CENTRO SUL TARANTISMO TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI
2010 Patrocinio
CITTÀ DI GALATINA
CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI Il calendario illustrato 2010 proposto dal Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini, e dedicato alla città di Galatina ed al Salento, giunge quest’anno alla sua 9° edizione. Il Centro ha voluto, in questi nove anni, offrire un contributo volto a far conoscere la nostra città valorizzando il suo fervido patrimonio culturale, anche attraverso un excursus storico-letterario e folkloristico che rappresenta la nostra storia e la nostra comune radice. Il calendari calendario o propone, come da tradizione, un viaggio nel passato attraverso la poesia in vernacolo, canti popolari, filastrocche, proverbi, usanze, credenze, leggende, aneddoti. Senza dimenticare di raccontare i profumi e i sapori di piatti “poveri” r ealizzati con i prodotti tipici della nostra terra. L’obiettivo è quello di restituire valore a tradizioni in grado, ancora oggi, di raccontare quello che siamo e quello che, per fortuna, non abbiamo mai smesso di essere, generazione dopo generazione. Quest’anno abbiamo voluto mettere in risalto la fiorente vita culturale galatinese del ‘500, dal genio del letterato poeta e medico Altobello Vernaleone, alla descrizione di alcuni famosi dipinti ubicati nella basilica di Santa Caterina d’Alessandria e nella chiesa dell’Addolorata. Scorrendo i dodici mesi dell’anno 2010, i nostri lettori vedranno emergere un piccolo mondo antico, fatto di usanze e tradizioni che abbracciano i temi del ciclo della vita umana, delle feste, delle dimore rurali, della vita agricola, ma anche della magia, della superstizione e credenze popolari, della reli giosità, dell’arte. Sfogliando il calendario si riscoprirà un tempo in cui i futuri sposi preparavano con cura il loro futuro “nido” arredandolo del necessario, o le nostre nonne attendevano l’arrivo dello “stagnino” per riparare le loro pentole dalla durata secolare. Ai bambini, al risveglio al mattino, si era soliti far bere “lu sieru caddu” che operosi massari portavano in città. Le ragazze ricamavano il “fazzoletto bianco” per donarlo al futuro marito che, con orgoglio, lo sfoggiava nel taschino della giacca. Il Centro si è sforzato, in questi anni di lavoro appassionato, di far rivivere attraverso la lettura del calendario, oltre a notizie storico letterarie, tante piccole note quotidiane di una volta con l’auspicio che, neppure l’implacabile incedere del tempo, possa cancellare i valori tramandati dalla cosiddetta “cultura popolare o minore” (o dell’Italia profonda), una cultura che fa e deve continuare a far parte nel nostro patrimonio e della nostra identità. I L D IRETTIVO
Bibliografia
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Il 21 maggio 2009 sono iniziati i lavori di restauro della Cappella di San Paolo. Il Centro coglie l’occa sione per rinnovare sentiti ringraziamenti al F ondo ondo Ambiente I taliano taliano e alle 1466 persone che nelle giornate del 28-29-30 giugno 2005 hanno contribuito con la propria firma a segnalare a livello nazionale la Cappella di San Paolo come “luogo del cuore”.
Le incisioni che illustrano il calendario sono tratte da: D. Aguglia - Desmouceaux, Costumes de Naples , Naples, Chiurazzi s.d (collezione privata). I disegni delle tarantole sono tratti da incisioni del ‘700 e ‘800. In copertina: Cappella di San Paolo a Galatina (Collezione privata Roberto Cazzato) Le foto dei mesi di giugno e luglio sono tratte rispettivamente da F. Panico, Il vestito bianco e A. Costantini, Guida alle masserie del Salento . La presente pubblicazione è stata realizzata dal Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini. Redazione: Alessandro Mangia, Gaetano Gaballo, Enza Luceri, Luisa Mangia, Ilaria Serafini, Mariateresa
Merico, Marco Sambati, Giampiero Palumbo.
Un particolare ringraziamento a Franco Maglio e al Gruppo Metal.Ma per il sostegno rinnovato in questi anni al nostro Centro. Si ringraziano Luigi Caiuli, Fernando Villani, Maria Rosaria Romano, Biagina Carignani, Angela Chirenti, Marco Marinaci, Antonella Rizzo, Tonino Baldari, Pippi Apollonio, Uccio Antonica e Immacolata Romano, Paolo De Pascalis, Paolo Guido, Natalino De Paolis, Giampiero Donno, Antonio Stanca, Pantaleo Fiore, Salvatore e Rita Congedo le famiglie Stasi-Capani, Cudazzo, Marra-Tedesco, Baldari, Tundo, Renna, galatina2000.com, galatina2000.com, il Corpo di Polizia Municipale di Galatina, il gruppo di musica popolare “Scazzacatarante”. Collanina del Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini “ I Calendari da Collezione, n. 9 ”. La presente pubblicazione ha fini esclusivamente culturali, mirati a valorizzare e promuovere il patrimonio della nostra cultura popolare. Il presente calendario è scaricabile on-line dal sito: www.galatina2000.com Facebook: gruppo “Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini” © 2009 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini - C.so Porta Luce, 2 - Galatina - Tel. 380.5310814 e-mail: tarantate@supere
[email protected] va.it Il Centro rimane aperto ai visitatori dal martedì al sabato (ore 10-12 / 17-19) e domenica (ore 10-12). Stampato in numero 500 copie Edizione fuori commercio - Riproduzione vietata Stampa: Editrice Salentina - Galatina (LE)
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI LA VITA CULTURALE NEL EL‘5 ‘5 OO A GALAT GA LATIN INA A
Galatina - Piazza Gioacchino Toma
I larghi e le piazze di Galatina L’antica piazzola di Galatina era rappresentata dal largo Vignola presso la chiesa delle Anime; a poca distanza si trovava il Sedile o casa dell’Università. In seguito alla costruzione delle nuove mura il Sedile o casa comunale dell’Università fu trasferita nel palazzo del Circolo cittadino, cittadino, nel quale erano allogate anche le carceri (negozio Nuzzo). Le principali piazze attuali sono: quella di S. Pietro, sulla quale sorge la Chiesa Matrice; quella di S. Caterina; quella Orsini, sulla quale trovasi l’attuale palazzo di città (già ospedale di S. Caterina); quella di S. Stefano; ed inoltre, il piazzale di S.Domenico o Fontana (piazza o villa Aligheri); quello G. Toma; quello prospicente l’edificio scolastico (piazzale F. Cesari); quello del largo Anime, sistemato a piazzale, dal quale si imbocca la via Soleto-Martano. M. M ONTINARI, Storia di Galatina a cura di Antonio Antonaci.
Altobello Vernaleone
Altobello Vern Altobello Vernaleone aleone nacque a Galatin Galatinaa nel 1496 e morì il 17 febbraio 1555. Fu letterato, poeta e medico. Egli fece rappresentare, il 24 giugno 1541 nella sua città natale, in ottava rima, la “Presentazione di San Gio: Battista,... recitata pubblicamente nel 1541”. Fu protettore di letterati e fino al 1540 sindaco di Galatina. Ebbe cinque figli: Giovan Paolo, Ottaviano e Leonarda e di essi andava molto orgoglioso, come possiamo notare dal seguente sonetto tratto dal suo “canzoniere”: S’io vivo altiero e colmo letitia pei tre bei figli, docti e virtuosi, mercè del cielo, el qual con rai gratiosi viltà del pecto expulse et avaritia.
Altobello ebbe ebbe due mogli: la prima fu la figlia di Francesco de Basili, detto Monaco (da lei ebbe tre figli: Rocco, Ottaviano e Giovan Paolo); la seconda fu Giulia Guidano, figlia di Mercantonio da cui ebbe una figlia di nome Giulia. L’ultima, Leonarda, (la Saffo di Galatina), che non figura nella numerazione dei fuochi del 1545 di Galatina appare come figlia nel suo canzoniere. Il figlio Ottaviano (o Ottavio) Vernaleone sposò Cornelia Mongiò e fu autore della rappresentazione sacra “La Schiava” eseguita a Galatina il 28 agosto 1569. G. L O BUE, “ Lo spettacolo a Galatina ”
Il Capodanno Salentino
Il giorno della fine dell’anno nei nostri paesi, mancano quei particolari usi e tradizioni che si trovano invece in altre aree culturali. Il passaggio all’anno nuovo è accompagnato dallo sparo di botti... Alla mezzanotte per antica tradizione il sagrestano,, suonava la “sperazio sagrestano “sperazione” ne” per l’anno vecchio, ed ogni famiglia riunita attorno al gioco della tombola festeggiava l’inizio del nuovo anno. Anche oggi si fanno voti augurali per quello nuovo, sperando che il vecchio si sia portato nella morte tutti i mali. Anche il primo giorno dell’anno è considerato nel modo di comportarsi della comunità, al pari del giorno di Natale. Alla generica convinzione di inizio dell’anno ed alla volontà di iniziarlo sotto i migliori auspici, sia astenendosi dal lavoro, sia andando in Chiesa, un motivo contingente e socialmente valido spinge la gente ad andare a Messa. Nelle Messe di Capodanno, infatti, per antica tradizione il Celebrante su informazioni del Comune, riferisce all’Assemblea i movimenti anagrafici della popolazione durante l’anno scorso... Di Capodanno è molto bene guardarsi dal fare qualcosa di male o dall’incorrere in qualche malanno, ecc.: il proverbio dice: “ Cinca face na cosa te Caputannu, face ddhra cosa pè tuttu l’annu”.
(“Chi fa una cosa di Capodanno, fa quella cosa per tutto l’anno”). L. BIANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”
A. QUARANTA, “Marittima un paese del Salento”.
L’E ’Epifan pifan ia e il battesimo di Gesù Bambino La festa che chiude ufficialmente il periodo di Natal Natalee è l’Epi l’Epifania fania che signi significa fica manifestamanifestazione. Al 6 Gennaio sono legate le tradizioni della befana e del battesimo di Gesù Bambino. Il senso della Befana è connesso con l’episodio Evangelico dell’arrivo dei Re Magi e la presentazione dei loro doni. In questo giorno, infatti, nel presepe i Magi si spostano ritualmente vicino la culla, e da questo trae spunto la tradizione diffusissima ovunque del regalo ai bambini. Appendere la calza sotto il camino e la sicurezza che la Befana la notte verrà per portare il dono è per i bambini un momento di gioia sincera... Meno conosciuta è invece l’antica usanza di battezzare il Bambino la mattina dell’Epifania. Solo convenzionalmente però l’Epifania si identifica con il Battesimo di Gesù, che ricorre il 13 Gennaio. L. B IANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”
Nduvinieddhru Tegnu na caniscia de cerase a sera esse, a matina trase.
Lu sciacuddhri: una leggenda popolare È una delle più antiche, scaturita dalla fantasia sempre fervida della gente di casa nostra. Tramandata di generazione in generazione, è tuttora nota nei paesi del Salento, anche se il protagonista assume, ora il nome di Laùro o Laurieddhu (Lecce), ora quello di Uru o Sciacuddhi (a nord di Lecce), ora quello più comune di Scazzamurreddu (Basso Salento). Lo Sciacuddhri è dunque un folletto che, tra le altre, ha il potere straordinario di opprimere con la sua presenza, di procurare procurare incubi notturni, turbamenti, affanni. Egli esercita però questo strano potere solo quando si accorge di essere contrariato dalle persone che vuol tutelare o beneficare. La fantasia popolare lo descrive scr ive come uno spir spirite itello llo inn innocuo ocuo,, alto appena due spanne, bonario, faceto, burlone, ma anche dispettoso, presente nelle case e nelle stalle dei contadini, per i quali prova a seconda dei casi ed in varie maniere, simpatia o antipatia. La tradizione orale ci fa sapere che, se una persona gli è antipatica, questa non ha più pace, nè di giorno, nè di notte. Di giorno, in casa, le fa mille dispetti, di notte si siede pesantemente sulla sua pancia, sino a togliere il respiro. Nella stalla dei contadini si diverte a togliere il mangime alle bestie, ad intrecciare le code e le criniere a muli ed ai cavalli. Se una persona gli è invece simpatica, il folletto si mostra premuroso e spesso l’aiuta a farle individuare il posto dell’acchiatura, sotterrata quasi sempre nei campi o riposta tra i muri spessi di una casa dai vecchi antenati. Dal racconto degli anziani sappiamo che lu “Sciacuddhri” ti chiede: “Vuoi denari o cuperchi (cocci)?”, alla risposta “denari” porta “cuperchi” e viceversa.
L’apertura commerciale commerciale ci sembra sia stata lo stimolo più valido per quella “fiorente vita culturale” che nel ‘5OO ebbe in Galatina il suo nucleo salentino più rappresantativo. E non solo nel campo della filosofia e delle scienze, ma anche, e forse di più, in quello della letteratura. I citati studi di Aldo Vallone sulla “civiltà letteraria a Galatina nel Cinquecento” vanno scoprendo, scopren do, nel period periodo o che stiamo analizzando, “una florida e singolare stagione letteraria come mai era accaduto in altra cittadina di provincia lontana dal centro-motore di Napolicapitale”. I nomi di Leonarda ( la “Saffo di Galatina”), Altobello, Altobello, Giovan Paolo, Orazio e Ottavia Vernaleone sono una rara scoperta che il prof. Vallone ha fatto. E quel che più colpisce non è tanto il fatto di una limpida vena poetica che scorre nei “canzonieri” galatinesi del ‘5OO, quanto quello dell’interesse dell’interesse popolare per certe forme di teatro, come la Schiava (1569) di Ottavia e Orazio Vernaleone, L’adultera (1595) di Silvio Arcudi, che ebbero per teatro le piazze non solo di Galatina, ma anche di molte cittadine della provincia. Il pullulare dei circoli letterari e delle accademie (famose furono quelle degli “Irrisoluti attempati” e, per opposto, dei “Giovani risoluti”), anche se non sempre giovarono alla genuità della produzione letteraria e scientifica, tuttavia stimolarono la cultura nell’ambiente nell’ambiente galatinese: nel senso che molti cittadini, anche tra le classi non aristocratiche, presero la via degli studi universitari nei maggiori centri italiani, quali Padova, Roma, Napoli e Salerno. La cultura, tur a, come il den denaro aro,, comi cominciò nciò a lasc lasciar iare, e, anche se timidamente, le case dei nobili, per scender scen deree in mezz mezzo o al pop popolo olo,, nell nellee clas classi si medie e artigiane, che avevano il culto del risparmio e facevano ogni sacrificio per mandare i loro figli nei grandi centri di studio”. M. M ONTINARI, Storia di Galatina , a cura di A. Antonaci.
(cielo stellato)
Detti popolari
RECITA UN ANTICO PROVERBIO:
“Se rrecorda le vigne a lla chiazza” Per indicare che un determinato nat o fatt fatto o rimo rimonta nta ad epo epoca ca molto remota. Si vuole che anticamente, in una certa zona della Piazza Fontana, esistessero alcune piantagioni di vite.
Ci nasce sfurtunatu li chiove an culu puru se ste ssettatu. Quandu la muscia mmanca, tutti li surici ballanu. Nu pilu de ciucciu nu mmanca a ciuvieddhri. La maleerba crisce sempre! A caddhrina vecchia vole u caddhruzzu ggiovine.
La cucina de na fiata
Gennaio 2010 V 1
Maria Ss.ma Madre di Dio
S 2
Ss. Basilio e Gregorio
D 3
Ss.mo Nome di Gesù
L 4
B. Angela da Foligno
M 5
B. Diego da Cadice, cappuccino
M 6
Epifania
G 7
S. Luciano
V 8
S. Severino - S. Massim Massimoo - S. Erardo
S 9
S. Giuliano - S. Vitale
D 10 Battesimo del Signore L 11 S. Igino M 12 S. Bernardo da Corleone, cappuccino M 13
S. Ilario
G 14 B. Odorico da Pordenone V 15 S. Mauro - S. Efiso - S. Bonito
D 17
S. Antonio abate
L 18 S. Prisca - S. Beatrice M 19 S. Mario - S. Pia M 20 S. Sebastiano G 21 S. Agnese V 22 S. Vincenzo S 23 S. Emerenziana
Ï
Francesco di Sales - S. Babil Babila a D 24 S. Francesco
L 25 Conversione di S. Paolo M 26 Ss. Timoteo e Tito - S. Paola
Lessare e passare le patate al passaverdure, amalgamarle con i vari ingredienti aggiungendo del pane grattugiato q. b. Con le mani inumidite formare dei bastoncini che vanno, ad uno ad uno, passati nel pane grattugiato. Friggere i panzerotti in abbondante olio bollente.
M 27 S. Angela Merici
Curiosità
G 28 S. Tommaso D’Aquino
Le nostre nonne usavano frequentemente le patate per realizzare varie pietanze come i panzerotti ai quali davano oltre la classica forma di bastoncini anche quella di funghetti e tarallini. Le patate, infatti, sono alla base di numerosi piatti “poveri” della cucina galatinese, poichè proprio nelle campagne circostanti, le tipiche “terre rosse”, sono state e sono tuttora coltivate le note “Seglinde” di Galatina. Si tratta di patate dalla forma ovale allungata con la buccia di colore giallo intenso e pasta gialla. Esse avendo trovato un ambiente a loro particolarmente congeniale, sviluppano ineguagliabili caratteristiche organolettiche. Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione ed al suo uso, venne dato dall’oritano Vincenzo Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, il Cuoco Galante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli con siglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane (mescolandola al 50% con farina di grano) e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.
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S 16 Santi Berardo e compagni
PANZEROTTI PANZE ROTTI DE PATATE CU LLA RICOTTA SALATA
Ingredienti: 500 gr. di patate, 1/2 cucchiaio di ricotta salata, 30 gr. di farina, menta tritata, 2 uova, pane grattugiato, sale, pepe .
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V 29 S. Costanzo - S. Aquilino S 30 S. Giacinta de’ Mariscotti D 31 S. Giovanni Bosco - S. Geminiano
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI Le pietre di costruzione: il tufo e il carparo La pietra generalmente adoperata è il tufo friabile nell’interno; nell’interno; le facciate invece per lo più sono rivestite di pietra leccese oppure di càr paro o di calcare compatto. Tanto le strade interne dell’abitato quanto le piazze non hanno una sistemazione razionale, perchè le amministrazioni comunali, per ovvie ragioni, hanno trascurato di provvedere alla compilazione di un piano regolatore, che disciplinasse le costruzioni e la regolarità delle strade. M. M ONTINARI, “Storia di Galatina” a cura di A. Antonaci.
