Filosofia del Diritto
Norme, Concetti, Concetti, Argomenti Carocci editore 1. Persona
Persona è [qualsiasi] «centro di interessi giuridici che ricev[a] dal diritto una protezione unitaria e organica». In Latino persona significa “maschera”. La «persona», nell’accezione del diritto Romano è uno strumento astratto di qualificazione e discernimento in ragione di status e di possibilità di azione. Si dà il caso che vi siano individui biologicamente umani che non sono persone ed enti biologicamente non umani che sono persone a pieno titolo. Ora, il fatto che persona significhi “maschera” ci porta a dover dire un po’ di più a questo proposito: “maschera” – nel teatro antico – indicava sia il personaggio, sia il ruolo che il personaggio svolge; indica, in ragione dello status che contraddistingue la persona, il novero novero delle possibilità possibilità di agire o non non agire. Status non indica solo un contesto di agire, ma anche un essere qualcosa, ad esempio la differenza fra individuo umano in condizione servile e individuo umano in condizione libera. Essi non sono allo stesso modo e allo stesso titolo persone.
Tutto questo rimane così determinato sino all’Illuminismo e ancora nella metà del secolo XVIII troviamo giuristi che distinguono in maniera netta la specie homo dalla qualificazione persona e ciò unicamente in ragione dello status. Il cammino storico che conduce alla situazione attuale è davvero molto lungo, articolato e per alcuni aspetti persino paradossale: il processo di acquisizione dei diritti tendenzialmente tendenzialmente universali si configura storicamente come secolarizzazione, ma ha un’origine teologica, da ricondursi alla Chiesa cristiana delle origini. Nel tardo Settecento abbiamo la codificazione del diritto privato europeo, gli Stati si dotano di un proprio codice, di leggi scritte; questo s’inserisce nel tema della certezza del diritto e si collega al rafforzamento rafforzamento del potere pubblico, dello Stato-nazione. Stato-nazione. Questione molto importante appare in Pufendorf, con la distinzione fra entia physica ed entia moralia: mentre gli enti fisici sono retti essenzialmente dal principio di causalità efficiente, gli enti morali sono guidati dalla loro volontà di agire, retti dalla loro libertà. È una differenza fondamentale. fondamentale. In questa fase la distinzione di ente fisico ed ente morale non prevede una differenziazione differenziazione rispetto all’essere o meno creati da Dio: entrambi lo sono, ma l’ente morale in quanto libero è creato – assunzione tipicamente tomistica (san tommaso)– da Dio ad immagine sua. Ora, nel corso di questa evoluzione, il rapporto fra status e individuo si rovescia; ossia, mentre per la antica lo status determinava al modalità dell’essere “persona”, nella prospettiva della giuridicità moderna è invece l’essere persona che determina
la possibilità di operare, non operare, costituirsi soggettivamente e socialmente come status. Il termine persona va a coincidere con il soggetto unico di diritto, capace in astratto di assumere qualunque status: la persona allora non è più il risultato dello status, cioè della sua situazione concreta nell’ambito delle relazioni sociali e giuridiche, ma piuttosto il quadro, il sostrato entro il quale quelle relazioni si vanno a costituire. È una rivoluzione che ha una genesi lunga e complessa e la possiamo rintracciare rintracciare secondo secondo due principali principali direttrici storiche. storiche. La questione centrale per ciò che qui ci interessa è legata al problema del dogma trinitario e cioè la compresenza compresenza di Dio uno e medesimo che opera attraverso tre “distinte persone”. Nel Concilio di Calcedonia si discute della Persona di Cristo, intesa come soggettività storicamente esistita, viene riconosciuta la speculare compresenza di natura divina e natura umana. Boezio in occasione di una di queste dispute definisce “sostanza” e “razionale” la persona: questo comporta l’estensione a qualunque sostanza individuale razionale appunto lo status di persona; con Boezio è l’analogia l’analogia la struttura logica logica che asserisce la presenza di un elemento di divinità (la facoltà razionale) nell’uomo. Il giusnaturalismo di matrice tomistica e neo-tomistica (a proposito: con tomistico s’intende ciò che è riferito a Tommaso d’Aquino) si fonda proprio sul concetto di uomo come immagine riflessa di Dio; è su questo elemento che molte teorie giusnaturalistiche (ossia quelle teorie che assumono la presenza e
l’inviolabilità di alcuni diritti fondamentali dell’individuo, indipendentemente dal singolo ordinamento) assumono la razionalità dell’uomo, dalla quale discende la sua libertà e la sua inviolabilità. Locke definisce “persona” « essere pensante e intelligente dotato di ragione e di riflessione, che può considerare sé stesso come sé stesso, cioè come la stessa cosa pensate, in diversi tempi e luoghi ». Nella prospettiva di Locke, dunque la persona umana non
è un riflesso della divinità: non ci son riferimenti ad eventuale fine che nell’ambito del mondo, in forza di un eventuale disegno divino, l’uomo è chiamato a svolgere. Piuttosto si sofferma su una identità personale che coincide con una serie di requisiti empirici che si riconoscono nella coscienza permanente di sé nel tempo e nello spazio. Con Hume “persona” viene ad essere il nome convenzionale che si attribuisce al susseguirsi delle nostre impressioni, addirittura non è nemmeno una natura stabile, ma di fatto non esiste neppure in senso stretto; è la tesi del carattere fittizio dello stesso soggetto personale individuale. individuale. Le critiche all’unità della persona diventano motivo di approfondimento per l’Illuminismo, soprattutto per Kant il quale, centrando l’intero ragionamento sulla “persona” intorno alle sue facoltà razionali, riprende ed attualizza la distinzione fra ente fisico ed ente morale concludendone che le persone, in quanto enti razionali, sono sottoponibili unicamente alle leggi che esse si danno. Libertà e autonomia possono essere esercitate, in quanto protette e tutelate, unicamente all’interno di un quadro collettivo che
appunto salvaguardi queste prerogative della persona; la soggettività giuridica si realizza solo sotto l’egida dello Stato. Eccoci alla seconda direttrice storica: la persona come soggettività politica. La persona non è solo biologicamente tale; lo Stato – che evidentemente non esiste in natura – agisce come “persona”. Proprio l’assunzione dello stato di natura e la transizione allo Stato civile o stato politico è alla base del giusnaturalismo moderno. Secondo Hobbes nello stato di natura non esiste propriamente alcuna persona, ma solo individui famelici guidati dall’istinto di sopravvivenza, che porta ad attentare alla vita e alla proprietà altrui, col risultato che – in assenza di un terzo sanzionatore, che garantisca tutti egualmente – non esiste il diritto. Nello Stato civile si è persona o in quanto titolare individualmente individualmente di diritti e di possibili imputazioni per parole o azioni in proprio, oppure in quanto si ha la facoltà di assumere la rappresentanza altrui: la prima è persona naturale, la seconda è persona artificiale. In questo senso la persona è una convenzione, perché costituisce il risultato dell’imputazione di una autorità che la istituisce per un fine, nel caso Hobbesiano garantire la sopravvivenza. È dunque questo il caso della Fictio iuris, che individua i soggetti personali individuati in rapporto allo Stato – in quanto sono sudditi – e lo Stato in rapporto agli individui, in quanto è Sovrano. La persona giuridica qui è tale in quanto facente parte di una data collettività che si costituisce in ragione di un patto (contrattualismo).
In assenza di una positivizzazione, ossia della fissazione in forma di leggi e ordinamento, e in assenza di una autorità legittima che faccia rispettare leggi e ordinamento, semplicemente non può esistere, perché tutto questo rimarrebbe del tutto astratto: dove manca l’appartenenza ad un determinato quadro ordinamentale ed autoritativo, manca la possibilità di far valere in concreto – e cioè giuridicamente – lo status di persona. Persona e diritti umani
Ciò che per necessità di esposizione ho dovuto dividere in due direttrici di sviluppo in definitiva hanno una destinazione per così dire unitaria; questo è il riconoscimento da parte dell’ordinamento di alcune prerogative fondamentali del soggetto umano, che diviene persona non solo perché l’ordinamento la riconosce come tale, ma proprio perché la persona viene considerata nelle sue possibilità, si tende a considerare legittimo legittimo un ordinamento. ordinamento. Oggi, dopo il Novecento e dopo le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, Individuo umano e persona vengono a coincidere. Pensate ad esempio a ciò che nel dibattito comune chiamiamo welfare state. La questione dell’eguaglianza crea non poche discussioni. L’introduzione del concetto di universalità come elemento caratterizzante la stessa assunzione dei diritti, ha dato luogo ad un intenso dibattito, articolato secondo due principali direttrici. Da un lato, è il caso di Hannah Arendt e Simone Weil, l’universalizzazione dei diritti attraverso il concetto di persona nasconde il fatto che è un potere politico che concede quei diritti; Dall’altro, è il caso di Deleuze, Foucault, Agamben, la
sottolineatura della differenziazione fra componente corporea e componente spirituale da un lato impedisce la comprensione dell’esperienza che è unitaria e non frazionata (mente vs corpo; persona vs cittadino); dall’altro cristallizza e sanziona forme di dominio dell’uomo dell’uomo sull’uomo e di una cultura su un’altra. Sul versante femminista troviamo critiche dirette a sottolineare come il costrutto concettuale che è alla base della visione della persona, che è confluita in leggi, codici, attraverso la Dichiarazione nasconde il dominio maschile sul femminile; e per tanto l’universalità di cui sopra è una mera – e subdola – illusione. Un altro fronte di critica è costituito dal positivismo giuridico contemporaneo, il quale osserva (è ad esempio il caso di Mauro Barberis) che avanzare la pretesa dell’universalità, se da un lato nasconde quale sia il concreto processo di avanzamento e di maturazione dei diritti, dall’altro introduce forme di “moralizzazione” del diritto, che nei fatti fanno prevalere un sistema di valori sugli altri. Ci sono poi obiezioni di senso comune, come ad esempio il fatto concreto che nel mondo i diritti umani non ottengono ovunque, e allo stesso modo, riconoscimento, protezione ed effettività; a questo dobbiamo poi aggiungere la globalizzazione. Un diritto è autenticamente e fino in fondo un diritto se esso è esigibile in giudizio; ossia solo in presenza di un soggetto che è chiamato a garantirne l’effettività, ad impedirne attraverso un sistema anche coercitivo il perpetrarsi; insomma: ciò che sino ad oggi abbiamo chiamato Stato.
Bioetica
Chiaramente, il fatto che il diritto si muova con la storia e con la società, significa che anche le questioni relative agli avanzamenti scientifici ottengono necessariamente attenzione dal mondo del diritto: è il caso della bioetica. Per bioetica intendiamo quel campo interdisciplinare di studi che s’interessano delle implicazioni morali (ma non solo morali) riguardanti le nuove frontiere della biomedicina, come la fecondazione medicalmente assistita, le terapie genetiche, il trattamento di individui in stato vegetativo e simili; chiaramente questo investe potentemente il concetto di “persona”. Proprio questa estensione, o indeterminatezza, indeterminatezza, dei confini della bioetica ha provocato reazioni, volte non soltanto a meglio precisarne lo statuto epistemologico, epistemologico, ma soprattutto a mettere in evidenza come la vita ( !"#$ ) e le sue vicende non possano essere affidate unicamente alle indicazioni dell’etica, ma esigano l’assunzione di responsabilità politiche e l’intervento della regola giuridica (Dizionario (Dizionario di Filosofia Terccani).
Nel dibattito odierno riconosciamo due orientamenti, che al loro interno conoscono delle differenziazioni, ma che possiamo suddividere in bioetica cattolica e bioetica laica. Bioetica cattolica L’assunzione tomistica del concetto di persona identifica il nucleo razionale dell’individuo umano nel suo essere donato da Dio; questo implica uno sviluppo duplice: da un lato in quanto razionale è libero; dall’altro, rintracciando in una origine divina il criterio della razionalità, l’uomo è vincolato al progetto divino.
Quest’ultimo aspetto in particolare implica che qualunque forma biologicamente biologicamente umana è perciò stesso persona; perciò la vita umana intesa in questa declinazione è a qualunque suo stadio, da quello embrionale a quello eventualmente vegetativo indisponibile ed inviolabile, tanto presso il privato che in riferimento ai pubblici poteri. Questa è una concezione che potremmo definire “sostanzialista”, nel senso che dalla forma deduca conseguenze che assume come incontrovertibili indipendentemente o meno dal manifestarsi di alcuni elementi o di altri elementi nel caso concreto. Bioetica laica L’orientamento laico muove da presupposti differenti rispetto alla bioetica cattolica cattolica e differenti sono sono i suoi sviluppi. sviluppi. In senso generale, l’approccio laico alla bioetica assume l’impossibilità e l’arbitrarietà di qualunque trasposizione in termini morali e soprattutto giuridici di ciò che chiamiamo “natura” in qualunque significato sia assunta; il mondo umano – e il mondo del diritto in modo particolare, vista la delicatezza che ne caratterizza gli effetti sulla vita di tutti e di ciascuno – è un mondo della decisione, diretta a proteggere “beni” che in un determinato contesto storico, politico e sociale sono ritenuti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento dell’ordinamento concretamente esistente. Di conseguenza, l’uomo – e soprattutto la persona – viene qui considerata in ragione non della sua forma per così dire sostanzialistica, ma in ragione di ciò che nel concreto della sua condizione individuale può e non può fare, approccio che potremmo definire definire “funzionalistico”. “funzionalistico”.
In sostanza affinché si dia di fatto e dunque anche di diritto la “persona”, debbono presentarsi taluni requisiti basici: autocoscienza (ossia percezione di sé), autocontrollo, senso del passato del presente e del futuro, attività simbolica ossia significazione di stati d’animo attraverso il linguaggio e così via. In assenza di simili requisiti minimi disporre di forme di vita umane diventerebbe lecito, giacché non è sempre vero che qualunque forma di vita umana sia anche una forma di vita umana personale. Persona “sottile” e persona “spessa”
Per andare a concludere il nostro ragionamento sul concetto di persona e sulle sue implicazioni implicazioni giuridiche, giuridiche, appare utile prendere prendere a prestito dal linguaggio della metaetica (una particolare branca della filosofia) diretta ad indagare le condizioni di validità d’uso di termini etici e calarla nella nostra questione della persona. In questa accezione con termine “sottile” intendiamo delle modalità di impiego di termini di importo morale in senso molto generale, ossia senza una effettiva connotazione normativa delle condotto individuali. L’assunzione del termine “sottile” costituisce infatti tutt’al più un orizzonte orientativo; orientativo ; i termini sottili sono infatti sprovvisti di un contenuto concretamente concretamente descrittivo e sono dunque astratti. “Bene; Male; Buono; Giusto; Cattivo” e così via possono annovero all’interno del loro cerchio di significati una tale ampiezza da non consentire contenuti normativi circostanziati. In questa prospettiva, il termine spesso è quello che implica un importo descrittivo, termini come “sincero”, “coraggioso”,
indicano una differente, meno estesa possibilità d’impiego e a ciò corrisponde un determinato contenuto normativo, tale da prescrivere condotte condotte individuali individuali in senso più specifico. Sincero è colui che non dice menzogne, non colui che di fronte al bisognoso presta il suo soccorso; costui sarà altruista o caritatevole. Bene: dicevamo di trasporre questo nella situazione giuridica e soprattutto a quel che riguarda il caso della persona. Le declinazioni in termini sottili di “persona” implica unicamente l’idoneità ad essere titolari di diritti ed obblighi, ossia partecipare ad una situazione giuridica soggettiva. Cioè, si dice che la persona umana in quanto tale è partecipe di diritti e di doveri, cui corrispondono tutele ed eventuali sanzioni nel concreto dell’ordinamento; il legislatore e il giudice dovranno tenere conto, nello svolgimento delle rispettive funzioni, di questo elemento. Per quanto i codici possano essere particolareggiati, resta sempre il problema che non tutto può nel dettaglio essere previsto; e d’altra parte, proprio il caso della bioetica ce lo mostra; le tecniche, ossia le possibilità di intervento sulla persona, si evolvono di continuo e ciò che prima sembrava impossibile, e per tanto né legislatore né giudice avrebbero potuto prendere determinate cose in considerazione, ad un certo punto si aprono nuove possibilità che determinano nuove necessità per il diritto. 2. Istituzioni
«un complesso di posizioni, ruoli, norme, valori, depositati in particolari tipi di di strutture sociali, che che organizzano organizzano modelli,
relativamente stabili, di attività umane rispetto alla gestione di problemi fondamentali». fondamentali». J. H. Turner, The Institutional Order , Longman, New York 1997, p. 6. trad. F. Poggi.
