Piergiorgio Odifreddi
IL MUSEO DEI NUMERI Da zero verso l’infinito, storie dal mondo della matematica
Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-67570-0 Prima edizione: novembre 2014 «La gara di matematica», di Cesare Zavattini, da Parliamo tanto di me © Bompiani / RCS Libri S.p.A. «Uno per zero», di Cesare Zavattini, da Io sono il diavolo © Bompiani / RCS Libri S.p.A. O beatrice, di Giovanni Giudici © 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. «Il trionfo dello zero», da Filastrocche in cielo e in terra © 1980, Maria Ferretti Rodari and Paola Rodari © 1991, Edizioni EL S.r.l., Trieste. Nummeri, di Trilussa © 1951 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. Twenty flight rock, testo e musica di Eddie Cochran – Ned Fairchild Copyright © 1956 Campbell Connelly and Co. Ltd. Per l’Italia: Universal Music Publishing Ricordi s.r.l. – Milano
Tutti i diritti riservati – All rights reserved. Per gentile concessione di Hal Leonard MGB (Italy). Veintiuno son los dolores, testo originale e musica di Violeta Parra © N.F.C. – 42 Av. Montaigne – Paris (France). Subeditore per l’Italia: Essex Italiana Edizioni Musicali Srl – Galleria del Corso, 4 – Milano. Tutti i diritti sono riservati a termine di legge. All rights reserved. International copyright secured. Per gentile concessione di Essex Italiana Edizioni Musicali Srl-Milano. Come ho scritto uno dei miei libri, di Italo Calvino © 2002 by Esther Judith Singer Calvino Giovanna Calvino e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. © H.M. Brock; Erté; É. Desmazières; L. Fontana; A. Gormley; K. Haring; S. Hirata; R. Indiana; J. Johns; R. Magritte; U. Nespolo by SIAE 2014 © Salvador Dalí, Gala-Salvador Dalí Foundation by SIAE 2014 © Andy Warhol Foundation for the Visual Arts by SIAE 2014 L’Editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti. Rimane a disposizione per
gli adempimenti d’uso.
IL MUSEO DEI NUMERI
Così parlarono dei numeri
«Puoi portarmi un uomo che non sappia contare con le dita?» Libro dei morti egiziano, secolo -XVI «Tutto è numero.» Attribuito a Pitagora, secolo -VI «Senza numeri, non si può né pensare, né conoscere.» Filolao, Frammenti, secolo -V «I numeri non servono solo ai mercanti per comprare e vendere, ma anche all’anima per arricchirsi.» Platone, Repubblica, secolo -IV
«Tu hai disposto tutto con lunghezze, numeri e pesi.» Libro della Sapienza, secolo -II «Dio ama i numeri dispari.» Virgilio, Bucoliche, secolo -I «Per qualunque numero si possono trovare molti motivi di lode e di ammirazione.» Plutarco, L’E di Delfi, secolo I «Togli i numeri alle cose, e tutte periranno.» Agostino, Il libero arbitrio, secolo IV «Dovunque c’è numero, c’è bellezza.» Proclo, Commento a Euclide, secolo V «La musica è una disciplina che parla di numeri.»
Cassiodoro, Istituzioni, secolo
VI
«I numeri perfetti sono tanto rari quanto gli uomini perfetti.» René Descartes, Lettera a Marin Mersenne, 1638 «La musica è un esercizio inconscio di aritmetica da parte della mente che non sa di contare.» Gottfried Leibniz, Lettera a Christian Goldbach, 1712 «I numeri sono le vocali della matematica.» Novalis, Pensieri fuggitivi, 1790-1801 «Dio ha creato i numeri interi. Il resto è opera dell’uomo.» Leopold Kronecker, Lezione ai naturalisti di Berlino, 1886
«È possibile che l’insinuazione dell’eterno sia la vera causa di quel piacere speciale che ci procurano le enumerazioni.» Jorge Luis Borges, Storia dell’eternità, 1936 «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?» Warren McCulloch, In memoria di Alfred Korzybski, 1960 «Non tutto ciò che conta si può contare. E non tutto ciò che si può contare conta.» William Cameron, Sociologia informale, 1963 «Il mio numero preferito è “un sacco”.»
Woody Allen, Manhattan, 1979 «Tutti i numeri sono notevoli, ma pochi sono stati notati.» François Le Lionnais, I numeri notevoli, 1983 «Qui, dietro i muri, gli dèi giocano: giocano con i numeri, con i quali è fatto l’universo.» Le Corbusier a Sainte-Marie de la Tourette, 1983
PROLOGO
La gara di matematica
È un ricordo della mia infanzia. Abitavo a Gottinga nel dicembre del 1870. Mio padre ed io giungemmo all’Accademia quando il presidente Maust stava cominciando l’appello dei partecipanti alla Gara Mondiale di Matematica. Subito babbo andò a mettersi fra gli iscritti dopo avermi affidato alla signora Katten, amica di famiglia. Seppi da lei che il colpo del cannone di Pombo, il bidello, avrebbe segnato l’inizio della storica contesa. La signora Katten mi raccontò un episodio, ignoto ai più, intorno all’attività di Pombo. Costui sparava da trent’anni un colpo di cannone per annunciare il mezzogiorno preciso. Una volta se n’era dimenticato. Il dì appresso, allora, aveva sparato il colpo del giorno prima, e così di seguito fino
a quel venerdì del 1870. Nessuno a Gottinga si era mai accorto che Pombo sparava il colpo del giorno avanti. Esauriti i preliminari, la gara ebbe inizio alla presenza del principe Ottone e di un ragguardevole gruppo di intellettuali. «Uno, due, tre, quattro, cinque…» Nella sala si udivano soltanto le voci dei gareggianti. Alle diciassette circa, avevano superato il ventesimo migliaio. Il pubblico si appassionava alla nobile contesa e i commenti si intrecciavano. Alle diciannove Alain, della Sorbona, si accasciò sfinito. Alle venti, i superstiti erano sette. «36.767, 36.768, 36.769, 36.770…» Alle ventuno Pombo accese i
lampioni. Gli spettatori ne approfittarono per mangiare le provviste portate da casa. «40.719, 40.720, 40.721…» Io guardavo mio padre, madido di sudore, ma tenace. La signora Katten accarezzandomi i capelli ripeteva come un ritornello: «Che bravo babbo hai», e a me non pareva neppure di avere fame. Alle ventidue precise avvenne il primo colpo di scena. L’algebrista Pull scattò: «Un miliardo». Un “oh” di meraviglia coronò l’inattesa sortita; si restò tutti col fiato sospeso. Binacchi, un italiano, aggiunse issofatto: «Un miliardo di miliardi di miliardi». Nella sala scoppiò un applauso subito represso dal Presidente. Mio padre guardò intorno con superiorità, sorrise alla signora
Katten e cominciò: «Un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi…» La folla delirava: «Evviva, evviva». La signora Katten e io, stretti una all’altro, piangevamo dall’emozione. «… di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi…» Il presidente Maust, pallidissimo, mormorava a mio padre, tirandolo per le falde della palandrana: «Basta, basta, le farà male». Mio padre seguitava fieramente: «… di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi…» A poco a poco la sua voce si
smorzò, l’ultimo fievole «di miliardi» gli uscì dalle labbra come un sospiro, indi si abbatté sfinito sulla sedia. Gli spettatori in piedi lo acclamavano freneticamente. Il principe Ottone gli si avvicinò e stava per appuntargli una medaglia sul petto, quando Gianni Binacchi urlò: «Più uno!» La folla precipitatasi nell’emiciclo portò in trionfo Gianni Binacchi. Quando tornammo a casa, mia madre ci aspettava ansiosa alla porta. Pioveva. Il babbo, appena sceso dalla diligenza, le si gettò tra le braccia singhiozzando: «Se avessi detto “più due” avrei vinto io». Il racconto «La gara di matematica» che avete appena terminato, dalla raccolta Parliamo tanto di me di Cesare Zavattini (1931), costituisce
una metafora di questo libro, che avete appena iniziato. E che conta storie di numeri in maniera dapprima ordinata e consecutiva, e poi via via più disordinata e rapsodica, saltando dall’uno all’altro con balzi sempre più lunghi, nel vano tentativo di raggiungere l’infinito. A meno di non volerci imbarcare in un’impossibile impresa senza fine, non possiamo infatti dedicare la medesima attenzione a tutti i numeri. Anche se effettivamente ciascuno lo meriterebbe, in base a un paradossale teorema dimostrato da Constance Reid nell’esergo di Da zero a infinito (1955): I numeri sono tutti interessanti. Infatti, se ce
ne fossero alcuni “non interessanti”, tra questi ci sarebbe necessariamente il più
piccolo, e già soltanto per questa ragione quel
numero sarebbe molto interessante.
Anche senza scomodare la logica, basta comunque l’etimologia a dimostrare che tutti i numeri sono interessanti. L’aggettivo deriva infatti da inter esse, “stare nel mezzo”: da cui l’espressione “stato interessante”, per indicare il periodo fra il concepimento e il parto. Ora, i numeri interi stanno tutti tra lo zero (incluso) e l’infinito (escluso). Dunque, sono tutti interessanti per definizione. Sia come sia, noi ci accontenteremo di contare storie su una idiosincratica selezione di una cinquantina di numeri principali, partendo dalle piccole cifre del sistema decimale e raggiungendone di vertiginose. Molti altri comprimari faranno capolino qua e là, ma a un certo punto
abbandoneremo l’impresa per sfinimento, come i concorrenti di Zavattini.
A differenza del suo racconto, però, il nostro conto inizia non dall’1, ma dallo 0, che lui sembra essersi dimenticato. O forse l’aveva semplicemente rimosso, visto che nella sua raccolta Io sono il diavolo (1941) si trova un altro racconto, «Uno per zero», che ricorda un tipico episodio di difficoltà infantile con lo 0, appunto: Verso la fine dell’anno il maestro spiegò la moltiplicazione.
«Uno per zero uguale a zero.»
Il gesso stridette sulla lavagna facendo
fremere la lingua dei fanciulli e gli si spezzò fra le unghie. Un bambino guardò i compagni
che lo incitavano con gesti – avevano le gote rosse – e alzatosi disse: «Uguale a uno».
Il maestro rimase un minuto in silenzio
davanti al bambino intimorito. Ebbe la voglia di fare un balzo dalla cattedra ai banchi, di
mordere
gli
agnellini,
pencolando verso di loro.
ma
si
trattenne
«Uno per zero uguale a zero» gridò. Le sue
braccia toccarono il soffitto e l’ombra delle braccia percorse i muri, passò sui volti spauriti, uno si mise a piagnucolare.
Suonò la campanella, timidi i bambini si
disposero in fila secondo il solito e all’ordine del caposquadra segnarono il passo sollevando polvere
rossa
dall’impiantito
in
attesa
dell’avanti-march del maestro fermo a pugni chiusi con un gran dubbio in mente.
Ma basta segnare il passo, perché è ormai giunta l’ora del colpo di cannone che dichiara aperta la nostra personale “Gara di matematica”. Prima di metterci ai blocchi di partenza ci riscalderemo un po’ con qualche giro di pista, ripercorrendo diacronicamente i momenti salienti della storia dei numeri. E poi scatteremo in una
corsa sincronica verso numeri sempre più grandi, partendo dallo 0 e procedendo fino allo sfinimento, nostro e del lettore. Che vinca il migliore! Immagini: 103/6 di Ugo Nespolo; Silenzi dorati di Tobia Ravà.
Le albe del numero
Contare con le dita
Millenni fa il Libro dei morti egiziano domandò: «Puoi portarmi un uomo che non sappia contare con le dita?». Ma, domandiamo noi, che legame c’è, per i vivi, tra le dita
e i numeri? Mostrare un indice, o una mano, è forse la stessa cosa che mostrare il numero uno, o il numero cinque? E che differenza c’è fra i numeri uno e cinque, e le cifre 1 e 5? Nel 1960 il neurofisiologo Warren McCulloch domandò a sua volta: «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». Che legame c’è, dunque, fra numeri e uomini? Gli uomini hanno inventato i numeri dal nulla, o li hanno scoperti nell’esistente? E sono gli unici esseri viventi a intenderli, o anche altri li percepiscono? Nei millenni che separano i riti funebri egizi dalle ricerche neurofisiologiche moderne, domande come queste hanno stimolato e accompagnato lo
sviluppo della cultura umana. Ma il sorgere dei numeri ha preceduto di molto i faraoni e le piramidi: la loro alba risale infatti già alla preistoria, anche se essi hanno acquistato, o rivelato, la propria luce solo poco a poco, in tempi e luoghi diversi. Non c’è dubbio, comunque, che la nostra morfologia abbia portato le dita e le mani a rivestire un ruolo privilegiato nell’apprendimento dei numeri e delle operazioni aritmetiche. Non a caso, ancor oggi si usano espressioni come “contare a mano” e “calcolo digitale”. Quest’ultimo aggettivo deriva appunto da digitus, che in latino significa “dito”, mentre digit in inglese è passato a significare “cifra”.
Vari popoli hanno direttamente usato le dita per nominare i primi dieci numeri, chiamando ad esempio “pollice destro” l’uno, “indice destro” il due, eccetera. E a
volte la numerazione è proseguita con altre parti del corpo, come le mani, i piedi, le braccia e le gambe. Ed è continuata con varie articolazioni, come le nocche, i polsi, i gomiti, le ginocchia e le caviglie, arrivando fino agli occhi, le orecchie, il naso, le narici, i fianchi e i seni, in qualche ordine prestabilito, per arrivare a nominare numeri fino a qualche decina. Con le dita si può andare anche oltre. Anzitutto, utilizzando segni come quelli del linguaggio dei sordomuti per esprimere numeri anche grandi, dalle migliaia ai milioni. E poi, per fare calcoli anche complessi, come le moltiplicazioni, con una tecnica che si insegna e si usa ancor oggi in varie parti del mondo.*
L’antichità di queste rappresentazioni e tecniche è dimostrata da alcune pitture murali egizie, e da una gran quantità di tessere romane che mostrano da un lato posizioni della mano, e dall’altro il loro valore numerico in cifre. Ne accennano anche vari scrittori, ad esempio Quintiliano nelle Istituzioni oratorie: Dei numeri si fa spesso uso nel foro, e un avvocato
che
moltiplicazione,
si
o
inceppi
mostri
su
anche
una
solo
incertezza e goffaggine sulle dita, dà subito una pessima immagine del proprio talento.
Anche il gioco della morra è un residuo fossile del tempo in cui si contava con le dita. La leggenda vuole che a inventarlo sia stata Elena, per giocare con l’amante Paride. Sicuramente era popolare in Egitto, perché è stato raffigurato in
alcune tombe. E nell’antica Roma, per parlare di un uomo integerrimo, si diceva che si poteva «giocare alla morra con lui al buio». Le dita delle mani condussero in maniera naturale all’individuazione del sistema decimale, in cui si conta per dieci. E quelle delle mani e dei piedi al sistema vigesimale, in cui si conta per venti. Ma ci sono altri modi di usare le dita: ad esempio, se ci si serve del pollice per enumerare le falangi delle altre quattro dita di una mano, si arriva al sistema duodecimale, in cui si conta per dodici. E se si enumerano via via le dozzine sulle dita dell’altra mano, si arriva al sistema sessagesimale, in cui si conta per sessanta.
Viceversa, se si enumerano le dita su una mano e si tiene conto delle cinquine sull’altra mano si arriva naturalmente a un sistema quinario, in cui si conta per cinque: ne rimangono tracce nel nome greco penta, “mano” o “pugno”, per indicare appunto il cinque. Se invece si usano rigorosamente soltanto le dita, senza nessuna semplificazione, ci si limita a un sistema unario, in cui si conta per uno, che è il fondamento dei sistemi
additivi come quello originario dei Romani, con la sola cifra I a rappresentare un dito. Torneremo su ciascuno di questi sistemi numerici, che sono tutti stati usati da varie civiltà. E non dimenticheremo il sistema binario, meno naturale a prima vista, ma popolare oggi in informatica, e ancora molto diffuso fino a poco tempo fa tra i popoli “primitivi” come i Boscimani e i Pigmei africani, o in alcune tribù polinesiane, in cui si conta per due. Lo spunto, in questo caso, non viene dalle dita, ma dalle varie coppie di organi del corpo umano: mani, braccia, gambe, occhi, orecchi, narici, fianchi, seni… Immagini: Due uomini che giocano alla morra di
Pietro Barabino; sistema per contare con le dita
in un libro del 1727; pittura rupestre aborigena.
*
Per curiosità, volendo ad esempio moltiplicare
7 per 9, si sottrae 5 da entrambi i numeri,
ottenendo 2 e 4. Poi si tendono altrettante dita sulle due mani, lasciando le rimanenti 3 e 1 piegate. La somma delle dita tese dà le decine, cioè 6, e il prodotto delle dita piegate le unità, cioè 3. Il risultato è dunque 63.
Una taglia sui numeri L’UOMO DI CRO-
MAGNON
Il problema delle registrazioni dei numeri effettuate sulle dita è che
sono volatili, e si perdono non appena si aprono o si chiudono le mani. Presto o tardi gli uomini hanno dunque imparato a usare registrazioni più permanenti, diversificate secondo le disponibilità: tacche intagliate su ossi o bastoni, nodi annodati su cordicelle, grani o semi inanellati in rosari. I reperti archeologici mostrano che le tacche, che altro non sono se non stilizzazioni delle dita, si usavano già decine di migliaia di anni fa, all’epoca dell’uomo di CroMagnon: dunque, ben prima della scrittura e dell’agricoltura, che risalgono all’incirca a cinquemila e diecimila anni fa. A un certo punto si cominciò a capire che si poteva risparmiare sul numero delle tacche usandone di
tipo e di valore diversi. Nel caso delle tacche, poiché fino a quattro si riescono ancora a distinguere a occhio, ma poi si perde il conto, si cominciò a indicare la quinta facendo un segno obliquo sulle prime quattro, alla maniera dei carcerati che annotano sul muro i giorni di condanna che hanno già scontato. I Romani adattarono questo sistema di incisioni alla scrittura. La loro cifra I corrisponde infatti a una tacca verticale, e i numeri da uno a quattro si rappresentavano in origine con il corrispondente numero di tacche. Arrivati al cinque, invece di sbarrare quattro tacche verticali con una obliqua si risparmiò, e si usarono due tacche oblique collegate a V. Lo stesso si fece con il dieci, per il quale si
usarono le due tacche oblique incrociate a X. In realtà anche una sola tacca non verticale basterebbe per indicare il cinque, e infatti sia i Cinesi che i Maya ne usarono una orizzontale. Quanto ai numeri da uno a quattro, i primi li rappresentavano con altrettante tacche verticali, come i Romani, e i secondi con altrettanti pallini. Uno degli aspetti più sorprendenti del sistema di tacche è che si sia continuato a usarlo in mezzo mondo fino a tempi recentissimi, e non solo da parte dei pistoleri del Far West sul calcio della pistola! In Europa, ad esempio, ancora fino all’Ottocento le tacche sui bastoni venivano usate dai governi e dalle banche per registrare crediti
o debiti, dai funzionari pubblici per calcolare le date di eventi astronomici e sociali, dagli allevatori e dai pastori per contare le mandrie e i greggi, e dai fornitori e dagli acquirenti per enumerare le merci vendute o acquistate. Testimonianze fossili di queste usanze sono espressioni come “mettere una taglia” e computare, che significa “intagliare” (da cum, “insieme”, e putare, “potare”). In Inghilterra l’uso ufficiale del sistema finì in maniera tragicomica, raccontata nel 1855 da Charles Dickens in un discorso su La riforma amministrativa: Secoli fa fu introdotta nella Corte dello Scacchiere
una
forma
primordiale
di
contabilità, consistente nel far tacche su
bastoni di legno, alla maniera in cui Robinson Crusoe
teneva
aggiornato
il
proprio
calendario nella sua isola sperduta. […]
Bisognò attendere il 1826 perché quei
bastoni fossero aboliti! Nel 1834 ci si accorse che ne erano rimaste cataste, e ci si chiese cosa fare di quei legni consumati, mangiati
dai vermi e ammuffiti. Si presero appunti e si scambiarono lettere su questo importante argomento. I bastoni
furono ospitati
a
Westminster, e qualunque persona con un po’
di sale in zucca si sarebbe accorta che la soluzione migliore era di regalarli come legna da ardere ai poveri che vivevano nelle vicinanze.
Ma poiché non erano mai serviti a niente,
la burocrazia decise che continuassero a non servire a niente, e decretò che fossero
bruciati in privato. Lo si fece in una stufa della Camera dei Lord, che ingolfata dagli
stupidi bastoni diede fuoco ai pannelli che rivestivano le pareti. I pannelli diedero fuoco
alla Camera dei Lord. La Camera dei Lord diede fuoco alla Camera dei Comuni. Le due Camere
furono
ridotte
in
cenere.
Si
arruolarono architetti per costruirne altre. E la cosa ci è costata due milioni di sterline.
Immagini: tacche su ossi; bastoni intagliati da conto.
Lo snodo del nodo I PRIMI CINESI E GLI INCA
Concettualmente, registrare numeri mediante tacche su bastoni non è molto diverso dal farlo con nodi su cordicelle. Gli antichi Cinesi ritenevano che la scrittura a caratteri si fosse evoluta da un sistema di computazione e di
comunicazione chiamato sheng jie, “nodi”, che permetteva di modellare l’universo come una “rete celeste”. Il passaggio da un sistema all’altro veniva attribuito agli auspici del mitico Imperatore Giallo, vissuto tra il -2700 e il -2600, e tuttora considerato il fondatore della civiltà cinese. Più di due millenni dopo, ormai in tempi storici, il classico Tao Te Ching (LXXX) rimpiangerà la perdita del sistema dei nodi, auspicando un nostalgico ritorno ai bei tempi andati in cui lo si usava: La gente torni ad annodare corde, abbia di nuovo gusto per il cibo, ammirazione per i vestiti,
tranquillità nella propria casa,
felicità nelle proprie abitudini.
Un sistema analogo a quello cinese fu adottato attorno al 1500 della nostra era dagli Inca: i quali, per inciso, non solo non sapevano scrivere, ma non conoscevano neppure la ruota e non usavano animali da traino. Il sistema era costituito di quipu, “nodi”, annodati su cordicelle di vari colori raggruppate in matasse, che arrivavano fino ai duemila fili. Esattamente come per le tacche, i nodi avevano varie dimensioni e valori, e rappresentavano i numeri in un sistema decimale. Ma oltre che per la contabilità, i quipu servivano anche per la trasmissione dei messaggi. Il loro uso era gestito da appositi funzionari, chiamati quipucamayoc, “guardiani dei nodi”. Ed essi continuarono a essere usati dai pastori sudamericani fino a
tempi recenti, esattamente come le tacche da quelli europei e asiatici. Un retaggio degli antichi sistemi di computo e scrittura con i nodi sono i rosari, usati in varie religioni per contare le preghiere, le giaculatorie e altre litanie. A seconda dei culti essi tengono i conti di 50 Ave Maria, dei 99 nomi di Allah, delle 108 divinità induiste, o di 108 parole dagli altrettanti volumi del canone buddhista. A volte però i nodi veicolano anche altri significati. Ad esempio, quelli sulle frange che pendono dalle fasce per le preghiere mattutine degli Ebrei hanno valori numerici 26 e 39 che codificano, in base al sistema di corrispondenza con le lettere sul quale torneremo, il nome “Jahvé” e l’espressione
“Jahvé unico”.
Immagini:
quipu
inca;
musulmano e buddhista.
rosari
cristiano,
Si inizia a calcolare GLI ELAMITI E I
SUMERI
Un altro strumento di calcolo molto diffuso nell’antichità furono i sassolini o le conchiglie. Dapprima la loro quantità era pari al numero degli oggetti enumerati, e instaurava una corrispondenza biunivoca fra sassolini e oggetti.
L’importanza dei sassolini per l’evoluzione del concetto di numeri è testimoniata dalla persistenza della parola calcolo, che deriva dal diminutivo di calx, calcis, “calcinaccio” o “pietruzza”: un significato che si è preservato letteralmente per i calcoli renali o biliari, ma è ormai puramente metaforico per i calcoli numerici. E l’ambiguità esisteva già in greco, dove psephos significava allo stesso tempo “sasso” e “conto”, e psephos tithenai “posare una pietra” o “fare un conto”. Come per le tacche e i nodi, anche per i sassolini si è arrivati a usarne di forme e grandezze diverse, per rappresentare numeri diversi. Col tempo si è creato un sistema standardizzato di pietre d’argilla a forma di cilindri, coni e
sfere di varie dimensioni, che sono state rinvenute in molti siti archeologici mediorientali, dalla Turchia all’India. Le loro datazioni variano tra il IX e il II millennio prima della nostra era, ma si è notato che a partire dal IV millennio queste pietre venivano rinchiuse in contenitori di argilla, chiamati “bolle”. Le bolle fungevano da documenti di trasporto di prodotti o merci, e hanno dato il nome alle nostre “bolle di accompagnamento”. La loro funzione era registrare il numero degli oggetti trasportati, a fini di controllo. E una delle prime civiltà ad adottarle fu quella di Elam, “Terra di Dio”, sulla costa iraniana del Golfo Persico, a partire dalla rivoluzione urbana del IV millennio.
La stratigrafia della città di Susa, centro principale della civiltà elamita, ha permesso di ricostruire una storia che inizia verso il -3500, con la codifica del sistema di contabilità a pietre e bolle d’argilla che precedette l’invenzione della scrittura. Un paio di secoli dopo si inizia a incidere l’esterno delle bolle con disegni delle pietre che stanno all’interno, per evitare di dover rompere le bolle se non per necessità di controllo. Pochi decenni sono poi sufficienti per capire che i disegni svolgono la stessa funzione delle pietre che rappresentano, e verso il -3250 le pietre scompaiono e le bolle vengono rimpiazzate da pani d’argilla con iscrizioni, che costituiscono i prototipi delle cifre numeriche. Poco a poco i pani si
raffinano in tavolette, e al volgere del millennio ai lati delle cifre appaiono i prototipi del migliaio di lettere della variopinta scrittura proto-elamita, che sarà usata tra il -2900 e il -2500. A tutt’oggi essa rimane il più antico esempio di scrittura non ancora decifrata.
Questo percorso dal concreto all’astratto durò poco più di mezzo millennio, e vide gli Elamiti passare in rapida successione da una
rappresentazione numerica mediante pietre, a un suo supporto grafico costituito di disegni stilizzati delle pietre, a una rappresentazione autonoma mediante cifre, a un sistema di scrittura completo e in grado di rappresentare non solo le quantità e i numeri, ma anche gli oggetti che agli inizi ci si limitava a contare. I Sumeri usarono un sistema simile a quello degli Elamiti, più o meno contemporaneamente a loro. Percorsero tappe analoghe dal concreto all’astratto, approdando infine anch’essi alla scrittura su tavolette d’argilla. E andarono oltre, passando verso il -2700 da un sistema pittografico con migliaia di segni a uno fonetico cuneiforme con qualche decina.
Per quanto riguarda la notazione numerica, si era compreso presto che due tipi di pietre, o di cifre, non sono molto meglio di una, perché il secondo tipo si limita a comprimere il primo di un fattore costante. E lo stesso succede per un numero finito di tipi di pietre, o di cifre. Bisogna invece continuare la compressione all’infinito: del secondo tipo in un terzo, del terzo in un quarto, e così via, esattamente come facciamo noi con le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, eccetera. I Sumeri scelsero come fattore di compressione 60, invece del più ovvio 10. Essi introdussero, cioè, un sistema sessagesimale basato sul 60 e i suoi multipli, che venne poi mutuato dai Babilonesi, e che noi continuiamo a usare tuttora per le misure degli angoli e del tempo. Ad
esempio, l’angolo giro contiene 360 gradi, forse in analogia con l’osservazione che nel suo moto apparente il Sole “gira” attorno alla Terra in circa 360 giorni. E le ore contengono 60 minuti, così come i minuti contengono 60 secondi, per un totale di 3.600.
Questo sistema richiedeva di nominare tutti i numeri fino a 60. Per evitare troppi nomi diversi, si nominarono le unità decimali fino a 10, e le decine fino a 60, in maniera analoga alla nostra. Il che introdusse un sistema misto, in parte sessagesimale e in parte
decimale, che dava importanza non solo alle potenze di 60, come 3.600, ma anche ai loro multipli decimali, come 600 e 36.000. Le cifre sumeriche arcaiche, così come quelle elamite, erano direttamente mutuate dalle forme delle pietre d’argilla contenute nelle bolle. A permettere di determinarne i valori è stata una specie di stele di Rosetta, trovata agli inizi del Novecento a Nuzi, sul fiume Tigri. Si trattava, cioè, di una bolla sul cui involucro esterno era scritta in caratteri cuneiformi la lista degli oggetti corrispondenti alle pietre contenute nell’interno. Si è così scoperto che pietre e cifre corrispondevano ai seguenti numeri:
Una tavoletta sumerica trovata a Šuruppak, sul fiume Eufrate, e risalente al -2650 circa, costituisce invece la più antica testimonianza di un calcolo aritmetico non banale. Si tratta di una divisione, completa di dividendo, divisore, quoziente e resto, che oggi noi scriveremmo
Immagini: pietre d’argilla da conto; bolla
elamita; tavoletta babilonese; esempi di sistema sessagesimale: tavoletta circolare neoassira,
orologio, bussola.
La posizione missionaria I BABILONESI
Gli Elamiti e i Sumeri usavano un
sistema additivo analogo a quelli in seguito adottati dagli Egizi, i Greci, i Romani, gli Aztechi, e molti altri popoli dell’antichità. Tutti questi sistemi avevano alcuni vantaggi, perché richiedevano di usare soltanto le cifre di riferimento. Ad esempio, per scrivere 2.030 i Romani registravano la presenza di due migliaia M e tre decine X, senza doversi preoccupare dell’assenza delle centinaia C e delle unità I. E senza doversi nemmeno preoccupare dell’ordine, visto che qualunque permutazione di MMXXX era ammissibile, per la commutatività dell’addizione. I sistemi puramente additivi avevano però almeno due svantaggi. Da un lato, era necessario un simbolo diverso per
tutte le infinite potenze della base: ad esempio, X, C e M per 10, 100 e 1.000. Dall’altro lato, le rappresentazioni dei numeri potevano richiedere molte ripetizioni delle cifre: ad esempio, scrivere 9.999 ne richiedeva trentasei, e cioè nove per ciascuna lettera M, C, X e I. Una prima semplificazione la intuirono già i Sumeri, quando introdussero una notazione per il 10 nel sistema sessagesimale. Si potevano, cioè, usare altri simboli oltre a quelli per l’unità e le potenze della base: ad esempio, sempre nel caso dei Romani, V, L e D per 5, 50 e 500. In tal caso, scrivere 9.999 si riduceva a un’espressione con venti simboli.
Una semplificazione più radicale fu l’invenzione di sistemi misti, additivi e moltiplicativi allo stesso tempo. Ad esempio, nel sistema decimale tradizionale usato dai Cinesi ancor oggi, e vecchio di tremilacinquecento anni, ci sono simboli corrispondenti ai numeri da 1 a 9 per contare non solo le unità, ma anche il numero delle potenze della base, indicate con altri appositi simboli. In tal modo diventa possibile scrivere 9.999 con soli otto simboli, equivalenti a 9M9C9X9I nel sistema romano, con un notevole risparmio di notazione.
La numerazione orale che noi continuiamo tuttora a impiegare è di questo tipo, ed esprime il numero 9.999 nella forma novemila-novecento-novantanove, specificando appunto la quantità decimale delle migliaia, centinaia, decine e unità. Il suffisso “anta” per le decine deriva dal latino ginta: come in nonaginta, appunto. A questo punto rimaneva soltanto da compiere “un piccolo passo per i matematici, ma un passo da gigante per la matematica”, introducendo un sistema posizionale in cui la menzione dei simboli per le potenze della base fosse eliminata in favore della posizione della cifra
corrispondente, in un ordine crescente da destra a sinistra. Un’invenzione semplice ma geniale, che nel tempo evangelizzò il mondo intero. A questo sistema si arrivò probabilmente per gradi, visto che le tavolette della città sumera di Mari, distrutta verso il -1755 da Hammurabi, mostrano che i suoi abitanti scrivevano già i numeri fino a 1.000 in tale maniera, ma mantenevano ancora per quelli superiori il sistema sumerico. Furono infine i Babilonesi, più o meno in quel periodo, a estendere il proprio sistema misto, vecchio ormai di mezzo millennio, nel primo sistema posizionale completo della storia. Le potenze della base furono abbandonate, e i numeri da 1 a 59
vennero indicati con combinazioni di due soli simboli: un chiodo verticale per le unità, e un punzone orizzontale per le decine. Naturalmente, bisognava anche segnalare l’eventuale mancanza di una potenza della base: ad esempio, per distinguere tra numeri quali i nostri 2.300, 2.030, 2.003, 230, 203 e 23. I Babilonesi lasciarono semplicemente spazi vuoti nei posti appropriati, ma era facile far confusione nel riconoscere o meno l’esistenza di uno spazio vuoto, e nel distinguerlo da due o più. In tal caso doveva essere la natura del problema, o il contesto, a guidare verso l’interpretazione corretta.
Entro il secolo II anche i Cinesi arrivarono indipendentemente a un sistema posizionale chiamato suan zi, “calcolo a gettoni”, alternativo a quello misto tradizionale, e descritto nell’opera anonima Arte del calcolo in nove capitoli. Questo sistema evita in parte la confusione precedente con il trucco di rappresentare i numeri con bastoncini (di bambù, legno, avorio o giada) paralleli, che venivano alternati in posizione verticale per le unità, orizzontale
per le decine, verticale per le centinaia, orizzontale per le migliaia, eccetera. Ad esempio, 23 si scriveva =|||, e si poteva distinguere da 203, 230 e 2.030 perché questi ultimi si scrivevano || |||, || ≡ e = ≡. Ma non c’era modo di distinguere fra 23, 2.003 e 2.300, se non usando di nuovo degli spazi vuoti.
I Babilonesi arrivarono a comprendere la necessità di indicare non solo la presenza, ma anche l’assenza, di una potenza della base soltanto dopo la fine della conquista assira e la restaurazione
dell’impero: probabilmente tra le epoche di Nabucodonosor e dei Seleucidi, nel periodo tra il -600 e il -300. Essi indicarono il posto vuoto con un doppio chiodo inclinato ( ),
che derivava da un precedente simbolo usato nella scrittura cuneiforme per separare i testi dai commenti, o il passaggio da una lingua all’altra. E in tutte le tavolette cuneiformi conosciute lo si ritrova soltanto in posizione intermedia, fra altre cifre. Fu Tolomeo a introdurre nel secolo II come simbolo l’iniziale o di ouden, “vuoto”, e a cominciare a usarlo anche nella posizione terminale di un numero. Quanto ai Cinesi, la loro prima menzione di un simbolo per il posto vuoto nel sistema suan zi risale
soltanto al 1247, nel Trattato matematico in nove sezioni di Ch’in Chiu-Shao. Anche se l’abaco, sul quale torneremo, condusse in maniera naturale a un suo uso implicito nei calcoli. Immagini: il codice di Hammurabi; sistema decimale cinese; cifre babilonesi; sistema cinese a bastoncini.
L’occhio di Horus GLI EGIZI
Simultaneamente agli Elamiti e ai Sumeri, ma indipendentemente da
loro, gli Egizi svilupparono una scrittura e una matematica originali. In particolare, inventando dapprima un sistema pittografico di geroglifici, e trasformandolo poi in un sistema fonetico basato sul principio del rebus: cioè, sull’uso delle immagini per evocare non più gli oggetti rappresentati, ma i suoni dei loro nomi. Una delle prime testimonianze della scrittura e delle cifre egizie è la mazza di Narmer, che prende il nome dall’unificatore del Basso e dell’Alto Egitto, vissuto verso il -3000 circa. Le incisioni mostrano un bottino enumerato in “120.000 prigionieri, 400.000 tori e 1.422.000 capre”, in un sistema additivo decimale le cui cifre corrispondono ai seguenti numeri:
Da dove siano arrivati questi segni non si sa, anche se i primi tre assomigliano a una corda tesa, piegata o arrotolata, e il quarto sembra foneticamente collegato con la parola khaa, “corda”. Nella mazza di Narmer le cifre sono ancora affastellate un po’ a
casaccio, come permesso dal sistema additivo, ma nei secoli successivi verranno disposte in maniera più ordinata, come richiesto dal sistema posizionale, al quale comunque gli Egizi non arrivarono.
Benché il loro sistema di numerazione fosse decimale, gli Egizi trovarono un modo astuto per fare le moltiplicazioni e le divisioni riducendosi al sistema binario, dove basta saper raddoppiare o dimezzare i numeri. Il loro sistema
fu adottato dai Greci prima, e dagli Europei poi, fino a tutto il Medioevo. Ad esempio, per moltiplicare 89 per 23 essi costruivano anzitutto due serie parallele di numeri: da un lato, le potenze di 2 minori del primo numero, e dall’altro lato, i corrispondenti raddoppi del secondo numero.
Isolavano poi le potenze di 2 che, sommate fra loro, producevano il primo numero, ottenendo in tal modo la sua rappresentazione binaria. E consideravano infine i corrispondenti raddoppi del secondo numero, che sommati fra loro producevano il prodotto cercato. Infatti:
Quanto alle frazioni, invece di considerare rapporti tra numeri interi qualunque, come facciamo noi, gli Egizi li riducevano a somme di inversi di numeri interi: cioè, a somme di frazioni con il numeratore uguale a 1, che ancor oggi si chiamano appunto frazioni egizie. Ad esempio, invece di 63/64 scrivevano
Naturalmente, la loro notazione era diversa, e consisteva nell’indicare l’inverso di un numero ponendo il numero stesso sotto un simbolo a forma di bocca. Facevano eccezione soltanto poche frazioni di uso comune, come 1/2, 2/3 e 3/4,
che avevano dei segni speciali. E le frazioni della somma precedente, cioè gli inversi delle prime sei potenze di 2, che erano rappresentate con parti della figura chiamata occhio di Horus.
Quest’ultima era un’immagine stilizzata dell’occhio del dio-falco Horus, che lo zio Seth gli aveva cavato in combattimento e spezzato in sei parti. L’episodio era la scena finale di una telenovela che aveva visto Seth uccidere in precedenza il fratello Osiride, smembrarlo in quattordici pezzi e disperderli per
l’intero Egitto. La loro sorella Iside ne aveva poi ritrovati tredici, e li aveva riassemblati: solo il fallo era rimasto perduto nel Nilo, a fecondarne le acque. Il ricomposto Osiride era poi rinato come dio dei morti e dell’aldilà, e aveva potuto miracolosamente concepire con la sorella il figlio Horus, che l’avrebbe poi vendicato.
Immagini: mazza di Narmer; ricostruzione dei
disegni raffigurati sulla mazza di Narmer; numeri in geroglifici egizi; occhio di Horus; Iside, Osiride e Horus.
Alfabeti cifrati I GRECI E GLI
EBREI
L’abitudine di usare le lettere dell’alfabeto come cifre ci è familiare dalla notazione adottata dai Romani:
In realtà, in questo caso la corrispondenza è abbastanza fortuita. Le cifre romane erano infatti evoluzioni delle tacche di un primitivo sistema di intagli, e solo per caso assomigliavano a lettere dell’alfabeto latino. La cosa è evidente per le prime quattro, ma vale anche per la D, che assomigliava alla metà destra del cerchio sbarrato da una croce che in origine rappresentava il mille. Anche la M derivava, meno direttamente, dal cerchio sbarrato dalla croce, che in origine era fatta
a X. E la corrispondenza con la C era ancora meno diretta. Sicuramente, però, l’evoluzione finale dei simboli C e M nel secolo -I è stata guidata dal fatto che le due lettere fossero le iniziali di “cento” e “mille”. I Greci avevano invece adottato già molti secoli prima la convenzione di indicare sistematicamente un numero con l’iniziale maiuscola del nome corrispondente:
In realtà, in origine i vari stati greci usavano sistemi di corrispondenza diversi, che vennero uniformati sotto Pericle verso il -450. In particolare, la Π fu sostituita dalla Γ, che assomigliava
a una sua vecchia grafia. L’alfabeto inventato dai Fenici verso il -1200, e diffuso a macchia d’olio nel Mediterraneo nei secoli successivi, consisteva di ventidue lettere, che si sono conservate con gli stessi nomi e lo stesso ordine nella maggioranza degli alfabeti adottati e adattati dalle altre lingue. Questa persistenza offrì un riferimento più stabile e definito, ad esempio, dell’ordine delle parti del corpo, che in origine erano servite a enumerare le cose.
Non stupisce, dunque, che col tempo si sia arrivati a un sistema di numerazione le cui cifre sono semplicemente le lettere. I Greci incominciarono a usare l’alfabeto in maniera numerica poco dopo averlo unificato, verso il -400, mentre gli Ebrei tardarono a farlo fin verso il -100. Da principio entrambi i popoli
usarono semplicemente il proprio alfabeto com’era, rispettivamente a ventiquattro e ventidue lettere. Ma in seguito ne aggiunsero altre allo scopo, arrivando a ventisette. I Greci usarono tre lettere cadute in disuso, e divisero il tutto in tre gruppi: le prime nove lettere (α, β, γ…) per le unità, le seconde nove (ι, κ, λ…) per le decine, e le ultime nove (ρ, σ, τ…) per le centinaia. Ad esempio, 132 era indicato con ρλβ, e in modo analogo si potevano nominare direttamente i numeri fino a 999. Vari metodi furono poi proposti per proseguire oltre.
In questo genere di sistemi di numerazione la prima lettera dell’alfabeto corrisponde al numero uno, e diventa il simbolo dell’Uno. Non a caso, nell’Apocalisse Gesù viene identificato con l’Alpha e l’Omega, nel senso del Primo e dell’Ultimo. E nel racconto che dà il titolo alla raccolta L’Aleph di Jorge Luis Borges (1949), l’omonimo oggetto racchiude l’intero universo. L’identificazione delle lettere con le cifre istituisce un legame tra la scrittura e l’aritmetica. La cosa è
possibile anche senza l’uso di un sistema di numerazione alfabetico, semplicemente assegnando alle lettere il numero corrispondente al loro posto nell’ordine alfabetico, e alle parole la somma dei numeri corrispondenti alle lettere. Ma diventa particolarmente intrigante in presenza di un sistema di numerazione come quello greco o ebraico, in cui le parole si possono leggere come numeri, e i numeri come parole. I Greci svilupparono questo procedimento nella isopsephia, “a stesso conto”, in cui si scrivono parole o versi con lo stesso valore numerico. E gli Ebrei nella più generale gematria, “calcolo alfabetico”, in cui si interpretano i testi in base al loro valore numerico.
Un esempio della prima tecnica è l’identificazione di Jahvé con l’Uno e l’Amore, sulla base del fatto che in ebraico la somma dei valori numerici delle lettere del nome è uguale a quella dei due attributi, cioè 26. E un esempio della seconda tecnica è il fatto che 26 generazioni separano Adamo da Mosè, o che la differenza tra i valori numerici dei nomi di Adamo ed Eva è di nuovo 26. Il divertimento sta nel fatto che, poiché non si sa cosa significhino queste coincidenze, si può continuare a perder tempo parlandone all’infinito. La gematria ebbe grande successo nell’interpretazione talmudica dei testi sacri, nelle elucubrazioni cabalistiche e nel pensiero gnostico. E un esempio archetipico nella
nostra tradizione è la lettura simbolica del numero apocalittico 666, sul quale torneremo. Più seriamente, i raffinati gusti letterari degli Indiani li spinsero, in questo campo, alla ricerca di modi di lettura e di denominazione dei numeri che non sfigurassero nelle composizioni poetiche che la natura sacrale del sanscrito imponeva loro, anche in campo scientifico. Per raggiungere l’obiettivo, essi percorsero due strade complementari: una sintattica, e l’altra semantica. La prima, introdotta da Aryabhata verso il 510, e semplificata da Haridatta verso il 680, consisteva nell’assegnare alle consonanti dell’alfabeto sanscrito valori numerici fino a 9. Poiché le
consonanti sanscrite sono una trentina, ogni cifra corrisponde a più consonanti, ciascuna delle quali può a sua volta essere vocalizzata in una mezza dozzina di modi. Combinando le molte sillabe corrispondenti a ciascuna delle sue cifre, ogni numero ammette dunque una gran varietà di letture, alle quali si può attingere in base alle necessità ritmiche e poetiche del contesto in cui esso appare. La seconda strada, suggerita fin dal 628 da Brahmagupta, consisteva invece nell’associare ai numeri, e soprattutto a quelli più comuni, la maggior varietà possibile di sinonimi che li richiamassero per associazione, in modo da poterli utilizzare a seconda dei bisogni, per evitare ripetizioni o adattarli alla ritmica dei versi. Lo stesso
Brahmagupta suggeriva: «Se volete scrivere 1, esprimetelo per mezzo di qualunque cosa che sia unica, come la Terra o la Luna. Analogamente, esprimete 2 per mezzo di qualunque coppia, come il bianco e il nero. 3 per mezzo di qualunque terna, eccetera». Percorrendo sistematicamente entrambe le strade, i trattati di matematica e di astronomia indiana divennero in tal modo dei veri e propri poemi simbolici, composti in una variopinta ed enciclopedica terminologia attinta dagli ambiti più disparati, comprendenti la natura, la storia, la filosofia, la letteratura, la mitologia, le leggende e la religione.
Immagini: la Stele di Rosetta; iscrizione fenicia;
corrispondenza tra cifre e alfabeti greco ed ebraico;
melakarta
basata
numerologico katapayadi.
sul
sistema
I giocolieri del pallottoliere I CINESI
I sistemi numerici usati da popoli quali gli Elamiti, i Sumeri, i Babilonesi, gli Egizi, i Greci, gli Ebrei, i Romani e gli Inca permettevano di rappresentare i numeri, ma non di operare su di essi in maniera digitale: cioè,
manipolando le cifre con l’ausilio delle “tabelline”. Il che non significa, ovviamente, che quei popoli non sapessero fare le quattro operazioni: semplicemente, per poterle effettuare dovettero sviluppare tutti uno stesso metodo analogico, in versioni più o meno equivalenti. Si tratta del famoso abaco, che prende il nome dal fenicio abak, “polvere” o “sabbia”. Il suo prototipo era infatti semplicemente uno spazio per terra, o una tavoletta ricoperta di polvere o sabbia, su cui si potevano tracciare delle righe e delle colonne, e disporre dei sassolini. Le righe corrispondevano ai numeri coinvolti nelle operazioni. Le colonne, alle potenze della base del sistema: ad esempio, in quello decimale, le
unità, le decine, le centinaia, eccetera. E i sassolini, alle cifre. Lavorando a mano, la prevalenza dei destrimani spingeva a cominciare il lavoro sulla colonna più a destra, e a occupare gradualmente quelle verso sinistra. Rispetto al senso in cui noi leggiamo, i numeri venivano dunque rappresentati in ordine decrescente di valore. Questa inefficiente abitudine si è tramandata fino a oggi, benché ci impedisca di leggere direttamente un numero: prima bisogna contare le sue cifre, per sapere qual è l’ordine di grandezza della prima. Cosa che non succederebbe se i numeri fossero scritti in ordine crescente di valore: in tal caso, ad esempio, 999.9 si leggerebbe nove-novanta-novecento-
novemila. Quanto alle operazioni sull’abaco, si facevano come sui pallottolieri, sommando o sottraendo sassolini in una stessa colonna, con la convenzione che nel sistema decimale dieci sassolini su una colonna equivalevano a uno nella colonna adiacente a sinistra, e viceversa. E analogamente per i sistemi con altre basi. La sabbia e i sassolini costituiscono l’hardware del prototipo di abaco che abbiamo descritto, nato in Medio Oriente come diretta conseguenza della rappresentazione dei numeri con i “calcoli”. Nel Mediterraneo si produssero poi dei veri e propri mainframe, costituiti di tavolini di legno o metallo con
scacchiere incastonate, su cui si ponevano gettoni d’osso o di avorio. E anche dei portatili, con bottoni scorrevoli nelle scanalature di una tavoletta di metallo.
La versione più fortunata dell’abaco furono però le palline scorrevoli su aste che diedero vita al pallottoliere, caratteristico dell’Estremo Oriente in generale, e della Cina in particolare. La sua prima menzione è del secolo XIV, ed
è costituito di un telaio di legno (o, oggi, di plastica) con un numero variabile di aste, sulle quali scorrono palline dello stesso materiale. In teoria su ciascuna asta ce ne dovrebbero essere dieci, ma in pratica se ne usano sette, suddivise in cinque e due: le prime servono come unità, e le seconde come cinquine.
Sviluppando una buona manualità, il pallottoliere può diventare un mezzo di calcolo estremamente comodo e veloce, e
continua a essere tuttora usato in Estremo Oriente. Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Statunitensi cercarono di convincere i Giapponesi della superiorità delle calcolatrici meccaniche, ma in una competizione fra il miglior esperto locale di pallottoliere e il miglior esperto militare di calcolatrice, tenuta il 12 novembre 1946, il primo ebbe la meglio quattro volte su cinque. Da noi fu invece universalmente diffusa, e rimane popolare ancor oggi, una versione alternativa dell’abaco: la lavagna d’ardesia, sulla quale si scrive con il gesso. Da quando si capì che i sassolini si potevano rimpiazzare con dei segni, l’abaco poté infatti essere sostituito da operazioni scritte con vari
strumenti su svariati supporti permanenti: foglie, papiri, corteccia, tessuto, cuoio, legno, metallo… Agli inizi si imitava simbolicamente ciò che si faceva fisicamente sull’abaco, compresa la scrittura dei calcoli intermedi e la loro cancellazione. Con i primi strumenti di scrittura, come gli stiletti o i calami, quest’ultima era però soltanto indicata con un tratto sulle cifre da dimenticare, che ovviamente non scomparivano dal supporto. Le operazioni diventavano dunque difficili da rivedere, e non a caso rimasero a lungo riservate agli specialisti.
L’invenzione della scrittura con uno strumento cancellabile come il gesso fu dovuta agli Indiani, che
ancor oggi chiamano la matematica patiganita o ganitapati, mettendo insieme le due parole ganita, “calcolo”, e pati, “tavola” o “lavagna”. La prima testimonianza risale a circa il 1150 e si trova nella Lilavati, “La giocatrice”, in cui Bhaskaracharya riferisce più di una volta di «aver disegnato le cifre sulla pati con il gesso». Immagini: particolare di lapide romana in cui è raffigurato un abaco; abaco romano in bronzo; abaco cinese in legno; L’aritmetica nella scuola di carità di S.A. Rakinski di Nikolai BogdanovBelsky.
Lo zero, finalmente GLI INDIANI E I MAYA
L’abaco come mezzo di calcolo fu
superato dal sistema posizionale soltanto quando quest’ultimo fu dotato di un vero zero. Cioè, non soltanto di uno zero come quello dei Babilonesi, che può stare fra altri numeri a indicare la mancanza di una potenza della base. E neppure di uno zero come quello di Tolomeo, che può stare anche al fondo di un numero a indicare la mancanza di un’unità. Bensì di uno zero che può stare anche da solo, a indicare una quantità nulla. Detto altrimenti, lo zero come indicatore di un posto vuoto non è ancora un numero autonomo, alla pari con tutti gli altri: è solo l’analogo di un buco in un pieno, e non del vuoto o del nulla. Gli Indiani poterono arrivare a una concezione completa dello zero
perché usavano la matematica a fini di contabilità. Registravano dunque i “dare” e gli “avere”, e li distinguevano non con i nostri segni “meno” e “più”, ma mediante due colori: nero per i debiti, e rosso per i crediti. Nella trasmissione da Oriente a Occidente i colori si sono però invertiti, e oggi noi diciamo “andare in rosso” quando ci riferiamo ai bilanci in negativo, invece che in positivo. Da questo punto di vista contabile, lo zero corrisponde semplicemente al “pareggio”: cioè, alla mancanza di debiti e crediti.
Il primo sistema posizionale completo dello zero fu introdotto in India nei primi secoli della nostra era, anche se non sappiamo esattamente quando. Certamente entro il 458, anno in cui fu descritto nel trattato di cosmologia Lokavibhaga, “Le parti dell’Universo”. Ma sicuramente molto prima, visto che l’opera si
presenta come la registrazione in sanscrito di una “ininterrotta tradizione orale dei dottori giainisti”, che a sua volta derivava dagli Indiani. Nel manoscritto Bakhshali, ritrovato nell’omonima cittadina pachistana nel 1881 e considerato il più antico documento matematico indiano, lo zero viene indicato con un punto • ed è chiamato shunya, che significa “vuoto”, “assenza” o “nulla”. Dalla traduzione araba sifr deriva la parola “cifra”. E dalla successiva traduzione latina zephirum derivano le parole “zevero” o “zefiro”, che per contrazione divennero finalmente zero, usato per la prima volta nel 1491 da Filippo Calandri nell’Opuscolo di aritmetica.
Come si può però immaginare dalle abitudini indiane descritte in precedenza, oltre che con shunya lo zero veniva indicato con un’interminabile lista di nomi, che lo richiamavano a volte in maniera più o meno diretta, e altre per contrapposizione. Anzitutto, il punto (bindu) che lo rappresentava in origine, ma anche il buco (randhra), la volta celeste (gagana), il cielo (nabha), l’atmosfera
(ambara), lo spazio (kha), l’etere (akasha), l’infinito (ananta) e il tutto (purna). Su alcuni di questi concetti torneremo nel prossimo capitolo, quando racconteremo la storia dello zero. A un sistema analogo a quello indiano, con l’unica differenza dell’inusuale base 20 al posto dell’usuale base 10, arrivarono anche i Maya: forse addirittura prima degli Indiani, visto che la prima testimonianza storica in questo caso è una stele del Chiapas risalente al -36. Il sistema maya richiedeva venti cifre per i numeri da 0 a 19, ed essi ne inventarono due serie. La prima, prosaica e informale, usava soltanto ovvie combinazioni di tre simboli: una conchiglia chiamata xok,
“vuoto”, per lo zero, un punto • per l’uno, e una linea — per il cinque. La seconda, poetica e ufficiale, rappresentava invece le venti cifre con altrettante facce di divinità.
Nel sofisticato calendario maya l’anno (tun) era suddiviso in 18
mesi (uinal) di 20 giorni (kin) ciascuno, per un totale di 360 giorni annuali (più cinque giorni aggiuntivi senza nome). A ogni potenza della base corrispondevano cicli di anni: katun di 20, baktun di 400, piktun di 8.000, eccetera. E le date venivano indicate con le cifre corrispondenti, come nella piastra di Leida trovata in Guatemala nel 1864: 8 baktun, 14 katun, 3 tun, 1 uinal e 12 kin, equivalente al nostro 16 settembre 320.
Una volta introdotto come numero, lo zero divenne sia l’elemento neutro della somma e della sottrazione, sia l’annullatore del prodotto, e permise l’annichilazione dei numeri con i loro inversi, come
se essi fossero materia e antimateria. Le leggi che coinvolgono lo zero furono enunciate per la prima volta nel 628 da Brahmagupta nel Brahma Sphuta Siddhanta, “Rivisitazione della dottrina di Brahma”, e si riducono a queste note formule:
In particolare, 0 è divisibile per qualunque numero, e nessun altro numero è divisibile per 0. Lo stesso Brahmagupta usò però il termine khachheda, “diviso per lo spazio”, per indicare l’infinito, ed enunciò le note leggi:
Immagini: Target Zero di Marlene Cohen;
bilancia in pareggio; il libro di Filippo Calandri; i numeri maya; piastra di Leida.
Le cifre “arabe” GLI INDIANI E GLI ARABI
I sistemi posizionali richiedono l’uso di cifre per tutti i numeri minori della base, zero compreso, ma la particolare forma che esse prendono è puramente convenzionale: si possono infatti impiegare figure, lettere o segni arbitrari, a seconda delle preferenze. Per effettuare calcoli formali è però meglio svincolarsi da
notazioni che richiamino troppo da vicino il numero stesso, come quelle usate dai Babilonesi per i numeri da 1 a 59 (vedi p. 33). Noi abbiamo adottato e adattato un sistema inventato dagli Indiani nel secolo VI, mutuato dagli Arabi nell’VIII, e trasmesso tramite loro in Occidente nel X. Per questo gli Arabi parlano correttamente di “cifre indiane”, mentre noi le chiamiamo impropriamente “cifre arabe”. In realtà si può parlare di “cifre indiane” soltanto in un senso molto generico, riferendosi al fatto che l’idea di usare simboli astratti e comodi da tracciare per rappresentare i numeri da 0 a 9 è appunto dovuta agli Indiani. Ma non esiste un sistema
standardizzato usato in tutta l’India: anzi, nelle varie regioni si usano oggi, e si sono usati nel passato, sistemi molto diversi fra loro, più o meno derivati da un antenato comune e adattati alle scritture locali. Ancora più diversi sono poi i sistemi usati nel Sud-Est Asiatico e nell’Asia Centrale. Storicamente, le prime cifre registrate in India appartengono al sistema brahmi, “creato da Brahma”, che era ancora additivo: si trovano negli editti dell’imperatore Ashoka, sparsi su tutto il subcontinente indiano, e risalgono al -250 circa. È solo nei tre secoli successivi al 250 circa, in cui fiorì la dinastia Gupta e fu inventato lo zero, che il sistema divenne posizionale e nacquero le lettere e le cifre della scrittura nagari, “cittadina”, ufficialmente
adottata per il sanscrito prima, e l’hindi poi.
Una volta introdotte le cifre da 0 a 9, e imparata la relativa “tabellina” delle reciproche moltiplicazioni, il sistema posizionale divenne autonomo, e non fu più necessario usare l’abaco per calcolare. Brahmagupta sperimentò vari metodi per fare le moltiplicazioni e le divisioni, e trovò infine quelli che usiamo ancor oggi. Ad esempio, per moltiplicare 351 e 203 egli scriveva ormai:
Questo sistema si diffuse molto presto verso Occidente grazie ai commerci, alle missioni diplomatiche e all’interesse per l’astronomia indiana. Una delle prime testimonianze successive all’arrivo degli Arabi risale all’825 circa, e si trova nel Libro sul calcolo degli Indiani del persiano Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, che si apre con queste parole: Abbiamo deciso di esporre il modo di
calcolare degli Indiani con l’aiuto di nove cifre, insieme a una decima in forma di
cerchio. E di mostrare come, grazie alla loro semplicità e concisione, queste cifre possono esprimere tutti i numeri.
L’influenza di questo autore nella storia della matematica è testimoniata dalla parola “algoritmo”, tratta dal suo cognome. E anche dalla parola “algebra”, tratta invece dal termine al-jabr, “composizione”, usato nel
titolo del suo Trattato sul calcolo per composizione e scomposizione, dell’810 circa. Le cifre arabe odierne sono abbastanza differenti da quelle indiane originarie. In particolare, gli Arabi cambiarono l’orientamento a queste ultime: scrivevano infatti in verticale per motivi pratici, poiché appoggiavano il supporto sul vestito tirato sulle ginocchia, ma poi leggevano in orizzontale. Essi ridussero anche il cerchietto per lo zero a un punto, ritornando così alla cifra originaria indiana. In ogni caso, così come le cifre indiane non erano omogenee o uniformi, non lo furono nemmeno quelle arabe. Esse si separarono in varie famiglie, e quella che arrivò a noi è la versione degli arabi
occidentali del Maghreb e dell’Andalusia, basata su una somiglianza con le lettere dell’alfabeto arabo, un po’ come alcune nostre cifre assomigliano a lettere dell’alfabeto latino: ad esempio, 0, 1 e 2 a O, I e Z. La prima testimonianza di questo sistema è dell’874, ma il suo nome ghubar, “polvere”, rivela un’origine molto più antica, probabilmente romana.
Le cifre decimali ghubar vennero
introdotte in Europa da Gerberto di Aurillac, futuro papa Silvestro II, che ne era venuto a conoscenza in un suo soggiorno di studio giovanile in Spagna tra il 967 e il 970. Purtroppo dopo di allora le cifre furono adottate soltanto per semplificare l’abaco, scrivendole su gettoni numerati chiamati apices, “segnati sopra”. Il sistema decimale venne reintrodotto e divulgato nel 1202 da Leonardo da Pisa, detto Fibonacci (Figlio di Bonaccio), nel famoso Libro dell’abaco, non senza resistenze e scontri tra i fautori del vecchio abaco e della nuova notazione algebrica: una contrapposizione che si era già presentata anche nei paesi arabi, nei secoli successivi all’introduzione delle cifre indiane. Nel 1299 la città
di Firenze passò addirittura un’ordinanza che proibiva l’uso delle nuove cifre, perché esse erano più facilmente falsificabili di quelle romane: ad esempio, modificando 0 in 6 o 9. La polemica fra “abacisti” e “algoristi” durava ancora nel Cinquecento, come dimostrano le illustrazioni di La margherita filosofica di Gregor Reisch (1503) e Le basi dell’arte di Robert Recorde (1543). E ancora nel Settecento i funzionari del ministero delle Finanze britannico continuavano a usare per i loro conti gli abachi a gettoni, chiamati exchequers o checker boards: di qui il nome di Cancelliere dello Scacchiere per il ministro, che si è preservato fino ad oggi.
La standardizzazione delle cifre attuali avvenne, insieme a quella delle lettere, grazie alla
reinvenzione e alla diffusione della stampa in Europa. Il risultato attuale è un sistema che assomiglia molto poco, nei dettagli, a quello originario indo-arabo dal quale è stato derivato. In particolare, la cifra 0 ha varie possibili origini. Ad esempio, il cerchietto pieno • usato agli inizi dagli Indiani rappresentava non solo un punto, ma anche un sassolino da “calcolo”. Il cerchietto vuoto ° poteva dunque essere visto come l’impronta lasciata sulla sabbia dal sassolino rimosso, e una stilizzazione del vuoto: infatti, ancor oggi è la rappresentazione usata in preferenza dagli Indiani. Ma disegnare un cerchietto con la penna d’oca o il pennino richiedeva due tratti, che portarono in maniera naturale a un ovale verticale: il
quale, per buona misura, poteva anche richiamare l’uovo cosmico di molte mitologie. Quanto al simbolo ∞ per l’infinito, è stato introdotto nel 1655 da John Wallis. Ma gli Indiani associavano l’infinito all’ananta: il serpente dalle mille teste che, galleggiando sull’oceano dell’incoscienza, rappresenta l’immensità del tempo e dello spazio. Su di esso riposa sdraiato Vishnu, tra una creazione e l’altra, e la sua forma è appunto quella di una S o di un 8: simboli che, entrambi, sono stati usati nel tempo per indicare l’infinito. Il serpente che si mangia la coda, nella forma circolare dell’ouroboros, rappresenta invece lo zero, quasi a sottolineare il legame fra le due nozioni, apparentemente contraddittorie.
Per quanto riguarda i nomi, infine, quelli dei numeri piccoli si perdono nella notte dei tempi: in buona parte derivano dal sanscrito, con etimologie ormai dimenticate. I nomi dei grandi numeri, invece, sono relativamente recenti. Ad esempio, il milione per 1.000.000, inteso come “grande migliaio”, apparve per la prima volta in Italia, verso il 1315. I Romani lo chiamavano invece decies centena milia, “dieci centomigliaia”, perché non avevano nomi per numeri maggiori di
100.000. Meglio dei Greci, comunque, che arrivavano solo alla miriade per 10.000, e dunque parlavano di “cento miriadi”. Bilione e trilione sono ovvi multipli del milione, introdotti nel 1484 da Nicolas Chuquet nel Trittico sulla scienza dei numeri. Fu lo stesso Chuquet a introdurre la suddivisione delle cifre con i punti, benché a sestetti, invece che a terne come le nostre: per questo un bilione vale 1.000000.000000, e un trilione 1.000000.000000.000000. Chuquet introdusse anche la notazione esponenziale, scrivendo più leggibilmente i numeri precedenti come 1012 e 1018, in base alla loro quantità di zeri. Miliardo e triliardo, sempre di derivazione francese, sono invece meno ovvi multipli del mille. Il
primo indica infatti un “grandissimo migliaio”, cioè, 9 1.000000.000 o 10 , e il secondo 1.000000.000000.000 o 1015. Questa terminologia è adottata in tutta Europa, a parte l’Inghilterra, e nelle ex colonie di lingua spagnola o francese. In Inghilterra e nei paesi di lingua inglese, oltre che nei paesi arabi, nella ex Unione Sovietica e in Brasile, si usa invece bilione per il nostro miliardo, trilione per il nostro bilione, e così via. Cosa forse più regolare, che non richiede l’alternanza tra milione, miliardo, bilione, biliardo, eccetera. I paesi asiatici usano invece altre convenzioni, sulle quali non ci soffermeremo.
È giunta infatti l’ora di passare dall’approccio sintetico di questa introduzione, che ha seguito l’evolversi storico e geografico del concetto del numero in generale, all’approccio analitico, che soffermerà l’attenzione su alcuni numeri particolari: le unità anzitutto, e poi le decine, le centinaia, i milioni e i miliardi, per arrivare infine alle potenze e alle superpotenze di 10. Immagini: orologi con cifre hindi, arabe e
occidentali;
frammento
di
un
editto
dell’imperatore indiano Ashoka; statua di Al-
Khwarizmi; evoluzione delle cifre indo-arabe; La margherita filosofica di Gregor Reisch; Vishnu sul serpente Ananta; ouroboros.
Unità
Nulla nostro, che sei nel nulla O
Lo zero, primo elemento della lista dei numeri interi, è in realtà
l’ultimo arrivato sulla scena. Gli uomini avevano già effettuato difficili calcoli aritmetici, risolto complicate equazioni algebriche e dimostrato profondi teoremi geometrici per secoli e millenni, prima che gli Indiani e i Maya introducessero in matematica un analogo di concetti quali il nulla, l’assenza, il silenzio, il buio, il nonessere e il vuoto, che erano già stati considerati, più o meno timidamente, in altri campi. In letteratura, lo zero aveva fatto la sua prima apparizione nell’episodio dei Ciclopi dell’Odissea, quando Ulisse dichiarò a Polifemo di chiamarsi Nessuno. Molti altri personaggi in seguito ebbero nomi analoghi, dal capitano Nemo di
Jules Verne (1870) al Nowhere man dei Beatles (1965). E molti altri autori giocarono sul doppio senso omerico, non ultimo Lewis Carroll in Attraverso lo specchio (1871). “Nessuno” deriva etimologicamente da nec unus, “non uno”, nel senso di “neppure uno”. Ed è l’alter ego del “nulla”, che deriva analogamente da nec ullus, “non qualcuno”. Anche se oggi “nulla” è diventato sinonimo di “niente”, che deriva più propriamente da nec entem, “non qualcosa”. Il tema dei sinonimi “niente” e “nulla” è una costante di riferimento della letteratura tragica: dai classici greci, che lo subirono come amaro destino, ai romantici ottocenteschi, che lo corteggiarono con nostalgica malinconia. A casa
nostra il campione di questo atteggiamento fu Giacomo Leopardi, la cui opera abbonda di riferimenti al nulla come immagine della condizione umana e della realtà stessa. Se poi si passa alle metafore letterarie del nulla, il discorso si allarga. Una quasi scontata è l’assenza, e le opere che parlano di qualcuno, o qualcosa, che non c’è, o non arriva, abbondano: da Aspettando Godot di Samuel Beckett (1952) a La scomparsa di Georges Perec (1969). Altrettanto immediata è la metafora dell’ombra, che in molte storie si stacca dal rispettivo corpo e acquista vita propria, come per il Casella dantesco e Peter Pan.