Le case salentine metà ‘800
Galatina - Corso Principe di Piemonte 1940
Gli edifizi privati a Galatina Fra le costruzioni private meritano di essere segnalate quella del palazzo ducale, costruito allorchè Galatina fu dal Re Ferdinando il Cattolico ceduta in feudo alla famiglia Castriota Scanderberg; il palazzo Calofilippi, attuamente Galluccio, in Piazza S. Pietro, stile barocco; pure di stile barocco quello Congedo, già Tafuri in Piazza S. Stefano; di stile rinascimento il palazzo Vernaleone, nel corso Garibaldi, interessante per il portale; il palazzo Vignola, nel largo omonimo, di stile rococò. Meritano speciale speciale attenzione i cortili con scalinata esterna ad arco sorretto da colonne nel corso Garibaldi; il palazzo Greco-Bardoscia nel corso Vittorio Emanuele, di stile rococò; il palazzo Bardoscia-Lubelli in via P. Siciliani. Inoltre sparsi qua e là per la città si trovano capitelli, architravi, architravi, mensole ecc., che meritano di essere segnalati, perchè riprodotti con gusto artistico. M. M ONTINARI, “Storia di Galatina a cura di Antonio Antonaci”
Intervista al Prof. Carlo Minafra Il Prof. Carlo Minafra nell’intervista racconta: “I soci Carlo Guido e Attilio Distante dopo i grandi guadagni nella produzione di un otti ottimo mo vin vino o dec deciser isero o di cost costrui ruire re un grande stabilimento vinicolo. Occasionalmente il 6 febbraio 1947 organizzarono in questo locale un riuscitissimo veglione e incoraggiati dal successo, insieme ad altri soci decisero di costruire l’attuale Ca vallino Bianco con un preventivo di spesa di lire 110 milioni. Il nome al cinema fu dato dalla moglie di Attilio dopo aver assistito a una commedia. Il progetto architettonico non fu studiato nei minimi particolari tanto è vero che solo dopo averlo inaugurato si accorsero della poca profondità del palcoscenico che lo ingrandirono a spesa della strada. L’entra L’en trata ta del cinema era all allee spal spalle le di quella attuale. Durante l’estate, le proiezioni del film avveniv avvenivano ano nell’Arena Cavallino Bianco adiacente al cinema C.B., dove attualmente vi è costruito un gran palazzo. Un’altra curiosità era quella del Ristorante adiacente al cinema (attualmente c’è il negozio di ricambi Fiat) dove si fermavano artisti e cantanti”. G. L O BUE, “Lo spettacolo a Galatina”.
Il Teatro Cavallino Bianco Esso fu inaugurato il 6 febbraio ‘47 con una meravigliosa e indimentica meravigliosa indimenticabile bile serata danzante, ma la grande e vera inaugurazione fu fatta però il 3 febbraio ‘49, con la rappresentazione dell’opera Rigoletto, alla presenza dell’impresario, Antonio De Gioia e del sindaco di Galatina, Carmine D’Amico. L’attuale costruzione fu progettata dall’ingegnere Armando Stasi, mentre il primo progettista fu il barese Giuseppe Basile. Anche il Cavallino Bianco, dopo gli anni ‘70, subì la crisi del cinema ma continuò a vivere grazie alla sua storia che è più legata alle tantissime attività spettacolari: le serate danzanti, gli indimenticabili indimenticabili veglioni, lo spettacol spettacolo o del Li ving e tanti altri spettacoli e conferenze che non hanno fatto calare il sipario sull’attuale cine-teatro. Anzi, tutte queste attività sono indice di una intensa voglia di sopravvivere, avendo già programmato una ricchissima stagione teatrale e cinematografica per il 1994. G. L O BUE, “Lo spettacolo a Galatina”.
Il numero TRE Eccovi alcuni proverbi galatinesi in cui questo numero fa la parte del leone:
Poi ssire sbergugnatu de thre manere: de mamma, de sureddhre e de mujere. Thre sù li suttili: li monaci, li prevati e ci nu tene fili. Monaci, prevati e passari, cazzaloru la capu e lassali. Cuardate de sti thre C: crussupinu, cumpare e cagnatu. Thre cose te fannu murire: stare ntavula e nu mangiare, stare a lu jettu e nu durmire, ‘spettare e nu nbenire.
“Le case, dice il Vanna, sono quasi tutte a due piani, poche ad uno solo. Le abitazioni dei signori per lo più si veggono addobate decentemente, e qualcuna anche con buon gusto”. È questo gusto che noi abbiamo perduto, con tipi di cost costruz ruzion ionii e con stili che non hanno nulla a che fare con l’ambiente caratteristico della nostra Penisola salentina, dove non si dovrebbero costruire case a più di due piani, come appunto scriveva il Vanna nella metà dell’Ottocento! La descrizione del Vanna scende nei particolari: “le stanze per lo più sono coperte a soffitto, salvo le nuove case, che sono a volta. I pavimenti si fanno con particolare miscela di calce, polvere di tufo, e mattoni pesti, e sono sì ben lavorati, che dopo qualche anno acquistano una consistenza marmorea. Si sca vano le fonda fondamenta menta degli edifici alla prof profonondità da 6 a 13 palmi”. M. M ONTINARI, “Storia di Galatina” a cura di A. Antonaci.
GALATINA. IL VEGLION VEGLIONCINO CINO DEI BAMBINI BAMBINI
Lu Cuccurucu
Iu ti cantu lu cuccurucù. Dimmi dimmi che cosa vuoi tu? Io voglio li toi capelli. I miei capelli che cosa li fai? Per far il nido ai passerelli e per cantare lu cuccurucù. Iu ti cantu lu cuccurucù. Dimmi dimmi che cosa vuoi tu? Io voglio il tuo nasu. Il mio nasu che cosa lo fai? Pe’ far la pippa a san Tommasu e per cantare lu cuccurucù. Iu ti cantu lu cuccurucù. Dimmi dimmi che cosa vuoi tu? Io voglio la tua bocca. La mia bocca che cosa la fai? Pe’ scavazzare la pagnotta e per cantare lu cuccurucù. Iu ti cantu lu cuccurucù. Dimmi dimmi che cosa vuoi tu? Io voglio le tue ‘ntrame. Le mie ‘ntrame che cosa le fai? Pe’ far le corde alle campane e per cantare lu cuccurucù.
Nduvinieddhru Su bbenutu de Napuli mposta cu tti nducu na cosa tosta: ccu lla pozza remuddhare la signura ave faticare. (baccalà)
Detti popolari Porta la capu susu la coppula. Ci piscia contruvientu si mmoddhra la camisa. Vutai, vutai, vutai, ma meju de casa mia nu truvai. Lu cecatu se porta pè mmanu e llu curnutu pè mmusu. Pantalone paca pè ttutti.
Nel periodo di Carnevale, a divertirsi non erano solo gli adulti, alcuni oganizzatori ave vano pensato anche ai ragazzi. Per esempio il martedi grasso, il Veglioncino dei Bambini , fu organizzato, sempre al Cavallino Bianco, dalle Dame di Carità, il cui presidente era Luisina Vallone Sticchi. Esso nacque nel 1950 con un semplice scopo: sia per far divertire bambini e ragazzi che, pazientemene, erano stati preparati dalle solerti suore, sia per aiutare i poveri ammalati ai quali andava l’introito della manifestazione. Si trattava di uno spettaco spettacolo, lo, semplice e spontaneo, ricco di canti, danze e scenette che allietavano la serata, alla quale partecipavano centinaia di bambini e ragazzi provenienti da tutta la provincia. Indimenticabile fu la diciottesima edizione (1969) dove si esibirono, dando spettacolo, i bambini dell’Istituto dell’Istituto Immacolata con la notosissima canzone: Zum, Zum, Zum. Il programma della serata, comprendeva anche numeri di altri bambini che ballavano la tarantella siciliana , alcuni che eseguivano la danza spagnola e balletti su musica di Strauss; altri ancora che concludevano con uno spettacolo quadriglia. drigl ia. La gente ricorda, ricorda, tale veglioncin vegl ioncino, o, come uno spetta spetta-colo spontaneo, in cui risaltava la bravura dei piccoli attori che avevano aveva no suscit suscitato ato consen consenso so e applausi appla usi della platea, specia speciallmente per gli errori dei piccoli che li rendevano più simpatici. Sul giornale galatinese, Il Galatino, (dedicato al grande teologo del Cin Cinque quecen cento to Pie Pietro tro Colonna), leggiamo che i partecipanti erano talmente numerosi che nel 1972, la manifestazione raggiunse il tutto esaurito . Questa edizione, come tante altre, fu presentata da Lino Bello, vincitore della seconda edizione di Voci Nuove del 1968. Oggi il Veglioncino dei Bambini continua ancora a vivere a differenza dei grandi veglioni del passato, che sono ormai tramontati, fra fasti e luci, lasciando ricordi indimenticabili indimenticabili a quanti hanno avuto modo di vivere quelle serate spumeggianti e irripetibili. G. L O BUE, “Lo spettacolo a Galatina”
La cucina de na fiata AFRICANI
Ingredienti: 1 kg. di zucchero, 30 tuorli d’uovo.
Lavorare a lungo i tuorli con lo zucchero (la buona riuscita di questo dolce dipende dalla la vorazione dell’impasto che deve essere lunga e molto energica) fino ad ottenere un composto cremoso e omogeneo. Quando il composto si gonfia (in superfice si formano piccole bolle d’aria), lo si dispone a cucchiate in apposite formelle di carta (cm 10x4 con un bordo di cm 2). Le formelle vanno messe in forno caldissimo, ma spento. Quando gli africani sono asciutti, si possono ritirare dal forno. Un tempo questi dolci venivano cotti nel forno a legna. Curiosità
Gli africani chiamati anche dita d’apostolo, per il loro aspetto affusolato, pare che siano nati nel 1793 a Galatina: “ Il calore delle mani che impastano i tuorli d’uovo e lo zucchero deve avvolgere l’amalgama come una carezza voluttuosa ad una donna. Solo attraverso l’energia scaricata le dita acquisteranno un’anima, trasmetteranno la passione alla bocca avida di mordere, come fa l’amante prima di cedere alla marea dei sensi”. Così reciterebbe uno scritto attribuito al pasticcere che nel
XVIII secolo inventò questo dolce. Usato sin dal secolo scorso come alimento energetico e che veniva regalato in particolari occasioni, per la nascita di un figlio, o ai convalescenti e offerto come “cùnsulu” (dono consolatore) ai congiunti di un defunto.
Febbraio 2010 L 1
S. Leonio
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Presentazione del Signore
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S. Biagio
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S. Gilberto
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S. Agata
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S. Paolo Miki
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S. Riccardo
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S. Girolamo E.
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S. Apollonia
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M 10 S. Arnaldo G 11 N.S. di Lourdes V 12 S. Eulalia S 13
S. Benigno
D 14 S. Valentino
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L 15 S. Faustino M 16 Le Ceneri M 17
S. Donato M.
G 18 S. Simeone V 19 S. Corrado S 20 S. Ulrico D 21 Iª di Quaresima L 22 Cattedra di s. Pietro
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M 23 S. Policarpo M 24 S. Fortunato G 25 S. Costanza V 26 S. Nestore S 27 S. Onorina D 28 IIª di Quaresima
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI
Lo Stagnino di Porta Nuova
Galatina: area e confini
LA TAVOL TAVOLA A DI SAN GIUSE GIUSEPPE PPE
Il suo territorio si estende per circa 8193 ettari e comprende terreni costituiti verso l’abitato da argille sabbiose, da sabbioni calcarei a Sud-Est e a Sud, da calcare compatto cretaceo verso Ovest (serra Latronica) e verso il confine col territorio del comune di Corigliano (specchia Murica). I confini di detto territorio non sono determinati da caratteristiche naturali, ma per lo più da strade ordinarie, da fossi di scolo, da muri a secco di divisione di diverse proprietà. Sono inoltre ben precisi e non soggetti a contestazioni con i comuni limitrofi. Mancano del tutto isole amministrative. Esistono invece due isole ecclesiastiche (fraz. Noha-Collemeto). Area del comune in ha. 8’193. Area della provincia ha. 275’939. Percentuale rispetto all’area totale della pro vincia: 2,96. È al terzo posto nell’elenco dei comuni della provincia in ordine decrescente di area. Il comune comprende le due frazio frazioni ni di Noha e Collemeto, centri entrambi di relativa importanza storica locale, ma ben fissati da tradizioni e dalla bontà dei terreni. M. M ONTINARI, “Storia di Galatina” a cura di A. Antonaci
Ogni anno, il 19 marzo, in molti paesi della provincia di Lecce, si rinnova la tradizione della sagra in onore di San Giuseppe. Si tratta di una festa paesana che, secondo gli usi e costumi locali, ha insieme un qualcosa di sacro e di profano, di religioso e di folcloristico. Di origine molto remota, si dice sia stata introdotta nel Salento da profughi albanesi rifugiatisi rifugiatisi in Puglia, nei secoli scorsi, sotto la pressione dei Turchi. La cosiddetta “tàula de San Ciseppe”, allestita per la ricorrenza, consiste in una enorme tavolata con pietanze tipiche molto buone, da consumare, secondo un rito tutto particolare. In orig origine, ine, veniva appa apparecch recchiata iata il giorn giorno o della vigilia in casa di famiglie particolarmente devote, oppure di facoltosi benestanti, per un’opera di carità verso i poveri del paese, che erano gli invitati privilegiati. I commensali dovevano essere in grazia di Dio, a tavola impersonavano alcuni santi ed il più anziano, quello che occupava il posto centrale, era San Giuseppe. Il pranzo prevedeva, a seconda dei paesi, nove o tredici pietanze diverse, ciascuna con un signficato simbolico e rituale particolare. Il piatto fondamentale era la “massa” (nel leccese detta anche “ciceri e tria”), una pietanza a base di taglioline fatte in casa, di semola di grano duro, unite a ceci, cavoli ed altri ingredienti, preparata e condita ancora oggi con una infinità di varianti da paese a paese. L’usanza tradizionale della sagra permane tuttora in alcuni centri salentini, ma i “po veri” non esistono più! A Marittima, anche se non vi è più la consuetudine della “tàula de San Ciseppe”, si usa ugualmente preparare preparare la “massa” per de vozione al Santo, pietanza che viene scambiata tra famiglie di amici. Qualche anno addietro, alcune persone l’iniziativa di organizzare, con il cotributo e la collaborazione di tutti, la tradizione sagra di San Giuseppe celebrata coralmente all’aperto e abbondantemente innaffiata dal buon vino offerto dalla gente del luogo. Nei nostri giorni, per l‘occasione, in ogni casa, di solito, oltre alla “massa” ed ai vari contorni, la tavola viene ingentilita, nel finale, dalla presenza delle zeppole, dolce caratteristico di origine napoletana, che solletica il palato e raddolcisce i fumi del vino. San Giuseppe Giuseppe è il pro protet tettor toree dei falegnami, ed un quadretto votivo con la sua immagine magi ne lo si può trovare trovare fac facilme ilmente nte nei laboratori di falegnameria del paese. A. QUARANTA, “Marittima un paese
“Ti mandu lu Caddara!”
Gli anni ‘30 furono terribili anche per i GalatiLo stagnino di Porta Nuova nesi. La miseria era dilagante, la disoccupazione nel suo bugicattolo annerito, alle stelle. Con salari di fame, le tabacchine prenun taciturno come il suo lavoro, devano la tubercolosi nelle fabbriche di tabacco. alto, i neri capelli e gli anni, “Per cucinare -ricorda Biagio- la povera gente, e ce n’ha, ben portati, non potendo comprare la legna, usava le “còpite” la schiena ricurva sui carboni (risulta della monda delle olive che si raccogliein mano il ferro del mestiere vano in campagna). Non era spettacolo raro veun saldatoio del ‘43, dere in giro braccianti di poco più di cinquanta ripara i radiatori alle auto d’epoca, anni letteralmente piegati in due a causa del duro salda ferri, ottoni e rami, da sempre lavoro svolto sin dall’infanzia. Non era spettacolo a quell’angolo presso Porta Nuova: raro nemmeno vedere la domenica questi stessi san Pietro in piedistallo, contadini sotto i grandi portoni padronali in attesa “mesciu Piethru” nella “nicchia”, di riceve ricevere re l’elem l’elemosina. osina. I senzasenza-tetto tetto venivano resistono il Pescatore e lo Stagnino ospitati in un grande locale in via Tanza, nei pressi alle storiche retate del progresso della stazione ferroviaria, chiamato “cambarone” ora di “fischiulari”, sarti e maniscalchi, (camerone). Le varie famiglie si dividevano lo spaora di funai, ciabattini...e santi; zio con lenzuola appese ai fili di ferro. È inutile chissà se ha “partita” ed un partito, precisare che non c’erano servizi igienici: provvedeva “la caratizza” a svuotare i vasi da notte, come forse per lui le “fatture” d’altre parte era per gran parte delle case di Galaquelle della “macàra” soletana tina. Il giovedì, poi, giorno di mercato, in Piazza e la scheda elettorale un’occasione San Pietro venivano effettuate delle vendite all’inper rivedere la scuola, amata canto di beni pignorati a poveracci insolventi. Si ma non quanto il padre e il suo mestiere, trattava -come è facile intuire- di masserizie di stagnino pure lui coi nonni e i bisnonni, poco va-lore, pignorate dall’Ufficiale Giudiziario e sempre all’angolo sotto Porta Nuova del tempo, un tale soprannominato “Caddara!”. “Ti in via Turati che meglio chiameremmo mandu lu Caddara!”, cioè “Ti faccio pignorare la via degli stagnini, gente nostra casa!”, si diceva scherzosamente per far paura a dei nostri campanili. qualcuno. S. B ELLO, “Di giorno in giorno” C. C AGGIA, “Cronache Galatinesi” , Anni 20-40
del Salento”.
Nduvinieddhru
Tegnu na staddhra china de cavaddhri vianchi a mmienzu unu russu ca tira caggi a tutti quanti. (la lingua e i denti)
Detti popolari Quandu trovi fessi, inchine nu saccu. Nu mantu d’oru ogni vergogna ncuccia. Li sordi suntu comu li paducchi: fattu lu nidu nu sse ne vannu cchiui. Ci cotula lu culu, ceddhru chiama. Bacia ddhra manu ca nu poti mozzacare.
S. Albino
M 2
s. Basileo martire
M 3
S. Cunegola
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S. Casimiro
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S. Foca
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S. Marziano
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IIIª di Quaresima
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S. Giovanni di Dio / Festa della donna
M 9
S. Francesca R.
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M 10 S. Emiliano G 11 S. Costantino V 12 S. Massimiliano S 13
S. Rodrigo
D 14 IVª di Quaresima L 15 S. Cesare
M 17 Le pietanze sulla tavola di San Giuseppe Sui tavoli, accanto alla “massa” si dispon disponevano evano generalmente genera lmente (esiston (esistono o però sfumature diverse da zona a zona) le segu seguenti enti pietanze: pietanze: buc bucatin atinii al miel miele, e, “pampasciuni” preparati in diverse maniere, “ronchettu in umitu” e poi una serie di fritture, dal pesce al baccalà, al cavolfiore. Ed infine “pittule”, vari tipi di frutta fresca e secca, e vino buono. Completamente assente la carne. A tavola, inoltre, facevano bella mostra gigantesche corone di pane, confezionate appositamente per l’occasione dai forni locali. A. QUARANTA, “Marittima
un Paese del Salento”
La cucina de na fiata
“Marittima un Paese del Salento”.
L 1
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M 16 S. Eriberto V.
