirando quietamente il tumulo, strisciando fra le are, macchiato il dorso da segni cerulei, e un fulgore gli accendeva d’oro le squame, come l’arcobaleno tra le nubi rifrange mille diversi colori dal sole. Enea stupì alla vista. Quello, con lungo snodarsi tra i calici e le terse coppe, libò le vivande e innocuo discese di nuovo nel profondo del tumulo, e lasciò i degustati altari. Perciò ancor più rinnova gli onori al genitore, incerto se pensare che sia un genio del luogo o un aiutante del padre; uccide secondo il rito una coppia di bidenti, e altrettanti maiali e giovenchi dalle nere terga; versava vino dalle coppe, e chiamava lo spirito del grande Anchise e i Mani evocati dall’Acheronte. (V 77-99)
Su cui Servio commenta: nullus enim locus sine genio, qui per anguem plerumque ostenditur , «non esiste luogo senza un suo genio, che quasi sempre si mostra in forma di serpente» (V 95). I serpenti venivano dipinti al fine di indicare la sacralità del luogo e proteggerlo da tutto ciò che di impuro avrebbe potuto contaminarlo: forse il più noto è il dipinto parietale di Ercolano (fig. 1) che raffigura il genius loci in forma di serpente che si attorciglia intorno all’altare e mangia i frutti che su di esso sono depositati come offerta, a fianco la didascalia di genius huius loci montis:
Fig. 1. Riproduzione tratta da Hild (1896: 1491)
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È attestata, soprattutto per via epigrafica, l’esistenza di genii di ogni tipo, genius curiae, domus, thesaurorum, horreorum, theatri, thermarum, macelli, e così in ambito militare, dove esistono genii exercituum, legionis, cohortis, etc. Lo stesso vale anche per le città e per ogni agglomerato urbano, i cui genii vengono a volte ad essere identificati con delle divinità. In un passo del Contra Symmachum di Prudenzio (IV sec. d.C.) si legge: cum portis, domibus, thermis, stabulis soleatis adsignare suos genios, perque omnia membra urbis perque locos geniorum milia multa fingere, ne propria vacat angulus ullus ab umbra.
e siete soliti assegnare a porti, case, terme, ricoveri i loro genii, e a creare migliaia e migliaia di genii per ogni parte della città e per ogni luogo, cosicché neppure un angolino resti privo della propria ombra. (II 446-449)
Ma si tratta sempre di uno sviluppo del concetto di genio personale dell’individuo. 5. Si giunge così al punto in cui la filosofia inizia a giocare la sua parte. S’è detto del δαίμων, che la filosofia e la teologia dei romani chiama genius, e che lo stoicismo di età romana considerava la parte più elevata dell’uomo e il suo spirito. Seneca – siamo dunque nel primo secolo d.C. – ricorda che maiores nostros qui crediderunt Stoicos fuisse; singulis enim et Genium et Iunonem dederunt ,
i nostri antenati che credevano (a quelle idee) erano Stoici; essi assegnarono a ciascuno il suo genio e la sua iuno; ( Epistole a Lucilio, XIX 1)
le idee in cui gli Stoici credevano erano quelle del popolo minuto, che cioè unicuique nostrum paedagogum dari deum, non quidem ordinarium, sed hunc inferioris notae ex eorum numero quos Ovidius ait ‘de plebe deos’,
ciascuno di noi abbia come guida e istruttore un dio, e non uno dei degli dei veri e propri, ma uno di grado inferiore, di quelle che Ovidio chiama ‘divinità plebee’. ( Ibidem)
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La filosofia dunque, e in particolare quella dominante a Roma, lo stoicismo, si accoda alle credenze popolari, accetta l’idea che ciascuno di noi sia accompagnato da una divinità subordinata, non θεός ma δαίμων, per dirla alla greca, di quelle buone per il popolino, de plebe deos. È il genius. Di cui Varrone scriveva, prima di Seneca, che genium esse uniuscuiusque animum rationalem et ideo esse singulos singulorum, talem autem mundi animum deum esse,
il genio coincide con l’anima razionale di ciascuno e ciascuno ha pertanto il suo, e una tale anima, che è un dio, è propria anche del mondo; (Varrone, Antiquitates, fr. 237, cit. da Agostino, De civitate dei, VII 13)
e il genio – è ancora Varrone, nello stesso passo di Agostino – deus qui praepositus est ac vim habet omnium rerum gignendarum,
è il dio che sovraintende e ha il potere della generazione di tutte le cose.