C’è poi la metafora del buco, che ha vari archetipi naturali nell’essere umano. La bocca spalancata a voragine, ad esempio, che diede il nome al Caos nella Teogonia di Esiodo (-700 circa). O la vagina, che gli elisabettiani chiamavano in codice “nulla”: di qui l’ammiccante titolo Molto rumore per nulla di William Shakespeare (1599). Oggi poi i buchi sono addirittura diventati protagonisti di film, come Yellow Submarine (1968) o Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988).
Se assenze, ombre e buchi alludono più o meno indirettamente al nulla, la sua realizzazione letterale è il silenzio, a cui hanno incitato, parlando, i mistici di ogni tempo, da Lao Tze a Ludwig Wittgenstein. Il primo, col motto del Tao Te Ching (-600 circa): «Chi sa non parla, chi parla non sa». E il secondo, con la memorabile chiusura del Tractatus (1921): «Su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere».
Nella fantasia, La raccolta di silenzi del dottor Murke di Heinrich Böll (1958) narra di un redattore radiofonico che ha appunto l’abitudine di raccogliere silenzi. Nella realtà, si racconta che una volta venne detto a Jorge Luis Borges che fra la gente accorsa a rendergli omaggio c’era anche Italo Calvino, e lui rispose: «L’avevo riconosciuto dal silenzio». Prima di spirare nel silenzio assoluto, la letteratura spesso agonizza in quello relativo dell’opera inedita, incompiuta, o addirittura non realizzata. Grandi profeti, da Socrate a Cristo, hanno solo parlato, senza mai scrivere. E grandi scrittori, da Jorge Luis Borges a Stanislaw Lem, hanno recensito opere mai esistite. Completamente vuoto è poi il
Saggio sul silenzio di Elbert Hubbard (1905). Così come la monografia di Vick Knight sui Serpenti delle Hawaii (1972), che com’è noto non esistono. E il Libro del nulla della Harmony House (1974), che finì con l’essere denunciata per plagio da qualche vero serpente. Benché a primo ascolto la cosa possa apparire strana, anche nella musica il silenzio è fondamentale. Ogni spartito contiene delle pause, che corrispondono agli spazi babilonesi fra le cifre da un lato, e agli spazi fra le parole nella scrittura dall’altro: spazi che le lapidi romane ancora non registravano, in un flusso di lettere continuo analogo a quello delle parole nel parlato.
Il silenzio può anche iniziare un’opera, come la “pausa accentata” che precede il “bussare del destino” della Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven (1808). E la canzone The sound of silence di Simon e Garfunkel (1965) ricorda che anche il silenzio ha un proprio suono. Il primo a metterlo in musica è stato Alphonse Allais nella Marcia funebre (1897). La più nota composizione silente è invece 4’33” di John Cage (1952), articolata in tre movimenti di 30”, 2’23” e 1’40”: un silenzio di 273 secondi in tutto, che richiamano esplicitamente la temperatura di -273° dello zero assoluto.
Come il silenzio è l’assenza di suono, così il color nero è l’assenza di colore, e il buio l’assenza di luce. All’estremo opposto, come scoprì nel 1665 il giovane Isaac Newton nei suoi famosi esperimenti coi prismi, stanno il color bianco e la luce bianca, che contengono invece tutti i colori. Il ruolo della pausa musicale è preso nella pittura dalle porzioni
del colore di fondo del foglio o della tela su cui si dipinge, cantati da Vasilij Kandinskij nella poesia Vuoto (1913). E analoghi al silenzio sono i quadri non dipinti di Lucio Fontana, che alla mancanza di pittura uniscono anche buchi o tagli che rappresentano il vuoto.
Naturalmente, anche nell’arte esistono le opere inedite o incompiute. Ad esempio, le statue
solo abbozzate di Michelangelo o Auguste Rodin, dalla Pietà Rondanini (1552-1564) ad Adamo ed Eva (1905), si situano a metà del guado tra l’essere e il nulla. E in Jusep Torres Campalans (1958) Max Aub descrive (e riproduce!) le opere mai realizzate dall’omonimo artista mai esistito. In ogni caso, qualunque raffigurazione artistica è comunque un simulacro del nulla, perché anche se le immagini pretendono di rappresentare qualcosa, non per questo cessano di essere dei semplici segni su una tela, o incisioni nella pietra. Il concetto è stato memorabilmente espresso da René Magritte in Il tradimento delle immagini (1929), che mostra una pipa con la scritta “questa non è una pipa”. A indicare, da un lato,
che la scritta non è l’immagine. E, dall’altro, che l’immagine non è l’oggetto. Una delle più note metafore concettuali del nulla è il nichilismo: un termine inizialmente introdotto da Ivan Turgenev in Padri e figli (1862), per indicare quel radicale rifiuto dei valori stabiliti che caratterizza il conflitto generazionale. Detto dai padri, biologici o spirituali, “siete tutti nichilisti” significa dunque: “non rispettate nulla”. Sottointeso: “di ciò che rispettiamo noi”. Nell’Ottocento il nichilismo raggiunse la sua massima espressione artistica nei romanzi filosofici di Fëdor Dostoevskij, incarnandosi in personaggi quali
Raskolnikov di Delitto e castigo (1866), Stavrogin dei Demoni (1873), e Ivan dei Fratelli Karamazov (1879). Nel Novecento assunse poi varie metamorfosi, dalla “generazione perduta” di Gertrude Stein alla “gioventù bruciata” di James Dean. E culminò infine nella letteratura esistenzialista francese di metà secolo, da La nausea di Jean-Paul Sartre (1938) a Lo straniero di Albert Camus (1942).
Anche la filosofia ha una sua specifica versione di nichilismo, che consiste nell’affermazione di quel genere di nulla che è il non-essere. A farlo venire in essere fu Parmenide, che inventò nel secolo -VI uno dei primi paradossi della storia: quello secondo cui il non-essere non può essere niente, per sua natura, ma allo stesso tempo è qualcosa, cioè appunto il non-essere. Da questa natura contraddittoria Parmenide dedusse la non esistenza del nonessere. E dunque anche l’impossibilità del divenire, inteso come passaggio dal non-essere all’essere. Nonostante la buona volontà di Parmenide, però, nel secolo -V il sofista Gorgia propose, nell’opera Sul non-essere, un nichilismo radicale a tutti i livelli: della realtà,
della conoscenza e del linguaggio. E lo riassunse in un famoso motto tripartito: «Niente è. Se anche fosse, sarebbe incomprensibile. E se anche fosse comprensibile, sarebbe indicibile». Ma la posizione di Gorgia rimane minoritaria, perché nel secolo -IV Platone e Aristotele capirono che i discorsi sul non-essere non avevano nulla a che fare con la realtà ontologica, ed erano soltanto questioni linguistiche. Dopo di ciò, quei discorsi furono sostanzialmente messi a tacere per duemila anni, a parte le eccezioni mistiche sulle quali torneremo tra breve. A ricominciare a parlare di queste cose in filosofia fu Gottfried Leibniz, che nei Princìpi della natura e della grazia (1714) si pose l’astuta domanda: «Perché c’è qualcosa,
invece del nulla?». In seguito, più o meno negli stessi anni di Turgenev e Dostoevskij, Friedrich Nietzsche iniziò nel Crepuscolo degli idoli (1888) una rilettura della storia della filosofia post-kantiana. E la interpretò come una progressiva affermazione del nichilismo, nel senso della scoperta della mancanza di senso e del carattere caotico del mondo. Nel Novecento il nichilismo filosofico raggiunse infine la sua più alta espressione in opere quali Che cos’è la metafisica? di Martin Heidegger (1929), e L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre (1943). E a casa nostra Emanuele Severino ha proposto, nell’Essenza del nichilismo (1972), una lettura della storia della filosofia antitetica a quella di Nietzsche, imputando all’Occidente
l’accettazione del divenire temporale: dunque, del nulla da cui le cose vengono, e verso cui vanno. Dal nichilismo non è rimasta immune neppure la teologia, in due maniere antitetiche. La prima è l’ateismo, che positivamente afferma l’esistenza di “zero dèi”, e negativamente rifiuta l’esistenza di qualunque Dio. La seconda è la teologia negativa, che nel corso della storia ha oscillato fra due estremi, arrivando spesso a confonderli fra loro. Da un lato, c’era infatti la tentazione di identificare Dio con il completamente altro dall’universo, e dunque con il Nulla, inteso come assoluta negazione dell’essere. Dall’altro lato, c’era la simmetrica
tentazione di far coincidere Dio con la piena totalità dell’esistente, e dunque con il Tutto, inteso come completa affermazione dell’essere. In Oriente, la rappresentazione più coerente della visione che indica simultaneamente nel Nulla e nel Tutto l’essenza ultima dell’universo è il taoismo, che pur vedendo il Tao come l’essenza di tutte le cose, ritiene che esso si possa definire soltanto in maniera puramente negativa. Già nel secolo -VI il Tao Te Ching iniziava dicendo: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». E un paio di secoli dopo lo Chuang Tzu dichiarava: «Io sono amico di colui che sa che l’essere e il nulla, così come la morte e la vita, hanno la stessa origine».
In Occidente si dovette invece aspettare il secolo II per arrivare, con lo gnostico Basilide, a espressioni quali: «il Nulla-Dio creò dal Nulla il Nulla-Mondo». Questa dottrina divenne poi un tema classico del neoplatonismo nel secolo III, con le Enneadi di Plotino, la cui filosofia si può condensare nell’equazione “Nulla = Tutto”, e nell’individuazione di due specie di
nulla: una che sta al di sopra di ogni cosa, come forma immateriale, e l’altra che sta invece al di sotto, come materia informe. Da allora, i teologi si sbizzarrirono a interpretare in vari modi il legame fra Dio e il Nulla, non sempre in maniera ortodossa. Ad esempio, nel secolo IX Scoto Eriugena affermò nel dialogo Sulle nature: «il Nulla da cui Dio crea tutte le cose è Dio stesso». E nel secolo XIV Maestro Eckhart predicò nel Sermone 19 che Dio era «nulla di nulla». Infatti, poiché Dio è tutto, le cose sono nulla. E poiché Dio non è nessuna cosa, è la negazione del nulla: quindi, doppio nulla, appunto. Nel secolo XX la concezione nichilista della divinità ha infine preso le forme della teologia della
morte di Dio, così battezzata in una copertina della rivista «Time» nel 1966. Essa offre variazioni sull’aforisma di Nietzsche da La gaia scienza (1882): «Dio è morto». E la sua idea è che oggi Dio è oscurato, o silente, o assente, o mai esistito, ed è comunque inesprimibile, o senza senso.
Ma l’espressione più pregnante del nichilismo teologico si trova forse nella parafrasi del Padre
Nostro di Ernest Hemingway, in «Un posto pulito, illuminato bene», uno dei Quarantanove racconti (1938): Nulla nostro, che sei nel nulla, sia santificato il tuo nulla, venga il tuo nulla, sia fatto il tuo nulla, dovunque nel nulla.
Dacci oggi il nostro nulla quotidiano, e
rimetti a noi i nostri nulla, come noi li
rimettiamo agli altri nulla. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal nulla. Amen.
Nella fisica il nulla può essere inteso in due sensi complementari: negativamente, come assenza della materia, e positivamente, come presenza del vuoto. Simmetricamente, anche il vuoto può essere inteso in due sensi complementari: negativamente, come un luogo dove “non c’è nulla”, e positivamente, come un luogo
dove “c’è il nulla”. Naturalmente, non stiamo parlando di vuoto in senso psicologico e metaforico, come fanno molti classici orientali, identificando la vera essenza delle persone e delle cose nella shunyata, “vacuità”. Ad esempio, la Chandogya Upanishad induista, secondo la quale «il vuoto è gioia, e la gioia è vuoto». O il Sutra del cuore buddhista, in cui si legge che «il vuoto è forma, e la forma è vuoto». E non stiamo neppure parlando di un luogo che, pur non essendo assolutamente vuoto, lo è relativamente a ciò che uno si aspetterebbe di trovarci. Ad esempio, la camera funeraria della Grande Piramide di Cheope, che ha lasciato perplessi gli archeologi perché non sembra aver mai
contenuto mummie, statue o tesori. O il sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme, che stupì nel -63 Pompeo per lo stesso motivo. Stiamo invece parlando di uno spazio vuoto in cui non c’è effettivamente nulla. Un luogo anticipato da Democrito, Epicuro e Lucrezio come scenario dell’azione degli atomi e contenitore di tutte le cose. E scoperto da Evangelista Torricelli nel 1644, con il famoso esperimento della colonnina di mercurio. La fisica moderna ha però introdotto un concetto di vuoto energetico più generale, definito come lo stato di energia minima di un campo. La qualifica di “vuoto” è giustificata dal fatto che l’energia del campo gravitazionale è proporzionale alla massa, e dunque
in quel caso il vuoto energetico corrisponde effettivamente all’assenza di materia, ossia al vuoto materiale. Ma per campi diversi da quello gravitazionale non è così.
Nel vuoto quantistico, ad esempio, è vero che le particelle non esistono, ma soltanto in media, in un tempo sufficientemente lungo. In
ciascun singolo istante si formano invece continuamente coppie di particelle e antiparticelle, o addirittura di corpi e di “anticorpi”, benché queste coppie durino soltanto un tempo inversamente proporzionale alla loro massa. La moderna risposta della fisica all’antica domanda «Perché c’è qualcosa invece del nulla?» è dunque semplicemente che «il vuoto è instabile», e non rimane a lungo tale. Nel 1929 Paul Dirac immaginò il vuoto quantistico come costituito da un mare di elettroni, in tutti i possibili stati di energia negativa. Se uno di questi elettroni lascia il suo posto a causa di un aumento di energia, il buco da esso lasciato
viene percepito come un “antielettrone”, con la stessa massa dell’elettrone, ma carica opposta. Questa nuova particella, chiamata positrone, fu poi scoperta nel 1932, e viene oggi comunemente usata nella PET, “tomografia a emissione di positroni”. A questo proposito, come le correnti elettriche negative sono il risultato di elettroni liberi che si muovono in una direzione attraverso un conduttore, così i buchi di elettroni che si muovono in direzione opposta equivalgono a correnti elettriche positive. E già nel 1903 Osborne Reynolds aveva proposto Un’inversione di idee sulla struttura dell’universo. Cioè, invece di considerare la materia come “un pieno che si muove in un vuoto”, pensarla come “un vuoto che si
muove in un pieno”, in perfetto accordo con il nichilismo fisico che stiamo esaminando. Un fenomeno analogo si osserva nel paradosso acustico scoperto dallo psicologo del suono Michael Kubovy: se si fanno suonare tutte le note della scala su un organo, in una specie di “rumor bianco”, e poi gradualmente se ne toglie una per volta in ordine, si sente risuonare la scala in negativo sullo sfondo dell’accordo, in una versione acustica delle correnti elettriche positive. In parte il ritardo per l’introduzione dello zero in matematica è derivato dal rifiuto del non-essere e del vuoto nel pensiero filosofico e scientifico. Ma, una volta
introdotto, esso ha acquistato un’ovvia valenza simbolica che è poi stata sfruttata a fondo, letteralmente e metaforicamente. Basta pensare a espressioni come “zero via zero”, “zero assoluto”, “zero termico”, “grado zero”, “sotto zero”, “punto zero”, “tolleranza zero”, “ora zero”, “anno zero”, “crescita zero”, “opzione zero”, “probabilità zero”, “meridiano zero”, “zero in condotta”, “tiro ad alzo zero”, “gioco a somma zero”, “numero zero di una rivista”, “zero di un polinomio”, “energia di punto zero”. O ad azioni come “ripartire da zero”, “sparare a zero”, “radersi a zero”, “spaccare lo zero”, “azzerare un debito”. O a sensazioni quali “ridursi a zero”, “valere uno zero”, “essere uno zero a sinistra”, “sentirsi uno zero”.
Il più noto uso di quest’ultima metafora si trova forse nel Re Lear di Shakespeare (1606), quando il Buffone apostrofa il re ormai senza corona, dicendogli: «Ora sei uno zero senza valore. Io sono meglio di te: sono un buffone, ma tu non sei niente». E, in accordo con un’altra delle metafore che abbiamo citato, lo chiama «l’ombra di se stesso».
Nelle enumerazioni lo zero si usa come fine dei countdown: «Tre, due, uno, zero». Ma non come inizio del computo degli anni o dei numeri: eccetto che in canzoni per bambini come La casa di Sergio Endrigo (1969), che stava in «Via dei Matti
numero 0». A volte però uno zero ordinale può servire a evitare una rinumerazione di una lista ormai assodata, con l’introduzione di un “prequel zeresimo”. Come per il principio zero della termodinamica, secondo il quale due sistemi in equilibrio termico hanno la stessa temperatura. O per i capitoli zero e gli episodi zero che precedono il vero inizio di un libro o di una saga. Stranamente lo zero si coniuga con il plurale, come in “zero figli” o “zero premi”. E non si può rendere superlativo, se non per licenza poetica, come in “Tu”, da O beatrice di Giovanni Giudici (1972): Tu, zero zerissimo zero e uno per cento di me
che se schizzi dal cranio che t’imprigiona abolisci la mia parvente persona.
Se lo zero è la versione aritmetica del vuoto e del nulla, il punto ne è la versione geometrica a zero dimensioni, appunto. Non a caso, Euclide lo definì come «ciò che non ha parti», anche se poi negli Elementi costruì paradossalmente l’intera geometria a partire da questi evanescenti punti. Se un punto presente è un nulla geometrico, un punto mancante è un buco a zero dimensioni: dunque, una doppia immagine del nulla. E se l’infinito è l’opposto aritmetico dello zero, la continuità è l’opposto geometrico del buco: cioè, un ente completamente senza buchi. A questo proposito, una delle grandi scoperte dei Pitagorici fu che la retta razionale, che si ottiene ordinando le frazioni in ordine di
grandezza, è un vero colabrodo, perché a ogni numero irrazionale corrisponde un buco. Naturalmente, si possono “turare i buchi” irrazionali della retta razionale per ottenere la retta reale continua, come fece Richard Dedekind nel 1872. C’è anche un altro modo di considerare i buchi in geometria, che porta a una classificazione delle superfici chiuse nel più puro spirito taoista. Questo modo l’ha trovato August Möbius nel 1863, dimostrando che le superfici fatte di gomma si possono deformare, tirandole o gonfiandole senza romperle, in modo da farle diventare o una sfera senza buchi, o una ciambella con un buco, o un pretzel con due buchi, eccetera. In altre parole, la caratteristica
topologica di una superficie risiede nella struttura del vuoto che essa contiene, in forma di buchi. Oltre allo zero aritmetico e al punto geometrico, in matematica esiste anche l’insieme vuoto, che non contiene nessun elemento. Per analogia con lo 0 lo si indica con Ø, che non è però uno zero tagliato, ma una lettera dell’alfabeto norvegese: la scelse André Weil nel 1939, come ha raccontato lui stesso in Ricordi di apprendistato (1991). L’insieme vuoto è l’analogo di una scatola vuota, e una sua istantanea assomiglia alla mappa della Caccia allo Snark di Lewis Carroll (1876). Ma mentre di scatole vuote ce ne sono molte, perché nella vita il contenitore
conta, di insiemi vuoti ce n’è uno solo, perché in matematica conta solo il contenuto.
E come la geometria degli antichi è costruita a partire dai punti, così la teoria degli insiemi dei moderni si costruisce a partire dall’insieme vuoto. Essa si riduce dunque letteralmente a un edificio di pure forme, che si dissolve in ultima analisi nel nulla: una visione, questa, molto vicina alla shunyata buddhista, per la quale le cose non sono solo contenitori vuoti, ma sono vuote apparenze di contenitori. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l’essenza della cipolla pelandola, come nel Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867), o in Vestire gli ignudi di Pirandello (1922). O se si cerca l’essenza del carciofo sfogliandolo, come nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (1953).
Immagini: lo 0 di Erté; l’ombra di Peter Pan in una scena del film Disney; il mare di buchi di
Yellow Submarine; lo spartito della marcia funebre di Alphonse Allais; Concetto spaziale
#2 di Lucio Fontana; la locandina originale di
Gioventù bruciata; l’Enso, simbolo sacro del buddhismo zen, nell’opera dell’artista calligrafo Seiko Hirata; la copertina di «Time» con il titolo «Dio è morto?»; Vuoto quantico di Antony
Gormley; Zero di Robert Indiana; la mappa della Caccia allo Snark di Lewis Carroll.
L’Unità, organo del Partito Monista 1
L’uno, secondo elemento della lista dei numeri interi, è in realtà il
penultimo arrivato. E prima dell’invenzione o scoperta dello zero, era il primo elemento della lista, ma l’ultimo arrivato. La sua nascita risale al -250 circa, ed è dovuta al logico stoico Crisippo. Prima di allora i numeri interi venivano considerati come la “misura di una molteplicità”, mentre l’unità veniva percepita come il contrario di una molteplicità. In particolare, non come l’inizio della serie dei numeri, bensì come il loro arché, “principio” o “origine”. Una differenza sottolineata dal fatto che la moltiplicazione per uno non ha nessun effetto, diversamente dalla moltiplicazione per qualunque altro numero. Nella Metafisica Aristotele cercò di mediare fra le due posizioni,
distinguendo da un lato l’“unità di misura”, e dall’altro la “molteplicità del misurato”. Ma Crisippo capì che non c’era bisogno di mediazioni: bastava considerare l’unità come la misura di una molteplicità “degenere”, e dunque come un numero a tutti gli effetti. La mancanza del numero uno non aveva comunque impedito in precedenza agli uomini di considerarne degli analoghi nei campi più disparati, come già era successo per lo zero. Quegli zeri primordiali che sono il Nessuno e il Nulla ammettono sia negazioni come Qualcuno e Qualcosa, sia contrari come Tutti e Tutto. Benché queste distinzioni risalgano al trattato
Sull’interpretazione di Aristotele, i filosofi e i letterati tendono a ignorarle, e quando parlano dell’Uno finiscono spesso col fare una gran confusione. Infatti lo intendono a volte in maniera relativa, come unità o unicità di un “tutto unico”. E altre volte in maniera assoluta, come totalità del “tutto esistente”, all’insegna del motto “Uno per Tutto, e Tutto per Uno”. Se Qualcuno e Qualcosa vengono presi in un senso sufficientemente generico, possono comunque indicare qualunque persona e qualunque cosa, e dunque diventano i protagonisti di tutta la letteratura e di tutta l’arte. Ma a volte vengono intesi in un senso più specifico, come nella popolare e diffusa religione del qualcosismo,
basata sulla vaga e incerta credenza che “qualcosa ci dev’essere”, “qualcosa c’è”, o “qualcosa ci sarà”. E spesso il cerchio si chiude, quando quel “qualcosa” viene identificato con un “qualcuno”, che è il dio venerato nel qualcunismo. Una versione teologicamente più elaborata del “qualcunismo” è il monoteismo, che professa l’unicità della divinità, e spesso la chiama appunto Uno. La qualifica è però ambigua, perché può indicare, in senso assoluto, che “c’è un unico Dio”, e altri non ce ne sono. O, in senso relativo, che “c’è un unico vero Dio”, e tutti gli altri sono “falsi e bugiardi”. Il monoteismo è oggi largamente praticato in Occidente, ma ha
un’origine mediorientale. La sua invenzione si deve ad Akhenaton, “Servo di Aton”, che verso il -1350 sostituì il variopinto pantheon egizio, popolato da una schiera di creature mitologiche capitanate da una sorta di Giove chiamato Amon, con il culto di un unico principio vitale, identificato nel disco solare e chiamato Aton.
Qualche secolo dopo Mosè, o chi per esso, introdusse il monoteismo fra gli Ebrei. Il decalogo ebraico è però ambiguo al proposito, perché il primo comandamento recita testualmente: «Non avrai altri dèi di fronte a me», e sembra dunque incitare all’adorazione di un solo Dio, più che all’affermazione della sua unicità. Il Credo cristiano professa invece un monoteismo trinitario, in cui un unico Dio si presenta nella forma di tre persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo. Molti però ritengono il “monoteismo trinitario” un ossimoro, e lo considerano una forma di politeismo mascherato. Non tutti i Cristiani sono però d’accordo sul Credo: ad esempio, gli antichi Ariani e i moderni Unitari ritengono che il Figlio non sia Dio,
ma solo un mediatore tra il Padre e l’uomo. Viceversa, il politeismo è spesso il travestimento di un monoteismo, quando trascende le distinzioni tra i propri dèi. Ad esempio, nell’induismo Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente Creatore, Preservatore e Distruttore dell’universo, sono tre forme di un unico Brahman. Nell’antica religione egizia, Iside assommava tutte le divinità e veniva chiamata “colei che ha diecimila nomi”. E nella tarda religione greca, Apollo era una sorta di superdivinità dell’ecumenismo panellenico, dagli innumerevoli epiteti: in particolare, secondo L’E di Delfi di Plutarco, il suo stesso nome veniva interpretato come a-polloi, “non molti”, e dunque letteralmente “uno”.
In filosofia il monoteismo prende le forme del monismo, che afferma la vera realtà del solo Uno, in contrapposizione alla falsa apparenza della molteplicità. Ciò nonostante, e paradossalmente, di questo “Uno” ce ne sono molti, a seconda di come lo si declina. Ad esempio:
• Per il monismo materialista l’Uno è la materia, per il monismo idealista lo spirito, e per il monismo neutro qualcos’altro da specificare. • Per il monismo sostanziale l’Uno è una sostanza, ma per il monismo individuale è un individuo. Parola, questa, che significa letteralmente “indivisibile” o “inseparabile”: dunque, appunto, “uno”, come sottolinea l’inglese one-self per “se stessi”. •
Per il monismo assoluto l’Uno è tutto, ma per il monismo relativo è solo qualcosa: ovviamente sempre con l’articolo determinativo e la maiuscola, cioè quel particolare Qualcosa. In
Occidente
la
dottrina
che
“l’Uno è il Tutto” ha trovato i suoi primi profeti nella “Banda dei tre P greci”, ciascuno con il suo stile letterario: Parmenide nel poema Sulla natura, Platone nel dialogo Parmenide, e Plotino nei saggi delle Enneadi. A loro si è poi accodata una lunga lista di predicatori, dai neoplatonici rinascimentali agli idealisti tedeschi, che a seconda dei casi hanno chiamato l’Uno Anima Mundi, Monade delle Monadi, Spirito Assoluto, Essere, Materia, Energia, Natura, Universo… Come si può immaginare dalle vicende della teologia negativa, anche la dottrina che “l’Uno è il Nulla” ha avuto i suoi predicatori. Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato Edgar Allan Poe, che nel “poema in prosa” Eureka (1848) ha temporaneamente abbandonato i
racconti dell’orrore per dedicarsi a un saggio dello stesso genere. I risultati delle sue ricerche li ha riassunti lui stesso nel 1848, in una lettera a George Isbell: Io mostro che l’Unità è il Nulla. Tutta la materia, che origina dall’Unità, è originata dal
Nulla, nel senso che è stata creata. E tutta ritornerà all’Unità, cioè al Nulla.
Naturalmente, le due dottrine messe insieme riportano per transitività al nichilismo del “Tutto è Nulla”, che era appunto il succo della speculazione di Plotino. L’identificazione di Uno, Nulla e Tutto ha poi trovato una rappresentazione metaforica nell’Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello (1926), che la applica alla coscienza del protagonista: in un processo di graduale disfacimento, essa parte
dall’unicità e frammentazione, l’annullamento.
approda passando
alla per
È però in Oriente che il monismo ha permeato il pensiero filosofico e la pratica religiosa, spingendo verso la ricerca della vera essenza della realtà al di là delle false apparenze della maya, “illusione”. In questo caso l’Uno è stato variamente identificato con il Brahman, il Vuoto o il Tao, e la sua comprensione è divenuta lo scopo di tutta la speculazione induista, buddhista e taoista.
In pittura e in musica, le tele monocrome anticipate da Alphonse Allais alla fine dell’Ottocento e sfruttate da molti nel Novecento, da Kazimir Malevich a Yves Klein, così come le composizioni a un solo suono quali la Sinfonia monotona dello stesso Klein (1947), costituiscono altrettanti analoghi cromatici e acustici dell’unicità. Le unità cromatiche sono infatti costituite dai colori puri prodotti fisicamente dai prismi, e corrispondenti matematicamente a onde luminose perfettamente sinusoidali. Nel 1666 Isaac Newton mostrò che la luce bianca, passando attraverso un prisma, si decompone appunto in colori puri, che non vengono ulteriormente decomposti dal passaggio attraverso un secondo
prisma.
Le unità sonore sono invece costituite dai suoni puri prodotti
fisicamente dai diapason, e corrispondenti matematicamente a onde atmosferiche perfettamente sinusoidali. Nel 1807 Joseph Fourier mostrò teoricamente che tutti i suoni si possono ridurre a somme infinite di suoni puri. E nel 1860 Hermann von Helmholtz confermò praticamente che un’orchestra di diapason può riprodurre qualunque suono, dal canto di un soprano al frastuono di un uragano: cosa oggi resa popolare dai sintetizzatori elettronici. Esattamente come i numeri interi, anche i colori puri e i suoni puri sono in quantità infinita, perché infinite sono le possibili lunghezze, o le possibili frequenze, delle onde luminose o atmosferiche. Le riduzioni dei colori fondamentali a tre, o delle note della scala a sette o
dodici, sono dunque puramente convenzionali, anche se non arbitrarie (vedi pp. 166 e 235). In fisica, le unità individuali sono i quanti e le particelle elementari. In chimica, gli atomi e le molecole. In biologia, le cellule e gli individui delle varie specie. In astronomia, i vari corpi celesti: pianeti, comete, asteroidi e stelle. In cosmologia, i sistemi stellari e le galassie. Ma anche e soprattutto l’universo, che letteralmente significa “a senso unico”, e dunque dovrebbe essere uno solo per definizione, in una nuova versione della millenaria tensione fra Uno e Tutto. Oggi però la teoria dei pluriversi, anticipata da William James in Un universo pluralistico (1909), postula
l’esistenza di molti ossimorici “universi”, per ora soltanto ipotetici. In un’altra direzione, l’intero programma scientifico si può sintetizzare come il tentativo di spiegare in maniera unitaria una molteplicità sempre più vasta di fenomeni apparentemente diversi. La prima generica formulazione di questo programma risale al tentativo di Parmenide di ridurre all’immutabilità dell’essere il dinamismo del divenire. Ma in seguito se ne sono trovate espressioni più precise, dalle teorie unificate ai princìpi di conservazione. Tra le unificazioni più note e fondamentali possiamo ricordare l’elettromagnetismo di James Clerk Maxwell (1873), lo spazio-tempo e la massa-energia di Albert Einstein
(1905), la quantoelettrodinamica di Richard Feynman, Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga (1949), e la forza elettrodebole di Sheldon Glashow, Abdus Salam e Steven Weinberg (1967). Mancano ancora all’appello una grande unificazione, che metta insieme la forza elettrodebole con la forza nucleare forte, e una teoria del tutto, che completi l’opera unificando anche la gravitazione con esse. Quanto alle conservazioni, l’antico motto “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” era già una formulazione del principio di conservazione della massa, poi precisato da Antoine Lavoisier (1789). Sono poi seguiti princìpi di conservazione di ogni possibile quantità, dall’energia alla carica elettrica. E nel 1918 Emmy Noether
ha scoperto una nuova unificazione, tra le simmetrie delle leggi di un sistema e le conservazioni delle sue proprietà. In aritmetica, anche prima di venir considerato come un numero alla pari degli altri, l’1 è stato percepito come il loro principio generatore, e per estensione come un’immagine dell’Uno filosofico. Opportunamente ipostatizzato, esso venne dunque elevato alle rarefatte altezze descritte nel romanzo Archeologia dello zero da Alain Nadaud (1984): Nel corso delle sue sofisticate costruzioni
Pitagora si vedeva sempre riportato al primo dei numeri, che conteneva in potenza tutti gli
altri, e dava inizio all’infinita catena della numerazione. All’Uno indivisibile, e dunque
irriducibile a qualunque altra cosa diversa da sé: simile in questo, comunque, all’illimitata serie dei numeri interi che lo seguivano, e
che attraverso lo spazio facevano eco alla sua divinità.
Nell’Uno
l’origine
del
mondo
si
rammentava a se stessa: niente lo precedeva, e
tutto ciò che lo seguiva non era altro che il suo
valore
moltiplicato
all’infinito.
La
monade, primordiale ed eterna, s’identificava immediatamente con l’immagine stessa di questa totalità, che prendeva il nome di
Completamento, Perfezione, o addirittura Divinità: ciò al di qua e al di là del quale non si poteva pensare più niente.
Il nome “uno” ha però un significato più prosaico. Deriva infatti dal greco oinos, che indicava l’asso dei dadi: cioè la faccia con la rappresentazione del numero uno, appunto. Il nome “asso” deriva a sua volta dal latino assis, “asse”, che
indicava la moneta usata dai Romani come unità di riferimento: ne ritroveremo in seguito la sesta parte nei sestanti, e la dodicesima parte nelle once (vedi pp. 156 e 236).
Ancor oggi diciamo “un asso” per indicare “il numero uno”: sia nelle carte, sia in senso metaforico. E usiamo le espressioni “in fila per uno”, “ancora uno”, “uno di troppo”, “uno che sia uno”, “uno su mille”, “uno dei tanti”, “uno per tutti”, “pericolo numero uno”,
“nemico pubblico numero uno” e “formula uno”. Oltre a “caso unico”, “esemplare unico” e “senso unico”. E naturalmente fanno riferimento al numero uno le parole con il prefisso greco mono, “solo” o “isolato”. Oltre ai già citati monoteismo e monismo, anche monade, monogamia, monopolio, monologo, monotono, monotematico, monocultura, monolinguismo, monolocale, monoposto, monovolume, monouso, monoblocco, monocolo, monocromo, monocorde, monogramma, monorotaia e monoplano. Senza dimenticare i monomi e i monoidi della matematica, i monomeri e i monossidi della chimica, i monoliti della geologia, i monozigoti della biologia e le monocotiledoni della
botanica. In geometria, un esempio minimale della coincidenza di Tutto, Uno e Nulla è il punto, che preso da solo rappresenta un intero universo a sé stante, costituito di un unico elemento a zero dimensioni. Questa sua triplice natura è stata sintetizzata da Edwin Abbott nella «Puntolandia» del racconto Flatlandia (1884): Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo. Non può
concepire altri, fuor di se stesso. Non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza. Non ha cognizione
nemmeno del numero Due, né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo
Uno e il suo Tutto, essendo in realtà Niente.
Una diversa rappresentazione geometrica del numero uno è invece fornita dagli oggetti a una dimensione, come le rette e le curve, che costituiscono la più semplice realtà riducibile a un unico parametro: ad esempio, una sola coordinata, che misura la distanza da un punto di partenza fissato come origine. Per questa sua caratteristica, l’unidimensionalità è poi diventata la metafora di una situazione personale o sociale priva di ogni complessità, e ridotta a una pura coazione a ripetere. Così era intesa nel famoso saggio L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse (1964), che identificava nell’unidimensionalità del “produrre e consumare” il totalitarismo delle
società industriali avanzate, in cui l’unica cosa che conta è far soldi e spenderli. La teoria degli insiemi è la realizzazione matematica del motto degli Stati Uniti e pluribus unum, “uno da molti”: cioè, del processo di riduzione di una pluralità di elementi individuali all’unità di un insieme collettivo.
Gli insiemi contenitori si rappresentano mediante parentesi graffe, dentro le quali si pongono le rappresentazioni degli oggetti contenuti. Ad esempio, { } rappresenta l’unico insieme vuoto, che come sappiamo si indica anche con il simbolo Ø, e costituisce la
versione insiemistica del numero 0. E {a} rappresenta invece l’insieme contenente l’unico oggetto a, e costituisce un tipico insieme unitario, di cui ci sono tanti esempi quanti sono i possibili elementi. Ovviamente, un possibile elemento di un insieme è l’insieme vuoto stesso: {Ø} è dunque il più semplice insieme unitario, e costituisce la versione insiemistica del numero 1. In sintesi:
Dal punto di vista della teoria degli insiemi, la differenza tra lo 0 e l’1 sta dunque nel fatto che il primo è una scatola vuota, mentre il secondo è una scatola che contiene una scatola vuota. Più o meno la stessa differenza corre tra il non avere un conto in banca e l’avere
un conto in cui non si hanno soldi. Naturalmente, qualunque altro insieme con un unico elemento potrebbe essere convenzionalmente identificato con il numero 1. Ma qualcuno potrebbe obiettare che il numero 1 non è nessuno di quegli insiemi, così come non è il particolare dito di qualcuno, ed è invece ciò che tutti gli insiemi con un unico elemento hanno in comune. A definire il numero 1 come l’insieme di tutti gli insiemi con un unico elemento ci provarono Gottlob Frege nei Fondamenti dell’aritmetica (1884), e Bertrand Russell nei Princìpi della matematica (1903). Ma il loro approccio si rivelò non solo inutilmente complicato in teoria, ma anche impossibile da gestire in pratica, e
fu presto abbandonato in favore di quello appena visto, più semplice e più elegante, proposto da John von Neumann nel 1923. Immagini: l’1 di Erté; il faraone Akhenaton e il
dio Aton; la trimurti induista e la dea egizia Iside; Decalcomania
e Golconda
di
René
Magritte; due opere monocrome di Alphonse Allais: Raccolta di pomodori da parte di
cardinali apoplettici sulle rive del mar Rosso e
Manipolazione dell’ocra da parte di “cornuti” itterici; il dado e l’asse romano; il motto “e
pluribus unum” sulla moneta da 25 centesimi di dollaro statunitense.
Un altro paio di manicheismi 2
Il due ha condiviso con lo zero e
l’uno gli stessi problemi di “cittadinanza” che, a lungo, impedirono loro di appartenere a pieno diritto alla “società dei numeri”. Ancora nel secolo I della nostra era, come testimonia l’Introduzione all’aritmetica di Nicomaco, il due veniva considerato a sé stante, perché si può dividere solo in parti uguali. Tutti i numeri successivi, invece, si possono dividere in parti diseguali. Ma i dispari, come il tre e il cinque, solo in quelle. E i pari, come il quattro e il sei, anche in parti uguali. Il due non era dunque visto come un numero, pari o dispari che fosse, e veniva piuttosto considerato la diade fondamentale. E proprio il fatto che fosse divisibile solo in due parti unitarie permetteva di
prenderlo a simbolo di ogni dicotomia, o “bisezione” (da dicha, “in due”, e temno, “taglio”): non solo pari-dispari, ma anche femmina-maschio, imperfezioneperfezione, illimitato-limitato, malebene, tenebra-luce, eccetera. Alla base di ogni dicotomia sta una sorta di metadicotomia che le precede tutte, e alla quale esse stesse soggiacciono. A volte, infatti, i due corni del dilemma si possono interpretare come contrapposizioni, che si ergono l’una contro l’altra armata, e altre volte come complementarità, che costituiscono due facce di una stessa medaglia. Nella cultura occidentale spesso prevale la contrapposizione, che nel corso dei secoli ha appunto visto
opporsi, nei campi più disparati, ortodossi ed eretici, inquisitori e streghe, cattolici e protestanti, cristiani e islamici, europei e nativi americani, bianchi e neri, idealisti e materialisti, capitalisti e comunisti. E, ultimamente, l’Occidente e il resto del mondo, all’insegna del “noi contro tutti”. Nella cultura orientale prevale invece in genere la complementarità tra i poli, simboleggiati dalla yin femminile, intuitiva e passiva, e dallo yang maschile, razionale e attivo. La loro relazione è sintetizzata nel taijitu, “diagramma della realtà suprema”: un cerchio diviso in due metà, una nera e una bianca, che invece di essere nettamente separate da un confine rettilineo, si compenetrano a vicenda.
La dicotomia primordiale, che tutti riconoscono a pelle, anche senza essere allertati alle teorie di Darwin sull’evoluzione, o di Freud sulla sessualità, è quella tra maschio e femmina. La Coppia è un’immagine del due, così come Qualcuno o Qualcosa lo erano dell’uno, e Nessuno o Nulla dello zero. E i
racconti o resoconti sulla Coppia, in genere (ma non sempre) costituita da un Lui e una Lei, sono ubiqui in ogni tempo e luogo. Dietro ciascuna Coppia stanno innumerevoli e variopinte storie di passione, spesso oscillanti tra l’attrazione e la repulsione. Anche fra i corpi biologici animati, infatti, così come fra i corpi fisici inanimati, le forze attrattive a volte agiscono tra uguali, e altre volte tra opposti. Il primo caso è analogo alla forza gravitazionale, che attrae vicendevolmente tutti i corpi dotati di massa. Il secondo caso è analogo alla forza elettromagnetica, che attrae i corpi con cariche opposte, ma respinge quelli con cariche uguali. Il sapere popolare sintetizza questa dicotomia in detti di tenore
opposto. Da un lato, si dice che “Dio li fa e poi li accoppia”, o che birds of a feather flock together, “uccelli della stessa specie volano insieme”. Dall’altro lato, si parla dell’“attrazione degli opposti”. Ma spesso si dimentica che nella riproduzione sessuata, alla quale si ispirano o aspirano, consciamente o inconsciamente, una buona parte delle coppie, sono presenti entrambi gli aspetti: la procreazione avviene infatti tra membri della stessa specie, ma di sesso diverso. Maschio e femmina esclusi, la più concreta ed evidente dicotomia visibile a occhio nudo è quella speculare tra destra e sinistra, tipica di molti organismi viventi, uomo
compreso. Molti dei nostri organi sono infatti doppi, come le mani, le braccia, i piedi, le gambe, gli occhi, le orecchie, i polmoni e i reni, benché facciano eccezione organi come il cuore, il fegato, l’intestino e l’apparato sessuale.
Quanto al cervello, l’organo è uno solo, ma diviso in due emisferi,
con funzioni complementari e differenziate: sintetiche e intuitive a destra, e analitiche e razionali a sinistra. Questa lateralizzazione si ritrova anche nel sistema visivo, benché invertita: come avviene in genere per tutti i collegamenti dal corpo al cervello, l’emisfero sinistro riceve infatti informazioni dalla metà destra del campo visivo, e viceversa. I sistemi di scrittura, in parte inconsciamente, tengono conto di questa dicotomia. Gli ideogrammi sono stilizzazioni di immagini, e vengono percepiti globalmente: si scrivono dunque verticalmente, per tenerli al centro del campo visivo, e permettere una migliore visione foveale. Le scritture consonantiche e alfabetiche sono invece sequenze di lettere, e vengono percepite
localmente: si scrivono dunque orizzontalmente, allineate agli occhi, per permettere un loro scorrimento visivo. Ovviamente, ai due principali sistemi di scrittura corrisponde tutta una serie di dicotomie più o meno vagamente collegate: immagini o lettere, fumetti o testi, parabole o argomenti, poesia o prosa, mezzi freddi o mezzi caldi, interattività o passività. Dicotomie che ispirarono la contrapposizione fra gli dèi egizi Ptah e Thot, rispettivamente patrono degli artigiani e protettore della scrittura. E anche quella fra gli dèi greci Dioniso e Apollo, rispettivamente simboli della follia e della razionalità.
Oltre che in senso letterale, “destra” e “sinistra” vengono spesso anche intese in senso figurato. A partire dalla politica, dove l’uso deriva dalla posizione che presero nel parlamento francese del 1792 i girondini conservatori e i montagnardi progressisti. Da molto prima, però, la destra e la sinistra sono state associate al positivo o negativo. Nel francese droit e nell’inglese right, “destro” significa diritto, giusto, retto, corretto. Viceversa,
come in gauche e sinister, “sinistro” significa maldestro, mancino, pauroso, beffardo: in italiano, indica persino l’incidente automobilistico. A loro volta, l’inglese left e il latino laevus derivano dal greco laios, “sinistro”, che nella mitologia greca ha dato il nome al re Laio, padre di Edipo. Nella mitologia mediorientale, Giacobbe chiamò il suo ultimo figlio Benyamin, “figlio che sta a destra”, nel senso di “prediletto”, da cui il significato di “beniamino”. Nel Giudizio Universale i giusti siederanno alla destra del Padre, e i dannati alla sua sinistra. E con la destra si fanno il segno della croce e i giuramenti.
Dal canto loro, “positivo” deriva da positus, “posto”, e indica ciò che è fondato, saldo e stabile, mentre “negativo” è la sua negazione. È solo in seguito che i due termini sono entrati a far parte del linguaggio matematico e scientifico, acquistando l’associazione con i segni più e meno: ad esempio, per i numeri o le cariche elettriche. Non a caso, nella rappresentazione
cartesiana i numeri positivi stanno a destra, e quelli negativi a sinistra. Ancora più radicale della dicotomia speculare tra destra e sinistra è quella unidirezionale dal passato al futuro, e dunque dall’inizio alla fine, dalla giovinezza alla vecchiaia, dalla nascita alla morte. A una loro inversione accenna la fine dell’ultimo dei Quattro quartetti di Thomas Eliot (1942): What we call the beginning is often the end
And to make an end is to make a beginning. The end is where we start from.
Ciò che chiamiamo l’inizio è spesso la fine e arrivare a una fine è partire da un inizio. La fine è da dove incominciamo.
Alcuni scrittori, da Philip Dick in In senso inverso (1967) a Martin
Amis in La freccia del tempo (1991), hanno provato a immaginare nei loro romanzi come sarebbe un mondo in cui il tempo scorre a ritroso, e la vita va dalla bara alla culla. E alcuni registi, da Christopher Nolan in Memento (2000) a Gaspar Noé in Irréversible (2002), hanno narrato al contrario le loro storie.
Ma nessuno di questi tentativi può essere veramente radicale,
perché nel mondo macroscopico la direzione dal passato al futuro è la stessa che va dall’ordine al disordine: solo in un film proiettato al contrario, dunque, una tazza a pezzi sul pavimento può ricomporsi e saltare sul tavolo, invece che cadere e rompersi. In altre parole, è immediato distinguere il mondo macroscopico orario da quello antiorario. A livello microscopico, invece, un mondo invertito temporalmente non violerebbe nessuna legge gravitazionale, elettromagnetica o nucleare forte. Ma nel 1964 James Cronin e Val Fitch scoprirono che le leggi nucleari deboli, responsabili del decadimento radioattivo, permettono di distinguere il mondo reale da quello temporalmente invertito. Naturalmente la loro
scoperta fece scalpore, e valse loro il premio Nobel per la fisica del 1980. Passando alle dicotomie astratte, la più nota e antica è probabilmente quella tra bene e male, che la religione ipostatizza nelle due immagini di Dio e del Diavolo. Quest’ultimo è addirittura il responsabile istituzionale delle dicotomie di ogni genere: il suo nome deriva infatti da diabolé, che significa appunto “divisione” o “disunione”. La sua prima apparizione storica il Diavolo la fa nell’Avesta, un poema persiano attribuito al profeta chiamato Zoroastro o Zarathustra, dal quale attinsero tutte le successive religioni
mediorientali. Nel poema si fronteggiano Spenta Mainyu, lo Spirito del Bene, e Angra Mainyu, lo Spirito del Male, ma non è ben chiaro se Ahura Mazda, il Creatore, coincidesse col primo, o fosse invece all’origine di entrambi. Cioè, non è chiaro se la religione originale di Zoroastro-Zarathustra fosse un monoteismo o un biteismo.
L’ebraismo ha mutuato dall’Avesta
la figura del Diavolo, che nel Genesi prende le forme del serpente e convince Adamo ed Eva a mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, appunto, che Dio aveva invece loro proibito. Ma mentre nell’Antico Testamento la presenza del Diavolo rimane secondaria, nel Nuovo Testamento il suo ruolo diventa prominente, ed esso viene spesso evocato ed esorcizzato da Gesù.
I primi a porre esplicitamente due princìpi contrapposti a fondamento di una visione dualista del mondo furono gli Gnostici, “conoscitori”, da un lato, e i Manichei, “seguaci di Mani”, dall’altro, entrambi nei
primi secoli della nostra era. Dopo la conversione di Agostino dal manicheismo al cristianesimo, il dualismo divenne un’eresia. Fu rivitalizzato dai Catari, “puri”, o Albigesi, “incentrati ad Albi”, che vennero per questo sterminati nel secolo XIII da un’apposita crociata prima, e dall’Inquisizione poi. La più importante dicotomia teoretica è quella tra sì e no, o tra vero e falso, enunciata dal principio di non contraddizione: «non si può allo stesso tempo affermare e negare una stessa proposizione». Naturalmente i politici, i filosofi e i preti di ogni tempo e luogo hanno avuto problemi a recepire e praticare quest’apparente banalità logica. Più sorprendentemente, agli
albori del pensiero ci furono gravi difficoltà anche solo a capirla! Le ebbero i Sofisti occidentali, i cui supposti equilibrismi verbali tradiscono un’insufficiente comprensione della negazione. E le ebbero i Taoisti orientali, come dimostra questa citazione dal capitolo dello Chuang Tzu intitolato «L’uguaglianza di tutte le cose»: Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che
vi debba essere distinzione fra il vero e il falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al
punto che vi debba essere distinzione fra l’affermazione e la negazione?
I primi riferimenti conosciuti al principio di non contraddizione si trovano in Platone. Aristotele dedicò l’intero libro IV della Metafisica alla discussione dell’argomento, e stabilì i due
fondamentali e complementari princìpi di “non contraddizione” e del “terzo escluso”. Per il primo, un’affermazione e la sua negazione non possono essere entrambe vere. E per il secondo, una delle due dev’essere vera, e l’altra falsa. Ma, benché la logica classica abbia completamente assimilato il principio di non contraddizione, una sua negazione nella forma della coincidenza degli opposti ha giocato un ruolo importante in varie filosofie: della religione in Cusano, della storia in Hegel, della politica in Marx, della natura in Engels, e del (bis)pensiero in Orwell. Un frammento del secolo -V di Filolao, secondo cui «i numeri sono di due tipi, pari o dispari», è la più
antica testimonianza di questa dicotomia pitagorica. E furono già i Pitagorici a scoprire le loro prime proprietà aritmetiche: •
Un numero è pari o dispari, a seconda che la sua ultima cifra sia pari o dispari.
• Una somma è pari se gli addendi sono entrambi pari, o entrambi dispari. Ed è dispari se uno degli addendi è pari, e l’altro dispari. • Un prodotto è pari se almeno uno dei fattori è pari. Ed è dispari se entrambi i fattori sono dispari. Oggi i bambini giocano a “pari e dispari”. Per gli adulti c’è il gioco, leggermente più sofisticato, descritto nella Lettera rubata da Edgar Allan Poe (1845): a turno, un
giocatore prende alcune palline in mano, e l’altro ne vince una se indovina se sono pari o dispari, e ne perde una altrimenti. Si tratta di un tipico gioco “squilibrato”, nel senso che si può sempre recriminare sulla mossa che si è giocata. Il miglior comportamento è dunque, come suggeriva Poe, “giocare senza ragionare”. Oppure, lasciare che sia una moneta a decidere se giocare pari o dispari. Giochi a parte, le applicazioni della dicotomia pari-dispari sono innumerevoli e ubique. Nell’urbanistica, in Italia le case hanno un numero civico pari da un lato della via, e dispari dall’altro. Negli Stati Uniti le autostrade hanno un numero pari in direzione EstOvest, e dispari in direzione NordSud. Nel trasporto aereo, il numero
di un volo è pari in una direzione Est-Ovest, o Nord-Sud, e dispari in quella contraria.
Negli scacchi, la somma delle coordinate di una casella è pari o dispari a seconda del colore nero o bianco, e gli alfieri si muovono conservando la parità, mentre i cavalli la invertono. In musica, la frequenza delle armoniche emesse da canne chiuse da un lato, come nel clarinetto, è un multiplo dispari di quella fondamentale, mentre nelle canne aperte da entrambi i lati, come nell’organo, è un multiplo pari.
In algebra, una permutazione è pari se si ottiene con un numero pari di scambi di elementi, come avviene nel gioco del cubo di Rubik. In informatica, la parità o meno del numero di cifre 1 nelle sequenze binarie permette di effettuare un semplice controllo di correttezza nella loro trasmissione. In fisica, un nucleo atomico è altamente stabile se ha un numero pari sia di protoni che di neutroni, poco stabile se ha un numero pari di protoni e un numero dispari di neutroni, o viceversa, e altamente instabile se ha un numero dispari sia di protoni che di neutroni. Dopo aver accennato a varie dualità, come esempi della diade universale, è ora di affrontare
direttamente il due, come numero. Anzitutto, la cifra 2 che lo rappresenta è derivata dal processo di scrivere, senza alzare la penna, due trattini paralleli: orizzontali, come usavano gli antichi Brahmini e usano ancora i Cinesi moderni, o obliqui, come presero a fare i Gupta a partire dal secolo V. Quanto al nome, già in sanscrito il due si chiamava dva, e in greco e latino duo. Di qui la radice usata in innumerevoli contrapposizioni, come duale, duetto, duello, dubbio, duplice, duopolio, eccetera. Lo stesso vale per la sua derivata dis, come in discordia, divisione, dicotomia, dilemma, diploma, dimorfismo, dittongo, diarchia, dieresi, eccetera. Idem per l’ulteriore derivata bis, come in bilancia, bivio,
biforcazione, binomio, binario, bipartizione, bisezione, bifido, bipolare, bimestre, biennio, bipede, bicipite, bisessuale, bigamo, bilingue, bisavolo, biscotto, bicicletta, binocolo, bicamerale, bilaterale, eccetera. In direzione opposta, l’ubiquità delle dicotomie ha portato alla formazione di una varietà di sinonimi per il due, come coppia, paio e doppietta. Ma in questo campo noi siamo solo timidi imitatori degli Indiani, che usavano più liberamente anche i nomi di organi simmetrici, come gli occhi o le braccia. O di corpi celesti, come il Sole e la Luna. O di divinità come Yama e Yami, versioni indù di Adamo ed Eva (vedi pagina seguente).
I sinonimi del due sono una testimonianza della persistenza della sua concezione come diade fondamentale, invece che come numero alla pari degli altri. Un’altra testimonianza è il plurale
duale, che in molte lingue (come il sanscrito e il greco antichi, o l’arabo e lo sloveno moderni) viene specificamente usato per indicare due oggetti, come caso intermedio tra il singolare per uno, e il plurale per più di due. In italiano ne rimane una debole traccia nell’uso di “ambo” al posto di “due”. Dal punto di vista moltiplicativo, il 2 non è divisibile per nessun altro numero: eccetto l’unità, ovviamente, che divide banalmente qualunque numero. I numeri divisibili solo per se stessi e per l’unità si chiamano numeri primi, e costituiscono i mattoni o gli atomi dell’aritmetica. Un numero primo di pallini ammette un’unica disposizione ordinata, quella
lineare, mentre un numero non primo ammette anche una o più disposizioni rettangolari.
Se un numero non è primo, dev’essere divisibile per qualche numero diverso da 1. Una volta diviso, se uno dei due fattori non è primo, dev’essere divisibile per qualche numero diverso da 1, e così via. E poiché i vari fattori sono diversi da 1, a ogni passo quelli non primi diventano sempre più piccoli, e prima o poi rimangono solo quelli primi. In altre parole, ogni numero è scomponibile in fattori primi. Una delle grandi scoperte dei Greci fu che la scomposizione in
fattori primi è unica. Il motivo sta nel fatto che se un numero primo divide un prodotto, deve dividere uno dei fattori. Date allora due scomposizioni di uno stesso numero, ciascun fattore primo di una divide un fattore primo dell’altra, e dunque i due fattori sono uguali fra loro. Cioè, le due scomposizioni hanno esattamente gli stessi fattori. Perché la cosa abbia senso, bisogna però che i fattori siano appunto diversi da 1: se no, un numero si potrebbe scomporre in modi che differiscono solo per il numero di 1 presenti. Dunque, per definizione, 1 non è un numero primo, e 2 è il più piccolo numero primo. Nella geometria piana, due punti
individuano un segmento e una retta. Due rette incidenti individuano un angolo. Due coordinate individuano un punto rispetto a un sistema di due assi cartesiani. Un’equazione a due incognite individua una curva. Ma non solo il piano, bensì tutti gli oggetti bidimensionali, come le superfici, costituiscono versioni geometriche di una realtà riducibile a due soli parametri: ad esempio, la longitudine e la latitudine sulla Terra, e più in generale le coordinate sferiche su una sfera. E come la vita su un piano è stata descritta da Abbott nel già citato Flatlandia (1884), la vita su una sfera è stata narrata da Dionys Burger in Sferolandia (1965).
In algebra, i numeri complessi si possono interpretare come coppie di numeri reali con particolari operazioni. E tutte le equazioni di secondo grado ax2 + bx + c = 0 hanno sempre due soluzioni complesse, che si ottengono dalla formula babilonese che si studia a scuola:
In teoria degli insiemi, il numero 2 viene definito come un insieme privilegiato contenente due soli elementi. E poiché nel processo di generazione dal basso degli insiemi, a partire dall’insieme vuoto, ci si ritrova subito con due insiemi, che sono appunto l’insieme vuoto e
l’insieme contenente l’insieme vuoto, basta metterli insieme e identificare il risultato con il numero 2:
A questo punto, si può ormai intuire l’intero processo di generazione insiemistica dei numeri interi, definito in questo modo nel 1923 da John von Neumann. Cioè, si parte da 0, identificato con l’insieme vuoto. E una volta ottenuti gli interi da 0 a n, si ottiene il successivo numero n + 1 identificandolo con l’insieme dei precedenti. La cosa sorprendente di questo processo, fondato in un’ultima analisi sul solo insieme vuoto, è che si riduce a un castello di carte costruito letteralmente sul nulla, in accordo con la visione
“nichilista” della matematica. Immagini: il 2 di Erté; il taijitu in un dipinto
cinese; studio di mani femminili di Leonardo da Vinci; Ptah e Thot; Giudizio Universale di
Giotto; Memento di Christopher Nolan; Inferno di Giovanni da Modena; Il peccato originale di
Hugo van der Goes; cartelli stradali statunitensi; Yama e Yami; geometria dei numeri primi.
Non c’è due senza tre 3
Non sappiamo quando il numero tre
abbia fatto il suo ingresso nel pensiero e nel linguaggio. Ma sembra che fino a poco tempo fa, e forse ancor oggi, popolazioni come gli Aborigeni australiani e i Pirahã amazzonici abbiano contato “uno, due, molti”. Una traccia dell’identificazione di “tre” e “molti” rimane nell’inglese thrice, che significa allo stesso tempo “tre volte” e “molto”, e nel francese très, che significa anch’esso “molto”. In passato dopo il tre si ricominciava a contare, in una sorta di sistema ternario di enumerazione. Ad esempio, in latino “quattro volte” si diceva quater, che derivava da ter, “tre volte”, in maniera analoga a come oggi “undici” deriva da “dieci”. E il tutto risuonava nel terque quaterque beati che nell’Eneide (I, 94) Enea
rivolgeva agli eroi troiani morti in difesa della patria. Nel Tao Te Ching (XLII) si legge: «Il Tao genera l’Uno, l’Uno il Due, il Due il Tre, e il Tre tutte le cose». Secondo Aristotele, per Pitagora «tutto si concludeva con il Tre», perché si tratta del primo numero completo di un inizio, uno sviluppo e una fine. Nel Medioevo quest’idea fu tradotta nel detto omne trinum est perfectum, “ogni terna è perfetta”. E anche noi continuiamo a dire che “non c’è due senza tre”. Come vedremo tra poco, le classificazioni trinitarie e tricotomiche sono ubique e pervasive. Probabilmente, perché le contrapposizioni manichee a cui si limita il pensiero dualista e
dicotomico sono troppo semplicistiche, per non ridurre a una caricatura la complessità di un mondo che non è sempre, tutto e solo “in bianco o nero”. Metaforicamente, nel pensiero dualista l’occhio della mente si limita a usare i bastoncelli, che permettono all’occhio del corpo una visione in bianco e nero in condizioni di penombra o semioscurità. Il pensiero trinitario sfrutta invece appieno anche i coni, che forniscono la visione a colori in condizioni luminose sufficienti. Appropriatamente, di coni ce ne sono di tre tipi, chiamati S, M e L (da Short, Medium e Long), e sensibili ai tre colori primari additivi: rosso, verde e blu, che combinati insieme permettono di ricostruire gli altri colori dello spettro
cromatico.
Quanto alle classificazioni trinitarie, a volte sono completamenti di classificazioni dualiste, mediante l’aggiunta di un “terzo escluso” che offre loro una maggiore solidità: allo stesso modo, un traballante tavolo a due sole gambe si stabilizza con l’aggiunta di una terza. Non a caso la Pizia profetava seduta sul tripode della verità, che fu rubato da Ercole perché la profetessa gli aveva negato un responso, scatenando la “contesa del tripode” con Apollo. Altre volte le classificazioni
trinitarie sono invece sintesi dialettiche di una tesi e un’antitesi, secondo la terminologia della Scienza della logica (1812) di Georg Friedrich Hegel. Ad esempio, il divenire come sintesi dell’essere e del nulla. Lo spirito come sintesi della logica e della natura. Il pensiero come sintesi del soggetto e dell’oggetto. L’etica come sintesi tra il diritto e la morale. Il mondo europeo come sintesi dei mondi greco e romano, eccetera. Se Hegel è stato il campione moderno del gioco di produzione di triadi filosofiche, nel Medioevo il titolo lo meritava Tommaso d’Aquino, che aveva organizzato l’intera Summa Theologiae (1274) in maniera trinitaria: non solo
dividendola in tre parti, ma discutendo per ciascuno dei suoi 512 argomenti (quaestiones) le tesi (videtur quod), le antitesi (sed contra) e le sintesi (respondeo). Il terzo posto sul podio (che non a caso ne ha tre, per le medaglie d’oro, d’argento e di bronzo) spetta a Immanuel Kant, che ha scritto tre Critiche: della ragion pura (1781), della ragion pratica (1788) e del giudizio (1790). E vi ha profuso a piene mani distinzioni trinitarie di ogni genere, riguardanti le facoltà conoscitive (sensibilità, intelletto, ragione), le dottrine trascendentali (estetica, analitica, dialettica), i tipi di giudizi (sintetici a posteriori, sintetici a priori, analitici), le idee trascendentali (mondo, anima, Dio), le pseudoscienze razionali (cosmologia, psicologia, teologia),
le prove dell’esistenza di Dio (cosmologica, teleologica, ontologica), eccetera. Molti altri filosofi, oltre a Tommaso, Kant ed Hegel, hanno fatto uso di triadi. Ad esempio, gli Stoici dividevano il sapere in logica, fisica ed etica. I teologi cristiani hanno discusso per secoli su concetti quali dio, uomo e natura, o spirito, anima e corpo, da un lato, e grazia, libertà e fato, o provvidenza, libero arbitrio e predestinazione, dall’altro. David Hume ha dedicato le tre parti del suo Trattato sulla natura umana (1739-1740) a intelletto, passioni e morale. E Auguste Comte ha enunciato nel Corso di filosofia positiva (1830-1842) la “legge dei tre stadi”, secondo cui il pensiero evolve attraverso un’infanzia teologica,
un’adolescenza metafisica e una maturità scientifica. In particolare, le triadi abbondano nella filosofia politica. Tre sono i tipi di governo in Platone: monarchico, aristocratico e democratico. Tre i diritti dei cittadini in John Locke: alla vita, al possesso e alla libertà. Tre i poteri dello stato in Montesquieu: legislativo, esecutivo e giudiziario. Tre gli stati ai tempi della Rivoluzione Francese: nobiltà, clero e “terzo stato”, appunto. Tre le classi in Karl Marx: proletariato, borghesia e aristocrazia. Tre i sistemi economici moderni: capitalismo, socialismo e comunismo. E tre i mondi nella seconda metà del Novecento: i due blocchi capitalista e comunista, e il “terzo mondo” dei non allineati. A loro volta, anche alcuni episodi
cruciali della storia della filosofia stessa si configurano come sintesi di una tesi e un’antitesi: dalla composizione tra il divenire di Eraclito e l’essere di Parmenide effettuata da Aristotele, a quella tra l’empirismo di Hume e il razionalismo di Cartesio compiuta da Kant. Nella religione, a essere di casa (o di chiesa) sono le trinità. Tra quelle classiche spiccano la babilonese di Shamash, Sin e Ishtar, cioè Sole, Luna e Venere. L’egizia di Amon, Atum e Ptah, venerati a Tebe, Eliopoli e Menfi. La greca di Zeus, Atena e Apollo, invocata nell’Iliade. E la romana di Giove, Giunone e Minerva, chiamata triade capitolina. Naturalmente, sono espressioni di
trinità anche le Sacre Famiglie, dall’egizia di Osiride, Iside e Horus alla palestinese di Giuseppe, Maria e Gesù. Nell’induismo il pensiero trinitario ha avuto un ruolo pervasivo, a partire dalla trimurti degli dèi e dalla tridevi delle loro consorti: il creatore Brahma e Sarasvati, il preservatore Vishnu e Lakshmi, e il distruttore Shiva e Parvati. Ma ci sono anche le tre pratiche dello Yoga Sutra: fisiche dei tantra, mentali degli yantra e vocali dei mantra. Le tre vie proposte dalla Bhagavad Gita: opere, conoscenza e devozione. E le tre fonti di conoscenza del Vedanta: la rivelazione delle Upanishad, la tradizione della Bhagavad Gita e la dottrina dei Brahma Sutra.
Anche il buddhismo ha sfruttato a fondo il pensiero trinitario, con la distinzione dei tre tipi di Buddha: storici come Siddharta Gautama, futuri come Maitreya, e cosmici come Amitabha o Vairocana. E dei loro tre tipi di corpi (trikaya): materiale nelle incarnazioni, sottile nelle apparizioni, e immateriale nel nirvana. Ci sono poi i tre mondi (triloka): dei desideri, delle forme e senza forme, ovvero della veglia, del sogno e del sonno senza sogni. I tre canoni (tripitaka): rivelazione, dottrina e regole. E i tre gioielli (triratna): la persona del Buddha, il suo insegnamento e la comunità dei suoi seguaci. Il monoteismo ha addirittura incarnato il pensiero trinitario, nella distinzione tra ebraismo, cristianesimo e islam. Le loro
divinità Jahvé, Gesù e Allah formano esse stesse una trinità, analoga a quella cristiana: Padre, Figlio e Spirito Santo. Le tre persone corrispondono ai tre concetti della filosofia greca nous, logos e pneuma, interpretati come il pensiero, la parola e l’amore. Ma corrispondono anche ai tre profeti Mosè, Gesù e Maometto, identificati come I tre impostori da un trattato anonimo del Settecento attribuito a Spinoza. Anche l’organizzazione della vita religiosa è spesso trinitaria. Ad esempio, nella distinzione tra riti, credenze e rivelazioni, a cui corrispondono le preghiere, le prediche e le visioni. Tra le incarnazioni di questa tripartizione ci sono, da un lato, le figure del fachiro, del sacerdote e dello yogi, e
dall’altro, quelle del fedele, del teologo e del mistico, o del laico, del prete e del monaco. La Curia Romana ha poi istituzionalizzato il tutto nelle tre congregazioni del Culto, della Dottrina della Fede (ex Inquisizione o Sant’Uffizio) e dei Santi. Infine, tre sono gli stadi della mistica, sia orientale che occidentale: concentrazione, contemplazione, estasi. Che corrispondono agli stadi della ricerca matematica, e più in generale scientifica, descritti da Henri Poincaré nel capitolo «L’invenzione matematica» di Scienza e metodo (1908): studio cosciente, elaborazione inconscia e illuminazione.
Nella mitologia mediterranea, tre erano i figli maschi di Crono: Zeus, Poseidone (Nettuno) e Ade (Plutone), rispettivamente dèi del cielo, del mare e degli inferi. I loro simboli erano i fulmini, il tridente e il cane Cerbero, le cui tre teste a loro volta simboleggiavano la tripartizione dell’eternità in passato, presente e futuro. Invece che tre sole teste, il gigante Gerione, ucciso da Ercole nella sua decima fatica, aveva tre interi busti. Tre erano anche le Cariti (Grazie), che dispensavano nude fiori e bellezza. Tre le Moire (Fate o Parche), che stabilivano filando il fato degli uomini. Tre le Erinni (Furie), versioni antiche dei moderni Vendicatori. Tre le Muse originarie, protettrici del pensiero, della memoria e del canto. Tre le
Arpie, mostruose e puzzolenti, con il corpo di uccello e il viso di donna. Tre le Gorgoni, con i capelli di serpenti e lo sguardo pietrificante, che rappresentavano le tre perversioni: morale, sessuale e intellettuale.