“La Madonna di Costantinopoli e i balli tradizionali” La danza ha origini remote. In tutte le epoche storiche e presso tutti i popoli della terra è stata praticata, collettivamente o individualmente, con finalità diverse, che vanno dal sacro al rituale, al magico e al profano. Nel tempo, ha via via registrato consistenti variazioni (tecniche, coreografiche ed estetico-espressive) di pari passo con la evoluzione del costu me e col progresso acquisito dai vari ceti sociali. Danze folcloriche, di ispirazione colta o popolare, si sono avute nel passato in tutti i paesi d el bacino Mediterraneo. Nel Medioevo, la danza fu sempre osteggiata dalla Chiesa che la considerava come veicolo di immortalità e di dissolutezza. Dalle corti signorili ben presto fu trasferita come puro divertimento, in uoghi pubblici, dove fu praticata da tutte le classi sociali. Divenne così ballo popolare, che, come trattenimento sociale, fu esercitato e si affermò nel Rinascimento i n tutta Europa e quindi in Italia; a poco a poco, si diffuse poi nei piccoli paesi per solennizzare alcune ricorrenze di rilievo: onomastici, compleanni, sposalizi, feste natalizie (famosi i quattro salti in famiglia), Carnevale. Il ballo solitamente era accompagnato da musica strumentale e spesso anche da canti che scandivano il ritmo, conferendo maggiore espressività ad ogni movimento collettivo o individuale. I balli popolari tradizionali costituiscono oggi un patrimonio di cultura folclorica che merita di essere conosciuta e valorizzato. In terra salentina, i più antichi balli popolari sono: la tarantella e la pizzica-pizzica, e poi il valzer, la quadriglia, la marzurka e la pòlka. Il valzer, nato nell’ultima metà del Settecento (Parigi- Vienna), la mazurka (in Polonia), la quadriglia (in Francia), la polka (in Boemia) sono tutti balli di origine non mediterranea, che assursero a grande popolarità nei vari paesi europei nel secolo XIX, ed ancora oggi sono molto diffusi e praticati nei nostri paesi. La tarantella è una danza dal movimento vivacissimo, di origine napoletana, praticata fin dal XIV secolo. I danzatori, uo mini e donne, si accompagnano col tamburello a sonagli per scandire ritmicamente i loro movimenti, e nelle varie figurazioni riproducono le movenze parossistiche dei tarantolati. La pizzica-pizzica, anch’essa una danza antica, dal movimento assai vivace, viene ballata in coppia al suono della musica. Un tempo non molto lontano a Marittima, la pizzica-pizzica, per una vecchia usanza, si ballava, in piazza, a conclusione della festa della Madonna di Castantinopoli (primo martedì di marzo), con l’accompagnamento della banda, che, per l’occasione, apportava una variante al programma prestabilito, cedendo alle continue pressioni dei ballerini del luogo (assidui frequentatori delle putèche). A. Q UARANTA ,
Marzo 2010
CICORECRESTE CICORECREST E CU LL LLE E PURPETTI TTINE NE
Ingredienti: 1 kg. di cicorine selvatiche, 100 gr. di formaggio pecorino grattugiato, “spun-
zali”, sedano, olio.
Ingredienti per le polpettine: 300 gr. di carne di vitello macinato, 1 uovo, 50 gr. di formaggio pe-
corino grattugiato, 50 gr. di pane grattugiato, prezzemolo tritato.
Ingredienti per il brodo vegetale: 1 patata, 1 cipolla, 1 carota, sedano, prezzemolo, qualche fo-
glia di bietola, olio, sale. Impastare la carne tritata con i var i ingredienti; formare delle polpettine e cuocerle per dieci minuti nel brodo vegetale bollente. Pulire le cicorine, lavarle e sbollentarle in acqua salata. Sistemarle in un “tianu” sul cui fondo si sono sistemati gli “spunzali”, e il sedano tritato; aggiungere le polpettine con un po’ di brodo vegetale, spolverare il tutto con del formaggio, condire con olio fresco e infornarle a 180°.
S. Patrizio
G 18 S. Cirillo di Ger. V 19 S. Giuseppe S 20 S. Claudia Quaresima ma D 21 Vª di Quaresi
L 22 S. Benvenuto M 23 S. Turibio
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M 24 S. Fortunato G 25 Annunciazione M.V. V 26 S. Eginardo S 27 S. Augusta D 28 Le Palme
Curiosità -- Le Curiosità Le foje m bische
Le nostre nonne chiamavano le “cicorine creste” raccolte nella campagna salentina “foje mbische” perchè erano formate da un’ampia varietà di verdure selvatiche. Un tempo tutti si recavano a raccoglierle ed erano capaci di riconoscere i vari tipi di foje mbische (almeno una decina). Le nostre nonne cuocevano le cicorine servendosi della pentola media che avevano vicino al camino, la “caddara”, insieme a quella più grande “lu caddarottu” e a quella più piccola “lu caddaruttieddhru”. Queste pentole duravano tutta la vita di una buona massaia e quando era necessario venivano riparate dallo stagnino. Il mestiere dello stagnino è ormai del tutto scomparso, ma a Galatina ancora resiste poichè “mesciu Piethru” (Pietro Giaccari) lo esercita ancora nella sua bottega in via Turati, vicino alla Porta Nuova. Ce lo descrive nella bella poesia a lui dedicata Don Salvatore Bello: “Lo stagnino di Porta Nuova”.
L 29 S. Secondo M 30 S. Guido M 31 S. Beniamino
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI Galatina, la tela della Crocifissione nella Chiesa dell’Addolorata La tela della crocifissione, in preziosa cornice, è anch’essa negli schemi più diffusi delle preferenze stilistiche della fine del Seicento; specialmente la zona sinistra risponde a tutta una tecnica particolare, con la luce diffusa dalla persona del Cristo pendente dalla Croce e illuminante cavallo e cavaliere (il Longino nell’atto di vibrare il colpo al costato del Crocifisso), in un impeto di linee e un giuoco di chiaroscuri che dà movimento a tutto l’assieme e che contrasta con la staticità della zona destra. Alle spalle del Crocifisso, la cupola del tempio di Gerusalemme si mostra di luce riflessa e dà un senso di tragicità allo spettacolo cosmico dell’ora sesta di quella fatidica giornata di Parascere. Tutti gli angeli che circondano dallo esterno il riquadro in cui è incorniciata la tela della Crocifissione danno un tono di distrazione, che in realtà non si addice all’ambiente. MONS. A. ANTONACI, “La Chiesa dell’Addolorata in Galatina”
Lli ggermogli ti lu sipurcru Gruppo familiare galatinese 1932
Sabato Santo La mattinata di questo ultimo giorno è interamente legata al lavoro di disfare il Sepolcro, di conservare nelle nicche le statue, e di preparare il panno e la cerimonia della Resurrezione. Si guasta il Sepolcro e con i suoi fiori si orna l’Altare Maggiore. Tutti quelli poi che hanno portato il vaso di grano germogliato, vengono a riprenderselo ed è interessante conoscere la fine che esso fa. Lo si brucia a casa, o lo si seppelli seppellisce sce in campagna a tutela Divina per i raccolti, anche perchè non è bene che quel grano che ha presenziato al sepolcro sepolcro,, possa essere profanato. profanato. LUIGI BIANCO, “ Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”
Noha: il Calvario
Merita pure di essere ricordato in queste pagine il Calvario. La costruzione, tutta in pietra leccese, si trova vicino alla Cappella della Madonna di Costantinopoli. Sul pinnacolo del tempietto-porticato domina una croce in ferro battuto. Sul timpano del calvario è scolpito a rilievo sulla pietra un triangolo al cui centro c’è un occhio: l’occhio di Dio. Sulle pareti del Calvario sono pitturate in “affresco” alcune scene della passione di Gesù: nel “quadro” al centro è ritratto Cristo in croce ai cui piedi stanno Sua Madre e San Giovanni; nell’icona a sinistra, Cristo in ginocchio nell’orto degli ulivi recita il suo “Fiat volumptas tua”; nel dipinto a destr destraa è raffi raffigurat gurato o l‘incontro di Cristo con la Veronica nel corso della Via Crucis. L’affresco è opera di Michele D’Acq D’Acquaric uaricaa (Noha 18861886-Cutro Cutrofian fiano o 1971). Sempre dello stesso autore si conser va pitturata in affresco in Via S. Rita l’immagine di S. Michele Arcangelo. Contrariamente all’iconografia canonica che vuole che siano rappresentate tre croci (quella al centro di Gesù e quelle ai lati dei due ladroni: il buono ed il cattivo), nel Cal vario di Noha sono piantate su tanti massi, posti alla base dell’edificio, cinque croci in legno della stessa grandezza: segno che nel cal vario di Cristo c’è posto per le croci di tutti. Il Venerdì Santo tutto il popolo ci va in processione portando la statua del Cristo morto seguito dalla Madonna Addolorata per i riti della Passione. Il calvario di Noha non “funziona” soltanto nel corso della Settimana Santa: non c’è giorno dell’anno che qualche devoto cittadino faccia mancare a quel sacro luogo la luce di un lumino, il profumo dei fiori freschi, il sospiro di una preghiera. F. D’ ACQUARICA ACQUARICA. A. M ELLONE, “ Noha, storia, arte, leggenda”
LA SCAMPAGNATA DI PASQUETTA Con il mercoledì delle ceneri, nella socieyà contadina dunque, si entra nel vivo della Quaresima e si do vevano osservare tutti i tabù che la «curemma” appena imponeva. Tra questi l’astinenza che non era soltanto dalle carni. Per tutta la Quaresima infatti, si proibiva anche di mangiare uova, latte e tutti i suoi derivati. Le massaie, dunque, cominciavano l’accumulo delle uova delle proprie galline durante questo tempo, e talvolta raggiungevano centinaia,ma nessuno si permetteva di mangiare un uovo in Quaresima. Si sarebbe fatta la scorpacciata di uova lesse nel lunedì di Pasqua, durante la tradizionenale scampagnata che oggi si chiama di Pasquetta, ma che fino agli anni ‘60 era della « Matonna te le cuddhrure». Una parte di queste uova tre quattro, sarebbe stata donata al Scaerdote che nella settimana dopo Pasqua sarebbe passato ben Benedire le case. Anche per il latte lo stesso discorso; tutto il latte prodotto in Quaresima lo si trasformava in formaggio e lo si conserva va. Questo avveniva sia nelle singole famiglie che possedevano una mucca o una capra, ma soprattutto nelle masserie dove capre e pecore si contavano a svariate centinaia, e le mucche a diverse diecine. I magazzini della masseria, si riempivano di moltissime forme di formaggio, sapientemente preparato dalle mani esperte del massaro e della massara. Lo si lasciava essiccare, indurire e stagionare per venderlo e consumarlo poi dopo Pasqua. L’interdizione Quaresimale di mangiare uova e formaggio va interpretata come una forma particolare di penitenza che univa al concetto di mortificazione della carne, l’utile di risparmiare il cibo base per la scampagnata di Pasquetta. L. BIANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”
Quaranta ggiurni prima ti la sciuitìa santa la nonna e lla zzìa priparanu li megghiu piattini, ciotule e cestini, ca li simenti s’ìanu mmintire e ccu fantasia s’ìanu mmiscare. Sotta llu liettu o intra llu stanzinu, allo scuru, lu piattu issìa cchiù ffinu. NNa fiata allu ggiurnu s’ìanu dd’acquare pi ffarli bbene ggermogliare. Quannu rrìàa la santa mercutìa, ogne ggermogliare alla luce issìa. Eranu tanti sciardinieddri, erba e ffiore, ca si offriano a nostro Signore. Alla chiesa li purtanu li caruseddre, ca facìanu li offerte cchiù bbeddre. Cussì ddri chiante tinnireddre creanu nnu spiandore nturnu allu sipurcru ti lu Retentore. D. S EVERINO, Copertino
RECITA UN ANTICO PROVERBIO:
“Te canuscu piru!” (ti conosco bene...)
USANZE USANZ E PASQUALI Fino a poco tempo fa per Pasqua si usava preparare i piatti fin dalla prima settimana di Quaresima. Residuo di antichissima e profana usanza, consiste nel deporre i semi più vari in vasi e in piatti: messi al buio matureranno matureranno e cresceranno fino al Mercol Mercoledì edì Santo per essere portati nelle chiese e adornare l’altare dove sarà riposto il Ss.mo Sacramento dell’Eucaristia nel giorno di Giovedì Santo, in Coena Domini. Tra luci e fiori, essi significavano l’offerta dei frutti della natura a Gesù, primaver primaveraa della vita, mentre tutto si ridestava dal torpore dell’inverno e i nuovi fermenti arricchivano le zolle: offerta simbolica a Cristo, che sarebbe stato chiuso nel buio del sepolcro e che poi sarebbe risorto nella luce abbacinante di una vittoria redentrice. Oggi i “piatti” resistono ancora in qualche posto, ma per lo più sono sostituiti dai fiori.
“LU TERREMOTU” Antichissima usanza praticata in Chiesa dai fedeli il giorno del Venerdì Santo, quando durante la lettura del Passio, veni va rievocato rievocato il momen momento to estremo della morte di nostro Signore Gesù Cristo. I bambi bambini ni in part particola icolare, re, chiassoni per natura, provavano gran gusto a riprodurre, in quel preciso istante, il terremoto descritto dal Vangelo, Vangelo, facen facendo do un gran fracasso con le trenule ed i tric-trac e addirittura percuotendo gli scanni della Chiesa con qualche pietra preventi preventivavamente nascosta nelle tasche! Il terremoto si ripeteva nelle case il giorno del Sabato Santo, al momento festoso del “Gloria”, quando, le campane della Chiesa diffondevano l‘allegro messaggio della Resurrezione. Erano allora le persone anziane, rimaste in casa, a riprodurlo con oggetti rumorosi e a gridare la loro gioia pestando i piedi, leste a cacciare “i diavoli da tutti gli angoli e dalle infrattuosità dei mobili con scarpe e bastoni”. A. QUARANTA, “Marittima, un Paese del Salento”
Anche qui una delle solite storielle; eccola: un grosso albero di pero che non dà mai frutto. Il proprietario decide di abbatterlo per farne legna. Accade però che il tronco, risparmiato dal fuoco, finisce con l’essere lavorato e trasformato in una artistica immagine del Crocifisso che, naturalmente, viene poi esposta in Chiesa alla venerazione del pubblico. L’antico proprietario del pero infruttifero innalza fervide preghiere al simulacro dell’Uomo-Dio per ottenere una grazia, ma la grazia non viene, e allora l’individuo, stanco di pregare e di attendere, rivolto al Crocefisso, esclama: “Te canòsche pire!”, cioè: “Neppure quando eri pero hai fatto bene!” C. A CQUAVIVA, “ Taranto...Tarantina”
Aprile 2010 G 1
S. Ugo
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S. Francesco di P.
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S. Evagrio
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Pasqua
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Dell’Angelo
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S. Diogene
M 7
S. Giovanni Battista de La Salle
G 8
S. Alberto
V 9
S. Maria Cleofe
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S 10 S. Ezechiele D 11 S. Stanislao L 12 S. Zenone M 13
S. Martino I, papa
M 14 S. Lamberto
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G 15 S. Annibale V 16 S. Bernardetta S 17
S. Arcangelo
D 18 S. Galdino L 19 S. Espedito
Nduvinieddhru
Lu sacerdote de lu Crucifissu beddhru ntustatu lu porta spissu (spesso) e quandu vide la ggente bbona azza la tonaca e nni lu sona. (orologio)
Detti popolari La prucissione è llonga: riquardate la candela. Senza lu fessa lu cristianu nu campa. Ci finge, vince! Culu e furtuna, jata a cci l’ave. La sardizza mpena vide lu focu, ùnchia.
La cucina de na fiata PECURIEDDHRU PECURIE DDHRU CU LL LLII PAMPASCIUNI PAMPASCIUNI
Ingredienti: 2 kg. di agnello a pezzi, 600 gr. di “pampasciuni” (muscari), 10 pomodorini,
rosmarino, aglio, prezzemolo, pane grattugiato, olio, sale, pepe. Disporre i pezzi dell’agnello in una ciotola coprendoli di vino e lasciarli riposare per un paio d’ore. Togliere i pezzi d’agnello e sistemarli in un tegame da forno con i vari odori, i pomodorini a pezzetti, e i “pampasciuni” puliti e lavati. Coprire il tutto con una spolverata abbondante di pane grattugiato e condire con olio. Infornare a 180°.
M 20 S. Sulpizio M 21 S. Anselmo d’A.
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G 22 S. Leonida V 23 S. Giorgio m. S 24 S. Fedele da Sigm. D 25 S. Marco evan. - Anniv. Liberazione L 26 S. Cleto M 27 S. Zita
Curiosità
L’agnello al forno è il vero grande piatto della cucina salentina, è quello delle grandi occasioni ed è immancabile nei pranzi di Natale e di Pasqua.
La pecor a leccese Le migliori carni ovine provengono da zone situate lungo le coste marine, chiamate perciò “dei prati salati”. Un tempo erano infatti ricercati i montoni e gli agnelli provenienti dal capo di Leuca. Nel Salento esiste una razza specifica: la Moscia o Leccese. E’ un’antichissima razza di agnello con la faccia nera e di piccola taglia. Esse si sono adattate da secoli alla povertà e aridità dei pascoli salentini riuscendo a brucare negli anfratti delle rocce, tra pietre e irsuti arbusti della macchia mediterranea da cui sia il latte che la carne traggono dei caratteristici sapori che vengono esaltati nelle ricette tradizionali della cucina salentina e durante la cottura sviluppano aromi e sapidità molto particolari.
M 28 S. Pietro Chanel G 29 S. Caterina da Siena V 30 S. Pio V, papa
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI L’arredo del futuro Nido Ni do
Giovani galatinesi 1947
L’Antico Amoreggiamento In un tempo lontano i fidanzati dovettero vivere una vita grama dal momento che, in una società chiusa e patriarcale, con una concezione e collocazione sacrale della famiglia, cellula quasi autosufficiente di gerarchie sociali e affettive, uscire da casa, per una giovane donna, significava una violazione del focolare domestico, anche se incosciamente costituiva una conquista di una fetta di libertà... Le giovani donne dovevano stare a casa, rendersi cura della nidiata dei fratelli e sorelle più piccoli, aiutare la madre nelle faccende domestiche, imparare a cucire e cucinare, a tessere al telaio e ricamare i capi della dote, dovevano servire a tavola e non solo a tavola i fratelli maschi, do vevano lavare i panni, sparecchiare, consumavano insomma un apprendistato in funzione della loro vita da adulte. L’unico spiraglio, l’unica possibilità per uscire da casa, erano legati al periodo delle feste patronali, al tempo delle novene religiose, delle prediche, del festino in casa di parenti, della vendemmia o della raccolta delle olive. L’uomo di quest’epoca era costretto ad andare in chiesa per vedere la sua bella. Se in chiesa si andava con le amiche, al ragazzo era possibile avvicinare la comitiva e scambiare qualche parola furtiva con lei, se si andava con la madre, l‘unico modo per comunicare era da lontano e sempre con gli occhi: era sufficiente. Spesso il fidanzato o l’aspirante fidanzato perdeva ore ed ore, andando su e giù per la strada dove era ubicata l’abitazione di lei... Il giovane tentava in tutti i modi di segnalare la sua presenza con segni convenzionali, convenzionali, dei quali era stata informata previamente l’amica: un fischio prolungato o con qualche modulazione, uno schiocco delle dita, un verso di animale, il rumore di un sassolino che colpiva dolcemente l’uscio della porta. Non era raro poi il caso che il ragazzo cantasse le serenate, nelle calde sere d’estate, alla sua bella, bianca comu la recotta e russa comu lu sangu, da solo o accompagnato da amici. Alla fine, dopo questo assedio spietato, lei doveva proprio cedere e acconsentire a fidanzarsi. L. E LIA, Salento Addio
Canto Rustico
Nel canto si libera il grand’orto alla colta dei melloni “sarginischi”, la voce che sovrasta tutte l’altre riecheggia per le zolle e tra le fronde: “Sole de maggiu caddu e sapurusu, m’imbriacanu li fiuri st’occhi mii, le rundineddhe ‘ncielu scrivanu poesie, ‘n’ora, ‘n’ora sula de felicità e mille e mille de fatica mara cu mi fazzu ‘na casiceddha quandu Diu vurrà nni chiova de lu cielu ‘na ‘nziddha de pietà”. A sera a quietarsi arnesi e ceste vuote alla “ramesa”, ma non dorme, no, non dorme la speranza, tace o dentro bussa piano: “Nni chiova de lu cielu ‘na ‘nziddha de pietà”. S. B ELLO, “Di giorno in giorno”
Nduvinieddhru Tegnu na canna rriva a lla Spagna rriva a lla Turchia rriva puru a casa mia.