Chiarissimo è ancora Apuleio, che, si ricorderà, era un platonico del secondo secolo d.C., l’epoca di Marco Aurelio, di Galeno, della rinascita di platonismo, pitagorismo e aristotelismo accanto all’universo stoico: Nam quodam significatu et animus humanus etiamnunc in corpore situs daemon nuncupatur. … eum nostra lingua … poteris Genium vocare, quod is deus, qui est animus sui cuique, quamquam sit inmortalis, tamen quodam modo cum homine gignitur,
Ebbene in un certo senso anche l’animo umano collocato nel corpo viene chiamato daimon … nella nostra lingua … si potrebbe chiamarlo genius, cioè dio, che è l’anima di ciascuno e che, sebbene immortale, tuttavia in qualche modo è generata insieme con l’uomo. (Apuleio, De deo Socratis, 45)
Si tratta qui di concezioni in cui si fa sempre più evidente la penetrazione della tradizione filosofica greca nel mondo romano, sebbene non manchi di riaffiorare l’esigenza di ridefinire con gli strumenti della lingua e della visione latina una costellazione concettuale non banale. Bisogna tornare indietro fino a Platone, di nuovo, per fare il passo successivo, e ultimo: il δαίμων, per lui, è interamente contenuto nella testa. Il corpo – definito altrove prigione dell’anima, secondo il dettame pitagorico – non fa che fornire il mezzo di locomozione, umile quanto indispensabile. È la testa a fare la differenza: e l’intuizione è tutt’altro che banale, o scontata.
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6. Prima, infatti, che avvenisse l’unificazione sincretistica di animus e genius, quale appare in Apuleio e negli altri filosofi del tempo, i due concetti esprimevano un dualismo irriducibile: l’animus come mente cosciente ordinaria, come io cosciente, era associato al petto, sede della coscienza, mentre alla testa era assegnato il genius in quanto anima vitale procreativa5. Anche in questo senso tale spirito vitale attivo nella procreazione presenta tratti affini a quelli della ψυχή dei Greci; non solo è rappresentato, come questa, in forma di serpente, e come questa è destinato a non cedere alla morte, ma come questa ha sede appunto nella testa: una collocazione decisiva per intendere la nozione di genius, la sua estraneità rispetto all’io cosciente. Perché il genius, si è visto, è associato alla procreazione; ma sede della procreazione è la testa, non altro. L’associazione, che è indubbia, del genius con la generazione si esprime già nella etimologia, poi ad esempio nella ricordata definizione del letto nuziale come genialis, o nel ruolo del serpente che sostituisce il marito assente nell’unirsi alla moglie; ma anche la chioma è chiamata genialis (di genialem caesariem si parla in Apuleio) e così la canizie (la genialem canitiem dell’anziano, ancora in Apuleio), perché la crescita dei capelli è tipicamente concepita in relazione con la sostanza vitale che ad essi sottostà, e con l’anima generativa. Quando muore Giulio Cesare, quell’imperatore che era stato «il solo, fra tutti i sovvertitori dello Stato, a compiere la sua opera senza essere ubriaco» (Catone il Censore stando a Svetonio, De vita caesarum, Divus Iulius 53), si vuole che una stella chiomata (stella crinita, o cometa) sia apparsa nel cielo. Essa rappresentava la sua anima confermandola ormai accolta tra gli immortali: perché anche il genius, anima umana e divina, mortale e immortale, usava mostrarsi sotto forma di fuoco intorno alla testa, sua sede naturale. La chioma, proprio perché espressione della capacità generativa, è destinata a essere coperta da un velo, sia nel rito del matrimonio che in altre circostanze nelle quali questa sorta di pudore sia richiesta; e pudore relativo alla generazione è anche quello che motiva il gesto di portarsi la mano alla fronte quando si voleva onorare il genius, poiché al genius la fronte era sacra. Lo stesso significato ha il rossore improvviso e incontrollabile che denota imbarazzo, e che si verifica solo sul viso e su nessun’altra parte del corpo; mentre gesti e reazioni che siano fuori del controllo dell’io cosciente, come lo starnuto, sono considerati espressione di un genius inquieto, e 5
Su questi temi si veda Onians (1951), a cui si fa qui riferimento.