Triplice era invece Ecate, protettrice degli incroci (triodos), nei quali veniva posta una statua che la ritraeva come unione di una giovane, una donna matura e un’anziana. La prima era identificata con Artemide (Diana), la seconda con Selene (Luna) e la terza con Ecate stessa. E insieme le tre persone di questa vera e propria trinità simboleggiavano le fasi visibili della Luna: crescente, piena e calante. Nella mitologia mediorientale, tre sono i patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. Tre i giorni passati da Giona nel ventre della balena. Tre i Re Magi: il giovane Melchiorre, il maturo Baldassarre e il vecchio Gaspare. Tre i loro doni: oro, incenso e mirra. Tre le tentazioni di Cristo da parte del Diavolo, da
combattere con la povertà, la castità e l’obbedienza. Tre le cose che Gesù dice di essere: la via, la verità e la vita. Tre i rinnegamenti di Pietro, prima che il gallo cantasse. Tre le croci sul Golgota. Un multiplo tre l’età di Gesù, morto a trentatré anni alle tre del pomeriggio, e risorto dopo tre giorni.
Tre giorni dura il triduo (da tres dies), celebrato alla fine della Quaresima per commemorare gli eventi dall’ultima cena alla resurrezione, avvenuti nelle settantadue ore tra la sera del Giovedì Santo e la mattina della Domenica di Pasqua. Tre sono i regni dell’aldilà: inferno, purgatorio e paradiso. Tre le rinunce a Satana nel battesimo. Tre le virtù teologali: fede, speranza, carità. Tre i segni di croce prima della lettura del Vangelo: sul cuore, sulla fronte e sulle labbra. Tre i misteri recitati nel rosario: dolorosi, gaudiosi e gloriosi. Tre le alette rigide del berretto da prete. Tre le corone del triregno papale. Tre i pastorelli di Fatima, e tre i segreti a loro affidati dalla Madonna.
In letteratura, l’abitudine di organizzare le opere in trilogie è antica. L’esempio classico, risalente al -450 circa, sono i tre Prometeo (incatenato, liberato, e portatore del fuoco) di Eschilo. Quello medievale, le tre cantiche della Divina Commedia di Dante, ciascuna di trentatré canti. Quello moderno, il ciclo I tre moschettieri, Vent’anni dopo e Il visconte di Bragelonne di Alexandre Dumas (1844, 1845 e 1850). L’abitudine è poi stata mutuata dal cinema, da Il Padrino di Francis Ford Coppola (1972, 1974 e 1990) a Matrix dei fratelli Wachowski (1999 e 2003).
Dal canto suo, il premio Nobel per la letteratura Camilo José Cela ha organizzato il suo romanzo
L’alveare (1951) su una storia che dura 3 giorni, si snoda in 6 capitoli e coinvolge 396 personaggi: numeri che sono tutti multipli di 3, insieme a tutte le loro cifre. E molti libri sono stati scritti sul simbolismo del tre, da La Grande Triade di René Guénon (1946) a Le tre vie di Elémire Zolla (1995). In linguistica e in logica, tre sono i livelli della comunicazione: segni, enunciati e proposizioni. Essi si esprimono mediante la scrittura, il linguaggio e il pensiero. E si studiano nella semiotica, nella sintassi e nella semantica, che stabiliscono rispettivamente le regole per la correttezza ortografica, la correttezza grammaticale e la verità logica.
Nella semantica, tre sono le parti significanti del discorso: sostantivi, aggettivi e verbi, che indicano (s)oggetti, proprietà e azioni. A esse corrispondono le tre forme letterarie classiche: dramma, lirica ed epica, che si concentrano su personaggi, sentimenti e trame. Nella sintassi, tre sono i generi grammaticali di molte lingue indoeuropee: maschile, femminile e neutro. Tre le disposizioni del verbo: attiva, passiva, riflessiva. Tre le sue categorie: tempo, modo e aspetto. Tre i suoi tempi: passato, presente, futuro. Tre gli aspetti del verbo greco antico: presente (continuo), aoristo (momentaneo) e perfetto (compiuto), collassati in latino e in italiano nell’imperfetto (incompiuto) e nel perfetto (compiuto).
Nella semiotica, spesso le lettere di vari alfabeti vengono suddivise in terne. Ad esempio, nelle sigle delle fraternity, come la ΦBK o Phi Beta Kappa. Nei codoni del DNA e dell’RNA, come l’AUG della metionina. E nelle divisioni delle cifre dei numeri maggiori di 999. Nella comunicazione, infine, le invocazioni sono in genere ripetute tre volte. Ad esempio, il mantra della pace induista termina con shanti, shanti, shanti. Il Sanctus, non a caso chiamato anche Tersanctus, recita: «Santo, Santo, Santo è il Signore». Il giuramento islamico ripete per tre volte il nome di Dio in tre forme diverse: wallahi, billahi, tallahi. E il triplice grido di giubilo dei marinai inglesi hip, hip, hurrah è ormai entrato nell’uso comune. Anche gli indovinelli si
presentano spesso in tre parti, a cominciare da quello della Sfinge a Edipo: «Chi è che prima cammina su quattro gambe, poi su due, e poi su tre?». E spesso vengono in terne, come nella storia di Turandot. Altrettanto per i desideri, come quelli concessi ad Aladino dal genio della lampada.
In musica abbondano le terze, che sono intervalli distanti tre note consecutive nella scala eptatonica: ad esempio do-mi (maggiore), o misol (minore). E abbondano anche le triadi, che sono accordi formati da tre note distanti due terze consecutive: ad esempio, do-mi-sol (do maggiore), o mi-sol-si (mi minore). Una composizione per tre strumenti si chiama trio, e viene suonata da un terzetto di musicisti. Nella musica classica il trio è stato spesso usato come parte centrale di una composizione a sua volta ternaria, come il minuetto o lo scherzo, anche se in seguito ha perso il significato letterale legato ai tre strumenti(sti). Ad esempio, a partire da Beethoven lo scherzo è
stato spesso usato come movimento di una sonata o di una sinfonia, e dunque il corrispondente trio è stato suonato a volte da solisti, e altre da intere orchestre. In fisiologia, tre sono i foglietti germinativi in cui si differenzia l’embrione: endoderma, mesoderma, ectoderma. E tre i sistemi corporei in cui si struttura l’organismo, a partire dai foglietti germinativi: viscerale, muscolare e cerebrale. A questa tricotomia sono riconducibili i tre tipi fisiologici: viscerotonico, somatotonico e cerebrotonico, rispettivamente concentrati sull’avere, il fare e l’essere. Le tre anime: concupiscibile, volitiva e razionale
in Platone, o vegetativa, sensitiva e intellettiva in Aristotele. I tre caratteri: bilioso, sanguigno e flemmatico in Ippocrate (vedi p. 132), o sulfureo, mercuriale e salino in Paracelso. E le tre intelligenze: reattiva, percettiva e riflessiva in William James, o animale, militare e umana in Aldous Huxley. Alla stessa tricotomia corrispondono anche, più generalmente, le fasi della vita: adolescenza, maturità e vecchiaia (non a caso chiamata “terza età”). I tipi di amore: romantico, fisico e coniugale. Gli atteggiamenti filosofici: epicureo, stoico e scettico. E le scuole psicanalitiche originarie: freudiana, adleriana e junghiana. Ciascuna delle quali ha le proprie classificazioni ternarie: dalle fasi anale, fallica e orale, alle patologie
delle nevrosi, psicosi e perversioni. Tre sono anche i sistemi di comunicazione che armonizzano le funzioni corporee: endocrino, immunitario e nervoso, regolati da ormoni, anticorpi e neurotrasmettitori. Tre i già citati coni della retina (vedi p. 106), sensibili ai tre colori fondamentali: rosso, verde e blu. E tre i canali semicircolari mutuamente perpendicolari situati nell’orecchio interno, che registrano i tre possibili movimenti rotatori della testa (dall’alto in basso, da destra a sinistra, da una spalla all’altra) e forniscono la percezione della tridimensionalità dello spazio.
A proposito di “perversioni”, se la Coppia formata da un Lui e una Lei forniva l’esempio archetipico della dualità, con l’aggiunta di un Altro o di un’Altra si trasforma nell’esempio archetipico della trinità: il duo a tre che anagramma “adulterio”. Non a caso si parla al proposito di un triangolo amoroso, e tutti
percepiscono istintivamente l’incremento di complessità nel rapporto di coppia causato dall’arrivo di un “terzo incomodo”. La stessa tensione fra due e tre si ritrova nella gravitazione newtoniana, quando si calcolano le interazioni reciproche dei corpi: fisici, in questo caso, più che biologici. Il problema monogamo di due soli corpi è stato risolto in maniera esatta da Isaac Newton nei Principia (1687): entrambi i corpi si muovono su orbite ellittiche, con il baricentro del sistema in un fuoco comune. Come già in biologia, il caso poligamo di tre corpi è non solo più eccitante, almeno per due terzi dei partecipanti, ma anche molto più difficile da gestire. Soluzioni approssimate si possono ottenere
considerando dapprima il caso monogamo, e poi perturbandolo in modo da tener conto dell’interferenza del “terzo incomodo”, esattamente come si fa nella vita (extra)coniugale. Per quanto riguarda le soluzioni esatte, Henri Poincaré scoprì alla fine dell’Ottocento che il problema dei tre corpi è insolubile, instabile e caotico: più precisamente, benché si conoscano esattamente le forze in gioco, in generale il comportamento del sistema non si può descrivere esplicitamente, non si mantiene indefinitamente, e dipende fortemente dalle condizioni iniziali. Il che spiega perché sia impossibile prevedere dove i triangoli di corpi, fisici o biologici, andranno a parare. Perché diventi difficile stabilizzarli in ménage à
trois duraturi. E perché ogni storia costituisca comunque un caso a sé: per somma fortuna, ovviamente, dei romanzieri, dei cineasti e degli psicanalisti. Il passaggio da due a tre è critico non soltanto nella teoria della gravitazione, ma nelle aree più disparate. Tanto da far sospettare l’esistenza di un ostacolo naturale al pensiero, che si rivela in grado di affrontare e risolvere praticamente situazioni di estrema semplicità, ma si trova in difficoltà o nell’impossibilità di farlo teoricamente in situazioni anche solo leggermente più complesse. Nell’equa distribuzione delle risorse, ad esempio, il problema è esemplificato dalla divisione di una
torta. Se ci sono solo due persone a spartirsela, per evitare recriminazioni basta far tagliare la torta a una di esse, e far scegliere la fetta all’altra: così agirono istintivamente Abramo e Lot nel Genesi (XIII), per occupare la terra di Cana. Ma con più persone niente di così semplice funziona, e già nel caso di tre possono essere necessari fino a cinque tagli successivi, per ottenere una divisione soddisfacente per tutti.
In democrazia, il problema si presenta quando si debbano integrare in un ordine sociale le preferenze individuali espresse nel voto, scegliendo fra proposte in un referendum, o fra candidati in un’elezione. Se le scelte sono soltanto due, Kenneth May ha dimostrato nel 1952 che la votazione a maggioranza è l’unico procedimento che permetta a
ciascuno di votare per chi vuole, mantenga l’anonimità del voto, e il cui risultato dipenda unicamente dai voti espressi. Ma se le scelte sono tre o più, Kenneth Arrow ha dimostrato nel 1951 che non esiste nessun procedimento che soddisfi condizioni analoghe. In economia, il problema ritorna quando si debba raggiungere un equilibrio tra la domanda e l’offerta in un mercato. Se le merci sono soltanto due, lo stesso Arrow e Gérard Debreu hanno dimostrato nel 1954 che l’equilibrio effettivamente esiste, ottenendo rispettivamente il premio Nobel per l’economia nel 1972 e nel 1983. Ma se le merci sono tre o più, come succedeva persino in Unione Sovietica, Herbert Scarf ha dimostrato nel 1960 che se anche il
sistema raggiunge l’equilibrio, non è detto che lo mantenga. E Hugo Sonnenschein ha aggiunto nel 1972 che anche quando l’equilibrio esiste in teoria, non è detto che il mercato lo raggiunga in pratica, o che vi ritorni quando se ne allontana. Altrettanto critico è nella logica il passaggio da due valori di verità a tre o più, e non a caso ha richiesto un paio di millenni per essere concretizzato. La logica classica, basata sul “vero” e sul “falso”, fu sviluppata in maniera informale da Aristotele e Crisippo già nei secoli -IV e- III, e fu facilmente tradotta in maniera algebrica da George Boole nell’Analisi matematica della logica (1847). Basta infatti identificare il
“vero” e il “falso” con l’1 e lo 0, e tradurre di conseguenza le operazioni logiche in operazioni aritmetiche. Ad esempio, il fatto che una congiunzione sia vera quando entrambi i congiunti sono veri, e falsa altrimenti, si traduce nelle quattro equazioni Per sviluppare invece una logica in cui ci fossero tre o più valori di verità si dovette attendere il 1920, quando Jan Lukasiewicz riuscì ad aggiungere il “possibile” al “vero” e al “falso”, assegnandogli il valore 1/2. Interpretando le operazioni logiche in maniera più complicata che nel caso classico, fu possibile conservare il principio di non contraddizione, pur lasciando ovviamente cadere il principio del
terzo escluso. Si chiarì in tal modo che, contrariamente a ciò che credeva il povero Hegel, la logica dialettica non ha nulla a che vedere con il primo principio, e tutto a che vedere con il secondo. Da un lato, infatti, l’esistenza di una sintesi dimostra che la tesi e l’antitesi non erano in realtà fra loro contraddittorie, bensì complementari. E, dall’altro lato, che non erano i corni di un dilemma, bensì solo due possibilità fra tre o più. Dopo aver accennato a varie trinità e tripartizioni, come esempi della triade universale, è ora di affrontare direttamente il tre, come numero. Anzitutto, la cifra 3 che lo rappresenta è derivata, come già lo
era la cifra 2, dal processo di scrivere senza alzare la penna tre trattini paralleli orizzontali, come usavano gli antichi Brahmini e usano ancora i Cinesi moderni. Quanto al nome, il 3 si chiamava in sanscrito tri, in greco treis e in latino tres. Di qui la radice usata in innumerevoli termini che indicano tripartizioni, come triplo, trittico, trilogia, tricolore, trivio, trifoglio, trigesimo, trimestre, triennio, trifora, tribolo, tripudio, trisavolo, trireme, triciclo, triclinio, tridente, tricefalo, trigemino, tricipite, tripolo, eccetera. Ma anche tribù (dall’originaria tripartizione dei cittadini romani in Latini, Sabini ed Etruschi), da cui derivano a loro volta tribuno, tribuna, tribunale, tributo, eccetera. Lo stesso vale per il derivato ter,
come in terna, che è uno dei sinonimi usati per il 3, insieme a trio, triade e tripletta. Ma, ancora una volta, in questo campo noi siamo solo timidi imitatori degli Indiani, che usavano più liberamente anche i nomi delle più svariate terne della loro cultura: i tempi cosmici, i mondi fenomenici, gli aspetti della materia, gli stati della coscienza, i corpi di Dio, gli occhi di Shiva, le lettere del mantra Aum…
In geometria, tre punti non allineati costituiscono i vertici di un triangolo, con tre angoli e tre lati. E per essi passa sempre un cerchio, costituito da tre elementi: centro, raggio e circonferenza. Tre coordinate permettono invece di descrivere i punti dello spazio tridimensionale, che è quello del nostro mondo fisico, in cui le cose hanno
lunghezza, profondità e altezza. Come i prodotti di due numeri corrispondono ad aree di rettangoli, i prodotti di tre corrispondono a volumi di parallelepipedi, ma i prodotti di quattro o più non hanno un’analoga interpretazione fisica. Per questo i Greci si limitarono ai primi due, chiamandoli numeri piani e numeri solidi, ma in tal modo si legarono le mani e ritardarono il completo sviluppo dell’aritmetica e dell’algebra. Quanto alle classificazioni trinitarie, la geometria ne abbonda. Ci sono tre tipi di angoli: acuti, retti e ottusi. Tre tipi di triangoli: equilateri, isosceli e scaleni. Tre tipi di ricoprimenti regolari del piano: triangolari, quadrati ed esagonali. E, soprattutto, tre tipi di geometrie: sferica, euclidea ed ellittica,
caratterizzate dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettivamente maggiore, uguale o minore di due angoli retti. In aritmetica, 3 è un numero primo: dispari, come lo sono tutti i numeri primi eccetto il 2. Ed è anche la somma di 1 e 2, il che lo rende un numero triangolare, nel senso che si può rappresentare con tre pallini disposti a triangolo equilatero. Ricorsivamente, i numeri triangolari si generano sommando via via gli interi in ordine di grandezza, cioè 1, 2, 3, 4, 5, eccetera, ottenendo 1, 3, 6, 10, 15, eccetera. Sinteticamente, i numeri triangolari si esprimono invece mediante la formula n(n + 1)/2, che calcola da un lato la somma dei
numeri da 1 a n, e dall’altro l’area di un triangolo di base n e altezza n + 1. In particolare, 3 è l’unico numero primo triangolare.
Il 10 luglio 1796 il diciannovenne Carl Gauss trovò una connessione molto più profonda tra il 3 e i numeri triangolari, dimostrando che ogni intero si può scrivere come la somma di al più tre numeri triangolari, non necessariamente distinti: ad esempio, 20 è uguale a 10 più 10. Sul suo diario la scoperta fu concisamente registrata così:
In algebra, la lunga saga legata alla soluzione dell’equazione di terzo grado ax3 + bx2 + cx + d = 0 è un ulteriore esempio della difficoltà del passaggio dal due al tre. Mentre la formula risolutiva per l’equazione di secondo grado era infatti nota già ai Babilonesi (vedi p. 104), quella per il grado successivo dovette attendere il Cinquecento, e il contributo congiunto della scuola italiana di Scipione dal Ferro, Niccolò Fontana (detto Tartaglia) e Gerolamo Cardano. Oggi sappiamo che la difficoltà sta nel fatto che, anche nei casi particolari in cui l’equazione abbia solo soluzioni reali, qualunque formula risolutiva generale richiede comunque l’uso di numeri complessi, che poi si cancellano miracolosamente. Per curiosità, la
formula trovata dagli Italiani per l’equazione x3 = mx + n, alla quale si può sempre ridurre qualunque equazione di terzo grado, è
Prima della scoperta di questa formula, risolvere un’equazione di terzo grado era considerata un’impresa difficile, e spesso disperata. E poiché i matematici di allora si guadagnavano il pane anche facendo disfide pubbliche, di qui deriva l’espressione “fare un terzo grado”, che in origine era dunque riferita alla proposta di soluzione di un’equazione di terzo grado, appunto.
Avendo ormai a disposizione i numeri 2 e 3, si può cominciare a giocarli l’uno contro l’altro. In musica, ad esempio, nelle più semplici poliritmie si batte “due contro tre” quando si suonano contemporaneamente due brani, due battute di uno dei quali durano quanto tre battute dell’altro. Oppure, nelle più semplici polifonie si suona un brano a due voci, due note di una delle quali durano quanto tre note dell’altra. In fisica, lo stesso fenomeno si ritrova nelle corde vibranti fissate ai due estremi. Le onde stazionarie che si producono, di lunghezza pari a metà o a un terzo della lunghezza, corrispondono al primo e al secondo armonico del suono fondamentale: cioè, rispettivamente, all’ottava (due “do”
consecutivi) e alla quinta (un “do” e un “sol” consecutivi). In termini numerici, il rapporto di ottava è dunque pari a 2/1 e quello di quinta a 3/2, come scoprì per primo Pitagora sperimentando con nervi di bue.
In astronomia, il “due contro tre” si batte nella terza legge di Keplero, da lui enunciata nell’Armonia del mondo (1619): non a caso, visto che è stata ottenuta in base a considerazioni musicali. Analizzando i dati sperimentali collezionati da Tycho Brahe alla
fine del Cinquecento, Keplero notò infatti che il rapporto fra la durata dell’anno planetario e il raggio medio dell’orbita di un pianeta è compreso fra 1 e 2: cioè, in termini musicali, fra l’unisono e l’ottava. Egli congetturò dunque che fosse un rapporto di quinta, pari a 3/2: ovvero, che il quadrato dell’anno planetario fosse proporzionale al cubo del raggio medio dell’orbita. E la Natura gli diede ragione. Volendo assegnare una medaglia per il miglior risultato sul legame tra 2 e 3, a vincerla non sarebbero però né Pitagora, né Keplero, nonostante i loro exploit, bensì Archimede. Per aver dimostrato, anzitutto, che il rapporto tra le aree di un segmento di parabola e di un
rettangolo che lo contiene è pari a 2/3. E poi, soprattutto, che entrambi i rapporti tra le superfici e i volumi di una sfera e del cilindro che la contiene sono di nuovo pari a 2/3.
Lo stesso Archimede fu così soddisfatto per quest’ultimo risultato, che decise di farselo incidere sulla tomba. Cicerone racconta nelle Meditazioni tuscolane che nel -75, quand’era questore in Sicilia, aveva fatto cercare e restaurare la lapide, oggi purtroppo andata perduta. Ma più che assegnare ad Archimede un riconoscimento alla memoria, i matematici hanno preferito incidere la sua effige e il suo risultato sulle due facce della medaglia Fields, che costituisce un analogo del premio Nobel per la matematica e onora gli eredi moderni di Archimede.
Immagini: il 3 di Erté; la risposta dei coni
dell’occhio ai tre colori primari; la triade capitolina, la trimurti, Sacra Famiglia (Tondo Doni) di Michelangelo, i tre Buddha; Le Tre
Grazie di Raffaello, Le Tre Parche di Francesco Salviati, le tre Gorgoni nel Fregio di Beethoven di Gustav Klimt; i Re Magi in un mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna; Prometeo di Lambert-Sigisbert Adam; Edipo e la Sfinge di Gustave Moreau, locandina della Turandot; i
canali semicircolari dell’orecchio interno; la separazione tra Abramo e Lot in un mosaico di Santa Maria Maggiore a Roma; i tre occhi di
Shiva; i numeri triangolari; gli esperimenti di
Pitagora nella Teoria della musica di Franchino
Gaffurio; le due facce della medaglia Fields.
Nel segno della croce 4
Il più importante dialogo scientifico
di Platone, il Timeo, si apre con le parole: «Uno, due e tre. Ma dov’è il quarto, caro Timeo?», alludendo a un personaggio di cui non viene fatto il nome, e che non partecipa al dialogo perché ammalato: dunque, un “quarto escluso”. Anche il Faust di Goethe (1831) propone un suo “quarto escluso”, nella scena dei Cabiri: «Tre ne prendemmo con noi: il quarto non volle venire. Disse che lui era il vero, e che aveva cervello anche per gli altri tre». Al contrario, il cosiddetto assioma di Maria, che come il procedimento di cottura “a bagnomaria” prende il nome dalla protoalchimista Maria la Giudea (secolo II), recita: «Uno, due e tre. E dal tre emerge un altro come quarto», a significare che i terzetti e le terne fanno sempre, o almeno spesso, da paravento a un
“quarto incluso”. Ad esempio, dietro I tre moschettieri di Dumas (1844), che sono Athos, Aramis e Porthos, c’è in realtà il vero protagonista D’Artagnan. Mentre davanti al dipinto Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901) e al film Quarto potere di Orson Welles (1941) ci sono il proletariato e il giornalismo del Novecento.
In Occidente, l’esempio primordiale del processo che porta al completamento quaternario di una classificazione trinitaria si trova nella religione cristiana. A questo proposito, nel Saggio di interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1948) Jung si
domanda: «Perché mai non si è detto: Padre, Madre, Figlio? Sarebbe stato molto “più ragionevole”, o “più naturale”, che Padre, Figlio e Spirito Santo». Indipendentemente dalle possibili risposte al perché, rimane la constatazione che la Trinità è squilibrata da due diversi punti di vista. Da un lato, infatti, due delle sue persone sono trascendenti, mentre una è immanente. E dall’altro lato, tutte e tre le persone sono maschili, e nessuna è femminile. Per rimediare a entrambi gli squilibri, nel corso dei secoli si è di fatto creata una Quaternità, con l’aggiunta alla Trinità di un “quarto escluso” che fosse, allo stesso tempo, immanente e femminile: la Madre, appunto. La figura della
Madonna, che aveva un ruolo marginale nei Vangeli, è diventata via via più centrale, acquistando una serie di attributi codificati nei quattro dogmi mariani: Deipara al concilio di Efeso nel 431, Vergine al secondo concilio di Costantinopoli nel 553, Immacolata Concezione da parte di Pio IX nel 1854, e Assunta in Cielo da parte di Pio XII nel 1950. In ogni caso, anche la nuova Quaternità non rimedia a un terzo squilibrio della Trinità originaria, che è la mancanza del Male come persona autonoma. Il “quarto escluso” avrebbe dunque potuto assumere alternativamente le sembianze del Diavolo o dell’Anticristo, che sono infatti presenti fin dagli inizi della tradizione cristiana. Ma dopo la conversione di Agostino dal
manicheismo divenne di fatto impossibile introdurre questa figura in una Quaternità. Al Male fu negato un ruolo autonomo, ed esso fu relegato a esprimere la mancanza del Bene. La Quaternità interviene nel cristianesimo non soltanto attraverso la venerazione della Madonna come “quarta persona”, ma anche e soprattutto tramite la croce. La quale, come spiega Il simbolismo della Croce di René Guénon (1931), è appunto un simbolo primordiale e universale, che va ben oltre il cristianesimo in particolare, e la religione in generale. E fin dall’antichità è stata superata in popolarità soltanto dalle tacche e dai cerchi.
I Cinesi usano ancor oggi una croce come simbolo per il 10, e così facevano anche i Romani: la loro X, infatti, non è altro che una “croce di sant’Andrea”. Ma gli Indiani usarono la croce, più naturalmente, come cifra per il 4, a causa dei suoi quattro bracci che convergono verso il centro a formare, appunto, un simbolo di quaternità. Quanto alla nostra cifra 4, deriva dal processo di scrivere senza alzare la penna i bracci della croce. Ci sono quattro modi simmetrici di farlo, che danno origine a quattro possibili figure, collegate simmetricamente fra loro come le quattro lettere “b”, “d”, “p”, “q”. E una di esse, ottenuta andando da destra a sinistra alla maniera araba, e poi dall’alto in basso, è appunto quella che ha generato il 4.
Allargando lo sguardo, nell’ebraismo quattro sono le lettere del tetragramma YHWH, che codifica l’impronunciabile nome di Dio. Quattro i fiumi dell’Eden citati nel Genesi: Pison, Ghicon, Tigri ed Eufrate. Quattro le specie di piante menzionate nella Torah, usate nelle cerimonie: cedro, palma, mirto e salice. Quattro le matriarche, mogli dei tre patriarchi: Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Quattro i mondi della Cabala: emanazione (Atziluth), creazione (Beriah), formazione (Yetzirah) e azione (Assiyah). Quattro gli arcangeli maggiori,
associati agli elementi e alle stagioni: Raffaele, Michele, Gabriele e Uriele.
Nel cristianesimo, quattro sono le lettere dei nomi Deus e Gesù. Quattro gli evangelisti: Matteo, Marco, Luca e Giovanni, rappresentati da un angelo, un leone alato, un bue alato e un’aquila. Quattro i cavalieri dell’Apocalisse. Quattro le virtù
cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Quattro le basiliche papali romane: San Giovanni in Laterano, San Pietro in Vaticano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le mura. E quattro sono diventati i misteri del rosario, con l’aggiunta di quelli “luminosi” introdotti da Giovanni Paolo II nel 2002.
Nell’islam, quattro sono i libri sacri: la Torah, i Salmi, i Vangeli e il Corano. Quattro i califfi del primo califfato dei Rashidun, fondato dai successori di Maometto: il suocero
Abu Bakr, il discepolo Umar, e i generi Uthman e Ali. Quattro le scuole giuridico-religiose, fondate da quattro imam e oggi diffuse in quattro regioni: Penisola Arabica, resto del Medioriente, Maghreb ed Estremo Oriente. Quattro le mogli permesse dalla legge. E quattro i giorni della id al-adha, “festa del sacrificio”, che commemora l’episodio in cui Jahvé chiese ad Abramo di sacrificare Isacco, ma poi si accontentò di un montone. Nell’induismo, quattro sono le parti dei Veda: Rigveda, Samaveda, Yajurveda e Atharvaveda. Quattro le caste: preti (brahmani), governanti e militari (kshatriya), lavoratori e commercianti (vaishya), e servi (shudra). Quattro gli scopi
della vita: giustizia, prosperità, amore e liberazione. Quattro le fasi della vita: studio, carriera, pensione e ritiro dal mondo. Quattro le città sante dove si tiene il pellegrinaggio del Kumbh Mela, a rotazione triennale: Allahabad, Haridwar, Ujjain e Nashik.
Nel buddhismo, quattro sono le facce del piramidale monte Meru, costituite di quattro elementi preziosi: oro a Nord, cristallo a Est,
lapislazzuli a Sud, rubini a Ovest. Quattro i re celesti che ne proteggono le quattro direzioni: ciascuno col suo colore (giallo, bianco, blu e rosso), il suo simbolo (ombrello, liuto, spada e perla) e la sua schiera celeste (nani, musicisti, guerrieri e serpenti). Quattro sono le cime attorno al monte, sulle quali stanno quattro laghi, da cui scendono quattro fiumi, che scorrono nei quattro continenti, e sfociano nei quattro mari.
Quattro sono i luoghi sacri, legati a momenti cruciali della vita del Buddha: la nascita a Lumbini, l’illuminazione a Bodhgaya, la prima predicazione a Sarnath, e la
liberazione dal ciclo delle nascite a Kushinagar. Quattro gli incontri che lo spinsero a cambiar vita: un vecchio, un malato, un morto e un asceta. Quattro le nobili verità: la sofferenza esiste, ha cause precise, si può eliminare, e il modo per farlo è seguire l’Ottuplice Via (vedi pp. 169-170). Quattro le incommensurabili virtù: benevolenza, compassione, empatia, equanimità. Quattro sono gli sforzi da compiere: continenza dei sensi, abbandono delle afflizioni, coltivazione dell’illuminazione, mantenimento della concentrazione. Quattro i pilastri della consapevolezza: sensazione, percezione, coscienza, concentrazione. Quattro gli stati sublimi nella meditazione su oggetti concreti: presenza cosciente,
rapimento gioioso, estasi felice, equanimità distaccata. Quattro gli ambiti della più elevata meditazione astratta: spazio senza oggetti, coscienza senza spazio, nulla senza coscienza, dissolvimento anche del nulla. E quattro le tappe dell’illuminazione finale: l’entrata nel fiume che porta al nirvana in al più sette rinascite, la penultima vita prima dell’ultima rinascita, l’ultima vita, e il risveglio nello stato di arhat. Nella filosofia presocratica, quattro erano gli elementi classici proposti da Anassimene ed Empedocle: terra, acqua, aria e fuoco. E quattro le qualità elementari: caldo e freddo, bagnato e asciutto. Le qualità, combinate due a due, rendevano
conto della natura dei quattro elementi: la terra, fredda e asciutta; l’acqua, fredda e bagnata; l’aria, calda e bagnata; e il fuoco, caldo e asciutto. Sui quattro elementi Ippocrate fondò la teoria dei quattro umori: bile nera, flemma bianca, sangue rosso e bile gialla, che suppose provenire rispettivamente da milza, testa, cuore e fegato. Egli ne dedusse quattro tipi di caratteri: bilioso, flemmatico, sanguigno e focoso. Da questa teoria derivano le espressioni “essere di buon o cattivo umore” e “avere senso dell’umorismo”. In greco la bile si chiamava cholé. La comune bile gialla veniva dunque chiamata “collera”, da cui derivano “collerico” e “colèra”: quest’ultima, perché chi ne è affetto
vomita bile. Poiché nero si diceva mélanos, la bile nera veniva invece chiamata “melancolia”, da cui derivano “malinconia” e “malinconico”. Sulla malinconia si è fatta una gran letteratura, soprattutto romantica e psicanalitica. Ma l’unica cosa interessante che ne è derivata è l’incisione Melencolia I di Albrecht Dürer (1514), che oltre a un enigmatico solido contiene anche uno straordinario quadrato magico 4 per 4, in cui le righe, le colonne, le diagonali, il quadrato centrale, i quattro quadranti e i quattro vertici sommano sempre a 34. Come ciliegina sulla torta, le cifre centrali dell’ultima riga riportano l’anno della composizione. Sono cose che hanno fatto eccitare chiunque, non solo i
matematici: ad esempio, persino il Dan Brown di Il simbolo perduto (2009).
I quattro caratteri classici sono confluiti tutti insieme nell’opera rock Quadrophenia degli Who (1973), il cui protagonista soffre di un’omonima malattia mentale, consistente appunto nell’avere una
personalità quadrupla. E i quattro caratteri, rappresentati da quattro temi musicali e interpretati dai quattro membri del complesso, si mescolano a seconda dei momenti in varie combinazioni. Nella filosofia di Aristotele, quattro sono le cause: materiale, formale, efficiente e finale. Quattro i tipi di proposizioni: universale affermativa, universale negativa, particolare affermativa e particolare negativa, corrispondenti ai quattro quantificatori: tutti, nessuno, qualcuno, non tutti. Quattro i tipi di modalità: necessario, impossibile, possibile, contingente. E quattro le relazioni tra proposizioni, organizzate in quadrati di opposizione: contrarie nella riga in
alto, subcontrarie nella riga in basso, subalterne nelle colonne, e contraddittorie nelle diagonali. Nella scolastica, quattro erano le arti del quadrivio: due teoretiche, aritmetica e geometria, e due applicate, musica e astronomia. Quattro gli scienziati di riferimento: Pitagora, Euclide, Tubalcain e Tolomeo, il penultimo considerato l’inventore del primo strumento musicale. E quattro gli strumenti caratteristici, che le loro figure allegoriche tenevano in mano: la tavola pitagorica, la riga e il compasso, un organo portatile e l’astrolabio.
Nella filosofia di Kant, quattro sono le classi di giudizi e di categorie, aventi tre elementi ciascuna: quantità, qualità, relazione e modalità. Nella filosofia di Schopenhauer, quattro sono le radici del principio di ragion sufficiente: divenire, conoscere, essere e fare. E quattro le parti della sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). In musica, i quartetti sono gruppi di quattro musicisti: come i Beatles,
non a caso chiamati Fab Four, “Favolosi Quattro”. Ma quartetti sono anche le composizioni per quattro strumenti o quattro voci, che nella musica da camera l’hanno fatta da padrone, da Haydn e Mozart a Beethoven e Brahms. Soprattutto quelli per archi, con due violini, una viola e un violoncello.
I quartetti musicali, come le sinfonie, sono in genere suddivisi in quattro movimenti: una forma-
sonata, un adagio, un minuetto o uno scherzo con trio, e un rondò. Beethoven ha ampliato questa struttura nei suoi ultimi quartetti, aggiungendovi altri movimenti, ed è al suo modello che sono ispirati i Quattro quartetti letterari di Thomas Eliot (1943). L’unità moderna di riferimento per la durata delle note è la cosiddetta “semibreve”, di valore 1. Il suo quarto, di valore appunto 1/4, si chiama “semiminima”, e i tempi più comuni sono suoi multipli: in particolare, i 2/4 delle polke e delle marce, i 3/4 dei minuetti e dei valzer, e i 4/4 della musica popolare, e ciascuna loro battuta dura appunto l’equivalente di due, tre o quattro semiminime. Infine, quattro sono le corde degli strumenti ad arco della famiglia del
violino, che sono anch’essi quattro: violino, viola, violoncello e contrabbasso. E corrispondono a quattro registri della voce umana: soprano, contralto, tenore e basso. In astronomia, quattro sono le stagioni, provocate dall’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica: primavera, estate, autunno e inverno. Quattro le maree, provocate giornalmente dall’influsso della Luna: due alte, e due basse. Quattro le fasi lunari, della durata di circa una settimana ciascuna: Luna nuova, primo quarto, Luna piena e ultimo quarto. Quattro i satelliti maggiori di Giove, scoperti da Galileo il 7 gennaio 1610 e da lui chiamati “pianeti medicei”: Io, Europa, Ganimede e
Callisto.
In zoologia, quattro sono le zampe ancestrali dei tetrapodi, a loro volta distinti in quattro classi: mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. Quattro le gambe dei quadrupedi, che le usano per la locomozione: pochi mammiferi non lo fanno, ad esempio l’uomo, e pochi insetti invece sì, ad esempio la mantide religiosa. Quattro sono le ali di tutti
gli insetti: eccettuati i ditteri, come le mosche. Quattro le fasi della metamorfosi degli oligoneotteri, dai coleotteri come le coccinelle ai lepidotteri come le farfalle: uovo, larva, pupa e immagine. In fisiologia umana, quattro sono i lobi del cervello: frontale, parietale, occipitale e temporale. Quattro le camere del cuore: due ventricoli e due atrii, rispettivamente destri e sinistri. Quattro alcuni tipi di denti: gli incisivi mediali, gli incisivi laterali, i canini e i denti del giudizio. Quattro i gruppi del sangue: A, B, O e AB. E quattro le razze classificate da Linneo nella prima edizione del Sistema della Natura (1735), in base al colore della pelle e alla distribuzione geografica: bianca europea, rossa americana, gialla
asiatica e nera africana. In chimica, quattro sono le basi azotate che compongono i nucleotidi del DNA e dell’RNA: adenina (A), citosina (C), guanina (G) e, rispettivamente, timina (T) e uracile (U). E quattro le valenze del carbonio e del silicio, sui quali ritorneremo (vedi pp. 159 e 243). In fisica, infine, quattro sono le forze fondamentali finora conosciute: gravitazione, elettromagnetismo, nucleare debole e nucleare forte. In geometria, un quadrato ha quattro lati e quattro angoli, tutti rispettivamente uguali fra loro. Disponendo attorno a un punto quattro copie di un quadrato, si copre l’intero spazio: dunque, si può ricoprire il piano con piastrelle
quadrate. Viceversa, la divisione quadrata dello spazio attorno a un punto produce quattro quadranti, che hanno dato origine ai quartieri delle città e alle quattro direzioni. Queste sono indicate dai quattro punti cardinali: Nord, Est, Sud, Ovest. E da essi spirano i quattro venti: tramontana, levante, mezzogiorno e ponente, che nell’Odissea erano chiamati Borea, Euro, Noto e Zefiro. Più in generale, un quadrilatero ha quattro lati, quattro angoli e quattro vertici. Dividendolo in due triangoli mediante una diagonale, e ricordando che la somma degli angoli di un triangolo è pari a un angolo piatto, si deduce che la somma degli angoli di un quadrilatero è pari a due angoli piatti: cioè, a un angolo giro.
Disponendo attorno a un punto quattro copie di un quadrilatero, una per ciascun angolo, si copre allora l’intero spazio: dunque, si può ricoprire il piano non solo con piastrelle quadrate, ma con piastrelle quadrilatere qualsiasi, alternandole in maniera speculare. Il mondo descritto nel secolo II da Tolomeo nella Geografia era all’incirca un quadrilatero sferico. Per questo si poteva parlare dei quattro angoli della Terra, verso cui tendevano rispettivamente l’Europa a Nord-Ovest, la Cina a Nord-Est, l’Oceano Indiano a Sud-Est e l’Africa a Sud-Ovest.
Nelle tre dimensioni, una piramide a base triangolare ha quattro facce triangolari, quattro lati, quattro angoli solidi e quattro vertici. E un tetraedro, “a quattro facce”, è una piramide regolare a base triangolare: cioè, con facce, lati e angoli rispettivamente uguali fra loro. Il temine tetragono, “a quattro angoli”, è oggi inusuale, ma è stato
usato nel senso di “solido” da Dante nel Paradiso (XVII, 24): «Avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura». Quattro coordinate permettono infine di descrivere uno spazio quadridimensionale, l’esempio archetipico del quale è lo spaziotempo del mondo fisico. Ma si possono anche considerare quattro dimensioni tutte spaziali, come nel già citato Flatlandia di Abbott, che non a caso reca come sottotitolo «Romanzo multidimensionale di un Quadrato». In aritmetica, “2 e 2 fanno 4” in vari modi. O, se si preferisce, “2 e 2 possono farsi in 4” in vari modi. Precisamente, mediante addizione, moltiplicazione, esponenziazione e
tutte le sue infinite estensioni, che ritroveremo alla fine dell’ultimo capitolo: In particolare, 4 è il primo numero composto. Ed è anche il primo numero quadrato, nel senso che si può rappresentare con quattro pallini disposti a quadrato. Di tutte le rappresentazioni geometriche dei numeri, risalenti ai Pitagorici, questa è probabilmente la più pregnante, e gravida di conseguenze.
Apparentemente
banale
è
la
scomposizione di 4 come somma di 1 e 3. In realtà, è l’indizio che ogni numero quadrato è la somma dei primi numeri dispari: sommando infatti consecutivamente i numeri 1, 3, 5, 7, 9, eccetera, si ottengono 1, 4, 9, 16, 25, eccetera. La stessa scomposizione è anche l’indizio che ogni numero quadrato è la somma di due numeri triangolari consecutivi: sommando infatti due a due i numeri 1, 3, 6, 10, 15, eccetera, si ottengono di nuovo 1, 4, 9, 16, 25, eccetera.
Infine, la scomposizione mostra che 4 è la somma dei primi numeri triangolari, e dunque un numero
tetraedrico, scomponibile in una piramide di strati triangolari equilateri. I numeri tetraedrici si ottengono sommando successivamente 1, 3, 6, 10, 15, eccetera, e sono 1, 4, 10, 20, 35, eccetera.
Ancora a proposito di quadrati, una connessione banale con il numero 4 è che i quadrati pari (per quelli dispari, vedi pp. 176-177) sono tutti multipli di 4, e si ottengono moltiplicandolo per i successivi quadrati. Ad esempio: Una connessione profonda, intuita nel secolo III da Diofanto e dimostrata nel 1770 da JosephLouis Lagrange, è invece il fatto che ogni intero si può sempre scrivere come somma di al più quattro quadrati, e a volte non di meno. Ad esempio, 7 è la somma di 1, 1, 1 e 4, ma non è la somma di tre numeri scelti fra 1 e 4. Questo risultato di Lagrange non soltanto è analogo a quello di Gauss sui numeri triangolari (vedi pp. 121-122), ma è
anche una sua conseguenza. In algebra, ci sono anzitutto le cosiddette quattro operazioni, che costituiscono il livello minimo di alfabetizzazione matematica: addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Ci sono poi le equazioni di quarto grado ax4 + bx3 + cx2 + dx + e = 0, risolte in generale nel 1540 da Lodovico Ferrari. Benché ovviamente la formula per il quarto grado sia più complicata di quella per il terzo grado (vedi p. 122), si riduce in realtà a essa, ed entrambe furono pubblicate per la prima volta in uno stesso libro: l’Ars Magna di Cardano (1545). In altre parole, il passaggio “dal tre al quattro” è stato molto più semplice
di quello “dal due al tre”, almeno in quest’ambito. Non così in un altro ambito, che si proponeva di estendere i numeri complessi in qualcosa di più generale, in maniera analoga a quella in cui essi stessi avevano già esteso i numeri reali. I numeri complessi a due dimensioni, una reale e una immaginaria, erano stati introdotti nell’Algebra di Raffaele Bombelli (1572), come sistematizzazione delle “radici quadrate di numeri negativi” che si erano dimostrate necessarie per la soluzione dell’equazione di terzo grado. In seguito molti cercarono inutilmente un’estensione a tre dimensioni, fino a quando William
Hamilton capì che bisognava invece saltare un gradino e passare direttamente alle quattro dimensioni. L’illuminazione gli venne il 16 ottobre 1843, mentre passeggiava con la moglie lungo il fiume Liffey a Dublino: evidentemente, senza badare a lei. Egli non resistette alla tentazione, e incise immediatamente sul ponte in pietra di Brougham le neonate quattro formule fondamentali della teoria dei quaternioni:
Tutte queste vicende sono legate al fatto che, grazie al teorema di Pitagora, i quadrati delle “lunghezze” (chiamate in gergo “moduli”) dei numeri multidimensionali sono uguali alle somme dei quadrati delle loro componenti. I numeri complessi esistono, perché i prodotti di somme di due quadrati sono ancora somme di due quadrati. Una loro estensione tridimensionale non esiste, perché l’analogo non vale per le somme di
tre quadrati: ad esempio, 3 e 21 sono tali, ma il loro prodotto 63 no. E i quaternioni esistono, perché l’analogo vale per le somme di quattro quadrati. In teoria dei grafi, nel 1852 Francis Guthrie propose il teorema dei quattro colori: per colorare una mappa in modo che i paesi confinanti siano colorati diversamente, bastano appunto quattro colori. Naturalmente, per non rendere banalmente falso il teorema servono alcune restrizioni sui confini dei paesi, che non devono essere né troppo semplici, né troppo frastagliati. Ad esempio, i confini non possono ridursi a punti isolati: altrimenti, basta considerare paesi
disposti come le fette di una torta, per dedurre che nessun numero finito di colori è sufficiente. Considerando invece paesi disposti come una torta tagliata in tre fette, ma lasciando una parte rotonda al centro per non rompere le punte, ci si accorge che sicuramente quattro colori sono necessari.
Dopo più di un secolo di tentativi ed errori, finalmente nel 1976 Kenneth Appel e Wolfgang Haken dimostrarono che quattro colori sono anche sufficienti. E affidarono l’enorme quantità di verifiche
necessarie a un computer, che lavorò per un tempo equivalente a cinquanta giorni ininterrotti. La cosa fece scalpore, perché per la prima volta una dimostrazione si appoggiava su conti che non potevano essere verificati a mano. Oggi invece queste procedure sono diventate usuali, e ne citeremo varie altre nel seguito. Immagini: il 4 di Erté; i quattro moschettieri; il tetragramma YHWH; I quattro evangelisti del Beato Angelico; un momento della festa di
Kumbh Mela; i quattro re celesti; Melencolia I
di Albrecht Dürer; le arti del quadrivio in un’opera del Pesellino; i Beatles; Le Stagioni di Alfons Mucha; il mondo “quadrilatero” di
Tolomeo; lapide commemorativa della scoperta di William Hamilton sul ponte di Brougham; mappa del mondo a quattro colori.
Dammi un cinque 5
Se si aprono le dita di una mano a ventaglio, il pollice e il mignolo formano una specie di V, che
sembra essere stata l’origine del simbolo romano per il 5. E prima ancora, come riporta Plutarco, nel greco antico il verbo per “contare” era pempàzo, che deriva da pempàs, “cinquina”: dunque, in origine gli uccellini matematici “cinquettavano” il motivetto penta rei, “il cinque scorre”. Lo stesso Plutarco dedicò un libro a L’E di Delfi, che era una misteriosa ed enigmatica iscrizione di una sola lettera posta nel Santuario di Apollo. E come tentativo di spiegazione fornì il fatto che la sua sacralità derivasse, semplicemente, dall’essere la quinta lettera dell’alfabeto greco: La E non è per se stessa diversa dalle altre
lettere nel significato, nell’aspetto e nella pronuncia, ma merita il posto d’onore come
simbolo del cinque, il numero grande e
sovrano nell’ordine universale, da cui i
sapienti hanno preso il verbo che significa “contare”. […]
Si riconosce dunque un’affinità tra il dio e
il numero cinque, che talora si riproduce [per
moltiplicazione con un numero dispari] simile a se stesso, come fa il fuoco, e altre volte dà luogo [per moltiplicazione con un numero
pari] al numero dieci, come il fuoco crea il mondo.
D’altronde, il numero cinque ci è stato imposto dalla Natura, perché la maggior parte degli anfibi, dei rettili e dei mammiferi ha cinque dita per arto, così come molti fiori hanno cinque petali e le stelle marine cinque braccia. E cinque sono anche i sensi classici della percezione: vista, udito, odorato, gusto e tatto.
Non stupisce, dunque, ritrovare il cinque nelle più svariate religioni. Nell’induismo cinque sono i volti di Shiva, e cinque le forme e le armi di Vishnu: la conchiglia, il disco rotante, la mazza, l’arco e la spada. Cinque i simboli del sikhismo: i capelli incolti, il pettine di legno, il braccialetto d’acciaio, i calzoncini e il pugnale. Cinque i libri del Pentateuco, e le parti del Salterio nella Bibbia ebraica. Cinque i pani
del primo miracolo della moltiplicazione, e le ferite di Cristo: mani, piedi e costato. Cinque i pilastri dell’islam: la professione di fede, le preghiere da recitare cinque volte al giorno, la carità, il Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca. E cinque i profeti del monoteismo mediorientale: Noè, Abramo, Mosè, Gesù e Maometto.
In arabo, la parola hamsa o khamsa, che significa appunto “cinque”, viene usata anche come nome: ad esempio, per l’amuleto a cinque dita chiamato anche “Mano di Fatima”, in onore di una delle figlie di Maometto e della sua famiglia, composta da padre, marito, lei e i due figli; per una razza di cavalli arabi considerata particolarmente pura, che si suppone risalire a cinque mitici stalloni originari; e per una confederazione di cinque tribù seminomadi dell’Iran sudoccidentale, ritenute di origine araba. Si chiama Khamsah, in arabo, anche una raccolta di cinque poemi del massimo poeta persiano, Nizami di Ganja, composti nella seconda metà del secolo XII. Il titolo
originale è Panj Ganj, “Cinque gioielli”, e la struttura a quintetto divenne poi un modello per la poesia dell’Asia centrale e dintorni. Le varie edizioni dell’opera furono illustrate con splendide miniature: in particolare, quella della fine del Cinquecento per l’imperatore moghul Akbar, che viene considerata un capolavoro dell’arte moghul. La cultura cinese classica, codificata nei Cinque classici confuciani, fondava la struttura dei processi fisici, fisiologici e sociologici sulla dottrina dinamica delle interazioni dei Wu Xing, “cinque agenti”: legno, fuoco, terra, metallo e acqua. Analogamente, la cultura buddhista giapponese si basava sul concetto dei godai, “cinque grandi”, resi popolari nel
1645 da Miyamoto Musashi nel Libro dei cinque elementi: terra, acqua, fuoco, vento e vuoto. La cultura occidentale classica, invece, si limitava a una dottrina statica dei “quattro elementi”: terra, acqua, aria e fuoco. Ma già Aristotele ne aveva proposto un quinto, l’etere, che costituiva la sostanza immutabile e impalpabile di cui era formato il cielo. Gli alchimisti medievali lo chiamarono quintessenza, e lo immaginarono come l’elemento costitutivo della fantomatica pietra filosofale. E i primi chimici lo identificarono con la quinta e definitiva distillazione di una sostanza, da cui deriva il significato metaforico di “quintessenza”. Il cinque appare nel computo degli anni come lustro o
quinquennio, nelle fascicolazioni di fogli come quinterno, nella tombola e nel Lotto come cinquina, nello sport con i cinque cerchi olimpici, e in geografia nei cinque continenti classici abitati dall’uomo, da cui i cerchi derivano: Europa, Africa, Asia, America e Oceania. In musica il cinque si ritrova nelle righe del pentagramma, negli intervalli di quinta, e nella suddivisione dell’ottava in una scala pentatonica (o pentafonica). Questa scala è usata sistematicamente nella musica orientale: in particolare, in Cina, in accordo con la teoria dei cinque agenti. Ed è usata, sporadicamente, anche da noi: ad esempio, nell’inno cristiano Amazing Grace di John Newton (1779), nello
Studio op. 10 n. 5 sui cinque tasti neri di Chopin (1830), nella canzone popolare Oh! Susanna di Stephen Foster (1848) o nel brano jazz I Got Rhythm di George Gershwin (1930). Particolarmente importanti sono poi i quintetti: composizioni musicali per cinque strumenti o formazioni di cinque musicisti. Con le prime si sono cimentati molti grandi compositori, da Mozart, con la Piccola serenata notturna per archi (1787), a Schumann, con il Quintetto per piano (1842). Alle seconde appartengono alcuni storici quintetti jazz, come il Classic Quintet di Charlie Parker prima, e i quintetti di Miles Davis poi. Ma, soprattutto, un quintetto (The Quintet) era anche quello che si esibì il 15 maggio 1953 a Toronto in un concerto passato alla storia
come “il più grande di sempre”, non solo per motivi canonici. Charlie Parker suonò infatti un sax di plastica, il pianista Bud Powell era ubriaco, e il trombettista Dizzy Gillespie sparì dietro le quinte per informarsi sull’andamento del campionato mondiale di boxe con Rocky Marciano. D’altronde, il pubblico aveva preferito quel match al concerto, e i musicisti non furono pagati per la scarsa affluenza al loro, anche se poi si rifecero con la mitica registrazione Jazz at Massey Hall.
In astronomia, gli Egizi usavano un calendario con un anno di 360 giorni, suddivisi in 12 mesi di 30 giorni. Per sincronizzarlo con l’anno solare di 365 giorni e 6 ore, essi aggiungevano ogni anno cinque giorni epagomeni, “supplementari”,
e ogni quattro anni un ulteriore giorno. L’aggiunta si faceva prima del capodanno, che era mobile e determinato dall’arrivo delle piene del Nilo. Con la riforma del calendario giuliano introdotta da Augusto nell’8 della nostra era, l’inizio dell’anno egizio fu uniformato a quello romano, che era fissato il 29 agosto. I cinque giorni epagomeni cadevano dunque dal 24 al 28 agosto, e in essi si veneravano i natali di Osiride, Horus, Seth, Iside e Nefti. I miti evangelici di questa mitologia sono riportati da Plutarco in Iside e Osiride: Si racconta che quando Nut, dea del Cielo, si
unì a Geb, dio della Terra, il Sole se ne accorse
e
lanciò
contro
di
lei
una
maledizione, affinché non potesse generare
figli in nessun giorno dell’anno.
Ma Geb giocò ripetutamente d’azzardo con
la Luna, riuscendo ogni volta a vincerle la sessantesima parte di ogni lunazione. In tal modo accumulò cinque giorni, che inserì nel resto
dell’anno.
Gli
Egizi
li
chiamano
epagomeni, e vi festeggiano i natali della progenie di Geb e Nut.
Oggi naturalmente il mondo festeggia i natali di altri dèi, ma continua a usare gli stessi cinque giorni epagomeni nel calendario.
In geometria, cinque è il numero dei vertici e dei lati del pentagono. E uno dei trionfi della matematica greca fu la scoperta, da parte dei Pitagorici, che il pentagono regolare si può costruire con riga e compasso: la costruzione è infatti meno banale di quelle per il triangolo, il quadrato e l’esagono regolari, e coinvolge la sezione aurea. Le diagonali del pentagono regolare generano poi una figura straordinariamente interessante, chiamata pentacolo o stella pitagorica. A sua volta, questa figura contiene un pentagono regolare generato dall’intersezione dei suoi lati. E questo pentagono genera una nuova stella pitagorica, che genera un nuovo pentagono, e così via. In tal modo l’infinito fece irruzione
nella matematica greca, aprendo prospettive inaspettate.
I Pitagorici usavano la stella come simbolo della loro confraternita. I Cinesi associavano le sue cinque punte ai loro cinque agenti. I massoni la chiamano “stella fiammeggiante”. Gli esorcisti e i satanisti la collegano al nome Jesus, che ha tante lettere quante le punte della stella, e la usano rispettivamente rivolta all’insù o all’ingiù. Nel Novecento essa è diventata la famosa Stella rossa sulla
Cina, a cui Edgar Snow ha dedicato l’omonimo libro, e l’hanno assunta come simbolo l’Armata Rossa, i Viet Cong, i Tupamaros dell’Uruguay e le Brigate Rosse. Anche gli artisti l’hanno usata copiosamente. Ad esempio, Salvador Dalí nella Leda atomica (1949), in cui la figura di Leda è stata inscritta in una stella pitagorica per farle assumere automaticamente proporzioni auree. La proprietà essenziale della stella, infatti, è che il rapporto fra i suoi lati e quelli del pentagono in cui è inscritta, è pari alla sezione aurea.
L’artista più ossessionato dal numero 5 e dalla stella pitagorica sembra essere stato Robert Indiana, che nel 1963 ha dedicato loro una serie di dipinti. Il più importante è Il sogno americano di Demuth n. 5, a sua volta composto di cinque riquadri disposti a croce, ciascuno contenente tre 5 e una stella. Gli altri quattro sono La cifra 5, X-5 e due versioni di Diamond Five. Il riferimento nel primo titolo è a
Ho visto la cifra 5 in oro di Charles Henry Demuth (1928). Il quale, a sua volta, era stato ispirato dalla poesia La grande cifra (1921), che il suo amico William Carlos Williams aveva scritto di getto sulla Quindicesima Strada a Manhattan, dopo aver visto un grande 5 dorato sfrecciare sulla Nona Avenue:
Tra la pioggia e le luci
ho visto la cifra 5 in oro
su un rosso
carro dei pompieri che correva teso
inascoltato
con i gong risuonanti le sirene ululanti
e le ruote rombanti
attraverso la buia città.
In aritmetica, 5 è un numero primo, e insieme a 3 costituisce una coppia di primi gemelli, la cui differenza è 2. A parte l’eccezione della coppia 2 e 3, questa è la minima differenza possibile fra due primi: se la distanza fra due numeri è 1, infatti, uno dei due dev’essere pari, e l’unico primo pari è appunto 2. Di coppie di primi gemelli ce ne sono parecchie: alcune piccole,
appunto come 3 e 5, e altre enormi (vedi pp. 373-374), ma non si sa se ce ne siano infinite. Nel 2013 Yitang Zhang ha dimostrato che esistono infiniti numeri primi la cui differenza è al massimo 70 milioni: si potrebbero chiamare primi parenti, benché con un grado di parentela abbastanza basso. Recentemente i matematici si sono attivati per cercare di farlo scendere fino a 2, ma per ora sono riusciti ad abbassarlo solo a circa 300: meglio, ma ancora lontano dall’obiettivo finale di 2. 5 è anche un numero primo pitagorico, nel senso che misura l’ipotenusa di un triangolo rettangolo a lati interi: cioè, 3 e 4. L’attributo deriva ovviamente dal
collegamento con il teorema di Pitagora, secondo il quale in tal caso:
Su questo triangolo i Pitagorici ricamarono molto: Plutarco riporta in Iside e Osiride che secondo gli Egizi esso suggeriva una valenza “sessuale” del 5, che funge da collegamento tra un 3 maschile eretto in verticale e un 4 femminile disteso in orizzontale. Meno pruriginosamente, si tratta comunque dell’unico triangolo i cui lati sono misurati da tre interi consecutivi. Il 5, comunque, non è affatto l’unico primo pitagorico. Ce ne sono anzi infiniti, e sono esattamente quelli che si possono ottenere come somma di due quadrati: com’è appunto il 5, che è la somma di 1 e
4. O, equivalentemente e più semplicemente, sono quelli che risultano essere pari a un multiplo di 4, più 1: com’è di nuovo appunto 5. Gli altri sono 13, 17, 29, eccetera. Poiché il giorno di Natale del 1640 Pierre de Fermat, in una lettera a padre Marin Mersenne, scrisse di avere una dimostrazione di questo fatto, si parla al proposito del teorema di Natale di Fermat. Purtroppo, però, non se n’è mai trovata traccia, e il primo a dimostrare per davvero il risultato fu Eulero nel 1749. Fu invece Gauss a dimostrare, nelle Disquisizioni aritmetiche del 1801, che i numeri primi pitagorici misurano l’ipotenusa di un triangolo rettangolo a lati interi una sola volta, i loro quadrati due volte, i loro cubi tre volte, eccetera.
Ad esempio: •
5 è l’ipotenusa del triangolo di lati 3 e 4
• 25, dei triangoli di lati 7 e 24, o 15 e 20 • 125, dei triangoli di lati 35 e 120, o 44 e 117, o 75 e 100 eccetera. 5 è anche un numero pentagonale, nel senso che si può rappresentare graficamente con cinque puntini disposti a pentagono. E i Pitagorici notarono che i numeri pentagonali si possono generare partendo da 1 e sommando progressivamente un numero ogni tre, cioè 4, 7, 10, 13, eccetera, ottenendo via via 1, 5, 12, 22, 35, eccetera.
Un’inaspettata applicazione dei numeri pentagonali fu trovata nel 1740 da Eulero. Anzitutto, egli notò che la formula che li genera è n(3n – 1)/2. E che questa formula può anche essere usata con numeri negativi, nel qual caso genera un’altra serie parallela di numeri: 2, 7, 15, 26, 39, eccetera. Messe insieme le due serie, Eulero ottenne i numeri pentagonali generalizzati: 1, 2, 5, 7, 12, 15, eccetera. E scoprì che essi servono a generare i numeri delle partizioni degli interi: cioè i numeri p(n) di somme distinte in cui si possono scomporre i vari n. Ad esempio, p(3) e p(4) sono rispettivamente
uguali a 3 e 5, perché
Ciò che Eulero scoprì, è che i numeri delle partizioni sono legati fra loro dalla seguente formula a doppi segni alternati, in cui si devono usare soltanto i termini relativi a numeri positivi o nulli, e lasciar cadere gli altri: Ad esempio, poiché ovviamente p(0) è uguale a 1, si ha:
I numeri pentagonali non sono dunque semplici curiosità pitagoriche, come potevano sembrare a prima vista, e il teorema
di Eulero viene oggi considerato uno degli snodi cruciali della moderna teoria dei numeri. Un altro successo del 5 in matematica fu la classificazione dei solidi regolari. Teeteto, il protagonista dell’omonimo dialogo platonico, mostrò che ce ne sono appunto esattamente cinque: tre a facce triangolari (il tetraedro, l’ottaedro e l’icosaedro), uno a facce quadrate (il cubo), e uno a facce appunto pentagonali (il dodecaedro).
Un insuccesso invece, per par condicio, fu la dimostrazione
abbozzata nel 1799 da Paolo Ruffini, e completata nel 1824 da Niels Abel, del teorema che non esistono formule risolutive generali per l’equazione di quinto grado, diversamente da quanto succede per le equazioni di grado inferiore. Immagini: il 5 di Erté; esempi del cinque in Natura; i cinque volti di Shiva; la copertina di
Jazz at Massey Hall; la dea Nut; la stella pitagorica e la “stella fiammeggiante”; Leda
atomica di Salvador Dalí; La cifra 5 di Robert Indiana e Ho visto la cifra 5 in oro di Charles Henry
regolari.
Demuth;
classificazione
dei
solidi
Lo vedi come sei 6
L’occorrenza più comune e diffusa del numero sei nel linguaggio quotidiano è forse la siesta, che
deriva dall’ora sexta romana, corrispondente al mezzogiorno. Per estensione il termine è divenuto sinonimo, soprattutto nei paesi sudamericani, del sonnellino pomeridiano che si fa dopo pranzo. Comune è anche l’espressione sesto senso, per indicare una qualità speciale che va al di là dei cinque sensi canonici. E da quando è stata divulgata in un omonimo film nel 1993, tutti conoscono la teoria dei Sei gradi di separazione, che sembra siano sufficienti a collegare due persone qualunque mediante una catena di “amici degli amici”, o di “conoscenti di conoscenti”. In grammatica, sei sono i casi del latino: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo e ablativo. In poesia, l’esametro è un metro classico del verso greco e
latino, consistente di sei trisillabi. E il senario è un verso tipico della poesia italiana, consistente in genere di sei sillabe: ad esempio, “Fratelli d’Italia”. In musica, la scala esatonale divide l’ottava in sei parti uguali, tutte uguali a un tono. Mentre i sestetti sono composizioni per sei strumenti, come i sei dell’Opera 23 di Luigi Boccherini (1776), o i due delle Opere 18 e 36 di Johannes Brahms (1862 e 1866). O un insieme di sei strumentisti, come il gruppo jazz di Benny Goodman, o il gruppo rock dei Jefferson Airplane. Il sestante è uno strumento astronomico per la misura degli angoli di elevazione di un oggetto celeste sopra l’orizzonte, e prende il nome dal fatto di avere un’estensione di 60°: cioè, un sesto
dell’angolo giro. La costellazione del Sestante, come tante altre definite in tempi moderni, ha ricevuto il nome dello strumento tecnologico, invece che di un’entità mitologica come quelle antiche. Anche un’antica moneta romana si chiamava sestante, perché valeva un sesto dell’asse (vedi pp. 86-87), che era la moneta di riferimento. Non aveva invece niente a che fare con il numero sei il sesterzio, che indicava un semis tertius, cioè “metà del terzo (asse)”, e valeva dunque due assi e mezzo. Analoga alla stella pitagorica a cinque punte, ma da non confondere con essa, è la stella di David a sei punte, che campeggia nella bandiera di Israele. La si
ottiene intersecando due triangoli equilateri rivolti in direzioni opposte, uno con la punta in su e l’altro con la punta in giù, che richiamano le due Δ del nome dell’antico re, scritto in greco maiuscolo. Ma la sua prima testimonianza storica in Palestina è solo del secolo III, e il suo uso come simbolo dell’identità ebraica è medievale. Le origini dell’esagramma sono in realtà orientali, ed esso è stato usato dagli Induisti e dai Buddhisti molto prima che dagli Ebrei. In questo caso a significare, da un lato, la divina compenetrazione di Shiva e Shakti, come rispettivi simboli dei princìpi maschile e femminile. E, dall’altro lato, lo stato di equilibrio tra l’uomo e Dio raggiunto nel nirvana.
L’interno dell’esagramma, tolte le punte, è un esagono regolare, a sei lati. Il suo analogo solido è l’esaedro regolare, a sei facce, più noto come cubo. L’esagono è uno dei tre poligoni
regolari con i quali si possono costruire piastrelle tutte uguali che pavimentino l’intero piano: gli altri due sono il triangolo e il quadrato. E il cubo è l’unico dei solidi regolari con il quale si possono costruire tasselli che riempiano l’intero spazio. La piastrellazione esagonale è usata dalle api per la costruzione delle celle degli alveari. Ma le forme esagonali sono diffuse in Natura: dalle squame sul carapace delle tartarughe, ai fiocchi di neve. Anche la carta della Francia ricorda un esagono, e infatti i Francesi la chiamano l’Hexagone.
In fisica, il sei ha conquistato di recente un posto d’onore nel cosiddetto Modello Standard, che classifica l’intera materia in sei quark e sei leptoni, e l’antimateria in sei antiquark e sei antileptoni, divisi in vari gruppi.
Un primo gruppo consiste di due quark, chiamati “up” e “down”, e due leptoni, cioè l’elettrone e il suo corrispondente neutrino, ed è sufficiente a rendere conto di tutti gli atomi stabili della materia ordinaria. Questi ultimi, infatti, sono costituiti da un nucleo al centro, composto di protoni e neutroni, e di elettroni attorno. E i protoni e i neutroni sono a loro volta costituiti da tre quark, due di un tipo e uno dell’altro. Ci sono poi altri due gruppi, ciascuno di quattro particelle analoghe a quelle del primo, eccetto che per il fatto di avere masse maggiori: intermedie nel secondo gruppo, e grandi nel terzo. I tre gruppi assieme formano appunto due sestetti, uno di quark e l’altro di leptoni, le cui particelle vengono
legate insieme dalle varie forze: gravitazionale, elettromagnetica e nucleare. In chimica, il sei ha sempre avuto un ruolo centrale nella vita, a causa del fatto che questa è basata sul carbonio: cioè, su un atomo con sei protoni nel nucleo, e sei elettroni in orbita. L’intera chimica organica studia appunto i multiformi composti che il carbonio forma con se stesso e con altri elementi leggeri, facilitato dal fatto che quattro dei suoi elettroni riempiono a metà il livello energetico esterno, e lasciano l’atomo di carbonio ugualmente propenso a catturare altri atomi, o a esserne catturato. Tra i composti più noti a base di carbonio ci sono il carbone, usato
come combustibile dai tempi della Rivoluzione Industriale. La grafite, il cui nome ricorda l’uso che se ne fa per scrivere con le mine delle matite. Il diamante, che secondo Marilyn Monroe è “il migliore amico delle ragazze”. L’anidride carbonica, responsabile dell’effetto serra. Il monossido di carbonio, prodotto dalla combustione di combustibili organici. E gli idrocarburi, costituenti dell’asfalto, del petrolio e del metano.