Tutti questi fenomeni sarebbero in effetti accomunati da almeno quattro caratteristiche: 1) struttura; 2) funzione; 3) cultura; 4) sanzioni. Per struttura s’intende una organizzazione, ossia un insieme di ruoli, differenziati ma interconnessi e interdipendenti, definiti mediante regole, in termini di compiti (ossia di chi fa che cosa). Le istituzioni debbono perseguire un fine, ossia ciò in vista della cui realizzazione si costituiscono. Il fine concorre dunque a giustificare l’esistenza delle istituzioni, ma il fatto che esistano dei fini in ordine ai quali si determina la struttura con le funzioni che la formano, non ci dice tutto. Un fatto in sé non è un fine, in assenza di una serie di priorità, di un sistema di valori (quale che sia la sua origine ultima), non è possibile dire che cosa sia positivo fare (quale valore cioè aspirare a vedere realizzato). Perciò affinché si dia una istituzione è basilare che ci siano dei valori, preferiti ad altri possibili, che vengano eletti a fini e le
strutture-istituzioni, ciascuna nel suo ordine di competenza, vengono disposte per realizzarli o tendere a realizzarli. Però neppure così è concluso il ragionamento sulle “istituzioni sociali”; esiste infatti il caso in cui alcune istituzioni non facciano ciò che dovrebbero o lo facciano male. Perciò deve essere presente il concetto di irrogazione di sanzioni, siano esse formali che informali. Istituzioni e fatti istituzionali
John Searle, un protagonista della corrente analitica della filosofia contemporanea, propone una distinzione per noi può essere utile: quella fra istituzioni e fatti istituzionali. In questo senso abbiamo un’ulteriore accezione di istituzione, molto presente e piuttosto influente nel dibattito giusfilosofico contemporaneo. Searle procede attraverso una prima fondamentale divisione: a)
fatti bruti: oggetti, o anche azioni che possono sussistere indipendentemente dalla posizione in essere di un determinato sistema normativo entro il quale abbiano senso (anche le azioni umane) b) fatti istituzionali: fatti possibili solo in presenza di un sistema di
regole costitutive In questo ambito distinguiamo poi le regole costitutive, alle quali ho già fatto cenno, dalle regole regolative. Queste ultime sono quelle che disciplinano nel concreto lo svolgersi di fatti bruti e\o istituzionali, permettendo, vietando, obbligando i singoli comportamenti.
Parliamo di un pensatore – Searle – che è ancora in vita (questo è un fatto bruto) e che sta portando la sua teoria ad evoluzione: - Istituzioni di senso: qualsiasi fatto la cui possibilità dipenda da regole o convenzioni umane Sembrerebbe identica alla questione dei fatti istituzionali, ed in effetti è molto simile, ma ci sono delle piccole differenze. Le istituzioni di senso non assumono come necessario un sistema di diritti e doveri La caratterizzazione caratterizzazione deontica – cioè relativa a doveri e diritti entro un quadro di regole istituito – è molto sfumata, per non dire completamente completamente assente; - Fondamenti: in senso istituzionale là dove si pongono in essere principi, concetti orientativi che fanno riferimento a questioni di valore o finalità (es.per quale motivo è stato istituito il matrimonio? Per quali valori?) In questo senso parliamo di “istituzione come fondamenti”. fondamenti”. Ora, tutte le accezioni che abbiamo considerato condividono una caratteristica: sono definizioni negative, intendendo con questo che non indicano un oggetto, un qualcosa di tangibile, ma sono enti immateriali, che tuttavia hanno effetti enormemente consistenti nelle nostre vite. Si tratta dunque di mettere a fuoco due questioni: 1. in che senso possiamo dire che le istituzioni esistono, cioè quale sia il loro modo di esistere; 2. come effettivamente agiscano nelle nostre vite le istituzioni.
Vi sono due grandi famiglie d’approccio al problema della istituzione: le teorie atomiste, e quelle organiciste. Le prime tendono a scomporre l’istituzione nei suoi istituti, ossia ad assumere i fenomeni nella loro forma quanto più possibile elementare. Questo avviene in ragione di definizioni d’uso; d’atti linguistici che non debbono avere pretesa di veridicità in generale, ma unicamente di rendere conto di una intenzione normativa all’interno di un comune campo di significato, che segue ad un riconoscimento. Le seconde invece tentano di assumere il fenomeno istituzionale nella sua globalità, questo vuol dire che non limiteranno le loro analisi all’elemento regolativo, dei linguaggi che lo istituiscono e le regolano, ma intendono studiare l’istituzione non prescindendo dalla società in generale. Non solo, alcuni tendono ad attribuire all’istituzione una autonoma capacità di giudizio e di pensiero: come se fossero organismi di per sé esistenti. Una discriminante rilevante è costituita dal riconoscimento o meno di una volontà cooperativa effettiva: le teorie atomistiche tendono a negare o comunque a limitare molto questo elemento. Quando abbiamo parlato di aporie della validità e di aporie della effettività (attraverso Kelsen, Bobbio, Santi Romano, Hart) in definitiva abbiamo parlato di questo: gli atomisti si pongono il problema della validità, della tracciabilità in fatto di usi linguistici del carattere normativo delle istituzioni. Gli organicisti sono interessati maggiormente al problema della effettività: che cosa ci porta a permanere nell’istituzione, ad
obbedire, a cooperare affinché istituzioni ci siano e possano realmente influire nelle nostre vite? Anzitutto è chiaro che il diritto oggettivo, un dato ordinamento ordinamento nella sua globalità, è una istituzione. Lo è sia dal punto di vista di chi pone il problema della validità del carattere normativo, il quale consegue a definizioni generali che hanno un importo prescrittivo (Kelsen), e lo è dal punto di vista di chi considera l’istituzione come un fatto naturale o comunque del tutto spontaneo (Santi Romano). Abbiamo già visto e commentato brani di Santi Romano: dal suo punto di vista l’esistenza del diritto è in sostanza indipendente dall’esistenza delle norme codificate, di qualunque livello queste siano, e si dà perché è una porzione di essere, ossia di esistenza spontanea alla quale il possibile quadro normativo si sovrappone. La tesi olisitica o organicistica è perfettamente rappresentata dalle posizioni di Santi Romano: il diritto non solo non è riducibile all’insieme delle norme che lo riguardano, ma non sono le norme a produrre il diritto, ma questo a produrre quelle. Per argomentare la tesi da un altro punto di vista: le norme non hanno alcuna forza produttiva in quanto sono a loro volta dei prodotti, perciò le norme giuridiche, per essere intese a pieno, debbono essere ricondotte alla forza creatrice che le dispone Per fare un altro esempio di tesi istituzionalistica, olistica, organicistica dobbiamo prendere un protagonista di questa visione: Carl Schmitt.
Schmitt mette a fuoco nelle sue opere l’essenza in ultimo decisoria del diritto: se ripensate per un attimo alla questione kelseniana della Grundnorm ne avrete immediata contezza. Abbiamo visto come la Grundnorm in ultimo non può essere fondativa, in quanto non si pone da sé; fondativo è il potere che la determina, ma in quanto la determina, lo fa in un campo extragiuridico. Ma se è così, per parlare in termini schmittiani, chi la istituisce è sovrano; sovrano è chi decide nello stato di eccezione: qual è lo stato di eccezione? Quello in cui le comuni regole giuridiche non valgono; in questa prospettiva le norme giuridiche non sono elevate al rango di strutture incondizionatamente deontiche: sono strumenti che si possono cambiare in qualunque momento in ragione di esigenze e persino di preferenze. preferenze. Diventa perciò importante definire che cosa sia una cultura: è l’elemento centrale del fatto giuridico, l’insieme di valori, visioni del mondo, concezioni della vita che hanno carattere extragiuridico: non sono certo prescritti per legge, ma condizionano in maniera determinante l’atto e soprattutto il contenuto del porre norme. In questo senso vale la pena menzionare Joseph Raz, il quale rileva che in numerosi pensatori di orientamento analitico, su tutti Hart, non solo una teoria della istituzione sia presente, ma essa svolga un ruolo centrale in ordine a due questioni:
a) opporsi all’approccio esclusivamente linguistico, che
tende a ridurre il problema della natura del diritto al problema dei significati attribuibili alla parola “diritto”; b)
opporsi alla riduzione operata dal “giurista pratico” del concetto di diritto all’attività dei giudici. Raz intende sottolineare che il significato di una teoria istituzionalista del diritto anche in campo analitico risieda nella necessità di non escludere dalla scienza del diritto il campo del fatto politico (che era invece una preoccupazione kelseniana e non solo), inteso questo come l’emergere nel campo dell’esperienza ordinamentale di nuove tipologie di istituzione, legislativa, politica, appunto, appunto, e giudiziaria. giudiziaria. Hart si pone il problema della regola di riconoscimento, la quale sarebbe la garanzia ultima della giuridicità perché essa sola potrebbe garantire garantire la validità validità delle norme giuridiche giuridiche primarie. primarie. Per norme primarie si deve intendere le norme di comportamento o le “regole regolative”. Le norme secondarie sono invece quelle che presiedono alla sussistenza e allo svolgimento delle norme valide. Esse sono del tutto necessarie dal punto di vista di Hart perché determinano determinano tre elementi necessari affinché possa esserci un sistema giuridico: a)
sono norme secondarie le regole di mutamento, quelle che permettono di produrre, produrre, modificare e abrogare abrogare norme; norme;
b)
le regole di giudizio, che attribuiscono a taluni soggetti la possibilità di giudicare in ordine alle violazioni e comminare sanzioni; c)
la stessa regola di riconoscimento, che fornisce le regole per individuare individuare le norme valide. valide. Ora, la norma di riconoscimento esiste unicamente come prassi complessa: ha carattere pratico, ed esiste solamente se 1. è efficace e quindi effettivamente applicata e 2. se è accettata e quindi è elevata allo status di criterio di comportamento e di giudizio. Tanto le posizioni istituzionalistiche di Santi Romano quanto quelle dei neoistituzionalisti come La Torre o McCormick, pur nelle loro notevolissime differenziazioni, convergono su di un punto: il diritto è principalmente principalmente un problema di effettività delle norme. L’effettività è anche una questione di immediata comprensione, non è mai riducibile al solo fatto che la norma esiste validamente in un ordinamento che si suppone legittimo. L’effettività infatti è l’applicazione concreta della norma, ma è allo stesso modo la tendenza generale dei consociati ad obbedire alla norma. Una norma che sia costantemente o quasi violata dalla totalità o da una porzione molto ampia di consociati è una norma che per forza di cose è resa inefficace. La domanda allora si sposta: che cosa ci porta ad obbedire alle norme?
Dal punto di vista istituzionalistico, il diritto è essenzialmente una impresa cooperativa spontanea, non riducibile alla coercizione legata alle norme che implicano sanzione, ma ad una esigenza comune di realizzare nella pratica giuridica taluni fini. Chiaramente la natura sanzionatoria delle norme passa in secondo piano: è piuttosto la volontà dei consociati di accettare una forma disciplinata di convivenza a costituire il fulcro del problema. Perciò il potere viene a guadagnare la scena, potere che è quello che permette a qualcuno di sanzionare, per il fatto che vi è un apparato meta-normativo che a sua volta consente e disciplina questi ed altri istituti. Questo potere è anzitutto tale perché è riconosciuto dai consociati i quali lo accettano per persuasione della sua generale ragionevolezza. 3. Autorità
Auctoritas deriva da augere, che non significa accrescere, nella sua accezione originaria, ma produrre, portare alcunché all’esistenza. In linea generale, il rapporto che potremmo indicare con “autorità” è quella circostanza in cui, all’interno di una pluralità di individui, qualcuno dice che cosa si debba fare. Non solo: non lo dice come se fosse un consiglio; lo dice con la pretesa di ottenere obbedienza.
In ragione di che cosa lo dice? e in ragione di che cosa dovrebbe venire ascoltato? In termini così generali, immaginiamo che finita la lezione andiamo tutti a cena insieme, io dico che si va in birreria, la signorina, magari potrebbe preferire un ristorante vegano. Come si perviene a produrre una decisione reciprocamente impegnativa in presenza di più di una possibile opzione? E poi; se usciamo dal parlare comune, dobbiamo riconoscere che autorevolezza ed autorità non sono proprio la stessa cosa: l’autorità – presso Hobbes che ho evocato, ma evidentemente non solo presso Hobbes – ha un carattere vincolativo: non è un caso che parliamo di carattere autoritativo dei provvedimenti. Del resto: se viene approvata una legge che vieta di guidare senza la cintura di sicurezza, la legge ha carattere autoritativo: non è un suggerimento di buona pratica, prevede sanzioni in caso di violazione. E se pure io non fossi d’accordo, come in effetti non sono, non c’è dubbio che sia tenuto comunque ad osservarla, come in effetti faccio. Si pone poi la questione che, se pure non ci sono sanzioni previste nella norma, in ogni caso sarei tenuto ad osservarla in quanto sono un consociato. E per questa sola ragione, per il fatto che gli altri consociati e la stessa autorità si aspettano che io mi adegui alla direttiva. Ma potrei non rispettare la direttiva per moltissime ragioni.
Come vedete, fra autorità – e dobbiamo ancora vedere di che si tratti – e intenzioni o sensibilità soggettive è sempre possibile un contrasto. Tutto questo lo diciamo in presenza dell’autorità come fenomeno; al solito si pone la questione di metodo: procedere da principi e quindi per deduzione, o tentare di assumere un punto di vista osservativo. Possiamo dunque partire da una classificazione orientativa: Jospeh Raz, un filosofo del diritto e della politica, individua tre principali significati significati di “autorità”. “autorità”. In un primo significato, autorità è autorità pratica. Che vuol dire? Vuol dire che si presenta come la facoltà di imporre un modo di agire, emanare regole che influiscano sul comportamento altrui. In una prima possibile declinazione, queste norme sono portatrici di obblighi (devi fare x; non devi fare y) e in una secondaria accezione, in questo campo dell’autorità pratica, sono portatrici di opzioni legittime, ossia autorizzano a fare qualcosa, il che non significano che obblighino a farla o vietino di farla. Posso aprire un chiosco di granite a Tarquinia lido una volta che la mia richiesta soddisfi taluni requisiti; questo non significa certo che io sia obbligato a farlo, né che mi sia in principio precluso. In una seconda accezione, che deriva dalla prima, autorità implica una deroga al comportamento comune a seguito di espressa autorizzazione. autorizzazione.
