Acquistato da Alessandro Guerra su Bookrepublic Store il 2014-10-27 18:27 Numero Ordine Libreria: b1721814-9788874703623 Copyright © 2014, Edizioni di Pagina
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collana diretta da Franco Perrelli
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© 2014, Pagina soc. coop., Bari
Questo volume è pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Verona Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica.
Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail:
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Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a:
Teatri di figura La poesia di burattini e marionette fra tradizione e sperimentazione Atti del convegno internazionale di studi (Verona, 22-24 novembre 2012) Acquistato da Alessandro Guerra su Bookrepublic Store il 2014-10-27 18:27 Numero Ordine Libreria: b1721814-9788874703623 Copyright © 2014, Edizioni di Pagina
a cura di Simona Brunetti e Nicola Pasqualicchio
ISBN 978-88-7470-337-1 ISSN 2283-9089
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Finito di stampare per conto di Pagina soc. coop. nel mese di aprile 2014 da Corpo 16 s.n.c. - Bari
Indice
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Anna Maria Babbi Rosvita e le marionette della galerie Vivienne
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Paola Degli Esposti Il teatro “inanimato” di Philippe-Jacques de Loutherbourg
25
Elisa Grossato La musica per il teatro delle marionette: dall’esperienza haydniana a Satie
39
Simona Brunetti La divina donna-manichino di Massimo Bontempelli
49
Rosario Perricone Opra î pupi siciliana: Masterpiece of the Oral and Intangible Heritage of Humanity
63
Paola Conti Nino Pozzo: l’arte di un burattinaio veronese del Novecento
77
Fabrizio Montecchi Alla ricerca di un’identità. Riflessioni sul Teatro d’Ombre contemporaneo
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Maria Ida Biggi Gran Teatrino “La fede delle femmine”
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Premessa
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Indice
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Didier Plassard Etica ed estetica sulla scena contemporanea: la figura come immagine dell’altro
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Elena Randi «Cries of “dehumanization”, “coldness”, “puppetry” and “mechanicalness” arose». La danza di Alwin Nikolais
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Nicola Pasqualicchio Don Šajn di Jan Švankmajer: il teatro delle marionette come macchina infernale
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Cristina Grazioli «Une histoire d’amour»: la rivista “Puck” e le intersezioni tra le arti. Un omaggio a Brunella Eruli
Premessa
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Quando nel 2012, all’interno di Theáomai, un articolato progetto sulle arti sceniche organizzato dal Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Verona e finanziato dall’ESU di Verona, abbiamo deciso di inserire una sezione specificamente dedicata al teatro di figura, che avesse al proprio centro un convegno dedicato a questa forma di spettacolo, siamo stati mossi in particolare da due motivazioni, una di carattere locale, l’altra di più ampio respiro. La prima concerneva un progetto appena attivato per iniziativa del Comune di Verona, in collaborazione con l’Università e con l’Accademia di Belle Arti della città scaligera, riguardante l’avvio della catalogazione e del restauro del patrimonio materiale (burattini, fondali, baracche) del maggior burattinaio veronese del Novecento, Nino Pozzo. Tale occasione era uno stimolo per riflettere sul valore e il significato (generalmente assai sottovalutati) che lo spettacolo di figura riveste nella cultura di un territorio sotto il profilo sociale, artistico ed educativo, nelle sue ramificate connessioni con la cultura e le tradizioni popolari, con il teatro “maggiore”, con le istituzioni religiose e con quelle scolastiche; nonché per porre il problema della conservazione e dello studio degli elementi documentali e materiali relativi a questa specifica declinazione dell’arte teatrale. L’altra motivazione era invece legata alla pubblicazione, nel 2012, del libro Il mondo delle figure. Burattini, marionette, pupi, ombre, curato da Luigi Allegri e Manuela Bambozzi per i tipi di Carocci: un libro importante, non solo in virtù del fatto che gli autori chiamati a contribuirvi figuravano tra i massimi esperti del tema a livello italiano e internazionale, ma principalmente perché andava a colmare un vuoto significativo nell’editoria teatrale italiana, che non aveva ancora prodotto un volume in grado di offrire, come questo, uno sguardo a 360° sul teatro di figura nelle sue varie incarnazioni tipologiche, nelle sue differenziazioni geografiche e nel suo sviluppo storico. Le nostre giornate di studio sul teatro di figura intendevano, in certa misura, prendere le mosse da questo libro: sia, in modo più diretto, dedicando uno spazio alla sua presentazione e invitando tra i
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Premessa
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relatori alcuni degli studiosi che avevano contribuito alla sua realizzazione; sia, in una prospettiva più ampia, pensando le varie relazioni, che ora qui pubblichiamo, come occasioni di specifici approfondimenti di tematiche che Il mondo delle figure presentava in modo più sistematico e generale. Ci riferiamo, in particolare, al rapporto fra tradizione e innovazione, alle relazioni del teatro di figura con altri linguaggi artistici, all’incidenza dell’idea di marionetta sulla concezione dei personaggi di certa drammaturgia primonovecentesca come sulla nuova figura di performer auspicata dai riteatralizzatori e dalle avanguardie. A burattini e marionette nella loro versione tradizionale sono dedicati l’intervento di Paola Conti, che ricostruisce sinteticamente la vicenda artistica di Nino Pozzo nella sua continuità, per repertorio e caratteri, con l’arte delle grandi dinastie di burattinai del Nord Italia, in particolare emiliane, e quello di Rosario Perricone, che riesamina la grande arte dei pupi siciliani alla luce della loro assunzione tra i patrimoni culturali dell’umanità da parte dell’Unesco, interrogando in chiave antropologica il concetto stesso di “tradizione”. Se questi scritti testimoniano la persistente vitalità artistica nella contemporaneità del teatro di figura nelle sue modalità “all’antica”, altri esaminano diverse declinazioni del rinnovamento estetico di questo linguaggio teatrale una volta entrato in sintonia con le forme espressive dell’avanguardia e della ricerca. A far da ponte tra il lascito della tradizione marionettistica dell’Ottocento e umori già pienamente novecenteschi è, nel presente volume, il saggio di Anna Maria Babbi sulla rappresentazione di drammi medievali di Rosvita di Gandersheim nel teatrino di marionette della parigina galerie Vivienne, attorno a cui ruotano personaggi come Anatole France e Alfred Jarry, per i quali gli spettacoli di figura non rappresentano solo un colto divertissement, ma una fondamentale alternativa estetica alle viete consuetudini del teatro d’attore. Sullo scorcio dell’Ottocento e poi più pienamente nel secolo successivo, il teatro di figura comincia ad apparire un linguaggio espressivo dotato di potenzialità sconosciute al teatro d’attore, ricco di qualità poetiche, di risorse inventive, di libertà fantastiche che la sua storia precedente solo in parte aveva fatto emergere. Il saggio di Didier Plassard, per esempio, mostra esemplarmente come la manovra a vista della figura, sempre più diffusa nella contemporaneità, apra a dimensioni estetiche ma anche a implicazioni etiche di straordinario fascino e novità; ed evidenzia inoltre la pluralità linguistica del teatro di figura del secondo Novecento e la sua capacità di mantenere caratteristiche identitarie forti nonostante le sue innumerevoli declinazioni e le fittissime dinamiche di scambio con altri linguaggi scenici e più in generale artistici. Se cerchiamo un luogo dove queste e altre fondamentali caratteristiche del teatro di figura contemporaneo siano state sistematicamente e appassionatamente indagate, lo troveremo senz’altro nelle pagine di “Puck”, la rivista, esplicitamente dedicata alle intersezioni del teatro di figura con le altre arti, fondata e diretta da Brunella Eruli: alla studiosa,
Premessa 9
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prematuramente scomparsa poco prima del nostro convegno, al suo percorso di fervente indagatrice del mondo delle figure, alla storia della sua rivista, Cristina Grazioli dedica il proprio saggio, che è anche un illuminante percorso attraverso alcune fondamentali tappe critiche e riflessioni estetiche sulla marionetta negli ultimi decenni. Tra i connubi del teatro di figura con le altre arti, abbiamo privilegiato quelli con la musica e con il cinema. Al primo è dedicato in particolare l’articolo di Elisa Grossato che, in un percorso che si snoda tra Seicento e Novecento, si sofferma in particolare sull’esperienza di Haydn come compositore di opere per marionette nella residenza degli Esterházi. Ma anche una singolare e raffinata esperienza teatrale contemporanea quale quella del Gran Teatrino “La fede delle femmine”, a cui dedica il suo saggio Maria Ida Biggi, si presenta sostanzialmente come un teatro per marionette musicale, a cui fa da matrice e da costante ispirazione l’opera lirica, variamente omaggiata o parodiata, affettuosamente miniaturizzata o ironicamente citata nel venticinquennale percorso della piccola compagnia di attrici-marionettiste diretto da Margot Galante Garrone. In quanto al cinema, è su un’opera di Jan Švankmajer, il regista che forse meglio di ogni altro ha saputo coniugare il linguaggio dell’immagine filmica con quello del teatro di figura, che Nicola Pasqualicchio ferma la sua attenzione, con l’intento di mostrare come lo sguardo visionario del cineasta ceco, esercitandosi su materiali della tradizione marionettistica ottocentesca, sappia esaltarne le potenzialità più inquietanti. È usuale mettere in rapporto con il cinema, se non altro come suo precedente “archeologico”, una forma di teatro di figura meno coltivata e studiata, ma certo non meno affascinante di burattini e marionette: quella del teatro d’ombre. Ma il saggio di Fabrizio Montecchi, focalizzato sull’importante rinnovamento tecnico ed estetico che questo genere di spettacolo ha vissuto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, invita ad andare oltre e mette in guardia dalla tentazione di appiattire il teatro d’ombre, specialmente contemporaneo, sull’idea precinematografica della proiezione d’immagini su uno schermo, rivendicandone al contrario il pieno statuto di arte scenica. Sulla marionetta nel Novecento, non come presenza concreta all’interno dello spettacolo di figura ma come modello sotteso alla tendenza all’artificializzazione dell’umano propria di settori importanti della drammaturgia e della creazione performativa, riflettono i saggi di Simona Brunetti ed Elena Randi. La prima indaga la presenza dei simulacri artificiali dell’umano (marionette, manichini) nell’opera di Massimo Bontempelli, incentrando in particolare la propria analisi sulla protagonista della commedia Nostra Dea, donna-manichino la cui “divina” inconsapevolezza e trasmutabile identità l’accreditano di quella superiorità sull’essere umano che Kleist attribuiva alla marionetta. Elena Randi rivolge invece la propria attenzione all’ambito della danza, identificando nell’opera
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Premessa
coreografica di Alwin Nikolais una delle più interessanti e coerenti realizzazioni sceniche della Supermarionetta auspicata da Craig. Se soltanto il Novecento elabora con piena consapevolezza teorica l’ideale di un “marionettismo” integrale, cioè di un teatro puro e perfetto perché totalmente “disumanato” e affidato al protagonismo di simulacri mobili e congegni meccanici o di performer che sappiano farsene il vivente corrispettivo, le premesse tecniche e ludiche di tale aspirazione erano già state poste nel Settecento: ce lo conferma il saggio di Paola Degli Esposti, che ricostruisce l’importante contributo dello scenografo Philippe-Jacques de Loutherbourg allo sviluppo dei teatri ottico-meccanici e dell’impiego scenico degli automi nella seconda metà del XVIII secolo.
Simona Brunetti Nicola Pasqualicchio
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Il convegno Teatri di figura si è svolto a Verona tra il 22 e il 24 novembre 2012 al Museo Civico di Storia Naturale e nel Piccolo Teatro di Giulietta: questo libro pubblica la gran parte degli interventi ospitati al suo interno, in due giornate e mezzo affollate da un pubblico soprattutto di studenti, ai quali ci auguriamo di essere riusciti a instillare interesse e, perché no, un po’ d’amore, per il mondo meraviglioso degli attori di pezza, di legno e d’ombra. Un sentito ringraziamento, oltre ai relatori, va alle persone e alle istituzioni che ne hanno reso possibile la realizzazione, o che a vario titolo vi hanno contribuito: il professor Luigi Allegri dell’Università degli Studi di Parma; il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Verona; l’ESU di Verona; il Comune di Verona; il Teatro Stabile di Verona - Fondazione Atlantide; il Museo Civico di Storia Naturale; l’Accademia di Belle Arti di Verona; la Biblioteca “Arturo Frinzi” dell’Università degli Studi di Verona; la Fondazione “Umberto Artioli” Mantova Capitale Europea dello Spettacolo di Mantova. Un grazie a Marco Ambrosi, Enrico Dilta e Nicole Guerra per le immagini fotografiche dei burattini e dei fondali di Nino Pozzo, qui solo in parte riprodotte e realizzate in occasione della mostra La baracca delle meraviglie. Immagini del teatro di burattini di Nino Pozzo a cura dell’Accademia di Belle Arti di Verona, presentata durante i lavori del convegno; a Marco Campedelli, per la messa a disposizione dei materiali del proprio archivio e per le notizie e le precisazioni relative a Nino Pozzo; e a Renato Dai Fiori, burattinaio veronese che ha portato la propria testimonianza artistica in margine al convegno e che è scomparso nel gennaio 2014 all’età di novant’anni. Cogliamo, infine, l’occasione per esprimere la nostra gratitudine alle compagnie e agli interpreti che hanno allietato le giornate del convegno con le loro performances: l’Associazione Mitmacher, per lo spettacolo per attori e marionette Il complice di F. Dürrenmatt, con Luca Passeri e Stefano Scherini; Pino Carollo, per lo spettacolo Robe da Lupi: il regno nascosto, con Patrizia Cipriani e Luca Zevio; Viva Opera Circus, per lo spettacolo Piccola Opera di e con Gianni Franceschini.
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Teatri di figura
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Anna Maria Babbi*
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne
Così Walter Benjamin trascrive nei suoi Passages la descrizione della galerie Vivienne come si trova nella straordinaria raccolta Paris, ou Le livre des Cent-etUn. La «solide» galerie Vivienne, come la definisce, era un luogo privilegiato per un flâneur come lui abituato a passare le giornate nella Bibliothèque della rue de Richelieu, come sappiamo anche da molte sue lettere. Negli anni Trenta dell’Ottocento, al momento dell’apertura della galerie, c’era dunque stato un primo tentativo di animarla, apparentemente senza molto successo, con spettacoli o concerti. Verso la fine dell’Ottocento infine la galerie Vivienne aveva ospitato un famoso petit-théâtre, che sarà in seguito utilizzato per spettacoli di marionette. Ed è proprio di questo petit-théâtre che Anatole France parla nel suo resoconto su “Le Temps” del 10 giugno 1888, Les marionnettes de M. Signoret, poi raccolto nella Vie Littéraire2. Lo scrittore esprimeva l’auspicio di vedere rappresentati i dialoghi drammatici di Rosvita di Gandersheim: Enfin, puisqu’il est dans la nature de l’homme de désirer sans mesure, je forme un dernier souhait. Je dirai donc que j’ai bien envie que les marionnettes nous repré* Università di Verona. 1 A. Kermel, Les passages de Paris, in Paris, ou Le livre des Cent-et-Un, Ladvocat, Paris 18311834, t. 10 (1833), p. 58; citato in W. Benjamin, Das Passagen-Werk, herausgegeben von R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, vol. I, H [der Sammler], p. 269. 2 Cfr. A. France, Les marionnettes de M. Signoret, in “Le Temps”, 10 juin 1888, p. 2, poi in A. France, La Vie Littéraire, Calmann-Lévy, Paris 1888-1892, e in A. France, Œuvres complètes illustrées, Calmann-Lévy, Paris 1923-1935, t. VI, pp. 464-468, da cui si cita.
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La foule se presse au passage Vivienne, où elle ne se voit pas, et délaisse le passage Colbert, où elle se voit trop peut-être. Un jour on voulut la rappeler, la foule, en remplissant chaque soir la rotonde d’une musique harmonieuse, qui s’échappait invisible par les croisées d’un entresol. Mais la foule vint mettre le nez à la porte et n’entra pas, soupçonnant dans cette nouveauté une conspiration contre ses habitudes et ses plaisirs routiniers1.
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Anna Maria Babbi
sentent un de ces drames de Hroswita dans lesquels les vierges du Seigneur parlent avec tant de simplicité. Hroswita était religieuse en Saxe, au temps d’Othon le Grand. C’était une personne fort savante, d’un esprit à la fois subtil et barbare. Elle s’avisa d’écrire dans son couvent des comédies à l’imitation de Térence, et il se trouva que ces comédies ne ressemblent ni à celles de Térence, ni à aucune comédie. Notre abbesse avait la tête pleine de légendes fleuries3.
Ma, nello stesso articolo, aggiunge dell’altro, vale a dire una ferma critica verso i ruoli teatrali ispirati a un grande attore di moda:
Con quest’ultima frase Anatole France sancisce una sorta di divisione netta tra il teatro recitato in modo tradizionale da attori e il teatro per pantins, affidando a quest’ultimo il compito di esprimere il lato irrazionale, e poetico, del teatro stesso. D’altra parte negli anni a cavallo tra Otto e Novecento si diffonde a Parigi un grande interesse per gli spettacoli di teatro per pantins, attraverso soprattutto gli autori simbolisti, come ad esempio il primo Maeterlinck, che scrive alcuni suoi testi per marionette. La diffidenza nei confronti dell’attore quale interprete assoluto su cui si fermano i riflettori e per il quale gli autori scrivono le loro pièces porta come primo risultato la simpatia accordata a un teatro diverso. Una critica analoga a quella di Anatole France è ribadita anche da Alfred Jarry, il quale afferma che: Le système qui consiste à fabriquer un rôle en vue des qualités personnelles de tel artiste a le plus de probabilités pour être une cause de pièces éphémères: parce que l’artiste mort, on n’en trouvera pas d’exactement semblable [...]. Il ne faut pas d’«étoiles» mais une homogénéité de masques bien ternes, dociles silhouettes5.
Ivi, p. 465. Ivi, pp. 466-467. 5 A. Jarry, Réponses à un questionnaire sur l’art dramatique, textes relatifs à Ubu roi, in A. Jarry, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1972-1988, t. I (textes établis, présentés et annotés par M. Arrivé), p. 413. 3 4
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S’il faut dire toute ma pensée, les acteurs me gâtent la comédie. J’entends: les bons acteurs. Je m’accommoderais encore des autres! mais ce sont les artistes excellents, comme ils s’en trouve à la Comédie-Française, que décidément je ne puis souffrir. Leur talent est trop grand: il couvre tout. Il n’y a qu’eux. Leur personne efface l’œuvre qu’ils représentent. Ils sont considérables. Je voudrais qu’un acteur ne fût considérable que quand il a du génie. Je rêve de chefs-d’œuvre joués à la diable dans des granges par des comédiens nomades. Mais peut-être n’ai-je aucune idée de ce que c’est que le théâtre. Il vaut bien mieux que je laisse à M. Sarcey le soin d’en parler. Je ne veux discourir que de marionnettes. C’est un sujet qui me convient et dans lequel M. Sarcey ne vaudrait rien. Il y mettrait de la raison4.
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne 15
Il desiderio di Anatole France fu esaudito e Henri Signoret realizzò nel piccolo teatro della galerie Vivienne uno spettacolo ispirato al dramma Abraham (Lapsus et conversio Mariae neptis Habramhae Heremicolae) di Rosvita, e lo scrittore dedicherà all’avvenimento un ulteriore resoconto sempre su “Le Temps” del 7 aprile 1889, Hrotswitha aux Marionnettes, dove leggiamo ancora una volta la sua appassionata ammirazione per le marionette.
Le elogerà anche per la loro etimologia che lo storico del teatro Charles Magnin aveva proposto nel suo testo classico Histoire des marionnettes7. Ora, lo stesso Magnin aveva pubblicato nel 18458, e per la prima volta in epoca moderna, i drammi di Rosvita accompagnati da una traduzione in francese alla quale sicuramente France aveva attinto, assieme alle Vies des pères e ad altre leggende agiografiche, l’ispirazione per la sua Thaïs. Sappiamo che il titolo che avrebbe voluto dare France era Pafhnuce, riprendendo il personaggio maschile, l’eremita che vuole salvare dal peccato la cortigiana Thaïs e che cade nella rete da lui stesso tessuta. Infatti Anatole France nel suo Projet de Préface pour “Thaïs”9, che si trova nel dossier depositato presso la Bibliothèque Nationale de France10 e da lui stesso accuratamente riunito per Madame Arman de Caillavet, sua musa ispiratrice, 6 A. France, Hrotswitha aux Marionnettes, in “Le Temps”, 7 avril 1889, poi in France, La Vie Littéraire, cit., e in France, Œuvres complètes illustrées, cit., t. VII, p. 23. 7 «Origine du mot marionnette: “On pourrait croire, au premier coup d’œil, que le nom de marionnettes nous est venu des Maries de bois, Marie di legno, que nous avons vues à Venise remplacer, au XIVe siècle, les jeunes filles qui avaient fait jusque-là l’ornement de la fête annuelle delle Marie. Il y a en effet entre ces deux locutions une évidente analogie de formation; mais il n’y a eu entre elles aucune filiation étymologique. Comme du nom latin Maria, le moyen-âge avait formé Mariola, diminutif qui des jeunes filles passa aux petites figures de la Vierge exposées à la vénération publique dans les églises et dans les carrefours, de même du nom de Marie plusieurs gracieux diminutifs, Marote, Mariotte, Mariole, Mariette, Marion, puis Marionnette”» (Ch. Magnin, Histoire des marionnettes en Europe, depuis l’antiquité jusqu’à nos jours, Michel-Lévy frères, Paris 1852, pp. 113-114). 8 Cfr. Roswitha [Hrotsvitha], Théâtre de Hrotsvitha Religieuse allemande du Xeme siècle, traduit pour la première fois en français avec le texte latin revu sur le manuscrit de Munich, précédé d’une introduction et suivi de notes par Ch. Magnin, Duprat, Paris 1845. 9 Cfr. A. France, Œuvres, édition établie, présentée et annotée par M.-C. Bancquart, Gallimard, Paris 1984-1994, t. I, pp. 872-873. 10 Cfr. ivi, p. 1346.
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J’en ai déjà fait l’aveu: j’aime les marionnettes, et celle de M. Signoret me plaisent singulièrement. Ce sont des artistes qui les taillent; ce sont des poètes qui les montrent. Elles ont une grâce naïve, une gaucherie divine de statues qui consentent à faire les poupées, et l’on est ravi de voir ces petits idoles jouer la comédie. Considérez encore qu’elles furent faites pour ce qu’elles font, que leur nature est conforme à leur destinée, qu’elles sont parfaites sans effort6.
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Anna Maria Babbi
11 «[...] it made her feel unafraid to complete her dramatic series, with her two longer, more ‘philosophical’ plays» (P. Dronke, Hrotsvitha, in P. Dronke, Women Writers of the Middle Ages. A Critical Study of Texts from Perpetua (†203) to Marguerite Porete (†1310), Cambridge University Press, Cambridge 1984, pp. 55-83; citazione a p. 58). Il passo fa riferimento ai testi The Conversion of Thaïs e The Passion of the Holy Maidens. 12 Cfr. Roswitha [Hrotsvitha], Paphnutius, comédie traduite du latin par A.-F. Hérold, ornée par P. Ranson, K. X. Roussel, A. Hérold, Édition du “Mercure de France”, Paris 1895. Ripubblicata in “L’Étoile-Absinthe”, Les Cahiers iconographiques de la société des amis d’Alfred Jarry, 88, automne 2000, pp. 65-82. Si veda a proposito della traduzione e, in generale, sulle vicende delle rappresentazioni di Pafnuce en marionnette l’articolo di P. Edwards, Pafh est une pièce sérieuse (ivi, pp. 53-64). Paul Edwards, forse anche per simpatia con il gruppo di artisti, preferisce di gran lunga la traduzione di Hérold a quella moderna uscita per Les Belles Lettres (cfr. Roswitha [Hrotsvitha], Dramata / Théâtre, texte établi, traduit et commenté par M. Goullet, Les Belles Lettres, Paris 1999). 13 «Si même je vis très vieux, jamais je n’oublierai l’effet foudroyant que fit le début de Jarry à la Libre Esthétique, il y a une quinzaine d’années. La salle, très grande, était emplie d’un public ultrachic. Aigrettes, fourrures, crissements de soie, et cette légère agitation qui marque une attente impatiente. Qui était cet Alfred Jarry qui, pour la première fois, se levait à l’horizon bruxellois? – Jarry parut, petit, la tête trop forte pour l’exiguïté de son torse, l’air d’un têtard qu’on aurait vêtu de noir.
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afferma che il romanzo «devrait s’appeler Paphnuce du nom de mon héros» e il manoscritto d’autore reca difatti il titolo di Paphnuce conte philosophique. Questo sottotitolo di conte philosophique appare vicino all’interpretazione dei drammi di Rosvita, giusta la definizione di Peter Dronke, che a questo proposito parla di «philosophical plays»11. Nelle Vie des pères in couplets d’octosyllabes del dodicesimo secolo che circolavano in numerosissimi manoscritti il riferimento è per altro sempre a Thaïs, mentre il protagonista maschile rimane nell’anonimato. Proprio questo dramma di Rosvita, sicuramente il più maturo e più riuscito, sarà ripreso qualche anno dopo da un gruppo di artisti. Nel 1895 Ferdinand Hérold pubblica sul “Mercure de France” una nuova traduzione di Pafhnuce12. Qualche tempo prima la traduzione di Hérold era servita per un’unica rappresentazione “privata” in casa di Paul Ranson, che possedeva un piccolo teatro di marionette. Il successo della serata è testimoniato da una recensione di Pierre Louis nella “Revue blanche”. Le scene e le marionnettes erano disegnate dallo stesso Ranson e da altri Nabis e il parterre era di prim’ordine, da Mallarmé a Valéry, da Henri de Régnier a Claude Debussy. In verità nella recensione non è citato il nome di Alfred Jarry tra gli ospiti, ma, considerata la stretta collaborazione con alcuni di questi artisti, come Hérold e i Nabis, possiamo ragionevolmente pensare alla sua partecipazione a questa serata. La predilezione per le marionette era ormai un dato acquisito per Jarry e proveniva da lontano, dai tempi della sua infanzia. Per capire meglio questa sua passione, propongo di leggere una parte della famosa Conférence sur les pantins tenuta dallo scrittore presso la Libre Esthétique di Bruxelles il 22 marzo 1902, di cui abbiamo echi tardivi di Octave Maus, il fondatore della stessa Libre Esthétique, sulla Lanterne magique13. In una lettera ad André Fontainas che
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne 17
annunciava la conferenza, Jarry dice in particolare che avrebbe parlato di «Paphnutius»14. Ecco parte del testo della conferenza:
Nelle tournées 29-30 del 1986 della rivista “L’Étoile-Absinthe” (Ronde autour du théâtre des pantins) sono state pubblicate le lettere che Franc-Nohain, in quel periodo a Montauban, aveva inviato al compositore Claude Terrasse. Esse ci offrono informazioni importanti su questa straordinaria esperienza collettiva16. In particolare contengono anche indicazioni preziose sulla confezione delle marionette, con ricchi dettagli sull’abbigliamento17. Il se versa posément un verre d’eau; puis, ramassé sur lui-même comme s’il allait bondir en avant, il lança d’une voix de tonnerre le mot, le fameux mot, avec son orthographe nouvelle, et ce mot roula en avalanche dans l’immensité de la galerie, souffletant les belles dames épouvantées, heurtant les murs qui le renvoyaient en échos... Il y eut des cris, des rires étouffés, des fuites éperdues, chacun devant l’imprévu de l’événement hésitant sur l’attitude qu’il devait prendre, pour demeurer fidèle au protocole mondain tout en se montrant instruit des plus récentes mœurs littéraires» (O. Maus, Compte-rendu de la conférence [de Alfred Jarry], in “L’Étoile-Absinthe”, 5-6, juin 1980, p. 48; il brano riportato è tratto da O. Maus, La Lanterne Magique. Conférence faite à la société d’étudiants de belles-lettres de Lausanne en 1918, in “Revue de Belles-Lettres”, 20, 1927, pp. 195-227). 14 Si veda la lettera di Alfred Jarry ad André Fontainas di fine febbraio 1902: «Mon cher ami, Ma navrante paresse coutumière m’excuse – si c’est une excuse! – de ne vous avoir pas écrit plus tôt. J’ai écris à Maus; c’est arrangé pour le 21. Titre: Les Marionnettes. J’y parle entre autre de “Paphnutius”. J’ai retrouvé des tas d’Almanachs: je vous en transmet un pour votre ami et en pur don; et si vous en voulez d’autres, il y en a encore! Bien cordialement» (Jarry, Œuvres complètes, cit., t. 3, édition établie par H. Bordillon, avec la collaboration de P. Besnier et B. Le Doze et la participation de M. Arrivé, p. 559). 15 Ivi, t. 3, p. 420. 16 Cfr. Ronde autour du théâtre des pantins, 18 lettres de Franc-Nohain à Claude Terrasse, présentation par H. Bordillon, in “L’Étoile-Absinthe”, 29-30, 1986, pp. 3-27. 17 Ad esempio si veda la lettera del 1° febbraio 1898: «Dans ce décor s’agiteront: / Madame, en robe de soie probablement héliotrope – forte matrone que pourra interpréter Jacotot. / Le Sénateur, très chic, “ancien préfet de l’Empire”, fleur à la boutonnière, plus de cheveux mais des
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Les marionnettes sont un petit peuple tout à fait à part chez qui j’ai eu occasion de faire plusieurs voyages. Ce furent là des expéditions peu périlleuses qui ne nécessitent point le casque d’explorateur ni une nombreuse escorte militaire. Les petits êtres de bois habitaient à Paris, chez mon ami Claude Terrasse, le musicien bien connu, et semblaient prendre grand plaisir à sa musique. Terrasse et moi-même avons été, pendant un ou deux ans, les Gullivers de ces lilliputiens. Nous les gouvernions, comme il convient, au moyen de fils, et Franc-Nohain, chargé d’inventer la devise pour le Théâtre des Pantins, n’a pas eu à en trouver de meilleure que la plus naturelle, en avant, par fil. Là furent joués notamment Paphnutius, une pièce latine et mystique de Hrotsvitha, traduite excellemment par A.-Ferdinand Hérold, Vive la France, de Franc-Nohain que la censure jugea bon d’interdire, et qui restera interdite15.
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Il passaggio della conferenza di Jarry relativo al nostro testo è stato pubblicato solo recentemente, successivamente dunque alla parte centrale. Telle est la 1re scène. Voici Paphnutius. Ainsi prononçait-on irrévérencieusement aux Pantins le nom de ce grand personnage [ces deux mots ont été rayés, remplacés par: vénérable ermite, puis rétablis]; car Paph-[nutius] est une pièce sérieuse, c’est l’histoire de la conversion de Thaïs18.
Théâtre des Pantins de décembre 1897 à février 1898: On n’y donna pas de très nombreux spectacles, mais on s’y amusait fort. Aux Pantins, les décors étaient peints et les poupées étaient modelées par Bonnard, par Vuillard, par Ranson, par Roussel que n’estimaient alors que de rares amateurs; Jarry tenait les fils; Terrasse était au piano, des camarades de bonne volonté chantaient et lisaient les rôles. Là, on joua Ubu Roi, sans y faire de coupures; on joua un mystère traduit de Hrotsvitha, Paphnutius; on joua des noëls bourguignons; on joua une revue de M. Franc-Nohain, Vive la France, pour laquelle Terrasse avait écrit des chansons, des chœurs, voire des airs de ballet19.
È dunque nell’atélier del compositore Claude Terrasse, cognato di Pierre Bonnard e autore della musica dell’Ubu Roi per marionnettes, al numero 6 della rue Ballu, che si concretizzò il Théâtre des Pantins (fig. 1). La divisa del teatro era, su suggerimento di Franc Nohain, En avant, le fils! Ma perché questo interesse per i drammi di Rosvita legati alla rappresentazione di marionette presso un autore come France e presso il gruppo di amici di Jarry? Come abbiamo detto, la traduzione di Magnin data al 1845. La prima stesura del romanzo di Anatole France era apparsa nella “Revue des deux mondes” tra il luglio e l’agosto del 1888 e nel 1891 il romanzo fu pubblicato in una redazione non definitiva da Calmann-Lévy. Dal testo di Anatole France fu tratta l’idea per un libretto scritto da Louis Gallet per Jules Massenet che compose Thaïs, rappresentata una prima volta nel 1894 e accolta con successo solo dopo la versione modificata nelle rappresentazioni del 1898. L’ambientazione della vicenda della favoris blancs. / Juliette. Très “jeune fille”. Mousseline, du blanc, du bleu ou du rose. / Un potache. Uniforme – Un sous-officier de cavalerie, très brillant. / Quatre “pensionnaires” somptueuses robes de bal en velours, grenat, vert bleu, chaudron, décolletage et dentelle» (ivi, p. 21). 18 A. Jarry, Les marionnettes, in “L’Étoile-Absinthe”, 5-6, juin 1980, pp. 42-46; citazione a p. 43. 19 A.-F. Hérold, Claude Terrasse, in “Mercure de France”, 1er août 1923, pp. 694-700; citazione alle pp. 695-696.
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Ed è lo stesso Hérold che ricorderà più di vent’anni dopo nel “Mercure de France”, in un articolo per Claude Terrasse, quella stagione di attività creativa collettiva ed essenzialmente divertente:
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne 19
Fig. 2. Théâtre des Pantins, affiche per lo spettacolo Paphnutius.
cortigiana Thaïs era l’Egitto, allora molto di moda grazie soprattutto agli studi di Gaston Maspéro, confrère di Anatole France all’Académie. Più in generale un certo gusto per l’orientalismo rendeva attuale la vicenda della cortigiana alessandrina. D’altro canto è proprio in questi anni che comincia a maturare, nel gruppo di amici che gravitavano attorno a Jarry, l’idea di fondare un teatro di marionette e, tra i primi testi rappresentati, c’è proprio Pafhnuce (fig. 2). Sappiamo tuttavia che, ad esempio, nell’opera di Massenet, per ragioni musicali, questo nome viene mutato in Athanaël. Dev’essere stata dunque l’opera di France ad aver spinto Ferdinand Hérold a tradurre nuovamente il testo di Rosvita. Ma forse sono i testi stessi di Rosvita a suggerire una loro ripresa per marionette. Questi drammi furono scritti verso la fine del primo millennio, ma scoperti e pubblicati per la prima volta da Conrad Celtis a Norimberga nel 1501 e illustrati da Dürer20. Secondo il Magnin, i drammi dovettero essere rappresentati 20 Cfr. Hrotsvitha, Opera Hrosvite illustris virginis et monialis germane gente saxonica orte nuper a Conrado Celte inventa, sub Priuilegio Sodalitatis Celticae, Norumbergae 1501.
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Fig. 1. Théâtre des Pantins, ricevuta dell’attrice Fanny Zaessinger.
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[...] se talvolta mi si è presentata l’opportunità di strappare qualche filo, o persino qualche brandello di stoffa, dal mantello della Filosofia, ho avuto cura di inserirlo nella trama di questa mia operetta, perché la pochezza della mia ignoranza potesse trar luce dall’introduzione di un argomento più elevato25.
E nelle battute introduttive della Conversione della prostituta Taide ancora Boezio è convocato con il suo De Institutione musica, come nell’ultimo dramma, Sapientia vel Passio sanctarum virginum Fidei Spei et Karitatis (Sapienza, ovvero Martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità), sarà sempre il boeziano De Institutione arithmetica a introdurre il confronto intellettuale della protagonista 21 «c’est dans une illustre abbaye saxonne que furent représentés les drames de Hrotsvitha» (Ch. Magnin, Hrotsvitha, son temps, sa vie et ses ouvrages, in Roswitha [Hrotsvitha], Théâtre de Hrotsvitha Religieuse allemande, cit., pp. i-lxiv; citazione a p. vi). 22 Cfr. L. Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 263. 23 «Dimittite, nolite vestem meam adtrahendo scindere» (Rosvita [Hrotsvitha], Dialoghi drammatici, a cura di F. Bertini, introduzione di P. Dronke, Garzanti, Milano 1986, pp. 242-243). 24 Cfr. P. Dronke, Prefazione, in Rosvita [Hrotsvitha], Dialoghi drammatici, cit., p. xxii; «c’est dans ce sens de rigueur violente, de condensation extrême des éléments scéniques qu’il faut entendre la cruauté» (A. Artaud, Le Théâtre de la cruauté (Second manifeste), in A. Artaud, Le théâtre et son double, Gallimard, Paris 1969 [19381], p. 185). 25 «[...] si qua forte fila vel etiam floccos de panniculis, | a veste Philosophiae abruptis, | evellere quivi, praefato opusculo inserere curavi, | quo vilitas meae inscientiae intermixtione nobilioris materiae illustraretur, | et largitur ingenii | tanto amplius in me iure laudaretur | et quanto muliebris sensus tardior esse creditur» (Rosvita [Hrotsvitha], Dialoghi drammatici, cit., Epistula, pp. 12-13).
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in qualche illustre abbazia sassone21. Tuttavia non possediamo documenti precisi che attestino questa possibilità. Come scrive Luigi Allegri, questo fatto, per ora non verificabile, non è del resto molto importante22. I dialoghi dei suoi drammi sono stringati, essenziali, e mancano del tutto le didascalie che possono essere semmai ridotte a qualche (rara) didascalia interna come, per portare un esempio, nel caso in cui Thaïs licenzia i suoi amanti e dice: «Lasciatemi, mi strappate la veste tirandola»23. Nelle sue pièces di influenza classica, e in particolare terenziana, la poetessa non teme di osare raccontare in modo conciso situazioni ambigue e finanche raccapriccianti, tanto che Peter Dronke ha avvicinato i suoi drammi al théâtre de la cruauté d’Antonin Artaud e al suo manifesto, nel quale si afferma che è proprio nella condensazione estrema degli elementi scenici che bisogna intendere la crudeltà24. Forse è proprio la sobrietà dei dialoghi e una presunta ingenuità dei personaggi, riscritta invece con drammatica intensità da France, a influenzare una rappresentazione scenica di per sé incongrua a un dramma sulla verginità violata. La colta Rosvita indica nelle epistole che precedono i drammi alcune linee portanti del suo lavoro di scrittrice, esibendo il suo sapere. Una prima excusatio è completamente ispirata al De Consolatione Philosophiae di Boezio:
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne 21
Sapienza con l’imperatore Adriano. Ora il De Institutione musica è citato direttamente, quasi verbatim, dai manoscritti di Boezio che circolavano numerosi in Germania. Già l’abbrivio è significativo. Riporto il dialogo tra Panuzio e i suoi discepoli che sarà in qualche modo ripreso, allargato e naturalmente adattato al contesto alessandrino, nel banchetto che precederà la conversione di Thaïs nell’opera di Anatole France:
Se si dà anche un rapido sguardo all’opera boeziana, in particolare al capitolo con incipit «Tres esse musicas», si possono vedere i rapporti molto stretti che intercorrono tra i due testi: Colui che scrive sulla musica deve dapprima esporre in quante parti gli studiosi hanno suddiviso tale materia. Esse sono tre: la prima è costituita dalla musica dell’universo (musica mundana); la seconda dalla musica umana (humana); la terza dalla musica strumentale (in quibusdam constituta instrumentis), come quella della cetra (cithara), dei flauti (tibiae) e degli altri strumenti con i quali si può ottenere una melodia27.
Troveremo sviluppate, o meglio rese da teoriche a pratiche, queste osservazioni, se si riconosce l’importanza della musica nel romanzo di Anatole France; si pensi alla parte finale: l’unico soccorso che esuli dalla sopravvivenza corporale nell’ultimo tratto della vita terrena di Thaïs è per l’appunto un flauto. Sarebbe interessante sapere se queste battute iniziali erano state mantenute nelle varie «Discipuli. Quid agit? | Pafnutius. Musica? | Discipuli. Ipsa | Pafnutius. Disputat de sonis | Discipuli. Utrum est una an plures? | Pafnutius. Tres esse dicuntur, | sed unaquaeque ratione proportionis alteri ita | coniungitur, | ut idem, quod accidi uni | non deest alteri. | Discipuli. Et quae distantia inter tres? Pafnutius. Prima dicitur mundana sive caelestis, | secunda humana, | tertia, quae instrumentis exercetur» (ivi, pp. 218-221). 27 «Tres esse musicas in quibus de vi musicae narratur | principio igitur de musica desserenti illud interim dicendum videtur | quot musicae genera ab eius studiosis comprehensa esse noverimus. | Sunt autem tria. | Et prima idem mundana est, secunda vero humana, | tertia, quae quibusdam constituta est intrumentis, ut in cithara vel in tibiis | ceterisque, quae cantilenae famulantur» (Boethius, De Institutione musica libri quinque, t. I, 2, traduzione nostra). 26
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Discepoli. Di cosa tratta? Pafnuzio. La musica? Discepoli. Sì, appunto. Pafnuzio. Tratta dei suoni. Discepoli. E ne esiste una sola, o ce ne sono tante? Pafnuzio. Tre, a quanto dicono, legate tra loro in proporzione numerica, in modo che a nessuno manchi quello che c’è in un’altra. Discepoli. E come si diversificano? Pafnuzio. La prima la chiamano cosmica o celeste, la seconda umana, la terza si ottiene con gli strumenti [...]26.
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Anna Maria Babbi
rappresentazioni, quella di Henri Signoret, quella di Ranson e quella di Jarry. Difficile dire... E d’altra parte, quale poteva essere il “tono” della rappresentazione? Sappiamo che Jarry aveva affermato durante la sua conferenza: «Il a suffi pour en faire une pièce comique de l’interpréter en marionnettes. À la rigueur, la simple lecture suffit à cette invraisemblable métamorphose»28. E come esempio portava il celebre passaggio in cui Pafnuce mostra la cella dove Thaïs avrebbe dovuto trascorrere in penitenza l’ultimo tratto della sua vita. Paphnutius montre à Thaïs la cellule où elle sera enfermée. Scène de Thaïs
La musica che accompagnava lo spettacolo del teatro della rue Ballu era stata composta quasi certamente da Claude Terrasse. Era lui che suonava il pianoforte, era lui l’anima del gruppo. Jarry, come si sa, tirava i fili. Il Paphnuce di Rosvita nella traduzione di Hérold aveva passato il vaglio della censura il 28 dicembre 1897 con la richiesta di un unico cambiamento, vale a dire sostituire «bordel» con «lieu mauvais»30. Vive la France! di Franc-Nohain, che metteva in scena un Cristo nato ebreo che per essere accettato in Francia diventa francese, ebbe un’accoglienza meno favorevole e sarà rappresentata a porte chiuse. L’affaire Dreyfus aveva influito anche sul gruppo della rue Ballu. Il testo di Vive la France! costituiva un grave affronto per gli anti-dreyfusards. Il j’accuse di Emile Zola del 13 gennaio 1898 aveva procurato grossi problemi alla polizia e soprattutto alla censura. I mesi che seguirono furono difficili per il nostro gruppo di amici. E la polizia arriva al 6, rue Ballu e la sera del 29 marzo Vive la France! è proibita: la police aux aguets dans la rue Ballu se rue sur deux douzaines d’abominables malfaiteurs qui, pour accomplir leurs forfaits, se sont modelés dans la glaise et réduits à la taille de 40 centimètres. Au soir du 29 mars, Vive la France! est interdit31.
Jarry, Œuvres complètes, cit., t. 3, p. 420. Ibid. 30 «– Paphnutius (édition du Mercure, 1895); mention manuscrite de Georges Roussel: “Bon pour être joué par les marionnettes du Théâtre des Pantins”; œuvre enregistrée le 27 décembre 1897, acceptée le 28 décembre avec une modification: page 28, “bordel” est remplacé par “mauvais lieu”» (H. Bordillon, Présentation, in “L’Etoile-Absinthe”, 29-30, 1986, pp. 5-7; citazione a p. 7, nota 3). 31 Passo citato da Ph. Cathé, Le théâtre des pantins: d’un avatar d’Ubu roi aux prolégomènes de Pantagruel, in “L’Étoile-Absinthe”, 77-78, 1998, pp. 158-184; citazione a p. 175. 28 29
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Vous voyez que c’est bien là une pièce sérieuse29.
Rosvita e le marionette della galerie Vivienne 23
L’ultima affiche recitava: Au Théâtre des Pantins (6, rue Ballu), le 29 mars et les jours suivants, représentation de Vive la France!, trilogie à grand spectacle de Franc-Nohain, musique de Claude Terrasse. –32
Ma lo spettacolo non si realizzerà. La stagione breve, ma intensa, dei pantins era terminata. Pochissime tracce restano delle musiche di Claude Terrasse, pochissimi i bozzetti dei Nabis, di Bonnard, nessuna traccia delle marionette.
Ivi, p. 174.
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Paola Degli Esposti*
Il teatro “inanimato” di Philippe-Jacques de Loutherbourg
* Università di Padova. 1 Nei libri contabili del Drury Lane per la stagione 1772-1773, vi sono tre annotazioni che segnalano pagamenti per, rispettivamente, 80, 50 e 70 sterline, con una segnalazione, nell’ultima annotazione, di un pagamento complessivo pari a 300 sterline. Cfr. le annotazioni in data 20 marzo, 22 aprile e 19 giugno 1773, in Records of Drury Lane Theatre. Journals (receipts and payments),
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La figura di Philippe-Jacques de Loutherbourg ha un’importanza particolare nella storia del teatro inglese. Nato a Strasburgo nel 1740, nei primi trent’anni della sua vita si dedica all’arte pittorica, nella quale si mostra particolarmente dotato. Elogiato da intellettuali del calibro di Diderot, espone nei Salons artistici parigini con successo, tanto da divenire membro dell’Académie Royale de Peinture et Sculpture molto giovane, tre anni prima di quanto prescritto dal regolamento dell’istituzione, che prevede che un artista debba avere almeno trent’anni per poter essere accettato al suo interno a pieno titolo. In questo periodo non vi sono tracce concrete dei suoi contatti con l’ambiente teatrale, per quanto i circoli in cui si muove, in una Parigi assai ricca di eventi artistici e culturali, forniscano numerose possibilità di contatto con il mondo spettacolare. Di fatto non è al momento possibile ricostruire il “tirocinio” teatrale di Loutherbourg prima del 1772, sempre che questo abbia avuto qualche consistenza. Le prime testimonianze sulla sua carriera professionale in ambito scenico si riscontrano dopo che il pittore si trasferisce in Gran Bretagna, alla fine del 1771, e incontra David Garrick. L’inizio della collaborazione con il grande manager ed attore inglese si colloca tra il 1772 e il 1773. Non vi è una data precisa a causa della lacunosità dei documenti, per quanto siano riscontrabili alcune tracce dei primi contatti con il Drury Lane e il suo direttore artistico. Vi sono in particolare due lettere manoscritte di Loutherbourg che testimoniano gli inizi dei rapporti con la sala londinese – in cui poi presterà la sua opera fino al 1781 –, e alcune voci nei libri contabili del teatro che attestano pagamenti in suo favore nel 1772, ma non è certo a quali lavori corrispondano1. Vi sarebbe molto da dire sul con-
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Paola Degli Esposti
1772-1773, Folger Shakespeare Library, segnatura W.B. 275, c. 72r, c. 81r e c. 100r. Cfr., inoltre, Propositions de Mr Philippe-Jacques de Loutherbourg, lettera autografa non datata di Philippe-Jacques de Loutherbourg inserita nel primo di una serie di volumi che contiene numerosissimi documenti manoscritti, lettere e carte amministrative, catalogato come David Garrick, Correspondence and papers 1717-1779, vol. I, National Art Library, London, Forster Collection, segnatura Forster 48.F.5, cc. 135r-136v. La collocazione segnalata come preferred citation dalla National Art Library è Manuscript. Forster MS 213; Mr Loutherbourg’s propositions to ye managers, lettera autografa non datata di Philippe-Jacques de Loutherbourg, conservata presso l’Università di Harvard, Harvard Library, Theatre Collection, e inserita in una serie di dieci tomi in cui sono rilegati insieme moltissimi documenti d’epoca, sia manoscritti che a stampa (locandine, recensioni, lettere, e via dicendo), e due pubblicazioni: A. Murphy, The life of David Garrick, Wright, London 1801, e i due volumi di D. Garrick, The private correspondence, Colburn & Bentley, London 1832. L’opera reca la segnatura TS 937.3; la lettera, senza numero di pagina, è inserita nel vol. VII, di fronte alla p. 43. 2 Cfr. C. Baugh, Garrick and Loutherbourg, Chadwyck-Healey, Cambridge-Alexandria 1990, pp. 29-30; P. Degli Esposti, La tensione preregistica. La sperimentazione teatrale di Philippe-Jacques de Loutherbourg, Esedra, Padova 2013, pp. 43-52. 3 Cfr. le lettere di Jean Monnet pubblicate in Garrick, The private correspondence, cit., vol. II; in particolare pp. 437-500.
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tenuto delle due lettere, di grande valore teorico, ma dato che discuterne porterebbe in una direzione diversa da quella scelta per questa sede, rimando ad altri studi a riguardo2, limitandomi a segnalare solo un elemento: al loro interno si evince l’intento di Loutherbourg di assumere una funzione coordinatrice perlomeno degli apparati scenografici, della luministica e dei costumi, che nell’ottica del pittore devono essere concepiti in collaborazione con gli altri artisti coinvolti nello spettacolo, in particolar modo il drammaturgo e il musicista. L’incontro con Garrick, in ogni caso, ha come esito l’ingaggio dell’artista francese. Da diverso tempo il manager è impegnato a migliorare le condizioni di produzione al Drury Lane, ad esempio mediante la nota riforma che “scaccia” il pubblico dal palcoscenico, dove ancora sedeva nella prima metà del secolo; di particolare rilevanza, poi, la riforma del sistema d’illuminazione della sala, attuata anche grazie ad un canale di comunicazione continuo stabilito con la Francia attraverso l’ex direttore dell’Opéra Comique, Jean Monnet, che gli fornisce gli strumenti e i progetti per i nuovi apparati luministici3. Tale clima riformistico di certo facilita l’ingaggio di Loutherbourg, ma il fattore che forse più contribuisce a concretizzarlo è la concorrenza del Covent Garden per quanto concerne gli spettacoli a fondamento mimico-musicale, i quali necessitano di un responsabile che concepisca soluzioni sceniche ad effetto; al momento dell’arrivo di Loutherbourg in Inghilterra tale figura manca al Drury Lane, o perlomeno nella compagnia non vi è un artista impiegato stabilmente che si occupi di intere rappresentazioni di questo genere. I primi spettacoli in cui è possibile rintracciare per certo il contributo di Loutherbourg risalgono alla stagione 1773-1774, e fin da queste prime produzioni emerge il suo interesse non solo per le macchine sceniche e gli effetti luministici,
Il teatro “inanimato” di Philippe-Jacques de Loutherbourg 27
4 Cfr., ad esempio, R. M. Isherwood, Entertainment in the Parisian fairs in the eighteenth century, in “The Journal of Modern History”, LIII, 1, March 1981, pp. 24-48; G. Speaight, The history of English puppet theatre, Hale, London 1990; R. D. Altick, The shows of London, The Belknap Press, Cambridge 1978. 5 Cfr. R. G. Allen, The stage spectacles of Philip James de Loutherbourg, Ph.D. Dissertation, Yale University, 1960, pp. 34-35.
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per i quali diventerà celebre, ma anche per il mondo degli automi, delle figure meccaniche e dei modellini di oggetti e mezzi di trasporto posti in movimento sulla scena. Non si tratta naturalmente di novità assolute in ambito spettacolare. Durante il Settecento vi è una grande fioritura di spettacoli di marionette e burattini; in Inghilterra, per esempio, si afferma definitivamente un fenomeno ancora vivo oggi, il Punch and Judy show, uno spettacolo di burattini nato alla fine del Seicento, ma che nel Settecento diventa una sorta di intrattenimento nazionale. Non solo. In questo periodo in molti paesi europei vi è una vera e propria esplosione di spettacoli ottici, di teatro d’ombre, di intrattenimenti meccanici proposti di norma come spettacoli popolari, sia all’interno di fiere che nei parchi delle metropoli, o in luoghi come l’Exeter Exchange, edificio eretto nel centro di Londra, sullo Strand, in cui si tengono esibizioni spettacolari di varia natura4. In Inghilterra questo genere di intrattenimento sembra raggiungere il teatro istituzionale – se non in maniera del tutto rozza e occasionale – solo con Loutherbourg, che usa alcune delle componenti ad esso proprie, quali appunto i modellini mossi meccanicamente, eliminandone le connotazioni “basse” di norma associate con gli spettacoli fieristici e valorizzandone l’aspetto “meraviglioso”. L’impiego di questo genere di artifici viene a tal punto legato al suo nome che viene letto dai critici come indizio utile per stabilire la sua partecipazione alla preparazione di un determinato spettacolo. Così accade ad esempio per un allestimento del 1772, The pigmy revels, nel quale la presenza di cavalli mossi meccanicamente viene letta da Ralph Allen come elemento a sostegno della partecipazione di Loutherbourg, in assenza di altri indizi concreti5. Che tale occasione veda il contributo del pittore francese o meno, di certo fin dal primo spettacolo per il quale ufficialmente fornisce la sua opera, Alfred. A masque di James Thomson e David Mallet, andato in scena il 9 ottobre 1773, Loutherbourg introduce momenti di vero e proprio “teatro meccanico”. La pièce, in realtà, è una ripresa di un’opera di repertorio, “rimessa a nuovo” per l’occasione. Come di frequente accade per quanto riguarda gli allestimenti ad alto coefficiente spettacolare sotto la gestione Garrick del Drury Lane (e come peraltro è prassi consueta per i teatri inglesi tra Settecento e primo Ottocento), la nuova produzione prende l’avvio da un evento di grande risonanza pubblica verificatosi qualche mese prima, vale a dire la grande parata navale
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tenutasi a Portsmouth tra il 22 e il 26 giugno del 1773 in occasione della visita del sovrano alla flotta reale stazionata a Spithead. E proprio per rappresentare la parata Loutherbourg fa ricorso a modellini di navi operati meccanicamente. Le recensioni segnalano la presenza di numerose imbarcazioni tridimensionali ad occupare il palcoscenico (di per sé una scelta insolita, dacché di norma in questo periodo nei teatri inglesi l’impiantito è sgombro o comunque minimamente occupato da elementi scenografici) riprodotte con estrema cura e con un impeccabile rispetto della prospettiva:
Non è solo la minuziosità dei modellini ad attrarre l’attenzione, ma anche il fatto che si tratta di navi in movimento, e da quanto emerge dalla descrizione, sembrerebbe non tutte nella medesima direzione, ma con rotte differenziate. Il livello di perfezione tecnica raggiunta, probabilmente esaltata dall’«ammirevole» riproduzione del mare, è inedito in particolar modo a teatro, tanto che il commentatore del “Lloyd’s Evening Post” segnala come la scena costituisca per qualità una novità assoluta sui palcoscenici britannici7. Il suo successo è tale che Garrick la ripropone, pressoché identica, appena otto giorni dopo l’ultima replica di Alfred, all’interno della rivisitazione di una commedia ancora una volta basata su un tema navale, The fair quaker of Deal, di Charles Shadwell. Questo tipo di soluzioni ritorna negli allestimenti a cui Loutherbourg contribuisce, tanto che l’11 novembre di due anni dopo, quando viene allestita la ripresa di Queen Mab di Henry Woodward (di nuovo un masque) mettendo al centro della messinscena la raffigurazione di una regata ispirata da un evento dell’estate precedente, lo spettacolo sembra soffrire della ripetitività della soluzione spettacolare, come segnala William Hopkins, il suggeritore del Drury Lane, nei registri del teatro8. E tuttavia anche qui vi è un elemento innovativo, che sembra 6 Alfred. A masque, in “The London Chronicle”, 9-12 October 1773. D’ora in avanti le traduzioni sono nostre. 7 Cfr. An account of the “Masque of Alfred”, in “Lloyd’s Evening Post”, 8-11 October 1773. 8 Cfr. l’annotazione di W. Hopkins in data 11 novembre 1775, in Records of Drury Lane Theatre. List of plays (Cross-Hopkins’ Diary), 1775-1776 (13), c. 3r. I registri, comunemente noti come Cross-Hopkins’ Diary, si compongono di tredici quaderni manoscritti divisi per stagione, con
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Ogni nave della fila è un bellissimo, perfetto modellino, con sartiame ecc., completo, decorato con l’appropriata serie di colori ed equipaggiato con il numero corretto di cannoni; l’Isola di Wight sullo sfondo forma una corretta e splendida immagine in rilievo, si vede l’imbarcazione reale entrare in porto, mentre è salutata da una salva di cannoni e dall’intera flotta. Vengono mostrati innumerevoli e svariati tipi di vascelli [...], a vele spiegate, mentre percorrono le loro diverse rotte, fra le quali si distingue immediatamente il modellino di un bellissimo cutter appartenente al Duca di Richmond, che spicca grazie alle vele a strisce bianche e blu. L’illusione del mare è ammirevole6.