Spesso un legame aggiuntivo tra il carbonio e il numero 6 si manifesta nella struttura esagonale dei suoi composti. Così è non soltanto nella già citata grafite, ma anche nel benzene, usato come costituente delle benzine, e nel fullerene, che è una molecola con 60 atomi di carbonio disposti a forma di pallone da calcio, a facce pentagonali ed esagonali. In biologia, invece, il sei si
manifesta tipicamente negli esapodi, che comprendono tutti gli insetti: dunque, la stragrande maggioranza delle specie animali viventi sulla Terra.
Dal punto di vista aritmetico, il numero 6 ha un rapporto speciale con i numeri 1, 2 e 3. Anzitutto, ne è il prodotto, il che lo rende il primo numero a non essere né primo, né quadrato. Questa proprietà permetteva agli antichi di associare il 6 a Venere, in quanto prodotto
del maschile 3 col femminile 2. E permette ai moderni di fare giochi musicali come l’hemiola (dal greco hemi e holos, “metà e tutto”), che si basa sulla possibilità di raggruppare sei note in due gruppi di tre, o in tre gruppi di due: come nel famoso ritmo di «America», da West Side Story, di Leonard Bernstein (1957). Inoltre, 6 è la somma di 1, 2 e 3, il che lo rende un numero triangolare. Ma lo rende anche un numero perfetto, nel senso che è uguale alla somma dei suoi divisori propri, che sono appunto 1, 2, 3. Anzi, è il primo numero perfetto, mentre 28 è il secondo, 496 il terzo e 8.128 il quarto. I Greci non ne conoscevano altri. Noi sì, ma solo un numero finito, e tutti pari. E non sappiamo se ce ne siano infiniti, né se ce ne siano di dispari.
La scelta dell’attributo “perfetto” risale a Euclide, e attesta la venerazione che già i Greci avevano per questi rari numeri. Nella Creazione del mondo un filosofo ebreo del secolo I, Filone di Alessandria, sostenne addirittura che Dio creò il mondo in sei giorni, proprio perché 6 è un numero perfetto. E nella Città di Dio (XI, 30) Agostino dedicò un intero paragrafo alla questione: A causa della perfezione del numero 6, la Sacra Scrittura narra che la creazione è stata portata a termine in sei giorni. Dio avrebbe potuto creare tutte le cose insieme, in un solo
istante, e dispiegarle successivamente nel
tempo, ma mediante il simbolismo del 6 ha voluto indicare la perfezione del creato. Il 6
infatti è il primo numero a completarsi con l’addizione delle proprie parti: la sesta parte,
la terza parte e la metà, cioè l’1, il 2 e il 3, che sommati fra loro danno il 6. […] Pertanto
non
dobbiamo
trascurare
l’aritmetica, che in molti passi della Sacra Scrittura risulta di grande aiuto all’interprete attento. Non a caso è stato detto, a lode di
Dio: «Hai disposto tutto con lunghezze, numeri e pesi» (Sapienza XI, 21, Isaia XL, 12, Giobbe XXVIII, 25).
Dal punto di vista geometrico, sei sono le simmetrie del triangolo equilatero: tre rotazioni di 60° rispetto al centro, e tre riflessioni rispetto alle bisettrici degli angoli. Ogni simmetria corrisponde a una delle sei permutazioni dei tre vertici, e viceversa. Le varie simmetrie possono anche essere combinate fra loro, ma il risultato dipende dall’ordine delle
combinazioni: cioè, la combinazione delle simmetrie non è commutativa. Ad esempio, fare una rotazione e una riflessione non è la stessa cosa che fare una riflessione e una rotazione, così come sposarsi e avere dei figli non è la stessa cosa che fare dei figli e sposarsi. E questo vale per qualunque poligono regolare, e non solo per il triangolo. Immagini: il 6 di Erté; l’esagramma induista; esempi del sei in Natura: celle dell’alveare,
carapace della tartaruga, fiocco di neve, carbone ed esapodi.
Sette volte sette 7
Completata la Creazione del mondo, il settimo giorno Dio si riposò. E a sua immagine e somiglianza, completato il lavoro
della settimana, così fanno a turno i Musulmani il venerdì, gli Ebrei il sabato e i Cristiani la domenica, nel weekend lungo del monoteismo mediorientale. Quanto alle opere compiute nella Creazione, Pico della Mirandola ne offrì sette interpretazioni per ciascuno dei sette giorni, in un libro in sette capitoli divisi in sette sezioni, appropriatamente intitolato Heptaplus (1489). Nell’antichità, sette erano i cieli e i pianeti, e gli associati metalli degli alchimisti. Sette le stelle del Gran Carro nell’Orsa Maggiore, e gli associati sette buoi (septem triones) che danno il nome al Settentrione. Sette i rishi dell’induismo, i chakra del corpo umano e le lingue di fuoco di Agni. Sette i saggi cinesi del Boschetto di Bambù, le fate di
sette colori, e i giorni di lutto. Sette i gradoni delle ziggurat babilonesi, e i rami dell’Albero della Vita. Sette le corde della lira di Apollo, i mari greci, le meraviglie del mondo, i saggi presocratici, le porte e gli eroi di Tebe. Sette i colli e i re di Roma.
Sette erano i giorni dell’assedio di Gerico, i pilastri della saggezza, i
veli di Salomè, i bracci del candelabro del Tempio. Settanta volte sette i perdoni che bisogna dare secondo Gesù, e sette le sue ultime parole in croce. Sette i sigilli, le trombe, i candelabri e le teste della Bestia nell’Apocalisse. Sette i vizi o peccati capitali, le corrispondenti cornici del Purgatorio, e le “P” sulla fronte di Dante. Sette le virtù teologali e cardinali, le opere di misericordia corporale, i sacramenti, le parti della Messa. Sette le circumambulazioni attorno alla Ka’ba della Mecca, e sette gli imam riconosciuti dagli sciiti settimani, che disconoscono i successivi. Sette sono le strutture settenarie descritte nel secolo XII da Giovanni di Salisbury nel De septem septenis, appunto: i tipi di apprendimento, le
arti liberali del trivium e del quadrivium, gli orifizi sensoriali della testa, le forze dell’anima, i doni dello Spirito Santo, i gradi di contemplazione, e i princìpi delle cose. Nel poema di Nizami Haft Peykar, “Sette ritratti” (1197), sette sono le bellezze di cui il re si innamora, provenienti dai sette cantoni della Terra, vestite dei sette colori dell’iride, alloggiate in sette palazzi consacrati ai sette pianeti, e visitate a turno dal re nei sette giorni della settimana. Ogni sera una delle sue sette spose racconta al re le storie che confluiranno nella raccolta dei Mille e un giorno, e una di queste storie è la versione originale della vicenda di Turandot e dei suoi enigmi. Sette lettere ha la parola magica
Abraxas, adottata, tra gli altri, dallo gnostico Basilide e dallo psicanalista Carl Gustav Jung. Sette sono i viaggi di Sinbad il marinaio, i nani di Biancaneve, le leghe degli stivali di Pollicino, la percentuale di cocaina nella soluzione di Sherlock Holmes, i Sette samurai del film di Kurosawa, i Magnifici Sette del remake di Sturges, gli assassinii di Seven, il codice 007 di James Bond, il numero magico di Harry Potter.
Sette le vite dei gatti, le camicie che si sudano, i mesi che fanno nascere prematuri da settimini, e gli anni che portano in crisi il matrimonio. Sette sono le età classiche della vita, ciascuna di dieci anni, per un totale di settanta: da cui il «mezzo del cammin di nostra vita» dantesco, a trentacinque anni. In Italia e in altre nazioni dura sette anni il mandato presidenziale, chiamato appunto settennato. Sette sono i caratteri dei piselli individuati da Gregor Mendel nel 1856, per determinare le sue tre leggi dell’ereditarietà. E sette i gruppi cristallografici unidimensionali classificati nel 1891 da Evgraf Fëdorov: essi caratterizzano le possibili simmetrie lineari, e sono stati sfruttati nelle greche dagli artisti di ogni epoca, dagli Egizi agli
Arabi. In geometria, sette è il minimo numero di lati di un poligono regolare non costruibile con riga e compasso. Infatti, mentre il triangolo, il quadrato e l’esagono regolari sono facilmente costruibili, e il pentagono lo è in maniera un po’ meno facile, i ripetuti tentativi greci di costruire un ettagono regolare si scontrarono tutti contro insormontabili difficoltà. Insieme alla trisezione dell’angolo e alla duplicazione del cubo, la costruzione dell’ettagono regolare rimase uno dei grandi problemi insoluti della geometria classica, fino a quando nel 1837 Pierre Wantzel dimostrò, nella Ricerca sui mezzi per riconoscere se un problema
geometrico è risolubile con riga e compasso, che nessuno dei tre problemi lo è. In aritmetica, il 7 ha un’interessante proprietà, alla quale allude un oscuro passaggio della Repubblica (VIII, 546c-d) di Platone, che parla di un numero geometrico che ha il potere di
determinare la natura, buona o cattiva, della prole: se resta sconosciuto ai Custodi essi
finiranno con l’unire in matrimonio sposi e spose male assortiti, col risultato di avere figli poco dotati e disgraziati.
L’allusione è al fatto che 49, cioè il quadrato di 7, è quasi uguale a 50, cioè al doppio del quadrato di 5. Ovvero, un quadrato di lato 5 ha una diagonale quasi uguale a 7, e la
frazione 7/5 è una buona approssimazione razionale della radice di 2, che è un numero irrazionale. Platone usa la proprietà in maniera metaforica, traendone l’auspicio che anche un’unione a prima vista irrazionale come il matrimonio possa quasi funzionare, se gli sposi sono ben assortiti come i numeri 7 e 5. I numeri 7 e 5 fanno subito venire in mente uno degli usi del primo che non abbiamo ancora citato: le note della scala musicale, e i relativi accordi di quinta. In effetti, se si cerca di calcolare il numero di quinte che stanno in un’ottava (vedi p. 123), risolvendo l’equazione 3/2 = 2x, ci si accorge che la soluzione è un numero irrazionale. Ma questo
numero è bene approssimato dal rapporto 4/7, perché sette quinte sono quasi uguali a quattro ottave, con una differenza all’incirca di un semitono. Il che spiega come mai la scala musicale usuale sia eptafonica: cioè, abbia appunto sette note.
Alle sette note della scala corrispondono i sette modi greci, ciascuno dei quali si ottiene suonando sette note consecutive sui tasti bianchi del pianoforte. A seconda che la nota di partenza fosse do, re, mi, fa, sol, la o si, i Greci chiamavano il modo corrispondente lidio, frigio, dorico, sintolidio, ionico, eolico o misolidio.
E gli associavano un particolare stato emotivo, descritto da Platone nella Repubblica: lo ionico e il lidio venivano considerati languidi, il dorico grave e virile, il frigio rilassato, e così via. Mentre i Greci usavano tutti e sette i modi, sant’Agostino e il canto gregoriano li limitarono a quattro: re, mi, fa e sol. Da Jean-Philippe Rameau in avanti, invece, la musica classica ne usa solo due: do e la, che vengono chiamati “maggiore” e “minore”. E gli altri sono stati usati solo raramente: ad esempio, da Bach nella Toccata e fuga dorica (1717), e da Beethoven nella «Canzona di ringraziamento in modo lidio» del Quartetto in la minore op. 132 (1825). Vista la centralità in musica del numero sette, non stupisce che
qualcuno gli abbia dedicato una composizione. Ricard Lamote de Grignon, ad esempio, che divise i suoi Enigmes (1950) in sette parti, ciascuna sviluppante un tema di sette note. E Nicola Piovani, il cui Epta (2008) per sette musicisti, sette strumenti e in sette movimenti, è scandito da sette interventi di voci registrate che recitano frammenti di varia derivazione ispirati al numero sette. Nonostante tutto, però, in musica il sette non è sempre fortunato. Ad esempio, il settimo armonico, corrispondente al rapporto 7/6, è dissonante. Per eliminarlo, nei pianoforti si fa colpire la corda dal martelletto a un settimo della sua lunghezza, inibendo così per la “legge di Young” gli armonici di lunghezza multipla di 7.
Nella teoria cosmologica esposta da Platone nel Timeo, le sette note corrispondono ai sette pianeti dell’antichità: cioè, nell’ordine apparente del sistema tolemaico, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Procedendo “per quinte”, l’ordine dei pianeti diventa: Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno e Sole. Il che spiega in che modo l’ordine dei sette giorni della settimana corrisponda a quello, diverso, dei pianeti che danno loro il nome (anche se da noi il Dominicus cristiano ha preso il posto del Sole pagano, facendo diventare “Domenica” ciò che nei paesi anglosassoni rimane Sunday, “giorno del Sole”). Nella teoria dei colori esposta nel 1704 da Newton nell’Ottica, le sette
note (della scala di la minore) corrispondono invece ai sette colori visibili, grazie al fatto che le lunghezze d’onda estreme dello spettro della luce visibile stanno nello stesso rapporto di due note distanti un’ottava. Più precisamente, la lunghezza d’onda a cui inizia l’infrarosso è di circa 760 nanometri, quella dell’ultravioletto di circa 380 nanometri, con un rapporto appunto pari a 2. Immagini: il 7 di Erté; i sette chakra; l’Orsa Maggiore; i sette saggi cinesi del Boschetto di
Bambù; i sette nani di Biancaneve; le sette note musicali.
L’Ottuplice Via 8
I giochi della XXIX Olimpiade si sono aperti a Pechino l’8 agosto 2008, poco dopo le venti: più
precisamente, alle ore 08:08:08 pomeridiane del giorno 08.08.08. Un momento ovviamente non scelto a caso, e dovuto al fatto che per i Cinesi l’8 è un numero fortunato: il carattere “bā” che lo indica, infatti, si pronuncia quasi come il carattere “fā”, che indica invece la ricchezza. Questo è solo uno dei motivi per cui l’8 appare ubiquamente nella cultura cinese, sia colta che popolare. Il Feng Shui, “Vento e acqua”, ad esempio, che la moda new age ha reso popolare anche in Occidente, si preoccupa di orientare gli edifici e gli arredamenti in modi considerati di buon auspicio, e nel farlo usa tra le altre cose il sistema del Bagua, “Otto simboli”. Questo sistema, le cui incerte origini risalgono a quattro millenni fa, si basa su una disposizione degli
otto trigrammi, “tre linee”, che si possono ottenere combinando in tutti i modi possibili tre linee intere (yang) o spezzate (yin). I trigrammi costituiscono una rappresentazione binaria dei primi otto numeri, da 0 a 7, e vengono variamente interpretati come le direzioni della Rosa dei Venti, le aspirazioni nella vita, o le possibili risposte alle domande poste a un oracolo. Gli otto trigrammi in genere vengono disposti in forma ottagonale: la stessa della moneta da un dollaro di Singapore, e di molti altri oggetti votivi o astrologici che si trovano nei mercati orientali, dai bicchieri agli specchi. Non a caso, in Cina si venerano gli otto immortali taoisti, simboli di longevità e di prosperità, e le loro immagini sono ubique sia
nella cultura artistica che in quella popolare.
Anche nel buddhismo il numero 8 gioca un ruolo fondamentale. La quarta delle “nobili verità”, che il Buddha predicò nel suo Primo Sermone nel Parco delle Gazzelle di Sarnath, è infatti che esiste una via per eliminare la sofferenza, ed essa consiste nella cosiddetta Ottuplice Via: “retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto
modo di vivere, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione”. Di qui derivano gli otto simboli, che sono il loto a otto petali, per la purezza. Il nodo infinito, per l’armonia. La coppia di pesci dorati, per la felicità coniugale. Lo stendardo, per la vittoria in battaglia. La ruota a otto raggi, per la conoscenza. Il vaso prezioso, per la prosperità. Il parasole, per la protezione dagli elementi. E la conchiglia, per il pensiero del Buddha.
E derivano anche gli otto bodhisattva, associati a vari aspetti del Buddha: la visione trascendentale (Manjusri), il potere sulle cose (Vajrapani), la compassione (Avalokitesvara), il ritorno futuro (Maitreya), la protezione dei bambini (Ksitigarbha), la soluzione dei problemi (Sarvanivaranavishkambhin), lo spazio (Akasagarbha) e la
meditazione (Samantabhadra). Nell’ebraismo, otto erano gli esseri umani saliti sull’arca per salvarsi dal Diluvio Universale, e dar vita a una second life: Noè, i suoi tre figli, e le loro quattro mogli. Ma poiché i divisori propri di 8, cioè 1, 2 e 4, sommano solo a 7, che è inferiore a 8, questo numero è meno che perfetto, a differenza del 6 (vedi pp. 160-161): il che dovrebbe stare a significare che la seconda genesi dell’umanità fu (ancor) meno perfetta della prima, che come sappiamo era basata sul simbolismo del numero perfetto 6. Nel cristianesimo, invece, si parla delle otto beatitudini del Discorso della Montagna, nonostante il Vangelo secondo Matteo ne enumeri
nove, e quello di Luca quattro. In ogni caso, la chiesa costruita nel 1938 sul Monte delle Beatitudini ha una pianta ottagonale, e ciascuna parete reca incisa una delle “otto” beatitudini. Ad aumentare la confusione, il mosaico sul pavimento è dedicato alle virtù teologali e cardinali, che però sono solo sette. Nell’islam, il Paradiso si chiama Jannah, “Giardino”, in riferimento all’Eden. E ha otto livelli, cantati da Amir Khusraw negli otto capitoli dell’Hasht Bihisht, “Otto Paradisi” (1302). Ad essi si accede attraverso otto porte, decorate con otto gioielli: la prima per chi ha pregato secondo le regole, la seconda per chi ha combattuto nella guerra santa (jihad), la terza per chi è stato caritatevole, la quarta per chi ha
digiunato (ramadan), la quinta per chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), la sesta per chi ha perdonato, la settima per chi non ha meritato castigo, e l’ottava per chi è vissuto “a Dio piacendo” (inshallah). I giardini botanici islamici riflettono l’ottuplice struttura del Giardino Celeste. E lo fanno anche quelli letterari come il Golestân, “Roseto”, di Sa’di (1259), capolavoro della prosa persiana, anch’esso rigorosamente in otto capitoli, su argomenti variegati come le rose: le abitudini dei re, la morale dei dervisci, l’eccellenza della felicità, i vantaggi del silenzio, l’amore e la gioventù, le malattie e la vecchiaia, gli effetti dell’educazione, e le regole di comportamento nella vita.
Passando dall’astratto al concreto, l’otto per mille è un’ulteriore beatitudine della Chiesa, corrispondente al finanziamento statale elargitole nel 1985 da Bettino Craxi. Eight days a week, “Otto giorni alla settimana”, cantavano i Beatles nel 1964. After eight, “dopo le otto”, si dovrebbero consumare gli omonimi sottili biscotti ricoperti di cioccolato e ripieni di crema alla menta, prodotti dalla Nestlé dal 1962. Otto millimetri è stato a lungo il formato standard della cinematografia amatoriale, introdotto dalla Kodak nel 1932. A otto rantoli era l’agonia dello Snark, pubblicato da Lewis Carroll nel 1876. E ottocenteschi sono anche gli ottovolanti, che prendono il nome dalla forma
apparente delle rotaie a saliscendi, guardate da certi punti di vista: essendo stati inventati in Russia, vengono anche chiamati “montagne russe”. A proposito di divertimenti, nel biliardo a buche, o pool, uno dei giochi più comuni è palla 8, che consiste nell’imbucare la palla numero 8, di colore nero, dopo aver imbucato le sette assegnate ai due giocatori: a uno quelle di colore pieno, dall’1 al 7, e all’altro quelle di due colori a strisce, dal 9 al 15.
Quanto agli scacchi, si giocano su una scacchiera otto per otto, e sia il re che la regina si possono muovere in otto direzioni diverse. Uno dei classici problemi al riguardo, proposto nel 1848 da Max Bezzel e risolto nel 1850 da Franz Nauck, consiste nel disporre sulla scacchiera otto regine in modo che nessuna dia scacco alle altre. Le soluzioni possibili sono 92, di cui 12 fondamentali, e le altre riducibili a quelle per rotazioni e riflessioni.
Oggi si possono facilmente generare tutte con appositi programmi al computer, il primo dei quali scritto nel 1972 da Edsger Dijkstra. In musica, l’ottava è l’intervallo fra due stesse note consecutive: ad esempio, fra un do e quello successivo. La scala ottofonica, usata tra gli altri da Igor Stravinskij nei balletti Petrushka (1911) e La sagra della primavera (1913), divide l’ottava in otto parti, quattro di un tono e quattro di un semitono, alternate fra loro. E l’ottavino prende il nome dalla propria limitata estensione, che è di sole tre ottave. Un ottetto (parola palindroma, come lo stesso “otto”) è una composizione per otto strumenti o
interpreti, come l’Opera 20 per archi di Felix Mendelssohn (1825), o un gruppo di otto musicisti, come la formazione dell’album Free Jazz di Ornette Coleman (1961). E in ottofonia si trasmettono i suoni da otto punti diversi: in genere, gli angoli sul pavimento e sul soffitto di una stanza, come previsto per l’omonimo brano Oktophonie di Karlheinz Stockhausen (1991). In biologia, i polpi hanno otto tentacoli, e tecnicamente si chiamano infatti octopodi: in italiano il termine è desueto, ma in inglese octopus è invece comune, come nella canzone Octopus’s Garden dei Beatles (1969). Anche gli aracnidi, la classe di cui fanno parte i ragni, hanno otto zampe. E a volte,
come per le tarantole, anche otto occhi. L’uomo, invece, ha otto denti per ciascun quadrante, per un totale di trentadue: i dentisti li indicano appunto con una lettera da A a D per il quadrante, e un numero da 1 a 8 per il dente, quando giocano le loro “battaglie dentali” sui pazienti.
In chimica, gli ottani sono molecole organiche composte da otto atomi di carbonio, le cui valenze sono saturate da diciotto atomi di idrogeno. Il numero di ottano è un
parametro usato comunemente per la benzina, perché ne misura la resistenza alla detonazione: se il carburante ha un valore basso di ottano, è molto detonante e fa “battere in testa” il motore, mentre se ne ha uno alto è “super”. Infine, la regola dell’ottetto è stata formulata nel 1916 da Gilbert Lewis per spiegare la stabilità e la non reattività degli atomi che contengono otto elettroni nel livello energetico esterno. In fisica, l’ottuplice via è un modo per organizzare le particelle elementari in ottetti: è stata introdotta nel 1962 da Murray GellMann, che l’ha così chiamata in riferimento al buddhismo, e da essa si è poi sviluppata la teoria dei quark. In astronomia, l’anno venusiano
dura 225 giorni, contro i 365 dell’anno terrestre: poiché il rapporto è di circa 8 a 13, tredici cicli di fasi di Venere si ripetono esattamente ogni otto anni. L’avevano già osservato i Babilonesi quattro millenni fa, esprimendo il tutto simbolicamente con la stella di Ishtar a otto punte, poi mutuata dall’iconografia cristiana per la Madonna. E mitologizzandolo nel racconto della sua discesa agli Inferi e del suo passaggio attraverso una serie di porte, di fronte a ciascuna delle quali ella dapprima si spoglia di un indumento alla volta, fino a rimanere nuda, e poi si riveste di un indumento alla volta.
In geometria, l’ottagono regolare viene spesso visto come una tappa di passaggio tra il quadrato e il cerchio. In tal senso lo si usa in certe rappresentazioni del lingam, simbolo fallico di Shiva, ubiquo nei templi indù, che a volte è diviso in tre sezioni: quadrata in basso, ottagonale al centro, e circolare in alto. Le tre parti simboleggiano la trimurti di Brahma, Vishnu e Shiva, e matematicamente costituiscono
successive approssimazioni al cerchio, e dunque al valore di pi greco. Lo stesso simbolismo viene usato nell’iconografia cristiana, per indicare il passaggio dall’uomo a Dio attraverso la mediazione di Cristo. Per questo in molte chiese il passaggio dalla pianta quadrata alla cupola circolare si ottiene attraverso un tamburo ottagonale, come in Santa Sofia a Istanbul, e in molti battisteri la pianta è ottagonale. Anche il fonte battesimale dell’Adorazione dell’Agnello mistico dei fratelli Jan e Hubert Van Eyck (1432) è ottagonale, e il dipinto mostra anche un altare quadrato, e un cerchio da cui emana lo Spirito Santo in forma di colomba.
Ma la pianta ottagonale è tipica anche di molti altri edifici, sacri o profani. Ad esempio, i ninfei greci e romani, dedicati alle divinità acquatiche, e versioni pagane dei battisteri cristiani. La Cappella Palatina di Aquisgrana, nella quale gli imperatori venivano incoronati, naturalmente con una corona ottagonale. Molti edifici sacri eretti dai Templari e da altri ordini religioso-militari, tutti sul modello dell’originario Imbomon, la prima
Basilica dell’Ascensione a Gerusalemme. La Cupola della Roccia e la Moschea Al Aqsa, sempre a Gerusalemme. E, naturalmente, Castel del Monte, vicino a Bari: una doppia struttura ottagonale, interna ed esterna, che si ripete per otto volte nelle torri situate ai suoi vertici. Un particolare ottagono stellato si ottiene intersecando in modo simmetrico a 45 gradi due quadrati. Gli induisti chiamano questa figura stella di Lakshmi, perché rappresenta le otto abbondanze profuse dalla dea della fortuna. I buddhisti la raffigurano invece sul petto di Buddha, perché lo ritengono in grado di imprigionare gli spiriti cattivi.
Passando alle tre dimensioni, infine, otto sono le facce triangolari dell’ottaedro, che è uno dei cinque solidi regolari divulgati da Platone nel suo esoterico dialogo Timeo, nel quale corrisponde all’aria. In aritmetica, 8 è il primo numero cubo non banale, cioè diverso da 1: questo fa sì che i Greci lo considerassero “superfemminile”, in quanto triplo prodotto del primo numero femminile 2. Un’altra interessante proprietà aritmetica del numero 8 è che tutti i quadrati dispari sono suoi multipli,
con l’aggiunta di uno: cioè, ogni quadrato dispari è del tipo 8k + 1, benché non ogni numero di questo tipo sia un quadrato dispari. Ad esempio: Come si può intuire dagli esempi, i quadrati dispari si ottengono moltiplicando per 8 i successivi numeri triangolari, e aggiungendo 1. Dal punto di vista geometrico non sono dunque altro che i numeri ottagonali, con il centro aggiunto per tener conto del “più uno”.
In informatica le cifre binarie si chiamano bit, e le sequenze di otto cifre binarie si chiamano byte in inglese, e octet in francese: poiché ciascun bit può prendere i due valori 0 o 1, ogni byte può prenderne 28, cioè 256: ovvero, tutti i numeri binari da 0 a 11.111.111. In algebra, nel 1843 Arthur Cayley e John Graves scoprirono che si possono combinare fra loro ottetti di numeri reali secondo regole non commutative e non associative, in modo da formare una cosiddetta algebra degli ottetti, o degli ottonioni. Essi costituiscono l’ultima estensione algebrica finita possibile dei numeri reali, dopo quella delle coppie che formano i numeri complessi, e le quaterne che formano i quaternioni.
Immagini: l’8 di Erté; gli otto trigrammi del Bagua; gli otto simboli buddhisti nel monastero
indiano di Tawang; la palla 8 del biliardo;
esempi dell’otto in Natura; la stella di Ishtar e la stella
associata
a
Maria;
l’Adorazione
dell’Agnello mistico di Jan e Hubert Van Eyck; la Cupola della Roccia e la stella di Lakshmi.
Le code del gatto 9
Nel mitico 1968, i Beatles inclusero nel White Album il loro brano più sperimentale e più lungo, intitolato «Revolution 9», in cui viene
continuamente ripetuta l’espressione number nine. Un paio d’anni dopo, in un’intervista per «Rolling Stone», John Lennon dichiarò: Avevo trovato nello studio un nastro di
prova, in cui un ingegnere diceva: «Test
numero nove della serie EMI». Ho tagliato
tutto, eccetto il «numero nove». Nove [ottobre
1940]
compleanno,
il
è
il
mio
giorno
numero
del
mio
fortunato,
eccetera, ma sul momento non me n’ero
accorto: avevo solo trovato divertente la voce che diceva «numero nove». Era uno scherzo,
metterci il numero nove dappertutto, e questo è quanto.
Lennon non era l’unico a considerare il nove un numero fortunato. Lo fa anche la tradizione cinese, sulla base del fatto che
“nove” e “lunga vita” si pronunciano nello stesso modo (ji ). Per un motivo uguale e contrario, la tradizione giapponese considera invece il nove un numero sfortunato, sulla base del fatto che sono “nove” e “dolore” a pronunciarsi nello stesso modo (kyū). In Cina il nove è un numero sacro, come ricordano varie strutture del Tempio del Cielo di Pechino. Ad esempio, all’Altare del Tumulo Circolare si accede con scalinate di nove gradini, che rappresentano i nove livelli del cielo. E la circolare Pietra del Cuore Celeste, che sta sulla terrazza, è circondata da nove anelli: il primo di 9 piastre, il secondo di 18, eccetera, fino al nono di 81. Sempre in Cina, il nove è anche
un numero imperiale, come di nuovo ricordano varie strutture della Città Proibita. Ad esempio, le porte sono decorate con griglie nove per nove di chiodi dorati, e il Muro dei Nove Dragoni ne rappresenta appunto nove. Tra l’altro, l’intero simbolismo del dragone cinese è legato al nove: ce ne sono di nove tipi, hanno tutti nove parti, e le loro scaglie sono divise in 36 (9 × 4) di tipo yin e 81 (9 × 9) di tipo yang, per un totale di 117 (9 × 13). Anche molte località prendono il nome dai “nove dragoni”: prima fra tutte Caolun, la zona urbana di Hong Kong.
Un dragone a nove teste di nome Xiangliu era considerato responsabile delle inondazioni. La sua uccisione da parte del mitico imperatore Yu, fondatore della prima dinastia cinese circa quattro millenni fa, ricorda in maniera mitologica la bonifica del territorio. Sempre a Yu risalgono la suddivisione dell’impero nelle Nove Province e la fusione dei Nove Tripodi rituali, che divennero simboli del potere imperiale e furono tramandati di dinastia in dinastia, fino alla loro scomparsa qualche secolo prima della nostra era. Nella cultura egizia, nove erano gli dèi raggruppati in una sacra enneade e venerati nella Città del
Sole chiamata Eliopolis dai Greci, e situata nei sobborghi dell’odierna Cairo. Il loro capostipite era Aton, che rappresentava appunto il Sole. Essendo la divinità primordiale, per generare Shu e Tefnut, cioè l’Aria e l’Acqua, egli dovette masturbarsi. Questi generarono poi in modo canonico Geb e Nut, cioè la Terra e il Cielo stellato. E a loro volta essi generarono Osiride e Iside, e Seth e Nefti, nei modi già visti a proposito dei giorni epagomeni.
Nella cultura greca, nove erano le muse, nate da nove scappatelle di Zeus. Nove i giorni e le notti di travaglio che Latona impiegò per partorire Apollo. Nove i giorni di caduta libera che, nella Teogonia di Esiodo, misuravano le distanze tra il Cielo e la Terra, e tra la Terra e gli Inferi. Nove le teste dell’Idra, che Ercole sconfisse nella sua seconda fatica. Nove i meandri dello Stige
infernale. Nove gli anni dell’assedio di Troia e i giorni della peste, nell’Iliade. Nove gli anni del viaggio di Ulisse e i giorni del suo naufragio, nell’Odissea. Nove i libri delle Storie di Erodoto, e i trattati di ciascuna parte delle Enneadi di Plotino.
Nella cultura cristiana, il nove viene considerato una specie di quadrato della Trinità. Nei Vangeli, Cristo muore alla nona ora: dalla
quale deriva, tra l’altro, il noon inglese. Negli Atti degli Apostoli, nove giorni di preghiera separano l’Ascensione dalla Pentecoste: di qui la pratica delle novene precedenti il Natale e altre feste. Nella Gerarchia celeste, lo Pseudo Dionigi Areopagita suddivide gli angeli in nove cori, via via più vicini a Dio: angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni, cherubini e serafini. Nella cultura islamica, il mese di digiuno del Ramadan è il nono dell’anno lunare adottato da Maometto. Poiché il sistema prevede dodici mesi di 29 o 30 giorni, per un totale di 354 all’anno, la discrepanza di undici giorni rispetto al calendario solare fa sì che il Ramadan slitti ogni anno, e la parola abbia perso il significato
originario di “mese caldo”. Naturalmente, il “nono mese” corrisponde anche a quello del parto, nella gestazione di un essere umano. Dante attinse a tutte queste tradizioni, da vero fanatico del nove. Nella Divina Commedia, l’Inferno è costituito di nove cerchi. Il Purgatorio è diviso in nove parti: sette cornici, più l’antipurgatorio e il Paradiso Terrestre. Il Paradiso consiste di nove cieli concentrici, che corrispondono ai sette pianeti tolemaici, più le Stelle Fisse e il Primo Mobile. E nell’Empireo le nove gerarchie angeliche sono distribuite in nove cerchi di fuoco attorno a Dio, rappresentato come un punto luminoso.
Nella Vita Nova Dante racconta invece di aver incontrato Beatrice per la prima volta a nove anni e
nove mesi, quando lei aveva nove anni e tre mesi, e di averla reincontrata per la seconda volta nove anni dopo. Naturalmente, in quest’occasione lei gli rivolse la prima parola all’ora nona del giorno. La musa morì l’8 giugno 1290, dopo il tramonto: cioè, fa notare il poeta, nel nono giorno arabo del nono mese siriano della nona decina del secolo cristiano. Come mai «questo numero fosse in tanto amico di lei» ce lo spiega lo stesso libro (XXIX): Lo numero del tre è la radice del nove, però
che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo
fa
nove,
sì
come
vedemo
manifestamente che tre via tre fa nove.
Dunque se lo tre è fattore per se medesimo
del nove, e lo fattore per se medesimo de li
miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito
Santo, li quali sono tre e uno, questa donna
fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.
Forse ancora per più sottile persona si
vederebbe in ciò più sottile ragione. Ma questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace.
Naturalmente, contento contenti anche tutti noi.
lui,
In geometria, così come l’ettagono regolare è il primo poligono non costruibile con riga e compasso, l’ennagono regolare è il secondo. Unendo ciascun vertice dell’ennagono regolare con i due opposti mediante le diagonali si ottiene una figura chiamata enneagramma, che è una versione più complessa della stella
pitagorica, a nove punte invece che a cinque. Il suo bordo esterno costituisce la stella Bahá’ì, che è uno dAei simboli della religione sincretica fondata nell’Ottocento da Bahá’u’lláh. Nel sistema Abjad, infatti, che assegna valori numerici alle lettere dell’alfabeto arabo, Bahá si traduce in 2.151, la cui somma fa appunto 9.
Un altro enneagramma si ottiene in maniera diversa dall’ennagono regolare, enumerando i vertici in maniera circolare, e poi unendone
tre in un triangolo regolare 369, e gli altri sei in un esagramma irregolare 142857: un numero sul quale torneremo (vedi p. 299). Questo enneagramma è stato inventato nel 1916 da George Gurdjieff durante l’elaborazione della sua “quarta via”, e divulgato nel 1949 dopo la sua morte da Peter Ouspensky nel libro Frammenti di un insegnamento sconosciuto.
Gurdjieff e Ouspensky consideravano questo enneagramma come la chiave di molti segreti: forse anche troppi, visto che tra essi includevano persino quello della pietra filosofale. Più modestamente, ma solo un poco, Oscar Ichazo l’ha
adottato nella propria “protoanalisi” come diagramma delle personalità, per descriverne i nove tipi fondamentali e le reciproche connessioni. E nel 1992 ha pure provato a brevettarlo, ma la sua richiesta è stata respinta, sulla base del principio che egli presentava le proprie teorie come scoperte fattuali, mentre solo le invenzioni possono essere brevettate. In aritmetica 9 è il quadrato di 3, come ricorda il girotondo delle streghe nel Macbeth di William Shakespeare (1606): Thrice to thine, and thrice to mine, And thrice again, to make up nine. Tre attorno a te, tre attorno a me,
E poi di nuovo tre, per fare nove.
E come una stregoneria è spesso percepito a scuola il fatto che “infiniti 9 dopo la virgola equivalgono a un 1 davanti”. In realtà, si tratta soltanto di un caso particolare della divisione di un intero per 9, che produce serie di cifre ripetute analoghe a quelle che ritroveremo nel prossimo capitolo:
Poiché le fattorizzazioni di 8 e 9 sono 23 e 32, la somma della base e dell’esponente dei due numeri è la stessa, cioè 5. Analogamente, poiché le due fattorizzazioni si espandono in 2 × 2 × 2 e 3 × 3, è la stessa anche la somma dei rispettivi fattori primi, cioè 6. Inoltre, il cubo 8 e il quadrato 9 differiscono per una sola unità. Nel 1343 il talmudista francese Levi ben Gershon, detto Gersonide, dimostrò nell’Armonia dei numeri che le uniche potenze di 2 e 3 per cui questo succede sono quelle banali corrispondenti alle coppie (1, 2), (2, 3) e (3, 4), e appunto la coppia (8, 9). Il padre di Gersonide si chiamava Catalan, e per ironia della sorte fu proprio il matematico francese
Eugène Catalan, nel 1844, a domandarsi se 8 e 9 fossero le uniche due potenze non banali che differiscono per una sola unità. La risposta positiva divenne nota come congettura di Catalan, ed è stata dimostrata nel 2002 da Preda Mih ilescu (vedi anche p. 389). Immagini: il 9 di Erté; il Muro dei Nove
Dragoni; le nove muse ne Il Parnaso di Andrea Mantegna; l’Idra a nove teste; il Purgatorio
dantesco; l’enneagramma e la stella Bahá’ì; l’enneagramma di Gurdjieff.
Cifre
Numeri in versi
Una volta introdotte le cifre da 0 a 9, il sistema decimale permette di rappresentare tutti i numeri interi mediante le loro combinazioni. La nostra storia sta dunque per
cambiare registro, ma prima di passare al seguito sui numeri è bene fermarsi un attimo a meditare sulle cifre stesse, e sui vari modi in cui esse si possono combinare fra loro. Iniziamo a farlo in maniera leggera, con qualche poesia dedicata all’uso posizionale delle cifre. In particolare, alla metamorfosi subìta dallo zero quand’esso si combina con altre cifre, alla loro destra. La prima è tratta dalla collezione Satsai, “Settecento distici”, di Bihari Lal (1630 circa): Un punto sulla tua fronte decuplica la tua bellezza,
come uno zero decuplica il valore di un numero.
La seconda è Nummeri di Trilussa (1944):
«Conterò poco, è vero,» diceva l’Uno ar Zero,
«ma tu che vali? Gnente: propio gnente. Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente. Io, invece, si me metto a capofila de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.»
E la terza è «L’avventura dello zero» di Gianni Rodari, da Il libro delle filastrocche (1951):
C’era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero e nessuno
lo voleva in compagnia per non buttarsi via.
Una volta per caso
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché non riusciva a contare fino a tre.
Vedendolo così nero il piccolo Zero,
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio.
Schiacciò l’acceleratore, fiero assai dell’onore di avere a bordo
un simile personaggio. D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede? Il signor Tre
che si leva il cappello e fa un inchino
fino al tombino… e poi, per Giove
il Sette, l’Otto, il Nove che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo? Che l’Uno e lo Zero seduti vicini,
uno qua l’altro là
formavano un gran Dieci; nientemeno, un’autorità! Da quel giorno lo Zero fu molto rispettato,
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato: gli cedevano la destra con zelo e premura
(di tenerlo a sinistra avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinema, per il piccolo Zero fu la felicità.
Immagini: Account di Ugo Nespolo; alcune cifre tratte dalla scultura Numeri da Uno a Zero di Robert Indiana.
Il pagamento della decima BASE 10
Le dieci cifre si combinano nella maniera più spettacolare e più nota nelle rappresentazioni dei numeri del sistema decimale. Le cifre dall’1 al 9 da un lato, e lo 0 dall’altro, ne costituiscono infatti due dei quattro
ingredienti fondamentali, che sono in generale: • La scelta di una base arbitraria, ma conveniente. Ad esempio, il dieci, probabilmente perché dieci sono le dita che servono per contare. •
L’invenzione di segni differenti per indicare tutti i numeri positivi minori della base. Ad esempio, le cifre da 1 a 9.
• La rappresentazione dei numeri maggiori della base mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano. Ad esempio, nelle espressioni 1, 12 e 123 il medesimo 1 ha rispettivamente il valore di uno, dieci o cento, e il medesimo 2 il
valore di due o venti. •
L’aggiunta di un segno per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla. Ad esempio, la cifra 0.
Storicamente, questi ingredienti sono stati sviluppati in tempi e luoghi differenti, da vari popoli e civiltà. Gli Indiani condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya il merito dell’introduzione del sistema posizionale. Con i soli Maya l’invenzione dello zero. Ma con nessun altro l’intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tra loro tutti i numeri minori della base. Il sistema completo è il lascito
culturale all’umanità di un’unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra i secoli III e IV della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell’arte per i suoi capolavori, dalle pitture e sculture delle grotte di Ajanta al tempio di Borobudur a Giava.
La più antica registrazione dell’uso del loro sistema numerico, zero compreso, viene dalla Lokavibhaga: un’opera di cosmologia giainista del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema decimale che oggi è in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I numeri che nel sistema decimale si rappresentano con soli 1 si chiamano repunit, “unità ripetute”, e alcuni di essi sono primi: ne incontreremo qualcuno per la via, a partire dall’11 (vedi pp. 335-336, 367 e 374). Ma tutti i repunit primi hanno un numero primo di cifre, perché una sequenza con un numero composto di 1 si può facilmente fattorizzare. Ad esempio:
In ogni caso, i repunit sono le uniche sequenze di una stessa cifra che possano essere prime, perché ogni sequenza di una cifra diversa da 1 si può fattorizzare nel prodotto di quella cifra per un repunit della stessa lunghezza. Ad esempio:
Immagini: 0-9 di Jasper Johns; dipinto nelle grotte di Ajanta, in India; tempio di Borobudur a Giava.
Così parlò il computer BASE 2
Il sistema decimale non è che uno degli infiniti modi di cucinare i quattro ingredienti che definiscono un sistema posizionale di notazione numerica. C’è infatti un tale modo
per ogni possibile base, da 2 in avanti. E tutti questi infiniti modi sono equivalenti dal punto di vista dell’efficienza, misurata astrattamente dalla lunghezza della rappresentazione dei numeri.* La base più semplice è 2, e richiede soltanto le due cifre 0 e 1 per rappresentare in maniera binaria tutti i numeri interi, in maniera analoga alla rappresentazione decimale con le dieci cifre da 0 a 9. Nel sistema binario, cioè, il valore della cifra 1 sale di una potenza di 2 a ogni spostamento verso sinistra. Ad esempio, le cifre 0 e 1 rappresentano i numeri zero e uno. 10 e 11 rappresentano due e tre: cioè, due per il primo 1, più zero o uno. 100 e 101, quattro e cinque: cioè, quattro per il primo 1, più
zero o uno. 110 e 111, sei e sette: cioè, quattro per il primo 1, più due per il secondo 1, più zero o uno. E così via. La rappresentazione binaria permette di effettuare banalmente le due operazioni più ovvie e antiche, che sono la duplicazione, o raddoppio, da un lato, e la bisezione, o mediazione, dall’altro. La prima si ottiene semplicemente aggiungendo uno 0 alla fine, analogamente alla decuplicazione nel sistema decimale. E la seconda si ottiene, al contrario, togliendo uno 0 alla fine. Naturalmente, non si deve confondere la rappresentazione binaria con quella decimale, nella quale le cifre 10, 11, 100, 101, 110, 111 rappresentano invece i numeri dieci, undici, cento, centouno, centodieci e centoundici. In
particolare, i repunit binari 1, 11 e 111 corrispondono a uno, tre e sette: cioè, una potenza di 2, meno uno. Essi sono i cosiddetti numeri di Mersenne, del tipo 2n – 1, che ritroveremo nel seguito (vedi pp. 285-287). Il primo a fornire una Spiegazione dell’aritmetica binaria in Occidente è stato Gottfried Leibniz nel 1679. In seguito egli condì la propria scoperta in salsa teologica e ottenne una Dimostrazione matematica della creazione e dell’ordinamento del mondo (1697), che in copertina riportava il motto: Omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum, “Per generare il tutto dal nulla basta l’uno”. E la propose come strumento di evangelizzazione, in una lettera
di accompagnamento al duca di Brunswick:
Un concetto non facile da insegnare ai pagani
è la creazione ex nihilo mediante il potere divino. E niente al mondo può illustrare e dimostrare questo potere meglio dell’origine dei numeri, esibita qui attraverso la pura e semplice presentazione dell’Uno e dello Zero, cioè di Dio e del Nulla.
Leibniz inviò la proposta quello stesso anno a padre Joachim
Bouvet, un missionario gesuita divenuto tutore dei figli dell’imperatore in Cina, ma ricevette come risposta lo schema degli esagrammi degli I Ching. Scoprì così di essere stato preceduto dai “pagani”, perché se si sostituiscono le cifre 0 e 1 alle linee spezzate o intere degli esagrammi, si ottiene appunto l’aritmetica binaria. Nel classico testo confuciano, sul quale torneremo (vedi p. 254), gli esagrammi compaiono a coppie complementari o simmetriche, ma la successione delle coppie è apparentemente casuale. Il filosofo Shao Yong li ordinò invece in maniera matematica nel secolo XI, e da allora furono pensati appunto come rappresentazioni numeriche composte delle sole cifre 0 e 1 (vedi
p. 257). Leibniz non seppe mai di essere stato preceduto di millenni anche in India, in quella che è la prima descrizione conosciuta del sistema binario: il Chandahshastra, un trattato di prosodia risalente all’inizio della nostra era o alla fine della precedente, e attribuito a Pingala. L’argomento riguardava le sillabe corte e lunghe, e le loro possibili alternanze costituivano rappresentazioni dei numeri binari. Questa volta fu il matematico Halayudha a scriverli per primo come tali, nel secolo X. Persino i Melanesiani e i Polinesiani avevano anticipato Leibniz di secoli. Se non tutti, almeno quelli delle isole nello
Stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea, in cui una tribù analfabeta, studiata nel 1898 da Alfred Haddon, contava ancora nel modo seguente: urapun (1), okosa (2), okosa-urapun (3), okosa-okosa (4), okosa-okosa-urapun (5) e okosaokosa-okosa (6), che era un inizio di enumerazione in base 2. E soprattutto quelli della piccola isola di Mangareva, nella Polinesia francese, che erano arrivati al sistema binario già prima del 1450. In seguito all’invasione francese essi furono esposti al sistema decimale, e ne produssero una singolare mistura con il loro, in cui a ogni spostamento a sinistra il valore di 1 saliva di 10, 20, 40, 80, eccetera. Ad esempio, in questo sistema misto 11010 indicava centotrenta, cioè ottanta più quaranta più dieci, a
metà strada tra il ventisei binario e l’undicimiladieci decimale. La successione lineare dei numeri binari nasconde la vera natura bidimensionale del loro processo di generazione. Che si può visualizzare in maniera più naturale attraverso un albero binario, dove le successive aggiunte di 0 e 1 vengono rappresentate come biforcazioni a sinistra e a destra:
Questo tipo di rappresentazione è comune negli alberi genealogici, dove ciascuna biforcazione corrisponde a una coppia di genitori, e ciascun livello a una generazione di antenati. Da questo punto di vista 10 e 11 sono i genitori di 1, e 100, 101, 110 e 111 sono i nonni. Naturalmente, mentre nell’albero binario tutti i numeri sono diversi fra loro, negli alberi genealogici ci possono essere antenati comuni.
Inoltre, mentre l’albero dei numeri binari ha una struttura speculare se lo si capovolge, nel caso dell’albero genealogico le cose si complicano: tutti infatti hanno esattamente due genitori (o almeno, li avevano fino all’avvento della procreazione assistita), ma non tutti hanno esattamente due figli! Le rappresentazioni di questo tipo si chiamano anche alberi di Porfirio, perché sono state da lui usate verso il 270 nelle Eisagoghé. Ma il suo libro era già un commento ad Aristotele, che negli Analitici secondi aveva sistematizzato il metodo delle successive bisezioni introdotto da Platone nel Sofista. La suddivisione binaria e il processo dicotomico sono dunque idee che risalgono a molto lontano.
Addirittura, la parte iniziale dell’albero binario non è altro che il triodos, “trivio”, indicato dai Pitagorici appunto con la lettera Y. Noi siamo più abituati a pensare in termini di “bivio” o di “biforcazione”, ma guardando soltanto avanti rischiamo di
dimenticare il cammino già fatto, e di scordare in che modo si è giunti alla scelta fra due alternative. Immagini: sistema binario in un manoscritto di
Leibniz; Lavoro a maglia con i numeri 2 di Jane Wafer.
*
In un sistema in base b, la lunghezza della
rappresentazione del numero n è pari al logaritmo di n in base b. E il rapporto fra le lunghezze delle rappresentazioni in due basi diverse è costante, essendo pari al logaritmo di una base nell’altra base.
La solitudine del numero Uno BASE 1
Anche la cifra 1 da sola permette di
rappresentare tutti i numeri, nel cosiddetto sistema unario. Cioè, nel sistema di tacche usato dai primitivi sugli ossi di animali, dai carcerati sulle pareti della cella, e dai pistoleri sul calcio della pistola. Ma anche negli antichi sistemi di numerazione egizio, cinese e romano: quest’ultimo, con le sole ripetizioni di I, e senza le abbreviazioni V, X, L, C, D e M. In seguito, ne rimasero tracce anche nel sistema romano con le abbreviazioni, ad esempio in I, II, III, e VI, VII, VIII. E ne rimangono tuttora nel sistema cinese moderno, che rappresenta i numeri 1, 2 e 3 con −, = e ≡. Quello unario però è un sistema additivo, e non posizionale: cioè, ogni cifra ha lo stesso valore unitario, indipendentemente dalla
posizione, e viene ripetuta tante volte quante servono a generare il numero, per successive addizioni di “uni”. Per inciso, quest’ultima espressione è corretta in italiano, perché il numero 1 è l’unico che si può declinare al maschile e al femminile, sia al singolare (“uno, una”) che al plurale (“uni, une”).
Volendo indicare nel sistema unario anche il numero zero, basta rappresentare ogni numero con il suo stesso numero di cifre 1, più una. In tal caso 1, 11, 111, eccetera, indicano rispettivamente zero, uno, due, eccetera. Naturalmente, non si deve confondere la
rappresentazione unaria con quella decimale, nella quale le stesse cifre indicano rispettivamente i numeri uno, undici, centoundici, eccetera. Dal punto di vista dell’efficienza, la rappresentazione unaria sfigura rispetto a quelle binarie e decimali, e più in generale rispetto a quelle posizionali, perché è molto più lunga: la lunghezza della rappresentazione unaria dei numeri è infatti una retta inclinata a 45 gradi, mentre quella della rappresentazione posizionale in una data base è una curva logaritmica nella stessa base, che cresce molto più lentamente. Immagini: Uomo appoggiato a un parapetto di
Georges Seurat; One Indiana Square di Robert Indiana.
Far ordine nella creazione
Una volta esaminati gli usi generali delle dieci cifre, nei vari sistemi di rappresentazione numerica,
possiamo rivolgerci a quelli particolari, nei singoli numeri o in singole classi di numeri. I numeri da 1 a 9, che sono costituiti di una sola cifra, si possono classificare alla maniera pitagorica, secondo i princìpi riassunti nel secolo IX da Scoto Eriugena nel classico La divisione della Natura: Mi sembra che la divisione della Natura si debba effettuare secondo quattro differenti
specie: ciò che crea e non è creato, ciò che è creato e crea, ciò che è creato e non crea, e ciò che non è creato e non crea.
Interpretando la “creazione” dal punto di vista moltiplicativo, tra i numeri da 1 a 9 quelli non creati sono 1, 2, 3, 5 e 7, mentre quelli creati sono 4, 6, 8 e 9. Quelli che ne creano altri sono invece 2, 3 e 4, e
quelli che non ne creano 1, 5, 6, 7, 8 e 9. In particolare, gli unici numeri che non sono creati e non ne creano altri sono l’1, il 5 e il 7. Quest’ultimo aveva dunque uno statuto speciale, simmetrico all’unità, e veniva associato ad Atena (Minerva). Questa dea, infatti, non era stata partorita in maniera canonica da una donna, ma era uscita direttamente dalla testa di Zeus (Giove). E non avendo a sua volta partorito figli, era venerata nel Partenone come parthenos, “vergine”.
Immagini: Da 0 a 9 di Jasper Johns; la nascita di Atena raffigurata su un’anfora del secolo -V.
Una tartaruga al quadrato LO SHU
Una volta classificati i numeri da 1
a 9, si può pensare di ordinarli in maniere diverse da quella canonica. A questo proposito, una leggenda cinese narra che verso il -2200 dal fiume Lo emerse una tartaruga, recante sul dorso un diagramma numerico che i Cinesi chiamano Lo Shu, “Scritto del Lo”. Su di esso, dipinti in rosso, stavano appunto tutti i numeri da 1 a 9, disposti in modo da formare un quadrato magico 3 per 3 nel quale la somma dei numeri su qualunque riga, colonna o diagonale è sempre la stessa:
Il mitico imperatore Yu, che stava
officiando un rito propiziatorio contro la piena del fiume, assistette al prodigio. E in seguito inaugurò un uso divinatorio del diagramma, associando i numeri alle stagioni, e officiando i riti a esse appropriati nelle corrispondenti sale del suo Palazzo Splendente. Successivamente fu sviluppata un’elaborata teoria, secondo la quale: • Il 5 rappresenta la terra. •
I rimanenti numeri dispari, disposti a croce, corrispondono all’elemento maschile yang, alle stagioni e ai punti cardinali: questi ultimi, secondo l’uso cinese, con il Nord (1) in basso e l’Est (3) a sinistra.
•
I numeri pari, disposti sugli
angoli, rappresentano invece l’elemento femminile yin. • Sul bordo i numeri pari e dispari si alternano, e corrispondono agli otto trigrammi del Bagua. •
Le coppie opposte, infine, rappresentano gli altri quattro elementi cinesi, oltre alla terra: l’acqua (1,6), il legno (3,8), il metallo (4,9) e il fuoco (2,7).
Questo quadrato magico è riverito anche nella cultura islamica, perché le sue nove cifre corrispondono alle prime nove lettere dell’alfabeto arabo, che sarebbero state rivelate ad Adamo nel Giardino dell’Eden. Per questo motivo lo si impiega come amuleto da apporre sugli edifici, portare appeso al collo, o disegnare sul braccio. Matematicamente, il Lo Shu è l’unico quadrato magico in cui si possano disporre tutte le cifre da 1 a 9 senza ripetizioni. Anche se, potendosi ovviamente ruotare o riflettere, esiste in otto versioni equivalenti, variamente orientate.
Per dimostrarne l’unicità, anzitutto si nota che la somma di ciascuna riga, colonna o diagonale dev’essere 15: cioè, la somma dei numeri da 1 a 9, che è 45, divisa per il numero delle righe, o delle colonne, che è 3. E poi si nota che ci sono solo le seguenti scomposizioni distinte di 15 in addendi compresi
fra 1 e 9 non ripetuti:
La cifra al centro del quadrato deve stare su una riga, una colonna, e due diagonali: dunque, dev’essere 5, che è l’unico numero che compare in quattro delle somme. Le cifre agli angoli del quadrato devono stare su una riga, una colonna e una diagonale: dunque, non possono essere 1, 3, 7 o 9, che compaiono soltanto in due delle somme. Una volta disposte queste cifre a coppie, il resto segue automaticamente. Immagini:
trigrammi;
antico
specchio
“Tavola
cinese
mistica”
con
tibetana
dell’Ottocento; una delle versioni del Lo Shu.
Avanti e indietro 12345678987654321
Invece che bidimensionalmente, in forma di quadrato, le cifre da 1 a 9 si possono anche disporre linearmente, in ordine crescente o decrescente. E, quasi miracolosamente, i corrispondenti numeri sono il risultato di
operazioni elementari sulle cifre da 1 a 9:
sole
e
Inoltre, sommando fra loro le cifre da 1 a 9 dispiegate nelle due direzioni, si ottiene un decuplo di un repunit (vedi p. 194):
I due ordini si possono anche realizzare insieme, in numeri palindromi leggibili sia da sinistra a destra, che da destra a sinistra. Il
meccanismo del prodotto fa sì che queste particolari disposizioni delle cifre si generino automaticamente mediante i quadrati dei repunit, in una sorta di generazione progressiva di tutte le cifre dal solo 1. Queste proprietà appaiono già verso l’850 nel Ganita Sara Samgraha di Mahavira (I,27), un aggiornamento del Brahma Sphuta Siddhanta di Brahmagupta (vedi p. 52):
Il prossimo passo sarebbe meno simmetrico da questo punto di vista, ma non da un altro, perché: e
Immagini: Numeri da Uno a Zero di Robert Indiana.
Ripetenti promossi 111.111.111
Come i palindromi di cifre in ordine crescente e decrescente sono prodotti di repunit, così i repunit sono prodotti di sequenze di cifre in ordine crescente, più un resto, anch’esso in ordine crescente:
L’ultimo prodotto si può anche riscrivere togliendo il resto 9 e aggiungendo 1 al primo fattore. In tal caso si ottengono a cascata, con successive moltiplicazioni del risultato per i numeri da 2 a 9, o del suo primo fattore per i multipli di 9, le seguenti ripetizioni di cifre:
La cosa continua a lungo, generando simmetrie di vario genere, e il cerchio si chiude con:
Così come i repunit sono i risultati di prodotti per 9 delle cifre in ordine crescente, più un resto, anch’esso in ordine crescente, i numeri che ripetono la cifra 8 sono i risultati di prodotti per 9 delle cifre in ordine
decrescente, più un resto, anch’esso in ordine decrescente:
E così come i prodotti per 9 delle cifre in ordine crescente, più un resto in ordine crescente, forniscono i repunit, i prodotti per 8 delle cifre in ordine crescente, più un resto in ordine crescente, forniscono invece le cifre in ordine decrescente:
Immagini: Riflesso della scultura con i dieci numeri di Robert Indiana; Numeri a colori di Jasper Johns.
L’unione fa la forza 1.023.456.789
Mentre i repunit usano una sola delle dieci cifre, i numeri pandigitali le usano tutte, 0 compreso. Quelli senza ripetizioni sono
perché lo 0 non può stare al primo posto. I numeri pandigitali senza ripetizioni sono tutti compresi fra uno e dieci miliardi: più precisamente, tra 1.023.456.789 e 9.876.543.210. E nessuno è primo: anzi, sono tutti divisibili per 3, visto che la somma delle loro cifre è 45. Ma è primo 1.234.567.891, che differisce di una sola unità dal più ovvio numero pandigitale. A volte questi numeri hanno proprietà sorprendenti. Ad esempio, 5.897.230.146 è la somma di ben 32.423 numeri primi consecutivi, da 2
a 381.631: provare per credere! Altre volte sono legati fra loro in maniera misteriosa, come nell’uguaglianza: O come nel quadrato magico:
in cui, per buona misura, anche la somma 4.129.607.358 delle righe, delle colonne o delle diagonali è pandigitale.
Immagini:
piramide
umana
durante
una
manifestazione a Tarragona in Spagna; Numeri (zero) di Robert Indiana.
Madrigali di numeri
Le curiosità precedenti hanno più a che fare con le cifre che con i numeri, e appartengono più alla numerologia che alla matematica. Esattamente il contrario succederà nei capitoli successivi, in cui
andremo alla scoperta dei numeri da 10 in avanti. Ma per concludere degnamente questo nella stessa maniera in cui è iniziato, ecco qualche testo in cui compaiono come numeri, e non come cifre, quelli fino a 10 e oltre. Il primo è la fine dell’Echad Mi Yodea?, “Chi conosce uno?”, una tradizionale canzone cumulativa pasquale che enumera alcuni aspetti della cultura ebraica: Tredici sono gli attributi divini. Dodici le tribù di Israele.
Undici le stelle del sogno di Giuseppe. Dieci i Comandamenti.
Nove i mesi della gravidanza.
Otto i giorni della circoncisione. Sette i giorni della settimana. Sei i libri della Mishnah.
Cinque i libri della Torah.
Quattro le matriarche di Israele.
Tre i patriarchi di Israele. Due le tavole della Legge.
Uno il nostro Dio, in cielo e in terra.
Il secondo è il ritornello di Twenty flight rock, “Rock dei venti piani”, di
Eddie Cochran (1956): So I walk one, two flight, three flight, four, Five, six, seven flight, eight flight more. Up on the twelfth I started to drag, Fifteenth floor I’m ready to sag.
I get to the top, I’m too tired to rock. E salgo uno, due piani, tre piani, quattro, cinque, sei, sette piani, otto piani e più. Al dodicesimo inizio a trascinarmi,
al quindicesimo piano ormai sto per cedere.
Arrivo in cima, son troppo stanco per il rock.
Il terzo è l’inizio delle Centesime dell’anima di Violeta Parra (1958): Una vez que me
Una volta che mi
asediaste
insidiasti
dos juramentos
due giuramenti
me hiciste,
mi facesti,
tres lagrimones
tre lacrimoni
vertiste,
versasti,
cuatro gemidos
quattro gemiti
sacaste,
emettesti,
cinco minutos
cinque minuti
dudaste,
dubitasti,
seis más porque
sei altri perché
no te vi;
non ti vidi;
siete pedazos de
sette brandelli di
mí,
me,
ocho razones me otto ragioni mi aquejan,
affliggono,
nueve mentiras
nove menzogne
me alejan,
mi respingono,
diez que en tu
dieci che nella
boca sentí.
tua bocca sentii.
Once cadenas me Undici catene mi amarran,
legano,
doce quieren
dodici vogliono
desprenderme,
liberarmi,
trece podrán
tredici potran
detenerme,
trattenermi,
catorce que me
quattordici mi
desgarran;
lacerano;
quince perversos embarran
quindici pervertiti infangano
mis dieciséis
le mie sedici
esperanzas,
speranze,
las diecisiete
le diciassette
mudanzas
mutanze
dieciocho penas
diciotto pene mi
me dan,
danno,
diecinueve me
diciannove mi
aguardarán
attenderanno
veinte más que ya altre venti già mi me alcanzan.
colgono.
La composizione continua ancora a lungo, arrivando fino a 300. Ma noi ci fermiamo qui, perché “per correr miglior acque alza le vele omai la navicella”. Ci aspettano infatti non solo le unità, ma anche le decine e le centinaia, le migliaia, i milioni e i miliardi, e le successive potenze e superpotenze di 10, in una lunga ascesa per aspera ad astra.
Immagini: Sequenza rossa di Tobia Ravà; Mosè e le 12 tribù di Israele; il cantante Eddie Cochran.
Decine e centinaia
Dieci e lode agli Indiani 10
Il numero dieci
era tenuto in grande
considerazione, sia perché tante sono le dita che usiamo per contare, sia perché la donna
partorisce dopo due volte cinque mesi
[lunari], sia perché fino a dieci progredisce la sequenza dei numeri, dopo di che si inizia un nuovo conteggio.
Così ricorda Ovidio nei Fasti (III). Ed è proprio poiché noi contiamo in base 10, che le apparizioni di questo numero nella nostra vita quotidiana sono più ubique di quelle della Madonna. Ma l’uso del numero 10 era comunque frequente anche prima dell’introduzione del sistema decimale e dell’arrivo del cristianesimo: dai dieci libri del Rig Veda indiano, alle dieci categorie aristoteliche. Nella cultura ebraica, gli Ebrei sono aiutati nella fuga dell’Esodo dalle dieci piaghe d’Egitto. Arrivati a destinazione, Mosè impone loro una legge fondata sul decalogo dei dieci comandamenti. E il Levitico
inaugura una tradizione, sia statale che ecclesiastica, di riscossione delle decime: cioè, di una tassa del dieci per cento sul reddito. Nel periodo post-biblico si formò poi la leggenda delle dieci tribù perdute d’Israele. E la Cabala introdusse le dieci sefirot, “enumerazioni”, che costituiscono altrettante emanazioni della volontà divina, e sono collegate fra loro da un complicato diagramma di mutue dipendenze e relazioni.
Per i Romani, denaro era il nome della principale moneta d’argento, che in origine valeva dieci assi. Il decano era il comandante di una decade di soldati, che dormivano tutti con lui nella stessa tenda, anche se oggi la parola ha perso il riferimento originario, ed è passata a indicare il membro più anziano di un qualunque ordine di persone: il “maggiore”, come nel grado militare. La decimazione indicava l’esecuzione di un prigioniero ogni dieci. Quanto alla X, che rappresentava il 10 nel sistema notazionale romano, sembra sia stata scelta perché ricordava la somma di due 5 attraverso l’unione di una V diritta e di una capovolta. Ma non è solo l’uomo a contare antropomorficamente per dieci. A volte lo fa anche la Natura: ad
esempio, nella formazione dei decapodi a dieci arti, che sono di due tipi diversi. Da un lato, i crostacei a dieci zampe, come i granchi e i gamberi. E dall’altro, i molluschi a dieci braccia o tentacoli, come le seppie e i calamari.
Il 10 è la somma dei primi tre numeri primi 2, 3, e 5. E anche la somma dei due numeri primi 3 e 7: cosa che impressionava gli esegeti biblici, perché i dieci comandamenti sono divisi in tre riguardanti Dio, e sette
riguardanti gli uomini. I Pitagorici erano invece più impressionati dal fatto che 10 fosse un numero triangolare: cioè, la somma dei primi quattro numeri 1, 2, 3 e 4. Rappresentati con delle palline, e disposti come un alberello di Natale, essi costituivano la cosiddetta tetraktys: la stessa che si vede ancor oggi nella disposizione dei fiocchi nei cordoni che scendono dal galero negli stemmi degli arcivescovi. Il 10 è anche un numero tetraedrico: cioè, la somma dei primi tre numeri triangolari 1, 3 e 6. Rappresentati con delle palline, e disposti come una piramide a base triangolare, essi costituivano una versione tridimensionale della tetraktys. Per inciso, oltre all’1 e al 10 ci sono solo altri tre numeri
simultaneamente triangolari e tetraedrici: 120, 1.540 e 7.140. Nell’aritmogeometria pitagorica i numeri 1, 2, 3 e 4 rimandavano al punto, al segmento, al triangolo e al tetraedro, e dunque agli enti fondamentali della geometria: punto, linea, piano, spazio. Nella teoria musicale pitagorica essi rimandavano invece ai rapporti dell’ottava, della quinta e della quarta, e dunque agli enti fondamentali della musica: note e intervalli. Ma in seguito la tetraktys fu ipostatizzata in un oggetto di culto a sé stante, sul quale si giurava, come oggi sulla Bibbia, e al quale ci si rivolgeva in preghiera, come oggi alla croce: O numero divino, che hai generato gli dèi e gli uomini. O santa tetraktys, che sei la radice
e la fonte della creazione nel suo perenne fluire.