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allo starnuto – a differenza di ogni altra manifestazione involontaria – si rispondeva infatti augurando “salute”, salutem ei imprecari. Lo stesso vale per il cenno della testa che indica approvazione e impegna chi lo compie a rispettare l’impegno, giacché nella promessa era coinvolto il genius, come per i Greci la ψυχή. Tipico dei Greci era anche il toccarsi il mento per fare riferimento alla capacità generativa: e mento è γένειον, la cui radice γεν- lo associa direttamente al genius. Mentre il movimento involontario è associato al genius, e alla testa, come una sorta di attività psichica inconscia che condiziona e determina l’azione del soggetto senza essere sottoposta al controllo dell’io, il linguaggio, che può esprimere a volte le stesse cose, è associato all’io cosciente, e dunque al petto. «Teste» erano chiamate dai Greci le ψυχαί dopo la morte, nell’Ade, e analogamente i Romani immaginavano e raffiguravano lo spirito del defunto dopo la morte, il suo genius, come una testa senza corpo, perché separata ormai dalla coscienza ordinaria. 7. Si tratta di concezioni profondamente radicate, che resistettero alla modernissima e sorprendente intuizione dell’ippocratico autore del trattato Sulla malattia sacra redatto nel quinto secolo a.C., epoca aurea del mondo antico e perciò anche del pensiero occidentale, opera-manifesto della razionalità scientifica: nella quale si afferma che quella singolare massa umida e poco compatta presente nella testa, il cervello, è responsabile della più inspiegabile, e perciò sacra, delle malattie, l’epilessia, le cui impressionanti manifestazioni sono totalmente al di fuori del controllo dell’io cosciente. Non il dio è responsabile, come tutti credono, dice l’ignoto autore; bensì una alterazione fisiologica o strutturale del cervello. Il cervello diventa allora anche l’interprete delle informazioni provenienti dagli organi di senso, il mediatore tra esterno e interno. Uno speciale ruolo al cervello aveva assegnato, oltre mezzo secolo prima, già Alcmeone di Crotone, filosofo e forse medico, del quale non restano però che pochi frammenti e una importante testimonianza contenuta nel Fedone platonico (95 b 5-8). È La malattia sacra a proporre con convinzione la svolta alla fine del secolo: una svolta alla quale tuttavia non si diede sèguito alcuno, lasciando ad Aristotele il compito di riaffermare piuttosto la centralità del cuore, e con esso del petto, in cui ha sede per i romani l’animus.
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Il cervello ha nell’uomo il potere più grande – afferma il Maestro del De morbo sacro –: esso è per noi l’interprete di ciò che viene dall’aria, se è sano. L’aria fornisce la facoltà di pensare; gli occhi, le orecchie, la lingua, le mani e i piedi svolgono ciò che il cervello conosce. La facoltà di pensare infatti è in tutto il corpo, fino a che in esso vi sia aria, ma il cervello è il messaggero per l’intelligenza. (Ivi: cap. 19) Bisogna sapere che è dal cervello, e solo dal cervello, che derivano il piacere, la gioia, il riso, così come il dispiacere, il dolore, la sofferenza e le lacrime. Attraverso di esso noi soprattutto pensiamo, vediamo, udiamo, e distinguiamo il brutto dal bello, il cattivo dal buono, il piacevole dallo sgradevole … Esso ci rende folli o deliranti, ci ispira terrore e paura, di notte o di giorno, porta insonnia, errori inopportuni, ansie senza motivo … Tutte queste cose ci derivano dal cervello, quando non è sano. (Ivi: cap. 17)
Il tradizionale ruolo del cuore è negato, e così quello delle phrenes, che non sarebbero allora connesse con il pensiero ( phronesis), nonostante il nome, che è scorretto: Alcuni affermano che il cuore è l’organo con cui pensiamo, e che esso percepisce dolore e paura: ma non è così. Esso, come il diaframma ( phrenes ), ha soltanto delle contrazioni… Le phrenes hanno un nome improprio, acquisito per caso e per l’uso, ma che non corrisponde alla realtà: io davvero non so quale sia il potere delle phrenes per la facoltà di pensare e per l’intelligenza. (Ivi: cap. 20)
Si nega qui, di conseguenza, che il petto sia sede di organi e funzioni connessi con la coscienza e la conoscenza: è invece il cervello l’organo fondamentale per la conoscenza e la elaborazione delle sensazioni. Esso è così importante, che le malattie che lo colgono sono le più acute, le più gravi, spesso mortali, e le più difficili da giudicare. Il tono è quello apodittico di chi ha pronta una prova incontestabile, che consiste nella riprova empirica: aprire la testa di una capra malata di epilessia e osservare di persona. Tuttavia, il caso de La malattia sacra resta straordinario quanto isolato: sarà piuttosto la concezione opposta ad imporsi, come si diceva, per la forza della tradizione, per l’autorità di Aristotele, per la difficoltà di interpretare la struttura anatomica e il ruolo fisiologico del cervello. Essa rispondeva assai meglio, del resto, alle concezioni diffuse, quelle più familiari al popolo e ormai consolidate, tra cui proprio quella del genius e della generazione.