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segnalare che Loutherbourg stia agendo secondo i criteri da lui identificati nella corrispondenza con Garrick, vale a dire cercando un coordinamento con gli altri artisti che contribuiscono allo spettacolo. Nella fattispecie sembra esservi una collaborazione, almeno per la scena della regata, con l’autore delle musiche. Di nuovo, una recensione è illuminante in questo senso:
Non solo vengono introdotti modellini di navi ma al loro interno vengono inserite figure umane in scala che si muovono armonicamente al ritmo della musica. In altri termini Loutherbourg inserisce delle piccole “comparse” per rendere “praticabili” le sue navi modello. L’interesse per l’impiego di interpreti meccanici non si esaurisce con questo spettacolo. Con il cambio di gestione al Drury Lane, che vede Garrick sostituito da Richard Brinsley Sheridan, lo scenografo rimane nell’entourage con il ruolo di “scenografo principale” del teatro, benché nel corso della gestione del noto drammaturgo irlandese, assai più disordinata della precedente sia per programmazione che per gestione finanziaria, il lavoro dello scenografo sia più difficile, visto che il solido clima di collaborazione armonica instaurato da Garrick viene rapidamente a mancare, e le produzioni nelle quali Loutherbourg ha il controllo dell’intero insieme di apparati scenografici e costumistici si diradano. Vi è tuttavia una particolare stagione in cui il suo ruolo torna dominante, vale a dire l’annata 1778-1779, in cui vengono rappresentati due spettacoli creati attorno alla sua opera, The camp e The wonders of Derbyshire. Il primo dei due allestimenti prende spunto dalla mobilitazione militare che caratterizza l’estate del 1778. La Gran Bretagna sta vivendo un periodo piuttosto difficile, alle prese con la guerra d’indipendenza americana e apparentemente minacciata da un conflitto e una possibile invasione francese; nei mesi estivi vengono così organizzati numerosi accampamenti militari nel paese, sia per addele annotazioni dei suggeritori del Drury Lane riguardo agli spettacoli in programma segnati con cadenza giornaliera per gli anni 1747-1760, 1762-1764, 1768-1776, e includono per diversi anni la lista completa delle beneficiate; sono conservati presso la Folger Shakespeare Library, segnatura W.a. 104 (1-13). 9 Theatrical intelligence, in “The General Evening Post”, 11-14 November 1775.
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Poi la scena cambia mostrando una veduta del Tamigi con le imbarcazioni, e inoltre una prospettiva di Ranelagh in lontananza vista dal lato del Surrey. L’ideazione e la realizzazione fanno onore agli artisti e sono una grande prova del gusto del manager, che non ha badato a spese per renderle accettabili al pubblico; il movimento delle barche e le figure che rappresentavano i rematori costituiscono uno dei meccanismi più completi che siano stati visti a teatro in molti anni; le figure che si muovevano con una precisione così rigorosa a ritmo della musica devono naturalmente suscitare ammirazione9.
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Loutherbourg si è superato [...] nella bellissima veduta prospettica dell’accampamento di Coxheath esibita ieri sera, dalla quale, con la sorta di magia che gli è caratteristica esclusiva, fa emergere marciando in perfetto ordine i diversi battaglioni composti da piccole figure che si dirigono in prima linea, per la meraviglia di ogni spettatore. Gli squadroni lillipuziani hanno suscitato un infinito piacere con le loro manovre11.
Loutherbourg sembra qui combinare in maniera eccezionalmente efficace l’elemento pittorico alla soluzione meccanica, con un risultato che è talmente L’autore del testo è verosimilmente Richard Brinsley Sheridan. Theatrical Intelligence, in “The Morning Post and Daily Advertiser”, 16 October 1778. Cfr. anche The British Theatre, in “The London Magazine: or, Gentleman’s Monthly Intelligencer”, XLVII, October 1778, pp. 438-439; riferimento a p. 439. 10 11
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strare le truppe sia per alimentare l’orgoglio nazionale. Tra tutti il più celebre si trova a Coxheath, nel Derbyshire, luogo che diventa per alcuni versi un “ritrovo alla moda”: figure di primo piano della mondanità londinese vi si ritrovano, e persino le dame dell’alta società vi fanno la loro apparizione, alcune di esse addirittura in panni militari. Proprio attorno alle attività del campo d’addestramento di Coxheath viene creato The camp10, che va in scena il 15 ottobre 1778. Per preparare questo spettacolo e The wonders of Derbyshire, che lo segue di qualche settimana, Loutherbourg effettua un viaggio nella contea inglese dove ritrae le vedute che saranno in seguito alla base delle scenografie. L’attenzione che egli presta nella realizzazione degli apparati è notevole e ha i risultati sperati; The camp viene infatti accolto dal pubblico con grande entusiasmo. Il problema principale che l’artista si trova ad affrontare è la restituzione dell’accampamento quale scenario vasto, in cui si muovono centinaia di persone impiegate in svariate attività. Il palcoscenico del Drury Lane, per quanto ampio, non è in grado di contenere centinaia di figuranti, a maggior ragione considerando la necessità di mantenere le proporzioni prospettiche. Naturalmente una possibilità sarebbe adottare una soluzione puramente pittorica, e quindi un fondale che riproduca bidimensionalmente l’accampamento. Si tratta tuttavia di una scelta che non collima con lo stile scenografico di Loutherbourg che cerca costantemente di sviluppare il décor in tre dimensioni, pur impiegando consistentemente anche la pittura, e anziché lasciare libero il palcoscenico tende ad occuparlo il più possibile con elementi scenografici fissi e mobili – come rocce o cespugli o come le imbarcazioni di cui si è parlato –, spesso rendendoli praticabili (i personaggi salgono e scendono dagli alberi, si arrampicano sulle rocce e così via). Nel caso di The camp sceglie quindi di raffigurare l’animatissimo accampamento affidandosi ancora una volta a figure meccaniche, questa volta a rappresentare le truppe in addestramento:
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12 Loutherbourg doveva avere familiarità con questo genere di congegni, data la frequentazione assidua, almeno nei primi tempi della sua residenza londinese, di personalità specializzate nella creazione e nell’esibizione di tale genere di automi, quali Jean-Joseph Merlin e Pierre Jaquet-Droz. Cfr. H. Angelo, Reminiscences of Henry Angelo, Colburn and Bentley, London 1830, vol. II, pp. 328-330. 13 Cfr. The British Theatre, cit., p. 439 e [Plan and character of “The camp”], in “The Westminster Magazine or, The Pantheon of Taste”, VI, October 1778, p. 552. 14 Cfr. E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, Aesthetica, Palermo 1985, pp. 98-99. 15 Cfr. Theatrical intelligence, in “The Gazetteer, and New Daily Advertiser”, 16 October 1778.
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stupefacente da risultare “magico”. Non vi sono dati circa le modalità impiegate per operare il movimento degli automi; è ipotizzabile l’uso di piattaforme dotate di ruote mosse da cavi che ne consentano lo spostamento dal fondo della scena verso il proscenio, sopra le quali i soldati meccanici effettuino movimenti analoghi alla marcia mediante ingranaggi “ad orologeria”12; in alternativa il movimento – ma l’ipotesi è meno probabile, vista la complessità dell’operazione richiesta – potrebbe essere orchestrato dall’alto mediante apparati a filo. Di certo, come testimoniato dal “London Magazine”, viene evitata l’infrazione alle leggi della prospettiva che verrebbe inevitabilmente causata da una compresenza di interpreti in cane ed ossa e automi di dimensioni ridotte facendo scomparire gli attori dentro una tenda posta a livello del proscenio (verosimilmente rappresentata da una quinta) subito prima dell’esibizione meccanica13. Se negli spettacoli precedenti l’impiego di piccoli automi era stato apprezzato, ma nel tempo aveva iniziato ad apparire ripetitivo, la soluzione adottata in questa occasione, combinando un’ammirevole veduta prospettica con una scena “di massa” che utilizza l’elemento meraviglioso degli attori meccanici, consente allo scenografo di dare un nuovo impulso alla propria creazione spettacolare, conferendole, ci sembra, una qualità straniante – tipica dell’automa – e ad un tempo una sensazione di infinitezza che la fa rientrare nella categoria del sublime. L’immagine delle truppe che marciano efficacemente in rassegna, infatti, possedendo le caratteristiche di successione (le moltissime figure che sfilano in squadroni) e di uniformità (l’ordine perfetto notato dal recensore), rientra nella categoria dell’infinità artificiale che rappresenta una delle manifestazioni del sublime, come definita da Burke nella seconda parte della sua Inchiesta sul Bello e il Sublime14. E a far rientrare lo spettacolo in tale categoria estetica collabora anche l’immagine pittorica dell’accampamento, che non solo si armonizza “magicamente” con la marcia dei soldati meccanici, ma ne integra la qualità sublime fornendo all’insieme l’impressione di vastità, come segnalato dal recensore del “The Gazetteer, and New Daily Advertiser”15, una delle connotazioni più note associate appunto al sublime nel trattato del filosofo inglese. E se il principale punto di riferimento artistico, per Burke, è la pittura, dal canto suo Loutherbourg, in The camp, sembra riproporre – mutatis mutandis – un elemento fre-
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16 È possibile che l’autore dell’intreccio sia lo stesso scenografo. Cfr. Degli Esposti, La tensione preregistica, cit., pp. 134-136. 17 Cfr. An account of the new pantomime, called “The wonders of Derbyshire”, in “The London Chronicle”, 9-12 January 1779. 18 La prima edizione è rappresentata da febbraio a maggio del 1781, la seconda a dicembre 1781, la terza da gennaio a maggio del 1782; ve n’è una quarta versione tra gennaio e maggio del 1786.
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quentissimo appunto nei suoi dipinti, vale a dire il contrasto tra la piccolezza dell’essere umano e la vastità del paesaggio in cui è collocato. Loutherbourg insomma riversa le sue scelte estetiche in ambito pittorico nelle sue concezioni scenografiche. Ciò si ripropone in maniera più evidente con lo spettacolo che esordisce a gennaio del 1779, la pantomima The wonders of Derbyshire, interamente costruita attorno alle sue creazioni16, il cui scopo palese è quello di condurre lo spettatore lungo una sorta di viaggio turistico attraverso i panorami suggestivi della contea inglese. In questo caso Loutherbourg approfitta della struttura tipica della pantomima, nella quale i protagonisti, di norma le figure di Arlecchino e Colombina, per superare gli ostacoli alla loro relazione amorosa iniziano una lunga fuga ricca di incidenti comici, per mostrare una lunghissima successione di scenografie pittoresche: si contano almeno tredici scenografie diverse, distribuite in due atti, nel secondo dei quali vi è praticamente un décor nuovo per scena, in cui vengono riproposti paesaggi burkeanamente sublimi. Nello spettacolo l’elemento meccanico è scarsamente presente; dalle recensioni si deduce solamente l’impiego di una macchina per il volo (quasi una costante negli spettacoli di Loutherbourg) e di un trucco scenico mediante il quale le braccia e le gambe di Arlecchino – che le ha “dimenticate” sul palcoscenico – eseguono una serie di acrobazie, evidentemente venendo mosse meccanicamente17. Nonostante ciò, pare qui utile accennare a questa pantomima perché costituisce una premessa alla creazione per la quale Loutherbourg è più noto, l’Eidophusikon. L’Eidophusikon viene inaugurato nel 1781, anno che vede Loutherbourg porre termine ai rapporti con il Drury Lane. Si tratta di uno spettacolo – per le sue caratteristiche quasi un genere a sé stante – creato da Loutherbourg in totale autonomia, in uno spazio teatrale in miniatura, esibito nelle prime tre edizioni18 presso l’abitazione dello scenografo. L’auditorium – in realtà una sala della casa – ha necessariamente una capienza assai ridotta. Diversi critici, per quanto senza riportare fonti di riferimento, indicano un pubblico di circa centotrenta persone. Il palcoscenico è in proporzione; le notizie a disposizione sono quelle offerte da William Henry Pyne, che si riferisce all’allestimento del 1786 nella sala un po’ più grande dell’Exeter Exchange descrivendo una scena di circa due metri di larghezza per due metri e mezzo di profondità. Dall’immagine che ritrae lo spettacolo fornita da Edward Francis Burney si può dedurre che la dimensione
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in altezza del boccascena sia pari a circa metà di quella della base, misurando quindi approssimativamente un metro (tav. 1). L’annuncio pubblicitario impiegato nella prima stagione ci informa della sequenza delle scene:
Benché di primo acchito possa sembrare una mera esibizione di vedute dipinte, un’analisi dei dettagli rivela come sia uno spettacolo che fonde caratteristiche pittoriche con attributi teatrali, per quanto in esso non si possa identificare un intreccio in senso tradizionale. Si tratta infatti di una serie di immagini paesaggistiche in ordine “cronologico”, ognuna riferita ad un momento differente della giornata, a partire dall’alba per giungere alla notte, a cui è aggiunta una scena conclusiva ad alto coefficiente spettacolare (nel caso nelle prime due edizioni una tempesta con un naufragio, nella terza e nella quarta una scena dal Paradise Lost di Milton). In tutte le scene si assiste a mutamenti creati mediante mezzi meccanici e ottici, riguardanti le condizioni atmosferiche, che si combinano con l’azione di piccoli automi o modellini di veicoli inseriti senza riferimento ad uno specifico intreccio. Non sono presenti attori in carne ed ossa, incompatibili con un palcoscenico di dimensioni così ridotte. La struttura stessa dell’evento è un segno della natura “drammatica” dell’Eidophusikon, dipanandosi in “scene” (e non, per esempio, in “quadri”) intervallate da dipinti trasparenti; questi funzionano da veri e propri intermezzi, a maggior ragione perché sono accompagnati dal canto di Anne Arne, a differenza del resto dello spettacolo, arricchito dalle sole musiche di Michael Arne in sottofondo (il musicista sarà poi sostituito da Edward Francis Burney e la soprano da Sophia Baddeley). Se l’uso delle trasparenze, per il pubblico londinese, è un chiaro rimando all’attività di Loutherbourg al Drury Lane, caratterizzata da un loro
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Inserzione pubblicitaria in “The Public Advertiser”, 6 March 1781.
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Lo spettacolo [sarà] diviso in cinque scene. 1. “Aurora”; o gli effetti dell’alba, con una veduta di Londra da Greenwich Park. 2. “Mezzogiorno”, il porto di Tangeri in Africa, con la veduta in lontananza della Rocca di Gibilterra e di Punta Europa. 3. “Tramonto”, una veduta nei pressi di Napoli. 4. “Alla luce della luna”, una veduta del Mediterraneo, il levarsi della luna a contrasto con l’effetto del fuoco. Verranno esibiti quattro dipinti trasparenti: “Un incantesimo”; “Un porto di mare”; una conversazione tra marinai di diverse nazioni; “Inverno”, una veduta delle Alpi, un taglialegna attaccato dai lupi; e “Una serata estiva”, con bestiame e figure umane. A conclusione, la scena “Una tempesta e un naufragio”19.
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consistente impiego, è soprattutto l’uso dinamico delle scenografie principali a conferire all’insieme una conformazione “drammatica”:
La recensione fornisce molti spunti interessanti. In primo luogo, se indubbiamente l’aspetto pittorico è apprezzato, è il dinamismo che la luce conferisce allo spettacolo ad indurre il recensore a insistere sulla meraviglia al limite dell’indicibile suscitata dalle invenzioni di Loutherbourg. Lo stupore destato dal mutamento delle tinte, dai cambiamenti delle sfumature che segnano il progredire del giorno, dai contrasti luministici è il trait-d’union dello scritto del cronista. Non siamo di fronte a una descrizione di immagini statiche, ma di avvenimenti dinamici, di eventi “drammatici” i cui protagonisti non sono individui ma paesaggi che evolvono dinanzi agli occhi dello spettatore. E se l’elemento umano è presente, è offerto in una sua versione meccanica e in miniatura, attraverso le figure minute rese burkeanamente irrilevanti di fronte al meraviglioso evolversi delle vedute offerte. L’effetto sublime si scorge qui nell’insignificanza delle figure marionettistiche della prima scena a confronto con lo spettacolo naturale, ma si deduce anche dallo stupore del pubblico, reiterato nel commento del cronista,
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“Eidophusikon” Intelligence, in “The Morning Herald and Daily Advertiser”, 1 March 1781.
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La prima scena è Greenwich Park prima dell’alba. Mostra il college, il fiume, e una veduta di Londra in lontananza, all’alba; e mentre il sole si alza all’orizzonte, il cielo e tutto il paesaggio ricevono tutte le varie tinte della luce che in uno stato di natura quella fonte luminosa proietta sul mondo. I colori dei suoi [di Loutherbourg] cieli sono di norma gestiti in maniera ammirevole; ma nulla può superare la transizione stupefacente che l’artista ha concepito facendo mutare la fresca sfumatura del verde che appare all’alba nel calore risplendente del rossore mattutino! [...] II tramonto è più vario di quanto lo precede [il mezzogiorno], poiché la diminuzione di luce viene rappresentata con tutte le tinte e le ombre che in natura ne mutano l’aspetto. La comparsa del sole e il suo riflesso sull’acqua e sulle imbarcazioni sono straordinari. Ma la luce della luna va davvero al di là di qualsiasi idea ci si possa formare attraverso una descrizione, e quindi ciò che viene detto qui non può che rendere solo una minima parte del suo valore. In primo piano sul palcoscenico compare un gruppo di contadini attorno al fuoco, il cui riverbero produce un contrasto stupendo con il riflesso della luna che, levandosi, lascia cadere le sue tinte argentine sul paesaggio. In ciascuna di queste scene appaiono navi che viaggiano su rotte differenti e nella prima vi sono figure di cavalieri, bestiame, ecc., in movimento. [...] L’ultima scena è una Tempesta che viene fatta comparire progressivamente mediante un mutamento del cielo che rende grande merito all’ingegno dell’artista. [...] Il cielo iroso che avvolgeva la scena, il lampeggiare che si biforcava ricoprendone nello stesso momento tutti gli angoli, con il rumoreggiare che imitava il tuono, hanno prodotto un effetto che ha stupefatto l’immaginazione in una maniera difficile a concepirsi20.
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In ogni scena le nuvole avevano un movimento naturale, ed erano dipinte con colori semi-trasparenti, in modo da non ricevere solamente la luce da davanti ma, grazie ad una maggiore intensità delle lampade Argand, da poter essere illuminate anche da dietro. Il tessuto su cui erano dipinte era steso su intelaiature le cui dimensioni erano pari a venti volte la superficie del palcoscenico, e si muoveva diagonalmente dal basso verso l’alto grazie ad un incannatoio. Si può dire che De Loutherbourg, che eccelleva nella rappresentazione delle nuvole e dei loro fenomeni, avesse ideato una serie di effetti su quella stessa intelaiatura; così, il primo bagliore del mattino conduceva poi al crescendo successivo della luce; e poiché il movimento era obliquo, le nuvole inizialmente apparivano da dietro l’orizzonte, si alzavano poi fino all’apogeo, e fluttuavano veloci o lente a seconda della loro supposta densità o dell’intensità del vento. Per illuminare le interessanti scene di questa esibizione naturale, l’ingegnoso ideatore aveva congegnato le luci in modo che concentrassero il loro flusso sulla parte anteriore delle scene; e questo schema luministico potrebbe essere applicato proficuamente negli spectacles, almeno per particolari effetti scenici, sui grandi palcoscenici dei nostri magnifici teatri. Le lampade del palcoscenico di De Loutherbourg erano poste sopra il proscenio, e nascoste al pubblico, anziché essere collocate in maniera innaturale come siamo abituati a vederle, vale a dire in modo da illuminare i visi degli interpreti, come il Satana di Michelangelo, dalle regioni sottostanti [...]. Sul palcoscenico dell’Eidophusikon, davanti alla fila di lampade splendenti c’erano strisce di vetro colorato, gialle, rosse, verdi, viola e blu; spostandole, il pittore riusciva a proiettare colori sulle scenografie, in armonia con il momento della giornata che
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che giunge ad esserne talmente sovrastato da denunciare la propria impotenza ad esprimere a parole quanto visto nel teatrino di Loutherbourg. Strumenti di tale effetto sono, almeno in parte, elementi già sperimentati nella carriera dello scenografo. I piccoli automi della prima scena, le navi che veleggiano su rotte indipendenti e gli effetti atmosferici impiegati per la tempesta ricorrono nella sua pratica teatrale; lo stesso si può dire delle scenografie sviluppate in profondità, con l’uso, in diversi punti del palcoscenico, di elementi scenografici quali rocce o lembi di spiaggia, oppure onde marine mobili ad occupare lo spazio e movimentare la visuale; mentre le trasparenze, tanto ammirate nei suoi spettacoli precedenti, assumono qui una funzione strutturale di raccordo e al contempo tecnica, per nascondere i cambiamenti scenografici ed evitare di spezzare l’illusione. Un approfondimento meritano le due componenti fondamentali dell’Eidophusikon, la luce e la pittura. Come in molti allestimenti di Loutherbourg al Drury Lane, anche in questo caso vengono impiegati con efficacia gli artifici luministici, soprattutto quelli che comportano un divenire, un movimento scenico, vale a dire i mutamenti adottati per i momenti crepuscolari e l’alba lunare. Non parrebbe trattarsi di effetti del tutto inediti, ma la testimonianza di Pyne segnala che l’elemento innovativo starebbe (le recensioni offrono pochissimi dati al riguardo) nelle soluzioni tecniche adottate per ottenerli:
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veniva rappresentato, e grazie ad una singola striscia o a combinazioni di diverse strisce riusciva a produrre un effetto magico, dando così un tono generale di allegria, sublimità o sgomento complementare ai fenomeni rappresentati sulla scena. [...]. La luna era costituita da un’apertura circolare di un pollice di diametro21 ritagliata in una scatola di latta, che conteneva una potente lampada Argand; questa, posta a varie distanze dal fondale della scena, proiettava una luce brillante o attenuata sulla nuvola che le passava vicino, producendo senza nessun altro ausilio quella sfera prismatica così pura e incantevole che è tipica del cielo italiano22.
25,4 mm [N.d.R.]. W. H. Pyne, L’“Eidophusikon”, in Degli Esposti, La tensione preregistica, cit., pp. 175-181; citazione alle pp. 176-177 e p. 180. 23 Cfr. M. D. Saltzman, François-Pierre Ami Argand: Let there be light, in “Bulletin for the History of Chemistry”, 24, 1999, pp. 48-52, riferimento a p. 49; C. Grazioli, Luce ed ombra. Storia, teorie e pratiche dell’illuminazione teatrale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 47-48. 21 22
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La descrizione di Pyne è relativa allo spettacolo del 1786 (la quarta edizione) e di conseguenza è possibile che le soluzioni tecniche da lui descritte non siano impiegate nel 1781 o nell’anno successivo. Ne potrebbe essere una conferma il riferimento alla lampada Argand, che nella sua versione perfezionata viene completata nel 1783. Tuttavia, una prima versione del lume viene costruita attorno al 178023, data che permetterebbe a Loutherbourg di esserne in possesso per l’inaugurazione dell’Eidophusikon, a maggior ragione poiché, interessato da sempre agli studi alchemici soprattutto se legati alla luce e alla pittura, è possibile che fosse a conoscenza delle sperimentazioni di François-Pierre Ami Argand. Il riferimento a tale strumento non inficia quindi necessariamente la validità della testimonianza in relazione alle prime tre edizioni dello spettacolo. Tra le osservazioni tecniche di Pyne ve n’è una di particolare rilevanza. L’autore fa riferimento ad un sistema adottato da Loutherbourg che consente di far scorrere le scenografie e determinare quindi un “movimento visivo”, confermato anche dalla recensione dello “European Magazine” allo spettacolo del 1782, che riferisce dell’uso di “tele mobili”. I mutamenti messi in scena non interessano solo luce e colore quindi: è l’immagine pittorica stessa ad essere dinamica. Il susseguirsi di paesaggi, già offerto come Leitmotiv in The wonders of Derbyshire, viene in altri termini riproposto, ma con significative differenze. Eliminati i due elementi che non ha le competenze per gestire, l’attore e il testo, lo scenografo cerca di trasferire la responsabilità dell’azione ai coefficienti che può perfettamente dominare, la luce e la pittura, che vengono fatti interagire “drammaticamente”. In qualche modo l’“attore” in realtà è presente anche in questo caso, ma non è più l’uomo, ridotto a figura d’automa insignificante, quanto l’immagine “mobile”, il fenomenico che evolve davanti agli occhi del pubblico. Diventa meglio comprensibile, così, il titolo di questo
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La sua invenzione [di Loutherbourg] consiste in una gestione ed unione raffinata di tele diverse, tutte tese all’esibizione di un unico contenuto. Nello stesso modo in cui un normale dipinto esprime il proprio soggetto da un unico punto di vista e in un determinato punto nel tempo, le sue tele, mediante questo felice collegamento di pezzi separati, mostrano transizioni meravigliose, e copiano i graduali processi della natura nei suoi momenti più importanti24.
Loutherbourg sembra quindi creare uno spettacolo coerente, teso a scandagliare un tema centrale proponendolo da diverse prospettive. Nelle diverse edizioni i paesaggi mostrati cambiano, ma si tratta di mutamenti di secondaria importanza: l’elemento esotico e sublime rimane – con l’esibizione di luoghi lontani, o di situazioni che innescano la sensazione di incommensurabilità delineata da Burke – come si mantiene il nucleo “narrativo” dello spettacolo, il viaggio visivo. Anzi, le testimonianze paiono indicare che qualità sublime ed esotismo vadano affinandosi nel corso del tempo. Se le recensioni delle prime versioni, ad esempio, accennano agli effetti sonori della tempesta limitandosi a menzionare l’effetto del tuono, la descrizione di Pyne dell’edizione del 1786 suggerisce che i rumori ambientali siano diventati molto più ricercati, a tal punto che a detta dell’autore Loutherbourg si può considerare l’inventore di «una nuova arte: il pittoresco sonoro»25. La scelta dell’espressione è interessante: anche la realizzazione dei suoni sembra portare a un risultato riconducibile per analogia
A view of the Eidophusikon, in “The European Magazine”, I, March 1782, pp. 180-181; citazione a p. 180. 25 Pyne, L’“Eidophusikon”, cit., p. 177. 24
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spettacolo, Eidophusikon, combinazione di eidos, physis, ed eikon, ad indicare l’affresco fornito dalle forme della physis, della natura in evoluzione. Il percorso lungo il quale è condotto il pubblico inizia da “casa”, ossia dall’Inghilterra, per poi svilupparsi in una sorta di “viaggio turistico” verso paesi esotici: Tangeri, i dintorni di Napoli, il Mediterraneo, la cui successione è scandita dall’avanzare del giorno, dai momenti che precedono l’alba fino alla notte, in un’evoluzione che conduce gli elementi atmosferici, prima mostrati nelle loro trasformazioni, ad un finale conflitto, la sublime tempesta che conduce la nave al naufragio. Se indubbiamente manca un intreccio tradizionale, lo spettacolo dell’Eidophusikon sembra comunque svilupparsi come un “racconto” la cui trama non consiste in vicende umane restituite mediante una partitura verbale quanto piuttosto in un percorso visivo, reso coerente da una cifra stilistica sublime. Che si tenda a fornire una compattezza generale è suggerito da un commento del recensore dello “European Magazine”:
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Paola Degli Esposti
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Inserzione pubblicitaria in “The Morning Chronicle and London Advertiser”, 24 January
1782. 27
Cfr. A view of the Eidophusikon, cit., p. 180.
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all’ambito visivo, un elemento coerente con “l’affresco in movimento” offerto dall’Eidophusikon. Un episodio inserito nell’edizione del 1782 dello spettacolo merita qualche parola. In questa versione dell’Eidophusikon la scena della tempesta con naufragio viene temporaneamente sostituita con «Satana che dispiega le truppe sulle rive del Lago Infuocato, con l’innalzarsi del Palazzo del Pandemonio da Milton»26 (la tempesta è reintrodotta nel 1786, pur mantenendo anche la scena miltoniana). Loutherbourg è attratto ad un tempo dal dinamismo e dalle potenzialità sublimi e spettacolari dell’episodio miltoniano. In questo senso non è forse un caso che, secondo quanto si può dedurre sia dalla recensione dello “European Magazine”, sia dallo scritto di Pyne, sia dall’immagine di Burney, nell’Eidophusikon di nuovo vengano inseriti piccoli demoni/automi, in schiere apparentemente interminabili a richiamare burkeanamente il sublime mediante la successione e l’infinitezza27. La conclusione dello spettacolo non è più la scena della tempesta con naufragio come nel 1781, ma è nondimeno un momento carico di terrore, quasi a ribadire una fine tragica per il viaggio visivo di Loutherbourg. La trama intesa in senso tradizionale è assente, ma nel pubblico rimane l’impressione di assistere ad un’opera espressiva di un contenuto coerente, sviluppato nell’alternarsi dei paesaggi, nel variare delle luci. Il numero limitato delle fonti a disposizione non permette forse di asserire indiscutibilmente che la coesione sia perfetta; ma l’ipotesi che in questo caso si possa essere di fronte ad uno spettacolo allestito con un atteggiamento pre-registico, esito di un lungo affinamento di tecniche nel corso degli anni, sembra credibile.
Elisa Grossato*
La musica per il teatro delle marionette: dall’esperienza haydniana a Satie
Il tema da noi proposto, cioè quello della musica per marionette, è vastissimo e può essere visto da varie angolature. Personalmente ho pensato di non prendere in considerazione gli spettacoli in cui è la musica a far nascere la parte scenica come avviene ad esempio quando alcune compagnie marionettistiche creano spettacoli ispirati ai melodrammi di Verdi, Rossini, Bizet, ecc. Il nostro interesse si è invece concentrato sinteticamente sulla situazione contraria, cioè quando è l’intrattenimento marionettistico con il suo canovaccio drammaturgico a ispirare ex novo della musica, nata e ideata per quel testo. Il caso di Haydn, al centro delle nostre riflessioni, è più che mai emblematico perché rappresenta un esempio, forse unico, di una relazione privilegiata tra il teatro di figura e un grande compositore.
2. Gli esordi Il rapporto musica-marionette è estremamente intenso: la componente ritmica è infatti elemento fondamentale sia nelle creazioni musicali, come nelle figure tirate con i fili che si animano solamente attraverso la meccanica del movimento. Diventa quindi essenziale, e direi quasi vitale, il legame musica-marionetta nel variegato evolversi dei secoli e delle diverse aree geografiche. Cronologicamente tale connubio prese il suo avvio nella seconda metà del Seicento presso le città di Venezia, Bologna, Firenze e Roma, non a caso, ambiti culturali nei quali il melodramma si era particolarmente sviluppato. Dei trattenimenti musicali con gli attori di legno (generalmente definiti dagli studiosi del genere “operine”, o
* Università di Verona.
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1. Introduzione
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Elisa Grossato
1 Cfr. E. Monti Colla, L’attore musicale. Il melodramma e le marionette, in “ateatro”, webzine di cultura teatrale a cura di O. Ponte di Pino in collaborazione con A. M. Monteverdi, 2001-2012, p. 1. 2 Cfr. G. Barbagiovanni, Musica e marionette, Ananke, Torino 2003, pp. 20-21. 3 Cfr. ibid. 4 Cfr. ivi, p. 22. 5 Cfr. voce Pistocchi, Francesco Antonio, detto Pistocchino, a cura di A. Chiarelli, in A. Basso (diretto da), Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Utet, Torino 19851988, vol. VI (Le Biografie), pp. 33-34. Su musiche dello stesso Pistocchino era stato dato, sempre a Venezia al Teatro delle Zattere nel 1679, il dramma Leandro (libretto del Conte Camillo Badoer). Tale testo fu rappresentato con delle figure di legno, mentre i musici cantavano dietro le scene (cfr. Barbagiovanni, Musica e marionette, cit., pp. 23-24). 6 Ivi, p. 24.
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“bambocciate”) si conoscono parecchie testimonianze che informano sui luoghi in cui si svolgevano tali rappresentazioni, dei tipi di marionette e dell’abilità nel muoverle, delle tematiche trattate e delle musiche usate. Le “figure di nuova invenzione”, per dirla con Matteo del Teglia (residente di Toscana presso la Repubblica veneta il quale informa che al teatro S. Moisé nel 1680 si fa l’opera in musica con le marionette1), diventano sempre più frequentemente l’anima della vita teatrale dell’aristocrazia, trovando sede nei palazzi nobiliari o nei teatri pubblici anche con produzioni importanti, in aperta competizione con gli attori in carne ed ossa. Il fascino di tale tipo di spettacolo era legato soprattutto alla meraviglia degli apparati scenici e delle macchine teatrali e all’abilità nei movimenti delle marionette in consonanza con la musica, la quale veniva eseguita dal vivo dietro al palcoscenico. Da ciò si deduce come gli artisti più interessanti fossero, in tale contesto, specialmente gli scenografi e i burattinai. Sicuramente tra le figure più significative va ricordata quella di Filippo Acciajoli che si esibì a Roma e a Venezia costruendo tra l’altro per Ferdinando di Toscana nel 1684 un teatrino di marionette, dotato di ventiquattro mutazioni di scena e di centoventiquattro figure che scorrevano su canali2. Il Girello fu uno dei suoi primi drammi musicali farseschi per marionette, su musiche del pistoiese Jacopo Melani, replicato con successo in parecchie città, dal nord al sud della penisola italiana3. A Venezia Il Girello venne rappresentato al S. Moisé4 nel 1682 con figure di cera su musiche del contraltista e compositore Antonio Pistocchi, detto Pistocchino5. Un altro testo dell’Acciajoli molto fortunato fu La Damira placata, rappresentata al S. Moisé durante il carnevale del 1680 «con figure di legno al naturale di estraordinario artificioso lavoro»6. La storia di Damira, moglie del re d’Egitto, è piuttosto complicata, ricca di colpi di scena, di raggiri, di tradimenti, con riappacificazione finale. La musica scritta per tale occasione fu di Marc’Antonio Ziani, compositore veneziano, attivo alla corte viennese, che contribuì notevolmente a innestare oltralpe lo stile musicale italiano. La vocalità della Damira presenta
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3. Il singolare esempio haydniano Un caso molto interessante di nuove creazioni musicali per marionette sul quale ci si vuole soffermare in questa sede è quello di uno dei più grandi maestri del Wiener-classik, Joseph Haydn. È sicuramente il contesto storico e culturale della famiglia Esterházi presso la quale il compositore di Rohrau si trova a lavorare a determinare uno stimolo nuovo per l’evoluzione del genere marionettistico. Il principe Nicolaus, amante dello sfarzo, colto intenditore di musica, buon violinista e sonatore di baryton (viola di bordone) aveva fatto costruire nella sua meravigliosa residenza di Esterháza, conosciuta come “la piccola Versailles ungherese”, un teatro d’opera (inaugurato nel 1768 con una novità di Haydn su libretto goldoniano, Lo speziale) e un teatro delle marionette inaugurato qualche anno dopo, nel 177310. Cfr. ivi, p. 60 e pp. 101-104. Sull’argomento si veda l’intervento di G. Prato pubblicato nel Programma di sala del Teatro La Fenice, [s.n.], Venezia 1980 e la recensione allo spettacolo di M. Messinis comparsa in “Il Gazzettino”, 11 ottobre 1980. 9 Cfr. Barbagiovanni, Musica e marionette, cit., p. 27. 10 Cfr. H. C. Robbins Landon, D. Wyn Jones, Haydn. Vita e opere, traduzione di M. Delogu, Rusconi, Milano 1988, p. 147. 7 8
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ancora qualche arcaismo di tipo tardorinascimentale in cui gli ariosi, sempre sostenuti dal basso continuo, sottolineano i punti culminanti dell’azione. La cornice strumentale offre all’ascoltatore movenze melodiche settecentesche a tre parti, spesso in stile imitativo. In tempi recenti, nel 1980 (a tre secoli di distanza dalla prima rappresentazione), al Teatro Malibran, sotto il patrocinio del Teatro La Fenice di Venezia e del Regio di Torino, la Damira è stata riproposta con la compagnia delle Marionette Lupi7, ottenendo un buon successo8. Ritornando al Seicento, nell’anno 1681 lo stesso fortunato testo dell’Acciajoli sarà messo in scena ancora a Venezia, ma su musiche del poco noto Antonio del Gaudio con figure di cera9. Come si può notare, un libretto di successo, o un canovaccio drammaturgico destinato al teatro di marionette, poteva essere musicato da artisti diversi, anche di non grande notorietà, spesso sfruttando pezzi composti per altre occasioni; talvolta poi il supporto musicale era costituito da un collage di brani di varia origine (pasticcio) messi insieme per l’occasione, prassi che d’altra parte era ampiamente usata anche per il melodramma. Nel Settecento il teatro delle marionette si sviluppa ulteriormente e diviene fondamentale strumento di svago per tutte le famiglie aristocratiche che ne possedevano uno privato.
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Elisa Grossato
Cfr. ivi, pp. 188-189 e p. 192. Si tratta della Sinfonia in do maggiore, Hob. 60, eseguita per la prima volta ad Eisenstadt nel 1774 e stampata poi dall’editore Guéra a Lione nel 1783. Cfr. il Catalogo delle opere di Haydn, in Basso (diretto da), Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit., vol. III (Le Biografie), p. 495. Per ulteriori informazioni ed un’analisi su questa sinfonia cfr. L. Della Croce, Le 107 sinfonie di Haydn, Eda, Torino 1975, pp. 206-208. 13 Cfr. W. Brunner, Haydns Arbeitsbedingungen, in F. J. Haydn, Philemon & Baucis, oder Jupiters Reise auf die Erde / or Jupiter’s journey to earth, Salzburger Hofmusik, direttore W. Brunner, ProfilEdition Günter Hänssler, Neuhausen 2009, booklet allegato al CD, pp. 7-8. 14 Si elencano nella tab. 1 le rappresentazioni haydniane destinate al teatro di marionette di cui abbiamo notizia. Cfr. anche il Catalogo delle opere di Haydn, in Basso (diretto da), Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit., vol. III (Le Biografie), p. 517. 15 Il musicologo Giorgio Pestelli, ad esempio, sostiene che «alla dimensione trasfigurante della 11 12
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Si sa inoltre che Nicolaus amava anche il teatro in prosa e che spesso presso la sua sontuosa residenza venivano ospitate delle compagnie di attori: molto nota quella di Cal Wahr, che si dedicava specialmente alla rappresentazione di testi shakespeariani tradotti in tedesco. Tra i compiti del maestro austriaco c’era anche quello di creare per le compagnie teatrali musiche di scena e ouvertures. I registri teatrali del 1773 parlano ad esempio di una musica di scena per l’Amleto composta da Haydn11, ma dove è andata finire? Probabilmente divenne una sinfonia, com’era già accaduto per la musica della commedia Le Distrait di JeanFrançois Regnard, trasformata poi nella Sinfonia “Il Distratto”12. Ma nel caso dell’Amleto, per la cui musica di scena del grande maestro austriaco c’era molta attesa, non si hanno purtroppo ulteriori notizie. In relazione al teatro in musica, si sa che il principe Nicolaus e lo stesso Haydn preferivano all’opera seria quella buffa. Quando non era fuori sede (il principe si recava raramente nella capitale dell’impero asburgico) Nicolaus chiedeva ogni sera o una rappresentazione operistica o uno spettacolo di marionette in lingua tedesca. Tra gli altri impegni, Haydn era responsabile dell’allestimento delle opere, compito che certamente doveva portagli via molto tempo. Tra il 1776 e il 1790 allestì più di un’ottantina di lavori teatrali (ma molti non erano suoi). Dai manoscritti esistenti si intuisce chiaramente che il maestro era solito compiere dei tagli abbondanti sul lavoro degli altri compositori, eliminando arie e parti d’insieme. Per soddisfare le esigenze dei suoi datori di lavoro doveva comporre opere sue e arrangiare quelle altrui, anche in conformità con le forze strumentali e vocali a sua disposizione13. Dai documenti degli archivi Esterházi e dal catalogo delle composizioni haydniane le opere per marionette risultano essere in numero piuttosto limitato e rappresentano, tra il 1773 e il 1779, un momento circoscritto della copiosa produzione del maestro austriaco14, anche se probabilmente molti altri titoli di lavori in tedesco e forse anche qualche opera buffa italiana furono destinati a tale tipo di intrattenimento15, cioè al Puppentheater.
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Tab. 1. Elenco delle rappresentazioni haydniane destinate al teatro di marionette. Libretto Rappresentazione Edizione Konrad GottEisenstadt, Bärenreiter, lieb Pfeffel 2 settembre 1773 Kassel, 1959 (per il Vorspiel: [?Philipp Georg Bader]) [?] Eisenstadt, autunno 1773 Philipp Eisenstadt, Georg Bader marzo 1776 [?] Eisenstadt, [?1776-1777] Joseph Carl von Eisenstadt, Pauersbach estate 1777
[?]
[?], 1777
Philipp Georg Bader Philipp Georg Bader
Eisenstadt, 1778 Eisenstadt, autunno 1779
Le compagnie marionettistiche che compaiono in quegli anni nei documenti archivistici degli Esterházi sono quella di Joseph Purksteiner16, quella dell’abile Carl von Pauersbach, e di Georg Habentinger; ma da un frammento di lettera del 13 marzo 1775, vergata da Nicolaus Esterházi17, si apprende che persino lo stesso Kappellmeister Haydn aveva allestito un piccolo personale teatro di marionette. Rivolgendosi al Regent Rahier, il principe scrive: So che il Kappellmeister Haydn ha un piccolo teatro di marionette che egli ha mesmarionetta aderisce spontaneamente Il mondo della luna di Goldoni musicato da Haydn per la corte degli Esterházi» e ivi rappresentato nel 1777 (Barbagiovanni, Musica e marionette, cit., pp. 37-38 e p. 45, nota). 16 Violinista dell’orchestra locale che tra il maggio e il luglio 1778 mise in scena più volte lo spettacolo Das ländliche Hochzeitsfest. Cfr. Robbins Landon, Wyn Jones, Haydn, cit., p. 201 e pp. 152-158. 17 Cfr. ivi, p. 193.
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Hob. Titolo XXIXa:1 Philemon und Baucis, oder XXIXb:2 Jupiter Reise auf die Erde, opera per marionette (poi Singspiel in 1 atto), col Vorspiel: Der Götterat. XXIXa:2 Hexenschabbas, opera per marionette (perduta). XXIXa:3 Dido, opera per marionette (perduta). XXIXb:A Die Feurerbrunst, Singspiel (autenticità discussa). XXIXa:5 Genovevens vierter Theil, opera per marionette in 3 atti (perduta). La prima e la seconda parte erano state rappresentate con musica arrangiata da Haydn, ma non scritta da lui. XXIXa:2 Hexenschabbas, opera per marionette (ripresa). XXIXa:3 Dido (ripresa con stampa di nuovo libretto). XXIXb:3 Die Bestrafte Rachbegierde, Singspiel in 3 atti (perduta).
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Elisa Grossato
so in piedi con musicisti lo scorso Carnevale. Ora, gradirei che si organizzasse uno spettacolino il giorno 20, vigilia del compleanno di mia moglie, da mettere in scena alla presenza di mia moglie al Castello di Eisenstadt. Sarà quindi necessario sistemare subito ogni cosa con Haydn, ma in modo tale che la Principessa non si accorga di nulla [...]. Vienna 13 marzo 177518.
Ibid. Ignazio Pleyel, eclettica figura di compositore, costruttore di pianoforti ed editore musicale, considerato da Haydn il suo miglior allievo, ebbe anche in Mozart, più anziano di lui di un solo anno, un sincero estimatore. Il suo esordio come compositore coincide proprio con la commedia per marionette Die Fee Urgèle oder Was den Damen gefällt. Cfr. voce Pleyel, Ignaz-Joseph, a cura di R. Zanetti, in Basso (diretto da), Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit., vol. VI (Le Biografie), pp. 51-53. 20 Cfr. Robbins Landon, Wyn Jones, Haydn, cit., p. 198. Robbins Landon riferisce anche che il conte Erdödy, molto soddisfatto dai progressi del suo protetto, regalò ad Haydn, per l’occasione, una carrozza con due cavalli. 21 Per una visione generale sul repertorio marionettistico di Esterháza, cfr. H. C. Robbins Landon, Haydn’s Marionette Operas and the Repertoire of the Marionette Theatre at Esteráz Castle, in “Haydn Yearbook”, I, 1962, pp. iii-97. 18 19
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E non è finita: anche a Ignazio Pleyel, all’epoca allievo del maestro austriaco19, si presenta nel 1776 l’opportunità di mettere in luce le proprie doti di compositore con un lavoro per marionette, Die Fee Urgèle, su libretto del Pauersbach. Il manoscritto originale di tale operina, che ottenne successo, ci è pervenuto integro ed è conservato presso la Biblioteca Nazionale Austriaca20. Dunque l’intrattenimento con marionette sicuramente diventa via via una delle maggiori attrattive del gusto aristocratico degli Esterházi e conseguentemente è sempre più interessante anche per il maestro di Rohrau, che cerca di soddisfare le nuove esigenze dei suoi datori di lavoro21. Dal punto di vista musicale si ha l’impressione che Haydn si sforzi di creare qualche cosa di originale, uno spettacolo che sta a mezza strada tra il Singspiel tedesco, il melologo e l’opera buffa italiana, dove coesistono briosità e freschezza di linguaggio e un affascinante melodismo, talvolta di gusto popolare. Le tematiche trattate nelle operine haydniane per marionette sono varie: si va dalle rappresentazioni celebrative su temi mitologici di Philemon und Baucis (1773), alla vicenda di Dido (Didone) (1776), rivisitata in chiave parodistica, al dramma di Genoveffa, Genovevens vierter Theil (1777), dove l’innocenza trionferà sull’ingiustizia, alla vivacità tipicamente austriaca, con influenze del teatro popolare, di Die Feuerbrunst (L’incendio) (1775-1778), di Die Bestrafte Rachbegirde (La brama di vendetta) (1779) e di Hexenschabbas (Il sabba delle streghe) (1773). I lavori marionettistici di Esterháza rappresentano dunque, pur nella loro limitatezza numerica, un momento non marginale per Haydn, e direi molto significativo nella storia del teatro musicale di animazione.
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22 Cfr. “Pressburger Zeitung”, 24 novembre 1779; la dettagliata descrizione dell’incendio è riportata anche in Robbins Landon, Wyn Jones, Haydn, cit., pp. 207-208. 23 Cfr. ivi, p. 215. 24 Cfr. Della Croce, Le 107 sinfonie di Haydn, cit., pp. 188-190.
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Purtroppo la maggior parte di questa musica è andata perduta durante un rovinoso incendio che investì la sala da ballo cinese con la conseguente distruzione, secondo quanto riferisce la “Pressburger Zeitung”22, di suppellettili pregiate, strumenti musicali, costumi teatrali, molta musica raccolta con grande sacrificio di tempo e di denaro. Secondo uno dei più autorevoli studiosi di Haydn, Robbins Landon, il maestro perse in tale occasione un numero notevole di suoi manoscritti, sicuramente tutti quelli relativi al teatro di marionette, ad eccezione della partitura di Philemon und Baucis e di Feuerbrunst23. Il primo lavoro ha un’origine letteraria illustre in quanto il suo libretto, elaborato da Konrad Gottlieb Pfeffel, è liberamente tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Vi si narra di Giove e Mercurio venuti sulla terra per resuscitare dalla morte la nuora Narcissa e il figlio Aret dei due anziani protagonisti. L’opera è dunque concepita per due soprani (Baucis e Narcissa) e due tenori (Philemon e Aret). Il cast viene completato da un coro e dalle due voci recitanti di Jupiter e Mercur. Lo spettacolo, ulteriormente arricchito da un prologo (Vorspiel) dal titolo Der Götterat, oder Jupiters Reise auf der Erde, fu rappresentato il 2 settembre del 1773 in occasione della visita di Maria Teresa d’Austria nel nuovo Puppentheater di Esterháza; l’imperatrice gradì a tal punto l’opera da definirla il suo lavoro per marionette preferito. Sicuramente si trattò di una rappresentazione elegante e sfarzosa nella quale delle splendide marionette abilmente mosse agivano in un contesto scenicamente meraviglioso (Marionettentheater del parco di Esterháza) a cui si aggiunse la bella musica del maestro austriaco. Colpisce principalmente la scrittura strumentale: nelle mani di Haydn, infatti, il semplice impasto di archi, due oboi e due corni (i famosi corni acuti in do di Esterháza), diviene una tavolozza sonora e fantasmagorica in sintonia con la vicenda narrata e con l’elementare plasticità delle marionette. Di particolare interesse il prologo sinfonico relativo al Concilio degli dèi. I due movimenti che ci sono pervenuti (Allegro di molto e Andante), dove il maestro dimostra di essere un artista sicuro e nel pieno delle sue forze, furono più tardi usati per la sua Sinfonia n. 50 in do maggiore24. Secondo il libretto, poi, ogni divinità (Diana, Apollo, Venere, Nettuno, Mercurio, Cerere e Giove) aveva una sua presentazione musicale. Purtroppo è stata ritrovata solamente la pagina che accompagnava l’entrata di Diana, nella quale i corni coi loro squilli introducono alla caccia di cui la dea era appunto protettrice. Subito dopo segue un’ouverture (che apre l’opera vera e propria) di singolare bellezza, la quale evoca una tempesta: tagliata in tonalità minore, è decisamente
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Cfr. W. Brunner, Inhalt, in Haydn, Philemon & Baucis, cit., booklet allegato al CD, p. 23. Ma già nel maggio del 2002 era stata allestita presso la sala grande del Mozarteum di Salisburgo un’importante esecuzione del Philemon und Baucis che poi fu registrata dalla Profil-Edition Günter Hänssler (cfr. Haydn, Philemon & Baucis, cit.). 27 Cfr. P. Patrizi, Virtuosismi per Haydn, in “Drammaturgia” (rivista online), 24 luglio 2008 (http://drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione1.php?id=3727). 28 Cfr. Robbins Landon, Wyn Jones, Haydn, cit., p. 595, nota 1. 29 Cfr. P. Branscombe, Hanswrust redivivus: Haydn’s Connections with the “Volkstheater” Tradition, in E. Badura-Skoda (herausgegeben von), Joseph Haydn. Bericht uber den internationalen Joseph Haydn Kongress (Wien, Hofburg, 5-12 September 1982), Henle, München 1986, pp. 369-375. 25
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apparentata con altre sinfonie in minore create da Haydn prima della creazione di questo lavoro. Anche la scrittura vocale è comunque ben calibrata: si pensi al ruolo assai spinto in acuto del giovane Aret che, nella sua bella aria concertata con l’oboe e arricchita dal pizzicato degli archi Wenn am weiten Firmamente, sembra come risvegliarsi da un sogno. La sua sposa Narcissa invece propone una cantabilità di stile diverso per descrivere la beatitudine dell’innocenza, in un’aria che non figurava nella versione originale e che fu aggiunta dal maestro di Rohrau per una rappresentazione di Philemon più tardiva (1777), presa dalla sua opera Il mondo della luna25. Pure le frequenti sezioni di Melodram (dialoghi parlati su sfondo strumentale), riservate alle divinità di Giove e Mercurio, fanno bella mostra di sé. In tale opera comunque è la dimensione drammatica a prevalere (almeno per quello che conosciamo), mancando quasi totalmente quegli spunti ironici e di buon umore che caratterizzano altrove molte pagine haydniane. Il lavoro piacque moltissimo al principe Nicolaus (che compensò il compositore e il pittore Grundemann con trenta ducati ciascuno). Così nel 1777 Haydn ne fece una versione di Singspiel. Nel Novecento l’editore Bärenreiter ne curò la stampa moderna (1959). Si ricorda poi che in tempi recenti l’opera per marionette Philemon und Baucis è stata riproposta in una elegante versione durante la 65° Settimana senese del 2008 al teatro dei Rozzi26. La famosa compagnia marionettistica di Carlo Colla e Figli ha sostenuto il ruolo scenico, mentre l’interpretazione e la direzione musicale sono state affidate a Fabio Biondi con l’ensemble Europa Galante, che ha eseguito solo il materiale musicale sicuramente haydniano, senza le aggiunte tardive non certe. Insomma si è trattato di un’edizione filologica molto apprezzata anche dalla critica27. Di tutt’altra natura musicale è l’opera Die Feuerbrunst, della quale ci è pervenuta una partitura tardosettecentesca, ma alcuni studiosi mettono in dubbio la sua autenticità28. È un trattenimento marionettistico, rappresentato nel periodo 1775-1778, molto vivace e gustoso, influenzato dal Volkstheater. I personaggi Hanswurst29 e Colombina, di tradizione popolare, danno vita a un diverten-
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4. Il caso di Satie Dopo l’eccezionale esperienza haydniana si deve infatti attendere più di un secolo di storia musicale per ritrovare, nel 1899, un musicista di grande livello artistico che decida di scrivere un lavoro ex novo per il teatro di marionette, «petit opéra pour marionettes» come si legge sul manoscritto musicale. Su soggetto di Contamine de Latour, l’opera, ritrovata solo alla morte del compositore dietro 30 Cfr. J. McCormick, Genoveffa e il repertorio del teatro con marionette, in A. Cipolla (a cura di), Genoveffa di Brabante. Dalla tradizione popolare a Erik Satie, SEB, Torino 2004, pp. 29-37. 31 Cfr. ivi, p. 32. 32 Interessanti riflessioni sulla proposta di questo tema da parte di Satie si possono leggere nel contributo di A. Piovano, Geneviève secundum Satie: Rosacroce Semiserio o provocatore doc?, in Cipolla (a cura di), Genoveffa di Brabante, cit., pp. 157-167.