Io ad esempio non sono per nulla autorizzato autorizzat o a guidare l’automobile l’automobile di qualcuno se non ne ho espressa autorizzazione, ma una volta che ho espressa autorizzazione, autorizzazione, ho l’autorità di farlo. Vi è poi il caso dell’autorità epistemica o teoretica, ossia quello dell’esperto, che per la sua autorevolezza, può essere ritenuto affidabile nel suo dare giudizi o informazioni su di un dato ambito. L’autorità epistemica è da assumersi come una buona ragione per ritenere qualcosa. qualcosa. Il gemmologo che dà il suo expertise sulla purezza di un diamante, è considerabile come una autorità epistemica, e quindi, io che di diamanti capisco pochissimo, dovrò prendere per valido ciò che l’esperto mi dice. Se dovessi comprare un diamante, farei bene ad ascoltare il parere di un esperto. Allora, l’autorità pratica può essere collegata a quella epistemica. È piuttosto frequente che si connettano l’aspetto pratico e quello epistemico nella giustificazione della autorità: si deve fare ciò che dice l’autorità, in quanto l’autorità sa che cosa è meglio fare. Ora, in riferimento all’autorità politica, cioè all’autorità dello Stato e anche a quella del diritto, è il primo significato ad essere prevalente. Avere autorità significa avere il diritto – ripeto: avere il diritto – di regolare il comportamento comportamento altrui.
Questa forma di autorità pratica è quella che in definitiva presiede all’attività e allo stesso stabilirsi dello Stato e del diritto; avere autorità pratica significa: 1. essere in condizione di poter produrre una differenza nelle ragioni per l’azione dei soggetti singoli; 2. la presenza autorità implica l’obbligo di attenersi alle prescrizione dell’autorità. dell’autorità. Quest’ultimo punto, come comprenderete, è controverso. L’obbligo infatti impone di fare ciò che l’autorità prescrive, e in senso stretto, dovremmo accettarlo in ogni caso, anche in presenza di una direttiva che ci apparisse del tutto irragionevole. Alcuni per esempio ritengono che non vi sia obbligo in senso stretto, ma una interrelazione critica, ossia tale da implicare una certa soglia di discernimento da parte dei consociati anche in presenza del comando. comando. Coloro che inclinano verso queste posizioni, debbono concludere che l’autorità non consiste nel diritto di conformare a direttive l’azione altrui, ma nella responsabilità di agire a vantaggio dei consociati. In definitiva, viene ad essere fortemente modificato il profilo deontico del concetto di autorità. Al di là di ciò, abbiamo un terzo punto da prendere in considerazione. 3. l’esistenza dell’obbligo di conformarsi alle direttive è da riferirsi al solo fatto che l’autorità la direttiva in questione l’ha emanata.
Detto più precisamente: non è solo necessario che ci si conformi alla direttiva dell’autorità, ma è altresì necessario che questo avvenga sulla base di un riconosciuto diritto dell’autorità a prescrivere comportamen comportamenti. ti. In sostanza, se avete presente Il Padrino di Francis Ford Coppola, potete ben capire a cosa mi riferisco. Una rivoltella alla tempia è sicuramente una ragione valida per conformare conformare il proprio comportamento comportamento a quanto ci viene richiesto da parte di chi la impugnasse; ma questo non costituisce il diritto di emanare direttive, costituisce semplicemente un obbligo di fatto dietro minaccia della vita. L’autorità, come osserva Arendt, non va confusa con la mera coercizione né con la persuasione, ma ha un significato ulteriore. Se l’unica ragione è la possibilità di avere a patire conseguenze indesiderabili in determinate circostanze, in senso giuridico non si configura un obbligo ad attenersi alle direttive dell’autorità, ma solamente una costrizione di fatto, che come vedremo è altra cosa. Ciò infatti significa che la nozione di autorità deve essere distinta da quella di potere. D’altra parte neppure la persuasione da sé giustifica l’obbligo, perché assume le sembianze di un consiglio. Del resto, il gemmologo può rassicurarmi sulla purezza del diamante che sto per acquistare, ma potrei comunque non acquistarlo, e decidere di comprare uno smeraldo o un abbonamento abbonamento a teatro, in alternativa.
Tutto questo ci porta a concludere che uno studio sul concetto di autorità, deve in definitiva essere uno studio del concetto di autorità come portatrice di vincoli cogenti, ma di vincoli cogenti che riconosciamo come legittimi. In campo giuridico e politico non si può eludere la questione della legittimità di una autorità. Se pensiamo al concetto kantiano di autonomia, del quale abbiamo già parlato, la questione ci si para davanti. Al di fuori di una dimensione unicamente impositiva, quale quella hobbesiana, l’antinomia fra libertà come autodeterminazione e autorità come facoltà di conformare a direttive che richiedono obbligo di adeguazione il comportamento altrui si presenta chiarissima. L’emergere e l’estendersi del concetto di libertà, come ha rilevato Arendt, ha messo in crisi la nozione tradizionale di autorità. L’autorità, per essere tale, non può solo poter conformare al suo volere l’altrui comportamento, come chi impugna una pistola, deve poterne rivendicare il diritto. E quindi questo impone una giustificazione del comando dell’autorità, che vada oltre la semplice costatazione della presenza della forza. Intendiamoci: autonomia non è assenza di vincolo, che sare a-nomia, ma presenza di vincolo che il soggetto stesso si è dato, avendolo liberamente e responsabilmente scelto.
Ora, escludendo in principio il caso della presenza di forme di governo non democratiche, rispetto alla questione dell’autorità politica, resta il fatto che un concetto di autonomia così assunto pare incompatibile incompatibile con il concetto di autorità come fonte sufficiente per regolare il comportamento comportamento altrui. È una questione molto seria. Da un punto di vista per così dire formale, in un contesto democratico, governanti e governati coincidono: è il popolo che governa se stesso. Bene, allora dove starebbe il problema, o per meglio dire: i problemi? Anzitutto la formulazione governo del popolo è equivoca; sarebbe giustificata in linea teorica – in senso stretto – unicamente in un ipotetico caso di democrazia diretta permanente e unanime. Perché unanime? Perché anche nel caso in cui fosse il popolo a votare sempre e su tutto, resterebbe il problema di ammettere come legittimo sempre e comunque il criterio della maggioranza. Se qui siamo sette, tre votano per x e quattro per y, il fatto che i tre che hanno votato x debbano sempre e comunque adeguare il loro comportamento individuale alle direttive di chi ha votato y non è di per sé evidente: deve essere giustificato. Resta comunque il fatto che le democrazie contemporanee non funzionano così: ci sono organi eletti in base a procedure che fanno le leggi, si chiamano in generale parlamenti.
Fra l’altro gli eletti debbono essere dipendenti dai loro elettori nel momento in cui svolgono la funzione per la quale sono stati eletti: il sindaco di Viterbo è il sindaco di Viterbo, non dei viterbesi che sono andati a votare, né tanto meno solo di quelli che hanno votato per lui\lei. Peraltro, in alcune circostanze ci sono elettori che votano candidati che risultano non essere letti, o votano per raggruppamenti che non ottengo seggi, e ciò fa sì che io debba soggiacere alla volontà di chi non ho votato, per il fatto che altri hanno preso più voti. Ora, Aldo Schiavello – autore del saggio sul concetto di autorità che vi sto qui spiegando – opportunamente cita Churcill, quando osserva che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sino ad ora sperimentate”, e quindi non stiamo qui discettare della preferibilità di una dittatura rispetto ad un democrazia. Evidentemente non è questo il punto. Il punto è il problema teorico se, e a che condizioni, si possa conciliare l’antinomia che sorge fra autorità ed autonomia. Al di là di considerazioni di carattere probabilistico (è più probabile che il parere di molti sia più sensato di quello di pochi), argomento di per sé infondato; o di natura pratica: è preferibile che la maggioranza governi legalmente anziché dover far pesare i numeri in altro modo, il punto è che c’è una aporia fondamentale. Questa è relativa la fatto che altri, sebbene in maggioranza, decidano per me, che pur essendo in minoranza, non per questo cesso di avere una volontà.
Basta questo solo il fatto? Indubbiamente è una prassi che funziona meglio di altre, non c’è dubbio, ma qui non facciamo statistica, ci occupiamo dei concetti fondamentali, e il criterio prudenziale, non è sempre di per sé evidente. evidente. Un argomento più sensato è quello che si regge sul concetto di promessa: implicitamente, nel momento in cui accetto di prendere parte al processo decisionale, rispetto al quale il voto è il momento di esito, non essendo l’unico momento, prometto di accettare il risultato. E però come potremmo replicare? Grosso modo così: sembra una proposta ragionevole, ma la sua ragionevolezza consiste appunto nel fatto che si accetta di rimettere la propria autonomia alla composizione di tutte le altre analoghe autonomie che avviene col voto. Autonomamente, nella migliore delle ipotesi, ma non è fino in fondo così, rimetto al mia autonomia alla somma delle altre autonomie. Questa non è una composizione fra autonomia ed autorità, è la volontaria rinuncia all’autonomia. all’autonomia. Ossia: accetto volontariamente di non essere autonomo, o di esserlo limitatamente a quelle sfere di possibile azione non interessate dal vincolo autoritativo. Eccezion fatta per il mondo ateniese classico, che però si fondava sul concetto di schiavitù e quindi non rientra nel perimetro delle nostre nostre discussioni, le tradizioni tradizioni classiche che più si
sono interessate al concetto di autorità in rapporto a quello di autonomia, sono quelle contrattualistiche. contrattualistiche. I contrattualismi, tanto quelli classici che contemporanei, contemporanei, si fondano sul concetto di consenso.
quelli
Secondo la visione contrattualistica, l’autorità del diritto è il risultato di una iniziale (effettiva o ipotetica che sia) convergenza in ordine alla questione fondamentale, ossia la vicendevole promessa di accettare le disposizioni dell’autorità che deriva dalla “stesura” del patto. La forma di questa posizione è quella – di natura morale – di rispettare la promessa o la parola data. Al suo interno il contrattualismo conosce una notevole varietà di interpretazioni e di presupposti iniziali. Si prenda l’antropologia negativa di Hobbes, la quale vede nella quasi totale remissione della propria autonomia all’autorità sovrana del Levitano, Hobbes le definisce “Dio mortale”, affinché il sovrano renda possibile la convivenza degli individui, che nell’ipotetico stato di natura attenterebbero di continuo ciascuno alla vita altrui. Essendo gli individui nello stato di natura liberi ed eguali, ed essendo al contempo inemendabilmente egoisti, necessitano di una autorità che permetta loro di vivere non attentando ciascuno alla vita dell’altro. Per contro – è una tipizzazione canonica – c’è la versione lockeana del contrattualismo. contrattualismo.
Locke non muove da una considerazione considerazi one antropologica antropologic a orientata al pessimismo. Il fatto che gli individui siano nello stato di natura liberi ed eguali non implica per necessità che si uccidano l’un l’altro. Perché. Perché Locke non muove dal presupposto che la legge di natura non sia l’astratta ambizione alla onnipotenza di ciascun individuo, e quindi non crede chela libertà in natura sia sconfinata - ius in omnia – né l’eguaglianza sia una equivalenza delle qualità soggettuali. s oggettuali. E dunque la legge di natura sarebbe di per sé in grado di mantenere un ordine nella collettività. È una diversa caratterizzazione antropologica a definire le differenze. Hobbes ha il pregio di essere molto chiaro a proposito del perché sia necessario il patto sociale; ma perché – se l’uomo non è del tutto e sempre egoista, come vuole Locke – dovrebbe dare luogo al patto? Perché l’ordine può comunque essere turbato dalla eccessiva pretesa di uno, senza per questo dover estendere questo fatto al rango di legge universale della sopraffazione, come fa Hobbes, ma ciò non toglie che sia possibile. L’ordine della legge naturale deve essere ristabilito. In caso di violazione, in natura, la persona offesa dovrebbe avere i diritto di punire chi offende; ma nessuno, assume Locke, è giudice imparziale delle sue questioni private.
Il patto è necessario, allora, non perché in natura non ci siano leggi in grado di assicurare una convivenza tendenzialmente possibile in regime di più o meno costante pace pace sociale, ma perché in natura manca un organo terzo in grado di dirimere le controversie. Non è che non ci sia la legge: non c’è il giudice. E dove c’è una legge, suggerisce Locke, serve un giudice. Come vedete, sono due concezioni molto differenti dell’autorità, all’interno dello stesso contrattualismo. contrattualismo. L’autorità, per Hobbes, affinché sia autenticamente autorità, deve essere potenzialmente assoluta; per Locke è un organo che interviene unicamente quando è chiamato in causa della necessità di dirimere controversie. Nel primo caso l’autorità di fatto non implica alcuna giustificazione al suo porsi come tale; nel secondo caso, poiché la legge c’è già ed è la legge di natura, l’autorità e il vincolo di obbedienza all’autorità perciò si motiva unicamente sulla base dell’adempimento di un compito da parte dell’autorità. Il compito dell’autorità è rendere effettiva la legge di natura: se lo fa è legittima, se non lo fa no. E l’obbedienza, chiosa Locke, si deve solo alle autorità legittime, alle mere autorità de facto non è dovuta alcuna obbedienza. In questo secondo caso – ed è noto che Locke è fra i padri nobili del pensiero liberale – l’autorità deve essere circoscritta. Bene. Ma voi avete firmato un qualche contratto sociale?
Rispondo io per voi: no. Se stiamo sul piano schiettamente contrattualistico, io sono vincolato da un contratto che ho firmato, non da un contratto che non ho firmato. Non solo: un contratto deve avere delle clausole di scioglimento. Il contratto sociale, ad occhio e croce, non ne prevede. Di fatto, l’unico diritto di dissociazione, che è la controparte del diritto di associazione, sarebbe l’emigrazione; ma 1. cambiare Stato non è come revocare l’adesione al wwf; 2. comunque – anche emigrando – andresti in un altro ordinamento, non nell’isola di Robinson Crusoe, e quindi ti ritroveresti in un altro patto sociale che non hai mai firmato. Neppure le tesi consensualiste reggono alla prova dell’antinomia dell’antinomia fra autorità ed autonomia. Chiaramente ci sono altri punti di vista intorno ai quali si può tentare di risolvere in qualche modo l’antinomia fra autonomia individuale e autorità. Ad esempio, se ripensiamo alle tesi istituzionaliste, potremmo pure convenire che, sia pure senza contratto, una società che presenti un certo gradi articolazione interna, e di efficienza, è paragonabile ad una impresa cooperativa. Nel momento in cui coopero con altri soggetti, è implicita la reciprocità. Ossia, nel momento in cui coopero, rimetto parte della mia autonomia alla volontà comune, sulla base del perseguimento
comune di un comune interesse, lo faccio unicamente sulla base di una analoga espressione di volontà da parte degli altri consociati. Questo è il così detto argomento della equità. O, altrimenti detto, argomento del fair play. Ossia di una equa devoluzione di quote di autonomia in ragione dell’equo ottenimento di benefici da questa devoluzione. devoluzione. Da un lato la gratitudine sarebbe dovuta agli altri consociati, che come me si mettono nell’ottica del cooperare; dall’altro la gratitudine si deve all’autorità politica, che coordinando le attività, garantendo ciascuno dei consociati in fatto di vantaggi e cessione di autonomia, renderebbe possibile la cooperazione. cooperazione. Naturalmente, si tratta di definire un concetto concordato di equità, e di che cosa sarebbe equo, perciò. Implicitamente, e torniamo alle obiezioni precedenti, si assume che l’ottenere benefici implichi di per sé l’equa corresponsione di quote di autonomia a questo fine: ma possiamo considerare equo un accordo che non ho mai sottoscritto? Senza dubbio sarebbe equo che acquistare il mio libro su Platone, per fare un esempio vagamente interessato, comporti l’esborso del prezzo di copertina; ma questo suppone la volontà di comprarlo. Non posso venire venire da voi con una copia copia del mio libro, metterlo metterlo nel vostro zainetto e strapparvi i soldi di mano. Certo, dovreste poi poter questionare, o comunque orientare la vostra eventuale decisione di comprare il libro, circa l’equità delle mi pare 22 euro del prezzo di copertina.