Fissato il periodo presumibile per la celebrazione delle nozze, i giovani preparavano il loro nido arredandolo del necessario, che doveva essere procurato in parte da lui ed in parte dalla ragazza. Lo sposo provvedeva a trovare la casa, i mobili, le sedie, la pettiniera, i piatti, le posate, il crocifisso e l’acquasantiera, lu scarfaliettu (una specie di padella con manico lungo in cui si ponevano i carboni accesi e con il quale si scaldava il letto prima di coricarsi), li pignatieddri (recipienti di varia misura, di terracotta, adoperati per lo più per cucinare i legumi). Sempre allo sposo spettava procurare le vettovaglie necessarie per i primi giorni successivi al matrimonio: olio, legumi, fichi secchi, olive e persino il pane (lu pane fattu a casa), che la madre dello sposo preparava alla vigilia del matrimonio. Certamente Certa mente la cosa più impor important tante, e, da quanto risulta da antiche testimonianze, erano li pampauddri e la catena che reggeva il secchio adoperato per attingere l’acqua dal pozzo, situato nel giardino (retu a l’uertu). Tale catena doveva avere maglie grosse e grandi, in base alle possibilità economiche dello sposo, e più era grossa più era motivo di vanto per le famiglie. La donna provvedeva al talamo, al telaio, ai comodini, alla cassapanca (la cascia), alla mattrabanca (tavolo di legno con piano superiore ribaltabile, sul quale si lavorava l’impasto per il pane), alle rami russe (batteria di tegami di rame color rossiccio), rossiccio), al treppie treppiede de ed alla dote. La dote femminile o panina (cioè appannaggio), era formata da un certo numero di capi di abbigliamento, e comunque di accessori di stoffa come lenzuola, panni, coperte, biancheria intima, il cui numero dove va essere uguale per la maggior parte dei capi e per questo si diceva: si sposerà con panina 6, panina 12, panina 18... in base alle disponibilità economiche, questa volta della nubenda. L. E LIA, Salento Addio
Maggio 2010
Il fazzoletto bianco Appena i due giovani si fidanzavano lei era solita offrire al suo cavaliere un bianco fazzoletto da mettere nel taschino della giacca. Il fazzoletto era stato ricamato di propria mano dalla ragazza che vi aveva trapuntato lungo gli orli le sue iniziali ed i caratteristici emblemi dell’amore, retaggio di un non lontano romanticismo: le colombe, il cuore trafitto dal dardo di Cupido, vari motivi floreali. La ragazza regalava anche un tarallo a forma di cuore oppure una rara noce a tre cerchi, che veniva rinchiusa in una custodia di lana lavorata all’uncinetto e appesa alla cintola del fidanzato come portafortuna. Il ragazzo faceva recapitare a lei o portava di persona vari generi di regalo come la cupeta, dolci, mandorle ricce, fave abbrustolite, noccioline. Nella domenica delle Palme la ragazza riceveva in dono la palma benedetta o la nuce, formata da foglie di palma intrecciate che racchiudevano tal volta cioccolatini o caramelle o una noce. L. E LIA, Salento Addio Varietà di meloni e angurie galatinesi: Galìa, giallettu, minna de monaca, pisconzu, retinatu, rugnusu, sarginiscu russu, scorza verde, zuccarinu rigatu, zuccarinu scorza liscia, zuccarinu vestutu.
Donna galatinese 1943
“LA MESCIA” una figura tipica del passato
(sole)
Fazzulettu d’amore ‘Na donna me donau nu fazzulettu cu me lu ttaccu alla canna ‘licatu; e jeu me lu ttaccai comu purmettu pe rispettu a ‘l’amore ca me l’a ddatu Vinne e se sciupau lu fazzulettu. Alla funtana lu portu cu ‘lu llau: acqua d’amore, sapune de sdegnu. Sai quante friculate l’ippi ddare? A nu raggiu de sule jeu lu spannei: “Sùcate fazzulettu, ca t’aggiu ddare!” Te l’aggiu ddare quannu stamu suli, le pene toi e le mie n’imu cantare! A. QUARANTA, Marittima un Paese del Salento
Detti popolari Ave frittu de purpi! La femmana ede comu la straficula fracetana (lucertola muraiola) quandu ti thrase a ccasa nunn’esse cchiui. La caddhrina furtunata trova lu cranu puru se ede cecata. Femmana, focu e mare meju nu tte fidare. Femmane, cavaddhri e sservitori rruvinanu li signori.
La “mescia” era una figura tipica del paese, temuta ma amata e rispettata dai bambini, ai quali sapeva spesso distribuire sonore botte; la famiglia chiedeva da lei oltre all’insegnamento religioso, i primi rudimenti, soprattutto per le bambine, dell’arte del cucito e del ricamo. Inoltre essa insegnava ai bambini, che portavano di lei un caro ricordo per tutta la vita, le norme di comportamento sociale, il senso del rispetto, l’amore al la voro e tante altre cose pratiche e teoriche, maestra come era di una pedagogia spicciola che le veniva dall’esperienza. Una delle principali preoccupazioni della “mescia” era quella di preparare i suoi bambini/e alla Prima Comunione. Per questo, oltre al modo di comportarsi in quell’occasione, insegnava loro le specifiche preghiere tradizionali che i bambini/e avrebbero poi ripetuto per tutta la vita ogni volta che si fossero fatti la Comunione o si fossero recati in Chiesa. L. BIANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”
La cucina de na fiata
S 1
S. Giuseppe / Festa del Lavoro
D 2
S. Atanasio
L 3
Ss. Filippo e Giacomo
M 4
S. Silvano
M 5
S. Teodoro
G 6
S. Giuditta
V 7
S. Augusto
S 8
S. Vittore
D 9
S. Luminosa
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L 10 S. Alfio M 11 S. Francesco di Ger. M 12 S. Pancrazio G 13
S. Emma
V 14 S. Mattia ap.
Î
S 15 S. Torquato D 16 Ascensione del Signore L 17
S. Pasquale B.
M 18 S. Giovanni I Papa M 19 S. Ivo G 20 S. Bernardina V 21 S. Valente
Ï
S 22 S. Rita da Cascia D 23 S. Desiderio L 24 Maria Ss. Ausiliatrice M 25 S. Erminio
CROSTATA CROSTAT A CU LLA RICOTTA EMARMEL EMA RMELLATA DE ANGURIA
Ingredienti: 600 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 1 00 gr. di strutto, 150 gr. di burro, 2 tuorli e 2 uova
intere, 1/2 bustina di lievito per dolci. Impastare velocemente i vari ingredienti e lasciare riposare in luogo fresco per 1 ora. Ingredienti per il ripieno: 700 gr. di ricotta, 7 cucchiai di marmellata di anguria Lavorare la ricotta con i rebbi di una forchetta e poi aggiungere la marmellata. Ricavare dalla pasta frolla 2 sfoglie dello spessore di 1/2 cm, foderare con una di esse una teglia da forno unta di burro e infarinata; versare il ripieno, chiudere con l’altra sfoglia e infornare a 180° finchè la crostata non assume un colore dorato. A cottura ultimata spolverizzare la crostata con zucchero a velo. Marmellata di anguria
Ingredienti: 3 kg. di anguria, 1 kg. di zucchero, vaniglia, 1 limone.
Tagliare l’anguria a grosse fette, eliminare la scorza verde e separare la polpa rossa da quella bianca. Eliminare i semi dalla polpa rossa dell’anguria, tagliarla in grossi pezzi e iniziare a cuocerla sul fuoco, una volta cotta passarla al setaccio. Tagliare la parte bianca dell’anguria in piccolissimi pezzi e iniziarla a cuocerla, in un’altra pentola, aggiungendo lentamente la passata di anguria ottenuta dalla polpa rossa. A metà cottura aggiungere lo zucchero e, pochi minuti prima di spegnere la vaniglia e la scorza di limone grattugiata. La raccolta dei “sarginischi” nel Salento viene effettuata con “fatica mara” dai raccoglitori, ma sempre accompagnata dai canti che si liberano nell’aria della campagna. Don Salvatore Bello ce lo descrive nel “Canto rustico”.
M 26 S. Filippo Neri G 27 S. Oliviero V 28 S. Emilio S 29 S. Ademaro D 30 Ss. Trinità L 31 Visitazione B.V.M.
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI
Giugno 2010 E’ SURDA...MA BALLA
Tarantate davanti alla Cappella di San Paolo
Intorno al Tarantolismo Pugliese Ogni anno, dal 29 al 30 giugno, convengono nella cappella di S. Paolo in Galatina i tarantolati della regione, dando luogo ad episodi che l’amico André Martin ha ripreso in alcune sue interessanti fotografie. La forma cristianizzata del tarantolismo di Galatina richiama quella pagana, che rientra nelle terapie magiche della possessione e che una volta in Puglia era molto diffusa. Sulla forma pagana il Rev. Domenico Sangenito verso la fine del secolo XVII ne scrisse ad Antonio Bulifon, libraio francese in Napoli, il cui nome occupa un posto non irrilevante nella formazione della nuova cultura napoletana. Il Sangenito, la cui lettera al Bulifon può leggersi nelle Lettere memorabili istoriche politiche politiche ed erudite (Napoli, 1693), fu un attento testimone oculare di ciò che riferisce, il che dà un particolare valore al suo rapporto, che qui riportiamo nell’essenziale: “Coloro che son morsi dalla tarantola, poche ore di poi, con voce inarticolata si lamentono, e se li circostanti domandano loro che cosa l’afflige, molti risposta non danno; ma solamente con gli’ occhi torvi li riguardano; ed altri fanno cenno colla mano sul cuore. Per la qual cosa, gli abitatori di que’ paesi come persone prattiche, sùbito vengono in cognizione del malore che li tormenta; onde senza perder tempo tantosto chiamano sonatori con vari istrumenti, poichè altri balla al suon di chitarra, altri di cetera, ed altri al suon di violino; sul principio del suono, pian piano cominciano a ballare, chiedono spade, e come che siano inetti di scherma, se ne dimostrano con tutto ciò nel maneggiarli maestri. Chiedono altresì anche specchi, e mentre vi si mirano, gettano sospiri acutissimi e innumerabilissimi. Vogliono bindelle, bindelle, cateniglie, vesti preziose, e quando son loro portate, le ricevono con allegrezza inesplicabile, e con molta riverenza ringraziano chi loro le reca. Tutte le cose sopradette dispongono con bell’ordinanza intorno allo steccato, dove ballano servendosi da tempo a tempo ora dell’una o dell’altra, secondo gl’impulsi gl’impulsi che gli ne dà il malore. Danno principio al ballo un’ora doppo l’apparir del sole, terminando un’ora prima di mezzogiorno, senza prender mai riposo, fuorchè se l’istrumento si scordasse: ed allora respirano con impazienza per istinto a tanto che si ripone in accordo, notandosi con meraviglia come gente sì rozza ed inculta, come sono i cultori della terra, custodi d’armenti e simili altri uomini camparecci, siano così buoni conoscitori delle consonanze e dissonanze de gl’istrumenti musicali, e che tanto di quelle s’inquietino, quanto di quelle si appagano. Un’ora dopo mezzo dì entrano di bel nuovo in danza, continuando sino al tramontar del sole, come fanno col medesimo ordine senza stancarsi, come io ne ho molti veduti, nè mai più di tre giorni aver patito travaglio, se al male loro si fosse dato più tardo rimedio col suono, ciò che altri ne dica di otto, e di dieci giorni, che col ballo abbiano avuto necessità di seguitarlo. Nel mentre che danzano sono fuori dei sensi, e non distinguono parente , né amico, ma li son tutti uguali: ben’è vero che alle volte invitano qualche leggiadro e grazioso giovanetto al ballo. Gli arredi, dei quali si servono, sogliono per lo più essere di colore vago, come incarnato, rosso, ceruleo, e simili; e quando vedono il nero, s’adirano in modo che colla spada corrono discacciando chi n‘è vestito. Ad uno solo, che io sappia, tra molti non dispiaceva il drappo nero: e questo tale che non saltava con tanto vigore quanto gli altri, ma più agiatamente. E. D E M ARTINO, “Sud e Magia”.
Le feste d’estate dei galatinesi Le feste d’estate dei Galatinesi si concentravano nel mese di giugno e culminavano con i tre giorni di festa patronale, dal 28 al 30 giugno, in onore di S. Pietro e S. Paolo. Questa festa segnava l’inizio dell’estate dell’estate e per le assolat assolatee strade del paese cominciava a girare “u Chiccu”, detto “u cratta-cratta”, a”, il venditore ambulante di gelati e “cremulate”, che gridava “gelati della Maiella, quattru sordi la pagnuttella!” Per preparare le “cremulate” (granite), grattava il ghiaccio da un enorme blocco e riempiva il bicchiere; poi, secondo il gusto richiesto, versava dalle boccette colorate un po' di essenza al limone, alla menta, all’amarena, la mescolava e la granita era pronta. Fino agli anni ‘50, quando nelle case non era ancora diffuso l’uso del frigorifero, c’erano dei negozietti in cui si vendeva il ghiaccio, come “u Donadei” in piazza Aligheri e “u Cinisa” in piazza S. Pietro. Nei giorni della festa patronale era usanza uscire alla festa e consumare lo “spumone”. I bar più frequentati erano “u bar de lu Cafaru” in via Pietro Siciliani, Siciliani, “u Gran Caffè de lu Ginu Sabella” in via Stazione e “u San Martinu” in piazza S. Pietro, che preparava caffè e colazioni. Questo fu il primo bar di Galatina ad avere la televisione. Alcuni ricordano ancora che quando andava in onda il programma “Lascia o raddoppia?”, il bar era pieno di gente e a volte le persone erano costrette costrette a portarsi le sedie da casa. Fra gli altri bar, si ricordano “u bar de lu Pippi Gaballu” in piazza S. Pietro, accanto alla Chiesa Madre, dove si preparavano caffè e tarallini zuccherati e si giocavaa a carte; “u De Mitri” in piazz giocav piazzaa S. Pietro, che vendeva anche le corde per violini e chitarre e, accanto, “l’Armandu Casalinu”, che vendeva confetti, liquori e coloniali. Accanto all’attuale sede del Banco Ambrosiano Veneto, c’era “u bar de la Catucc Catuccia”, ia”, che era uno dei primi bar ad aprire la mattina per la gente che viaggiava e che andava ai mercati. Risalendo agli anni ‘20, in Corso Vittorio Emanuele II, c’era “u bar de lu Maffei”, ubicato presso l’attuale sede del Comando dei Vigili Urbani. Le specialità della casa erano dei dolci partic particolari, olari, oggi introvabili, introvabili, detti “le còrnule”, così chiamate per la loro forma simile ai frutti del carrubo. carrub o. Si tratt trattava ava di dolci al cioccolato ato larghi quanto il palmo della mano, fatti con l’impasto dei mustazzoli, che venivano esposti in bella vista nelle vetrine del bar. Oltre alle ”còrnule”, che alcuni, con una punta di nostalgia, ricordano ancora come vere prelibatezze, il bar preparava tarallini zuccherati, mustazzoli, la “veneziana” (cioccolata calda) in inverno e, come tutti i migliori bar, lo spumone, il classico gelato della festa, in estate. Lo spumone veniva preparato in vari gusti in un recipiente ente metallico metallico profondo e di forma cilindrica, detto “u catu” (dal latino “cadus”, secchio, recipiente), che tutt’intorno veniva riempito di ghiaccio. CENTRO SUL T ARANTIS ARANTISMO MO E COSTUMI S ALENTINI
A Mart Martano ano non sono riuscito riuscito a parl parlare are con l’unica tarantata rimasta, Anna. Ho parlato con la sua mamma Assunta. Anna è stata pizzicata a 22 anni mentre mentre era in campagna. È sposata con tre figli. Da bambina, a 6 anni circa, ha contratto la menengite rimanendo sorda. Penso che la sordità (vera o presunta) sia stato il motivo per cui Anna non ha voluto parlare con me direttamente. “Anna è stata pizzicata - racconta sua madre - mentre spiumava il fieno. Quando fu pizzicata perse conoscenza. Fu caricata sul biroccio e portata a casa. Prima fu curata nell’ospedale di Lecce. Lì le fecero i martirii di Dio e quando tornò a casa era tutta una piaga sul ventre. Poi una vicina di casa disse: “Cu no sia ete cosa de Santu Paulu?” (Che non sia cosa di San Paolo?). Così la portammo a Galatina, dove saltava, ballava e poi cadeva a terra come morta, soprattutto quando vedeva qualcuno vestito con i colori che le piacevano, escluso il rosso e il giallo. Questo fino alle dodici. A quell’ora si esce dalla cappella di San Paolo e si va alla Chiesa Madre a sentire la messa. Quando arrivano i giorni di San Paolo Anna sta male, ma proprio male, è come morta. Ha un nodo nello stomaco e non riesce quasi a respirare”. Alla mia domanda del perchè le pizzacate sono quasi sempre donne, Assunta così risponde: “E mah?! Santu Paulu miu, ce sacciu, ce sacciu! (Eh! San Paolo mio, che ne so io, che ne sono io!). Tu mettiti nelle vesti di una mamma. Io soffro e bestemmio. Non mi scappa una lacrima. Non sento niente, nè buono, nè male. Tengo il cuscino e ogni volta che Anna cade lo metto sotto la sua testa. E poi sto male, male, anche adesso che ti sto raccontando. Pensa che la gente di Galatina dice che andiamo lì per scherzare e giocare. Fatte mamma! (Fatti madre). Anna racconta che balla pure per un vecchierello che va a Galatina, perchè la taranta di questo vecchio è sorella della taranta che ha pizzicata mia figlia”. -Senti Assunta, ma se tua figlia è sorda come fa a ballare?- “Nah, quando sente qualche musica che le piace si mette a ballare!” L. C HIRIATTI , “Morso d’amore”
Detti popolari Pilu tira pilu, paducchiu tira paducchiu. Cinca nasce furtunatu piscia lu jettu e dicianu ca è ssudatu. Quandu mente la cuda lu diavvulu pè Santu Pietru patisce Santu Paulu.