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te gioco, una disquisizione sull’amore contrastato che culmina con l’incendio dell’abitazione della stessa protagonista femminile. Come era avvenuto per la tempesta di Philemon, l’incendio stimola il maestro di Rohrau a creare, da par suo, una spettacolare e concitata pagina strumentale. Nel 1777 Haydn scriverà per Esterháza la quarta ed ultima parte di Genoveffa, cioè Genovevens vierter Theil su libretto di Carl von Pauersbach. La musica delle prime parti della vicenda di Genoveffa di Brabante era stata in anni precedenti, con tutta probabilità, assemblata da Haydn, ma non scritta da lui. Non essendoci pervenuta la partitura, dobbiamo riflettere solamente sulla scelta di tale tematica che, sviluppatasi nel Medioevo, ha poi preso vita ottenendo molta fortuna nell’ambito teatrale fino ad approdare anche nel mondo del teatro di figura30. Della versione tedesca rappresentata a Esterháza, si conosce solamente il libretto di von Pauersbach: la storia abbastanza complicata presentava alcuni personaggi aggiunti rispetto a quella originale e un intrigo galante con l’inserimento della figura comica di Hanswurst, mentre Genoveffa e suo figlio compaiono solo nel terzo atto. Come sostiene McCormick «l’impiego smodato di figure aggiuntive, combinato con numerosi cambi di scena», dava senz’altro vita alla spettacolarità del teatro di marionette nella sua più grandiosa manifestazione facendo rientrare pienamente questa Genoveffa nel contesto di un tipico allestimento melodrammatico tardobarocco31. Il fatto dunque che anche a Esterháza sia stato preso in considerazione tale soggetto e che faccia parte della campionatura del teatro marionettistico haydniano è particolarmente significativo. Un sottile filo rosso lega idealmente l’operina, la cui musica, come s’è già ricordato, è andata perduta, a un’altra Genoveffa, cioè alla Geneviève de Brabant del compositore francese Erik Satie, sempre destinata al teatro di marionette32.
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Elisa Grossato
Cfr. J. Harding, Erik Satie, Secker and Warburg, London 1975, p. 38. Se nella Genoveffa attribuita ad Haydn erano stati inseriti dei personaggi comici, un evidente gusto parodistico compare nella Geneviève de Brabant di J. Offenbach, su libretto di Jaime ed Étienne Tréfeu, messa in scena a Parigi nel 1859, che rappresenta senza dubbio un’anticipazione di quanto comparirà nel lavoro marionettistico di Satie. Cfr. A. Cipolla, Genoveffa di Brabante: quattro secoli di teatro, in Cipolla (a cura di), Genoveffa di Brabante, cit., pp. 25-26. 35 A. Guarnieri Corazzol, Erik Satie tra ricerca e provocazione, Marsilio, Venezia 1979, p. 63. 36 Nei primi del Novecento i tempi saranno maturi per altre proposte affascinanti di teatro in musica per marionette creati da grandi musicisti: vorrei ricordare qui La boîte à joujoux scritta da Debussy nel 1913 e il Retablo de maese Pedro creato da De Falla nel 1919-1922. 37 Informazioni su Satie e sulla sua Geneviève sono reperibili in O. Volta, Geneviève de Brabant, libretto di sala, Teatro La Fenice, Venezia 1983, pp. 375-378. In riferimento all’allestimento veneziano della compagnia Colla, si veda E. Monti Colla, La Genoveffa della compagnia marionettistica Carlo Colla e figli, in Cipolla (a cura di), Genoveffa di Brabante, cit., pp. 53-55. 33 34
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uno dei suoi pianoforti, andò in scena per la prima volta al Théâtre des ChampsElysées nel maggio 1926 nel corso di una serata organizzata dai suoi amici per raccogliere i fondi necessari a pagare la sua tomba. Si tratta di un componimento per voci solistiche, coro e pianoforte in tre atti di dimensioni ridotte. Lo studioso angloamericano Harding ricorda che fra i temi trattati negli spettacoli di ombre cinesi dello Chat Noir, dove Satie suonava il pianoforte improvvisando, v’era un episodio di Sainte Geneviève (non Genoveffa di Brabante) e ciò può essere stato di stimolo per de Latour33. Dal punto di vista musicale questo lavoro risente della così detta “fase mistica” di Satie e del suo interesse per uno stile popolare e rappresentativo. Tutto è dominato da una sottile ironia34: i personaggi di Geneviève e di Golo vengono presentati nella loro dimensione quotidiana e, come giustamente sostiene la Guarnieri, «le loro passioni e vicende sono presentate un po’ nello stile dei poemi eroicomici, un po’ in quello della tradizione favolistica»35. Tali elementi si sposano perfettamente con le caratteristiche del teatro di marionette. Anche il coro assume apertamente la vis comica dell’azione, proponendo delle melodie banalmente tonali che fanno sparire completamente ogni possibile misticismo e atmosfere medievali. L’opera si conclude con un lieto fine parodistico, sottolineato ancora una volta da una scrittura musicale volutamente semplice e ingenua. Si tratta senza dubbio di una pièce importante e originale, che apre la strada ad una concezione nuova del teatro: ritengo sia estremamente significativo che un lavoro di questo tipo sia stato pensato proprio per le marionette36. Una versione orchestrale della Geneviève si deve a Roger Désormière nel 1926. Un’importante edizione per marionette è stata rappresentata al Gran Teatro La Fenice di Venezia il 13 aprile 1983 con la prestigiosa compagnia di Carlo Colla e Figli37.
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Tav. 1. E. F. Burney, Eidophusikon, disegno a inchiostro e acquerello, 1782. British Museum, Department of Prints & Drawings, Registration number: 1963,0716.1. © Trustees of the British Museum.
Tav. 3 (a fronte). Compagnia Marionettistica dei Fratelli Napoli di Catania; alla manovra Alessandro e Salvatore Napoli (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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Tav. 2. Antonino e Vincenzo Mancuso, Palermo 2005 (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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Tavv. 4-11. Burattini della muta di Nino Pozzo, Fondo Pozzo, proprietà di Marco Campedelli (le immagini sono state realizzate da Marco Ambrosi, www.marcoambrosi.com).
Tav. 5. Pantalone, autore Antonio Avanzi.
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Tav. 4. Capitano di Giustizia, autore Francesco Campogalliani.
Tav. 7. Dottore, autore Antonio Avanzi. Tav. 6. Tartaglia, autore Antonio Avanzi.
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Tav. 8. Sandrone, autore Antonio Avanzi.
Tav. 9 (a sinistra). Diavolo, autore presunto Antonio Avanzi. Tav. 10 (a destra). Fasolino, autore Francesco Campogalliani.
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Tav. 11. Fata Turchina, autore ignoto.
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Tav. 12. Fondale utilizzato da Nino Pozzo, Fondo Pozzo, proprietà di Marco Campedelli (immagine realizzata da Marco Ambrosi, www.marcoambrosi.com).
Tav. 14 (a fronte). Una selezione di marionette del Gran Teatrino “La fede delle femmine” (Archivio Biggi).
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Tav. 13. Teatro d’Ombre Contemporaneo: Widmo Antygony (2011), produzione BTL-Białostocki Teatr Lalek di Białystok (Polonia), regia di Fabrizio Montecchi.
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Tav. 15. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: marionetta protagonista di The scarlet letter (Archivio Biggi).
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Tav. 16. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: marionette raffiguranti un angelo e la morte (Archivio Biggi).
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Tav. 17. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: il Doge di Venezia (Archivio Biggi).
Tav. 19. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: marionetta raffigurante Igor Stravinsky (Archivio Biggi).
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Tav. 18. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: tre pulcinella crocefissi (Archivio Biggi).
Tav. 21. Copertina di “Puck” (Des corps dans l’espace), 4, 1991.
Tav. 22. Copertina di “Puck” (Interférences), 11, 1998.
Tav. 23. Copertina di “Puck” (Langages croisés), 13, 2000.
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Tav. 20. Copertina di “Puck” (L’Avant-garde et la Marionnette), 1, 1988.
Tav. 25. Copertina di “Puck” (Le point critique), 17, 2010.
Tav. 26. Copertina di “Puck” (Marionnettes en Afrique), 18, 2011.
Tav. 27. Copertina di “Puck” (Collections et Collectionneurs), 19, 2012.
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Tav. 24. Copertina di “Puck” (L’opéra des marionnettes), 16, 2009.
Tav. 29. Sepoltura di Natacha (R. Gabriadzé, Canto per il Volga, 1994).
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Tav. 28. Ballare con una figura: Julika Mayer, Notizie delle vecchiette (compagnia Là où 2007).
Simona Brunetti *
La divina donna-manichino di Massimo Bontempelli** Per ore, per intere settimane, poteva appagarci l’assettare in pieghe intorno a questo immobile manichino la prima seta del nostro cuore: ma io non posso immaginare che non venissero certi pomeriggi troppo lunghi in cui le nostre sdoppiate fantasie si stancavano e a un tratto sedevamo innanzi a lei e ne attendevamo qualche cosa. R. M. Rilke, Bambole1
In un racconto di Massimo Bontempelli ultimato nel 1921, La scacchiera davanti allo specchio, nel suo vagabondare in una landa desolata al di là di una superficie riflettente posta sopra il caminetto della stanza in cui è stato rinchiuso in punizione, dopo aver superato un ripido pendio, il piccolo protagonista incontra un manichino: «un manichino di vimini: di quelli alti come un uomo, senza braccia né testa, su cui le sarte provano i vestiti delle signore»2. Dotato di parola, anche se non appare del tutto chiaro in che modo riesca ad emettere suoni3, il manichino della novella si presenta come il sovrano di tutte le persone e le cose incontrate dal ragazzino all’interno dello specchio, persone e cose che in esso, anche per un solo attimo, si sono rispecchiate. Sorpreso da questa affermazione, totalmente in contrasto con quanto rivelatogli in precedenza dall’immagine del Re Bianco della scacchiera4, il bambino viene quindi informato che esiste una sostanziale differenza di importanza tra le forme accolte dal piano riflettente:
* Università di Verona. ** Dedico questo intervento a mio padre, scomparso in seguito a una lunga malattia alcuni giorni dopo la chiusura dei lavori del convegno. 1 R. M. Rilke, Bambole, in R. M. Rilke, C. Baudelaire, H. von Kleist, Bambole: Bambole, Morale del giocattolo, Sul teatro di marionette, a cura di L. Traverso, Passigli, Firenze 1992, pp. 11-39; citazione a p. 23. 2 M. Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, in M. Bontempelli, Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1978, pp. 287-340; citazione a p. 319. Scritto nel 1921, il racconto viene pubblicato per la prima volta nel 1922 dagli editori Bemporad e figlio di Firenze. 3 «Noi parliamo con la lingua: ma lui con che cosa parlava?» (ibid.). E ancora: «rimanemmo per un po’ l’uno in faccia all’altro a bocca aperta. Lui non l’aveva, la bocca, ma certo la teneva aperta, guardando me: si capiva benissimo dalla sua posa» (ivi, p. 322). 4 Per le analogie esistenti tra la novella di Bontempelli e le avventure dell’eroina di Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie e soprattutto Attraverso lo specchio), si veda il capitolo
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1. La superiorità del manichino
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Simona Brunetti
«[...] Gli specchi sono fatti per ricevere ed eternare le immagini degli oggetti, come tu sai. Ci si riflettono anche gli uomini e le donne, ma è un di più, non ha importanza. Appena un oggetto è stato riflesso nello specchio, è fatta: la sua immagine rimane dentro, e cammina, e sùbito arriva qui, in questo luogo elevato, dove diventa immortale. Invece le immagini delle persone, non avendo importanza, restano giù, nella regione inferiore, che devi avere traversata. Questo luogo qui non sanno neppure che ci sia. Per venir qui si sale, te ne sarai accorto. E soltanto le immagini degli oggetti, creature superiori, possono salire. Quelle degli uomini, anime piatte, non possono; esse infatti non conoscono che la regione piatta più giù, la pianura.» «E gli scacchi?» «Quelli sono una cosa di mezzo tra le persone e gli oggetti. Qualche valore, mio Dio, ce lo hanno: ma non tanto da arrivare quassù»5.
Io, essendo manichino, sono l’oggetto per eccellenza: l’oggetto, tant’è vero, sul quale gli uomini e le donne cercano di modellarsi, per sembrare manichini anche loro. Naturalmente non ci riescono mai del tutto, c’è sempre qualche cosa che sopravanza8.
Secondo quanto proposto da Bontempelli nel racconto, perciò, se l’immagine del manichino, alla quale tentano invano di somigliare le immagini degli esseri umani, è loro superiore, anche gli uomini in carne e ossa dovrebbero prendere come modello del proprio agire il manichino, o meglio, la marionetta, come sembrerebbe emergere dalla sua successiva favola metafisica, Eva ultima, del 19229. In una villa di un immaginario altipiano del Duiblar, «fuori del mondo» Oltre lo specchio: il modello di Lewis Carroll per una favola metafisica dedicato all’argomento in M. M. Galateria, Racconti allo specchio. Studi bontempelliani, Bulzoni, Roma 2005, pp. 99-113. 5 Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, cit., p. 320. 6 C. Grazioli, Da Hanswurst alla Metafisica: “Siepe a nordovest” di Bontempelli, in “Maske und Kothurn”, XLVIII, 1-4, 2002, pp. 405-433; citazione a p. 426. 7 Cfr. ibid. 8 Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, cit., p. 321. 9 Cfr. M. Bontempelli, Eva ultima, in Bontempelli, Opere scelte, cit., pp. 341-446 (d’ora in poi eva). Scritto nel 1922, il racconto viene pubblicato per la prima volta nel 1923 dall’editore Alberto Stock. La versione definitiva del racconto è proposta, insieme a quella di La scacchiera davanti allo
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Se, come sottolinea Cristina Grazioli, l’ambiente al di là dello specchio evocato dal racconto esplicitamente «ricorda lo spazio metafisico dei quadri di De Chirico»6, nella tripartizione degli esseri che lo abitano – gli oggetti, gli scacchi e gli uomini – si introduce una delle tante metafore platoniche di cui la novella è disseminata7. Infatti, all’interno dell’universo ideato dallo scrittore comasco, come in una sorta di iperuranio in cui le idee sono ordinate in senso piramidale, gli oggetti non solo assumono chiaramente uno statuto più rilevante rispetto agli esseri umani, ma vengono disposti anche secondo una precisa scala gerarchica, al cui vertice viene posta la figura del manichino.
La divina donna-manichino di Massimo Bontempelli 51
Bululù. [...] a lei piacciono le parole che io dico, e i movimenti che io faccio; dunque qualche cosa che non è in me, che non viene da me. Eva. Da chi, da chi, da chi, in nome del cielo? Bululù. Da chi mi muove, signora. Eva. E io? Io non ho mai voluto star a pensare se c’è qualche cosa più su della mia testa. Bululù. Ma della mia? Ci sono, signora, ci sono quattro o cinque fili, e qualcuno li tira e li allenta, su, su, su, non so dove14.
Proprio perché determinati dall’alto, dai fili e da una volontà esterna a cui sono indissolubilmente legati, i movimenti di Bululù irretiscono Eva al pari di quanto accade al danzatore protagonista del celebre saggio Sul teatro di marionette di Kleist, che trova i movimenti compiuti dalle marionette di un teatrino di piazza infinitamente superiori a quelli di un ballerino in carne e ossa15. La preminenza della marionetta sull’essere umano diventa ancor più evidenspecchio, nel volume M. Bontempelli, Due favole metafisiche (1921-1922), Mondadori, Milano 1940 (cfr. L. Baldacci, Note ai testi, in Bontempelli, Opere scelte, cit., p. 944). 10 eva, p. 388. 11 Ivi, p. 392. 12 Ivi, p. 410. 13 Ivi, p. 401. 14 Ivi, p. 414. 15 Cfr. H. von Kleist, Sul teatro di marionette, in Rilke, Baudelaire, Kleist, Bambole, cit., pp. 67-93.
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ma circondata da una natura amorevole, un giorno di maggio l’inquieta Eva incontra la marionetta Bululù, evocata per lei da Evandro, un uomo misterioso e dotato di abilità arcane, perché delusa dal suo modo di amarla («Eva. [...] e non sai darmi qualche cosa da amare. / Evandro. Qualche cosa da amare? Ma tu conosci gli uomini. Qualche cosa, dunque, che sia più o sia meno di un uomo?»10). Dopo un iniziale spavento provocato dall’apparizione della marionetta, fornita di parola e di gesto secondo modalità apparentemente incomprensibili («Bululù mosse alcuni passi verso di loro: così camminando lui, ondeggiavano e svanivano verso l’alto i fili lunghissimi che lo movevano»11), Eva si abitua alla sua presenza, rimanendone ben presto irretita, ammaliata, incantata: «Bululù era la persona più chiara e umana e naturale che aveva incontrata»12. Uomo e marionetta, secondo Evandro, posseggono anime a cui è impossibile dare una definizione, perché «ognuno recita la sua parte» mosso «da qualcuno, o da qualche cosa». Ciò su cui bisognerebbe intendersi, spiega a Bululù, è se «quello che muove» sia «tutto di dentro, o tutto di fuori»13. Eva si innamora della marionetta senza rendersi conto che quanto più ama in lei proviene dalla volontà di un altro:
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Simona Brunetti
te in un passaggio successivo del racconto bontempelliano, quando Eva partecipa a un “convito” organizzato nella villa in suo onore. Nel corso della serata gli invitati assistono alla rappresentazione di una commedia per marionette con ballo e musica in un teatrino allestito per l’occasione. All’apparire sulla scena di «una piccola marionetta, vestita da Arlecchino, con una chitarra al collo»16, Eva ha un moto di sgomento e poco dopo domanda all’autore (nel testo chiamato semplicemente «l’amico di Evandro») se quelle comparse sul palcoscenico siano “marionette vere”:
Ciò che nel testo non viene esplicitato da Bontempelli, ma che risulta perfettamente ovvio al lettore della novella, è che la “marionetta finta” a cui allude la perplessa titubanza di Eva, da contrapporre alle “marionette vere” comparse sulla scena, è un essere eterodiretto dalle sembianze di marionetta, ma con qualcosa in più: un essere dotato di “fili”, ma che misteriosamente si muove all’interno della villa allo stesso modo che all’aperto, tra gli alberi del parco, vale a dire Bululù. Il ragionamento del «filosofo», dunque, non ha altro fine che sottolineare con assoluta chiarezza la superiorità di una particolare tipologia di marionetta sull’essere umano. Una riprova, a corollario di quanto assunto, viene inserita dallo scrittore nel pre-finale dell’opera. L’amico di Evandro, autore della commedia per marionette, un uomo galante e piuttosto invadente che corteggia insistentemente Eva, riesce infine a vincere le sue ritrosie e a possederla solo quando ella in lui riconosce l’amata marionetta Bululù e quando lui stesso, per assecondarla, si identifica con essa: «Oh, così mi chiami? È carino. Sì, chiamami Bululù.» Eva cercava strapparsi alla stretta, ma le forze le mancavano. Credeva di gridare ma la sua voce si spegneva contro la faccia dell’altro, mentre singhiozzava disperatamente: «Bululù...» «Vedi che mi vuoi, anche se mi dici di no. Sì, chiamami ancora così. Sì, sono Bululù tuo.» [...] Eva chiuse gli occhi sotto il bacio. L’universo si confondeva nella sua mente. Trasognata mormorava: «Sei Bululù?...» «Fammi sentire la tua bocca, come si muove, quando mi chiami così.» 16 17
eva,
p. 426. Ivi, p. 430.
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«E che?» domandò l’amico «esistono delle marionette finte?» «Non so...» mormorò Eva. «Aspettate» gridò il filosofo «faccio un ragionamento. Una marionetta è un uomo finto. Dunque una marionetta finta è un uomo finto finto, cioè un uomo vero, il vero uomo vero, il solo uomo vero, l’uomo vero per eccellenza»17.
La divina donna-manichino di Massimo Bontempelli 53
Sotto la bocca di lui la bocca di Eva continuava a mormorare: «Bululù...» «Com’è dolce! Amore. Così... stringimi così. Più forte.» Eva sempre più abbandonata, sempre con gli occhi chiusi, mormorava: «Bululù...»18.
Ivi, p. 442. «“[...] Qua la mano, e a rivederci chi sa quando.” / “Qua la...?” / Ero inebetito: di quale mano parlava? Avevo mezzo sporta in avanti la mia, ma lui come voleva fare, poverino, che non ce l’aveva? / Ma d’un tratto me la sentii prendere, la mia mano, la sentii afferrata nella sua; sicuro, la sua, che non si vedeva; poi la stretta calorosa s’allentò, e lui saltò giù. / Quella stretta inaspettata m’aveva fatto tanta impressione, che detti un urlo di terrore, voltai le spalle, e mi misi a correre a perdifiato» (Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, cit., p. 322). 20 «“Signora Eva, tocchi i miei fili.” / Eva era fuori di sé per lo sgomento, anelava tormentata da cento desiderii» (eva, p. 415). 21 Cfr. ivi, p. 415 e pp. 434-435. 22 Rilke, Bambole, cit., p. 27. 23 Sull’argomento si veda il ritratto di Bontempelli tracciato nel 1919 da Alberto Savinio per la “Vraie Italie”, citato e trascritto da Alessandro Tinterri (cfr. A. Tinterri, Bontempelli e il teatro, in M. Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie, a cura di A. Tinterri, Einaudi, Torino 1989, pp. 219-280; riferimento alle pp. 222-226), l’analisi del romanzo proposta da Luigi Fontanella (cfr. L. Fontanella, Storia di Bontempelli. Tra i sofismi della ragione e le irruzioni dell’immaginazione, Longo, Ravenna 2007, pp. 29-40) o le riflessioni offerte da Lia Lapini (cfr. L. Lapini, Il teatro di Massimo Bontempelli. Dall’avanguardia al novecentismo, Nuovedizioni Vallecchi, Firenze 1977, pp. 125-128). 24 Cfr. M. Bontempelli, Nostra Dea, in Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie, cit., pp. 89151 (d’ora in poi nd). Scritta su sollecitazione di Pirandello per il Teatro degli undici di Roma tra il 1° e il 16 gennaio 1925, la commedia debutta il 22 aprile dello stesso anno e viene pubblicata in “Comoedia”, 1° agosto 1925 (cfr. Baldacci, Note ai testi, cit., p. 947). 25 «Ho cominciato a pensare Nostra Dea nell’estate del ’22, svegliandomi una notte, in una piccola pensione ai piedi del Semmering, con quello spunto in testa; tornato a Roma ci pensavo ancora, provai a buttar giù le prime scene, ma sùbito abbandonai l’idea: le tante e complicate possibilità che lo spunto avrebbe dovuto suscitare, volevo innestarle sul corso d’un intrico che per sé fosse invece il più semplice e comune possibile [...] e non lo trovavo. Non ci pensai più» (M. Bontempelli, Nota a 18 19
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Quel contatto tra essere umano e marionetta (o manichino), che nel bambino di La scacchiera davanti allo specchio desta impressione e terrore19 e in Eva desiderio e sgomento20, per non condurre alla delusione e all’annientamento dell’illusione con la morte della marionetta (come accade quando le si toccano i fili)21, può dunque realizzarsi solo nel caso in cui l’essere umano si elevi, tramutandosi in marionetta (o manichino). La riflessione svolta da Bontempelli nelle novelle metafisiche, negli stessi anni in cui Rilke, analogamente richiamandosi a Kleist, scrive che «[la bambola] è precisamente tanto inferiore a una cosa quanto una marionetta le è superiore»22, trova il proprio naturale completamento nella scrittura drammatica, come già in parte avviene nella stesura di Eva ultima23. Infatti, con la creazione nel gennaio 1925 di Nostra Dea24 (il cui spunto iniziale, però, non a caso data 192225),
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l’autore comasco pone al centro della scena una figura femminile che nasce esattamente dalla fusione delle idee di manichino e di marionetta teorizzate in precedenza. Protagonista della commedia è ora una donna-automa, ovvero un vezzoso manichino umano che, al pari di una marionetta, viene guidato nel suo agire dall’esterno, ma i cui fili sono costituiti dagli innumerevoli abiti che indossa.
2. Un armadio di personalità cangianti
“Nostra Dea”, in M. Bontempelli, Teatro, Mondadori, Milano 1947, vol. I [1916-1927], pp. 201-212, d’ora in poi nota; citazione a p. 201). 26 Per una lettura approfondita del testo si veda la recente traduzione proposta da Roberto Alonge (cfr. H. Ibsen, Una casa di bambola, in H. Ibsen, Drammi moderni, a cura di R. Alonge, RCS Libri, Milano 2009, pp. 133-230). 27 Cfr. G. Groddeck, Il teatro di Ibsen. Tragedia o commedia?, traduzione di C. Vigliero, Guida, Napoli 1985, pp. 7-41; citazione a p. 34. 28 Ivi, p. 11. 29 Cfr. ivi, p. 35. 30 Cfr. Ibsen, Una casa di bambola, cit., pp. 199-204. 31 Cfr. A. Barsotti, “Nostra Dea”, l’automa liberty, in C. Donati (a cura di), Massimo Bontempelli scrittore e intellettuale, Atti del convegno (Trento, 18-20 aprile 1991), Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 237-257; citazione a p. 243.
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In un’analisi particolarmente affascinante di Una casa di bambola (1879) di Henrik Ibsen26, Georg Groddeck già nel 1910 mette in luce come i tratti dominanti della protagonista siano essenzialmente il sogno e la finzione. Donna dalle molte facce, Nora «trasforma la vita con la fantasia, la trasforma come piace a lei e come piace agli altri»27. Mentendo «con una facilità, con una naturalezza, riscontrabile soltanto in persone per le quali la finzione è la realtà»28, ella vive una seconda vita, una vita segreta alimentata dall’immaginazione. Con grazia e disinvoltura, inoltre, gioca con le persone che le stanno accanto come fossero bambole nelle sue mani, al punto da far rivestire loro ruoli cavallereschi o eroici a seconda della necessità, ruoli che però fatalmente finiscono per scontrarsi con la quotidianità della sua esistenza29. Gli aspetti del dramma che più interessa richiamare in questa sede sono la centralità di questa figura femminile rispetto a tutti gli accadimenti offerti (il personaggio è presente in tutte le scene della pièce tranne una, all’inizio del terzo atto)30 e la sua varia personalità, frutto di una raffinata e sapiente raffigurazione psicologica da parte dello scrittore norvegese. Come scrive Anna Barsotti, con Nostra Dea Bontempelli «fa precipitare la realtà “moderna”»31 nella struttura di una commedia classica, in cui l’impostazione della tipologia della gran parte dei personaggi risulta tutto sommato canonica. In una vicenda racchiusa in una cornice, che inizia e finisce nel giro di venti-
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quattr’ore, al consueto triangolo borghese marito-moglie-amante (Orso-OrsaDorante) se ne affianca uno un po’ più eccentrico (Vulcano-Dea-Marcolfo), che complicandolo raddoppia il piano dell’opera32. In Bontempelli [...] la consapevolezza della crisi del concetto stesso di realtà diventa tecnica, operazione cerebrale e costruisce intrecci aventi per strumento il paradosso e come forma di coesione l’ironia. Tecnica molto teatrale, basata sull’intreccio e sulla sorpresa, che sembra giocare su un solo obiettivo, quello della cattura dell’attenzione del pubblico33.
32 Cfr. ivi, pp. 242-243. Sulla contrapposizione presente in Nostra Dea, tra una protagonista che si presenta come «un manichino vuoto e meccanico» e le «“sublimi” psicologie dei personaggi di contorno», si veda G. Livio, Il teatro in rivolta. Futurismo, grottesco, Pirandello e pirandellismo, Mursia, Milano 1976, pp. 128-129. 33 R. Glielmo, La traversata dell’ironia. Studi su Massimo Bontempelli, Guida, Napoli 1994, pp. 11-12. Particolarmente interessanti anche gli studi dedicati al peculiare uso della lingua da parte di Bontempelli: cfr., per esempio, R. Fresu, Tra specchi e manichini. La lingua “fantastica” di Massimo Bontempelli, Nuova Cultura, Roma 2008. Sul tema cfr. anche F. Airoldi Namer, Massimo Bontempelli, Mursia, Milano 1979, pp. 160-169. 34 P. Puppa, Per una metascena intensa e operosa, in Donati (a cura di), Massimo Bontempelli scrittore e intellettuale, cit., pp. 221-235; citazione a p. 228. Sull’argomento si veda anche M. L. Patruno, La deformazione. Forme del teatro moderno: Pirandello, Rosso di San Secondo, Antonelli, Bontempelli, Progedit, Bari 2006, pp. 115-132. 35 nd, I, p. 93. 36 Ivi, I, p. 95. 37 Ivi, I, p. 98.
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Ma ciò che davvero segna prepotentemente il distacco da una certa tradizione drammaturgica fin de siècle, di cui Ibsen è senz’altro il rappresentante, è la concezione sottesa al personaggio della protagonista. Figura composita, centrale, accentratrice e affascinante al pari di Nora, il personaggio di Dea rifugge dalla solita costruzione naturalistica di una individualità coerente e sfaccettata (in cui i molteplici atteggiamenti psicologici si risolvono sempre come varianti interconnesse di un carattere compatto), per presentare invece un Io che, come sottolinea Paolo Puppa, «si dissolve ormai in un assemblaggio provvisorio e proteiforme di figure»34. Quando rimane in «combinazione» (una sottoveste di un solo pezzo, che abbina copribusto e gonna), Dea è «inerte, lo sguardo assolutamente inespressivo; ha qualche cosa di abbandonato e insieme rigido, come i manichini»35; vestita di color rosso chiaro, con «un “tailleur” diritto e molto maschile e giovanile»36, ha una voce calda, squillante e si muove in modo vivace e disinvolto; con l’abito grigio-gola-di-tortora, invece, è «tutto un poema di morbidezza, [...] dolce, timida»37 e parla con voce piana a note basse; infine, agghindata «di squame verdi luccicanti aderentissime [...] con una coda sottile a punta» e con una testa
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di serpente, che «dalla scollatura si snoda e continua a spirale [...] intorno al collo» per annidarsi tra i capelli, ha uno sguardo «a saette» e voce piena di sibili38. Proprio perché la protagonista della commedia di Bontempelli è una donnaautoma, un manichino molto “sensitivo” agli indumenti con cui viene rivestito39, a differenza di quanto accade nell’opera ibseniana, le molte facce di Dea possono coesistere senza particolari problemi di uniformità, né di coscienza, nello spazio temporale di un mutar d’abito:
L’elemento su cui è necessario soffermarsi con maggiore attenzione è proprio quell’assenza di coscienza di Dea, a nostro avviso, però, kleistianamente intesa dallo scrittore: «Noi vediamo che nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura, la grazia vi compare sempre più raggiante e imperiosa»41. Quando Vulcano interroga Anna, prima cameriera di casa, sull’incomprensibile comportamento rispetto al giorno precedente della sua padrona, incontrata per la prima volta a casa della contessa Orsa, la donna gli rivela la particolare situazione di Dea: «Se ha un vestito vivace, è vivace, come oggi; se ha un vestito timido, è timida, come ieri: e cambia tutta, tutta: parla in un altro modo; è un’altra»42. Ciò che fa davvero la differenza, però, è che se è spogliata, ma ancora in sottoveste (in «combinazione»), parla con voce vuota, quasi sillabando; se invece è nuda, ella è totalmente amorfa nelle mani della cameriera. Solo quando Anna le infila un abito, dunque, assume il temperamento dell’abito che le ha infilato43. Benché la cameriera dichiari: «la signora Dea, la faccio io, due 38 Ivi, III, p. 126. Come è noto, già nel 1925, nel corso dell’allestimento della commedia, è stato eliminato un ulteriore cambio d’abito di Dea, previsto alla fine del primo atto, in cui il personaggio appare abbigliato come Agrippina, in modo statuario con un mantello bianco con cappuccio. Per volontà di Bontempelli il testo di questa scena non è più stato inserito nella versione edita della pièce, ma è stato offerto dall’autore in una sua nota pubblicata nel 1947 (cfr. nota, pp. 204-207). 39 «Anna. La mia signora è molto sensitiva. / Vulcano. Che c’entra? Tutte le donne sono molto sensitive. Purtroppo. / Anna. Molto sensitiva ai vestiti che porta» (nd, I, p. 99). 40 Barsotti, “Nostra Dea”, l’automa liberty, cit., p. 247. 41 Kleist, Sul teatro di marionette, cit., p. 93. 42 nd, I, p. 99. 43 «Anna. Come un bambino: un bambino piccolo, ma di quelli buoni, che non piangono, e non ridono, lasciano fare. Niente, le dico. Poi, appena le infilo un vestito, di colpo è... è, come il vestito che le ho infilato» (ibid.).
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[la protagonista] appare sospesa in un presente senza idea di passato e di avvenire, un presente eterno, elastico, infinito. Dea è come un personaggio pirandelliano passato attraverso la «compenetrazione» e la «simultaneità» futuriste: lo spazio e soprattutto il tempo non hanno senso oggettivo per lei, ma solo soggettivo (essa fatica a ricordare come è stata e cosa ha fatto nelle sue precedenti apparenze). Ma lo spettatore, che assiste alla serie volubile di mondi possibili creati da lei, e alla fine attende una verifica, ne trova una sola: Dea non c’è!40
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o tre volte al giorno»44, sottintendendo con questo che è lei a scegliere dal grande armadio che domina la camera della padrona le mises da farle indossare di volta in volta, in realtà è la sarta Donna Fiora a creare gli abiti, quindi a determinare le condizioni, positive o negative, che le danno vita45. La protagonista della commedia, infatti, in quanto donna-manichino priva di coscienza rappresenta l’universale femmineo “in potenza”.
Com’è noto, già nell’autunno del 1921, a pochi mesi di distanza dal fiasco della prima romana dei Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello compone la tragedia Enrico IV. Nella sua struttura apparentemente più rigorosa e tradizionale, la vicenda di un presunto pazzo segregato in un palazzo camuffato da reggia medievale fu letta come una sorta di riparazione al disordine proposto nella pièce precedente47. La temporanea follia, determinata da una caduta da cavallo, offre al protagonista l’occasione di vivere in una dimensione in cui la fantasia diviene lo strumento principe per ricreare la realtà. A prescindere dalla diversità di fogge d’epoca, l’armadio colmo d’abiti di Dea ricorda da vicino quello della tragedia pirandelliana: «Landolfo. [...] Abbiamo di là un intero guardaroba, tutto di costumi del tempo, eseguiti a perfezione, su modelli antichi. È mia cura particolare: mi rivolgo a sartorie teatrali competenti»48. L’infinita varietà di forme a disposizione dei finti Consiglieri segreti di Enrico IV, con cui rivestono gli ospiti che arrivano nella villa, però, costituisce per loro una sorta di impasse: Landolfo. [...] il nostro vestiario si presterebbe a fare una bellissima comparsa in una rappresentazione storica, a uso di quelle che piacciono tanto oggi nei teatri. E stoffa, oh, stoffa da cavarne non una ma parecchie tragedie [...] Tutti e quattro qua, e
Ibid. «Il suo grande guardaroba è un magazzino di intrecci scenici, un assemblaggio di storie possibili, entro il quale Donna Fiora, l’artista-sarta che le confeziona le fogge, è il poeta di compagnia» (P. Puppa, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, in E. Cecchi, N. Sapegno [diretta da], Storia della letteratura italiana, nuova edizione accresciuta e aggiornata, Garzanti, Milano 1987-2005, vol. 10 [Il Novecento, t. 2, 1987], pp. 713-864; citazione a p. 764). 46 Cfr. nd, I, p. 108. 47 Cfr. L. Pirandello, Enrico IV, in L. Pirandello, Maschere Nude, a cura di A. d’Amico, Mondadori, Milano 1986-2007, vol. II, pp. 779-866 e note pp. 1053-1332. 48 Ivi, I, pp. 811-812. 44 45
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Donna Fiora. (scalcinata e fanatica) Un capolavoro. A casa, ho pronto il capolavoro. Il capolavoro per lei, per questa sera. Dea. Si può sapere com’è? Donna Fiora. No. Il grande autore non racconta l’intreccio della sua tragedia. Il vestito che le ho preparato, è una tragedia. Lei questa sera viene alle otto al laboratorio, e glielo vedo addosso46.
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quei due disgraziati là (indica i valletti) quando stanno ritti impalati ai piedi del trono, siamo... siamo così, senza nessuno che ci metta su e ci dia da rappresentare qualche scena. C’è, come vorrei dire? la forma, e ci manca il contenuto! [...] siamo qua, vestiti così, in questa bellissima Corte... per far che? niente... Come sei pupazzi appesi al muro, che aspettano qualcuno che li prenda e che li muova così o così e faccia dir loro qualche parola49.
3. La metafora teatrale Parlando del modo in cui Nostra Dea dovrebbe essere messa in scena, nell’introdurre il personaggio di Marcolfo, Bontempelli scrive che «l’elemento più importante di tutto il dramma» è il dialogo che il giovane intrattiene con la protagonista, definito «della impotenza sentimentale e morale»54. Ammaliato e travolto dall’aggressività, vibrante e luminosa, di Dea in tailleur rosso, Marcolfo non riesce quasi a proferire parola, mentre quando ella si reca a trovarlo «col vestito color tortora»55, il suo atteggiamento remissivo, dolce e tranquillo, rende ciarliero l’uomo, che inizia a parlare di sé, una cosa che non gli era mai accaduta56. QuanIvi, I, pp. 785-786. Ivi, I, p. 813. 51 Ivi, II, p. 850. 52 Ivi, III, p. 861. 53 Cfr. U. Artioli, “Enrico IV”, ovvero la tragedia del settimo personaggio, in “Angelo di fuoco”, 3, 2003, pp. 51-64. 54 nota, p. 211. 55 nd, II, p. 116. 56 Cfr. ivi, II, p. 120. 49 50
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Mentre l’uomo che si crede Enrico IV, che già al suo primo apparire si presenta in scena con un evidentissimo «trucco rosso da bambola»50, una volta rinsavito, sceglie di fingersi pazzo e di crearsi da sé quel «contenuto» solo presupposto dagli abiti antichi («Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno»51 dice ai suoi consiglieri), rivestendo così la solitudine, con l’immaginazione, «di tutti i colori e gli splendori di quel lontano giorno di carnevale»52, per Dea, marionetta umana, non può esistere altra vita che quella immaginata dal suo artefice e dai suoi tramiti (Donna Fiora e Anna) che le creano e le mettono addosso gli abiti. Se dal punto di vista di Pirandello il potere dell’immaginazione salva la vita dell’illuminato, dell’eroe solitario che, sapendo diventare “personaggio”, si ritira dal mondo e si contrappone al “coro” dei nescienti53, per Bontempelli, invece, è la donna-manichino, il personaggio universale, ad assumere una funzione salvifica nei confronti degli ignari che la circondano, perché, non avendo una propria coscienza, può nutrire la loro fantasia.
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do poi Dea inizia ad avere freddo, l’uomo la copre con «un grande scialle color cenere»57 osservando contestualmente: «La nasconde tutta. Guardi, fino ai piedi. E fino al mento. Dea non c’è più»58. Un’immagine che, avvalendosi di un passo sostanzialmente analogo di Eva ultima59, rende oggettiva la condizione di non coscienza di Dea in assenza di abiti visibili. In questo modo la protagonista di Bontempelli da donna-manichino torna ad essere la bambola di cui parla Rilke, così sprovvista di fantasia da riuscire ad alimentare l’immaginazione altrui:
O, meglio ancora, Dea richiama la figura dell’automa protagonista del racconto Der Sandmann (1815) (L’uomo della sabbia) di Hoffmann, che nella sua assoluta inattività permette narcisisticamente a Nataniele di fantasticare sul loro amore, sulla loro affinità o sulla rilevante qualità delle proprie creazioni poetiche61. La totale passività indotta nella protagonista dalla coperta cinerea, che ne annulla ogni impulso vitale, non solo sollecita la loquacità di Marcolfo, ma ne stimola anche la creatività. Pensando che Dea desideri che le si narri una favola, l’uomo improvvisa la vicenda di un gatto che, all’interno di un focolare, una notte scambia gli occhi di un altro gatto per due pezzi di brace62. Nel citare in parte una novella natalizia scritta da Gabriele D’Annunzio dal titolo Il tesoro dei poveri (1887)63, in cui sono due vecchietti infreddoliti a scambiare gli occhi di un felino per tizzoni ardenti, il racconto di Marcolfo allude al senso più profondo della commedia. «Il tesoro dei poveri è l’illusione»64, commenta infatti alla fine della Ivi, II, p. 121. Ibid. 59 «[Eva] s’accorse ch’egli [Evandro] le poneva una coperta sul corpo, pianamente, fin quasi sotto il mento, e giù fino ai piedi» (eva, p. 361). 60 Rilke, Bambole, cit., pp. 21-23. 61 Cfr. E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, in E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia e altri racconti, traduzione di G. Fraccari, introduzione di L. Forte, note a cura di M. Bellucci, Mondadori, Milano 1987, pp. 25-58; riferimento alle pp. 52-53. 62 nd, II, p. 121. 63 La novella, siglata dal Duca Minimo, viene pubblicata nella rubrica Favole di Natale di “La Tribuna”, 22 dicembre 1887 (cfr. G. D’Annunzio, Il tesoro dei poveri, in G. D’Annunzio, Tutte le novelle, a cura di A. Andreoli e M. De Marco, Mondadori, Milano 1992, pp. 702-704; nota a p. 1023). 64 «Tutta la notte continuarono a favoleggiare scaldandosi, sicuri omai d’essere protetti dal Bambino Gesù, poiché i due carboni brillavan sempre come due monete nuove e non si consuma57 58
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se ci abbandonavamo a lei non rimaneva allora più nessuno. Nulla essa ricambiava, così eravamo noi indotti ad assumere imprese per lei, a dividere il nostro essere a poco a poco sempre più vasto in parte e controparte, e in certa misura traverso lei staccare da noi il mondo, che indelimitato traboccava dentro di noi. [...] essa era così smisuratamente sprovvista di fantasia, che la nostra immaginazione su di lei si fece inesauribile60.
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vano mai. / E, quando venne l’alba, i due poverelli che avevano avuto caldo ed agio tutta la notte, videro in fondo al camino il povero gatto che li guardava da’ suoi grandi occhi d’oro. / Ed essi non ad altro fuoco s’erano scaldati che al baglior di quelli occhi. / E il gatto disse: – Il tesoro dei poveri è l’illusione» (ivi, p. 704). 65 Sulla definizione di “realismo magico” coniata da Bontempelli si vedano almeno M. Bontempelli, Realismo magico e altri scritti sull’arte, a cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2006; M. Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura e con introduzione di R. Jacobbi, Vallecchi, Firenze 1974. 66 Cfr. Fontanella, Storia di Bontempelli, cit., p. 49. 67 nota, p. 209. 68 Cfr. ivi, pp. 201-202; Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., pp. 223-294; Fontanella, Storia di Bontempelli, cit., pp. 43-49; Airoldi Namer, Massimo Bontempelli, cit., pp. 155-160. 69 Cfr. Barsotti, “Nostra Dea”, l’automa liberty, cit., pp. 237-238.
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storia il gatto dannunziano, e Bontempelli, che pone l’omaggio al Vate abruzzese a suggello del secondo atto della sua commedia, sembra voler abbracciare a fini teatrali un principio del tutto consonante all’insegna dell’immaginazione. La concezione della figura di Dea è una delle modalità con cui il “realismo magico” bontempelliano prende forma a teatro65 proprio perché con lei il meraviglioso «avviene quasi sempre come fatto originale isolato»66, come “scarto” spaesante dal reale. Non a caso, infatti, l’autore comasco a proposito del carattere generale dell’opera scrive: «tutta la messa in scena (scenari e interpretazione) deve scorrere chiara, naturale, innocente [...]. Giocarla come una vera e propria commedia d’intreccio comico, in una atmosfera gradevole e soleggiata, è il solo mezzo di farne risaltare certi sensi e accettare l’aura di paradosso»67. Benché sia stato più volte sottolineato l’atteggiamento discontinuo, ambivalente e conflittuale di Bontempelli nei confronti del teatro68, dunque, la sapiente scrittura metateatrale di Nostra Dea si offre anche come un raffinato campione di poetica della rappresentazione. Nella donna-automa, priva di una propria coscienza e il cui plurimo agire è determinato dai vestiti che le fanno portare, è difficile non ritrovare l’eco di certe istanze artistico-sperimentali e teatrali dei primi decenni del Novecento69. Più che per aderire a una singola corrente (sia essa futurista o surrealista) o per richiamare specificamente le istanze della Supermarionetta di Craig, però, lungi dal rappresentare una figura negativa, nella sua commedia Bontempelli sembra principalmente utilizzare il concetto di marionetta umana per delineare le caratteristiche di un nuovo tipo di artista della scena e del suo ideale rapporto con il pubblico. Un interprete senza stilemi precostituiti o una propria personalità recitativa definita, che possa essere guidato da un autore-regista al pari di una marionetta, estremamente duttile ed ecclettico per poter vestire qualsiasi “abito”, qualunque parte gli sia affidata. Particolarmente significativi a questo proposito sono alcuni passaggi del lun-
La divina donna-manichino di Massimo Bontempelli 61
Vulcano. [...] Vattene. (La butta [la veste gialla] entro l’armadio, e di colpo lo richiude. Poi si ferma d’un tratto, come stupefatto a guardare quell’armadio chiuso. E improvvisamente grida: ma non a voce alta) No: no. Come faccio ora? Senza di te? Di te, di te, di te... (In varie direzioni, sempre verso l’armadio) Aprimi! (Spinge con le palme febbrilmente l’armadio: lo pigia e brancica come una porta chiusa che si voglia forzare) Vieni: torna, torna a me. Perché mi hai lasciato? Son io. Non è vero, non è vero, torna, ti farò giocare con i miei pensieri, vuoi? col mio cuore, prendilo, ma torna, schiava prodigiosa, Dea, torna, non posso vivere senza di te72.
Cfr. nd, IV, pp. 146-149. Ivi, IV, p. 147. 72 Ivi, IV, pp. 148-149. 70 71
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go monologo di Vulcano inserito all’inizio del quarto atto70. All’alba del giorno dopo la festa svoltasi nel terzo atto, l’uomo arriva a casa di Dea. Informato dalla cameriera che la padrona non è ancora rientrata, ribatte che invece è presente e, davanti all’armadio mezzo aperto, inizia a parlare con i suoi vestiti sparsi per la camera. Ritrova così una miriade di versioni di Dea: quella dal tailleur rosso e quella dal vestito color gola-di-tortora; una Dea provocante e sfacciata vestita di giallo, una giovinetta dall’abito rosa e una signora con una mise scura e compunta. Un «Olimpo di dee belle»71 il cui unico elemento comune è rappresentato dal profumo. L’adorazione incondizionata che Vulcano prova per gli abiti di Dea, divina donna-manichino, introduce un ulteriore elemento, che non è affatto secondario nella poetica di Bontempelli: l’attore deve saper solleticare e alimentare l’immaginazione fantastica del suo pubblico per averne in cambio la mente e il cuore:
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Rosario Perricone*
Opra î pupi siciliana: Masterpiece of the Oral and Intangible Heritage of Humanity
* Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo. 1 C. Castoriadis, Une société à la dérive, Seuil, Paris 2005, p. 237. Se non altrimenti indicato le traduzioni si intendono dell’autore dell’articolo. 2 Cfr. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 87-109. 3 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.
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La società contemporanea si identifica con la società della “crescita, per la crescita”. Il capitalismo tout court ha portato a una sempre maggiore divaricazione sociale, dimostrando che la crescita non produce meccanicamente benessere. Cornelius Castoriadis ha evidenziato l’insostenibilità della società della crescita che, oltre alla dilapidazione dell’ambiente e delle risorse naturali, ha portato alla «distruzione antropologica degli esseri umani, trasformati in bestie produttrici e consumatrici, in abbrutiti zapping-dipendenti»1. La generalizzazione dello sviluppo porta alla mutazione dell’homo œconomicus in homo miserabilis (indigente), distruggendo la diversità locale, strappando gli individui al contesto culturale tradizionale e producendo bisogni che non può soddisfare. L’unico modo per riallacciare i fili del legame sociale tra gli individui, secondo Ivan Illich, è la convivialità, punto di convergenza dei diversi «corsi e percorsi della decrescita»2. La vera ricchezza è costituita, infatti, da beni immateriali, relazionali, fondati sulla reciprocità e la condivisione che sono l’esatto contrario della miseria psichica in cui la modernità ha costretto la «folla solitaria» che abita le nostre metropoli. Per mettere in atto quella che Marcel Mauss chiamava «la teoria del dono»3 bisogna allora decolonizzare l’immaginario consumistico e riportare alla ribalta le culture e le “tradizioni locali”. Occorrerebbe riflettere dal punto di vista teorico su una nozione urticante come quella di “tradizione” che tanto dibattito ha prodotto tra gli antropologi, cercando di interrelazionare salvaguardia e sperimentazione di nuovi oggetti e nuovi linguaggi. Negli ultimi decenni gli studi antropologici
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Rosario Perricone
4 B. Palumbo, Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia, Le Lettere, Firenze 2009, pp. 48-49; in particolare cfr. la nota n. 41 (ivi, pp. 66-67), dove l’autore cita i lavori di Boyer che hanno de-essenzializzato la nozione di “tradizione” ridefinendola come un particolare tipo di contesto formale d’enunciazione (cfr. P. Boyer, Pourquoi les Pygmées n’ont pas de culture, in “Gradhiva. Revue d’histoire et d’archives de l’anthropologie”, 7, 1989, pp. 3-17; P. Boyer, Tradition sans trasmission. L’acquisition des concepts traditionneles, in G. R. Cardona (a cura di), La trasmissione del sapere: aspetti linguistici e antropologici, Il Bagatto, Roma 1989, pp. 45-72; P. Boyer, Tradition as Truth and Communication, Cambridge University Press, Cambridge 1990). 5 Cfr. G. Lenclud, La tradizione non è più quella d’un tempo, in P. Clemente, F. Mugnaini (a cura di), Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Carocci, Roma 2001, pp. 123-133. 6 R. Bauman (a cura di), Folklore, Cultural Performances, and Popular Entertainments, Oxford University Press, New York 1992, pp. 29-40. Bauman sottolinea come: «l’interesse per il folklore sbocciato nell’Ottocento è stato un aspetto dello sforzo intellettuale, tipico di quell’epoca di transizione, di comprendere i fondamentali cambiamenti apportati dall’avvento della modernità» (ivi, p. 29).