Come vedete, ad una critica serrata, anche l’argomento del fair play non si presenta come inattaccabile. Eppure assistiamo a questo incredibile fatto: il diritto è una autorità, le autorità politiche esistono, in un modo o nell’altro, deviazioni circostanziali a parte, stiamo nell’autorità del diritto e in quella politica. Per spiegare questo fenomeno, le interpretazioni sono numerose: è un punto di dibattito attualmente molto in evoluzione. Joseph Raz, del quale ho parlato un po’ giovedì scorso, tenta di elaborare una teoria dell’autorità intesa come servizio. È un po’ più sofisticata di quelle che abbiamo osservato sono ad ora. Il servizio implica la corresponsione corresponsione di un beneficio richiesto. Mi rivolgo a un medico, mi cura per esempio la gastrite, lo pago per il servizio reso. reso. Non è un esempio esempio neutro il mio, mio, è un esempio orientato. orientato. Perché? Perché il medico (è del resto una metafora molto antica per significare il concetto di autorità) è tale in quanto ha delle competenze, è titolare di saperi specifici attraverso i quali cura, migliora le condizioni di chi soffre. Al di là di questo, se volessi sapere qualcosa su come funziona la gravitazione dei pianeti, forse mi rivolgerei ad un astrofisico. All’astrofisico io riconosco una autorità di carattere epistemico. Sa quello che dice quando parla di pianeti.
Raz elabora una teoria dell’autorità che non è limitata al concetto di autorità politica ( à la Hobbes, per intenderci) ma una teoria dell’autorità in generale, entro la quale far rientrare anche il problema della della autorità politica. politica. Questo perché il problema, ormai sarà chiaro, non è l’autorità come fatto: è l’autorità come diritto di essere autorità, e in ragione di questo diritto, ottenere l’obbedienza in regime di obbligo, non di costrizione di fatto. L’esempio della pistola alla tempia, per essere chiari. Non ci serve discutere dell’autorità come mera costrizione, ci serve discutere dell’autorità legittima. Raz individua individua tre fattispecie, in ordine alle quali una autorità di fatto è anche una autorità legittima. 1. la condizione di dipendenza. Ossia: le direttive che l’autorità emana debbono poter presupporre le ragioni che avrebbero guidato l’azione degli individui qualora non ci fosse stata l’autorità. Questo vuol dire che l’autorità non può emanare direttive patentemente contrastanti con ciò che sarebbe ragionevole ragionevole - la questione è quella della ragionevolezza, su questo punto – fare in una determinata circostanza. Siamo qui sul piano di una consistente, e per certi aspetti inevitabile, indeterminatezza; ma non può imporre il suicidio di massa, per fare un esempio estremo. 2. in secondo luogo, deve manifestarsi la condizione di esclusione (o svuotamento). Le direttive dell’Autorità non
debbono sovrapporsi o sommarsi, per essere più precisi, alle disposizioni individuali all’azione. Debbono sostituirsi. Non quindi e\e, e\o, ossia le direttive dell’autorità insieme alle diposizioni individuali, e neppure le direttive dell’autorità in alternativa non necessaria, ma circostanziale (per essere più chiaro: qualche volta sì, qualche volta no) rispetto alle individuali disposizioni ad agire in qualunque circostanza data; ma aut aut . Se c’è la disposizione dell’autorità vengono a cadere quelle individuali. L’autorità è tale se obbliga, non se si limita a consigliare. Per dirla con Raz, sono ragioni escludenti; questo significa che una volta che l’autorità emana direttive queste sono le uniche direttive che debbono essere seguite. 3. in terzo e decisivo luogo, si deve riconoscere che un’autorità legittima è tale quando le direttive dell’autorità – le ragioni escludenti – consentono ai consociati di agire meglio di come avrebbero agito per conseguire la realizzazione delle ragioni di primo livello. Le ragioni di primo livello sono quelle che l’intervento dell’autorità esclude. Ossia ciò che ciascun soggetto individualmente avrebbe elevato a ragione per fare una determinata azione. Le ragioni di primo livello sono quindi potenzialmente, nei fatti questo avviene, in contrasto tra di loro.
Ciascuno di noi può avanzare ragioni dal suo punto di vista pro o contro contro su moltissime questioni. questioni. L’autorità, nel momento in cui emana le sue direttive che sono ragioni escludenti, cioè che tolgono dal campo altre ragioni, le ragioni inziali ossia quelle di primo livello, opera una bilanciamento. bilanciamento. O per meglio dire: per essere una autorità legittima, deve tener presenti le ragioni di primo livello, ma poi decide. Il modello che ha intesta Raz, per tagliar corto, è quello del giudice, che udite le parti, soppesate le ragioni che ciascuna avanza, assume una decisione che è escludente. Ovviamente in presenza di una azione criminosa, la questione è entro certi limiti più semplici, qui stiamo parlando non del fatto che chi ruba lo fa violando delle leggi e quindi sarà soggetto a provvedimenti provvedimenti censori di vario vario tipo. Stiamo discutendo della statuto o meno di legittimità di una autorità, autorità che – occorre ricordarlo – limita l’autonomia dei soggetti individuali. Il giudice emana le sue sentenze sulla base di una valutazione epistemica delle ragioni: il giudice conosce il diritto, non sorteggia le sue decisioni, né interpella l’oracolo, e neppure esercita una autorità incontrollata o incontrollabile. incontrollabile. Riconduce fatti a norme: non occorre che ripeta che non è mai una azione puramente meccanica, che esercita una soglia di interpretazione nel ricondurre fatti a norme, e norme a norme, ma anche questo è parte del suo sapere.
Raz propone una visione del concetto di autorità, soprattutto nei rapporti di questa con le autonomie soggettive, che si fonda sul concetto di competenza, oltre che su quello di prudenza. L’autorità legittima produce norme, che sono ragioni escludenti rispetto alle ragioni di primo livello, certamente attraverso bilanciamento prudenziale prudenziale delle ragioni iniziali, ma può operare un bilanciamento prudenziale, per il fatto che dispone di saperi che possono costituire una “retta ragione” per decidere in un senso anziché in altri. L’autorità pratica di Raz è una autorità epistemica in primo luogo, cioè caratterizzata da saperi, e poi una autorità pratica, ossia una autorità che dice in maniera autoritativa, cioè vincolante, che cosa si debba fare, che cosa si debba non fare, che cosa si possa fare o non non fare. Capite bene che tutto questo è ampiamente controverso. controverso. In primo luogo è lecito domandarsi se non abbia ragione Michelet, quando scrive che migliaia e migliaia di voti non fanno la verità; fanno una volontà. Cioè che il processo di costituzione di una autorità, di riconoscimento a qualcosa o qualcuno della autorità di decidere non ha niente a che vedere con la ricerca della verità, ma unicamente con l’assunzione di responsabilità che ciascuno è chiamato in un consesso democratico (parliamo dell’autorità legittima, lo ricordo) ad operare perché poi sarà comunque soggetto all’autorità. Sono state anche mosse critiche da un punto di vista interno alla teoria di Raz.
Non le riassumo qui, le trovate argomentate con finezza da Aldo Schiavello nel volume in esame. Ciò che conta qui osservare è che una prospettiva metaetica non cognitivista, ossia non realista, per stare alla terminologia che abbiamo affrontato insieme a Luzzati, non può in alcun modo accettare questo punto di vista. Infatti, la retta ragione, se la decliniamo attraverso contenuti, ossia attraverso il che cosa è meglio fare, implica una valutatività necessaria: del resto la riduzione dell’autorità pratica ad un caso di autorità epistemica non può che basarsi sulla pretesa di oggettività del sapere di quest’ultima, e questo non può che reggersi solo in presenza di una una visione realistica realistica dei contenuti morali. morali. In sostanza, deve assumere il termine spesso: non può limitarsi a quello sottile. Si potrebbe tentare di risolvere la questione dicendo che il servizio reso alla comunità da parte dell’autorità è un servizio di coordinamento. Ma questo mette in secondo piano il carattere epistemico, e fa emergere solamente quello pratico prudenziale. Ad ogni modo, Raz ha il pregio di non trascurare il problema politico che riguarda riguarda inevitabilmente inevitabilmente il diritto. diritto. Il diritto esercita una autorità de facto; questo è un punto ineludibile. Questo implica che il diritto per essere tale non può non rivendicare la sua autorità in ultimo effettivamente escludente. Una volta che il diritto assume un punto di vista su un tema, non
scrive un saggio: emana dei provvedimenti che si basano anche su di un apparato sostanzialmente coercitivo. Il fatto che il diritto avanzi inevitabilmente questa pretesa, perché non può non avanzarla, se è diritto, non significa che questa pretesa sia legittima per il solo fatto che il diritto la avanzi. L’autorità de facto, torniamo al punto iniziale, non necessariamente necessariamente è una autorità de jure. Raz ovviamente si pone questa questione. Individua due presupposti di legittimità rispetto all’autorità politica: 1. una direttiva è vincolante solamente se è, o è giustificata se non altro in questi termini, il punto di vista di qualcuno su come ci si deve comportare; 2. se la direttiva costituisce la ragione sufficiente per la quale il comportamento deve essere ad essa conformato. Altrimenti detto: una direttiva deve assumere un punto di vista per l’azione, non per la credenza o la persuasione e per tanto deve dire che cosa si debba fare, e niente affatto che cosa è in assoluto giusto fare. Inoltre, deve poter essere compresa senza far ricorso a nessuna delle ragioni di primo livello, ma deve costituire in sé una ragione. Questo è implicato dalla condizione di esclusione o svuotamento. Le due prerogative fuse insieme – avalutatività quanto ai contenuti – e incompatibilità della norma, una volta che è norma giuridica, con qualunque altra possibile ragione, e perciò carattere
sopraordinato (escludente!) della norma rispetto a qualunque altra ragione ci dicono una sola cosa: positivismo giuridico esclusivo, cioè nella sua versione per così dire più pura. È diritto solamente il ciò che promana da una determinata fonte (sentite Kelsen parlare) e che viene disposto in ragione di procedure conseguenti, il diritto in quanto diritto non può consentire deroghe. Una legge non è un consiglio né un precetto morale: è un comando a carattere vincolante. Autorità e autonomia: la questione si presenta di nuovo, non essendo per la verità mai stata elusa. Raz ritiene di aver risposto attraverso la scissione fra ragioni di primo livello, le inclinazioni individuali ad agire in un certo modo anziché in un altro, e le ragioni di secondo livello: il bilanciamento bilanciamento a carattere sapienziale e prudenziale che l’autorità legittima compie quando emana ragioni di secondo livello, ragioni escludenti e cioè norme giuridiche. La soluzione sarebbe nel riconoscimento da parte degli individui di una autorità come autorità legittima: una volta che questo è avvenuto non ci si deve (e non ci si può) tirare indietro. Nel momento stesso i cui accetti l’autorità come autorità legittima, rimetti quote di tua autonomia, che sarebbero le ragioni di primo livello, al complesso comune. Suppone cioè che l’autonomia sia nell’accettare la vita come un fatto comune, e di poterlo fare autonomamente, e perciò esercito la mia autonomia nel momento in cui concorro a scegliere l’autorità
Del resto, quando faccio causa a tizio, implicitamente riconosco l’autorità di giudici e tribunali; questo perché non solo decidono con prudenza, ma anche in virtù di un sapere. La concezione dell’autorità come servizio, che è perfettamente perfettamente rappresentata da Raz, ovviamente non è esente da critiche, alcune delle quali stringenti. Le ragioni di secondo livello dovrebbero rappresentare non solo la media ponderata delle ragioni di primo livello, ma dovrebbero rappresentare una scelta intrinsecamente migliore rispetto a ciascuna delle ragioni di primo livello. E però: poniamo il caso che una direttiva, per errore per esempio, non sia affatto migliore di una ragione di primo livello: perché la dovremmo dovremmo seguire? seguire? Ho fatto prima l’esempio del suicidio di massa come caso estremo di irragionevolezza; ma se ne possono immaginare di più sottili. Ad esempio dichiarare guerra ad un paese straniero, o decidere di aderire ad un certo trattato internazionale che danneggia palesemente la comunità che dovrebbe comunque sottostare alla direttiva. Perché in questo e in casi simili dovrei decidere di obbedire? Negando obbedienza, obbedienza, disconosco disconosco la ragione escludente, escludente, che quindi cessa di essere per sé comprensibile e soprattutto autoritativa. Qui l’eccezione non conferma per nulla la teoria: la smentisce patentemente. patentemente.
E per contro, se invece – anche contro i miei convincimenti convincimenti – comunque tenessi fede al patto inziale ed obbedissi, e si dovesse poi verificare che effettivamente effettivamente le conseguenze della direttiva sono catastrofiche: che servizio avrebbe mai reso l’autorità? Teoria dell’Autorità come appartenenza appartenenza Altri tentativi sono stati proposti. Si muove, ad esempio, dall’appartenenza alla comunità come fatto assodato; da qui si fanno discendere obblighi di carattere comunitario. Perciò – questa è in sostanza la tesi di Ronald Dworkin – chi muove da questa assunzione assume la comunità politica, retta dal diritto, come una comunità semplice. Per semplice dobbiamo considerare comunità nucleari, nelle quali c’è un vincolo di reciprocità implicito. Perciò si ha che la comunità è di per sé un complesso di obblighi reciproci. L’esempio di Dworkin è la famiglia. Nella famigli ci sono vincoli stabiliti, c’è una spontanea tendenza alla cooperazione. Parlo di tendenza e non di necessaria e costante aderenza perché l’idea di fondo è che nella comunità semplice non si mette in discussione l’appartenenza: so possono registrare anche accesi contrasti, ma questi non mettono in discussione il vincolo di reciprocità e di mutuo riconoscersi nella comunità. La reciprocità che è riconosciuta alla base del vincolo associativo deve soddisfare quattro condizioni: 1. obblighi che valgono solamente all’interno della comunità (non è certo una prospettiva cosmopolitista). Il vincolo che ci lega
in un rapporto di amicizia, per non dire in una relazione parentale, non è lo stesso che ci lega ad estranei; 2. gli obblighi comunitari sono in prima istanza personali, e secondariamente sono collettivi. Ovvero: il vincolo è principalmente principalmente nei riguardi del singolo associato, più che dalla istituzione in senso formale. Per stare all’esempio della famiglia io ho in primo luogo l’obbligo di sostenere il congiunto in un momento di difficoltà, e secondariamente quello di non disonorare, per così dire, il buon nome della famiglia. 3. l’obbligo scaturisce da una naturale sollecitudine, cioè buona disposizione di sentimenti nei riguardi della comunità della quale sono parte. 4. la buona disposizione deve essere rivolta in modo equanime a tutti i membri della collettività. Ciò evidentemente non implica che non possano esservi ruoli anche gerarchici, ma questi sono concepiti in quanto realizzino un comune interesse, che in quanto comune, e eguale e reciproco. Solo a queste condizioni, sostiene Dworkin, la comunità è un vincolo legittimo, e quindi può validamente produrre produrre obblighi. Le autorità legittime sono quelle – allora – che suppongo un vincolo di coappartenza fra liberi ed eguali. Le società a carattere castale, ad empio, non rientrano in questa fattispecie, e quindi non potrebbero validamente vincolare vincolare all’obbedienza all’obbedienza i propri propri membri. membri. Se è così, le comunità che sono tali unicamente de facto non possono considerarsi considerarsi autorità legittime.
