NAVIGAZIONI
Marco Mazzeo
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
Editori Internazionali Riuniti
I^ edizione: marzo 2012 © Copyright Editori Riuniti S.r.l. ����: 978-88-359-9131-1
Copertina: Lorenzo Letizia Realizzazione editoriale: Leonardo Mascioli www.editoririuniti.net
Indice
Introduzione La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche § 1 I due volti della melanconia § 2 Sulla scia di Freud: melanconia di genere e melanconia postcoloniale § 3 L’animale anomalo: i Problemata aristotelici § 4 Melanconia e rivolta
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2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania § 1 Lutto e melanconia: Freud in chiaroscuro § 2 Antropologia della perdita? Melanconia e
creazione § 3 Melanie Klein: un tentativo di riparazione § 4 L’illustre sconosciuto: Abraham e la sindrome maniaco-depressiva § 5 Danzare, arrampicarsi, saltare: Binswanger e l’antropologia della mania § 6 Il cigno nero: vino e mania
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3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa § 1 La sfida di Heidegger: la melanconia, stato
d’animo della creatività § 2 Aristotele, Ippocrate e Platone: il buono, il brutto e il cattivo § 3 Il melanconico in città: tre caratteristiche etiche § 4 Contro l’accidia e la tristezza § 5 Il genio e la poesia: una rivalutazione fuorviante § 6 Il qualunque e il performer: il melanconico figura dell’avvenire
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4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura § 1 L’altro limite del linguaggio: oltre meraviglia e tautologia § 2 Una vita priva di misura: oltre la tautologia § 3 Il sublime e lo smisurato: oltre la meraviglia § 4 Incommensurabilità e rivoluzione: contraddizione e melanconia
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Appendice Il corpo di Aiace: iconografia di una introversione Bibliografia
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«Amarti m'affatica, mi svuota dentro. Qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto. Amarti m'affatica, mi dà malinconia Che vuoi farci è la vita È la vita, la mia. Amami ancora, fallo dolcemente. Un anno, un mese, un’ora Perdutamente. [...] Amarti mi consola, mi dà allegria Che vuoi farci è la vita! È la vita, è la mia». CCCP, Amandoti Questo libro è dedicato a Paolo Mazzeo, piccolo bimbo umano che balla e traballa. Ciascuno dei suoi giorni è per noi, suppongo anche per lui, una rivoluzione: indice puntato e deissi sfocata; risate inaspettate e fughe di idee; azioni prese per mano tra qualche pianto e tanti luminosi domani.
La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile «Up on melancholy hill Tere’s a plastic tree Are you here with me? Just looking out on the day Of another dream». Gorillaz, Melancholy Hill
Ritorno al futuro è il titolo di un film di successo che narra di una moderna macchina del tempo. Nel cuore degli anni Ottanta, un adolescente della classe media americana e un inventore scombinato si ritrovano nel 1964 col problema di tornare indietro, all’epoca cui appartengono. La pellicola, nella sua semplicità, dà corpo a una sensazione che nell’Occidente capitalistico durante gli ultimi decenni si è sempre più rafforzata: la storia è finita, il picco umano dell’evoluzione tecnico-economica è stato raggiunto, l’unico modo per cambiare il futuro è tornare sui propri passi. La necessità di tornare indietro e fare diversamente, sulla cui realizzazione fantastica ruota l’intera pellicola, è terreno fertile per la coltura delle passioni melanconiche. Le cito al plurale per sottolineare le molte sfumature e le vesti cangianti sotto le quali la melanconia appare: in un paesaggio serale, in una canzone senza pretese, in un odore che riporta indietro verso tempi lontani. La varietà delle forme sensoriali che travestono la melanconia stona però con un dato altrettanto appariscente: la melanconia gode oggi di una reputazione melliflua e stantia. Le maldicenze circa questo stato d’animo riguardano gli ambiti più diversi: dall’articolo del quotidiano al saggio filosofico, dalla teoria politica alla critica d’arte il termine “melanconia” è di solito considerato sinonimo, perlomeno parente prossimo, di
“triste”, “nostalgico”, “bloccato nell’agire e nel dire”. Anche le ricerche che negli ultimi cinquant’anni hanno tentato di riabilitarne la storia e mostrarne la complessità hanno rischiato, loro malgrado, di peggiorare la situazione. Saturno e la melanconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964) ha contribuito a legare in modo indissolubile questa passione alla celebre incisione di Dürer con la sua protagonista alata ma immobile. Nei primi capitoli di Stanze Giorgio Agamben (1977) ha proposto una via di riscatto per mezzo dell’apparentamento con una passione, l’accidia, anch’essa controversa poiché la tradizione ha finito con il legarla alla pigrizia, al torpore e alla sonnolenza. A tal proposito, il libro che avete tra le mani vorrebbe suggerire un movimento doppio. Visto che il ritorno a una delle prime rappresentazioni rinascimentali della melanconia legata a Saturno e la riscoperta di una passione medioevale (l’ acedia dei monaci) non sono stati sufficienti, occorre tentare una mossa estrema: fare un passo indietro ulteriore, cercare nelle origini più lontane della melanconia addentellati positivi di una passione che oggi appare senza speranza. Meglio chiarirlo subito: non si tratta di impelagarsi in un’impresa filologica, magari interessante, ma che rischia di rimanere neutralizzata nei dubbi fasti dell’erudizione. Si tratta di tirar fuori potenzialità emotive sepolte dalle stratificazioni storiche, le svolte culturali, i cambiamenti linguistici che hanno portato la melanconia dentro un imbuto che ne ha ristretto il senso e stravolto il significato. Detto in una battuta, dunque in forma goffa e caricaturale: mentre oggi “melanconia” è divenuto sinonimo di “depressione” e “tristezza nostalgica”, alle sue radici la passione che si credeva fosse legata all’azione di una sostanza specifica, la nera bile (la mélaina cholé , da qui il termine italiano), era propria di un temperamento completamente differente. Il melanconico era colui che, messo di fronte a trasformazioni repentine, non riusciva a rendersi subito conto di quel che lui stesso era riuscito a compiere. Nel bene e nel male: nel salvare la città o nell’uccidere i propri compagni, la melanconia è protagonista di una dinamica fatta di azioni e parole volta al cambiamento di una forma di vita. Un interrogativo vorrebbe essere 10
La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile
il baricentro delle pagine che seguono: qual è il volto emotivo di chi trasforma la vita propria e quella altrui? La mia ipotesi è che lo stravolgimento delle passioni melanconiche abbia coinciso con l’impoverimento della nostra rappresentazione delle capacità innovative proprie degli esseri umani. Recuperare le potenzialità della bile nera non significa semplicemente rendere giustizia a una delle passioni dell’Homo sapiens . Significa provare a compiere un affondo in grado di riportare alla luce e far riemergere un sentimento capace di ricordarci che un altro mondo è possibile. Riscoprire il volto della melanconia significa, dunque, impegnarsi in un ritorno al futuro. Non quello elusivo vagheggiato dal film hollywoodiano, ma un altro più faticoso ed efficace che consiste in una archeologia semantica. Dissodare le nostre parole e la loro storia nella speranza di trovare traccia di un altro modo di sentire, un sentire in grado di cambiare il tempo che ci aspetta. Per aumentare le possibilità di centrare l’obiettivo, è stato opportuno escogitare due piccoli accorgimenti strutturali. Il primo: ogni paragrafo comincerà con una breve citazione in exergo: per fornire un ulteriore spunto ai contenuti offerti nel testo; per riproporre e così neutralizzare i ritornelli, a volte filosofico-letterari altre musicali, che organizzano il nostro modo di intendere le passioni melanconiche. Il secondo accorgimento riguarda la struttura del libro che, come vedrete, non è lineare. In linea di principio, ogni capitolo può essere letto indipendentemente dagli altri e la successione nella quale sono proposti contiene, più che mai, un alto tasso di arbitrio. Le quattro sezioni che compongono il testo sono però strettamente imparentate tra loro poiché ogni volta finiscono col convergere su uno degli aggettivi principali che compaiono nel luogo di nascita filosofico della melanconia. Il capitolo XXX dei Problemi di Aristotele è un testo considerato tanto minore da esser accusato a più riprese di inautenticità (probabilmente a torto: Carbone, 2011, pp. 68-69). Eppure, in quelle poche pagine emerge il condensato di una passione tipica dell’Occidente (difficile trovare un correlato preciso in altri sistemi culturali: Kleinman, Good, 1985) ma non per questo poco significativa per una indagine sulla natura di Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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quegli strani animali, bipedi e implumi, che noi siamo. Il melanconico è anomalo, dice Aristotele ( anómalos , cap. I): non solo non è conforme alla regola in vigore, ma è in grado di trasformarla rendendola altro da quello che è ora. Chi è tormentato dagli eccessi della bile nera ha il pregio e il difetto di essere diverso da sé stesso. Non è dunque fiore all’occhiello di chi si fa vanto della propria coerenza di condotta, ma non è neanche strumento docile delle mire oscure del sofista: non inganna mai gli altri più di quanto non inganni sé stesso. Le accuse mosse a questa passione da molta filosofia politica contemporanea, dalle estrazioni teoriche più diverse (da Paul Gilroy a Judith Butler), sono a dir poco ingenerose: schiacciano le possibilità emotive offerte dalla bile nera su uno solo dei possibili esiti, la rimozione rancorosa della propria identità culturale, linguistica o di genere. Il melanconico, invece, è maniacale, prosegue Aristotele ( manikós , cap. II): è preso dall’azione. Non è semplicemente impulsivo, sa che alcune delle potenzialità umane emergono solo all’interno della prassi. Secondo questa accezione originaria, il melanconico è più prossimo alle alterne vicende sensomotorie dell’atleta che allo struggimento interiore del romantico. Quando sono in grado di saltare l’asticella che si trova qui di fronte a me? Sono in grado di saltare solo dopo aver compiuto il salto con successo e aver superato la misura. La melanconia è protagonista di una torsione vertiginosa nella quale la potenza cede il passo all’atto. Nulla di misterioso: si tratta di un fenomeno tipico dell’apprendimento, quel che lo psicologo L. Vygotskij chiama realizzazione dello sviluppo prossimale. Per imparare, a volte, bisogna fare il contrario di quel che consigliano le nonne: è necessario che il passo si faccia più lungo della gamba. A tal proposito, la psicoanalisi rischia di porgere la mano alla melanconia per poi farle lo sgambetto: per un verso, l’ha messa al centro delle sue linee di ricerca (da Freud a Klein, da Abraham a Recalcati); per un altro ha messo da parte le possibilità creative del suo volto maniacale concentrandosi soprattutto sull’apparentamento con il lutto. E così dopo aver fatto della bile nera una sostanza vicina all’accidia e alla tristezza, questa è divenuta simile pure alla sostanza scura e soffocante che affligge 12
La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile
i personaggi di Matrix , il film dei fratelli Wachowski, quando sono sull’orlo del baratro preda dei loro nemici digitali: un filtro mortifero e disperato che arriva nel momento in cui ormai i giochi sono fatti. Non è affatto così. Il melanconico è distimico, insiste Aristotele (dusthumós , cap. III). Il termine greco è pressoché intraducibile e per questo occorre in prima battuta ricorrere a un semplice calco italico: il suo animo vive una frattura difficile da ricomporre. Quel che oggi chiamiamo “depressione” è una delle sue possibili fasi, non un destino inoppugnabile e finale. La distimia corrisponde alla caduta dopo il salto, per riprendere un esempio che lo psichiatra Binswanger annovera tra le forme maniacali di comportamento: nel caso in cui il tentativo si riveli un fallimento il melanconico è tale perché ha la forza di rialzarsi e ritentare ancora, seguendo strategie e tecniche diverse da quelle impiegate fino a quel momento. La bile nera non produce cocciutaggine ma fratture in grado di dar vita a nuove forme di condotta. Per questo il melanconico, conclude Aristotele, è privo di misura ( perittós , cap. IV). Non solo è approssimativo, non riesce a conformarsi a uno standard prefissato, è impreciso cioè alla ricerca di una regola da consolidare. Questa mancanza di standard prefissati e istintivi (quelli che consentono allo scimpanzé di non cadere quando volteggia tra i rami e all’ape di non perdere mai la via di casa) produce conseguenze contrastanti: il disorientamento di chi non sa che pesci prendere; la possibilità di meravigliarsi di quel che accade. Dei due stati d’animo, paradossalmente, è più interessante il primo perché più produttivo sebbene (o forse proprio perché) più inquietante. Questa mancanza di orientamento non sottolinea il volto sublime dell’esperienza (la potenza delle onde marine o la magnificenza della tormenta montana), ma la sproporzione, le difficoltà di misura, tra la vita umana e le cose più insignificanti che la circondano. Poiché non vogliamo farci mancare niente, l’appendice propone un percorso se possibile ancora più sperimentale, e incauto, dei precedenti. L’analisi iconografica di una delle figure mitologiche più strettamente imparentate alla melanconia, Aiace elamonio, può dare un’idea visiva veloce ma precisa, a tratti Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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addirittura impressionante, del processo semantico ed emotivo subìto da questa passione durante una storia oramai millenaria. Una breve escursione tra le vicende rappresentative di questo eroe dubbio (protagonista della guerra achea contro roia, ma poi preda di raptus omicidi nell’omonima tragedia sofoclea) può costituire un buon test per verificare connotati e modalità di un vero e proprio ripiegamento passivo. Da attore di imprese equivoche ma sicuramente attive, a partire dai primi secoli prima di Cristo Aiace subisce un’introversione sospetta: diventa sempre più personaggio contemplativo e inibito, che invece di essere colto nel gesto bellico o nel riposo dopo aver compiuto l’impresa (e il misfatto) è ritratto come paralizzato e incapace di ogni ulteriore azione. Il protagonista melanconico si introverte e rassegna: da propiziatore di eventi possibili diventa mesto contemplatore di quel che non potrà più essere. Aiace finisce in un triste angolo neutralizzato: simbolo eloquente del destino che molti vorrebbero riservare alla melanconia e al suo potenziale innovativo. Questo libro nasce da alcuni incontri che in questi anni ho avuto la ventura di avere e la fortuna di ripetere: Daniele Gambarara mi ammonisce circa le sinonimie che si annidano dentro la nozione di melanconia; Mauro Sabatini cerca di insegnarmi che sulla roccia bisogna saper vedere oltre quel che è sotto gli occhi; Luigi Marangio ha avuto l’ardire di iniziarmi a una pratica tipicamente maniacale come l’arrampicata libera; Andrea Usai mi ha promesso di accompagnare le presentazioni del libro con il suo mood musicale, di certo non depresso; i ragazzi di ESC mi hanno spiegato che esiste una cosa che si chiama “melanconia postcoloniale”; Giorgio Villa mi aiuta a comprendere che il passaggio all’atto è una faccenda complicata; Luca Parisoli tenta di farmi capire che l’accidia può costituire una forma di ripartenza; Mauro Serra ha la pazienza di ricordarmi ogni volta che Platone non ha poi tutte le colpe; Francesca Piazza mi mostra cosa significa fare antropologia del pensiero greco; ommaso Russo Cardona non ha fatto in tempo a spiegarmi le 14
La melanconia è un ritorno al futuro: un altro mondo è possibile
sfumature del sublime kantiano; un redattore anonimo di cui possiedo solo le iniziali (P.S.) ha contribuito a rendere il testo molto più vivace di quel che era in origine; Paolo Virno ha avuto la pazienza di leggere queste pagine e di segnalarmi ciò che lo convinceva meno. Giovanna Capitelli ha letto con generosa attenzione l’appendice. Da Felice Cimatti, Massimo De Carolis, Stefano Catucci, Francesca Borrelli, Silvia Vizzardelli e da tutti i membri del neonato Centro studi su psicoanalisi e filosofia e della rivista «Forme di vita» cerco di imparare più che posso quel che posso. Spesso non è quanto vorrei. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Nota editoriale Alcuni capitoli del libro hanno conosciuto una prima pubblicazione, sperimentale e incompleta. Il capitolo I rielabora l’articolo Melanconia in AA.VV., Passioni della crisi , manifestolibri, Roma 2010, pp. 123-139. Alcuni paragrafi del capitolo II compaiono sotto il titolo Della mania e del cambiamento: perché Abraham è me glio di Freud nel volume curato da Felice Cimatti e Alberto Lucchetti, Filosofia e psicoanalisi , Quodlibet, in corso di stampa. Una bozza del capitolo IV, più breve e piuttosto lontana da quella attuale, è stata pubblicata nel 2008 sotto il titolo Im precisione del limite: contraddizione e melanconia , nel «Bollettino filosofico dell’università della Calabria», 24, pp. 182-194.
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
«Senza più melanconici, vivremmo in un mondo in cui tutti accetterebbero lo statu quo». E.G. Wilson
§ 1 I due volti della melanconia È bene dire subito un paio di cose. La prima: nella letteratura filosofica contemporanea, soprattutto di matrice politica, gli stati d’animo melanconici godono di pessima fama. 1 Di solito, la melanconia è considerata la passione dell’aggressività inespressa e interiorizzata, l’emozione più adatta a un mondo dominato dal capitale, l’equivalente pulsionale della nostalgia dei bei tempi andati quando lo Stato regnava sovrano. La seconda: credo che questa visione della melanconia sia parziale e fuorviante, sostanzialmente sbagliata. Procederò, dunque, così: seppur in modo veloce, analizzerò due delle concezioni più influenti circa lo status politico della melanconia, quelle di Paul Gilroy e Judith Butler; poi proporrò una visione alternativa in grado di recuperare, innanzitutto, la portata antropologica di questa passione. La melanconia ha infatti due volti: uno è paralizzato e subalterno, proprio del lutto cronico e di forme di identificazione 1 Non è un caso, forse, che una delle poche trattazioni recenti della melanconia che cerca di evidenziarne il carattere potenzialmente innovativo e rivoltoso sia proposta, paradossalmente, da uno studioso di letteratura (Wilson, 2008).
autoritarie; l’altro è luogo di origine di prassi e immaginazione, grazie alle quali modificare le forme della vita umana, rovesciare istituzioni e trasformare rapporti di potere. Per questa ragione, impiego la dicitura di melanconia e non quella, più moderna, di malinconia : il sapore retrò della prima espressione manifesta da subito un luogo etimologico (la melaina cholè , la bile nera della tradizione ippocratica: cfr. § 3) e il carattere tecnico di una nozione che comprende l’impiego quotidiano della parola (quando diciamo «oggi mi sento un po’ malinconico», «è una canzone malinconica») senza ridursi a esso.
§ 2 Sulla scia di Freud: melanconia di genere e melanconia postcoloniale «La gente in piedi sull’uscio si chiedeva se un giorno quel bambino sarebbe uscito dal guscio». im Burton, Morte melanconica del bambino ostrica
Sia l’analisi della melanconia di matrice postcoloniale (Gilroy) che di genere (Butler) sembra risentire di un problema che ha nome e cognome: Sigmund Freud. Il fondatore della psicanalisi affronta il concetto di melanconia per uno scopo preciso e, per questo motivo, limitato. Freud, lo vedremo meglio nel prossimo capitolo, ha bisogno di uno strumento teorico in grado di chiarire le dinamiche psichiche di un gruppo specifico di casi. Lutto e melanconia è un testo efficace proprio perché circoscritto. L’equivoco nasce quando si considera questa trattazione per quel che esplicitamente non è (Freud, dunque, non ne è direttamente responsabile): una descrizione completa della fenomenologia melanconica in grado di esaurirne il significato psichico e antropologico. 18
1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
A tal proposito, Paul Gilroy è inequivocabile. A suo giudizio la melanconia postcoloniale sarebbe la reazione emotiva rancorosa, il tentativo disperato di mantenere inalterata un’identità statuale, politica ed economica ormai sfaldata: l’impero britannico con le sue colonie. La melanconia sarebbe il motore di identificazioni posticce e reazionarie, autoritarie e discriminatorie alla base di fenomeni ad ampio spettro come il razzismo o più circoscritti come la violenza negli stadi. La malinconia «è la perdita di una fantasia di onnipotenza» (Gilroy, 2004, p. 108), porta a «preferire un passato ordinato nel quale si era sfruttati e impoveriti a un presente cronicamente caotico» (ivi, p. 120). L’abominio melanconico sarebbe addirittura triplice: coinciderebbe con l’incapacità di arrendersi alla scomparsa di un mondo che non c’è più (mancanza di senso della realtà), con l’identificazione in un mondo che si rivela iniquo (mancanza di giustizia) anche contro il sé melanconico (autodenigrazione masochista). Un’analisi di segno teorico diverso, quella di Judith Butler ad esempio, si svolge seguendo un percorso differente ma dall’esito simile: la melanconia sarebbe «una ribellione repressa, distrutta» (Butler, 1997, p. 177). Per Butler, gli stati melanconici sono il frutto avvelenato di una rimozione fondamentale che riguarda lo stato intrinsecamente bisessuale della condizione umana. L’incapacità di elaborare un lutto imposto da una struttura sociale che ha elevato a paradigma l’eterosessualità scatenerebbe una forma melanconica profonda e pandemica, prodotta da «forme rigide di identificazione e di genere sessuale» (ivi, p. 137). Il ripudio, automatico e imposto, verso questa componente bisessuale produrrebbe una «melanconia di genere» (ivi, p. 134) provocata dalla costrizione unilaterale della identità sessuale umana in categorie binarie (gli uomini eterossessuali che ripudiano la loro parte femminile; le donne eterosessuali che ripudiano la propria dimensione maschile). Risultato: avremmo a che fare con una passione che coincide con «rifiuto del lutto» (Butler, 2004, p. 50), «preoccupazione narcisistica» (ivi, p. 51), negazione della «realtà alle perdite» (ivi, p. 58) e che finisce col portare a una indifferenza alla sofferenza (propria e altrui) il cui esito sarebbe la «disumanizzazione» (ivi, p. 177). Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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Sia per Gilroy che per Butler la melanconia tradisce dunque una passione subalterna e reattiva: per negare una realtà sgradevole, ci si arrocca in identità autoritarie (l’impero coloniale; una dottrina ideologica del genere). In Lutto e melanconia , si sostiene che gli stati melanconici sono prodotti dalla perdita di una persona amata. Freud evidenzia subito il carattere politico di questa condizione: l’oggetto amato può essere costituito anche «da un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale» (Freud, 1917, pp. 102-103). Sin dalla prima pagina, però, Freud specifica che le sue osservazioni non hanno pretesa di validità universale: il suo obiettivo è circoscritto, perché intende lavorare su una sindrome specifica che porta a un’inibizione generalizzata, al disinteresse per il mondo esterno e all’autorimprovero. Gilroy e Butler finiscono per concepire la melanconia come la passione tipica del padrone e del servo poiché partono, in modo indiretto (il primo) o diretto (la seconda), dall’assunzione di questo nucleo teorico. Il padrone, messo alle strette, sente la fine imminente. Rifiuta la sconfitta e s’impegna nelle sue feste disperate, degne di un ballo sul itanic. Il servo fa propria una morale altrui e, invece di dirigere la propria aggressività verso chi lo opprime, si macera in un rimprovero introverso e servizievole. È come se la melanconia fosse un indizio: il sintomo della compromissione con l’impero e il capitale, l’identità rigida di genere imposta dallo Stato e dalla sua logica binaria. Questo tipo di manovra argomentativa all’apparenza moderna tradisce, a un secondo sguardo, la struttura millenaria delle polemiche medioevali su un parente prossimo della melanconia, l’accidia (cap. II, § 5; cap. III, § 4).2 Oggi la melanconia è la passione dell’impolitico; nel Medioevo l’accidia è raffigurata come evasione peccatrice dal religioso. In entrambi i casi, è sterile fuga dal mondo, passione diabolica: nell’accidia medioevale, il monaco è tormentato da una perdita di senso della sua missione che apre le porte al maligno; la melanconia contemporanea è cedimento strutturale alla logiche emotive del potere. 2 A tal proposito, Plastina (2009) offre diversi spunti interessanti.
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
Credo che questa considerazione unilaterale della melanconia sia fuorviante per due ragioni di fondo. La prima è di ordine generale: qualunque passione umana può essere descritta, in modo arbitrario ma sicuramente suggestivo, esclusivamente nel suo volto deforme e osceno. Basta parlare di “amore” e pensare all’uso che ne fa Joseph Ratzinger, di “odio” e descrivere le ideologie fondate sulla purezza della razza, citare l’“angoscia” e portare la mente agli affanni del piccolo borghese tormentato dall’indecisione sull’andare al mare o in montagna. Mettere in scena le deformità melanconiche è utile solo se questo lavoro lo si compie in via preparatoria per mostrare anche le potenzialità di uno stato d’animo che, come ogni passione umana, non è irenico (non serve George Orwell a ricordarci che è facile uccidere in nome dell’amore o Silvio Berlusconi a farci rabbrividire con una parola di per sé splendida come “libertà”). La seconda ragione è più specifica, perché riguarda in modo particolare la melanconia. Per capirlo occorre avere un po’ di pazienza e fare un passo indietro.
§ 3 L’animale anomalo: i Problemata aristotelici «Perché l’uomo è l’essere che più di tutti pensa una cosa e ne fa un’altra?». Aristotele, Problemi XXX
In uno dei suoi libri più recenti, Butler (2004, p. 52) sostiene che «sarebbe folle e pericoloso» rintracciare le origini di un dato decisivo per comprendere le dinamiche politiche del dopo 11 settembre, la costitutiva vulnerabilità umana: quella condizione di debolezza e di esposizione per la quale senza l’altro e le sue cure (si pensi al neonato) saremmo letteralmente animali morti. Non ne sono del tutto sicuro, ma credo che il carattere perentorio di Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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un’affermazione del genere riguardi la diffidenza, ancora diffusa in buona parte delle scienze umane e del pensiero politico, circa l’individuazione di una natura comune all’umano, di invarianti propri della specie che facciano da sostrato alle differenze individuali e culturali. Di solito, le ragioni di questa diffidenza sono di ordine epistemologico e politico. Da un punto di vista epistemologico, il timore è la costruzione di un paradigma scientista che miri alla riduzione al dato bio-fisico di ogni altro piano del discorso (sull’accidia melanconica si veda, ad esempio, Benvenuto, 2008, pp. 141-142). Da un punto di vista politico, invece, si crede che individuare una natura umana significhi automaticamente volerne dedurre un ordine politico corrispondente. Poiché, ad esempio, gli esseri umani sono manifestamente animali instabili, rissosi e aggressivi si può prendere la palla al balzo per rivendicare l’esigenza di un’istituzione politica autoritaria che metta sotto controllo pulsioni altrimenti scomposte e distruttive. Si tratta di preoccupazioni senza dubbio giustificate. Ma, è opportuno sottolinearlo, si tratta per l’appunto di preoccupazioni: indicano le possibili derive di un progetto di ricerca, non la struttura di quel progetto o la sua fertilità teorica. È possibile lavorare all’individuazione di tratti invarianti della specie che fanno di noi animali umani e non lupi o calamari, senza per questo aspirare a un processo deduttivo che dalla nostra struttura biologica tiri fuori assiomi dell’organizzazione politica. 3 Non solo: nel caso della melanconia, il divieto circa la delineazione di un ipotetico profilo della natura umana coincide malauguratamente con una visione parziale degli stati legati alla bile nera. Questa paura nell’individuare un tratto invariante della specie potrebbe spiegare (anche se questo tipo di relazione causale tra i due argomenti non è decisivo per quel che intendo sostenere) come mai Butler all’interno di uno dei suoi testi dedicati alla melanconia segnali una strada teorica interessante (questa sì, fertile) per poi dimenticarla e lasciarla andare al suo destino. 3 Per le argomentazioni a favore di una riflessione filosofica sulla natura umana di stampo né riduzionista né autoritario rimando ai numeri della rivista «Forme di vita».
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
In La vita psichica del potere , Butler sottolinea che Freud parla di questa passione anche in testi successivi a Lutto e melanconia , soprattutto ne L’Io e l’Es . Qui, la melanconia assume un ruolo diverso e più importante: non rappresenta un caso di lutto mancato quanto il processo costitutivo dell’Io. Come si costruisce il nostro Io? Attraverso una serie di identificazioni che assorbono gli oggetti pulsionali con i quali abbiamo avuto a che fare sin dalla primissima infanzia, e che ora non ci sono più o non sono più gli stessi: genitori, amanti, amici e così via. Questo processo che trasforma in una parte di sé l’oggetto che scompare è esattamente quel che Freud descrive in Lutto e melanconia : per non accettare la perdita dell’oggetto amato, l’Io lo trasforma in una delle sue parti e verso di essa scatena il proprio amore aggressivo. Per questa ragione, continua Freud, gli stati melanconici possono diventare «una sorta di coltura pura della pulsione di morte» (Freud, 1922, p. 515): il nostro Io può essere fatto a pezzi dal Super-Io e dai suoi rimproveri; cedere alla tentazione di «divenire servile, oppure opportunista e bugiardo, un po’ come un capo di Stato che pur consapevole di come effettivamente stanno le cose, intende comunque conservare il favore della pubblica opinione» (ibidem). È un punto teoricamente decisivo: forse uno dei pochi nei quali Freud recupera la tradizione occidentale più profonda che riguarda la melanconia. Butler non manca di segnalare con efficacia questo spiraglio ma, poi, finisce col concentrarsi sull’elemento di pericolo: Freud parla di una possibilità (la melanconia può [kann] diventare mortale e servile); Butler (1997, p. 175) procede verso l’identità: «Nella melanconia […] sarebbe impossibile distinguere l’istinto di morte dalla coscienza intensificata attraverso la melanconia». E ancora, rovesciando quasi alla lettera Freud: «Lo Stato coltiva la melanconia tra i suoi cittadini proprio come modalità per dissimulare e deporre la sua stessa autorità ideale» (ibidem). Giustamente, Butler sottolinea che lo Stato non è l’analogo politico della coscienza (il risultato sarebbe che senza Stato e il suo autoritarismo non potremmo vivere) ma il capovolgimento di prospettiva fa una vittima in Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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nocente. Da luogo possibile di morte la melanconia finisce col coincidere «con il potere dello Stato di prevenire una rabbia insurrezionale»4 (ivi, p. 177). Butler ha ragione nel sottolineare l’importanza della trattazione freudiana della melanconia ne L’Io e l’Es : qui Freud ricorda che la fenomenologia melanconica è molto ampia perché essenziale a produrre il «carattere» dell’Io (Freud, 1922, p. 491). Che ne fosse consapevole o meno, accennando alla relazione tra melanconia e carattere, Freud si ritrova nella scena primaria che riguarda la concezione occidentale della melanconia, i Problemi di Aristotele. In diverse pagine del testo che costituisce la prima trattazione filosofica di questa passione, Aristotele afferma che la melanconia esercita la sua azione sul carattere (l’éthos ) delle persone. Per un verso questo esercizio formatore sembra limitato: quello melanconico corrisponde, secondo la tradizione medico-ippocratica, a un tipo comportamentale da opporre al collerico, al flemmatico e al sanguigno (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964, p. 14). Per un altro, tutti i cosiddetti Problemi XXX mostrano che la categoria melanconica è bizzarra perché contiene al proprio interno le varietà più diverse: il loquace e il taciturno, il lussurioso e l’inibito, il genio e lo stupido. Per Aristotele, la melanconia costituisce un paradosso logico-pulsionale: «È il carattere che è diverso da sé stesso» (Probl. XXX, 954b 9). Per questo motivo, i termini chiave per comprendere la struttura della melanconia sono due. Il primo ha dato luogo a molti equivoci: perittós è stato spesso 4 Anche quando, nelle pagine successive, Butler sottolinea che la melanconia è un processo fondamentale per la strutturazione dell’Io tende a considerare questa passione una specie di male necessario in grado di mettere in evidenza, attraverso il suo “abbandono” (Butler, 1997, p. 179), la vulnerabilità umana e, da qui, suggerire la compenetrazione tra dolore proprio e altrui. Con abilità, Butler cerca di individuare una uscita di sicurezza dalla cronicità melanconica. A prescindere dal fatto che la strada proposta sia convincente, è possibile una analisi più radicale che sottolinei il potenziale liberatorio della melanconia non attraverso il suo superamento, quanto ricorrendo alla sua stessa struttura costitutiva. Detto in altri termini: per Butler, occorre melanconicamente introiettare il potere per poi provare a distruggerlo dentro di sé grazie allo spirito di sopravvivenza. Se, invece, la melanconia è una passione innanzitutto pratica (e propria della vita umana in quanto tale) grazie ad essa è possibile ribellarsi contro il potere esterno mediante l’azione, e distruggerlo fuori di sé e dunque anche per gli altri.