Il Capo Attarantato Un’altra arte ormai è quasi del tutto scomparsa: quella del capo attarantato. La tarantola è un ragno, com’è noto, tutt’affatto pugliese, e se ti morde ti obbliga a ballare: e se non balli muori. Il fenomeno è stato oggetto di lunghi e pazienti studi pubblicamente promossi, or son tre secoli, da Monsignor Perotto, vescovo di Manfredonia, il quale invitò i dotti del suo tempo a studiare gli effetti della puntura dello strano falangio. E d’allora una folta schiera di naturalisti ne parlò, anche dei più illustri; alcuni, i più numerosi, sostenendo in lunghe polemiche la potenzialità venefica del ragno, altri negandola. Certo, fin quasi ad oggi, morsi di ragno che, nolente o volente, obbligavano il paziente a ballare ce ne sono stati: si aveva allora una specie di festa, diretta dal capo attarantato. S’addobbava una camera in nero, o in verde, o in ross o, secondo le preferenze del morsicato, e lo si faceva ballare con d ue ragazze, tra due specchi, a suon di tamburella e di chitarra, alla presenza di parenti e d’invitati ai quali si servivano intanto ciambelle e vino. Di qui il nome di tarantella al ballo paesano. Questo del ballo pel morso della tarantola non è un puro e semplice pregiudizio creato dalla credulità del popolino, ma ha, senza dubbio, un qualche fondamento scientifico, se il fenomeno, come ho detto, è stato oggetto di accurati studi da parte di scienziati di nota fama. OCINO, “Apulia Fidelis” N. ZINGARELLI E M. V OCINO
La cucina de na fiata FAGGIULINI CU LA FRITTATA FRITTATA Ingredienti per la frittata: 150 gr. di pisellini verdi (tipo “il riccio di Sannicola”), 150 gr. di parmigiano grattu-
giato, 100 gr. di mollica di pane bagnata nel latte, 6 uova, menta tritata, sale, pepe.
Ingredienti per i fagiolini: 500 gr. di fagiolini, 8-10 pomodorini, 1 mestolo di salsa di pomodoro, aglio, basi-
lico, 50 gr. di formaggio parmigiano grattugiato. Rompere le uova in una ciotola e sbatterle servendosi di una frusta, quindi aggiungere i vari ingredienti e amalgamarli. Versare Versare il composto in una taglia da forno imburrata e cosparsa di pane grattugiato. Infornare a 180° e cuocere la frittata finchè non assume un colore dorato. Tolta dal forno e intiepidita va tagliata a quadrati. Cuocere i fagiolini, una volta lavati e spuntati, per decina di minuti e scolarli. In una casseruola soffriggere nell’olio alcuni spicchi d’aglio, aggiungere i pomodorini a pezzetti, la salsa di pomodoro e cuocere a fuoco basso per alcuni minuti. Aggiungere i fagiolini, il basilico e terminare la cottura, infine aggiungere i quadrati di frittata, spolverizzare il tutto con il formaggio grattugiato e portare in tavola. È un piatto unico. I pisellini verdi di Sannicola
Il Pisello Riccio di Sannicola è un ecotipo di pisello nano, rustico e perfettamente adattato all’ambiente in cui per secoli è stato coltivato. Questa pianta si trova un po' in tutto il Salento ed in particolare sulle falde dei promontori rocciosi, felicemente esposti a Mezzogiorno, che dalle cittadine di Alezio, Sannicola e Nardò degradano verso lo Ionio. Era proprio da questi terreni che scaturiva la produzione migliore, sia in termini di qualità che di precocità. Inutile dire che la completa manualità di questa coltivazione e la laboriosità della raccolta l’hanno portata ad un progressivo declino confinandola negli orti familiari per lo più per autoconsumo. Questi piselli, dolcissimi e teneri se consumati freschi, sono ottimi anche secchi, praticamente insostituibili nella preparazione di piatti tipici, come “lu scarfatu” e “li morsi e cecamariti”.
M 1
S. Giustino
M 2
S. Marcellino / Festa della Repubblica
G 3
S. Clotilde
V 4
S. Quirino di T.
S 5
S. Bonifacio
D 6
Corpus Domini
L 7
Ss. Trinità
M 8
S. Vittorino
M 9
S. Primo
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G 10 S. Diana V 11 S. Barnaba S 12 S. Onofrio D 13
Î
S. Antonio di P.
L 14 S. Eliseo M 15 S. Vito M 16 S. Aureliano G 17
S. Ranieri
V 18 S. Marina S 19 S. Romualdo
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D 20 S. Ettore L 21 S. Luigi Gonzaga M 22 S. Paolino di Nola M 23 S. Lanfranco G 24 Natività di S. Giovanni Battista V 25 S. Prospero S 26 S. Vigilio di T. D 27 S. Ladislao L 28 Vigilia - Processione M 29 Ss. Patroni Pietro e Paolo M 30 S. Paolo
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI LA VITA E IL LA LAVORO VORO NELL NE LLE E MASS MASSERIE ERIE
Galatina - Masseria del Duca
Insediamenti rurali: le masserie Sono gli ultimi esemplari dell’architettura rurale presenti nel territorio salentino. Questi complessi edilizi, ormai in rovina e abbandonati, nacquero all’incirca nel XVI secolo e si diffusero poi in tutto il Salento come centri attivi e produttivi di economia e di cultura, all’indomani della presa di Otranto da parte dei Turchi. Uno stato grave di insicurezza, determinato dal fenomeno sempre crescente di piraterie e spesso anche di brigantaggio locale, suggerì allora ai pochi contadini scampati al massacro, e meglio ancora ai proprietari terrieri, di realizzare delle strutture edilizie idonee a rintuzzare in qualche maniera le continue scorrerie di avventurieri, e di promuovere nel contempo delle attività agricole capaci di assicurare una economia di sussistenze e di autosufficienza. Nacquero così le masserie fortificate, dalle strutture architettoniche semplici e funzionali, dove l’elemento difensivo, affidato prevalentemente alle caditoie, esprime la precarietà della vita sui campi, nei tempi oscuri della nostra storia. In tali complessi edilizi, dalle tipologie diverse (per struttura- per estensione - per capacità produttiva e per tipo di gestione) permangono i segni di una economia basata sulla cerealicoltura oppure sulla monocoltura dell’olivo e sulla pastorizia. Non a tutte le fabbriche rurali si può comunque attribuire il titolo di masseria. A volte si tratta di semplici abitazioni rurali con ridotte estensioni di terreno, anche se munite di elementi per la difesa, costruite da benestanti non tanto per lo svolgimento di complesse attività aziendali, ma come dimore stagionali... Oggi queste tipiche costruzioni rurali che “dormono solitarie...nel silenzio della notte”, ridotte nella maggior parte dei casi a veri e propri ruderi abbandonati dall’uomo, restano ancora lì a ricordarci un capitolo importante della nostra storia e della nostra civiltà contadina, ormai completamente tramontata. A. QUARANTA, “Marittima un paese del Salento”
RECITA UN ANTICO PROVERBIO:
“De lu furnu e de la masseria centu anni luntàna la caristia”. Ancora oggi si usa questo antico proverbio quando si vuole indicare il benessere di una casa o di una famiglia. La masseria si identificativa, una volta, con ogni ben di Dio: farina, pane, formaggio, uova, carne, ecc.
Galatina, la Masseria del Duca
Notizie interessanti, per quanto riguarda la vita e il lavoro nelle masserie ci vengono dal Libro de Conti di Procure del Venerabile Monastero delle Monache di S. Chiara di Nardò, un manoscritto inedito dove sono riportati puntualmente, dal 1674 al 1704, “introiti” ed “esiti” delle masserie S. Chiara in Arneo e Boncuri, due masserie a prevalente vocazione cerealicolo-pastorale cerealicolo-pastorale immerse nelle “folte macchie d’Arneo” e incardinate su quell’asse viario di antica ed attiva frequentazione (la “via Sallentina”), che da Taranto scendeva verso Nardò e proseguiva per Gallipoli e per il Capo di Leuca. Dal manoscritto si ricavano dati relativi alle spese per la gestione delle masserie, e proprio da questi dati emerge il rapporto tra il mondo rurale e il mondo “cittadino”, due mondi che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Una campagna che attinge alla città per rifornirsi non solo degli attrezzi necessari per i vari lavori, ma anche di prodotti speciali, di alimenti per sfamare la manodòpera stagionale ingaggiata ingaggiata per la mietitura e per la “pesatura” (trebbiatura) del grano, per la “sarchiatura” e per la tosatura delle pecore. Dalla città si acquistavano “farnare” (setacci utilizzati per “cernere” il grano), “sporte” per seminare, “fische” e “fiscareddhe” (recipienti di giunco per la ricotta), secchi di varia misura, campane per le pecore, “nzarti” e “zoche” (funi per gli animali e per i pozzi), “ciste e gioghi per parecchi di bovi aratori”, “pignate”, piatti, scotelle, “quartare per li mietitori”, “scotelle e piatti grandi per far mangiare mang iare li mie mietitor titori”, i”, “cen “centre” tre” e “cen “centrun truni” i” (chiodi piccoli e chiodi grossi per riparazioni varie), “serraglie” (serrature per chiudere locali e magazzini), zolfo e aceto per curare la “rogna” delle pecore, lucerne e sacchi. Altre spese veni vano fatte per l’acquisto di prodotti per alimentare il bestiame, come “hortalizi per le pecore” e “caniglia” (crusca) per i cani; e poi sale “comprato dalla salina di Gallipoli” e utilizzato per usi domestici e “per la merce merce”, ”, vino “per il mietere e per il pisare”, “pesce alli mietitori acquistato a Cisaria” (Porto Cesareo) ecc. Tra le “spese” si descrivono, altresì, quelle per ammazzare i topi e per “cacciare i bruchi”. Nell’Aprile del 1684 un “sorciaro” di Veglie, che aveva preso 3480 “sorci”, viene retribuito “a grana venti il cento”, e ancora 20 grana per ogni cento topi vengono pagate nel 1683 per i 3200 topi presi nelle biade della masseria S. Chiara. L’invasione di tali rosicanti era “uno dei periodici flagelli che distruggevano il grano”. Il commercio dei prodotti delle masserie vivacizzava i collegamenti tra città e campagna: “vaticali”, “carrieri” e “beccari” realizzavano sulle “piazze” una limitata ma costante economia di mercato impostata sulla vendita del bestiame, della lana e del formaggio. A. COSTANTINI, “Guida alle masserie
Detti popolari Mele an bucca e ddiavvulu an culu. Se ede tuortura all’acqua torna! Se nu ccanta la cicala, nu ccoji cranu cu lla pala. Ogni lasciata ede persa. Li capuni si l’anu mangiati, li pruverbi ni l’anu lassati (i nostri padri).
G 1
S. Ester
V 2
S. Ottone
S 3
S. Tommaso ap.
D 4
S. Elisabetta
L 5
S. Antonio M.Z.
M 6
S. Maria Goretti
M 7
S. Pompeo
G 8
S. Adriano
V 9
S. Fabrizio
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S 10 S. Marziale D 11 S. Benedetto ab.
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L 12 S. Goffredo M 13
S. Enrico
M 14 S. Camillo de L. G 15 S. Bonaventura
del Salento”
Nduvinieddhru
La signura tenia l’anche stise, lu cucchieri le zzau e lli lu mise. (carrozza e cavallo)
Può essere considerata l’esempio più importante porta nte dell’i dell’insedia nsediamento mento rurale che si evolve e si adegua alle diverse pratiche culturali in un arco di tempo che va dal XV al XX secolo. Si tratta di un impianto a corte chiusa dove i vari locali si addossano, sommandosii nelle diverse epoch mandos epoche, e, all’ed all’edificio ificio-torre collocato su uno degli angoli di un ampio recinto. Un patrimonio fondiario che tra il XVI e il XVII secolo raggiunge i livelli economici più alti e si evolve nelle strutture edil ed iliz izie ie se seco cond ndo o sch schemi emi ch chee in te terr rraa d’Otranto non sono molto frequenti. Grandi impianti a corte chiusa come questo sono peculiari di altre regioni d’Italia e manifestano generalmente attività agrofond agrofondiarie iarie diversificate, che vanno dalla cerealicoltura alla pastorizia, dall’ovicultura all’allevamento bovino e con tentativi di colture specializzate come la gelsicoltura e l’allevamento del baco da seta. Siamo in una delle aree più fertili della Penisola salentina: “il bacino di Galatina”, dove le attività agrofondiarie hanno sempre consentito di trarre cospicui guadagni. In un documento del 1664 si dice, tra l’altro, che la masseria ricade in parte nel subfeudo di Aruca, del Monastero di S. Maria della Grazia, al quale il Duca di Galatina, G. Maria Spinola, paga la decima. Da un contratto di Affitto del 1538, invece, si deduce già la consistenza del complesso masserizio, che poteva essere dotato di un patrimonio zootecnico consistente consistente in 500 pecore. A. COSTANTINI, “Guida alle masserie del Salento”
Luglio 2010
Metamorfosi d’un gallo Erano le donne anziane ad avere l’arte di trasformare un arzillo ed ardito galletto capace di contendere il titolo ad un maestoso re del pollaio, in un imbelle eunuco da mettere all’ingrasso per il pranzone natalizio. L’intervento magico-chirurgico non avveniva alla solarità di un’aia bensì nella penombra della cucina d’una masseria appena alla periferia del paese, forse ad enfatizzare la stregoneria del rito. La vecchia magàra dalla veste nera ampia fino al pavimento di chianche leccesi, con affilatissime forbici incideva il giovane gallo dall’ano per tre quattro centimetri verso lo sterno, vi infilava pollice e indice e con netto strappo scippava i testicoli dell’impaziente che invano tentava di divincolarsi, e glieli faceva ingoiare; rapidamente con ago e filo ricuciva i lembi della ferita. Poi produceva, la vecchia magàra nera perfino nel chador, a recidere la cresta ed i bargigli -segnali anch’essi oramai incongrui incongrui di gallica virilità- ed a farli ingoiare all’inebetito ex galletto, e concludeva cauterizzando le ferite inferte con cenere pura d’ulivo. La metamorfosi da gallo in cappone era compiuta. P. M ANNI, “La Cultura Gastronomica”
UNA NOTA DI POESIA ORMAI SCOMPARSA: “SIERU “SIE RU CADDU, CI VOLESIE VOLE SIERU!” RU!”
Scendevano nelle prime ore del mattino le donne dalle vicine masserie e si diffondeva ovattato dalle brume invernali l’invito: Sièru càutu, ci ole sièru!, residuo scremato di latte e ricotta. Caldo era e appetitoso il liquido denso e il bambino stirandosi nel letto vinceva la pigrizia attratto dal tepore saporito della zuppa. Ora i bimbi non lo conoscono neppure lu sièru càutu. Si nutrono di roba più sostanziosa ed è meglio. Però è una nota di poesia che è scomparsa. “Nuovo Annuario di terra d’Otranto”, Lecce, 1957
La cucina de na fiata
V 16 B.V. del Carmine S 17
S. Alessio
D 18 S. Federico
Ï
L 19 S. Arsenio M 20 S. Vera M 21 S. Lorenzo da Brindisi G 22 S. Maria Maddalena V 23 S. Brigida S 24 S. Cristina D 25 S. Giacomo ap.
COSCEDE CADDH CADDHRUZ RUZZU ZU CHI CHINE NE
Ingredienti: 6 cosce di pollo, 500 gr. di polpa di vitello e maiale macinata, 100 gr. di mortadella a
pezzetti, la mollica di un panino bagnata con del latte, noce moscata, 1 uovo, 1 carota lessata e tagliata a dadini, una decina di olive verdi snocciolate e tritate, 100 gr. di formaggio pecorino pugliese grattugiato, sale, pepe. Dissossare le cosce di pollo con un coltellino, cercando di non rompere la pelle. Farcirle con l’impasto ottenuto mescolando la carne con i vari ingredienti, e cucire con ago e filo tutte le aperture delle cosce (si possono anche chiudere con degli stecchini). Arrostire le cosce dopo averle salate e pepate sulla brace o cuocerle nel forno a 180°, deponendole in una teglia sul cui fondo si sono sistemati vari odori (alloro, rosmarino, salvia) con qualche cucchiaiata di olio e pezzeti di burro.
L 26 Ss. Gioacchino e Anna M 27 S. Celestino M 28 S. Celso
Il pecorino p uglies ugliesee
Il pecorino viene prodotto in tutta la Puglia. Le forme sono cilindriche, solitamente del diametro di 20-30 cm, crosta giallognola che vira al nocciola con la stagionatura recante l’impronta delle fiscelle. Non si sa con certezza quando la pastorizia si sia sviluppata nel Salento, ma, con molta probabilità, questa continua sin dai tempi dei Greci. Il Salento ha la sua pecora, la Moscia o Leccese, che deriva dall’antico ceppo di razza asiatica, Siriana del Sanson, diffusa nei Balcani sino al Danubio. Questa, perfettamente adattata alla povertà dei pascoli salentini, riesce a trarne il massimo e a trasferirlo nei formaggi che ne derivano, che, come il Pecorino di Maglie, recano i profumi degli arbusti selvatici della locale gariga e l’inarri vabile sapidità di questa terra sferzata dai salsi venti marini.
G 29 S. Marta V 30 S. Pietro Crisologo S 31 S. Ignazio di L.
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI LE SORGENT SORGENTII DEL DELLE LE “QUATTRO COLONNE”
Santa Maria al Bagno - Anni ‘50
Gli ebrei a S. Maria al Bagno Il 27 gennaio 2005 in occasione della Giornata Nazionale della Memoria il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha riconosciuto al Comune di Nardò, conferendo motu proprio la Medaglia d’oro al Merito Civile, il valore delle straordinarie manifestazioni di solidarietà e di umanità, concretizzate negli anni tra il 1943 e il 1947. Subito dopo la fine della secondo guerra mondiale, infatti, il Comune di Nardò istituì nel proprio territorio, e precisamente nella zona di S. Maria al Bagno, località balneare sul versante ionico della provincia di Lecce, un centro di accoglienza con l’obiettivo di ospitare i profughi provienti dai campi di sterminio e di restituire loro la dignità di esseri umani, in questo trampolino ideale proteso sul Mediterraneo e quindi verso la nuova patria, il nascente Stato di Istraele dove avrebbero incominciato una nuova vita. Il centro fu attivo dal gennaio 1944 fino alla fine del 1946, e diede alloggio, in quegli anni, a circa trentamila slavi e centomila ebrei, fra i quali anche personaggi di rilievo per il futuro Stato d’Israele. La popolazione collaborò collaborò a quella generosa iniziativa iniziativa della Città di Nardò e diede prova di straordinaria tolleranza religiosa e culturale, adoperandosi per allievare le sofferenze dei profughi e fornendo loro le strutture principali per professare liberamente la propria religione. A S. Maria e nei suoi paraggi alcuni edifici vennero “convertiti” alle esigenze dei nuovi abitanti: nel campo infatti era presente tutto ciò che potesse essere necessario agli esuli per svolgere i riti religiosi e per mantenere in vita le proprie tradizioni. C’era la Sinagoga, collocata dove ora si trova il bar “Piccadilly”, la mensa e il centro di preghiera per bambini e orfani, situato nell’attuale panificio Striani, il Kibbutz “Elia” nella vecchia Masseria Mondonuovo ed il municipio nella villa Personé, attuale villa De Benedditis, presso le Cenate. Furono celebrati, durante gli anni di attività del centro di accoglienza, circa 400 matrimoni, documentati dagli atti anagrafici del Comune di Nardò. Su uno di essi risul risulta ta anche la firma di Golda Meir, primo ministro dello Stato di Israele dal 1969, quale testimone di un matrimonio celebrato il 26 febbraio 1946. Ma anche altri personaggi come David Ben Gurion e Moshé Dayan, futuri presidenti del consiglio e ministro della difesa dello Stato di Israele, sostarono per breve tempo a S. Maria al Bagno. LICEO SCIENTIFICO “A. V ALLONE”, Galatina, “Una stella tra gli ulivi”.