Per comunità de facto dobbiamo intendere dei raggruppamenti che si costituiscono sulla base della somma di interessi egoistici che si concepiscono come più facilmente raggiungibili raggiungibili collaborando collaborando con altri. La ragione è chiara: i membri in una collettività di questo tipo sono sostituibili, e se arrivasse uno da fuori, che potrebbe garantire l’ottenimento dei fini egoistici in modo più efficace potrebbe sostituire un altro membro. Sarebbe un po’ come se, dato che io andavo abbastanza male in matematica, ad un certo punto i miei genitori avessero deciso di sostituirmi in qualità di figlio con uno che aveva regolarmente regolarmente otto in matematica. Poniamo invece il caso in cui il vincolo non risieda semplicemente nella considerazione circostanziale per la quale è più utile cooperare per ottenere ciascuno un vantaggio privato, ma ci sia una circostanza nelle quale, datici delle regole, non si ponga il caso che i membri siano sostituibili, ma prevale il vincolo del rispetto delle regole che ci siamo dati. Parrebbe più convincente. Ma osserviamo questo elemento: se il vincolo risiede unicamente nella dichiarazione di rispetto delle regole che comunemente ci siamo dati, ma questo non implica una sollecitudine che vada, appunto, oltre le regole. Sarò un vincolo societario, non comunitario, se mi passate l’espressione.
Non ci sarebbe l’espressione l’espress ione di una comunione reciproca di carattere spirituale (nel senso di morale) tale per cui riconosco nel consociato un centro di sollecitudine indipendentemente indipendentemente da altro. Affinché la comunità sia effettivamente tale, e perciò in grado di esprimere una autorità legittima, deve raccogliersi non intorno a regole, né tanto meno intorno alla realizzazione di scopi egoistici, ma intorno ad un nucleo di valori. Poiché questi non saranno assoluti, il patto implicito è che ciascuno accetterà la declinazione prevalente di questi valori nella singola circostanza, perché in ogni caso prevalrebbe lo spirito di comunità. Proprio perché nella declinazione circostanziale, o se preferite, interpretazione, interpretazione, in quanto membro della comunità il mio punto di vista è stato preso in considerazione. considerazione. Questa visione tende a sovrapporre l’adesione spontanea allo spirito della comunità al concetto di Autorità. Col risultato che dell’autorità una comunità simile potrebbe fare a meno. Ci rimane da dare uno sguardo alla teoria del diritto come pianificazione. pianificazione. Questa teoria assume in tesi che la caratteristica prevalente, o per meglio dire differenziale dell’essere umano consista nel pianificare. Pianificare non significa limitarsi al meccanismo causa \ effetto nella sua versione più semplice (qualcosa come rompere il guscio ! mangiare noce); insomma: non siamo la versione bipede del cane di Pavlov.
I nostri desideri, i nostri obiettivi si strutturano in modo altamente complesso, spesso hanno un traguardo immateriale, legato anche alla realizzazione di valori. Questo implica per sua costituiva necessità una dimensione relazionale, che in ragione di obiettivi complessi, necessita di una strutturazione strutturazione organizzativa a sua volta complessa e stratificata. L’esigenza della coordinazione, che si determina intorno alla realizzazione di piani, è una delle possibili giustificazioni iniziali per l’autorità. l’autorità. Autorità come autorità autorità di coordinazione. coordinazione. La tesi di Scott Shapiro assume il problema dell’autorità nel diritto a partire dalla considerazione della natura pianificatrice dell’uomo. L’attività giuridica è una attività di pianificazione sociale. L’autorità è tale se e in quanto pianifica, questa pianificazione si risolve nel dare direttive con la pretesa che siano obbedite, e nell’autorizzare alcuni membri del gruppo a pianificare per conto di altri. Naturalmente si tratta di una attività di pianificazione pianificazione assai sofisticata. Intorno ad un piano di carattere molto generale – master plan – si determinano una serie di piani sottordinati; questi sono coloro che a vari livelli amministrano l’attività giuridica e le norme giuridiche. Potreste obiettare, e fareste benissimo a farlo: questo vale per molte altre possibili attività. Anche organizzare la festa del paese implica una cosa di questo tipo, più o meno.
Anche la politica è così, se prendiamo per buoni gli assunti di partenza. In cosa dovrebbe differire, allora, il diritto? Shapiro si è posto la questione, e ha tentato di proporre cinque prerogative che dovrebbero permetterci di rispondere alla domanda “che cos’è il diritto?”. 1. il diritto è una attività retta da funzionari. Per funzionari non dobbiamo intendere la persona fisica di tizio e caio, ma dobbiamo intendere le funzioni: non Matteo Renzi, ma la presidenza del del Consiglio dei Ministri. Ministri. La differenza è ovvia: l’individuo è fungibile senza che il sistema nella sua struttura ne abbia modificazioni sostanziali, il funzionario funzionario – ossia la funzione – no. 2. la pianificazione del diritto è una attività istituzionale. Le norme debbono essere prodotte attraverso procedure che in linea di principio, e anche in linea di fatto, prescindono dalla volontà dei singoli. Questo vuol dire che una norma giuridica è valida se prodotta in un certo modo e secondo certe procedure, indipendentemente da quel che ne pensa chi l’ha votata o chi l’ha emanata. 3. il diritto impone una governance obbligatoria. In ragione del master plan non possiamo decidere se pagare o meno le tasse, o se attenermi alla norma che vieta il furto con destrezza. Questo è un tratto differenziale rispetto alle organizzazioni di carattere privatistico: se non sono contento col mio lavoro mi
posso licenziare, se non vado più d’accordo con i miei soci posso sciogliere la società. 4. il diritto è una attività di coordinazione del tutto particolare. Non vogliamo una soluzione pur che sia; vogliamo augurabilmente la soluzione, a tutti i livelli del “piano”, che si sembri o che siamo disposti a considerare giusta. Il diritto, per essere diritto secondo la teoria della pianificazione, pianificazione, deve avanzare avanzare la pretesa di essere essere giusto. Quindi non una pianificazione funzionante e basta, ma una pianificazione pianificazione che funzioni in ordine al conseguimento conseguimento di un master plan che siamo disposti a considerare giusto. Questo, comprenderete, è il fatto essenziale circa il problema dell’autorità. 5. in ragione di questo le autorità giuridiche, in quanto immediatamente connesse al master plan, non possono non essere all’apice della catena della pianificazione. pianificazione. Nessuna altra autorità pianificatrice può porre in dubbio o in questione l’autorità del diritto. Quali problemi si pongono? Perché che se ne pongano è evidente. Per poter funzionare, la teoria della pianificazione giuridica – quella descritta dai cinque punti che vi ho menzionato testé, implica il soddisfacimento almeno di due condizioni. In primo luogo chi pianifica deve essere autorizzato a farlo (il funzionario deve avere una legittima autorità nello svolgimento
delle sue funzioni) e in secondo luogo i membri della comunità debbono prestare ascolto. Il piano deve autorizzare qualcuno a pianificare; il piano deve obbligare altri ad attenersi ai sottopiani. Indubbiamente, sul piano della razionalità strumentale il discorso funziona; e funziona perché ha una razionalità che per quanto riguarda il punto di vista interno, per dirla con Hart, è senz’altro ben congegnata. congegnata. La razionalità intrinseca di questa costruzione ha però un grave difetto, e se mi avete fin qui seguito dovreste essere in grado di individuarlo. individuarlo. Tutto questo può essere vincolante solo per chi ha accettato di condividere il piano. Se io non ho condiviso il piano, per quale oscura ragione dovrei accettare di sottomettermi all’autorità del diritto? Perché master plan, sottopiani, funzionari, norme, agiscono sulla e attraverso la governance necessaria del diritto: cioè se non voglio pagare le tasse o mi costringono a pagarle, o mi sanzionano in altro modo. Abbiamo già osservato la tesi sul rapporto fra diritto e morale di Uberto Scarpelli. In ultimo, è una decisione di ordine morale che ci porta a permanere nell’ordinam nell’ordinamento. ento. Non c’è dubbio che la teoria del diritto come pianificazione pianificazione descrive in maniera sofisticata ed anche ragionevole il come si sta in un sistema giuridico, una volta che ci si sta.
La concezione dell’autorità come servizio, quella esposta da noi attraverso Raz, condivide questa caratteristica. Sono tesi sofisticate, che si servono di argomenti eleganti e cesellati per spiegare il meccanismo dell’autorità. dell’autorità. Ma non possono fare a meno di rintracciare altrove (Raz nella presunta superiorità che l’autorità implicherebbe implicherebbe nel valutare quale sia la retta ragione); Shapiro nella capacità morale di individuare il master plan e in quella pratica di organizzare l’attività della comunità in vista della realizzazione tendenziale tendenziale del piano. Questo ci spiega molto bene come, ripeto: ma in ultimo non ci dice perché. Le aporie relative alla mancata (inevitabilmente, mancata) adesione al piano iniziale, che valevano per i contrattualismi classici, si ripresentano tutte; ma non solo quelle. Poniamo che il master plan, per il solo fatto che non me ne vado dalla mia comunità abbia invece ottenuto adesione unanime. Chi ci sta ci sta perché ci vuole stare e non perché ci si trova. Se si dovesse emanare una norma che si discosta dal master plan: dovrei obbedire? Teoricamente no, perché se il vincolo è l’adesione iniziale al master plan, e questa condizione non mi appare soddisfatta dalla norma in questione, io non solo non sono tenuto ad obbedire, ma sono tenuto a non obbedire. E questo proprio in virtù all’adesione al master plan.
4. Giustizia
All’interno della discussione sui positivismi, la questione della giustizia non può essere del tutto elusa. Che cosa motiva la permanenza di un ordinamento anziché un altro? Perché, potremmo rispondere, soddisfa alcune esigenze che consideriamo prioritarie rispetto ad altre, ragion per cui implicitamente tendiamo ad aderire. Se poi riprendiamo per un attimo le questioni relative all’autorità, vediamo come accade che cediamo pezzi della nostra autonomia in virtù di una cooperazione regolata. Si potrebbe anche rispondere che facciamo tutto questo perché intuitivamente intuitivamente riscontriamo in qualche modo un ideale di giustizia. Chi sarebbe contrario, in linea di principio, ad ammettere che si debba vivere onestamente, senza danneggiare alcuno e dando a ciascuno ciò che gli è dovuto? E però chi sa dire a che cosa dovrebbe corrispondere in situazione il dare a ciascuno il suo, il vivere onestamente, il non ledere altri? Se andassimo ad enumerare circostanze di ingiustizia, probabilmente probabilmente potremmo concordare concordare su diversi esempi. esempi. Se però andiamo sul piano della definizione, sorgono controversie irresolubili.
Al di là del fatto che ci sono casi nei quali tutti siamo disposti a gridare all’ingiustizia; sappiamo dare una definizione univoca di cosa sia giustizia? Di nuovo ci si pone una questione di metodo: per via deduttiva – intendo dall’alto verso il basso – se escludiamo contenuti oggettivi, in termini cognitivi o realistici, non siamo in condizione di venirne a capo. Da quali principi generalissimi dovremmo andare a dedurre? Di nuovo, appare ragionevole tentare di procedere dalle manifestazioni di un dato fenomeno, l’ingiustizia, per tentare di estrarne qualcosa di comune e vedere se riusciamo a pervenire ad una definizione orientativa. Procedere dall’ingiustizia è apparso ad alcuni un modo maggiormente efficace per dirigersi alla ricerca della giustizia. Il fatto che qualcosa sia sempre stato ritenuto giusto, non implica che lo sia sempre e comunque; il fatto che la legge è legge e un ordine è un ordine non implica alcunché in ordine alla giustizia. Aristotele, libro V dell’Etica nicomachea, ci dice che le locuzioni “giusto” e “ingiusto” sono ambigue. Aristotele era dell’avviso che si potesse in qualche modo tentare di affrontare il tema della giustizia. Procede attraverso enumerazione e comparazione di nuclei concettuali che siamo disposti a considerare giusti. Assume in primo luogo il concetto di giustizia in generale e il concetto di giustizia particolare. Giusto nel primo senso dovrebbe
essere chi rispetta il diritto; nel secondo chi tende a non prendere ciò che non gli spetta. La giustizia è da Aristotele assunta come la più generale fra le virtù, in quanto le riassumerebbe tutte in sé. La giustizia ha un carattere inevitabilmente relazionale: si è giusti nei riguardi di qualcuno, se si rispettano le leggi nei riguardi di una collettività. Questo la rende virtù sovrana. Aristotele, quando passa a discutere della giustizia particolare, ossia osservata dal punto di vista dell’individuo dell’individuo e non dal punto di vista della collettività, ci propone una distinzione che avete visto in opera nella seconda metà del Novecento, quella fra eguaglianza numerica ed equità. In effetti, questa accezione di giustizia ha a che fare con la giustizia nei rapporti che implicano le questioni dell’uguaglianza di distribuzione di beni. Aristotele costruisce questo argomento attraverso una distinzione, come è suo solito. Esistono due distinte possibilità di corresponsione dei beni, aritmetica e geometrica. L’eguaglianza geometrica ha a che vedere con la distribuzione degli onori (gli onori per i greci sono dei beni) e si struttura intorno ad un concetto di proporzione, che assume situazione di ciascuno e meriti di ognuno. Perciò non sarà eguaglianza in senso stretto. Possiamo chiamare questa accezione geometrica della giustizia, “giustizia distributiva”.
La giustizia aritmetica, o correttiva, si fonda invece su una tensione al livellamento egualitario. Qual è l’elemento comune fra i due sensi di “giustizia” che abbiamo ricostruito? Si fondano entrambe sul concetto di reciprocità, ossia di corresponsione di qualcosa in cambio di qualcos’altro. Il concetto di reciprocità in rapporto alla teoria della giustizia merita un approfondimento. Possiamo infatti distinguere reciprocità bilanciata e reciprocità sbilanciata. Il primo caso è di natura aritmetica: tutti i partecipanti ad una certa interazione ricevono in modo equivalente al contributo che hanno offerto. Il secondo caso è più articolato: non si assume solo il valore del contributo che ciascuno ha offerto, ma anche la porzione diseguale cui la ripartizione deve conformarsi per essere considerata, da un altro punto di vista, giusta. Sullo sfondo si situa una idea a vocazione cooperativa in vista di un mutuo vantaggio, più che competitiva in ragione di traguardi unicamente individuali. Recentemente Brian Barry, filosofo analitico della Columbia University, ha proposto una classificazione del concetto di giustizia come reciprocità. In un primo senso si struttura come un rapporto del tipo “quid pro quo”: garantire il proprio apporto ad una comune attività in vista di comuni vantaggi.