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
tradotto in modo unilaterale, privilegiando solo una delle sue accezioni, con “eccezionale” (ci torneremo nel cap. IV). Questo ha fatto sì che, nel corso dei secoli, trovasse giustificazione e diventasse paradigmatica l’immagine del genio melanconico, folle ma straordinario. Il termine greco ha invece un significato compatto ma più ampio, antropologicamente significativo. Perittós è la personificazione aggettivale della preposizione perí (“intorno, circa”): è l’eccessivo, “quel che passa la misura”. La melanconia è passione del perittós perché fotografa lo stato pulsionale di un corpo che vive di continui squilibri, di cambiamenti, un animale che non può che procedere per sbandamenti successivi. Letteralmente: quando cammina, il bipede implume procede per mezzo di un sistema dinamico di equilibrio che, lo confermano ricerche recenti, è un vero e proprio azzardo gravitazionale degno del trampoliere o del funambolo (siamo «bipedi barcollanti»: obias, 1991, p. 20; cfr. Mazzeo, 2003, p. 201 e sgg.). Il melanconico è, in primo luogo, anómalos : letteralmente “diseguale”, “irregolare”, “incostante”. La melanconia è paragonata all’azione del vino (cfr. cap. II, § 6) poiché manifesta una struttura cronica che, con l’ebbrezza, emerge il tempo di una sbornia. Rende diversi dalla quotidianità; ci rende paradossalmente più noi stessi manifestando desideri, credenze e caratteri che prima stavano sotto la superficie: in melancholia veritas . La melanconia indica uno sfasamento dell’identità, rivela emotivamente quel che Gilbert Simondon (1989, p. 35, 87) chiama il processo di “trasduzione” grazie al quale un essere vivente si individua: diventando altro, cioè cambiando, diviene sé stesso, costruisce la propria biografia. Per questa ragione, Aristotele tratta i casi nei quali le persone, nel momento estremo del pericolo, reagiscono in modo imprevedibile (Probl ., 954b 11). Il pavido azzarda; il coraggioso mostra debolezze sconosciute. Il verbo corrispondente all’aggettivo anómalos (anomalèo) significa, non a caso, “esposto alla fortuna, alle sventure”: l’imprevedibilità dell’azione umana è una faccia della moneta, la sua esposizione alla contingenza (se si vuole, la sua vulnerabilità) è l’altra. In quale aspetto della vita umana emerge questo doppio movimento, fatto di individua Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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zione e contingenza? Nella dimensione della prassi, quando gli umani agiscono. I Problemi si aprono con casi esemplari (Eracle e Lisandro, Aiace e Bellerofonte) non per sottolineare il carattere geniale del melanconico (si tratta di personaggi controversi, spesso perduti o perdenti) ma la sua qualità eroica, cioè degna di essere narrata, vita che fa storia (secondo l’accezione omerica del termine “eroe”: Arendt, 1958, p. 136). Proprio in queste pagine Aristotele puntualizza che per vivere gli esseri umani hanno due strumenti, l’intelletto e la mano, e che il primo si sviluppa solo dopo il secondo. È dall’azione che nasce il pensiero, non il contrario. E melanconica è proprio la riflessività che segue il fare. Attenzione, però: ciò non vuol dire che il melanconico si caratterizzi per gesti, si direbbe oggi, semplicemente impulsivi: quello dell’azione è un primato non cronologico, ma logico. È impossibile prevedere l’esito del nostro intervento nel mondo, ecco una delle proprietà fondamentali dell’azione umana. In questo senso, è riflessione a posteriori: anche dopo aver escogitato il piano più minuzioso mi ritrovo a chiedermi cosa diavolo ho fatto, sia che il piano sia fallito (dove ho sbagliato?), sia che sia riuscito (come ho fatto a seguirlo?). «Perché l’uomo è l’essere che più di tutti pensa una cosa e ne fa un’altra?» ( Probl . XXX, 956b 34) chiede Aristotele: i Problemi non si stanno semplicemente riferendo a comportamenti che definiremmo incoerenti (sono vegetariano e mangio il pollo alle mandorle) o frutto di acrasia (vorrei smettere di fumare, ma non riesco). ra fare e pensare esiste uno iato costitutivo: come mai quando voglio fare qualcosa, quella si realizza in modo sovradeterminato rispetto a come l’ho pensata? Per un verso, le mie capacità immaginative riescono a preformare la realtà (“domani pioverà, me lo sento”). Per un altro la realtà eccede la mia immagine: perché può non realizzarla (mi sveglio e c’è un sole che spacca le pietre); perché anche quando la realizza lo fa con una quantità e una qualità di dettagli imprevista (piove e sento un odore di asfalto bagnato al quale non avevo pensato). La melanconia può coagularsi in un carattere specifico, ripetono i Problemi , ma è anzitutto bile nera, la forza pulsionale costitutiva di ogni carattere, anche di quello non melanconico. Il 26
1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
tipo melanconico è colui nel quale, ricorsivamente, 5 il carattere si rispecchia nella forza che lo forma; la passione melanconica è la passione di un processo che, grazie allo scarto tra prassi e pensiero, costruisce storie individuali e collettive. Altro che stato d’animo rancoroso e subalterno: la melanconia è emozione manuale di chi, piaccia o no, interviene costantemente nel mondo.
§ 4 Melanconia e rivolta «Questo non è un paese per vecchi». C. McCarthy
ra i fraintiviendimenti che funestano la comprensione degli stati melanconici, uno ricorre con frequenza: la melanconia sarebbe nostalgia dei bei tempi andati, tristezza inacidita di menti anziane ormai giunte al capolinea. L’analogia tra vino e melanconia suggerita dal primo antropologo di questa passione, Aristotele, destituisce di fondamento anche questa variante dell’equazione «melanconia uguale risentimento reattivo» (ivi , 955a 1-5): Il motivo per cui tutti gli esseri umani hanno la tendenza a bere fino a ubriacarsi è che il vino bevuto in grande quantità rende fiduciosi [euelpídes ]: è lo stesso effetto della giovinezza sui ragazzi, perché i vecchi sono privi di speranza mentre i giovani ne sono pieni.
La melanconia rende, innanzitutto, “euelpídes”, di buona speranza: spinge all’azione, muove la prassi e solo dopo il colpo andato a vuoto (se è andato a vuoto) si ripiega su sé stessa in modo riflessivo. Ipnotizzati dalle raffigurazioni romantiche della melanconia che propongono corpi rannicchiati, menti appoggia5 Per il significato logico e antropologico di questa torsione ricorsiva: Virno, 2011.
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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ti sul pugno o sguardi fissi a terra, si rischia di scambiare l’inizio con la fine e pensare che la melanconia costituisca l’antitesi emotiva dell’agire. È vero: la riflessione melanconica guarda indietro, ma quel che vede sono le azioni appena compiute , e anche quelle che si potranno compiere nel futuro prossimo. Il passato melanconico è prossimo per definizione (cioè anche ma non solo negli accessi paralizzanti): il rimprovero, che riscontra Freud nell’analisi dei suoi pazienti, «ma come ho fatto a farlo?», è l’interrogativo di Aiace ed Ercole, domanda di chi fa politica, combatte e produce. Perché sbaglia solo chi agisce. Rispetto a quel che la riflessione politica contemporanea dà a intendere, il quadro è rovesciato: la melanconia è passione della prassi, è una delle incarnazioni emotive dello squilibrio pulsionale di chi non è incastrato in un ambiente biologico o istituzionale. La melanconia vive gli eccessi delle delusioni proprio perché è lo sguardo retrospettivo e prospettico di chi con la speranza ci campa. È per questa ragione che la melanconia greca non coincide con la depressione, ma con la coppia bipolare depressione-mania (cap. II). È perdita di sé nell’azione e, contemporaneamente, riflessione immaginativa sull’azione. È disaderenza ai dintorni: distacco dalla regola, dall’ambiente biologico, dalla condizione culturale. Questo iato può trasformarsi nel rifugio, in una fantomatica e alienata interiorità o in una nicchia mentale impolitica e risentita, ma può essere anche il motore per vedere quello che ancora non c’è e la caducità di un ingiusto presente. Quando Gilroy insiste sulla risposta melanconica alla caducità dell’impero coloniale britannico sfiora un tema importante. Oltre a L’Io e l’Es , parte integrante (cioè opposta e complementare) di Lutto e Melanconia è anche un breve saggio freudiano dal nome Caducità .6 In questo testo, Freud sottolinea lo stato d’animo di chi, vedendo un prato in primavera, ne intravede già lo sfiorire: sente che l’apogeo del ciclo naturale è arrivato e che, dunque, la ruota sta girando. La melanconia non è soltanto percepire come presente quel che non è più, ma anche percepire come assente quel che è ancora in piedi . La melanconia è sia scoramento (dysthumia : ivi, 955a 6) che 6
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Ringrazio Monica Matera per avermelo segnalato.
1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
speranza. Il lato caduco di questa passione può accompagnarsi sia al primo che alla seconda: può essere disperazione per un mondo ormai a pezzi che mi illudo ci sia ancora; può diventare speranza per la creazione di un mondo diverso. La caducità melanconica è un’arma immaginativa a doppio taglio: rimpianto per un impero che va effettivamente scomparendo; certezza della fine di un altro impero, quello capitalistico, proprio nel momento del suo massimo splendore. Il sentimento della bile nera indica una torsione emotiva: individuare la bellezza del capitale, scorgerne gli oggetti più brillanti e trionfanti per sentire il crepitio della loro linea discendente. La melanconia può aiutare a uscire dall’ipnosi capitalistica per la quale questo sarebbe l’unico mondo davvero naturale per gli esseri umani: spinge a intravederne le crepe e la decadenza, a immaginare azioni nella certezza che la torta non verrà come dice la ricetta. L’animale umano è perittós e anómalos : la melanconia lavora, nel bene e nel male, su quel margine di indeterminatezza che caratterizza il nostro mondo. La mancanza di misura pulsionale può portare a due esiti “anomali”. Il primo trasforma la mancanza di misura in approssimazione, cioè la conforma a una regola anche quando la regola non lo prevede. Il secondo fa di noi animali non approssimativi ma imprecisi (per questa distinzione e il prossimo esempio: Garroni, 2005, pp. 9-15) che, lavorando sullo scarto tra la regola e la sua applicazione, inventano una nuova regola. Se in alcuni casi è immediatamente manifesto quale sarà la strada che il carattere eccessivo e melanconico delle nostre azioni ci farà intraprendere, in altri essa emerge in modo inatteso. Un esempio del primo tipo di circostanza: faccio uno schizzo di un progetto architettonico e lo riguardo. La sua incompletezza mi spinge a modificarlo, stravolgerlo, arricchirlo, a introdurre nuove regole applicative che servano a fare in modo che l’edificio stia in piedi e assuma una forma specifica. L’imprecisione dello schizzo può indurmi a tentare una strada innovativa o a rifarmi a un canone stabilito. Ma il valore ambivalente7 del perittós , quel che ne fa la controparte del 7
Più in generale, sul rapporto tra melanconia e ambivalenza: Mazzeo, 2009.
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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carattere anomalo della melanconia umana, può emergere anche in situazioni apparentemente più quiete e predeterminate. Si tratta di un elemento costitutivo della nostra vita messo in evidenza da Ludwig Wittgenstein: quel che egli chiama un gioco linguistico che «non è limitato ovunque da regole» (RF, § 68). Come le regole del calcio non impediscono né prescrivono passaggi improduttivi, lenti e ripetuti, il cui obiettivo è solo far scadere il tempo a disposizione (in gergo “fare melina” che in origine era un altro gioco con regole proprie), così anche un’operazione aritmetica può rivelare all’improvviso un’area applicativa ancora neutra, un’indeterminata terra di nessuno. Il risvolto emotivo-pulsionale di questa duplicità, approssimativa e imprecisa, è melanconico. Il primo non si arrende alla decadenza effettiva di un mondo sull’orlo della fine. Il secondo coincide con la creazione di nuove forme di vita, collettive e individuali, grazie alla percezione della contingenza dello stato attuale delle cose. La melanconia è anomala perché, come non si stanca di ripetere il monaco medioevale, vive la disaderenza alla regola : fuga delirante verso la negazione della perdita; produzione innovativa di nuovi giochi linguistici. Afferma perentoria Ildegarda di Bingen (De causis , p. 75), mistica e medico del XII secolo: Dio creò l’uomo e a lui asservì ogni cosa vivente; ma poiché l’uomo trasgredì il precetto divino, fu mutato nel corpo e nella mente. […] Se invece fosse rimasto nel paradiso, avrebbe conservato una condizione perfetta e immutabile. Ma, dopo la trasgressione, tutto questo fu mutato in qualcosa di nuovo e amaro.
La melanconia, prosegue il testo, «è per natura in ogni uomo, perché l’uomo trasgredì» (ivi, p. 82). È questo lo stato d’animo della prassi umana e delle sue origini: è azione e innovazione, tentativo ed errore, rivolta e caduta, produzione agrodolce e continua di «qualcosa di nuovo e amaro».
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1. L’anomalia: antropologia delle passioni melanconiche
2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
§ 1 Lutto e melanconia: Freud in chiaroscuro «Meglio depressi che stronzi». Caparezza, La mia parte intollerante
Non c’è dubbio: il breve saggio di Freud Lutto e melanconia costituisce un crocevia decisivo per comprendere fattezze e travestimenti, caratteristiche e potenzialità delle passioni melanconiche. Si tratta di quindici pagine dense ma discontinue che hanno avuto la responsabilità, a volte loro malgrado (cfr. cap. I, § 2), di accelerare un processo che in Occidente marciava spedito già da secoli, probabilmente da millenni: l’introversione meditabonda di una congerie di stati d’animo che la tradizione più arcaica legava alla prassi e all’azione. Al di là della vulgata o delle semplificazioni, Freud ha inciso nella riformulazione contemporanea della malinconia. Un breve sguardo al saggio in questione è sufficiente per comprenderne le ragioni. L’incipit è cauto e modesto: si tratta di osservazioni preliminari che come tali «lasciano cadere sin dall’inizio ogni pretesa di universale validità» (Freud, 1917, p. 102). Freud dubita addirittura che la rilettura della melanconia alla luce dell’esperienza del lutto possa valere anche solo per una classe di casi, poiché forse si rivelerà valida solo per un «piccolo gruppo di disturbi» (ibidem). Il celebre accostamento tra lutto e melanconia è proposto, dunque, come un tentativo incerto che
si muove più per indizi che per prove. Il saggio, almeno all’inizio, si muove coerentemente con questa premessa. Il testo, però, procede per riprese successive e approfondisce i vari aspetti del malessere melanconico con toni e intenti piuttosto discontinui. Dal lavoro sperimentale di Freud emerge un quadro complesso riassumibile in otto punti fondamentali: quattro possono essere definiti “progressivi”, cioè utili a chiarire il potenziale antropologico della melanconia; quattro sono di marca nettamente regressiva poiché contribuiranno a rafforzare cecità e rimozioni circa questa passione all’interno della riflessione occidentale. Questo pareggio prende le mosse da un presupposto: la melanconia è uno stato luttuoso, patologico perché cronico. La melanconia è il lutto che fa cortocircuito con sé stesso perché non si sottopone all’esame di realtà, cioè non ritira dall’oggetto scomparso (il caro defunto, il marito che abbandona la sposa sull’altare, l’ideale illusorio: questi gli esempi di Freud) l’energia pulsionale che su di esso è stata riversata. Per far ciò, il melanconico si identifica con l’oggetto perduto, ad esempio con il caro estinto. Una identificazione che produce due effetti. Il primo è paradossale: «Il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che sa quando ma non cosa è andato perduto in lui» (ivi, p. 104). Il secondo è strutturale e costituisce il primo dei due tratti universali attribuiti da Freud alla melanconia. In contrasto con la timidezza dell’incipit, Freud chiede al lettore che gli sia consentito «prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell’Io umano» (ivi, p. 106). L’identificazione con l’oggetto scomparso fa sì che le critiche e l’aggressività che il melanconico gli indirizza contro diventino forme autocritiche, rimproveri rivolti a sé stesso. La melanconia è la struttura emotiva alla base di quel che Freud chiama “coscienza morale” e che in seguito definirà “Super-Io”. L’oscillazione è netta: per un verso la melanconia e il suo accostamento al lutto costituiscono una sperimentazione che riguarda un gruppo limitatissimo di casi; per un altro si descrivono le modalità di costituzione di una delle “grandi isti32
2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
tuzioni dell’Io” (ibidem). Su questo punto tornerò. Per ora è opportuno concentrarsi sui risvolti positivi di un percorso tanto travagliato. Di fatto Freud pone dei dubbi sull’universalità dell’accostamento lutto-melanconia: è il primo aspetto progressivo di un testo che diventerà molto più rigido nelle sue letture successive (si pensi a Gilroy e in parte alla Butler). In secondo luogo, Freud individua, ancora prima del riconoscimento della portata di questa passione (cosa che avverrà anni dopo ne L’Io e l’Es , cfr. cap. I, § 3), uno degli aspetti antropogenetici della melanconia: melanconica è la nascita del Super-Io. Freud afferma esplicitamente (terzo punto progressivo) che il risvolto politico della melanconia non è predeterminato: il melanconico non è necessariamente un nostalgico reazionario dei bei tempi andati o del «si stava meglio quando si stava peggio» poiché il contenuto perduto può riferirsi a qualsiasi ideale, tanto alla “patria” quanto alla “libertà” (ivi, p. 103). In ultimo, nel testo si chiarisce esplicitamente che la mania costituisce un risvolto decisivo per comprendere la sintomatologia melanconica (quarto punto): «La caratteristica più singolare e che necessita più di tutte di una spiegazione» (ivi, p. 112). È proprio la mania, però, a racchiudere in sé il punto cieco dell’impostazione freudiana. A tradire la difficoltà è l’articolazione editoriale e narrativa del testo. A due terzi, infatti, il saggio si interrompe. Poche righe dopo, uno spazio bianco indica la frattura, un vuoto del discorso che tradisce l’imbarazzo di una sospensione. Freud ha spiegato perché spesso il melanconico sia insonne. Conclude il proprio discorso riproponendo le linee guida della sua prima interpretazione della melanconia, risalente al 1895. Nella cosiddetta Minuta G il Freud neurologo aveva spiegato che la malinconia e la mania costituiscono reazioni psichiche a una ferita. Nella ferita che riguarda il corpo l’emorragia chiama al lavoro le energie ematiche per la coagulazione e la cessazione della dispersione sanguigna. Nella melanconia una lacerazione psichica chiama a raccolta le energie neuronali circostanti per riparare il danno subìto. Con l’immagine della ferita melanconica Freud raccoglie le idee, rannoda i fili, unisce Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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passato neurologico a presente psicoanalitico. Ma non tutti i fili vengono intrecciati nel nuovo ordito. Da Lutto e melanconia pende ancora un filo: la mania rimane appesa nel vuoto, ancora in cerca di una sistemazione teorica. L’ultima parte del saggio costituisce un tentativo di rilancio, è la coraggiosa discussione dei risultati conseguiti. A tal proposito, Freud non fa sconti: «Non solo ci è consentito ma addirittura ci è imposto di estendere la spiegazione analitica della melanconia anche alla mania» (ivi, p. 113). Poi, impietoso, aggiunge: «Non posso promettere che questo tentativo sarà completamente soddisfacente» (ibidem). E infatti non lo sarà. Per capirlo, basta mettere sotto la lente d’ingrandimento alcune gracilità strutturali dell’impianto teorico del saggio. Lutto e melanconia risente di una impostazione di tipo tradizionale della quale non riesce a scrollarsi di dosso i difetti più limitanti. In una frase: Freud concepisce la melanconia ancora sul calco teologico della paralisi accidiosa. Nell’iconografia tradizionale l’accidioso è a volte accompagnato dalla scritta «torpet iners» (cfr. § 5): è un incapace immobilizzato, perché bloccato da un cortocircuito elettrico come quello prodotto dalla scarica della razza di mare che l’accidioso tiene ben stretta nella mano. Nel saggio di Freud, il melanconico è vittima di «inibizione» (ivi, p. 103), è «impoverito e svuotato», «incapace di agire» (ivi, p. 104). Come l’accidioso, il melanconico freudiano è isolato, lontano dalla sfera della prassi: il suo prototipo è non a caso l’Amleto, tragedia dalla quale Freud cita un passo (ivi, p. 106). utto procede secondo il programma dominante nella tradizione occidentale: il melanconico è simile al sovrano solitario. Con una mossa sola Freud si inscrive in un paradigma consolidato che da La Repubblica di Platone arriva fino al dramma barocco. A proposito di quest’ultimo, Walter Benjamin (1925, p. 180) descrive una nozione di melanconia tutto sommato platonica perché legata alla sovranità solitaria: anche qui «il principe è il paradigma del melanconico». Cambia solo il tipo di legittimazione: il tiranno l’ha ottenuta con la forza, il principe con il diritto di successione dinastica. Inibito e solo, il melanconico freudiano è condannato ad avere una relazione marginale con la sfera pubblica. 34
2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
Certo, nel testo fanno capolino ipotesi in grado di riequilibrare, almeno parzialmente, il quadro. Dopo aver individuato nella melanconia una struttura potenzialmente universale (il suo ruolo per lo sviluppo del super-Io), poche righe prima Freud propone anche per la mania «un’esperienza universale di natura economica». Si ha «gioia, il giubilo e il trionfo […] quando qualcosa che fa sì che un grande dispiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo», quando cioè «una lotta lunga e difficile è coronata da successo». È l’unico caso nel quale la mania appare non solo in termini patologici e in grado di dire qualcosa di antropologicamente significativo. Ecco quindi un risultato del quale fare tesoro: la
mania è legata al sollievo per la lotta rappresentata dalla nostra esistenza . Brusco e immediato, però, è il rientro nei ranghi: la
mania, la dimensione che darebbe accesso al mondo pratico, è descritta da Freud secondo due coordinate di fondo. La prima ribadisce che il suo ruolo teorico è comunque quello della comparsa: mentre esistono melanconici non maniacali, non si danno soggetti maniacali che non siano melanconici (Freud, 1917, p. 113). La seconda asserzione sviluppa le premesse della prima: i prototipi indicati per chiarire cosa intenda con “comportamento maniacale” sono tendenziosi. Come abbiamo visto, Freud sottolinea che «gioia, trionfo e giubilo […] costituiscono per noi i prototipi della mania» (ibidem). Ma poi si concentra solo sul trionfo immotivato, la forma più chiaramente delirante dei tre: «la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l’Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria» (ivi, p. 114). La mania è sostanzialmente una sbornia, un avvelenamento da vino: «Anche l’ubriachezza, che appartiene al medesimo ordine di fenomeni», prosegue Freud, «può essere valutata allo stesso modo» (ibidem). Da qui in poi verranno proposte altre ipotesi, titubanti e poi smentite. Quel che importa è che ormai l’occasione è persa. La melanconia è riassorbita dal lutto e dalle sue tristezze, la mania è confinata tra i fumi alcolici di chi ecce Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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de senza aver consapevolezza di quel che fa. Per comprendere che l’occasione è ormai perduta, basta avere davanti il quadro delle principali occorrenze che riguardano il termine “mania” nell’opera freudiana: • •
• • • • • •
Vol. I, p. 380: sinonimo di “rabbioso, psicotico”; Vol. II ( Minuta G ): orientamento opposto alla melanconia, è propagazione di eccitamento; Vol. III, p. 92: sinonimo di melanconia; Vol. V, p. 460: appare in un caso di psicosi; Vol. VIII: Lutto e melanconia; Vol. IX Psicologia delle masse ; L’Io e L’Es; Vol. X, p. 570: intossicazione e fuga simile al vino; Vol XI, p. 174: “beata ebbrezza del maniaco”.
L’espressione è impiegata in modo generico oppure in senso disfunzionale, vicino per l’appunto all’ebbrezza e all’intossicazione. Il caso costituito da L’Io e l’Es è particolarmente significativo. Come abbiamo visto (cap. I, § 3), in quest’opera Freud amplia il margine di manovra della melanconia. Non si tratta più di una semplice patologia, ma di una tappa antropogenetica che ha la capacità di formare il carattere dell’Io. Freud riprende la prima delle asserzioni universaliste contenute in Lutto e melanconia (la melanconia è fondamentale per la coscienza morale), portandola avanti: la melanconia ora riveste una funzione per lo sviluppo dell’Io. Se l’ampliamento del sistema freudiano fosse simmetrico e armonico, qualcosa di simile dovrebbe accadere anche per la seconda asserzione universale, quella che riguardava la mania e la sua relazione con il sollievo che si esperisce dopo il superamento di una prova. Niente di tutto di questo. Paradossalmente, la posizione più equilibrata resta quella del 1895, quando Freud paragona nella Minuta G la mania alla propagazione di un eccitamento neuronale. Nell’impianto freudiano, la melanconia rimane una forma di lutto cronico la cui relazione con la dimensione della prassi e le caratteristiche portanti della natura umana restano indefinite e sbilanciate. 36
2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
“Indefinite” perché relegano sullo sfondo ipotesi interessanti ma abbandonate; “sbilanciate” perché concentrate sulle forme introverse e inibite del melanconico e non sulle potenzialità innovative della sua immaginazione e della sua prassi.
§ 2 Antropologia della perdita? Melanconia e creazione « A: L’ho perso l’ottimismo! B : E che ce vò?! Dove te lo sei perso? u te devi fa’ sempre ‘sta domanda: dove stavo? Che facevo? Ritrovamo tutto». Antonio Rezza, Virus
Con Lutto e melanconia , Freud compie un’operazione decisiva che ha inciso profondamente sull’immagine contemporanea di questa passione. rattando le disfunzioni melanconiche, Freud parla in modo più o meno esplicito e coerente della sua funzione nel processo dell’antropogenesi, cioè nella costruzione psichica, linguistica e pulsionale di ogni essere umano. Il saggio suggella uno spostamento d’asse tematico. Per Ippocrate e Aristotele la mania è il genere del quale la melanconia è specie. In seguito questa relazione subisce un rovesciamento perché è la mania a diventare una variante della melanconia (lo vedremo meglio nel prossimo capitolo). Già nel titolo il breve articolo di Freud porta a uno slittamento ulteriore. Lutto e melanconia ricolloca la sindrome da bile nera nella sua posizione originaria, cioè seconda, ma procede a una sostituzione radicale. A prendere il primato è il lutto; la perdita guadagna il posto antropologico occupato in origine dalla mania e dall’azione. È opportuno sottolinearlo: non si tratta di contestare la validità clinica o terapeutica di questa svolta. Quel che è in esame sono gli effetti filosofici di questa trasformazione quando il testo di Freud viene assunto come immagine Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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della natura umana e della struttura psichica sapiens . Si tratta di un passaggio spesso implicito e pervasivo il cui risultato è l’assunzione di quel che potremmo chiamare una “antropologia della perdita”: gli esseri umani sembrano essere caratterizzati nella loro costituzione innanzitutto da una sottrazione originaria. Si tratta di un modello suggestivo che, al contempo, suscita il sospetto di una compromissione profonda con il paradigma teologico del peccato originale e dell’espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso. A tal proposito, bisogna fugare una possibile fonte di confusione. A un primo sguardo, l’antropologia di Lutto e melanconia può apparire simile all’immagine della natura umana fornita dall’antropologia filosofica del Novecento. Secondo Arnold Gehlen, ad esempio, l’animale umano si distinguerebbe dalle altre forme di vita per un minore tasso di specializzazione somatica e per un numero minore di strutture istintuali cui far riferimento per salvare la pelle e sopravvivere. Se, dunque, troviamo nel concetto di “pulsione” un’architrave comune, le due impostazioni teoriche differiscono per quel che concerne la relazione tra mancanza e azione. In entrambi i casi gli esseri umani si presentano come animali più pulsionali che istintuali, cioè legati a spinte all’azione e a stimolazioni percettive non ancora organizzate da un preciso piano genetico. Mentre la pulsione è generica e polimorfa, l’istinto è specializzato e uniforme. Da questa base comune, si procede però a una biforcazione teorica. Per l’antropologia filosofica di Gehlen, quella istintuale è una mancanza originaria che, come tale, ha due contrappesi. Il primo è costituito, come detto, da un eccesso pulsionale e percettivo, quel profluvio di stimolazioni che colpisce ogni essere umano e con il quale occorre fare i conti in ogni momento dell’esistenza. Il secondo è legato al concetto di azione: l’animale umano è “un essere che agisce” (Gehlen, 1978, p. 38) perché il suo primo compito organico consiste nel definire in che modo funzionerà il proprio organismo, per mezzo di quali strumenti, lingue, forme collettive, istituzioni pubbliche organizzare la forma di vita dei sapiens . Proprio sulla base di Lutto e melanconia , molta riflessione psicoanalitica e politica contemporanea imbocca una strada, l’antropologia della perdita, molto 38
2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
differente e meno convincente. Per due ragioni. La prima riguarda la diversità semantica che esiste tra “mancanza” e “perdita”. Entrambe le nozioni indicano una privazione, ma solo la seconda suggerisce un possesso precedente: perdo qualcosa solo se l’ho avuto, almeno transitoriamente. Che cosa gli umani avrebbero perso? Nel suo commento a Lutto e melanconia la psicanalista Maria Melgar (2007, p. 121) lo sintetizza così: La psicoanalisi ha scoperto che per la costruzione dell’apparato psichico e linguistico, delle funzioni dell’ego e della libertà del soggetto di provare emozioni, immaginare e creare, è necessario perdere gli oggetti della necessità ( need ) e dell’amore.