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hanno sottoposto la nozione di “tradizione” a una massiccia azione di decostruzione «rendendola di fatto inutilizzabile come concetto esplicativo insieme a tutto il fascio di presupposti concettuali e di dicotomie nei quali era avvolta»4. La “tradizione”, che si presuppone essere conservazione, manifesta, invece, una singolare capacità di variazione e consente un ampio margine di manovra a coloro che la “agiscono”. In realtà non è il passato che produce il presente, ma il presente che modella il suo passato. Le pratiche culturali locali non sono una permanenza del passato nel presente, una sovrapposizione in atto, il lascito di un’epoca globalmente conclusa; ma sono essenza del cambiamento in un contesto di innovazione5. Questo nuovo paradigma ha comportato una differenza di approccio e una maniera “non tradizionale” di occuparsi della “tradizione”. Bisogna passare, per usare le parole di Bauman, da una «visione naturalistica della tradizione come eredità culturale radicata nel passato, a una comprensione della tradizione come costituita simbolicamente nel presente»6. La dimensione “arcaica” penetra il nostro presente e costituisce la differenza interna, indica il dinamismo impuro del nostro tempo, che fa del presente il tempo dell’attualità (come direbbe Foucault) e per questo motivo l’arcaico è l’attuale e l’attualità è l’arcaismo del presente nella nostra società “neo-moderna”. Di questa intricata vicenda socio-culturale lo spettacolo dell’Opera dei pupi è testimonianza diretta appartenendo a quel tipo di pratiche culturali che warburghianamente possiamo definire come “la sopravvivenza dell’antichità nella modernità”. Non diversamente dai “fatti sociali totali” postulati da Marcel Mauss l’Opera dei pupi ha il pregio di implodere un articolato complesso di competenze tradizionalmente formalizzate (dal piano materiale a quello espressivo). Si deve osservare che in Sicilia la trasmissione dei saperi è stata il risultato di una costante interferenza tra modelli antichi e moderni, compresenti nei diversi ambienti socio-
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Per una connessione tra le feste e il teatro popolare cfr. G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Pedone Lauriel, Palermo 1881; G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Clausen, Torino-Palermo 1900; G. Isgrò, Festa, teatro, rito nella storia di Sicilia, Cavallotto, Palermo 1981; R. Perricone (a cura di), Mori e cristiani nelle feste e negli spettacoli popolari, Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, Palermo 2005 (Studi e materiali per la storia della cultura popolare, n. 26), con saggi di S. Bonanzinga, I. E. Buttitta, G. D’Agostino, A. Pasqualino e M. Vibaek. Per la permanenza del repertorio cavalleresco in Sicilia cfr. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo 1889, vol. II, pp. 121-341; C. Segre, Schemi narrativi nella “Chanson de Roland”, in C. Segre, La tradizione della Chanson de Roland, Ricciardi, Milano-Napoli 1974; A. Pasqualino, Il repertorio epico dell’opera dei pupi, in “Uomo e cultura”, 3-4, 1969, pp. 59-106; A. Pasqualino, Per un’analisi morfologica della letteratura cavalleresca: “I reali di Francia”, in “Uomo e cultura”, 5-6, 1970, pp. 76-194; A. Pasqualino, I pupi siciliani, Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, Palermo 1975 (Studi e materiali per la storia della cultura popolare, n. 1); A. Pasqualino, L’opera dei pupi, Sellerio, Palermo 1977; A. Pasqualino, Bibliografia delle edizioni cavalleresche popolari siciliane dell’Ottocento, in “Uomo e cultura”, 23-24, 1979, pp. 150-166; R. Perricone, Forma e linguaggi del teatro dei pupi, in L. Allegri, M. Bambozzi (a cura di), Il mondo delle figure. Burattini, marionette, pupi, ombre, Carocci, Roma 2012, pp. 67-77; R. Perricone, I ferri dell’Opra. Il teatro delle marionette siciliane, in “Antropologia e Teatro” (rivista online), 4, 2013 (http://antropologiaeteatro.unibo.it/article/view/3996). 8 V. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 1993, p. 145 (corsivo nostro). 9 Ivi, p. 152. 10 Citato in: ivi, p. 153. 7
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culturali. Ciò ha conferito alle pratiche folkloriche (riti, tecniche, manifestazioni espressive, ecc.) una fisionomia peculiare, non riducibile a opposizioni nette fra strati sociali diversi (egemone/subalterno, rurale/urbano) o tra differenti tecniche di comunicazione (oralità/scrittura)7. Per meglio analizzare la pratica teatrale dell’Opera dei pupi siciliani bisogna assumere quello che in antropologia viene chiamato approccio “processuale”. Victor Turner ha spiegato che un sistema sociale va considerato «come una serie di processi liberamente integrati, con alcuni aspetti che seguono modelli dati, alcune costanti formali, ma controllato da principi di azione contrastanti espressi in regole di costume che sono spesso incompatibili fra loro e che generano situazioni di conflitto sociale»8. Turner, seguendo le regole della linguistica generativa di Chomsky, introduce la dicotomia competenza/esecuzione (performance) che sostituisce la dicotomia funzione/struttura e porta a un cambio di paradigma epistemologico con la svolta postmoderna. «La teoria postmoderna vede proprio nelle incrinature, nelle esitazioni, nei fattori personali, nelle componenti della performance incomplete, ellittiche, dipendenti dal contesto, situazionali, gli indizi della vera natura del processo umano e ritiene che la novità genuina e la creatività emergano dalla libertà della situazione di performance»9. Bisogna esaminare i processi sociali facendo riferimento, come scrive Sally Moore, ai rapporti reciproci che si instaurano fra tre diverse componenti: «i processi di regolarizzazione, i processi di aggiustamento situazionale e il fattore di indeterminatezza»10. Questa triade interpretativa ben si adatta, a mio avviso, all’analisi dei processi
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Fig. 1. Giacomo Cuticchio fu Girolamo durante uno spettacolo, Palermo 1980 ca. (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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Fig. 2. Alfio Isaia e Fiorenzo Napoli, Marionettistica dei Fratelli Napoli di Catania. Foto scattata in occasione dell’edizione di “Rinaldo in campo” con Massimo Ranieri (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
Fig. 4. Mimmo Cuticchio mentre manovra due pupi “a vista” (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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Fig. 3. Giacomo Cuticchio di Girolamo durante uno spettacolo (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
Fig. 6. Nino Insanguine, Catania 1970 c.a. (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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Fig. 5 (a fronte, in basso). Teatro dei pupi catanese, inizi del 1970 (Archivio Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”).
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11 A. Buttitta, Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica, Sellerio, Palermo 1996, p. 231. 12 Ibid. 13 Ivi, p. 243. 14 Cfr. Pasqualino, L’opera dei pupi, cit., pp. 39-48; Pitrè, Usi e costumi, cit. 15 Buttitta, Dei segni e dei miti, cit., p. 243.
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culturali sottostanti l’Opera dei pupi e permette di comprendere come una pratica teatrale “tradizionale” assuma nuove funzioni e sia inserita in nuovi contesti di fruizione. Partiamo analizzando i processi di regolarizzazione, e quindi la struttura dello spettacolo teatrale dell’Opera dei pupi siciliani. Antonino Buttitta ha paragonato lo spettacolo dell’Opera dei pupi siciliani a un rito chiarendo «la differenza sostanziale che passa fra lo spettacolo rituale connesso a credenze religiose e lo spettacolo teatrale orientato in senso profano»11. Esiste un criterio di classificazione tranciante connesso alla natura di queste diverse forme drammatiche: «mentre nel rito è privilegiata la forma del contenuto – fino al punto da far consistere in essa il suo valore –, nel teatro è sentita come prevalente la sostanza del contenuto»12. La forza del primo risiede nella corretta ripetizione di sostanze che si costituiscono come modulo, cioè come forme; il secondo invece deve produrre ogni volta qualcosa di nuovo anche se deve rispettare una trama storicoleggendaria obbligatoria. «Una delle caratteristiche del mito è la sua verità per chi ne è fruitore partecipe, non c’è quindi da stupirsi se le leggende rappresentate dall’opra fossero vissute da pupari e pubblico come fatti veri e se i pupi erano amati o odiati come persone reali»13. In diversi episodi raccontati da Pitrè e da Antonio Pasqualino14 è messa in evidenza la forte carica emotiva che caratterizza il rapporto tra pubblico e personaggi dell’Opera dei pupi. Questi comportamenti «trovano giustificazione nella funzione mitica difatto assunta dalle loro vicende all’interno dell’universo ideologico popolare. [...] I miti non sono soltanto veri, hanno bisogno di ribadire perennemente la loro verità nei riti. Eliade ha insegnato che il rito è la forma operata del mito; i modi della partecipazione del pubblico agli spettacoli dell’opra ne realizzano e ne denunciano la funzione rituale»15. Quali sono le regole di questo rito chiamato Opera dei pupi? Sicuramente l’andamento ciclico, la struttura conflittuale del racconto, la forte caratterizzazione dei personaggi, le svariate strategie sceniche (luci, rumori, musiche) e gli scontri armati (danze cadenzate dal cozzare di spade, scudi e corazze). Tutto questo rendeva “veri” i personaggi e le storie narrate e permette di inserire lo spettacolo dell’Opera dei pupi tra i “drammi sociali” postulati da Victor Turner. Infatti lo schema del “dramma sociale” individuato da Turner bene si adatta alle vicende degli eroi messi in scena negli spettacoli dell’Opera dei pupi sici-
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1. Codici linguistici: sono uno comico (in dialetto siciliano parlato dai personaggi delle farse) e uno eroico (in italiano maccheronico influenzato dalla lingua dei poemi cavallereschi del Quattrocento e del Cinquecento); 2. Codici delle qualità della voce: a) Volume: aumenta con la tensione drammatica della scena; b) Tonalità: si modifica in rapporto alla tipologia dei personaggi (donne, bambini, giovani tonalità più alta o in falsetto; persone mature voci gravi; c) Timbro della voce: chiaro per i personaggi eroici positivi, oscuro e rauco per i personaggi negativi e con voce stridula, in falsetto per il traditore Gano di Maganza; d) Ritmo della voce: l’eloquio dei personaggi eroici è lento e cadenzato per sottolineare l’importanza delle parole e delle frasi che pronunciano; e) Vibrazione della voce: nelle situazioni più drammatiche si fa ricorso al lamentu, un tipo di declamazione in cui le finalis vengono Turner, Antropologia della performance, cit., p. 148. Cfr. A. Pasqualino, Le vie del cavaliere. Dall’epica medievale alla cultura popolare, Bompiani, Milano 1992. 18 Cfr. A. Pasqualino, M. Vibaek, Registri linguistici e linguaggi non verbali nell’opera dei pupi, in R. Tomasino (a cura di), Semiotica della rappresentazione, Flaccovio, Palermo 1984, pp. 109-156. 19 Cfr. P. Bogatyrëv, Il teatro delle marionette, a cura di M. Di Salvo, prefazione di R. Leydi e introduzione di I. Sordi, Grafo, Brescia 1980. 16 17
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liani. Per Turner le performances culturali hanno origine e continuano a trarre linfa vitale dai “drammi sociali”, definiti dallo studioso come «unità di processo sociale anarmonico o disarmonico che nascono in situazioni di conflitto»16. In queste performances sociali il protagonista passa attraverso quattro fasi principali di pubblica evidenza: 1) Rottura dei normali rapporti sociali; 2) Crisi durante la quale la società è costretta ad affrontare il problema del caos e del limen generato dal protagonista; 3) Azione riparatrice, che può essere realizzata attraverso il linguaggio razionale del processo giudiziario o il linguaggio metaforico e simbolico del processo rituale; 4) Reintegrazione nel gruppo sociale del ribelle o legittimazione della separazione e della creazione di un nuovo ordine. Queste quattro fasi si trovano presenti nelle vicende che coinvolgono i personaggi principali della Storia dei Paladini di Francia, Orlando e Rinaldo (si pensi alla pazzia del primo e all’ammutinamento del secondo e al loro reintegro nella comunità dopo le azioni riparatrici)17. Antonio Pasqualino e Marianne Vibaek18 hanno individuato e raccolto in un unico corpus il sistema di unità utilizzato e le regole che governano l’uso e la pratica dello spettacolo dell’Opera dei pupi siciliani. Illustrando i sette codici e le due tipologie di messinscena individuate nello spettacolo, ricordano che la marionetta che si muove sul palcoscenico è un segno di segno, come afferma Bogatyrëv19, e che la voce del marionettista è l’unica intromissione umana in uno spettacolo ipersegnico:
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Rosario Perricone
Tipologia dei personaggi e dei luoghi: il codice figurativo, elemento principale di questa tipologia, si intreccia con quelli linguistico, dei rumori, delle
20 Cfr. S. Bonanzinga, Suoni e musiche del teatro siciliano dei “pupi”, in D. Parisi (a cura di), Il teatro delle marionette tra est e ovest, Università degli Studi di Palermo-Facoltà di Lettere e Filosofia, Palermo 2008, pp. 53-74. 21 Per una descrizione completa di questo codice molto complesso si rimanda agli studi di Antonio Pasqualino, in particolare cfr. Pasqualino, L’opera dei pupi, cit., pp. 102-105. 22 Per una descrizione completa della costruzione dei pupi siciliani cfr. A. Pasqualino, Come si costruisce un pupo, in “Quaderni del circolo semiologico siciliano” (La cultura materiale in Sicilia, Atti del II Congresso internazionale di studi antropologici), 12-13, 1980, pp. 533-553; A. Pasqualino, I pupari e i costruttori di pupi, in A. Buttitta (a cura di), Le forme del lavoro, Flaccovio, Palermo 1988, pp. 400-414; G. Aiello, I pupi di Palermo, in S. G. Giuliano, O. Sorgi, J. Vibaek (a cura di), Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Paqualino, Regione Siciliana-CRicd, Palermo 2011, pp. 67-71; Perricone, I ferri dell’Opra, cit., pp. 7-16.
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allungate, proprio come avviene nei canti della Settimana Santa o nei canti dei carrettieri siciliani; 3. Codice dei rumori e dei suoni vocali inarticolati: quello più importante è prodotto dai colpi dello zoccolo del manovratore sul tavolato del palcoscenico; insieme al fragore delle armi, enfatizzano i diversi ritmi della battaglia o i movimenti più drammatici. Poi ci sono il rumore di catene o il tuono che segnalano l’arrivo dei demoni e i versi degli animali come suoni inarticolati prodotti dalla voce del marionettista; 4. Codice delle musiche: quando la scena è priva di dialogo, il pianino a cilindro svolge il ruolo da protagonista. In particolare nel Palermitano ci sono delle “sonate” che accompagnano le battaglie o la morte dei paladini. Nelle battaglie vengono suonati la tromba di conchiglia e il tamburo20; 5. Codice delle luci: nel Palermitano è molto elementare; la maggiore o minore luminosità distingue il giorno dalla notte e la luce rossa segnala l’arrivo del diavolo. Altri effetti di luce sono legati all’inventiva dell’oprante, che soprattutto nell’area catanese utilizza le luci in maniera molto sofisticata, come nel teatro di attori; 6. Codice cinesico: sono stati formalizzati circa cinquanta movimenti e gesti altamente stilizzati che comunicano anche una emozione o un atteggiamento21; 7. Codice figurativo dei personaggi, degli oggetti e dei luoghi: è costituito dai caratteri fisionomici, dalla foggia e dai colori delle vesti, dagli emblemi individuali, dalle striature dell’armatura, ecc. La differenza fondamentale è tra i cristiani e i saraceni: i primi hanno visi più aggraziati e gentili, i secondi sgraziati e brutali22. I luoghi seguono questa distinzione tra Occidente e Oriente attraverso un’identificazione dello stile architettonico orientale e la presenza delle mezze lune.
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23 A. Pasqualino, I pupi siciliani, edizione aggiornata, Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, Palermo 2003 (Studi e materiali per la storia della cultura popolare, n. 25), p. 17; cfr. anche A. Pasqualino, Tradizione e innovazione nell’opera dei pupi contemporanea, in “Quaderni di teatro” (I pupi e il teatro), 13, 1981, pp. 5-13; J. Vibaek, Riproporre il teatro popolare? Ipotesi e problemi, in “Uomo e cultura”, 19-22, 1977-1978, pp. 261-265. 24 Cfr. J. Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 1976; J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1984.
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musiche, delle luci e dei movimenti. La tipologia dei luoghi è determinata dal codice figurativo che si interseca con quello linguistico (i luoghi vengono nominati durante la messa in scena e un bosco generico diventa un bosco particolare, perché i personaggi lo indicano). Dopo avere analizzato la prima componente della triade interpretativa dei processi sociali passiamo adesso alla seconda componente individuata dalla Moore: il processo di aggiustamento situazionale. Per far questo bisogna ricordare che i gestori dei teatri svolgevano tutte le attività connesse alla messa in scena: manovravano e davano la voce ai pupi, talvolta li costruivano e riparavano, dipingevano le scene e i cartelloni pubblicitari. Le recite avevano carattere quotidiano e potevano durare fino a un intero anno. Alla fine degli anni Cinquanta, a causa della diffusione del cinema e della televisione e alla disgregazione del tessuto urbanistico e sociale dei quartieri, dove i teatri dei pupi insistevano, lo spettacolo dell’Opera dei pupi «ha attraversato un periodo di grave crisi. Molti pupari hanno venduto i loro pupi, altri, svenduti i paladini ad antiquari e turisti, o messili da parte, hanno cambiato mestiere, pochi hanno continuato, tra stenti e sacrifici. Vi fu un momento, all’inizio degli anni Sessanta, in cui a Palermo non c’era nemmeno un teatro aperto. A Catania e in provincia la situazione non era migliore»23. Questo panorama sociale è il risultato di quello che Baudrillard identificava come il principio di una rottura fondamentale tra le società moderne e postmoderne. Le società moderne erano caratterizzate dalla differenziazione, le società postmoderne sono caratterizzate dalla de-differenziazione. Si vive in un mondo della simulazione in cui legami e distinzioni sociali che erano importanti – come quelli tra classi sociali, generi e potere – perdono pregnanza e si assiste all’implosione, l’uno nell’altro, dei campi dell’economia, della politica, della cultura24. In questo contesto socio-culturale l’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, fondata nel 1965 da un gruppo di intellettuali siciliani (tra i quali Renato Guttuso, Antonino Buttitta, Antonio Pasqualino), stimolò le autorità turistiche locali ad elargire dei modesti contributi ai teatri dei pupi e così alcuni pupari ripresero l’attività e trovarono nei turisti un nuovo pubblico (figg. 5-6). Anche i mass-media in seguito si sono occupati ripetutamente delle marionette siciliane, risvegliando un notevole interesse di pubblico. Pasqualino ricorda che:
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Rosario Perricone
L’interesse del largo pubblico per gli spettacoli di Opera dei pupi siciliani e particolarmente quello di insegnanti e di operatori teatrali di diversa estrazione hanno maturato nei pupari una nuova coscienza professionale. L’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari nel 1975 istituì il Museo internazionale delle marionette (frutto di dieci anni di ricerche sull’Opera dei pupi) e il Festival di Morgana. Rassegna di opera dei pupi e di pratiche teatrali tradizionali, che ha dato un nuovo impulso alla creazione, da parte dei pupari, di un nuovo repertorio. Le difficoltà del lavoro di adattamento dello spettacolo dei pupi al pubblico contemporaneo erano principalmente di due ordini: bisognava reimpostare i codici tradizionali della messinscena e costruire spettacoli che presentassero, in una sola sera, una vicenda già conclusa. Per fare questo lavoro bisognava avere una conoscenza approfondita della storia e padronanza dei codici di messinscena dell’Opera dei pupi, come abbiamo visto prima. Lo spettacolo fu allora decostruito e ricomposto adattando i codici di messinscena alle nuove esigenze di pubblico senza rinnegare la tradizione. Questa sfida fu intrapresa e vinta da poche famiglie di pupari, tra le quali l’Associazione Figli d’Arte Cuticchio di Mimmo Cuticchio, di Palermo, e la Compagnia Marionettistica dei Fratelli Napoli, di Catania (figg. 1-4 e tav. 3). In quest’ultimo caso, vista la grandezza dei pupi e del relativo teatro, si è realizzata anche una modifica strutturale del pupo con la costruzione dei cosiddetti “pupi piccoli” di 80 cm, ridotti nelle dimensioni; questo consentì alla compagnia catanese di confrontarsi con un numero sempre maggiore di spettatori in quanto diventava più facile eseguire la rappresentazione in ambienti ristretti (palestre e teatri scolastici, sale parrocchiali o di circoli culturali). Mantenendo assolutamente intatti codici, regole e tecniche della messinscena tradizionale, queste modifiche permisero ad un nuovo pubbli25
Pasqualino, I pupi siciliani, edizione aggiornata, cit., pp. 18-19.
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In quel periodo la rinascita dell’opera dei pupi era ancora un fatto iniziale e incerto. Questa ripresa nasce con un mutamento di pubblico che tende a trasformare profondamente lo spettacolo. Il successo dell’opera dei pupi era legato al suo pubblico naturale: il popolo dei quartieri più poveri delle città e dei villaggi, che seguiva gli intrecci a puntate, ogni sera, per mesi e mesi. [...] il pubblico tradizionale dell’opera dei pupi è stato sostituito da turisti e da borghesi in cerca di colore. [...] Di fronte a un pubblico che si accosta al fenomeno senza capacità e volontà di leggerne i significati, la vicenda si svuota e [...] ciò ha inciso negativamente sul carattere e sulla qualità delle rappresentazioni, inducendo molti pupari a confezionare esibizioni per una sola sera, tutte impostate su effetti spettacolari. [...] la ripresa dell’opera dei pupi si è consolidata, l’interesse attorno ad essa è notevolmente cresciuto, la collaborazione col mondo della scuola si è intensificata. Diverse compagnie di vecchi opranti si sono ricostituite per iniziativa dei figli e agli spettacoli di tradizione da più parti si tenta di abbinare una ricerca d’innovazione25.
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Per una ricostruzione storica completa ed esaustiva sull’Opira dei pupi a Catania cfr. B. Majorana, Pupi e attori ovvero l’Opera dei pupi a Catania. Storia e documenti, Bulzoni, Roma 2008; A. Napoli, Il racconto e i colori. “Storie” e “cartelli” dell’Opera dei Pupi catanese, Sellerio, Palermo 2002; A. Napoli, I pupi del “mestiere” di Natale Meli, in Giuliano, Sorgi, Vibaek (a cura di), Sul filo del racconto, cit., pp. 143-171. 27 Cfr. V. Venturini (a cura di), Dal Cunto all’Opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio, Audino, Roma 2003. 28 Cfr. L. Allegri, Per una storia del teatro come spettacolo: il teatro di burattini e di marionette, Università di Parma-Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1978 (Quaderni di Storia dell’Arte, n. 10). 26
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co (giovani studenti, professionisti e uomini di cultura) di affezionarsi all’Opira î pupi (come si chiama a Catania)26; un percorso completamente diverso, come vedremo, intraprese invece Mimmo Cuticchio (fig. 4). Questi meccanismi di aggiustamento della tradizione sono collegati alla terza componente processuale postulata dalla Moore, il fattore di indeterminatezza. Questo ultimo fattore è interdipendente dai molteplici fattori che condizionano lo sviluppo della vita dei singoli, che intrecciandosi con la macro-storia generano elementi di assoluta novità. Caso emblematico di questo terzo fattore nell’Opera dei pupi è Mimmo Cuticchio, che può essere considerato esempio massimo del fattore di indeterminatezza: la sua vicenda personale ha inevitabilmente condizionato lo sviluppo e la persistenza del teatro dell’Opera dei pupi. Mimmo Cuticchio, partendo dai meccanismi linguistici del teatro dell’Opera dei pupi, che come abbiamo visto sono l’estrema convenzionalità, la struttura paratattica e la comunanza di intenti con il pubblico, ha sperimentato e trasportato il teatro dell’Opera dei pupi all’interno delle avanguardie artistiche del Novecento27. I meccanismi linguistici del teatro dell’Opera dei pupi sono gli stessi che hanno dato l’avvio alla rivoluzione teatrale novecentesca, che non è fatta di sintassi ma di paratassi. La cultura novecentesca è una cultura fortemente antinaturalistica; dalla frattura delle avanguardie storiche in avanti, assistiamo a una divaricazione tra la realtà e l’arte. Mentre nell’Ottocento si cercava di avvicinare il più possibile la realtà e la rappresentazione, a partire dalla frattura messa in atto dal Simbolismo si assiste a una divaricazione: l’arte prende un’altra strada. Il teatro di figura è sopravvissuto e si è mantenuto per tutto il Novecento proprio perché è diventato tutto questo: antinaturalistico, paratattico e anticonvenzionale; e, pur essendo antichissimi, i suoi codici sono diventati il fulcro delle avanguardie novecentesche28. Questa articolata, complessa e conflittuale storia culturale ha permesso all’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari - Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di promuovere la candidatura presso la commissione italiana dell’Unesco dello spettacolo dell’Opera dei pupi siciliani come Masterpiece of the Oral and Intangible Heritage of Humanity. Dopo una
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Rosario Perricone
29 Cfr. J. Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1986; F. Hartog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienza del tempo, Sellerio, Palermo 2007. 30 Cfr. E. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1983; M. Kilani, L’invenzione dell’Altro. Saggi sul discorso antropologico, Dedalo, Bari 1994. 31 Cfr. E. Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, Il Mulino, Bologna 1990 [19821]; J. Fabian, Il tempo e gli altri, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000; J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999; A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001. 32 Cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997; C. Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Einaudi, Torino 2004. 33 Cfr. P. Clemente, Il terzo principio della museografia: antropologia, contadini, musei, Carocci, Roma 1999; Palumbo, Politiche dell’inquietudine, cit. 34 Traduzione: «Interrompiamo la storia e domani riprendiamo».
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lunga istruttoria iniziata nel 1997 e terminata nel 2001, lo spettacolo dell’Opera dei pupi siciliani è stato riconosciuto Masterpiece of the Oral and Intangible Heritage of Humanity. A più di dieci anni dal riconoscimento Unesco, l’Opera dei pupi siciliani si è adattata alla crescente pressione dei modelli del gusto e del comportamento dettati dal “villaggio globale”. Nonostante la scarsa attenzione delle istituzioni pubbliche, le compagnie di opranti sono aumentate uscendo dalla marginalizzazione che le connotava, creando nuove imprese teatrali attive e produttive. Un esempio sono sicuramente due nuove compagnie nate e ampliate dopo il 2001: la Compagnia Carlo Magno di Enzo Mancuso, di Palermo (tav. 2), e la Compagnia dei pupari Vaccaro-Mauceri, di Siracusa. Questo nuovo modello di patrimonializzazione della tradizione, che vede nell’Opera dei pupi siciliana un oggetto privilegiato, ha consentito di avviare su questo argomento un’analisi sia di tipo diacronico che sincronico e di approfondire, attraverso gli attori sociali coinvolti (operatori teatrali, operatori culturali e amministratori pubblici), i processi di istituzionalizzazione e di oggettivazione della cultura e di collegarli anche all’uso del teatro all’interno del più vasto mondo della cultura siciliana. I quadri concettuali di riferimento in questo cammino di ricerca sono delimitati dalla prospettiva antropologica consolidatasi a partire dagli anni Ottanta del Novecento nei quali con sempre maggiore attenzione si indagano i rapporti tra forme di rappresentazione storiografica e/o antropologica29, strategie di invenzione e di costruzione della “tradizione”30 e della sua problematizzazione31 connesse ai concetti di “memoria culturale” e “luogo della memoria”32 e di patrimonializzazione delle “tradizioni”33. Questa però è un’altra storia e come declamavano i narratori di piazza alla fine della serata: “cca la lassamu e dumani l’arripighiamu”34.
Paola Conti*
Nino Pozzo: l’arte di un burattinaio veronese del Novecento
Matteo (Nino) Pozzo nasce il 7 dicembre 1901 a Verona, in piazza Cittadella. Frequenta le scuole professionali Zannoni e la filodrammatica interna. Assiste alle rappresentazioni del grande burattinaio Francesco Campogalliani nel teatro della scuola “Alle Stimate”. Successivamente si avvicina al Patronato Stimate, che educò 1.400 studenti-lavoratori dal 1905 al 1925, e collabora con la sezione Arte-Teatro1. Dal 1918 al 1920 occupa anche il posto di bibliotecario presso il Patronato operaio delle Stimate. Nei primi anni Venti entra a far parte della Compagnia teatrale Ellero, una filodrammatica che si esibiva soprattutto al Teatro Stimate. Vi rimarrà per un trentennio, recitando in particolare in un dramma sacro sulla Passione di Cristo, poi Trilogia del Calvario, portata in scena ogni anno nei teatri parrocchiali fino al 1948, quando fu rappresentata al Teatro Romano. Nel 1923 fonda il Teatro Mondo Piccino (TMP). Poco dopo iscrive la Compagnia all’Opera Nazionale Dopolavoro (OND): esiste una ricevuta, priva di data, del rilascio di 11 tessere2. In quegli anni l’attività teatrale a Verona è intensa; si succedono sui palcoscenici cittadini: Eleonora Duse, Ermete Zacconi, Paola Borboni, Angelo Musco, Dina Galli, la Compagnia Doriglia-Palmi, Emma Gramatica. Si recitano le operette che Pozzo proporrà con i burattini: La pianella perduta nella neve e Don Gil dalle calze verdi (per Pozzo: Don Gil dalla barba ble). * Università di Verona. 1 Testimonianza orale di padre Pio Odorizzi, direttore fino al 2005 del Cinema Stimate dell’Istituto. 2 Questa ricevuta, insieme alla gran parte dei testi e della documentazione di proprietà di Nino Pozzo, fa oggi parte dell’archivio privato di Marco Campedelli (d’ora in poi archivio campedelli) da noi minuziosamente consultato per la stesura di questo intervento. Alcuni dei burattini della collezione di Nino Pozzo conservati da Campedelli sono ritratti alle tavv. 4-11 (foto di Marco Ambrosi, www.marcoambrosi.com).
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1. Notizie biografiche
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Paola Conti
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Nel 1926 nasce l’Opera Nazionale Balilla (ONB), che incorpora ragazzi dagli 8 ai 14 anni e che diviene dal 30 marzo 1928, con provvedimento del Consiglio dei ministri, l’unica associazione laica esistente e protetta dal Partito Nazionale Fascista. Prima alle dipendenze del Ministero dell’Educazione Nazionale, l’ONB verrà assorbita dalla Gioventù Italiana Littorio (GIL) nel 1937. Il regime fascista intende esercitare il monopolio della formazione della gioventù e Pozzo dichiara a più riprese di aver ottenuto l’approvazione del Ministero dell’Educazione per la sua attività. Compaiono i primi gruppi rionali, non ancora organizzatori di spettacoli ma che lo diventeranno presto. La politica fascista di massa diventa il fulcro del sistema, nel cui quadro il dopolavoro occupa un posto decisivo, insieme ad una serie di iniziative di tipo sociale, sportivo, ricreativo. Si creano spazi che Pozzo occuperà come burattinaio, trovando platee di centinaia di balilla. Nascono, figlie del dopolavoro, ma in egual misura anche delle parrocchie, numerose filodrammatiche, che divideranno con Pozzo gli spazi creati dal regime e dalle parrocchie per le attività ricreative; esse necessitano di una regolamentazione ufficiale, realizzata nel 1929 con la nascita della Federazione filodrammatica dell’OND, presieduta dal colonnello Enrico Grassi. Viene indetto il primo concorso provinciale per le associazioni filodrammatiche dell’OND di Verona e provincia. Il dopolavoro ferroviario apre il suo teatro in piazza Redentore. Sulle scene veronesi recitano in questo periodo la Compagnia Bragaglia, Dario Nicodemi, Cesco Baseggio, Wanda Capodaglio, Ettore Petrolini, mentre si aprono nuove sale cinematografiche in coincidenza con l’arrivo dei primi film sonori. La prima metà degli anni Trenta vede Pozzo impegnato soprattutto nei teatri parrocchiali e secondariamente nelle scuole, per la maggior parte istituti privati religiosi. A partire dal 1930 si intensifica la ritualità del regime con adunate, sfilate, riviste, celebrazioni, ma anche la sua penetrazione capillare nella vita sociale e nell’organizzazione del tempo libero, che viene progressivamente corporativizzata grazie anche all’inaugurazione di nuovi dopolavoro rionali e aziendali e all’apertura di colonie elioterapiche estive, che costituiranno un ulteriore bacino di utenza per Pozzo. L’OND indice il primo concorso filodrammatico per nuovi lavori teatrali e la diocesi scaligera un concorso per filodrammatiche. Nel 1934 si inaugura a Verona la nuova Casa del Balilla e presso il Teatro Nuovo si programma una proiezione cinematografica settimanale per il “Giovedì del Balilla”. Nel 1942 il Teatro Stimate organizzerà i “Giovedì del Ragazzo” per le scuole, che includono spettacoli di burattini del TMP. La Casa del Soldato organizza intrattenimenti per quattro giorni la settimana. Per Pozzo i dopolavoro diventano la principale committenza: si rovescia numericamente il rapporto tra spettacoli di parrocchia e dell’OND (1930: 20 parrocchie, 8 dopolavoro; 1937: 29 parrocchie, 18 dopo-
Nino Pozzo: l’arte di un burattinaio veronese del Novecento 79
2. Nino Pozzo attore Per due decenni Nino Pozzo vive in quella zona di interscambio e contiguità tra baracca e palcoscenico che non è infrequente nel mondo dei burattinai del Novecento3. Le motivazioni che portano a questo doppio percorso possono es3 Ne sono esempio Alberto Giacomazzi, Francesco Campogalliani, Augusto e Dina Galli, Giuseppe Novello, Ciro Bertoni, Bruno Lanzarini e gli attori della Compagnia dei Burattini in persona.
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lavoro; 1939: 5 parrocchie, 35 dopolavoro; 1941: 5 parrocchie, 48 dopolavoro; 1943: 19 parrocchie, 37 dopolavoro). Nel 1937 Pozzo lascia l’esattoria in cui lavora da quindici anni per diventare burattinaio professionista. I primi anni di guerra, segnati dalla precarietà, sono anche quelli in cui è più intensa l’attività di Pozzo. I giornali gli dedicano ampi articoli con fotografie. Si moltiplicano spettacoli e intrattenimenti per i soldati. Tra la seconda metà del 1944 e il 1945, a causa del precipitare degli eventi bellici, del coprifuoco, dei bombardamenti, l’attività spettacolare in città si riduce drasticamente: l’ultimo spettacolo del TMP del 1944 è rappresentato al Teatro Opera Balilla il 28 ottobre; il primo e forse unico spettacolo di Pozzo dell’anno seguente va in scena il 4 marzo. Nel 1946 Pozzo riprende l’attività come l’aveva iniziata, con le parrocchie, riferimento importante nella società veronese. Spariscono i dopolavoro ma sono sostituiti dai Circoli Ricreativi Aziendali Lavoratori (CRAL) e da associazioni che organizzano le stesse fasce sociali. I partiti, le piazze, i ristoranti, le osterie sono i nuovi committenti. La guerra è un segnatempo: per un burattinaio, però, il vero segnatempo sono gli anni Cinquanta, che registrano perdita di capillarità e quasi estinzione per molti burattinai. Sono anni di rinascita, invece, per il TMP; Pozzo trova un suo pubblico estremamente omogeneo nel mondo della scuola: un cambio di utenza e forse di stile. Ottiene una modesta sovvenzione dal Ministero dello Spettacolo. Partecipa a vari festival nazionali dei burattini: nel 1951 a Bologna, nel ’67 a Mantova e a Parma e nel ’68 a Ferrara, sempre con Le avventure di Fasolino, suo cavallo di battaglia. Nel 1964 va in scena con i suoi burattini in Arena, nel Mefistofele allestito da Herbert Graf. Nel 1973, cinquantesimo anno di attività della compagnia, Ettore Campogalliani consegna a Pozzo una medaglia idealmente proveniente dal padre Francesco. Il 27 maggio 1980 il sindaco Gozzi consegna a Pozzo la Medaglia della Città quale riconoscimento della sua opera di creatore e animatore di burattini. Nel 1982 si comincia a girare un film sulla sua vita, mai completato. Muore l’11 gennaio 1983. Chiede che durante l’ufficio funebre venga suonata Luci della ribalta di Chaplin e vuole essere seppellito con due suoi burattini.
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3. Campogalliani e Pozzo: un’eredità Francesco Campogalliani nasce a Ostellato (Ferrara) nel 1870 e muore a Mantova nel 1931. È l’ultimo e il più noto rappresentante di una delle maggiori dinastie di burattinai italiani, iniziata con Luigi Rimini Campogalliani (Carpi, 1775 - Modena, 1839). L’apice del successo e della capacità professionale fu raggiunto da Campogalliani nel primo trentennio del Novecento. Egli rivalutò il teatro dei burattini prendendo le distanze dallo spettacolo di piazza e portandolo nei teatri, scelta condivisa, almeno in parte, da Pozzo. In questa sua “riforma” puntò sugli eroi popolari Fasolino e Sandrone, che anche il burattinaio veronese adottò poi come i personaggi più presenti del suo teatro. Campogalliani era convinto assertore della funzione etica e formativa del teatro dei burattini, convinzione alla quale Pozzo aderiva completamente, come appare evidente da una lettera del 3 luglio 1968 a Giordano Ferrari, figlio del
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sere molteplici: motivi di salute, vicende personali, facilità dell’allestimento dello spettacolo, disponibilità economica. Ma la possibilità di muoversi in entrambi gli ambiti, teatro di persona e teatro di figura, è probabilmente data dalla natura intrinseca di attore del burattinaio, e di Nino Pozzo in particolare. Esistono pochi documenti riguardanti l’attività di Nino Pozzo come attore: lui stesso non conserva che pagine sparse di dialoghi e copioni e una copia di “Vita Veronese” che lo cita. Benché poco evidente, l’attività ci fu: nel 1925 la Compagnia Ellero porta in scena un dramma sacro al Teatro Stimate. Nino Pozzo è tra gli attori. Il dramma, che poi evolverà in La trilogia del Calvario, viene rappresentato successivamente anche in altri teatri parrocchiali; nel 1933 buona parte della Compagnia del TMP (Aligi Miolato, Luigi e Mario Barbieri, Giorgio Gaspari, Alfredo Casati, Nino Pozzo) recita con la Filodrammatica Ellero. Nino Pozzo compare anche in un successivo allestimento della Ellero dello stesso anno, El primo de april. Sulla base di una nota del 1943 del suo libro contabile si può supporre che Pozzo in quegli anni abbia collaborato anche con la Filodrammatica di Avesa. Del 1948 è In pretura, farsa in persona interpretata da Pozzo, Emilio Malaman, Carlo Soave, Ezio Bellotti, per l’ultimo di carnevale all’Istituto Seghetti. Dell’anno successivo è La consegna di russare, ancora una farsa in persona interpretata da Carlo Bello, Aldo Isolani, Ezio Bellotti, Nino Pozzo, ugualmente rappresentata presso l’Istituto Seghetti. Anche quando non recita più, Pozzo mantiene intatto un grande interesse per il teatro di persona: lo testimoniano la grande quantità di ritagli di giornale e locandine teatrali da lui conservate, relative al teatro veronese dal dopoguerra agli anni Settanta.
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4 Cfr. Il Castello dei Burattini / Museo Giordano Ferrari di Parma, Archivio Fondo Giordano Ferrari, collocazione 131/1/12. Italo Ferrari (1877-1961), burattinaio parmense, è l’inventore del popolare carattere di Bargnocla. Il figlio Giordano (1905-1987), che ne raccolse l’eredità, collezionò un’ingente quantità di testimonianze e documenti sul teatro dei burattini, che costituisce il nucleo del museo parmense a lui intitolato. 5 Nel 1901 fu a Verona anche Ugo Campogalliani, cugino di Francesco, in una trionfale tournée di sei giornate con 9.000 spettatori. Cfr. R. Bergonzini, C. Maletti, B. Zagaglia, Burattini e burattinai, Mundici Zanetti, Modena 1980, p. 109. 6 “Gazzetta di Mantova”, 15 dicembre 1904. 7 In mancanza di chiarimenti da parte di Pozzo, si può ipotizzare che il termine derivi da “filosseri”, cioè coloro che partecipavano al “filò”, momento di riunione della comunità rurale nelle stalle per raccontare fiabe e storie del paese, scambiare pettegolezzi e tener d’occhio i corteggiamenti tra i giovani.
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grande Italo4. In essa Pozzo sostiene che il teatro dei burattini deve essere animato da impegno morale e didattico, e proprio per questo il suo pubblico ideale è quello infantile, anche se un pubblico adulto e competente risulta di maggiore soddisfazione. Campogalliani lavorò soprattutto in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto; fu ripetutamente a Verona a partire dal 19015, spesso al Teatro Stimate: fu proprio in questa sede, come già si è accennato, che Pozzo scoprì la propria vocazione di burattinaio, assistendo ai suoi spettacoli. L’arte di Campogalliani si distingueva per la raffinatezza del dialogo, per la conoscenza di moltissimi dialetti e per la rara «capacità di animare fino a 15 personaggi»6, cambiando contemporaneamente voce e intonazione. Fu caratteristica e vanto anche di Pozzo la capacità di dar voce nello stesso spettacolo a molti personaggi, tra cui alcune voci bianche: fino a sei o otto. Lo spettacolo-tipo di Campogalliani, come quello di Pozzo, era costituito da una commedia o da una farsa in più atti a cui faceva seguito un duetto comico o un dialogo cantato; si concludeva con un balletto. Quest’ultimo, recente introduzione nello spettacolo dei burattini, era detto “alla bolognese” da Campogalliani e “alla filosser” da Pozzo7. Campogalliani si ritirò dalla baracca nel 1929 per motivi di salute, lasciando un repertorio, in parte condiviso da Pozzo, di un centinaio di commedie. Si tratta di spettacoli appartenenti per lo più alla tradizione emiliano-romagnola, a loro volta spesso derivanti da canovacci e scenari della Commedia dell’Arte, ma anche da operette e drammi di fine Ottocento. L’avaro e La quarta moglie derivano da Il vecchio avaro di Basilio Locatelli; L’isola incantata o Fasolino nell’isola incantata deriva dallo scenario della Commedia dell’Arte Arlecchino nell’isola incantata; La Gran Via è una zarzuela spagnola già entrata nel repertorio dei bresciani fratelli Prandi; Fasolino in Cuccagna o Fasolino nel mondo della Cuccagna o La Cuccagna di Fasolino deriva da uno scenario della Commedia dell’Arte; Fasolino medico per forza o Fasolino medico
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8 «Riconoscimento significativo» (“L’Arena”, 3 novembre 1942); «Il Maestro E. Campogalliani ha rimesso al camerata veronese Nino Pozzo una lettera nella quale dice: regalo a Voi ben volentieri ciò che appartenne fino a ieri al mio povero padre, perché vi ritengo l’artista più degno e più perfetto per possedere tali cimeli artistici. Si tratta di tutti gli effetti teatrali del compianto Francesco Campogalliani» (“Il Corriere Padano”, 20 novembre 1942); «L’investitura del figlio del grande burattinaio [...] il quale ha chiamato il nostro Nino Pozzo a Mantova, dicendo di essere convinzione sua e dei suoi che nessuno meglio di lui, per le degne e preziose prove che viene offrendo da anni, potrebbe continuare [...] la tradizione dell’arte del loro caro. Gli affidava i preziosi cimeli artistici dello scomparso e tutta la dotazione degli scenari e dei burattini» (“L’Avvenire d’Italia”, 14 dicembre 1942, cronaca di Verona). 9 Il Castello dei Burattini / Museo Giordano Ferrari di Parma possiede burattini appartenuti a Luigi, Paolo, Ugo, Arturo e soprattutto a Francesco Campogalliani.
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e chirurgo o Belfagor ovvero Fasolino medico per forza deriva dalla Favola di Belfagor arcidiavolo di Niccolò Machiavelli; Il pappagallo della Filippa è una farsa dialettale bolognese dialogata da Augusto Galli. E l’elenco potrebbe proseguire, perché la circolazione dei testi e la loro rielaborazione personale erano pratica comune nella costruzione del repertorio dei burattinai. Come molti artisti di figura non appartenenti a una tradizione familiare, Pozzo intraprese il mestiere rifacendosi all’esempio di un grande, che nel suo caso era appunto Campogalliani. Il burattinaio veronese volle sempre ribadire questa paternità ideale, dichiarata con convinzione fino alla fine della carriera e ripresa dalla stampa degli anni Trenta e Quaranta che lo definiva, di volta in volta, “emulo”, “erede”, “successore”, “discepolo”, “seguace” del grande Campogalliani. “L’Avvenire d’Italia”, “La Voce di Mantova”, “Il Gazzettino” dedicano ampi articoli alla visita alla tomba di Campogalliani effettuata da Pozzo e collaboratori nel 1939. L’anno successivo, nell’esporre la sua programmazione nel pieghevole di inizio stagione, Pozzo dichiara di seguire scuola e insegnamenti del Maestro Campogalliani. Ma il fatto più significativo, che costituisce una sorta di certificazione ufficiale del rapporto di Pozzo con Campogalliani, è la donazione di materiali appartenuti al maestro mantovano, avvenuta per mano del figlio Ettore nel 1942. Ne danno notizia i giornali dell’epoca8. L’archivio Campogalliani è attualmente in riordino e accessibile solo alla curatrice, Francesca Campogalliani, figlia di Ettore e nipote di Francesco; al momento non risulta alcuna documentazione di rapporti diretti fra i due burattinai. È probabilmente eccessivo ritenere che Pozzo sia entrato in possesso di tutti i materiali appartenuti a Campogalliani; di fatto l’archivio Campogalliani contiene solo materiale cartaceo e i suoi burattini sono dispersi: 9, precedentemente conservati al Teatro alla Scala di Milano, si trovano presso la Cittadella della Musica a Mantova; 5 sono in possesso della nipote Francesca; una testa si trova alla Biblioteca Teresiana di Mantova; 23 burattini più 14 teste si trovano nel Castello dei Burattini di Parma9; alcuni sono di proprietà di Paolo Zoppi, amico veronese di Pozzo; una decina, insieme alla gran parte dei burattini e degli scenari di Poz-
Nino Pozzo: l’arte di un burattinaio veronese del Novecento 83
zo, sono in possesso di Marco Campedelli, allievo del burattinaio veronese (tavv. 4-12); qualche burattino si trova forse ancora alla Scuola Paolo Grassi di Milano.
4. Burattinai e marionettisti a Verona
10 Per notizie su burattinai e marionettisti veronesi cfr. T. Lenotti, I teatri di Verona, Linotipia Veronese, Verona 1949, pp. 70-73; Fra marionette e burattini: itinerario magico nella civiltà veneta, Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, Verona [1983]; S. Bosi, Un burattinaio a Verona: Nino Pozzo, tesi di laurea, corso di laurea in DAMS, Università di Bologna, anno accademico 1978/79, relatore M. Signorelli Volparelli. 11 Cfr. Fra marionette e burattini: itinerario magico nella civiltà veneta, cit., p. 26.
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Benché Verona non possa vantare una solida tradizione di burattinai autoctoni, come l’Emilia-Romagna e il Bergamasco, lo spettacolo dei burattini era diffuso e frequentato in città nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Scarse risultano le notizie relative ai burattinai dell’Ottocento, dei quali rimane per lo più memoria dei nomi e dei luoghi in cui si esibivano: Paolo Aldrighetti montava la baracca negli arcovoli dell’Arena e nel Teatro dell’Accademia Vecchia, Giovanni Vallotto dava spettacolo in piazza delle Erbe, Antonio Mezzetti in vicolo Rensi, Alessandro Da Ponte sotto i portici del palazzo della Gran Guardia in piazza Bra, Pietro Bonetti in corte Quaranta; si ha inoltre notizia del villafranchese Rizzini, di professione farmacista, e di un non ben precisato ciabattino che dava vita ai suoi burattini in piazza Vescovado. Vanno inoltre considerate figure di sacerdoti che possedevano e animavano i burattini nelle parrocchie, dei quali esistono solo testimonianze orali. Informazioni più precise sono quelle circa la famiglia Salvi, marionettisti che per mezzo secolo si esibirono al Teatro dell’Accademia Vecchia e poi, ogni primavera, in piazza Cittadella10. Più prossimi nel tempo a Pozzo risultano padre Gemma, marionettista nel teatro parrocchiale dei Padri Filippini negli anni Venti, e fratel Turco, nel medesimo teatro, ma negli anni Trenta. Secondo la testimonianza orale di padre Massimo Malfer dei Padri Filippini di Verona, le marionette erano state scolpite da padre Gemma stesso, mentre secondo Bruno de Cesco11 vanno ricondotte ai Salvi. Attivo in città tra il 1937 e il 1950, dunque contemporaneamente a Pozzo, è il burattinaio Renato Dai Fiori, nato nel 1924 a Verona, dove è scomparso nel gennaio 2014. Oltre agli autoctoni, sono molte le presenze di burattinai e marionettisti più o meno famosi provenienti da altre città. Nella seconda metà dell’Ottocento trovano ospitalità nel Teatro dell’Accademia Vecchia, interamente dedicatosi al repertorio di figura, in particolare marionettistico, la Compagnia di Giuseppe Fiando, le marionette meccaniche di Antonio Reccardini, i fratelli Prandi. Per quanto riguarda i primi decenni del Novecento, il quotidiano “L’Arena” registra
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5. Repertorio, testi, generi In un articolo apparso nel 1968 sul “Carlino Sera” Nino Pozzo dichiara 3.240 recite effettuate tra il 1925 e il 1940, cifra assai maggiore di quella documentata nel libro contabile e nei registri, che ne riportano solo 600. È evidente che l’attività di un burattinaio che non operi in una struttura stabile di riferimento è difficile da ricostruire totalmente. Il repertorio di Pozzo si costituisce in gran parte tra la fondazione del TMP e la metà degli anni Quaranta; nei decenni seguenti, le creazioni di quel periodo continuano a costituire la porzione maggiore dell’offerta spettacolare del burattinaio, a parte l’aggiunta, negli anni Cinquanta, di nuove favole destinate al pubblico scolastico. Pozzo ha lasciato circa cinquanta documenti “drammaturgici”: copioni, canovacci, tracce. Non tutte le messe in scena del TMP hanno un testo, anche solo sommario, di riferimento. Alcune di esse rimandano a opere precedentemente rappresentate da altri burattinai (Campogalliani, Rizzoli, Cuccoli), sulla cui traccia è possibile che Pozzo recitasse a soggetto. Il burattinaio ha infatti raccolto, 12
Cfr. P. Luzzatto Fegiz, Lo spettacolo in Italia, in “L’Arena”, 22 dicembre 1938.
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le presenze frequenti, e a volte prolungate anche per una o due settimane con repliche quotidiane, di marionettisti di spicco come Enrico Salici, Yambo, la Compagnia dei Piccoli di Vittorio Podrecca, la Compagnia dei Braga, mentre tra i nomi dei burattinai compaiono, oltre a Francesco Campogalliani, quelli dei bolognesi Gaetano Chinelato e Aldo Rizzoli, dei mantovani Giovanni Bresciani e Gaetano Viani, del romagnolo Primo Bazzi. Sicuramente altri burattinai tennero spettacolo senza che il principale organo di stampa ne desse notizia. Per fare solo un esempio, il “Bollettino annuale di comunicazione ai soci” del dopolavoro ferroviario, anno XX (1942), dichiara svolti in sede 15 spettacoli di burattini, nessuno dei quali attribuibile a Pozzo o a Dai Fiori. La cadenza quasi settimanale degli spettacoli rimanda a una presenza anonima, non rintracciata tra i burattinai che hanno tenuto spettacolo a Verona nei mesi di dicembre e di gennaio di quell’anno. In una rilevazione a livello nazionale relativa a qualche anno prima (1936)12 risultano peraltro tenuti a Verona 168 spettacoli di burattini, con 18.114 biglietti venduti e 15.412 lire di incasso. Con queste cifre, Verona realizzava il primato nel Veneto delle presenze a spettacoli di burattini: nello stesso anno gli spettatori a Vicenza furono 9.000, a Padova 8.000, a Venezia 7.000, a Rovigo 2.000, a Belluno 1.000, a Treviso 800. Ora, gli spettacoli di Pozzo e di altri burattinai reperiti nel 1936 sono tra i 50 e i 60. Sono dunque più di 100 gli spettacoli di cui non c’è traccia.
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Per quanto è rimasto di questo prezioso patrimonio cfr. archivio campedelli.
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oltre a copioni e canovacci, numerosi appunti con battute, monologhi, brevi dialoghi non riferiti a uno spettacolo in particolare, ma da inserire dove risultassero opportuni13. È dunque ipotizzabile che anche nel caso di Pozzo la reticenza alla stesura del copione, comune a molti burattinai anche tra i più grandi, vada messa in relazione con la sua natura di improvvisatore. Per i collaboratori le cose erano diverse: Ezio Bellotti aveva il suo quaderno con le parti di Arlecchino che interpretava, e il macchinista-scenografo aveva appunti per i cambi di scena e le luci. Tony Bogoni, fedele collaboratore di Pozzo dal 1955, non aveva parti parlate; agiva solo nel maneggio e con gli effetti sonori. Sono però di Bogoni alcune trascrizioni delle opere denominate “riassunti”. Pozzo non aveva diviso le sue opere per generi, limitandosi a definire “repertorio” o “le nostre più belle commedie” quelle più frequentemente rappresentate. È comunque possibile rintracciare nella sua produzione tre filoni principali, anche se non sempre nettamente distinguibili l’uno dall’altro: le fiabe (come Il gatto con gli stivali, Biancaneve e i sette nani, Rosaspina e il lupo, Primarosa, Don Gil), le avventure (tra cui ricordiamo Le avventure di Fasolino, Fasolino e i briganti, Fasolino e i pellerossa, L’isola misteriosa) e le farse (ad esempio Sandrone ai bagni di Salsomaggiore, Un morto al cimitero, Sandrone re dei Mammalucchi, Fasolino barbiere dei morti). Dal punto di vista della struttura del racconto, vi sono molte affinità tra le favole e le avventure, o tra le avventure e alcune farse. Laddove Pozzo si attiene alle fiabe “storiche” o alla loro rielaborazione, l’opera trova agevole collocazione nel genere “fiaba”, mentre in altri casi il confine con gli altri generi può presentarsi meno netto. Le avventure sono caratterizzate da una trama complessa, da un’azione mossa e articolata, da un’ambientazione in luoghi lontani ed esotici e dal frequente ricorso all’elemento fantastico, che si manifesta sempre sotto forma di magia. Le peripezie sono quantitativamente superiori a quelle della fiaba, ma la frequente presenza dell’oggetto magico e di creature fantastiche può orientare l’opera nella direzione della fiaba. Accomunano le opere di genere avventuroso alcuni topoi, come il viaggio, il bosco, la fanciulla rapita, nonché opposizioni binarie quali separazione/ricongiungimento, prigionia/salvamento, ingiustizia/punizione del malvagio, travestimento/smascheramento. Caratteristiche delle farse sono invece: la vicenda priva di drammaticità, la brillantezza del dialogo, l’assenza di mistero e di elementi fantastico-magici, ma non necessariamente di elementi macabri e sovrannaturali (la morte, il cimitero) utilizzati in chiave comica. In esse la comicità è affidata alla situazione, ma soprattutto alla parola. Vi ricorrono temi quali l’equivoco, l’educazione sentimentale, l’amore contrastato.
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[...] non vi fu trama che non si riallacciasse alla produzione teatrale di tutti i tempi o alla favolistica corrente; quello che però risulta originale e caratteristico, è il modo in cui le vicende dell’intreccio furono adattate al castello dei burattini e il criterio a cui esse vennero sottoposte: al filtro cioè di quella saggezza popolare, sbrigativa, di sicura efficacia14.