In un secondo senso, il concetto di giustizia come reciprocità si presenta come fedeltà, nella classica figura del tenere fede alla parola data, mantenere mantenere le promesse. promesse. In un terzo senso, la giustizia come reciprocità è una forma di aiuto reciproco, la possibilità di poter contare sull’apporto dei consociati in caso di situazioni estreme in presenza delle quali non si potrebbe sopravvivere senza il sostegno di qualcuno. Ora, messa così la cosa ci porta ad alcune osservazioni. osservazioni. 1. Punto primo: le situazioni prese in esame hanno tutte a che fare con la giustizia distributiva. 2. Punto secondo: le tre fattispecie possono presentarsi come sovrapposte; ma questo non esclude che possano verificarsi tensioni in presenza di diverse concezione di cosa dovrebbe essere reciprocità. Ad eccezione della giustizia come aiuto reciproco, le concezioni di giustizia come reciprocità si basano comunque sul quid pro quo: al di là delle differenti possibilità di ripartizione, ricevo perché ho dato. In questo senso, non paiono giustificati capi saldi del nostro sistema come ad esempio il welfare state, il quale prevede che si possa ottenere (tanto o poco che sia) anche se non si sia dato. Ora, nel quadro delle teorie della giustizia come reciprocità s’inseriscono anche le teorie della giustizia come “fair play”. Herbert Hart asserisce che molte delle situazioni, in cui riteniamo essere coinvolto il concetto di giustizia, ad esempio quando critichiamo una certa legge e diciamo “it is unjust”, potremmo dire dire “it is unfair”.
Le coppie just e unjust possono essere in moltissime circostanza tradotto con fair e unfair. Fair in italiano lo tradurremmo non tanto come “giusto” in termini generali, ma equo, unfair vale “iniquo”. Vedremo fra breve che è rilevante. In quale circostanze? normalmente in due tipi di situazione: 1. quando non abbiamo a che fare con una condotta individuale di una persona, ma con il modo in cui una classe di individui è trattata nelle distribuzione di oneri o benefici: fair o unfair sarà la quota assegnata; 2. la seconda circostanza è quella in cui qualcuno subisce un’ingiuria, un’offesa o un torto e si discute della corresponsione di una compensazione o riparazione: queste potranno essere fair o unfair. La tesi di Hart è semplice. In tutte queste circostanze, noi assumiamo uno sfondo concettuale implicito, questo consiste nel ritenere che tutti coloro che appartengono alla medesima comunità politica hanno titolo, ciascuno nei riguardi dell’altro, a certe posizioni di eguaglianza eguaglianza e diseguaglianza. diseguaglianza. Certe situazioni che ci colpiscono come ingiuste non hanno a che fare col comportamento individuale, né con l’errore nell’applicare una certa regola, quanto piuttosto col complesso delle libertà che vengono distribuite da parte di una istituzione. Le teorie che si richiamano al fair play assumono che cooperazione e competizione non siano elementi in opposizione, quanto piuttosto due aspetti complementari di una società ben ordinata. Reciprocità di obbligazioni e diritti sono il bilanciamento bilanciamento
che deriva dal rapporto di competizione e cooperazione in un quadro bilanciato. Gli scopi individuali implicano una forma di competizione per essere perseguiti; in assenza di un quadro sociale non possono sussistere scopi individuali in quanto non si darebbe interazione; affinché si dia interazione, occorre una forma di mutuo riconoscimento riconoscimento a carattere cooperativo. In questo senso, l’idea di fairness che Hart ci propone è finalizzata a consentire l’esercizio della libertà di tutti e ciò è possibile limitando limitando l’arbitrio. La radice è chiaramente kantiana. La dottrina giuridica di Kant infatti è disposta intorno alla coppia libertà (esercizio autonomo delle proprie prerogative attraverso il riconoscimento riconoscimento di vincoli) da una parte, arbitrio dall’altra (facoltà di agire illimitata e finalizzata al trattamento dell’altro come strumento). Il concetto di reciprocità è dunque alla base delle teorie della giustizia come fair play. Riprendiamo la teoria di Aristotele della giustizia come virtù generale. L’ingiustizia, come fattispecie che anche intuitivamente saremmo disposti ad invocare in presenza di un certo comportamento, non necessariamente è relativa al biasimo che un certo comportamento suscita, né alla intensità di una eventuale disapprovazione. Parliamo di ingiustizia quando osserviamo una disparità di trattamento che ci appare essere ingiustificata.
Il giudice che in presenza di due imputati al medesimo titolo per il medesimo reato e con il medesimo status processuale, condannasse uno ad un mese di carcere da scontare in regime di detenzione domestica e l’altro a dieci anni di reclusione in un carcere di massima sicurezza ci sembrerebbe senz’altro ingiusto. Che il requisito minimo di “giustizia” che concordemente saremmo disposti a riconoscere si può tradurre con la parola “imparzialità”. L’imparzialità non è una prerogativa richiesta solamente al giudice, ma anche all’assetto sociale che dà luogo a norme giuridiche. Ma che cosa rende parziale o arbitraria (e quindi dal nostro punto di vista ingiusta) ingiusta) una legge? legge? Il fatto che appare irragionevole e quindi non giustificabile razionalmente razionalmente la disparità di trattamento che essa comporta. In questione non è la differenza, ma le ragioni che la motivano. In questo senso possiamo utilmente pensare alla teoria della Giustizia come equità (fairness) di John Rawls. Rawls assume il problema della diseguaglianza come tratto fondamentale dell’esperienza sociale, tratto che non deve semplicemente essere accolto, ma che deve invece essere criticamente affrontato e per quanto possibile attenuato e risolto. Prendiamo il caso che una pluralità di soggetti, di condizione diseguale, si associ per il perseguimento di un fine comune che implica senz’altro dei benefici, ma allo stesso modo degli oneri. Si tratta dunque di ripartire benefici ed oneri.
Le differenze, differenze, inevitabilmente, inevitabilmente, peseranno sulla ripartizione di benefici ed oneri, in quanto se non vengono limitate, si costituiranno nella forma del rapporto di forza. Chi è più forte otterrà maggiori benefici assumendosi minori oneri, chi è più debole, al contrario. Rawls,
che propende per una opzione di natura contrattualista, assume la questione della iniziale diseguaglianza come centrale per una legislazione adeguatamente adeguatamente strutturata. Se prendiamo la questione di oneri e benefici e la trasponiamo sul piano dell’attività legislativa, la questione assume contorni rilevantissimi. Se vale il principio della partenza dal rapporto di forza, per così dire, e se consideriamo che le leggi comportano benefici ed oneri consistenti nell’osservanza delle leggi dietro minaccia di sanzione, avremo la situazione per la quale una iniqua, ossia parziale, sbilanciata sbilanciata ripartizione ripartizione diventerà la regola. regola. Perciò Rawls immagina un esperimento mentale, per rendere chiara la questione. Il così detto “velo di ignoranza”. L’ignoranza in questione riguarda la cognizione in termini di vantaggio o svantaggio una volta che l’accordo sia concluso. Se ciascuno si trovasse nella condizione di non poter sapere se otterrà vantaggi o svantaggi, attuerà naturalmente, spontaneamente spontaneamente un criterio improntato alla equità. Chiaramente Rawls non pensa affatto che si tratti di una ipotesi perseguibile. E allora perché propone questo esperimento?
Perché dovrebbe costituire un modello al quale ispirarsi. La tesi di Rawls muove da due principi. 1. Principio di libertà:ciascuna persona ha eguale diritto alla più estesa porzione possibile di libertà compatibilmente compatibilmente con quella altrui, che per l’appunto è eguale; Questo principio non ha destato particolari dibattiti: è di ascendenza patentemente kantiana, e appare sostanzialmente ragionevole, almeno presso chi muove da un orientamento generalmente liberale. 2. Principio delle diseguaglianze diseguaglianze giustificabili. Il secondo principio suscita invece numerose questioni. L’eguaglianza L’eguaglianza che suppone è infatti di tipo democratico, ossia non necessariamente in senso classico liberale. Infatti, introduce un principio di differenza che sostenga i più svantaggiati. Il ragionamento non è ovviamente quello della eguaglianza per così dire all’arrivo (non parliamo di un socialista), ma dell’eguaglianza dell’eguaglianza in partenza. Nozik, ad esempio, critica da un punto di vista libertario: lo spostamento di risorse a compensazione della posizione iniziale degli svantaggiati è un attacco alla proprietà privata. Anche in termine di pluralismo dei valori la concezione aristotelica della giustizia come virtù totale oggi non potrebbe darci soddisfazione. soddisfazione. Se neghiamo che la giustizia sia un contenuto concreto, ossia una cosa determinata che include alcune visioni del mondo ad esclusione di tutte le altre, noi non possiamo accettare una visione della giustizia che non si risolva in una postura imparziale.
7. Diritti
Classicamente, i diritti soggettivi sono assunti in rapporto al diritto oggettivo. Per diritto oggettivo dobbiamo considerare l’ordinamento nel suo complesso, viceversa, i diritti soggettivi sono in generale una denotazione che riguarda, appunto soggettivamente, determinate fattispecie. Sulla natura di queste ultime si è discusso moltissimo. Nella nostra esposizione prenderemo prenderemo alcuni punti fermi e discuteremo invece alcune posizioni che presentano aspetti di particolare problematicità, problematicità, intorno ai quali si è generato un intenso dibattito. Occorre anzitutto osservare che i diritti soggettivi hanno una loro storia. La questione emerge con una strutturazione sufficientemente matura da essere assunta nel giusnaturalismo moderno. I giusnaturalisti fanno riferimento ad un diritto di origine morale, o anche solamente razionale, che si assume essere naturale in quanto sarebbe appartenente all’uomo in quanto uomo, senza caratterizzazioni caratterizzazioni ulteriori. È rilevante considerare che una definizione di “diritto soggettivo” non può essere meramente descrittiva, ma ha delle implicazioni di natura prescrittiva.
Il giurista americano Hofeld assume che l’uso dell’espressione “diritto soggettivo” è riferito ad una molteplicità di posizioni eterogenee, ed elabora una tavola: diritto – non diritto privilegio – dovere dovere potere – incapacità incapacità immunità – soggezione Ciò che occorre dire è che la tavola hofeldiana affianca ad ogni posizione giuridica il suo s uo opposto. L’opposizione di due posizioni giuridiche correlative implica l’impossibilità di dare luogo nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto ad entrambe le posizioni. Se io ho il potere di stipulare un contratto per una utenza telefonica, non posso al contempo non averlo. Esiste fra alcune posizioni un rapporto di reciproca esclusione, mentre fra altre posizioni esiste un rapporto di correlazione. Se io ho un certo diritto, appunto stipulare il contratto di cui sopra, a qualcuno sta in capo il dovere di non impedirmi nell’esercizio di questo diritto. Il diritto soggettivo così inteso è anche detto da Hofeld “pretesa”. Ora, lo schema di Hofeld implica che ciascuna posizione giuridica faccia riferimento ad una duplicità di agenti: colui alla
quale è attribuita una certa pretesa e colui il quale ha il dovere di non ostacolare la legittima pretesa del primo. Se io ho diritto a che nessuno si introduca in casa mia senza il mio consenso, nessuno ha diritto a farlo, e quindi ciascuno ha il dovere di non farlo. Nello schema in questione le prime posizioni di ogni coppia hanno carattere attivo, le seconde di ogni coppia, carattere passivo. La dottrina presenta per lo più definizioni di diritto soggettivo che assumono le fattispecie attive. Tuttavia è ragionevole considerare che anche le posizioni passive siano da considerarsi nel novero dei diritti soggettivi. L’esempio classico è l’attribuzione di una eredità, che senza dubbio è un diritto, tuttavia secondo la posizione hofeldiana sarebbe una soggezione: l’essere soggetti all’attribuzione di una eredità. Ora, una questione si pone circa la natura duale delle relazioni oppositive e correlative di Hofeld. Non dobbiamo trascurare che Hofeld considera prevalentemente prevalentemente i regimi di common law, e che ha in mente l’uso che di ritto soggettivo fanno i giuristi positivi di quel sistema, che è un uso adversarial, cioè sostanzialmente giudiziario. Si è sostenuto (alquanto correttamente) che un diritto in capo ad un soggetto non implica solo un dovere, ma più doveri in capo ad una vasta pluralità di soggetti e questo tipo di relazioni non può essere fotografato in un rapporto di carattere unicamente duale, perché questa pluralità di doveri ha caratterizzazioni caratterizzazioni ben differenti. Si tratta di “diritti a grappolo”. grappolo”.
Il diritto alla libertà di parola non prevede solo il dovere da parte di un altro privato di non impedirmi di esercitarlo, ma lo Stato ha in capo il dovere di permettermi di esercitarlo, sia non ricorrendo a censure, sia rimuovendo gli ostacoli che eventualmente altri privati potrebbero frapporre fra il mio diritto di parola e il suo esercizio. Questo nel caso dei privati implica reciprocità: come io debbo vedere il mio diritto alla libertà di parola rispettato, a mia volta ho il dovere di non ostacolare quello altrui. Queste osservazioni critiche, insieme ad altre, hanno dato luogo ad una concezione dei diritti detta “dinamica”. In questo senso si è assunta la posizione detta “a ondate” – su tutti Jeremy Waldron – per la quale la costituzione di diritti e doveri è strutturalmente complessa, di modo che ogni nuovo diritto genera una pluralità di altri nuovi diritti e nuovi doveri in capo ad una molteplicità di soggetti. Va notato che qui la struttura duale hofeldiana non può essere applicata: la eventuale controparte e le correlazioni sono tante e tali da non poter ammettere una chiara bilateralità. Questi diritti generali non possono ammettere un “contro”, ma ammettono solamente dei “per”. A questo punto non possiamo considerare i diritti come “micro-diritti” – posizioni giuridiche limitate e sostanzialmente duali – e neppure come “macro-diritti” – posizioni giuridiche complesse ma enumerabili in modo preciso nei loro passaggi, cioè previsionalmente previsionalmente stabili -, ma piuttosto come dei veri e propri principi di giustificazione giustificazione per altri diritti più circoscritti. circoscritti.
L’uso di principi (elementi valoriali) declinati come diritti è del resto tipico dell’ambito costituzionale; e occupano (soprattutto nelle democrazie) una posizione apicale nell’ordinamento. nell’ordinamento. Ora, si pone la questione del rapporto fra il concetto di “diritto generale” per come qui lo abbiamo delineato, con il concetto di norma giuridica. In questo senso, abbiamo due posizioni distinte, una che possiamo definire “forte”, l’altra “debole”. I sostenitori della tesi forte considerano che fra diritti e norme e regole vi siano differenze di ordine qualitativa, ossia sono cose diverse; là dove i sostenitori della tesi “debole” asseriscono che la differenza sia di natura quantitativa, ossia nell’ordine di una maggiore o minore cogenza e quindi maggior o minore esigibilità. Altrimenti detto: i primi dicono che vi sono delle caratteristiche formali che distinguono nettamente diritti e norme giuridiche; i secondi sostengono che le norme giuridiche sono a loro volta dei principi, ma formulati in modo tale da permettere una efficacia maggiormente solida. Mentre i diritti-principi sarebbero strutture di contenuto dalla fattispecie talmente vasta da essere indeterminata, una norma giuridica deve avere carattere di intelligibilità in quanto è ragionevolmente ragionevolmente circoscritta. I principi, proprio perché altamente soggetti ad interpretazione per via della loro natura amplissima, possono entrare fra loro in contrasto. Questo ovviamente capita anche nel caso delle norme giuridiche, ma è diversa la strategia di risoluzione. Come si fa ne caso dei principi-diritti? principi-diritti?