Secondo una teoria influente come quella di Jacques Lacan, ad esempio, questo oggetto costitutivamente perduto sarebbe il cosiddetto “oggetto a ”. In cosa consiste questo oggetto? In un paradosso. Per un verso, «dobbiamo sforzarci di non pensare ad esso come a un oggetto che è stato presente, un seguito perduto e poi ritrovato ma alla perdita come costitutiva dell’oggetto medesimo» (Palombi, 2009, p. 41). Per un altro, il termine si riferisce a un’assenza che non è nostalgica ma i cui effetti si fanno continuamente sentire. Gli animali umani sarebbero preda di una continua illusione prospettica perché alla ricerca di qualcosa che sembra perso ma che invece non c’è mai stato. La tesi è interessante perché descrive la natura umana come intrinsecamente melanconica. Si ricordi l’affermazione icastica di Freud: «Egli [il melanconico] sa quando è andato perduto, ma non cosa è andato perduto in lui» (Freud, 1917, p. 104). Il “quando” in questo caso corrisponderebbe a un passato originario, il “cosa” a una condizione sconosciuta della quale però si sente la mancanza. Con una differenza, però, e non da poco: mentre il melanconico ha subìto una perdita effettiva, nel caso dell’oggetto a questa perdita è prospettica perché si riferisce a una mancanza costitutiva. Per Gehlen, fondamentale è l’azione; per Lacan (o perlomeno per molti suoi epigoni) sembra esserlo la grammatica nostalgica della nostra struttura psichica. Proprio nella melanconia le due pro Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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spettive possono forse trovare un esperimento di conciliazione a patto però di non assecondare la tendenza a vedere in questa passione solo il secondo di questi termini (la mancanza). Credo che sia opportuno, invece, intravedere nella melanconia anche il primo, l’azione. Per farlo, bisogna non perdere d’occhio una nozione ancora oggi occulta e nascosta, la mania. Per capire meglio le ragioni di questa proposta e prima di comprendere come è possibile articolarla, è opportuno andare a vedere una conseguenza più esplicita di questa biforcazione teorica. Un testo recente, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, può risultare molto utile perché, seppur da una prospettica lacaniana, porta alle estreme conseguenze l’impianto melanconico della perdita rintracciabile in molti passaggi di Lutto e melanconia . La tesi di Massimo Recalcati (2009, p. 16) ha il pregio di essere netta: il disagio psichico di uno dei più grandi pittori dell’Ottocento sarebbe dovuto alla melanconia e non a un disordine di tipo schizofrenico. Van Gogh nasce all’interno di un contesto luttuoso e irrisolto: il giorno del proprio compleanno coincide con il giorno nel quale, un anno prima, il fratello muore. Il nome del pittore, Vincent, tradisce la sovrapposizione: i genitori chiamano il secondogenito con lo stesso nome del primo nato. La tesi è esplicitamente e coerentemente freudiana. Van Gogh soffre di una identificazione melanconica perché il suo brodo di cultura psichico, affettivo e familiare è all’insegna del lutto cronico: «Vincent è parassitato da una immagine ideale che non lo abbandona e che sovrasta la sua esistenza» (ivi, p. 36). Recalcati rifiuta esplicitamente il paradigma del genio intrecciato alla follia (ivi, p. 68), ma finisce col tratteggiare un ritratto della melanconia sospetto perché eccessivamente compromesso con la tradizione che vorrebbe criticare. Cerco di spiegarmi. In primo luogo, la scelta del libro è di intrattenersi sulla creatività di un talento al di fuori del comune come quello di Van Gogh; un talento che ha la fama di essersi legato indissolubilmente a una forma grave di disagio psichico che lo ha portato prima all’automutilazione, poi al suicidio. Ma al di là di una scelta per lo meno compiacente con il paradigma del genio folle e melanconico, il mio sospetto si 40
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fonda su una ragione più specifica. La malinconia è trattata come una passione sostanzialmente passiva, un movimento esplicitamente “mortifero” e “nihilistico” (ivi. p. 105). Eppure Van Gogh fornirebbe l’occasione e il materiale per lavorare su un ritratto di questa passione più equilibrato e meno compromesso dagli stereotipi tradizionali. Il pittore riconosce esplicitamente l’esistenza di due forme di melanconia (ivi, p. 39): In una prevarrebbero l’abbandono, la morte, l’assenza di speranza, la nostalgia, la stagnazione, l’inerzia. Nell’altra, in quella che Van Gogh stesso definisce la sua “melanconia attiva”, si manifesterebbe un’energia vitale che “spera, aspira e ricerca”.
Nello specificare che questa forma attiva non è «una negazione maniacale della ferita melanconica» ( ibidem), Recalcati ripropone il paradigma freudiano, seppur sotto la curvatura offerta da Lacan. Da ciò segue la svalutazione del polo maniacale, considerato solo in termini disfunzionali. Si potrebbe obiettare che forse si tratta solo di un modo diverso di intendere i termini in gioco. La parola “mania” è qui intesa solo in senso dispregiativo per coerenza con la terminologia adottata da Freud. Ciò non vuol dire che non si riesca a intravedere il risvolto pratico e attivo della melanconia, che è poi quel che veramente ci sta a cuore. La melanconia attiva, in effetti, sembra costituire il modello del quale andavamo in cerca: non uno sfogo reattivo e inconcludente alla perdita, ma un’azione costruttiva per mezzo di atti innovativi e pubblici, come accade quando si lavora a un dipinto. Certo, si tratterebbe sempre di un caso vicino alla nozione di genio, sempre di Van Gogh si sta parlando, ma non occorre, si potrebbe ribattere, andare troppo per il sottile. L’aspetto interessante della manovra argomentativa di Recalcati, significativa perché opera di una delle voci più autorevoli della psicoanalisi lacaniana, consiste invece nella progressiva e spietata neutralizzazione del potenziale innovativo insito nella melanconia. Se Van Gogh rintraccia nella pittura la forma attiva della propria melanconia, Recalcati ribadisce che questa strada in realtà non è percorribile . Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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L’arte avrebbe a che fare non con il sintomo freudiano, una formazione dell’inconscio che tende a dividere e a destituire l’Io, ma con un sinthomo, come lo chiama Lacan, cioè «una formazione egoica che identifica il soggetto e gli rende possibile avere un nome proprio» (ivi, p. 77). Fuori dal gergo: una formazione che consente all’individuo di costruire il proprio percorso di individuazione specifico e irripetibile. Si tratta infatti di « una praxis , […] una operatività . La finalità del sinthomo è quella di dar luogo a un’opera che fa consistere un soggetto privo dell’ausilio del Padre » (ivi, p. 78. Il corsivo è nel testo). Perfetto! Non era proprio quel di cui andavamo in cerca, una melanconia non più accidiosa? Poco dopo, però, ci si affretta a dire che il valore di sinthomo possono averlo le opere di Joyce, ma non quelle di Van Gogh. Purtroppo l’identificazione melanconica impedirebbe questa forma di riparazione alla perdita di iscrizione di un ordine simbolico. In termini freudiani: neanche il lavoro artistico consente di uscire dal lutto cronico nel quale Van Gogh è immerso, di costruire una vita che riesca a evadere dalla cortina di ferro imposta da quel nome, Vincent, che adombra la figura del fratello scomparso. Si faccia attenzione: Van Gogh fallisce nel far sua questa exit strategy dal lutto non per un motivo devastante e aggiuntivo (ad esempio perché soffre anche di disturbi di ordine schizofrenico oppure per la particolare gravità della situazione familiare), ma proprio a causa della melanconia che lo affligge. Nella melanconia, « il creatore finisce per consumarsi nell’opera » conclude Recalcati (ivi, p. 88. Il corsivo è nel testo). Non è questa una perfetta immagine, piuttosto, della negazione maniacale di tipo disfunzionale? 1 Uscito dalla finestra, il volto oscuro della mania, a questo punto puramente patologico, rientra dall’ingresso principale sotto forma di neutralizzazione della prassi melanconica. La conclusione è implicita e inevitabile: una melanconia attiva non può esistere perché se dalla melanconia si riemerge, allora vuol dire che non si è mai stati veramente melanconici. Si tratta di una neutraliz1 Quella del “consumare” è proprio l’immagine usata da Binswanger (cfr. § 5) per definire la mania: il soggetto maniacale «consuma il suo ambiente» (Binswanger, 1960, p. 84).
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zazione radicale perché colpisce i due tratti distintivi principali dell’azione maniacale. Il primo lo abbiamo visto: non sarebbe una prassi perché non è in realtà un’attività, solo una forma di autodistruzione. Anche il secondo, cioè il suo carattere pubblico, sembra impraticabile. A causa della sindrome melanconica, Van Gogh sceglie l’impolitica della solitudine, «rompe con la città», «sceglie […] la vita randagia, vuole vivere solo per la Natura e per l’arte» (ivi, p. 95). La via della prassi è sbarrata, Van Gogh è ricacciato nell’isolamento distruttivo di una passione che pare non offrire alcuna possibilità di riscatto.
§ 3 Melanie Klein: un tentativo di riparazione «Non siamo nati per soffrire» Assalti frontali, Sottobotta
Riepiloghiamo. Se si estende il modello di Lutto e melanconia fino a tramutarlo in un paradigma antropologico si rischia di costruire una immagine della natura umana tutta concentrata sulla nozione paradossale e scivolosa di “perdita”. Per la melanconia, la conseguenza di questa scelta è esiziale perché finisce col rappresentare, se possibile ancora più che nel passato, una passione depotenziata e priva di speranza. A questo punto si profilano di fronte a noi due strade. La prima, imboccata da Melanie Klein, prova a correggere il paradigma freudiano cercando di inserire al suo interno la mania. La seconda propone un lavoro più radicale perché scava dentro la proposta freudiana alla ricerca di tracce di un modello antecedente ma dimenticato che può consentire di evidenziare nella melanconia una potenzialità emotiva oggi quasi insospettabile. Vediamo, innanzitutto, perché la proposta di Melanie Klein mantiene meno di quel che promette. L’operazione appare interes Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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sante. Specialmente nei saggi Psicogenesi degli stati maniaco-depressivi e Lutto e stati maniaco-depressivi Klein cerca di affrontare alcuni dei problemi irrisolti lasciati da Freud e di riequilibrare la relazione tra melanconia e mania. L’obiettivo è lavorare sulla parentela con il lutto per fare almeno un paio di passi in avanti. Il primo riguarda la collocazione della melanconia: essa non costituisce solo una sindrome o una fase dello sviluppo (come tale unica e irripetibile) ma rappresenta una «posizione» (Klein, 1935, p. 311), una forma che la psiche umana può assumere nei momenti più diversi del suo sviluppo e della sua esistenza. Nella sua apparente semplicità la proposta consente di rileggere in maniera nuova l’unico modo, o meglio uno dei pochi, nel quale è stato possibile vedere la melanconia in termini non patologici. Il concetto di «posizione» può rappresentare un sostituito efficace alla nozione di «temperamento» che, da Ippocrate in poi, si è legata alla melanconia o al sentimento dell’accidia, ben presto ingabbiata in una tipologia di ordine diverso, quella dei peccati capitali (cfr. cap. III, § 4). La posizione depressiva avrebbe una precisa origine ontogenetica: nel momento dello svezzamento, il bambino deve confrontarsi con la perdita del «seno materno e tutto ciò che il seno e il latte significano per la psiche infantile, vale a dire amore, bontà, sicurezza» (Klein, 1940, p. 327). Questi i presupposti dai quali parte Klein: alla nascita l’Io del bambino è discontinuo e frammentato; l’introiezione di questi oggetti buoni è sentita come costantemente minacciata di distruzione sia da forza interne (l’Es) che esterne. Da qui sorge l’ipotesi circa l’esistenza di due categorie di paure: la prima, di ordine paranoico, legata a persecutori interni; la seconda, costituita da sentimenti di pena e angoscia, legati alla paura di perdere oggetti per i quali ci si strugge d’amore. La posizione malinconica sarebbe composta da entrambe le componenti: una tendenzialmente paranoide e una propriamente depressiva. La parziale sovrapposizione con la paranoia fornisce un’immagine della melanconia meno segregata dal resto della vita psichica in grado di focalizzare meglio le sue capacità polimorfiche. Sia il lutto che gli stati melanconici, infatti, hanno a che fare con una ripetizione ontogenetica. Il lavoro del lutto riesce non solo quando ristabilisce 44
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l’oggetto perduto ma quando riesce a farlo con «tutti i suoi oggetti d’amore interni » (ivi, p. 346. Il corsivo è nel testo): l’esperienza del lutto può essere tanto devastante proprio perché disarticola la presenza degli oggetti buoni interiorizzati che Klein tende a far coincidere «sostanzialmente con i genitori amati» (ivi, p. 336). In modo simile, gli stati maniaco-depressivi tradiscono l’incapacità di questa restaurazione poiché «nella primissima infanzia [i soggetti melanconici] non sono riusciti a consolidare i loro oggetti interni “buoni” e a sentirsi sicuri nel loro mondo interiore» (ivi, p. 353). Il fatto che Klein parli di «sindrome maniaco-depressiva» (sulla scia di Abraham, come vedremo nel prossimo paragrafo) non è irrilevante: l’oscillazione tra melanconia e mania è definita «parte integrante dello sviluppo normale» (ivi, p. 331). La mania mantiene buona parte dei tratti freudiani: anche per Klein la mania è innanzitutto trionfo delirante, pieno di “disprezzo” e “onnipotenza” (ivi, p. 334). Il tentativo, però, è farle indossare abiti civili: oltre alla sua versione patologica, la mania è una reazione non più solo disfunzionale. Essa, infatti, caratterizza anche il lutto nel quale si può assistere a momenti di euforia transitoria (ivi, p. 338). Melanie Klein sembra dischiudere un nuovo spazio antropologico, la riparazione. La mania sarebbe originata da un senso di onnipotenza necessario per due ragioni. La prima è legata al terrore provato per i propri oggetti interni e alla loro incontrollabilità; la seconda consiste nel «far sì che il meccanismo di restauro dell’oggetto – meccanismo acquisito nella posizione precedente, la posizione depressiva – possa esser attuato con piena efficacia» (Klein, 1935, p. 313). La mania sarebbe sempre secondaria rispetto al polo depressivo (metterebbe in atto strumenti confezionati durante la fase inibita e triste): nonostante ciò, Klein ne intravede il ruolo antropologico non disfunzionale. La mania passa all’atto e questo passaggio non sembra costitutivamente malato. Se c’è stata una perdita, si può agire per ricucire strappi, incollare parti rotte, cercare pezzi mancanti. Fuor di metafora: se per Freud la sposa abbandonata corrisponde a un esempio paradigmatico di perdita melanconica, il volto maniacale positivo può consistere in un tentativo di riparazione. Ad Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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esempio, andare a cercare lo sposo in fuga. Pur all’interno di un paradigma non soddisfacente, l’antropologia della perdita, Melanie Klein propone uno spiraglio: d’accordo, partiamo dall’oggetto perduto e infranto, ora possiamo però rimetterci mano. Il melanconico non è solo il personaggio rannicchiato in un angolo o affacciato sul mare che contempla orizzonti perduti, ma è anche colui che si alza e parte alla ricerca di quel che ha perso. Purtroppo, però, neanche questa concessione risulta senza riserve. 2 Una nota al passo citato poco sopra blocca sul nascere ogni possibile entusiasmo: «questo “restauro”, conformemente al carattere fantastico dell’intera posizione, è quasi sempre», precisa Klein, «non realistico e chimerico» (ivi, p. 313, nota 14). Il tema della perdita è ancora troppo forte: l’azione maniacale sembra riparatoria ma in realtà finisce con l’essere delirante e basata sul diniego, cioè sulla cancellazione e l’evitamento di incontri psichici che per il melanconico risulterebbero troppo dolorosi.
§ 4 L’illustre sconosciuto: Abraham e la sindrome maniaco-depressiva «Come ti sei ridotta in questo stato. Dimmi chi ti ha ridotta in questo stato, d’animo». Caparezza, Goodbye Malinconia
La prima strada, lo abbiamo visto, si è rivelata un vicolo cieco: rimaneggiare il paradigma freudiano aggiungendo in fondo alla lista la mania ha un effetto posticcio e tardivo. Anche per Melanie Klein, alla fine, «mania» equivale a «fuga dalla realtà». A costo di risultare pedante, ribadisco il punto: non si tratta di costruire un elogio della mania, un’esaltazione del passaggio all’atto in quanto 2 Sempre di una concessione si tratterebbe poiché aggiungerebbe un terzo elemento alla coppia lutto e melanconia senza però scardinarne la gerarchia interna.
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tale. Il problema è cogliere insieme al risvolto antropologico della melanconia triste e depressa, ben evidenziato dalla psicoanalisi, anche il fondamento antropologico del suo volto attivo ed euforico. Semplificando, potremmo dire che la sensazione che si ha dopo aver letto i testi sulla melanconia di Freud, d’ispirazione lacanania e di Klein è quella di una profonda asimmetria. La tristezza sembra avere radici antropologiche profonde e chiare: l’istituzione della coscienza morale (Lutto e melanconia ), le identificazioni successive che costruiscono il carattere (L’Io e l’Es ), l’illusione prospettica di un oggetto perduto e mai avuto (Lacan), la debolezza precaria degli oggetti d’amore interiorizzati (Klein). La mania, invece, non sembra avere una collocazione propria nella psicogenesi e nelle vie di individuazione dei sapiens . La sproporzione è sospetta: nella natura umana inibizione, dolore e riflessività introversa trovano subito il loro posto, mentre azione e prassi, piacere e sollievo sembrano rappresentare solo deliranti vie di fuga. Che la fuga, ad esempio, non sia poi una linea di azione così irrilevante e reattiva? Per rispondere all’interrogativo conviene fare ancora un paio di passi all’interno dell’universo psicanalitico. Nel dibattito sulla melanconia Karl Abraham è una presenza costante ma fugace. Gli si riconosce l’influenza su Freud, specie sul parallelo tra lutto e stati melanconici, per poi solitamente lasciarlo nel suo angolo, fortunato precursore di una luce ben più intesa. Per questo Abraham costituisce un caso esemplare di “illustre sconosciuto”: qualcuno di cui si orecchia il nome, ma che in realtà non si conosce affatto. Ed è un peccato: tra gli autori che abbiamo considerato Abraham è colui che scrive di più sulla melanconia, per di più è l’unico che dedica un paragrafo dei suoi scritti esplicitamente alla mania. Come Freud, Karl Abraham è innanzitutto un medico e uno scienziato. Il suo interesse per il disagio psichico passa attraverso studi di storia naturale (la sua prima pubblicazione riguarda la storia evolutiva del pollo), l’istologia e la neuropatologia (Cremerius, 1975, p. 11). Dal 1907 comincia uno scambio di idee con Freud che, fino al 1925 anno della morte di Abraham, non conoscerà interruzioni. Sin dalla prima pagina di Lutto e melanconia , Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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Freud (1917, p. 102, nota 1) riconosce esplicitamente il debito nei confronti del proprio allievo. Quel che Freud omette di dire è che il senso del parallelo tra lutto e melanconia è per Abraham, in buona parte, diverso: molto meno regressivo per il significato antropologico e il destino filosofico della melanconia. Abraham, infatti, inserisce il parallelo tra lutto e melanconia all’interno di una categoria psichiatrica, la sindrome maniaco-depressiva, proposta da Kraepelin alla fine dell’Ottocento. Per un verso, la caratterizzazione della mania è simile a quella freudiana. Anche in questo caso è paragonata a un’intossicazione che «ricorda in modo sorprendente quella dei morfinomani e di alcuni alcolisti» (Abraham, 1916, p. 272). Per un altro, Abraham tiene fermo un punto fondamentale dell’analisi psichiatrica che da Kraepelin arriverà fino a oggi negli strumenti diagnostici contenuti nel cosiddetto DSM IV. La sindrome melanconica ha la caratteristica di essere circolare. Abraham intuisce che l’ambivalenza non è solo legata all’amore e all’odio per l’oggetto perduto ma è anche l’espressione della logica interna alla coppia melanconia-mania . La circolarità del comportamento, prima inibito e poi maniacale, esprime proprio l’alternanza di odio e amore: il melanconico si abbatte per fermare l’odio per l’oggetto perduto; si lancia nell’azione maniacale quando ne sente la perfezione ideale. Freud giustappone i due dati senza collegarli tra loro: da un lato insiste sul carattere ambivalente della melanconia, costitutivo di questa passione; dall’altro cerca di riannodare i fili della bipolarità triste-maniacale senza riuscirvi. Questo passaggio teorico è decisivo per dare la possibilità alla mania di riabilitarsi all’interno del quadro psicanalitico. Se l’ambivalenza è una caratteristica logica fondamentale della melanconia e questa ambivalenza si incarna nell’oscillazione inibizione melanconica/disinibizione maniacale, allora la mania può rivestire un ruolo decisivo in questo stato d’animo. Nelle ultime pagine del suo saggio, Freud scarta esplicitamente questa ipotesi per mezzo di una argomentazione che non appare stringente. Poiché ritroviamo l’ambivalenza anche nei rimproveri ossessivi susseguenti a una morte, ciò vuol dire che il fattore chiave della melanconia deve trovarsi altrove, a suo parere nella regressione nell’Io della libido che era stata investita nell’oggetto d’amore ora scomparso (Freud, 1917, 48
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p. 117). Freud non sembra considerare, però, che delle tre componenti principali della melanconia che egli elenca (perdita dell’oggetto, ambivalenza, regressione della libido nell’Io) la seconda ha una ampiezza teorica non comparabile alle altre due. L’ambivalenza costituisce la grammatica della pulsione in quanto tale, la caratteristica logica che distingue la pulsione dall’istinto (Mazzeo, 2009). Che dunque l’ambivalenza intervenga in più di una circostanza non è strano. Il punto è capire se nella melanconia esista una modalità specifica di manifestazione dell’ambivalenza. Secondo Abraham (1924, p. 315), è l’alternanza tra inibizione triste ed euforia disinibita a costituire questo modo peculiare. Proprio perché egli rilegge la circolarità della sindrome psichiatrica maniaco-depressiva secondo la chiave psicoanalitica dell’ambivalenza, Abraham (ivi, p. 329) ha ben chiaro quale sia il punto cieco della prospettiva di Freud: Mentre Freud ha posto in rilievo e fondato l’affinità psicologica fra la melanconia e il lutto normale, non ha trovato nella vita psichica un processo che corrisponda al mutarsi della melanconia in mania.
Il tono è amichevole, ma il colpo è duro. Se il mutamento della melanconia in mania trova spiegazione nell’ambivalenza, cosa dire della mania in quanto tale? A tal proposito, Abraham suggerisce due idee particolarmente interessanti perché prova a fare quel che né Freud, né Klein erano riusciti o riusciranno a fare. La prima idea: la mania presenta delle affinità con il motto di spirito, per come è descritto e analizzato da Freud. Sia nella mania che nel motto il risparmio di inibizione dà accesso a fonti di piacere più arcaiche, legate a forme di esperienza infantile. Questo regresso ontogenetico dà la possibilità di accedere a una particolare “tecnica della produzione ideativa” (ivi, p. 252) che ha due caratteristiche principali. La prima è «l’eliminazione della costrizione logica», la seconda è «il giocare con le parole» (ibidem). Se il rischio è d’essere trascinati via in una fuga d’idee a causa della quale «si perde molto facilmente la rappresentazione della meta» (ibidem), la mania «favorisce – similmente al motto di spirito – di entrare in un’altra cerchia rappresentativa» Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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(ibidem). Proprio per questo, si specifica subito dopo, la fuga d’idee può sfiorare temi penosi di solito repressi. Abraham pone le basi per un vero e proprio rovesciamento tematico, seppur senza svolgere fino in fondo l’argomentazione. La mania può costituire l’incarnazione pratica di quel che sul piano verbale è il motto di spirito. O meglio, il motto di spirito costituisce un’azione innovativa verbale che come tale ha inevitabilmente un risvolto pratico: un’arguzia riuscita necessita di una capacità di maneggio della situazione e di cogliere l’attimo appropriato, una sensibilità linguistica simile a quel che i greci chiamano phrónesis (Virno, 2005). La mania può costituire un’azione innovativa pratica che, come tale, ha inevitabilmente un risvolto linguistico: giochi di parole, fuga delle idee. Il motto di spirito trova la sua struttura specifica in una forma ternaria. A differenza del comico che prevede uno scambio di battute tra due persone, la grammatica del motto richiede la presenza di un terzo. È per questo che, secondo Paolo Virno, ricapitola in sé la struttura di quel che Aristotele chiama praxis perché ha bisogno di un pubblico non coinvolto direttamente nella vicenda. Cosa succede se non si tiene nel debito la presenza di questo terzo attore? Si smarrirà l’essenziale: la differenza tra un dialogo amoroso o una conversazione scientifica, per i quali basta la seconda persona, e un motto di spirito o una rivoluzione, che abbisognano invece, per esistere, di un pubblico indifferente. (ivi, p. 22)
La mania è inquietante e tende al delirio perché abroga inevitabilmente il “tu” della seconda persona: incarna costantemente quel che per il motto di spirito, è un caso limite ( ibidem): In certe arguzie (si pensi ai puri giochi di parole, non diretti a un interlocutore particolare) può mancare la seconda persona, il “tu”; in nessuna la terza persona, l’“egli” inattivo e giudicante.
Il riferimento è proprio a quei giochi di parole che costituiscono, secondo Abraham, una delle vie privilegiate per il linguaggio del soggetto maniacale. Ma c’è almeno un secondo 50
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punto di contatto. Grazie al motto di spirito si può verificare uno spostamento verbale, un cambio di discorso che è paragonabile alla figura etico-politica dell’esodo (ivi, p. 79 e sgg.). Cambiando discorso o fuggendo dall’Egitto ci si sottrae alla logica del terzo escluso (o A o non A) trovando una via alternativa. Nel caso del popolo ebraico perseguitato dal Faraone all’alternativa «subire violenza o esercitare violenza», il viaggio nel deserto e l’attraversamento del Mar Rosso costituiscono una forma di spostamento, che spariglia le carte in tavola. Sia dal punto di vista verbale che da quello puramente pratico, la spinta maniacale è alla fuga e alla sottrazione. Nella sua versione disfunzionale e patologica, la fuga (per Ippocrate uno dei tratti comportamentali distintivi del melanconico: cfr. cap. III, § 2) è dispersione: instabilità delirante, assenza di scopi e mete, perdita di sé. Nella sua versione funzionale, invece, costituisce un elemento decisivo per l’individuazione di un’alternativa quando ci si ritrova con le spalle al muro stretti da due opzioni ugualmente infelici. La seconda idea di Abraham è ancora più abbozzata della prima e irta di maggiori difficoltà: riguarda la parentela strutturale tra mania e festa rituale. È un tema cui accenna Freud nella sua Psicologia delle masse e analisi dell’Io: i Saturnali romani e il carnevale nostrano testimonierebbero come nella trasgressione l’ideale dell’Io e l’Io dei partecipanti si fondino tra loro con il risultato susseguente di una «festa grandiosa per l’Io» (Freud, 1921, p. 318). In uno scritto di poco successivo, Abraham esplicita questa connessione tematica mettendo in relazione mania e festa rituale ma anche mania e cerimonia funebre. Analizzando il caso di un paziente che in un eccesso maniacale si dà al consumo smodato di carne, Abraham (1924, p. 330) commenta: Qui diviene del tutto chiaro che la mania rappresenta, nella sua essenza più profonda, un’orgia di carattere cannibalesco. La dichiarazione del paziente è una prova convincente in favore della concezione di Freud, secondo la quale la mania rappresenta una festa di liberazione celebrata dall’Io.
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In realtà nell’analisi di Freud e Abraham è proprio questo potenziale liberatorio e rivoluzionario a finire sullo sfondo. Invece di insistere sulla relazione tra mania individuale e festa rituale (pubblica e collettiva, potenzialmente costruttiva e liberatoria), i due si concentrano solo sugli aspetti più retrivi del parallelo. Freud sottolinea che si tratta di movimenti liberatori prescritti dall’ordine costituito, come nel caso del Carnevale: una semplice valvola di sfogo. Abraham esplicita il senso dell’accostamento tra melanconia e festa funebre. I riti primitivi funerari lavorerebbero a dissipare il lutto sociale per mezzo di un’esplosione libidica (cioè maniacale) che porta all’introiezione dell’oggetto perduto, cioè dell’estinto (Abraham, 1924, pp. 327-331). Le premesse dell’analogia sono già contenute in otem e abù, lo scritto più dichiaratamente antropologico di Freud (1913, p. 144): «La festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto»; «il pasto totemico [è] forse la prima festa dell’umanità» (ivi, p. 146). La prima festa maniacale ha a che fare con un’uccisione rituale, quella del padre capo dell’orda primordiale, e con la sua introiezione cannibalica. Il paragone tra melanconia individuale e melanconia delle masse è interessante perché lascia sul tavolo un’equazione decisiva e rude, utile per comprendere il perché dello sfortunato destino toccato in sorte alla mania e agli stati melanconici. Questo aspetto del teorema melanconico di Freud e Abraham può essere riassunto così: i popoli primitivi sono tali sia dal punto di vista tecnologico che psichico poiché passano all’atto lì dove noi ci limitiamo a un movimento psichico. Mentre i pazienti malinconici incorporano l’oggetto perduto nella loro psiche, i primitivi lo incorporano fattivamente introducendolo nel corpo come pasto. Il ragionamento si basa sul presupposto che il passaggio all’atto sia sostanzialmente una forma primitiva e, come tale, incivile. Il cannibalismo costituirebbe una forma melanconica, di introiezione di quel che è perduto; di converso, la melanconia costituirebbe una forma più primitiva e barbarica del lutto. Il volto maniacale della sindrome studiata da Freud e Abraham incarnerebbe quel che nel rito è rappresentato dalla festa orgiastica connessa all’antropofagia, mentre l’esperienza indivi52
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duale del lutto corrisponderebbe al pianto funebre sociale (come detto esplicitamente in Lutto e melanconia : Freud, 1917, pp. 107-108). Abraham (1924, p. 302) a tal proposito è chiaro: «La melanconia rappresenta una forma di lutto arcaica». Il termine “arcaico” contiene, qui, un implicito giudizio di valore: uno stato barbarico che necessita un superamento. Sulla testa della melanconia incombe, pesante, lo spettro di uno stato di natura alla Hobbes nel quale gli umani mangiano altri umani come fossero lupi. Eccoci giunti finalmente al nodo cruciale, all’ambivalenza che anima il trattamento psicanalitico della melanconia. Per un verso, se si scava fino in fondo si attua un rovesciamento. Non è la melanconia a derivare dal lutto, ma è il lutto a costituire una forma seconda rispetto alla melanconia . Per un altro, questo rovesciamento assume i connotati del progresso civilizzatore: noi sì che non siamo barbari perché ci nevrotizziamo invece di passare all’atto. L’osservazione contiene senz’altro una porzione di verità (meglio un tic che uno sterminio di massa), ma ciò non toglie che occorre comprendere che fine fa, in questo scenario, la dimensione pratica dell’agire. Il rischio è rimanere incastrati in una morsa caricaturale3: primitivi che agiscono mangiandosi a vicenda, nevrotici immobili in attesa che qualcosa finalmente cambi. È proprio su questo punto che si chiude otem e tabù: l’espressione contenuta nel Faust di Goethe secondo la quale «in principio era l’azione» riguarda, secondo Freud, innanzitutto «il primitivo privo di inibizioni [per il quale] il pensiero si trasforma senz’altro in azione» (Freud, 1913, p. 164), mentre il nevrotico moderno ha difficoltà proprio con l’agire. È significativo però che questa frase, «in principio era l’azione», abbia costituito nel Novecento l’effige di quella filosofia del linguaggio che ha cercato di indagare la relazione tra parola e prassi: chiude Pensiero e linguaggio, il capolavoro dello psicologo sovietico Lev Vygotskij; ricorre tra le pagine di Ludwig Wittgenstein quando si mette a riflettere sulla relazione 3 La ritualizzazione legata all’antropofagia, ad esempio, è tutt’altro che orgiastica: Mazzeo, 2006.
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tra certezza e giochi linguistici. Freud, in parte Abraham e la tradizione successiva, chiudendo la porta in faccia alla melanconia, rischiano di chiuderla anche alla capacità umana di cambiare il mondo.