Quindi ogni copione ne contiene altri, produce ramificazioni o ampliamenti di una situazione marginale che diventa il soggetto di una nuova opera. Il “terlan”, animale immaginario che compare in Il pappagallo della Filippa, opera teatrale ridotta dal burattinaio Cuccoli e portata in scena da Pozzo e Dai Fiori, diventa argomento e titolo del Gran Terlan d’Africa del burattinaio Stroili. Lo stesso accade per alcuni personaggi: figure marginali in alcune opere assumono ruoli più incisivi e dominanti in altre (Morgana, in Campogalliani e Pozzo). Analoga sorte hanno dialoghi, battute ed espressioni linguistiche. È difficile dire quando nascano; si può seguire il loro tragitto da un copione all’altro, mi-
14 A. Cervellati, Fagiolino & C. Storia dei burattini e burattinai bolognesi, Cappelli, Bologna 1964, p. 280.
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Del repertorio di Pozzo fanno parte anche la riduzione per burattini di operette (La pianella perduta nella neve, La Gran Via) e un insieme meno unitario di opere che potremmo definire “repertorio nazional-popolare”, comprendente vicende a forte impatto drammatico di varia origine letteraria (Amleto, Lo spettro del castello, Sangue romagnolo), a volte ispirate a efferate vicende di cronaca (Biagio Càrnico) o a temi storici del passato (La giustizia di un Re di Francia) e in qualche caso alla storia contemporanea (Romolo tra i predoni). Riferimenti alle vicende storiche in atto, in particolare alla guerra, sono rintracciabili anche in alcune opere ascrivibili al genere avventuroso o fiabesco (Fasolino al fronte russo, Fasolino al fronte inglese, Fasolino nell’isola di Candia, Cin Cin, alcune canzonette), ma la guerra rimane un riferimento sullo sfondo, trattato di sfuggita, un pretesto per azioni che muovono in altra direzione. Solo in Romolo, copione di un atto unico databile tra il 1943 e il 1944, si assiste a una messa in scena tutt’altro che bonaria: la jena è maschera ebraica, l’orco è Stalin, la strega è Eleanor Roosevelt, i predoni sono Churchill e Roosevelt. Però non risulta sia stato messo in scena e la grafia in cui è redatto non è di Pozzo. Del resto, è improprio parlare, nelle opere per teatro dei burattini, sia di originalità in senso pieno sia di tipologie strettamente definibili: il repertorio deriva da una somma di adattamenti, elaborazioni, riduzioni, commistioni di materiali teatrali che attingono dagli scenari della Commedia dell’Arte, dalle commedie popolari, dai drammi colti, dalla favolistica, dall’operetta musicale, da leggende locali, da letteratura popolare, da fatti di attualità:
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grano con i personaggi; se risultano efficaci vengono trasportati dal burattinaio attraverso il repertorio, caratterizzano e rendono riconoscibile il personaggio o la situazione, procurano al pubblico il piacere del riconoscimento del già noto, entrano nella circolarità dei materiali e vengono assimilati da altri burattinai, in un costante movimento.
6. Tempo, parola, caratteri Tempo, parola, caratteri hanno, in tutti i generi affrontati da Pozzo, funzioni e modalità specifiche, del resto riscontrabili in molti burattinai.
La parola. La comicità è veicolata quasi sempre dalla parola: esistono situazioni comiche, ma risultano tali soprattutto quando vengono commentate o sottolineate verbalmente. L’effetto comico si basa: – su accostamenti o reciproche sostituzioni di termini assonanti o allitteranti, in cui il secondo funziona da abbassamento o rovesciamento parodistico del primo: possidente/spussolente; dottore/dolore; padrone/poltrone; forza e coraggio/crosta e formaggio; amnesia/amnistia; originale/orinale; assassini/sassolini; roast-beef/rosp-viv; – su ossimori: nauseanti bellezze, spregiati ordini, scappo coraggiosamente; – su paradossi o iperboli: albero di prezzemolo, magazzino dei maccheroni (per “stomaco”), archivio meridionale (per “sedere”), muto come una tromba; – su storpiature: punto strangolativo, princiapessa, stupefiasco. Nei suoi appunti Pozzo definisce tali espressioni «parole di ilarità»15. Questo tipo di comicità verbale, prevalentemente affidato a Fasolino e Sandrone, si trova anche nei copioni di Dai Fiori, dove se ne fanno portatori Sganapino e Sandrone. I caratteri. Nel teatro dei burattini di Pozzo, il disegno dei caratteri e l’eloquio non sono accessori ma fondanti rispetto all’intreccio. A volte, in mancanza di un testo forte di riferimento, l’intreccio elementare costituisce semplicemente un pretesto per l’esibizione dei caratteri. La presenza di Fasolino e Sandrone, tanto graditi al pubblico quanto noti e attesi, è la costante che percorre tutte le opere messe in scena. Dove è possibile, 15
Cfr. archivio campedelli.
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Il tempo. La fabula e l’intreccio coincidono. Non c’è sfasatura tra la successione naturale dei fatti e l’ordine narrativo, non c’è alterazione nell’ordine dei fatti.
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7. I burattini Nel “Gazzettino” del 23 febbraio 1940 si afferma che Pozzo possiede 150 burattini, ma già in un pieghevole del 1941 Pozzo stesso dichiara che il TMP ha in dotazione 350 figure, eseguite su caratteristici disegni, opera dello scultore Avanzi, con 200 scene dei migliori scenografi e 3 modernissimi impianti. In un pieghevole dei primi anni Cinquanta le figure sono 450, eseguite da Avanzi e Pighi, gli scenari 300, gli impianti 6. Alla metà degli anni Sessanta le figure aumentano a 650. Dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Settanta, i burattini arrivano a essere 1.500, eseguiti da Avanzi, Pighi e Brunelli, e gli scenari 500. La quantità dei materiali veniva forse esibita a garanzia della qualità dello spettacolo. I pieghevoli successivi, fino agli anni Ottanta, non riportano più il numero delle figure, ma vantano altre credenziali: i “fan celebri”, gli elogi delle autorità, il premio della bontà attribuito a Pozzo, le foto degli spettacoli. In una intervista a “Bolero” del 15 agosto 1982 (n. 1941), Pozzo dichiara ancora il possesso di 1.500 burattini. Il numero, imponente, non è sostenuto da alcuna registrazione e nemmeno dal numero attuale dei burattini conservati. Circa
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Fasolino è protagonista. Egli rappresenta il bene in lotta contro il male, incarna la figura del giustiziere o raddrizzatore di torti; il carattere è sempre costruito in opposizione al malvagio, al prepotente, la cui figura esalta per contrasto quella dell’eroe. In questo senso, Fasolino e il malvagio incarnano le figure del protagonista e dell’antagonista della fiaba e della tragedia. Questi elementi sono messi al servizio di una trama consolatoria, con una catarsi sempre ottimistica. Nel teatro di Pozzo, Sandrone perde il carattere fortemente rurale col quale era stato concepito da Campogalliani, in opposizione alla natura urbana di Fasolino. In Pozzo Sandrone è una spalla che evidenzia l’intraprendenza di Fasolino, un veicolo di grossolana comicità, un contributo al dispiegarsi della situazione. Fanno eccezione le due opere che lo vedono protagonista (Sandrone ai bagni di Salsomaggiore e Sandrone re dei Mammalucchi), nelle quali si manifestano pienamente le sue caratteristiche di rozzo illetterato, disarmato di fronte agli eventi, divertente e di buon senso. Il malvagio incarna il male, per definizione. Non ha bisogno di mostrare ulteriori caratteristiche; è solo il motore della vicenda che permette l’azione di Fasolino e Sandrone. Può essere, di volta in volta, il pirata, il brigante, il possidente avido, il rapitore, l’oste infanticida. Allo stesso modo la fanciulla, sempre insidiata, rapita, oggetto di amore conteso, rimane in qualche modo sullo sfondo, poco definita: un pretesto narrativo. I suoi sentimenti si limitano al turbamento, allo sdegno e alla gratitudine finale.
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P. Capellini, Baracca e burattini, Gutenberg, Gorle 1977, p. 69. Cfr. Il Castello dei Burattini / Museo Giordano Ferrari di Parma, Archivio Fondo Giordano Ferrari, collocazione 131/1/15. 16 17
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la quantità delle figure in uso, ogni burattinaio ha criteri e consuetudini proprie, però «lo standard medio, negli anni ’70, è compreso tra i 60 e i 100 fantocci»16. Una muta di 200 burattini viene considerata importante ma la maggior parte dei burattinai lavora con un numero molto inferiore di figure; con 20 burattini o poco più si può mantenere in vita un repertorio sufficientemente variegato. La quantità cospicua di figure che Pozzo ha lasciato è giustificata dal fatto che, oltre ad essere un operatore teatrale, egli era anche un appassionato collezionista; amava possedere, scambiare, rinnovare i burattini. In una lettera a Giordano Ferrari del 20 maggio 196717 promette che gli manderà «figure di Campogalliani» e lo informa di marionette antiche che avrebbe visto. È quindi possibile che il numero di 1.500 possa costituire l’insieme delle figure che Pozzo nella sua vita ha in qualche modo posseduto, ma difficilmente tutte assieme. Concludendo, la figura di Nino Pozzo, burattinaio di mestiere per sessant’anni, occupa a pieno titolo un ruolo di primo piano a Verona. La sua lunga vita professionale lo colloca all’interno della storia del teatro di figura; Pozzo sopravvisse ai due momenti più cruciali che questo ha attraversato nel Novecento: gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, rispettivamente gli anni di un significativo cambio di utenza e gli anni dello sradicamento della funzione sociale del burattinaio. Tra i burattinai di tradizione non esiste il genio incompreso: il burattinaio di successo, e Pozzo lo fu, è un bravo burattinaio. Anche per questo è auspicabile che il suo lascito poetico e materiale venga rispettosamente tutelato, attentamente conservato, riproposto e condiviso.
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Fabrizio Montecchi*
Alla ricerca di un’identità. Riflessioni sul Teatro d’Ombre contemporaneo
* Compagnia Teatro Gioco Vita di Piacenza.
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Ero poco più che un ragazzo quando ho iniziato a praticare, con Teatro Gioco Vita, il Teatro d’Ombre e, da allora, sono passati trentacinque anni. Ho dunque vissuto tutta la mia vita adulta dedicando ogni mia energia artistica e creativa allo sviluppo di quest’originale forma teatrale, nell’ossessiva, e un poco maniacale, ricerca di tecniche, possibilità sceniche e “ragioni d’esistenza” che le garantissero prospettive non solo di sopravvivenza ma anche di forte radicamento nel consesso delle arti della scena contemporanea. Parlare del Teatro d’Ombre contemporaneo è pertanto, per me, come guardare un album di famiglia. Sfogliando le sue pagine rivivo il fervore legato alle intuizioni iniziali, l’entusiasmo generato dall’incoscienza, l’eccitazione per scoperte che credi solo tue, la presunzione che ti nasce dalla convinzione di star facendo qualcosa di straordinario, ma anche le tante incertezze e i dubbi per scelte che temi sbagliate, le delusioni prodotte dai tanti passi falsi, la paura di essere arrivato alla fine di un percorso... Quest’album non è completo. Le sue molte pagine bianche mi fanno capire quanto ancora ci sia da fare per emancipare completamente il Teatro d’Ombre contemporaneo, ma non posso non riconoscere che qualcosa d’importante è nato dal lavoro di tutti questi anni: un Teatro d’Ombre originale, vitale e, soprattutto, capace di parlare all’uomo d’oggi. Ma cos’è il Teatro d’Ombre contemporaneo? L’aggettivo contemporaneo, quando è applicato a fenomeni artistici, è sempre troppo ampio, generico e inclusivo, e aiuta ben poco a comprendere cosa esattamente definisca. Non ha l’immediatezza selettiva di parole come avanguardia o sperimentale (termini che, applicati all’arte, trovo comunque poco appropriati), che rimandano a fenomeni più estremisti, audaci, innovativi, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze; né la chiarezza concettuale di termini come moderno o post-moderno, che richiamano subito fenomeni che fanno riferimento ad ambiti filosofici e sociologici molto
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Fabrizio Montecchi
Ho scelto volutamente di non fare nomi di artisti, Compagnie e teatri per non correre il rischio, per negligenza o ignoranza, di ometterne qualcuno. 2 Credo valga la pena di citare l’esperienza di Le Chat Noir (1881-1897), il cabaret parigino dove si rappresentavano raffinatissimi spettacoli di Teatro d’Ombre. È indiscutibilmente il punto più alto raggiunto dal Teatro d’Ombre europeo del XIX secolo. 3 Non credo si debba considerare una semplice coincidenza che Le Chat Noir abbia chiuso i battenti nel 1897, cioè solo due anni dopo che i fratelli Lumière hanno presentato, sempre a Parigi, il cinematografo. Mi sembra piuttosto un simbolico passaggio di consegne. 4 Tra le esperienze più rilevanti vanno ricordate: le ricerche tecniche sulla luce di Paul Vieillard, all’École Polytechnique di Parigi, e il lavoro della geniale regista cinematografica Lotte Reiniger. 1
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precisi. Contemporaneo, infatti, non è mai usato per indicare una forma artistica dominante o una corrente, e nemmeno un movimento o una tendenza, ma per denotare, piuttosto genericamente, un contenitore: tutto quello che è stato creato da un dato periodo fino a oggi, e che si contrappone, in qualche modo, alle tradizioni precedenti (anche se molta creazione artistica contemporanea si muove su basi tradizionali). Questo dato periodo però, sempre quando il termine contemporaneo è usato per definire fenomeni artistici e non storici, è un arco temporale variabile: per l’Architettura l’inizio è fissato negli anni Ottanta, per l’Arte visiva negli anni Sessanta, per la Musica negli anni Cinquanta, per il Teatro addirittura ai primi del Novecento... e per il Teatro d’Ombre? Per il Teatro d’Ombre propongo di fissare l’inizio negli anni Settanta perché è in quel periodo che vi è stata, dopo un lungo oblio, una rinascita del Teatro d’Ombre in Occidente. Questo è avvenuto per opera di alcune “eroiche” Compagnie1, soprattutto francesi. Le esperienze di quegli anni hanno avuto l’enorme merito di proporre il Teatro d’Ombre come possibile arte teatrale del presente, riallacciando i fili con le grandi tradizioni del passato e principalmente con quella a loro, e a noi, più prossima: il Teatro d’Ombre francese2 ed europeo del XIX secolo, che aveva già elaborato, innovando la tecnica, immagini d’ombra pienamente ascrivibili alla cultura visiva occidentale. Questa tradizione, se davvero di tradizione in questo caso si può parlare, ha rappresentato l’unica rilevante presenza in tutto l’Occidente di Teatro d’Ombre ed è stata anche l’unica, a differenza di quelle orientali, che si è interrotta3. Solo un esile filo è sopravvissuto e ha costellato il Novecento di tante piccole, disorganiche, esperienze4. Quel filo è stato sapientemente raccolto e ritessuto proprio negli anni Settanta, e per questo mi sembra corretto considerare quell’insieme di esperienze all’origine di tutto quello che oggi noi chiamiamo Teatro d’Ombre contemporaneo. A questi pionieri va anche il merito di aver sollevato questioni che hanno agito con enorme forza propulsiva sul periodo successivo, sollecitando domande sul senso che poteva avere praticare ancora il Teatro d’Ombre nel presente, sul diverso ruolo da attribuire alla figura del manipolatore, sulla necessità di un adeguamento delle tecniche e dei linguaggi. Questi interrogativi sono stati poi
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5 Qualcuno potrà ritenere un poco eccessivo il termine rivoluzione ma con quei cambiamenti il Teatro d’Ombre ha subito un vero mutamento di stato: è nato qualcosa che prima non c’era. 6 Va ricordato che già agli inizi del Novecento, come negli anni Cinquanta dello stesso secolo, si era iniziato a sperimentare questo tipo di sorgente luminosa. Queste esperienze però non avevano portato a un nuovo assetto tecnico complessivo.
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raccolti e sviluppati da una nuova generazione di Compagnie che ne ha fatto le premesse indispensabili per quella che poi è stata la vera e propria rivoluzione avvenuta nel Teatro d’Ombre negli anni Ottanta. La rivoluzione5 è nata dunque da un sentito bisogno di rinnovamento linguistico complessivo, ma si è realizzata grazie a un fondamentale cambiamento tecnico: la trasformazione del tradizionale spazio delle ombre in un vero dispositivo proiettivo. Qui si rende necessaria una digressione tecnica per dare modo a tutti di capire cosa intendo per dispositivo proiettivo. Fino agli inizi degli anni Ottanta in pratica tutto il Teatro d’Ombre (di tradizione e non) si basava, pur con diverse declinazioni, sull’ombra ottenuta per contatto diretto della sagoma allo schermo. Staccando la sagoma dallo schermo, per le caratteristiche della fonte luminosa utilizzata, l’ombra perdeva nitidezza fino a non leggersi più la forma della figura che si voleva rappresentare. Il manipolatore era così costretto ad agire sempre vicino allo schermo (fig. 1). Con l’introduzione di una fonte luminosa con filamento puntiforme, che permette di ottenere ombre nitide anche se la sagoma è staccata dallo schermo, il Teatro d’Ombre contemporaneo6 ha invece incominciato a fare uso di ombre proiettate (fig. 2). La scena si è così trasformata in un dispositivo proiettivo che ha permesso al manipolatore di staccarsi dallo schermo e di agire nello spazio, dove vede moltiplicarsi le proprie possibilità performative. La baracca tradizionale, intesa come sistema chiuso di relazioni, è sostituita da uno spazio aperto, dinamico e ricco di possibilità, che può contenere molteplici dispositivi proiettivi e dunque permettere il contemporaneo utilizzo di più tecniche di animazione. Far uso sulla scena di ombre proiettate e trasformare lo spazio in dispositivo proiettivo non solo ha prodotto un cambio tecnico enorme, ma ha stimolato considerazioni importanti che hanno portato a una completa ridefinizione dell’idea stessa di ombra in teatro. La prima di queste è che l’ombra non è piatta. Infatti, restituita alla sua natura proiettiva, l’ombra ha subito incominciato a espandersi nello spazio rivelando un’innegabile verità: anche se si manifesta con maggiore evidenza su superfici bidimensionali, questo non vuole dire che sia bidimensionale. L’ombra, scoprivamo allora, era un volume e viveva nello e dello spazio tridimensionale dell’azione e della sua trasformazione (definito agli estremi dalla luce e dalla superficie di proiezione). Questo ha avuto un significato enorme per il Teatro d’Ombre: si
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Fig. 1. Teatri d’Ombre di tradizione: lo spazio delle ombre e le tecniche di animazione. a) Teatro d’Ombre cinese b) Teatro d’Ombre turco e greco c) Teatro d’Ombre giavanese d) Teatro d’Ombre francese Le Chat Noir
Fig. 2. Teatro d’Ombre contemporaneo: il dispositivo proiettivo e la tecnica di animazione.
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7 Elencare tutte le novità tecniche introdotte in quegli anni meriterebbe una trattazione a parte e non è l’obiettivo di questo scritto.
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è smesso di associare l’ombra alla sola figura che si vedeva sulla superficie perché si è capito che lo spazio dell’ombra è tutto lo spazio della scena e non solo quello dello schermo. La seconda sconvolgente considerazione di quegli anni era che l’ombra è reale come il corpo che la crea. L’ombra proiettata si rivelava non essere un doppio della realtà, una sua immagine, ma un modo diverso di darsi della realtà stessa. Una realtà parallela, non effimera ma piuttosto instabile, fuggevole, precaria, momentanea, passeggera, transitoria, ma pur sempre una realtà. Reale quanto la realtà necessaria a crearla. L’ombra dimostrava di avere una vocazione performatica che le derivava dal suo stesso statuto fenomenologico. Ed era il suo grado di realtà che la rendeva uno straordinario strumento per la rappresentazione teatrale. La terza considerazione, vissuta allora come una liberazione, era che l’ombra “si dà” sempre e solo in compresenza, temporale e spaziale, dell’oggetto e della luce che la producono. Dopo essere cresciuti nella convinzione di essere archeologia del cinema, scoprire che, per questo, l’ombra si distaccava totalmente dalle tecniche di riproduzione d’immagini confermava il nostro senso di appartenenza al consesso delle arti teatrali. Perché ci accorgevamo che non poteva esistere ombra senza la realtà che la creava e che non esisteva altro luogo o altro tempo per la percezione dell’ombra che il “qui e ora”. Il Teatro d’Ombre si fondava pertanto sull’atto del ricreare ombre vive e non del riprodurre ombre morte. Proponeva immagini viventi ed era questa la sua straordinaria particolarità dalla quale dovevamo ripartire. Nei primi anni Ottanta questa ridefinizione tecnica e teorica è stata la cifra stilistica e il segno distintivo di un manipolo di Compagnie, per poi diventare, con gli anni Novanta, un patrimonio condiviso da molte altre interessanti realtà, soprattutto in Europa. Questo insieme di contributi e di esperienze ha portato a un completo rinnovamento dei canoni estetici, dei modelli rappresentativi e dei ritmi percettivi legati alla creazione dell’immagine d’ombra e anche alla trasformazione dello spazio da schermo (bidimensionale) a scena (tridimensionale); con la conseguente nascita di un linguaggio dalle caratteristiche nuove e originali, pienamente figlio della contemporaneità, aggiornato nelle forme sceniche e nella concezione drammaturgica7. Dopo questo entusiasmante periodo, segnato da importanti esiti creativi, il Teatro d’Ombre contemporaneo si è trovato ad affrontare, in quest’ultimo decennio, una fase certamente più difficile. Ai grandi cambiamenti, si sa, succedono sempre lunghi processi di assestamento necessari a ricomporre le fratture strutturali, a riallacciare i fili con quel passato dal quale si era fuggiti e a trovare nuovi e convincenti equilibri tra forma e contenuto. Sebbene meno esaltanti,
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Fabrizio Montecchi
L’ossessione per l’immagine. Penso che l’equivoco peggiore che grava sul Teatro d’Ombre contemporaneo sia quello di essere considerato, e praticato, come spettacolo d’immagini. È un fatto innegabile che l’ombra sia visibile su superfici bidimensionali, gli schermi, ma questo non deve trarci in inganno. Già definire la superficie di proiezione “schermo” è quanto di più sbagliato si possa fare, perché in contrasto con la funzione che esso svolge nel Teatro d’Ombre, che non è quella di separare, isolare, dividere quanto di unire, mettere in comunicazione, creare una comunione. Per chiarire ciò che intendo faccio un esempio estremo, servendomi di una stampa che ritrae un momento di uno spettacolo d’ombre al Cabaret du Chat Noir (fig. 3). Ci troviamo di fronte a una non-scena teatrale, una superficie piatta, neutra, e ciò che vediamo sono solo immagini. Dell’azione che si svolge, non c’è dato vedere, né sapere, nulla: essere dietro allo schermo equivale a non esserci. Anzi, maggiore è il grado d’isolamento e maggiore è lo stupore di fronte al compiersi della magia d’ombra. Sullo schermo, già concepito spazialmente per separare
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questi processi di stabilizzazione sono la verifica degli effetti, positivi o negativi, sortiti da radicali trasformazioni. Soprattutto sono processi molto più lenti e complessi, che ti costringono a riguardare continuamente indietro mentre ti muovi in avanti, verso qualcosa che ancora non conosci e non esiste. Costruire, è banale dirlo, è molto più difficile che distruggere. Questo processo è stato ulteriormente rallentato dal fatto che in questi ultimi anni, come nel ventennio precedente, si è assistito a un continuo ricambio: Compagnie importanti hanno smesso di dedicarsi a questo linguaggio mentre nuove realtà, soprattutto al di fuori dell’Europa, si sono affermate. Questo ha certamente rinnovato le energie, moltiplicato le visioni e le prospettive ma, in generale, non ha favorito l’approfondimento e la soluzione in profondità dei problemi che ancora lo affliggono. Il Teatro d’Ombre contemporaneo sembra stimoli frequentazioni passeggere, transitorie: si rimane folgorati dalla superficie luccicante delle sue possibilità ma ci si spaventa presto di fronte alla complessità dei problemi che esso pone. C’è una grande ricchezza di ricerche formali nelle esperienze di questi anni che poggiano però su fondamenta, idee di teatro, molto fragili. C’è invece un grande bisogno di dare stabilità al proprio fare, di inserirlo all’interno di un orizzonte di senso più vasto, di costruire un pensiero che dia cittadinanza a tutte queste idee e ne definisca l’identità: del linguaggio e di chi lo pratica. Questo, ne sono convinto, è ciò di cui abbiamo più necessità oggi. I punti che seguono vogliono essere un contributo per cercare di capire se esistono, e quali sono, le caratteristiche che, oltre alla tecnica, possiamo considerare come proprie e peculiari del Teatro d’Ombre contemporaneo, e per tentare di definire un insieme d’intenzioni che possano essere un riferimento per tutti noi che pratichiamo questa particolarissima forma teatrale.
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fisicamente chi crea da chi assiste, si succedono immagini d’ombra sempre più autosufficienti, capaci di proporsi al pubblico autonomamente, a prescindere da chi le crea. Lo sguardo dello spettatore non attraversa lo schermo per cercare oltre. Si ferma su di esso completamente assorbito da immagini di grande impatto visivo che fagocitano il loro stesso creatore. La comunione tra chi agisce e chi assiste, condizione imprescindibile perché si dia teatro, non avviene perché ostacolata, nell’incontro degli sguardi, dallo schermo ipersaturo d’immagini. Questo pensare il Teatro d’Ombre come schermo-immagine, eredità del Teatro europeo dell’Ottocento, ha condizionato, io credo negativamente, il suo sviluppo. Dobbiamo dunque andare oltre lo schermo e considerare tutta la complessità delle azioni che si svolgono sulla scena. Solo in questo modo potremo affrancare il Teatro d’Ombre contemporaneo dalla convinzione che sia un povero e artigianale parente dei linguaggi multimediali di cui siamo circondati. La vocazione teatrale. Se c’è un terreno sul quale il Teatro d’Ombre contemporaneo deve maggiormente riflettere e interrogarsi è quello della nozione di
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Fig. 3. Teatro d’Ombre Le Chat Noir: G. Revon, Derrière l’écran du Chat Noir (1893), incisione pubblicata in H. Paèrl, J. Botermans, P. Van Delft, Ombres et Silhouettes, Chêne Hachette, Paris 1979.
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La ricchezza drammaturgica. Esiste un vincolo, da sempre presente nelle diverse tradizioni, che fa del Teatro d’Ombre lo strumento e il veicolo di un particolare repertorio da rappresentare. Ogni tradizione si definisce, oltre che per le tecniche, proprio per l’universo di storie e contenuti di cui si fa interprete. Il Teatro d’Ombre turco è impensabile senza le storie di Karagöz, così come tutto il Teatro d’Ombre che si pratica nell’area che dall’India arriva fino al Sud-Est asiatico è indissociabile dalle grandi saghe epiche del Mahabharata e del Ramayana. Perfino il Teatro d’Ombre cinese, pur nelle varietà dei soggetti rappresentati, è principalmente al servizio di storie eroiche e cavalleresche. Il Teatro d’Ombre contemporaneo, per contro, libero da ogni vincolo, non si connota per un determinato repertorio di storie da raccontare, non possiede una propria forma drammaturgica codificata né un proprio ambito entro il quale veder circoscritto il proprio operare. E, nonostante che in alcuni casi si sia cercato, in questi ultimi anni, di individuarne un repertorio privilegiato (la musica, il mito, l’onirico, ecc.) Uso la definizione di Teatro d’Ombre di tradizione per riferirmi a tutti i Teatri con storie e tradizioni consolidate. Pur nelle loro differenze hanno molti elementi in comune se confrontati al Teatro d’Ombre contemporaneo. 8
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teatralità, che si contrappone a quell’idea di spettacolo d’immagini di cui sopra. Non stiamo forse parlando di Teatro d’Ombre? Cos’è che rende teatrale uno spettacolo d’ombre? Il semplice fatto di essere agito dal vivo? Oppure cosa? In questo i Teatri d’Ombre di tradizione8 rappresentano ancora un ambito di studio importante e sono pieni di spunti da cui attingere. Guardate, ad esempio, la fotografia che ritrae un momento di Nang Yai, un’importante tradizione di Teatro d’Ombre thailandese (fig. 4). Anche se la sorgente di luce è posta solo da un lato dello schermo, l’azione si svolge su entrambi i lati e il pubblico è disposto tutt’intorno. Grandi sagome fisse vengono, potremmo dire, danzate dai manipolatori. Il gesto coreografico, cioè la postura che assumono i manipolatori, è parte integrante dell’animazione e, soprattutto, è una parte fondamentale del linguaggio scenico. La domanda che questa forma di Teatro d’Ombre mi suggerisce è: in cosa consiste allora il Teatro d’Ombre? In ciò che vediamo sullo schermo? O in tutta l’azione che si svolge intorno allo stesso? Non è anche nel piede flesso del danzatore-manipolatore, che danzando mi racconta una parte della storia? Io sono convinto di sì, e trovo ci sia più modernità in queste forme di Teatro d’Ombre millenarie, che in tanto Teatro d’Ombre contemporaneo. In questo esempio, ma potremmo prenderne molti altri, c’è espresso tutto il senso di un’idea che sfugge alla banale, e un poco schizofrenica, equazione Teatro d’Ombre uguale a spettacolo d’immagini. Tutto ciò che accade intorno allo schermo, è Teatro d’Ombre. È Teatro. Ed è questa la grande lezione che la tradizione ci consegna.
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il Teatro d’Ombre contemporaneo è fortunatamente sfuggito a quest’assurda limitazione. Anzi, in più casi, esso ha dimostrato di sapere farsi interprete di vari tipi di testualità, di scritture, di drammaturgie e sapere farsi espressione di molteplici contenuti. Anche in questo il Teatro d’Ombre deve ancora maturare e lo farà solo superando il timore della propria limitatezza. Confrontandosi con drammaturgie complesse (tav. 13) dimostrerà la propria ricchezza linguistica e potrà fornire un’importante prova delle proprie illimitate possibilità rappresentative, della propria universalità comunicativa. La permeabilità delle forme. Il Teatro d’Ombre contemporaneo ha dimostrato una grandissima propensione ad aprirsi e a comunicare non solo con le altre discipline della scena, ma anche del multimediale e dell’arte in genere. Alcune delle esperienze più importanti degli ultimi anni sono nate proprio dal suo essere un crocevia delle arti visive e performative, da dove può facilmente guardare e dialogare con il teatro d’attore come con il cinema, con la danza e con il
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Fig. 4. Teatro d’Ombre thailandese Nang Yai: fotografia di F. Meyer, pubblicata in F. Meyer, Schatten Theater, Popp, Zürich 1979.
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multimediale. Questa facile predisposizione può avere effetti molto positivi, se si traduce in una pulsione e in una curiosità ad attraversare queste discipline per conoscerle e indagarle, per prenderne, ed eventualmente farne propri, principi e tecniche; ma anche per negarle, rifiutarle, e affermare così la propria diversità. Può avere però pericolose ricadute negative, se mira al loro semplice assorbimento o alla concezione di forme nate solo dalla banale somma. Soprattutto rispetto alle tecniche del multimediale il Teatro d’Ombre contemporaneo deve dimostrare grande attenzione e consapevolezza della propria specificità, se non vuole essere omologato o addirittura fagocitato.
La natura trans-nazionale. Rispetto alle grandi tradizioni di Teatro d’Ombre che hanno una precisa identità culturale derivata da un forte radicamento territoriale, ma con un raggio d’influenza esclusivamente in ambito locale o nazionale (non parliamo forse noi di Teatro d’Ombre Cambogiano, Thailandese, Malese, Greco, Cinese, ecc.?), il Teatro d’Ombre contemporaneo si caratterizza, al contrario, per una non radicata appartenenza al territorio, geografico o culturale, d’origine ma con un raggio d’influenza trans-nazionale. Infatti, i fili che legano i Teatri e le Compagnie contemporanee ai loro luoghi di origine sono, in assenza spesso di tradizioni alle spalle, sicuramente deboli, e sono molto più forti i legami che li uniscono ad altri Teatri sparsi nelle diverse parti del pianeta, indipendentemente dalle loro appartenenze culturali, dalle tradizioni che incarnano e dalle scelte estetiche che praticano. Anche se in origine il Teatro d’Om-
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Il rapporto con la tradizione. Il Teatro d’Ombre contemporaneo è totalmente debitore al Teatro d’Ombre di tradizione. Anche se rispetto a esso ha operato degli scarti, delle rotture e delle discontinuità, non l’ha fatto per una presupposta superiorità, ma per darsi una lingua propria, organica e coerente con l’ambito culturale di riferimento. Il Teatro d’Ombre contemporaneo non deve essere visto come un passo in avanti, un superamento qualitativo delle grandi tradizioni: in nessun modo noi possiamo definirlo migliore, né creare gerarchie in merito. Diverso certamente sì, anche perché il Teatro d’Ombre contemporaneo è un insieme di esperienze totalmente aperte, in continua e rapida trasformazione e, sotto molti aspetti, ancora suscettibili di enormi mutamenti. Nel caso del Teatro d’Ombre di tradizione, ci troviamo invece di fronte a sistemi chiusi, codificati da molto tempo e che non dimostrano nessuna particolare propensione all’apertura (altrimenti non sarebbero più, ovviamente, di tradizione). Ma in origine, sono convinto, si sono strutturati seguendo gli stessi dinamici processi che ci vedono ora coinvolti. Infatti, molte di queste tradizioni sono la sintesi di un complesso sistema di linguaggi che si sono lentamente stratificati. Per questo, auspico che nei confronti dei Teatri d’Ombre di tradizione si tenga aperto il confronto e lo scambio poiché essi hanno ancora tanto da insegnarci.
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bre contemporaneo aveva una connotazione molto europea, oggi abbiamo esperienze che possiamo mettere in relazione ovunque, dal Giappone al Québec, dal Brasile all’Indonesia, e che dimostrano come il Teatro d’Ombre contemporaneo utilizzi un linguaggio riconosciuto e condiviso in tutto il mondo.
La ricerca di un’identità. Che cosa vuole dire praticare il Teatro d’Ombre oggi, qui, nel contesto dei linguaggi del Teatro e delle Arti della visione contemporanei? Che cosa possiede il Teatro d’Ombre di originale e di quali esclusivi significati si fa portatore per essere, ancora, necessario? Perché, in sostanza, riteniamo che sia importante utilizzare, per esprimere la complessità del mondo, il Teatro d’Ombre? Queste sono domande che trovo ineludibili e che devono essere alla base di ogni nostro agire e motivarne le scelte. Forse non troveremo sempre le risposte ma questo non sarà mai un buon motivo per non porsele. Perché cercare di rispondere a queste domande, vuol dire interrogarsi in primo luogo sulla propria identità di teatrante d’ombre. Perché vi sono risposte a queste domande che, a prescindere dalle rispettive autonomie artistiche ed estetiche, possono darci il senso di un fare comune e condiviso. Perché si possa davvero parlare, in futuro, non solo di Teatri ma anche di un Teatro d’Ombre contemporaneo.
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Il rapporto con il pubblico. Lo stesso discorso fatto sopra vale anche per il rapporto che i Teatri d’Ombre riescono a instaurare con il pubblico. Uno spettacolo d’ombre tradizionale vive di un legame molto stretto con il proprio pubblico di riferimento. Nell’ambiente di cui è espressione culturale, ogni suo elemento, dal testo alla tecnica, dal ritmo alla recitazione, è perfettamente fruibile dal pubblico, ma al di fuori di esso perde molta forza comunicativa. Al contrario, uno spettacolo di Teatro d’Ombre contemporaneo non ha un suo vero pubblico d’elezione ma può parlare, e risultare dunque leggibile e fruibile, a un pubblico geograficamente e culturalmente molto esteso. Sono profondamente convinto della vocazione internazionale del Teatro d’Ombre contemporaneo e della sua capacità di parlare a tutti. Per questo è necessario cercare di fare un grande sforzo di emancipazione e uscire dall’angusto ambito del teatro per bambini nel quale è stato ingiustamente relegato. Allargando la base di pubblico al quale rivolgersi il Teatro d’Ombre contemporaneo può davvero dimostrare di essere all’altezza dei grandi Teatri tradizionali.
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Maria Ida Biggi*
Gran Teatrino “La fede delle femmine”
* Università di Venezia Ca’ Foscari. 1 La bibliografia in questo ambito è amplissima, qui di seguito si indicano soltanto alcune pubblicazioni di riferimento utilizzate per il presente testo: J. Chesnais, Histoire générale des marionnettes, Bordas, Paris 1947; B. Baird, The Art of the Puppet, Macmillan, New York 1965 [edizione italiana: B. Baird, Le marionette: storia di uno spettacolo, Mondadori, Milano 1966]; J.-L. Impe, Opéra baroque et marionette. Dix lustre de répertoire musical au siècle des lumières, Institut International de la Marionnette, Charleville-Mézières 1994; C. Grazioli, Lo specchio grottesco. Marionette e automi nel teatro tedesco del primo ’900, Esedra, Padova 1999; A. Cipolla, G. Moretti, Storia delle marionette e dei burattini in Italia, Titivillus, Pisa 2003; L. Allegri, M. Bambozzi (a cura di), Il mondo delle figure. Burattini, marionette, pupi, ombre, Carocci, Roma 2012. 2 Margot Galante Garrone (Alessandria 1941) inizia la carriera artistica nel 1961 come cantante solista con il gruppo “Cantacronache” fondato a Torino da Sergio Liberovici e Michele Luciano Straniero, con Emilio Jona e Fausto Amodei. In seguito produce una dozzina di dischi propri, spettacoli televisivi e teatrali. Italo Calvino la presenta con le seguenti parole: «Autrice dei versi e della musica delle sue canzoni, oltreché interprete, Margot ha due anime: quella barricadiera che l’ha portata, dai suoi esordi col gruppo di “Cantacronache” a riprendere la tradizione dei “canti di protesta” di tutti i tempi e di tutti i paesi e quella intimista, attenta a tutte le sfaccettature e gli spigoli della quotidiana psicologia coniugale. Che la “vera” Margot sia questa seconda [...] è constatazione fin troppo facile per essere del tutto vera» (Presentazione di Italo Calvino al disco Canzoni di una coppia, Cetra EPE 3156, 1961). Nel 1966 Margot si trasferisce a Venezia e qui, nel 1987, fonda il Gran Teatrino “La fede delle femmine”. Recentemente è tornata alla sua prima attività di autrice e cantante, incidendo alcuni dischi, tra cui Margot (2011), contenente 16 nuove canzoni, e Il vespero vermiglio (2012). Nel 1995 ha curato, per il Festival di musica contemporanea della Biennale di
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Nel teatro d’animazione, e in particolare in quello musicale rivolto ad un pubblico adulto, si possono incontrare sperimentazioni ed elaborazioni drammaturgiche originali, pungenti e nello stesso tempo divertenti; infatti lo strumento del microteatro permette di realizzare uno spettacolo visuale-musicale che, percorrendo un terreno legato alla parola poetica e alla musica classica e d’avanguardia, può creare una comunicazione provocatoria e al di sopra di ogni limite espressivo1 (tav. 14). Si inserisce in questo terreno fertile e raro, il Gran Teatrino “La fede delle femmine” che, fondato da Margot Galante Garrone2 nel 1987, opera nel ristret-
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Maria Ida Biggi Fig. 1. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: frontespizio del programma di sala per lo spettacolo The scarlet letter, foyer del Gran Teatro La Fenice, Venezia 1989 (Archivio Biggi).
Fig. 3. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine” dietro le quinte (Archivio Biggi).
to ambito del teatro d’animazione musicale (fig. 1). Il nome è un’esplicita citazione di un verso che Lorenzo Da Ponte inserisce nel libretto dell’opera mozartiana Così fan tutte, traendolo da un’aria metastasiana, che così recita: «È la fede delle femmine / come l’Araba Fenice / che ci sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa»3. Il Gran Teatrino è precisamente un sodalizio femminile a cui partecipano attivamente alcune professioniste: Paola Pilla, scenografa con lunga esperienza cinematografica, Margherita “Lulù” Beato, giornalista ed esperta di illuminotecnica, e la stessa Margot Galante Garrone che, da musicista, si occupa della regia e della colonna sonora di tutti gli spettacoli. Del piccolo cenacolo “kleistiano” Venezia, la regia di Tristan, un “No” di Ezra Pound, musicato da Francesco Pennisi e realizzato con la direzione musicale di Marcello Panni e l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Nell’ambito del ciclo Civiltà Musicale Veneziana, nel 1998, al Teatro La Fenice di Venezia, cura la regia, le scene e i costumi di L’Orione, di Francesco Cavalli, con la direzione musicale di Andrea Marcon, spettacolo integralmente ripreso da RaiSat. Per il Festival Opera Barga, nel 2002, ha curato la regia, le scene e i costumi dello spettacolo Play it again, Nino!, su musiche di Nino Rota con la direzione musicale di Maurizio Dini Ciacci. Inoltre per il Teatro La Fenice, nel 2003, è stata la regista dell’opera Il principe porcaro, di Nino Rota, con la direzione musicale di Manlio Benzi. Nello stesso anno realizza il cortometraggio La scuola di guida, su testo di Mario Soldati con musica di Nino Rota. 3 L. Da Ponte, Così fan tutte, o sia La scola degli amanti, I, 1.
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Fig. 2. Il sodalizio femminile del Gran Teatrino “La fede delle femmine” (Archivio Biggi).
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La vita della marionettista – afferma Margot Galante Garrone – ti porta a un continuo scambio di conoscenze ed esperienze; nel lavoro gomito a gomito le specifiche capacità si tramutano in possibilità di fare un po’ di tutto, dall’elettricista al falegname, dalla sarta alla coreografa: quello che i maligni definivano il mio “delirio di onnipotenza” è stato raggiunto, sia pure in miniatura e a poco prezzo. Abbiamo costruito un teatrino a casa mia, per prove e rappresentazioni “private”, due, tre spettatori per volta, oculatamente scelti. Da quel momento non abbiamo più smesso: tutti spettacoli senza parola, basati solo sul ritmo musicale. Una sorta di balletto pantomima, con il quale abbiamo debuttato a Venezia, nel 19874.
L’attività artistica del Gran Teatrino si potrebbe definire sempre con parole di Margot: «una esigenza insopprimibile di “mettere in scena” con assoluta libertà e senza limitazioni alla fantasia, una serie di collage musicali, a far da sup4
Da una conversazione privata con Margot Galante Garrone datata 10 ottobre 2007.
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hanno fatto parte, nel corso del tempo, via via, altre persone, tutte entusiaste di cimentarsi in un’arte tanto singolare, Maria Ida Biggi, Valentina Fabris, Luisa Garlato, Sara Mancuso, Gloria Naletto e Roberta Palmieri (figg. 2-3).
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porto ad adattamenti di testi letterari difficilmente rappresentabili con i canoni usuali del teatro di prosa»5 (fig. 4 e tav. 15). Il primo titolo è, nel 1987, Edoardo ed Elisabetta ossia viaggio galante al centro della terra nel paese dei Megamicri, tratto da un testo di Giacomo Casanova e accompagnato da musiche di Baldassarre Galuppi6, che riscuote un grande successo7 e dà l’avvio all’attività artistica del Gran Teatrino, che negli anni successivi si Ibid. Cfr. Edoardo ed Elisabetta ossia viaggio galante al centro della terra nel paese dei Megamicri, tratto da un testo di Giacomo Casanova e accompagnato da musiche di Baldassarre Galuppi, realizzato da M. I. Biggi, L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 21 febbraio 1987, Galleria Bevilacqua La Masa di Venezia; poi Carnevale 1988 al Teatro La Fenice di Venezia. 7 Mario Messinis, sul “Gazzettino” del 22 febbraio 1987, scrive: «Lo spettacolo rivela un sofisticato spessore culturale e una larga conoscenza delle convenzioni teatrali settecentesche. Apparentemente l’impianto è di tipo ricostruttivo con scenografie desunte dalla tradizione illuminista francese. In realtà, è una provocazione intellettuale, una metafora sulla liceità dell’atto erotico». Carmelo Alberti, sulla “Nuova Venezia” del 22 febbraio 1987, scrive: «La trascrizione scenica suddivisa in nove quadri, isola alcune visioni di quel viaggio utopico e, soprattutto, mette insieme un gran numero di segni allusivi: la miriade dei personaggi che popolano quel mondo immaginario segnalano astrazioni e mostruosità di stampo filosofico, gustose irriverenze politiche, grottesche caricature di esseri posti fuori dal tempo». 5 6
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Fig. 4. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: una scena dallo spettacolo The scarlet letter (Archivio Biggi).
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1988: Questo è il vero Pulcinella, coreografia originale dal libro delle Missioni del padre Scipione Paolucci, per la musica di Igor Stravinsky9; 1988: The scarlet letter, tratto da Hawthorne, musica di Mauricio Kagel10; 1989: Una favorita, per favore! ovvero La carriera di un libertone. Eroicomica in sette atti, due prologhi e due epiloghi, musica di Gaetano Donizetti11;
Teatro La Fenice, Venezia (1988, 1989, 1991, 1992, 1998, 2000, 2001, 2002, 2003); Associazione per la Musica De Sono, Torino (1988, 1990, 1991, 1992, 1993, 1995); Associazione Bologna Festival Grandi Interpreti, Bologna (1989); Rassegna del Teatro Contemporaneo Regione Trentino, Trento (1990); Centro Studi Musicali Ferruccio Busoni, Empoli (1992); Autunno Musicale a Como, Como (1989); Istituto di Ricerche Musicali del DAMS, Università di Bologna (1989); Seminario (ora Dipartimento) di Anglo-Americano e Germanistica dell’Università di Venezia Ca’ Foscari (1989); Programma internazionale Rossini musicista europeo (1993); Le Feste Musicali, Bologna (1993); Assessorato alla Cultura, Venezia (1996); Festival Musica ’900, Trento (1993, 2001); Società Europea di Cultura, Venezia (1993); Associazione Asolo Musica, Asolo (1992, 1993); Biennale Musica, Venezia (1993, 1995); Accademia Filarmonica Romana, Roma (1996); Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”, Palermo (1996); Teatro Comunale di Casalmaggiore (2000); Teatro Due Festival, Parma (1996, 1997, 1999, 2006); Festival ’900, Palermo (1997); Fondazione Querini Stampalia, Venezia (1998, 2000); Festivaletteratura di Mantova, Mantova (1999, 2001, 2003); Ateneo Veneto, Venezia (2004); Teatro Stabile, Torino (2004); Festival Poesia, Parma (2006); Festival Terre d’Acqua, Cella Dati (2007); Centro Culturale Candiani, Mestre (2008); Festival Terre d’Acqua, Villa Ferrari Gussola (2009). 9 Questo è il vero Pulcinella, coreografia originale dal libro delle Missioni del padre Scipione Paolucci, per la musica di Igor Stravinsky, realizzato da L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla con la partecipazione di S. Cimino. Prima rappresentazione: 6 febbraio 1988, Teatro La Fenice di Venezia; poi ripreso nel maggio a Torino dall’Associazione per la Musica De Sono. 10 The scarlet letter. Dodici scene dal romanzo di Nathaniel Hawthorne (1850), sulla musica del Ludwig Van di Mauricio Kagel (1970), realizzato da L. Bognolo, R. Calmieri, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 7 dicembre 1988, Università di Venezia Ca’ Foscari; poi Carnevale 1989, Teatro La Fenice di Venezia. 11 Una favorita, per favore! ovvero La carriera di un libertone. Eroicomica in sette atti, due prologhi e due epiloghi, con musiche di Gaetano Donizetti, protagonista una marionetta che ritrae il grande cantante Luciano Pavarotti, realizzato da L. Bognolo, R. Calmieri, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 11 gennaio 1989 al Teatro La Fenice di Venezia. 8
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è mosso in tutta Italia, in vari teatri e festival musicali. Da quel momento le produzioni sono state tantissime e molti gli enti che hanno ospitato gli spettacoli, dal Teatro La Fenice di Venezia, all’Associazione per la Musica De Sono di Torino, che ha invitato il teatrino per diversi anni dal 1988 fino al 1995, al Festivaletteratura di Mantova nel 1999, 2001 e 2003, al Teatro Due Festival di Parma dal 1996 al 2006; dal Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo nel 1996, all’Accademia Filarmonica Romana nel 1996, al Teatro Franco Parenti di Milano nel 1995, al Festival Musica ’900 di Trento nel 1993 e 20018. Il repertorio degli spettacoli realizzati dal Gran Teatrino è ricco e variegato, come dimostra l’elenco delle rappresentazioni realizzate dopo Edoardo ed Elisabetta nel 1987. Qui di seguito si inserisce un primo tentativo di elenco in ordine cronologico delle loro produzioni:
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12 Hölderling, scene di musica e poesia greco-germanica, su musiche di Beethoven, Schönberg, Mahler, Mozart, realizzato da L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 18 maggio 1990, Associazione per la Musica De Sono, Torino. 13 Ach! Schwesterlein! Sorellina e fratellino senza la strega, ma con la volpe e con il gallo il caprone e il gattino, versione insolita e miniaturizzata dell’opera Hänsel und Gretel di Engelbert Humperdinck, reinterpretata in un originale accostamento con le suggestioni del Renard di Igor Stravinsky, realizzato da L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 26 gennaio 1991, al Teatro La Fenice di Venezia; poi a Torino, Associazione per la Musica De Sono, 27 maggio 1991. 14 Americana. Prima rappresentazione: carnevale 1992, Teatro La Fenice di Venezia. 15 Four saints in three acts, di Gertrude Stein e Virgil Thomson, realizzato da L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 22 maggio 1992, Casa Aurora, Torino, Associazione per la Musica De Sono. 16 Sette Canzoni, sette espressioni drammatiche, di Gian Francesco Malipiero, in collaborazione con il Festival di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia e l’Associazione per la Musica De Sono di Torino, realizzato da L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 8 settembre 1993, Torino, Associazione per la Musica De Sono; poi Asolo, Sala Duse, settembre 1993. 17 Sankt Schreber Passion, con musiche di Hector Berlioz, Fryderyk Chopin, Maurice Ravel, John Cage, Leonard Bernstein, realizzato da M. Beato, L. Bognolo, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 18 maggio 1995, Torino, Associazione per la Musica De Sono; poi ripreso al Teatro Franco Parenti di Milano nell’ottobre 1995, al Teatro Festival di Parma nel settembre 1996, al Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo nel novembre 1996. 18 Wood as Wood as Wood, parole da Shakespeare e Andrea Zanzotto e musiche di Benjamin Britten, Henry Purcell, Jean-Philippe Rameau, realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, S. Mancuso, P. Pilla, voce recitante A. Zanzotto, coproduzione Teatro Festival di Parma e Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo. Prima rappresentazione: 6 settembre 1997, Fondazione Magnani Rocca, Mamiano (PR); poi Fondazione Querini Stampalia, Venezia, aprile 1998. 19 Lanternina cieca, su testo di Andrea Zanzotto, con musiche di Henry Purcell, spettacolo offerto all’interno di Replay, tre giornate in onore di Andrea Zanzotto. Prima rappresentazione: 17 maggio 1997 nella Biblioteca di Palazzo Cavalli Franchetti a Venezia, con varie testimonianze, concerti e contributi; produzione Teatro La Fenice, Venezia. 20 Lindberghflug, su testo di Bertolt Brecht, con musiche di Kurt Weill e Peter Hindemith,
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1990: Hölderling, scene di musica e poesia greco-germanica, musiche di vari autori12; 1991: Ach! Schwesterlein! Sorellina e fratellino senza la strega, ma con la volpe e con il gallo il caprone e il gattino, musiche di Engelbert Humperdinck e Igor Stravinsky13; 1992: Americana white protestant tragedy of blood, angels, poetry, one electric chair and 4 coffins, in 16 brevi quadri, con musiche di autori diversi e ignoti, ambientata in una America ideale degli anni 1881-195314; 1992: Four saints in three acts, di Gertrude Stein e musica di Virgil Thomson15; 1993: Sette Canzoni, sette espressioni drammatiche, di Gian Francesco Malipiero16; 1995: Sankt Schreber Passion, musiche di Hector Berlioz, Fryderyk Chopin, Maurice Ravel, John Cage, Leonard Bernstein17; 1997: Wood as Wood as Wood, con parole da Shakespeare e Andrea Zanzotto e musiche di Benjamin Britten, Henry Purcell, Jean-Philippe Rameau18; 1997: Lanternina cieca, su testo di Andrea Zanzotto con musiche di Henry Purcell19; 1999: Lindberghflug, su testo di Bertolt Brecht, musiche di Kurt Weill e Peter Hindemith20;
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2001: La più brutta opera di Giuseppe Verdi, con preludio in viva voce di Andrea Zanzotto e musiche di Giuseppe Verdi, Johann Christopher Pepusch, Georg Friedrich Händel e Enzo Gragnaniello21; 2004: La Grande Bretêche, dal racconto di Honoré de Balzac, musiche di Christoph Willibald Gluck, György Kurtág, Nino Rota, Camille Saint-Saëns22; 2006: Lanternina cieca. Omaggio ad Andrea Zanzotto, musiche di Henry Purcell23; 2007: Lo sguardo del sordo, passacaglia notturna, musiche di Luciano Berio, Luigi Boccherini, Georg Friedrich Händel, Kurt Weil e musiche militari24; 2009: Santa Cecilia dei Macelli, per l’interpretazione del soprano Florence Jenkins, da Bertolt Brecht, musiche di Gaetano Donizetti e altri25; 2013: L’amico delle crisalidi, da Guido Gozzano, musiche di John Cage, Maurizio Clementi, Giuseppe Giordani, Reynaldo Hahn, György Ligeti, Henri Gabriel Pierné26.
realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, L. Garlato, P. Pilla. Prima rappresentazione: 24 settembre 1999, Accademia di Belle Arti di Venezia; poi Museo Querini Stampalia di Venezia, marzo 2000. 21 La più brutta opera di Giuseppe Verdi, con preludio in viva voce di Andrea Zanzotto e musiche di Giuseppe Verdi, Johann Christopher Pepusch, Georg Friedrich Händel e Enzo Gragnaniello, realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, L. Garlato, P. Pilla. Prima rappresentazione: 15 giugno 2001, al Palazzo Mocenigo a Venezia. 22 La Grande Bretêche, dal racconto di Honoré de Balzac, con musiche di Christoph Willibald Gluck, György Kurtág, Nino Rota, Camille Saint-Saëns, realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, L. Garlato, P. Pilla. Prima rappresentazione: 5 marzo 2004, all’Ateneo Veneto di Venezia. 23 Lanternina cieca. Omaggio ad Andrea Zanzotto, con musica di Henry Purcell, realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, P. Pilla. Prima rappresentazione: 22 giugno 2006 al Teatro Due di Parma, per Parma Poesia. 24 Lo sguardo del sordo, passacaglia notturna, con musiche di Luciano Berio, Luigi Boccherini, Georg Friedrich Händel, Kurt Weil e musiche militari, realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, G. Naletto, P. Pilla, costumi di Marco Baratti. Prima rappresentazione: 27 ottobre 2007 a Cella Dati (CR) al Festival Terre d’Acqua 2007. 25 Santa Cecilia dei Macelli, per l’interpretazione del soprano Florence Jenkins, da Bertolt Brecht. Brani interpretati da Florence Jenkins: W. A. Mozart: Die Zauberflöte, Aria della Regina della Notte; Anatol Liadoff: The Musical-Snuff-Box / Die Musikdose / Une tabatière à musique; Cosmé Mc Moon: Like a Bird; Cosmé Mc Moon: Serenata mexicana; Léo Delibes: Où va la jeune Hindoue; Félicien David: La Perle du Brésil: Charmant oiseau; Bach-Pavlovich: Blassy; Johann Strauss jr.: Die Fledermaus / Air d’Adèle: Mein Herr Marquis. Aria cantata da Maria Callas: Vincenzo Bellini, I Puritani, ‘O rendetemi la speme’. Realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, P. Pilla, costumi di Marco Baratti. Prima rappresentazione: 24 ottobre 2009 al Festival L’Opera galleggiante di Casalmaggiore (CR); poi ripresa con cambiamenti il 18 ottobre 2012, Fondazione Giorgio Cini di Venezia. 26 L’amico delle crisalidi, da Guido Gozzano, musiche di John Cage, Maurizio Clementi, Giuseppe Giordani, Reynaldo Hahn, György Ligeti, Henri Gabriel Pierné. Realizzato da M. Beato, M. Galante Garrone, L. Garlato, P. Pilla, costumi di Marco Baratti. Prima rappresentazione: 14 novembre 2013, Fondazione Giorgio Cini di Venezia.