Si media fra istanze divergenti cercando un punto di equilibrio che sia ragionevole; il più delle volte accade questo. Ma due norme giuridiche che fossero patentemente in contrasto non possono essere mediate: o una cade in completo disuso o (e sarebbe meglio) l’una delle due viene abrogata. Un principio non può essere abrogato così semplicemente. Inoltre, i diritti-principi hanno il ruolo di giustificazione di norme giuridiche propriamente dette, più che quello di disciplinare i comportamenti. comportamenti. I principi-diritti sono alla base della creazione di nuove posizioni giuridiche. giuridiche. Nell’ambito della teoria novecentesca dei diritti, soprattutto con la sottolineatura del carattere dinamico di questi ultimi, si sono affermate due impostazioni: la così detta Will Theory, e la Interest Theory. La Will Theory assume che la presenza di un diritto soggettivo sia effettivamente tale se conferisce al suo detentore la possibilità di controllare – secondo la sua scelta e appunto volontà – un obbligo obbligo attribuito a qualcun qualcun altro. È una teoria della libera scelta, in estrema sintesi, tale per cui, nell’esercizio dei proprio diritti, ciascuno è sovrano, può scegliere se valersi della propria legittima pretesa o meno di volta in volta. Secondo la Will Theory posso rinunciare o meno ad una mia pretesa e quindi scegliere se svincolare o meno un’altra posizione giuridica rispetto al dovere correlativo al mio diritto soggettivo.
Nel caso in cui il detentore della posizione giuridica correlativa – cioè di un obbligo nei mie confronti – non avesse dato seguito al suo obbligo, posso decidere di rivolgermi (ma potendo anche decidere di non, rivolgermi) alle autorità affinché intimino al titolare dell’obbligo di assolverlo o di risarcirmi. Posso anche decidere di rinunciare al risarcimento. Chiaramente, visto che pone alla sua base una libera scelta dell’individuo, la Will Theory è una teoria dell’autonomia individuale ed tipicamente il punto di vista liberale. Si trova di fronte due possibili obiezioni, o per meglio dire due circostanze nelle quali non riesce a spiegare l’uso dell’espressione dell’espressione “diritto soggettivo”. 1. Il primo elemento è costituito dai diritti inalienabili, a cui teoricamente non puoi rinunciare pure se volessi. Altro caso è quello dei doveri correlati al diritto penale. Nel caso in cui – e sono non pochi – si ha nell’ordinamento italiano l’obbligatorietà dell’azione penale, in queste circostanze non è la parte lesa a poter scegliere se ricorrere o meno alle autorità, né, in caso di condanna, è la parte lesa a poter eventualmente condonare la pena. 2. In secondo luogo è il caso dei diritti di coloro che non sono capaci di intenderli o di esercitarli. 3. La Will Theory non è in grado di spiegare diritti astratti come il diritto dell’ambiente, né il fatto che un neonato abbia dei diritti: è del tutto evidente che non è in condizione di scegliere, ma altrettanto manifesto che
abbia dei diritti, né saremmo disposti, io credo, a negarglieli. La Interest Theory, o teoria del vantaggio\interesse, è quella teoria che assume la titolarità di un diritto come una tutela e un vantaggio per chi la detiene. In definitiva, questo supera il caso della titolarità di diritti soggettivi anche in capo a chi non può sceglierli, ma presenta a sua volta delle serie difficoltà. Infatti, nel momento in cui si dà un contenuto ipotetico al diritto soggettivo, questo dovrebbe necessariamente rappresentare un vantaggio presso chi lo detenga, ma questo non può affatto essere dato per scontato. Ci sono casi in cui l’interesse formale non coincide con quello sostanziale.
Ulteriore questione relativa ai diritti è la loro classificazione in ordine al contenuto. In questo senso val la pena considerare la teoria della generazione generazione dei diritti di Bobbio. 1. Il motore dei dritti soggettivi ha cominciato a funzionare nel XVII secolo, con la prima generazione dei diritti, detti diritti civili o di libertà. Questi attengono al diritto a poter esprimere la propria opinione, di associarsi liberamente, di professare la propria religione o di non professarne alcuna, ma hanno anche un carattere
patrimoniale, patrimoniale, afferente ad esempio alla possibilità di concludere liberamente contratti. 2. La seconda generazione dei diritti è quella relativa ai diritti politici, tipicamente nella forma dell’elettorato attivo e passivo. 3. La terza generazione riguarda i diritti sociali. Questi attengono al diritto ad ottenere l’erogazione di beni da parte delle pubbliche autorità necessari al godimento di un certo grado di benessere. Il diritto allo studio o a prestazioni sanitarie gratuite sono tipicamente diritti di terza generazione. generazione. 4. Abbiamo poi diritti di quarta generazione, o altrimenti detti diritti nuovi. Questi per esempio si situano nel campo bioetico o per esempio diritti culturali come quelli al riconoscimento del bilinguismo in determinate aree geografiche. geografiche. Non è escluso che questi entrino in conflitto fra di loro. I diritti di prima generazione, quelli cioè di libertà, possono confliggere con quelli sociali, che per sussistere impongono una certa soglia di prelievo fiscale. Un corollario di questa possibile situazione di contrasto fra diritti, è il carattere negativo dei primi, che si dovrebbe risolvere in una non ingerenza o minima ingerenza da parte dell’autorità nell’esercizio di diritti civili, mente i secondi sono diritti che implicano un intervento diretto dello Stato nella vita sociale. Si potrebbe obiettare che la stessa tutela dei diritti civili implichi un consistente prelievo fiscale: servono tribunali, un apparato poliziesco e così via.
5. In ultimo, vanno considerati anche i diritti umani. Questi si collocano su una linea di confine fra diritti intesi in senso morale e diritti intesi in senso giuridico. Questa sommaria caratterizzazione ci conduce a considerarli nel novero giusnaturalistico; tuttavia occorre avanzare in questo senso alcune precisazioni. In primo luogo, la giuridificazione giuridificazione dei diritti naturali in forma di diritti umani è coincisa con la loro laicizzazione, attraverso dunque il superamento dell’impostazione del giusnaturalismo cristiano medievale. In secondo luogo i diritti umani non ci connotano per una rigorosa impostazione metafisica. In terza istanza i diritti umani circoscrivono un campo, ossia sono solamente solamente diritti umani umani e di di null’altro e - in ultimo – i diritti umani si connotano per avere come loro controparte lo Stato o in quanto li favorisca, o in quanto li neghi, o in quanto non ostacoli che le negasse.
13. Argomentazione
Nel diritto l’argomentazione l’argomentazione ricopre un ruolo essenziale: in definitiva i giuristi, per buona parte della loro attività, argomentano.
L’argomentazione L’argomentazione giuridica ha le sue specificità, che la distinguono dall’argomentazione generalmente intesa. E non ogni forma di strutturazione applicata al diritto in generale è una argomentazione giuridica. Argomentare vuol dire produrre “prove” a sostegno di una certa tesi. Si possono dare differente definizioni di “argomentazione”; intanto consideriamo che logica formale e argomentazione non sono la stessa cosa. La logica formale si basa sulla possibilità di sostituire con simboli e connettori logici le espressioni del linguaggio ordinario. ordinario. L’argomentazione normalmente intesa a volte può farlo mentre l’argomentazione giuridica non può e non dovrebbe mai fare questo. Il problema dell’argomentazione in generale e dell’argomentazione giuridica in particolare, presenta numerose angolature, talune particolarmente spigolose. Prendiamo il così detto “dilemma di Jorgensen”, che propone una argomentazione in forma sillogistica, a prima vista de tutto convincente: P: tutti i facchini debbono portare le valige : Premessa maggiore universale affermativa. p: Pippo è un facchino: premessa minore particolare affermativa. portare le valige: conclusione. c: Pippo deve portare
A prima vista è davvero convincente. Si presenta in una forma tipicamente sillogistica, del tipo Tutti gli A sono x; b è x; b è A. Eppure, dal punto di vista logico, questa inferenza non può funzionare perché mette insieme proposizioni di natura descrittiva e prescrittiva. Tutti i facchini debbono portare le valige non è una mera descrizione come tutti cigni sono bianchi; ma assegna dei compiti in termini deontici, ci dice che cosa si deve fare, non come le cose stiano. Avevamo a suo tempo convenuto sulla impossibilità di intersecare piano ontico (descrizione di qualcosa) e piano deontico (sfera degli obblighi). Eppure, dal punto di vista del linguaggio comune, la correttezza della sequela, in logica aristotelica così si chiama la concatenazione concatenazione sillogistica, parrebbe del tutto ammissibile. Il campo del diritto intrattiene con la logica un rapporto ambiguo. Infatti la logica deontica e la logica giuridica non sono la stessa cosa. La logica deontica si colloca nell’ambito delle logiche che si contrappongono a quella classica (che è quella aristotelica) perché non ha un carattere aletico, ossia avente in qualche modo a che vedere con la verità. Ha un carattere per l’appunto deontico, ossia connesso con gli elementi del “dovere”, “potere” e così via. Ha a che fare perciò con il campo del giuridico e dell’etico.
Questi elementi nucleari, essenziali della logica deontica sono “obbligatorio, permesso, vietato, facoltativo” e le nozioni modali corrispondenti “necessario, possibile, impossibile, contingente” sono i modi di connessione degli elementi essenziali fra di loro. Ciò che è obbligatorio è necessariamente possibile, ciò che è permesso, non necessariamente necessariamente è anche possibile, possibile, e così via. Un pensatore che abbiamo già incontrato – Norberto Bobbio – ha proposto la seguente distinzione: la logica del diritto (logica deontica) va distinta sia dalle ricerche di logica giuridica (logica della giurisprudenza), giurisprudenza), sia dalla logica della giustizia (che Bobbio, identifica come “dottrina dei giusnaturalisti vecchi e nuovi”). La logica dei giuristi è lo studio delle regole di inferenza valide tra le norme di un sistema giuridico. Le regole possono variare da sistema a sistema: connessioni che sotto il profilo logico sarebbero valide, potrebbero non esserlo entro quel determinato sistema perché nel campo del giuridico ci sono norme sovraordinate ad altre e perché la logica giuridica non deve necessariamente pervenire alla verità, ma deve pervenire alla ragionevolezza di una conclusione. Quando si entra nel campo dei valori, dire X, oppure Y, oppure Z non significa assolutamente nulla: conta il contenuto. La logica del normativo è lo studio della struttura logicoformale del diritto in quanto norma (ordinamento). L’appartenenza di una data norma ad un dato ordinamento, non è considerata in termini assiologici, cioè di valori\contenuti,
ma unicamente sotto l’aspetto della consequenzialità logica delle concatenazioni concatenazioni entro un dato sistema. Poniamo, per fare un esempio, un giusnaturalista da una parte, ossia colui che ha in mente questioni di valore, e un normativista dall’altra, colui che considera la norma in quanto struttura obbligante, indipendentemente indipendentemente dal suo contenuto. Sotto questo aspetto la logica di riferimento è la logica classica, perché la formalizzazione considera tutti gli elementi come descrizioni e non fa la differenza fra descrizione e prescrizione. prescrizione. Il dilemma di Jorgensen, Jorgensen, ne è un esempio. esempio. Questa è una discriminante importante per discutere di logica e argomentazione giuridica; il punto è che descrivere e prescrivere non sono la stessa cosa. Possiamo assumere un approccio radicale a questo tema che assume che la logica giuridica non sarebbe altro che una applicazione della logica comune al campo del diritto, per cui si tratta di rendere il più chiaro possibile ciò che i giuristi fanno. Si tratta cioè di descrivere il linguaggio e il ragionamento ragionamento che impiegano i giuristi. Tutte le questioni che si assumono essere collocate al di fuori del campo del diritto come sistema di norme fra loro concatenate in rapporto di derivazione logica, quindi formalizzabile (cultura, tradizioni, eventuali testimonianze oculari) non debbono avere alcuna cittadinanza nel campo del giuridico, secondo questo approccio radicale. Vi è un altro possibile approccio ai rapporti fra logica e argomentazione argomentazione giuridica, si tratta dell’approccio topico.
Topos ha una ampia varietà di significati e uno fra questi è legato al concetto di dialettica di Aristotele. La dialettica è l’insieme delle procedure che sono atte a proporre una una argomentazione argomentazione ragionevole. ragionevole. Per argomentazione ragionevole dobbiamo intendere un ragionamento a carattere probatorio che ha che fare più che altro con il verosimile, ossia con il campo della persuasione. Persuadere non significa necessariamente dimostrare la verità, significa portare una adesione, minoritaria o maggioritaria, maggioritaria, ad una tesi che si sostiene. L’argomentazione, a differenza della logica – questo è molto importante – presuppone sempre la possibilità di un disaccordo. La dimostrazione di un teorema logico non si rivolge necessariamente necessariamente a qualcuno; una argomentazione sì. Naturalmente una argomentazione argomentazione si basa su prove, ossia sulla concatenazione fra premesse già accettate e conclusioni che debbono poter essere accettate sulla base di quelle premesse. Non è una mera mera narrazione ed ed ha un carattere carattere razionale. Per chiarire un po’ la differenza fra logica e argomentazione in senso generale, per inficiare una tesi, non debbo mostrarne la inefficacia in senso, mi basta mostrare che in almeno uno dei casi nei quali dovrebbe funzionare, non funziona (almeno un x non è A). Alcuni autori sottolineano la prevalenza dell’elemento sociale dell’argomentazione, come tratto differenziale di questa rispetto alla logica: l’argomentazione è un processo che procede sì per tesi
preliminari poste a sostegno di una certa conclusione, ma il “sostegno” in questione consiste nell’ottenere l’approvazione degli astanti – uditorio – in ordine alla conclusione. La dimostrazione di un teorema è una argomentazione che ha di mira la verità; una argomentazione non deve mirare alla verità: ma a convincere chi ascolta. Qual è la differenza? Chi ascolta può essere convinto dalla verità, ma può essere convinto anche da altro. Possiamo definirli paralogismi, i quali portano ad una conclusione corretta da premesse errate, che però possono venire acriticamente accettate dall’uditorio. dall’uditorio. Il linguaggio giuridico è un linguaggio pragmatico, ossia un linguaggio che non può non tenere conto di chi parli. In termini puramente logici, non conta chi parli, ma conta cosa sia detto; nel linguaggio giuridico, invece, i significati rilevanti nell’ambito giuridico debbono necessariamente tenere conto, per essere compresi, della fonte che li pone in essere. Inoltre, se discutiamo di sistemi democratici, le leggi debbono almeno teoricamente essere comprese da chi alle leggi è soggetto: cioè da chiunque. Perciò devono accostarsi quanto più è possibile al linguaggio linguaggio ordinario. ordinario. Al di là come io sia disposto a considerare una definizione valida di argomentazione, ogni argomentazione ha delle fasi fondamentali che la individuano come tale. La prima fase sarà l’esibizione di assunzioni preliminari che possano ottenere ottenere l’adesione di di chi ascolta.
Ci sarà un esordio, una fase di esposizione, la fase di presentazione presentazione degli argomenti e dei controargomenti controargomenti – argomentazione argomentazione in senso proprio – e la conclusione. Ora, non è raro che queste fasi della costruzione di una argomentazione argomentazione siano fra loro sovrapposte e che non tutte facciano riferimento alla sfera del razionale. Fanno spesso appello al senso di approvazione sui temi più diffusi e condivisi in senso etico. Ethos, ossia atteggiamento di colui che sostiene una argomentazione, e pathos, ossia la disposizione d’animo di chi ascolta, sono elementi essenziali dell’argomentare. Questo era chiaro già ad Aristotele. Stephen Toulmin prende la questione un po’
più in dettaglio.