§ 5 Danzare, arrampicarsi, saltare: Binswanger e l’antropologia della mania «Grande la confusione sopra e sotto il cielo. Osare l’impossibile, osare, osare perdere». CCCP, Manifesto
Ludwig Binswanger è medico e psichiatra, studioso appassionato della filosofia di Heidegger e Husserl. Leggendo le molte pagine che ha dedicato alla passione melanconica, si ha la sensazione che queste letture abbiano contribuito, almeno a volte, a complicare il quadro teorico più che a renderlo intelligibile. Dei due libri scritti sul tema, Sulla fuga delle idee e Melanconia e mania , il secondo è conosciuto e citato, perché più recente (è una delle sue ultime opere) e dichiaratamente riassuntivo. È però nel primo che è possibile trovare le idee più fertili a proposito della melanconia proprio perché, paradossalmente, si tratta di un libro parziale e squilibrato, dedicato a un fenomeno limite, la fuga delle idee. Si tratta di uno degli esiti estremi della sindrome maniacale al quale la psichiatria e la neurologia di fine Ottocento dedica parecchia attenzione: è Carl Wernicke, uno dei pionieri della neurologia del linguaggio, a proporre una delle prime classificazioni delle diverse forme di fuga di idee alla quale Binswanger dà credito. Per comprendere il fenomeno chiamato «fuga delle idee» bisogna distinguere. La fuga ordinata di idee si caratterizza per un flusso incompiuto di pensieri la cui struttura associativa principale, però, rimane in piedi. Solo nelle due forme più gravi il paziente perde capacità di azio54
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ne e appare disorientato: nella fuga disordinata di idee «va anche perduto il giudizio riflessivo sulla propria capacità di prestazione» (Binswanger, 1933, p. 99), mentre nella fuga incoerente il parlare si disarticola completamente fino ad arrivare a «un cianciare sconnesso» (ibidem). Al di là dei particolari tipologici, la distinzione consente di chiarire un punto decisivo. La fuga delle idee non è un fenomeno monolitico e nella sua forma più leggera costituisce una componente del pensiero linguistico di ogni parlante . Quando si è preda di uno stato nel quale i pensieri mostrano un ritmo superiore al normale e di procedere per proprio conto fino a trovare la soluzione di un problema o intravedere un nuovo modo di comportarsi si ha a che fare con una fuga di idee, non solo non patologica, ma decisiva per l’innesco di un’azione innovativa. Su questo punto Binswanger è chiaro. Grazie alla fuga di idee è possibile disporre di «una maggiore ricchezza di pensieri, uno stato di produttività accresciuta ed eventualmente persino un’accresciuta capacità di prestazione [...]» (ibidem). L’obiettivo di Sulla fuga delle idee è individuare «la struttura antropologica della mania» (ivi, p. 21): non a caso gli scritti di Abraham sulla melanconia vengono definiti come quelli che più di ogni altro hanno contribuito alla «teoria della libido di Freud» (ivi, p. 39 nota 17). Al contrario di Abraham che si era limitato a ipotizzare un possibile legame tra mania e motto di spirito, Binswanger descrive con precisione e nel dettaglio tre forme di esistenza legate al volto funzionale della mania: la vita festosa, l’ottimismo e il salto demoniaco. L’idea di partenza riprende esplicitamente Freud: il maniacale vive un’esperienza di «trionfo» (ivi, p. 53). La differenza di impostazione consiste nell’individuazione dei correlati non patologici e innovativi legati a questo tipo d’esperienza. Binswanger fa riferimento innanzitutto alla dimensione della festa: a una tonalità del vissuto vicina all’estasi che confonde i confini tra il soggetto dell’esperienza e il suo contenuto. Non si tratta del semplice vissuto di perdita dei confini, ma dell’incarnazione dell’atteggiamento estetico verso quel che ci è intorno. Quella estetica è «una vita che astrae da ogni individuazione o la vita dal punto di vista della totalità» ( ibidem). La caratterizzazione che ne fornisce Binswanger è, purtroppo, del Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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tutto impolitica: «Innocente, estranea alla lotta» aggiunge in nota (ivi, p. 53 nota 47). La proprietà che la contraddistingue è un atteggiamento «non problematico» di apertura al mondo e alla vita. Un non prendersi cura inteso in modo «positivo» (ivi, p. 51) e non solo difettivo e manchevole la cui caratteristica è di essere non riflessivo, comunque legato alla relazione con gli altri, a quel che Platone chiama «sinousia, all’essere insieme» (ivi, p. 53). Da questo punto di vista, gli esempi proposti da Binswanger sono particolarmente significativi. È la danza a costituire l’esempio privilegiato di quel movimento «non direzionato e non limitato» tipico della vita festosa. La danza produce una trasformazione nel modo di vivere lo spazio e il proprio corpo: ballando non ci si sposta, si riempie lo spazio. La danza richiede una sincronizzazione: con il ritmo e la musica, ma anche con coloro i quali ci si sta muovendo. La vita festosa ha però un risvolto pratico che emerge per mezzo di un secondo esempio, pur solo accennato: «Il movimento di scalare una montagna trasmette il vissuto della vittoria » (ivi, p. 44. Il corsivo è nel testo). La sottolineatura sulla trasmissione di questa idea è legata a una esplicita correzione di quel che affermava Freud in Lutto e melanconia : «L’eccitazione maniacale non produce l’ebbrezza della vittoria e il giubilo della festa, le fa solo emergere dall’uomo» (ivi, p. 47. Il corsivo è nel testo). Il caso dell’arrampicarsi è addirittura più interessante del precedente: se la danza sottolinea il legame tra mania ed esperienza estetica, questo mette a fuoco la sua relazione con una forma di attività pratica di ordine diverso. Mentre nella danza il movimento non è finalizzato, nella scalata i movimenti hanno una caratterizzazione particolare. Per un verso, sono legati al riempimento dello spazio: la parete dell’arrampicatore non è solo una superficie, ma un corpo con il quale entrare in sintonia. Diversamente dalla danza, però, l’arrampicatore effettua spostamenti veri e propri: ha una meta da raggiungere e un percorso da fare. Come per la danza, la scalata propone un problema di orientamento del corpo proprio nello spazio. A differenza di questa, orientarsi non significa solo ritrovare le coordinate nelle quali inserire i propri movimenti (dopo una piroetta sul palco 56
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o uno «sbandieramento», il violento strappo che prova a sbalzarci via dalla parete) ma anche pone la questione di ritrovare la via. Nella mania estetica sembra esserci una contrapposizione tra festa e cultura, tra movimento e riflessione (è un punto sul quale Binswanger insiste molto). Il movimento in salita presenta invece un’alleanza. Il tipo di trance tipico di chi arrampica non è riducibile né a una mera spinta a salire irriflessa (possibile solo su percorsi semplici che come tali quasi non presentano l’esperienza dell’ascesa), né tanto meno a un calcolo riflessivo (semplicemente non ce n’è il tempo). La dimensione tecnica dell’ascesa si presenta altrettanto complessa: per un verso non è la qualità del materiale a fare la differenza; per un altro ascendere in parete significa farsi tutt’uno con protesi tecnologiche. La corda e i moschettoni, l’imbraco e i mezzi per assicurarsi alla parete sono parte integrante del percorso, ne costituiscono la modulazione, l’articolazione tecnica interna. Mentre la danza è una forma d’espressione che affonda le sue radici nel buio del nostro passato preistorico, la storia dell’alpinismo è molto recente perché legata allo sviluppo tecnico del secolo appena concluso. La vita festosa ha dunque un risvolto pratico e tecnico che Binswanger stenta a riconoscere perché sembra dimenticare che la festa ha un legame strettissimo con il rito. Dalle celebrazioni dei santi patroni a quelle della fertilità agricola, dai baccanali dionisiaci alle ricorrenze legate allo Stato-nazione, la vita festosa è organizzata in forme istituzionali la cui manifestazione cronologica è periodica. Anche in casi del genere la festa non è semplicemente qualcosa che accade, ma qualcosa che accade e che riesce (o, dunque, fallisce). L’elemento di performance presente in ogni rito nella festa vive di un cortocircuito: la festa riesce non solo se adempie al compito (commemorare un santo, unire la patria) ma se fa vivere un’esperienza di comunanza al di là del motivo per il quale ci si riunisce. La seconda forma emotiva, l’ottimismo, costituisce il controaltare rispetto all’occlusione prospettica tipica del depresso. rovare una discontinuità netta tra una posizione maniacale e una visione semplicemente rosea del futuro è difficile, soprattut Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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to a volte è possibile farlo solo a cose fatte. Retrospettivamente è possibile dire se quella che abbiamo compiuto è una grande impresa legata alla nostra fiducia oppure il tentativo maniacale che “non conosce ostacoli” (ivi, p. 80). Questo è il senso melanconico dell’espressione impiegata da Virgilio nell’ Eneide divenuta proverbiale «audentis fortuna iuvat »: nel compiere un’azione al limite delle nostre possibilità è possibile scorgere se quello che abbiamo di fronte è un limite insuperabile solo dopo aver compiuto il tentativo (è un tema che ritornerà nel cap. III, § 3). Non si tratta dunque di una semplice invocazione al gesto eroico (cosa da lasciare volentieri all’esaltazione dei paracadutisti della Folgore ), quanto a un’indicazione circa la struttura di ogni azione umana che si confronta con l’esperienza del limite. Nella danza può trattarsi di una combinazione di passi particolarmente impegnativa; nell’arrampicata di raggiungere con un lancio, cioè senza sostegni e spingendosi nel vuoto, una presa apparentemente irraggiungibile; nell’agire politico di cominciare un tumulto e accorgersi, quasi increduli, che questo prende piede e dà il via a un vero e proprio movimento rivoluzionario. L’ottimismo, prosegue Binswanger, è caratterizzato da una inconsueta vicinanza tra i mondi dell’agire e del pensiero. Questo stato d’animo riduce al minimo la frattura tra pensiero e azione. Per questa ragione, il pensiero di chi è preso nell’azione (e non solo da chi è affetto da fuga di idee) può risultare “impreciso” (ivi, p. 85) o grossolano come «un cowboy in un campo di tulipani» (ivi, p. 56). Anche in questo caso, però, si tratta di una imprecisione a posteriori (problema che ritroveremo, anche questo, nel melanconico grecoaristotelico: cfr. cap. IV, § 2): è il passo andato a vuoto che per questo giudichiamo più lungo della gamba; il volo dell’arrampicatore che ha mancato la presa; il fallito assalto all’edificio nel quale si sta tenendo l’ennesimo consiglio del G8. L’ottimismo rivoluzionario, legato all’idea che «un altro mondo è possibile» (cfr. introduzione), è un’esperienza più a portata di mano di quel che potremmo credere. Quando si fa ricerca scientifica e più in genere riflessione teorica, è proprio questa convinzione, rosea e maniacale, che muove lo studioso a cercare quel che 58
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ancora non si vede. Questo passaggio che lega azione e pensiero nell’ottimismo maniacale è notevole proprio perché oggi sotto scacco. Siamo testimoni di una doppia forma di crisi di questo legame. Per un verso, ricorda Hannah Arendt (1958, p. 171), la ricerca scientifica sembra essere rimasta l’ultima forma di attività umana che può riservare novità e cambiamento: mantiene in sé il germe innovatore di una prassi atrofizzata. Per un altro, la figura che oggi più di ogni altra potrebbe compendiare ricerca scientifica e attività politica, Noam Chomsky (il più importante linguista vivente oltre che teorico politico coraggioso e radicale), propone una via di antagonismo e separazione che va nella direzione inversa. La distinzione che egli propone tra «problemi», questioni teoriche alle quali è possibile in linea di principio dare una risposta, e «misteri», questioni alle quali non è possibile rispondere in linea di principio, risente del mancato riconoscimento nella ricerca empirica e teorica della presenza dell’ottimismo venato di maniacalità proprio dell’azione politica. Nel primo caso (la diagnosi di Arendt sul presente) abbiamo l’ottimismo maniacale nella ricerca ma non nella politica; nel secondo (l’opera di Chomsky) nell’azione politica ma non nella ricerca empirica. È nella sfera onirica che trova la propria certificazione il fatto che l’ottimismo maniacale sia presente, almeno potenzialmente, in modo costante nella vita dei sapiens e non solo nella psiche frantumata di persone in delirio. Binswanger (ivi, pp. 90-91) fa riferimento a un caso particolarmente eclatante che riguarda i sogni nei quali si è convinti di conoscere una lingua straniera. È tanto semplice parlare nel sogno in francese, inglese o tedesco quanto è sconfortante trovare al risveglio non solo che la nostra competenza linguistica è assai più scarsa, ma anche che sia così difficile imparare e gestire una lingua che apprendiamo in età adulta. Credo, però, che questa facilità di azione e reazione propria del sogno sia di tipo più generale tanto da riguardare la struttura stessa dell’esperienza onirica : è la facilità dello svolgersi degli accadimenti (inquietanti o piacevoli che siano) che contribuisce a dare al sogno la sua particolare struttura narrativa ed emotiva. È forse per questa ragione che i sogni nei quali si vive un attrito o un impedimento, come una Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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difficoltà nel correre o nel camminare risultano tanto angosciosi: non solo perché hanno un contenuto spiacevole legato a una impossibilità di movimento ma perché fanno attrito con uno degli elementi portanti della struttura emotiva elementare dell’esperienza onirica, la sua ottimistica fluidità. Al sogno, infatti, è legata anche la terza struttura emotiva maniacale che Binswanger chiama «una forma demoniaca d’esistenza» (ivi, p. 236). Il demoniaco ha due volti: uno inquietante e orrorifico, l’altro eroico e militante. Da un punto di vista teologico, il demoniaco, infatti, non va confuso con il satanico che corrisponde a “mancanza, difetto e decadenza” (si pensi per l’appunto a Satana come angelo decaduto) e a pura distruzione. Allo stesso tempo, il demoniaco non è sovrapponibile al genio perché in questo caso si sottolinea solo la capacità creativa della condotta umana. Il demoniaco è dunque « tensione tra la creazione e la distruzione di forma » (ibidem. Il corsivo è nel testo). È proprio questo aspetto del melanconico maniacale che sfugge sia all’antropologia della perdita che alla storiografia che lega la bile nera alle sorti del genio: nel primo caso si stenta a riconoscere alla crisi melanconica la possibilità di produrre forme; nel secondo le si disconosce la forza di distruggerle. Per capire tratti e fattezze del demoniaco, può essere utile passare in rassegna due dei suoi compagni di viaggio più prossimi: il salto e l’accidia. Binswanger insiste sul salto soprattutto in termini psichici e verbali: è la disconnessione della fuga di idee capace di passare da un argomento all’altro con rapidità fulminea, spesso incomprensibile. È legato a quell’ottimismo della conoscenza del quale parlavamo poco fa (ivi, p. 231): non a caso alcune delle ricerche contemporanee sul pensiero innovativo insistono proprio sui mental leaps , cioè sui salti che la mente umana sarebbe in grado di fare grazie a metafore e analogie (Holyoak, Tagard, 1996). Sarebbe sbagliato, però, intendere questa nozione solo in senso traslato e perderne l’accezione semantica primaria, legata al gesto fisico e alla performance atletica. Anche qui si corre il rischio di tralasciare, come per la festa, il volto rituale di questa forma d’esistenza. Nei giochi olimpici della Grecia antica il salto non figura 60
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come disciplina autonoma. È inserita come una delle prove del pentathlon. Non bisogna dimenticare, però, che il salto acquisisce un valore rituale diretto in un’epoca ancora precedente. In tutta l’età del bronzo a Creta, ma anche in Siria e in altre civiltà mediterranee, la taurocatapsia (il salto del toro) incarna un momento rituale ancora poco decifrabile ma di sicura importanza. Lottare con l’animale afferrandolo per le corna, saltare sul dorso per poi superarlo e volteggiare da un lato all’altro del toro (come nelle più moderne tecniche del rodeo) costituivano tre fasi di un unico momento ludico-rituale che trova ampia rappresentazione nella produzione vascolare del tempo (Younger, 1995). Il salto del toro è una pratica ancora oggi diffusa: dal Portogallo al sud della Francia, dall’Etiopia all’India. Il suo significato varia ma sembra muoversi secondo due coordinate di fondo intrecciate: la prova di ardimento (l’aspetto che ne fa oggi una forma sportivaspettacolare per certi versi simile alla corrida) e il rito iniziatico. Il caso dell’uklì bulà , una pratica iniziatica degli Hamer (popolazione che vive nella Valle dell’Omo in Etiopia), è particolarmente istruttivo. Per passare al mondo adulto, i giovani del villaggio devono sottoporsi a una prova che consiste nell’oltrepassare con una serie di salti una schiera di sette tori tenuti uno accanto all’altro. La prova è superata se si riesce a compiere il percorso per quattro volte senza cadere (de’ Nobili, 2011): solo così si può diventare veri e propri membri della tribù. Come la fuga di idee si caratterizza come «un salto demoniaco e presuntuoso» (Binswanger, 1933, p. 240), così nella taurocatapsia o nell’ uklì bulà l’autore del salto è alla prese con un’azione decisiva e, per questo, sospesa tra la vita e la morte, l’appartenenza al genere umano o a un limbo intermedio. Il salto, parte costitutiva anche di espressioni della vita festosa (l’assemblé e lo changement du pied della danza classica; il lancio verso l’alto dell’arrampicata), è un ottimo esempio di azione maniacale proprio per il carattere sospeso della sua struttura e l’incertezza del suo esito. La taurocatapsia consente di precisare ancora meglio la varietà degli addentellati della nozione di “fuga” associata da Ippocrate in poi alla melanconia, soprattutto al suo volto maniacale. Il salto del toro suggerisce Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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una caratterizzazione dell’esodo e del suo valore politico. “Esodo” non significa “fuga paurosa” o “ritirata strategica”, quanto innanzitutto ricerca di una terza via non compromissoria, di una alternativa logica e pratica all’ultimatum di un bivio che inchioda. Il salto del toro mostra che “esodo” non significa solo evitare lo scontro diretto e la sottomissione ma che questa forma politica può avere diverse direzioni di fuga. Non solo verso il lato sguarnito, in direzione opposta a quella degli avversari come nel caso della fuga in Palestina degli Ebrei d’Egitto; ma anche direttamente verso coloro che ci sono contro guardandoli negli occhi e oltrepassandoli a piè pari. Apparentemente niente potrebbe essere più lontano dal salto demoniaco del sentimento dell’accidia. Come accennato (§ 2), l’iconografia classica di quel che nella dottrina della Chiesa è diventato ben presto uno dei peccati capitali è una donna dimessa e dalle vesti logore che tiene in mano una torpedine, pesce pericoloso per il suo potenziale elettrico (fig. 1). A un secondo sguardo, però, l’apparentamento è meno pindarico. Non bisogna dimenticare che nella tradizione occidentale è forte il legame tra accidia e il cosiddetto «demone meridiano» (Agamben, 1977, p. 5 e sgg.). Alla fine del IV secolo d.C. Cassiano (in Gigliucci 2009, p. 68) descrive così l’accidia, sesto peccato capitale: La nostra sesta lotta è contro il vizio che i greci chiamano akedìa e che noi possiamo definire tedio o ansietà del cuore. Affine alla tristezza, esso mette alla prova soprattutto i solitari ed è un nemico che attacca più spesso coloro che dimorano nel deserto. Disturba il monaco soprattutto verso l’ora sesta, assalendo la sua anima malata con le ardentissime fiamme dei suoi accessi sempre alle stesse ore, proprio come una febbre che ritorna a intervalli regolari. Appunto per questo alcuni anziani lo identificano con il «demone del mezzogiorno» di cui si parla nel salmo novanta.
Il passo è prezioso. Condensa al proprio interno molti dei problemi che attanagliano la ricezione moderna della melanconia mantenendo nel proprio ordito la ricchezza dell’intreccio. Il rife62
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rimento al demone meridiano è esplicito e rimanda a un passo biblico (Salmi , 90, 6) che secondo Roger Caillois (1936-37, p. 57) ha costituito il punto di innesto tra due tradizioni fra loro diverse. Il testo ebraico, che non fa riferimento a un’entità specifica ma solo a una devastazione, viene riletto dal traduttore greco alla luce di una tradizione che vantava una vasta collezione di demoni che trovano l’acme della propria potenza a mezzogiorno. Questa collocazione temporale può apparire oggi curiosa perché inversa alla mezzanotte, l’ora per noi più critica per il risveglio delle potenze occulte (dall’interruzione dell’incantesimo della favola di Cenerentola fino al vampirismo di David Bowie nel film Miriam si sveglia a mezzanotte ). Ma prima della diffusione di mezzi tecnici più sofisticati per misurare il tempo, l’ombra costituisce lo strumento privilegiato per indicare l’ora: per mezzo della meridiana è proprio l’ombra di un’asta collocata a terra a dirci in quale porzione del giorno ci troviamo. Il mezzogiorno si configura nel mondo greco come un momento unico proprio perché, con il sole allo zenit, è l’istante nel quale i corpi non producono ombra. Ancora nel Fedro (242a) Platone ribadisce che «mezzogiorno è l’ora immobile»; per i Problemi (XV, 5, 911a 37-911b 2; XXV, 4, 938a 23-31) di Aristotele è il momento del giorno nel quale il vento è assente. Il mezzogiorno è l’istante nel quale il tempo svanisce come svaniscono le ombre: per questa ragione è l’attimo nel quale il mondo dei morti e dei vivi, quello divino e mortale trovano allineamento e permeabilità. Questo istante ha due volti: l’immobilità terrena che consente l’inserimento di altre dimensioni in quella umana; il movimento di chi si intromette nel mondo mortale portando scompiglio e trasformazione. Anche in questo caso, l’apparentamento tra accidia e melanconia si fonda sull’esaltazione del primo aspetto e sulla rimozione, o per lo meno sul sistematico ridimensionamento, del secondo. Il congelamento temporale creato dalla struttura luminosa del mezzogiorno costruisce una porta che dà accesso a forme tutte in movimento. Nella tradizione greca sono almeno due i generi demoniaci che sfruttano questo pertugio, le sirene e le ninfe. Siamo abituati a immaginare le prime come esseri metà donna e Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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metà pesce, dunque come demoni freschi e acquatici. Ma, ricorda Caillois (1936-37, p. 27), il loro nome è probabilmente legato a quello di Sirio, stella che l’astronomia e la mitologia antica riferiscono alla canicola più torrida.4 Il caldo favorisce il sonno e il sonno rappresenta l’analogo psichico di quel che rappresenta il mezzodì per la struttura del tempo: una porta apparentemente inerte che dà accesso ai movimenti e alle trasformazioni portate dal sogno e dalla sua maniacale fluidità. Sia il monaco accidioso che il marinaio omerico sono preda di uno stato intermedio, il dormiveglia dato dalla calura, che costituisce un pericolo perché può dare corpo all’eros dei sogni e dei desideri più riposti. In entrambi i casi non si tratta di un sonno ristoratore, ma di uno stato inquieto e faticoso che non è legato come vorrebbe Caillois (ivi, p. 62) a «una ipotensione psicologica» quanto a un eccesso pulsionale, un cortocircuito elettrico improduttivo. Nel passo precedente, Cassiano definisce l’accidia «una ansietà del cuore», una condizione fiammeggiante affine alla tristezza legata, poche pagine prima in un passo che non riporto, alla condizione di chi è ubriaco e ha bevuto troppo. Sia nel suo dormiveglia che nella sua irrequieta fibrillazione, il monaco non trova pace: l’accidia è il torpore di chi è assediato da spinte polimorfe e contrastanti, non un torpore semplicemente inerte. Nell’iconografia di Cesare Ripa, la scritta che campeggia sull’immagine (torpet iners ) è il frutto di un processo che nel XVII è ormai compiuto. L’elettricità propria dell’accidia è localizzata nella torpedine, 5 in un corpo estraneo e morto. Al contrario, questo eccesso elettrico e pulsionale è uno degli elementi chiave della accidia, sentimento fatto di continui saltelli e sbilanciamenti tra il mondo del sogno e quello del4 Propongo con cautela un’ipotesi probabilmente troppo ardita: non è da escludere che la presenza del cane nell’iconografia rinascimentale e successiva della melanconia risenta implicitamente di questo accostamento con l’accidia, il demone meridiano e il caldo del mezzogiorno (tanto che l’accidia è descritta nel medioevo come prossima alla rabbia canina e simile al cane affamato: Wenzel, 1960, pp. 107, 109). La canicola atmosferica cede il passo all’animale corrispondente. 5 Il riferimento alla torpedine è tutt’altro che stravagante. Rappresenta uno dei prototipi scientifici della elettricità corporea e animale fino al XIX secolo. anto che Alessandro Volta costruisce la pila proprio come versione artificiale dell’organo elettrico della torpedine (Bresadola, 2008, p. 94).
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la veglia, tra il regno del tempo e quello dell’eternità. Come dicevo, oltre alle Sirene sono le ninfe a sfruttare la finestra atemporale offerta dal mezzogiorno. Se la sonnolenza contribuisce ad aprire le porte psichiche alla possessione, le ninfe sono definite «dee senza sonno» (ivi, p. 37) che provocano una sindrome caratterizzata da «impossibilità di movimento, afasia e mania» (ivi, p. 43). L’entusiasmo ninfolettico porta al delirio profetico (ivi, p. 37) ma più in genere a una condizione sospesa, a metà tra la veglia e il sogno. Per Macrobio, ricorda Caillois (ivi, p. 46. il corsivo è nel testo), «il fantasma è propriamente quel che appare tra la veglia e il sogno profondo». Questa condizione fantasmatica è propizia per apparizioni divine ed erotiche ma anche per compiere azioni sul filo del rasoio: terrore e ira ispirati dal dio Pan, l’erotismo di ninfe e Sirene. L’accidia della tradizione cristiana è legata a doppio filo con la demonologia del mezzogiorno. Proprio perché demoniaca è una condizione sospesa: può portare alle rovine dell’apoplessia ma anche alla sapienza di chi sa in anticipo perché ispirato dagli dei. Il mezzogiorno accidioso è dunque il luogo immobile che consente un salto tra mondi differenti: la fuga verso il futuro, il passaggio tra la dimensione mortale e quella immortale. Il breve confronto con l’accidia mostra che l’antropologia della mania è in grado di sottolineare la relazione che esiste tra quelli che sembrano semplici umori passeggeri (la vita festosa, l’ottimismo e la sospensione demoniaca) con alcuni aspetti strutturali della vita umana. La vita festosa, ad esempio, è espressione non solo dell’irritabilità del maniaco ma dell’irritabilità tipica di una specie intera, la nostra. Il maniaco è irritabile perché uno stimolo apparentemente innocuo o privo di significato può destarlo dalla festa della sua vita e rigettarlo nel carattere problematico dell’esistenza umana: una paziente si lamenta del fatto che nella scodella nella quale aveva mangiato della frutta venisse servito il giorno dopo un cibo grasso, il semolino. «Sono spiacente di non essere un bidone della spazzatura» scrive con astio e disappunto (Binswanger, 1933, p. 25). Un fatto all’apparenza innocuo, l’impiego nella clinica dello stesso contenitore per due cibi diversi in due giorni differenti, diventa motivo d’esplosione: la drammaticità dell’esi Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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stenza umana ricompare sulla scena improvvisamente e con tutto il suo peso. Il soggetto maniacale porta alle estreme conseguenze un tratto della nostra natura. Siamo animali irritabili perché le sollecitazioni che ci colpiscono (interne e pulsionali o esterne e percettive) non hanno una struttura fissa e prestabilita che le contenga e le indirizzi. Il mondo dell’ottimista, ricorda Binswanger (ivi, p. 80), «è plastico e malleabile»: mentre nella fase triste della melanconia il nostro mondo sembra restringersi e non presentare via d’uscita, l’ottimismo maniacale rende possibile l’impossibile e individua sempre una strada da seguire. Proprio questa contrazione e dilatazione di quel che ci circonda individua uno specifico caratteristico della condizione umana. Recentemente, è stato sottolineato il fatto che molte specie animali, non solo l’ Homo sa piens , sono in grado di estendere i confini della loro nicchia ambientale: i ragni costruiscono l’ambiente grazie alle secrezioni che formano le loro tele; diverse forme di vita (scimpanzè ma anche corvi, delfini e forse pesci) possono vantare articolazioni del comportamento legate a varianti culturali cioè non dettate né da diversi profili genetici, né da particolari pressioni ecologiche. 6 Si tratta di studi interessanti poiché contribuiscono a costruire un’immagine della vita animale esente da caricature. Affermare però che gli esseri umani modificano i loro dintorni in modo “straordinario” oppure che tutte le forme di vita trasformano il loro ambiente non aiuta a capire quale sia lo specifico della nostra natura e cosa consenta ai sapiens (e non, ahi loro, ai delfini) di avere in mano le sorti del pianeta erra. Il soggetto maniacale, a tal proposito, può fornire un contributo: è proprio questo movimento di contrazione/dilatazione che può costituire uno dei cardini specifici della nostra forma di vita. Mentre la tela si presenta come una espansione permanente dell’ambiente del ragno e l’uso di utensili una possibilità accessoria per la sopravvivenza degli scimpanzè (Mazzeo, 2011), nel caso degli umani questa espansione costituisce sempre un problema. Rischia di estendersi troppo, 6 Si tratta del paradigma chiamato Niche construction (costruzione di nicchie) il cui testo di riferimento è possibile trovarlo in Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003.
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come nel passo maniacale più lungo della gamba, o di chiudersi fino a occludere ogni prospettiva di vita, come nel caso depressivo e suicidario del melanconico triste. Il carattere demoniaco del salto maniacale coglie questo elemento di sospensione tipico della costruzione dei dintorni umani. La tensione tra creazione e distruzione di forma è propria di una pulsazione che « per essenza non permetta che dei tentativi incompleti , impropri e quindi sempre ripetibili » (Binswanger, 1933, p. 240. Il corsivo è nel testo).
Fig. 1 Cesare Ripa, Acedia , 1593
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§ 6 Il cigno nero: vino e mania «Scusa le spalle, sto troppo avanti» Piotta, Sto troppo avanti
Un film recente può aiutarci a costruire un’immagine più completa della melanconia maniacale di quanto sia in grado di fare, ad esempio, la produzione artistica di un “folle genio” come Vincent van Gogh (§ 2). Come amava ripetere Ludwig Wittgenstein, c’è molta più saggezza in un film hollywoodiano che in tanta riflessione teorica (si rivolgeva alla filosofia anglosassone, ma l’osservazione può essere estesa senz’altro a quella italiana). Il cigno nero di Darren Aronofsky è una pellicola di successo che ha portato nel 2010 l’attrice protagonista, Natalie Portmann, alla conquista del premio Oscar. Pur scontando il prezzo di alcune semplificazioni, il film fornisce un quadro del delirio melanconico-maniacale dark sorprendentemente articolato. Nina, la ballerina al centro della trama, mostra con chiarezza uno degli esiti dell’intreccio tra melanconia e paranoia sul quale ha posto l’accento Melanie Klein (§ 3). Sin dal primo incontro, fuggevole e casuale, sul metrò di New York Nina e il suo alter ego, Lily, sovrappongono il loro destino lungo binari fluidi e persecutori. A Nina manca, a dire di chi deve mettere in scena il lago dei cigni di Čajkovskij, la sensualità erotica e maliziosa della quale, invece, la sua antagonista è fin troppo dotata. Al centro della scena narrativa ci sono i salti maniacali della danza e l’ottimismo entusiastico di quando si è alle prese con il superamento di un limite forse insuperabile. Nina, infatti, deve riuscire a sostituire una ballerina culto ormai in là con gli anni. L’associazione tra mania melanconica e il vissuto emotivo-spaziale della danza è rappresentato, dunque, in modo palese. Ma nella seconda parte il film mostra anche il carattere demonico di questo tipo d’esperienza. Nina deve interpretare infatti sia la parte del cigno bianco che quella del cigno nero, 68
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due metà complementari di una figura che solo in questo modo può trovare completezza. La difficoltà di Nina consisterà proprio nell’afferrare questo elemento demonico perché travolta da un’oscillazione. Prima è rapita da una immagine di sé perfetta e purissima, poi da un alter ego allucinato e diabolico. Solo durante la prima del Lago dei cigni , la protagonista riesce a interpretare entrambe le parti: è a questo punto che il film indugia su un particolare molto significativo. Il vissuto euforico di Natalie Portman è rappresentato da una vera e propria possessione animale: Nina sente la pelle indurirsi e le piume frusciare nell’aria. Il suo corpo, martoriato dall’esercizio fisico e da pratiche costanti di autolesionismo, per alcuni minuti si trasforma in quello di un cigno. Nella scena della metamorfosi nel cigno nero, il film punta su uno dei contenuti originari della mania che la parola “follia”, la traduzione italiana più diffusa del termine greco, relega irrimediabilmente sullo sfondo. Il greco manìa deriva dalla radice indoeuropea √mndh, men, da cui proviene anche il termine menos , il cui significato allude a una forza animale contagiosa e pervasiva che negli esseri umani assume spesso la forma del coraggio. Il legame tra questi due termini è testimoniato esplicitamente da un passo omerico segnalato da Chantraine (1968-1980, p. 660). Nel sesto libro dell’ Iliade (VI, vv. 97-101) ecco cosa dice l’indovino Èleno Priamìde: [Diomede] lo credo davvero il più forte in mezzo agli achei; Neppure Achille tememmo così tanto, il capo d’eroi, che dicono nato da una dea; troppo costui infuria [émmenai ], e nessuno è capace di pareggiare la sua foga [menos ]!