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Com’è evidente da questa cronologia il lavoro del Teatrino è molto vasto e vario, quindi in questa sede si intende unicamente presentarlo (tavv. 16-19). L’anno successivo al primo successo, nel Carnevale 1988 va in scena, assieme alla
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ripresa di Edoardo ed Elisabetta, il nuovo spettacolo, Questo è il vero Pulcinella, anche in questo caso ironico, sprezzante e provocatorio (fig. 5). Nel programma di sala si legge: Chi si fosse ritrovato a passare il mercoledì delle ceneri dell’anno 1642 dalle parti del Largo di Castello in Napoli, si sarebbe di certo fermato a contemplare la strana scena che si stava svolgendo davanti alla folla ammutolita del mercato, ferma ed immobile, come in un presepe o in una fotografia. Due figuri allampanati, un ciarlatano vestito da Pulcinella e un padre gesuita che agitava un crocefisso, si contendevano fino all’ultimo respiro l’attenzione della gente. L’uno strillava i suoi ultimi lazzi di Carnevale e risorgeva come un fantoccio molleggiato, l’altro cercava di strillare ancora più forte del suo bianco concorrente, gridava parole solenni e tremende, continuando ad agitare il Cristo in legno ed ogni tanto, ispirato come un folle urlava: “Venite, venite qui, qui, qui che questo è il vero Pulcinella!”. [...] Con il presente spettacolo “La Fede delle Femmine” ha creduto di rendere giustizia alla infelice storia delle moderne coreografie del Pulcinella di Stravinsky, catturando il capolavoro diaghileviano alla figuratività del tema folklorico-simbolico del Cristo-Pulcinella. La drammaturgia che si è ricercata, e che propone una kermesse di visioni e scene della vita di un CristoPulcinella tutta giocata fra morti, miracoli, resurrezioni, moltiplicazioni d’ogni cosa, tempeste meravigliose, annunciazione e profezie, ciarlatanate, orrori di diavoli, di topi, di Giuda impiccati e Iokanaan decapitati, rincorre il modello della confusione
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Fig. 5. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: frammento di partitura per lo spettacolo Questo è il vero Pulcinella.
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simbolica sulla scena fantasma qual è ricostruibile sulla scorta delle memorie di quelle prediche narrative e di quei racconti sacri attraverso i quali si fondò e crebbe nei secoli bui il pathos istrionesco dell’immaginario scenico italiano27. (tavv. 18-19)
Questo è il vero Pulcinella, coreografia originale dal libro delle Missioni del padre Scipione Paolucci per la musica di Igor Stravinsky, programma di sala, Associazione per la Musica De Sono, Torino [s.d.], p. 5. 27
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Tra i tanti titoli sopra elencati, La più brutta opera di Giuseppe Verdi si configura come uno degli spettacoli emblematici del metodo di procedere nella creazione e nel montaggio drammaturgico del Gran Teatrino. Lo spettacolo si basa sul montaggio di diverse suggestioni, sull’incontro di richiami poco più che aneddotici di due momenti della storia dell’opera lirica. Da un lato, la leggendaria usanza praticata, alla corte di Versailles, per divertire gli aristocratici segregati da Luigi XIV di aprire le porte del teatro d’opera, nell’Académie Royale de Musique, semel in anno, nel giorno di San Timoleone, a un branco di barboni, straccioni e dementi, raccolti nei bassifondi di Parigi. Ovviamente costoro, costretti a sorbirsi le meraviglie dello spettacolo barocco, davano a loro volta, nel parterre del teatro, un gran spettacolo della loro bassa, bassissima umanità. Dall’altro lato, il ricordo della leggenda del corso universitario tenuto a Torino da un grande campione della critica musicale, Massimo Mila, il quale, mirando al ridimensionamento della Verdi renaissance, aveva ironicamente intitolato le sue lezioni: Le quattro più brutte opere di Giuseppe Verdi. L’idea, quindi, spiega Galante Garrone, è stata quella di congiungere questi due momenti in una unica messa in scena, che risultasse abbastanza comica e giocosa: da un lato l’incontro degli illustri straccioni di John Gay, accompagnato dalla musica creata utilizzando arie estratte da The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) del librettista e musicista John Gay, che aveva avuto la prima rappresentazione a Londra, nel Lincoln’s Inn Fields Theatre, il 29 gennaio 1728, con arrangiamenti musicali di Johann Christopher Pepusch, e dall’altro l’inserimento di brani tratti dalla più brutta delle quattro più brutte opere di Verdi, secondo la definizione di Mila, Giovanna D’Arco. L’idea di utilizzare quest’opera verdiana, basata sul libretto di Temistocle Solera, che aveva avuto la prima rappresentazione a Milano, al Teatro alla Scala, il 15 febbraio 1845, si inserisce anche nel quadro delle celebrazioni del centenario verdiano del 2001. L’intento di questo allestimento è stato quello di dar vita ad un rutilante sferragliamento spettacolare di un discreto numero di antitesi linguistiche “a battaglia”, ancora una volta, con la dovuta modestia, nello spazio esiguo e irresponsabile del palco delle marionette. Per capire il gioco teatrale è utile ricordare gli intrecci a cui i due libretti fanno riferimento: da un lato Giovanna D’Arco si basa su una fantasiosa rilettura della vita della santa che, sempre eroina per volere
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Non bisogna cadere nella tentazione di trovare una rigida corrispondenza tra i due libretti, però è automatico che quando succede qualcosa nella Giovanna, i mendicanti si montino e si eccitino alla visione dell’opera verdiana, e modifichino la storia della Beggar’s in funzione di quello che vedono, per cui lo spettacolo è anche un po’ una forzatura... la corrispondenza c’è, ma non bisogna dimenticare che è una corrispondenza voluta soprattutto dagli attori28.
Molti incastri, nella trama, sono dettati dal discorso musicale, nel senso che 28 A. Morresi, A colloquio con Margot Galante Garrone, articolo contenuto nel programma di sala: Il Gran Teatrino “La Fede delle Femmine”, La più brutta opera di Giuseppe Verdi, prima rappresentazione assoluta (Venezia-Palazzo Mocenigo, 15-17, 22-24, 29-30 giugno, 1° luglio 2001), Grafiche Zoppelli, Dosson di Casier 2001, pp. 14-15; citazione a p. 14.
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divino, diventa oggetto dell’amore del re di Francia, Carlo VII. Il sentimento è tuttavia contrastato dal padre di lei, Giacomo, che pubblicamente l’accusa di essere in possesso di forze maligne. La conseguente condanna al rogo non ha comunque luogo per il voltafaccia dello stesso Giacomo che, alla vista della figlia in preghiera, comprende il suo errore di valutazione e quindi gli autori decidono che la santa morirà sul campo di battaglia. Dall’altro lato, The Beggar’s Opera, ambientata nei bassifondi londinesi di inizio Settecento, porta in scena la famiglia Peachum: padre e madre, due delinquenti, ma anche informatori della polizia, che non accettano il matrimonio, avvenuto in segreto, della figlia Polly con il bandito Macheath. Per questo ne provocano l’arresto e comunque il bandito riesce a fuggire, dopo aver promesso di sposare Lucy, figlia di Lockit, suo carceriere. Di nuovo catturato, il giovane sposo viene poi salvato dall’arrivo di una grazia. Il montaggio dello spettacolo di marionette permette di creare una situazione in cui il teatro è immaginato come se guardasse se stesso: i personaggi della Beggar’s Opera assistono alla Giovanna verdiana. I piani dello spettacolo, quindi, sono due: le marionette danno vita al pubblico di straccioni e, dunque, mettono in scena la Beggar’s Opera di fronte ad un video che propone la Giovanna D’Arco. Durante questo spettacolo, poi, si evidenzia un terzo livello d’azione possibile, costituito dall’uscita in carne ed ossa delle marionettiste: tra un atto e l’altro, queste in costume compaiono in sala coinvolgendo il pubblico. Anche le marionette non restano confinate nella dimensione teatrale, ma interagiscono con il video, ballando sulle trascinanti musiche di Verdi, e questa interazione, che era il vero divertimento degli aristocratici di Versailles, mette in evidenza le corrispondenze sia strutturali che tematiche dei due testi: il problema del rapporto padre-figlia e della verginità, l’arresto e il carcere, presente in entrambi; spunti che nei tre atti delle due opere, con opportuni tagli e montaggi, vengono fatti coincidere. Galante Garrone afferma:
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Andrea Zanzotto, che interpreta il ruolo di Giacomo, il padre della pulzella, per esempio, è la prima volta che recita “a soggetto”; abbiamo fatto recitare tutti un po’ “come marionette”, e questo effetto è stato ottenuto senza grande sforzo: non essendo attori erano comunque un po’ maldestri, all’inizio; poi, però, si sono rivelati delle vere sorprese: divertendosi essi stessi hanno interpretato i loro ruoli raggiungendo un risultato estremamente godibile, quando non addirittura veramente comico; oltretutto hanno dei visi interessantissimi30.
Inoltre, racconta ancora Galante Garrone, [...] nello spettacolo penso che il pubblico resti anche un po’ sconcertato perché non sa forse bene cosa guardare... durante le prove ci siamo accorti che poteva risultare un po’ noioso avere questo video fisso per un’ora e mezzo, per cui abbiamo pensato di oscurarlo, nel vero senso della parola, facendo calare in alcuni momenti dei sipari, così da far risaltare la parte dello spettacolo puramente teatrale31.
In questo, come in altri spettacoli del Gran Teatrino, è molto interessante la contaminazione fra testo musicale e letterario, l’irriverenza e la ricerca della comicità, che sono tutti strumenti per recuperare la vena parodistica che il teatro di marionette permette e incoraggia, in un costante antagonismo con il teatro maggiore e con l’opera seria. Nell’aprile e maggio 2012 l’attività del Gran Teatrino riprende con una nuova versione di Lanternina cieca di Andrea Zanzotto, inserita nella rassegna L’après-midi d’un poète, organizzata presso l’isola di San Giorgio a Venezia nel-
Ivi, p. 15. Ibid. 31 Ibid. 29 30
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alcuni accostamenti risultano migliori di altri, certe scelte sono prettamente musicali; poi, a posteriori, si è verificato che contribuivano a chiarire lo svolgimento della narrazione. Ancora Galante Garrone sottolinea che: «una difficoltà propria di uno spettacolo così concepito è infatti rappresentata dal montaggio della musica che, nel passaggio tra i due secoli, può stonare»29. Anche la realizzazione del video, che è la prima esperienza di questo tipo del gruppo, è importante. Il musicista Giuseppe Gavazza ha montato il video al computer, partendo da una musica già esistente e quindi compiendo un’operazione particolarmente complessa; infatti solitamente si sonorizza un’immagine preesistente, mentre qui è avvenuto il contrario. Gli interpreti sono stati scelti fra attori non professionisti, coinvolgendo amici e soprattutto quelli più influenti.
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la sede della Fondazione Cini32 (fig. 6). L’intuizione di questo spettacolo nasce dall’amicizia e dalla frequentazione con lo stesso poeta. Infatti il Gran Teatrino intende mettere in scena alcune poesie di Andrea Zanzotto, ma presto si rende conto che sono molto criptiche e troppo misteriose per essere rappresentate nella piccola boîte del teatrino. Quindi, lo stesso poeta suggerisce un testo che consenta una corrispondenza tra la parola e l’immagine. La poesia Lanternina cieca è scelta perché narrativa, evocativa e trasferibile sulla scena. Il poeta, che non ama recitare le proprie poesie, dopo essere stato convinto dalle marionet32 I costumi sono di Marco Baratti e, come per molti altri spettacoli più recenti, Lanternina cieca trova un completamento dall’inserimento di supporti filmati.
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Fig. 6. Il Gran Teatrino “La fede delle femmine”: locandina per lo spettacolo L’aprèsmidi d’un poète. Lanternina cieca di Andrea Zanzotto, Fondazione Giorgio Cini, Venezia 2012.
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un aprirsi di taglienti sorprese, a cascata, con incantate o ironiche pause, una miseen-abîme e un flusso incontenibile di multiverse virtualità: ma il tutto aspramente materico, in contatto con i cinque (o più) sensi, lungo le scansioni gestuali dei burattini, “preparati” al lavoro da mani addestrate a usare più leve (magari immaginarie) che le quaranta giapponesi coi loro decenni di apprendimento richiesti. Già il primo impatto avvolge e strappa, invita ed allontana, via per scivoli o scalini, per lampi di colori e frullare a farfalla di tendaggi, per serie telescopiche di ambienti o allusioni prospettiche, per attorcigliamenti di fili e imbrogli da mercatino, per sarcasmi bloccati tra lingua e guancia. Ma poi ciò che più tiene in ansia, accontenta e imbarazza, estrania e familiarizza senza lasciar tregua, è il tessuto di impromptu o commenti o lacune o incroci soprattutto musicali e linguistici che riplasmano ogni elemento e fanno lievitare-sprofondare le percezioni verso un sublime rivolto simultaneamente all’alto e al basso. E in definitiva lo smascheramento in uno scherzo che tutto fa riposare in un sorriso. Così va il mondo, così è un gruppo di contraddizioni la realtà: che le marionette conoscono più di chiunque, nel loro essere schema estremo, ostinatamente connesso ad un altrove, e in questo caso, nella particolare grazia, charis, che queste “Femmine” hanno in sé e di cui accendono scena e spettatori. Spettatori? Ma questi incontri sono
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tiste, si presta a leggerla appositamente con grande disponibilità; la sua voce intensa e sommessa è registrata su una cassetta di fortuna. L’incanto di questo suono è poi perfezionato dalla «musica del bosco», così definita da Galante Garrone, un’accurata scelta di musiche, fra le più suggestive, tratte dall’opera The Fairy Queen di Henry Purcell nella versione diretta da Benjamin Britten. Nel montaggio, racconta Galante Garrone, sono stati preziosissimi, come sempre, i suggerimenti del musicologo Giovanni Morelli. Nel 2012, quindi, si ricostruisce lo spettacolo, completamente rimontato rispetto alla prima versione, che risale al 1997, anno in cui faceva parte di Wood as Wood as Wood, una sorta di carrellata fra i paesaggi estivi del Sogno shakespeariano e quelli invernali di Pieve di Soligo. Nella nuova versione dello spettacolo zanzottiano, estrapolato dal contesto precedente, sono evidenziati alcuni aspetti scenici e visivi che nella prima versione, inseriti com’erano in stretta simmetria tra due episodi del Sogno, non avevano avuto il meritato risalto. Inoltre il tempo ha portato modifiche involontarie, arricchendo lo spettacolo di nuove motivazioni. E in questo senso anche l’aggiunta e l’accoppiamento con il video rendono lo spettacolo inedito e ricco di fascino. Lo schema narrativo è l’elaborazione dei temi paesaggistici della poesia di Andrea Zanzotto, temi che sono onnipresenti nella prima fase dell’opera del poeta, da Dietro il paesaggio del periodo 1940-1948 a Pasque del 1973. Il poemetto Lanternina cieca, estratto da Pasque, è il testo di base da cui nasce il montaggio dello spettacolo che è preceduto dalla lettura-recitazione eseguita dal poeta stesso e riproposta in una videoregistrazione montata appositamente. A proposito del teatro proposto dal gruppo “La fede delle femmine”, Zanzotto afferma che rappresenta
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in realtà celebrazioni di misteri. Chissà. Ci sarà chi entra nell’iniziazione, chi no e chi forse. Là nella piccola grotta, nella petite boîte. E nessuno resterà esattamente quello che era prima, se appena sia fatto complice dell’aura di questa esperienza tanto sorniona, quanto sottilmente entusiasmata, tanto concreta quanto allucinatoria33.
33 A. Zanzotto, Un gran teatrino di marionette (http://www.cini.it/events/teatro-di-marionetteper-adulti-it). 34 Lo spettacolo aveva avuto una sola rappresentazione nell’ambito del Festival L’Opera galleggiante il 24 ottobre 2009 a Casalmaggiore (CR). 35 Bertolt Brecht scrive il dramma Santa Giovanna dei Macelli nel 1930. La traduzione italiana di Franco Fortini viene pubblicata nel 1966 dalla casa editrice Einaudi di Torino, nella Collezione di Teatro.
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Dal 18 ottobre 2012, ancora all’Isola di San Giorgio Maggiore a cura del Centro Studi per la Ricerca Documentale sul Teatro e il Melodramma Europeo della Fondazione Giorgio Cini, è riallestita una ripresa del poco rappresentato Santa Cecilia dei Macelli (una voce che “poco fa”)34. Lo spettacolo è una sorta di parodia dell’opera brechtiana Santa Giovanna dei Macelli 35, ma attualizzata e inserita nel contesto di alcuni drammi sociali contemporanei. Le musiche, anche in questo caso, sono l’elemento narrativo fondamentale dello spettacolo e il motore delle azioni rappresentate. Qui spaziano dalle canzoni popolari americane eseguite da Florence Jenkins, ad alcuni brani tratti dall’opera I Puritani di Vincenzo Bellini cantati da Maria Callas. Lo strazio si basa sull’ascolto di alcune registrazioni della cantante lirica statunitense che divenne famosa all’inizio del Novecento per la sua completa mancanza di doti canore; infatti la Jenkins divenne celebre negli Stati Uniti perché, nonostante fosse stonata, poteva esibirsi comunque, grazie alle sue notevoli possibilità economiche che le consentivano di affittare prestigiosi teatri e di pagarsi il pubblico che affollava le sale da concerto. I “macelli”, proposti dalla regista Margot Galante Garrone, amplificati dalle incredibili stonature della Jenkins, vogliono rappresentare gli orrori che stanno insanguinando il mondo moderno: dall’abbattimento delle Twin Towers, ai macelli animali veri e propri, ai naufragi, ai disastri naturali come i terremoti, fino alle devastazioni della città di Venezia operate dalle grandi navi da crociera che ne deturpano il paesaggio. Le caratteristiche artistiche del Gran Teatrino si possono definire con le parole di Margot Galante Garrone come una esigenza insopprimibile di “mettere in scena” con assoluta libertà, e senza limitazioni alla fantasia, una serie di collages musicali che fungono da supporto ad adattamenti di testi letterari difficilmente rappresentabili con i canoni usuali del teatro di prosa. In 25 anni, il Gran Teatrino ha realizzato circa 20 spettacoli. Impossibile elencarli per ordine di importanza: ognuno di essi, nel suo genere, è riuscito nell’intento di miniaturizzare un senso di onnipotenza a poco prezzo: il teatro grande non può restituire,
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Da una conversazione privata con Margot Galante Garrone datata 10 ottobre 2007.
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per le innumerevoli implicazioni e complicazioni che comporta, ad esempio, la messinscena di un’opera lirica. Non appena si termina una prova, racconta Galante Garrone, le marionette si appendono a un gancio, non hanno rivendicazioni da fare, non scoppiano in bizze improvvise e ingestibili, come certi cantanti; un piccolo interruttore mette la parola “fine” al gioco. Perché di gioco si tratta, complesso finché si vuole nei contenuti e nelle intenzioni, ma lieve e magico tanto nei risultati, quanto nel piacere della realizzazione. In ogni caso, il lavoro per ottenere questo risultato richiede mesi di preparazione e di costante impegno. Margot Galante Garrone ritiene che questo tipo di teatro, riduttivamente chiamato “di figura”, avrà un grande futuro. «Registi come Edward Gordon Craig e Bob Wilson lo hanno dimostrato: gli attori e i cantanti sono “marionette” da muovere a ritmo, creature inanimate che attraversano la scena con il peso e la grazia che Kleist aveva attribuito loro; solo la marionetta e Dio possiedono questa “grazia”»36.
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Cristina Grazioli*
«Une histoire d’amour»: la rivista “Puck” e le intersezioni tra le arti. Un omaggio a Brunella Eruli
Frontières, passages...: così “Théâtre Public” titolava il numero di marzo-aprile 1989, En marge du Festival d’Automne à Paris. Il fascicolo ospitava, tra gli altri, un articolo di Brunella Eruli che tracciava sinteticamente ma puntualmente il rapporto “passionale” fra teatro di marionette e teatro tout court, fatto di legami che riguardano l’essenza di ogni evento teatrale: «Ces liens tissent une véritable histoire d’amour, ce qui n’exclut ni les incompréhensions ni les intermittences du cœur»1. Una nota redazionale in testa all’articolo annunciava che, insieme a Margareta Niculescu2, Eruli aveva da poco inaugurato un periodico dedicato alla Marionetta, nel proposito di esplorarne le relazioni con gli altri territori dell’espressione artistica: era nata “Puck. La marionnette et les autres arts”. Ci si impegnava così a legittimare, anche da un punto di vista storico-critico, un’apertura già da tempo presente nelle poetiche e nelle riflessioni intorno alla categoria della “figura artificiale”. Eruli prima di tutto si premurava di precisare che le distinzioni correnti tra attori e marionette, se sono oggettive, non sono tuttavia altrettanto significative: la consuetudine oppone la rigidità della marionetta alla morbidezza e al calore dell’attore in carne ed ossa, la sua immobilità al movimento dell’interprete umano. Si tratta di un falso problema, scrive l’autrice, dato che è necessario muovere * Università di Padova. 1 B. Eruli, Une histoire d’amour, in “Théâtre Public” (Frontières, passages... En marge du Festival d’Automne à Paris), 86, 1989, pp. 84-85; citazione a p. 84. Il fascicolo ospitava, tra gli altri, interventi di Georges Banu, Jean-Paul Manganaro, Denis Bablet. 2 Margareta Niculescu nel 1987 fonda l’Esnam, École Supérieure Nationale des Arts de la Marionnettes presso l’Institut International de la Marionnette di Charleville-Mézières, nato nel 1981 grazie a Jacques Felix; l’Istituto è ora diretto da Lucile Bodson.
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1. «Une histoire d’amour»
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la marionetta, infonderle voce e movimento. Nonostante sia “immobile”, essa rende manifesta la dimensione nascosta dei gesti dell’attore; lungi dall’essere un oggetto di scena, tanto meno è un sostituto dell’attore che manca solo di movimento autonomo per essere perfetto: la marionetta è strumento della “rivelazione dell’essere”3.
Le forme semplificate della figura sono dotate di una possibilità espressiva senza limiti, l’“insensibilità” fa sì che sia scossa da convulsioni (ora tragiche ora comiche, sempre eccessive). «Son manque de vie renvoie au vide qui ronge le faux “plein” de l’apparence de choses»5: Brunella Eruli metteva qui a segno una delle questioni più complesse di tali rapporti: la mancanza è costitutiva della “presenza” attorica e la marionetta, attore/non-attore, non lascia scampo, impone di confrontarsi con questa assenza. Se Craig lamentava la degenerazione di una marionetta un tempo apparentata con l’idolo divino, nel secondo Novecento si riconosce che suoni, crepitii, colpi e scoppi appartengono ad una modalità espressiva che i personaggi di Ionesco o di Tardieu condividono con gli attori di Kantor e con i danzatori di Pina Bausch6: sfuma così la pretesa differenza tra attore e marionetta. Elementi essenziali di ogni fenomeno teatrale – prosegue l’autrice – essi esibiscono la differenza e insieme l’analogia nelle loro pratiche, e il punto nodale di tale condivisione si manifesta proprio là dove la si attenderebbe di meno, cioè nel movimento. Questo non appartiene alla marionetta ma al suo manipolatore; d’altro canto l’attore che crede di disporre della piena autonomia dei propri gesti è in realtà “diretto”, agito dal personaggio (sia esso inteso in senso tradizionale o come “realtà scenica” doppio dell’attore). Le pratiche attoriche che ricorrono alle “figure” hanno spesso fatto appello all’antiverosimiglianza dell’attore orientale, obbedendo alla necessità di scomporre il corpo e di ricostruirlo secondo una nuova grammatica, dove interiore ed esteriore, visibile ed invisibile, reale ed artificiale, vivente e inanimato non coincidono più con i nostri concetti
Cfr. ibid. Ibid. 5 Ibid. 6 Cfr. ibid. 3 4
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La marionnette remet en question l’acteur et elle suggère un théâtre qui ne soit ni représentatif ni illustratif, mais un point de départ vers la re-création des éléments proposés sur la scène. Si la marionnette ne finit jamais d’étonner, si elle pose le problème du théâtre, de la signification de toute tentative de représenter la réalité, de lui donner un sens, c’est justement parce-que son corps n’a rien de la précarité d’un corps humain vivant4.
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2. Puck il sovvertitore (e paesaggio italiano con “figure”) L’articolo pubblicato in “Théâtre Public” a ridosso della fondazione di “Puck” si premurava insomma di mettere in chiaro che ogni discorso sulla marionetta concerne la prassi attorica e le sue sperimentazioni, liquidando i possibili fraintendimenti rispetto alla questione di un genere spettacolare privo del suo centro organico e pulsante, l’attore. Una premessa che nella nuova rivista è invece data per acquisita, visto l’ambito specialistico entro cui nasce; l’urgenza è quella di mettere in comunicazione le “geografie” della marionetta – tanto nel senso letterale che dei diversi territori disciplinari – con il più ampio ambito del teatro. Il programma viene enunciato nell’avant-propos di Margareta Niculescu: Puck vuole essere un luogo di riflessione, di confluenza e di confronto, un labora-
Ibid. Come è noto, il testo prevede una scena di “presenze” che sembra essere concepita apposta per dimostrare questa idea di Marionetta, che volta a volta nei diversi allestimenti registici si incarnerà nei manichini di De Chirico, nelle ombre, nei fantocci strehleriani, nelle marionette di Missiroli, nelle proiezioni di Tiezzi, nelle figure della Classe Morta di Kantor (vedi la recente regia di Diablogues), per citare solo pochi esempi. 9 Ivi, p. 85. 10 Per esempio Philippe Genty, Kantor, Bread and Puppet, Mabou Mines. 7 8
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usuali: «Un autre corps s’affirme alors, dans la distance [...]. Ce corps n’est ni réel ni artificiel, c’est un corps théâtral: il existe en ce qu’il donne à voir»7. Grazie a queste alternanze tra metafora e illusione, la scena è un crogiolo alchemico, una scatola delle metamorfosi dove tanto attore che marionetta vivono di una magia inquietante, come quella di Cotrone nei Giganti della montagna di Pirandello8. Si difende qui la paradossale ipotesi di porre sullo stesso piano attore e marionetta: entrambi rinviano ad un referente difficile da cogliere con mezzi puramente intellettuali. L’autrice ricorda “la grande paura metafisica” auspicata da Artaud, punto di contatto tra esperienza della realtà e sua astrazione; se l’immaginario è il reale, allora le distinzioni tra attore e marionetta vengono a cadere: «Tous deux sont sur la scène, devant nos yeux, pour nous montrer autre chose que celle que nous croyons entendre et voir»9. Nel rievocare i grandi nomi degli uomini di teatro che hanno trovato linfa vitale nelle marionette (Kleist, Craig, Maeterlinck, Jarry, Schlemmer – oggi riferimenti obbligati) l’articolo chiudeva su di una serie di esempi di artisti che hanno messo a frutto gli scambi tra la scena degli attori artificiali e quella degli “umani”10.
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Non era un progetto nato all’improvviso: in “Théâtre Public” nel 198712 un altro contributo di Brunella Eruli, dal titolo Du théâtre de marionnettes au théâtre “di figure”, lascia intravvedere in germe l’idea che darà l’impulso a “Puck”. La studiosa richiamava l’attenzione sul passaggio, registrato in Italia all’aprirsi degli anni Ottanta, dall’espressione (e dalle pratiche) del teatro di marionette a quella del teatro “di figure”. L’abbandono di un’etichetta «nobile e limitativa ad un tempo» apriva a inedite accezioni del “marionettesco”. Se “figura” è termine complesso13, l’autrice ne ripercorreva almeno in parte l’universo semantico. Nella sua derivazione da “figurare” (modellare, dare una forma), il lemma porta in sé il «ricordo delle arti plastiche e anche del movimento necessario perché la materia inerte nasca alla vita, prenda forma»14; allo stesso tempo l’accezione di “illustrazione” come immagine bidimensionale apriva ai territori delle ombre e del video. Il teatro di figura è il luogo in cui marionettisti, ma anche attori e artisti visivi, si incontrano per approdare ad un teatro visuale dove l’oggetto (e l’oggetto marionetta 11 M. Niculescu, Avant-propos, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (L’Avant-garde et la Marionnette), 1, 1988, p.n.n. D’ora in avanti dove non diversamente indicato le traduzioni sono nostre. 12 Il numero “Théâtre Public” (Festival d’Automne à Paris. Italie), 78, 1987, dedicava circa due terzi delle pagine all’Italia; il panorama delle “figure” era rappresentato da Teatro del Carretto, Colla, Cuticchio. 13 Ci proponiamo di ripercorrere l’universo di questa espressione in un nostro prossimo contributo. 14 B. Eruli, Du théâtre de marionnettes au théâtre “di figure”, in “Théâtre Public”, 78, 1987, pp. 37-42; citazione a p. 37; cfr. anche S. Giunchi, Figure o burattini?, in Centro Teatro di Figura di Ravenna (a cura di), Figura da burattino. Mappa del teatro italiano di marionette, pupi, burattini & C., Longo, Ravenna 1984, pp. 11-13.
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torio di ricerca attento ai legami che uniscono la marionetta alle altre arti. Luogo d’accoglienza delle idee più insolite, ispirate da un teatro che si vuole senza tregua un campo di sperimentazione. Fenomeno culturale evidente, la Marionetta invade lo spazio dell’immaginario, infrange i rapporti tradizionali, si nutre delle più avanzate esperienze artistiche rispetto alle quali è a sua volta fonte d’ispirazione. In cerca di nuove modalità espressive, l’arte della marionetta si rivela oggi un linguaggio imprescindibile per chi voglia ascoltare e comprendere il teatro contemporaneo. Sorprendere il Teatro di Marionette advancing (termine che prendo da Gordon Craig), seguire il suo cammino sinuoso, indugiare di fronte alla fertile diversità di forme – cosa che rende tra l’altro difficile distinguere i veri valori dai falsi –, interrogare i suoi creatori e i suoi spettatori, ecco un nuovo terreno da dissodare per una nuova critica. Far ruotare lo sguardo degli storici, dei teorici, dei critici, verso un teatro inspiegabilmente dimenticato, questo è il desiderio ardente di Puck il mago, che apre le sue pagine anche ai giovani ricercatori11.
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o l’oggetto marionettizzato) possa dispiegare tutto il proprio potenziale plastico ed emozionale. La formula “teatro di figure” cancella le distinzioni culturali e tecniche tra le marionette (a fili), i burattini (a guanto, con tutte le variati regionali: fantoccini, magatelli, ecc.), i pupi (e le loro differenti varietà)15.
oggetto dalle molteplici possibilità plastiche e visive, piuttosto che bambola attaccata a dei fili che la intralciano nel movimento seppure sostenendola [...]. Gioca sul cambiamento di scala o di dimensione, sulla rottura del ritmo, sulla concatenazione delle immagini e su di un montaggio visivo influenzato dal cinema e dalla televisione, sull’utilizzo molto raffinato delle luci e della musica. [...] Le correnti della ricerca teatrale più originali passano attraverso i fili della marionetta e i guanti dei burattini19.
Eruli cita quindi diversi esempi di rilievo del panorama italiano (Valdoca, Fiat Teatro Settimo, Piccoli Principi) che si possono iscrivere «in questa nuova movenza della marionetta advancing – per adattare l’auspicio di Craig per l’attore». Ulteriore segno del cambiamento in corso nel panorama teatrale della penisola è il fatto che compagnie di tradizione adottino la compresenza di attori e marionette nel quadro di un repertorio tradizionale, oppure che compagnie aperte al rinnovamento dei linguaggi della scena si impegnino sul versante della Eruli, Du théâtre de marionnettes au théâtre “di figure”, cit., p. 37. Cfr. Il Teatro di Figure fra tradizione e sperimentazione, Firenze 1979; mostra citata in A. Attisani, Teatri possibili, in “Quaderni di Teatro” (Fingere figure), 31, 1986, pp. 17-37; riferimento a p. 27, nota 12. Nel 1981 viene fondato il Centro Teatro di Figura di Ravenna; nel convegno curato dallo stesso Centro nel 1984 l’espressione è acquisita. 17 B. Eruli, Introduzione, in “Quaderni di teatro” (La marionetta: un’ipotesi di trasgressione), 8, 1980, pp. 3-5; citazione a p. 3. 18 Eruli, Du théâtre de marionnettes au théâtre “di figure”, cit., p. 37. 19 Ibid. 15 16
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Coniata nel 1979 nel contesto di una mostra curata da Fiorenza Bendini16, l’espressione non è ancora entrata nell’uso corrente nel 1980, ma la concezione è già acquisita. Scrive Eruli nell’introduzione ad un volume dedicato al tema: «Ma non solo di burattini parlano gli articoli raccolti in questo quaderno di teatro. Anche di attori che hanno preso i fantocci a modello, di pupazzi dal castelletto emigrati sulla scena, “un’altra scena”»17. Questo slittamento ha segnato un cambiamento di sostanza nei rapporti fra teatro “minore” («per bambini, turisti ed eventualmente storici») e “gran teatro” per adulti, ma anche fra teatro delle istituzioni e teatro di ricerca. Il cambiamento deve molto al superamento dei confini tra i generi, alla loro porosità, confidando nel fatto che l’essenziale debba consistere nei «risultati di una ricerca teatrale, quali che siano i materiali e le tecniche utilizzati»18. In tale contesto la Marionetta è
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20 Nel primo caso Eruli cita Cuticchio, Teatro del Carretto, Piccoli Principi, Teatro Laboratorio di Figure di Fiorenza Bendini; nel secondo Teatro Gioco Vita, Teatro delle Briciole, Mariano Dolci. 21 Cfr. G. Bartolucci (a cura di), Uso, modalità e contraddizione dello spettacolo immagine, Atti del convegno Nuove tendenze/Teatro immagine (Salerno, 8-10 giugno 1973), La Nuova Foglio, Macerata 1975. 22 L. Allegri, Per una storia del teatro come spettacolo: il teatro di burattini e di marionette, Università di Parma-Centro studi e archivio della comunicazione - La Nuova Italia, Parma 1978, p. 10.
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formazione e anche della terapia20. Alcuni esiti del cosiddetto “teatro ragazzi” condividono ritmo e immagini con il teatro d’attori del “teatro immagine” (Gaia scienza, Falso Movimento, Magazzini criminali). Non si tratta di indagare le forme che, a volte non senza vitalità, altre volte sclerotizzate nella forma della tradizione, continuano ad esistere. Ma di tentare di far emergere quel crinale di congiunzione fra il teatro alla ricerca di nuovi paradigmi e l’apporto che esso trova sul versante delle “figure”. Apriamo una breve parentesi, per rammentare come in Italia la riflessione su questi temi avesse registrato un notevole interesse negli anni a cavallo tra Settanta e Ottanta, un interesse purtroppo oggi trascurato, o frainteso. Fissiamone alcune coordinate. Se nel 1960 la voce dell’Enciclopedia dello Spettacolo, curata da Alessandro Brissoni, offriva preziose informazioni dal punto di vista storico, rimanendo però legata alle forme della tradizione e dunque contenuta entro i confini dei generi, nel corso degli anni Settanta le accezioni e le pratiche legate alla marionetta si estendono e si articolano, preparando lo slittamento entro “figura”. Crediamo anche non sia un caso che in anni non troppo lontani, nel 1973, venga coniata l’espressione “teatro immagine” per tutto un versante della ricerca italiana fondata sul visivo21. Nel 1978 Luigi Allegri, nella premessa a Per una storia del teatro come spettacolo: il teatro di burattini e di marionette, definiva, tra le altre cose, il teatro dei burattini (espressione estensiva) «un teatro che cerca di sfuggire alla logica della “rappresentazione”. [...] Teatro di burattini e non “teatro dei burattini”»22, precisava, spostando l’accento dal genere ad una modalità teatrale differente, costruita sugli elementi visivi – il gesto, anche vocale, il dinamismo delle immagini, la composizione dello spazio. Nel maggio 1980 i “Quaderni di Teatro” dedicano un numero monografico al tema: La marionetta, un’ipotesi di trasgressione. L’introduzione è affidata a Brunella Eruli e la scelta degli interventi è emblematica (e già prefigura la prospettiva a 360° di “Puck”): Ferruccio Masini interveniva su Kleist, Carlo Pasi su Bellmer, Denis Bablet su Craig, Eruli su Kantor, Fiorenza Bendini si interrogava sulla questione del pubblico, Rosalba Gasparro sui Pupi, Meldolesi tracciava un disegno dell’interesse per le marionette da parte del teatro tout court. Sei anni dopo la stessa rivista torna sul tema: nel volume Fingere Figure (1986) Luigi Allegri interviene facendo riferimento preciso al mutamento lessicale (Dal teatro di burattini al teatro
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Il numero 13, 1981 era dedicato a I pupi e il teatro (fra tradizione e innovazione). Oltre al Teatro Laboratorio di Figure di Fiorenza Bendini, nel 1981 nasce il Centro di Teatro di Figura di Cervia; nel 1985 la sezione “Verso l’alba” della rassegna “Arrivano dal mare” (che includeva artisti come le Albe, Tam Teatromusica, Manfredini) apre in direzione della nuova accezione. Alla metà degli anni Ottanta diversi convegni, festival, pubblicazioni hanno registrato il cambiamento lessicale. 25 Cfr. F. Bartoli, Teorie della Marionetta, in A. Attisani (a cura di), Enciclopedia del Teatro del ’900, Feltrinelli, Milano 1980; Bartoli contribuirà al primo numero di “Puck” con un articolo sulla Supermarionetta craighiana in relazione alla scena astratta. 26 Tendances regards (“Puck”, 5, 1992) ospita un articolo di Franco Brambilla, allora docente di Teatro di figura presso la Scuola Paolo Grassi. 27 Cfr. G. De Luigi, L’attore futuro nella memoria delle arti, Galleria Bevilacqua La Masa, Venezia 1987. 23 24
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di figura: un’ipotesi di trasgressione realizzata); il volume, curato da Fiorenza Bendini, ospita saggi di Attisani, Gualtieri e Ronconi, Mimmo Cuticchio, Remondi e Caporossi, Giulio Paolini, con ulteriori aperture verso le arti visive23. Nel frattempo si è diffusa l’espressione “teatro di figura”24. Sempre nel 1980 l’Enciclopedia del Teatro del ’900, curata da Antonio Attisani, affida la voce Marionetta a due studiosi: Franco Carmelo Greco ne redige la parte più storica, Francesco Bartoli consegna uno scritto che diverrà un riferimento “fondativo” in quest’ambito, Teorie della Marionetta25. Negli anni Novanta il paesaggio si allarga, le maglie del genere si allentano; vedono la luce studi che affrontano la Marionetta come figura complessa, accogliendo fenomeni anche lontani tra loro, talvolta in occasione di creazioni che percorrono questi itinerari: per esempio, nel 1990, Il mito dell’Automa, curato da Artioli e Bartoli e concepito in concomitanza del progetto di Franco Brambilla, Dopo il colpo di scopa, da Kafka26. Ma si potrebbero citare anche esperienze più defilate come quella di Gianni De Luigi, L’attore futuro nella memoria delle arti, che si riferiva esplicitamente alle riflessioni di Craig e di Schlemmer27. Tuttavia, tranne che per poche eccezioni, l’interesse per una concezione che travalichi generi ed etichette affermatosi nel corso degli anni Ottanta sembra essersi disperso. Nel frattempo, in Francia, il folletto Puck si è reincarnato nel primo numero della rivista omonima dedicata alle Avanguardie storiche (tav. 20). Nell’editoriale La fleur de Puck Brunella Eruli cita nell’esergo il passo del Sogno shakespeariano in cui Oberon ricorda a Puck il canto della sirena e gli chiede di cercare il fiore dalla magica essenza amorosa, che come è noto scatenerà la serie degli incroci e degli equivoci, segni della mutevolezza dell’amore. La rivista nasce quindi sotto il segno della metamorfosi, dell’inversione o dello spostamento dei punti di vista, e anche della dimensione onirica e magica. Si immagina che lo spirito di Puck possa
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esercitare il suo talento nell’ambito del teatro e dei rapporti con le altre arti, spostando le prospettive e sovvertendo le proporzioni. Quel che si credeva grande appare subito piccolo, quello che, con una certa sufficienza, si reputava adatto all’infanzia dispiega tutt’ad un tratto un ventaglio di possibilità impensate; ciò che era a margine avanza in primo piano: le idee si liberano, le lingue, seppure di legno, cominciano a sciogliersi28.
B. Eruli, La fleur de Puck, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (L’Avant-garde et la Marionnette), 1, 1988, p. 3. 29 Ibid. 28
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Puck versa le gocce dell’essenza del pensiero amoroso sulle palpebre degli spettatori: ma attenzione a non confonderle con un banale binocolo che rovescia in modo sistematico, fastidioso e prevedibile la prospettiva della storia del teatro o della realtà artistica contemporanea. Se la prospettiva fosse rovesciata, ma sempre la medesima – continua l’autrice –, uno dei caratteri essenziali della marionetta andrebbe perduto, dato che ha sempre fondato il suo funzionamento testuale e teatrale su scorci inaspettati, su costanti variazioni di scala, sullo scambio continuo tra la scena del Grande Teatro e quella “in miniatura” del castello dei burattini: doppio ironico e laboratorio d’invenzione, fucina nei momenti che hanno segnato la ricerca e il rinnovamento teatrale. Dunque «i succhi magici che Puck deve distillare permetteranno agli spettatori che vorranno seguirlo di scoprire i legami disconosciuti tra il teatro – e le altre arti – e il teatro di marionette»29. Si tratta allora di una doppia “interferenza”, che consentirà anche di superare le barriere pretestuose che separano le diverse forme artistiche e plastiche del teatro, sia esso interpretato da attori in carne ed ossa, da oggetti, o da attori di legno. Per il suo specifico statuto, la marionetta è un elemento di cerniera tra diverse realtà (animato e inanimato, oggetto e attore, corpo e anima); uno statuto che la rende inafferrabile, dunque inquietante, ma anche occasione e luogo di scambi fecondi e incontri imprevedibili. Si affiancano così le potenzialità della Marionetta e le pratiche sceniche della sperimentazione, entrambe nella prospettiva del sovvertimento e dell’innovazione rispetto alle logiche del teatro imperante. Il primo numero, dedicato alle Avanguardie storiche, vuole essere una dichiarazione d’intenti e una premessa che intende riannodare i legami con alcuni momenti decisivi del teatro del XX secolo. Vi si mettono in evidenza i principi e i procedimenti che il primo Novecento ha consegnato al nuovo secolo: la messa in discussione delle coordinate della tradizione e lo spostamento dello sguardo rispetto ad oggetti e materiali; l’abilitazione artistica di quanto è grezzo, povero, non elaborato, minoritario; l’ipotesi di eliminazione dell’attore; la qualità drammaturgica degli oggetti e l’animazione della materia; la necessità di ricostruire
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“plasticamente” il mondo. «Mélange, collage, eterogeneo, vera Babele dei linguaggi artistici, lungi dal compromettere la possibilità di costruire una nuova estetica, ne sono divenuti i segni»30. Queste premesse primonovecentesche sembrano essere state per un certo tempo scordate; la redattrice fa notare che in quegli anni (siamo nel 1988) diversi segnali fanno pensare alla marionetta come segno di rinnovamento insito nella concezione di un teatro come luogo di incontro tra arti della visione e arti plastiche. Il numero ospita interventi critici e documenti sui must delle premesse teoriche sulla marionetta: da Craig a Jarry, dal Bauhaus a Ghelderode; ma anche Mejerchol’d, il Futurismo, Satie, Piscator e Artaud. Se la prospettiva “incrociata” (e rovesciata) è programmatica, e dunque sosterrà ogni tappa dell’avventura di “Puck”, dieci anni dopo un volume viene 30 Ibid.; sono categorie sulle quali Brunella Eruli ha sempre lavorato, a partire dai suoi primi studi su Jarry.
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Fig. 1. Sommaire di “Puck” (Interférences), 11, 1998.
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3. Corpi allo stato fluido Su questo punto critico, che potremmo definire anche una sorta di grado di trasformazione di stato fisico, un passaggio di stato (Le marionnettiste. Un acteur liquide? sarà il titolo di un articolo di Brunella Eruli del 201134), si giocano le modalità di presenza dell’attore, una volta che non si prescinda dal considerarle alla “luce” della Marionetta intesa come categoria di presenza scenica. Il compagno segreto è il corpo d’ombra: la presenza dell’attore di legno o di luce, su di una scena concepita per attori ben viventi, indica che uno dei punti in cui questi linguaggi diversi si incontrano è quello della rimessa in questione della funzione dell’attore. [...] Le suggestioni del saggio sulla marionetta [di Kleist], che aveva affascinato Schulz e Kantor, portano ad una riflessione [...] sulla possibilità di rappresentare l’assenza, l’oscurità, il silenzio, lasciando allo spettatore la possibilità e la responsabilità di capire e di dare “corpo” ad un segno aperto ad ogni significato. Craig, Kantor, Foreman non hanno esitato a situare il teatro sul versante dell’ombra e 31 B. Eruli, Le compagnon secret, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Interférences), 11, 1998, pp. 7-9 (il riferimento è a The Secret Sharer di Joseph Conrad). 32 Cfr. ivi, p. 7. 33 È uno dei “punti critici” che indagherà a fondo un numero recente della rivista, Le point critique. 34 Cfr. B. Eruli, Le marionnettiste. Un acteur liquide?, in “Registre”, 15, 2011, pp. 109-112.
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dedicato specificatamente al motivo delle Interférences, introdotto da un articolo in cui la marionetta viene identificata con la parte oscura e più necessaria alla vita dell’attore, il suo «compagno segreto»31 (tav. 22). Una nuova generazione di registi, scrittori, coreografi guarda la Marionetta con occhi liberi da ogni pregiudizio (in particolare quello che la considera adatta unicamente al repertorio destinato ad un pubblico infantile), offrendo un’ampiezza di suggestioni che la distanziano dai generi fissati dalla tradizione (fig. 1). La questione dei rapporti tra patrimonio della tradizione e ricerca è complessa: l’autrice fa notare come secondo alcuni queste esperienze avrebbero fatto correre alla marionetta il rischio di perdere, con la propria tradizione, le proprie radici e la sua anima. Si tratterebbe invece proprio del contrario32: le esemplificazioni vanno dall’argentino Periferico de Objetos a Julie Taymor, ai brasiliani XPTO: artisti che utilizzando in modo originale i codici della marionetta dimostrano che essa può iscrivere il proprio cammino nella creazione contemporanea, a condizione di uscire dallo stato di autocensura che sembra a volte prediligere. Si punta il dito così anche su di una responsabilità degli stessi artisti33.
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della morte, cancellando quindi le distinzioni tra verità e finzione, reale e virtuale, tra umano e inanimato; hanno percepito gli spazi con-fusi ai quali la marionetta attinge la sua energia. Il riesame dei codici tradizionali della marionetta infine ha fatto capire ai creatori di teatro per attori in carne ed ossa quante suggestioni fertili poteva offrire all’attore contemporaneo la grammatica laconica dei gesti di questo oggetto teatrale. Lo scarto necessario tra la parola e il gesto mostrano la via a coloro che cercano di rivelare sulla scena la parte d’ombra delle cose35.
Il linguaggio essenzialmente visivo e plastico del Teatro immagine, che sfrutta una grammatica espressiva il cui punto forte è l’insieme di nuove pratiche dell’attore (che non afferma più l’esistenza di una realtà o di una identità stabili) viene accostato alle pratiche del “marionettesco”:
Da questa prospettiva il corpo dell’attore, privato delle prerogative (e degli appoggi) della tradizione, dischiude infinite possibilità, fino a quella estrema dell’assenza. Come le Madonne in certi quadri del Quattrocento o i quadri che illustrano i supplizi dei martiri, l’attore è presente e assente allo stesso tempo, una presenza distanziata dalla sua stessa immagine o dalla sua voce che lo trasfigura, come Ermanna Montanari, issata sul frontone di una chiesa entro un intrico di ferraglia nel trittico Perhindérion (da Jarry) o incastrata in Lus in una sorta di deambulatorio, il corpo avvitato alla sella di una bicicletta nata dall’incubo di un ciclista, i piedi che non toccano il suolo, proferendo le maledizioni di una strega contro la società della sua epoca in una lingua incomprensibile (il dialetto della Romagna) stranamente vicino al wolof per le sue sonorità gutturali. Come nel teatro di marionette, i suoni sono sufficienti per percepire l’incomprensibile37.
Eruli, Le compagnon secret, cit., pp. 7-8. Ivi, p. 8. 37 Ibid. 35 36
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la continuità implicita nella rappresentazione del personaggio è frantumata dalla presenza di corpi che evolvono sulla scena [...]: creature cieche, dall’equilibrio instabile, corpi in trasformazione utilizzati dalla danza contemporanea, che si esprimono con i gesti stilizzati che Wilson predilige, gesti ora rallentati, ora immessi nella ripetizione, svelando una totale inettitudine alla vita reale. Che l’attore d’oggi sia un oggetto del tutto disponibile, come voleva Kantor, o un mostro dal corpo ferito, incarnazione metaforica degli squilibri del mondo, come mostra Castellucci nel Giulio Cesare della Socìetas, che sia un macinino tritura-parole come in Novarina, che sia un corpo danzante o il portatore di un testo nudo, l’attore, come la marionetta, non è che presenza aleatoria, nelle sue evoluzioni tra immagini impenetrabili. [...] Al pari della marionetta, diventa frammento di un ingranaggio immaginario36.
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38 Ivi, p. 9. Viene in mente un bel passo di Daniele Del Giudice sulla «quantità d’ombra che il linguaggio porta con sé, che ogni parola porta con sé nel suo medesimo far luce, dunque dell’ombra che ciascuno di noi riesce a trattenere, a conservare e a far “parlare” all’interno della continua e probabile, puramente probabile luce delle parole» (D. Del Giudice, In questa luce, Einaudi, Torino 2013, p. 5). 39 Cfr. “Puck. La marionnette et les autres arts” (Musiques en mouvement), 6, 1993. La redazione del numero coincide con il Primo incontro internazionale dell’IIM (Institut International de la Marionnette), dedicato al tema (1992). 40 Cfr. B. Eruli, Melting pot, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Langages croisés), 13, 2000; in questo numero è dato ampio spazio al panorama italiano: da Castellucci a Valdoca, da Studio Azzurro a Teatrino Clandestino, da Cuticchio a Cinelli.
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Un corpo abitato da voci differenti. Uno spazio in cui il corpo comincia a trovare altre lingue; la marionetta non è più vista come attore incompleto, perché incapace di parlare; si è compresa l’importanza della deformazione della voce, «della possibilità di dire un testo nella lingua degli uccelli o degli dei, un testo dove la voce costruisce le immagini nascoste nell’ombra delle parole»38. Uno spazio delle voci che, in quanto spazio, può contemplare il silenzio o la relazione tra la presenza dell’attore e la dimensione della mancanza, espressa da una voce registrata e udita in playback, come nel caso emblematico di Carmelo Bene. D’altro canto la stessa dimensione sonora può farsi presenza attorica, “figura” senza corpo come modalità di trasfigurazione del personaggio (il numero di “Puck” del 1993 viene dedicato alla «musica in movimento», con un’introduzione della redattrice dal titolo Des oreilles pour voir, des yeux pour entendre39). Gli esempi delle fruttuose interferenze chiarificano gli snodi messi in gioco. Se Stéphane Braunschweig offre una rassegna delle varie tipologie di presenze “marionettesche” delle sue regie (declinando quindi il paradigma “Marionetta” a livello recitativo, scenografico e costumistico), Odette Aslan riflette sui manichini negli spettacoli di Matthias Langhoff, Ludovic Fouquet sul percorso che porta Robert Lepage dalle marionette alla proiezione; Rezo Gabriadzé offre la propria esperienza dal cinema alle marionette; diversi interventi sono dedicati a William Kentridge e a Bob Wilson (oltre alle interviste agli stessi); e ancora artisti tra loro diversi come Enrico Baj, Nicole Mossoux, Eloi Recoing; in apertura Didier Plassard sui «fragili territori dell’umano» in Kantor, Gabily, Novarina. Nel 2000 Langages croisés prosegue la stessa indagine mettendo maggiormente a segno i procedimenti compositivi: in Melting pot la redattrice torna a portare lo sguardo sulle strategie del collage, dell’incrocio dei materiali, dell’eterogeneo, da cui si fa largo il vuoto lasciato dalla pluralità dei centri40 (tav. 23).