La tua divinità inizia da una profonda e
pura unità, termina in un sacro quattro, e produce la decade primigenia, instancabile, tetragona,
la
chiave
che
comprende e delimita il tutto.
apre,
genera,
Ad avere il rapporto più profondo con il numero 10 sono però stati gli Indiani. Non solo nella mitologia,
inventando dieci incarnazioni del dio Vishnu, le più famose delle quali sono Rama, Krishna e Buddha. Ma soprattutto in matematica, inventando il sistema decimale oggi diffuso in tutto il mondo. Ed è proprio grazie a questa sua diffusione, che noi parliamo sempre e dovunque di decadi, decine e decimali: ad esempio, riferendoci al decathlon nello sport, o ai decimi di vista nell’oculistica. Per non parlare dei loro multipli, sui quali torneremo a proposito del 100 e del 1.000, oltre che delle potenze di 10. Abbiamo invece molti meno riferimenti al venti e ai suoi multipli, sui quali si basa l’alternativo sistema vigesimale: forse perché si conta più con le dita delle
sole mani, che anche con quelle dei piedi. Quel sistema fu adottato soprattutto dai Maya e dagli Aztechi, così come da molti popoli africani, ma ce ne sono comunque tracce anche altrove, Europa inclusa. Ad esempio, in Francia ancor oggi i nomi dei numeri tra settanta e novantanove sono vigesimali: come quatre-vingt, “quattro volte venti”, per “ottanta”. In Inghilterra si usa ancora il termine score, che in origine era la “tacca” che nella conta del bestiame si faceva ogni venti capi: in seguito passò a indicare “venti”, da cui twoscore per “quaranta” e threescore per “sessanta”. E fino a qualche anno fa si divideva la sterlina in venti scellini, che derivavano dai venti soldi in cui la libbra veniva divisa ai
tempi di Carlo Magno. Naturalmente sono venti le facce dell’icosaedro, per definizione, così come i vertici del dodecaedro, per dualità. E anche i lati dell’icosagono, di cui si trovano rari esempi nel Tholos, o “Rotonda”, di Atena a Delfi, e nell’analogo tempio di Ercole Oleario nel Foro Boario a Roma, proprio di fronte alla Bocca della Verità.
Immagini: il calciatore Pelé; il Mosè di Giusto di
Gand; le dieci sefirot della Cabala; esempi del
dieci in Natura: granchio e seppia; la tetraktys; il Tholos di Atena a Delfi.
Per il verso giusto 11
Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura. (Inferno, I, 1-2)
Tutti conosciamo questi due versi, e sappiamo che si tratta di due endecasillabi: cioè, di versi composti
da undici sillabe, con l’accento principale sulla penultima. Ma si tratta di due versi diversi, o di due “di-versi”: nel primo, infatti, l’accento secondario cade sulla sesta sillaba, e nel secondo sulla quarta. Questi due tipi di endecasillabi si chiamano maggiore e minore, e hanno caratteristiche analoghe agli omonimi modi musicali: assertivo il primo, e sottomesso il secondo. Gli endecasillabi sono dunque modi vocali di far sentire la musica del numero 11, in maggiore o in minore. Anche se la pignoleria vorrebbe che si precisasse che essi non sono tutti necessariamente di undici sillabe! In realtà, infatti, la definizione tecnica di un endecasillabo è “un verso che ha l’accento principale sulla decima sillaba”: è solo il fatto che la
maggior parte delle parole italiane ha l’accento sulla penultima, a far sì che le sillabe siano dunque in genere undici, da cui il nome di endecasillabo. Ma a volte possono essere solo dieci, come in: Lucifero con Giuda, ci sposò. (Inferno, XXXI, 143)
E altre volte invece dodici, come in: ora cen porta l’un de’ duri margini. (Inferno, XV, 1)
Naturalmente, esistono anche “endecasillabi” musicali, tipici dei tempi in cui ogni battuta contiene undici note. L’esempio più noto è probabilmente la «Promenade» in 11/4 che punteggia i Quadri da un’esposizione di Modest Musorgskij: un’opera che è essa stessa composta
di undici pezzi, ossia i dieci quadri e la «Promenade», appunto. Un altro esempio, da un genere diverso di musica, è il brano The Eleven in 11/8 dei Grateful Dead, che già nel titolo dichiara il numeratore del proprio tempo. Il testo presenta invece un conto alla rovescia che parte da otto, per dichiarare anche il denominatore. I riferimenti biblici dei versi della canzone dei Grateful Dead ci ricordano che negli Atti degli apostoli si indicano con “gli undici” quelli sopravvissuti alla morte di Giuda: cioè, “i dodici” meno uno. E prima ancora erano undici le vergini di Sparta chiamate Dionisiadi, che facevano da contraltare alle orge in onore di Dioniso. Un loro upgrade sono le undicimila vergini che hanno ispirato le Storie di
Sant’Orsola del Carpaccio (1495), e sono simboleggiate da undici fiamme nello stemma di Colonia sul Reno: una regione dove la leggenda le vuole martirizzate, e in cui il carnevale inizia l’11.11 alle ore 11:11.
Nel campo profano, sono undici le costellazioni dello Zodiaco
teoricamente visibili in un dato momento, perché una rimane nascosta dietro il Sole, agli antipodi della Terra. Sono undici anche i giocatori delle squadre di molti sport: il calcio, il football americano, il cricket e l’hockey su prato. E in inglese si usa “undicesima ora” per indicare quella che in italiano si chiama “zona Cesarini”: cioè, l’ultimo momento utile a compiere un’azione. L’undici ha un’importanza particolare in Canada, a causa del fatto che ci sono undici rappresentanti della Corona britannica: dieci a livello provinciale, e uno a livello federale. Il numero è ricordato nelle undici
punte della foglia d’acero della bandiera. Nelle ore 11 indicate dagli orologi che appaiono sulle banconote, come quella da cinquanta dollari. E negli undici lati della moneta da un dollaro, chiamata loonie perché raffigura nel retro una strolaga maggiore (loon, appunto).
Per costruire la moneta si arrotondano i lati di un endecagono in archi di cerchio, puntando il compasso nel vertice opposto a ciascun lato. Si ottiene così una figura ad ampiezza costante, benché
non circolare, analoga al più noto triangolo di Reuleaux. Poiché però l’arrotondamento di un endecagono non si discosta molto da un cerchio, nel dollaro Susan Anthony statunitense, che prende il nome della suffragetta raffigurata sul dritto, l’endecagono in cui è inserito sul rovescio lo stemma della missione lunare dell’Apollo XI è semplicemente inscritto in un cerchio, appunto.
A proposito, l’endecagono non è costruibile con riga e compasso,
come già non lo era l’ettagono. Infatti, per il criterio di Gauss, un poligono regolare con un numero primo p di lati è costruibile se e solo se p – 1 è una potenza di 2, ma non lo sono né 6, né 10. Mentre però l’ettagono è costruibile sia con il compasso e la riga graduata, sia con gli origami, l’endecagono non lo è in nessuno dei due modi. Un’interessante proprietà del numero 11 è la connessione fra le cifre delle sue potenze e le righe del triangolo di Pascal, costruito come segue. I numeri estremi di ciascuna riga sono degli 1. E i numeri intermedi si ottengono sommando il numero corrispondente e quello precedente nella riga sopra:
La cosa è evidente per le prime potenze di 11, che sono 1, 11, 121, 1.331 e 14.641. Per le potenze successive la cosa è meno evidente, perché esse si ottengono sommando alcune cifre delle righe del triangolo: ad esempio, 161.051, cioè la quinta potenza di 11, si ottiene dalla riga 1-5-10-10-5-1, sommando 5-1 e 0-1. Ci sarebbero molte altre cose da dire sull’11, come il fatto che
altrettante sono le dimensioni dello spazio-tempo richieste dalla versione M della teoria delle stringhe. Ma prima o poi si arriva all’undicesima ora di qualunque argomento, compresa questa divagazione sull’11, e ci si deve fermare. Immagini:
un’immagine
della
missione
dell’Apollo XI; Apoteosi di Sant’Orsola del Carpaccio; banconota e moneta canadesi; le due facce del dollaro Susan Anthony.
Quella sporca dozzina 12
L’ubiquità del dodici nella nostra vita quotidiana è una testimonianza fossile di un passato remoto, in cui
il sistema numerico vigente non era decimale, ma dapprima duodecimale, e in seguito sessagesimale. Tutto è iniziato nell’astronomia, con il tentativo dei Caldei di comprendere il moto annuale apparente del Sole raggruppando le stelle che si trovano attorno all’eclittica in dodici costellazioni, e assegnando a ciascuna di loro un termine medio di permanenza del Sole di trenta giorni, per un totale di 360: una prima buona approssimazione dell’anno solare, con uno scarto di soli cinque giorni. La suddivisione dell’anno in dodici mesi fu poi convenzionalmente estesa alle ore del giorno e a quelle della notte, per un totale di ventiquattro. Il sistema astronomico dei Caldei
fornì agli Ebrei una base per la propria mitologia: o almeno, così racconta Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943), associando un segno astrologico diverso a ciascuno dei dodici figli di Giacobbe, e alle conseguenti dodici tribù di Israele. I Numeri riportano che le celebrazioni per la consacrazione del primo tabernacolo durarono dodici giorni, e che vennero offerti vari animali in multipli di dodici. E ancor oggi, le bambine ebree celebrano a dodici anni il rito del bat mitzvah, “figlia della legge”, che segna l’arrivo della pubertà e della maggiore età (i bambini un anno dopo, invece, con il bar mitzvah, “figlio della legge”).
In Grecia erano dodici i principali dèi dell’Olimpo, così come i Titani, i venti, le fatiche di Ercole, le isole del Dodecaneso e le città delle dodecapoli, come la Lega Ionica. Anche la Lega Etrusca era un patto di dodici città, e in loro rappresentanza altrettanti littori
portavano i fasci di verghe per le fustigazioni, poi adottati dai Romani e dai fascisti, che da essi presero il nome. A Roma il diritto di Romolo a fondare la città fu deciso nel -753 dai dodici avvoltoi che gli apparvero come presagio sul Palatino, mentre a Remo ne apparvero solo sei sull’Aventino. Le prime norme scritte del diritto furono promulgate nel -450 con le Leggi delle dodici tavole, al cui numero si ispirano i dodici princìpi fondamentali della Costituzione Italiana. Anche la mitologia cristiana si appropriò del dodici, anzitutto nei giorni che separano il Natale dall’Epifania: di qui La dodicesima notte di Shakespeare (1602). E poi, per enumerare gli apostoli, le ceste
(una per tribù di Israele) del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, le porte della Gerusalemme Celeste, e le stelle della corona della donna dell’Apocalisse. Da quest’ultima dozzina è poi derivata la bandiera dell’Europa, secondo la dichiarazione del suo disegnatore Arsène Heitz.
La mitologia islamica sciita contempla invece dodici imam, successori spirituali e politici di
Maometto in una specie di papato ereditario. Il primo fu Alì, marito di Fatima, figlia del Profeta. Sia lui, sia i dieci seguenti morirono tutti di morte violenta. L’ultimo, invece, si chiama Mahdi ed è tuttora vivo, benché stia in clandestinità dall’872: uscirà allo scoperto alla fine dei tempi, per regnare con Gesù Cristo prima del giudizio. O almeno, così ci raccontano. Nel Medioevo dodici furono i paladini di Carlo Magno, e i cavalieri della Tavola Rotonda alla corte di re Artù. In seguito ci furono dodici magistrati in città come Pisa, Firenze e Venezia, e ancor oggi i tribunali dei paesi anglosassoni hanno altrettanti giudici. In musica, come in astronomia per i
mesi dell’anno, c’è un motivo preciso per suddividere l’ottava in dodici note, ed è che dodici quinte sono ancora più vicine a sette ottave di quanto sette quinte non siano a quattro ottave (vedi p. 166): la differenza è il cosiddetto “comma pitagorico”, pari all’incirca a un ottavo di tono. Esistono dunque dodici tonalità, corrispondenti alle dodici note della scala dodecafonica, e ciascuna di esse ammette due modi, maggiore o minore. Di qui le due serie di ventiquattro preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato di Bach (1722 e 1742), o i ventiquattro Preludi di Chopin (1839).
Ci sono poi le dodici misure tipiche del blues, del bebop, del boogie woogie e del primo rock, a differenza delle otto battute tipiche di altri tipi di musica, dalla classica al pop e al rock. Le dodici misure sono tripartite in quattro per la domanda, quattro per la risposta e quattro per la conclusione. Un esempio è il ritornello del già citato Twenty flight rock (vedi p. 216), analogo ai classici Rock around the clock e Shake, rattle and roll di Bill Haley (1954). In filosofia, dodici sono le categorie
della Critica della ragion pura di Kant (1781). In letteratura, dodici i libri dell’Eneide di Virgilio (secolo -I) e del Paradiso perduto di Milton (1674). E dodici i mesi che coprono le canzoni indiane Barahmasa, dai quali esse prendono il nome. Nel cinema, dodici i protagonisti di Quella sporca dozzina di Robert Aldrich (1967), e di Ocean’s Twelve di Steven Soderbergh (2004). In fisiologia umana, ci sono dodici vertebre toraciche, e ventiquattro costole articolate su di esse. Il duodeno si chiama così soltanto perché la sua lunghezza corrisponde a circa dodici dita. Ma ogni dito ha tre falangi, e il pollice di una mano permette di toccarne dodici in tutto sulle altre quattro dita. Tenendo poi il conto delle dozzine sull’altra mano, con
entrambe si può contare fino a sessanta. Il che fornisce una base fisiologica ai due sistemi numerici in base 12 e 60. In aritmetica, il sistema duodecimale era usato dai Romani per il calcolo delle frazioni: essi dividevano la libbra e l’asse (vedi pp. 86-87) in dodici once, da cui gli inglesi derivarono le ounce per il peso, e gli inch, “pollice”, per le lunghezze. Come fossili di questo sistema rimangono ancor oggi le ore del giorno e della notte, i mesi dell’anno, e la dozzina: quest’ultima, tuttora usata per i servizi di piatti, posate e bicchieri, oltre che per le uova e le bottiglie di acqua.
Il vantaggio matematico del sistema è che il 12 ha molti divisori, più di qualunque altro numero inferiore: precisamente, 2, 3, 4 e 6. Lo svantaggio è che per fare calcoli in base 12 bisogna imparare anche le tabelline dell’11 e del 12, oltre alle solite dei numeri fino a 10. Il sistema sessagesimale era invece usato dai Sumeri e dai Babilonesi, e ne rimangono tracce nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un’ora e dei gradi in un angolo giro.
Il vantaggio del 60 è che ha moltissimi divisori: 2, 3, 4, 5, 6, 10, 12, 15, 20 e 30, e che nessun numero più piccolo è divisibile per tutti i numeri da 1 a 5. Lo svantaggio è che sono necessari sessanta simboli diversi, per tutti i numeri da 0 a 59. In geometria, dodici sono le facce del dodecaedro e i vertici dell’icosaedro. E sessanta i vertici dell’icosaedro troncato a facce pentagonali o esagonali chiamato fullerene, che è il già citato prototipo matematico del venerabile pallone da calcio (vedi p. 160).
Nel Timeo Platone associa il dodecaedro all’universo, per due motivi. Anzitutto, perché le sue facce rimandano alle dodici costellazioni dello Zodiaco. E poi, perché contiene in maniera naturale tutti gli altri quattro solidi, che erano invece associati ai quattro elementi. Il Diogene del Parmigianino (1527) indica misteriosamente un dodecaedro con un bastone. L’ultima cena di Salvador Dalí (1955) è ambientata in un dodecaedro, le cui
facce richiamano i dodici apostoli. E il romanzo Il dodecaedro di Paul Glennon (2005) contiene dodici storie di dodici generi diversi, ambientate in dodici mondi fittizi, narrate da dodici narratori, e collegate fra loro nello stesso modo delle dodici facce corrispondenti del dodecaedro.
Il 12 e i suoi multipli appaiono anche nelle simmetrie dei solidi
regolari. Anzitutto, il tetraedro regolare ammette tre rotazioni attorno a ciascuno dei quattro assi: dunque, dodici in tutto. Guardandole nello specchio si ottengono dodici riflessioni, che insieme alle rotazioni corrispondono alle ventiquattro permutazioni dei quattro vertici. Il cubo ammette ventiquattro rotazioni, che corrispondono alle permutazioni delle quattro diagonali, più altrettante riflessioni, per un totale di quarantotto simmetrie. E lo stesso vale anche per l’ottaedro, dove le rotazioni corrispondono alle permutazioni delle quattro coppie di lati opposti. Il dodecaedro ammette infine sessanta rotazioni, che corrispondono alle permutazioni dei cinque cubi che vi si possono
inserire, più sessanta riflessioni, per un totale di centoventi simmetrie. E lo stesso vale anche per l’icosaedro, dove le rotazioni corrispondono alle permutazioni dei cinque ottaedri che vi si possono inserire.
L’occorrenza più spettacolare e sorprendente del numero 12 in matematica è però quella che si trova in una famosa lettera del 16 gennaio 1913, scritta dal matematico indiano Srinivasa Ramanujan al matematico inglese
Godfrey Hardy: Caro Signore, mi
permetta
di
presentarmi:
sono
un
impiegato dell’Ufficio Contabile del Porto di
Madras, con uno stipendio di appena 20 sterline l’anno. Ho circa ventitré anni e
nessuna educazione universitaria, benché sia diplomato. Da quando ho finito la scuola passo tutto il tempo a mia disposizione a fare matematica. Non per seguire qualche corso
regolare di tipo universitario, ma per andare per la mia strada. […]
In particolare ho ottenuto teoremi sulle
serie divergenti, che permettono di calcolarne valori convergenti. Ad esempio:
1 + 2 + 3 + 4 + … = –1/12.
Hardy gli rispose l’8 febbraio, dicendo che «tutto dipende dal rigore dei metodi di dimostrazione che lei ha usato». Una risposta più generosa di quella ottenuta dal
professor Micaiah Hill di Londra, che il 7 dicembre 1912 aveva scritto a Ramanujan: Lei è evidentemente un uomo con gusto per
la matematica e qualche abilità, ma ha imboccato una strada sbagliata. E non capisce le precauzioni che bisogna prendere con le serie divergenti, altrimenti non avrebbe ottenuto risultati sbagliati come quelli che mi
ha mandato, quali il fatto che la somma di 1 + 2 + 3 + 4 + … sarebbe –1/12.
Nella sua risposta del 27 febbraio 1913 a Hardy, Ramanujan scriveva: A dire che 1 + 2 + 3 + 4 + … è uguale a –
1/12 si rischia di essere mandati direttamente in manicomio.
Ma se fosse così, al manicomio dovrebbero andarci in molti. A partire da Eulero, che fu il primo a effettuare calcoli di questo genere nel 1749, con buona pace del
professor Hill. Naturalmente, per poterli effettuare bisogna adottare un metodo di calcolo diverso da quello solito, che nel caso in questione consiste nel sommare uno dietro l’altro i numeri interi, notare che le somme parziali diventano via via più grandi, e dedurre che allora la somma totale è infinita. Se invece di considerare le somme parziali si considerano le loro medie, ci si accorge che si riesce ad esempio a dimostrare che 1 + 1 + 1 + 1 + … è uguale a –1/2. E se invece di considerare le medie delle somme parziali si considerano le medie delle medie, si riesce appunto a dimostrare che 1 + 2 + 3 + 4 + … è uguale a –1/12. Oggi queste “somme da manicomio” sono usate sistematicamente non solo in
matematica, ma anche nella fisica. Ad esempio, quando fu sviluppata la cosiddetta Quantoelettrodinamica (QED), cioè la teoria quantistica dell’elettromagnetismo, molte quantità che dal punto di vista fisico dovevano risultare finite, risultavano invece infinite. Ma poi ci si accorse che esse potevano essere “rinormalizzate”, cioè fatte concordare con i valori finiti osservati, calcolandole non con i metodi soliti, ma con quelli introdotti da Eulero e ritrovati da Ramanujan: due personaggi sui quali torneremo. Immagini: Una sporca dozzina
di
Robert
Aldrich; l’orologio con lo Zodiaco in piazza San
Marco a Venezia; la bandiera dell’Europa; la scala dodecafonica; esempi di dozzine: piatti e
uova; icosaedro e fullerene di Leonardo da
Vinci;
Ultima
cena
di
Salvador
Dalí;
illustrazione di cinque cubi in un dodecaedro e cinque ottaedri in un icosaedro.
Nel nome di Bach 14
Se undici è il numero delle sillabe di un verso, quattordici è il numero dei versi di un sonetto: una ben nota
struttura poetica, sulla quale torneremo in seguito (vedi pp. 300301). Per ora concentriamoci sul 14, che da noi fa subito venire in mente le situazioni “vietate ai minori di 14 anni”: dalla guida dei motorini, alla visione di certi film. In religione, quattordici sono i pezzi in cui fu tagliato Osiride prima della sua resurrezione. Quattordici le stazioni della Via Crucis di Gesù verso la sua morte. Quattordici i Santi Ausiliatori ai quali ci si rivolse per secoli contro le varie malattie, prima che Paolo VI li cancellasse dal calendario.
In politica, quattordici furono i punti del discorso del presidente statunitense Woodrow Wilson del 1918, che delineava le basi per la ricostruzione dell’Europa dopo la Prima Guerra Mondiale.
In musica, quattordici sono i canoni Sulle prime otto note del basso dell’aria delle Variazioni Goldberg (1747) e i contrappunti dell’Arte della fuga (1750) di Johann Sebastian Bach. Quest’ultimo aveva un interesse particolare per il 14, che è la somma delle cifre di 2.138: cioè, della trascrizione del suo cognome ottenuta associando l’1 alla A, il 2 alla B, eccetera. Bach entrò nella Società per le Scienze Musicali di Lipsia nel 1747, anno in cui il 14 compare due volte, e come quattordicesimo membro. Per l’ammissione presentò un ritratto che lo raffigura con quattordici bottoni d’argento sul vestito, e uno dei quattordici canoni citati sopra in mano (vedi p. 241).
In chimica, il silicio è l’elemento numero 14 della tavola periodica: ha quattordici elettroni, di cui quattro nell’ultimo livello energetico. Questa sua caratteristica lo rende chimicamente molto simile al carbonio, tanto da aver fatto pensare alla possibilità di forme di vita alternative basate appunto sul silicio, invece che sul carbonio. Certo è possibile che almeno la vita artificiale sarà così, visto il ruolo fondamentale ricoperto dal silicio per i circuiti elettronici: ruolo che ha ispirato il nome di Silicon Valley per la “Valle del silicio” californiana, in cui si concentrano molte imprese informatiche.
Il carbonio 14 è invece un raro isotopo radioattivo del carbonio, scoperto nel 1940, con sei protoni e otto neutroni nel nucleo: cioè quattordici in tutto. Nel 1960 Willard Libby vinse il premio Nobel per la chimica grazie all’invenzione di un metodo per la datazione di
reperti archeologici e geologici, basato appunto sul carbonio 14. Poiché 14 è il doppio di 7, corrisponde al numero di giorni in due settimane, o in metà di un mese lunare: in inglese questo periodo si chiama fortnight, “quattordici notti”, e nei paesi anglosassoni lo si usa spesso per la rateazione dei pagamenti di salari, stipendi e pensioni. Due volte 14, cioè 28, sono i giorni del mese lunare, o di una “luna”. In greco, la Luna si chiamava mene, che riecheggia nell’inglese moon, mentre il mese si chiamava men, da cui il latino mensis. Ventotto sono anche i giorni del ciclo femminile: “mestruazione”
deriva dal latino menstruum, “mensile”, e “menarca” dal greco men arché, “inizio del mese”. La tradizione associava addirittura il primo giorno della mestruazione con la Luna nuova, e l’ovulazione con la Luna piena, in un ciclo appunto di ventotto giorni.
Per quanto riguarda i mesi solari, “di ventotto ce n’è uno”, e tutti gli altri ne han di più. Nel calendario gregoriano, l’aggiunta di un giorno a febbraio ogni quattro anni produce un ciclo di ventotto anni, a distanza dei quali gli anni ripetono le stesse combinazioni di date e giorni della settimana. Il fatto che
un anno divisibile per 100, ma non per 400, non sia bisestile provoca però ogni tanto la rottura del ciclo. In matematica il 14 è un numero piramidale a base quadrata, nel senso che quattordici palline si possono disporre a piramide quadrata: 9 alla base, 4 sopra di esse, e 1 in cima. In generale, i numeri piramidali a base quadrata si ottengono sommando successivamente i quadrati, e sono dunque 1, 5, 14, 30, 55, eccetera. 28 è invece un numero perfetto: cioè, è la somma dei suoi divisori propri 1, 2, 4, 7 e 14. E come Filone di Alessandria e Agostino pensavano che Dio avesse creato il mondo in sei giorni per questo motivo, così pensavano che avesse assegnato alla Luna un ciclo di
ventotto ragione.
giorni
Immagini: Bach
per
ritratto
la
da Elias
stessa Gottlob
Haussmann; i quattordici Santi Ausiliatori in una pala d’altare di Matthias Grünewald; il simbolo del silicio nella tavola periodica; le fasi della Luna.
Il numero di maggior classe 41
41 è il palindromo di 14, che
abbiamo già visto corrispondere alla trascrizione numerica del cognome di Bach. A sua volta, il 41 corrisponde invece alla trascrizione del cognome più le iniziali dei due nomi Johann Sebastian.* Ed è anche il numero dell’ultima sinfonia di Mozart, la famosa Jupiter (1788). Dal punto di vista numerico, 41 non soltanto è un numero primo lui stesso. È anche la somma dei primi sei numeri primi, cioè 2, 3, 5, 7, 11 e 13, oltre che la somma di tre numeri primi consecutivi, cioè 11, 13 e 17. Inoltre, insieme a 43 costituisce una coppia di primi gemelli. Poiché è difficile trovare formule semplici che generino soltanto numeri primi, e in buona quantità, nel 1772 fece scalpore il polinomio
x2 + x + 41 divinato da Eulero, che ne produce quaranta per i valori da 0 a 39 della variabile. Ovviamente, il valore 41 produce un risultato che è divisibile per 41. Meno ovviamente, lo stesso fa anche il valore 40, che produce il risultato 1.681: cioè, il quadrato di 41. Nel 1789 Adrien-Marie Legendre ha dimostrato che la stessa cosa succede, con gli stessi quaranta primi, e per i valori da 0 a 40 della variabile, anche per il polinomio x2 – x + 41. Il problema è capire cosa ci sia di speciale nel numero 41. E l’indizio viene dal fatto che se nei due polinomi si sostituisce il 41 con uno qualunque dei numeri primi 2, 3, 5, 11 e 17, si ottengono di nuovo dei polinomi che generano serie di
valori primi, benché più corte della precedente: precisamente, con 1, 2, 4, 10 e 16 primi. Se si risolvono le corrispondenti equazioni di secondo grado con la nota formula (vedi p. 104), compaiono rispettivamente sotto radice e col segno meno i numeri 7, 11, 19, 43, 67 e 163, che svelano il mistero. Nel 1953 Kurt Heegner, risolvendo il famoso problema del numero di classe di Gauss, ha infatti dimostrato che si tratta degli unici interi negativi, insieme a 1, 2 e 3 col segno meno, le cui radici generano (per addizione e moltiplicazione con numeri reali) classi di numeri complessi che si possono decomporre in maniera unica in fattori “primi”. In un senso preciso, dunque, Eulero aveva trovato il miglior
termine che potesse funzionare col suo polinomio. Cambiando polinomio si può fare un po’ meglio, nel senso di trovarne di un po’ più complicati che generano un po’ più di numeri primi, ma sempre comunque un piccolo numero finito. Immagini: lo spartito della sinfonia Jupiter di Wolfgang Amadeus Mozart.
*
In questo genere di cose, l’abitudine era di
identificare fra loro “i” e “j”, così come “u” e “v”. In tal caso, “j” ed “s” diventavano
rispettivamente la nona e la diciottesima lettera dell’alfabeto tedesco, per un totale di 14 + 9 + 18 = 41.
La risposta definitiva 42
Douglas Adams è uno scrittore di fantascienza umoristica, famoso soprattutto per la “trilogia in cinque parti” comprendente Guida galattica per gli autostoppisti (1979), Ristorante
al termine dell’universo (1980) e La vita, l’universo e tutto quanto (1982). Nel primo romanzo si narra di un supercomputer chiamato Deep Thought, “Pensiero Profondo”, costruito da una razza di esseri superintelligenti per calcolare la risposta alla domanda definitiva su “la vita, l’universo e tutto quanto”, appunto. Dopo un lungo calcolo, la macchina comunica il risultato al popolo in attesa: «Per sette milioni e mezzo di anni la nostra razza ha atteso questo grande e illuminante
giorno!» urlò il cerimoniere. «Il Giorno della Risposta!»
Grida di giubilo si alzarono dalla folla
estatica.
«Mai più» gridò l’uomo, «mai più ci
alzeremo la mattina e ci chiederemo: Chi
sono? Qual è lo scopo della mia vita? Importa veramente, da un punto di vista cosmico, se
non mi alzo per andare al lavoro? Oggi
conosceremo finalmente, una volta per tutte, la risposta chiara e semplice a questi piccoli
ma assillanti problemi sulla vita, l’universo e tutto quanto!» […]
«Sei pronto a darci la risposta?» domandò
Loonquawl.
«Sono pronto.» «Ora?»
«Ora» disse Pensiero Profondo.
Entrambi si inumidirono le labbra. «Ma
non
credo»
aggiunse
Profondo, «che vi piacerà.»
Pensiero
«Non importa!» disse Phouchg. «Dobbiamo
saperlo! Ora!» […]
«Quarantadue» disse Pensiero Profondo,
con infinite maestà e calma.
Passò un lungo tempo, prima che qualcuno
parlasse. Con la coda dell’occhio Phouchg poteva vedere il mare di facce tese e in attesa, fuori nella piazza. «Stiamo
sussurrò.
per
essere
linciati,
vero?»
«È
stato
un
calcolo
difficile»
pacatamente Pensiero Profondo.
disse
«Quarantadue!» urlò Loonquawl. «Questo è
tutto ciò che sai dire, dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?»
«Ho controllato molto accuratamente» disse
il computer, «e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda.»
Neppure Pensiero Profondo è in grado di ricordare la domanda, ma si offre di aiutare a programmare un computer ancora più potente, munito di molte componenti
viventi, che sia in grado di ricostruirla. Si tratta del pianeta Terra, che dovrebbe calcolare per dieci milioni di anni. Ma dopo otto milioni di anni di lavoro, e ormai in vista del risultato, la Terra viene distrutta per far posto a uno svincolo iperspaziale. Nel secondo romanzo Arthur Dent, un terrestre sopravvissuto che ha nei propri circuiti cerebrali una parte del calcolo ormai andato perduto, riesce solo a estrarre dal proprio subconscio la domanda: «Quanto fa 6 per 9?». E a rispondere automaticamente: «42». Aggiungendo: «È così, e non c’è altro da sapere. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nell’universo». Nel terzo romanzo Arthur Dent
incontra un essere di nome Prak, che è stato addestrato a dire «la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità». Questi gli conferma che “42” è effettivamente la risposta, ma aggiunge che non è possibile conoscere allo stesso tempo la domanda, perché le due cose si annichilirebbero, trascinando con sé nella distruzione l’intero universo. La risposta “42” è diventata così popolare nei paesi anglosassoni, che se uno digita “answer to the ultimate question of life, the universe and everything” sui motori di ricerca Google o WolframAlpha, la ottiene automaticamente come risultato sulla calcolatrice. Quanto al suo significato, cosa ci
stia dietro l’ha spiegato Adams stesso nel 1993, sul suo forum: È molto semplice: era uno scherzo. Doveva essere un numero, preferibilmente piccolo, e ho scelto quello. Rappresentazioni binarie,
base tredici, monaci tibetani: è tutto senza senso. Ero seduto alla scrivania, ho guardato nel giardino, e ho pensato: “42 può andar
bene”. L’ho battuto sulla tastiera, ed è finita lì.
O forse bisognerebbe dire che è cominciata lì, visto che i lettori da allora si sono lanciati in una serie interminabile di interpretazioni, comprese quelle citate da Adams. In particolare, in rappresentazione binaria il numero 42 si scrive 101010, ed è particolarmente simmetrico. E in base 13, invece, 42 va letto come (4 × 13) + 2, cioè 54: ovvero, come la risposta corretta alla domanda «Quanto fa 6
per 9?». Quanto al riferimento di Adams ai “monaci tibetani”, sicuramente esistono connessioni tra il 42 e le antiche religioni. In Egitto, ad esempio, il giudizio dei morti presieduto da Osiride aveva un collegio giudicante di 42 dèi, in rappresentanza delle 42 provincie egiziane. Ognuno di essi interrogava il defunto riguardo a uno dei 42 capi d’accusa elencati nel capitolo CXXV del Libro dei morti, e riguardanti i 42 princìpi di Ma’at. Solo 42 punti pieni permettevano di passare il giudizio, ed essere promossi al regno della luce.
Gli Ebrei si ispirarono direttamente al Libro dei morti per la formulazione dei loro comandamenti, riducendone però il numero da 42 a 10. Ma l’eco della loro ispirazione egizia risuona nel “nome a 42 lettere” del Talmud babilonese, che secondo Maimonide era ottenuto incollando fra loro vari nomi diversi della divinità. Nella Cabala il 42 corrisponde invece direttamente alla creazione, in
quanto somma di 25 e 17, che traducono numericamente le espressioni iniziale e finale dei racconti delle varie opere divine: cioè, “sia fatto” e “buono”. Attraverso un ulteriore filtraggio, il 42 è poi penetrato anche nella tradizione cristiana. Ad esempio, nei 42 ascendenti enumerati nella genealogia di Gesù dal Vangelo secondo Matteo. O nei 42 mesi del dominio della Bestia, previsti dall’Apocalisse. Tornando ad Adams, in una delle sue excusatio egli si schermisce dicendo: «Potrò anche essere un caso senza speranza, ma non faccio battute in base tredici». Sarà, ma certamente ne faceva Lewis Carroll, del quale spesso Adams è stato
considerato un analogo novecentesco. Nel capitolo II di Alice nel paese delle meraviglie (1865), ad esempio, leggiamo: Vediamo: 4 per 5 fa 12, 4 per 6 fa 13, e 4 per 7 fa…
Oh, Dio! Non arriverò mai a 20, di questo passo!
Una spiegazione superficiale di questi calcoli, apparentemente tutti sbagliati, è che siano soltanto dei nonsense. Ma una spiegazione profonda, e più interessante, si basa sull’osservazione che 4 per 5 fa 12 in base 18: in questa base, infatti, 12 significa appunto 18 più 2, cioè 20. Analogamente, 4 per 6 fa 13 in base 21, e 4 per 7 fa 14 in base 24. Proseguendo in tal modo, si arriva fino a 4 per 12, che fa 19 in base 39. Ma ci si ferma a 4 per 13,
che non fa 20 in base 42: in questa base, infatti, 20 significa 42 per 2, cioè 84, e non 52, cioè 4 per 13. Dunque, “42” è la risposta al perché Alice non arriverà mai a 20 proseguendo la sua serie di operazioni. E non è questa l’unica occorrenza del numero 42 nell’opera di Carroll. Ad esempio, in Alice nel paese delle meraviglie ci sono 42 illustrazioni, e nell’ultimo capitolo compare una «Regola 42: tutti coloro che sono più alti di un miglio abbandonino l’aula». E anche nella prefazione della Caccia allo Snark (1876) compare una «Regola 42: nessuno parli al timoniere, e il timoniere non parli a nessuno». La vita, istruzioni per l’uso di Georges
Perec (1978) e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979) sono le più caratteristiche e riuscite opere prodotte dall’associazione di letterati e matematici chiamata Ouvroir de Littérature Potentielle, “Opificio di Letteratura Potenziale”, e fondata nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais. Ed entrambe queste opere hanno una struttura basata sul 42. Per descrivere il condominio di cento stanze di cui costituisce un’istantanea, la prima opera rispetta una serie di vincoli narrativi. Questi vincoli si ottengono da una serie di 42 liste di dieci elementi ciascuna, corrispondenti a persone, azioni, oggetti, citazioni, eccetera. Le liste sono appaiate, e a ciascuna coppia
è associato un quadrato alfanumerico 10 per 10, sulla cui struttura torneremo in seguito (vedi pp. 261-263): in tutto ci sono dunque 21 quadrati, ottenuti da uno fondamentale mediante permutazioni delle righe o delle colonne. E poiché le cento caselle dei vari quadrati corrispondono alle stanze del condominio, ciascuna stanza riceve appunto 42 vincoli. La seconda opera si basa invece sui quadrati semiotici di Algirdas Greimas. Ogni elemento del romanzo, sia esterno che interno, viene disposto a turno sui vertici di un quadrato, e le sue relazioni con gli altri elementi vengono indicate da frecce che collegano i vertici lungo i lati o le diagonali. I quadrati usati crescono gradualmente da 1 a 6 nei primi
capitoli, e decrescono da 6 a 1 negli ultimi, per un totale di 42 per l’intera opera. A titolo di esempio, ecco il primo di questi quadrati, e la spiegazione data da Calvino in Come ho scritto uno dei miei libri (1981):
Il lettore esterno (Le ) legge il libro esterno (le ).
Il libro esterno narra del lettore interno (Li).
Il lettore interno non legge il libro interno (li). Il libro interno non narra del lettore esterno.
Il lettore interno vorrebbe essere il lettore esterno.
Il libro esterno vorrebbe essere il libro interno.
Come esiste un quadrato magico 3 per 3 costruito su tutti i numeri da 1 a 9, nel quale la somma su qualunque riga, colonna o diagonale è sempre la stessa, così esiste un cubo magico 3 per 3 per 3 basato su tutti i numeri da 1 a 27, nel quale la somma su qualunque riga, colonna, corridoio o diagonale passante per il centro è sempre la stessa:
Per calcolare la somma in questione, si divide la somma dei numeri da 1 a 27, cioè 378, per il numero delle righe, cioè 9: come ci
si può aspettare, anche in questo caso la risposta è “42”. Nel 1982 Albert Wilansky si accorse che suo cognato Harold Smith aveva un numero di telefono interessante, nel senso che la somma delle sue cifre era uguale alla somma delle cifre dei suoi fattori primi: Manco a dirlo, la somma in questione era 42. Di numeri di Smith, come da allora sono chiamati quelli che hanno questa proprietà, ce ne sono infiniti. E un esempio è dato da qualunque repunit primo diverso da 11, moltiplicato per 3.304. Immagini: il supercomputer nel film tratto da Guida galattica per gli autostoppisti; il giudizio
di Osiride in un papiro egizio del secolo -IV.
Divinazione ed erotismo 64
Nel disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1967), Paul McCartney cantava «When I’m sixty-four», “Quando avrò 64 anni”,
una canzone che aveva scritto a 16 anni: due coincidenze numeriche significative, visto che 16 è due alla quarta, e 64 due alla sesta. O, se si preferisce, 16 è quattro al quadrato, e 64 quattro al cubo. A vedere il 64 come due alla sesta sono stati per primi gli antichi Cinesi. Il loro classico di divinazione I Ching, “Libro dei mutamenti”, è organizzato sui cosiddetti esagrammi, ciascuno dei quali consiste di sei linee che possono essere spezzate o intere, a rappresentare i due princìpi dello yin e dello yang. Per la prima linea ci sono infatti due possibilità, per le prime due quattro, e per le prime tre otto. Fermandosi a tre linee si ottengono i cosiddetti trigrammi, ai
quali abbiamo già accennato, e continuando fino a sei linee si arriva invece agli esagrammi. Un modo equivalente di rappresentare gli esagrammi è mediante i 64 simboli dell’alfabeto Braille per i non vedenti, ciascuno dei quali consiste di una serie di sei puntini, ordinati due a due su tre righe orizzontali, come una tessera del domino in verticale. Poiché ciascun puntino può essere in rilievo o no, si hanno di nuovo 64 possibilità, alcune delle quali servono da lettere, e altre da segni di interpunzione e formattazione.
Dal punto di vista matematico, gli esagrammi e i simboli dell’alfabeto Braille non sono altro che le rappresentazioni in base 2 dei numeri da 0 a 63, scritte in un altro modo: in particolare, nel sistema binario il 16 e il 64 si scrivono rispettivamente 10.000 e 1.000.000.
A vedere il 64 come quattro al cubo sono stati invece per primi gli antichi Indiani. Il loro classico di erotismo Kamasutra, “Regole dell’amore”, elenca 64 arti possedute dal dio Krishna, e altrettante posizioni sessuali fondamentali, classificate dividendo il cerchio della perfezione in quattro quadranti, ciascun quadrante in quattro settori, e ciascun settore in quattro archi. Anche la Natura sembra vedere in questo modo il 64, dato che l’alfabeto della vita è composto da quattro basi azotate indicate con le quattro lettere G, A, T e C (vedi p. 137). La sintassi permette soltanto vocaboli di tre lettere, chiamati codoni: ce ne sono dunque 64, alcuni dei quali sinonimi. Il
dizionario, chiamato codice genetico, traduce ciascuna parola in uno dei venti amminoacidi, che costituiscono i mattoni delle proteine, o in un segno di interpunzione. Il modo più naturale di rappresentare il codice genetico è dunque su un cubo di lato quattro.
Dal punto di vista matematico, i
nucleotidi non sono altro che le rappresentazioni in base 4 dei numeri da 0 a 63, scritte in un altro modo: in particolare, nel sistema quaternario il 16 e il 64 si scrivono rispettivamente 100 e 1.000. Il 64 si può infine vedere come otto al quadrato. Ad esempio, la scacchiera degli scacchi ha otto caselle per lato, e dunque 64 caselle in tutto. Volendo, gli esagrammi degli I Ching si possono interpretare come doppi trigrammi, o trigrammi al quadrato, e in tal modo sono spesso ordinati a scacchiera. A loro volta, le malattie del corpo sono classificate in otto categorie nel sistema di medicina tradizionale indiano Ayurveda, “Conoscenza della vita”, e ciascuna è poi
suddivisa in otto sottocategorie, per un totale di 64 malattie.
Dal punto di vista matematico, le posizioni delle caselle della scacchiera non sono altro che le rappresentazioni in base 8 dei numeri da 0 a 63, scritte in un altro modo: in particolare, nel sistema ottonario il 16 e il 64 si scrivono
rispettivamente 20 e 100. Il passaggio dal 1.000.000 in base 2 al 1.000 in base 4 e al 100 in base 8 si effettua facilmente in maniera automatica, notando che la rappresentazione a cifre singole in base 2 corrisponde alla rappresentazione a coppie di cifre in base 4, e a quella a terne di cifre in base 8. Cioè, 1.000.000 in base 2 si può leggere come 1(00)(00)(00) in base 4, che corrisponde appunto a 1.000. Oppure, si può leggere come 1(000) (000) in base 8, che corrisponde invece a 100. E il procedimento è perfettamente generale, nel senso che funziona per qualunque numero in binario, e per qualunque base che sia una potenza di 2.
Ad esempio, in base 16 il numero 1.000.000 si può leggere come (100) (0000), che corrisponde a 40: cioè, a 16 per 4. Oppure, si può leggere come (10)(00000) in base 32, che corrisponde a 20: cioè, a 32 per 2. E si può infine leggere come 1(000000) in base 64, che corrisponde a 10: cioè, ovviamente, a 64 per 1. A proposito delle varie basi, il 4, l’8 e il 16 sembrano essere stati nel passato dei naturali punti di arrivo del sistema di numerazione, dopo cui i nomi dei numeri cambiano. Il cinque segnava per i Romani l’inizio dell’assegnazione ai figli e ai mesi di nomi numerici quali Quinto e Sesto, o Settembre e Ottobre. Il nove sembra etimologicamente legato al “nuovo”, e in francese la parola neuf è la stessa per il numero e
l’aggettivo. E diciassette segna l’inizio di un conteggio con il “dici” come prefisso, invece che come suffisso, usato appunto fino a sedici. Come esistono quadrati magici, in cui tutte le righe, le colonne e le diagonali hanno la stessa somma, così esistono quadrati bimagici, nei quali questo succede non solo per i numeri, ma anche per i loro quadrati. Mentre però i più piccoli quadrati magici sono 3 per 3, i più piccoli quadrati bimagici noti sono 8 per 8. E sicuramente non ne esistono di più piccoli n per n, se si richiede che essi usino tutti i numeri da 1 a n2. Come fa appunto il seguente, basato su tutti i numeri da 1 a 64, in cui la somma dei numeri delle righe,
delle colonne e delle diagonali è dunque 260, e la somma dei quadrati è 11.180:
Immagini: scultura ispirata al Kamasutra in un tempio di Khajuraho, India; l’alfabeto Braille; il codice genetico (i 64 possibili codoni del DNA e gli amminoacidi corrispondenti); gli esagrammi degli I Ching.
Cento, istruzioni per l’uso 100
Poiché noi contiamo in base 10, le potenze della base ci appaiono particolarmente significative, e 100 è la prima non banale: la ritroviamo dunque in centinaia di occasioni, di cui ora centelliniamo qualche esempio. Nei compleanni si augura: «Cento di questi giorni!». Quando scocca un secolo, non a caso chiamato century in inglese, si festeggia un centenario. Cento anni impiegò Noè a costruire l’arca, cento ne aveva Abramo quando generò Isacco, cent’anni durò l’omonima guerra tra Inglesi e Francesi nei secoli XIV e XV. Cento erano i fiori che dovevano sbocciare, e cento le scuole che dovevano gareggiare, nella campagna lanciata da Mao nel 1956. Cento teste aveva il drago che
Ercole sconfisse nella sua penultima fatica. Cento erano le pecore del gregge, nella parabola della pecorella smarrita. Cento buoi si sacrificavano nelle omonime ecatombi (da hekaton, “cento”, e bous, “bue”), nel mese ecatombale (luglio-agosto) e in altre occasioni speciali. E così avvenne, sembra, per la scoperta del teorema di Pitagora, che è appunto esemplificato dal numero 100:
L’esercito romano era organizzato in centurie, comandate da centurioni. Gli statistici usano le percentuali, gli avari lesinano i centesimi, gli atleti corrono i cento metri…
Fin dall’antichità si sono compilate antologie di citazioni chiamate centoni, che prendono il nome della coperta a pezze greca chiamata kentron. Uno dei primi esempi è il Centone nuziale di Ausonio, del 369, composto interamente di brani tratti da Virgilio. Altri ne seguirono nei secoli successivi, soprattutto sulla vita di Cristo. E il tutto è culminato nel 1951 nella Vita di Cristo narrata da Virgilio (centone virgiliano in 666 esametri) di Anacleto Bendazzi, che usa la parola “centone” nel senso metaforico moderno, svincolato dal 100. I letterati si sono sbizzarriti a usare il numero 100 per costruire opere che vanno dai cento canti della Divina Commedia di Dante Alighieri, alla Centuria: cento piccoli
romanzi fiume di Giorgio Manganelli (1979). E, come già sappiamo (vedi p. 217), la poetessa Violeta Parra ha compilato Centesime dell’anima (1958) che enumerano tutti i numeri delle prime tre centinaia, da 1 a 300. Il musicista Muzio Clementi ha composto cento studi per il suo Gradus ad Parnassum (1817, 1819 e 1826), e altri l’hanno imitato. E il film Drowning by Numbers di Peter Greenaway (1988) consiste di cento scene, in ciascuna delle quali si intravede o si sente il corrispondente numero. In questa direzione, però, l’opera più singolare che sia mai stata realizzata è senza dubbio La vita, istruzioni per l’uso di Perec (vedi p.
252). Il romanzo descrive un istante nella vita di un condominio di 100 stanze, distribuite 10 per piano su 10 piani, alla maniera di una scacchiera. L’edificio è abitato da 10 tipologie di personaggi (A, B, C, eccetera), che compiono 10 tipologie di azioni (1, 2, 3, eccetera), in tutte le 100 possibili combinazioni (A1, A2, A3, eccetera).
Ma la distribuzione di queste combinazioni nelle stanze non è quella banale della battaglia navale, in cui tutte le occorrenze di una lettera appaiono in un’unica riga, e tutte quelle di un numero in un’unica colonna. Bensì, la distribuzione non banale in cui ogni lettera e ogni numero occorrono una volta sola in ciascuna riga, e in ciascuna colonna. Questa condizione definisce i cosiddetti quadrati alfanumerici, che si possono costruire facilmente su scacchiere 3 per 3, 4 per 4 e 5 per 5. Nel Settecento Eulero provò a costruirne su scacchiere 6 per 6, ma non riuscendoci pensò che la cosa fosse impossibile, e che rimanesse impossibile anche su scacchiere 10 per 10. Nel 1901 Gaston Terry provò a mano tutti i casi possibili, e
confermò che Eulero aveva ragione per il caso 6 per 6. Ma nel 1959 Ernst Parker trovò col calcolatore un quadrato alfanumerico 10 per 10, e dimostrò che Eulero aveva torto in questo caso. E fu proprio sentendo del risultato di Parker, che a Perec venne l’idea per il suo romanzo. Ecco la soluzione da lui adottata, riformulata visivamente in termini delle cento combinazioni formate dalle coppie di dieci colori, con la restrizione che nessun colore esterno o interno può ripetersi su una stessa riga o su una stessa colonna:
Per ordinare i capitoli del suo libro, Perec decise di visitare la scacchiera 10 per 10 delle stanze del condominio muovendosi su di essa come un cavallo degli scacchi. Dovette cioè distribuire tutti i numeri da 1 a 100 sulla scacchiera, in modo
da passare da ciascuno al seguente muovendosi di una casella in orizzontale e due in verticale, o viceversa. Varie soluzioni erano già note da tempo, fin dal Settecento, ma Perec ne trovò una originale per conto suo:
Si noti che il percorso da lui scelto non è chiuso, perché 1 e 100 non sono a distanza di una sola mossa: dunque, il romanzo non è ciclico. Inoltre, la simmetria è ulteriormente spezzata dal fatto che manca un capitolo, che avrebbe
dovuto essere il 66°. La cosa nel romanzo non si nota, perché la numerazione dei capitoli è continua, ma il conto finale arriva solo a 99, e i numeri dei capitoli dal 66 in poi dovrebbero tutti essere aumentati di uno. Un altro modo di disporre i numeri da 1 a 100 su una scacchiera 10 per 10 è in un quadrato magico, in cui le somme parziali delle righe, delle colonne o delle diagonali sono 505 e la somma di tutti i numeri è 5.050:
Oltre alle proprietà un po’ esoteriche legate ai quadrati alfanumerici e ai percorsi del cavallo, il numero 100 ne ha anche di più convenzionali. A parte il fatto ovvio di essere il quadrato di 10. E quello meno ovvio di essere la somma dei quadrati di 6 e 8: il che lo rende, come abbiamo già notato, un numero pitagorico. Ad esempio, dal punto di vista additivo, 100 è la somma dei primi
nove numeri primi 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19 e 23, oltre che di varie coppie di numeri primi: 3 e 97, 11 e 89, 17 e 83, 29 e 71, 41 e 59, e 47 e 53. E dal punto di vista moltiplicativo, è il prodotto dei due quadrati 4 e 25. Dal punto di vista esponenziale, 100 è la somma dei primi quattro cubi 13, 23, 33 e 4 3, il che lo rende una specie di tetraktys cubica. Ed è anche la somma di 26 e 62, il che ne fa uno dei cosiddetti numeri di Leyland, che vengono usati per testare i programmi di fattorizzazione o primalità: i precedenti numeri di Leyland sono 8, 17, 32, 54 e 57, che si ottengono rispettivamente dalle coppie (2,2), (2,3), (2,4), (3,3) e (2,5), e di essi solo 17 è primo. Immagini: 100 lattine di Andy Warhol; sezione
trasversale
di
un
palazzo
parigino
in
un’illustrazione di fine Ottocento; illustrazione di un quadrato alfanumerico mediante l’uso di colori; il percorso del cavallo nel romanzo di Perec.
La pesca miracolosa 153
Nel Vangelo secondo Giovanni (XXI, 11) si legge, a conclusione dell’episodio della pesca miracolosa
che segue la resurrezione di Cristo: Allora Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi
pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.
Inutile dire che quel tocco di precisione scientifica all’interno di un racconto mitologico attira l’attenzione, e nel corso della storia molti hanno pensato che in esso si potesse celare chissà quale significato recondito. Il più titolato esegeta numerologico dell’episodio è senz’altro sant’Agostino, che ne ha parlato almeno tre volte. Anzitutto, nella 122a omelia del Commento al Vangelo di San Giovanni, su “L’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade”: Se al numero 10, proprio della Legge, aggiungiamo il numero 7, proprio dello
Spirito Santo, abbiamo 17. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo
formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato 153. Questo numero è, per di più, formato da 3 volte il numero 50, con l’aggiunta di 3, che significa il mistero
della Trinità. Il 50 è poi formato da 7 per 7 più 1: vi si aggiunge 1 per indicare che uno
solo è lo Spirito che si manifesta attraverso l’operazione settenaria.
Poi, nel 248° dei Discorsi sui tempi liturgici, su “Le due pesche miracolose e il loro simbolismo”: Se occorre lo Spirito per adempiere la legge,
si uniscano il 7 e il 10 in modo da ottenere il
numero 17. Ebbene, se vi metterete a sommare tutti i numeri da 1 fino a 17, otterrete 153. Non occorre che facciamo
adesso il computo: contateli a casa vostra, e
questo conto fatelo prendendo l’1, il 2, il 3, il
4: così siamo a 10. E come il 10 è l’1 con l’aggiunta di 2, di 3 e di 4, così provate ad
aggiungere gli altri numeri fino a 17. Troverete in questo modo il sacro numero dei
fedeli e dei santi che saranno in cielo col Signore.
E infine, nella 57a delle Ottantatré questioni diverse, direttamente su “I centocinquantatré pesci”: Sembra giusto ritenere che il numero 50 appartenga alla Chiesa purificata e perfetta. Ora questa Chiesa, a cui si applica il numero
50, è composta da tre categorie di uomini
(Giudei, Gentili e Cristiani carnali), ed è anche consacrata dal sacramento della Trinità: moltiplicando per 3 il numero che la indica si
arriva a 150. Se a questo si aggiunge 3, poiché dev’essere importante e prezioso ciò che
viene
purificato
dal
lavacro
della
rigenerazione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, si ha 153.
Oggi il fantasioso simbolismo di Agostino è ormai anacronistico, ma da esso si salva l’osservazione che 153 è il diciassettesimo numero triangolare: cioè, che 153 = 1 + 2 + … + 17. Un paio di secoli dopo Agostino, nella 24 a delle sue Omelie sui Vangeli, papa Gregorio Magno farà notare che 153 = 17 × 9, stabilendo così un’altra coincidenza
significativa fra i due numeri: 7 precetti furono disseminati nel Nuovo
Testamento, e 10 erano stati dati nel Vecchio.
Se moltiplichiamo questi due numeri, che
insieme fanno 17, per 3, che è il numero della Trinità, otteniamo 51. E se moltiplichiamo di nuovo 51 per 3, otteniamo 153.
Volendo, si potrebbe anche osservare che 153 = 32 + 122, dove 3 è il numero della Trinità e 12 quello degli apostoli. O che 153 = 13 + 53 + 33, il che lo rende il più piccolo dei quattro numeri diversi da 1 che sono uguali alla somma dei cubi delle proprie cifre: gli altri sono 370, 371 e 407. Tra l’altro, a ulteriore conferma delle proprietà trinitarie del 153, prendendo la somma dei cubi delle cifre di un qualunque multiplo di 3, e la somma dei cubi delle cifre della
somma, eccetera, si arriva sempre in un numero finito di passi a 153, e lì ci si ferma. Interessante è anche il fatto che l’altezza di un triangolo equilatero di lato unitario sia il numero irrazionale √3/2. E una buona approssimazione razionale di √3, già usata da Archimede nel suo calcolo di pi greco e ottenibile con gli antichi metodi di approssimazione delle radici, è 265/153. Incollando insieme due triangoli equilateri per un lato, e costruendo gli archi di cerchio esterni, si ottiene una figura di altezza √3 chiamata vescicula piscis o “mandorla di gloria”, spesso usata nell’iconografia cristiana per
circondare una persona divina, un angelo o un santo. Che qualche diavoletto abbia nascosto nel Vangelo secondo Giovanni un bel riferimento all’irrazionalità, pregustando i salti mortali che ignari padri della Chiesa e papi avrebbero fatto per interpretarla?
Immagini: L’apparizione di Cristo sul lago di Tiberiade di Duccio di Buoninsegna; La pesca miracolosa di Raffaello; la “mandorla di gloria”
in un manoscritto del Duecento.
Un numero diabolico 666
Nell’Apocalisse di Giovanni, che chiude il Nuovo Testamento, si legge al versetto XIII,16-18:
Faceva sì che tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, liberi e schiavi, venissero marchiati
sulla mano destra e sulla fronte. E che
nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della Bestia o
il numero del suo nome. Qui sta la sapienza.
Chi ha intelligenza interpreti il numero della Bestia: esso rappresenta un nome d’uomo, e il numero è 666 (χξς).
È probabile che un nome in codice, in un libro scritto in un paese occupato dai Romani, volesse indicare un capro espiatorio dell’occupazione: Nerone, ad esempio, che era ben noto per non essere un fan dei primi Cristiani. E infatti, a “NeRoN QeSaR” (alla greca) la gematria ebraica fa appunto corrispondere il numero 666. Una variante del testo dell’Apocalisse sembra riferirsi al numero 616, invece che al 666, ma
in tal caso l’imperturbabile gematria fa corrispondere 616 a “NeRo QeSaR” (alla latina). Come si vede, il gioco in queste cose non è trovare il significato inteso dall’autore, ammesso che ce ne fosse uno specifico, ma piegare l’interpretazione in modo da forzare la risposta desiderata dall’interprete. Nel corso dei secoli, dunque, la Bestia è stata variamente “identificata” come il Papa, Maometto, Lutero, Napoleone, Hitler, Saddam Hussein, l’Anticristo e il Diavolo. A causa di quest’ultima associazione, il 666 è spesso considerato un simbolo satanico, e sembra venga usato per invocare il Diavolo: probabilmente, con scarso successo.
L’ovvia associazione del 666 con Nerone, o qualche altro Romano degenere o del genere, è resa ancora più probabile dal fatto che si tratti di un numero quasi pandigitale nel sistema romano: cioè, DCLXVI, che usa tutti i simboli, meno la M per il mille. Sorprendentemente, il 666 ha diaboliche connessioni anche con le espressioni pandigitali nel sistema decimale:
Dal punto di vista additivo, 666 è la somma di tutti i numeri da 1 a 36. Il che ne fa il trentaseiesimo numero triangolare, oltre che la somma dei
numeri della roulette: una conferma questa, per chi ne avesse bisogno, della sua connessione col Diavolo attraverso il gioco d’azzardo. La proprietà appena vista fa sì che il seguente quadrato magico, contenente appunto tutti i numeri da 1 a 36, sia anche diabolico, nel senso che la somma totale di tutti i suoi numeri è 666. La somma parziale delle righe, delle colonne o delle diagonali è 111, e moltiplicando tutti i numeri per 6 si ottiene invece un quadrato in cui la somma parziale diventa 666:
666 è anche la somma dei quadrati dei primi sette numeri primi, oltre che dei quadrati di due numeri interi che sommano a 36: Dal punto di vista moltiplicativo, invece, 666 è un numero di Smith perché
e la somma delle cifre a sinistra e a
destra dell’uguale è sempre 18. Infine, dal punto di vista esponenziale:
Immagini: il 666 di Keith Haring; arazzo
ispirato all’Apocalisse nel castello di Angers in Francia.
Migliaia, milioni e miliardi
Mille e non più mille 1.000
Quando gli Stati Uniti fecero detonare la prima bomba atomica della storia dell’umanità, il 6 agosto
1945 a Hiroshima, il fisico Robert Oppenheimer, direttore a Los Alamos del team di scienziati che l’aveva costruita, citò tra l’esaltato e il delirante questo verso dalla Bhagavad Gita (XI, 12), il classico della letteratura induista: Se nel cielo la luce di mille soli si fondesse
assieme, sarebbe simile allo splendore del Supremo Essere.
L’immagine dei «mille soli» entrò così nell’immaginario della cultura occidentale, dopo aver fatto parte per millenni di quello orientale. Un’altra sua apparizione recente è nel titolo Mille splendidi soli del romanzo di Khaled Hosseini, tratto questa volta da un verso del poeta afgano del secolo XVII Saib Tabrizi, riferito a Kabul: Non si possono contare le lune che brillano
sui suoi tetti, né i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi muri.
In Cina il Classico dei Mille caratteri, attribuito all’imperatore Wu della dinastia Liang (502-549), contiene esattamente 1.000 caratteri, tutti diversi fra loro, raggruppati in 250 versi di 4 caratteri ciascuno. Sembra che sia stato scritto come esercizio calligrafico per il principe ereditario, ma sicuramente è stato usato per un millennio e mezzo nelle scuole cinesi come artificio mnemonico per l’insegnamento dei caratteri. E anche per fornire una loro classificazione, analoga al nostro ordine alfabetico.
Nella Bibbia, la citazione più nota del numero 1.000 sta invece in questi versetti dell’Apocalisse (XX, 27): Egli afferrò il dragone, il serpente antico –
cioè il diavolo, Satana – e lo incatenò per
mille anni. Lo gettò nell’Abisso, ve lo
rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui,
perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni. Dopo questi dovrà essere sciolto per un po’ di tempo.
Al momento del passaggio tra il
primo e il secondo millennio dell’era cristiana le popolazioni europee storpiarono la citazione nel motto “mille e non più mille”, lo interpretarono come l’annuncio della fine del mondo allo scadere dell’anno 1000, e caddero vittime di quel delirio che ancor oggi si chiama “millenarismo”. I millenari, cioè le celebrazioni dei millenni, sono ovviamente riservati alla storia dell’umanità, e rimangono preclusi ai singoli mortali. Anche il più anziano di quelli mitici del Genesi, il proverbiale Matusalemme, arrivò “soltanto” a 969 anni: che, per la cronaca, è un numero palindromo, come altri che abbiamo già incontrati. Al massimo, noi potremmo festeggiare il millesimo “compigiorno” di un bambino, o il
millesimo anziano.
“compimese”
di
un
Essendo la terza potenza di 10, il modo più semplice per rappresentarsi il numero 1.000 è di pensare a un cubo di lato 10: ad esempio, a 1.000 cubetti disposti in 10 strati, ciascuno di 10 file, ciascuna di 10 cubetti. Gli strati appaiono dunque come le scacchiere 10 per 10 del già citato romanzo di Perec La vita, istruzioni per l’uso (vedi pp. 252 e 261-263). Nel romanzo lo scrittore si limita a scoperchiare la facciata di un condominio, mettendo così a nudo le 10 stanze allineate su ciascuno dei 10 piani. Ma un condominio reale avrebbe naturalmente avuto anche una profondità, che per
simmetria potremmo immaginarci della stessa dimensione dell’altezza e della larghezza: cioè, appunto, come un edificio cubico di 1.000 stanze. Perec non ha “approfondito” la sua struttura, perché 100 capitoli per un romanzo gli bastavano e gli avanzavano: anzi, come sappiamo, uno se l’è perso per strada, e il libro consiste dunque soltanto di 99 capitoli. Altrettanti sono gli Esercizi di stile di Raymond Queneau, e in entrambi i casi il motivo è chiaro: 100 è un numero troppo banale e simmetrico per poter essere preso seriamente, soprattutto dopo che nel Novecento la fisica ci ha insegnato l’importanza della rottura della simmetria.
Certe cose, però, le avevano già capite anche gli Arabi. Anzitutto, con i 99 nomi di Allah citati, ma non enumerati, dal Corano. Benché la lista vari a seconda delle tradizioni, essa viene recitata con l’aiuto di un rosario a 33 grani, da percorrere ovviamente tre volte. E poi, con le storie delle Mille e una notte e dei Mille e un giorno, che sono in entrambi i casi 1.001. Un numero, tra l’altro, molto più interessante di 1.000, essendo scomponibile non nell’insipido prodotto di tre 10, ma nel più gustoso prodotto dei tre primi consecutivi 7, 11 e 13. Quanto a 999, invece, è la somma di 149, 263 e 587: di nuovo tre numeri primi, in cui appaiono tutte le cifre da 1 a 9, una volta e una volta sola.
Anche il 1.000 ha comunque per gli Arabi un significato particolare: le ventotto lettere del loro alfabeto possono infatti essere utilizzate nove per le unità, nove per le
decine, nove per le centinaia, e l’ultima (ghayn, “gh”) per il 1.000. Un artificio tipicamente mediorientale, questo, visto che era già stato usato più di tremila anni fa in Egitto, nei ventotto poemi delle Mille canzoni di Tebe. A parte il suo uso in espressioni quali millepiedi in zoologia, millefoglie in cucina, millefiori in profumeria o millemiglia nei programmi delle compagnie aeree, oltre che nell’automobilismo, il numero 1.000 non sembra troppo interessante di per sé. Ma si vivacizza se lo si interpreta in sistemi numerici diversi da quello decimale.
Nel sistema binario, ad esempio, 1.000 significa non 10 al cubo, ma 2 al cubo: cioè, 8. Inoltre, 1.000 è vicino a 1.024, che è 2 alla 10: cioè, 1.000 in decimale vale circa 10 miliardi in binario, il che rende agevole passare da uno all’altro in maniera approssimata. Nel sistema ternario invece 1.000 significa 3 al cubo, cioè 27, che era un numero magico per i Pitagorici. Quanto al suo quadrato, cioè 729, è allo stesso tempo il cubo di 9 e la sesta potenza di 3: il che significa che 729 si scrive 1.000 in base 9, e 1.000.000 in base 3.
Abbiamo dunque imparato che scrivere 1.000 non significa molto, fino a quando non si precisa la base. E in generale la stessa espressione può significare 8, 27, 64, 125, 216, 343, 512, 729 o 1.000, a seconda che si usino come basi 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 o 10. Ben quattro di questi numeri sono stati citati da Platone, per vari motivi. L’8 e il 27 nel solito Timeo, che associa i sette numeri 1, 2, 3, 4, 8, 9 e 27 ai sette pianeti da un lato, e alle sette note da essi suonate nella musica cosmica dall’altro. E osserva che 27 è la somma dei rimanenti sei numeri. Il 216, che oltre a essere il cubo di 6 è anche la somma dei cubi di 3, 4 e 5, nell’oscuro passaggio della
solita Repubblica (VIII, 546c-d) già citato a pagina 165, che sembra essere la prima testimonianza di questa proprietà dei numeri 3, 4, 5 e 6. E il 729, sempre nella Repubblica (IX, 587e), quando si calcola in maniera un po’ demenziale che «la vita del re è 729 volte più beata di quella del tiranno, e la vita del tiranno 729 volte più infelice di quella del re». Guardando in direzione opposta rispetto al 1.000, poco dopo di esso troviamo due numeri doppiamente singolari: 1.184 e 1.210. La loro prima singolarità sta nel fatto che ciascuno è la somma dei divisori dell’altro:
Gli antichi chiamavano questo genere di coppie numeri amicabili, e ne conoscevano un unico esempio: 220 e 284. Altri due esempi furono scoperti verso l’850 da Thābit ibn Qurra, e riscoperti l’uno da Fermat nel 1636, e l’altro da Cartesio nel 1638. Eulero ne aggiunse altri 58 nel 1750, portando il conto a 61. E oggi se ne conoscono milioni. Ma tutti si lasciarono sfuggire la seconda più piccola coppia di numeri amicabili, dopo 220 e 284, che è appunto 1.184 e 1.210. E la sua seconda singolarità sta nel fatto che essa fu trovata solo nel 1866 da un ragazzo di sedici anni di nome Niccolò Paganini, omonimo del grande violinista. Immagini: esplosione atomica nel Pacifico; il
Classico dei Mille caratteri; Sheherazade di Sophie Anderson; il millepiedi e il millefoglie.