La forza vitale del menos e la possessione emotiva della mania descrivono due aspetti del medesimo processo. Il problema è comprendere di quale processo psichico si tratti. Giorgio Colli (1978, p. 26) propone una definizione molto bella. La mania sarebbe «la sapienza vista dal di fuori»: un contatto con forze che soverchiano l’individuo, legate agli dèi ma anche agli Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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animali e a una struttura dell’esperienza non solipsistica che coinvolge più punti di vista. Questi punti di vista possono appartenere a persone diverse, nel caso ad esempio si osservino le baccanti in preda al loro furore estatico; possono appartenere alla stessa persona còlta, però, in momenti differenti, si pensi ad Aiace che solo dopo aver sterminato le mandrie sacre agli dèi si rende conto del senso delle proprie azioni. Il passo omerico sottolinea sia questa vicinanza alla possessione divina (Diomede supera anche chi si dice nato da una dea) che una valenza di ordine pubblico e pratico. Quella di Diomede non è semplice ira, infatti, è una forza combattiva che può travolgere i nemici. Mainomai , il verbo greco corrispondente al sostantivo mania , indica una spinta all’azione, spesso prossima al furore, che ha la caratteristica di prendere la mano a chi ne è colto. Di frequente il verbo appare legato a cose e non a persone: la possessione è così forte da trasferirsi direttamente nell’utensile. Sempre a proposito di Diomede, ad esempio, Omero scrive ( Iliade , VIII, vv. 108-111): A Enea li tolsi [i cavalli] un giorno, al maestro di rotta. cotesti gli scudieri li badino, noi due lanceremo I miei contro i eucri domatori di cavalli, ed Ettore Saprà se l’asta infuria [ maínetai ] anche nella mia mano.
L’asta (ma anche le mani, la lancia, il fuoco: Rocci, 1943, p. 1172) si anima perché nella guerra l’azione precede l’elaborazione cognitiva. Quella mancanza di distanza tra pensiero e mondo che Binswanger individua nella forma emotiva dell’ottimismo, nella mania greca la troviamo amplificata, tutta sbilanciata sul versante del fare: l’asta ci prende la mano e colpisce con velocità superiore a quella del pensiero. Per Aristotele, non a caso, il volto maniacale della melanconia è essenziale per comprendere in cosa consiste la passione provocata dalla bile nera. Nei Problemi XXX l’aggettivo maniakós ricorre in quattro occasioni. Ogni volta, come un colpo di scalpello, contribuisce a definire la fisionomia di un concetto 70
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sfaccettato e poliedrico. La prima occorrenza appare presto nel testo, peraltro in un luogo decisivo. Aristotele accosta la bile nera al vino perché entrambi hanno la proprietà di trasformare l’éthos degli esseri umani. La prima rende le persone «irritabili o benevole, compassionevoli o sfrontate [ itamoús ]» ( Probl . XXX, 953a 56); il secondo trasforma il taciturno in un tipo «loquace, ancora un po’ e diventa un abile parlatore, pieno di animosità; andando avanti, agisce in modo sfrontato [ itamoús ] e diventa tracotante e furioso [ manikoús ]» (ivi, 953b 2-4). A suggellare la prossimità delle due sostanze (il vino e la bile nera), l’aggettivo itamós ricompare in entrambe le descrizioni. Attraverso il parallelismo tra mania e intossicazione alcoolica (§ 2) Freud si riallaccia, dunque, a una lunga tradizione che trova uno dei suoi punti di raccordo in un accostamento che è alla base di tutta la descrizione aristotelica della melanconia. Durante una corsa durata due millenni e mezzo, il paragone arriva a noi però sfiancato e stravolto. Per Freud, questa analogia ha solo la funzione di dimostrare il carattere delirante e accessorio della mania. Per la tradizione greca di cui Aristotele si fa portavoce, questo accoppiamento trova il proprio fondamento in una comune capacità di trasformazione. Nei Problemi XXX essere maniacali non significa semplicemente essere ebbri o intossicati, ma presi da un’azione che contiene in sé la possibilità dello stravolgimento del carattere, delle abitudini, dell’ éthos di chi la sta compiendo. Come nota Binswanger, la mania ha la caratteristica di poter cancellare abitudini e biografia personale. Del resto, anche su questo punto, Aristotele non fa che prendere atto della tradizione cui appartiene. Nell’omonima tragedia di Sofocle, Elettra esclama abbracciando l’urna che contiene le ceneri del fratello Oreste (Sofocle, Elettra , vv. 1152-1157): u sprofondi, morto. Chi odio ride. Frenetica gode madre matrigna [maínetai uf’edonés méter amétor ], lei che eri pronto a colpire, giustiziere splendente, dicevi, inviando voci di frodo. L’ostica Potenza che me e te sovrasta ci ha trainato tutto. A me restituisce te: non il viso amato, polvere sterile spettro [ daimon].
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La traduzione italiana “frenetica gode madre matrigna” cerca di rendere in modo conciso e aulico, impresa non facile, l’azione della mania. L’espressione è densa. In primo luogo, ci dice che la mania può essere legata all’ edoné , cioè al piacere: cosa che l’immagine stereotipata di una passione furente e folle rischia di mettere in ombra. In secondo luogo, la tragedia sottolinea in tutta la sua drammaticità uno dei possibili esiti della trasformazione melanconica dell’éthos . In questo caso si tratta di un vero e proprio azzeramento: la madre ( meter ) incarna la propria assenza (ametor ), una madre che non è più tale. Difficile, poi, non notare che subito dopo il contesto luttuoso frutto di questa condotta maniacale evoca la presenza di un demone ( daimon). Elettra in questo momento di grande sconvolgimento sembra trovarsi a metà strada tra il mondo dei morti e quello dei vivi. rasformazione, dolore, piacere, metamorfosi etica sono i connotati della mania. A dimostrare che si tratta di una passione che non ha una forma univoca e prestabilita sono le altre tre occorrenze dell’aggettivo manikós . In una si affianca esplicitamente il soggetto maniacale al talento (Probl . XXX, 954a 30-34): Le persone con bile calda e in quantità eccessiva sono maniacali [manikoí ] e naturalmente dotate [ euphuéis ], sensuali, pronte ad assecondare i loro impulsi d’ira e le loro passioni [ thumoús ], a volte anche loquaci.
L’aggettivo euphués è privo di controindicazioni semantiche: vuol dire letteralmente “cresciuto bene” nel senso di “dotato di ingegno”, “con belle qualità”, legato a quel che è favorevole e opportuno ma anche alla risata dell’uomo di spirito (Rocci, 1943, p. 816). Alla risata maligna di Clitemnestra qui fa eco lo spirito di chi è brillante e ha senso dell’opportunità (per l’analisi del legame con la passione e il thumós rimando al prossimo capitolo). Le altre due occorrenze presenti nel testo aristotelico mostrano ancor di più quanto sia ampio lo spettro semantico della mania. Il passo che abbiamo visto prosegue, infatti, in questo modo (Probl . XXX, 954b 34-38): 72
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E molti, poiché questo calore è vicino alle parti dove risiede l’intelletto, sono colpiti da malattie che li rendono invasati [ manik ói s ] e ispirati [ enthusiastik ói s ]; ecco allora le Sibille, gli indovini, e tutti i posseduti dal dio, quando diventano tali non per malattia, ma per un temperamento naturale.
La mania può essere tanto una malattia che una dote naturale. Il suo legame con la possessione divina fa sì che sia portatrice di ispirazione, poesia e visioni circa il futuro. Come ogni sintomo melanconico, è una forma di squilibrio, una passione che conduce fuori dall’ordinario ( perittós : cfr. cap. IV). L’accenno aristotelico al legame tra mania e poesia richiama, infatti, una connessione forte all’interno della cultura greca. Il legame tra Sibille e mania ricorre, ad esempio, in un passo di Platone molto noto nel quale si sottolinea il valore positivo di questo stato psichico ed emotivo (Fedro, 244a 8-244c): Non è verace il discorso che ad un innamorato si debba preferire chi non ama, con il pretesto che questi delira [ maínetai ] e il primo invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il delirio [ to manian] fosse invariabilmente un male; ora invece i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio [ manias ], datoci per dono divino. Perché [ b] appunto la profetessa di Delfo, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione [manéisai ], hanno ottenuto per la Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla. ralascio di parlare ancora della Sibilla e di quanti altri profetizzano per ispirazione divina, i quali con le loro anticipazioni hanno spesso e a moltissimi indicato una giusta strada per il futuro; ché ci soffermeremmo su cose note a tutti. Ma è giusto che sia addotto a testimonianza questo fatto, che anche gli antichi artefici dei nomi non tennero il delirio [ manian] dell’esaltazione né in vergogna, né in disprezzo, perché diversamente non avrebbero connesso [ c ] questo stesso nome con l’arte bellissima, per la quale si discerne il futuro, chiamandola esaltazione profetica ("manica")[manikén].
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L’etimologia platonica non è solo suggestiva: sottolinea l’effettiva connessione linguistica tra due parole e due attività. anto l’azione maniacale quanto la previsione dell’indovino (la mantica) si caratterizzano infatti per due proprietà di fondo. Una è rivolgersi al futuro tramite un salto: pragmatico nel primo caso (la precipitosità: cap. III, § 3); cognitivo nel secondo. L’altra consiste, invece, nell’incapacità a dominare e a possedere fino in fondo questa fuga in avanti. Nel caso dell’indovino, il problema è messo in evidenza dalla tradizione mitologica: il destino di Cassandra è di non esser creduta; iresia diventa un indovino come compensazione perché punito tramite accecamento; più in generale il vaticinio e la visione hanno una struttura spesso ambigua la cui gestione è tutt’altro che scontata (si pensi alle risposte della Sfinge). Sia il maniacale che il profetico sono protagonisti di un’attività ampiamente fuori controllo: oltre la media, ma anche estremamente pericolosa. Non a caso nella Poetica (1455a 32-34) Aristotele riprende questo doppio volto della mania. Per un verso, mette in alternativa due qualità che nei Problemi vanno insieme: la poetica è propria solo di chi è dotato ( euphués ) perché duttile o del maniacale perché preso dall’ispirazione estatica ( ékstasis , altro termine che ricorre spesso nel Problema XXX). Poco dopo, emerge anche l’altra faccia della mania: Oreste ne è vittima perché perseguitato dalle Erinni per aver ucciso la madre (nella tragedia euripidea Ifigenia in auride: Poetica , 1455b 14). L’ultimo passo del Problema XXX in cui compare il termine sottolinea, infine, il carattere movimentato e irriflessivo legato a dono e persecuzione, melanconia e paranoia: «I bambini, gli ubriachi e i folli [ mainomenoi ] sono incapaci di ragionare» (Probl . XXX, 957a 2-3) perché la grande quantità di calore e movimento che sconvolge il loro corpo impedisce ai pensieri di formarsi. Il vino e la bile nera sono in grado di offrire alla condotta umana gli esiti più diversi. Secondo quantità e proporzioni con le quali mescolarli ad altre sostanze, i due liquidi possono intossicare come precisa Freud, ma anche portare ad azioni tanto innovative da costringere chi ne è protagonista a forme nuove e incerte di apprendimento. La mania corrispon74
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de a una forma di possessione, una passione che apre la porta d’accesso delle cose umane all’ingerenza divina (gli ispirati, enthusiastikoi , sono letteralmente coloro nei quali è penetrato il dio). Se dunque la possessione indica la presenza di una forza esterna non sempre identificata, la gestione dei suoi frutti non riguarda più questo stato di rapimento. Aiace, compiuta l’azione sacrilega e l’uccisione del bestiame scambiato per i propri compagni di ventura, deve decidere cosa fare di sé e della propria vita (cfr. Appendice). Il bevitore, dopo aver detto più di quel che avrebbe voluto, si ritrova a fare i conti con la propria sconsiderata sincerità. Qualunque essere umano è costantemente alla prese con le conseguenze imponderabili delle proprie azioni: una risposta data di impulso, un sogno fin troppo esplicito, un gesto disperato e imprevedibilmente rivoluzionario (il suicidio del giovane ambulante tunisino che nel gennaio 2011 ha innescato i movimenti di liberazione arabi). L’elemento più interessante della mania greca non risiede dunque nella dinamica creativa (più religiosa in Platone, più scientifica in Aristotele ma comunque oscura) quanto nel suo residuo, in quel che resta tra le mani del suo artefice. In tal senso, nella cultura greca sembra esserci un filo rosso che lega la mania al lavoro dell’autodidatta. Il rapimento divino lascia aperto, infatti, uno spazio per un lavoro di individuazione tutto umano. In un passo dell’Odissea (XXII, v. 347), Femio, l’aedo che intrattiene gli abitante del palazzo reale in assenza di Ulisse, dichiara: «Autodidatta [ autodidaktós ] sono, un dio mi ha infuso nella mente ogni sorta di canto». Con tutta probabilità, in questo passo essere autodidatti significa fare i conti con un dono divino e/o naturale. Ma fare i conti con questo dono significa coltivare un talento, lavorare per perimetrarlo, faticare per farlo emergere in modo significativo e duraturo. Il collegamento con la mania è tutt’altro che remoto: entusiasmo ispirato e azione maniacale sono due volti della stessa medaglia tanto che in un testo tardo, risalente al I secolo d.C., questa relazione è ancora tanto forte da risultare scontata. Nella sua descrizione della melanconia, Areteo di Cappadocia, medico di lingua greca che Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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esercita nella Roma imperiale, afferma che «esistono infinite forme nelle quali i soggetti maniacali sono dotati [ euphuésite ] e per i quali è facile apprendere [ eumathési ], ], astronomia autodidatta [autodidaktós ],], filosofia spontanea [ automáte ], ], poesia veritiera ispirata dalle muse» (Areteo, cap. VI, Perí manies I l manie s ).).7 Il soggetto maniacale, prima che ebbro e intossicato, è alle prese con il significato imprevedibile delle proprie azioni e con la coltivazione dei talenti che gli sono capitati in sorte. Nessuno spontaneismo o rassegnazione: la mania coincide con la lotta costante di chi vuole capire, da autodidatta, il significato della propria esistenza.
7 Accolgo la lettura di Francis Francis Adams (1856) che corregge adidaktós in autodidaktós . Fosse anche corretto il testo per come ci è pervenuto, il significato non cambierebbe molto. Quel che conta è sottolineare l’oscillazione tra una conoscenza innata e una capacità di autoapprendimento sottolineata comunque dal carattere automàtos , autogenerato, della filosofia maniacale.
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2. È tutta colpa di Freud? La riscossa della mania
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
§ 1 La sfida di Heidegger: la melanconia, stato d’animo della creatività «Feeling sweet feeling, Drops from my fingers, fingers Manic depression is catchin' my soul». Jimi Hendrix, Manic Depression
Perché parlare del rapporto tra melanconia e azione innovativa? Non si tratta di un tema logoro e consumato? Certamente sì. Ma proprio dietro l’usura prodotta dalla ripetizione di un cliché si si nasconde il punto cieco che, se smascherato, può consentirci di cambiare punto di vista su una passione tanto chiacchierata e sfuggente. È possibile, dunque, rispondere a un dubbio più che legittimo a partire da due tesi di fondo. La prima: nel pensiero occidentale la melanconia costituisce una delle fondamenta della nozione prima rinascimentale e poi romantica di «genio», uno degli assi portanti della nozione di creatività. creatività. La seconda: il termine “creatività “creatività”, ”, ricorda Emilio Garroni (1978), è fuorviante perché tende a far riferimento a una capacità di produzione ex nihilo, prassi quasi divina che non si rifarebbe a nessuna regola o determinazione. Molto si è parlato del rapporto tra melanconia e creatività, poco di melanconia e azione innovativa. Capire meglio la sorte della melanconia potrà servire a comprendere meglio le trasformazioni e il progressivo depotenziamento non solo di questa passione, ma anche di trasformazioni foriere di novità ma svincolate dalla teologia della creazione.
Per capire cosa intendere con la locuzione «azione innovativa» può essere utile partire da una pagina filosofica che sembra scritta quasi distrattamente, densa invece di implicazioni. Per certi aspetti non stupisce che ch e Martin Heidegger definisca la melanconia come lo stato d’animo di base per chiunque faccia filosofia e arte: si tratta di una passione legata a questi ambiti da millenni. La mossa, però, è meno neutra di quel che potrebbe sembrare. Procedendo Procedendo a grandi linee, non è del tutto sbagliato affermare che per buona parte del pensiero occidentale la malinconia è associata soprattutto a due figure, al genio e all’accidioso. Heidegger non parla di nessuna delle due. Fin dall’inizio, il genio è escluso (Heidegger, (Heidegger, 1933, p. 238): la creatività cui si riferisce «non va intesa come un privilegio e un esser ess er superiore verso i “non creativi”, creativi”, lavoratori manuali o uomini d’affari». Sulla scena non compare mai neanche il contemplativo immobilizzato dai suoi pensieri e magari perseguitato da tentazioni diaboliche (ci torneremo nel § 3). Quando pensa alla melanconia Heidegger dice di riferirsi a ogni agire creativo che vive di un correlato necessario, oggi potremmo forse dire di una «regola». Non corrisponde alla creatività prossima alla creazione divina, ma a quel cui mi riferivo prima con l’espressione “azione innovativa”, il potenziale innovativo insito in ogni azione umana, pratica e/o linguistica che sia. Da questo punto di vista, è sorprendente non tanto che Heidegger accenni alla melanconia (si tratta di uno stato d’animo classico per la filosofia occidentale), ma di dove e come ne parli. Durante il lungo percorso tracciato nei Concetti fondamentali della metafisica , avrebbe avuto più di un’occasione per affrontare quel che viene definito «uno stato d’animo fondamentale» (ivi, p. 239). Soprattutto nella complessa e dettagliatissima analisi che Heidegger propone della noia, ci saremmo potuti attendere il riferimento più o meno fugace alla sindrome causata, secondo la medicina ippocratica, dalla bile nera. Molto spesso, infatti, melanconia e tedio sono stati accostati come forme parentali, stati d’animo simili (Pigeaud, 2008, p. 75). Heidegger affronta il tema, invece, quando si tratta di aprire un nuovo e fondamentale tema di discussione: la distinzione tra la condizione della pietra, 78
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
dell’ambiente animale e del mondo umano. È lì, e solo lì, che nel testo emerge la melanconia. Quando ci si interroga su cosa sia il mondo, la finitezza e l’isolamento, emerge uno stato d’animo che sembra connesso più alla metafisica che alla noia. La melanconia sarebbe non solo una disposizione all’agire, ma un «agire effettivo» cioè un «determinato interrogare» (Heidegger, 1933, pp. 239-240). Ecco, allora, come Heidegger affronta il tema. Per un verso, con piglio deciso: afferma risolutamente che la melanconia è lo stato d’animo della filosofia, è il brodo di coltura della creatività potenzialmente insita in ogni agire umano. Per un altro, con l’incertezza di chi non sa se proseguire: Heidegger si ferma qui e non dice altro, limitandosi a rinviare il lettore a uno dei luoghi di origine della trattazione occidentale di questo stato d’animo, i Problemi XXX aristotelici. Per superare una simile reticenza, questo è un indizio che conviene esplorare: potrebbe condurci non alla connessione tra potenza produttrice divina e melanconia, quanto al rapporto tra la bile nera e le azioni innovative potenzialmente a disposizione dell’ Homo sapiens .
§ 2 Aristotele, Ippocrate e Platone: il buono, il brutto e il cattivo «Questa concezione della melanconia come tristezza non è però originaria». W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco
Per ricostruire alcune delle radici di una nozione polimorfica come quella di melanconia, può essere utile fissare tre punti di riferimento. Ippocrate è il primo a utilizzare questo termine e a tracciare uno schizzo di questa nozione. Seppur surrettiziamente, Platone indica alcune coordinate essenziali che, soprattutto nella filosofia politica del secondo Novecento, avranno grande fortuna. Nel libro XXX dei Problemi , Aristotele ne descrive la struttura con Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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una complessità che spesso la riflessione contemporanea ha sottovalutato. Si tratta di tre personaggi che in questa storia di passioni e manie emergeranno necessariamente stilizzati: come Il buono, il brutto e il cattivo nel celebre film di Sergio Leone interpreteranno ruoli diversi ma interconnessi. Per ragioni di coerenza cronologica non seguirò l’ordine indicato dal titolo della pellicola. Prima del buono, cioè di Aristotele, ci occuperemo degli altri due. Ippocrate sembra svolgere il ruolo interpretato da Eli Wallach (nel film, “uco”), il brutto: per un verso il padre della medicina occidentale fornisce indicazioni preziose sull’organizzazione di questo stato emotivo; per un altro ha contribuito (probabilmente suo malgrado) a generare confusione e creare diversi problemi interpretativi. Ippocrate, è bene precisarlo subito, non ha fornito un vero e proprio identikit di questa passione. Le osservazioni degli interpreti si basano su frasi, frammenti, brevi affermazioni che riemergono, quasi distrattamente, nei testi più diversi. Nel caso poi degli studi italiani la mancanza di una edizione delle opere complete con testo greco a fronte rende l’analisi del problema ancora più difficile e porta ad affidarsi a stereotipi interpretativi faticosi da controllare. Per cercare di trovare il filo del discorso mi limiterò a prendere in considerazione un paio tra i passi più noti e influenti sulle concezioni successive della melanconia: La degenerazione del cervello sopravviene per via del flegma e della bile. Li riconoscerai entrambi così: quelli che impazziscono [mainómenoi ] per il flegma sono tranquilli e né gridatori né turbatori, mentre quelli per via della bile urlatori, perversi [ kakourgoi ; malvagi] e non pacifici [ atremaioi : non tranquilli, tremanti] ma che sempre compiono qualcosa di inopportuno [ akairov : fuori posto, disadatto, inopportuno]. (Sulla malattia sacra , 15, p. 231) L’ansietà [ phobos ] e la depressione [ dusthumia ] costanti sono segni di melanconia. ( Aforismi , VI, 23. raduzione di Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964, p. 19)
Il primo passo sembra fornire un’immagine della melanconia 80
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al negativo: è una forma di pazzia, anzi la più pericolosa e inquietante. Il secondo è un aforisma molto citato perché, almeno al primo sguardo, descrive la melanconia in modo del tutto conforme a quel che oggi chiameremmo “depressione”. In realtà entrambe le citazioni, viste da vicino, sono utili più a complicare il quadro che a semplificarlo. La prima anticipa una ambivalenza che diventa ancora più clamorosa nel secondo passo. La melanconia è una forma di pazzia, o meglio di “mania”. Melanconia e mania costituiscono una coppia logicamente complessa e disorientante (cap. II, § 2). Nella terminologia odierna con la parola “melanconia” si indica, infatti, sia il tutto che la parte: la parola rimanda a una sindrome tendenzialmente bipolare con un apice depresso e con un apice maniacale (“melanconico” nel senso di affetto da disturbo maniaco-depressivo) ma anche a uno dei due picchi, il più triste e bloccato (“melanconico” nel senso di “abbattuto”, “depresso”). Ippocrate dimostra che nella lingua greca la situazione è rovesciata. Il termine generale è “mania”. La parola indica sia la pazzia in generale che, più nello specifico, il comportamento del pazzo melanconico. Già da subito inizia un contenzioso tra melanconia e mania destinato, ancora nel XXI secolo, a rimanere aperto. È vero infatti che per Ippocrate “mania” è il genere di cui “melanconia” è specie, ma è altrettanto vero che se si vanno ad analizzare le varie occorrenze, tra le due nozioni emerge un grado di parentela molto stretto. Negli Aforismi , ad esempio, sono sintomi citati spesso l’una dopo l’altro in un terzetto completato dall’epilessia ( Aforismi , III, 20; III, 22). La mania può essere una manifestazione della melanconia insieme a convulsioni, cecità o apoplessia dell’intero corpo (ivi, VI, 56), mentre la comparsa di emorroidi è segno di guarigione sia per la melanconia che per la mania (ivi, VI, 11; VI, 21). Se il primo passo è spinoso, il secondo richiede addirittura di essere riformulato. La traduzione corrente, infatti, è confortante («vedi, Ippocrate la pensa come noi» è una delle asserzioni più ricorrenti nei testi soprattutto medico-psichiatrici contemporanei) ma palesemente circolare. I due termini chiave, phobos Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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e dusthumia , mostrano una complessità cui la coppia «ansietà e depressione» non sembra onestamente fare onore. Si tratta, infatti, di una traduzione sottodeterminata rispetto al greco. Phobos significa anche “fuga” e “spavento”, mentre il termine “ansietà” riporta a una quadro clinico più moderno (legato all’efficacia di sostanze dette ansiolitici) e, soprattutto, a una passione interna mentre, ricorda esplicitamente Lorenzo Rocci (1943, p. 1973), phobos indica innanzitutto una modalità di comportamento. La fuga è imparentata al timor panico non solo perché quest’ultimo può scatenare la prima ma anche perché, per contagio, capita spesso che accada l’inverso. Veder scappare qualcuno preso dal panico crea panico in chi l’osserva. Questo elemento duplice di phobos emerge con più chiarezza nel primo passo. In questo caso il melanconico non è colui che ha paura ma colui che scatena il timore altrui perché urlante, tremante, malvagio e inopportuno. I due passi aiutano a comporre un volto inquietante e doppio: il melanconico ha paura e fa paura, scappa e fa scappare. Questo aspetto stenta a emergere nella traduzione per una ragione non meno importante della prima: nel greco compare la disgiunzione “o” che i traduttori contemporanei (ad es. anche Pigeaud, 1988, p. 29, 56, 68) spesso rendono invece con la congiunzione “e”. Se i due termini devono presentarsi insieme, è chiaro che il volto abbattuto della dusthumia non può che sottolineare l’aspetto interiore e paralizzato della phobos . Al contrario, la melanconia è data dalla persistenza anche solo di uno dei due sintomi. Ciò significa che sia la presenza solo dell’uno che la presenza solo dell’altro dà luogo alla sindrome della bile nera. La disgiunzione sottolinea un’alternanza sintomatica che la congiunzione “e” schiaccia in una diagnosi a posteriori. La disgiunzione «fuga o abbattimento» sottolinea il carattere duplice e altalenante del fare melanconico. Come tradurre allora dusthumia ? Cominciamo da due certezze: è un termine difficile da rendere perché legato a un concetto proprio della cultura greca, quello di thumós ; sicuramente il termine «depressione» non fa giustizia alla sua complessità e ne fuorvia la comprensione. Tumós è termine probabilmente di origine olfattiva: sembra legato al verbo thuo 82
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che significa “fare sacrifici” (attraverso fumigazioni, si pensi al latino fumus ) ma anche “agitarsi”, “infuriarsi”. Per questo la sua area semantica è particolarmente estesa: vuol dire “principio vitale, pensiero, volontà” ma anche “coraggio, collera, sentimento” (Rocci, 1943, p. 897). Per mezzo del prefisso “dus-”, dusthumia indica una disfunzione del thumós : non può indicare il suo grado zero, l’abbattimento totale (per quello c’è l’ athumós con la solita alpha privativa). Poiché si tratta di un aforisma, Ippocrate non fornisce un contesto sufficientemente ampio dal quale ricavare indicazioni aggiuntive. È necessario, allora, ricorrere a una strategia indiretta. Alla voce dusthumós , Rocci (ivi, p. 518) rimanda in prima battuta a due passi dell’ Elettra di Sofocle. Consultarli può risultare utile per individuare il profilo del distimico. La trama dell’Elettra di Sofocle è nota: Oreste, figlio di Agamennone, torna a Micene per vendicare la morte del padre ucciso dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto. La sorella Elettra ne aspetta la venuta sperando così di poter ottenere finalmente giustizia. Oreste mette alla prova la famiglia spargendo la notizia della propria morte. La tragedia si conclude con l’uccisione dei due assassini di Agamennone. Quasi in apertura del testo, Elettra parla col coro del suo dolore per l’uccisione del padre. Il Coro cerca di calmarla dicendole (Sofocle, Elettra , vv. 213-220): Rifletti. Non correre oltre. Non scorgi perché oggi [tà paronta ] sprofondi – il carattere tuo è radice – nel fango di tanta disgrazia? rabocca, la tua dote di mali. Quel tuo fuoco ribelle [sa dusthumò], l’anima strana ti fruttano le guerre: non esiste duello con inaccessibili re.
L’ultima parte della traduzione è particolarmente libera. Più letterale sarebbe un «alla tua anima distimica generano sempre conflitti». L’aggettivo qui indica sicuramente dolore e sconforto ma, come cerca di dire la traduzione di Ezio Savino (“fuoco ri Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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belle”), c’è molto di più. Non certo la depressione che di guerre non ne hai mai potuta causare nessuna, tanto meno sfide ai potenti. Nel passo, la distimia di Elettra non coincide con la triste paralisi del depresso: richiama piuttosto una difficoltà all’interno di due sequenze d’azione. La prima, passata ma ancora presente (ta paronta indica letteralmente le circostanze attuali), è quella delle disgrazie (Clitemnestra che uccide il padre); la seconda è la vendetta che avverrà per mano del fratello all’interno di un conflitto nel quale Elettra è schierata contro i potenti. La distimia di Elettra in questo primo passo è dunque tutto tranne rassegnata e inibita. Nel secondo passo il carattere pratico del concetto è ancora più marcato. La tragedia entra nel vivo, madre e figlia si scontrano. Clitemnestra ricorda le colpe del marito, Agamennone, il quale aveva sacrificato una delle figlie a Demetra, dea della caccia, e conclude la propria invettiva affermando (Sofocle, Elettra , vv. 549-550): Ascolta, Io non ho crepe dentro per l’opera fatta [ egò mèn oùn ouk eimì toís pepragménois dústhumos ]. Se mi giudichi preda di mente perversa raddrizza, fermo, il sentire: poi critica pure.