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4. La marionetta: la preminenza del visivo
41 Dal 1973 ha un incarico di ricerca presso il CNRS su Kantor e sulla marionettizzazione dell’attore, sotto la direzione di Denis Bablet. 42 Kantor lavorò un mese con una ventina d’attori di tutte le nazionalità; su questa esperienza si veda il recente film 1+1=0 “Une très courte leçon” de Tadeusz Kantor, di Marie Vayssière e Stéphane Nota (IIM, 2013). Alle questioni poste dall’insegnamento delle arti della marionetta viene dedicato Pro-vocation? L’école (“Puck”, 7, 1994) introdotto dall’editoriale Le dernier pas dépend du premier; con interventi di Albert Flocon sulla scuola del Bauhaus, Niculescu, Givone, Barba, Ronconi, Vassiliev, Vacis, sulla scuola di Mejerchol’d, sul Kabuki, sulle marionette indiane. 43 Cfr. “Puck. La marionnette et les autres arts” (Images virtuelles), 9, 1996. 44 Lo testimoniano i viaggi, professionali e non, e la sua ricca biblioteca; la biblioteca-archivio di Brunella Eruli è stata oggetto di una donazione da parte della famiglia all’Institut International de la Marionnette di Charleville-Mézières (ora polo associato della BNF) e sarà quindi consultabile tramite il Portail des Arts de la Marionnette (PAM).
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Momento “fondativo” di tali interferenze è l’incrocio con le arti plastiche, a cui veniva dedicato già il secondo numero di “Puck”, del 1989, Les plasticiens et les marionnettistes. Tra i variegatissimi esempi che consentono di indagarne i rapporti, una parte vistosa è dedicata a Kantor, artista al quale Brunella Eruli ha rivolto le proprie indagini sin dagli anni Settanta41 e che aveva lavorato a Charleville nel 198842. Nello stesso numero un altro tassello importante dell’universo di Brunella, Enrico Baj (Moi, la marionnette) e altri artisti spostati maggiormente sul versante delle arti visive e delle installazioni, come Beuys o Claude Lévêque, oltre a fotografi (Faucon), marionettisti (Joan Baixas, Massimo Schuster, Enno Podehl), critici, scrittori; Peter Schumann; Jean Paul Céalis; Guenter Metken sul teatro meccanico di Harry Kramer. La stessa Brunella Eruli sul mito dell’Iliade del Carretto. Se il primo numero di “Puck” era una sorta di premessa programmatica, ora la rivista dà corpo alle proprie peculiarità: balza agli occhi la varietà dei punti di vista, degli autori, dei territori. Lo stesso motivo viene fatto ruotare su se stesso, rivelandone scorci inediti. I rapporti tra i diversi oggetti di analisi li illuminano reciprocamente. Il repertorio iconografico, allora per lo più in bianco e nero, traccia già un discorso visivo articolato e coerente nelle sue sfaccettature. Singoli interventi daranno lo spunto per monografie successive (come nel caso dell’articolo di Sally Jane Norman – Die Pixelpuppe – sulle marionette del terzo millennio, a cui si ricollegherà il numero dedicato alle Images virtuelles43). Gli “sconfinamenti” continuano a segnare il ritmo dell’editoriale, Passerelles. A dispetto del grande uso (e abuso) del termine, “interdisciplinarità” risulta spesso una parola illusoria, scrive Brunella Eruli; punta il dito sui momenti critici, sulle difficoltà. Ma indica anche come la crisi possa dischiudere nuove aperture. Appassionata della cultura cinese in tutti i suoi aspetti44, ricorda come “crisi”
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Tra il vivente e ciò che è morto, tra l’uomo e la marionetta, tra l’immagine e la realtà non vi sono frontiere stabili, rassicuranti. L’ambiguità dello statuto della marionetta proietta un alone inquietante sul senso di ogni eroismo umano, che non risiede forse nel dispiegamento della sua forza, ma nella coscienza dei suoi limiti46.
Le passerelles non sono allora solo i passaggi da un territorio all’altro, ma la condizione stessa di instabilità, di apertura e di rischio. Nel quarto numero, Des corps dans l’espace, lo spazio scenico è considerato in relazione ai corpi e nelle sue potenzialità e modalità di infrazione delle proporzioni (tav. 21). Eruli torna sull’apparente paradosso di definire “corpo” quello della marionetta. Se è il manipolatore a darle i riferimenti necessari per esistere, B. Eruli, Dessin du mythe. L’Iliade de “Il Carretto”, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Les plasticiens et les marionnettistes), 2, 1989, pp. 35-38. 46 Ivi, p. 38. 45
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in cinese sia una parola formata da due ideogrammi: il carattere che indica la possibilità, l’occasione aperta, e quello che indica il pericolo. Sono i momenti in cui le “passerelle” (nella loro provvisorietà) possono ristabilire contatti da lungo tempo interrotti. È noto che negli ultimi decenni del Novecento le arti visive hanno sempre più inglobato la dimensione sonora, tattile e luminosa, spostandosi verso i territori della scena e cercando di coinvolgere in modo diverso la percezione dello spettatore. Il teatro da parte sua ha sempre più accentuato gli aspetti plastici e pittorici, oltre ai suoi legami con il cinema. Tuttavia, fa notare l’autrice, questi contatti talvolta si rivelano fragili, oggetto di una ricerca superficiale e fine a se stessa. La marionetta non è un oggetto d’arte statico: realizzare una marionetta significa costruire lo spazio dove potrà compiere le sue evoluzioni, che rimettono continuamente in discussione dimensioni e funzioni degli oggetti, condensano i segni linguistici e impongono scorci all’azione. Ne è esempio l’Iliade del Teatro del Carretto, a cui la stessa Eruli dedica un articolo che evidenzia come nel lavoro della compagnia di Lucca la «componente plastica e la composizione dello spazio fanno tutt’uno con una riflessione originale sullo statuto dell’immagine teatrale [...]. Il bozzetto [...] garantisce l’esattezza, la nitidità delle linee, pur nell’instabilità mobile dell’immagine teatrale in corso di realizzarsi – quindi di disegnarsi, nello spazio della scena»45, consegnando allo sguardo dello spettatore un’immagine in evoluzione, che chiede di essere costantemente decifrata. La relazione tra attore marionettizzato e il tema offerto dall’Iliade diviene scelta registica:
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«l’alto, il basso, la terra, il cielo, il movimento, la morte», anche nel caso dell’attore si tratta di una compresenza tra essere vivente e “personaggio”: «Si vede un corpo, si sente una voce che appartengono a due realtà diverse. Ci si potrebbe chiedere se tutta l’arte del teatro non consista in questa moltiplicazione delle possibilità simultaneamente presenti, con l’evidenza, ingombrante, delle verità prime»47. Questione essenziale è la modalità di presenza a cui è intrinseca la dimensione della morte; che potremmo anche definire una condizione in cui la presenza dell’“attore” si commisura allo spazio e a tutto quanto è – apparentemente – inanimato.
Tutti gli interrogativi che sono corsi nelle pagine di oltre vent’anni di “Puck” sembrano giungere inevitabilmente allo stesso punto nevralgico, che è il «point critique» del diciassettesimo numero, del 2010 (tav. 25). Scrive Brunella Eruli: Al termine di un lungo cammino nel deserto, dopo aver affrontato l’oblio, l’indifferenza, la negligenza travestita da condiscendenza, la marionetta sembra aver infine ritrovato il suo diritto di cittadinanza a teatro, e più precisamente all’intersezione di tutte le ricerche teatrali attuali. Posto che le avanguardie storiche le avevano già riservato. Percorso che l’ha talmente cambiata da rendere difficile ad alcuni vecchi amici riconoscerla nelle sue manifestazioni attuali: interdisciplinare, decostruita, essa afferma una relazione differente rispetto al corpo del manipolatore, prende a prestito e trasforma con disinvoltura i codici della manipolazione tradizionale48.
La molteplicità dei linguaggi, e di conseguenza delle competenze necessarie, rende difficile la classificazione degli spettacoli in cui compare la marionetta; è necessario uno sguardo mobile e privo di pregiudizi. Spesso, scrive l’autrice, si verifica un appiattimento della sua presenza entro un discorso generico che approda alla “scoperta” di significati piuttosto prevedibili (il doppio, l’ignoto, la morte), senza che ne vengano colti i meccanismi e le motivazioni profonde. La critica dovrebbe instaurare un dialogo più consapevole con l’opera e con i suoi procedimenti, accompagnando gli artisti nella ricerca49. Invece critica e storiografia continuano a mantenere le marionette in uno stato minoritario – artistico, 47 B. Eruli, Ruptures d’echelle, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Des corps dans l’espace), 4, 1991, pp. 7-12; citazione a p. 7. Il numero ospita tra gli altri interventi di Jean-Paul Manganaro sul Pinocchio di Bene e di Georges Banu sulla passione per la marionette di Vitez. 48 B. Eruli, Points critiques, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Le point critique), 17, 2010, pp. 7-12; citazione a p. 8. 49 Cfr. ivi, p. 12.
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5. Il punto critico
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Per portare la marionetta sulla “grande scena” gli schemi arrugginiti provenienti da una vecchia storia erano stati superati. Una storia di ostracismo e di “riduzionismo” da parte della critica, ma anche di “autoghettizzazione” da parte degli artisti. Resistenze reciproche che le nuove generazioni hanno imparato a superare sulla scia di Tadeusz Kantor o del Periferico de Objetos, capaci di sradicare queste etichette e di varcare le frontiere. Tuttavia, mantenendo molto spesso il mondo della marionetta in una sorta di apartheid che priva prima di tutto il pubblico della conoscenza di quest’arte e ne restringe la possibilità di scelta, questi schemi lo separano da quello del teatro in prosa o musicale, per lo meno in Italia. La situazione è diversa a Praga, Berlino o Buenos Aires53.
Un pregiudizio simile affligge il cosiddetto “teatro ragazzi”, dove spesso i confini e i canali di distribuzione sono legati a questioni meramente commerciali, perdendo di vista le poetiche dalle quali certi lavori sono scaturiti. A questo proposito ricordiamo che il numero della rivista dedicato all’infanzia (L’enfant au théâtre, 10, 1997) esce solo a una decina d’anni dalla creazione; a conferma di un taglio che prescinde da barriere ed etichette “di genere”. Nell’editoriale dal titolo provocatoriamente perentorio, Pour enfants (feroce come certe fiabe del repertorio marionettesco), Brunella Eruli attacca tale definizione, etichetta che è spesso riflesso di motivazioni amministrative e/o commerciali e che ingabbia la categoria “infanzia”. Il volume, sin dalla scelta del titolo, pone l’accento sul bambino come “soggetto” di visione; la dimensione
50 Cfr. F. Marchiori, Toute critique implique tout le théâtre, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (Le point critique), 17, 2010, pp. 59-64; riferimento alle pp. 62-63. 51 Ivi, p. 64. 52 Ivi, p. 61. 53 Ibid.
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istituzionale ed economico – imponendo loro la stessa separazione che subisce il teatro in generale in rapporto alla società in cui nasce e al processo storico in cui si sviluppa50. Ci si trova di fronte ad una storia di marginalizzazioni a catena: del teatro di ricerca da parte del teatro istituzionale, delle “figure” da parte del teatro di ricerca... Mentre si tratta di «considerare la marionetta come un formidabile dispositivo di destrutturazione e di ristrutturazione di tutte le arti performative»51. Fernando Marchiori nello stesso numero “critico” riporta un esempio emblematico, cioè il riconoscimento da parte di una critica “qualificata” di uno spettacolo «classificato come “teatro di figura” nonostante il rifiuto di questa etichetta da parte degli interessati»52 (Teatrino Giullare: Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti, in Finale di partita). Lo studioso spiega la reticenza dei creatori con il rischio di rimanere confinati nelle nicchie riservate alle marionette.
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dell’infanzia e quella artistica vengono accomunate sotto il grido: «Enfants, artistes, même combat!»54. Una lotta contro tutti gli apartheid, artistici, culturali, accademici ed esistenziali, che Brunella Eruli non ha mai smesso di combattere.
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B. Eruli, Pour enfants, in “Puck. La marionnette et les autres arts” (L’enfant au théâtre), 10, 1997, pp. 9-12; citazione a p. 12. Il numero è segnato da molte interviste ad artisti. In conclusione, rammentiamo i temi monografici dei numeri a cui non è stato possibile fare riferimento nel nostro articolo: il terzo numero è Marionnette et societé (1990); nel 1995 “Puck” è dedicato alla drammaturgia (Écritures, dramaturgies, 8); nel 1999 (la direzione della rivista passa da Niculescu a Roman Paska) al teatro di strada (Marionnettes dans la rue, 12); dal 2001 al 2005 la rivista tace; rinasce con estrema vitalità, rinnovata nella veste editoriale ed edita da L’Entretemps, sotto la direzione di Lucile Bodson, nel 2006, mantenendo le intenzioni di fondo e rifacendo il punto sugli “universali” con il numero 14: Les mythes de la Marionnette. Il numero 15 (2008) è dedicato alle Marionnettes au cinéma; nel 2009 è la volta dell’Opéra des marionnettes (16) (tav. 24); poi Marionnettes en Afrique, 18, 2011 (tav. 26); l’ultimo numero di “Puck”, il 19, è stato portato a termine da Brunella Eruli fino a pochi giorni prima della scomparsa: Collections et Collectionneurs, 19, 2012 (tav. 27). Tra i numerosissimi, ricorrenti, collaboratori di “Puck” (non menzionati per gli stessi motivi di spazio) vogliamo ricordare almeno Guido Ceronetti, Michael Meschke, Helga Finter, Luca Scarlini, Antonio Pasqualino, Janne Vibaek, Mariano Dolci. 54
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Didier Plassard*
Etica ed estetica sulla scena contemporanea: la figura come immagine dell’altro
You think I take it very seriously? I cannot take it seriously enough. If there is a solemn thing at all in Life, only a marionette can interpret it on a stage. E. G. Craig
Per chi cerca di riflettere sul teatro di figura contemporaneo, una delle domande più legittime mi sembra quella della funzione di questo spettacolo in quanto forma specifica. In un paesaggio così mutevole come quello delle pratiche spettacolari, il mescolarsi sempre più grande delle tecniche sceniche e la loro disseminazione in vari campi sperimentali conducono infatti all’attenuarsi delle distinzioni fra le discipline. Quando il teatro di attori, il teatro lirico, la danza, il cinema e il video usano burattini o marionette, e quando lo stesso teatro di figura cerca il suo rinnovamento nel richiamo alle altre discipline, c’è da chiedersi se questo teatro di figura costituisce ancora un ramo distinto delle arti sceniche, o se prima o poi non sarà condannato a sciogliersi nell’insieme indifferenziato dello “spettacolo dal vivo”, sopravvivendo soltanto come un semplice repertorio di tecniche espressive da usare in qualsiasi contesto spettacolare. Mi sembra necessario formulare questo problema in termini più radicali ancora: se mettiamo da parte le forme tradizionali, che si possono prevalere di identità da lungo consolidate e indiscutibili, esiste addirittura un insieme coerente di pratiche spettacolari che possiamo chiamare “teatro di figura contemporaneo”, con i suoi linguaggi e i suoi immaginari specifici? E, se questo esiste, a quali bisogni particolari sta rispondendo? Quali sono le sue funzioni specifiche, dal punto di vista estetico e sociale? Che cosa offre la marionetta, che l’attore non potrebbe fare al suo posto o senza di lei? Queste domande, di sicuro, sono brutali, ma sono quelle che si fanno oggi, per esempio, tanti giovani artisti quando incominciano la loro formazione di marionettista all’Esnam1 di Charleville-Mézières, e sono dunque domande che * Université Paul Valéry – Montpellier 3. Scuola Nazionale Superiore delle Arti della Marionetta.
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1. Che cosa può una marionetta?
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Didier Plassard
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richiamano risposte chiare e non ambigue. Una prima risposta mi sembra essere questa: non penso che le mutazioni delle nostre società, dei nostri modi di vivere e delle nostre espressioni artistiche abbiano reso obsolete le considerazioni, su questo argomento, di un Heinrich von Kleist, di un Alfred Jarry, di un Maurice Maeterlinck o di un Edward Gordon Craig. Grazie alle loro qualità plastiche e cinetiche, quali che siano i materiali e le tecniche adoperate, grazie anche alle loro qualità espressive, il burattino e la marionetta continuano a portare in scena certe immagini del movimento, della corporeità, dell’iscrizione nel mondo visibile o nel mondo invisibile – della vita, diciamo – che sono ben diverse dalle immagini prodotte dagli attori o dai danzatori. Perfino la relazione fra marionettista e figura rimane oggi, come lo era ieri, una possibile allegoria dei rapporti di potere, della dissociazione psichica o dei prolungamenti fantasmatici dell’io. Né l’apparire di nuove formule scenografiche o drammaturgiche, né l’ibridazione col teatro di attori o con la danza conducono necessariamente alla perdita delle qualità originali della marionetta. Si può anche pensare che questi mutamenti moderni, avvenuti nella seconda metà del Novecento, abbiano contribuito invece a sottolineare meglio queste qualità, davanti a un pubblico più diversificato. A queste qualità tradizionali, però, si aggiunge, nell’ambito della creazione marionettistica contemporanea, una nuova dimensione simbolica, consentita dalla generalizzazione della manipolazione a vista. Semplice tavolo posto davanti ad alcune sedie, circolo formato all’improvviso per la strada, palcoscenico di un teatro ottocentesco... lo spazio scenico integralmente offerto agli sguardi consente di vedere simultaneamente la presenza del marionettista, quella della figura e quella del pubblico, facendo così spettacolo dello stesso fatto della manipolazione. Questa visibilità generalizzata, iniziata negli anni Sessanta ancora con una certa discrezione (i marionettisti spesso erano vestiti di nero come nel Bunraku giapponese, rimanevano dietro la figura che maneggiavano, con una gestualità minima e con la faccia inespressiva), viene da alcuni decenni sempre più caricata di valore e di significato, fino a trasformare le tecniche di manipolazione in una messinscena esplicita della relazione interpersonale. Tralasciando i significati religiosi, filosofici, politici o psicoanalitici di cui questa manipolazione si faceva occasionalmente allegoria, il teatro di figura contemporaneo, questa è la mia ipotesi, esamina oggi prevalentemente la relazione tra marionettista e marionetta da un’angolatura che sin qui era rimasta poco esplorata, quella della sua dimensione etica, del pensiero all’Altro come l’ha messo in luce la filosofia di Emmanuel Lévinas. Introdurre questo argomento in un terreno di osservazioni così modesto come il teatro di figura, certamente ha qualcosa di sorprendente. Ovviamente, una tale ipotesi richiede di procedere a certe riduzioni ed a certe semplificazioni, sicché la riflessione etica viene a diluirsi in considerazioni più superficiali, più immediate, più quotidiane. Ma c’è da ricordarsi che, molto spesso, solo grazie a
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questo tipo di semplificazioni l’espressione artistica riesce a trovare l’ingresso nel mondo delle nostre emozioni e dei nostri pensieri.
2. L’avvicinarsi del corpo e della figura
Cfr. E. Podehl, La perception spatiale du manipulateur, in D. Plassard (dir.), Les Mains de lumière, anthologie des écrits sur l’art de la marionnette, Institut International de la Marionnette, Charleville-Mézières 20042, p. 340. 2
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La storia del teatro di figura occidentale, nella seconda metà del Novecento, è sotto molti aspetti quella di un cambiamento di dispositivo visivo. Sia nel caso della manipolazione dall’alto, quella delle marionette e dei pupi, sia nel caso della manipolazione dal basso, quella dei burattini, tradizionalmente quelli che maneggiavano le figure non si facevano vedere: la scena in riduzione della baracca o del castelet si presentava in disparte, come uno spazio teatrale distaccato, dietro la sua inquadratura, dallo spazio del pubblico. Nascosti al di sopra delle figure, marionettisti e pupari stavano con esse in un rapporto che ricordava lo slancio dell’anima verso il suo creatore, la dipendenza verso un potere superiore, mentre i burattinai, sotto le figure, ricordavano la pulsione vitale, la forza delle motivazioni primarie dell’individuo: soddisfare i propri desideri, imporre la propria volontà agli altri, sopravvivere riuscendo a tenersi fuori da una situazione pericolosa o imbarazzante2. Altre forme teatrali tradizionali, in Asia soprattutto, usano dispositivi spaziali completamente diversi. Nel più famoso, il Bunraku giapponese, le figure vengono maneggiate in piena vista da marionettisti vestiti e incappucciati di nero, che stanno dietro a loro, in un palcoscenico grande come quello del teatro di attori. Secondo una ipotesi storica ormai abbastanza diffusa, la scoperta del Bunraku avrebbe spinto i marionettisti europei, negli anni Cinquanta e Sessanta, ad uscire dal castelletto per provare nuove forme di relazione spaziale, entrando nello stesso campo visivo delle figure che maneggiavano. Certi burattinai, per esempio Alain Recoing, ricordano invece che è stata l’opportunità di dare rappresentazioni nei centri culturali, direttamente sul palcoscenico, che condusse i burattinai come lui a lasciare il castelletto. Una evoluzione così importante, comunque, non trova mai una spiegazione unica: che sia stato preso in prestito dal teatro giapponese o che sia nato dalle sperimentazioni già condotte in Europa, il gioco in piena vista non si sarebbe imposto se non avesse offerto una risposta a certi bisogni. La sostituzione della manipolazione verticale (sia dal basso come dall’alto) con la manipolazione orizzontale, per esempio, ha consentito ai marionettisti di uscire dagli schemi religiosi, strutturati dall’opposizione fra terra e cielo, corpo
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Didier Plassard
3 Cfr. E. G. Craig, Mr. Fish and Mrs. Bones, in E. G. Craig, Le Théâtre des fous / The Drama for Fools, édition bilingue établie par M. Chénetier-Alev, M. Duvillier, D. Plassard, traduction M. Chénetier-Alev, sous la responsabilité scientifique de D. Plassard, Institut International de la Marionette - L’Entretemps, Montpellier 2012, pp. 324-331. Una traduzione italiana di questa scena è stata pubblicata da Marina Maymone Siniscalchi nel libro da lei curato: E. G. Craig, Il Trionfo della Marionetta, testi e materiali inediti, traduzione a cura di M. Maymone Siniscalchi, Officina, Roma 1980.
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ed anima, per portare in scena un mondo del tutto immanente, dove l’interazione fra gli esseri umani non coinvolge o non allude ad altre dimensioni. Ed è proprio in questo mondo immanente, post-religioso per molti aspetti, che la figura, in quanto risulta dall’animazione dell’inanimato, può introdurre il senso del mistero e dell’inquietudine metafisica: non più nella convocazione di dimensioni simboliche prestabilite e rese percettibili dalla struttura spaziale del castelletto, ma nei giochi molto più incerti che consentono la presenza visibile di chi maneggia le figure – doppio, ombra, protettore, testimonio, giudice, manipolatore, ecc. Questa mutazione si è compiuta progressivamente, nel corso del Novecento. La prima tappa fu lo svelamento della manipolazione verticale, cioè del legame fra visibile ed invisibile, tra la figura e le forze che la fanno agire. Già negli anni della prima guerra mondiale, quando Edward Gordon Craig scriveva il suo enorme progetto del Dramma per pazzi, portava in scena questo svelamento in un intermezzo intitolato La fine del Signor Pesce e della Signora Lische: la Signora Lische, una donna futile e capricciosa, viene rimproverata da una “Voce dall’alto”, accompagnata dalla discesa di una grande mano con l’indice puntato verso di lei. Questa Voce le annuncia che, per punirla, ha deciso di tagliare tutti i suoi fili, decisione che mette subito in atto. Diventata una bambola inerme, la Signora Lische viene poi regalata ad una bambina del pubblico3. La rappresentazione della relazione di dipendenza tra figura e manipolatore è diventata poi un motivo classico del teatro moderno e contemporaneo. Spesso utilizzato in chiave comica, per esempio dal marionettista tedesco Albrecht Roser: in un suo spettacolo creato nel 1951, il clown Gustaf chiede al suo manipolatore di districare i suoi fili. Ma questo motivo può anche essere interpretato in chiave drammatica, commovente, per esempio quando il Pierrot di Louis Valdès (1964) cerca conforto nelle braccia del marionettista, o quando quello di Philippe Genty (1978) strappa a poco a poco i suoi fili, fino a cadere morto. Nel numero della “Testa pazza” del Figurentheater Triangel di Ans e Henk Boerwinkel (inizio anni Settanta), si vedeva un Polichinelle arrampicarsi lungo i suoi fili, alla ricerca del suo creatore, e in quello del “Provocatore”, lo stesso personaggio, con un paio di forbici, tentava di liberarsi dal suo potere, con lo stesso risultato del Pierrot di Genty. Perfino i burattini possono essere confrontati alle mani nude del burattinaio: è questa la fine dello sketch Le Mani di Pierre Albert-Birot, del 1928; un effetto che sarà poi ripreso da tanti, per esempio da Alain Recoing.
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Il fatto di uscire dal castelletto, di mostrarsi al pubblico non porta soltanto conseguenze artistiche, quelle per esempio di condurre alla ristrutturazione della scenografia, della drammaturgia, o di trasformare la formazione al mestiere di marionettista che, per certi lati, deve avvicinarsi a quello dell’attore. La nuova visibilità scenica del manipolatore porta con sé la possibilità di costruire nuove relazioni simboliche con le figure. Il maneggiamento si fa da più vicino, usando ferri attaccati dietro la figura, piccole aste, o addirittura tenendo direttamente le sue membra, il suo corpo, la sua nuca, fino ad entrare in un corpo a corpo con essa. È quello che spiega Ilka Schönbein, che fu l’allieva di Albrecht Roser:
Se rimane una disuguaglianza fra le due presenze sceniche del marionettista e della figura, questa differenza si riduce sempre di più, ed è piuttosto il legame che le unisce, il loro rapporto di mutua dipendenza che viene sottolineato in questa nuova configurazione spaziale. Il dispositivo del corpo-castelletto, insegnato da Alain Recoing e ripreso da tanti giovani artisti, come per esempio Nicolas Gousseff per Voi che abitate il tempo, di Valère Novarina5, o la compagnia Là où per Nella notte questa donna ed io6, da un racconto di Kossi Efoui, ne propone una riformulazione particolarmente efficace (tav. 28). Accogliendo la figura in un contatto fisico con il corpo umano, il suo o quello di un altro attore, il burattinaio costruisce con lei uno spazio allo stesso tempo straniante e complice, intimo e fantasmatico, dove il più leggero movimento dell’uno o dell’altro suscita nuove emozioni.
3. Il diventar-personaggio del manipolatore e la responsabilità Dal punto di vista drammaturgico, la compresenza della figura e del marionettista dà luogo ad una grande varietà di interazioni quando mette in scena il gesto della manipolazione; cioè quando il marionettista smette di stare dietro alla figura, in un atteggiamento puramente strumentale, e sceglie invece di rappresen-
4 I. Schönbein, Une école sévère mais inégalable, in “Puck”, 12, 1999, pp. 45-48; citazione a p. 45. D’ora in avanti le traduzioni dal francese si devono all’autore dell’articolo. 5 Cfr. V. Novarina, Vous qui habitez le temps, regia di N. Gousseff, Théâtre de la Commune, Aubervilliers 2005. 6 Cfr. Dans la nuit cette femme et moi, da Le Faiseur d’histoires di K. Efoui, regia di R. Herbin, La Passerelle, Saint-Brieuc 2000.
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Poco a poco, ho tagliato tutti i fili delle mie marionette ed ho consentito loro di avvicinarsi sempre di più a me. Fin da allora, non c’è più né filo né asta tra la marionetta e me stessa: al loro posto, sperimento sempre nuove tecniche di manipolazione con il mio corpo, con le mie mani, con i piedi, con la testa o col sedere4.
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Cfr. P. Duarte, Petites âmes, regia di P. Duarte e R. Herbin, Bonlieu, Scène nationale d’Annecy, 2008. 8 E. Lévinas, Entre nous, Grasset, Paris 1991, p. 193. 7
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tare, pure in un modo fugace, il potere che esercita sulla figura e sul mondo nel quale quest’ultima si muove. La parte del manipolatore, maestro del gioco delle marionette, e quella del contastorie, che fa sorgere i personaggi e le situazioni del suo racconto, sono dunque i primi modi di intervento usati dal marionettista, le prime giustificazioni della sua nuova visibilità. In entrambi i casi, lo spettro degli effetti di questa presenza appare quasi infinito: dall’istrionismo di Massimo Schuster nel manipolare le sculture di Enrico Baj (Ubu re, 1984) fino alla delicatezza di un Rezo Gabriadzé: nel suo Canto per il Volga (1994), nel momento in cui moriva la giumenta Natacha, le mani inguantate di nero di un manipolatore prendevano un po’ di neve per ricoprire il suo cadavere, poi le appoggiavano attorno il cerchio che aveva simbolizzato i suoi sogni di cavallo da circo, offrendo così una sepoltura all’animale che il suo innamorato, il cavallo Aliocha, schiacciato dal dolore, colle sue zampe non poteva costruire (tav. 29). Ma molti altri significati e molte altre connotazioni della manipolazione a vista vengono usati sulle scene contemporanee. Poiché la marionetta è spesso piccola, e poiché necessita, per diventare viva, dell’aiuto delle mani altrui, i gesti anche più semplici del maneggiamento evocano quasi irresistibilmente la protezione e la sollecitudine dell’adulto di fronte al bambino: aiutare ad alzarsi, a camminare, a prendere un oggetto, a mettersi o togliersi l’abito. Sono tanti gli spettacoli, e non solo quelli rivolti al giovane pubblico, che usano questa potente leva emozionale fino a costruire la loro drammaturgia sulla relazione di dipendenza fra un piccolo essere smarrito, incapace di sopravvivere da solo nel mondo, e il corpo o il viso smisuratamente grandi del manipolatore o dell’attore, che assume la parte del testimone ben disposto o dell’osservatore inquietante del suo agire. Nello spettacolo Piccole anime7, per esempio, Paulo Duarte mostra lo stupore di una di queste figure, nuda, quasi uno scheletro, davanti alle immagini ritardate dei propri movimenti, poi davanti al calco di un piede o di una mano fuori proporzione, sotto la sorveglianza del marionettista. Quando il personaggio anonimo scopre le tracce video del suo corpo, come altrettanti riflessi sovrapposti, sono le prime forme della coscienza di se stesso, quello che Jacques Lacan chiama lo stadio dello specchio, che ci sembra di vedere svelate attraverso le interrogazioni della piccola figura. «La prossimità del prossimo è la responsabilità dell’io per un altro»8, scrive il filosofo Emmanuel Lévinas. Avvicinandosi al corpo del marionettista, la figura contemporanea entra proprio in questo spazio della responsabilità, diventa quasi allo stesso momento, perché fragile, perché piccola, perché in una situazione
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Cfr. ivi, p. 114. Cfr. J. Mayer, Des nouvelles des vieilles, Le Triangle, Rennes 2007.
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di dipendenza, un’immagine pungente della relazione con l’altro. A quel punto, già, una forma di interrogazione etica comincia a farsi vedere, tanto più forte in quanto, essendo simultaneamente oggetto e figura di un uomo, la marionetta porta al punto di massima incandescenza l’atteggiamento ambiguo che, secondo Lévinas, assumiamo quando scorgiamo il viso altrui: un atteggiamento nel quale, in modo paradossale, si sente simultaneamente il desiderio primitivo di uccidere quest’altro ed il ricordo del divieto assoluto di uccidere, del “Tu-non-ucciderai”, che significa anche il divieto di abbandonare l’altro alla minaccia della morte, di lasciarlo morire. Così che, sempre secondo Lévinas, l’apparizione del viso altrui è allo stesso momento fonte di un desiderio omicida e ricordo del divieto di compierlo9. Poiché smette di essere un oggetto inerme per diventare un altro io davanti a me, poiché assume questa funzione di incarnare il viso dell’altro che suscita il mio desiderio di annientarlo – e questo tanto più facilmente se la sua “morte” può semplicemente risultare dal rifiuto di animarlo –, costringendomi però a rispettare il divieto dell’omicidio, la figura contemporanea mette in scena, nel confronto della figura e del manipolatore, la mia responsabilità davanti all’altro; mi conduce, sotto le vesti di una finzione apparentemente senza importanza, a prendere coscienza di quanto l’esistenza dell’altro significhi per me. Naturalmente va subito aggiunto che questo divieto dell’omicidio può essere trasgredito, giacché siamo nel regno della finzione: solo che questa trasgressione è una decisione grave, che richiede una legittimazione e che, compiuta dal marionettista in piena vista, partner della figura, assume un significato diverso da quello che lo stesso gesto ha nell’inquadratura tradizionale della baracca di un Punch o di un Pulcinella. Questa dimensione etica del teatro di figura contemporaneo è ancora più ovvia quando il marionettista diventa davvero attore, entrando nella stessa finzione dove sta la figura, cioè quando l’uno e l’altro cominciano ad abitare lo stesso spazio drammatico, oltre che farsi vedere nello stesso spazio scenico. Ci sono, ovviamente, tantissime variazioni tematiche di queste relazioni, dalla seduzione fino alla possessione, dalla protezione fino alla rivolta, dalla gemellarità fino alla dominazione, ma quasi tutte possono essere lette alla luce dell’idea di responsabilità verso l’altro. Facciamo un solo esempio: nel suo spettacolo Notizie delle vecchie (2007)10, ripreso poi in una serie di altre proposte sotto il titolo di Stornello (2010), Julika Mayer ha rappresentato con grande forza e con molta delicatezza, a mio parere, la dimensione etica della relazione fra marionettista e figura, basandosi sulla caratterizzazione iperrealista di quest’ultima. Mentre la colonna sonora fa sentire le testimonianze registrate durante
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Didier Plassard
4. I visi dell’altro Se dunque la figura è una immagine dell’altro, e se, nel gioco a vista del marionettista, si fa l’allegoria spesso esplicita della nostra relazione con l’altro, molte delle scelte plastiche che si possono individuare oggi nella costruzione delle figure diventano chiare sotto questa luce. L’alterità, in effetti, può mostrarsi sotto la sua forma più astratta, come oggetto di pura speculazione – ma anche, talvolta, come oggetto di sgomento o di fascino: figure schematiche, maschere neutrali, anonime ed inespressive ci mostrano una rappresentazione basica, essenziale, della condizione umana. Certe volte, le dimensioni naturali del corpo umano, la scelta dei vestiti e il calco del viso a somiglianza di un viso reale (come in Twin Houses di Nicole Mossoux et Patrick Bonté, 1994) conferiscono invece a quell’altro, diventato un vero e proprio doppio, una presenza densa, inquietante, vicina al fantasma: la dissociazione schizofrenica, allora, non è lontana. Ma, molto più spesso, viene fatta la scelta di conservare alla figura le sue dimensioni tradizionali di essere umano in miniatura, facendone così la rappresentazione simbolica di un bambino che un adulto – il marionettista – accompagna nella sua esplorazione dell’universo. Soprattutto, però, si può notare come l’enorme maggioranza delle marionette contemporanee mostrino una immagine degradata, ridicola o addirittura grottesca dell’essere umano. Teste o mani sproporzionate, materiali poveri o di recupero, visi spiegazzati, lineamenti appena abbozzati, come per esempio sui fantocci creati da Francis Marshall per All’imbrunire di Daniel Lemahieu nella regia di François Lazaro (1994), le figure del teatro contemporaneo oscillano fra l’umano e il non-umano – animale, oggetto o materiale rozzo. Corpi quasi morti, umani rosicchiati dalla bestialità, creature indistinte costruiscono una
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le interviste fatte a persone anziane, Julika Mayer costruisce un duo nel quale prende la vecchia donna sulle sue ginocchia, si corica vicino a lei, le fa compagnia per quattro passi, poi finalmente la fa balzare nell’aria, improvvisamente leggera come se fosse una creatura di sogno. Troppo piccola per creare a lungo l’illusione realistica, ma abbastanza grande perché questa illusione ci colpisca di tanto in tanto, la figura iperrealista consente simultaneamente la mobilizzazione di tutti i poteri dell’identificazione, e lo svelamento della realizzazione fantasmatica dei nostri desideri: dimenticare la distanza creata dall’età e dalla vicinanza con la morte, restituire le cure ricevute quando si era bambino, ridiventare bambino, dare sfogo a sentimenti troppo a lungo nascosti... al di là di questa varietà di proiezioni e di emozioni, l’esigenza di non “lasciare l’altro morire solo”, come ricordava Lévinas, si trova qui quasi esplicitamente messa in scena.
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rappresentazione dell’essere umano sotto forma di una cosa, raddoppiando così la dimensione dell’alterità. Questi visi ci costringono a guardare in faccia le nostre paure, il nostro ridicolo, i nostri impulsi primitivi, le nostre fragilità. Ci rammentano altre forme dell’umano – forme marcate dal dolore, dalla miseria, dalla vecchiaia, dal loro passato. E ci riconciliano con le due estremità del nostro destino biologico: l’appena nato, il non ancora iniziato, con tutto il potenziale di sorpresa e di svelamento che possiede ancora, ed il quasi morto che esplora gli ultimi sussulti della vita. E lì risiede, secondo me, un altro livello della dimensione etica portata sulle scene del teatro di figura contemporaneo. Quello che può offrire la marionetta è anche, mostrando i suoi margini, allargare lo spettro delle immagini della condizione umana.
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Elena Randi*
«Cries of “dehumanization”, “coldness”, “puppetry” and “mechanicalness” arose». La danza di Alwin Nikolais
* Università di Padova. 1 Cfr. F. Pedroni, Alwin Nikolais, L’Epos, Palermo 2000, p. 33. 2 Scrive Claudia Gitelman che «uno sguardo alla carriera iniziale come direttore di un teatro di marionette e come tuttofare del teatro suggerisce che la marionetta possa aver influenzato il suo lavoro maturo di insegnante e coreografo» (C. Gitelman, The Puppet Theater of Alwin Nikolais, in “Ballet Review”, XXIX, 1, Spring 2001, pp. 84-91; citazione a p. 84). Tutte le traduzioni dall’inglese da qui in poi si devono all’autrice dell’articolo. 3 Per contestualizzare l’argomento e chiarire l’ambito entro cui ci si muove, cfr. L. Allegri, Figure e teatro contemporaneo, in L. Allegri, M. Bambozzi (a cura di), Il mondo delle figure. Burattini, marionette, pupi, ombre, Carocci, Roma 2012, pp. 131-140. 4 Cfr. A. Nikolais, The Unique Gesture, in A. Nikolais, M. Louis, The Nikolais/Louis Dance Technique. A Philosophy and Method of Modern Dance including “The Unique Gesture”, Routledge, New York 2005. D’ora in avanti, la parte di questo volume in cui si trova The Unique Gesture è abbreviata con nug. Lo scritto di Nikolais edito è inframmezzato a pagine di Louis (ma ben riconoscibili, non confondibili con quelle del coreografo nato a Southington).
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Nel biennio 1935-1936 Alwin Nikolais, poco più che ventenne, lavora come direttore del teatrino di marionette dell’Hartford Parks Departement1, e – quanto meno a partire dagli anni Cinquanta quando inizia a creare coreografie astratte – mette in scena suggestivi spettacoli definibili forse “di figura”2. Che sia dunque interessato al genere sin da giovane è indubbio. A tale passione viene a dare un sostegno teorico nel corso degli anni, appoggiandosi in modo consistente all’Attore e la Supermarionetta di Edward Gordon Craig, come si cercherà di dimostrare nel corso dell’intervento3. Negli scritti Nikolais, per quanto ne sappiamo, tende ad occultare il saggio di riferimento più che a menzionarlo, ma questo rientra probabilmente nel consueto modo di fare di molti artisti, che preferiscono celare le fonti d’ispirazione per risultare più originali, per brillare di luce più viva. Vediamo, allora, quale sia la poetica che Nikolais sembra condividere con Craig lavorando sul confronto tra The Unique Gesture, fondamentale testo teorico nikolaisiano pubblicato postumo nel 20054, e L’Attore e la Supermario-
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Elena Randi
5 Cfr. E. G. Craig, L’Attore e la Supermarionetta, in E. G. Craig, Il mio teatro: L’arte del teatro, Per un nuovo teatro, Scena, a cura di F. Marotti, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 33-57; d’ora in avanti, cam. 6 Si ringrazia sentitamente Francesca Pedroni, che ha avuto l’opportunità di vedere più versioni dell’originale donatele in copia dal Maestro americano, e che, consapevole delle difformità fra manoscritti e testo edito, ha indotto la scrivente a consultare almeno alcune delle differenti versioni del manoscritto di The Unique Gesture. Le versioni manoscritte del testo sono oggi conservate in: Ohio University Libraries, Mahn Center for Archives and Special Collections, Alwin Nikolais and Murray Louis Dance Collection, Series 2: Artistic Series / Subseries 2.1: Alwin Nikolais / Subsubseries 2.1d: Manuscripts. Più precisamente, i manoscritti non ritoccati da altri dopo la morte di Nikolais sembrano essere quelli conservati in: box 3, folders 40a, 40b, 43a, 43b, 43c, 44a, 44b, 47a, 47b, 48a, 48b. Confrontando la versione edita da un lato e le varie versioni del manoscritto dall’altro, si può affermare che le differenze, piuttosto consistenti nel montaggio delle parti e nella forma, non paiono intaccare la sostanza. Si ringrazia di cuore Sara Harrington, direttrice di Arts & Archives delle Ohio University Libraries, per l’aiuto prestato. 7 Cfr. cam, pp. 34-35. 8 Ivi, p. 35. 9 Ivi, p. 36. 10 nug, p. 9.
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netta (1907)5, dei quali si evidenzieranno le costanti. Va premesso tuttavia che la versione edita di The Unique Gesture è ritoccata (pressoché certamente da Murray Louis) rispetto all’originale, come si può constatare confrontando il testo a stampa con le redazioni del manoscritto oggi conservate nella Alwin Nikolais and Murray Louis Dance Collection delle Ohio University Libraries. Per ragioni soprattutto di copyright, si è citato sempre dal testo edito, ma previa verifica della sostanziale consonanza del contenuto espressovi con il pensiero di Nikolais tratto dalle fonti manoscritte6. Cominciamo dalla constatazione che sia per Craig che per Nikolais l’attoredanzatore ideale dovrebbe essere libero dall’emozione. Scrive il regista inglese che essa è uno stato d’animo accidentale e fortuito7, e l’arte non tollera nulla di casuale («L’arte [...] non può ammettere fatti accidentali»8). L’emozione inoltre – continua – obbedisce all’ottusa vanità, un tratto incompatibile con l’arte: «Oggi assistiamo allo strano spettacolo di un uomo contento di enunciare i pensieri a cui un altro ha dato forma, mostrando la propria persona al pubblico. Fa questo perché è lusingato; e la vanità... non ragiona»9. Nikolais insiste sulla primaria esigenza, per il danzatore, di superare il proprio io: l’egocentrismo va bandito e, poiché la sessualità ne è il messo più potente, occorre escluderla come soggetto dalla danza: «Il primo obiettivo [...] è trovare dei metodi per liberare il corpo [del danzatore] dal limitante vortice dell’ego, dell’io. [...] La forza più tenace nella centralizzazione è l’egocentrismo, e la forza più tenace nell’egocentrismo» – che è anche vanità e narcisismo – «è la sessualità, sicché credo sia necessario a lezione spezzare questo prima di tutto. [...] La battaglia dei sessi non è più il soggetto essenziale della danza»10. A parere
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Nella danza la figura può trascendere il suo essere umano e, come la musica, diventare qualunque cosa. Il danzatore può essere astratto o concreto. Può essere l’essenza di un carattere senza essere il carattere stesso. Può essere un suono o un colore. Può essere un’emozione senza essere emozionato. Può essere la qualità di un tempo o di uno spazio. Può essere una cosa di natura o un’invenzione della mente. Nell’atto di trascendere se stesso, usa l’aspetto più potente e di maggior valore dell’essere umano, vale a dire il suo potere di cambiamento, di divenire, di piena trascendenza. Può ridursi al microcosmo o espandersi a macrocosmo. Invece del solo mondo, può ora includere l’universo15.
E Murray Louis chiosa: Non più limitato a ciò che il corpo permette, egli [il danzatore] può ora espandersi per diventare qualunque cosa la mente può immaginare16.
Il punto di partenza quanto a tecnica motoria sta nel superamento di uno dei principi cardine della modern dance: quello di far dipendere i movimenti del danzatore da un punto definito, posto al centro della macchina corporea, dal quale farli partire e verso il quale farli convergere. Al contrario, Nikolais mira a creare un centro fluido, capace di spostarsi da un luogo all’altro del corpo17. «La danza è l’arte del motion, non dell’emotion» (ivi, p. 10). Ivi, p. 6. 13 Y. Hardt, Alwin Nikolais: Dancing Across Borders, in C. Gitelman, R. Martin (edited by), The returns of Alwin Nikolais: bodies, boundaries and the dance canon, Wesleyan University Press, Middletown (Connecticut) 2007, pp. 64-81; citazione a p. 69. 14 Decentralization è intitolato un capitolo di The Unique Gesture, al quale si rimanda: nug, pp. 9-11. 15 Ivi, p. 194; corsivi nostri. 16 Nikolais, Louis, The Nikolais/Louis Dance Technique, cit., pp. 11-12. 17 Cfr., per esempio, nug, p. 11. 11 12
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di Nikolais, occorre concentrarsi sul motion, anziché sull’e-motion11, che – generata dall’iperdilatazione dell’ego – va espunta o, quanto meno, ridotta il più possibile (e occorre precisare che motion, nel linguaggio nikolaisiano, indica la qualità del movimento, piuttosto che il movimento stesso: per esempio, si può dire che «l’oggetto si è mosso nello spazio in motion a spirale»12; è il movement a segnalare da dove a dove si spostino l’oggetto o l’essere umano). L’artista americano chiama il superamento dell’ego decentralizzazione, un termine che può trarre in inganno e che Yvonne Hardt suggerisce di definire relazionalità, così sottolineandone l’aspetto «inclusivo» anziché la caratteristica centrifuga13. Attenzione dunque: la parola impiegata dal Maestro significa fondamentalmente mettere al bando il gonfiamento dell’io, sgretolare i limiti dell’ego, per espandersi, con-fondersi con l’universo14:
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18 Scrive Nikolais: «Per un’arte dominata dall’esibizione del corpo umano, questo [la decentralizzazione] non è facile» (ivi, p. 9). 19 cam, p. 51. 20 Ivi, p. 53. 21 Ivi, p. 54. 22 Ivi, p. 55. 23 Ibid. 24 Abstraction si intitola il capitolo che si occupa del tema or ora proposto e che si trova in nug, p. 205. Dobbiamo supporre che si tratti, però, di un titolo coniato da Louis, dato che non lo si riscontra nelle versioni manoscritte consultate. 25 Cfr., per esempio, ivi, p. 22.
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Che l’attore-danzatore non sia toccato dall’afflato emotivo – osserva Craig quanto Nikolais – è particolarmente difficile in quanto egli lavora sul suo corpo e non su uno strumento esterno a sé come può essere la tela del pittore18. Il fisico dell’interprete scenico dovrebbe essere il riflesso di una facoltà interiore, di cui sa esprimere il dettato. Per Craig, questa facoltà è la mens, termine che certamente non va inteso nel senso di ragione. Craig infatti parla della Supermarionetta (e dell’artista in generale) come di una creatura «in catalessi»19, la cui attività «sconfina nel delirio», nel «bisbigliare tranquillo e fresco della vita estatica»20. Più precisamente, Craig lascia intendere che la mente sia la facoltà dell’uomo in grado di “leggere nella mente di Dio”, l’arnese attraverso cui può vedere le immagini «fatte a somiglianza di Dio»21, ossia gli archetipi («il simbolo dell’albero bello, il simbolo delle colline, i simboli dei ricchi minerali racchiusi nelle colline»22, ecc.), lo strumento capace di discernere le cose al di là di questo basso mondo, prodotto a seguito della «caduta»23. La mente sembra dunque poter percepire la natura com’era prima di diventare deforme e contaminata dalla storia, poter scorgere il bello, sicché quando Craig scrive che la Supermarionetta riflette i paesaggi della mente, afferma, in pratica, che rappresenta l’archetipo, l’ideale. Anche per Nikolais, come per Craig, l’interprete dev’essere lo specchio di una facoltà interiore, ma tale facoltà è connotata da cifre diverse da quelle concepite da Craig. Per spiegare di cosa si tratti, prendiamo le mosse dal concetto di astrazione. L’autore di The Unique Gesture scrive che il pittore deve espungere dall’opera tutti i dettagli irrilevanti, inutili; fa ulteriormente astrazione continuando a selezionare e rifinire e, procedendo così, può (e deve) raggiungere l’essenza, ossia i principi ordinatori della rappresentazione pittorica (per esempio, prospettiva, rapporti tra le cose, chiaroscuro)24. Lo stesso deve fare il danzatore, a cui spetta il compito di rappresentare le leggi che regolano il movimento (quali gravità, momentum, forze centrifughe e centripete)25. Nikolais, in altri termini, relativamente a questo punto, si ispira a certa pittura astratta, facendo qualcosa di simile al Mondrian che lavora a liberare le relazioni formali
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Nella sua storia spirituale, l’uomo è stato guidato verso un’utopia metafisica in cui tutti i suoi sforzi sono stati rivolti verso una liberazione dalle pene e dai legami corporei. In questo sforzo risiede la sua ragione d’essere. I suoi momenti più alti sono quelli dello spirito. L’arte è il trionfo sul fisico. Come la scienza sta al corpo, l’arte sta all’anima, e l’estasi dell’evoluzione morale dell’uomo verso un piano più elevato si situa nell’arte e nella sua reazione ad essa. Nel momento dell’arte c’è mistero solo per la mente cosciente; nell’io interiore ci sono sicurezza e chiarezza. Tanto la scienza quanto l’arte cominciano dal mistero. La scienza dissipa il mistero per quanto è capace; l’arte lo custodisce. L’arte elimina anche il fatto concreto, e così le forze mistiche nascoste sono più accessibili alle percezioni sensoriali primarie30.
Sarebbe proprio l’essenzialità dei movimenti, dunque, a permettere alle «percezioni sensoriali primarie», connesse alle «forze mistiche» più profonde del danzatore, di affiorare. I movimenti astratti, liberati dal «fatto concreto», in altri termini, non sarebbero affatto lo specchio del freddo raziocinio, ma, al contrario, sarebbero portatori di «spirito», di «anima», di «forze mistiche». Un insieme di dinamiche interiori che Nikolais sembra ritenere pre-psicologiche («mi occorsero molti anni per capire che fin dall’inizio avevo lavorato alla ricerca di una forza energetica anteriore alla psiche, una sorta di comportamento 26 Sul tema, cfr. M. Schapiro, L’Arte moderna, Einaudi, Torino 1986, pp. 246-280. Tornano utili anche le pp. 200-225. 27 nug, p. 21. 28 Pedroni, Alwin Nikolais, cit., p. 116. 29 Cfr. nug, p. 17. 30 Ivi, p. 21.
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nell’arte figurativa mascherate dall’involucro materiale, rendendole allo stato “puro”26. Ci si può lecitamente chiedere a questo punto se l’operazione compiuta da Nikolais sia meramente tecnica, scientifica nel senso “duro” del termine, se sia un’operazione freddamente razionale, cosa di cui è stato di frequente accusato. E possiamo subito rispondere negativamente a partire da un’esplicita affermazione che anche Craig avrebbe potuto scrivere: «Quando l’arte ricorre alla ragione cosciente, è incline all’errore»27. Cos’è, allora, secondo Nikolais, la facoltà di cui l’artista deve farsi specchio? Francesca Pedroni ci mette sulla buona strada: «Ciò che rende credibile la trasformazione esteriore», ossia i movimenti compiuti dai danzatori, «è il mutamento qualitativo interiore»28. Vediamo allora come Nikolais descriva il paesaggio interiore del danzatore da lui prediletto. Egli comincia affermando che se non avesse una volontà, sarebbe annichilito dalla gravità. L’energia volitiva, invece, lo fa muovere e lo induce a compiere delle azioni29. Ma non basta:
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Mi sono concentrato più intensamente sul motion stesso. Il motion può più facilmente diventare il soggetto piuttosto che essere un’appendice del danzatore. Il risultato più positivo di lavorare da questa prospettiva fu l’emergere di una definizione più forte della danza: la danza divenne l’arte del motion, libera da soggetti letterari36.
Sin qui abbiamo focalizzato il discorso sull’attore-danzatore. Resta da chiedersi quali idee abbia Nikolais sul “regista” (quelle di Craig in materia sono sufficientemente note). Anzitutto possiamo affermare che egli deve seguire tutti 31 Dichiarazione di Nikolais riportata in A. Livet (edited by), Contemporary Dance, Abbeville Press, New York 1978, p. 190. 32 nug, p. 21. 33 cam, p. 34. 34 «La parola emozione confonde. Ogni movimento umano in qualche misura la contiene. Quanto più comunemente attribuiamo all’emozione è connesso all’inabilità di agire come diretto risultato della stimolazione sensoriale. Ciò comporta una connotazione di frustrazione, scontento o altre forme di dispiacere, o anche rabbia, paura, odio o stati più passivi di desiderio intenso, nostalgia o simili. Si può anche essere in uno stato di passionalità eccessiva, stimolata oltre la capacità di sopportazione del corpo. Questo creerà anche squilibri» (nug, p. 19). «Quando le energie fisiche o psichiche sono esagerate oltre quanto richiesto dall’azione voluta, il risultato è drammaticamente emozionale piuttosto che mozionale [motional], o emozionale oltreché mozionale. [...] All’altro capo della scala motivazionale, anche l’energia insufficiente riflette implicazioni emozionali» (ivi, p. 252). 35 cam, p. 53. 36 nug, p. 9.