Leggenda: la tromba marina “Una volta un pescatore, che , spintosi in mare, stava pescando con ami pendenti (calòma, conza) le smaride (vope, vopilli) e i pagelli (lustrini), vide passare sulla sua testa un nugolo di spiriti bianchi, che andavano urlando come pazzi. Era d’aprile, quando il grano ha messo le cannucce e l’orso è già pieno, onde si dice: sciamu a San Marcu e poi vinimu, lu cranu è ‘ncannulatu e l’orgiu è chinu.
Il pesc pescator atoree non diede imp import ortanza anza a quanto credette di aver visto. Era tutt’intento alla pesca con la lenza per portare a casa qualche cosa da mangiare alla moglie e ai figli, figl i, che da mang mangiar iaree ne avev avevano ano assai poco. Ma a un tratto sentì la stessa frotta di spiriti di sotto il mare e gli spiriti dell’aria sembrarono sembraro no unirsi a una colonna grossa d’aria e d’acqua si innalzò su dal mare e barca e pescatore furono trascinati in acqua e poi ributtati in aria. Di lì a poc poco, o, il pov povero ero pescator pescatoree che aveva perduto i sensi, si trovò in una gola stretta di spiaggia, e un lume andava avanti a lui. Era nel mondo dei nani. Il lume lo condusse attraverso meraviglie in una stanza e, là dove il lume posò, il pescatore raccolse un mucchietto d’oro. Ma in quel momento sentì ghermirsi da unghie, come di uccello rapace. Si fece tosto il segno della croce e tosto si ritrovò nella sua barca in mare. Il mare era torbido e sconvolto. A stento egli remigò verso terra e giuntovi più morto che vivo, si avviò alla sua casa. Ma si trovò gente mai vista. Egli non sapeva, ma erano passati niente di meno che cent’anni. Morti i suoi, morti i parenti, tutte nuove generazioni! Allora egli raccontò quanto gli era accaduto e mostrò il suo mucchietto d’oro. Perchè chi viene sorpreso dalla tromba marina non torna più alla sua casa se non dopo cent’anni e più. L. S ADA, “L’elemento Storico-Topografico nella Genesi delle Leggende del Salento”.
I venditori di “scapèce” A Galatina i venditori di “scapèce” o “scapeciàri”, provenivano da Gallipoli e da Melpignano. Fra questi, sono rimasti più impressi nella memoria popolare “u Cicciu” di Gallipoli e “i Monaceddri”, tre fratelli che venivano così chiamati per la loro piccola statura. La “scapèce” si vendeva al mercato e nelle feste comandate, in particolare nel giorno dell’Addolorata. Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini, “Le tradizioni gastronomiche di Galatina, ricette, usanze, personaggi”.
Lutiempuècomuspecchiu
Addiu le Sacre Bibbie e lu passatu, quandu de l’ommu l’ùnica divisa era la pelle soa, né la camisa servià de paravientu a llu peccatu!
Ora, nvece, se la mammina svisa nu picchi lu piccinnu spojacatu, crida comu na ssessa: “Scustumatu!” percé tene la caramella mpisa. È inutile, lu tiempu è comu specchiu: l’umbra rifrette de la soggità. Quand’era sanu, ahimè, lu mundu vecchiu vidìa cuntente pesce e baccalà e nu parlava, nvece, mo’ ca è ruttu, tantu cu nu sse scopra copre tuttu! C. D E PORTALUCE, “A Tiempu Persu” , 1927.
Il quattro torrioni residui di una vasta fortezza, costruita intorno al 1535 a difesa delle popolazioni rivierasche dalle incursioni saracene, nello spazio di litorale compreso tra Torre Sabea a S. Caterina, frazione del comune di Nardò (a circa 10 Km, a nord di Gallipoli), hanno suggerito la denominazione di “Quattro Colonne” alla località sopra indicata... Le acque scorrenti presso le “Quattro Colonne”, provenienti da falda freatica, costituiscono ancora un esempio dei fenomeni carsici della Penisola Salentina, che abbiamo osservato frequentissimi nella fascia litoranea compresaa tra Gallipoli pres Gallipoli e Tar Taranto anto.. Esse risultano risultano batteriologicamente batteriologicame nte pure, con un contenuto note vole di ferro e di cloro e tracce di silice. Le popolazioni locali e dei comuni limitrofi, ne riconoscono ed apprezzano le spiccate proprietà diuretiche e le bevono, con evidente vantaggio, nelle malattie renali e del ricambio... Le sorgenti subiscono qualche periodo di magra, che coincide con le forti basse maree, sgorgano al livello del mare in zona demaniale, per cui non vengono utilizzate nè per scopi irrigui né per scopo terapeutico, almeno su s cala industriale. Soltanto singoli cittadini bevono le acque sul luogo, in occasione di gite, e ne riempiono recipienti di ogni foggia e dimensione, per continuare la cura a domicilio. Da qualche anno il Comune ha cercato di incanalarle con piccole opere in cemento, allo scopo di agevolarne lo sfruttamento. A destra dalle sorgenti, a circa sette metri di distanza da due polle distinte, attualmente sistemate sistemate con brevi tubazioni, si notano degli antichi relitti cementati con coccio pesto e pozzolana, testimonianza evidente che le acque furono utilizzate in tempi antichi. Anzi l’osservazione dei ruderi autorizza l’ipotesi dell’esistenza, presso le sorgenti, di vere e proprie terme romane. La portata attuale delle sorgenti può essere valutata ad oltre 70 lt./sec; le acque non risultano influenzate dalla salinità del mare neppure in periodi di alta marea... Chi vuole evadere dalla calura estiva su queste rive dello Jonio, porterà con sé il ricordo delle ore trascorse nella silenziosa e tranquilla “oasi”, ma ristorerà anche spirito e corpo, se non si lascerà sfuggire l‘occasione di bere un sorso di quest’acqua igienca e curativa. R. CONGEDO, Salento scrigno d’acqua.
Alcuni pesci salentini Àcura, agostinella, alice, argentinu, cazzateddhra, cazzu de rre, cernia, culèu, fannu, làppana, lutrinu, lùzzu, mascularu, minoscia, mìnula, murena, nzirru, occhiata, palamita, palumbo, parasàula, pupiddhru, rascia, ricciola, rondineddhra, roncu, saracu, sarpa, scorfanu, scrofa, smarrita, spicaluru, trija, tunnu, vopa, vopaluru.
D 1
S. Alfonso
L 2
S. Eusebio
M 3
S. Lidia
M 4
S. Giovanni M.V.
G 5
Madonna della Neve
V 6
Trasfigurazione del Signore
S 7
S. Gaetano
D 8
S. Domenico
L 9
S. Fermo
M 10 S. Lorenzo m.
Nduvinieddhru
Ñ
Î
M 11 S. Chiara vergine G 12 S. Euplio V 13
Ss. Ponziano e Ipp.
S 14 S. Alfredo D 15 Assunzione di M.V. L 16 S. Rocco M 17
Ï
S. Settimio
M 18 S. Elena
Sciamu a llu jettu, donna Cocca, facimu quiddhru ca ni tocca, pilu cu pilu ncucchiamu, ddhra cosa inthru la ficcamu.
G 19 S. Giovanni Eudes
(occhio)
Detti popolari Ci chianta vunguli, mangia fave. Ci vole pija lu pesce, tocca ssi mmoddhra lu culu. Ci tene nasu, tene crianza. Li pruverbi su bbastati quandu li libbri nu nn’eranu nati. A llu riccu li more la mujere a llu poverieddhru lu ciucciu.
La cucina de na fiata SCAPÈCEDE SCAPÈCE DE PUPIDD PUPIDDHRI HRI
Ingredienti: 1 kg. di pupiddhri (pesciolini), pane grattuggiato, menta, aglio, aceto e olio.
Friggere il pesce dopo averlo infarinato. A parte, bagnare del pane grattugiato, strizzarlo e condirlo con aglio, menta, aceto e sale. In un “tianu” (tegame di terracotta dai bordi alti), disporre uno strato di pesce, coprirlo con il composto preparato e continuare così per più strati finendo con il pane grattugiato. Condire ogni strato di pesce con un altro poco di aceto e allo strato finale aggiungere anche “na nziddhra” (un filo) di olio. La “scapèce” va consumata dopo alcuni giorni. Curiosità
Agosto 2010
Le nostre nonne, nel preparare questo piatto, se non avevano la menta usavano “lu petrusinu” il prezzemolo. Se si vuole dare alla “scapèce” un bel colore giallo, basta sciogliere nell’aceto da usare dello zafferano. Per fare la “scapèce” le nostre nonne dovevano avere la certezza che il pesce fosse “friscu”. Infatti, affinché il pesce conservasse il suo profumo di fresco, veniva tenuto vivo in mare dentro canestri di giunco. Un’espressione Un’espre ssione spesso usata nel gergo popolare per indicare una persona viva e guizzante, è “ Sinti nu pupiddhru ”.
V 20 S. Bernardo di C. S 21 S. Pio X, papa D 22 B.V. Maria Regina L 23 S. Rosa da Lima M 24 S. Bartolomeo M 25 S. Lodovico G 26 S. Alessandro V 27 S. Monica S 28 S. Agostino D 29 Martirio di Giovanni Battista L 30 S. Bonomio M 31 S. Abbondio
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI LECOLT LE COLTURE URESCOMPARSE SCOMPARSE NEL NE L SALEN SALENTO: TO: LO ZAFFERANO ZAFFERANO E IL COTON COTONE E
Galatina - Azienda Vinicola Folonari primi ‘900
La coltivazione ad “Alberello” della vite Il contadino del Salento è diverso dal lucano, dal calabro o da quello del Tavoliere; non si confonda il bracciante meridionale in genere con l’agricoltore di questa terra. Il bracciantato agricolo di questo estremo lembo ha una sua storia, origine e natura: i suoi uomini sono i braccianti del calcare del cretaceo, ben diversi da quello delle argille mioplioceniche e dei calanchi turchini e gialli. Il contadino del Salento sa trasformarsi, quando occorra, in imprenditore e allora, nella quasi totalità dei casi, sa divenire persino artista ed artigiano della terra, pur essendo solo un mezzadro o piccolo propietario. Osservate i vigneti coltivati ancora ad alberello da questi braccianti agricoli, che sanno trasformarsi in provetti innestatori, ed eseguono con accanimento le lotte anticrittogamiche, durante il periodo peronosporico, peronosporico, coperti dei loro vestiti caratteristici o “turcheschi”, come usano chiamarli, cioè resi verde-bluastro dall’uso prolungato del solfato di rame. Il sistema di allevamento basso o ad “alberello” della vite, che richiede da parte del viticultore notevole abilità, oltre ad essere antichissimo in questa regione, perchè importatovi dai Greci, di viene insostituibile, per destinazione naturale, nei terreni a clima caldo-arido. Il portamento basso della vite emette produzioni di grappoli dai succhi concentrati, che sono l’orgoglio e la ricchezza di questo suolo. Ora anche l’”alberello” , conformamente al miraggio di più copiose vendemmie e a concezioni facili, effimere, sempre più dilaganti, è in procinto di cedere il passo al “tendone”, che eccelle solo per la quantità, ma non per la qualità del prodotto. I contemporanei preferiscono, per fini economici, il tendone?... Noi, sorpassati, ci schieriamo con l’alberello della Magna Grecia, dalla parte cioè della “qualità”, che sa produrre grappoli e succhi capaci di “far cantare gli uomini come uccelli e di renderli forti come leoni”. Siamo con le concezioni e con la tecnica dei Greci antichi e degli Enotri, siamo con Orazio che, visitando questa terra, inneggiò ai prodotti dell’alberello e delle viti basse, e siamo decisamente schierati (proprio come i contadini di quaggiù) contro le “novità” dei tendoni, che consideriamo alla stregua dei bettolieri mescolatori di intrugli, o dei grandi e piccoli sofisticatori, e ci scusiamo infine se, nel difendere il tradizionale alberello di “negro-amaro” o di “primitivo” o di “malvasia” o di “moscato”, abbiamo divagato col tendone, introducendo e mescolando all’acqua un po' di vino autentico e generoso. R. C ONGEDO, Salento scrigno d’acqua.
L eggenda eggenda Galatinese
Fino a pochi decenni or sono la carne era un lusso talmente alto che la povera gente se ne cibava solo a Natale , a Pasqua e per San Pietro. Erano i tempi in cui il pane di grano era escluso dalle umili case, e le “friseddhre” erano di orzo. Il problema della fame in occasione di carestie raggiungeva a volte punte di paurosa drammaticità. Ma il popolo pur nelle sue disgrazie ha fiducia del Buon Dio: ed anche quando la car estia lo riduce alla fame più nera, ecco che interviene la natura per elargire dei doni apprezzati e prov videnziali. I nostri padri dicevano, ad esempio, che i ricchi non dovevano mangiare le “cozze moniceddhre”, perchè quest’ultime sono “la carne de li povarieddhri”. Racconta una leggenda galatinese che le “cozze moniceddhre” furono create dal Signore il giorno in cui una povera madre lo supplicò di mandarle un pò di cibo per sfamare i suoi 11 figli. Per antica tradizione, nei giorni successivi alla festa della Madonna delle Grazie, i galatinesi vanno in cerca delle lumache chiamate con una stupenda immagine popolare “moniceddhre”, perchè questi animaletti, autentica gioia del palato, ricordano vagamente anche per il colore, il saio di un frate cappuccino.
Recita un antico proverbio: “LASSA CRISTU E VE’ ALLE COZZE COZZE” ”
Il concetto che qui si vuole esprimere esprimere è, senza dubbio, quello che mentre si è intenti a fare una determinata cosa, la si l ascia in sospeso per dedicarsi ad altro... Tuttavia,, si sa che nel leccese esiste una Tuttavia leggenda, secondo la quale i cittadini di SanCesario sarebbero famosi ricercatori di cuzzedde (le nostre cozze-nute - cioè cozze minute, in contraposto alle cozze grosse alias lumache e lumachette) tanto che in una canzone di sapore tutto locale, piena di sarcasmo, fin dello stesso Santo si dice fra l‘altro:
un Paese del Salento”
Il lavoro della donna contadina Non meno duri e faticosi di quelli del contadino erano i compiti che spettavano alla contadina, che, come madre, era assorbita per l’intera giornata dalle faccende domestiche: preparare il pasto che, di solito, veniva consumato a sera, al rientro dal lavoro del marito e dei figli; mungere la pecora e rica vare dal latte la ricotta e il formaggio; fare il bucato; rattoppare o cucire qualche indumento. La giornata di lavoro, specie in alcuni periodi dell’anno, veniva spesso riempita da altre incombenze: setacciare il grano e l’orzo da portare al mulino; fare il pane; preparare la conserva dei pomodori; raccogliere ed essiccare i fichi; e poi ancora: filare la lana col fuso e la conocchia; tessere al telaio la lana grezza ed il lino; lavorare a maglia; ricamare. Da non dimenticare infine le cure dell’orto, come pure il compito di prestare aiuto al marito nelle attività campestri. A. QUARANTA, “Marittima
Santu Cesariu, ddu tànchen tànchen e ha sciutu? Cozze piccinne cugghiendu anderà!...
E si dice pure - sempre secondo la medesima leggenda - che una volta quei cittadini avrebbero abbattuto l’intero campanile della chiesa per ricercare e venire in possesso appunto di una cozza che era penetrata nelle fondamenta! C. ACQUAVIVA, “Taranto... tarantina”.
un Paese del Salento”
Detti popolari L’ommu a ddisciunu tene lu diavvulu an culu. Ci face li fusi nu face le cucchiare, lassa l’arte a ci la sape fare. Barca, femmane e ciucciu vòlanu nu sulu patrunu. Dalli an culu ca ede senza patrunu.
Nduvinieddhru Lu duca de Scurranu tutte le notti la tene a mmanu, si la tene tisa tisa cu nu ssi unga la camisa. (la candela)
Un “paniere d’uva”: la spettanza in natura per i vendemmiatori Nel Salento, dopo la decadenza della coltura del cotone, verso la fine del XIX sec., molte aree, le più fertili, furono convertite convertite alla coltura della vite. Interi territori comunali ne furono ricoperti, un mare verde tra i due mari altrettanto smeraldini che bagnano questa pingue penisola. Quasi una monocoltura che in molti paesi era alla base dell’econo dell’economia. mia. La vendemmia impegnava una larghissima fascia della popolazione per circa un mese e mezzo e i la voratori, impegnati in questo lavoro, riceve vano oltre al salario quotidiano, la cosiddetta “giornata”, una spettanza in natura costituita da un paniere pieno d’uva. Così, quando a lavorare, come spesso accadeva era un intero nucleo familiare, il quantitativo d’uva messo insieme in una stagione era spesso notevole e, oltre che nella canonica trasformazione in vino, si affermarono man mano anche altre soluzioni per valorizzare questa risorsa tra cui la trasformazione in vincotto e in mostarda.
Il progresso tecnologico e socio-culturale, i metodi nuovi applicati per lo sfruttamento del terreno, le influenze del clima spesso instabile, le mutate esigenze dell’uomo stesso, hanno modificato o stanno per modificare, oggi, l’economia del paese, molte colture sono dunque scomparse ed altre stanno per scomparire. Lo zafferano. La sua coltivazione era praticata nella zona, da tempi molto antichi, come ci viene riferito da molti storici. Il famo famoso so cro croco co del Medioevo, Medioevo, anche in tempi relativamente recenti, era addirittura uno degli elementi base dell’economia salentina. C’è da dire però che nell’antichità questa spezia era più conosciuta per le sue proprietà medicinali, che per quelle culinarie. Oggi, lo zafferano viene usato quasi unicamente in cucina, ed essendo pregiato è piuttosto caro... Il cotone. Pianta molto conosciuta sin dai tempi remoti, diffusa fino ai nostri giorni, come ben ricordano le pesone più anziane del paese e come è ampiamente documentato dai saggisti storici. Il Costa, nel suo Trattato su Terra d’Otranto del 1811, si sofferma sulla coltura del cotone,... “che abbonda nella nostra terra”, e scrive che...” li contadini hanno preso gusto a questa coltivazione”. ...”La natura fa dappertutto nascere il cotone; l’industria dannesca da molto tempo si è versata sulle manifatture di questo prodotto; il commercio che si fa del cotone in natura sopravvanza alli bisogni della Provincia in una quantità indeterminata ma assai grande, le manifatture della Provincia si commerciano e pel regno e per fuori ancora”. Vi erano allora molte specie di cotone, ogni paese coltivava quella che attecchiva meglio nelle sue contrade. Pare che nelle nostre zone, i Musulmani avessero anticamente introdotto una varieà di cotone, di cui rimane memoria nel volgo, chiamata “bambagia turchesca” (cammàce). A. QUARANTA, “ Marittima,
Cuardate de corne de vovi, de vucca de cani e dde ci tene fissu fissu lu rusariu a mmanu.