Due geni in azione 1.729
Uno dei matematici più enigmatici del Novecento è l’indiano Srinivasa Ramanujan, al quale abbiamo già accennato, e la cui breve e intensa vita è stata narrata da Robert Kanigel nella biografia L’uomo che vide l’infinito (1991), e da David
Leavitt nel romanzo Il matematico indiano (2007). Il suo amico e collaboratore Godfrey Hardy lo ricordò nell’articolo Il matematico indiano Ramanujan (1937), e nelle Dodici lezioni su argomenti suggeriti dalla vita e dal lavoro di Ramanujan (1940). E in entrambi i casi raccontò questa storiella: Poteva ricordare le idiosincrasie dei numeri
come se niente fosse: Littlewood ha detto che ogni intero positivo era un amico personale di Ramanujan.
Io ricordo di essere andato a trovarlo una
volta che era ricoverato a Putney. Il mio taxi
era il 1.729, e gli dissi che speravo non fosse di cattivo augurio, visto che il numero mi sembrava piuttosto banale.
«No» rispose lui, «è molto interessante: è il
più piccolo numero che si possa esprimere come somma di due cubi in due maniere
diverse.»
Come disse Borges, se una storia viene ripetuta due volte dev’essere certamente vera. Ciò nonostante è un po’ difficile credere a questa, se non altro perché 1.729 è ben noto ai teorici dei numeri, per i suoi legami con il cosiddetto ultimo teorema di Fermat. Cioè, con l’affermazione che Pierre de Fermat fece nel 1637: «Non esistono due numeri interi che, elevati a una potenza maggiore di 2 e sommati fra loro, danno come risultato un numero intero elevato alla stessa potenza». Nel 1770 Eulero fece un primo passo nella dimostrazione del teorema, mostrando che non esistono due cubi la cui somma è un cubo. Ma la cosa è vera per un pelo, e 1.729 mostra appunto che esistono due cubi la cui somma è un
“quasi cubo”, nel senso che differisce da un cubo solo per un’unità:
Il primo ad averlo scoperto fu Bernard Frénicle de Bessy, che nel 1657 lo fece notare a Fermat stesso. Ramanujan l’aveva annotato in uno dei suoi quaderni, risalente ad alcuni anni prima dell’episodio romanzato da Hardy. E nel Taccuino perduto, che invece riporta vari risultati ottenuti nei due anni precedenti la sua prematura morte nel 1920, a soli trentatré anni, egli mostra come ottenere infiniti di tali esempi, su un paio dei quali torneremo in seguito (vedi pp. 342343). Per curiosità, il più piccolo numero che si possa esprimere come somma di due quadrati in due maniere diverse è
invece 50 o 65, a seconda che si permettano quadrati uguali o no, ed entrambi sono “quasi quadrati”:
La storia di Hardy e Ramanujan è comunque diventata leggenda, ed è ormai creduta “sempre e dovunque”, come i dogmi della Chiesa. Ma potrebbe anche essere stata effettivamente un puro colpo di fortuna, come quello narrato da Richard Feynman nel capitolo «Numeri fortunati» di Sta scherzando, Mr. Feynman! (1985), che per caso riguarda anch’esso il numero 1.729: Durante la mia prima visita in Brasile un giorno stavo a pranzo, ed ero l’unico cliente perché
andavo
sempre
al
ristorante
nell’orario sbagliato. Arriva un giapponese
che cercava di vendere degli abachi, e sfida chiunque
ad
addizionare
numeri
più
velocemente di lui. I camerieri non vogliono
perdere la faccia, e gli dicono di venire da me.
Io protesto perché non parlo portoghese bene, ma loro ribattono che si tratta solo di
numeri. Così cominciamo ad addizionare, e lui mi batte malamente. Poi propone di
moltiplicare, e mi batte un po’ meno, perché sono bravo a far prodotti. Poi propone di dividere, e arriviamo pari.
Questo lo secca parecchio, perché credeva
di essere un mago dell’abaco e si sta quasi
facendo battere dal cliente di un ristorante. Così alza la posta, senza capire che più
difficile diventa il problema, e più crescono le mie chances, e propone di estrarre radici
cubiche: vuole fare le radici cubiche con l’aritmetica! Il numero che propone è 1729,03, e mentre lui comincia a lavorare
come un demonio, io scrivo subito 12 sul foglio, e dopo poco preciso: 12,002. Lui è
umiliato, e i camerieri esultano.
Come è riuscito il cliente a battere l’abaco?
Per caso io sapevo che un piede cubo
contiene 1728 pollici cubici, così la risposta doveva essere poco più di 12. L’eccesso, cioè 1,03, è solo una parte in circa 2000, e io avevo imparato dall’analisi che, per frazioni
piccole, l’eccesso di una radice cubica è un terzo dell’eccesso del numero. Così non avevo
che da trovare la frazione 1 su 1728, e moltiplicare per
4 (dividere per
3 e
moltiplicare per 12). E ho trovato un sacco di cifre, in quel modo.
Dal punto di vista moltiplicativo, il 1.729 è così divisibile: La prima fattorizzazione è una scomposizione in fattori primi. La seconda è invece una scomposizione palindroma, in cui 19 è la somma delle cifre di 1.729, e 91 la sua immagine speculare: ci sono solo altri tre numeri con questa proprietà, e cioè 1, 81 e 1.458. Immagini: il matematico indiano Srinivasa Ramanujan; una fotografia di Richard Feynman al Cern.
Padre Mersenne sbaglia 2.047
Un modo semplice per generare velocemente grandi numeri è
continuare a moltiplicare per 2. Naturalmente, nessuna potenza 2n diversa da 2 è un numero primo, essendo pari, ma 2n – 1 ha almeno una caratteristica necessaria: quella di essere dispari. A meditare sistematicamente su questi numeri fu per primo padre Marin Mersenne, ed essi prendono da lui il nome di numeri di Mersenne in generale, e di primi di Mersenne nel caso particolare in cui siano appunto primi. Poiché i numeri di Mersenne sono i repunit in base 2 (vedi pp. 194 e 196), possono essere primi solo se la loro lunghezza è anch’essa un numero primo: detto altrimenti, 2n – 1 può essere primo solo se anche n lo è. Per trovare i primi di Mersenne basta dunque concentrarsi sugli esponenti primi.
Ad esempio, ai primi quattro esponenti primi 2, 3, 5 e 7 corrispondono i quattro numeri di Mersenne 3, 7, 31 e 127, che sono tutti primi. Ma l’undicesimo numero di Mersenne, che corrisponde al quinto numero primo 11, non è primo:
Nel 1644 Mersenne cercò di trovare una regolarità, e nei suoi Pensieri fisico-matematici affermò che il numero 2n – 1 è primo se n è 2, 3, 5, 7, 13, 17, 19, 31, 67, 127 e 257, e non lo è per nessun altro esponente primo fino a 257. Con i mezzi dell’epoca, cioè a mano, non si poteva certo verificare la correttezza della lista: dunque,
Mersenne doveva aver in mente qualche regola per distinguere gli esponenti buoni da quelli cattivi, basata sui pochi esempi che poteva verificare.
Qualunque fosse questa regola, era comunque sbagliata. I due numeri corrispondenti agli
esponenti 67 e 257, inclusi nella lista, non sono infatti primi. E i tre numeri corrispondenti agli esponenti 61, 89 e 107, esclusi dalla lista, lo sono. Ma ci vollero tre secoli per verificarlo, e la cosa non fu banale: lo vedremo in seguito, quando torneremo su alcuni di questi numeri (vedi pp. 326-327, 341 e 354-355). Per ora, ci limitiamo a notare che di numeri primi di Mersenne se ne conoscono soltanto una cinquantina. Negli ultimi sessant’anni hanno quasi sempre detenuto il record del numero primo più grande: compreso quello attualmente in vigore. E torneremo pure su questo (vedi pp. 303, 362363 e 376-377).
Sorprendentemente, esiste una stretta relazione fra i numeri primi di Mersenne e i numeri perfetti pari. Già Euclide si era accorto, infatti, che ogni numero primo di Mersenne M genera un numero triangolare perfetto M(M + 1)/2, e duemila anni dopo Eulero completò l’opera dimostrando che ogni numero perfetto pari ha quella forma, per qualche primo di Mersenne M. Non stupisce, dunque, che i Greci conoscessero soltanto i quattro numeri primi di Mersenne 3, 7, 31 e 127, da un lato, e i corrispondenti quattro numeri perfetti 6, 28, 496 e 8.128, dall’altro, che sono appunto legati fra loro nel modo descritto:
Poiché i primi di Mersenne M corrispondenti ai numeri 2, 3, 5 e 7 sono repunit in base 2 della corrispondente lunghezza, i numeri perfetti che essi generano sono rappresentati in base 2 da una sequenza di 1 della stessa lunghezza, seguita da una sequenza di 0 più corta di uno, che corrisponde alla potenza di 2 definita da (M + 1)/2:
Immagini:
ritratto
di
padre
Mersenne;
frontespizio dei Pensieri fisico-matematici.
Una legge platonica 5.040
Nelle Leggi di Platone (V, 737e738a) si trova un riferimento
numerico relativo al problema della determinazione del numero di lotti di terreno e di proprietari ideale per la fondazione di una nuova città: Se si vuole un numero adeguato di piccoli proprietari disposti a difendere la parte di
terra assegnata, questi dovranno essere 5.040.
Anche gli appezzamenti di terra e le case distribuite saranno nello stesso numero, di
modo che a ogni lotto corrisponda un cittadino. Quel numero è divisibile per 2, per 3, per 4, per 5, e così via, fino a 10.
Se si considera il problema dal punto di
vista aritmetico, è evidente che ogni uomo
che abbia in animo di fare il legislatore deve conoscere qual è il numero più adatto a ogni
bisogno dello Stato, e quale dev’essere la sua natura. Da parte nostra, noi siamo in grado di
dirlo: sarà quello che ammette il maggior
numero possibile di divisori, meglio se consecutivi.
Ora, se la totalità dei numeri in rapporto a
qualsiasi funzione ammette tutte le divisioni possibili, il 5.040 in rapporto alle opere di
pace e di guerra (affari, contratti, tasse, distribuzione dei beni) ammette 59 divisori propri, oltre a se stesso, e fra essi quelli consecutivi dall’1 al 10.
Questo passo costituisce la prima testimonianza storica dell’operazione chiamata fattoriale, che consiste nel moltiplicare tutti gli interi consecutivi da 1 fino a un certo numero, e si indica con quel numero seguito da un punto esclamativo. Ad esempio, il fattoriale di 4 si indica con 4! e vale 1×2×3×4, cioè 24. E il fattoriale di 5 si indica con 5! e vale 4! × 5, cioè 120.
Naturalmente, il fattoriale di un numero è divisibile non solo per tutti i numeri minori, ma anche per
qualunque loro prodotto: per questo è un buon candidato ad avere «il maggior numero possibile di divisori, meglio se consecutivi». La scelta di Platone è 5.040, cioè il fattoriale di 7, che essendo 4 2 scomponibile come 2 × 3 × 5 × 7 ha un numero di divisori (incluso se stesso) pari a In particolare, tra i fattori di 5.040 ci sono i quattro numeri consecutivi 7, 8, 9 e 10, che bastano da soli a generarlo. Tra l’altro, benché questo sia stato notato non più da Platone, ma da Henri Brocard nel 1876 e da Ramanujan nel 1913, 5.040 ha anche l’interessante proprietà di
essere un fattoriale “quasi quadrato”, nel senso che differisce da un quadrato solo per un’unità: infatti, 5.041 è il quadrato di 71. Anche 24 e 120, che sono i fattoriali di 4 e 5, hanno la stessa proprietà, ma altri non se ne conoscono. Più strano di tutto è però il fatto che 5.040 sia la somma di ben 42 numeri primi consecutivi. Precisamente:
In quanto numero con molti divisori, 5.040 è un “primatista”: cioè, ne ha più di tutti quelli precedenti. Il “primatista” che lo precede è la sua metà 2.520, che ha 48 divisori, tra i quali tutti i numeri
da 1 a 10. Il suo doppio 10.080 è anch’esso un “primatista”, con 72 divisori. Ma non è il “primatista” immediatamente successivo al 5.040, perché in mezzo ci sta 7.560, con 64 divisori. A proposito di 10.080, esso è il prodotto di 7, 24 e 60, e corrisponde dunque al numero dei minuti in una settimana. Il fatto che questo numero sia circa uguale a 10.000, suggerisce la possibilità di introdurre calendari decimali. Il primo tentativo in questa direzione fu effettuato durante la Rivoluzione Francese, e rimase in vigore dal 1793 al 1805. I 12 mesi dell’anno erano suddivisi in tre settimane di 10 giorni, ciascuno di 10 ore, ciascuna di 100 minuti, ciascuno di 100 secondi. In particolare, c’erano appunto 10.000 minuti alla
settimana.
L’ultimo tentativo è il meno rivoluzionario Internet Time, proposto nel 1998 dalla Swatch, che
divide il giorno in 1.000 beats, “battiti”, pari a circa un minuto e mezzo. Gli orologi che segnano questo tempo, realmente prodotti dalla Swatch, usano tre cifre decimali per i beats, e al 1.000 scatta un nuovo giorno. Immagini: veduta aerea di campi coltivati; calendario repubblicano francese degli anni 1793 e 1794.
Un gioco stomachevole 17.152
Nel libro Il codice perduto di Archimede (2007) Reviel Netz e William Noel raccontano la saga di un’antica pergamena, trovata nel 1906 nella biblioteca della Chiesa del Santo Sepolcro di Istanbul. Dopo
essere di nuovo scomparsa, la pergamena riaffiorò nel 1998 a un’asta, dove fu comprata da un anonimo miliardario che la donò al Museo d’Arte di Baltimora. Analizzata ai raggi ultravioletti essa rivelò, sotto un palinsesto di preghiere del secolo XIII mangiato dalla muffa, una trascrizione del secolo X di alcuni lavori di Archimede. Tra questi c’era anche il perduto Stomachion, “Stomacata” (nel senso di “indigestione”), che è stato finalmente possibile ricostruire mediante sofisticate tecniche computerizzate. In precedenza se ne conosceva soltanto un frammento, nel quale appariva un puzzle costituito da quattordici pezzi irregolari disposti in modo da comporre un quadrato: più o meno
come il Tangram, che si vende ancor oggi come rompicapo, ma più complicato. Fino a poco fa non si sapeva in che cosa consistesse il “gioco” dello Stomachion, ma nel dicembre 2003 due coppie di matematici californiani (Persi Diaconis e Susan Holmes a Stanford, e Ronald Graham e Fan Chung a San Diego) hanno risolto il dilemma: si tratta del primo esempio storico di matematica combinatoria, della quale ci si è cominciati a interessare in maniera sistematica soltanto negli ultimi cinquant’anni! Più precisamente, il problema consisteva nel determinare tutti i possibili modi di disporre i pezzi del puzzle in modo da costruire un quadrato. Sorprendentemente, ce ne sono moltissimi: esattamente
17.152, come forse aveva calcolato Archimede stesso.
già
Immagini:
un
elefante
costruito
con
lo
Stomachion; alcune soluzioni dello Stomachion.
Filastrocca egizia 19.607
Il problema 79 del papiro di Rhind, trascritto dallo scriba Ahmes verso il -1650, domanda:
In una proprietà ci sono sette case. Ogni casa ha sette gatti.
Ogni gatto acchiappa sette topi. Ogni topo mangia sette spighe.
Ogni spiga dà sette misure di grano.
Quante cose ci sono in questa storia?
Nonostante abbia più di 3.500 anni, in qualche forma il problema continua a circolare vivo e vegeto ancor oggi: Per una strada che mena a Camogli passava un uomo con sette mogli. E ogni moglie aveva sette sacche. E in ogni sacca aveva sette gatte. E ogni gatta sette gattini.
Fra gatti e gatte, e sacche e mogli,
in quanti andavano, dite, a Camogli?
Si tratta di filastrocche di un genere popolare in varie culture, dalla Chad Gadya pasquale ebraica (1590), a The House That Jack Built
inglese (1755), fino Alla fiera dell’est italiana (1976).
Ma la soluzione richiede una certa sofisticazione matematica, perché si tratta di calcolare una somma di prodotti, di cui il papiro
fornisce il risultato corretto: Il problema, riportato tale e quale nel 1202 da Fibonacci nel suo Liber abaci, è la prima testimonianza storica del processo di iterazione (in questo caso, del prodotto per 7) e della conseguente operazione dell’esponenziale (in questo caso, con base 7). E la soluzione illustra la proprietà fondamentale del calcolo di una progressione geometrica (in questo caso, di ragione 7), che è:
La soluzione del problema egizio è della stessa grandezza di 19.683, che è il più grande cubo la somma
delle cui cifre è pari alla propria radice cubica:
Gli altri cubi che hanno la stessa proprietà sono quelli di 1, 8, 17, 18 e 26. E che ce ne sia solo un numero finito, è ovvio: ad esempio, se un cubo ha sette cifre, è almeno 1.000.000, e la sua radice cubica è almeno 100. Ma sette cifre sommate insieme possono al massimo arrivare a 7 × 9, cioè 63. Circa il doppio dei due numeri precedenti sono 40.320 e 45.360, che hanno proprietà analoghe a 5.040 e 10.080. Il primo è infatti il fattoriale di 8, benché non sia un “primatista” (vedi p. 290). Il
secondo invece lo è, e ha esattamente 100 fattori, essendo uguale a 24 × 34 × 5 × 7. Con circa un altro raddoppio si raggiunge poi 86.400, che è il prodotto di 24 per 3.600, e dunque il numero dei secondi in un giorno. O almeno, lo era quando è stato definito ufficialmente il secondo nel 1956, riferendolo alla durata del 1° gennaio 1900. Poiché però la velocità di rotazione della Terra sta gradualmente rallentando, il numero dei secondi in un giorno aumenta altrettanto gradualmente. Per rimediare al problema, oggi i secondi sono definiti riferendosi a fenomeni microscopici, come la frequenza di risonanza del cesio 133, invece che astronomici, come la durata del giorno terrestre.
Immagini: il papiro di Rhind; illustrazione per la filastrocca The House That Jack Built.
Che dire di questo numero? 103.049
Nelle
Questioni conviviali (VIII,9),
Plutarco riporta osservazione:
una
strana
Crisippo dice che il numero di proposizioni composte che si possono ottenere da dieci
proposizioni semplici supera il milione. Ipparco, invece, sosteneva che ce ne sono soltanto 103.049.
Ancora agli inizi del Novecento, nella Storia della matematica greca (1921), Sir Thomas Heath commentava perplesso: «Non sappiamo cosa dircene, di questo numero». Soltanto nel 1994 David Hough, uno studente di matematica combinatoria, notò che il misterioso numero di Ipparco è in realtà il decimo dei cosiddetti numeri di Schröder, introdotti da Ernst Schröder nel 1870: si tratta, cioè, del numero delle possibili parentesizzazioni di dieci simboli. O,
grazie a un risultato di Arthur Cayley del 1859, del numero degli alberi planari con una radice e dieci foglie. O ancora, grazie a un risultato di Ivor Etherington del 1940, del numero delle partizioni di un endecagono mediante diagonali non intersecantisi. I primi tre numeri di Schröder sono 1, 1 e 3. Il quarto è 11, e determina le parentesizzazioni di quattro simboli, a, b, c e d, che sono:
Le ultime cinque, costituite di sole parentesi binarie, corrispondono agli alberi binari a quattro foglie, o alle triangolazioni di un pentagono. I successivi numeri di Schröder sono 45, 197, 903, 4.279, 20.793 e
103.049, ed erano probabilmente tutti noti a Ipparco, visto che il modo più naturale per ottenerli è di calcolare ciascuno di essi a partire dai precedenti. A proposito della domanda: “Che dire di questo numero?”, eccone uno dello stesso ordine di grandezza del precedente e che lascia altrettanto perplessi, benché per tutt’altri motivi. Si tratta infatti di un numero anagrammatico, nel senso che se lo si moltiplica per qualunque numero tra 1 e 6, i risultati hanno sempre le stesse cifre:
L’arcano viene svelato questa volta dall’osservazione che se invece lo si moltiplica per 7, si ottiene:
e dunque
eccetera. E poiché una sequenza infinita di 9 dopo la virgola equivale a un 1
davanti, i numeri in questione sono semplicemente i periodi degli sviluppi decimali di semplici frazioni:
Come abbiamo visto in precedenza (vedi p. 184), il numero 142.857 codifica la permutazione dei vertici dell’ennagono scelta da Gurdjieff per definire il proprio enneagramma mistico. E il movimento tra le varie frazioni con denominatore 7 corrisponde a una serie di “danze sacre”, che però non
balleremo qui: chi fosse interessato, ne può vedere un esempio alla fine del film Incontri con uomini straordinari di Peter Brook (1979), tratto dall’omonimo e autobiografico libro del maestro danzante.
Immagini: una delle danze sacre di Gurdjieff nel film Incontri con uomini straordinari.
Rispondere per le rime 840.420
La struttura del sonetto, introdotta da Iacopo da Lentini nel Duecento, richiede che i quattordici versi siano divisi in due strofe di quattro e due
di tre. Quanto alle rime nelle varie strofe, possono essere alternate in vari modi, che in genere sono per le prime due, e per le seconde due. Queste possibilità si possono anche rappresentare geometricamente, con i cosiddetti diagrammi di Murasaki:
per gli otto versi delle prime due strofe, e
per i sei versi delle seconde due strofe. I diagrammi prendono il nome da una scrittrice vissuta verso il 1000, autrice del classico giapponese Storia di Genji, il principe splendente. Oltre a un prologo e una conclusione, il libro consiste di 52 capitoli, e ciascuno è indicato non con un numero, ma con uno dei 52 diagrammi che si possono formare congiungendo con linee orizzontali cinque linee verticali, in maniera analoga agli esempi precedenti. In matematica, i numeri dei diagrammi che si possono formare con un numero fisso di linee verticali congiunte da linee orizzontali si chiamano numeri di
Bell. Oltre al 52, altri esempi sono 4.140 e 203, cioè i numeri di Bell dei diagrammi rispettivamente a otto o sei linee verticali, corrispondenti a tutte le possibili alternanze di rime per le strofe del sonetto. Poiché le possibili scelte sono
ci sono altrettanti possibili tipi di sonetti. Immagini: la scrittrice Murasaki Shikibu in un dipinto su seta.
Un terzo genio in azione 635.318.657
La storia del numero 1.729 (vedi
pp. 281-283) ha un seguito, raccontato da Hardy nelle citate Dodici lezioni su argomenti suggeriti dalla vita e dal lavoro di Ramanujan: Naturalmente gli chiesi se poteva dirmi quale fosse la soluzione dell’analogo problema per le quarte potenze. Dopo averci pensato un po’
mi rispose che non gli veniva in mente
nessun esempio, e che dunque la più piccola soluzione doveva essere molto grande.
In realtà, dove non arriva l’intuizione può arrivare la deduzione. Usando i numeri complessi per scomporre l’equazione x4 + y4, verso il 1750 Eulero riuscì infatti a dimostrare che 635.318.657 si può scrivere in due modi diversi come somma di quarte potenze:
Il numero trovato da Eulero è la più piccola soluzione al problema proposto da Hardy. Né l’uno, né l’altro furono in grado di dimostrarlo, ai propri tempi, ma oggi noi possiamo facilmente confermarlo “barando”: cioè, scrivendo un programmino di computer che testa tutti i numeri inferiori, e verifica che nessuno è la somma di due quarte potenze in due modi diversi. Circa tre volte superiore al precedente è il trentunesimo numero di Mersenne
che lo stesso Eulero dimostrò essere primo nel 1772. Questo costituì
all’epoca il record mondiale del più grande numero primo, e resistette per più di un secolo. Cioè, fino al 1876, quando fu superato dal centoventisettesimo numero di Mersenne (vedi p. 341). Ma il record precedente, battuto da Eulero, era durato anche di più. I quattro numeri primi di Mersenne 3, 7, 31 e 127, erano infatti noti fin dall’antichità, e furono registrati dall’Aritmetica di Nicomaco nel secolo I. La prima novità si era avuta nel Quattrocento, quando qualcuno dimostrò che il tredicesimo numero di Mersenne, cioè 8.191, è primo. Non sappiamo chi sia stato a farlo, ma sicuramente lo fece entro il 1461, anno a cui risale la prima testimonianza al proposito. E un secolo e mezzo dopo, nel
1603, Pietro Cataldi scoprì che il diciassettesimo e il diciannovesimo numero di Mersenne, cioè 131.071 e 524.287, sono entrambi primi, stabilendo appunto con quest’ultimo il record che resistette quasi due secoli. Immagini: Uomo pensante
L’avvocato Fermat sbaglia 4.294.967.297
Il 16 novembre 1974 un messaggio radio interstellare è stato lanciato nello spazio dall’osservatorio di Arecibo, a Porto Rico, verso l’ammasso M13 che si trova a circa 25.000 anni luce da noi. Il messaggio, riprodotto alla pagina seguente, consisteva di 1.679 pixel binari disposti su una griglia 23 per 73: poiché si tratta di due numeri primi, la sequenza lineare del messaggio può essere disposta bidimensionalmente in due soli modi, uno solo dei quali significativo. Nel caso che qualche extraterrestre lo riceva e riesca prima o poi a decifrarlo, il messaggio dovrebbe fornirgli qualche informazione fondamentale sulla razza e la cultura umane. In particolare, oltre a una codifica del
sistema decimale, esso contiene due numeri più o meno della stessa grandezza: • 4.292.853.750 per la popolazione umana al momento della trasmissione. • 4.294.441.822 per il numero dei nucleotidi del genoma umano. Entrambi questi numeri sono sbagliati. Il primo, perché la popolazione umana è ormai salita a quasi sette miliardi, e continuerà a cambiare nel tempo. Il secondo, perché il sequenziamento del genoma umano ha mostrato che il numero dei nucleotidi è dell’ordine dei tre miliardi, e non dei quattro.
Tra l’altro, qualcuno ha dubitato della saggezza di dichiarare apertamente un dato sensibile, quale la consistenza della
popolazione umana, a destinatari che potrebbero avere intenzioni bellicose. Sapendo quanti siamo, o quanti eravamo, essi potrebbero infatti ricavarne un vantaggio competitivo per prepararsi adeguatamente all’invasione e alla conquista del pianeta Terra. Anche un altro numero, praticamente della stessa grandezza dei due precedenti, è passato alla storia a causa di uno sbaglio. A compierlo fu il quasi infallibile dilettante Pierre de Fermat, famoso per una serie di congetture che hanno dato filo da torcere ai matematici professionisti per le loro dimostrazioni. La più nota di queste congetture è il cosiddetto ultimo teorema di Fermat, al quale abbiamo
già accennato e sul quale torneremo (vedi pp. 282, 316-317 e 342-343), che fu dimostrato nel 1995 da Andrew Wiles.
In un l’intuito esempio, all’amico
paio di occasioni, però, di Fermat lo tradì. Ad nel 1640 egli scrisse Frénicle:
Sono convinto che il numero 2n + 1, dove n è una potenza di 2, sia sempre primo. Non ne
ho la dimostrazione esatta, ma ho escluso una così gran quantità di divisori grazie a dimostrazioni infallibili, e ho così grandi lumi a confortare il mio pensiero, che avrei difficoltà a ricredermi.
La sua congettura era dunque che i numeri della forma 22n + 1, oggi chiamati numeri di Fermat, fossero tutti primi. Ed era fondata sul fatto che così è per gli esponenti da 0 a 4, corrispondenti rispettivamente ai primi cinque numeri di Fermat 3, 5, 17, 257 e 65.537. Oggi un calcolatore può facilmente verificare, “barando”, che la congettura è invece falsa per il sesto numero di Fermat, perché Ma
una
sistematica
ricerca
manuale bruta dei possibili divisori era, e rimane, impossibile. Nel 1736 Eulero la evitò mostrando, con una ingegnosa e drastica riduzione, che era sufficiente limitarsi a considerare divisori del tipo 64k + 1: provando in sequenza tutti i valori di k, il divisore 641 si trova allora al decimo tentativo. La mancanza del calcolatore costrinse così Eulero a spostare il problema dalla bassa ragioneria all’alta matematica, e gli permise di risolvere uno dei curiosi problemi di Fermat mediante uno dei suoi sorprendenti teoremi. Sembra che, ignaro della soluzione di Eulero, anche l’enfant prodige Zerah Colburn sia riuscito a trovare a mente il divisore 641, quand’era ragazzo. Dopo questa e altre simili imprese il padre cercò di
fargli mettere a frutto le sue capacità matematiche, ma egli stesso racconta nelle sue Memorie (1833) che esse svanirono con l’adolescenza. Per la cronaca, non si conoscono altri numeri di Fermat che siano primi. Col calcolatore si sono scomposti molti altri numeri di Fermat successivi (vedi pp. 325, 367 e 381), ma niente di teoricamente rilevante è derivato da questi risultati. Rilevantissima è invece la connessione che il diciannovenne Carl Gauss trovò tra i numeri di Fermat e i poligoni costruibili con riga e compasso. Ecco il racconto dalla sua viva voce, in una lettera del 1829 a Christian Ludwig
Gerling: Il giorno era il 29 marzo 1796, e il caso non
ha assolutamente niente a che vedere con la mia scoperta. Prima di allora, nell’inverno del
1796, durante il mio primo semestre a Gottinga, avevo già scoperto tutto riguardo alla separazione in due gruppi delle radici dell’equazione
Durante una vacanza a Braunschweig, la mattina di quel giorno, prima di alzarmi da letto, riuscii a vedere la relazione reciproca di
tutte le radici nel modo più chiaro, così che
potei applicarla all’eptadecagono e verificarla numericamente.
La scoperta di Gauss fu che si possono costruire con riga e compasso tutti e soli i poligoni regolari che hanno un numero di
lati pari a una potenza di 2, eventualmente moltiplicata per un numero finito di primi distinti di Fermat. In particolare, i numeri primi di lati dei poligoni regolari costruibili sono esattamente i primi di Fermat. I prodotti distinti dei cinque primi di Fermat noti sono trentuno, il maggiore dei quali è 4.294.967.295, gemello del sesto. Questi prodotti corrispondono ai cinque poligoni costruibili fondamentali, cioè quelli con un numero di lati pari a uno dei primi di Fermat, e ai ventisei ottenibili da essi come loro “minimi comuni multipli”. I rimanenti poligoni costruibili noti si ottengono da questi trentuno, per successivi raddoppi del numero dei lati. Tra i poligoni costruibili derivati
da queste condizioni, ci sono quelli a 255, 256 e 257 lati: il primo numero perché uguale a 3 × 5 × 17, il secondo perché uguale a 28, e il terzo perché primo di Fermat. Analogamente ci sono i poligoni a 65.535, 65.536 e 65.537 lati: il primo numero perché uguale a 3 × 5 × 17 × 257, il secondo perché uguale a 216, e il terzo perché primo di Fermat. Naturalmente, un conto è dimostrare, come fece Gauss, che certi poligoni sono costruibili in teoria. E un altro è mostrare come costruirli in pratica. Johannes Erchinger lo fece nel 1825 per il poligono a 17 lati, Friedrich Julius Richelot nel 1832 per quello a 257, e Johann Gustav Hermes nel 1894 per quello a 65.537. Quest’ultima costruzione, in particolare, richiese
dieci anni di lavoro e un baule pieno di istruzioni. Di nuovo, un conto è dimostrare, come fece Gauss, che se un poligono soddisfa la condizione, allora è costruibile. E un altro è semplicemente annunciare, come fece sempre Gauss, il contrario. La dimostrazione mancante fu prodotta nel 1837 da Wantzel, e da essa deriva in particolare che l’ennagono regolare non è costruibile. Dunque, non essendo neppure costruibile l’angolo di 40° che corrisponde a un suo lato, l’angolo di 120° non è trisecabile. In questo modo Wantzel dimostrò l’insolubilità di due dei famosi problemi dei Greci, ai quali abbiamo già più volte accennato. Quanto a Gauss, considerò per tutta la vita la costruzione
dell’eptadecagono come il suo miglior risultato, e chiese che il poligono gli venisse inciso sulla tomba. Sembra però che lo scalpellino del cimitero di Gottinga si rifiutò di farlo, sostenendo che aveva troppi lati, e non sarebbe risultato diverso da un cerchio. Le volontà di Gauss, a sua parziale e postuma consolazione, sono comunque state dirottate sul monumento che gli è stato in seguito dedicato a Brunswick, sua città natale.
Immagini: Avvocato in toga sulle scale del
Palazzo di Giustizia di Honoré Daumier; il messaggio di Arecibo; statua di Pierre de
Fermat scolpita da Théophile Barrau; Carl Friedrich Gauss ritratto sulla banconota da 10 marchi.
Potenze di 10
Dalle galassie ai neuroni 1011
L’espressione “numeri astronomici” suggerisce che l’astronomia sia un naturale deposito di grandi numeri.
E infatti, anche limitandosi al tempo e allo spazio, l’età dell’universo viene stimata in circa 14 miliardi di anni, e il raggio dell’universo in circa 46 miliardi di anni luce. Non è dunque un caso che un grande numero particolarmente interessante sia stato notato da Arthur Clarke nell’apertura di 2001: Odissea nello spazio (1968), il romanzo scritto in parallelo alla sceneggiatura dell’omonimo film di Stanley Kubrick: Alle spalle di ogni uomo in vita ci sono trenta spiriti, perché questo è il rapporto fra morti
e viventi. Dall’alba del tempo, circa 100
miliardi di esseri umani hanno calpestato il pianeta Terra. Ora, questo è un numero interessante,
perché
per
una
curiosa
coincidenza ci sono circa 100 miliardi di
stelle nel nostro universo locale, la Via Lattea.
Così, per ogni uomo che abbia mai vissuto,
una stella splende nel nostro Universo. Ma ognuna di quelle stelle è un sole, spesso più
brillante e glorioso della piccola stella a noi
vicina che chiamiamo il Sole. Molti, e forse la maggior parte, di questi soli alieni hanno pianeti che orbitano loro attorno. Così quasi
certamente c’è abbastanza terra nel cielo
affinché ogni membro della specie umana,
giù giù fino al primo uomo-scimmia, abbia un suo paradiso (o inferno) privato di misura planetaria.
Di curiose coincidenze per il numero di cui parla Clarke, e cioè 1011, ce ne sono molte altre. Sembra infatti che 100 miliardi indichi non soltanto il numero di stelle di una galassia tipo, ma anche il numero di galassie dell’universo osservabile. Dunque, ciascun uomo mai vissuto può (o ha potuto) sognare di essere re non solo di un intero pianeta, ma
addirittura di un’intera galassia: non sarà lo spazio infinito di cui voleva essere re Amleto, ma dovrebbe essere sufficiente. Ora, per combinazione, Amleto contrapponeva lo spazio infinito al guscio di noce della sua scatola cranica. Ebbene, il cervello contiene circa 100 miliardi di neuroni: tanti quante le stelle della galassia, o le galassie dell’universo. Una sorprendente versione moderna dell’identità rinascimentale tra microcosmo e macrocosmo, almeno a livello di scala.
Se poi si cerca di quantificare il rapporto fra l’attività conscia e inconscia del nostro sistema nervoso, ad esempio mediante esperimenti che misurino il livello di soglia della percezione di immagini lampeggianti su uno schermo, si scopre che la discriminazione si ferma a una frequenza compresa tra i 15 e i 50 bit al secondo, che è più o meno quella di un singolo neurone. In altre parole, anche il rapporto fra attività conscia e inconscia è di circa uno su 100 miliardi: se la coscienza non fosse distribuita, un solo neurone potrebbe dunque in teoria svolgere interamente il suo lavoro! Per farsi un’idea di quanto grandi
siano 100 miliardi, basta ricordare che la distanza fra il Sole e la Terra è di 150 milioni di chilometri: cioè, appunto, di 150 miliardi di metri. L’intera umanità, dai suoi primordi a oggi, tenendosi per mano coprirebbe dunque esattamente quella distanza, in una grandiosa manifestazione di attrazione umana. E anche l’attrazione gravitazionale ha a che fare con i fatidici 100 miliardi: la costante G che compare nell’equazione di Newton, misurata da Henry Cavendish nel 1798, ha infatti un valore pari a 6,7 × 10–11 (newton per metri al quadrato diviso chili al quadrato).
Benché enorme, 100 miliardi è dunque un numero ancora a misura d’uomo, dell’ordine di grandezza del suo inconscio biologico, del suo sistema nervoso e dell’umanità stessa. Ma è anche un numero letteralmente astronomico, essendo l’ordine di grandezza della distanza tra la Terra e il Sole, del numero di stelle della Via Lattea, e del numero di galassie nell’universo. Come fece notare una volta Feynman, 100 miliardi è anche un numero a misura d’economia: ad esempio, calcola i dollari che sono
stati necessari per mandare l’uomo sulla Luna. Singole banconote da 100 e 500 miliardi di dinari sono state stampate nel 1993 in Jugoslavia durante la guerra civile, ma in tal caso a essere astronomica non era la somma indicata sulle banconote, bensì l’inflazione.
Matematicamente, numeri dell’ordine dei 100 miliardi si raggiungono considerando la congettura di Eulero, da lui proposta nel 1769 come possibile inquadramento del fenomeno relativo all’ultimo teorema di Fermat. Come abbiamo già ricordato (vedi p. 282), quest’ultimo affermava che, mentre due quadrati possono sommare a un quadrato, due cubi non possono sommare a un cubo, due quarte potenze non possono sommare a una quarta potenza, e così via. L’idea di Eulero fu che, così come due quadrati possono sommare a un quadrato, tre cubi possono sommare a un cubo, quattro quarte potenze possono sommare a una quarta potenza, e così via. E questo doveva
essere il meglio possibile: cioè, due cubi non possono sommare a un cubo, tre quarte potenze non possono sommare a una quarta potenza, e così via. Tre cubi che sommassero a un cubo erano facilmente reperibili, in analogia ai quadrati, e al risultato allude già Platone nella Repubblica (VIII, 546b) in un brano citato in precedenza (vedi pp. 165 e 280):
E lo stesso Eulero dimostrò nel 1770 che, effettivamente, due cubi non possono sommare a un cubo, confermando così la congettura di Eulero per l’esponente 3. Nel 1911 Robert Norrie trovò quattro quarte potenze che sommano a una quarta potenza:
E lo stesso Fermat aveva già dimostrato che due quarte potenze non possono sommare a una quarta potenza. Questo lasciava ancora aperta la possibilità che ci fossero tre quarte potenze che sommano a una quarta potenza: come scopriremo presto (vedi p. 336), in effetti così è. Nel 1966 Leon Lander e Thomas Parkin refutarono invece la congettura di Eulero per l’esponente 5, trovando con una ricerca al computer il più piccolo controesempio possibile per le quinte potenze:
In realtà, i due avevano scritto un programma per trovare cinquine di quinte potenze che sommassero a una quinta potenza, ma tra le varie soluzioni il computer ne propose una con un termine uguale a zero: cioè, appunto, con sole quattro potenze. Immagini: il “Bambino delle stelle” di 2001:
Odissea nello spazio; la galassia di Andromeda e
la rappresentazione grafica di un neurone; una catena umana; la banconota da 500 miliardi di dinari.
Centomila miliardi di poemi 1014
La più riuscita opera letteraria a struttura combinatoria sembra essere Centomila miliardi di poemi di Raymond Queneau (1961), il cui esergo è una frase di Alan Turing, l’inventore del computer: «Solo una
macchina può apprezzare un sonetto scritto da un’altra macchina». Ecco la descrizione dell’opera, nelle parole stesse di Queneau: Prendendo ispirazione più dal libro per bambini intitolato Teste di ricambio che dai
giochi surrealisti tipo Cadavere squisito,* ho
concepito – e realizzato – questa operetta che permette
a
chiunque
di
comporre
a
piacimento centomila miliardi di sonetti, naturalmente tutti quanti regolari. Si tratta, in sostanza, di una specie di macchina per fabbricare poesie, ma in numero limitato. Per
la verità questo numero, sebbene limitato, fornisce lettura per quasi duecento milioni di anni (leggendo ventiquattr’ore al giorno).
Per comporre questi dieci sonetti sono
stato costretto a obbedire alle seguenti regole:
1. Le rime non dovevano essere troppo
banali (per evitare piattezza e monotonia) e
nemmeno troppo rare o uniche. […]
2. Ogni sonetto doveva presentare, se non
una perfetta trasparenza, almeno un tema ben definito e una continuità interna. […]
3. Infine la struttura grammaticale doveva essere la stessa e restare invariata per ogni sostituzione di versi. […]
Stando così le cose e disponendo ogni verso
su una strisciolina di carta, è facile vedere che il lettore può comporre 1014 sonetti diversi, cioè centomila miliardi.
Saremo più espliciti, per la gente scettica.
A ogni primo verso – 10 in totale – si possono
far corrispondere 10 secondi versi differenti: si hanno dunque 100 diverse combinazioni
dei primi due versi. Aggiungendovi il terzo, se ne avranno 1.000. E per i dieci sonetti
completi, di quattordici versi, si ha dunque il risultato precedentemente enunciato.
Calcolando 45 secondi per leggere un
sonetto, e 15 secondi per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al
giorno e duecento giorni all’anno, se ne ha per
più di un milione di secoli di lettura.
Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l’anno, si arriva a 190.258.751 anni più
qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli).
Un numero di combinazioni all’incirca pari a quello di Queneau si deduce da L’incendio della casa abominevole di Italo Calvino (1973). Nel racconto, 4 personaggi possono compiere 12 tipi di azioni criminose transitive e non riflessive: accoltellare, diffamare, drogare, indurre al suicidio, legare e imbavagliare, minacciare, prostituire, ricattare, sedurre, spiare, strozzare, violentare. Per ogni coppia di personaggi si possono dunque configurare 4!/2 =
12 relazioni diverse per ciascuno dei 12 tipi di azioni, il che ammonta a
possibilità, che aumentano sostanzialmente nel corso del racconto, con l’arrivo di altri due personaggi. In matematica, dell’ordine di centomila miliardi è il più grande numero conosciuto che sia il prodotto di due primi e la somma di tutti i primi intermedi, compresi i due fattori: Per la cronaca, di primi fra i due fattori di questo numero ce ne sono ben 7.047.481. Gli altri numeri con la stessa proprietà sono 10, 39, 155 e 371, e non si sa se ce ne siano
altri. In informatica, centomila miliardi di operazioni sono state necessarie per risolvere il problema della dama, che è il più complicato gioco finora analizzato completamente. Ci sono voluti diciotto anni per effettuare tutte le verifiche necessarie, su un numero di computer variabile tra cinquanta e duecento a seconda dei momenti, e alla fine si è dimostrato nel 2007 che un gioco perfetto, giocato al meglio da entrambi i giocatori, finisce in parità. Circa centomila miliardi sono le cellule del nostro corpo, benché solo il dieci per cento di esse sia umano. Il resto è costituito da batteri, che sono quasi tutti annidati sulla pelle o nell’apparato digerente, e in gran
parte partecipano e contribuiscono alle funzioni vitali. Un poco superiore è il numero di formiche viventi sulla Terra, valutato tra 1015 e 1016. Poiché il rapporto fra la massa di un uomo e quella di una formica è più o meno uguale al rapporto fra il numero delle formiche e quello degli uomini, la massa di tutte le formiche equivale all’incirca a quella di tutti gli uomini.
Una cifra in dollari pari a circa il numero delle formiche fu addebitata nel 2009 sulla carta Visa di un signore del New Hampshire di nome Joshua Muszynski, per l’acquisto di un pacchetto di sigarette. Ovviamente, c’era un errore nel programma del computer, che estese l’addebito a qualche altro migliaio di persone. La cifra esatta, pari a circa 300 volte il prodotto interno lordo mondiale del 2008, era di dollari
Di poco superiore è il fattore di conversione tra massa ed energia fornito dalla famosa formula di Einstein E = mc2. La velocità della luce c è infatti di circa 300.000 chilometri al secondo, che tradotta in metri al secondo ed elevata al
quadrato equivale a circa
Immagini: il libro di Queneau; un formicaio.
*
Teste di ricambio è un’espressione ispirata alla ghigliottina, che diede il nome ad album per
bambini in cui le figurine animali o umane avevano parti intercambiabili: in particolare,
le teste. In seguito ne furono anche fatte
versioni tridimensionali: ad esempio, con le bambole Barbie.
Cadavere squisito è un gioco inventato dai
surrealisti verso il 1925, e consiste nel far comporre un’opera letteraria o artistica ad autori diversi in sequenza, ciascuno ignaro di ciò che gli
altri hanno fatto prima di lui. Prende il nome dalla prima frase che fu scritta in questo modo: «Il cadavere – squisito – berrà – il vino – nuovo».
Il doppiar degli scacchi 1019
Il gioco degli scacchi sembra essere nato in India, nel primo mezzo
millennio della nostra era. Sicuramente era già diffuso in Persia verso il 600, e il suo nome deriva appunto dal persiano shah, “re”. Una leggenda, riferita in vari modi da fonti diverse, racconta: Al gran vizir Sissa Ben Dahir, inventore del gioco degli scacchi, il re Shirham offrì come ricompensa un premio a sua scelta.
Sissa chiese al re: «Maestà, datemi un
chicco di grano sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, quattro
sulla terza, e così via, fino a coprire tutte le 64 caselle».
«È tutto ciò che vuoi?» domandò il re
sorpreso.
E Sissa rispose: «Maestà, ho chiesto più
grano di quanto ce ne sia nel regno. Anzi,
nell’intero mondo! Ne ho chiesto tanto, da poter ricoprire l’intera superficie della Terra con uno spessore di un ventesimo di cubito».
Nonostante le apparenze dimesse
della richiesta, il processo è infatti una crescita esponenziale che produce un numero stratosferico, citato genericamente da Dante nel Paradiso (XXVIII, 92-93) in riferimento alle luci del cielo: eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’immilla.
Tenendo conto del fatto che la scacchiera ha 64 caselle, e usando la già citata formula per il calcolo della somma di una progressione geometrica (vedi p. 296), in questo caso di ragione 2, si ottiene facilmente il risultato della richiesta dell’inventore, come calcolò già verso il 1000 l’arabo al-Biruni:
Allo stesso numero si arriva tramite il rompicapo della torre di Hanoi, inventato nel 1883 da Édouard Lucas. Lo si chiama anche torre di Brahma, in seguito alla leggenda diffusa dalla prima ditta che lo commercializzò: Nel gran tempio di Benares, sotto la cupola eretta sul centro del mondo, a un supporto di ottone sono fissati tre paletti di diamante, alti
un cubito e spessi il corpo di un’ape. Su uno
di questi aghi, il giorno della creazione Brahma ha piazzato 64 dischi d’oro, il più
grande dei quali sta sul supporto d’ottone, e gli altri diventano via via più piccoli.
Giorno e notte, incessantemente, i bramini
trasferiscono i dischi da un paletto all’altro,
secondo le immutabili regole stabilite da Brahma, che richiedono di rimuovere un disco per volta da uno dei paletti, e disporlo su uno degli altri due in modo che non ci siano dischi più piccoli sotto di esso.
Quando tutti i 64 dischi saranno stati
trasferiti dal paletto sul quale Brahma li ha posti al momento della creazione su uno degli
altri due paletti, i bramini, la torre e il tempio si inceneriranno, e in un rombo di tuono il mondo svanirà.
La soluzione del rompicapo è ricorsiva. E consiste nel notare che, se si vogliono muovere tutti i dischi dal primo paletto al secondo, basta muoverli tutti meno l’ultimo dal primo paletto al terzo, poi muovere il disco rimasto dal primo paletto al
secondo, e infine muovere tutti i dischi rimanenti dal terzo paletto al secondo. Il numero di mosse necessario per muovere tutti i dischi è dunque pari a 1 più due volte il numero di mosse necessario per muovere tutti i dischi meno uno. E un passo dopo l’altro si arriva, come sopra, a 264 – 1. Facendo una mossa al secondo, per 24 ore al giorno e 365 giorni l’anno, ci si impiegherebbe circa 585 miliardi di anni, pari a circa 40 volte il tempo intercorso dal Big Bang a oggi. Un altro modo per rendersi conto dell’enormità di questo numero è notare che ripiegando su se stesso per 63 volte un foglio di carta, spesso circa un decimo di millimetro, si otterrebbe una pila alta circa 12.300 volte la distanza
dalla Terra al Sole, che è di 150 milioni di chilometri! Sorprendentemente, il numero dei chicchi di grano sulla scacchiera, o delle mosse della torre di Brahma, è “gemello” del settimo numero di Fermat (vedi p. 307). Che comunque, come dimostrò nel 1880 l’ottantaduenne Fortuné Landry, non è primo, come già il sesto:
Ancora più sorprendentemente, il numero dei chicchi di grano è il prodotto dei primi sei numeri di Fermat:
Ma la sorpresa scompare, una volta che si noti che 264 − 1 è la differenza di due quadrati, e dunque il prodotto di 232 + 1 per 232 − 1. Anche quest’ultimo è la differenza di due quadrati, e dunque il prodotto di 216 + 1 per 216 − 1, eccetera. Al quinto passo si rimane con 22 + 1 per 22 − 1, e si nota che quest’ultimo è uguale a 21 + 1. Esattamente dello stesso ordine di grandezza del numero dei chicchi di grano è il numero di permutazioni possibili del famoso cubo di Rubik, inventato nel 1974 dall’ungherese Ernö Rubik e venduto in 300 milioni di esemplari. Il cubo è così divenuto il giocattolo più venduto della storia, e il suo inventore l’uomo più ricco del proprio paese.
In partenza ciascuna faccia del cubo è colorata in un colore diverso, ed è suddivisa in nove quadratini. Un meccanismo permette di ruotare indipendentemente ciascuna faccia attorno al suo quadratino centrale, mescolando così i colori dei quadratini, e il gioco consiste nel riportare il cubo alla disposizione dei colori originaria.
Ci sono 8! modi di disporre gli otto angoli del cubo. Sette angoli possono essere orientati indipendentemente, in 37 modi
possibili, e l’ottavo segue automaticamente. E ci sono 12!/2 modi di disporre i dodici lati del cubo, perché scambiando due a due gli angoli un numero pari di volte si scambiano due a due i lati un numero pari di volte. Undici lati possono essere orientati indipendentemente, in 211 modi possibili, e il dodicesimo segue automaticamente. Il numero delle possibili permutazioni del cubo è dunque:
Per definizione, il numero dei chicchi di grano è il sessantaquattresimo numero di Mersenne e, come abbiamo visto alla pagina precedente, non è
primo. Poco maggiore è il sessantasettesimo numero di Mersenne, che si ottiene da una torre di Hanoi con 67 dischi:
Nel 1876 Lucas, l’inventore del rompicapo della torre di Hanoi, dimostrò che anche questo numero non è primo, trovando così il primo errore nella lista di padre Mersenne del 1644, relativa ai numeri che portano il suo nome (vedi pp. 286287). Ma la dimostrazione di Lucas era indiretta, e non esibiva una fattorizzazione del numero: anzi, la fattorizzazione, visto che i due fattori mostrati sopra sono primi, e dunque altre non ce ne sono. Nel 1903 Frank Cole divenne
famoso per aver tenuto a New York quella che fu, e rimane, la più singolare conferenza matematica della storia: andò alla lavagna, su un lato calcolò l’esponenziale, sull’altro fece il prodotto, e dopo aver ottenuto in un’ora di calcoli lo stesso risultato tornò al posto, senza mai dire una parola. Ottenne una standing ovation, ma in seguito raccontò che la dimostrazione gli era costata «tre anni di weekend»: ovviamente, non per fare le verifiche, ma per trovare i due fattori appropriati. Cosa che oggi, “barando”, si fa in un attimo su un qualunque calcolatore.
A proposito di giochi, è di un ordine di grandezza comparabile a quello delle permutazioni del cubo di Rubik anche il numero dei possibili Sudoku, che consistono in griglie 9 per 9, suddivise in nove sottogriglie 3 per 3, nelle cui caselle bisogna inserire le cifre da 1 a 9 in modo tale che tutte compaiano in ciascuna riga, in ciascuna colonna e in ciascuna sottogriglia, una volta e
una volta sola. Il gioco consiste nel completare l’intera griglia, a partire da un certo numero di cifre già inserite in qualcuna delle caselle, scelte spesso in modo da rendere la soluzione unica. Le prime griglie del genere, senza la suddivisione in sottogriglie, erano note nel Settecento con il nome di quadrati latini: si riempivano infatti con lettere dell’alfabeto, che possono essere sostituite senza problemi alle cifre anche nel Sudoku. In altre parole, il gioco è di natura logica, ma non matematica. Precursori del Sudoku furono proposti sin dalla fine dell’Ottocento da giornali francesi. La versione moderna, inventata nel 1979 da Howard Garns, fu popolarizzata nel 1984 dalla casa
editrice Nikoli, che la battezzò con l’acronimo giapponese oggi adottato, che significa “cifre isolate”, e nel 2005 divenne per qualche tempo una moda sui giornali. I Sudoku si possono ordinare lessicograficamente: ad esempio, leggendoli come un testo, riga dopo riga. E il primo e l’ultimo in quest’ordine sono rispettivamente:
Quanto al numero dei possibili Sudoku, non è immediato da calcolare, ma il risultato è:
Immagini: l’introduzione degli scacchi alla corte
del re persiano Anushirvan in una miniatura indiana del secolo XV; la Torre di Hanoi; il cubo di Rubik; il calcolo effettuato da Frank Cole.
Molecole e moli 1023
Nel 1646 Iohannes Chrysostomus Magnenus fece questa interessante osservazione nel suo libro Democrito redivivo, o degli atomi:
Ho notato più di una volta a naso che l’odore di un granello di incenso che brucia si percepisce in luoghi anche 700.000 volte più grandi di esso.
A tale stima sono arrivato misurando un luogo del genere, le cui proporzioni rispetto
al granello erano di 720 volte in altezza, 900 in larghezza e 1.200 in lunghezza. E, dunque,
di 648.000 volte in superficie, e 776.600.000 in volume.
In quell’occasione, non c’era nessuna parte
dell’atmosfera che non ricevesse l’odore del fumo prodotto dai granelli. E lo stesso succedeva
se,
prima
di
bruciarlo,
si
spezzettava il granello in almeno mille parti
sensibili, disperdendone dunque ciascuna in 776.600.000.000 particelle odorabili.
Se ciascuna di queste particelle aveva
almeno un milione di atomi, in un granello di
incenso delle dimensioni di un pisello ce n’erano
dunque
almeno
777.600.000.000.000.000. E se ci sono tanti
atomi in una cosa così piccola, si può
immaginare quanti ce ne possano essere in tutto l’universo.
Oggi noi diremmo che Magnenus aveva valutato la “quantità di sostanza di un grano di incenso” in circa 1018 atomi, approssimando indirettamente per la prima volta una delle quantità più note della scienza: il cosiddetto numero di Avogadro. O meglio, la correlata costante di Loschmidt. Il percorso per arrivare alla definizione di questi numeri richiese una serie di passi, il primo dei quali fu compiuto nel 1805 dal chimico inglese John Dalton. Secondo la sua teoria atomica, gli elementi sono formati di atomi di vari tipi, che nelle reazioni chimiche si combinano o si separano fra loro in
semplici proporzioni numeriche. Ad esempio, Dalton propose che il vapore acqueo si formasse combinando un atomo di idrogeno con un atomo di ossigeno, producendo un composto che oggi indicheremmo con la formula HO. Il secondo passo fu compiuto nel 1808 dal chimico francese Joseph Louis Gay-Lussac. Poiché era difficile immaginare di poter contare i singoli atomi, egli decise di lavorare invece con i volumi, e la sua proposta fu che nelle reazioni chimiche sono appunto i volumi a combinarsi o separarsi fra loro in semplici proporzioni numeriche. Ad esempio, Gay-Lussac notò che due litri (o decimetri cubi) di idrogeno si combinano con un litro di ossigeno, producendo due litri di vapore acqueo.
Il terzo passo fu compiuto dal chimico italiano Amedeo Avogadro, che nel 1811 gettò un ponte fra i due approcci di Dalton e GayLussac, supponendo che «volumi uguali di gas, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di atomi». Da ciò Avogadro dedusse che, poiché ci vuole un volume di idrogeno doppio di quello dell’ossigeno per formare l’acqua, quest’ultima è costituita di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, secondo la nota formula H2O. Ma non basta, perché due volumi di idrogeno e uno di ossigeno producono due volumi di acqua, e non uno solo! Avogadro dedusse dunque pure che sia l’idrogeno sia l’ossigeno gassosi sono costituiti non di atomi, ma di molecole:
precisamente, si tratta di gas biatomici, che oggi indichiamo con le formule H2 e O 2. A differenza dell’elio dei palloncini, o del neon delle lampade, che sono invece gas monoatomici, e si indicano con le formule He e Ne.
Di tutti questi discorsi, però, solo quello sui volumi di Gay-Lussac era solido, benché parlasse di gas. Quelli sugli atomi di Dalton e sulle molecole di Avogadro, invece, erano speculazioni che all’epoca
non si potevano verificare. E, infatti, non furono accettati fino al 1860, quando Stanislao Cannizzaro riuscì a convincere i chimici convenuti a Karlsruhe per il loro primo Congresso Internazionale ad accettare la teoria di Avogadro. La quale, per tener conto dell’esistenza di gas atomici o molecolari, andò riformulata dicendo che, a parità di temperatura e pressione, due volumi uguali di gas contengono lo stesso numero di particelle, che possono essere atomi, molecole o loro combinazioni, come nel caso dell’aria. Il numero di particelle non dipende dal gas, appunto, ma ovviamente dipende dal volume. Valutando il diametro medio delle molecole di gas, e la distanza media che esse percorrono fra un urto e
l’altro, nel 1865 Johann Josef Loschmidt calcolò il numero di particelle di gas contenute in un centimetro cubo, oggi chiamato costante di Loschmidt, che è pari a circa
Come si vede, si tratta di un numero dello stesso ordine di grandezza di quello approssimato da Magnenus per le particelle contenute in un grano di incenso, il cui volume è dello stesso ordine di grandezza di un centimetro cubo. E si tratta anche di un numero analogo a quello già trovato per i chicchi di grano sulla scacchiera. I chimici, però, preferiscono lavorare direttamente con le
quantità di sostanza, invece che indirettamente con i volumi da esse occupati. In prima approssimazione, ci si potrebbe riferire a un peso in grammi pari al numero di protoni e neutroni presenti nei nuclei di una sua particella. Ad esempio, a 2 grammi di idrogeno gassoso H2, la cui molecola contiene 2 protoni (uno per ciascun atomo di idrogeno). Oppure, a 32 grammi di ossigeno gassoso O 2, la cui molecola contiene 16 protoni e 16 neutroni (8 protoni e 8 neutroni per ciascun atomo di ossigeno). Ma così facendo, non si otterrebbe nei due casi lo stesso numero di particelle. Anzitutto, perché protoni e neutroni hanno pesi simili, ma non esattamente uguali. Inoltre, perché una parte
delle loro masse si perde, trasformandosi nell’energia di legame necessaria per tenerli insieme nei nuclei. E infine, perché gli elementi chimici appaiono in Natura in miscele di isotopi, che hanno tutti lo stesso numero di protoni, ma un numero diverso di neutroni. Dunque, i numeri di molecole in 2 grammi di idrogeno gassoso naturale, in 32 grammi di ossigeno gassoso naturale e in 32 grammi di ossigeno gassoso puro sono tutti e tre diversi fra loro, benché con differenze contenute nell’ordine dell’uno per cento. Nel corso del Novecento, ciascuno di questi tre numeri è stato via via assunto a definizione del numero di Avogadro: un numero così chiamato nel 1909 da Jean Perrin, che ottenne nel 1926 il premio Nobel
per la fisica per aver sviluppato vari metodi per calcolarlo precisamente. La definizione su cui ci si è assestati oggi è invece il numero di atomi contenuti in 12 grammi di carbonio 12, che è pari a circa Quanto alla quantità di sostanza di riferimento, la si chiama mole e la si definisce come un numero di Avogadro di particelle della sostanza considerata. Per definizione la mole ha dunque un numero fissato di particelle, ma il suo volume e il suo peso dipendono dalla sostanza. Il volume di una mole è però uguale per tutti i gas, per la legge di Avogadro, e pari a circa 22,4 litri a zero gradi di temperatura e a un’atmosfera di
pressione. E il numero di centimetri cubi contenuti in 22,4 litri è ovviamente il rapporto tra il numero di Avogadro e la costante di Loschmidt:
Un’idea della grandezza del numero di Avogadro è data dal fatto che “mezza mole di stelle” esaurisce l’universo. Un calcolo
approssimato, che valuta a cento miliardi le galassie, ognuna con cento miliardi di stelle, porta infatti subito a una stima di 1022 stelle presenti nell’universo. E calcoli più precisi le valutano a circa 3 × 1023, cioè appunto a circa mezza mole. Una “mole di sabbia” coprirebbe invece l’Italia con uno strato di 2 metri di altezza, perché il volume di un granello di sabbia è un decimo di millimetro cubo, e la superficie dell’Italia circa 300.000 chilometri quadrati. Una “mole di palle da tennis” coprirebbe la Terra con uno strato di 50 chilometri di altezza, e messa in fila sarebbe pari al diametro del Sistema Solare. E una “mole di litri d’acqua” riempirebbe invece l’intera Terra, che ha un volume di circa 1012 chilometri cubi, e dunque di circa 1024 decimetri
cubi. In un’altra direzione, supponiamo che la durata di una generazione umana, cioè il tempo che in media separa la nascita di un individuo dalla procreazione di un figlio, sia di circa 25 anni. Allora dall’anno 0 a oggi sono passate un’ottantina di generazioni, e dunque ogni individuo vivente ha avuto una “mole di antenati diretti” (genitori, nonni, bisnonni, eccetera) nella nostra era: cioè, appunto, circa 279.
Naturalmente, quello è il numero di caselle che devono essere riempite con nomi in un albero genealogico che risalga da oggi all’anno 0. Ma non è il numero di individui che compaiono nell’albero, perché in tutta la storia dell’umanità ne sono esistiti molti meno. E meno che mai è il numero di individui viventi nel fittizio “anno 0”: al contrario, proprio perché la popolazione di allora era molto meno numerosa, questo dimostra l’alto grado di consanguineità degli antenati di un singolo individuo, nel passato, e dell’intera popolazione mondiale, nel presente. Matematicamente, è circa metà della costante di Avogadro il più
grande primo troncabile a sinistra, che rimane primo troncando un qualunque numero di sue cifre da sinistra, e racchiude dunque ben 24 primi: Si sottintende che non ci debbano essere degli 0. Altrimenti i numeri primi troncabili a sinistra diventano infiniti, ma per un motivo banale. Esistono infatti infiniti primi che iniziano con un 1, continuano con degli 0 e terminano con un 3: cioè, della forma 10n + 3. Il più grande primo troncabile a destra è invece 73.939.133, e ne racchiude 8. Mentre il più grande primo troncabile sia a sinistra che a destra è 739.397, e ne racchiude 6. In entrambi questi casi non ci possono essere degli 0, perché un
numero che finisce con 0 non è primo. Numeri dell’ordine di grandezza delle costanti di Loschmidt e di Avogadro si raggiungono considerando i repunit primi (vedi p. 194), il primo dei quali è 11. Nel 1916 Oscar Hoppe dimostrò che il secondo repunit primo è
E nel 1926 Derrick Lehmer e Maurice Kraitchik dimostrarono che il terzo repunit primo è
Dello stesso ordine di grandezza è il più piccolo controesempio possibile alla congettura di Eulero per l’esponente 4 (vedi pp. 316-317), trovato nel 1988 da Roger Frye: In precedenza, nel 1986 Noam Elkies aveva già ottenuto un altro controesempio, usando la teoria delle equazioni ellittiche per limitare drasticamente il possibile campo di ricerca, e il computer per effettuarla. Ovviamente questo controesempio era maggiore di quello appena citato: Ma fu proprio dopo aver visto questo controesempio, che Frye poté effettuare una ricerca sistematica al computer su tutti i
valori minori, e dopo cento ore di tempo macchina trovò il più piccolo controesempio citato sopra. Tra gli ordini di grandezza di questi due controesempi si situano due numeri che compaiono nella vita quotidiana. O, almeno, in quella delle spie e dei giocatori. Il primo è il numero dei possibili codici di sostituzione, inventati da Giulio Cesare e usati in crittografia, in cui ogni lettera dell’alfabeto viene appunto sostituita da un’altra. Usando l’alfabeto classico di 26 lettere, cioè le 21 dell’alfabeto italiano e le 5 lettere straniere più comuni (j, k, w, x, y), ogni codice corrisponde a una delle possibili permutazioni delle 26 lettere. Ce ne sono dunque:
Il secondo numero è quello delle possibili mani di bridge, che consistono nella distribuzione a ciascuno di 4 giocatori di 13 carte, da un mazzo di 52 mescolato casualmente. Il numero delle mani è dunque:
Assumendo una dimensione per ciascuna carta di circa 5 centimetri per 10, quattro mani possono essere calate su circa un metro quadrato. Tutte insieme, le possibili mani occuperebbero dunque più di cento volte la superficie del Sistema Solare, esteso fin oltre l’orbita di Plutone. Immagini: turibolo per bruciare l’incenso; confronto tra moli di elementi diversi; un albero
genealogico; una scitale, usata per trasmettere
messaggi cifrati; le 13 carte di una mano di bridge.
Le scimmie dattilografe 1036
Nel Natura delle cose (I,1021-1028) Lucrezio aveva lucidamente difeso il ruolo del caso nella creazione del
mondo: Di certo gli atomi non decidono da soli se e come aggregarsi, mettendosi sagacemente ciascuno al posto giusto, né sono liberi di scegliere vengono
come
muoversi.
sospinti
e
Al
contrario,
indirizzati,
fin
dall’eternità, nei modi e con gli urti più vari, sperimentando ogni tipo di unione e di moto. E
in
tal
modo
pervengono
a
quelle
disposizioni delle quali consiste l’insieme delle cose.
Ma in La natura degli dèi Cicerone fece dire allo stoico Balbo che questo è tanto assurdo, quanto pensare che gli Annali di Ennio siano stati ottenuti scrivendo lettere a caso. E negli Oracoli della Pizia Plutarco ripeté l’osservazione per le Massime capitali dello stesso Epicuro, ispiratore di Lucrezio. In entrambi i casi, la perfidia della critica riposava sul parallelismo tra parole
e cose che Lucrezio aveva sviluppato nel suo libro. In un articolo del 1913 su Meccanica statistica e irreversibilità, il matematico Émile Borel ribaltò l’argomento dei letterati introducendo una metafora fortunata: Supponiamo che si siano addestrate un milione di scimmie a battere a caso sui tasti
di una macchina da scrivere. E che, sotto la supervisione
di
capisquadra
analfabeti,
queste scimmie dattilografe lavorino con ardore dieci ore al giorno, con un milione di
macchine da scrivere di vario tipo. I capisquadra analfabeti raccolgono i fogli
anneriti dalle battiture e li rilegano in volumi.
Dopo un anno, tra i volumi si troverebbero le copie esatte di libri di ogni genere e di ogni
lingua conservati nelle migliori biblioteche del mondo.
Qualche anno dopo, nel 1930,
l’astronomo James Jeans riformulò in L’universo misterioso l’argomento di Borel in maniera più prudente, aumentando la schiera delle scimmie e diminuendo le aspettative sul loro lavoro: Se passiamo in rassegna i milioni di milioni di pagine scritte da milioni di milioni di
scimmie in milioni di milioni di anni, possiamo essere sicuri di trovarvi un sonetto di Shakespeare, prodotto per un colpo di fortuna.