Egli assume quelli che in base al suo punto di vista sono gli elementi centrali di una argomentazione, muovendo da un presupposto metodologico, metodologico, ovvero lo studio della teoria deve assumere e comparare i modi che nelle differenti scienze si hanno nell’argomentare al fine di estrarre per via empirica le forme valide di argomentazione. La forma dell’argomentazione valida, secondo il modello di Toulmin, è questa: “dati; garanzia; dunque, conclusione”. conclusione”. “Garanzia” è la parola chiave. Toulmin definisce “argomentazione sostanziale” le argomentazioni che implicano una innovazione cognitiva, cioè ci danno informazioni ulteriori nella conclusione rispetto a quanto già sappiamo nelle premesse
L’argomentazione L’argomentazi one sostanziale sostanzi ale deve aggiungere garanzie, non può assumere quelle già implicite implicite nelle premesse. premesse. Non può avere un carattere incontrovertibile incontrovertibile sotto il profilo logico poichè non è una deduzione. L’esempio che trovate nel saggio di Rossetti, che è uno dei massimi esperti italiani di queste sottili questioni, è il seguente: Anne è una delle sorelle di Jack; tutte le sorelle di Jack, hanno i capelli rossi; dunque, Anne ha i capelli rossi. Se esprimiamo in questa forma ci sono due possibilità: o abbiamo controllato che tutte le sorelle di Jack hanno i capelli rossi, e quindi non c’è alcuna informazione ulteriore, noi non stabiliamo nell’argomentazione alcuna garanzia, semplicemente sappiamo che Anne è una delle sorelle di Jack, e che tutte le sorelle di Jack, quindi anche Anne, hanno i capelli rossi. Se invece esprimessimo l’argomentazione in questi termini: Jack ha un certo numero di sorelle; la gran parte delle sue sorelle ha i capelli rossi, Anne è sorella di Jack, possiamo presumere che tutte le sorelle di Jack abbiano i capelli rossi, è altamente probabile che che anche Anne abbia i capelli rossi. rossi. Non abbiamo alcuna certezza, rispetto alla conclusione, conclusione, circa il fatto che effettivamente Anne abbia i capelli rossi. Questo non rende l’argomentazione invalida.
Veniamo adesso ad altro tema spinoso: quello delle fallacie. Ci sono numerose circostanze nelle quali una argomentazione argomentazione perfettamente perfettamente strutturata è invalida. invalida. Le fallacie sono argomentazioni che a prima vista possono apparire valide e non lo sono. Le possibili circostanze in cui questo si può verificare sono tre: 1. una o più premesse vengono accettate là dove non dovrebbero dovrebbero esserlo; 2. si adottano regole di inferenza invalide o si applicano regole valide ma non adatte alla situazione specifica; 3. si producono a sostegno della propria tesi argomenti irrilevanti sotto l’aspetto razionale. Attenzione a questo terzo elemento: le argomentazioni in generale ammettono tranquillamente questa terza fattispecie; ma io non ho detto che una argomentazione è necessariamente una dimostrazione: ho detto che è la captatio dell’adesione alla propria tesi. Prendiamo un caso come il seguente: se la terra è rotonda, la terra non è piatta; la terra non è piatta; allora è rotonda. Che cosa notate?
Dovreste notare che una delle premesse ha carattere condizionale: condizionale: se, la terra etc… Siamo dunque nel così detto modus ponens, ossia la forma “assumiamo per ipotesi che….” In secondo luogo, che cosa notate? Che la conclusione è vera: sappiamo che la terra è rotonda. Ma la conclusione è vera in virtù delle premesse? No. Perché se non è piatta potrebbe potrebbe essere un parallelepipedo. parallelepipedo. La conclusione vera non garantisce una argomentazione valida, di per sé. C’è poi il caso dell’argomento ad hominem; teso a mettere in rilievo prerogative che sarebbero estrinseche all’argomentazione. all’argomentazione. Tizio ha già mentito una volta a questa corte! Magari tizio nella fattispecie sta dicendo la verità, ma il fatto che abbia già mentito una volta, getta discredito su ciò che in generale dice. Oppure la fallacia ad autoritatem: si invoca la presenza di una persona ritenuta autorevole ma non nel campo specifico. propter hoc. Frequente è il così detto post hoc \ propter
Ossia dopo questo, quindi a causa di questo. Si scambia il nesso cronologico per un nesso causale. Esempio: la legalizzazione degli aborti ne ha fatto aumentare il numero.
Una argomentazione argomentazio ne deve essere valutata tenendo presente tutto questo, e anche molto altro. Una sintesi potrebbe essere la seguente: 1. attendibilità dei dati: ossia valutare la eventuale presenza di un paralogismo; 2. pertinenza dei dati rispetto alla tesi sostenuta; 3. applicabilità della regola inferenziale impiegata per collegare i dati fra loro: tutti gli uomini sono animali; tutti gli uomini sono mortali; tutti gli animali sono mortali. Al di là del fatto che sia vero o meno, l’argomentazione non è chiaramente valida. 4. Accettabilità di una regola connessa a convinzioni morali: tutti gli uomini disprezzano l’omicidio, l’aborto è omicidio, tutti gli uomini disprezzano l’aborto; 5. persuasività: valutare quali siano i fattori logici e quali quelli sostanzialmente piscologici o emozionali; 6. valutazione del lessico, ossia dei termini usati per sviluppare l’argomentazione l’argomentazione stessa. Il contesto, in definitiva, conta.
14. Giudizio
Possiamo mettere in luce tre significati: •
il giudizio come capacità di valutare e definire;
•
•
il giudizio come specifica attività del connettere casi singoli a norme; atto dell’emettere un verdetto o sentenza.
Il giudizio, il giudicare, nel diritto ha una funzione fondamentale. Il giudice decide casi, dirime controversie, accerta diritti e obblighi, ricostruisce i fatti, emette sentenze, impone sanzioni, interpreta e applica la legge. Possiamo sintetizzare affermando che in tutti quei casi, in tutte quelle funzioni, il giudice procede attraverso il ragionamento giuridico(un processo mentale, attraverso il quale si perviene ad una conclusione, un discorso che esibisca ragioni a sostegno di una certa tesi, una argomentazione). argomentazione). Abbiamo già visto che lo strumento principale dell’inferenza, ossia delle deduzioni a carattere logico che connettono premesse e conclusione, è il sillogismo (Premessa maggiore, premessa minore, conclusione). Nel ragionamento ragionamento che si svolge nel mondo del diritto, ossia attraverso leggi e fatti interpretati come fatti che hanno una rilevanza giuridica, è importante tenere presente almeno questi quattro elementi seguenti: 1. il ragionamento giuridico giudiziale ha a che fare con norme, la conclusione avrà perciò un carattere normativo; 2. nel ragionamento giudiziale, almeno una è una norma giuridica valida, la quale esprime una disposizione a carattere normativo;
3. la forma del ragionamento giuridico giudiziale è un sillogismo, di cui una delle premesse è una norma giuridica valida e la conclusione non potrà non essere normativa; 4. nel valutare un ragionamento giuridico giudiziale non dobbiamo prestare attenzione ai percorsi mentali del giudice, ma alla concatenazione degli argomenti posti a sostegno della eventuale sentenza, del pronunciamento, della disposizione e così via. Ora, norma giuridica valida significa disposizione a carattere normativo, con o senza sanzione, tale da avere un carattere quanto più è possibile astratto astratto e generale. Il sillogismo giudiziale svolge una funzione di verifica ex post, di chiarificazione della linearità del ragionamento giudiziale che il giudice ha svolto per condannare o assolvere; non dimostra nulla a proposito del fatto in sé. Uno strumento di chiarificazione e quindi di verifica della concatenazione degli argomenti; il che non esaurisce la questione del ragionamento giudiziale. Il sillogismo pratico si caratterizza per due tipologie di giustificazione che lo riguardano: la giustificazione interna, che riguarda la concatenazione di premesse e conclusione fra loro; e la giustificazione esterna esterna, che riguarda la fondatezza delle premesse. Il carattere indeterminato delle norme – che debbono essere quanto più possibile generali – non può certo essere eliminato da una sequela sillogistica. E d’altra parte la stessa riconduzione dei fatti al caso, ossia la sua interpretazione giuridica non è un fatto di per sé evidente. Sono necessarie della garanzie.
La giustificazione esterna è una questione anche più complessa della corrispondenza interna fra premesse e conclusione. Se la conclusione è implicita nella premessa maggiore, l’utilità pratica di un sillogismo è inesistente. I ragionamenti giudiziali pratici sono quasi sempre ragionamenti molecolari ossia costituiti da “gruppi” di argomentazioni, che si connettono fra loro in vario modo. Per riuscire ad individuare le premesse del giudizio giudiziale, il giudice compie numerose operazioni complesse. Le principali potremmo identificarle identificarle così: 1. individua fonti giuridiche valide(a quale diritto si deve fare riferimento) 2. individua le disposizioni normative valide ictu oculi, il che non è detto che esaurisca, nel farsi del caso, tutte le questioni di questa natura; 3. determina il significato delle disposizioni normative; 4. nel caso in cui vi fossero antinomie – contrasto fra disposizioni normative implicate nel caso –o lacune, le deve tentare di risolvere; 5. l’individuazione di eventuali eccezioni implicite; 6. deve ricostruire i fatti; 7. deve qualificare giuridicamente i fatti (in che termini i fatti in questione hanno una rilevanza processuale?). Ora, nei termini da noi assunti, ossia giustificazione interna al ragionamento giuridico giudiziale e giustificazione esterna,
possiamo assumere le precedenti qualificazioni dividendole appunto in quello schema. Perciò le questioni relative alla individuazione delle disposizioni normative, la lor qualificazione, la loro interpretazione, la oro valutazione in termini di eventuali antinomie, lacune, eccezioni e così via attengono alla questione della giustificazione interna. In questo senso, va detto che l’attività interpretativa del giudice non avviene per così dire nel vuoto; il ragionamento giuridico implica l’impiego di alcuni argomenti e l’esclusione di altri possibili argomenti. argomenti. In particolare, un prodotto interpretativo può essere uno strumento di chiarificazione ex post del giudizio o può essere un modo di qualificazione della disposizione normativa contenuta nell’enunciato nell’enunciato della legge. Tuttavia, anche quest’ultimo elemento emerge particolarmente nel risultato del ragionamento ragionamento giudiziale. Non è un caso, infatti, che il giudice sia tenuto a scrivere le motivazioni della sua decisione. Il giudice deve dare conto della correttezza del ragionamento giudiziale che ha svolto per maturare le sue conclusioni; è soggetto a controllo. Molti sistemi giuridici prevedono al loro interno delle disposizioni normative in ordine ai limiti che il giudice deve osservare nella sua attività di interpretazione. interpretazione. In sistemi di costituzione così detta rigida, come il nostro, è essenziale che il significato attribuito o attribuibile ad una determinata disposizione normativa non contrasti con la Costituzione, sino all’interessamento della Corte costituzionale.
L’eccezione implicita è una circostanza specifica, che la legge non prevede espressamente rende la legge defettibile, ossia non applicabile al caso. Veniamo al problema della giustificazione interna, ossia alla questione della giustificazione della ricostruzione dei fatti. Si tratta dell’attività che il giudice compie per ottenere il posizionamento posizionamento e soprattutto per accreditare la premessa minore del sillogismo giudiziale. La premessa minore identifica il singolo caso che deve essere riconnesso con la premessa maggiore. Occorre un ragionamento probatorio che permetta di garantire la validità della premessa minore in questione. In questo senso possiamo considerare la così detta prova abduttiva.
L’inferenza L’inferenza abtuttiva ha un carattere probabilistico. L’inferenza L’inferenza abduttiva considera un indizio di carattere fattuale e lo riconnette ad una ipotesi probabilistica. La conclusione di un argomento abdutivo non può avere carattere necessario: è un caso nel quale non vale la reciproca fra condizione e conseguenza. Si tratta di un X allora Y; non di un Y allora necessariamente X. La conseguenza può essere riconnessa alle premesse, ma non può escludere da un punto di vista logico la validità di altre premesse.
Questo non toglie che si facciano inferenze abduttive; dovrebbe semplicemente metterci in guardia dal considerare conseguenze, anche altamente probabili, come se fossero necessarie. Ora, sino a questo punto abbiamo ragionato di cosa fa il giudice, di quali siano le principali problematiche in termini di teoria generale del diritto che si trova a dover affrontare. Abbiamo altresì escluso che siano rilevanti, nel giudizio giudiziale, inclinazioni di carattere psicologico. Ma evidentemente questo non esaurisce lo spettro delle caratteristiche che deve possedere un giudice. Cominciamo col dire che non tutti i sistemi giuridici hanno la medesima strutturazione della funzione del giudice. Il giudice in alcuni ordinamenti ha una legittimazione democratica: è eletto; in altri – come il nostro – quella del giudice è una funzione alla quale si accede mediante pubblico concorso. È un funzionario dello stato. Là dove il giudice è eletto ha nel mandato popolare il suo principale fondamento fondamento di di legittimità e a quello quello è soggetto. Nei sistemi in cui il giudice è funzionario, funzionario, a cosa sarà soggetto. Il nostro ordinamento dice “soltanto alla legge”, come dispone la Costituzione art. 101 comma 2°. Incidentalmente, abbiamo usato indifferentemente la parola giudice quando si trattava di spiegare il ragionamento; ma nel nostro sistema giudice e magistrato non sono sinonimi e vi sono delle fattispecie che differenziano la cosa.
Il pubblico ministero, colui che in un processo sostiene la pubblica accusa, è certamente un magistrato: ma non è un giudice, nel senso che non ha funzione giudicante. Tornando alla questione della soggezione alla legge, va osservato in primo luogo che in assenza di altra forma di legittimazione, questo è l’unico nesso effettivo fra il giudice e lo stato di diritto. La soggezione alla sola legge del giudice è il nesso che ci permette di vedere le tre prerogative essenziale che deve poter esibire chi giudica: indipendenza; imparzialità; terzietà . Quanto all’indipendenza, ossia alla condizione di piena libertà da condizionamenti condizionamenti indebiti nell’atto del giudicare, essa si differenzia in due aspetti: interna ed esterna. Per indipendenza interna dobbiamo intendere l’esigenza di tutelare il giudice da possibili pressioni che provengano dalla magistratura intesa come corpo. L’indipendenza esterna è invece riferita alla possibile intromissione di fattori esterni all’ambito della magistratura rispetto alla quale il giudice deve essere tutelato nello svolgere le sue funzioni. Il giudice deve poter vantare la prerogativa dell’mparzialità nello svolgimento delle sue funzioni: dunque imparziale deve significare “equidistante” “equidistante” dalle parti e dagli interessi in causa. Per terzietà, invece, dobbiamo intendere la condizione tecnica di non essere parte in causa. Che è non è la stessa cosa della imparzialità in senso generale.
Esempio: se si deve discutere delle possibili compensazioni a seguito di una serie di violazioni da parte – poniamo – di un istituto bancario nei confronti per esempio di obbligazionisti, il giudice non può essere titolare di obbligazioni bancarie che sono oggetto del processo, perché non potrebbe essere in alcun modo terzo e questo esporrebbe la sua decisioni a contrasti e ricorsi di ogni tipo.