La cucina de na fiata COZZE PICCIN PICCINN NE A LLU LLU RIE RIEN NU
Ingredienti: chioccioline, sale, olio, origano, peperoncino.
Lavare molto bene le chioccioline, coprirle di acqua fredda e cuocerle a fiamma molto bassa (così “caccianu lu musu de fore”) lasciandole bollire per 10 minuti, durante la cottura bisogna schiumarle ripetutamente. Scolarle in una terrina e condirle con abbondante sale, olio, origano, rigirando bene perchè si insaporiscano e si aromatizzano. Facoltativa è l’aggiunta di peperoncino.
Curiosità
Quella delle “cozze piccinne a llu rienu”, è un’arcaica quanto poverissima pietanza costituita dalle piccole chiocciole terrestri della specie Euparipha pisana, semplicement semplicementee lessate, salate e aromatizzate con origano. Le chiocciole in questione sono le più piccole fra le chiocciole eduli salentine, queste, nel periodo estivo non si nascondono tra le pietre, né si sotterrano come le altre specie, ma si sigillano saldamente con un sottile epiframma vitreo ad un sostegno qualunque, generalmente generalmente vegetazione secca. Sono quindi le stoppie, i luoghi dove queste bestiole, sfidando la canicola, eleggono il loro habitat preferito, ed è lì che vengono ricercate e raccolte anche dai raccoglitori professionisti che ne fanno stagionalmente commercio. Un’usanza Un’usanza antica, in una terra, ove la carne è sempre rientrata sporadicamente nella dieta dei ceti popolari.
Settembre 2010 M 1
S. Egidio
G 2
S. Elpidio
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S. Gregorio M.
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S. Rosalia
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Giordano
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S. Imperia
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S. Regina
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Natività di Maria V.
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S. Sergio
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V 10 S. Nicola da T. S 11 S. Proto D 12 S. Giovenzio L 13
S. Giov. Crisostomo
M 14 Esaltazione s. Croce M 15 B.V. Addolorata
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G 16 Ss. Cornelio e Cipr. V 17
S. Roberto Bellarmino
S 18 S. Giuseppe da Cop. D 19 S. Gennaro L 20 S. Candida M 21 S. Matteo M 22 S. Maurizio G 23 S. Lino papa V 24 S. Gerardo S 25 S. Aurelia Damianoo D 26 Ss. Cosma e Damian
L 27 S. Vincenzo de’ Paoli M 28 S. Vinceslao M 29 Ss. Michele Gabriele Raffaele Arcangeli G 30 S. Gerolamo
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI Le truppe alleate a Galatina Dopo l’8 settembre cominciarono a vedersi le prime truppe alleate: indiani, negri, inglesi, americani. La miseria dilagava. Il contrabbando e la prostituzione avevano raggiunto i massimi livelli e non risparmiavano nessuna classe sociale. Ci si prostituiva per una stecca di sigarette (Chesterfield, Navy Cut, Camel, Lucky Strike...); per qualche scatoletta di carne (corned beef); per l’immangiabile farina di legumi ; per i salamini; per un paio di calze...Le condizioni igieniche erano pessime: si diffondeva la scabbia ma faceva la sua apparizione la penicillina. Si rivedeva il pane bianco, si scoprivano le chewing gum e le caramelle col buco, l’ottima cioccolata. La ricchezza degli alleati era motivo di gioia stupefatta e, spontaneo, veniva il paragone con le condizioni delle nostre truppe: quando mai avremmo potuto vincere la guerra contro tali potenze? Solo una folle megalomania -di cui era rimasta infettata tanta parte del popolo italianoaveva potuto imbarcarsi in simile avventura! Molti guradavano guradavano con invidia alla Spagna che era riuscita a tenersi fuori dal conflitto. I cieli erano spesso letteralmente coperti, da un punto all’altro dell’orizzonte, da stormi di Fortezze Volanti dirette verso il Nord. Si vedevano per la prima volta le jeep e i camion Dodge con su appollaiati soldati di ogni colore, quasi tutti indistintamente forniti di occhiali verde-suro, tipo Ray-Ban. I cappotti dei Galatinesi erano confezionati con coperte militari, le lenzuola con teli di paracadute; i vestiti si rattoppavano, si tingevano e si rivoltavano. Si viveva così, con i pochi bollini delle tessere e con l’arte tutta italiana di arrangiarsi. Il Commissario prefettizio Luigi Vallone svolgeva una attività frenetica ed altamente meritoria per aproviggionare aproviggionare di viveri la popolazi popolazione, one, con invii di camion in viaggi avventurosi là dove c’era qualcosa da prendere e rifornirsi così di vettovaglie. Il Comune, senza una lira, doveva ricorrere a prestiti presso la locale Banca Fratelli Vallone per pagare gli stipendi ai propri dipendenti. C. C AGGIA, “Cronache galatinesi”
Ottobre 2010 V 1
S. Teresa del B. G.
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Ss. Angeli Custodi
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S. Esichio
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S. Placido
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B. V. del Rosario
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S. Pelagia
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S. Dionigi
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Giovani militari galatinesi 1918
LA CARBONERIA A GALATINA L’eco della Costituzione ottenuta, ottenuta, il 1812, dai Siciliani si propaga in un baleno in Terra d’Otranto e scuote gli assopiti salentini. La Carboneria comincia a diffondersi come mezzo efficace di rivoluzione... Giacomo Comi, di Corigliano d’Otranto, presiede un’alta vendita provinciale di Buoni Cugini, già nel 1813, che coordina l’attività carbonara salentina... In quegli stessi anni attecchisce in Galatina la carboneria per merito di Giacomo Comi e viene istituita una forte “vendita” che assume il nome “Novelli Bruti”. Ne sono dirigenti Giovanni Campa (Gran Maestro), Antonio Viva (1° Assistente), Nicola Mongiò-Gigli (2° Assistente), Carmine Zappatore (tesoriere), Donato Granafei (oratore), Dionisio Casciaro (segretario), Lazzaro Luceri (Guarda bolli). Benché ne conoscesse gli affiliati la polizia fu certa dell’esistenza di questa vendita soltanto il 31 marzo 1851, quando, procedendosi all’inventario dei beni del Comi, morto in Venezia, fu trovato tra le sue carte un Diploma in carta pecora con segni carbonici, in bianco, ma recante la data 30 luglio 1820 e le firme dei dirigenti che, ad eccezione dei Granafei, eran tutti di Galatina. Il documento smentisce l’affermazione del Rizzelli che l’istituzione della vendita attribuì ad Ortazio Congedo inopinatamente. Esso rinvenuto in epoca di recrudiscen recrudiscenza za reazionaria, funestata dall’assolutismo intransigente del Sozy-Carafa, diede origine ad un processo alla rovescia tendente ad accertare se i superstiti ai decessi di Comi e Campa avessero persistito nell’attività rivoluzionaria dopo la Sovrana Indulgenza del 1822... Testimonianze sugli incriminati di Galatina fornirono Fortunato Tondi, Donato Garrisi, Gio vanni Vernaleone, i quali dichiarano unanimi che dopo il 1822 gli imputati giammai si erano riuniti in setta ossia società segreta e che la loro condotta doveva considerarsi ledevolissima sotto tutti i rapporti. Mancando le prove dell’esistenza della vendita anche dopo la scrupolosa istruttoria, la Gran Corte Criminale di Lecce, con sentenza del 3 lugio 1851, poichè risultavan trapassati Comi e Campa, poichè il reato attribuito a tutti gli altri andava coverto da sovrana indulgenza del 28 settembre 1822 e il 1° febbraio 1848, a voti unanimi dichiarava estinta l’azione penale sul conto di Giacomo Comi e Giovanni Campa e dichiarava abolita l’azione penale a favore di Antonio Viva, Nicola Mongiò-Gigli, Donato Granafei, Cramine Zappatore, Dionisio Casciaro e Lazzaro Luceri. M. M ONTINA, “Storia di Galatina” a cura di A. Antonaci.
Superstizione e credenze salentine La superstizione era diffusa nei nostri paesi, perchè gli umili lavoratori della terra, culturalmente cultur almente arretrati, arretrati, erano inclini a credere nell’influsso di fattori extraterreni o magici sulle vicende umane e quindi a praticare dei rituali fondati su presuppo presupposti sti emotivi con l’uso di amuleti, talismani o gesti simbolici. Ma insieme alla superstizione , profonda era pure la fede religiosa, anche se espressa in forme esteriori molto primiti primitive. ve. Genera Generallmente, la nostra gente, per antica tradizione, si affidava, nei momenti di estremo bisogno, alla protezione del suo Santo protettore, supplicandone con fervore il suo intervento. Per consuetudine, si organizzavano allora delle processioni propiziatorie, con la statua del Pro Protett tettore ore che ven veniva iva por portata tata per le strade del paese, per scongiurare, con suppliche e preghiere fervorose, il pericolo incombente. A volte, al sopraggiungere di un violento nubifragio, si usava far suonare a distesa le campane della chiesa, a cui veniva attribuito il potere miracoloso di allontanare lampi e tuoni, e di risparmiare gli abitanti dai temporali. Ecco perchè ogni paese del Salento ha oggi una sua storia prodigiosa da raccontare, non essendo mai mancata l’intercessione dei Santi protettori, in occasione di eventi calamitosi. A. QUARANTA, “ Marittima,
Pane biancu
D 10 S. Daniele L 11 S. Firminio M 12 S. Serafino M 13
Biancu comu la nie!...ma sulamente ca ce ssacciu comu ete ca rumani... perce’ a llu mastecare nu sse sente dha sapore...ca mangi e ssia ca sani... Capiscu ca nu nc’ e’ nienti mmescatu, perce’ se ite ca e’ rrobba sincira; cu llu disprezzi e’ nnu veru peccatu; ma perce’ simpatia nu mme nde tira? E ieu me crisciu ca lu Municipiu lu sta fface de purvere de cipiu!... E. B OZZI , “Poesie in dialetto leccese ed in ... pulito”.
Detti popolari Danne mmangiare a llu villanu, ca poi te caca an manu. Lu bastone de lu maritu, sotta sotta ede sapuritu.
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V 15 S. Teresa d’Avila Amuleti caratteristici caratteristici erano: la ciprea, conchiglia marina montata in argento, che si legava al piede dei neonati per preservarli dalle insidie dei maligni; i cornetti ed i coralli rossi, che di solito si appendevano al collo o al polso del poppante per preservarlo da soffo soffocam camenti enti e mal malann anni. i. All’esterno della casa rurale o delle stalle, in alto, sulla porta d’ingresso, spesso si collocavano: il ferro di ca vallo, che allontanava gli influssi del malocchio; oppure un paio di corna di bue, che preservavano dagli spiriti maligni e dall’invidia. I Talismani erano considerati strumenti di successo nell’ambito dei rapportii umani e social rapport sociali, i, e, per questo, venivano gelosa gelosamente mente custoditi e portati con sè, dappertutto, pertut to, come portafortuna. portafortuna. I più comuni comuni era erano: no: le pie pietre tre o medaglie con caratteri cabalistici; i ciondoli portafortuna: il ciondolo del quadrifoglio, del gobetto, quello caratteristico del pugno chiuso con indice e mignolo protesi in segno di scongiuro (segno simbolico caratteris caratteristico). tico). A. QUARANTA , “Marittima un
Vucca china nu pote dire no.
Paese del Salento”
un Paese del Salento”
ANEDDOTO “Le fave de la prima mujere” Anche qui una breve storiella. Un contadino ha avuto una prima e poi una seconda moglie. La prima usava preparargli le fave (le nostre gustose fave bianche) in un determinato modo. Dopo qualche tempo dacchè era rimasto vedovo, il nostro uomo trasse a giuste nozze una seconda compagna, la quale però sapeva cuocere le fave in altra maniera non conforme al gusto del marito; onde questi, puntualmente, al presentarsi di ogni occasione propizia, non tralasciava di rimpiangere le fave ca faceva ‘a bon’ànema. Senonchè - guardate il caso - una volta avenne che, per una fatale e casuale mancata accudienza da parte della donna, le fave bruciassero, rimanendo, per buona parte, attaccate alle pareti interne e al fondo della pignatta. Tuttavia, servite all’ora di pranzo, in quel modo, pur tra mil le scuse della moglie, furono invece dal marito trovate eccellenti e...finalmente proprio come quelle che soleva preparargli ‘a prima mugghiera!... C. ACQUAVIVA, “Taranto...tarantina”
S. Edoardo
G 14 S. Callisto
AMULETI E TALISMANI
Ah! benedettu Diu ca finarmente se sta bide nu pane de cristiani!... perce’ quidhu de prima, francamente, nu mbalìa cu llu dai mancu a lli cani!!...
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La cucina de na fiata
S 16 S. Edvige D 17
S. Ignazio d’Ant.
L 18 S. Luca ev. M 19 Ss. Isacco e C. m. M 20 S. Artemio G 21 S. Orsola V 22 S. Salomé S 23 S. Giovanni da Cop.
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D 24 S. Antonio M. Cl. L 25 S. Crispino
TAJERINA, PURÈDI FAVE FAVE E SEPPIOLIN SEPPIOLINE E
Ingredienti per la “tajerina” : 300 gr. di farina di grano duro, 2 uova, prezzemolo tritato, un
poco di sale. Impastare bene i vari ingredienti con poca acqua e lavorare a lungo fino ad ottenere una pasta liscia e morbida. Stendere con il mattarello una sfoglia sottile e ricavare le tagliatelle (larghe non più di un paio di millimetri). Ingredienti per il condimento: 500 gr. di seppioline, una decina di pomodorini, aglio, olio, vino bianco, rucola, 200 gr. di purè di fave, pepe macinato fresco, pulire le seppioline e tagliarle a pezzi. Fare imbiondire in una larga casseruola 2-3 spicchi di aglio, aggiungere le seppioline, rosolarle e sfumarle con del vino bianco. Evaporato il vino, aggiungere i pomodorini a pezzi e ultimare la cottura (se è necessario aggiungere aggiungere acqua calda). Lessare al dente la “tajerina”, scolarla e aggiungerla al sughetto preparato con della rucola fresca, girarla bene, spargere del pepe macinato e servirla nei piatti sul cui fondo è stato sistemato un poco di purè di fave caldo. Curiosità
Le nostre nonne preparavano le tagliatelle e poi le facevano asciugare su delle canne sistemate tra due sedie. Sul pavimento venivano distesi degli strofinacci per raccogliere la pasta che eventualmente poteva cadere. Le tagliatelle si facevano seccare al riparo dalle correnti d’aria e dalle mani troppo vivaci dei bambini.
M 26 S. Evaristo M 27 S. Fiorenzo G 28 Ss. Simone e G. ap. V 29 S. Ermelinda S 30 S. Lucano D 31 S. Quintino
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI IL PAGANE PAGANESIMO SIMO NEL NE L FOLCLORE FOLCLORESA SALE LENT NTINO INO I FUNEBRI
Il ciclo pittorico sulla vita di Cristo nella Chiesa di Santa Caterina Caterina in Galat Galatina ina Le Storie della vita di Cristo, ampiamente illustrate dai grandi maestri nelle chiese più prestigiose d’Italia, in Santa Caterina vennero proposte tanto sulla facciata della basilica quanto sulle pareti della terza campata. Il pittore locale Pietro Cavoti, impegnato fra il 1848 e il 1880 a riprodurre in acquarello moltissime decorazioni della basilica, ci ha offerto la possibilità di conoscere che una volta tutte le pareti della facciata erano dipinte e che nella metà del secolo decimonono restavano ancora avanzi di affreschi, alcuni ormai sbiaditi e irriconoscibili, altri agevolmente identificabili nella loro composizione. I frammenti meglio conservati si trovavano attorno al rosone, nella lunetta e ai lati del portale maggiore: vi si ammiravano alcune scene cristologiche, le quali avevano dovuto esercitare attra verso i secoli un gran fascino su quanti passavano per l’antistante piaza Orsini. In alto, a destra, si vedeva il Cristo salire verso la cuspide, caricato di una lunga pesantissima croce e seguito dallo sguardo delle donne piangenti che stavano a sinistra del rosone; su un lato del portale c’era l’angelo della risurrezione, sull’altro le pie donne che ricevevano il lieto annunzio. Nella lunetta centrale era affrescata l’immagine del Signore. Oggi le pitture esterne sono perdute, ma in chiesa rimangono ben ventinove figurazioni della vita di Cristo: dieci di esse riprendono e svolgono ampiamente il tema “passione-risurrezione” cui sono facilmente riconducibili gli altri episodi riguardanti l’Infanzia di Gesù (Strage degli Innocenti, Fuga in Egitto, ecc.), le Tentazioni, la Trasfigurazione, la Risurrezione di Lazzaro, le Palme, la Lavanda, la Cena. Le fonti letterarie sono essenzialmente i quattro Vangeli e con ogni probabilità le “Meditazioni sulla Vita di Cristo” (un testo già attribuito a S. Bonaventura ed oggi assegnato quasi all’unanimità al francescano fra Giovanni da Calvoli), che aggiungono tratti delicatissimi alle scene della Passione ed hanno potuto ispirare gli artisti del Tre e Quattrocento fino a modificare l’iconografia di molte rappresentazioni evengeliche. L’Antonaci ritiene appunto che le Meditazioni, già segnalate dal Berteaux come fonte di episodi affrescati dalle maestranze del Cavallini nella chiesa angioina S. Maria Donnaregina di Napoli, abbiano anche guidato l’artefice cateriniano nelle figurazioni della Passione. T. P RESTA, “Santa Caterina in Galatina”
L’espressione “Fazza Ddiu” L’espressione dialettale, ancora oggi in uso da noi, ...fazza Ddiu!! (faccia Iddio), può significare, o fatalistica rassegnazione, o cristiano abbandono alla volontà di Dio, padre misericordioso, e quindi fermezza d’animo, saldezza di principi morali e di carattere. Nei casi più disperati, la gente del luogo, spesso assumeva o per avvilimento o per mancanza di fede, un atteggiamento di passiva indifferenza o di rassegnata accettazione, convinta che ciò che accadeva era dovuto al destino senza possibilità alcuna di opporvisi. “Marittima un Paese del Salento” A. Q UARANTA , “ “Marittima
RECITA UN ANTICO PROVERBIO:
“fazza ddiu!...e morse rretu a llu parete”. È l’espressione del povero, dell’umile, o di chi è senza iniziative che si rassegna alla propria sorte. Questo motto - comune in tutta la regione pugliese - trova riscontro nell’altro “tir’ a cambà” nel napoletano.
Lluttu strettu
Santi a nforsa nu nde ole lu Signore... e ieu dicu: stu lluttu te sta ppisa? e nci ole tantu, puezzi essere ccisa? zzìccalu e iundulìscialu dha ffore!!... Nu già ca cu nni muesci lu dolore ai facendu la pupa tisa tisa cu st’abitu de subbra a lla camisa, china, Ggesù Mmaria, de acqua de ndore!!... Siccomu nu te puei mintere a rrussu, nfacce lla esta, lu velu e lli uanti niuri te sta scrapicci cu llu lussu. E de subbra mai st’abbittu te cate pe ll’amore cu ddici a ttutti quanti ca le lacreme toi su’ pprofumate! E. BOZZI, “Poesie in dialetto leccese ed in...pulito”.