Analogamente, milioni di milioni di stelle
erranti a caso per milioni di milioni di anni hanno dovuto subire per forza ogni sorta di
accidenti, e produrre a lungo andare qualche sistema planetario. Se non altro, perché ci sono molte più stelle che scimmie.
Più recentemente, nel 1995, il matematico Brett Watson ha realizzato uno Studio di fattibilità sulle scimmie che scrivono Amleto,
arrivando a conclusioni deludenti, che smentiscono sia Borel che Jeans: Prendiamo 17 miliardi di galassie. Ciascuna galassia contiene 17 miliardi di pianeti
abitabili. Ciascun pianeta abitabile è abitato
da 17 miliardi di scimmie. Ciascuna scimmia di ciascun pianeta di ciascuna galassia batte
una riga al secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno di ogni anno, senza mai fermarsi, per 17 miliardi di anni. Alla fine di
tutto questo tempo, rimarrebbe ancora il
99,99999999999% di probabilità di non battere mai quest’unica riga di 41 caratteri, spazi compresi: «Essere o non essere, questo è il problema». Altro
calcolo.
Se
un’unica
scimmia
pretendesse di poter battere per caso un solo
libro di 40.000 parole, ce la farebbe in 20 miliardi
di
anni,
cioè
in
un
tempo
paragonabile alla durata dell’universo, se
battesse 1.000.000.000.003.295.821 battute al
secondo. Si tratta di un miliardo di miliardi di
battute:
povera
scimmia!
1.000.000.000.003.295.821 battute al secondo è molto veloce, e niente nel mondo fisico si avvicina
a
lontanamente.
questa
velocità
nemmeno
Tenendo conto del numero dei secondi presenti in 20 miliardi di anni, che sono circa 1018, le battute della scimmia sarebbero esattamente
A numeri di un ordine di grandezza
comparabile si arriva abbastanza facilmente in matematica. Ad esempio, abbiamo notato che 153 è uguale alla somma dei cubi delle proprie cifre. Questo lo rende un numero narcisista, cioè uguale alla somma delle proprie cifre elevate al numero delle proprie cifre. Ora, di numeri narcisisti ce ne sono esattamente ottantotto. Il più piccolo è 153, e il più grande è appunto dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando: Il motivo per cui i numeri narcisisti sono solo un numero finito, è che col crescere della lunghezza sono necessarie somme di potenze di cifre sempre più vicine al 9 per raggiungere numeri con quella lunghezza, e a un certo punto
neppure i soli 9 sono più sufficienti. Ad esempio, 70 volte 970 è pari a circa 4 × 1068, che è un numero a sole 69 cifre: dunque, un numero di 70 cifre non può essere pari alla somma delle proprie cifre elevate a 70. In un’altra direzione, abbiamo notato (vedi pp. 326-327) che nel 1876 Lucas dimostrò che la lista di padre Mersenne del 1644 si sbagliava nell’identificare come primo il suo sessantasettesimo numero. In quello stesso anno Lucas dimostrò anche che la lista era però corretta nell’identificare come primo il centoventisettesimo numero di Mersenne:
Questo numero stabilì un record per il più grande primo conosciuto, che non fu superato per ben 75 anni: fino al 1951, che appropriatamente era un “anno primo”. E rimane tuttora, e probabilmente rimarrà per sempre, il più grande numero dimostrato primo a mano. Per inciso, questo numero di Mersenne ha come esponente un altro numero di Mersenne: dunque, è un doppio numero di Mersenne. Ed è il più grande doppio numero di Mersenne primo conosciuto, dopo il terzo numero di Mersenne 7, il settimo 127 e il trentunesimo 2.147.483.647. Inoltre, anche l’esponente dell’esponente del numero precedente è ancora un numero di Mersenne, e così via. Dunque, il
numero precedente si può scrivere come
ed è un cosiddetto numero di Mersenne-Catalan. Anzi, come al solito, è il più grande conosciuto. Immagini: scimpanzé alla macchina da scrivere; citazione di Robert Wilensky.
La matematica dei Simpson 1044
Alcuni numeri straordinari sono apparsi nei Simpson, nella puntata «Homer3» del 1995. Si tratta dei membri dell’equazione
che a
prima
vista
sembrerebbe
falsificare il citato ultimo teorema di Fermat (vedi pp. 282 e 316), dimostrato da Andrew Wiles in quello stesso anno. Un’equazione analoga compare anche nella puntata «L’inventore di Springfield», del 1998:
Si tratta, in entrambi i casi, di cosiddetti near miss, “mancati per un pelo”: cioè, di numeri che sono “quasi” uguali. Nel primo caso i due membri differiscono solo dalla decima cifra in avanti:
E, nel secondo caso, solo dall’undicesima, il che li fa apparire uguali su calcolatrici con display a dieci cifre:
In realtà, con un po’ di attenzione si vede anche a occhio che la prima equazione è sbagliata. Ad esempio, perché le ultime cifre dei due membri, che si calcolano facilmente, sono diverse. Oppure, perché a sinistra si sommano un numero pari e uno dispari, che non possono dare come risultato il numero pari a destra. La seconda equazione è più difficile da sgamare. Questa volta, infatti, le ultime cifre dei due membri sono uguali. E a sinistra si sommano due numeri dispari, che danno come risultato un numero pari come quello a destra. Ma basta notare che i due numeri a sinistra sono entrambi divisibili per 3, perché così sono le somme delle loro cifre, mentre il numero a destra
non lo è, per il motivo contrario. I due precedenti “controesempi” all’ultimo teorema di Fermat privilegiano numeri piccoli, ma con esponenti grandi e una grande differenza fra i due lati dell’equazione: rispettivamente, 30 dell’ordine di 10 e 1033. Nel suo citato Taccuino perduto (vedi p. 283) Ramanujan trovò invece “controesempi” nello stile del numero 1.729: cioè, due cubi che non sommano a un cubo per una sola unità. Poiché ce ne sono infiniti, se ne trovano di arbitrariamente grandi, ma i due seguenti:
hanno
esattamente
l’ordine
di
grandezza dei due controesempi dei Simpson:
Un numero di grandezza poco superiore a quelli dei Simpson si trova in un’appendice al capitolo quarto di Evaristo Carriego di Borges (1930), che descrive il gioco di carte argentino chiamato Truco, e si pone un problema matematico riguardo alle loro possibili combinazioni: Quaranta è il numero delle carte, e 1 per 2 per 3 per 4… per 40 quello delle diverse combinazioni. È una cifra delicatamente esatta nella sua enormità, con un immediato
predecessore e un unico successore, ma che
non è mai stata messa per iscritto. È una remota
dissolvere
cifra
nella
vertiginosa sua
che
enormità
sembra quanti
partecipano al gioco. Così, fin dall’inizio, il mistero centrale del gioco si vede arricchito di un altro mistero, quello delle cifre.
Questo numero, arricchito di mistero dal letterato, non viene impoverito dal fatto che il matematico sappia mettere il fattoriale di 40 per iscritto come segue: Rimane infatti sorprendente che un semplice mazzo di carte possa generare un tale numero di combinazioni. Numero che salirebbe vertiginosamente se si usassero mazzi con più carte, come in molti altri giochi.
Immagini:
un
fotogramma
della
puntata
«L’inventore di Springfield»; carte da gioco usate nel Truco.
Sbatti il mostro in prima pagina 1054
Come abbiamo già ricordato (vedi p. 154), uno dei grandi risultati della matematica greca fu la classificazione di Teeteto dei cinque solidi regolari, che sono oggetti
particolarmente simmetrici. Ad esempio, un cubo appoggiato su un tavolo può essere ruotato in modo da mostrare in alto qualunque delle sue sei facce, lasciando per il resto la sua posizione nello spazio invariata. E in ciascuna di quelle sei posizioni, il cubo può essere ruotato in modo da mostrare sul davanti qualunque delle sue quattro facce verticali. Ci sono dunque 24 possibili simmetrie di rotazione del cubo, che formano quello che in gergo viene chiamato il suo “gruppo” delle rotazioni. Più in generale, abbiamo già incontrato (vedi pp. 161 e 238) i gruppi delle simmetrie dei poligoni e dei solidi regolari. E anche i gruppi delle permutazioni di n oggetti, che si indicano con Sn. Ad esempio, S3 è identico al gruppo delle simmetrie
di un triangolo, e S4 a quello delle simmetrie di un cubo o di un ottaedro. I gruppi delle rotazioni di un triangolo, di un tetraedro, e di un dodecaedro o di un ottaedro, sono invece esempi di gruppi alterni che si indicano rispettivamente con A3, A4 e A5. E ci sono molti altri tipi di gruppi, relativi a simmetrie di ogni genere. I gruppi Sn hanno un numero n! di elementi, mentre i gruppi An ne hanno metà. Ma non tutti i gruppi sono finiti: ad esempio, un cerchio si può far ruotare di un angolo qualunque, e dunque in infiniti modi, intorno al suo centro, lasciando per il resto la sua posizione sul piano invariata. E non tutti i gruppi sono “semplici”, nel senso di non poter essere scomposti in fattori in maniera analoga ai
numeri: ad esempio, è proprio perché il gruppo delle simmetrie del cubo di Rubik si può scomporre, che esistono strategie abbordabili per risolverlo. Studiare i gruppi finiti semplici è un po’ come studiare i numeri primi. Alla fine dell’Ottocento se ne conoscevano 5 famiglie e 5 eccezioni, la più grande delle quali aveva circa 250.000.000 di elementi. Nella seconda metà del Novecento ne sono state trovate molte altre, che hanno portato il conto a 18 famiglie e 26 eccezioni, la più grande delle quali è un vero e proprio mostro, che viene appunto chiamato Mostro. Come nella fisica delle particelle, spesso i nuovi gruppi sono stati dapprima previsti teoricamente, e in seguito osservati “in laboratorio”.
Ad esempio, il Mostro fu previsto nel 1973 da Bernd Fischer e Robert Griess, e costruito a mano da quest’ultimo nel 1980. La cosa è stupefacente, visto che il numero dei suoi elementi è
e ciascuno di questi elementi viene rappresentato da una matrice 196.883 per 196.893: cioè, da circa 40 miliardi di informazioni. Uno dei grandi risultati della matematica moderna è stata la classificazione di tutti i gruppi finiti semplici, che ha confermato che non c’erano altre famiglie e altre eccezioni, oltre a quelle già trovate. La dimostrazione, completata nel 1985, ha richiesto la collaborazione di un centinaio di matematici,
occupa 500 articoli per un totale di 15.000 pagine, e detiene il record di complessità nella storia della matematica. Immagini: le 24 possibili simmetrie di rotazione di un dado.
Coincidenze significative 1061
Nelle varie branche della fisica appaiono alcune costanti fondamentali, che sembrano avere un significato universale. Ad esempio, nella teoria della gravitazione c’è la costante di Newton. Nell’elettrostatica, la costante di Coulomb. Nell’elettromagnetismo e nella relatività, la velocità della luce. Nella termodinamica, la costante di Boltzmann. E nella meccanica quantistica, la costante di Planck. È però paradossale che queste costanti universali vengano misurate in un sistema di misura antropomorfo, basato su unità quali il metro, cioè la quarantamilionesima parte della circonferenza terrestre. O il secondo, cioè la ottantaseimilaquattrocentesima
parte del giorno terrestre. O il grammo, cioè la massa di un centimetro cubo d’acqua a pressione e temperatura terrestri standard. In questo sistema di riferimento, ad esempio, la velocità della luce nel vuoto risulta essere di 299.792,458 chilometri al secondo. E analogamente per le altre costanti, con valori che risentono ovviamente dell’arbitrarietà delle unità di misura del sistema. Nel 1899 Max Planck propose dunque di ribaltare l’approccio, definendo le cinque unità di misura di lunghezza, tempo, massa, carica e temperatura a partire dalle cinque costanti universali, invece che il contrario. E ottenne un sistema di misura alternativo basato su “unità di Planck”, in cui la velocità della luce è la velocità di percorrenza
della lunghezza di Planck nel tempo di Planck, la costante di Newton è l’attrazione gravitazionale esercitata da due masse di Planck poste alla distanza di Planck, eccetera. Rispetto al nuovo sistema di misura le cinque vecchie costanti acquistano tutte il comodo valore 1, e scompaiono dalle equazioni che le coinvolgono. Planck fu molto soddisfatto della scoperta delle sue unità di misura, perché esse «mantengono il loro significato in tutti i tempi e luoghi, e risultano sempre uguali anche se misurate dalle intelligenze più disparate». Queste unità costituiscono però i limiti delle teorie attuali, nel senso che al di sotto delle lunghezze e dei tempi di Planck, o al di sopra delle masse e delle temperature di Planck, la
fisica come la conosciamo perde di senso. Quanto ai loro valori, il tempo di Planck è circa 10–43 secondi. La lunghezza di Planck è 1020 volte più piccola di un protone. La massa di Planck è pari a un uovo di pulce, o a 1019 protoni, e farebbe collassare un quanto in un buco nero. La carica di Planck è pari a quella di 12 elettroni, o 12 protoni. La temperatura di Planck, infine, è circa 1030 gradi, e un corpo che la raggiungesse emetterebbe radiazioni della lunghezza di Planck. Non sembra esserci nessuna regolarità particolare in questi numeri, ma qualcosa di significativo emerge quando si esprimono invece le caratteristiche dell’universo nelle unità di Planck. In tal caso, infatti,
si scopre un numero magico pari a circa 1061, che misura allo stesso tempo l’età dell’universo in tempi di Planck, il suo diametro in lunghezze di Planck, la sua massa in masse di Planck, e così via. Cosa significhino tutte queste coincidenze, nessuno lo sa. Noi ci limitiamo a notarle, mentre altri si accaniscono a ricercarvi un significato recondito, camminando sulla sdrucciolevole strada della numerologia, che rischia di portare dritta al manicomio. Immagini: francobollo commemorativo dedicato a Max Planck.
Una tempesta di sabbia 1063
In un libro divulgativo intitolato Arenario, indirizzato al tiranno di Siracusa, Archimede inaugurò la serie dei grandi numeri che si possono dedurre dall’osservazione della Natura. Ecco l’incipit del suo
lavoro: Alcuni, o re Gelone, credono che il numero dei granelli di sabbia sia infinito. E mi
riferisco non solo ai granelli che si trovano a Siracusa e nei suoi dintorni, o nel resto della Sicilia, ma nell’intero mondo, abitato o no.
Altri credono che il numero dei granelli sia
finito, ma che non se ne possa descrivere uno
maggiore di esso. O almeno, maggiore del
numero dei granelli di sabbia necessari a riempire tutte le caverne e i mari, e a ricoprire le cime di tutti i monti.
Ma io ti mostrerò che fra i numeri che ho
nominato in un libro indirizzato a Zeusippo, ce ne sono alcuni che superano il numero dei
granelli di sabbia che riempirebbero non solo
la Terra intera, ma addirittura l’intero universo.
Torneremo in seguito (vedi p. 380) al libro a cui Archimede allude, che contiene la sua teoria della notazione per i grandi numeri.
Nell’Arenario, invece, egli si dedica al calcolo del numero dei granelli di sabbia che riempirebbero l’universo, facendo il rapporto fra il volume dell’universo e il volume di un granello di sabbia. O, se si preferisce, calcolando il cubo del rapporto tra il raggio dell’universo e il raggio di un granello di sabbia. Il problema, comunque, è valutare le due dimensioni, soprattutto la prima. E l’interessante non è tanto il risultato, che in ogni caso è radicalmente sottostimato, quanto il metodo. Archimede si basa infatti sulla teoria eliocentrica di Aristarco, di cui l’Arenario fornisce l’unica testimonianza storica rimastaci: Le ipotesi di Aristarco sono che le stelle fisse
e il Sole non si muovono. Che la Terra gira attorno al Sole su una circonferenza in cui il
Sole sta al centro. E che la sfera delle stelle
fisse, anch’essa avente il Sole nel centro, è
così grande che il rapporto fra essa e l’orbita terrestre è uguale al rapporto tra l’orbita terrestre e la sfera terrestre.
Secondo i dati moderni, il diametro medio di un granello di sabbia è circa un decimo di millimetro, il raggio medio terrestre 6.370 chilometri, e la distanza media del Sole dalla Terra 150 milioni di chilometri. La proporzione di Aristarco situerebbe dunque le stelle fisse a circa 4 mesi luce dalla Terra, e il calcolo di Archimede stimerebbe i granelli di sabbia in circa 1019: cioè, tanti quanti i chicchi di grano sulla scacchiera. Con i dati a sua disposizione, Archimede stimò invece che le stelle fisse stessero a circa 2 anni luce
dalla Terra, arrivando a valutare il numero dei granelli di sabbia a circa 1063. E concluse il suo lavoro dichiarando soddisfatto: Immagino che queste cose, o re Gelone, appariranno incredibili alla maggioranza di
coloro che non hanno studiato matematica.
Ma convinceranno invece coloro che la conoscono, e hanno meditato su questioni
come le distanze e le misure della Terra, della Luna, del Sole e dell’intero universo. Ed è per
questo che ho pensato che l’argomento non sarebbe stato inappropriato per l’attenzione di un re.
Immagini: tempesta di sabbia in Eritrea.
Gli atomi dell’universo 1080
Nell’Arenario Archimede aveva cercato di valutare il numero di particelle presenti nell’universo in potenza. In un ciclo di lezioni popolari su La filosofia delle scienze
fisiche, tenuto nel 1938 al Trinity College di Cambridge, l’astronomo Arthur Eddington si pose nella sua scia, cercando a sua volta di valutare il numero di particelle presenti nell’universo in atto. Il suo punto di partenza fu una versione aggiornata della visione greca di un mondo finito nello spazio e nel tempo, e costituito da una quantità finita di materia. E il suo punto di arrivo fu una versione aggiornata del risultato di Archimede, riassunta in questa spettacolare affermazione: Io credo che ci siano esattamente
15.747.724.136.275.002.577.605.653.961.181.55
717.914.527.116.709.366.231.425.076.185.631
protoni nell’universo, e altrettanti elettroni.
Al suo strano e apparentemente complicato numero Eddington era arrivato argomentando che il
numero delle particelle dell’universo doveva essere pari a:
Ad esempio, il fattore 136 era desunto dalla cosiddetta costante di struttura fine dell’universo α, che è il quadrato della carica dell’elettrone e misurata in cariche di Planck. Ai tempi delle lezioni di Eddington, le misure di tutte le quantità coinvolte indicavano per la costante α un valore molto prossimo a 1/136, che egli ritenne di poter derivare esattamente con argomentazioni di natura numerologica.
Quando qualche anno dopo le misure sembrarono invece avvicinarsi a 1/137, Eddington si adeguò e ritenne di poter invece
derivare quello, meritando dai critici della sua disinvoltura la storpiatura del proprio nome in Adding-on, “Aggiungendo”, o Adding-one, “Aggiungi uno”. Per sua sfortuna, oggi misure più precise indicano un valore di α che non è affatto il reciproco di un intero, se non in una per niente fine approssimazione. E nessuno crede più che ci sia una connessione tra la costante di struttura fine e il numero di particelle dell’universo. Sorprendentemente, però, altre stime di questo numero portano a un risultato che è dello stesso ordine di grandezza di quello divinato in maniera poco ortodossa da Eddington. Per effettuarne una si deve da un lato valutare la massa
totale della materia, e dall’altro la densità media degli atomi. Per calcolare la massa totale della materia ci sono vari metodi, che portano più o meno tutti allo stesso risultato. Ad esempio, si può ricordare che le galassie sono circa 100 miliardi, e le stelle in ciascuna galassia di nuovo circa 100 miliardi: dunque, ci sono 1022 stelle nell’universo. Estrapolando i dati della Via Lattea, nella quale le stelle hanno una massa media pari a metà di quella del Sole, si può stabilire in 1030 chili la massa media delle stelle dell’universo: dunque, la massa stellare è circa 1052 chili. E poiché essa rappresenta meno del dieci per cento della massa totale, rispetto alla materia interstellare e intergalattica, si arriva a circa 1053 chili.
Per calcolare la densità media degli atomi in un chilo di materia, si arrotonda supponendo che siano tutti atomi di idrogeno, anche se
essi costituiscono solo i tre quarti degli atomi esistenti. E poiché un atomo di idrogeno ha una massa di circa 10–27 chili, si arriva a un numero di atomi pari a circa 1080. Non sorprendentemente, allo stesso numero si arriva ricordando che la massa dell’universo è circa 1061 masse di Planck, e che la massa di Planck è circa 1019 masse di un protone. In tutto, ci sono dunque 1080 protoni nell’universo, che corrispondono ad altrettanti atomi di idrogeno, visto che la massa degli elettroni è trascurabile rispetto a quella dei protoni. A un numero di poco inferiore si arriva in matematica considerando i numeri sublimi, definiti dalla proprietà di avere un numero
perfetto di divisori, che sommano a loro volta a un numero perfetto. Un esempio banale è 12, i cui divisori (1, 2, 3, 4, 6 e 12) sono 6, e sommano a 28. Molto meno banale è l’unico altro esempio conosciuto, che è appunto di un ordine di grandezza di poco inferiore a quello degli atomi dell’universo:
Raggiungendo lo stesso ordine di grandezza, nel 1876 Lucas aveva trovato il secondo errore della lista originaria di Mersenne (vedi pp. 286-287, 326-327 e 341), dimostrando indirettamente che non è primo neppure il duecentocinquantasettesimo numero di Mersenne:
In questo caso, però, trovare a mano un fattore risultò impossibile. Ci riuscirono nel 1932 Derrick Lehmer ed Emma Trotsky, ma solo con l’aiuto di una macchina calcolatrice elettrica a manovella, tanto rumorosa da diventare l’ossessione dei vicini infastiditi: a ragione, visto che i due coniugi la usarono per un anno consecutivo, due ore al giorno, prima di riuscire a completare il risultato. Che, per la cronaca, è:
Esattamente vent’anni dopo, il 30 gennaio 1952, un calcolatore del National Bureau of Standards a Los Angeles effettuò una delle prime incursioni elettroniche nel campo della teoria dei numeri. Il programma era stato scritto da Raphael Robinson, che non aveva mai visto la macchina su cui avrebbe dovuto girare. Il linguaggio di programmazione era limitato a tredici istruzioni, e la memoria
poteva solo contenere 256 parole di 36 bit ciascuna. Ciò nonostante, la verifica della non primalità del numero precedente avvenne in una frazione di secondo, alla presenza degli sconsolati coniugi Lehmer, ai quali era appunto costata un anno di lavoro. Per inciso, un lavoro inutile anche nel 1932, visto che già nel 1922, a insaputa dei coniugi e del resto del mondo, la non primalità del duecentocinquantasettesimo numero di Mersenne era stata dimostrata da Maurice Kraitchik. Immagini:
polvere
interstellare;
Arthur
Eddington; la Via Lattea; calcolatrice elettrica a manovella.
Superpotenze di 10
Da Google a Googol e ritorno 10100
Nel 1938 il matematico Edward Kasner, durante una passeggiata, chiese al nipotino Milton Sirotta, di nove anni, come avrebbe battezzato un grande numero: ad esempio, un 1 seguito da cento 0. Il bambino suggerì “Googol”, pensando a un personaggio dei fumetti dell’epoca di nome Barney Google, ma storpiandone il nome. Due anni dopo lo zio adottò la storpiatura nel libro Matematica e immaginazione, per indicare appunto il numero 10100. Di per sé il numero non ha particolare interesse, se non come approssimazione del fattoriale di 70 (vedi p. 289), che è:
O
come
numero
di
anni
necessario perché un buco nero avente la massa della Via Lattea evapori. Assumendo che la nostra galassia sia rappresentativa delle altre, questo è dunque il tempo medio necessario perché evapori ogni buco nero che abbia inghiottito tutta la materia della propria galassia, e l’universo raggiunga la morte termica. Googol ha fatto capolino nella cultura popolare il 23 gennaio 1963, quando in un fumetto dei Peanuts Lucy domandò a Schroeder quale pensava fosse la probabilità che essi si sposassero un giorno, e lui rispose: «Una su un Googol». Richiesto di specificare quant’era un Googol, lui scrisse esplicitamente un 1 seguito da cento 0, e lei
commentò: «Sigh». Googol è poi assurto agli onori della cronaca in Inghilterra nel 2001, quando un concorrente di Chi vuol essere milionario? ha vinto un milione di sterline rispondendo correttamente a quest’ultima domanda: Come si chiama un 1 seguito da 100 zeri?
A. Googol. B. Megatron. C. Gigabit. D. Nanomole.
In seguito però si scoprì che il vincitore aveva barato, ricevendo suggerimenti in codice da un amico nel pubblico, e fu privato della vincita e condannato per frode. Quanto al motore di ricerca Google, i suoi fondatori Larry Page e Sergey Brin volevano chiamarlo appunto Googol, per indicare che avrebbe portato una gran quantità di informazioni. Ma al momento di
registrare il nome sbagliarono lo spelling, ritornando così a quello originale che a sua volta Sirotta aveva storpiato.
Uno dei sistemi crittografici più usati al mondo è il cosiddetto RSA, acronimo basato sui cognomi dei suoi inventori Ron Rivest, Adi Shamir e Leonard Adleman. Il metodo, divulgato nel 1977, si basa su una chiave pubblica, consistente in un numero che è il prodotto di
due soli primi: se la chiave è sufficientemente grande, la probabilità di riuscire a decomporla nei suoi due fattori, che servono per decodificare il messaggio, è praticamente nulla. Il problema è naturalmente cosa significhi “sufficientemente grande”, e nel 1991 fu lanciata una RSA Factoring Challenge, “Sfida di Fattorizzazione RSA”, in cui si proponeva una serie di grandi numeri da fattorizzare, con premi in denaro in palio per ciascuno. La sfida più semplice era costituita da un numero chiamato RSA-100 e pari all’incirca a un Googol, che fu fattorizzato senza battere ciglio il 1° aprile di quello stesso anno da Arjen Lenstra, con una vincita di 1.000 dollari:
Nel 1994 venne fattorizzato il cosiddetto RSA-129, che in realtà precedeva la sfida. Era stato infatti proposto fin dal 1977 da Martin Gardner su «Scientific American», la versione originale della rivista «Le Scienze», e aveva molte più cifre del precedente:
Nel 1977 Rivest aveva calcolato in 40 milioni di miliardi di anni il tempo necessario a fattorizzare un numero di queste dimensioni, su macchine in grado di effettuare operazioni in un miliardesimo di secondo. Ma nel 1994 bastarono gli sforzi congiunti di 1.600 computer e
di 600 utenti connessi a Internet per sei mesi, e coordinati sempre da Lenstra, per trovare i due fattori. La sfida si chiuse ufficialmente nel 2007, dopo aver ottenuto la fattorizzazione di numeri di 160 cifre. In seguito ci si è spinti anche più in là, e la barriera di non fattibilità si è per ora alzata a 250 cifre. Prima che dai programmi di fattorizzazione di numeri non primi, il limite di un Googol era già stato ampiamente superato dai programmi di verifica di primalità di numeri primi. In particolare, dal programma di Raphael Robinson per il calcolatore del National Bureau of Standards, al quale avevamo accennato in chiusura del
capitolo precedente (vedi p. 355), entrato in azione il 30 gennaio 1952.
Dopo l’istantaneo riscaldamento sul duecentocinquantasettesimo numero di Mersenne, la cui non primalità era comunque già nota, esso passò in rassegna i successivi candidati, e trovò un nuovo numero primo nel cinquecentoventunesimo numero di Mersenne:
Il nuovo record così stabilito durò però soltanto un paio d’ore! Fino a quando, cioè, il computer non trovò un nuovo primo nel seicentosettimo numero di Mersenne, che è anche l’ultimo grande numero che scriviamo esplicitamente:
Nei mesi successivi il computer trovò altri cinque nuovi primi di Mersenne, portando il totale a diciassette, ma poi esaurì le potenzialità del particolare programma usato e raggiunse i suoi limiti. Da allora la lista dei primi di
Mersenne ha però continuato ad accrescersi regolarmente, grazie a computer sempre più potenti e programmi sempre più sofisticati. Per curiosità, nel racconto La gara di matematica di Zavattini, con cui si apre questo libro (vedi pp. 9-11), il numero che permette di vincere la competizione è maggiore di quelli che abbiamo appena descritto. Lo si calcola facilmente, dal numero di volte che il papà del narratore ripete la parola «miliardi»:
E un numero analoga si ottiene possibili messaggi caratteri, composti
di grandezza considerando i Twitter di 140 con lo stesso
alfabeto di 60 simboli usato per la biblioteca di Babele (vedi p. 376):
Immagini: il personaggio dei fumetti Barney
Google; il logo di Google davanti a una delle sue sedi; il calcolatore del National Bureau of Standards.
Il record di Buddha 10421
Noi occidentali non soltanto abbiamo accettato il sistema decimale indiano con forti e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usiamo in maniera impropria e confusa. Ad esempio, privilegiamo alcune potenze della base come 1.000, 1.000.000 o 1.000.000.000, e non
assegniamo alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, o dieci miliardi e cento miliardi. Trattiamo cioè quelle potenze come basi aggiuntive al 10, e così facendo macchiamo la purezza del sistema decimale. Gli Indiani seppero invece evitare queste stonature. Lo dimostra il singolare Lalitavistara, “Il racconto completo”, del 300 circa, che costituisce una specie di vangelo dell’infanzia del Buddha, dalla sua nascita miracolosa fino all’inizio della sua predicazione. Il dodicesimo capitolo riguarda le esibizioni di bravura del giovane nelle arti, e in particolare in matematica: Il re Suddhodana domandò al Bodhisattva:
«Figliolo, puoi competere con il grande matematico Arjuna nella sua materia?». al
«Posso, maestà» rispose. E così fu chiesto Bodhisattva
capacità.
di
mostrare
le
proprie
Il grande matematico Arjuna gli chiese:
«Giovanotto, conosci l’enumerazione dei koti per 100?».
Il Bodhisattva rispose: «Certo». «Bene, sentiamo.»
E il Bodhisattva iniziò: «Cento koti sono un
ayuta. Cento ayuta un niyuta. Cento niyuta un kankara.
[…]
sarvasamjna.
Cento
Cento
visamjnagati
sarvasamjna
un un
vibhutangama. E cento vibhutangama un tallaksana».
Poiché koti era il nome di dieci milioni, cioè 107, e il Bodhisattva conta ventitré volte per 100, arriva in tal modo a 1053. A questo punto il giovane cambia marcia, e invece di continuare l’enumerazione per
100 dei koti enumera altre otto enumerazioni: «Con l’enumerazione dei tallaksana, si può misurare il monte Meru. Con quella dei
dvajagravati, la sabbia delle rive del Gange. […] Con quella degli agrasara, la sabbia di cento
koti
di
l’enumerazione
Gangi.
E
in
cima
sta
degli
uttaraparamanurajahpravesa, che arriva a contare gli atomi più sottili.
Quest’ultima enumerazione la conosciamo
solo io e i bodhisattva che hanno raggiunto la più pura forma di illuminazione, sono stati
iniziati a tutto il Dharma, non hanno ancora lasciato il mondo, ma sono ormai giunti alla loro ultima reincarnazione.»
È difficile dedurre dal testo a che numero sia arrivato a contare il Buddha. Supponendo che in ciascuna delle otto nuove enumerazioni egli continui a moltiplicare per 100 ventitré volte,
come nella prima, raggiunto sarebbe
il
numero
Questo numero è ben maggiore dell’asankhyeya che in sanscrito significava letteralmente “innumerabile”, “incalcolabile” o “infinito”, veniva attribuito a Shiva e Vishnu, e serviva a indicare le gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull’insieme dei mondi. Il Buddha, questa volta nell’Avatamsaka Sutra, “Sutra della ghirlanda di fiori”, lo valutava invece soltanto a 10140. Non stupisce dunque l’ammirazione di Arjuna e degli altri studenti alla fine di questa prova di bravura. Uomini e dèi si inchinano alla sapienza del giovane Buddha, ed egli procede a dimostrare
un’analoga superiorità anche nello sport. Un vero primo della classe, benché l’ultimo nella lista delle sue ventotto reincarnazioni.
Matematicamente, le abilità numeriche del Buddha gli permettevano di arrivare a contare fino all’intervallo compreso fra l’undicesimo e il dodicesimo numero di Fermat, cioè fra Questi due numeri di Fermat sono gli ultimi di cui si conosce oggi una fattorizzazione completa: il primo ha quattro fattori e il secondo cinque, i più piccoli dei quali sono rispettivamente 45.592.577 e 319.489. Le fattorizzazioni sono state ottenute dal gruppo Fermat Search, “Ricerca Fermat”, i cui membri mettono a disposizione il tempo inutilizzato dei propri computer per effettuare in rete una ricerca in parallelo dei fattori dei
numeri di Fermat, su una sorta di gigantesco computer distribuito in tutto il mondo. Analogamente, le abilità numeriche del Buddha gli permettevano di arrivare a contare fino all’intervallo compreso fra il quarto e il quinto repunit primo (vedi pp. 194 e 335336), cioè fra
Questi due repunit sono gli ultimi di cui si conosce oggi la primalità. In seguito sono stati identificati altri quattro repunit che sono “probabilmente primi”, nel senso che soddisfano proprietà che sono soddisfatte da tutti i numeri primi, e da quasi nessun numero composto.
Entrambi i repunit precedenti erano stati anzitutto identificati come “probabilmente primi”, e sono poi stati confermati come veri primi rispettivamente nel 1977 e nel 1986. Ma i quattro successivi (vedi p. 374) sembrano essere per ora fuori della portata di una verifica definitiva, per la loro grandezza. Immagini: statua del Buddha nel tempio di Borobudur a Giava; giovane monaco buddhista.
Tra un’incarnazione e l’altra 106.083
Anche Buddha aveva i suoi limiti, comunque. E nel Lalitavistara nomina lui stesso un numero che supera la sua comprensione: Quante particelle sottili ci sono in 3.000 trichiliocosmi? Questo va oltre i possibili
calcoli, è incalcolabile. C’è un numero incalcolabile di atomi sottili nella massa di 3.000 trichiliocosmi.
Nella cosmologia buddhista il trichiliocosmo era un universo a tre livelli, che aveva il suo centro nel monte Meru. Il primo livello era costituito da 1.000 cosmi. Il secondo livello da un numero di cosmi 1.000 volte maggiore, cioè un milione. Quanto al terzo livello, la crescita si poteva intendere in maniera geometrica, moltiplicando di nuovo il secondo livello per 1.000 e ottenendo un miliardo di cosmi. Oppure si poteva intendere in
maniera esponenziale, elevando il secondo livello a 1.000 e ottenendo 106.000 cosmi.
Lo stesso numero ritorna nel settimo capitolo del Sutra del loto,
quando il Buddha spiega ai discepoli quanto tempo sia intercorso tra la morte della sua precedente incarnazione, chiamata Grande Saggezza Universale, e la sua attuale rinascita: Supponete che qualcuno prenda la sostanza di
3.000
riducendola
trichiliocosmi a
polvere
e
la
frantumi
sottile
come
l’inchiostro. Se si lasciasse cadere un granello di
questa
polvere
ogni
volta
che
si
attraversano 1.000 cosmi, e ogni intervallo
rappresentasse un’era, le ere trascorse da quando quel Buddha si è estinto sarebbero comunque di più.
Il Buddha non traduce tutto ciò in numeri, visto che la metafora gli serve appunto a indicare una quantità incalcolabile. Ma proprio per questo dobbiamo anzitutto intendere il trichiliocosmo in maniera esponenziale. E poi,
possiamo immaginare che ciascuno dei mondi abbia lo stesso numero di atomi del nostro, e che i granelli siano gli atomi stessi. Il numero di ere trascorse tra le due incarnazioni sarebbe dunque maggiore di
Di vari ordini di grandezza maggiore del numero di particelle di 3.000 trichiliocosmi è il più grande primo di Leyland conosciuto (vedi p. 264), scoperto a fine 2012:
Benché a prima vista i numeri di Buddha e di Leyland sembrino avere lo stesso grado di interesse matematico, e cioè nullo, Paul Leyland ha così spiegato perché i
suoi sono utili: Numeri di questo tipo costituiscono test ideali per i programmi generici di verifica di primalità. Da un lato, infatti, hanno semplici
descrizioni algebriche, cioè del tipo xy + yx. E, dall’altro lato, non hanno invece proprietà particolari
programmi
che si
possono sfruttare in
specifici, come ad esempio
succede per i primi di Mersenne.
Immagini: mandala tibetano del secolo XIX;
dipinto su tela dell’universo buddhista con il monte Meru al centro.
Le mandrie del Sole 10206.545
Nel XII canto dell’Odissea (164-168) Circe predice a Ulisse ciò che troverà sbarcando a Tauromenion
in Trinacria, cioè Taormina in Sicilia:
nell’odierna
Allora incontro ti verranno le belle spiagge della Trinacria isola, dove
pasce il gregge del Sol, pasce l’armento: sette branchi di buoi, d’agnelle tanti, e di teste cinquanta i branchi tutti.
A questi versi del poeta Omero rispose, letteralmente per le rime, il matematico Archimede. Il suo singolare poema Il problema dei buoi, di 44 versi, fu inviato come sfida a Eratostene. Poi andò perduto, ma venne ritrovato nel 1773 dal filologo tedesco Gotthold Lessing. Eccone l’inizio in prosa: Amico, tu che possiedi molta scienza calcola,
operando assiduamente, il numero delle mandrie del Sole che pascolavano un giorno sulle
pianure
dell’isola
di
Trinacria,
distribuite in quattro gruppi di diverso
colore: il primo bianco latte, il secondo nero
brillante, il terzo di un fulvo dorato, e il quarto screziato. In
ogni
mandria
c’era
una
quantità
considerevole di tori, così distribuiti. I
bianchi, uguali alla metà aumentata di un terzo dei neri, più tutti i fulvi. I neri, uguali alla quarta parte aumentata della quinta degli
screziati, più tutti i fulvi. I restanti screziati, uguali alla sesta e alla settima parte dei tori bianchi, di nuovo più tutti i fulvi. Amico,
quando
avrai
determinato
esattamente quanti erano i tori del Sole, e avrai stabilito quanti erano di ciascun colore,
non ti si potrà certo chiamare ignorante, né incolto in materia di numeri, ma non potrai ancora essere considerato un sapiente.
Indicando i numeri dei tori dei vari tipi con la corrispondente iniziale del loro colore, la prima parte del problema si traduce in un sistema di tre equazioni:
Bastano i metodi imparati alle superiori per risolvere il sistema di queste tre equazioni. E anche quello di sette che si ottiene aggiungendo altre quattro equazioni, derivate da analoghe condizioni che Archimede pone sulle vacche. Sommando il tutto, si arriva così a un valore minimo di una cinquantina di milioni di capi. Ma il poema non è finito, e continua così: Esamina ora le maniere in cui i tori del Sole erano raggruppati. Quando quelli bianchi si
mescolavano ai neri formavano un gruppo con le stesse misure in profondità
e
larghezza, e le vaste piane della Trinacria erano riempite da questo ammasso quadrato.
I fulvi e gli screziati formavano invece un gruppo
allargava
che,
fino
triangolare.
cominciando a
comporre
con uno, una
si
figura
Amico, quando avrai trovata ed esposta la
soluzione a questo problema, e avrai indicato
i numeri di tutte queste moltitudini, allora riposati e congratulati per la tua vittoria, e
sappi che sarai arrivato alla perfezione in questa scienza.
Questa parte del problema aggiunge due condizioni. Anzitutto, che b + n sia un numero quadrato: cioè, del tipo n2. E poi, che f + s sia un numero triangolare: cioè, del tipo n(n + 1)/2. Il che cambia completamente la musica, e rende il tutto terribilmente complicato. La soluzione è stata trovata solo nel 1880 da due matematici di nome Krumbiegel e Amthor, e il suo valore minimo consiste di un numero enorme con più di 200.000 cifre, pari a circa 10206.545. Il che, paragonato ai miseri 350 buoi immaginati da Omero, mostra
quanto la povera fantasia di un poeta possa essere incommensurabile con la ricca inventiva di un matematico. Dello stesso ordine di grandezza della soluzione al problema di Archimede sono i due più grandi primi gemelli conosciuti, scoperti nel 2011 dal gruppo di ricerca in rete Prime Grid, “Griglia di primi”, analogo a quello per la ricerca dei fattori dei numeri di Fermat:
Di un ordine di grandezza di poco superiore è il repunit (vedi pp. 194, 335-336 e 367) identificato nel 2007 da Maksym Voznyy come “probabile primo”:
Si tratta del più grande repunit “probabilmente primo” conosciuto, e ce ne sono altri tre più piccoli: se fossero tutti confermati come primi, si aggiungerebbero ai cinque già conosciuti, e quello sopra sarebbe il nono repunit primo. Come sappiamo, di primi con una sola cifra diversa da 1 non possono essercene (vedi p. 194), ma ce ne sono “quasi con un’unica cifra”: cioè, con tutte le cifre uguali, meno una. Il più grande primo conosciuto “quasi con un’unica cifra” e palindromo, e dunque con la cifra eccezionale nel bel mezzo, è stato scoperto nel 2013 da Darren Bedwell:
Nettamente superiore è invece l’ordine di grandezza del più grande fattoriale primo conosciuto (vedi p. 289), scoperto nel 2011 dal già citato gruppo Prime Grid:
Immagini: una mandria di mucche al pascolo; una coppia di gemelli.
La biblioteca di Babele 6 10 10
Nel
memorabile
racconto
La
biblioteca di Babele (1941), Borges così descrive l’insieme di tutti i libri possibili: L’universo (che altri chiama la biblioteca) si
compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi
di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani
superiori
e
inferiori,
interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. […]
A ciascuna parete di ciascun esagono
corrispondono
cinque
scaffali.
Ciascuno
scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme.
Ciascun
libro
è
di
quattrocentodieci pagine. Ciascuna pagina, di
quaranta righe. Ciascuna riga, di quaranta lettere color nero.
Supponendo che l’alfabeto abbia 25 simboli, ciascuno dei quali può essere minuscolo o maiuscolo, e che ci siano 10 segni di interpunzione, il
numero dei libri della biblioteca di Babele è dato dalle possibili combinazioni con ripetizioni dei 60 simboli su 410 × 40 × 40 posti, cioè
Per scrivere esplicitamente questo numero servirebbero circa 1.166.468 cifre, e dunque quasi due volumi. Per scrivere invece un catalogo dell’intera biblioteca, le cose si complicherebbero: anche supponendo che il titolo di ciascun volume stesse in una sola riga, l’ordine di grandezza del catalogo sarebbe più o meno quello dell’intera biblioteca, visto che il fattore di compressione sarebbe solo il numero di righe in un volume, che è 16.400.
Praticamente dello stesso ordine di grandezza del numero dei volumi della biblioteca di Babele è il più grande primo conosciuto “quasi con un’unica cifra”, scoperto nel 2013 da Serge Batalov:
Per quanto stratosferico, il numero dei volumi della biblioteca di Babele è stato ampiamente superato da un numero scoperto nel 2013 dal gruppo Great Internet Mersenne Prime Search (GIMPS), “Grande Ricerca su Internet dei Primi di Mersenne”, analogo a quello per la ricerca dei fattori dei numeri di
Fermat. In meno di vent’anni il gruppo ha già stabilito una dozzina di volte il record del più grande primo conosciuto. Attualmente esso è detenuto dal numero scoperto appunto nel 2013:
per scrivere il quale servirebbero circa 17.425.170 cifre, e dunque quasi 27 volumi della biblioteca di Babele. Da esso si ottiene, grazie alla relazione tra i numeri di Mersenne M e i numeri perfetti M(M + 1)/2, il più grande numero perfetto conosciuto:
Borges
non
era
certo
l’unico
letterato affascinato dai grandi numeri. Un altro era James Joyce, almeno stando a questo passaggio di «Itaca», il diciassettesimo episodio dell’Ulisse (1922): Qualche anno prima, nel 1886, quando era occupato con il problema della quadratura del cerchio, era venuto a sapere dell’esistenza di un numero calcolato con relativo grado di precisione da essere di grandezza tale e di
così tante cifre, ad esempio 9 alla 9 alla 9, che una volta ottenuto il risultato, sarebbero stati necessari 33 volumi stampati strettamente di 1.000
pagine,
ciascuna
ottenuta
da
innumerevoli risme di carta India, per
contenere il racconto completo delle sue cifre stampate di unità, decine, centinaia, migliaia,
decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni, decine di milioni, centinaia di milioni, miliardi, il nucleo della nebulosa di
ogni cifra di ogni serie contenendo in breve la potenzialità dell’essere elevata all’estrema
elaborazione cinetica di qualsiasi potenza di qualsiasi delle sue potenze.
Il numero citato da Joyce è:
e per scriverlo servirebbero circa 564 volumi della biblioteca di Babele, parecchio più corti di quelli che aveva in mente Joyce. Se invece di una biblioteca di libri Borges avesse considerato una banca dati universale dei genomi umani, sarebbe arrivato a una cifra ancora più formidabile. Infatti (vedi pp. 137 e 256), il genoma umano è costituito da una stringa di circa tre miliardi di basi azotate, ciascuna scelta da un alfabeto di quattro (G, A, T e C). In tal caso le possibili
combinazioni, che corrispondono alla varietà biologica del genere umano, sono addirittura
Immagini: la biblioteca di Babele illustrata da Érik Desmazières.
Una miriade di “miriadi” 17 10 10
Il più grande numero citato nella Bibbia è la miriade di miriadi, nel Libro di Daniele (VII, 10): Un fiume di fuoco scorreva di fronte a lui, mille migliaia lo servivano, una miriade di miriadi lo assistevano. Si tenne il giudizio, e i libri vennero aperti.
Per noi oggi “miriade” è il nome comune di un grande numero, in accordo con la sua derivazione da myrios, “innumerevole”. Ma per i Greci e gli Ebrei era il nome proprio del numero 10.000, come ricorda ancor oggi la parola “miriagrammo”: cioè, appunto, “diecimila grammi”, o dieci chili. Ma poiché oltre la miriade i Greci non andavano, per nominare numeri maggiori usavano appunto circonlocuzioni quali “miriade di miriadi”, o “miriade di miriadi di
miriadi”, anche se dopo una miriade di ripetizioni si perde ovviamente il conto.
Nel libro a cui alluse nell’Arenario (vedi p. 350), che si chiamava Princìpi ed è andato perduto, Archimede propose di sostituire la pedestre ripetizione unidimensionale delle miriadi con un’innovativa ripetizione bidimensionale chiamata ciclo, definita mediante due operazioni complementari: il passo e l’ordine. Il ciclo di n di ordine 1 parte dal numero n, continua a moltiplicare per n a ogni passo, e si chiude dopo
n passi, arrivando così al numero nn. Finito un ciclo di qualunque ordine, quello di ordine successivo si ottiene nello stesso modo, continuando a moltiplicare per n, ma partendo dal numero d’arrivo del precedente. Il processo si conclude al termine del ciclo di ordine n, arrivando così al numero 2 n(n ). Prendendo come n di partenza una miriade di miriadi, cioè 108, Archimede ottenne alla fine del suo 16 processo il numero (108)(10 ), pari a circa 101017, che lui chiamava «il miriademiriadesimo passo del miriademiriadesimo ordine del ciclo di una miriade di miriadi». La valutazione di Archimede del numero dei granelli di sabbia dell’universo, che noi scriviamo come circa 1063, nella sua notazione
era circa «l’ottavo passo del prim’ordine del ciclo di una miriade di miriadi». Nella notazione greca pre-archimedea, invece, avrebbe richiesto ben sedici ripetizioni della parola “miriade”. Oggi potremmo pensare di sostituire i granelli di sabbia con i ben più piccoli elettroni, e l’universo conosciuto da Archimede con quello ben più grande conosciuto da noi, ma basterebbero comunque circa 10120 elettroni per riempire l’universo. E anche sostituendo gli elettroni con gli infinitesimi volumi di Planck, non si arriverebbe che a circa 10186. In entrambi i casi, così come in tutti gli esempi visti finora, si sta ben sotto il limite raggiunto da Archimede nella sua notazione, che fu superato solo nel Novecento.
A superare il limite di Archimede si arrivò nel 1905, quando un’estensione del metodo usato da Eulero per dimostrare che il sesto numero di Fermat è composto (vedi p. 307) permise a James Morehead di dimostrare che lo è anche il settantaquattresimo numero di Fermat:
Il metodo di Eulero permetteva di restringere la ricerca dei possibili fattori dell’ennesimo numero di Fermat tra i numeri del tipo 2nk + 1, mentre l’estensione permette di restringere ulteriormente la ricerca ai numeri del tipo 2n+1k + 1. Ad esempio, nel caso del sesto numero di Fermat, fattorizzato da
Eulero, il fattore 641 si sarebbe ottenuto non al decimo tentativo, ma al quinto. E anche nel caso del settantaquattresimo numero di Fermat, lo si ottenne al quinto: esso è infatti divisibile per il numero primo Per cinquant’anni, fino all’avvento del computer, questo numero di Fermat rimase il più grande di cui si sapesse che non è primo. Ma negli ultimi cinquant’anni se ne sono trovati di stratosferici: non sorprendentemente, perché la vera sorpresa sarebbe di trovarne uno che invece fosse primo. Immagini: fiume di lava; esempi di “miriadi”: campo
di
tulipani,
la
folla
radunata
a
Woodstock nel 1969.
Torneo perpetuo di scacchi 54 10 10
Nella biblioteca di Babele sono conservati tutti i libri di una certa lunghezza che si possono scrivere con le lettere dell’alfabeto. Analogamente, nel torneo perpetuo di scacchi si assiste a tutte le partite di una certa lunghezza che si possono giocare secondo le regole. La lunghezza di una partita è limitata dal numero di modi in cui si possono disporre i 32 pezzi sulle 64 caselle della scacchiera: infatti, se due disposizioni si ripetono uguali in una partita, ciò che è successo nel frattempo non ha più importanza. E il numero di disposizioni dei pezzi si ottiene notando che ci sono 64 possibili caselle per il primo, 63 per il secondo, eccetera. Si deve cioè fare il prodotto dei numeri da 64 a 33, che è circa 1053.
Le regole del gioco permettono di fare, nel caso più favorevole, 8 mosse per il re, 27 per la regina, 14 per la torre, 13 per l’alfiere, 8 per il cavallo, e 2 per il pedone. Quando tutti i pezzi sono ancora sulla scacchiera, e completamente liberi di muovere, le scelte per ciascun giocatore sono allora: Il numero delle possibili partite è dunque limitato da
Naturalmente, una partita media dura molto meno, e i giocatori hanno a disposizione molte meno mosse. Ma anche supponendo di giocare soltanto 50 mosse, ciascuna di esse scelta ogni volta tra 40
possibilità, si arriva comunque già alla bella cifra di
pari a circa il quadrato del numero di particelle dell’universo.
Immagini: un momento del torneo di scacchi di Wijk aan Zee, in Olanda; alcuni pezzi degli scacchi.
L’Eterno Ritorno 82 10 10
In un brano dei Frammenti postumi, risalente al 1881, Friedrich Nietzsche espone la propria versione combinatoria dell’antica teoria dell’Eterno Ritorno: Il numero delle posizioni, dei mutamenti,
delle combinazioni e degli sviluppi della forza del cosmo è certamente immane, e in sostanza
“non misurabile”. Ma, in ogni caso, è anche
determinato e non “infinito”: guardiamoci da questi eccessi del concetto!
È vero, però, che il tempo nel quale il
cosmo esercita la sua forza è infinito: cioè, la forza è eternamente uguale ed eternamente attiva. Fino ad ora, è già trascorsa un’eternità: dunque, tutti i possibili sviluppi debbono già essere esistiti.
Ma allora lo sviluppo istantaneo dev’essere
una ripetizione, com’era quello che lo ha generato, e come sarà quello che da esso nasce: così è all’infinito, avanti e indietro!
Tutto è esistito innumerevoli volte, perché la condizione complessiva di tutte le forze ritorna eternamente.
Per immaginare, sia pur vagamente, le sovrumane cifre che la teoria di Nietzsche invoca, nel capitolo «La dottrina dei cicli» della
sua Storia dell’eternità (1936), Borges si è avventurato in calcoli di cui in genere solo i matematici si dilettano: Concepiamo un frugale universo di dieci
atomi. (Si tratta, è ovvio, di un modesto
universo sperimentale: invisibile, poiché non lo sospettano i microscopi; imponderabile, poiché nessuna bilancia lo apprezzerebbe.)
Postuliamo anche, sempre d’accordo con la
congettura di Nietzsche, che il numero di mutamenti di quest’universo è quello dei
modi in cui si possono disporre i dieci atomi, variando l’ordine in cui essi sono disposti.
Quanti stati differenti può conoscere quel mondo, prima di un eterno ritorno?
L’indagine è facile: basta moltiplicare 1 ×
2 × 3 × 4 × 5 × 6 × 7 × 8 × 9 × 10, prolissa operazione che ci dà la cifra di 3.628.000.
Se
una
particella
quasi
infinitesima di universo è capace di una simile varietà, poca o nessuna fede dobbiamo
prestare a una monotonia del cosmo.
Ho considerato dieci atomi: per ottenere
due grammi di idrogeno, ce ne servirebbero
molto di più di un miliardo di miliardi. Fare
il calcolo dei mutamenti possibili in quel
paio di grammi – vale a dire, moltiplicare un miliardo di miliardi per ciascuno dei numeri
interi che lo precedono – è già una operazione molto superiore alla mia pazienza umana.
Borges desiste dal calcolare il fattoriale (vedi p. 289) di un miliardo di miliardi, cioè di 1018: ottima decisione, visto che è pari a 20 circa 1010 . Dunque, per scriverlo sarebbero necessari 100 miliardi di miliardi di cifre, pari al contenuto di 150.000 miliardi di volumi della biblioteca di Babele: un’impresa superiore non solo alla pazienza, ma anche alla capacità umana. In ogni caso, le permutazioni
degli atomi di due grammi di idrogeno non sono nulla, rispetto a quelle degli atomi dell’intero universo. Per calcolare queste ultime, dobbiamo considerare il fattoriale di 1080, ottenendo come risultato circa 101082, il cui numero di cifre è superiore al numero degli atomi dell’universo: per scriverlo sarebbe necessario un numero di volumi pari a un decimillesimo di tutti gli atomi dell’universo! Immagini: ammasso globulare nella costellazione dell’Ofiuco.
Grandi balzi in avanti
La corsa dell’umanità verso i grandi numeri non procede a velocità costante, ma accelerata. Anche noi abbiamo seguito questo trend, passando gradualmente nei vari capitoli per le unità, le decine e le centinaia, le migliaia, i milioni e i miliardi, le potenze di 10, e le
superpotenze di 10. Ma anche queste ultime, per quanto stratosferiche, non sono che un passo verso l’impossibile meta del raggiungimento dell’infinito, dal quale lo 0 dista tanto quanto il numero che si chiama Googolplex, è maggiore di tutti quelli che abbiamo fin qui incontrati, ed è definito come 10 elevato a un Googol:
Benché Googolplex sia enorme, e apparentemente fuori della portata della nostra intuizione e comprensione, possiamo comunque dire qualcosa di matematicamente preciso al suo proposito. Ad esempio, né il suo predecessore, né il suo successore sono numeri primi: il primo è divisibile per 3, mentre
nessun fattore primo del secondo è minore di 1.000 miliardi, e il più piccolo conosciuto è
Poiché il fattoriale ci ha spesso portati molto oltre i numeri che stavamo considerando, si potrebbe pensare di usarlo per fare un altro “grande balzo in avanti”. Ma a queste altezze stratosferiche, anche il fattoriale perde smalto e non risulta più di grande aiuto, perché
Si può fare molto meglio andando un passo avanti nella direzione indicata da Joyce (vedi p. 378), e impilando quattro 9 invece di tre:
Di nuovo otteniamo un numero stratosferico, del quale sappiamo comunque dire molte cose: ad esempio, le sue prime tre cifre sono 214, e le ultime tre 289. Ancora maggiori sono due numeri usati nel 1933 e nel 1955 da Stanley Skewes, che in entrambi i casi stabilirono i record per il più grande numero usato in una dimostrazione matematica, e sono rispettivamente
Si trattava, in entrambi i casi, di calcoli legati al problema della densità dei numeri primi. Anche a occhio si vede che il numero π(x)
dei primi fino a x cresce, in percentuale inversa rispetto a x, in maniera quasi perfettamente logaritmica:
Il famoso teorema dei numeri primi, congetturato da Gauss nel 1793 e dimostrato da Jacques Hadamard e Charles Jean de la Vallée-Poussin nel 1896, prova che è effettivamente così: cioè, il rapporto tra il logaritmo ln(x) e la percentuale inversa x/π(x) tende a diventare sempre più uguale a 1. A occhio sembra anche che il logaritmo sia sempre maggiore
della percentuale inversa, ma John Littlewood dimostrò nel 1914 che in realtà le due quantità si sorpassano vicendevolmente infinite volte. I numeri calcolati da Skewes ponevano un limite entro il quale doveva avvenire il primo sorpasso del logaritmo. E la diversità dei suoi due numeri era dovuta al fatto che il primo era calcolato assumendo la cosiddetta ipotesi di Riemann, che riguarda la distribuzione dei numeri primi, e il secondo senza assumerla. In realtà Skewes aveva sparato agli uccellini col cannone, visto che oggi sappiamo che ci sono punti attorno a 10316 in cui si effettua un sorpasso, benché non si sia ancora trovato il più piccolo in assoluto. Un numero ancora più grande di
quelli di Skewes è stato usato in riferimento alla congettura di Catalan, che abbiamo già incontrato parlando del numero 9 (vedi p. 185): la congettura infatti affermava che le uniche potenze non banali che differiscono per un’unità sono 8 e 9. Nel 1976 Robert Tijdeman dimostrò che le potenze che differiscono per un’unità sono al massimo un numero finito, e Michel Langevin calcolò che esse devono trovarsi tutte sotto il numero
Nel 2002 Mih ilescu ha poi dimostrato la congettura di Catalan, abbassando il limite precedente a un misero 9 e rendendo inutile il numero di Langevin, che non ha
nemmeno avuto il privilegio di battere il record di Skewes. Questo infatti (vedi pp. 396-397) era già stato battuto qualche anno prima da un numero incomparabilmente più grande, benché probabilmente altrettanto inutile. In ogni caso, e per quanto possa sorprendere, non è difficile raggiungere vette ancora più alte in maniera semplice. Ad esempio, il più grande esponenziale pandigitale senza ripetizioni, in cui cioè appaiono tutte le cifre da 0 a 9 una volta e una volta sola, è
Continuare
a
scrivere
torri
esponenziali di 10 sempre più elevate diventa però presto ingestibile, sia visivamente che graficamente. Una prima soluzione sta nello smettere di scrivere gli esponenziali in verticale, passando a una notazione orizzontale come quella che si usa comunemente in Internet: ad esempio, scrivendo n x al posto di nx. In tal modo le torri verticali di esponenziali diventano più maneggevoli sequenze orizzontali, come
Ancora più comodo è introdurre, come fece nel 1976 Donald Knuth, una nuova operazione superesponenziale, indicata con n x, che corrisponde a una torre di n a x piani:
Per evitare ambiguità, è bene specificare che i successivi elevamenti a potenza vanno eseguiti da destra a sinistra nella notazione orizzontale, o dall’alto in basso in quella verticale, e non viceversa. Ad esempio:
mentre eseguendo i successivi elevamenti a potenza da sinistra a destra, o dal basso in alto, si avrebbe solo:
Con la nuova notazione possiamo dire che Googolplex, il suo fattoriale e la torre di quattro 9 sono tutti
compresi tra 10 3 e 10 4, i due numeri di Skewes tra quest’ultimo e 10 5, il numero di Langevin tra quest’ultimo e 10 6, e l’esponenziale pandigitale tra 10 7 e 10 8.
Scopriamo così che, benché ormai alla fine del libro, siamo arrivati soltanto all’inizio di una nuova gerarchia di grandi numeri, classificata dal numero di piani delle torri di 10 in essi coinvolte.
Per avere una visione completa della gerarchia super-esponenziale, si devono considerare non soltanto torri di 10 a un numero sempre maggiore di piani, ma anche torri di numeri sempre maggiori. Con la nuova notazione la cosa si può facilmente compendiare nel superesponenziale n n, i cui primi valori nella vecchia notazione sono:
Come si vede, i valori crescono velocissimamente, e in pochi passi
si superano tutti quelli che abbiamo considerato finora. Poi si entra in un territorio sconosciuto, popolato da numeri di inimmaginabile grandezza, che costituiscono i limiti di ciò che si può esprimere con le notazioni comuni che coinvolgono le solite operazioni, incluso l’esponenziale. Immagini:
filastrocche
illustrazione inglesi
del
per
un
1875;
libro
il
di
centro
commerciale Googolplex nel cartone animato Phineas e Ferb.
La torre di Babele nn
Come si può immaginare, una volta che si è imparato il trucco, lo si può ripetere. Per andare oltre la gerarchia super-esponenziale basta dunque definire una nuova operazione super-super-esponenziale,
indicata con n x, che corrisponde a una torre di super-esponenziali di n a x piani:
Si ottiene così una nuova gerarchia, che si può compendiare nel super-super-esponenziale n n. La cosa sembra innocua, almeno finché ci si limita a considerare i primi due valori, che sono 1 e 4 esattamente come prima. Ad esempio:
Ma cessa di esserlo subito dopo, al terzo valore, quando l’esplosione è così violenta da costringerci a
metterci al riparo. Infatti:
Cosa significhi elevare 3 a se stesso per circa 10.000 miliardi di volte è difficile capirlo, visto che già avevamo problemi a capire cosa significasse elevare 10 a se stesso una mezza dozzina di volte. Ma questo ovviamente non è che l’inizio della gigantesca gerarchia super-super-esponenziale, al confronto della quale la gerarchia super-esponenziale appare come una processione di nani. Il gioco che abbiamo iniziato a giocare non ha però motivo di
fermarsi al super-superesponenziale, e può facilmente continuare con la definizione di una nuova operazione super-super-superesponenziale, indicata con n x, che corrisponde a una torre di super-super-esponenziali di n a x piani:
Si ottiene così una nuova gerarchia, che si può compendiare nel super-super-super-esponenziale n n. Ancora una volta la cosa sembra innocua, almeno finché ci si limita a considerare i primi due valori, che sono 1 e 4 esattamente come sempre. Ma al terzo valore di nuovo si assiste a un’esplosione, ancora più devastante della precedente:
Bisogna cioè iterare il superesponenziale di 3 un numero di volte pari a 3 elevato a se stesso per 10.000 miliardi di volte. Il che significa anzitutto elevare 3 a se stesso per 10.000 miliardi di volte (prima volta), poi elevare 3 a se stesso per un numero di volte pari al numero così ottenuto (seconda volta), poi elevare 3 a se stesso per un numero di volte pari al numero così ottenuto (terza volta), eccetera: il tutto, appunto, un numero di volte pari a 3 elevato a se stesso per 10.000 miliardi di volte. Se la cosa, pur nella sua perversità, suona familiare, è perché lo è: tutti questi procedimenti sono infatti “soltanto”
versioni più elaborate di quello inventato da Archimede nell’Arenario, per il calcolo dei granelli di sabbia che potrebbero riempire l’universo (vedi p. 380). Naturalmente, si può continuare a piacere in questo processo di crescita esplosiva, definendo a ogni passo una versione dell’esponenziale ancora più “super” della precedente. Ma, soprattutto, si può compiere un salto di qualità con una versione della funzione definita nel 1927 da Gabriel Sudan e nel 1928 da Wilhelm Ackermann, che compendia tutte le infinite gerarchie “super”-esponenziali che si possono definire, ed estende il processo che abbiamo iniziato
nell’operazione iper-esponenziale:
Ancora una volta i primi due valori sono 1 e 4, e il terzo è il già visto 3 3. Ma il quarto è un numero stratosferico, che lascia confusi già quando si prova a dipanarlo, immaginiamoci a calcolarlo:
Bisogna cioè iterare il superesponenziale di 4 un numero di volte pari a un’iterazione del superesponenziale di 4 un numero di volte pari a
che si ottiene iterando l’esponenziale di 4 un numero di volte pari a un’iterazione dell’esponenziale di 4 un numero di 102
volte pari a circa 1010
.
Benché numeri di questa portata siano al di là di ogni intuizione, in matematica se ne sono usati di molto maggiori. Un’area che sembra richiederli, o almeno invitarli, è ad esempio la cosiddetta teoria di Ramsey, che studia problemi di questo genere: Domanda. Se n punti sono collegati fra loro da segmenti in tutti i modi possibili, in quello
che si chiama un grafo completo, e ciascun collegamento viene colorato in rosso o in blu, quanti punti sono necessari e sufficienti affinché si trovino sempre tre collegamenti dello stesso colore che formano un triangolo?
Risposta. Se si colorano i lati di un
pentagono in rosso e le sue diagonali in giallo, non si trovano triangoli con i lati dello stesso
colore. Dunque, cinque punti non bastano, e almeno sei sono necessari.
Se ci sono almeno sei punti, scegliamone
uno: in esso convergono almeno cinque collegamenti, e almeno tre devono avere lo stesso
colore,
ad
esempio
rosso.
Consideriamo i tre punti ai quali portano questi tre collegamenti: se fra almeno due di
essi esiste un collegamento rosso, si è trovato il triangolo voluto. E se tutti e tre i
collegamenti fra loro sono gialli, anche. Dunque, sei punti sono sufficienti.
Nel 1930 Frank Ramsey pubblicò un teorema generale a proposito di questo tipo di problemi. Da allora, i numeri coinvolti nel suo risultato, e in altri analoghi, hanno spesso dato del filo da torcere ai matematici. Ma mai quanto quelli trovati nel 1971 da Ronald Graham e Bruce Rothschild, che per limitarli hanno usato questo mostro:
Il punto di partenza è il supersuper-super-esponenziale 3 3, che si situa al quarto livello della gerarchia iper-esponenziale di Sudan e Ackermann, e il cui valore
abbiamo già calcolato essere circa
Si salta poi al livello della gerarchia indicato da questo numero, e si calcola il corrispondente iper-esponenziale di 3 indicato da altrettanti . Si continua poi a saltare nello stesso modo nella gerarchia per 64 volte, con balzi sempre più grandi. Al sessantaquattresimo balzo si raggiunge uno stratosferico livello e si calcola il corrispondente iperesponenziale di 3, che è il numero di Graham e Rothschild. Inutile dire che, al momento del suo utilizzo, esso batté il record per
il più grande numero usato in una dimostrazione matematica, e finì nel 1980 nel Guinness dei Primati. Come già i numeri di Skewes, però, anche quello di Graham e Rothschild ha la pecca di essere esagerato per lo scopo che si prefigge. Il limite da esso indicato si può infatti abbassare drasticamente: nel 2013 era già sceso a un relativamente “misero” 2 6, al terzo livello della gerarchia iper-esponenziale. E gli esperti sospettano che possa essere ridicolmente piccolo: cioè, 13 o poco più. Numeri incomparabilmente maggiori sono stati usati nel 1998 da Harvey Friedman, in riferimento a problemi apparentemente banali di questo genere:
Puzzle. Dato un alfabeto finito, chiamiamo
“parola” una sequenza consecutiva di sue lettere. E
data una parola, chiamiamo
“blocchi” le sequenze di lunghezza crescente che si ottengono considerando le sue lettere
dalla prima alla seconda, dalla seconda alla quarta, dalla terza alla sesta, eccetera. Quanto
può essere lunga una parola, se nessun blocco
deve comparire come sottoblocco di uno successivo?