La traduzione di Savino anche in questo caso è libera ma calzante: la distimia corrisponde a una “crepa interna” perché è il risultato di cose fatte, di pepragménois , di azioni compiute. In questo brano dell’Elettra, il legame tra dústhumos e praxis è letterale e in evidenza. Il termine non indica un dolore depressivo (la frase non avrebbe molto senso: «non sono depressa per quello che ho fatto»), quanto piuttosto ha a che fare con il pentimento. Clitemnestra afferma l’assenza di un dolore vivo per azioni compiute perché vuole ribadire l’intenzione di non riparare al male procurato. Niente dústhumos , nessuna azione riparatoria. La distimia non corrisponde all’abbattimento depressivo, questo può essere solo uno dei suoi esiti (può condurre cioè all’ athumia , all’abbattimento). Indica piuttosto una rottura interna, dell’animo o del coraggio: come tale, può condurre alla riparazione, alla guerra, alla conciliazione o alla sfida ma si rifà soprattutto a uno 84
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stato d’animo rotto e sospeso tra due azioni di cui una compiuta e l’altra possibile . La traduzione che insiste sullo scoramento tende, in altre parole, ad appiattire il significato di due termini tra loro distinti: dusthumos e athumos . Il primo indica una frattura in corso, il secondo il risultato privativo di una mancanza. Questa riformulazione dell’aforisma ippocratico presenta il vantaggio di non recidere il legame tra l’atrabile del V secolo a.C. e la melanconia moderna e, al contempo, di sottolineare una dimensione (quella attiva e pratica di questo stato d’animo) che rischia altrimenti di andare perduta. Quella a cui forse si riferisce Heidegger quando definisce la malinconia «un agire effettivo». Eccoci, allora, al cattivo. Platone si occupa poco di melanconia, la cita di sfuggita. In cosa consista appare scontato: in linea con Ippocrate, Platone porta a compimento l’identificazione tra mania e melanconia tanto che i due termini diventano intercambiabili. Nel Fedro (268e), notano Klibansky, Panofsky e Saxl (1964, p. 19), l’uso del verbo melancholán (esser melanconico) è impiegato come vero e proprio sinonimo di maínesthai (esser pazzo). Platone, però, è protagonista di un secondo slittamento semantico, ben più decisivo del primo perché di tipo politico. Conviene riportare per esteso un estratto della Repubblica (573 a 5-c 10): Ebbene, quando gli altri appetiti gli ronzano attorno stillando aromi e profumi e pieni di corone, di vini e di quegli sfrenati piaceri che sono caratteristici di simili compagnie; e facendolo crescere e nutrendolo fino al grado estremo, istillano nel fuco il pungiglione della bramosia; ecco allora che questo duce dell'anima è scortato dalla follia [ manias ] e si mette in furore. E se sorprende in sé opinioni o appetiti giudicati onesti e ancora capaci di pudore, li sopprime e li scaccia fuori di sé, finché riesce a eliminare la temperanza e a riempirsi d'importata follia [manias ]. – u descrivi alla perfezione, disse, l'origine dell'uomo tirannico. – Non è per questo, feci io, che anche da tempo antico l'Amore è detto tiranno? – Può darsi, rispose. – E un uomo ubriaco, mio caro, ripresi, non ha anche lui una certa mentalità da tiranno? – Ce l'ha, sì. – D'altra parte, l'uomo impazzito
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[mainómenos ] e squilibrato cerca e presume di poter comandare non soltanto agli uomini, ma anche agli dèi. – Certo, disse. – Perfettamente tirannico, eccellente amico, si fa un uomo, ripresi, quando la natura o le abitudini o quella e queste insieme lo rendono ubriacone, erotico e bilioso [ melancholikós ].
Il passo conferma il carattere intercambiabile di mania e melanconia. Non solo: Platone propone in modo esplicito un’altra identificazione, quella tra una figura politica precisa e lo stato d’animo dominato dalla bile nera. Il tiranno è melanconico: l’aura negativa legata alla paura emersa in Ippocrate si rinsalda nella figura arcigna di chi, senza scrupoli, detiene il potere. Il carattere attivo di questo stato d’animo riemerge con chiarezza, secondo una connotazione negativa già presente in Ippocrate, che in questo caso trova la sua radicalizzazione. Si tratta di una mossa decisiva per il futuro della melanconia. La Repubblica fonda un mito talmente resistente da avere la capacità di riemergere due millenni e mezzo dopo, nel ventesimo secolo. Negli ultimi decenni, soprattutto all’interno dei cosiddetti “studi post-coloniali”, la melanconia è inquadrata come una passione tutta al negativo, di chi agisce con prepotenza e non vuole perdere la possibilità di dominare gli altri. Seppur con sfumature diverse e a volte in modi addirittura opposti tra loro, molti autori contemporanei considerano la melanconia il male da scongiurare: abbiamo visto nel capitolo primo (§ 2) che per Paul Gilroy è la passione di un impero, quello anglosassone, che non c’è più; per Judith Butler costituirebbe una forma di ribellione repressa e il risultato di rigide identificazioni di genere. 1 Grazie a Platone, la melanconia sembra una passione dalla quale stare alla larga. Ma, come si conviene per ogni eroe, quando ormai eravamo privi di ogni speranza, arriva in nostro soccorso l’ultimo personaggio di questo arcaico western atrabiliare, Aristotele. Nell’aprire il capitolo XXX dei Problemi , Aristotele ci coglie di sorpresa perché 1 Esistono naturalmente eccezioni: Khanna (2003), ad esempio, sottolinea il ruolo di istanza critica presente in questo stato d’animo.
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rompe in modo netto con la tradizione precedente. Non solo afferma ma dà per scontato, infatti, che la melanconia abbia una connotazione positiva (Probl . XXX, 953a): Perché gli uomini che si sono distinti [ perittòi ] nella filosofia, nella politica, nella poesia, nelle diverse arti sono tutti dei melanconici e alcuni fino al punto da ammalarsi delle malattie dovute alla bile nera?
Il parallelo bile nera-vino è certo un topos , una somiglianza percettiva che rievoca una parentela di ordine etico. In entrambi i casi si tratta di sostanze fluide e scure che provocano instabilità. Aristotele, però, rovescia il senso dell’analogia. La coppia resta, vino e bile nera si assomigliano, ma la relazione di parentela è più raffinata. Non si tratta semplicemente di sostanze scure che portano a urla e malvagità. La perdita di equilibrio può essere un fatto positivo e non coincidere solo con il tremore del melanconico ippocratico o con il furore del tiranno di Platone. L’elemento sul quale si insiste è, da un punto di vista etico, neutro e decisivo: nel bene e nel male, sia il vino che la bile nera sono in grado di cambiare il carattere della persona sulla quale agiscono. Sono sostanze in grado di far cambiare idea, di cambiare l’ éthos degli animali umani (una capacità «etopoietica»: Pigeaud, 1988, p. 23 e sgg.). La relazione privilegiata con questa emozione, già segnalata da Ippocrate ed emersa nel terrificante tiranno platonico, non scompare ma si approfondisce: non è più l’uomo che ha paura ed è tremante; non è più solo il tiranno cha fa paura e fa tremare. La bile nera è in grado di modificare la relazione stessa che ognuno di noi ha con la paura ( phobos : Probl . XXX, 954b 11 e sgg.): può trasformare in pauroso chi sembra sicuro di sé e, viceversa, far reagire improvvisamente un pusillanime. Bile nera e vino possono condurre a tutto, sono sostanze del cambiamento radicale. Aristotele, infatti, utilizza in più di un’occasione un aggettivo molto significativo perché composto dalla ripetizione doppia di pan (tutto), pantodapós (ivi, 954a Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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30), traducibile con «tutto di tutto». A tutto può condurre la malinconia con i suoi imprevedibili esiti. Il termine, infatti, riemerge in un passo del De divinatione per somnum (Parv. Natur., 463b 17-18) nel quale si sottolinea che il tipo melanconico è contraddistinto dall’avere «visioni di ogni tipo» ( pantodapós ) e dall’essere soggetto a «movimenti numerosi e di ogni tipo» ( pantodapá ). Anche quando il melanconico fa una figura peggiore e riveste i panni del balbuziente o dell’incontinente, la connotazione negativa manifesta accenni a una sorta di grammatica della trasformazione. Il melanconico balbuziente compare nel libro XI dei Problemi (903b 19-26): Perché i balbuzienti sono melanconici? Forse perché essere melanconici consiste nel seguire velocemente [ tachús ] l’immaginazione e la caratteristica dei balbuzienti è questa, che l’impulso [ormè ] a parlare precede in essi la capacità [ dynamis ] di farlo, perché l’anima [ psuché ] va dietro troppo in fretta a ciò che le si presenta. […] La prova è che gli ubriachi sono così, andando dietro soprattutto alle apparenze e non lasciandosi guidare dalla mente [ nous ].
Il confronto procede su due piani paralleli. Il primo è il dominio della phantasia 2 sull’intelletto, l’altro il cortocircuito tra potenza e atto. In entrambi i casi bile nera e vino rosso producono fenomeni anomali (Cap. I, § 3) invertendo la relazione tra capacità e azione. Gradualmente esce allo scoperto uno dei segreti della melanconia, uno degli aspetti che ne fanno un «agire effettivo» secondo la definizione di Heidegger: grazie alla bile nera si agisce prima di esserne capaci . Anche nel linguaggio: sia sul piano articolatorio (come dirlo) che su quello cognitivo (cosa dire), il melanconico parla prima che sia in grado di farlo. Per un verso, l’atrabiliare corre costantemente il rischio di trovarsi tra le mani una voce sconnessa, 2 È un tema che riemerge nei Parva Natur. , 466a 33-b 5. Per questo aspetto del problema: Mazzeo, 2008; Mazzeo, 2009.
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una phoné senza logos (ivi, XI 905a 19-24). Per un altro, la balbuzie è segno di immaturità tipico dell’infanzia, nella quale si deve ancora imparare a coordinare non solo la voce ma anche gli arti (ivi, XI 902b 16-22) 3: Perché da ragazzi si balbetta più che da adulti? Forse, come i bambini non hanno sempre una completa padronanza [kratousi ] delle mani e dei piedi, e i più piccoli non possono [dunamai ] camminare, così i giovani non sono padroni [ dunantai ] della loro lingua? Se poi sono molto piccoli, sono in grado di emettere suoni solo alla maniera degli animali, perché manca la padronanza [ krateiv ] della voce.
Il melanconico lavora nell’incertezza di quel che lo psicologo russo L. Vygotskij (1934) chiamerebbe «zona di sviluppo prossimale». Questa area, indeterminata per definizione, corrisponde al punto nel quale il bambino, e più in genere ogni discente, fa per la prima volta qualcosa di nuovo e si ritrova in una situazione piacevole ma paradossale poiché fa ciò che fino a quel momento non poteva fare. Il punto è notevole perché costituisce la connessione diretta tra il melanconico dei Problemi , vicino al vino e alla balbuzie, e quello dell’ Etica Nicomachea , in cui lo si descrive come un éthos incontinente ma non cattivo. Il capitolo XXX dei Problemi aristotelici si caratterizza per una struttura curiosa poiché è suddiviso in quattordici paragrafi dalla lunghezza sproporzionata: il primo paragrafo, che affronta direttamente la melanconia occupa la metà del testo; l’altra metà è frazionata in tredici passaggi molto rapidi, spesso lacunosi e ammiccanti. Di questi solo l’ultimo, a mo’ di conclusione, riprende il tema melanconico in modo frontale. Im3 In un bell’articolo Barbera (2006, p. 41 e sgg.) sostiene che il termine aristotelico di solito tradotto con “balbuziente” ( ischofonós ) abbia in realtà un’accezione più ampia e probabilmente diversa e si riferisca alla nozione di “voce secca, bassa” (ischofonós ). Le due interpretazioni non si escludono. Il passo in questione suggerisce, però, che la connotazione legata alla balbuzie non possa ess ere eliminata dal termine. Altrimenti non si capirebbe come i bambini possano essere ischofonoi (di certo hanno una voce acuta e non certo bassa o secca).
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plicitamente, questa struttura è considerata una pura anomalia da espungere: chi parla dei Problemi XXX di solito si occupa solo del primo paragrafo. È un errore. Nel paragrafo cinque, ad esempio, Aristotele si chiede perché gli anziani abbiano più nous (intelletto) e perché i giovani imparino meglio, perché dio ci abbia dato due organi, la mano e il nous (l’intelletto). La risposta consiste nel proporre un’analogia: gli anziani stanno al nous , come i giovani alle mani. E, prima di avere conoscenza di qualcosa, dobbiamo farne pratica. Solo usando qualcosa se ne può avere padronanza (ivi, 956a): questo maneggio delle cose che porta alla padronanza è il corrispettivo pratico della passione melanconica. Il fare prima di saper fare.
§ 3 Il melanconico in città: tre caratteristiche etiche «Melancholia passerà esattamente davanti a noi e non ci sarà spettacolo più straordinario». Lars von rier, Melancholia
Nel passo citato alla fine del paragrafo precedente, due verbi si affiancano e in un’occasione sembrano darsi il cambio: dunamai («potere, avere la possibilità di») e krateo («avere potenza, controllare, avere il dominio su»). Nel balbuziente e nel melanconico emerge un difetto della dunamai che è anche un difetto del kratein: un deficit di possibilità e capacità coincide con una mancanza di potenza e controllo. Questa doppia manchevolezza ha diversi effetti collaterali, perlomeno tre, non necessariamente negativi. Il primo: il melanconico è un disadatto. È la ragione profonda per la quale, già in Ippocrate, il melanconico manca di kairós . Il conflitto tra atto e potenza che caratterizza l’eccesso di bile nera porta a comportamenti inopportuni. Essere akairós significa “essere disadatti” alla circostanza, poter risultare “noiosi”, dare 90
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l’impressione di essere “incapaci” (Rocci, 1943, p. 48). Questa mancanza di adattamento ha un risvolto positivo: il melanconico non agisce sfruttando opportunità già date e per questo deve crearne di nuove. Questo il senso dell’interrogativo che apre i Problemi XXX: in che modo i melanconici si distinguono nella politica, nelle arti, nella filosofia? Mancando attimi propizi già dati e producendone altri ancora inesistenti. Il secondo: il melanconico è incontinente (akratés ). Questa definizione è proposta e sviluppata per esteso nell’ Etica Nicomachea . I Problemi sono lì a far gioco di sponda. Come abbiamo visto, la mancanza di dominio, innanzitutto su sé stessi, è un tratto tipico dell’éthos melanconico. Lo si intravede già in Ippocrate: una paura priva di confini e la mancanza di cura indicano un tratto che si evidenzia in Platone per il quale il tiranno costituisce quel che oggi chiameremmo una formazione reattiva. Un uomo che cerca di controllare gli altri poiché non controlla sé stesso. Il terzo: il melanconico non delibera ma apprende . Aristotele suddivide la categoria degli incontinenti in due specie. Una è formata da chi delibera ma poi non persiste nelle sue scelte ( Eth. Nic., 10, 1152a 18-22). Questo tipo di incontinenti è paragonato a una città che decreta buone leggi ma non le applica e si differenzia dai malvagi che invece decretano cattive leggi e le applicano. L’incontinente melanconico, invece, non persiste nelle scelte perché neanche delibera . Il melanconico è un incontinente estremo che proprio per questo, per la sua estrema irregolarità, può apprendere perché più facilmente può essere persuaso dagli altri. Dopo l’infelice esordio platonico, il paragone con la città ripropone sulla scena politica la classe cui appartengono i melanconici, gli incontinenti. Si tratta, però, di un ritorno solo abbozzato perché lo schema di Aristotele risulta incompleto. Se l’incontinente che delibera è come una città che delibera bene ma razzola male e il malvagio è qualcuno che delibera male e fa di conseguenza, a cosa assomiglia il melanconico? L’Etica Nicomachea non lo dice. Rimangono solo due possibilità: il melanconico rappresenta una polis che né fa leggi né le segue; oppure incarna la città che segue leggi che non delibera . Due ragioni fanno propendere per la seconda ipotesi. La prima alternativa, la città che Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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né delibera né segue leggi, illustrerebbe una situazione di caos assoluto coincidente con una sostanziale immobilità non solo legislativa ma anche pratica. Nel testo, invece, si afferma esplicitamente che gli incontinenti, tutti gli incontinenti quindi anche i melanconici, possono essere “abili” (deinós ). L’abilità, specifica Aristotele, «è tale per cui si è in grado di compiere azioni che mirano allo scopo che ci si è proposti e di raggiungerlo» (ivi, 1144a 24-26). L’incontinente ha capacità pratiche che prescindono dalla capacità di deliberare. Il termine impiegato da Aristotele vive di una coloritura semantica che ben si attaglia a chi vive di atrabile: deinòs indica abilità per derivazione da due accezioni originarie. La prima si riferisce a qualcosa di “spaventoso” e “temibile”, spesso un timore di ordine religioso; la seconda accezione, legata alla prima, fa riferimento a ciò che impressiona perché straordinario nel suo genere, a una potenza che può essere legata alla divinità (Rocci, 1943, p. 420). Di certo, allora, il melanconico può esser abile (tanto che nei Problemi può essere anche il migliore). Ciò nonostante il suo rapporto con la deliberazione è ambivalente. Su questo punto Aristotele sembra contraddirsi: in un caso, come abbiamo visto, afferma che il melanconico fa parte degli incontinenti che non deliberano; in un altro li include esplicitamente negli incontinenti “precipitosi” (Eth. Nic., 1150b 19), che deliberano ma poi non perseguono, da contrapporre agli incontinenti “deboli” che invece si fanno prendere dalla passione perché non deliberano. L’eccessiva capacità immaginativa dei melanconici li svierebbe portandoli lontano dal logos. L’imbarazzo aristotelico sembra suggerire la paradossalità della condizione del melanconico: egli appare capace e incapace di deliberare; è il più istruibile e può ravvedersi perché non sa quel che fa, perché sembra seguire una regola che ancora non conosce . Anche in questo caso (per altri: Mazzeo, 2009), il melanconico tende a sfuggire a categorie prestabilite perché incarna la mutabilità intrinseca al comportamento umano. Se letto con attenzione, il testo aristotelico pone questo temperamento a metà tra una categoria e l’altra: l’atrabiliare non è tra i deliberatori perché non porta a termine il processo di deliberazione che si conclude, secondo Aristotele, con un ragionamento vero e proprio; dall’al92
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tro però la veemenza ( sfrodrós ) della sua immaginazione non lo può far collocare neanche tra i deboli perché il melanconico di forza ne ha da vendere, è di controllo che è a corto. L’imbarazzo espositivo sembra nascere da un fatto oscurato dalle incertezze categoriali ma proprio per questo decisivo: quella melanconica è una deliberazione di una regola (Aristotele direbbe di uno strumento, di un mezzo) interrotta dalla sua stessa applicazione . Aristotele sottolinea che la deliberazione (buleusis ) riguarda i mezzi ma non i fini; riguarda quel che concerne noi e non gli altri; non si riferisce a un dato di fatto ma a cose che «non è chiaro come andranno a finire» (ivi, 1111b 9). Il melanconico vive l’indistinzione transitoria di tutti e tre i parametri deliberativi o, se si vuole, applica il terzo criterio definitorio della deliberazione (la non chiarezza su come andrà a finire) agli altri due. Si tratta di un’attività potentemente immaginativa: talmente potente che le immagini della fantasia possono sopraffare quelle percettive, come l’ubriaco si fa trascinare dalle proprie visioni (ed è per questo che il melanconico è paragonato anche a chi dorme quando, sognando, la phantasia domina sull’aisthesis : ivi, 1152a 15). È un’attività nella quale la distinzione mezzo-fine non è ancora definita. Soprattutto è un modo di agire che Aristotele definisce in più di una circostanza «fuori di sé, estatico» ( ekstatikós : ivi, 1151a 1; 1151a 20-21), nel quale manca il centro costituito dai limiti stabiliti dalla propria persona. Poiché è senza centro il melanconico non può distinguere, come avviene invece nella deliberazione, ciò che pertiene al proprio agire e ciò che non gli pertiene. Agisce in una zona d’indistinzione. A proprio rischio e pericolo naturalmente: il successo è l’innovazione e la riformulazione categoriale tra ciò che è percepito e ciò che è immaginato, mio e non mio, mezzo e fine; la sconfitta è il balbettio dell’agitato, la caduta a terra dell’ubriaco, l’inconcludenza di qualcuno che non sa quel che fa e continua a non saperlo. Non a caso l’aggettivo apre i Problemi XXX: estatico è Eracle che uccide i figli (Probl . XXX, 953a 17), è Aiace che delira e poi si ammazza (ivi, 953a 22), Maraco di Siracusa nei suoi momenti poetici migliori (ivi, 954a 39). Questa uscita di sé può avere gli esiti più diversi: la bellezza della poesia come l’orrore per Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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il delitto più nefasto. Per questa ragione il melanconico estatico è senza parole: di fronte a quel che ha compiuto “cessa di parlare” (aposioposi : ivi, 953b 14) oppure canta ardente della più accesa allegria (odes euthumias : ivi, 954a 25). Il termine euthumia è prezioso perché consente di fare ritorno al punto dal quale eravamo partiti, la definizione ippocratica di melanconia e le sua difficoltà di traduzione nella quale compaiono le parole chiave phobos e dusthumia . Chi è in preda all’estasi corrisponde al vertice alto di un moto oscillatorio che precipita nell’athumia e trova il suo punto di rottura nella dusthumia :
euthumia euthumia dusthumia
ecc.
athumia Le occorrenze di questi termini nei Problemi XXX confermano il carattere di rottura, instabile e per questo propriamente melanconico, della distimia. Soprattutto danno conferma all’ipotesi dalla quale ha preso le mosse questo capitolo: il termine greco non costituisce l’equivalente semantico dell’italiano “depressione”. Per capire un punto sicuramente decisivo, è sufficiente citare per esteso il passo cui accennavamo a proposito dei canti allegri e del carattere estatico del melanconico (ivi, 954a 21-26): 4 Se [la bile nera] è presente nel corpo in quantità eccessiva, induce apoplessie, torpori, depressioni [ athumias ], paure [ phobous ]; se invece si surriscalda induce allegria [ euthumias ] accompagnata da canti, delirio [ ekstàseis ], eruzione di piaghe e altre affezioni del genere. 4 Per un altro paio di passi che indicano quest’alternanza: Probl . XXX, 954b 16; 955a 14-16.
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La dusthumia compare dentro un’azione e non come suo apice (abissale o celeste che sia). Nel testo l’espressione compare due volte (ivi, 954b 29-35): Se non stanno attente [le persone soggette a melanconia] tendono a essere colpite dalle malattie collegate con la bile nera in una parte o nell’altra del corpo: alcune manifestano attacchi epilettici o apoplettici; altre ancora provano un forte scoramento [ athumiai ] o paura [ phoboi ]; altre si sentono troppo coraggiose, come è accaduto ad Archelao re di Macedonia. Responsabile di questa azione è il vario mescolarsi del freddo e del caldo: se la mescolanza è più fredda del dovuto provoca distimie [ dusthumias ] senza motivo […].
In entrambe le citazioni compare la coppia phobos -athumia che indica, non l’intera dinamica melanconica (Ippocrate parla di phobos o dusthumia ), quanto solo il suo vertice basso. D’altro canto il tema del coraggio, legato all’ampiezza semantica del thumós , emerge esplicitamente nell’altra direzione, che procede verso il vertice alto. Ed è qui che arriva la dusthumia , nel pieno dell’azione maniacale e rischiosa di Archelao colui che riuscì a sconfiggere Atene nella battaglia navale di Siracusa. Archelao è personaggio dal doppio volto: è l’assassino che stermina parte della sua famiglia per salire al trono, ma è anche il condottiero capace e generoso che, dopo aver sconfitto Atene, fornisce ai vinti il legno necessario per ricostruire la flotta. È il governante che, in politica interna, si contraddistingue per il proprio mecenatismo (di cui si avvantaggiò, tra gli altri, Euripide). Nel Gorgia (470b e sgg.), Platone fa di Archelao l’emblema del tiranno cattivo e infelice; in Aristotele, invece, la dusthumia rievoca le capacità di un sovrano scomodo, capace e illuminato. L’ athumia emerge dopo, successivamente all’azione del bere ( Probl. XXX, 955a 5-7): è per questo che spesso conduce al suicidio. La dusthumia , invece, è uno stato d’animo più sfuggente (riguarda pochi, dice il testo) perché emerge in un mentre, nel farsi dell’azione. Per Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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questa ragione, può avere esiti diversi: scadere in athumia e portare all’impiccagione ma anche scatenare lo scatto di reni che provoca una risposta imprevista. Attraverso la tripletta di composti sulla radice thumós , Aristotele articola e approfondisce l’aforisma di Ippocrate. L’abbattimento prodotto dalla mancanza di thumós (l’athumia ) è solo delle dinamiche dell’animo melanuna delle possibili conseguenze delle conico: paura e distimia ne indicano i due momenti critici nel quale il carattere di ciascuno, più che rivelarsi, corre il pericolo di trasformarsi e cambiare direzione.
§ 4 Contro l’accidia e la tristezza «Amor del bene, scemo di suo dover». Dante Alighieri, Purgatorio
Un altro modo nel quale è tradotto l’aforisma di Ippocrate propone, invece di “ansietà e depressione”, la coppia “paura e tristezza” (cfr. ad es. Benvenuto, 2008, p. 26). La scelta è motivata dal tentativo di riallacciare le fila della tradizione melanconica con quella medioevale dell’accidia, un peccato che ricorda da vicino la sindrome della bile nera. Si tratta, però, di un’operazione pericolosa che rischia di portare fuori strada. Come accennavo all’inizio, due sono i modi nei quali rendere sterile la nozione di melanconia. La più nota e recente, un’operazione un’operazione soprattutto sopratt utto rinascimentale rinascimental e e barocca, è riservarla al genio, secondo la fortunata (e sciagurata) traduzione di uno dei termini chiave dei Problemi XXX, XXX, perittós con “ecceziona peri ttós con le” invece che con “che eccede la misura” (rimando al quarto capitolo un’analisi più estesa del termine). Ma esiste un’altra operazione in grado di sterilizzare sterilizz are il potenziale innovativo della melanconia: ridurre questo stato d’animo a una tradizione che 96
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
ha origine alla fine del IV secolo d.C. circa (Jackson, 1986, p. 65), quella dell’accidia. Anche in questo caso si rischia di rimanere vittima di un gioco di prestigio. La tradizione medioevale, infatti, confonde le acque poiché riprende una famiglia semantica legata a un termine omerico, ippocratico e poi biblico, innestato sulla radice aked-, e lo trasforma nella latina acedia . Il cambiamento non è solo linguistico ma teorico. In greco, akedìa è una parola che indica innanzitutto mancanza (l’alpha privativo lo ricorda): è “noncuranza”, “indifferenza”. Per questo, al fine di comprenderne la semantica, può aiutare l’analisi del termine positivo contenuto al suo interno. Kedos vuol dire “cura”, “sollecitudine”, “pensiero” ma anche “afflizione”, “lutto” e “parentela per matrimonio”, “parentela” 5. Il termine indica un distacco dal mondo che sembra articolato: da un lato il non darsi pensiero di chi agisce preso da una spinta insopprimibile (la dimensione che oggi definiremmo maniacale della melanconia); la mancanza di lutto di fronte a una perdita (la dimensione dimessa della melanconia fotografata dal celebre saggio di Freud). Acedia latina e akedìa greca greca non Acedi a latina sono dunque termini sovrapponibili: per mezzo dell’ acedia , le melanconia viene depurata della sua componente maniacalepratica e la “non curanza” diventa sostanzialmente ascetica e religiosa. Ippocrate impiega il sostantivo in modo accidentale, mentre un’attestazione dell’aggettivo corrispondente ( akedees ) la si ritrova sia nell’ Iliade che che nell’Odissea . Nelle due opere sembra risentire di una trasformazione. Nella prima, si riferisce al corpo straziato di chi, morto o morente, non troverà cure. Achille Achil le sta per dare il colpo colp o di grazia graz ia a Licaone, Lica one, gravemengrave mente ferito. Mentre sta gettando nel fiume il proprio avversario, esclama: «Giaci [keiso] laggiù in mezzo ai pesci che della ferita 5 Questo aspetto della akedìa scompare scompare solo apparentemente nella tradizione successiva, per poi tornare protagonista di alcune riemersioni carsiche altrimenti incomprensibili. Un esempio: nella sua storia della melanconia, Jackson parla di Sorano di Efeso, un autore del I secolo d.C. Questi, nel descrivere i sintomi tipici della melanconia, fa un’affermazione un’affermazione a prima pri ma vista incomprensibile: «ormento «ormento mentale e spossatezza, abbattimento, silenzio, animosità verso i membri della propria famiglia […]» (Jackson, 1986, p. 34). Improvvisamente riemerge l’afflizione luttuosa legata alla parentela.
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta perduta
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ti leccheranno il sangue, incuranti [ akedées ]» ]» (Iliade , XXI, vv. 122-123). In un episodio successivo, Priamo cerca di ottenere da Achille il riscatto del corpo del figlio ucciso: «Non farmi sedere sul seggio, figlio di Zeus, finché senza cure [ akedés ] Ettore giace [keitai ] straziato nella tua tenda, ma subito rendimelo, che possa vederlo» (ivi, XXIV XXI V, v. v. 553-555). 553-5 55). In entrambe entram be le circostanze la mancanza di cure riguarda una sepoltura sepoltu ra che rischia di non avvenire: un lutto che tende all’incompletezza. Queste attestazioni del termine contribuiscono a spiegare la fortuna dell’ipotesi freudiana: è come se Lutto e melanconia riuscisse riuscisse a riepilogare al proprio interno parti della storia sepolta non solo della melanconia ma del suo intreccio con l’accidia. Allo stesso tempo, mostrano quale parte della storia continui a essere oggetto di rimozione: nell’ Iliade si si parla di morti, ma di un lutto che si verifica dopo combattimenti combattiment i feroci. L’ L’akedía descrive una mancanza di cure funebri legate allo scontro, alla lotta, al conflitto. Si tratta dunque di una mancanza che giunge alla fine di di un processo fatto di azioni che trasformano, non di uno stato d’animo che previene l’ingresso umano nel mondo delle cose. Nell’Odissea , l’aggettivo ricorre ancora più spesso rispetto all’Iliade (cinque (cinque volte contro due): continua a comparire accompagnato dal verbo “giacere” ( keimai ) ma la scena cambia decisamente. Diviene un epiteto tutto al femminile che riguarda una mancanza di cura che riguarda l’ oikos , cioè la casa e le cose domestiche: compare a proposito di Nausicaa e le sue vesti che giacciono abbandonate ( Odissea , VI, vv. 25-26), di donne disattente che non curano Argo, il cane di Ulisse che attende il padrone (ivi, XVII, vv. vv. 318-319); descrive des crive le armi trascurate di Ulisse, guastate dal fumo, perché rimaste inutilizzate inutiliz zate dalle donne (ivi, XIX, v. 18); qualifica il cibo che rimane lì, da una parte, perché non servito dalla nonna di elemaco (ivi, XX, 130). L’ultima occorrenza sembra s embra sintetizzare le diverse sfumature sfuma ture semantiche presenti nelle due opere omeriche poiché è impiegata per i corpi che giacciono non sepolti nella casa di Ulisse dei pretendenti di Penelope (ivi, XXIV, v. 187). Anche l’aggettivo greco che darà origine al latino acedia sembra sembra dunque caratte98
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
rizzato da un processo di introversione, lento ma progressivo: dalla guerra alla casa; dalla casa all’eremo; dall’eremo all’animo del singolo peccatore. Secondo una tradizione che probabilmente ha inizio alcuni secoli prima della nascita di Cristo con l’impiego del termine greco per la traduzione dell’ Antico testamento (Del Castello, 2010, p. 27), l’acedia è innanzitutto la tentazione di chi, ritiratosi dal mondo, rischia di trasformare il suo eremo nella casa del maligno: è Antonio da Coma tentato dal diavolo nel deserto, il monaco minacciato nel silenzio della sua cella. L’elemento della possessione divina che Aristotele si era sforzato di riconvertire in termini pratici (e, prima di lui, Ippocrate di descrivere in termini medici) riemerge sotto una veste differente, figlia dei nuovi tempi. Ora il melanconico è preso dal dio non più perché agisce nel mondo compiendo gesta fuori misura (nel bene e nel male: come Eracle e Aiace, due dei melanconici citati nei Problemi ), ma poiché è preda di un demone che per definizione è malvagio. La partita decisiva non consiste più nella sponda ambivalente tra melanconia e mania, ma ha come protagonista il rapporto tra acedia e tristitia . Che la si condanni come peccato capitale o se ne distinguano forme positive e negative, l’asse del discorso è spostato e il delitto ormai compiuto. Anche quando la coppia accidia-melanconia riesce a far ritorno nel mondo delle cose umane, risulta ormai depotenziata. In inglese l’ acedia diventa sloth, termine vicino all’aggettivo slow (“lento”): l’accidia-melanconia è negligenza sul lavoro, preghiera senza devozione, pigrizia nel comportamento (Jackson, 1986, pp. 71-72). Probabilmente Agamben ha ragione nel criticare una nozione di acedia tutta schiacciata sul sonno colpevole del pigro (la sua critica si rivolge a Panofsky e Saxl). Ciò non toglie che si tratti di una «disperata paralisi» (Agamben, 1977, p. 12). È possibile parlare di un’accidia positiva nel pensiero teologico medioevale solo a caro prezzo: accettare che l’accidia sia una forma prossima (genitrice o figlia secondo le versioni, ma poco importa) della tristezza. È proprio questo apparentamento a essere alla base del definitivo inserimento dell’accidia prima e della melanconia poi tra le passioni Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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rassegnate. Nella Seconda lettera ai Corinzi , Paolo di arso distingue tra due forme di tristezza (in greco lupe ): una peccaminosa, prossima alla perdita della speranza e che per questo allontana da dio; una virtuosa legata ai propri peccati, redenzione che invece avvicina al creatore. Per il resto, tracce di una valutazione positiva dell’accidia è possibile trovarle soprattutto quando la si considera genericamente una tentazione e, come tale, in grado di rinforzare la fede e le virtù (Wenzel, 1960, p. 32). Già in Evagrio Pontico (siamo nel IV secolo d.C.), questo elemento emerge con chiarezza (Otto spiriti , § 13, p. 55): L’accidia è una mancanza di tono [ atonia ] dell’anima, ma una mancanza di tono che non è secondo natura, e che non sa resistere validamente contro le tentazioni [ peirasmós ]. Infatti quello che il nutrimento è per un corpo robusto, questo significa la tentazione per un’anima generosa. Il vento di Borea nutre i germogli, e così le tentazioni rendono salda la forza dell’anima.