Nduvinieddhru Cummare de Portacallu dammi nu pizzichillu quantu ccriscu stu tarallu. (il lievito)
...Nel Salento il morto si seppellisce completamente vestito, finanche con le scarpe, e nelle campagne vicine sussiste più tenace l’uso di aggiungere il cappello, nella bara si chiude qualche oggetto ch’era caro al defunto, oppure immagini di Santi. Si narra di sogni, controllati spesso da prove inequivocabili, inequivocabili, medianti i quali i morti hanno avvertito i superstiti d’essere stati derubati di indumenti o monili funebri per ope opera ra di qua qualch lchee scia sciacall callo o in veste umana; e si conchiude che i morti desiderano di conservare, per l’altra vita, il loro ultimo abbigliamento; appunto per questo il loro vestiario è accurato, lindo, tale da essere decoroso quandu lu mortu stae ‘nanti la presenza de Diu. Appena spirato il congiunto, gli si dedica la Messaa del Buon Passaggio Mess Passaggio,, la quale non è ancor quella di suffragio, ma riproduce il rito pagano della moneta messa in bocca al morto per pagare la barca di Caronte pel buon passaggio dello Stige. E piange la prèfica, la quale in Gallipoli è chiamata la grèca... Conforme all’usanza ellenica, si esprime il più forsennato dolore con lo strapparsi dei capelli, col graffiarsi il viso, con le esclamazioni acute e strazianti, con l’inveire contro la Sorte ‘ngrata, contro la Morte làzara, contro il Santo invocato invano per la guarigi guarigione. one. Sono eccessi che vanno scomparendo man mano che aumenta l’educazione civile, e a seconda dell’intensità del sentimento cattolico esortante alla rassegnazione. Cominciano le esequie. Ai piedi del feretro son deposte le Insegna della Confraternita cui il morto era ascritto, e i Fratelloni della Confraternita intervengono al corteo vestiti col sacco rituale dai colori distintivi e col volto coperto dal cappuccio; la processione, col crocifero in testa, s’appressa alla porta della casa del morto, al Crocifisso si fa fare capolino per simboleggiare la visita del Signore misericordioso, e subito dopo si allinea mentre il corteo si forma. Dopo le esequie giunge lu cùnsule (cioè il consuòlo), e son bevande ristoratrici o pranzo imbandito a cura del parentado o dei compàri, e che rapprese rappresentano ntano e ripresentano le àgapi funebri degli antichi greci. Ed anche reminiscenza ellenica è il lutto pesante caraterizzato dalla barba cresciuta e dal cappotto o cappa indossata anche d’estate, la quale usanza è ormai scomparsa nelle città, ma persiste nella tenace campagna. Poi cominciano le asprezze per la divisione de le quattru strazze ereditate! N. V ACCA, “ Rinascenza Salentina”
11 Novembre: San Martino In tutti i paesi del Salento, secondo tradizione, il giorno di San Martino si usa spillare dalla botte il vino novello per farne il primo assaggio, secondo il veccio proverbio popolare che dice:
“A San Martino, ogni mosto diventa vino!” Quelli...che non hanno un proprio vigneto per lo più usano comprare “una partita” di uva nei paesi del Salento che ne producono in grande quantità, per fare -in loco- un vino robusto da riservare per le grandi occasioni e, in parte, anche per la propria tavola. Si registra intanto la scomparsa totale delle puteche, osterie caratteristiche del luogo, dove una volta - tra un tressette e una briscola - si consumavano delle solenni sbornie, sostenute immancabilmente dai famosi pezzetti di carne equina al sugo, molto piccanti, ed altri gustosi manicaretti. Ma in forma ridotta ancora oggi, secondo vecchie costumanze, per il giorno di San Martino, in quasi tutte le case le buone massaie fanno trovare a ta vola accanto accanto ad un bott bottiglio iglione ne di vino no vello,...”quello vello,...”qu ello che solletica il palato e profuma di fresco e di giovane”... le prime pittule, i profumati e stuzzicanti “gnommareddi” (involtini di interiora terio ra di agnello arrostiti arrostiti alla brace) ed altre cosette. Non mancano mai le cicorie crude ed i finocchi prodotti in giardino, che invitano a bere e a dimenticare, almeno per quel giorno, i grossi problemi della vita quotidiana. Quando il vino comincia a farsi sentire..., gli anziani della compagnia, che sono sempre i più arzilli, non indugiano ad improvvisare canti e stornellate che valgono ad infondere tanta allegria nel cuore di tutti. Marittima un Paese del Salento”. Salento”. A. Q UARANTA, “ Marittima
La cucina de na fiata PITTA PITT A DE CARNE
Ingredienti: 700 gr. di carne di vitello macinata, 150 gr. di formaggio parmigiano grattu-
Detti popolari Thre ccose nu sse pòtanu scundire: amore, tosse e venthre crossa. Se lu malatu campa, nc’era oju inthru a lla lampa. Ci vole ccampa a santa pace, vide, sente e ttace.
giato, mollica di pane bagnata nel latte, 3 uova, prezzemolo tritato, noce moscata, sale, pepe, olio, pane grattugiato. Ingredienti per il ripieno: 200 gr. di spinaci lessati e passati nel burro 200 gr. di porchetta a fette, 200 gr. di formaggio morbido. Impastare la carne con i vari ingredienti. Con metà dell’impasto foderare una teglia da forno unta di olio e spolverata di pane grattugiato. Adagiare poi il ripieno sistemando prima gli spinaci, poi la mortadella e infine il formaggio a fette. Ricoprire con il rimanente impasto, ungere con un poco di olio la superficie e infornare a 180°. Curiosità
Un tempo le nostre nonne cuocevano le loro pitte mettendo la teglia sulla brace del camino e la coprivano servendosi di un grande coperchio sul quale spargevano dell’altra brace. Questo grande e particolare coperchio chiamato “u furnu de campagna” serviva a cuocere e dorare le pitte in superfice.
Novembre 2010 L 1
Tutti i Santi
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Commemorazione Defunti
M 3
S. Martino de P.
G 4
S. Carlo Borromeo
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S. Magno
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S. Leonardo
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S. Ernesto
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S. Goffredo
M 9
Dedicazione Basilica Lat.
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M 10 S. Leone Magno G 11 S. Martino V 12 S. Giosafat S 13
S. Diego
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D 14 S. Veneranda L 15 S. Alberto M. M 16 s. Giuseppe Moscati M 17
S. Elisabetta d’U.
G 18 Ded. Bas. Ss. Pietro e Paolo V 19 S. Ponziano S 20 S. Ottavio D 21 Cristo Re
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L 22 S. Cecilia M 23 S. Clemente papa M 24 S. Crisogono G 25 S. Caterina V 26 S. Liberale S 27 S. Virgilio D 28 Iª D’Avvento L 29 S. Saturnino M 30 s. Andrea ap.
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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI LA DATA DI NASCITA DI UN BAMBIN BAMBINO O
Il rilievo della Madonna col Bambino nella chiesa di Santa Caterina Nell’edicola cuspidata, racchiusa in una struttura lignea, è scolpita la Madonna col Bambino. Lo schema compositivo è gotico perchè la Vergine, in posizione eretta presenta una gamba leggermente flessa in avanti mentre la struttura della sua figura sembra ruotare sull’altra che funge da cardine; le braccia prefigurano due archi, la testa è pieg ata in avanti e tesa, con lo sguardo indiri zzato ad incrociare gli occhi del Bambino. La Madonna, regge con il braccio e la mano sinistra il Bambino, che ha in mano un uccello; e, con la mano destra, il mantello sul cui lembo la luce ricadente fluisce nei canali in dosate quantità di riflessi. La vitalità della figura è ottenuta dalla modulazione modulazione della luce che risulta incanalata nei rivoli delle pieghe ascendenti del mantello e discendenti della tunica che definiscono, nei particolari, la configurazione corporea del personaggio, l’atteggiamento, il movimento. La veste ampia e sottilissima, tenuta in vita da una cinta sì da originare, in basso, un fluttuante panneggio, ne qualifica l’andamento curvilineo della postura della Madonna che si contrappone al volgere del volto; il mantello fermato sotto il collo, da una fibbia a forma di corolla, si dispiega in corrispondenza della vita facendo intravedere la veste sottostante e sottolineando, attraverso orbite ripetute e crescenti, il singolare gesto aggraziato e leggiadro della Vergine. Il velo corto tenuto da una corona, sulla quale si ripete il motivo del giglio, simbolo degli angioini, copre il capo della Madonna mentre, il suo volto ovale è incorniciato dal fluire delle ciocche ondulate dei capelli che lasciano libera la fronte alta. La nobiltà del movimento della Vergine è affine al dispiegarsi del sentimento affettivo che la lega, con lo sguardo al figlio. Il Bambino, asse virtuale della composizione, è ben definito nel modellato corporeo, visivamente percepibile, nonostante nonostante l’indumento indossato, così come è evidente l’espressione e lo stato d’animo che comunica. A questa ieratica e statica figura si contrappone l’atteggiamento dinamicamente composto composto della Vergine, generato soprattutto dal drappeggio da cui si irradiano curve che conferiscono alla figura un moto eccentrico trasmettente la luce in ondate successive e centrifughe. Questi ritmi melodici tramandati allo spazio connotano l’opera come gotica anche se la dignitas della Vergine è umanistica... Tale manufatto, sintesi mirabile di architettura, scultura e pittura (anche se l’opera è priva dell’originaria cromia), è un esempio importante nel campo dei valori plastici e in quello dei significati religiosi. D. SPECCHIA, “Il Tesoro”
I pellegrinaggi della tradizione salentina Nel passato, per antica consuetudine, intere famiglie di contadini, in determinati giorni dell’anno, usavano recarsi in pellegrinaggio in alcuni paesi della zona per manifestare la loro devozione al Santo taumaturgo del luogo. Il 13 dicembre, di solito, raggiungevano Scorrano, dove si venera Santa Lucia, la Santa degli occhi; il 6/7 agosto si portavano a Montesano Salentino, dove si svolgono i festeggiamenti me nti in ono onore re di San Donato, Donato, il San Santo to guaritore del morbo sacro; ed il 15/16 agosto si recavano a Torrepaduli, frazione di Ruffano, dove si festeggia San Rocco, il Santo che, verso la fine del Seicento, liberò le contrade del Salento dal terribile morbo della peste. Per venerare la Santa della luce, i devoti, la mattina del 13 dicembre, di buon’ora, con i traini si reca vano a Scorrano, dove la Protettrice è invocata con particolare favore dai sofferenti di occhi. Approfittavano poi della fiera-mercato per effettuare le prime compere natalizie, e la ricorrenza -come tut’oggi avviene- faceva pregustare la gioia del Natale ormai alle porte. A. QUARANTA, “Marittima un paese del Salento”
Ninne nanne
E nanna, nanna li canta la mamma A lu piccinnu sou cu fazza nanna; E nanna nanna, nanna mia, Ddurmiscimilu tie, Madonna mia. E sonnu, sonnu, sonnu ‘ngannatore, Ddurmiscimilu tie ‘nu paru d’ore, ‘Nu paru d’ore e ‘nu paru de misi, Fintantu nu’ mi cuntu ‘sti turnisi. La Vergine Maria de cquai passau, E de lu piccinnu miu me domandau. Iu li dissi ca ‘lla chiesa sciu, Iddha mi disse: Bona via pijau. Poi li dissi ca sta fà la nanna, Iddha mi disse: Diu ti lu ‘ccumpagna. Dormi fiju e fà la nanna, Ca la Beata Vergine t’accompagna. Lu piccinnu miu quandu nascìu Lu Papa de Roma la messa cantau, ‘nu fazzulettu de turnisi ‘nchìu, Tutti a li povarieddhi li dunau. Sonnu, sonnu nu’ scire a li vecchi, Vieni a lu piccinnu miu chiudili l’occhi, se li li chiudi nu’ li fare male Ca è piccicchieddhu e crande s’ave fare. Ninu, ninu, ninu, Menta, sansicu e petrusinu, La mamma sente la ndore De luntanu e de vicinu.
A.M. GIURGOLA R IZZELLI IZZELLI,
“Galatina: il folclore e la vita”
Intorno Intorn o alla probabile probabile o desid desiderata erata data di nascita venivano avanzate alcune congetture. I mesi, i giorni, le lune, le stagioni, avevano grande influenza in questo campo. In genere si reputava sfortunato il bambino nato di Venerdì; assai fortunato quello nato di Mercoledì, Mercole dì, Sabato o Domenica Domenica;; il bambino nato di Giovedì sarebbe stato invece intelligente, lunatico quello nato di Lunedì. Non era di buon augurio venire alla luce il diciassette o il tredici del mese, nè tanto meno nel mese di Marzo, considerato un mese dalle influenze bizzarre, come la sua bizzarria atmosferica. “Marzo pazzerello / esce il sole e prendi l’ombrello”, metteva in guardia il proverbio. Un altro mese ritenuto sfavorevole per la nascita era Ottobre (ne sarebbe venuto fuori un temperamento pesante e malinconico); erano ritenuti mesi propizi Gennaio (forse perchè incominciamento comincia mento dell’anno: “anno nuovo, vita nuova”), Aprile e Maggio, i mesi della prima vera, della rinascenza della natura, che avrebbero trasmesso perciò delle influenze positive sul nato, che sarebbe stato dotato di dolcezza di sentimenti, di sensibilità, oltre che di alacre attivismo. Chi nasceva poi in Luglio sarebbe stato forte, chi in Agosto avrebbe dimostrato un temperamento caldo, chi in Dicembre avrebbe avvertito sempre freddo freddo e sare sarebbe bbe stato anch anchee freddo nei sentimenti. Molto favorevoli al nascituro erano alcuni giorni che cadevan cadevano o in particolari festività come Natale, Capodanno, l‘Epifania, la Pasqua, la Pentecoste, l’Ascensione, la Domenica delle Palme, o in ricorrenza di santi famosi che riscuotevano la simpatia e il culto universali, come S. Francesco, S. Paolo, S. Giovanni, S. Giuseppe, i Santi Cosma e Diamano. Di questi ultimi il neonato prendeva anche il nome. Si credeva che i nati in queste ricorrenze sarebbero stati immuni dal tarantolismo o dal morso di altri animali. L. E LIA, “Salento addio”
Dicembre 2010 M 1
S. Eligio
G 2
S. Bibiana
V 3
S. Francesco Sav.
S 4
S. Barbara
D 5
IIª di Avvento
L 6
S. Nicola da Bari
M 7
S. Ambrogio
M 8
Immacolata Concezione
G 9
S. Siro
V 10 Madonna di Loreto S 11 S. Damaso papa D 12 IIIª di Avvento - S. Lucia L 13
Le Pu c c ce ce del l’Imma l’Imma col col ata ata
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S. Lucia
M 14 S. Giovanni D. Cr.
Le pucce e le uliate sono dei panetti bassi realizzati con un impasto morbido di farina di grano duro e aventi crosta molto sottile; le seconde recano obbligatoriamente nell’impasto le olive. I pani di semola e di orzo vengono preparati rispettivamente con semola di grano duro e con farina di orzo.
M 15 S. Massimino G 16 S. Umberto
LA STORIA
Questa Provincia, vanta sul pane una tradizione veramente eccezionale, basti ricordare che le appartengono ben 50 dei 100 tipi di pane censiti nella straordinaria nomenclatura dei pani pugliesi compilata da Luigi Sada. Ognuno di questi pani, è sovente frutto di una particolare motivazione storico economica. Il pane di orzo, ad esempio, è un pane povero, storicamente in uso presso gli strati più umili della popolazione, un prodotto che nasce dal bisogno di sotituire un cereale nobile come il grano con uno meno pregiato e soprattutto agronomicamente meno esigente e più produttivo quale appunto l’orzo. Quello di semola, all’opposto, è l’antesignano del mitico pane bianco ed è stato per secoli un privilegio alimentare riservato ai ceti benestanti e cittadini. Le pucce, le ul iate e i pani conditi in genere sono nati come pani per occasioni particolari, sovente legati a ricorrenze liturgiche, come le pucce che, in tutto il Salento, è antica tradizione consumare la vigilia dell’Immacolata. C AMERA DI COMMERCIO DI LECCE, “Salento Sapori”
V 17
S. Lazzaro
S 18 S. Graziano Nduvinieddhru Tegnu ‘na cosa chiripicòsa face tthre vutàte e poi riposa. (la chiave)
Detti popolari Santu Magnu si mangia Santu Ggiustu. Quandu la muscia nu rriva allu casu dice ca fete. L’urtimu ca lu sape ede lu curnutu. Lu ciucciu se canusce de le ricche, e llu fessa de le chiacchere. Nghiutti maru e sputa duce. Ci vole cu descia de capu allu parete, mmara lle corne soe. Ci se ccuntenta code (e stenta)!!
La cucina de na fiata CROSTATA CU LLE MENDULE Ingredienti per la pasta frolla: 600 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 100 gr. di strutto, 150 gr. di burro, 2 tuorli e 2 uova intere. Ingredienti per il ripieno: 500 gr. di mandorle, 300 gr. di zucchero, 3 uova, vaniglia, cannella in polvere, alcuni chiodi di garofano pestati, 1 biccherino di rum, marmellata di amarene. Impastare velocemente gli ingredienti della pasta frolla e lasciarla riposare in frigo per 1 ora. Tritare le mandorle con la loro buccia, aggiungere le uova, lo zucchero, gli aromi e il liquore. Ricavare dalla pasta frolla 2 sfoglie, foderare con una sfoglia una teglia da forno unta di burro e infarinata, adagiare il ripieno, aggiungere un sottile strato di mermellata di amarene. Ricoprire la crostata con la seconda sfoglia di frolla e infornare a 180°. La crostata tolta dal forno e raffreddata, va spolverizzata di zucchero a velo. Curiosità
Un tempo i dolci preparati in casa venivano serviti, specialmente nel periodo Natalizio con dei liquori preparati dalle nostre nonne. I liquori venivano gelosamente conservati negli “stipi” e poi, come per magia, appari vano nei momenti o giorni particolari. Un liquore molto caratteristico e speciale era quello ottenuto facendo macerare nell’alcool i fichi d’india. Liquore di fichi d’india Ingredienti: 500 gr. di alcool, 10 fichi d’india rossi, 400 gr. zucchero, 500 gr. di acqua.
Mettere i fichi d’india a macerare nell’alcool in un vaso a chiusura ermetica per una decina di giorni (avendo cura di agitare il vaso ogni giorno). Far sciogliere sul fuoco lo zucchero nell’acqua e attendere che si raffreddi, quindi mescolarlo all’alcool e poi filtrare il tutto. Si otterrà un liquore di un’intensa colorazione rossa. Se si vuole ottenere una colorazione diversa si useranno dei fichi d’india di altro colore.
D 19 IVª di Avvento L 20 S. Ursicino M 21 s. Pietro Canisio
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M 22 S. Demetrio G 23 S. Vittoria V 24 S. Adele S 25 Natale di N. Signore D 26 S. Stefano L 27 S. Giovanni ev. M 28 SS. Innocenti M. M 29 S. Tommaso B. G 30 S. Eugenio V 31 S. Silvestro
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