Friedman ha dimostrato che, per qualunque alfabeto finito, esiste una lunghezza massima che una parola con la proprietà descritta può raggiungere. Ma quale sia questa lunghezza dipende ovviamente dal numero di lettere dell’alfabeto. Se ce n’è una sola, la più lunga parola permessa ha lunghezza 3. Un esempio è “aaa”, che ha un solo blocco costituito da “aa”. La
successiva parola “aaaa” ha invece anche un secondo blocco “aaa”, che contiene il primo come sottoblocco. Se ci sono due lettere nell’alfabeto, la più lunga parola permessa ha lunghezza 11. Un esempio è “abbbaaaaaaa”, i cui blocchi sono “ab”, “bbb”, “bbaa”, “baaaa”, “aaaaaa”. L’aggiunta di un’altra lettera alla parola aggiungerebbe un blocco “aaaaaaa” o “aaaaaab”, che contiene il precedente come sottoblocco. Se ci sono tre lettere nell’alfabeto, la più lunga parola permessa ha una lunghezza che è almeno grande quanto questo enorme numero, ottenuto come valore di un esponenziale migliaia di volte “super”:
Quando poi ci sono quattro lettere nell’alfabeto, la più lunga parola permessa ha una lunghezza che è almeno grande quanto un numero che si ottiene in maniera analoga a quello di Graham e Rothschild, ma non saltando successivamente nella gerarchia iper-esponenziale soltanto 64 “misere” volte, bensì un numero stratosferico di volte:
In tal modo, il record di Graham e Rothschild è stato polverizzato. E
questa volta non si tratta di sopravvalutati limiti superiori, che col senno di poi si scoprono non essere necessari. Ma di sottovalutati limiti inferiori, che col tempo possono invece risultare addirittura insufficienti. Questo comunque non è che un nuovo inizio, perché al crescere del numero di lettere dell’alfabeto i numeri in questione diventano sempre più grandi, e competono con l’iper-esponenziale stesso. O meglio, risultano complessivamente essere equivalenti a esso, nel senso che ogni valore dell’iperesponenziale è un limite inferiore alla lunghezza della più lunga parola permessa in qualche alfabeto finito, e viceversa.
Dopo aver esaurito la stratosferica “super”-gerarchia compendiata nell’iper-esponenziale
non è difficile immaginare anzitutto un iper-iper-esponenziale definito come
e poi un iper-iper-iper-esponenziale definito come
eccetera.
Naturalmente questa nuova “iper”-gerarchia si può a sua volta compendiare in un megaesponenziale, che può poi essere esteso a un mega-megaesponenziale, eccetera, in un processo che produce a sua volta una nuova gerarchia. La quale si può compendiare in un mega-megamega-esponenziale, eccetera. E tutta questa “mega”-gerarchia si può a sua volta compendiare in un giga-esponenziale, che è l’inizio di una nuova “giga”-gerarchia. La quale a sua volta si può compendiare in un teraesponenziale, eccetera. Ma neppure in tal modo si raggiunge una fine, perché a loro volta il super-esponenziale, l’iper-
esponenziale, il mega-esponenziale, il tera-esponenziale, eccetera, formano una gerarchia che può essere compendiata in un nuovo punto di partenza, dal quale inizia un nuovo processo analogo al precedente. E così via all’infinito, in sæcula sæculorum. In sæcula sæculorum, però, non significa in æternum. A un certo punto, dopo molti “secoli di secoli”, il processo raggiunge infatti un punto di esaurimento. Ma per poterlo descrivere bisognerebbe prima raccontare un’altra storia, che ha per protagonista l’infinito: quello vero, preciso e matematico, e non le sue caricature letterarie o filosofiche. Anche questo è dunque un nuovo inizio, benché di una storia che rimandiamo a un’altra occasione.
Per questa volta, invece, ci fermiamo qui. Ben consci del fatto che, non appena messo il punto finale, il lettore ci batterà senza sforzo nella gara di matematica dell’evocazione del numero più grande, dicendo semplicemente: «Più uno». Perché è solo l’infinito che non cambia quando gli si aggiunge uno, ma quello non solo non l’abbiamo raggiunto: rimane irraggiungibile, ed equidistante da tutti i numeri finiti, come sono appunto quelli sui quali abbiamo raccontato le nostre storie.
Immagini: La Torre di Babele di Pieter Bruegel il Vecchio; la scultura Diminuire e ascendere di David McCracken, in Australia.
Ringraziamenti a migliaia
1.000 grazie, è ben il caso di dire, a tutti coloro che hanno lavorato sapientemente ai testi e alle immagini per 1.000 ore: Davide Canesi, Alice Cominotti, Daria Figari, Lucia Impelluso e Carlotta Tommasi. 1.000 grazie a Lydia Salerno, che ha curato pazientemente questo libro anche dopo l’esperienza di Come stanno le cose, pur sapendo che l’attendevano 1.000 mal di pancia. 1.000 grazie a Emanuela Minnai
e Rossella Biancardi, Massimo Turchetta e Luca Ussia, per i progetti passati, presenti, e soprattutto futuri: speriamo, appunto, 1.000 altri ancora. 1.000 grazie infine, collettivamente ma sentitamente, a coloro che mi hanno offerto 1.000 suggerimenti e osservazioni: che siano tutti benedetti dall’Aritmetica, ora e sempre.
Bibliografia ordinale
I numeri rilevanti sono scritti in cifre, anche quando nel titolo (dell’originale o della traduzione) comparivano in lettere. − Italo Calvino, Ti con 0 (1967). − John Dos Passos, Numero 1 (1943). − Wislawa Szymborska, 2 punti (2005). − Alexandre Dumas, I 3 moschettieri (1844). − Thomas Eliot, 4 quartetti (1943). − Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5
(1969). Adattamento cinematografico di George Roy Hill (1972). − Luigi Pirandello, 6 personaggi in cerca d’autore (1921). − Eschilo, 7 contro Tebe (-467). − Konrad Lorenz, Gli 8 peccati capitali della nostra civiltà (1973). − Jerome Salinger, 9 racconti (1953). − Agatha Christie, 10 piccoli indiani (1939). Adattamento cinematografico di René Clair (1945). − Paulo Coelho, 11 minuti (2003). − Il’ja Il’f e Evgenij Petrov, Le 12 sedie (1928). Adattamenti cinematografici di Vittorio De Sica (1969) e Mel Brooks (1970). − Honoré de Balzac, Storia dei 13
(1835). − Johann Sebastian Bach, 14 canoni sulle prime otto note del basso delle Variazioni Goldberg (1747). − Jules Verne, Un capitano di 15 anni (1878). − Kersey Graves, I 16 salvatori crocifissi nel mondo. Il cristianesimo prima di Cristo (1875). − André Breton, Arcano 17 (1945). − Johann Sebastian Bach, 18 preludi corali di diversa specie, o di Lipsia (1740-50). − Naomi Shihab Nye, 19 varietà di gazzelle. Poemi del Medio Oriente (2002). − Pablo Neruda, 20 poesie d’amore e una canzone disperata (1924).
−
Stanislas-André Steeman, L’assassino abita al 21 (1939). Riduzione cinematografica di Henri-Georges Clouzot (1942). − Joseph Heller, Comma 22 (1961). Adattamento cinematografico di Mike Nichols (1970). − Fernley Phillips e Joel Schumacher (regista), Il numero 23 (2007). − Anonimo, Il libro dei 24 filosofi (secolo xii). − Constantin Virgil Gheorghiu, La 25a ora (1949). Adattamento cinematografico di Henri Verneuil (1967). − Francesco Berni, 26 lettere famigliari (1833). − Jarrett Schaefer, Capitolo 27. L’assassinio di John Lennon (2007). − Danny Boyle (regista) e Alex
Garland, 28 giorni dopo (2002). − Bruno Dumont (regista), 29 Palms (2003). − Honoré de Balzac, La donna di 30 anni (1842). − Nick Hornby, 31 canzoni (2003). − Eugenio Montale, 32 variazioni (1973). − Ludwig van Beethoven, 33 variazioni su un valzer di Anton Diabelli (1819-23). − Valentine Davies e George Seaton (regista), Il miracolo della 34a strada (1947). − Fernando Pessoa, 35 sonetti (1918). − Katsushika Hokusai, 36 vedute del Monte Fuji (1826-33). − Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum: 37 ballate tratte dalla
storia del progresso (1975). − Arthur Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione in 38 stratagemmi (1831). − John Buchan, I 39 scalini (1915). Adattamento cinematografico di Alfred Hitchcock (1935). − Anonimo, Alì Babà e i 40 ladroni (secolo XVIII). − Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n. 41 Jupiter (1788). − John Dos Passos, Il 42° parallelo (1930). − Mario Lavagetto, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (1991). − Michele Serra, 44 falsi (1991). − Georges Simenon, 45 gradi all’ombra (1934). − Frank Boyce e Michael Winterbottom (regista), Codice
46 (2003). − George Soulié de Morant, I 47 Ronin. Il tesoro dei leali samurai (1927). Adattamento cinematografico di Carl Rinsch (2013). − Robert Greene, Le 48 leggi del potere (1998). − Ernest Hemingway, I 49 racconti (1938). − E.L. James (alias Erika Leonard), 50 sfumature di grigio, di nero e di rosso (2011 e 2012). − Gilles Perrault, Dossier 51 (1969). Adattamento cinematografico di Michel Deville (1978). − Elmore Leonard, 52 Gioca o muori (1974). Adattamento cinematografico di John Frankenheimer (1986).
−
Utagawa Hiroshige, Le 53 stazioni del Tokaido (1833-34). − Wu Ming, ’54 (2002). − Noel Gerson (alias Samuel Edwards), 55 giorni a Pechino (1963). Adattamento cinematografico di Nicholas Ray (1963). − Susan Goldman Rubin, La bandiera americana a 56 stelle. Un regalo dei sopravvissuti di Mauthausen (2005). − Mario Luzi, 57 poesie (1997). − Jonathan Coe, Expo ’58 (2013). − Richard Patterson, I 59 giorni (2005). − Bobby Fischer, Le mie 60 partite da ricordare (1969). − Bob Dylan, Highway 61 Revisited (1965).
−
Julio Cortázar, 62 Modello componibile (1968). − Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, Gruppo 63. La nuova letteratura (1964). − Burt Hochberg, Lo specchio a 64 caselle. Grandi partite di scacchi nella letteratura mondiale (1993). − Félix Guattari, 65 sogni di Franz Kafka (1985). − Barry Levinson, ’66 (2003). − Agnese De Donato, Via Ripetta 67. “Al ferro di cavallo”: pittori, scrittori e poeti nella libreria più bizzarra degli anni ’60 a Roma (2005). − Gigi Rizzi, Io, BB e l’altro ’68 (2010). − Utagawa Hiroshige e Keisai Eisen, Le 69 stazioni del Kisokaido (1834-42).
− Autori Vari, La Bibbia greca dei 70 (secoli -III e -II). − Eugenio Montale, Diario del ’71 e ’72 (1973). − Boris Johnson, 72 vergini (2004). − Dudley Pope, 73 Nord. La battaglia del mare di Barents (1990). − Origene, 74 omelie sul libro dei Salmi (prima metà del secolo III). − Corrado Alvaro, 75 racconti (1955). − Steven Callahan, 76 giorni naufrago nell’Atlantico (1986). − John Berryman, 77 canzoni di sogno (1964). − Rachel Pollack, 78 gradi di saggezza. Il libro dei tarocchi (1998). − Harold Robbins (alias Harold Rubin), 79 Park Avenue (1955).
− Jules Verne, Il giro del mondo in 80 giorni (1873). Adattamenti cinematografici di Michael Anderson (1956) e Frank Coraci (2004). − Stephen King, Miglio 81 (2011). − Steven Mrozek, 82a Divisione Aviotrasportata. La guardia d’onore americana (1997). − Agostino di Ippona, 83 questioni diverse (396). − Helene Hanff, 84, Charing Cross Road (1970). Adattamento cinematografico di David Jones (1987). − Jules Witcover, 85 giorni. L’ultima campagna di Robert Kennedy (1969). − Wendi Kaufman, Elena sull’86a strada (2014). − Achille Campanile, 87 tragedie in due battute (1925).
−
Miles Chapin, 88 tasti. La fabbricazione di un pianoforte Steinway (2006). − Georges Lefebvre, ’89. L’anno della Rivoluzione (1939). − Gian Carlo Grassi, 90 scalate su guglie e monoliti (1987). − Peggy Joyce Ruth, Salmo 91: l’ombrello di protezione di Dio (2004). − Dietrich Bonhöffer e Maria Von Wedemeyer, Lettere d’amore dalla cella 92 (1943-45). − Victor Hugo, ’93 (1874). − Marco Belocchi, ’94 (2013). − Martin Lutero, 95 tesi sulla “Dichiarazione del potere delle indulgenze” (1517). − Antonio Formosa, 96 grammi. Strage di Natale (2007).
− Linda Granfield, 97 Orchard Street, New York: storie di vita degli immigrati (2001). − Raffaele Colapietra, Il ’98. La crisi politica di fine secolo (1959). − Ray Bradbury, Leviatano ’99 (2007). − Gabriel García Márquez, 100 anni di solitudine (1967). − Burton Feldman, 112 Mercer Street: Einstein, Russell, Gödel, Pauli e la fine dell’innocenza scientifica (2007). − Marchese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, o La scuola del libertinaggio (1785). − Antje Strubel, Tupolev 134 (2004). − Art Davidson, Meno 148 gradi Fahrenheit. La prima ascesa
invernale al Monte McKinley (1969). − Jackson Mac Low, 154 quarantine (1990-2001). − Arthur Kinnis e Stanley Booker, 168 precipitano all’Inferno. La vera storia degli aviatori alleati traditi (1999). − Johan Harstad, 172 ore sulla Luna (2008). − Christian Bernadac, 186 gradini. La “Scala della morte” di Mauthausen (1978). − Edwin Hoyt, 199 giorni. La battaglia di Stalingrado (1999). − Aleksandr Solzenicyn, 200 anni insieme (2001 e 2002). − Hapi, 221 Baker Street. L’adamantino Sherlock Holmes (1974).
− Ivano Fossati, 335 (2014). − Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953). Adattamento cinematografico di François Truffaut (1966). − Henri Verneuil (regista), 588, rue Paradis (1992). − Lajos Portisch e Balazs Sarkozy, 600 finali (1986). − Billy Crystal, 700 domeniche (2005). − Ed Stafford, In cammino lungo il Rio delle Amazzoni: 860 giorni, un passo per volta (2011). − Alessandro Baricco, ’900 (1994). Adattamento cinematografico di Giuseppe Tornatore (1998). − Carlo Martigli, 999. L’ultimo custode (2009). − Yasunari Kawabata, 1.000 gru
(1952). − Anonimi Vari, Le 1.001 notti (secoli X -XIV). Adattamenti cinematografici di Raoul Walsh (1924), Ludwig Berger e Michael Powell (1940), Pier Paolo Pasolini (1974), Ron Clements e John Musker (1992). − Edgar Allan Poe, La 1.002a storia di Sheherazade (1845). − Mary Johnston, 1492 (1922). − David McCullough, 1776 (2005). − Lev Trockij, 1905 (1907). − Aleksandr Solzenicyn, Agosto 1914, Ottobre 1916, Marzo 1917 e Aprile 1917 (1971, 1985, 1989 e 1991). − Wystan Hugh Auden, 1° settembre 1939 (1939). − George Orwell, 1984 (1948). Adattamenti cinematografici di Michael Anderson (1956) e
Michael Radford (1984). − Anthony Burgess, 1985 (1978). − Pablo Neruda, 2000 (1974). − Roberto Bolaño, 2666 (2004). − Stuart Maconie, 3.862 giorni. La storia ufficiale dei Blur (1999). − James Ellroy, I freddi 6.000, o Sei pezzi da 1.000 (2001). − Edurne Pasaban, Quattordici volte 8.000 metri (2012). − Roland Emmerich (regista) e Harald Kloser, 10.000 a.C. (2008). − Jules Verne, 20.000 leghe sotto i mari (1870). Adattamenti cinematografici di Georges Méliès (1907), Stuart Paton (1916) e Richard Fleischer (1954). − Mark Twain, L’eredità da 30.000
dollari e altri racconti (1906). − Jacques Fierre, 80.000 miglia su una torpediniera. Racconti di caccia ai sottomarini (1918). − Luigi Pirandello, Uno, nessuno e 100.000 (1926). − Marco Polo, Il milione (1298). Adattamenti cinematografici di Mario Bonnard (1920) e René Clair (1931). − Gideon Hausner, 6 milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann (1961). − Mario Roatta, 8 milioni di baionette. L’esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944 (1946). − Donald Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari. La bizzarra e sorprendente economia dell’arte
contemporanea (2009). − Nike Lestscinska, Sui 20 milioni di cadaveri della Russia bolscevica (1923). − Richard Lupoff, 30 milioni bruceranno vivi (1976). − Raymond Jones, 50 milioni di scimmie (1943). − Raffaello Fava, 100 milioni al Superenalotto (2011). − Jules Verne, I 500 milioni della Bégum (1879). Adattamento cinematografico di Ludvík Ráža (1979). − Benedetto Musolino, Il prestito dei 700 milioni e la riforma delle imposte (1863). − Alberto Moravia, 1 miliardo di anni fa (1979). − Shuntaro Tanikawa, Una
solitudine di 2 miliardi di anni luce (1952). − Carlo Iberti, 3 miliardi nella baia di Vigo (1942). − Iosif Shklovsky, 5 miliardi di bottiglie di vodka sulla Luna. Storie di uno scienziato sovietico (1991). − Arthur Clarke, I 9 miliardi di nomi di Dio (1953). − Neil deGrasse Tyson e Donald Goldsmith, Origini: 14 miliardi di anni di evoluzione cosmica (2004). − Bruno Roghi, 17 miliardi di scommesse sui cavalli (1951). − Abramo Organski, L’affare da 36 miliardi di dollari. Strategia e politica nell’assistenza Usa a Israele (1990). − Forbes Staff, Warren Buffett, il filantropo da 59 miliardi di dollari (2014). − Erin Arvedlund, Madoff, l’uomo
che rubò 65 miliardi di dollari (2009). − Ryu Mitsuse, Dieci miliardi di giorni e 100 miliardi di notti (1967). − Paul McAuley, 400 miliardi di stelle (1988). − Pietro Ingrao, Gennaro Miceli e Giancarlo Pajetta, Lo scandalo dei 1.000 miliardi di lire in Parlamento (1963). − Joseph Stiglitz e Linda Bilmes, La guerra da 3.000 miliardi di dollari. Il vero costo del conflitto in Iraq (2008). − Peter Hartcher, L’uomo bolla: Alan Greenspan e il buco da 7.000 miliardi di dollari (2005). − Robert Kelly, Il furto da 30.000 miliardi di dollari della Federal
Reserve (2014). − Raymond Queneau, 100.000 miliardi di poemi (1961). − Paris Tosen, Una su 500.000 miliardi: la probabilità che tre torri collassino (2014). − Alessandro Wagner, 2 milioni di miliardi. L’incredibile ma vera storia del debito dello Stato (1993). − Sudhansu Tunga, Una perdita di 20 miliardi di miliardi di miliardi. La storia della frana dell’India dopo l’indipendenza (2014).
Bibliografia cardinale
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1963. − Robert Munafo, Notable properties of specific numbers, sito Internet http://mrob.com/pub/math/numb 1996-2014. − Constance Reid, Da zero a infinito. Fascino e storia dei numeri, Edizioni Dedalo, 2010. − David Wells, Numeri memorabili. Dizionario dei numeri matematicamente curiosi, Zanichelli, 1991. Numerologia − Leonard Ashley, Numerologia. Tutti i segreti di un’antica arte divinatoria, Mondadori, 2005. − Eric Temple Bell, Numerology, Hyperion Press, 1979. − Franz Carl Endres e Annemarie
Schimmel, Dizionario dei numeri. Storia, simbologia, allegoria, Red Edizioni, 2006. − Giamblico, Il numero e il divino, Rusconi, 1995. − Arturo Reghini, I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica, Atanòr, 1994. Zero − John Barrow, Da zero a infinito. La grande storia del nulla, Mondadori, 2001. − Graziella Capucci, Adalberto Codetta Raiteri e Giuliana Cazzaniga, Lo zero e il senso comune, Armando Editore, 2001. − Roberto Casati e Achille Varzi, Buchi e altre superficialità, Garzanti, 1996.
− Bruno D’Amore e Martha Isabel Fandiño Pinilla, Zero. Aspetti concettuali e didattici, Erickson, 2009. − Sergio Givone, Storia del nulla, Laterza, 1995. − Denis Guedj, Zero, o Le cinque vite di Aémer, Longanesi, 2007. − Hôseki Schinichi Hisamatsu, La pienezza del nulla. Sull’essenza del buddhismo Zen, Il melangolo, 1980. − Robert Kaplan, Zero. Storia di una cifra, Rizzoli, 1999. − Stefano Moriggi e Elio Sindoni (curatori), Perché esiste qualcosa invece di nulla? Vuoto, nulla, zero, Itaca Libri, 2004. − Alain Nadaud, Archéologie du zéro, Éditions Denoël, 1984. − Carlo Ossola, Le antiche memorie del nulla, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1997. − Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio Editori, 1992. − Brian Rotman, Semiotica dello zero, Spirali, 1997. − Charles Seife, Zero. La storia di un’idea pericolosa, Bollati Boringhieri, 2013. − Franco Volpi, Il nichilismo, Laterza, 1996.
Indice dei nomi
Abbott, Edwin Abbott, [1], [2], [3] Abel, Niels Henrik, [1] Abramo, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Abu Bakr, [1] Ackermann, Wilhelm, [1], [2] Adam, Lambert-Sigisbert, [1] Adamo, [1], [2], [3], [4] Ade, [1]; vedi anche Plutone Adleman, Leonard, [1] Agostino, Aurelio, santo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] Ahmes, [1] Ahura Mazda, [1]
Akbar, imperatore mongolo, [1] Akhenaton, faraone, [1], [2] Al Biruni, [1] Aldrich, Robert, [1], [2] Ali ibn Abi Talib (Alì), [1], [2] Alighieri, Dante, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Al-Khwarizmi, Muhammad ibn Musa, [1], [2] Allah, [1], [2] Allais, Alphonse, [1], [2], [3], [4] Allen, Woody, [1] Amir Khusraw, Yamin ad-din Abu’lHasan, [1] Amis, Martin, [1] Amitabha, [1]; vedi anche Buddha Amon, [1], [2] Amthor, Carl, [1] Ananta, [1] Anassimene, [1]
Angra Mainyu, [1] Anthony, Susan B., [1], [2] Apollo, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Appel, Kenneth, [1] Archimede, [1], [2], [3]-[4], [5]-[6], [7]-[8], [9]-[10], [11] Aristarco di Samo, [1] Aristotele, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Arjuna, [1]-[2] Arrow, Kenneth, [1] Artemide, [1]; vedi anche Diana Artù, [1] Aryabhata, [1] Ashoka, imperatore della Maurya, [1], [2] Atena, [1], [2], [3] vedi anche Minerva Aton, [1], [2], [3] Atum, [1]
Aub, Max, [1] Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore romano, [1] Ausonio, Decimo Magno, [1] Avogadro, Amedeo, [1]-[2] Bach, Johann Sebastian, [1], [2], [3]-[4], [5], [6] Bahá’u’lláh (Mirza Husayn Ali Nuri), [1] Balbo, Lucio Cornelio, [1] Baldassarre, [1] Barabino, Pietro, [1] Barrau, Théophile, [1] Basilide, [1], [2] Batalov, Serge, [1] Beatles, The, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Beato Angelico, Guido di Pietro detto, [1]
Beatrice Portinari (Bice), [1] Beckett, Samuel, [1] Bedwell, Darren, [1] Beethoven, Ludwig van, [1], [2], [3], [4] Bell, Eric Temple, [1] Bendazzi, Anacleto, [1] Benyamin, figlio di Giacobbe, [1] Bernstein, Leonard, [1] Bezzel, Max, [1] Bhaskaracharya (Bhaskara II), [1] Bihari Lal, [1] Boccherini, Luigi, [1] Bogdanov-Belsky, Nikolai, [1] Böll, Heinrich, [1] Boltzmann, Ludwig, [1] Bombelli, Raffaele, [1] Bonaccio, Guglielmo, [1] Boole, George, [1]
Borel, Émile, [1] Borges, Jorge Luis, [1], [2], [3]-[4], [5], [6], [7], [8], [9] Bouvet, Joachim, [1] Brahe, Tycho (Tyge Brahe), [1] Brahma, [1], [2], [3], [4], [5]-[6] Brahmagupta, [1], [2], [3] Brahms, Johannes, [1], [2] Braille, Louis, [1] Brin, Sergey, [1] Brocard, Henri, [1] Brook, Peter, [1] Brown, Dan, [1] Bruegel, Pieter il Vecchio, [1] Brunswick-Lüneburg, duca di, vedi Giovanni Federico Buddha, (Siddharta Gautama) [1], [2], [3], [4]-[5], [6], [7], [8]-[9], [10], [11]-[12] Burger, Dionys, [1]
Cage, John, [1] Calandri, Filippo, [1], [2] Calvino, Italo, [1], [2], [3] Cameron, William, [1] Camus, Albert, [1] Cannizzaro, Stanislao, [1] Cardano, Gerolamo, [1], [2] Carlo Magno, imperatore del Sacro Romano Impero, [1], [2] Carpaccio, Vittore, [1], [2] Carroll, Lewis (Charles Lutwidge Dodgson), [1], [2], [3], [4] Cartesio (René Descartes), [1], [2], [3] Cassiodoro, [1] Catalan, Eugène Charles, [1], [2][3] Cataldi, Pietro, [1] Cavendish, Henry, [1] Cayley, Arthur, [1]
Cela, Camilo José, [1] Cesare, Gaio Giulio, [1] Ch’in Chiu Shao, [1] Chopin, Fryderyk, [1], [2] Chuquet, Nicolas, [1] Cicerone, Marco Tullio, [1], [2] Circe, [1] Clarke, Arthur, [1]-[2] Clementi, Muzio, [1] Cochran, Edward (Eddie), [1], [2] Cohen, Marlene, [1] Colburn, Zerah, [1] Cole, Frank, [1], [2] Coleman, Ornette, [1] Comte, Auguste, [1] Coppola, Francis Ford, [1] Coulomb, Charles-Augustin de, [1] Craxi, Bettino, [1] Crisippo, [1]-[2], [3], [4]
Cronin, James, [1] Crono, [1] Cusano, Nicola, [1] Dal Ferro, Scipione, [1] Dalí, Salvador, [1], [2], [3], [4] Dalton, John, [1]-[2] Darwin, Charles Robert, [1] Davis, Miles, [1] Dean, James, [1] Debreu, Gérard, [1] Dedekind, Richard, [1] Democrito, [1] Demuth, Charles Henry, [1]-[2], [3] Descartes, René, vedi Cartesio Desmazières, Érik, [1] Diaconis, Persi Warren, [1] Diana, [1]; vedi anche Artemide Dick, Philip, [1] Dickens, Charles, [1]
Dijkstra, Edsger, [1] Diofanto, [1] Dioniso, [1], [2] Dirac, Paul, [1] Dostoevskij, Fëdor Michajlovič, [1][2] Douglas, Adams, [1], [2]-[3] Duccio di Buoninsegna, [1] Dumas, Alexandre padre, [1], [2] Dürer, Albrecht, [1], [2] Ecate, [1] Eckhart di Hochheim (Maestro Eckhart), [1] Eddington, Arthur, [1]-[2], [3] Edipo, re di Tebe, [1], [2] Einstein, Albert, [1], [2] Elena, [1] Eliot, Thomas Stearns, [1], [2] Elkies, Noam, [1]
Empedocle, [1] Endrigo, Sergio, [1] Enea, [1] Engels, Friedrich, [1] Ennio, Quinto, [1] Epicuro, [1], [2] Eraclito di Efeso, [1] Eratostene, [1] Erchinger, Johannes, [1] Ercole, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Erodoto, [1] Erté (Romain de Tirtoff), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Eschilo, [1] Esiodo, [1], [2] Etherington, Ivor, [1] Euclide, [1], [2], [3], [4] Eulero (Leonhard Euler), [1]-[2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]-[10], [11], [12]-[13], [14], [15]
Eva, [1], [2], [3] Eyck, Hubert van, [1], [2] Eyck, Jan van, [1], [2] Faloppi (Falloppi), Giovanni di Pietro (Giovanni da Modena), [1] Fan Rong K Chung Graham, [1] Fatima, [1], [2] Fëdorov, Evgraf Stepanovič, [1] Fermat, Pierre de, [1], [2], [3], [4], [5]-[6], [7], [8]-[9], [10], [11]-[12], [13], [14], [15], [16] Ferrari, Lodovico, [1] Feynman, Richard, [1], [2] Fibonacci, Leonardo (L. Pisano), [1], [2] Filolao, [1], [2] Filone di Alessandria, [1], [2] Fischer, Bernd, [1] Fitch, Val, [1]
Fontana, Lucio, [1], [2] Foster, Stephen, [1] Fourier, Joseph, [1] Frege, Gottlob, [1] Frénicle de Bessy, Bernard, [1] Freud, Sigmund, [1] Friedman, Harvey, [1] Frye, Roger, [1] Gabriele, arcangelo, [1] Gaffurio, Franchino, [1] Galilei, Galileo, [1] Gardner, Martin, [1] Garfunkel, Art (Arthur Ira), [1] Garns, Howard, [1] Gaspare, [1] Gauss, Carl Friedrich, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] Gay-Lussac, Joseph Louis, [1]-[2] Geb, [1]-[2], [3]
Gell-Mann, Murray, [1] Gelone II, tiranno di Siracusa, [1][2] Gerione, [1] Gerling, Christian Ludwig, [1] Gershwin, George, [1] Gerson ben Solomon Catalan, [1] Gesù Cristo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] Giacobbe, [1], [2], [3] Gillespie, John Birks (Dizzy), [1] Giona, santo, [1] Giotto, [1] Giovanni da Modena, vedi Faloppi, Giovanni di Pietro Giovanni di Salisbury, [1] Giovanni Evangelista, apostolo e santo, [1], [2] Giovanni Federico, duca di
Brunswick-Lüneburg, [1] Giove, [1], [2], [3], [4], [5]; vedi anche Zeus Giuda Iscariota, [1] Giudici, Giovanni, [1] Giunone, [1] Giuseppe, patriarca, [1] Giuseppe, santo, [1] Giusto di Gand, [1] Glashow, Sheldon, [1] Glennon, Paul, [1] Goes, Hugo van der, [1] Goethe, Johann Wolfgang von, [1] Goodman, Benjamin (Benny), [1] Gorgia, [1] Gormley, Antony, [1] Graham, Ronald, [1], [2]-[3] Grateful Dead, [1] Graves, John, [1]
Greenaway, Peter, [1] Gregorio I Magno, santo, papa, [1] Greimas, Algirdas, [1] Griess, Robert, [1] Grünewald, Matthias (Mathis Neithardt Gothardt), [1] Guénon, René, [1], [2] Gurdjieff, Georges Ivanovič, [1], [2], [3] Guthrie, Francis, [1] Hadamard, Jacques, [1] Haddon, Alfred, [1]-[2] Haken, Wolfgang, [1] Halayudha, [1] Haley, Bill (William John Clifton Haley), [1] Hamilton, William, [1], [2] Hammurabi, re di Babilonia, [1] Hardy, Godfrey, [1]-[2], [3]
Haridatta, [1] Haring, Keith, [1] Haussmann, Elias Gottlob, [1] Haydn, Johann Michael, [1] Heath, Thomas, [1] Heegner, Kurt, [1] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, [1], [2], [3] Heidegger, Martin, [1] Heitz, Arsène, [1] Helmholtz, Hermann von, [1] Hemingway, Ernest, [1] Hermes, Johann Gustav, [1] Hill, Micaiah John Muller, [1]-[2] Hitler, Adolf, [1] Holmes, Susan, [1] Hoppe, Oscar, [1] Horus, [1], [2], [3] Hosseini, Khaled, [1]
Hough, David, [1] Hubbard, Elbert, [1] Hume, David, [1]-[2] Hussein, Saddam, [1] Huxley, Aldous, [1] Iacopo da Lentini, [1] Ibsen, Henrik, [1] Ichazo, Oscar, [1] Imperatore Giallo (Huang Di), [1] Indiana, Robert (R. Clark), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Ipparco, [1]-[2] Ippocrate, [1], [2] Isacco, [1], [2], [3] Isbell, George, [1] Ishtar, [1] Iside, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Jahvé, [1], [2], [3], [4]
James, William, [1], [2] Jeans, James, [1] Jefferson Airplane, [1] Johns, Jasper, [1], [2], [3] Joyce, James, [1], [2] Jung, Carl Gustav, [1], [2] Kandinskij, Vasilij Vasil’evič, [1] Kanigel, Robert, [1] Kant, Immanuel, [1]-[2], [3], [4] Kasner, Edward, [1] Keplero (Johannes Kepler), [1] Klein, Yves, [1] Klimt, Gustav, [1] Knuth, Donald, [1] Kraitchik, Maurice, [1], [2] Krishna, [1], [2] Kronecker, Leopold, [1] Krumbiegel, Bernhard, [1] Kubovy, Michael, [1]
Kubrick, Stanley, [1] Kurosawa, Akira, [1] Lagrange, Joseph-Louis, [1] Laio, re di Tebe, [1] Lakshmi, [1] Lamote de Grignon, Ricard, [1] Lander, Leon, [1] Landry, Fortuné, [1] Langevin, Michel, [1], [2] Lao Tze, [1] Latona, [1] La Vallée-Poussin, Charles-Jean de, [1] Lavoisier, Antoine, [1] Leavitt, David, [1] Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret), [1] Legendre, Adrien-Marie, [1] Lehmer, Derrick, [1], [2]
Leibniz, Gottfried Ephraim, [1], [2], [3]-[4], [5], [6] Le Lionnais, François, [1], [2] Lem, Stanislaw, [1] Lennon, John, [1]-[2] Lenstra, Arjen, [1] Leonardo da Vinci, [1], [2] Leopardi, Giacomo, [1] Lessing, Gotthold, [1] Levi ben Gershon (Gersonide), [1] Lewis, Gilbert, [1] Leyland, Paul, [1], [2] Lia, [1] Libby, Willard Frank, [1] Linneo, Carlo (Carl von Linné), [1] Littlewood, John, [1] Locke, John, [1] Loschmidt, Johann Josef, [1]-[2], [3], [4] Lot, [1], [2]
Luca, apostolo e santo, [1] Lucas, Édouard, [1], [2], [3], [4] Lucifero, [1] Lucrezio Caro, Tito, [1], [2] Lukasiewicz, Jan, [1] Luna, [1]; vedi anche Selene Lutero, Martin, [1] Maestro Eckhart, vedi Eckhart di Hochheim Magnenus, Iohannes Chrysostomus (Jean-Chrysostome Magnen), [1][2], [3] Magritte, René, [1], [2] Mahdi, [1] Maimonide, Mosè, [1] Maitreya, [1]; vedi anche Buddha Malevich, Kazimir, [1] Manganelli, Giorgio, [1] Mann, Thomas, [1]
Mantegna, Andrea, [1] Maometto, [1], [2], [3], [4], [5], [6] Mao Tse-tung, [1] Marciano, Rocky (Rocco Francis Marchegiano), [1] Marco, apostolo e santo, [1] Marcuse, Herbert, [1] Maria la Giudea, [1] Maria Vergine, [1], [2], [3], [4], [5] Marx, Karl, [1], [2] Matteo, apostolo e santo, [1] Matusalemme, [1] Maxwell, James Clerk, [1] May, Kenneth, [1] McCartney, Paul, [1] McCracken, David, [1] McCulloch, Warren, [1], [2] Melchiorre, [1] Mendel, Gregor, [1]
Mendelssohn, Felix, [1] Mersenne, Marin, [1], [2], [3]-[4], [5], [6], [7]-[8], [9], [10]-[11], [12][13], [14], [15]-[16] Michelangelo Buonarroti, [1], [2] Michele, arcangelo, [1] Mih ilescu, Preda, [1], [2] Milton, John, [1] Minerva, [1], [2], [3], vedi anche Atena Miyamoto Musashi, [1] Möbius, August, [1] Monroe, Marilyn (Norma Jeane Baker Mortenson), [1] Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di, [1] Moreau, Gustave, [1] Morehead, James, [1] Mosè, [1], [2], [3], [4], [5]
Mozart, Wolfgang Amadeus, [1], [2], [3] Mucha, Alfons, [1] Murasaki Shikibu, [1] Musorgskij, Modest Petrovič, [1] Muszynski, Joshua, [1] Nabucodonosor II, re di Babilonia, [1] Nadaud, Alain, [1] Napoleone I, imperatore dei francesi, [1] Narmer, faraone, [1]-[2] Nauck, Franz, [1] Nefti, [1], [2] Nerone, Lucio Domizio, imperatore romano, [1]-[2] Nespolo, Ugo, [1] Nettuno, [1]; vedi anche Poseidone Netz, Reviel, [1]
Neumann, John von, [1], [2] Newton, Isaac, [1], [2], [3], [5], [6]-[7] Newton, John, [1] Nicomaco, [1] Nietzsche, Friedrich Wilhelm, [2], [3] Nizami di Ganja (Ganjavi), [1], Noè, [1], [2], [3] Noé, Gaspar, [1] Noel, William, [1] Noether, Emmy, [1] Nolan, Christopher, [1], [2] Norrie, Robert, [1] Novalis (Friedrich Leopold Hardenberg), [1] Nut, [1]-[2], [3], [4] Omero, [1], [2] Opalka, Roman, [1], [2], [3]
[4],
[1], [2]
von
Oppenheimer, Robert, [1] Orwell, George (Eric Blair), [1] Osiride, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Ouspensky, Peter, [1] Ovidio Nasone, Publio, [1] Paganini, Niccolò, [1] Page, Larry, [1] Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, [1] Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), [1] Paride, [1] Parker, Charlie, [1] Parker, Ernst, [1] Parkin, Thomas, [1] Parmenide, [1], [2], [3], [4] Parmigianino, Francesco Mazzola detto, [1]
Parra, Violeta, [1], [2] Parvati, [1] Pascal, Blaise, [1] Pelé (Edson Arantes Do Nascimento), [1] Pellizza da Volpedo, Giuseppe, [1] Perec, Georges, [1], [2], [3]-[4], [5], [6] Pericle, [1] Perrin, Jean Baptiste, [1] Pesellino, Francesco di Stefano, detto il, [1] Pico della Mirandola, [1] Pietro, apostolo e santo, [1], [2] Pingala, [1] Piovani, Nicola, [1] Pirandello, Luigi, [1], [2] Pitagora, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Planck, Max Karl Ernst Ludwig, [1],
[2], [3], [4], [5] Platone, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]-[9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16] Plotino, [1], [2]-[3], [4] Plutarco, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Plutone, [1]; vedi anche Ade Poe, Edgar Allan, [1], [2] Poincaré, Henri, [1], [2] Polifemo, [1] Pompeo Magno, Gneo, [1] Porfirio, [1] Poseidone, [1]; vedi anche Nettuno Powell, Earl Rudolph (Bud), [1] Proclo di Costantinopoli, [1] Pseudo Dionigi Areopagita, [1] Ptah, [1], [2], [3] Queneau, Raymond, [1], [2]-[3], [4]
Quintiliano, Marco Fabio, [1] Rachele, [1] Raffaele, arcangelo, [1] Raffaello Sanzio, [1], [2] Rama (Ramachandra), [1] Ramanujan, Srinivasa, [1]-[2], [3][4], [5], [6], [7] Rameau, Jean-Philippe, [1] Ramsey, Frank Plumpton, [1]-[2] Ravà, Tobia, [1] Rebecca, [1] Recorde, Robert, [1] Reid, Constance, [1] Reisch, Gregor, [1], [2] Remo, [1] Reuleaux, Franz, [1] Reynolds, Osborne, [1] Richelot, Friedrich Julius, [1] Riemann, Bernhard, [1]
Rivest, Ron, [1] Robinson, Raphael, [1] Rodari, Gianni, [1] Rodin, Auguste, [1] Romolo, re di Roma, [1] Rothschild, Bruce, [1]-[2] Rubik, Ernö, [1] Ruffini, Paolo, [1] Russell, Bertrand, [1] Sa’di, [1] Saib Tabrizi, Salam, Abdus, [1] Salviati, Francesco, [1] Sara, [1] Sarasvati, [1] Sartre, Jean-Paul, [1] Scarf, Herbert, [1] Schopenhauer, Arthur, [1] Schröder, Ernst, [1]
Schumann, Robert Alexander, [1] Schwinger, Julian, [1] Scoto Eriugena, Giovanni, [1], [2] Selene, [1]; vedi anche Luna Seth, [1], [2], [3] Seurat, Georges, [1] Severino, Emanuele, [1] Sfinge, [1] Shakespeare, William, [1], [2], [3], [4], [5] Shakti, [1] Shamash, [1] Shamir, Adi, [1] Shao Yong, [1] Shiva, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Shu, [1] Silvestro II (Gerberto di Aurillac), papa, [1] Simon, Paul, [1]
Sin, [1] Skewes, Stanley, [1]-[2], [3], [4] Smith, Harold, [1] Snow, Edgar, [1] Socrate, [1] Soderbergh, Steven, [1] Sonnenschein, Hugo, [1] Spenta Mainyu, [1] Spinoza, Baruch (Benedetto Spinoza), [1] Stein, Gertrude, [1] Stockhausen, Karlheinz, [1] Stravinskij, Igor Fëdorovič, [1] Sturges, John, [1] Sudan, Gabriel, [1], [2] Suddhodana, [1] Tartaglia, Niccolò (Nicola Fontana), [1] Teeteto, [1]
Tefnut, [1] Terry, Gaston, [1] Thabit ibn Qurra, [1] Thot, [1], [2] Tijdeman, Robert, [1] Tolomeo, Claudio, [1], [2], [3], [4], [5] Tommaso d’Aquino, santo, [1] Tomonaga, Sin-Itiro, [1] Torricelli, Evangelista, [1] Trilussa (Carlo Alberto Salustri), [1] Trotsky, Emma, [1] Tubalcain, [1] Turgenev, Ivan Sergeevič, [1]-[2] Turing, Alan, [1] Ulisse, [1], [2], [3] Umar, [1] Uriele, arcangelo, [1] Uthman, [1]
Vairocana, [1]; vedi anche Buddha Vasarely, Victor, [1] Verne, Jules, [1] Virgilio Marone, Publio, [1], [2], [3] Vishnu, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] Voznyy, Maksym, [1] Wachowski, Andy, [1] Wachowski, Lana, [1] Wallis, John, [1] Wantzel, Pierre-Laurent, [1], [2] Warhol, Andy (Andrew Warhola), [1] Watson, Brett, [1] Weil, André, [1] Weinberg, Steven, [1] Welles, Orson, [1] Who, The, [1] Wilansky, Albert, [1]
Wilensky, Robert, [1] Wiles, Andrew, [1], [2] Williams, William Carlos, [1] Wilson, Thomas Woodrow, [1] Wittgenstein, Ludwig, [1], [2] Wu Di, imperatore della Cina, [1] Yama, [1], [2] Yami, [1], [2] Yu il Grande, imperatore della Cina, [1], [2] Zarathustra, [1]-[2] Zavattini, Cesare, [1]-[2], [3] Zeus, [1], [2], [3], [4], [5]; vedi anche Giove Zeusippo, [1] Zhang, Yitang, [1] Zolla, Elémire, [1]
Apparato iconografico
Ugo Nespolo, 103/6, 2010, acrilici su legno ritagliato, dimensioni: cm. Ø 100 © 2014 Ugo Nespolo Tobia Ravà, Silenzi dorati, 2002, resine e tempere acriliche su tela e tavola cm 65 × 90 Pietro Barabino, Due dilettanti di morra, 1865, Genova, Civica Galleria d’Arte Moderna © 2014 De Agostini/Getty Images Jacob Leupold, tavola per contare con le dita, pubblicata in Theatrum arithmetico geometricum, 1727 Pitture rupestri aborigene nel Carnarvon National Park, Australia
© 2014 blickwinkel/Alamy/Olycom Osso d’Ishango, Royal Belgian Institute of Natural Sciences, Bruxelles Bastoni intagliati da conto, XIII sec. © 2014 Mary Evans/AGF Foto 1: Rosario cristiano © 2014 iStockphoto 2: Rosario musulmano © 2014 Joat/Shutterstock 3: Rosario buddhista © 2014 digitalfarmer/Shutterstock Gettoni da calcolo, da Susa, IV millennio a.C., Parigi, Louvre Bolla con gettoni da calcolo, da Susa, verso il 3300 a.C., Parigi, Louvre Tavoletta da conto babilonese, 3200-3000 a.C. 1: Frammento di tavoletta circolare, dalla Biblioteca di Assurbanipal,
Londra, British Museum 2: © 2014 Shutterstock 3: © 2014 Shutterstock Codice di Hammurabi, particolare, 1792-1750 a.C., Parigi, Louvre © 2014 Alamy 1: © 2014 Li Ding/Alamy/Olycom Mazza di Narmer, 3100-2890 a.C., Oxford Ashmolean Museum © 2014 Werner Forman archive/AGF Foto Numeri geroglifici, Tempio di Edfu © 2014 Manor Photography/Alamy/Olycom 1: Occhio di Horus, pendente, tesoro di Tutankhamon, Cairo, Museo Egizio © 2014 Robert Harding Picture Library Ltd/Alamy/Olycom 2: Monile con Horus, Iside e Osiride, 874-850 a.C., Parigi, Louvre © 2014 The Ancient Art & Architecture Collection Ltd/Alamy/Olycom
Stele di Rosetta, 196 a.C., Londra, British Museum Cippo commemorativo con iscrizione fenicia, Museo Archeologico Nazionale, La Valletta, Malta © 2014 Archivio Lessing/Contrasto Abaco, Roma, Museo Nazionale Romano © 2014 Foto Scala su concessione del Ministero Beni e Attività Culturali 1: © 2014 PinkBadger/iStockphoto Nikolai Bogdanov-Belsky, L’aritmetica nella scuola di carità di S. A. Rakinski, 1895, Mosca Tretyakov Gallery © 2014 Heritage/AGF Foto Marlene Cohen, Target Zero © Marlene Cohen 2009. Not to be reproduced without permission of the maker 1: © 2014
TwilightShow/iStockphoto Piastra di Leida, IV sec., Leida, Rijksmuseum voor Volkenkunde © 2014 De Agostini Picture Library/Getty Images 1: © 2014 Lonely Planet Images/Getty Images 2: Orologio del Convento di Nostra Signora di Saidnaya, Siria 3: Antico orologio nel porto vecchio di Barcellona © 2014 Shutterstock Editto dell’Imperatore Ashoka, 238 a.C., Londra, British Museum © 2014 The Trustees of the British Museum/Foto Scala, Firenze Statua di Al-Khwarizmi, Khiva, Uzbekistan © 2014 Melvyn Longhurst/Alamy/Olycom Encyclopaedia Britannica © 2014 Universal Images GroupLimited/Alamy/Olycom
Gregor Reish, Pitagora e Boezio, immagine tratta da La margherita filosofica, 1503, foto © 2014 Ann Ronan/HeritageImages/Foto Scala, Firenze Vishnu and Lakshmi, British Library © 2014 Science Photo Library/AGF Foto Erté, Zero, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze 1: © Walt Disney Co./Courtesy Everett Collection/Contrasto Yellow Submarine, 1968 © 2014 APPLE CORPS, 1968/Mary Evans/AGF Foto Lucio Fontana, Concetto Spaziale #2, 1960, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (NY) © 2014 Albright Knox Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze
Seiko Hirata, Enso, Berlino, Ethnologisches Museum, Staatliche Museen zu Berlin © 2014 Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin Antony Gormley, Vuoto quantico, 2008-2010, collezione privata Robert Indiana, Zero, 1966, collezione privata © 2014 Christie’s Images, London/Scala, Firenze Erté, Uno, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze Akhenaton offre un sacrificio ad Aton, il dio sole © 2014 Archivio Lessing/Contrasto 1: Trimurti © 2014 Thwatchai Piriyakeatsakul/Alamy/Olycom 2: Iside, particolare, Tomba di Horemheb, Luxor, Valle dei Re ©
2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze 1: René Magritte, Decalcomanie, 1966, collezione privata © 2014 René Magritte, ADAGP, Paris/Scala, Firenze 2: René Magritte, Golconde, 1966, Houston (TX), The Menil Collection © René Magritte, ADAGP, Paris/Scala, Firenze 1: © 2014 Hasan Eroglu/Alamy/Olycom Erté, Due, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © Tate, London/Foto Scala, Firenze Tre saggi studiano il simbolo yin-yang, XVIII sec., Londra, British Museum © Heritage/AGF Foto Leonardo da Vinci, Studio di mani femminili, 1490 circa, Royal
Collection Trust © 2014 Her Majesty Queen Elizabeth II, 2014/Bridgeman Images 1: Ptah, particolare degli affreschi della tomba di Nefertari, Luxor, Valle delle Regine © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala 2: Thot, particolare degli affreschi di una tomba, Luxor, Valle delle Regine © 2014 Heritage/AGF Foto Giotto, Giudizio Universale, 13031305, Padova, Cappella degli Scrovegni © 2014 Foto Scala, Firenze 1: © Newmarket Releasing/Courtesy Everett Collection/Contrasto Giovanni da Modena, Inferno, particolare, Bologna, San Petronio © Luciano Romano/Foto Scala, Firenze
Hugo van der Goes, Il peccato originale, 1475, Vienna, Kunsthistorisches Museum © Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin 1: © 2014 Age Fotostock 2: © 2014 Age Fotostock 3:© AGF Photo Erté, Tre, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © Tate, London/Foto Scala, Firenze 1: © axz66/iStockphoto 1: La Triade Capitolina, II sec., Roma, Museo della Civiltà Romana © 2014 DeAgostini Picture Library/Bridgeman Images 2: Trimurti, Grotte di Elephanta, VVIII secolo © 2014 Dinodia Photos/Alamy/Olycom
3: Michelangelo Buonarroti, Sacra Famiglia, 1503-1504, Firenze, Uffizi © 2014 Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali 4: Le statue dei Buddha, Bhaktapur, Kathmandu © 2014 Idreamstock/age foto stock/Contrasto Raffaello, Le tre Grazie, Chantilly Musée Condé © 2014 Foto Austrian Archives/Scala, Firenze Francesco Salviati, Le Tre Parche, Firenze, Galleria Palatina © 2014 Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali Gustav Klimt, Fregio di Beethoven, particolare, 1902, Vienna, Palazzo della Secessione © Erich Lessing Re Magi, Ravenna, S. Apollinare Nuovo © 2014 Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali Lambert Sigisbert Adam, Prometeo, Parigi, Louvre © 2014 Foto Scala, Firenze 1: Gustave Moreau, Edipo e la sfinge, 1864, New York, Metropolitan Museum of Art © 2014 Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze 2: La principessa Turandot, 1926 © 2014 Mary Evans/AGF Foto 1:© 2014 BSIP SA/Alamy/Olycom Separazione tra Abramo e Loth, S. Maria Maggiore, Roma © 2014 Scala, Firenze Dea Kali, Calcutta © 2014 Dinodia Photos/Alamy/Olycom Erté, Quattro, litografia della serie “Numerali”, 1968 Athos, Porthos, Aramis e
D’Artagnan, illustrazione per I Tre moschettieri di Alexandre Dumas © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze Beato Angelico, Evangelisti, Cappella Niccolina, Città del Vaticano © 2014 Foto Scala, Firenze Kumbh Mela, Allahabad, Uttar Pradesh, India © 2014 Giancarlo Majocchi/AGF Foto I quattro re celesti, Beihai Park, Pechino © 2014 Getty Images Albrecht Durer, Malinconia, 1514, New York, The Metropolitan Museum © 2014 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze Francesco di Stefano detto il Pesellino, Le sette Arti Liberali, 1450 circa, Birmingham (Alabama) Birmingham Museum of Art © 2014 Fine Art Images/Heritage
Images/Scala, Firenze Poster commemorativo della prima edizione di “Fabulous”, 1978, Heritage © 2014 AGF Foto Alphonse Mucha, Le stagioni, variante 3 © 2014 Alphonse Mucha, ADAGP, Paris/Scala, Firenze Mappa del mondo di Tolomeo, Londra, British Library © 2014 British Library/ Science photo Library/AGF Foto Erté, Cinque, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze 1: © 2014 Aggie 11/Shutterstock 2: © 2014 tr3gin/Shutterstock 3: © 2014 Nazzu/Shutterstock 4: © 2014 Getty Images Shiva seduto sul fiore di loto tra Parvadi, Subramannya e Ganesh,
Napoli, Museo di Capodimonte © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze Il cosmo egiziano © 2014 Ann Ronan/Heritage Images/Scala, Firenze Salvador Dalí, La Leda atomica, 1949, Figueres, Museo Dalí © 2014 Bridgeman Images 1: Robert Indiana, La cifra cinque, 1963, Washington DC, Smithsonian American Art Museum © 1963 Robert Indiana, 1963 © Foto Smithsonian, American Art Museum/Art Resource/Scala, Firenze 2: Charles Demuth, Ho visto il numero 5 in oro, 1928, New York, Metropolitan Museum of Art © 2014 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze Erté, Sei, litografia della serie
“Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze Mandala tibetano, XIX secolo 1: © 2014 iStockphoto 2: © 2014 LauraD/Shutterstock 3: © 2014 Steve Gettle/Getty Images 1:© 2014 iStockphoto 1: © 2014 Londra, The Natural History Museum/Alamy/Olycom 2: © 2014 Getty Images 3: © 2014 Londra, The Natural History Museum/Alamy/Olycom Erté, Sette, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze 1: I sei Chakra, XIX secolo, collezione privata © 2014 Bridgeman Images
2: Sidney Hall, Orsa maggiore, carta astronomica, 1825, Washington, Library of Congress Prints and Photographs Division 3: Fu Pao-Shih, I sette saggi nel boschetto di Bambù, collezione privata © 2014 Bridgeman Images Biancaneve e i sette nani, 1937 © 2014 Walt Disney Productions/Rue des Archives/AGF Foto Erté, Otto, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze Otto trigrammi del Bagua, particolare © 2014 Topfoto/AGF foto 1: © 2014 travelib/Alamy/Olycom 2: © 2014 Neil McAllister/Alamy/Olycom 3: © 2014 Neil
McAllister/Alamy/Olycom 4: © 2014 Travelib asia/Alamy/Olycom 5: © 2014 Travelib india/Alamy/Olycom 6: © 2014 Craft images/Alamy/Olycom 7: © 2014 Craft images/Alamy/Olycom 8: © 2014 India view/Alamy/Olycom 1: © 2014 BB_Image/iStockphoto 1: © 2014 Biosphoto/AGF foto 2: © 2014 Mircea Bezergheanu/Shutterstock 1: Sigillo con la dea Ishtar nelle sembianze di dea della guerra © 2014 Werner Forman Archive/AGF foto 2: Madonna di Guadalupe, Città del Messico © 2014 Diana Bier
Guadalupe Madonna/Alamy/Olycom Jan van Eyck, L’adorazione dell’agnello mistico, particolare del Polittico di Gand, 1432, Gand, Saint Bavon © 2014 Foto Scala, Firenze Cupola della Roccia, Gerusalemme © 2014 Sean Pavone/Shutterstock Erté, Nove, litografia della serie “Numerali”, 1968, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze Il muro dei nove dragoni, Pechino, Beihai Park © 2014 Yuangeng Zhang/Shutterstock Andrea Mantegna, Il Parnaso, 1497 circa, Parigi, Louvre © 2014 Archivio Lessing/Contrasto Ercole e l’idra, particolare di un vaso etrusco, 525 a.C., Los Angeles, Getty Museum
Il Purgatorio di Dante, XIX secolo © 2014 MaryEvans/Scala, Firenze Ugo Nespolo, Account, 1988, acrilici su legno ritagliato, 70 × 70 cm © 2014 Ugo Nespolo Robert Indiana, Zero, 2003, New York, Park Avenue Malls, Manhattan © 2014 Richard Levine/Alamy 1: Robert Indiana, Tre, 2013, installazione, Londra, Lime Street © 2014 flab/Alamy/Olycom 2: Robert Indiana, Otto, 2003, installazione, New York, Park Avenue Malls, Manhattan © 2014 Richard Levine/Alamy Jasper Johns, 0-9, collezione privata Bodhisatva padampani, Grotte Ajanta, Aurangabad © 2014 Dinodia/age fotostock
Complesso di Borobudur, veduta aerea © 2014 Robert Harding Picture Library Ltd/Alamy/Olycom 1: © 2014 Carlos Amarillo/Shutterstock Jane Wafer, Knitting by numbers 2 Georges Seurat, Uomo appoggiato a un parapetto, 1881 circa, collezione privata © 2014 Bridgeman Images Robert Indiana, One Indiana Square, 1970, collezione privata © 2014 Christie’s Images, London/Scala, Firenze Jasper Johns, 0 through 9, 1961, Londra, Tate Gallery © 2014 Tate, London/Foto Scala, Firenze Atena nasce dalla testa di Zeus, particolare di un’anfora del V secolo a.C., Parigi, Louvre © 2014 Archivio Lessing/Contrasto Specchio con zodiaco e trigrammi,
960-1279, Indianapolis, Museum of Art © 2014 Daniel P. Erwin Fund/Bridgeman Images Robert Indiana, Numbers One through Zero, 2013, installazione, Londra © 2014 Vincent Abbey/Alamy/Olycom Robert Indiana, The Ten Stages Number Sculpture Reflected, 1980, Indianapolis, Museum of Art © 2014 Bridgeman Images Jasper Johns, Numbers in Color, 1958-1959, Buffalo (NY), AlbrightKnox Art Gallery © 2014 Albright Knox Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze Torre umana, Terragona © 2014 Getty Images Robert Indiana, Numbers (Zero), 1980-1983, Indianapolis, Museum of Art
Tobia Ravà, Sequenza rossa, 2006, resine e tempere acriliche su tela 84 × 120 cm Mosaico raffigurante Mosè e le dodici tribù di Israele © 2014 Godong/UIG/Bridgeman Images Eddie Cochran, 1957 circa © 2014 Rue des Archives/AGF Foto Pelé ai Mondiali del 1970 in Messico © 2014 Cesare Galimberti/Olycom Giusto di Gand, Mosè, Urbino, Palazzo Ducale © 2014 Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali 1: © 2014 Getty Images 2: © 2014 bluehand/Shutterstock Tholos di Atena, Delfi © 2014 Motordigitaal/Shutterstock Missione Apollo 11, 1969 Vittore Carpaccio, Storie di S. Orsola:
Apoteosi di S. Orsola, Venezia, Gallerie dell’Accademia © 2014 Foto Scala, Firenze 1: © 2014 LongHa2006/iStockphoto 2: © 2014 Pete Spiro/Shutterstock 3: © 2014 Scott Rothstein/Shutterstock 4: © 2014 Travis Klein/Shutterstock Quella sporca dozzina, 1967, diretto da Robert Aldrich © 2014 Rue des Archives/AGF Foto 1: © 2014 Baloncici/Shutterstock 2: © 2014 Getty Images 1: © Martin Konopka/Thinkstock 2: © Dana2000/Thinkstock Luca Pacioli, La divina proporzione, Icosaedro normale, Milano, Biblioteca Ambrosiana © 2014 Veneranda Biblioteca Ambrosiana/DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze
Salvador Dalí, Ultima cena, Washington, National Gallery of Art © 2014 Bridgeman Images Elias Gottlieb Haussman, Johann Sebastian Bach, 1746, Lipsia, Stadtgeschichtliches Museum, Leipzig © 2014 Universal Images Group/Getty Images Matthias Grunewald, I quattordici Santi Ausiliatori, sportelli dell’altare di Lindenhardt, 1503, Linderant © 2014 Archivio Lessing/Contrasto 1: © 2014 Nuno Andre/Shutterstock Ciclo lunare © 2014 David Carillet/Shutterstock Libro dei morti, particolare, 332-330 a.C., Chicago, Oriental Institute © 2014 Ann Ronan Pictures/Print Collector/Getty Images Sculture erotiche di Khajuraho © 2014 DC
Premiumstock/Alamy/Olycom Andy Warhol, 100 Cans, 1962, Buffalo (NY), Albright-Knox Art Gallery © 2014 Albright Knox Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze Sezione di edificio parigino, illustrazione da Le Magasin Pittoresque, 1883, Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs © 2014 Archives Charmet/Bridgeman Images Duccio di Boninsegna, Apparizione sul lago di Tiberiade, Siena, Museo dell’Opera Metropolitana © 2014 Foto Opera Metropolitana Siena/Scala, Firenze Raffaello, La pesca miracolosa, 151516, Londra, Victoria & Albert Museum © 2014 Foto Scala, Firenze/V&A Images/The Royal Collection, on loan from HM the
Queen Keith Haring, Senza Titolo, 1983, collezione privata © 2014 Christie’s Images, London/Scala, Firenze La bestia del mare, Arazzi dell’Apocalisse, Castello di Angers © 2014 Foto Scala, Firenze Esplosione atomica nel Pacifico, 1967 © 2014 ClassicStock/Alamy/Olycom 1: © 2014 Richard Whitcombe/Shutterstock 2: © 2014 Tobik/Shutterstock 1: © 2014 designaart/iStockphoto Srinivasa Ramanujan © 2014 Science Photo Library/AGF Foto Richard Feynman giving a lecture at CERN © 2014 Cern/Science Photo Library/AGF Foto Portrait de Marin Mersenne (15881648) © 2014 White Images/Scala,
Firenze 1: © 2014 Bozidar Prezelj/Shutterstock Calendario rivoluzionario del 1793 e del 1794 © 2014 Rue des Archives/AGF Foto Frammento del papiro di Rhind, 1550 a. C., Londra, British Museum © 2014 The Trustees of the British Museum c/o Scala, Firenze Henry Matthew Brock, The House That Jack Built, collezione privata © 2014 Christie’s Images, London/Scala, Firenze 1: © 2014 Yes – Royalty Free/Shutterstock Murasaki Shikibu, collezione privata © 2014 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze 1: © 2014 Jiri Kaderabek/Shutterstock
Honoré Daumier, Un avvocato in toga sulle scale del palazzo di Giustizia, Parigi, Musée Carnavalet © 2014 White Images/Scala, Firenze Théophile Barrau, Pierre de Fermat, Tolosa © 2014 Mark Dunn/Alamy 1: © 2014 Rue des Archives/AGF Foto 2001: Odissea nello spazio, 1968 © 2014 M.G.M/Mary Evans/AGF Foto 1: © 2014 Sebastian Kaulitzki/Shutterstock 1: © 2014 KeithBishop/Getty Images 1: © 2014 Ivan Vdovin/Alamy/Olycom Gulbenkian © Raymond Queneau, ADAGP 2014 1: © 2014 iStockphoto Il gioco degli scacchi, dal Shahnama, 1437, Londra, British Library © 2014 Science Photo Library/AGF
Foto 1: © 2014 Popartic/Shutterstock 2: © 2014 PeterVrabel/Shutterstock 1: © 2014 wang song/Shutterstock 1: © 2014 iStockphoto 1: © 2014 Richard MegnaFundamental Photographs, NYC 1: © 2014 Rafal Fabrykiewicz/Shutterstock 1: © 2014 Ewing Galloway/Alamy/Olycom 1: © 2014 Keith Gentry/Alamy/Olycom 1: © 2014 catwalker/Shutterstock 1: © 2014 Andrew McConnell/Alamy/Olycom 1: © 2014 Bygone Collection/Alamy/Olycom 1: © 2014 Viktar Malyshchyts/Shutterstock
1:© 2014 ljh images/Shutterstock Statua di Buddha, Borobudur © 2014 Malherbe Marcel/Age foto stock/Contrasto Monaco tibetano nel monastero di Inwa, Myanmar © 2014 Blaine Harrington III/Alamy/Olycom 1: © 2014 iStockphoto 1: © 2014 Stuart Monk/Alamy/Olycom Érik Desmazières, La biblioteca di Babele, sala dei pianeti, 1997, collezione privata © 2014 Érik Desmazières, ADAGP, Paris/Scala, Firenze Érik Desmazières, Alta galleria circolare, 1998 © 2014 Érik Desmazières, ADAGP, Paris/Scala, Firenze 1: © 2014 Getty Images 1: © 2014 Ekaterina
Pokrovsky/Shutterstock 2: Veduta aerea del concerto di Woodstock, 1969 © 2014 Barry Z Levine/Getty Images 1: © 2014 Koen Suyk/AFP/Getty Images 1 © 2014 David Cook/blueshiftstudios/Alamy/Olycom Edward Lear, illustrazione dal Libro del nonsenso, pubblicato da Frederick Warne & Co., Londra, 1875 circa © 2014 Look and Learn/Bridgeman Images Pieter Bruegel, il Vecchio, La torre di Babele, 1563, Vienna, Kunsthistorisches Museum © 2014 Foto Austrian Archives/Scala, Firenze David McCracken, Diminish and Ascend, 2013, Sydney © 2014 Cameron Spencer/Getty Images
Indice
Prologo. La gara di matematica Le albe del numero Contare con le dita Una taglia sui numeri (L’uomo di Cro-Magnon) Lo snodo del nodo (I primi Cinesi e gli Inca) Si inizia a calcolare (Gli Elamiti e i Sumeri) La posizione missionaria
(I Babilonesi) L’occhio di Horus (Gli Egizi) Alfabeti cifrati (I Greci e gli Ebrei) I giocolieri del pallottoliere (I Cinesi) Lo zero, finalmente (Gli Indiani e i Maya) Le cifre “arabe” (Gli Indiani e gli Arabi) Unità Nulla nostro, che sei nel nulla (0) L’Unità, organo del Partito Monista (1) Un altro paio di manicheismi (2) Non c’è due senza tre (3) Nel segno della croce (4)
Dammi un cinque (5) Lo vedi come sei (6) Sette volte sette (7) L’Ottuplice Via (8) Le code del gatto (9) Cifre Numeri in versi Il pagamento della decima (Base 10) Così parlò il computer (Base 2) La solitudine del numero Uno (Base 1) Far ordine nella creazione Una tartaruga al quadrato (Lo Shu) Avanti e indietro (12345678987654321) Ripetenti promossi (111.111.111)
L’unione fa la forza (1.023.456.789) Madrigali di numeri Decine e centinaia Dieci e lode agli Indiani (10) Per il verso giusto (11) Quella sporca dozzina (12) Nel nome di Bach (14) Il numero di maggior classe (41) La risposta definitiva (42) Divinazione ed erotismo (64) Cento, istruzioni per l’uso (100) La pesca miracolosa (153) Un numero diabolico (666)
Migliaia, milioni e miliardi Mille e non più mille (1.000) Due geni in azione (1.729) Padre Mersenne sbaglia (2.047) Una legge platonica (5.040) Un gioco stomachevole (17.152) Filastrocca egizia (19.607) Che dire di questo numero? (103.049) Rispondere per le rime (840.420) Un terzo genio in azione (635.318.657) L’avvocato Fermat sbaglia (4.294.967.297)
Potenze di 10 Dalle galassie ai neuroni (1011) Centomila miliardi di poemi (1014) Il doppiar degli scacchi (1019) Molecole e moli (1023) Le scimmie dattilografe (1036) La matematica dei 44 Simpson (10 ) Sbatti il mostro in prima pagina (1054) Coincidenze significative (1061) Una tempesta di sabbia (1063) Gli atomi dell’universo (1080)
Superpotenze di 10 Da Google a Googol e ritorno (10100) Il record di Buddha (10421) Tra un’incarnazione e l’altra (106.083) Le mandrie del Sole (10206.545) La biblioteca di Babele (10106) Una miriade di “miriadi” 17 (1010 ) Torneo perpetuo di 54 scacchi (1010 ) 82
L’Eterno Ritorno (1010 ) Grandi balzi in avanti (n n) La torre di Babele (n n)
Ringraziamenti a migliaia Bibliografia ordinale Bibliografia cardinale Indice dei nomi Apparato iconografico