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animistico, una forza che coinvolge l’originarietà dell’uomo»31) «è la spina dorsale del coinvolgimento estetico ed è il riferimento primario di tutta l’arte»32. Tale energia, motore del corpo, trasforma e trascende i materiali per creare significato oltre il loro fatto fisico. Essa, come direbbe Craig, «non turba [...] mai l’equilibrio» del vero «artista»33, poiché non è né eccessiva né insufficiente, laddove ogni eccesso (in una direzione attiva o passiva) implica emozione34. L’arte – quella dell’attore-danzatore come qualunque altra –, in ogni caso, non deve assolutamente riprodurre il reale, la natura. Questo è ribadito più volte da Craig quanto da Nikolais, entrambi fortemente critici nei confronti della corrente realistica. Se l’uno la definisce «l’ottusa affermazione della vita, [...] una cosa lontanissima dal fine dell’arte, che non è quello di riflettere i fatti quotidiani di questa vita, perché non è proprio dell’artista camminare dietro le cose, avendo al contrario conquistato il privilegio di precederle – di guidarle»35, l’altro si proclama contrario alla danza che racconta una storia al modo della letteratura. Per Nikolais, infatti, la danza deve parlare solo la propria lingua, che non è quella verbale e non deve imitarne i protocolli; l’arte può essere latrice di significati profondi senza proporre una “trama”; anzi, lo può essere molto di più proprio in ragione dell’assenza di istanze “letterarie”:
La danza di Alwin Nikolais
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Un giorno Nik entrò in classe con degli oggetti fatti a forma di disco. Li gettò a terra e ci disse di fermarli a uno dei piedi con una fascia a strappo e poi di provare a muoverci. Fu davvero divertente e sorprendente. Arrivammo a movimenti che non avremmo trovato se non avessimo avuto quei cerchi ai piedi37.
Da questa improvvisazione nasce Discs, una delle parti di cui è composto lo spettacolo Kaleidoscope (1956), sezione in cui i membri della compagnia portano, legata ad un piede, una piastra a forma di cerchio che ne condiziona sensibilmente le azioni. Se ne deduce insomma che, almeno in alcune occasioni, vi sia una doppia fase creativa: quella “prima” dei danzatori e quella “seconda” del coreografo-regista che usufruisce delle sequenze da loro offertegli e che combina con quelle degli altri ballerini e con gli altri coefficienti scenici. A questo, forse, persino Craig era arrivato teoricamente quando aveva scritto che l’attore del domani sarebbe stato creatore («gli attori [...] impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e interpretare; e dopodomani dovranno creare»38); ma il problema fondamentale del regista inglese era la mancanza dell’artista della scena in grado di operare correttamente, sicché di fatto quello da lui prediletto non creava nulla perché semplicemente non esisteva. Arriviamo dunque alla conclusione. È noto che Edward Gordon Craig nell’Attore e la Supermarionetta scrive che il teatro ideale da lui teorizzato è inesistente a causa della mancanza di un attore capace di realizzarlo. Se inizia affermando che «recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’interprete come
Tratto da F. Pedroni, I Grandi Maestri – Alwin Nikolais: una pedagogia per il futuro, in “Danza&Danza”, settembre-ottobre 1999, p. 18. 38 cam, p. 37. 37
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i principi sin qui proposti in riferimento al danzatore (superamento dell’emotività, astrazione, espressione dello spirito, ecc.). Ma chi è il creatore tra i due? A chi spetta cosa? Quali compiti ha l’uno e quali l’altro? Dobbiamo allora riferirci al metodo di composizione degli spettacoli. Prendiamo in considerazione il procedimento a nostro parere più coerente rispetto a quanto sin qui descritto e utilizzato in alcune opere importanti: quello per cui l’artista americano parte da improvvisazioni o da composizioni dei ballerini (nelle quali essi hanno prodotto forme astratte per esprimere il più profondo mondo interiore) e poi le mette assieme, combinandole con costumi, luci, suoni, “scenografie” (tutti i coefficienti per lo più sono composti da Nikolais personalmente). Se infatti la pedagogia del Maestro americano prevede l’apprendimento, da parte dei danzatori, dell’abilità di improvvisazione e di composizione, alcuni racconti testimoniano come almeno taluni spettacoli siano costruiti a partire da esse. Ricorda, per esempio, Phillys Lahmut, una famosa interprete della compagnia:
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di un artista»39, poi spiega che si tratta di un problema storico, legato all’epoca presente, e non ontologico: Ma vedo uno spiraglio attraverso il quale gli attori potranno evadere in tempo dal servaggio in cui si trovano. Essi devono creare per se stessi una nuova forma di recitazione, consistente essenzialmente in gesti simbolici. Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e interpretare; e dopodomani dovranno creare. In questo modo potrà aversi nuovamente uno stile [...] spero e ho fiducia che fra non molto uno straordinario rivolgimento farà sorgere a nuova vita ciò che nel teatro è in decadenza, perché sono convinto che l’attore darà l’apporto del suo coraggio a questa rinascita40.
il bersaglio della polemica craighiana è in realtà l’attore occidentale a lui contemporaneo. Lo dimostra il fatto che quando il teorico inglese viene a conoscenza della tecnica recitativa indiana, le sue affermazioni mutano direzione: «Se l’attore occidentale sarà in grado di diventare ciò che si dice l’attore orientale fosse e sia, ritirerò tutto quanto ho scritto nel mio saggio sull’Attore e la Supermarionetta»41.
È chiaro che l’autore si riferisce a tutta la consistente parte dello scritto in cui si scaglia contro l’interprete narcisista ed egocentrico e non al passo in cui apre uno «spiraglio» alla possibilità che egli diventi strumento dell’arte. Ebbene, Nikolais inventa una pedagogia che offra ai danzatori una tecnica grazie a cui raggiungere risultati che, se non identici a quelli auspicati da Craig, ne sono prossimi; che fornisca loro, insomma, un corpo inteso come docile strumento capace di rendere la più elevata facoltà interiore: quanto egli definisce ora «spirito», ora «forze mistiche», ora in altri modi ancora, e che Craig chiama mens nei termini già esposti42. Questa tecnica viene ampiamente descritta soprattutto Ivi, p. 34. Ivi, pp. 37-39. 41 P. Degli Esposti, I profeti della “riteatralizzazione”: Fuchs, Appia, Craig, in U. Artioli (a cura di), Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950), Carocci, Roma 2004, pp. 69-81; citazione a p. 78. Per la citazione da The Theatre Advancing, cfr. E. G. Craig, The Theatre Advancing, Constable, London 1921, p. 20. 42 Uno dei capitoli di The Nikolais/Louis Dance Technique si intitola significativamente The Body as an instrument (cfr. Nikolais, Louis, The Nikolais/Louis Dance Technique, cit., pp. 61-62, pagine in parte comprendenti The Unique Gesture). 39 40
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All’epoca di Craig sarebbe assente dunque un attore-artista (che si capisce dovrebbe essere assai prossimo al danzatore), ma sarebbe possibile, e anzi necessario, forgiarlo. Benché quanto riportato paia più dubbio stando ad altri testi di poetica del regista inglese, la lettura dell’Attore e la Supermarionetta conduce alle conclusioni proposte. E altrettanto può dirsi leggendo The Theatre Advancing (1919), da cui si desume – come osserva Paola Degli Esposti – che
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La sua testa può non essere una testa, il suo braccio un braccio. Il danzatore può dover rinunciare alla sua identità per porsi al servizio di qualcosa che non assomiglia alla sua fisicità. Grazie alla magia del motion, egli illuminerà la sostanza poetica di 43
Cfr. Nikolais, Louis, The Nikolais/Louis Dance Technique, cit.
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da Murray Louis, cioè dal primo danzatore della compagnia di Nikolais, poi coreografo a sua volta e insegnante principale della scuola, oltreché suo compagno di vita43. Detto in altri termini, Nikolais accoglie una poetica per molti aspetti simile a quella di Craig e trova il modo per risolvere il problema da lui espresso, inventando un tipo di formazione capace di creare l’attore idoneo a realizzare, pur con qualche differenza, gli obiettivi esposti nell’Attore e la Supermarionetta, un essere non lontanissimo dalla Übermarionette. Prima di chiudere va aggiunta almeno un’altra considerazione, che vorrebbe in parte chiarire come, nel concreto della rappresentazione, Nikolais pervenga ai risultati auspicati in sede teorica: le sue composizioni sceniche trasformano completamente i corpi dei ballerini, rendendoli “altro da sé” soprattutto mediante le luci e i costumi, e in questo modo egli ottiene in maniera ancor più accentuata la trascendenza, l’oltre-ego di cui va parlando, l’immersione nello o la fusione con lo spazio. In Crucible (1985), un pezzo astratto, ad esempio, i danzatori compaiono a mezzo busto, piuttosto vicini uno all’altro, disposti in linea orizzontale, oltre degli specchi uno dei cui margini è a ridosso della cintura dei ballerini, in tal modo riflettendo la parte visibile dei loro corpi e dando allo spettatore l’impressione di essere di fronte a creature fantastiche; per esempio, senza gambe e con quattro braccia e due teste: due braccia e una testa rivolti verso l’alto e le altre due membra e l’altro capo verso il basso. Il tutto è reso assai più sfumato e indefinito dai giochi illusionistici di luce tali per cui i corpi, smaterializzati, prendono forme tremolanti e mutevoli e colori cangianti. In Pond (1982) i danzatori sono seduti su una sorta di piccola piattaforma sollevata dal pavimento solo quanto basta a farci stare delle rotelle, piattaforma che, per i giochi di luce, non si vede, sicché i ballerini paiono seduti a terra e dunque per un certo tempo gli spettatori non riescono a capire come essi possano compiere certi movimenti. I corpi sono inondati di luci puntinate verdi e gialle, che li trasformano in esseri defisicizzati e dalle forme imprendibili e in fluido e continuo cambiamento, che, anzi, si con-fondono con lo spazio, immerso nelle stesse luci, e con gli altri danzatori. I corpi, insomma, perdono i propri confini, diventando altro da sé, non più delimitati da una figura chiara e distinta, ma parte di un tutto, in cui si compenetrano e si sciolgono. A proposito del danzatore ideale Nikolais si esprime in modo assai suggestivo:
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qualcosa di interamente nuovo. Spezzando le catene dell’identificazione carnale, il corpo può diventare l’eloquente portavoce mozionale [motional] di tutte le cose nel raggiungimento delle visioni più mistiche dell’uomo. Egli ci può allora informare di cose oltre la visione e la comprensione ordinarie. Ci può dire della meraviglia della vita stessa, oltre ogni cosa prima provata o osservata, raggiungendo i limiti più lontani dell’immaginazione44.
nug,
p. 11.
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Nicola Pasqualicchio*
Don Šajn di Jan Švankmajer: il teatro delle marionette come macchina infernale
le marionette sono stabilmente ancorate nella mia morfologia mentale ed è per questo che nel mio lavoro continuo a ritornare a esse come a qualcosa che significa per me una certezza nella relazione col mondo che mi circonda. Creo i miei golem per proteggermi dai pogrom della realtà. In secondo luogo, ho studiato alla Facoltà di Teatro di figura nella Scuola di Arti Drammatiche di Praga; in terzo luogo, la Boemia mantiene ancora una forte tradizione di teatro di figura dal periodo della Rinascita Nazionale, quando i teatri ambulanti di marionette erano i soli teatri in cui si recitava in ceco. E, in quarto luogo, penso che le marionette siano il miglior mezzo per simbolizzare il carattere dell’uomo nella manipolazione del mondo contemporaneo. Tutti questi aspetti creano il nucleo della mia ossessione per il teatro di figura [...]1.
* Università di Verona. 1 P. Hames, Interview with Jan Švankmajer, in P. Hames (edited by), The Cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, Wallflower Press, London 20082, pp. 104-139; citazione a pp. 114115. La parziale traduzione italiana dell’intervista, contenuta nel numero monografico dedicato a Švankmajer di “Moviement”, 6, 2011, a cura di C. Antermite e G. Lanzo, pp. 86-101, non include questo brano. Il regista torna qualche anno più tardi, con parole molto simili, sull’amore per le marionette e sull’influenza decisiva da esse esercitata su tutta la sua arte (cinematografica e figurativa) rievocando il colpo di fulmine infantile causato dal dono di Natale da parte del padre di un teatrino di marionette accompagnato da libretti di pièces composte per il teatro di figura: «La mia opera è associata con questo incontro; tutto ciò che faccio è in sostanza teatro di marionette. Tutti i miei film, le mie creazioni grafiche, i miei collages, le mie ceramiche, le mie sculture trovano le loro radici in questo sguardo infantile sul mondo che ha preso forma su quella scena di marionette dalle quinte simmetricamente disposte e dalle figurine sospese a dei fili» (J. Švankmajer, Petite apothéose sur le théâtre des marionnettes suivi de Du thèâtre au film, in “Puck”, 15, 2008, pp. 83-90; citazione a p. 84). Si segnala che tutte le traduzioni dei brani citati nel saggio sono nostre.
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Che l’originalissima parabola cinematografica di Jan Švankmajer si sia interamente svolta sotto l’egida affettiva e simbolica del teatro di marionette, è il regista stesso ad affermarlo a chiare lettere in un’intervista rilasciata a Peter Hames tra il 1992 e il 1993 (poi integrata nel 2006):
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Nicola Pasqualicchio
A. M. Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino 1973, p. 179. Cfr. G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Einaudi, Torino 1974, pp. 206-216; P. Hames, The Film Experiment, in Hames (edited by), The Cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, cit., pp. 8-39; P. Vimenet, Jir˘ í Trnka: le maître tchèque des marionnettes, in “Puck”, 15, 2008, pp. 75-82. 2 3
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Questa predilezione del cineasta ceco per il mondo delle marionette affonda dunque le proprie radici sia nella sua personale formazione artistica, sia nel terreno particolarmente propizio che la sua cultura nazionale offre a un immaginario scenico, artistico, letterario legato al teatro di figura. Alla base di questo secondo aspetto c’è innanzitutto la forza della tradizione burattinesca e marionettistica boema, particolarmente sviluppatasi nei secoli XVIII e XIX, senza peraltro affievolirsi drasticamente, com’è al contrario accaduto in gran parte dell’Europa, nel Novecento; una tradizione che sembra d’altronde aver profondamente ed estesamente impregnato di sé la cultura e l’immaginazione del popolo ceco, a meno che non si innesti essa stessa in una sorta di collettiva predilezione per i simulacri animati, che, dal Golem della leggenda ebraica (non a caso citato da Švankmajer quale archetipo delle proprie marionette) ai robot di Karel Cˇapek, dagli automi che affascinavano l’imperatore Rodolfo II ai manichini inquietanti e alle bambole parlanti di Víte˘zslav Nezval e di altri surrealisti boemi, alimenta l’inesauribile patrimonio del «museo ideale della Manichinia praghese»2. Ma c’è poi anche una specifica propensione, da parte del grande cinema d’animazione ceco, a far propria questa costellazione immaginaria, giocando le sue carte migliori non tanto sul versante del “cartone animato”, quanto su quello del pupazzo, della marionetta, del simulacro, dell’oggetto semovente: al nome di Jir˘í Trnka, attivo dagli anni Quaranta e punto di riferimento di tutto il cinema d’animazione ceco a seguire, si affiancano, per citare solo i più importanti, Hermína Týrlová, Br˘etislav Pojar, Karel Zeman3. Švankmajer si inserisce a pieno diritto in questa tendenza cinematografica, ma per radicalizzarla fino a stravolgerla. Ciò che di manierato e lezioso è talvolta presente nella pur grande arte di Trnka e dei suoi migliori discepoli è spazzato via nei suoi film da un fondo crudele e impietoso, sia pur generalmente coniugato a un’acuta ironia, e dall’azzeramento estetico di qualsiasi facile piacevolezza: col risultato che gli elementi del teatro di figura che incessantemente si travasano nel suo cinema vi manifestano al massimo grado le proprie potenzialità più inquietanti. Si può osservare come il “marionettismo” del cinema di Švankmajer si declini secondo due modalità. In una, più ampia e “metaforica”, che percorre quasi per intero la filmografia del regista, non si dà la presenza di vere e proprie marionette, ma è l’intero mondo rappresentato a essere coinvolto in un inquietante processo di artificializzazione e automazione, e di commistione tra il vivente e
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4 Le opere nelle quali compaiono, con un ruolo centrale, delle vere e proprie marionette sono il mediometraggio Don Šajn e il lungometraggio Lekce Faust, mentre nel cortometraggio Rakvic˘ kárna (La fabbrica di bare), del 1966, i protagonisti sono burattini a guanto. Anche nel primo film in assoluto di Švankmajer, il cortometraggio Poslední trik pana Schwarcewalldea a pana Edgara (L’ultimo trucco del signor Schwarzwald e del signor Edgar), del 1964, i protagonisti sono d’altronde molto vicini nell’aspetto (per la maschera e la gestualità) a due marionette. Presenze più marginali di vere e proprie marionette e burattini sono comunque rilevabili anche in Ne˘co z Alenky (Qualcosa da Alice), del 1987, dove, tra bambole, pupazzi, silhouettes, oggetti animati, il Cappellaio Matto è la sola figura manovrata da fili, e nella stanza di Alice, tra i vari giochi, giacciono le figure a guanto del Punch and Judy Show utilizzate in Rakvic˘ kárna. Infine in Šílení (Pazzi), del 2005, al termine di una surreale messa nera, fette di carne cruda fuoriuscite dal costato di un crocifisso “camminano” fin sul palcoscenico di un teatrino dove, sostenute e mosse da fili e dotate di forme vagamente umane, inscenano il più originale e orrido tra gli spettacoli di marionette di Švankmajer.
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l’inorganico: una dimensione nella quale all’animazione e personalizzazione di oggetti e materiali inerti si alterna o si mescola l’intervento di esseri umani in carne e ossa (ma “disumanizzati” da comportamenti stravaganti o inconcepibili, come dettati da comandi esterni alla loro psiche) o di simulacri dell’umano variamente configurati (bambole animate, scheletri semoventi, rami antropomorfi, viventi figure di argilla smembrabili e ricomponibili, silhouettes bidimensionali, montaggi arcimboldeschi) e spesso sottoposti a sconcertanti o mostruose metamorfosi. La seconda modalità, adottata invece in una porzione più ridotta della filmografia švankmajeriana4, elegge proprio la figura tradizionale della marionetta o del burattino a protagonista dell’opera, e ne valorizza magistralmente le prerogative teatrali attraverso la loro assunzione all’interno di un linguaggio cinematografico di grande originalità: con il risultato che, se da un lato l’appartenenza della marionetta al mondo del teatro è continuamente ed efficacemente rimarcata, grazie anche alla sostanziale fedeltà alla tradizione iconografica e al riferimento ai vecchi copioni per il teatro di figura, questo avviene all’interno di un’opera cinematografica che è ben lungi dall’appiattire le proprie risorse stilistiche su una sorta di “teatro filmato”. La completa riappropriazione cinematografica dello spettacolo di marionette risalta con la massima chiarezza in un film come Lekce Faust (Lezione Faust), del 1994, la cui sceneggiatura si basa, oltre che sulle opere di Marlowe, Goethe e Grabbe, su testi per marionette della tradizione popolare ceca. La rappresentazione marionettistica della storia di Faust è qui fittamente e misteriosamente intrecciata con la vicenda quotidiana di un uomo qualunque, sempre più identificantesi, in una fatale progressione, con il destino tragico del mago evocatore delle potenze infernali. La commistione tra vita e finzione scenica, tra metateatro e metafisica, dà origine in questo caso a un gioco raffinato e ricercatamente ambiguo, dove lo spettacolo di marionette è presente e anzi essenziale, ma per essere disaggregato e ricomposto all’interno di un meccanismo linguisticamente complesso, in cui uomini in carne e ossa scambiano incessantemente i propri
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5 P. Hames, The Core of Reality: Puppets in the Feature Films of Jan Švankmajer, in Hames (edited by), The Cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, cit., pp. 83-103; citazione a p. 87. 6 Di tale opinione è anche Michael O’Pray, il quale, recensendo Don Šajn nel 1988 – quando nel frattempo il curriculum cinematografico di Švankmajer si era arricchito di numerosi altri cortometraggi e del lungometraggio ispirato ad Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll –, lo definisce il suo film «forse più difficile, benché sia probabilmente il più affascinante, e dotato di una profondità emozionale superiore a quella di gran parte delle sue opere. Ciò è in buona parte una conseguenza della riuscita fusione delle tecniche cinematografiche di Švankmajer con una tradizionale storia per marionette» (M. O’Pray, Don Sanche, in “Monthly Film Bulletin”, 658, November 1988, pp. 344-345; citazione a p. 345). 7 Hames, The Core of Reality: Puppets in the Feature Films of Jan Švankmajer, cit., p. 87.
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ruoli e destini con i simulacri lignei, rappresentanti, proprio tramite la loro artificialità, di un livello archetipico, e perciò più profondamente reale, dell’esistenza. Rispetto a quest’opera, il mediometraggio Don Šajn (Don Giovanni), del 1970, può apparire come una sorta di più semplice e diretto omaggio al tradizionale spettacolo di marionette, privo com’è di labirintiche intersezioni tra diversi livelli di realtà, di acrobatismi metateatrali e mises en abîme, e sostanzialmente ligio alla trama lineare dei tradizionali copioni per burattini, il debito verso i quali, senza tuttavia precisi riferimenti, è dichiarato nei titoli di testa; inoltre, anche sul piano strettamente stilistico, questo film è per alcuni aspetti una delle opere meno apertamente sperimentali del regista: ragion per cui Peter Hames può definirlo «il più convenzionale dei film di marionette di Švankmajer», aggiungendo a riprova che si tratta di «una versione del tradizionale spettacolo di marionette», le cui figure «sono state copiate da originali del diciottesimo secolo»; inoltre, «la storia possiede una coerente linea narrativa e il film è spesso costruito come se si guardasse un palcoscenico»5. L’attribuzione di convenzionalità al film da parte di Hames non si pone come elemento di valutazione, avendo un’intenzione puramente descrittiva; ciononostante, si ha in effetti l’impressione che la meno massiccia ed esplicita presenza, in quest’opera, di quegli elementi onirici, surreali, metamorfici che costituiscono un po’ il marchio di fabbrica della cinematografia švankmajeriana, abbiano in generale indotto a una limitata attenzione per Don Šajn, che rimane invece a nostro avviso una delle opere più compiute del regista, e nient’affatto decentrata rispetto alle linee forti della sua poetica6. È del resto lo stesso Hames a precisare che gli elementi di relativa convenzionalità del film sono chiaramente controbilanciati da scelte formali di segno opposto, tali da fugare qualsiasi sospetto di mera riproduzione filmica di uno spettacolo di marionette: «Gli attori si muovono liberamente dal palcoscenico alla strada e a scene costruite, senza stabilire una realtà uniforme o dominante. Inoltre il film spezza il corso della narrazione rivelando i meccanismi di manipolazione e intervallando inquadrature del testo scritto»7. Per quanto riguarda la trama, la vicenda di Don Giovanni viene qui pre-
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8 Cfr. J. Rousset, Le Mythe de Don Juan, Colin, Paris 1978 (traduzione italiana Il mito di Don Giovanni, Pratiche, Parma 1980). 9 Cfr. J. McCormick, B. Pratasik, Popular Puppet Theatre in Europe, 1800-1914, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 175-178.
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sentata in una versione che, se conserva la fondamentale “invariante mitica”, per usare il linguaggio di Jean Rousset8, dell’incontro con il Morto con relativa punizione del protagonista e suo sprofondamento all’inferno, lo fa però seguendo una strada palesemente diversa da quella intrapresa da variazioni sul mito più note e solidamente garantite sul piano autoriale (Tirso, Molière, Mozart/Da Ponte), e collegandosi piuttosto a varianti tematiche rintracciabili soprattutto nel teatro popolare, e in particolare in spettacoli di marionette tedeschi e boemi. Questi si caratterizzano generalmente per la tendenza a limitare o perfino eliminare la dimensione di seduttore del protagonista, ponendone in primo piano quella di autore di efferati delitti: sicché il gruppo dei personaggi femminili sedotti, l’altra basilare “invariante mitica” nella lettura di Rousset, si riduce a un singolo personaggio, che può assumere lo statuto di fidanzata ufficiale, contesa a Don Giovanni da un rivale denominato Filip, per molti aspetti corrispondente al ruolo ricoperto da Don Ottavio nel libretto di Da Ponte. Con una particolarità interessante, però: quella di essere il fratello di Don Giovanni, opposto a lui per carattere e destinato a rimanere vittima della sua gelosia e protervia; sicché il mito dell’inesausto seduttore si sposta verso un altro archetipo narrativo, quello della coppia di fratelli antitetici e rivali, uno dei quali (e si tratta per lo più del migliore) trova solitamente la morte per mano dell’altro. Se all’interno del Vecchio Testamento tale archetipo ha nella storia di Caino e Abele la sua più emblematica rappresentazione, il Nuovo lo ripropone nei termini più addolciti della parabola del figliuol prodigo; ed è proprio quest’ultima che, in modo piuttosto curioso, la tradizione marionettistica boema tende a contaminare con il tema dongiovannesco. Autonomamente presente nei repertori marionettistici, soprattutto tedeschi, in genere nella veste ammodernata di favola morale, la parabola tramandata dal vangelo di Luca invade infatti talora il terreno del mito di Don Giovanni (che evidentemente assume in tal caso il ruolo del figlio dissoluto e dissipatore, senza però pervenire al ravvedimento e al conseguente perdono paterno), tanto da figurare come sottotitolo di spettacoli di marionette dedicati alla vicenda del burlador9. Questo Don Giovanni-figliuol prodigo del teatro di figura è così moralmente remoto da possibili pentimenti che non si limita a uccidere il padre della donna che ha sedotto o tentato di sedurre, come nella gran parte delle versioni del mito, ma diviene anche fratricida e parricida. La contaminazione con la parabola evangelica enfatizza comprensibilmente il ruolo del padre del dissoluto e l’atteggiamento irrispettoso e ingiurioso, quando non minaccioso e violento, del figlio nei confronti del genitore: aspetti presenti, con più moderate
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In anticipo sulle contaminazioni colte tra la vicenda di Faust e quella di Don Giovanni operate da drammaturghi dell’Ottocento e del Novecento (in particolare il Grabbe di Don Juan und Faust e il Bergamín di Variación y fuga de una sombra), il teatro di figura assimila e sovrappone i due miti moderni, entrambi fortemente debitori a burattini e marionette della loro genesi e del loro sviluppo: numerose compagnie attive nei territori cechi e slovacchi impiegavano in alternanza la stessa marionetta per i ruoli del seduttore e del mago (cfr. ivi, p. 175). 11 Cfr. ivi, pp. 116-117, p. 132 e p. 152. 12 Il nome Filip, o Philippo, che nei testi tedeschi e cechi designa normalmente il fratello-rivale, apparteneva già a un simile antagonista (ma non fratello, perché come si è visto questa è un’innovazione caratteristica dei successivi spettacoli per marionette delle aree tedesca e boema) in testi francesi del Seicento del teatro per attori: in Dorimond e Villiers il personaggio si chiama appunto Philippe. Nella tradizione italiana prevale invece per questo ruolo il nome, già presente in Tirso, di Don Ottavio, accolto da vari scenari di commedia dell’arte, e, anche attraverso testi da essi derivati come Il convitato di pietra di Andrea Perrucci, trasmesso alla produzione librettistica del Settecento che culmina in Da Ponte. 10
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tinte, nel teatro per attori del Seicento, soprattutto francese (Dorimond, Villiers, Molière), ma attenuatisi poi fino alla scomparsa: la gran parte dei testi del teatro di prosa e in musica a partire dal Settecento non mostrano traccia di un padre di Don Giovanni, e tanto meno di un fratello. Altra costante degli scenari tedeschi e boemi per marionette è la raffigurazione del Morto giustiziere nelle sembianze non di una statua, ma di un fantasma o di uno scheletro. Inoltre, com’è tipico di tutte le versioni del mito di Don Giovanni appartenenti a forme di teatro popolare (non solo lo spettacolo di marionette, ma anche la commedia dell’arte e il théâtre de la foire), la figura comica del servo assume una particolare importanza, che induce gli autori all’espansione dei duetti tra lui e il suo padrone e in alcuni casi all’assegnazione al personaggio comico di una rilevanza persino maggiore di quella di Don Giovanni: il successo di questi spettacoli ha spesso il suo punto di forza nella relazione empatica e coinvolgente, in buona parte fondata sull’improvvisazione, che il servo instaura con il pubblico. Se in ambito italiano il ruolo è sostenuto da Arlecchino, Pulcinella e figure a loro equivalenti, in Germania trova la propria incarnazione in Hanswurst, successivamente evolutosi in Kasper, accolto con il nome di Kašpárek dal teatro di figura ceco, dove esercita funzione di servitore sia di Faust che di Don Giovanni10: lo caratterizzano, in palese contrasto con i personaggi seri, dimensioni e struttura fisica da nano, abbigliamento che richiama il buffone di corte, movimenti rapidi, passo trotterellante, mandibola articolata per aprire e chiudere la bocca, voce aspra e squittente11. Švankmajer accoglie nel suo film la quasi totalità di questi elementi tradizionali, a cominciare dalla trama. Maria è promessa in moglie dal padre al dissoluto e prodigo Don Giovanni, al quale però ella preferisce l’onesto fratello Filip12; avendo assistito di nascosto a un colloquio durante il quale i due innamorati fissano un segreto appuntamento, l’adirato protagonista, che ha dissipato tutti i
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13 Al teatrino di carte da gioco, meta simbolica – spesso intravista ma a lungo irraggiungibile – del suo onirico percorso per cassetti magici, porte misteriose, stanze disusate, Alice, la carrolliana protagonista di Ne˘co z Alenky, arriva infine salendo una vecchia scala a chiocciola che introduce in una soffitta adibita a stenditoio e scostando file di panni stesi come bianchi sipari, mentre, analogamente a quanto avviene in Don Šajn, il protagonista del film su Faust raggiunge lo spazio scenico attraversando gli squallidi sotterranei di un palazzo fatiscente.
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propri averi, decide di chiedere un prestito al proprio padre per poter celebrare al più presto le nozze; ricevutone un rifiuto, lo uccide. Quindi si presenta nel luogo dell’appuntamento prima del fratello e, al sopraggiungere di Maria, la minaccia di morte. La donna invoca il soccorso del genitore, che Don Giovanni affronta e uccide. Filip promette a Maria che vendicherà il crimine del fratello. I due uomini, incontratisi in una foresta, si battono a duello: anche Filip cade sotto i colpi dell’assassino. Appare il fantasma del padre di Maria: Kašpárek, inviato da Don Giovanni a chiedergli perché s’intrometta sul loro cammino, riferisce al padrone che il morto pretende il suo pentimento. Recatosi al cospetto del fantasma, il protagonista, dopo una bruciante stretta di mano, apprende che a mezzanotte sprofonderà all’inferno. Congedato il servo, pronuncia un tardivo discorso di contrizione, esortando chi lo ascolta a evitare i suoi errori. Quindi la sua anima s’inabissa sotto terra, mentre il corpo si dissolve. Kašpárek ricompare per lamentare la perdita dei pagamenti arretrati. I personaggi sono in realtà attori vestiti e mascherati in modo molto credibile da marionette del teatro sette-ottocentesco, di cui riproducono in modo pressoché perfetto non solo l’aspetto ma anche le movenze meccaniche e legnose nonché la performance vocale, che Švankmajer ha voluto precisamente ricalcata sulle modalità recitative tramandate all’interno della tradizione marionettistica: manieratamente pomposa e monocorde fino allo straniamento per i personaggi seri; accelerata, scattante e affidata a tonalità acute nel caso del servo. Questo atteggiamento mimetico nei confronti della tradizione non si risolve però affatto nella riproposizione nostalgica o documentaria di un repertorio e di modalità rappresentative d’antan, diventando anzi lo strumento di una valorizzazione del tutto originale delle virtualità drammatiche e perturbanti del teatro di figura e di una riflessione sul senso profondo della finzione teatrale. Il teatro appare infatti, in questo come in altri film di Švankmajer, in particolare Ne˘co z Alenky e Lekce Faust13, un luogo recondito, per quanto prossimo al mondo reale, al quale gli esseri umani giungono per vie impreviste – porte segrete, passaggi nascosti, corridoi sotterranei – o dal quale gli uomini in carne e ossa sono addirittura esclusi: ed è quest’ultimo proprio il caso di Don Šajn. Se nei primi due film menzionati persone reali vengono attratte all’interno della dimensione del teatro e qui interagiscono con i suoi abitanti (marionette o oggetti animati), nel mediometraggio del 1970 la macchina da presa ci introduce all’ini-
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zio, con una sorta di soggettiva impersonale, all’interno di un mondo artificiale autonomamente vivente, dal quale gli uomini sono banditi anche come semplici spettatori (la platea del teatro in cui le marionette agiscono è vuota). Lo sguardo filmico penetra, scortato dal tema solenne della colonna sonora di Zdene˘k Liška, in un giardino abbandonato e lo percorre fino a raggiungere un vecchio edificio in rovina, dentro al quale sale per scale malandate e passa per oscuri corridoi con colonne e volte a botte, per giungere infine nello spazio immobile e silenzioso di un teatro. In un andito scuro del retropalco stanno appesi, privi di vita, i personaggi in legno del dramma che sta per svolgersi. D’un tratto, come animate da una propria interna spinta vitale, le macchine del teatro si mettono in funzione: gli argani girano, le corde scorrono, le scenografie si dispongono sul fondo e ai lati del palcoscenico, un cilindro per musica meccanica inizia a ruotare producendo il secondo tema dominante della colonna sonora, un motivo da giostra ripetitivo e incalzante. Compaiono, in questa sequenza della “messa in moto” del congegno teatrale, anche elementi che preannunciano gli sviluppi soprannaturali della vicenda legati alla punizione finale e alla condanna eterna di Don Giovanni, e valgono dunque come segni di un destino già visibilmente inscritto dall’origine nella macchina diegetica: le candele, che scorrono su un nastro trasportatore per essere accese una a una al contatto di una fiammella, saranno nel corso della rappresentazione gli indici di riconoscimento dell’avvento di una sacralità terribile (la connotazione iconica più forte del fantasma vendicatore sarà per l’appunto, oltre alla cancellazione del volto, una corona di candele attorno al capo, e proprio al centro di un cerchio di candele il protagonista sprofonderà all’inferno); e i contrappesi che si predispongono a funzionare appariranno nella parte finale come l’esibito strumento di elevazione dello spirito del morto dal sottosuolo e della successiva e parallela discesa agli inferi di Don Giovanni. Si può quasi dire che il senso di fatalità e ineluttabilità che in tal modo caratterizza il film sin dalle prime sequenze esiga che i suoi protagonisti siano delle marionette: risvegliate d’improvviso dalla loro inerzia e immesse nell’azione da una forza che le sovrasta senza darsi a conoscere, come certi personaggi beckettiani, esse precipitano verso l’esito inevitabile della vicenda con una forza di verità che nessun attore umano potrebbe realizzare. L’immediatezza quasi brutale del copione per marionette e l’estrema semplificazione psicologica propria del testo quanto della recitazione contribuiscono in maniera decisiva a fare dello spettacolo una sorta di “macchina infernale” attirata senza possibilità di dilazioni verso la sua conclusione tragica. Švankmajer rafforza tale effetto anche attraverso particolari strategie di ripresa e di montaggio: si pensi al ricorso, in alcune occasioni, a una tecnica di rappresentazione dei movimenti dei personaggi nei loro trasferimenti da un luogo all’altro realizzata con un montaggio di brevissime inquadrature, ciascuna delle quali, spesso singolarmente non percepibile, presenta un particolare del corpo in movimento. Ne deriva l’impressione di una
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certa dose di concitazione e turbamento, ma soprattutto la sensazione, coadiuvata dall’impassibile fissità dei volti, che i corpi si muovano, più che in conseguenza di una consapevole volontà, come se fossero calamitati dalla propria meta e risucchiati verso il proprio destino: ne sono dimostrazioni emblematiche il cammino di Maria verso il luogo dell’appuntamento con Filip e l’avanzata di Don Giovanni in direzione della tomba da cui è emerso il fantasma. Altro espediente cui il regista ricorre per rafforzare l’idea di ineluttabilità del congegno scenico in cui il mito si rappresenta è la ripetuta inquadratura di un orologio in ore diverse, che da una parte suggerisce la forte concentrazione del tempo drammatico e suscita di conseguenza l’impressione di un rapidissimo precipitare degli eventi verso la conclusione fatale; dall’altra agisce come metafora di un ordigno teatrale che, una volta caricato, proseguirà la propria corsa senza possibili arresti o arretramenti. Che i protagonisti siano ingranaggi di un meccanismo a orologeria, Švankmajer lo mostra genialmente, in prossimità della fine, trasformando lo stesso Don Giovanni in una sorta di orologio quando, allo scoccare della mezzanotte, la sua testa sembra battere i rintocchi dell’ora della propria condanna con ritmiche rotazioni a destra e sinistra che, in alternanza con inquadrature di sculture religiose, provocano l’illusione percettiva di un moto pendolare. I segni di artificialità e meccanicità diventano così funzioni della verità più profonda della rappresentazione, della sua sottomissione a un congegno mitico incontrovertibile. Di conseguenza, nei momenti decisivi della comparsa del fantasma e dello sprofondamento di Don Giovanni, la messa allo scoperto del gioco di contrappesi che permettono sia l’elevazione del morto dal sepolcro che la discesa del protagonista all’inferno, accentua, anziché smascherarlo, il pathos soprannaturale delle due scene; la rivelazione della macchina non è strumento del disinganno, ma epifania del divino in quanto macchina. In tale prospettiva, anche una tipica tecnica di straniamento quale l’intromissione della scrittura nell’azione drammatica non sta qui al servizio di una presa di distanza critica o ironica ma si fa ulteriore espressione della soggezione dei personaggi e dei loro destini a qualcosa che sta già scritto, al di fuori e al di sopra di loro, e di cui essi non sono che ripetitori ed esecutori. Le apparizioni di frasi o singole parole del testo all’interno di alcuni particolari momenti dell’azione sono legate soprattutto alle manifestazioni di violenza del protagonista, del quale sottolineano l’aggressività: l’imperativo tumáš (“prendi questo!”), pronunciato da Don Giovanni nel momento in cui colpisce mortalmente il padre di Maria e poi ripetuto con meccanica ossessività mentre infierisce sul corpo di Filip, compare in forma grafica in corrispondenza di ogni sua pronuncia orale, fino a presentarsi moltiplicato nell’inquadratura di una pagina riempita dalla ripetizione del verbo. Nella sua furia omicida, di cui lo status di marionetta permette di enfatizzare la spietata meccanicità, Don Giovanni sembra succubo, non meno delle sue vittime, di una partitura scritta che da sempre ne prescrive la storia e ne vincola l’a-
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zione e il destino, esattamente come i chiodi del cilindro per musica meccanica avviato nell’incipit contengono preliminarmente e senza possibilità di variazioni (con evidente valore di sineddoche rispetto all’intero congegno scenico) il completo svolgimento della colonna musicale. A sottolineare come il destino, non solo del protagonista, ma di tutti i personaggi, sia segnato dalla violenza e dal lutto, anche le altre intromissioni del testo scritto riguardano prevalentemente la morte, sia come diretto richiamo semantico (il più volte ribadito verbo zhynout, “morire”), sia come interiezioni di dolore luttuoso, sia come accompagnamento dei momenti di agonia: il congedo dalla vita del padre di Maria, così come quello di Filip, trovano espressione soltanto sul piano grafico, come se la loro voce, nell’atto di spirare, non potesse più emettere le parole del testo, affacciate invano sulla soglia della pronuncia; con un effetto di inattesa delicatezza poetica nel caso di Filip, la cui ultima frase («Ah, Dono Marie, má duše jde na odpoc˘inutí», «Ah, Donna Maria, la mia anima va a riposare») è inutilmente rivolta all’amata perché incapace di trovare la via della voce, mentre il verbo finale che la sigilla nell’immagine del riposo eterno si sfuoca lentamente, come se in una soggettiva interiore il personaggio guardasse dissolversi l’ultima parola del copione della sua vita. Come la scena appena citata evidenzia, il film non si esaurisce affatto in un freddo e straniato teorema meccanico, attingendo un alto livello di pathos drammatico proprio grazie all’applicazione delle particolari risorse tecniche e linguistiche del cinema al mondo artificiale delle marionette. Un ruolo decisivo hanno in questo senso i primi e primissimi piani e i dettagli. Grazie a essi, per esempio, l’efferatezza dei delitti commessi da Don Giovanni riesce a essere più disturbante e tutto sommato più “vera” di gran parte delle scene di violenza estremamente realistica che il cinema contemporaneo dispensa a piene mani. L’inutile insistenza con cui la spada del protagonista infierisce sul viso del proprio genitore già abbattuto a terra da una violenta sassata; il colpo con cui la stessa arma seziona trasversalmente la testa del padre di Maria, riducendone il volto a una bianca superficie lignea senza identità; il corpo di Filip crivellato di colpi che vomita fiotti di sangue dagli occhi, dalle orecchie, dalle ferite sparse sul viso e sul busto, tonde come fori prodotti da un succhiello: quanto più alto è il tasso di artificialità e inverosimiglianza di queste uccisioni, tanto più forte è l’impressione di autentica violenza avvertita dallo spettatore. Contribuisce a tale effetto l’impiego estremamente efficace di un elemento molto tradizionale delle scene di rissa, duello o battaglia delle rappresentazioni di teatro di figura, ossia l’accentuata presenza della componente ritmica tanto sul piano dei movimenti che su quello sonoro; ma alla festosità rituale e incantatoria delle battaglie dei pupi o alle liberatorie bastonature dei burattini si sostituisce qui, particolarmente in occasione del primo e del terzo omicidio, un ossessivo, martellante e quasi compulsivo accanimento nei confronti delle vittime, che, nel momento stesso in
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14 Il “goticismo” di Švankmajer è chiaramente esplicitato dalle fonti letterarie di alcuni suoi film: il cortometraggio Otrantský zámek (Il castello di Otranto), realizzato tra il 1973 e il 1979 e ispirato all’omonimo romanzo di Walpole, riconosciuto capostipite della narrativa gotica, e quelli tratti da due racconti di Poe particolarmente debitori nei confronti di tale letteratura: Zánik domu Usher/, del 1980, affascinante versione astratta della Caduta della casa Usher, e Kyvadlo, jáma a nade˘je (Il pozzo, il pendolo e la speranza), del 1983, che contamina fin dal titolo Il pozzo e il pendolo del narratore americano con un conte cruel di Villiers de L’Isle-Adam, La tortura della speranza. Ma la presenza nell’opera del cineasta boemo dell’immaginario gotico (una delle predilezioni, tra l’altro, del movimento surrealista, di cui Švankmajer è un adepto) è ben più diffusa all’interno della sua opera, e si declina sul piano dei temi e delle vicende quanto su quello delle atmosfere, facendo emergere tra l’altro le connessioni tra le inquietudini suscitate dalla narrativa “nera” e gli aspetti perturbanti del teatro di figura: «Molti film di Švankmajer sviluppano un sistema immaginativo ispirato tanto dal romanzo gotico quanto dai tradizionali spettacoli macabri di teatro di figura, le cui radici sono per molti aspetti affini» (F. Dryje, The Force of Imagination, in Hames (edited by), The Cinema of Jan Švankmajer. Dark Alchemy, cit., pp. 143-203; citazione a p. 175). Sulla pervasiva e profonda presenza di un immaginario di matrice gotica nell’opera di Švankmajer si veda in par-
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cui rivela l’efferatezza spietata di Don Giovanni, lo mostra a sua volta – in quanto soggiogato da impulsi ai quali non può resistere e che si impossessano di lui come forze demoniche – vittima predestinata della giustizia divina. Sono ancora le inquadrature ravvicinate a valorizzare una componente di sofferta umanità del protagonista che la fissa maschera lignea e la recitazione volutamente stereotipata e monocorde non potrebbero per sé far emergere. Se è vero che il suo volto è comunque il più fieramente nobile e il più espressivo tra quelli dei personaggi seri, è però attraverso le riprese dal basso, i contrasti di luce e ombra sul viso, i dettagli che ne riprendono soltanto gli occhi, che la figura del protagonista può caricarsi di quella tragica ambiguità che fa convivere in lui il carnefice e la vittima e lascia intravvedere uno strato di smarrimento e sgomento dietro l’impassibilità dell’omicida. È in tal senso particolarmente indicativo il ripetuto gesto di coprirsi gli occhi con le mani, che di volta in volta assume un significato diverso, ma è comunque sempre espressione di un profondo turbamento di fronte a qualche cosa a cui Don Giovanni vorrebbe sottrarsi: la visione, ispirata dalla gelosia, di Maria e Filip che giacciono l’una accanto all’altro; i corpi delle vittime appena trucidate; l’annuncio trasmessogli da Kašpárek della punizione da parte del fantasma del padre di Maria; la corona di candele che brilla di luce divina sul capo di quest’ultimo; la pronuncia del verdetto di eterna dannazione. Non c’è un momento di gioia per questo Don Giovanni bandito dai trionfi amorosi, ma solo una cupa, rabbiosa insoddisfazione, prima e dopo l’inutile pentimento, che riesce difficile immaginare rappresentata da un interprete “normale” con la stessa apodittica efficacia qui raggiunta dal volto immutabile e dai gesti artificiosi dell’attore en marionnette. La cupezza è d’altronde la cifra su cui il film si apre e si conclude, dalla presentazione di sapore goticheggiante14 delle viscere del teatro e della messa in
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ticolare J. Palacios, Cuando las piedras hablan. Lo gótico en el cine de Jan Švankmajer, in G. Martín Gutiérrez (edición de), Jan Švankmajer. La magia de la subversión, T&B, Madrid 2010, pp. 143-162. 15 Senza trucchi teatrali, ma con una semplice, volutamente quasi rudimentale soluzione di montaggio cinematografico, Don Giovanni si sdoppia alla fine nella sua parte materiale e in quella spirituale: subito dopo che il protagonista ha cominciato a scendere nella botola che rappresenta la bocca dell’inferno, lo si vede prima cadere all’indietro in una fossa dove in un istante si dissolve, come sottoposto a un rapidissimo processo di putrefazione e consumazione (questa, evidentemente, è la sorte della sua spoglia mortale), per poi continuare (ma si tratta ora della sua anima) a sprofondare nell’apertura e crollare infine a faccia in avanti sul pavimento del sottopalco; dove l’anima, stesa bocconi a mordere la terra in netto contrasto con la posa dignitosamente supina del corpo nella tomba, viene per sempre fissata dalla fulminea inquadratura finale nel suo destino di inerzia e umiliazione.
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moto delle sue macchine fino alla parte conclusiva, immersa nella notte, che va dall’apparizione del fantasma alla morte del protagonista. Ciò che sta in mezzo è il precipitare ineluttabile degli eventi da un buio all’altro, il tragitto circolare che restituisce il protagonista allo spazio iposcenico dal quale tutta l’azione ha preso le mosse con l’avvio delle macchine teatrali e da dove è forse pronta a ricominciare. Non ci sono diavoli o fiamme in quest’inferno in cui Don Giovanni sprofonda, e nemmeno servirebbe un armamentario così convenzionale: perché non vi è nulla di più desolante dell’immagine finale dell’anima15 prona e inerte del protagonista in uno squallido e buio sottopalco, né prospettiva più infernale del numero virtualmente infinito di repliche della propria sciagurata vicenda a cui la marionetta sarà costretta ogni qualvolta un’insondabile, superiore volontà deciderà, come all’inizio, di imprimere il movimento nei congegni teatrali. In una prospettiva così “nera” è comprensibile come Švankmajer, pur recuperando dalla tradizione le caratteristiche e il rilievo scenico della maschera buffa di Kašpárek, non la utilizzi come strumento di divertimento e di conseguente alleggerimento della tensione drammatica, facendone invece una presenza quasi disturbante nella sua marcata disarmonia vocale e gestuale rispetto agli altri personaggi. La sua bocca, l’unica articolata, spessissimo in primo piano, è come una petulante e stridula macchina di parole, mentre i movimenti sono improntati a un’ipercinesia che si esprime in saltelli, corse trotterellanti, passaggi frequenti dalla posizione verticale a quella seduta o distesa (ignote, queste ultime, ai personaggi nobili, per i quali il completo contatto fisico con il suolo può essere solo segno di morte avvenuta o imminente), nonché in disinvolture prossemiche quali il salto sulla schiena del padrone o gli strattoni dati al sudario del fantasma. Si tratta di caratteristiche o atteggiamenti le cui potenzialità comiche sono evidenti, ma rimangono intenzionalmente inespresse, particolarmente in virtù del fatto che questo è un teatro senza spettatori, dove il ruolo, cui più sopra si accennava, rivestito dal personaggio comico del teatro popolare in qualità di interlocutore diretto del pubblico, o quanto meno di ponte comunicativo tra palcoscenico e platea, viene di conseguenza a cadere. Si potrebbe obiettare che ciò è caratteri-
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16 I personaggi sono sempre connotati come marionette, oltre che dall’aspetto e dal tipo di movimento, dalla presenza dei fili, visibili tanto nelle azioni che si svolgono sul palcoscenico quanto negli spazi esterni. In tutti i casi, però, essi si dipartono chiaramente dall’asta infissa sul capo delle figure, e non da una zona di manovra sovrastante l’azione visibile; essi, inoltre, pendono per lo più flosci lungo i corpi, mettendo in evidenza come siano i movimenti dei fili a dipendere dall’attività degli arti delle marionette, e non viceversa. Il valore dei fili è dunque simbolico e non mimetico: sono elementi di riconoscimento della marionetta in quanto personaggio comunque eterodiretto, le cui azioni dipendono da un congegno che le trascende, ma non strumenti di manovra di un marionettista di cui si cerchi di suggerire verosimilmente la presenza. Anche in questo Don Šajn ribadisce, confermando la rigorosa esclusione di qualsiasi percepibile elemento umano, la propria differenza rispetto a Lekce Faust, dove le mani di un manovratore (per quanto misterioso e allusivo di una dimensione oltreumana) sono più volte visualizzate.
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stico di ogni regia televisiva o cinematografica di uno spettacolo che non abbia alla base una rappresentazione alla presenza del pubblico, ma nella gran parte di questi casi si mira a creare una tendenziale identificazione dello spettatore del film con quello potenzialmente presente in teatro (anche se – è constatazione fin troppo ovvia, dato che è su questo che si gioca la specificità estetica dello spettacolo dal vivo – la fruizione dello spettacolo in presenza è esperienza radicalmente diversa da quella dello spettacolo filmato). Da questa messa in scena della storia di Don Giovanni, invece, il pubblico teatrale è ontologicamente escluso, perché ciò che qui si rappresenta (si attribuisca a quel “si” non un valore passivante ma riflessivo: il dramma mette in scena sé stesso, senza registi, tecnici e attori, senza nemmeno un marionettista)16 vive in assoluta autonomia rispetto alla presenza umana; è su di noi, ma non per noi. Lo spettatore del film ha infatti dall’inizio la sensazione ben chiara di essere introdotto furtivamente dalla macchina da presa al cospetto di una recita che non ha pubblico e non è fatta per averne, e dunque in nessun modo egli può viversi come un sostituto dello spettatore teatrale: nulla di ciò cui assiste, di conseguenza, può essere interpretato come qualcosa che, anche indirettamente, sia rivolto a lui. Per questo motivo la componente comica del dramma, privata di quella relazione, anche solo potenziale, con il pubblico necessaria per farla sfociare nel riso, ne risulta come implosa e raggelata, e sottratta allo sfogo catartico dell’ilarità. Emblematica in questo senso è la penultima inquadratura del film, nella quale Kašpárek si affaccia alla botola dentro alla quale Don Giovanni è appena sprofondato e si duole di vent’anni di servizio non retribuito e ormai non più retribuibile: quella che potrebbe essere un’occasione di alleviamento del clima angoscioso del finale, abbassandone la temperatura morale e religiosa alla più moderata gradazione dei correnti interessi terreni, si risolve piuttosto, anche per la fulminea rapidità con cui s’inserisce nel contesto drammatico, in una sorta di aspra sferzata grottesca che ha più che altro l’effetto di conferire per contrasto un maggiore risalto all’impietosa e ancor più fulminea inquadratura conclusiva, che mostra l’anima inerte del protagonista abbandonata come un rifiuto nella desolazione del fatiscente sottopalco.
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Nicola Pasqualicchio
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Di questo spazio iposcenico e di altri in cui la vicenda si svolge si è già fatto cenno. Ma è forse necessario chiarire, in senso più generale, come l’azione del film debordi continuamente oltre il palcoscenico – sia pure per farvi costantemente ritorno in modo da rimarcare la propria teatralità – e non solo negli spazi per il pubblico (alla sua prima apparizione, Don Giovanni assiste al colloquio tra Maria e Filip nell’ombra di un palco) o dietro le quinte (è qui, tra l’altro, che il protagonista trucida il proprio genitore, approfittando, con una sorta di perfidia metateatrale, della sua condizione di marionetta inerte depositata nel retropalco nel momento in cui il copione non ne prevede la presenza in scena) o nel sottopalco: i personaggi agiscono spesso in luoghi esterni all’edificio teatrale, siano essi connotati come espansioni tridimensionali delle scenografie visibili sul palcoscenico, e dunque come ambienti palesemente artificiali (la via cittadina dove abita il padre di Don Giovanni, il giardino dell’appuntamento) o si presentino invece come spazi riconoscibilmente reali (il parco con rovine dove si svolge il duello tra il protagonista e Filip, che s’imbattono però a un certo punto in elementi di un décor evidentemente fittizio). Nessuno di questi spazi è tuttavia esterno alla dimensione teatrale: ciò a cui poi si assisterà in Lekce Faust, ovvero l’alternanza della realtà scenica con quella, a essa esterna e alternativa, della quotidianità umana, è escluso da Don Šajn, dove, a partire dall’iniziale oltrepassamento dell’ingresso del giardino da parte della cinepresa, nessuno spazio, nessun oggetto, nessun’azione si sottraggono più all’ambito della finzione scenica. O, meglio, della verità scenica: perché, come poi Švankmajer ribadirà nel film su Faust, entrare nella dimensione del teatro significa imbattersi nel mito di cui la nostra esistenza individuale è inconsapevole ed enigmatico calco e vivere con stupefatto sgomento l’impossibilità di sottrarsi alla sua trama scritta una volta per sempre. Ma la specifica potenza di Don Šajn consiste nel fatto che esso ci introduce al mito teatrale nella sua forma pura, svincolata dagli effetti di superficie che esso irradia sulle singole esistenze del mondo “reale”; e ce lo mostra dunque nella sua semplice assolutezza, nella sua crudele fatalità non mediata dal residuo di una presenza umana inevitabilmente gravata di elementi di quotidianità e superficiale verosimiglianza: se nel teatro è depositato il destino dell’uomo, ossia il dispositivo mitico, la macchina infernale che ne ordisce la vita e la morte, è nel teatro delle marionette che per Švankmajer tale macchina trova la realizzazione più nitida e perfetta.
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