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Accantonata la proposta dei medici ippocratici, il cervello, unito al midollo spinale che da esso si diparte e che risulta della sua stessa natura ( a cerebro medulla descendente , Plinio, Naturalis historia IX 37, 178), torna infatti ad essere, insieme alla testa ( caput , κεφαλή) che lo contiene, la fonte del seme, strumento di generazione – così come caput si chiama la sorgente dei fiumi. È, questa, la dottrina encefalomielogena, che si oppone a quella pangenetica degli atomisti e a quella ematogenetica di Diogene di Apollonia e di Aristotele (cfr. Lesky 1951). La dottrina pangenetica voleva il seme, strumento di generazione, originato da ogni parte del corpo, sia del padre che della madre, due diversi tipi di seme la cui unione e mescolanza generava l’embrione; la dottrina ematogenetica vedeva l’origine del seme nel sangue. La teoria encefalomielogena prevedeva invece che il seme fosse originato dal cervello e dal midollo, e che dunque con il cervello fosse connessa la generazione, e tutto ciò che la riguarda: ivi compreso il genius. Si spiega così il fatto che il genius avesse sede nella testa, e fosse connesso proprio con il cervello. Si guardi del resto già al nome. L’etimologia, si sa, è scienza dell’approssimazione e dell’ipotesi, spesso inverificabile. Essa, applicata alla lingua latina, pretende che la parola cerebrum sia da spiegare per connessione con il sanscrito çíraḥ e con il greco κάρα, la testa, con l’aggiunta del suffisso brum, per analogia con termini come candelabrum6. Spiegazione tradizionale e consolidata, che si direbbe impeccabile: se non fosse che tace totalmente l’alternativa, almeno altrettanto se non più fondata, che vuole il termine derivato invece da cereo, forma arcaica di creo, cioè creare, generare, dare vita; il cervello, infatti, per i Greci e in particolare in Attica non doveva essere mangiato 7. Il velo che copre il capo diventa allora – specie nell’uomo – anche una protezione del genius e del suo potere generativo, e spiega la raffigurazione del genio dell’imperatore Augusto (fig. 2) che tiene una cornucopia nella mano sinistra – il genio ama l’abbondanza e la vita – e nella destra la patera sacrificale, con cui si offrivano bevande agli dei: la statua ha infatti il capo coperto dalla toga, come è tipico delle statue di genii rappresentati con fattezze umane.
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Così Ernout, Meillet (2012: s.v.). L’ipotesi etimologica è ricordata da Onians (1951:153-154).
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Fig 2. Statua togata, Roma, Musei Vaticani, Rotonda (Genio di Augusto)
Quando allora nel mondo romano al morbo tipico del cervello, l’epilessia, oggetto del citato De morbo sacro, viene assegnato il nome di morbus comitialis, è da chiedersi se davvero l’etimologia già antica, quanto corriva, sia convincente. Essa vuole che tale nome derivasse dal fatto che quando si verificava un attacco nel corso di una seduta pubblica – i comitia – la seduta veniva sospesa, essendo l’attacco epilettico un segno di cattivo auspicio, che richiedeva purificazione, o comunque impediva di continuare. Piuttosto, e sia pure paretimologicamente (o forse no?), si potrebbe vedere nel morbus comitialis la malattia del comes, di quel compagno insediatosi nella testa e nel cervello, di quel genius che si manifesta ora con un innocuo starnuto, ora con manifestazioni più violente e altrettanto incontrollabili come sono gli attacchi che aggrediscono chi è sopraffatto, perché posseduto da una forza interiore su cui non è in grado di esercitare alcun controllo: l’epilettico appunto, dal greco ἐπι–λαμβάνειν, dove il verbo λαμβάνειν è afferrare, tenere stretto, e il preverbo ἐπι- esprime l’inseparabile prossimità, ora innocua, ora aggressiva, comunque senza rimedio né via di scampo. L’epilessia reca infatti con se un rischio di infertilità, lasciando intendere un qualche coinvolgimento del principio generativo nella malattia.
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La collocazione nella testa chiude dunque il cerchio: lì, nella sede della potenza generativa ( cerebrum), risiede la personalità, il carattere, la specifica identità dell’individuo: il genius. Con l’uomo nasce, cresce, ad esso si accompagna: e sotto forma di testa, o di stella chiomata, gli sopravvive. Bibliografia Fonti
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