Il termine impiegato da Evagrio per definire l’accidia è particolarmente significativo perché conserva al proprio interno tracce di un processo di trasformazione: atonia in greco indica un processo di esaurimento, di spossatezza. Anche per la tradizione teologica medioevale la fatica può essere una delle concause che favorisce le tentazioni accidiose. Nel corso del tempo, la semantica dell’accidia si caratterizza per inversioni tra cause ed effetto. Nella traduzione greca del testo biblico dei Settanta il termine akedía e il verbo corrispondente ( akediazo) sono legati alla stanchezza causata dalla malattia o dai nemici. In Evagrio è la conseguente mancanza di tono dell’anima. Successivamente, tra il XIII e il XV secolo, si rafforza sempre più una nozione di accidia legata non alla debolezza verso dio o alla tristezza verso le cose del mondo ma come torpore indolente e pigrizia (Wenzel, 1960, p. 88). Questa passione è ora colei che produce indolenza e mancanza di azione, non più la conseguenza di spossatezza o, se si risale fino a Omero, conseguenza di quel che ha prodotto la spossatezza, cioè della battaglia. 100
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
Parlare di delitto a proposito di questa trasformazione semantica non è eccessivo perché lo slittamento elimina buona parte del potenziale innovativo della melanconia. Il suo tratto più fertile resta confinato e comunque sminuito nell’impiego erotico-amoroso del termine (lo reincontreremo nel § 6), mentre il suo volto pratico-politico finisce nell’ombra. Per capire meglio quanto decisivo sia il punto, è opportuno fare un esempio. Alla fine del IV sec. d.C. Giovanni Cassiano decide di recarsi nel monasteri della Palestina e dell’Egitto, entusiasta di conoscere la vita di chi si rifugia in eremi lontani. Cassiano fa esperienza diretta di quel che egli non esita a inserire tra gli otto vizi dell’anima umana: «la nostra sesta lotta è contro il vizio che i greci chiamano akedìa e che noi possiamo definire tedio o ansietà del cuore» (Cassiano, in Gigliucci, 2009, p. 68). L’elemento di morte legato alla parentela insito nel termine greco akedìa non sparisce ma si trasforma lasciando una lontana traccia di sé: ora è «sdegno e disprezzo per i fratelli» (ivi, p. 69). Il non darsi pensiero diventa mancanza di pentimento (ivi, pp. 66-67): Fu questa tristezza a impedire a Caino di pentirsi dopo l’uccisione del fratello e a spingere Giuda dopo il tradimento, non a cercare di riparare la colpa ma a impiccarsi per la disperazione.
Anche quando si scorge il volto nobile della tristezza segnalato da Paolo di arso, lo si riduce a «rimpianti dei peccati», al «desiderio di perfezione» e alla «contemplazione della beatitudine futura» (ivi, p. 67). A predominare è l’uscita da ogni forma sociale perché l’ozio porta ad essere inerte per «qualunque lavoro egli debba svolgere» (ivi, p. 69). Anche nei Problemi aristotelici si fa riferimento a una figura, Bellerofonte, che va «alla ricerca di luoghi solitari [ eremias ]» (Probl . XXX, 953a 22). Ma attenzione: prima di ciò, il nipote di Sisifo uccide il fratello, cambia nome (da Ipponoo in Bellerofonte), rifiuta le attenzioni della moglie di chi lo ospita, ruba Pegaso, riceve in dono da Atena delle briglie d’oro. Agisce, nel bene e nel male, nel mon Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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do. Il suo non è un eremitaggio preventivo ma il duro risultato dell’attiva partecipazione alle cose della vita. Il legame tra acedia e solitudine monastica esaspera questo tratto solitario stravolgendone il significato: nella melanconia l’isolamento, così come la riflessione, giungono dopo l’azione; nell’acedia monastica sono invece antidoto preventivo alla prassi , ne costituiscono cioè la neutralizzazione. Le cose vanno ancora peggio quando l’acedia si rifà a un concetto di tradizione latina e d’ispirazione stoica, l’aegritudo. A tal proposito, Cicerone afferma che con questo termine i latini «denominarono il disagio, l’inquietudine e l’angoscia» (cit. in Gigliucci, 2009, p. 89). In un testo di Petrarca ( Accidia , ivi, 2009, p. 92), ad esempio, ne emerge il lato lamentoso e tutto introverso:6 Se subito [la fortuna] raddoppia il colpo comincio un po’ a vacillare, e se ai due se ne aggiunge un terzo o un quarto sono costretto a ritirarmi nella rocca della ragione: non però con fuga precipitosa ma indietreggiando passo passo.
Il ripiegamento interiore è lampante: la phobia , la componente paurosa della melanconia, non è più l’esito di una fuga corporea ma l’indietreggiare interiore verso la ragione. Non è la spinta che porta all’esodo perché è diventata la tentazione che coglie e blocca chi l’esodo l’ha già intrapreso e ora si trova nel deserto a lottare con i propri demoni. Mentre Aristotele identifica la melanconia, come abbiamo visto, con la dusthumia relegando gli abissi depressivi della mancanza d’animo ( athumia ) solo a uno dei suoi possibili esiti, già nel 6 Anche se Klibansky, Panofsky e Saxl (1964, p. 235 n. 18) hanno ragione nel dire che Petrarca non utilizza termini teologico-morali (a tal proposito sembrano convincenti anche gli argomenti proposti da Wenzel, 1960, pp. 155-163), la strada che egli propone non fa certo il gioco di una valutazione complessiva dello spirito melanconico che ne consideri il valore pratico. Anzi, il rinvio di Petrarca alla aegritudo è ancora più fuorviante perché rimanda a una malattia dell’anima secondo una direttrice magari laica ma sempre, questo il punto, depotenziata. Di fondo si rimane nella stessa logica: o creatività di dio o indolenza terrena. Il dato di fondo rimane un altro: anche Petrarca disconosce la natura bipolare della melanconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964, p. 235).
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380 d.C. Giovanni Crisostomo descrive la sindrome ossessiva del monaco come athumia , tristezza e scoramento (Del Castello, 2010, p. 33). Certo, nel Medioevo nessuno si sogna di proporre in modo esplicito e definitorio l’equazione tra un’affezione corporea prodotta dalla bile nera e una passione legata alla contemplazione del divino (Wenzel, 1960, p. 186). Si tratta di relazioni implicite, di incontri parziali e coincidenze limitate.7 L’incontro tra vizi e capitali e melanconia umorale è piuttosto precoce (emerge già tra VIII-IX d.C. in eodulfo d’Orleans: Del Castello, 2010, p. 72), si afferma nel XIII secolo (tra gli altri in Guglielmo d’Alvernia, Alessandro di Hales, Davide di Ausburg, Roberto Grossatesta: Wenzel, 1960, pp. 191-193) lasciando qualche residuo nell’opera di ommaso che definisce l’accidia “acida” con un riferimento etimologico inventato che la congiunge implicitamente al sapore della bile nera (Del Castello, 2010, p. 89). Solo più tardi, nel XVII secolo, l’autore del più autorevole lessico latino, Charles du Cange, definirà l’accidia «species melancholiae quae monachorum propria est» (cit. in Del Castello, 2010, p. 19). Ma questa storia di intrecci e sovrapposizioni parziali suggerisce quali siano stati almeno alcuni dei percorsi lungo i quali è stato possibile contrabbandare una sostituzione degna del più abile falsario: sostituire la passione dell’azione incerta con il sentimento della tristezza inibita. 7 È possibile che esista un altro intreccio significativo tra i termini in questione che riguarda il legame tra abbattimento depresso, melanconia, accidia e ira. Un passo dei Salmi (119, 53) reso dai Settanta con il greco athumia (ἀθυμία κατέσχεν με ἀπὸ ἁμαρτωλ ῶ ν τῶ ν ἐγκαταλιμπανόντων τὸ ν νόμον σου: “un’ira ardente mi prende a motivo degli empi, che abbandonano la tua legge”), è tradotto in latino con il termine horror ( horror obtinuit me ab impiis qui dereliquerunt legem tuam ) all’interno di un’area semantica legata all’ira (tremito, indignazione) che rimarrà invariata nelle traduzioni nelle varie lingue romanze. Nel recuperare l’antecedente aristotelico dell’accidia, Boccaccio sfiora il punto dolente. Per definire l’accidioso, si rifà all’Etica Nicomachea . Ma invece di andare a pescare i passi circa il melanconico si riferisce al carattere di chi eccede o difetta per ira ( orghé ). Al legame aristotelico tra dusthumia , athumia e euthumia , si preferisce la pista platonica che lega il termine alla parte irascibile dell’anima (thumikón). Di questa, infatti, Cassiano, Evagrio ed altri parlano quando riprendono in chiave teologica la tripartizione proposta nella Repubblica tra anima razionale, concupiscibile e irascibile (cfr. Del Castello, 2010, p. 56).
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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§ 5 Il genio e la poesia: una rivalutazione fuorviante «Fuori è un giorno fragile Ma tutto qui cade incantevole come quando resti con me». Subsonica, Incantevole
La nozione di creatività che oggi ci troviamo tra le mani risente di nozioni, come quella di genio, che catapultano le capacità innovative umane in un alveo misterioso e interiore, ispirato e sospirante, di cui una filosofia materialistica degna di questo nome non sa cosa farsene. La passione melanconica spesso è andata a braccetto con il genio: qualche anno fa una bellissima mostra parigina ha provato a ricostruire la storia della Mélancolie: génie et folie en Occident (Clair, 2005). La mia ipotesi è che il depotenziamento innovativo della passione melanconica abbia contribuito alla costruzione di una nozione di creatività apparentemente emotiva (il sentire del genio ispirato, ma anche «la speranza che ogni volta rinasce ma sempre delusa» come la definisce il testo che apre il catalogo della mostra: Bonnefoy, 2005, p. 15) ma sostanzialmente teologica (la produzione dal nulla del dio che crea). Come avviene questo depotenziamento? Disconoscendo il volto pratico della melanconia, spesso coincidente con quello che oggi definiremmo il suo volto maniacale (cap. II). Riconoscere la complessità della coppia melanconia-mania non significa solo tratteggiare un ritratto più completo di una passione tutta umana ma anche godere della possibilità di individuare il potenziale politico e trasformativo della bile nera. La fotografia che Aristotele scatta alla melanconia è, ad oggi, la più nitida e ricca di dettagli. Nella tradizione successiva, l’immagine non solo perde definizione ma soprattutto si frastaglia dividendo il polo riflessivo-distimico da quello attivo-maniacale. L’ acedia medioevale contribuisce a fare della melanconia occidentale 104
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una riflessione bloccata e inerte, sempre più sconnessa dalla prassi umana con il risultato indiretto ma decisivo di fare dell’agire creativo una prerogativa sempre più sottomessa alla divinità. La complessità della descrizione aristotelica della melanconia è paragonabile a quella di una sequenza filmica piena di scene e azione. La tradizione successiva lavora per tagli: isola singoli fotogrammi (il melanconico abbattuto, il distimico isolato) spacciandoli per l’intero. Nel Rinascimento la melanconia continua a essere oggetto di questo processo di scomposizione per sineddoche, nel quale la parte sostituisce il tutto. Il risultato, in questa circostanza, è una scotomizzazione: elitaria e sostanzialmente contemplativa la melanconia
“generosa”; popolare ma non creativa quella poetica-amorosa.
Secondo Klibansky, Panoksky e Saxl è a Marsilio Ficino che dobbiamo l’idea del genio melanconico. Per gli autori di una monografia classica sul tema questa sarebbe sostanzialmente una buona notizia. Contribuirebbe a rivalutare una passione che, nel Medioevo, si era ritrovata sola in una cella in compagnia di un monaco disperato e dubbioso. In secondo luogo, questa valutazione positiva deriva da una convergenza interpretativa: anche per gli autori di Saturno e la melanconia , la melanconia sarebbe qualcosa che se non riguarda proprio il genio (una categoria che contiene più di una ingenuità) apparterrebbe a qualcosa di molto simile. È chiaro: la nozione rinascimentale di genio non coincide con quella romantica. Il termine latino impiegato da Marsilio Ficino, ingeniosus , indica innanzitutto abilità e intelligenza. È altrettanto vero, però, che la declinazione di queste capacità è sostanzialmente contemplativa. Quel che Klibansky, Panofsky e Saxl (1964, p. 254) definiscono il «merito maggiore» di questa operazione costituisce invece un problema: l’intellettualizzazione della melanconia porta questa passione più verso il regresso all’infinito del pensiero che verso l’azione. L’associazione tra melanconia e Saturno fissa uno spostamento decisivo: dai cortocircuiti della deliberazione emersi nell’ Etica Nicomachea si sprofonda nella contemplazione. Ficino lo dice esplicitamente Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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(il passo è citato anche da Klibansky): Saturno non si occupa di immaginazione o deliberazione, legati alla figura di Giove, ma della mens contemplativa perché rivendica per sé «una vita separata e divina» ( De vita , III, 22, p. 276). Se è vero che Ficino è il primo (o tra i primi) a riconoscere la fusione aristotelica della melanconia con il furore divino di Platone (Klibansky, Panofsky e Saxl, 1964, p. 244) è anche vero che nel De vita si consuma uno slittamento. Da una parte si dice che Platone, Democrito e Aristotele legano la melanconia al furore: i melanconici «sono assai eccitati ( concitatos ) e in preda al furore ( furiosos )» (De vita , I, 5, p. 104). Il latino furor (ivi, p. 105) traduce esplicitamente il greco “mania”. D’altra parte la genialità diventa letteraria e filosofica mentre l’azione scompare: la melanconia rende “stolidos” e “stupidos”; produce “amentiam” e “vecordia”, demenza e pazzia (ivi, p. 105); serve all’acquisizione della sapienza ( sapientiam) e del giudizio (iudicium: ibidem). L’unico elemento legato alla pratica ancora in evidenza è legato alle lunghe veglie del melanconico: mentre però per Aristotele erano legate alla “violenta agitazione” (Probl . XXX, 957a 35), ora non sono dedicate ad agire nel mondo ma a uno studio spasmodico che porta all’esaurimento (De vita , p. 131). Non a caso è una figura emotiva che ricorda ancora molto il demone meridiano medioevale: è definita esplicitamente un «demone malvagio» (ivi, p. 109), spesso è considerata «come un monstrum e una pestilentia , cercando di proporre dei rimedi che ne possano alleviare gli effetti sull’anima» (Hankins, 2007, p. 13). Sul volto erotico della melanconia si intrattiene l’altro dei testi più significativi scritti sulla melanconia negli ultimi decenni. I primi tre capitoli di Stanze di Giorgio Agamben hanno contribuito a ridare centralità a questa passione: non più solo sentimento limite ma luogo di elaborazione di entità immaginative fondamentali per ogni processo culturale. Due le mosse principali: la prima rilegge la melanconia soprattutto in termini di desiderio erotico; la seconda rivaluta l’ acedia medioevale che, in termini teologici, ripropone una logica si106
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mile legata all’eccesso del volere. In entrambi i casi avremmo una esacerbazione del desiderio il cui risultato melanconico consisterebbe nella «capacità fantasmatica di far apparire perduto un oggetto inappropriabile» (Agamben, 1977, p. 26). La melanconia dà accesso a una zona di indistinzione tra rappresentato e reale fondamentale non solo nelle prime fasi dell’ontogenesi umana ma, anche dopo, all’interno di ogni processo creativo. Per questo, il filone erotico ricostruito da Agamben è importante. Già compare nei Problemi a proposito dell’incontinenza sessuale del melanconico, prosegue in Areteo che nel I secolo d.C. parla della melanconia amorosa in un modo che anticipa quel che avverrà molti secoli dopo con la personificazione di questa passione nella Dame mélancolie (Areteo, perì melancholias , p. 51): Si dice che uno di essi, incurabilmente ammalato [di melanconia], amasse una ragazza; mentre a nulla gli giovarono i medici, fu curato dall’amore [...]. Egli stesso non riconosceva amore ma quando con esso contagiò la fanciulla, la sua depressione sparì, si dileguarono ira e dolore. Ed egli arse nella gioia la sua tristezza; ridiede pace alla propria mente, medico l’Amore.
Struggente, non c’è dubbio, ma del tutto impolitico. La rilettura erotica e quella poetica della melanconia, anche nei casi migliori (come quello costituito da un testo esemplare come quello di Agamben ma anche in Lutto e melanconia di Freud), ci porta ben che vada all’innovazione artistica e niente più. 8 Il punto è importante perché in grado di rappresentare con finezza un elemento cardine della melanconia, cioè il suo rapporto con l’immaginazione (cap. IV, § 3). Ma se ci si ferma qui, si rischia di perdere l’altro aspetto innovativo legato alla prassi.
8 Alla fine, anche un commentatore fine come Jackie Pigeaud (1988, p. 46 e sgg.) cade nella trappola: suppone che all’origine dei Problemi XXX ci sia la riflessione su poesia e ispirazione.
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§ 6 Il qualunque e il performer: il melanconico figura dell’avvenire «Ex contradictione quodlibet » Pseudo Scoto
Alla fine di questa breve ricostruzione archeologica, la nozione di melanconia di Ippocrate e Aristotele risulta la più antica ma anche la più fertile: piena di aspetti semantici e risvolti politici che attendono di uscire allo scoperto. La riemergenza della melanconia greca coincide con un possibile ritorno al futuro. Il preantico sembra portare in luce aspetti della condotta umana che stanno riemergendo proprio ora, nel mondo postmoderno. Non Non si tratta di cadere preda della nostalgia per quel che è avvenuto, quanto di rimettere a disposizione energie emotive, figure passionali che una storia lunga e parziale rischia di schiacciare nell’immagine semplificatoria del melanconico reattivo e incattivito che rimugina su occasioni perdute. Ancora oggi la melanconia è oggetto di un processo di rimozione la cui forza è sorprendente, tanto che anche un testo come Stanze ne resta vittima. Agamben prima traduce l’incipit dei problemi aristotelici ribandendo il carattere non geniale del perittós (reso con “distinti”) “distinti”) e il suo carattere politico (l’espressione italiana per politikén è “vita pubblica”: Agamben, 1977, p. 16). Poi, poche pagine più in là, il carattere pubblico della melanconia scompare misteriosamente depennato tra le prerogative di chi è affetto dalla bile nera: «la stessa tradizione che associa il temperamento malinconico alla poesia, alla filosofia fi losofia e all’arte attribuisce ad esso un’esasperata inclinazione all’eros» (ivi, p. 20). E il suo volto politico? Dove è andato a finire? Sparito, ingoiato dalla tradizione successiva. È forse possibile colmare questa lacuna utilizzando uno strumento offertoci dallo stesso Agamben, seppur in un testo successivo. Per ripensare in modo nuovo al melanconico dei Problemi , a metà strada tra Ippocrate e Aristotele, può essere opportuno concepirlo come una figura etica vicina all’essere «qualunque», «la figura della singolarità pura» 108
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
(Agamben, 2001, p. 55). Per un altro verso e allo stesso tempo, il melanconico sembra coincidere con l’antitesi contemporanea del genio, cioè con quel che oggi viene di solito chiamato il performer. Prima di concludere, proviamo a fare qualche passo in questa direzione. Ne La comunità che viene , Agamben delinea un percorso teorico radicale che non solo riscopre da un punto di vista logico e metafisico il quodlibet della della filosofia patristica, ma indica nel “qualunque” una via politica opposta a quel che indichiamo con l’espressione “qualunquista”. Il qualunque non ha che fare con “l’indifferenza, “l’indifferenza, apatia, rassegnazione” (ivi, p. 14), ma con i connotati del volto umano. Cosa lo rende tale? Il volto umano non è l’individuarsi di una facies generica né l’universalizzarsi di tratti singolari: è il volto qualunque, nel quale ciò che appartiene alla natura comune e ciò che è proprio sono assolutamente indifferenti. (ivi, p. 21)
In modo analogo, la melanconia non corrisponde per Aristotele alla rassegnazione9 poiché si contraddistingue nella sua lettura della teoria umorale per un tratto paradossale. Il melanconico non è un carattere tra gli altri (il flemmatico, il sanguigno, il bilioso) ma è il temperamento che porta a cambiare carattere, cioè alla sua costruzione (cap. I). È per questo che i Problemi lo paragonano a un volto: tutti lo hanno, caratterizza ciascuno ma contemporaneamente è “anonimo” ( Probl . XXX, 954b 26). Il qualunque è, non a caso, ciò che costruisce l’éthos di di ciascuno: è il modo nel quale si passa “dal proprio al comune e dal comune al proprio” (Agamben, 2001, p. 21), incarna il termine che indica le vie d’individuazione di ciascuno. Proprio per questo sia melanconia che essere qualunque esibiscono una forma estatica: poiché indicano oscillazioni modali entrambi eccedono sé stessi, costituiscono una linea di sviluppo della quale non si può essere padroni prima che questa si realizzi. Un simile deficit di padronanza è la terza cifra 9 roviamo il termine greco apaté ma ma per indicare la possibilità melanconica non solo di provare paura, come ricorda Ippocrate, ma anche di resisterle: Probl . XXX, 954b 15.
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della possibile congiunzione tra melanconia e quodlibet : processi di trasformazione che non contengono al proprio interno linee classificatorie già identificate (come avviene invece nell’universale) ma che allo stesso tempo hanno il potere generativo delle molteplici singolarità. Lo abbiamo visto, la melanconia è anche mania (cap. II): azione il cui senso può esser visto solo da fuori e a posteriori; il qualunque, afferma Agamben (ivi, p. 28), è una maniera nel senso etimologico proveniente dal latino manare , cioè sgorgare, grondare. In entrambi i casi l’origine semantica affonda le sue radici nell’indoeuropeo √man: una forza contagiosa di difficile controllo. Per Per questa ragione, si tratta di una passione pass ione e di una figura logico-politica all’insegna dell’ékstasis , cioè della fuoriuscita di sé (ivi, p. 56). L’identità del melanconico è un’identità qualunque: è singolare (il melanconico è loquace e non un’altra cosa; taciturno e non altro), ma non fedele a una identità precostituita o a un concetto universale sotto il quale ricadere. Quello melanconico è un temperamento paradossale: è il temperamento di chi cambia temperamento, indica il percorso formativo del temperamento in quanto tale, è il temperamento qualunque esso sia. In questo movimento formativo, ogni temperamento si genera attraverso un movimento estatico. Attraverso questa fuoriuscita (il delirio di Aiace, l’isolamento di Bellerofonte, l’ispirazione poetica di Maraco di Siracusa) si forma un éthos specifico. La melanconia è, per questo, passione indifferente: non padrona del suo essere e precedente le singole determinazioni. La melanconia è passione del singolare comune: come un volto, è priva di un’identità perché legata alla totalità completa complet a delle possibilità. La melanconia è, infine, passione della prassi: contiene un’azione maniacale in grado di generare sé stessa senza per questo essere in grado di cogliere in anticipo il proprio senso. Per ragioni simili, anche se non identiche, a quelle che legano la melanconia alla singolarità pura del quodlibet , la figura artistica più calzante per l’umor nero non è il genio, come vorrebbe la tradizione, ma quella del performer. Si tratta di un personaggio che incarna l’anonimia propria della melanconia: a differenza dell’opera del genio, sottolinea Silvia Vizzardelli 110
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
(2010, p. 161), la performance vive della relazione tra artista e pubblico. Non è l’autore ma il processo trasformativo cui dà vita la performance a essere protagonista del processo innovativo. A differenza dell’atteggiamento contemplativo di chi si pone di fronte a un quadro, almeno a un quadro dipinto secondo una concezione tradizionale della pittura, il pubblico di una performance non solo assiste ma partecipa al processo creativo, ne costituisce parte integrante. Il performer propizia la nascita di una situazione, di un evento, del quale non ha né può avere il controllo: condivide con il melanconico il tratto etico, già sottolineato da Aristotele, dell’incontinenza (§ 3). La passione della bile nera, così come il propiziatore di una performance, vive la mancanza di controllo delle conseguenze dei propri atti non come un’appendice imperfetta e malevola, ma come lo spazio di manovra per la costruzione di un diverso stato di cose. In entrambi i casi emerge una forma innovativa che non ha la pretesa di generare dal nulla. Il performer «deve saper fare qualcosa di quello che ha già a disposizione» (ivi, p. 163. Il corsivo è nel testo); il melanconico non crea contemplando dio o resistendo ai demoni, ma è costretto all’innovazione poiché si trova, spesso suo malgrado, in una situazione al limite delle proprie possibilità. Il performer e il melanconico mostrano, per questo, il loro grado di prossimità per mezzo di un parente comune, l’atleta. Come abbiamo visto in precedenza (cap. III, § 5), secondo Hannah Arendt il mondo contemporaneo dopo aver neutralizzato la sfera della prassi umana le avrebbe concesso uno spiraglio piccolo e specializzato. Solo la ricerca scientifica avrebbe ancora accesso a quel serbatoio di potenzialità innovative in grado di modificare la vita degli umani: la scienza e le sue scoperte sarebbero il residuo di questo processo di riduzione. Performer e melanconico suggeriscono che esiste almeno un secondo ambito residuale nel quale sopravvive il carattere innovativo dei sapiens , seppur confinato in una riserva di animali in via di estinzione. Il fascino esercitato dalla prestazione sportiva è legato alla nozione di record: la possibilità di arrivare lì dove nessun altro è giunto prima, la sensazione che la storia Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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possa ancora essere rappresentata secondo una linea progressiva nella quale chi viene dopo supera colui che lo ha preceduto. È chiaro: si tratta di una caricatura dell’agire umano legata a miti come quello dell’andamento progressivo e della storia come miglioramento (per una critica efficace e appassionante: Gould, 1996). Pur essendo sbiadita e distorta, è comunque una traccia del carattere pratico dell’agire umano che nel performer e nella melanconia trova più completa espressione (non a caso nei Problemi XXX ne troviamo traccia nel paragrafo 11). Melanconica e performativa è l’esperienza del limite della nostra capacità d’azione mentre l’azione si compie. Non è un’esperienza preventiva e rassegnata, quanto il tentativo di superamento di una difficoltà le cui fattezze non sono del tutto note. Qui giace la caricatura sportiva: l’atleta è di fronte all’asticella posta a due metri e quaranta d’altezza e vuole provare a superarla con un salto. Il limite è ben preciso, posizionato a una altezza già misurata e prestabilita. Performer e melanconico, invece, hanno a che fare con un limite che è tale perché le sue fattezze sono ancora ignote. Sarebbe un peccato considerare l’incertezza del performer e gli esiti altalenanti di Aiace come prerogative esclusive dell’artista o del mito eroico. Ogni azione umana è potenzialmente una sliding door : un bivio che conduce verso lidi imprevisti. L’azione sportiva diventa un’immagine più fedele di questo movimento, melanconico e performativo, dell’azione umana quando mette in crisi le regole che lo strutturano. In uno dei suoi documentari più riusciti ( La grande estasi dell’intagliatore Steiner ), Werner Herzog descrive la storia di Walter Steiner, vincitore della medaglia d’oro nel 1972 e nel 1979 nel salto in lungo con gli sci. La peculiarità del personaggio non risiede in un record successivamente battuto più volte. L’interesse risiede nel carattere inaspettato del salto, cioè nelle conseguenze impreviste che questo produce. Il salto, infatti, fu così lungo che rischiò di mettere sotto scacco l’intera vita economica dello sport: costrinse a estendere la lunghezza di molte delle piste per evitare che il saltatore potesse atterrare sugli spettatori. Saltando, Steiner ha modificato le regole stesse del salto. L’autore 112
3. Al di là della tristezza: melanconia e azione innovativa
dell’azione si trova a fare i conti con conseguenze impreviste anche per lui, supera un limite (in questo caso l’estensione della pista) che si è dimostrato esser tale solo dopo il salto. Per questa ragione Walter Steiner può costituire un ottimo esempio di performer melanconico: è alle prese con un conflitto normativo che non precede ma segue le sue azioni; infrange la regola non per seguire il gusto adolescenziale (e subalterno, almeno per chi non abbia quell’età) della trasgressione, ma perché esplora aree dell’esperienza ancora non a fuoco né alla collettività cui appartiene, né a sé stesso.
Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
§ 1 L’altro limite del linguaggio: oltre meraviglia e tautologia «Allora che ti meravigli…» Gianna Nannini, Io
In uno dei suoi testi più noti, la Conferenza sull’etica , Ludwig Wittgenstein propone l’accostamento tra una figura logica, la tautologia, e due stati d’animo, la meraviglia e la sicurezza. Se ci spingiamo fino ai limiti del linguaggio e decidiamo di arrischiarci nel terreno paludoso in cui le parole tendono a perdere senso, scopriamo che le affermazioni etiche o religiose sono simili a espressioni del tutto quotidiane, all’apparenza meno impegnative. Wittgenstein propone due esempi in grado di mostrare le caratteristiche logico-linguistiche di affermazioni del genere: la meraviglia per l’esistenza del mondo (“quanto è straordinario che qualcosa esista”: CE, p. 13) e la sensazione di sentirsi assolutamente al sicuro (“sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada”: ibidem). Si tratta di versioni della meraviglia e della sicurezza che potremmo chiamare, impiegando un’espressione assente nel testo, “superlative”. Esse differiscono dai loro equivalenti ordinari per un aspetto: mentre se dico “mi meraviglio che oggi tu abbia indossato quella cravatta a righe”, ciò avviene perché mi sono immagi Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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nato che avresti potuto sceglierne un’altra (a tinta unita, ad esempio), quando affermo che mi meraviglio dell’esistenza del mondo non sono in grado di immaginare cosa accadrebbe se tutto quello che oggi esiste non ci fosse più. Wittgenstein si sofferma su due caratteristiche di espressioni del tutto ordinarie la cui struttura è la stessa delle affermazioni etiche o religiose. La prima l’abbiamo intravista. Frasi del genere sono il prodotto di un “cattivo uso della lingua” ( ivi , p. 13): l’indizio principale della loro mancanza di senso è dato dal fatto che mettono sotto scacco l’immaginazione. Come immaginare qualcosa di completamente altro rispetto a ciò che conosciamo? La seconda caratteristica riguarda la loro struttura liminare, sostanzialmente vuota, che fa assomigliare questo tipo di asserzioni a “una tautologia” ( ivi , p. 14). L’accostamento non è casuale. Secondo il ractatus , del quale la Conferenza sull’etica è la ripresa e il continuamento, la tautologia costituisce il limite interno del linguaggio, è l’“insostanziale centro” delle proposizioni (, 5.143). La tautologia (la proposizione A=A, ma anche “quanto è azzurro questo azzurro!” o, per l’appunto, “mi meraviglio che esista il mondo”) indica il centro del linguaggio, il suo cuore pulsante. Proprio per questo, ogni tautologia è una forma linguistica che riveste per il linguaggio un’importanza simile a quella che assume il tubo per lo scorrimento dei liquidi: una struttura portante e, contemporaneamente, vuota. L’accostamento (del quale Wittgenstein per primo, occorre dirlo, non è soddisfatto) è efficace ma parziale. Il ractatus specifica che esiste una seconda figura logica, la contraddizione, in grado di delineare i limiti del linguaggio: “tautologia e contraddizione sono i casi limite del nesso segnico, ossia della sua dissoluzione” (, 4.466). La contraddizione incarna i margini esterni del linguaggio, il suo “limite esteriore” (, 5.143). L’assenza di questa figura logica nella Conferenza sull’etica è eclatante: se per un verso le due strutture sono tra loro simmetriche (incarnano il centro e la periferia del linguaggio, il vuoto e il pieno) e dunque citare la prima significa implicitamente accennare alla seconda, per un altro verso i due termini sono tra loro speculari e, dun116
4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
que, a orientamento inverso, rovesciato. 1 Mentre “la tautologia segue da tutte le proposizioni” (, 5.142), la contraddizione segna il punto di origine di ogni affermazione poiché da essa “ogni proposizione” discende (Q, 3.6.1915, p. 194). La tautologia si configura come un mellifluo camminare sul posto; la connotazione vagamente spettrale della contraddizione è dovuta al fatto che questa si propone come una fuga scomposta . Ecco una delle radici della differenza di tono emotivo che le caratterizza e distingue. La prima ha il volto regolare e prevedibile di una scultura manieristica: priva di difetti, può lasciare di stucco nel senso duplice dell’espressione. La frase “quanto è azzurro questo azzurro!” può dar corpo alla meraviglia più assoluta ma anche trasformarsi rapidamente in un parlare vacuo e noioso. Il ractatus cerca di nascondere sotto il tappeto la tensione prodotta dal rapporto di somiglianza e diversità tra le due figure logiche. Wittgenstein afferma perentorio: “Le proposizioni della logica sono tautologie” (, 6.1). Presa alla lettera, l’affermazione innesca un cortocircuito imbarazzante. Poiché le contraddizioni sono proposizioni logiche, anche le contraddizioni dovrebbero essere tautologie, cosa ovviamente contraddittoria (se, dunque, Wittgenstein avesse voluto procedere per provocazioni sarebbe stato forse più corretto dire l’opposto: le proposizioni della logica sono tutte contraddizioni). Negli scritti precedenti, in particolare nei Quaderni , la simmetria speculare e rovesciata tra tautologia e contraddizione è invece esplicita. Wittgenstein si rende conto che il carattere estremo della contraddizione sta nel fatto che questa “dovrebbe anzi dire più di tutte le altre proposizioni” (Q, 11.6.1915, p. 200) e che “se p.~p [P e non P] POESSE esser vera direbbe davvero moltissimo” (Q, 13.6.1915, p. 200. Maiuscolo e corsivo nel testo). Il carattere allusivo della contraddizione è dunque di ordine diverso da quello che anima la tautologia: la contraddizione non è vera ma se lo fosse illuminerebbe la struttura germinale del linguaggio. Questo controfat1 Per un approfondimento del valore antropologico dell’inversione speculare e del suo rapporto con la melanconia: Mazzeo, 2007.
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tuale incarna non solo la debolezza logica ma anche la struttura emotiva di una figura logica che non dipinge semplicemente i tratti di una impossibilità totale (come sottolinea il ractatus : , 4.464) o di uno sbarramento all’azione (la strategia wittgensteiniana nelle opere successive, la contraddizione come muro: cfr. ad es. Z, § 687). La contraddizione porta con sé un’assenza mal digerita, è un colpo senza mira. Se la tautologia è paragonabile al clic, innocente e un po’ stupido, di una pistola scarica, la contraddizione è il frutto di una mira non a punto, è prestazione di un’arma imprecisa che però spara il suo colpo. La tautologia è immobile; anche se in una direzione incerta, la contraddizione si muove poiché mette insieme due cose che insieme non potrebbero stare. Binswanger a tal proposito è chiaro. La follia maniaco-depressiva conduce a guardare il mondo dall’alto, “si trova al di sopra di tutto” (Binswanger, 1933, p. 160) ma questo vissuto estetico non è solo rassicurante o gioioso. Per un verso richiama una “sicurezza” di ordine estetico-religioso (ivi, p. 161), per un altro porta al vissuto labile e precario di chi è preda di continue contraddizioni. Uno dei suoi pazienti predilige proprio la forma dello sparo per indicare il tentativo di incarnare una velocità tale da poter raggiungere due opposti di una scala (ivi, p. 162): Ma tu sei pazzo, eh, tu sei un asino, un bue, un cane stupido – no, no, tu non sei un cane stupido, tu non sei un cane – no, no, tu sei un povero cane, no, no, neppure un povero cane, ma povero sì, tu gufo, tu barbagianni, bum-bum!
A rigor di logica non si tratta (o meglio, non si tratta ancora) di vere e proprie contraddizioni: il soggetto maniacale descritto da Binswanger afferma e nega lo stesso non contemporaneamente , ma in rapida successione , cosa che il principio di per sé non vieta. Questo effetto di contemporaneità è però raggiunto in modo indiretto, cioè dinamico: la fibrillazione è talmente rapida che arriva a produrre l’effetto della simultaneità. Il maniacale è preda di una fibrillazione così violenta che è impossibile dire in quale stato egli si trovi in ogni singolo momento. Il caso riportato è interessante perché fornisce 118
4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
una immagine diversa della contraddizione: non la paralisi del romantico nostalgico per il quale il passato è il presente, non un muro logico come vorrebbe Wittgenstein nella sua produzione più tarda, ma un camminare frenetico e per questo privo di messa a fuoco. A tal proposito lo stesso Aristotele sembra combattuto. Nella sua discussione del principio di contraddizione impiega due immagini. La prima è coerente con l’idea del muro: chi non segue il principio è paragonato a una “pianta” (Mazzeo, 2009) perché impossibilitato ad agire e incapace di parlare. La seconda, invece, è più vicina al caso descritto da Binswanger: il sofista se volesse sguazzare nelle contraddizioni dovrebbe fare e disfare contemporaneamente, dovrebbe cadere in un pozzo e credere allo stesso tempo che sia una cosa buona e una cosa non buona cadere in un precipizio ( Met . IV, 1008b 15-16). Quest’ultima non è la descrizione del sofista ma del volto maniacale della nostra esperienza e della sua incontinenza etica (cap. III, § 3): lanciarsi nel vuoto credendo e non credendo che sia una buona cosa. Non ho il tempo di ponderare la scelta che l’azione già mi ha preso la mano, il piede è già impegnato a saltare il precipizio. Paradossalmente, questo aspetto della contraddizione melanconica è colto più dalle prime rappresentazioni teologiche della accidia che da tanta letteratura successiva circa la passione una volta legata alla bile nera. Per Evagrio Pontico, ad esempio, l’immagine della pianta non suggerisce la paralisi legata alla tristezza o alla depressione accidiosa, quanto la forza di chi riesce a resistere a questa tentazione. L’accidia non corrisponde alla paralisi vegetale, quanto al “vento di Borea che nutre i germogli” (Otto mali , p. 55). Evagrio getta le basi per un altro tipo di analogia tra melanconico e accidioso, che purtroppo in seguito avrà poca fortuna: entrambi assomigliano a un corpo oscillatorio, alla rapida azione del vento che è qui e in nessun luogo. Nella sua conferenza, invece, Wittgenstein si concentra solo su stati d’animo piacevoli e quieti: la sensazione di chi si meraviglia guardando l’azzurro del cielo (CE, p. 14), la sensazione di sicurezza di chi ha ormai scampato il pericolo ( ibidem). L’unico momento inquietante in grado di increspare il tono emotivo della conferenza è quando si ipotizza che improvvisamente a qualcuno in sala cresca “una testa di leone” ( ivi , p. 16). Anche in questo caso l’emergenza Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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rientra: si tratterebbe, secondo Wittgenstein, di qualcosa che susciterebbe “sorpresa” (e non terrore!) tanto che l’esempio prosegue con l’arrivo rassicurante di un dottore. Nel testo c’è qualcosa di edulcorato e immobile che segnala una doppia mancanza: logica (la simmetria speculare tra tautologia e contraddizione) ed emotiva (l’assenza di un correlato inquieto a meraviglia e sicurezza). È possibile sopperire a questa mancanza attraverso un’indagine che si concentri sull’analisi del corrispettivo emotivo della contraddizione. Esiste la concreta possibilità che questo caso non costituisca il semplice doppio, magari più pericoloso e instabile, del primo ma rappresenti un punto di vista diverso, forse addirittura più estremo, sui limiti del linguaggio. Propongo come candidato la melanconia. Per un verso la melanconia è lo stato d’animo contraddittorio per eccellenza: lo abbiamo visto, è mania e blocco dell’azione, eccesso e difetto di azione, linguaggio, emozione. Per un altro, la melanconia offre il vantaggio di sollecitare direttamente l’immaginazione. Se tautologia, meraviglia e sicurezza mettono l’immaginazione in una situazione di stallo, la melanconia sfodera la potenziale produttività dei suoi eccessi. Per capirlo dovremo tornare, per un’ultima volta, alla melanconia greca e ai suoi luoghi di origine.
§ 2 Una vita priva di misura: oltre la tautologia «…e la mente saggia tenerla lontana dagli uomini che vanno oltre misura [ perissón]». Euripide, Baccanti , vv. 428-429
A colpire della descrizione aristotelica nei Problemi XXX è la variabilità del comportamento melanconico. re coppie di aggettivi antinomici ne forniscono il ritratto: il melanconico è "lussurioso" (Probl . XXX, 953 b 33) e "intorpidito"; ( ivi , 954 a 23), "taciturno" ( ivi , 953 b 13) e "ciarliero" ( ivi , 954 a 34); 120
4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
"sciocco" (ivi , 954 a 31) e "geniale" ( ivi , 954 a 32). Basta leggere qualche riga del testo per rendersi conto che, nell'accezione originaria, la melanconia non indica quel che oggi chiameremmo un'indole depressiva ma ha un significato più ampio. Esprime "un'ambivalenza termodinamica" (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964, p. 39): gli alti e bassi della variabilità di una sostanza che, riscaldata o raffreddata, produce comportamenti opposti. Nel testo è proposto in modo quasi ossessivo il parallelismo tra bile nera e vino, fluidi che rivelano la variabilità del comportamento umano (cap. III, § 6). Il melanconico è simile a un ubriaco perché, come chi ha bevuto troppo, manifesta un comportamento imprevedibile che rovescia abitudini e previsioni: il mite diventa aggressivo, il forte mostra la propria debolezza. La coppia depressione-mania, che oggi trova il suo sunto psichiatrico nella cosiddetta "sindrome bipolare", qui emerge con fattezze diverse. È proprio Aristotele il primo a svincolare questo stato d'animo da una concezione puramente patologica: la bile nera fornisce la descrizione primigenia della natura umana. Il melanconico non è semplicemente colui che, afflitto, guarda l'orizzonte disarmato (come sarà nelle rappresentazioni cinquecentesche di Dürer o Cranach: ci torno nell’appendice) ma colpisce chi è preda di un moto oscillatorio. Labile e incostante, ogni equilibrio scompare tra euforia e abbattimento, azione forsennata e paralisi abulica. La fenomenologia dell'ebbro melanconico fornisce la grammatica della pulsione: questa, senza gli argini dell'istinto, è ostaggio dell'incostanza dello stato d'animo e della forza impetuosa di una costituzione psichica “squilibrata” (Probl . XXX, 954 b 27). L'accostamento con chi eccede nell'uso di vino rivela una caratteristica tanto del melanconico che della nostra natura: la perdita di individuazione prodotta dai guizzi della bile nera e dall'alcool si lega alla necessità di “imbottirsi di sostanze estranee per colmare il proprio vuoto” (Starobinsky, 1963, p. 12). La psiche melanconica tradisce la necessità di sostegni esterni, di forme di appoggio e completamento. Non a caso, in un altro testo, Aristotele l'accosta alla giovinezza (Eth. Nic., 7, 1154 b 10-15): lo squilibrio Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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di comportamento fa tutt'uno con le necessità di cure di un animale neotenico, caratterizzato da un’infanzia cronica, da una ontogenesi che, rispetto a quella delle altre forme di vita, è priva di pause. Le tre coppie di aggettivi indicano un’instabilità che riguarda, non a caso, ogni sfera della vita umana: quella pulsionale (il melanconico è intorpidito e lussurioso), cognitiva (sciocco e geniale) e linguistica (taciturno e ciarliero). Come accennato (cap. I, § 3), i Problemi XXX impiegano un termine specifico per indicare la condizione melanconica: chi ne è affetto è perittós , aggettivo greco dallo spettro semantico unitario seppur relativamente ampio. Il termine significa “che passa la misura, eccessivo, ridondante, dispari, eccellente, singolare, ricercato, sovraccarico”, accezioni rintracciabili anche all’interno dell’opera aristotelica (Carbone, 2011, pp. 72-73). È possibile che l’impiego dell’aggettivo perittós da parte di Aristotele riecheggi, modificandola, un’idea già presente in Ippocrate. Nell’opera Sulla natura dell’uomo ( perí fusios , § XV), si distinguono i diversi tipi di febbre causati dalla bile: la febbre continua, quotidiana, terziana e quartana. L’ultima è la più pericolosa perché, ostinata, si ripresenta ciclicamente. Inutile dire che è causata dalla bile nera melanconica (ivi, XV, 21-27): Le quartane sono simili in linea generale alle terziane, ma si protraggono più a lungo di queste […]. A causa della bile nera alle febbri si aggiunge questo carattere smisurato [ perisson] e di cui è difficile liberarsi [ dusapállakton].
Comunque sia, la costruzione del termine consiste nella lessicalizzazione di una forma grammaticale. Come in greco antico epissa vuol dire “figlia minore” perché allude al successivo (epí ) per eccellenza, perittós è la forma aggettivale di una preposizione grammaticale, perí : “intorno”, ma anche “al di là, attraverso, molto”. La melanconia aristotelica incarna innanzitutto il regno dell’approssimazione: il mondo di chi stenta a cogliere il bersaglio, di chi si accosta, per eccesso o per difetto, alla soluzione. La parola incarna sia l’eccesso che l’approssima122
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zione, in entrambi i casi indica lo scacco della misurazione . La melanconia è il corrispettivo emotivo di un movimento oscillatorio: è la sindrome che evidenzia il volto anómalos del comportamento umano, cioè diverso da sé stesso (cap. I, § 3). È la bile nera che forma il carattere (l’éthos : ivi , 955 a 34), afferma esplicitamente Aristotele. L’aspetto interessante dell’immagine, ripresa dalla medicina ippocratica ma che avrà diffusione fino all’inizio del XVII secolo (Foucault, 1972, p. 232), è che l’incostanza del flusso svolge un ruolo doppio. La tradizione successiva spesso insisterà solo sul carattere estremo del melanconico (nel bene o nel male, accentuandone gli aspetti geniali o patologici). Per un verso, l’incostanza è la regola: è la diversa consistenza a “formare la psiche determinando l’appartenenza categoriale di ciascuno di noi” ( Probl . XXX, 955 a 32-33); per un altro è una caratteristica della bile nera particolarmente accentuata nei melanconici. Chi è affetto da melanconia rappresenta per la specie una vera e propria “iperbole” ( uperbolén: ivi , 955 a 39), la sovrabbondanza pulsionale dell’organizzazione corporea della specie. Alcune traduzioni italiane dei Problemi non aiutano a far luce su un aspetto, peraltro fondamentale, della questione poiché risentono della vulgata che si limita a sottolineare la presunta eccezionalità del melanconico. Angelino e Salvaneschi, ad esempio, intitolano il testo La “melanconia” dell’uomo di genio dando per scontato che perittós significhi semplicemente “straordinario”. Peccato però che siano proprio loro a tradurre l’aggettivo con il termine opposto (l’italiano “mediocre”) in un passo peraltro decisivo da un punto di vista teorico (ivi , 954 b 21-26): Come, infatti, si è diversi non per l’avere un volto ma per avere un determinato volto [ eidos ], bello gli uni, brutto gli altri, altri ancora mediocre [ perittón] – sono questi i moderati [ mesoi ] per natura – così anche coloro che poco partecipano di un siffatto temperamento [quello melanconico] sono moderati, quelli che ne partecipano in dose elevata sono diversi dai più.
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Il significato di perittós rischia di essere sfuggente, e con esso la melanconia, per almeno tre ragioni. Aristotele paragona le oscillazioni della bile nera, la termodinamica della malinconia, all’eidos (abbiamo sfiorato questo punto già nel cap. III, § 6). Il termine non significa semplicemente “volto” (come suggerisce la traduzione) ma indica, almeno nella principale delle sue accezioni, una coppia metonimica: vuol dire sia “aspetto” che “bell’aspetto”, è “forma” ma anche “formosità”. L’ eidos è per l’aspetto quel che perittós è per la misura: indica una scala valutativa e, contemporaneamente, uno dei termini della scala (il “bello”, il “misurato”). Pensiamo all’espressione “quel ragazzo ha un viso espressivo”. In questo caso l’aggettivo “espressivo” ha un valore duplice. Significa che quel viso ha espressioni diverse, sia belle che brutte, in grado di rendere il viso bello o brutto. Significa anche, però, che quel viso è in grado di assumere espressioni molto diverse tra loro. Già per questo e aldilà della gradevolezza delle singole espressioni, quel viso ha una sua bellezza. Il paragone con l’eidos permette di mettere in chiaro un’altra caratteristica del perittós . Secondo la concezione classica della bellezza, il bello coincide con l’armonia proporzionata delle forme. La bellezza è una forma media che supera gli eccessi grazie al proprio equilibrio. Allo stesso modo, perittós indica contemporaneamente due estremi di una gradazione oppositiva: si riferisce sia all’eccesso che alla medietà. La faccenda è resa complessa dal fatto che uno dei suoi estremi, la moderatezza, è per definizione quel che è nel mezzo. L’opposizione indicata dal termine, dunque, corre sul filo di una peripezia logico-pulsionale. Il termine che si oppone per struttura logica (e non semplicemente per contrasto, in un modo che oggi potremmo definire reattivo: dati due termini A e B, se tu scegli A io prendo B) a una estremità non è l’altra estremità (di un segmento, ad esempio) ma il punto mediano (se tra A e B tu scegli A, io non prendo B ma C):
A perittós 124
B perittós 4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
C
Il carattere contemporaneamente estremo e mediano del perittós mostra le qualità, altrettanto paradossali, di un terzo aspetto che riguarda una questione più generale, propria della misurazione ma non della valutazione dell’aspetto. Il parallelo tra i due casi, forma estetica e misura, si interrompe nel momento in cui analizziamo il carattere potenzialmente autoriflessivo dei due termini. In entrambi i casi abbiamo a che fare con una scala graduata. Mentre, però, nel primo i due estremi sono costituiti da termini che si riferiscono all’aspetto (bello, brutto), nel secondo gli estremi riguardano la misurazione, cioè l’attività stessa del costruire scale graduate . È proprio grazie al carattere non reattivo del perittós che è possibile non irrigidire l’esperienza tra due semplici estremi (A contro B; l’etologo direbbe attacco contro fuga) ma articolare il loro rapporto in una infinità di gradi intermedi. Si immagini la presenza di due punti isolati, A e B. Il carattere (anche) mediano del perittós è proprio quel che consente la formazione del segmento che, contemporaneamente, li congiunge e distanzia. Il perittós esprime il carattere antropologico del paradosso di Zenone non per sposarne la paradossalità ma per indicarne il fondamento logico-pulsionale: 1)
A *
B *
2)
A *
* C
B *
(perittós) 3)
A B C * * * * * D E
n)
e così via fino alla costruzione del segmento AB
(perittós) (perittós) Questa terza dimensione del problema mostra il rilievo antropologico del perittós malinconico poiché chiama in causa il rapporto tra animali umani e misurazione. È proprio perché nascono senza misura che i sapiens possono misurare, così come proprio perché nasce senza un sistema di comunicazione Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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preformato che l’umano può parlare. Il perittós , da tradurre dunque non tanto con “eccezionale” quanto con “smisurato”, “smodato” o anche “approssimativo”, “impreciso”, è quel che costituisce la condizione di possibilità della misura. Gli altri animali non hanno bisogno di crearsi unità di misura perché, tendenzialmente, le hanno: già hanno i loro meccanismi di controllo per orientarsi nello spazio, emettere suoni comunicativi o ingerire la giusta quantità di cibo. Gli umani sono esseri misurativi perché non nascono con unità di misura predefinite: proprio per questo sono a rischio di eccesso o difetto. Il motto protagoreo “l’uomo è misura di tutte le cose”, citato polemicamente più volte da Aristotele, banalizza un tratto decisivo della specie dandone un’accezione relativista. L’espressione va intesa in termini più radicali: non in modo soggettivo (quale singolo uomo: ognuno la vede come gli pare) ma comune (l’umano in quanto tale deve dare misure: Cardona, 1985, p. 44). Protagora scambia la molteplicità dei sistemi di misura (pollici e metri, once e grammi) con l’unità di una potenzialità di fondo, cioè di un invariante biologico, la capacità-bisogno di costruire sistemi metrici. Come dire che occorre tenere bene a mente un dato di partenza: siamo animali approssimativi. Per questa ragione, il perittós è il fondamento della scala di misurazione, delle sue estremità e dei suoi gradi intermedi. La sregolatezza della bile nera, la sua anomalia, è il luogo di origine della regolarità; la sua mancanza di misura è la condizione di possibilità dell’organizzazione misurativa di una forma di vita che non nasce con un gran numero di cliché metrici (oggi li chiameremmo istinti) già pronti. Attenzione, però. L’aggettivo è il motore drammatico del testo aristotelico perché la messa a punto di un sistema di misura non risolve una volta per tutte il problema della smodatezza. Il perittós ha a che fare con la melanconia perché allude non solo all’estremo e alla medietà della misurazione, ma anche alla misurazione di quel che misura non può trovare. La melanconia è “anomala”, cioè incostante e irregolare, perché rivela la continua possibilità dell’umano di essere diverso da quello che è, di trasformarsi. Se si vuole, è 126
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luogo di origine di due figure complementari: lo Zelig di Woody Allen che cambia sempre identità al fine di mimetizzarsi nel tessuto sociale; Jacques l'Aumône, il protagonista di Suburbio e fuga di Raymond Queneau, che immagina di fare qualunque mestiere per assaporare ogni lato della vita umana e costruire una identità sempre più individuata (“eccezionale” nel senso di “individuato”, “eccentrico”, “ricercato”). Lo stato d’animo che meglio incarna il perittós , la melanconia, non può dunque che ripercorrerne le alterne vicende. È uno stato emotivo che rischia un continuo sfasamento rispetto a sé stesso producendo una vertigine prossima a quella prodotta dalla contraddizione. Sono paralizzato e maniacale, ebbro e lucido, loquace e muto: emerge «una specie di dialettica delle qualità che […] cammina attraverso rovesciamenti e contraddizioni» (Foucault, 1972, p. 233). Nel caso in cui le oscillazioni giungono al culmine, questi stadi giungono a una indeterminatezza del comportamento prossima a quella prodotta dalla sospensione di ciò che il libro Gamma della Metafisica chiama principio di contraddizione. Da questo punto di vista la storia, labirintica e polimorfa, del concetto di melanconia indica due crocevia antropologici in grado di suggerire perché la melanconia sia un candidato in grado di riempire quel vuoto, logico ed emotivo, segnalato nella Conferenza sull’etica di Wittgenstein. La melanconia è il correlato pulsionale della contraddizione perché quest’ultima ne descrive sia la struttura che la causa scatenante. Per un verso, si tratta di uno stato d'animo contraddittorio per sintomo e forma. Dal medioevo fino all'Ottocento, melanconia sarà sinonimo di licantropia e cannibalismo, vampirismo e di ogni stato al confine tra l'umano e l'animale (lo stesso Aristotele l'accosta alla "malattia sacra", cioè all'epilessia: Probl . XXX, 953 a 10; 953 b 6). L'instabilità dei sapiens trova le forme più diverse in figure di confine che segnalano la precarietà di una identità sempre pronta a mescolanze improprie, a ritorni di fiamma di un disordine del quale la bile nera è il simbolo psichico. Per un altro verso, la melanconia è lo stato d'animo suscitato dalla contraddizione . È un pastore anglicano che Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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all'inizio del Seicento riesce a mettere a fuoco con particolare chiarezza questo aspetto, sotterraneo ma onnipresente, del tono emotivo dominato dalla bile nera. In Anatomia della melanconia , Robert Burton (1577-1640) estremizza un'idea già espressa da Ippocrate e dalla sua scuola: il saggio si trova in una condizione simile a quella del melanconico perché prende atto dei contrasti e delle contraddizioni che attraversano il mondo. Ne ride amaramente, prendendone distanza. L'attenzione di Burton si concentra su Democrito, il filosofo incontrato da Ippocrate in uno dei suoi viaggi e definito dal medico greco simile a chi è colpito dalla bile nera (cit. in Starobinsky, 1994, p. 24): Senza dubbio capita sovente che coloro che sono tormentati dalla bile nera facciano altrettanto: essi sono talvolta taciturni, solitari e ricercano i luoghi deserti; sfuggono la compagnia degli uomini [...].
La variabilità pulsionale non costituisce solo il fondamento biologico della melanconia, come sembra suggerire Aristotele, ma anche il suo oggetto di riflessione, il motivo concreto e contingente della sua esplosione. La variabilità comportamentale umana è la causa scatenante della melanconia non solo perché ne rappresenta il motore pulsionale ma anche perché ne costituisce l'innesco. Il mondo è "pieno di ridicole contraddizioni" (Burton, 1621, p. 88) perché gli uomini, grazie alla loro variabilità, sono simili a camaleonti (si pensi a Zelig o a Jacques l'Aumône): ognuno di noi può recitare "venti parti e personaggi contemporaneamente per il proprio vantaggio", può essere "buono con i buoni, cattivo con i cattivi, poiché ha innumerevoli facce, aspetti, carattere, uno per ogni persona che incontra" (ivi , p. 105). Allo stesso tempo, l'eccessiva mutevolezza di opinione e comportamento può tramutarsi anche nel suo opposto, nell'ottusità di chi non vuole cambiare idea. Sulla variabilità dell'animo umano l'esercizio retorico ha una presa priva di garanzie (nei Problemi XXX lalòs , “ciarliero”, si oppone esplicitamente a retorikós : Probl , 953 b 1-2): non solo la 128
4. Ai limiti del linguaggio: una passione priva di misura
parola dell'altro può portarlo all'errore, ma può non riuscire a convincerlo della verità. Poiché non esiste un tribunale ultimo, nessuno può essere inchiodato dall'evidenza dei fatti (Burton, 1621, p. 113). Burton non punta il dito solo sulle ingiustizie delle società umane ma anche sulle difficoltà a debellarle. Il titolo dell'opera allude esplicitamente a un processo di scomposizione: anche se si procede a un'anatomia dei fatti e li si suddivide in porzioni più piccole non è possibile arrivare a elementi primi, ad atomi indiscutibili di pura evidenza. Democrito, con il suo sorriso amaro, ride del suo stesso atomismo poiché trovare fatti elementari (gli stessi auspicati dall'autore del ractatus ) non è così facile. 2 Protagora ha torto quando pensa che tutti debbano essere come lui, il perittós malinconico dà ragione a Protagora (“l’uomo è misura di tutte le cose”: questo vale per tutti gli umani ed ecco uno dei suoi invarianti biologici) e così facendo ne elimina il relativismo: lo supera spiegandone il senso antropologico comune.
§ 3 Il sublime e lo smisurato: oltre la meraviglia «Ma allora non si potrebbe dire che tra proposizioni della logica e proposizioni empiriche non c’è nessun limite preciso? L’imprecisione è appunto quella del limite tra regola e proposizione empirica». Wittgenstein, Della certezza , § 319 (Corsivo nel testo)
La melanconia non è solo motore del problema, l’instabilità pulsionale di una specie, ma può anche indicare una via d'uscita: è qui che uno dei protagonisti della Conferenza sull’etica , 2 È questo uno dei punti di connessione tra melanconia e ironia: Russo Cardona, 2009.
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l’immaginazione, fa il suo ritorno. Come abbiamo visto, l'indagine aristotelica si apre con l'interrogativo: «Perché tutti gli uomini privi di misura [ perittói ], nell'attività filosofica e politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento “melanconico” [...]?» (Probl. XXX, 953 a 10-13). L'eccesso che caratterizza chi è posseduto dalla bile nera può avere due esiti. Il primo vanifica l'azione: la paralizza nella solitudine di chi ride amaramente della vita; la disperde nelle oscillazioni continue di chi cambia sempre idea. Il secondo caratterizza la smodatezza del melanconico facendo emergere possibilità di riscatto. A tal proposito è utile citare un passo dei Parva naturalia , nel quale Aristotele è alle prese con il problema della divinazione del sonno ( Parva Natur., 466a33-b5. La traduzione è mia). I melanconici, grazie alla loro immaginazione, sono capaci di cogliere nel segno [ eustochoi ] a distanza come se tirassero da lontano. A causa della mutevole velocità delle loro sensazioni riescono a immaginare quel che viene dopo [ to echó-menon]; così come i poemi di Filenide, anche chi è colto da mania [emmaneis ] dice e pensa cose che si susseguono per somiglianza [echómena tou omoiou], come l’ Afrodite-frodite , e in questo modo le loro immagini si connettono tra loro susseguendosi l'una all'altra.
Il passo conferma il carattere ambivalente della melanconia. Per un verso i melanconici hanno la capacità di cogliere nel segno grazie alla loro febbrile immaginazione. Per un altro sono emmaneis , soggetti maniacali che grazie alla loro velocità rappresentativa sono capaci di collegamenti semantici arditi. I melanconici sono violenti nel rappresentare, i maniacali veloci e mutevoli; i primi agiscono a distanza (tirano da lontano), i secondi avvicinano tutto grazie alla loro celerità immaginativa. Aristotele mostra la duplicità di uno stato d'animo che comprende in sé sia l’abbattimento della disperazione che la voracità della mania. Nel primo caso, essa segna una cesura e una distanza che solo la forza, sempre a rischio di delirio, 130
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dell’immaginazione può colmare. Nel secondo, organizza un continuo passaggio per successioni. La melanconia è legata alla capacità immaginativa, a quel che Emilio Garroni (2005) chiama «facoltà dell'immagine». Aristotele ribadisce che la bile nera porta a essere eustochos . Il termine, complesso (per un'analisi: Piazza, 2004), allude alla capacità di cogliere il segno, di capire in poco tempo cosa è giusto fare. È capacità vicina all'avvedutezza pratica (la phronesis ) ma anche alla phantasia , alla facoltà immaginativa del senso comune. Proprio perché il melanconico "passa la misura" è in grado di trovare la medietà tra gli elementi contrapposti: l'azione bloccata dal timore dell'errore e la frenesia di chi, cercando di fare tutto, non conclude nulla. L'eccesso, il cruccio del melanconico, trova in una capacità melanconica, l'immaginazione, una via di possibile risoluzione: l’indeterminatezza semantica propria della contraddizione è messa al lavoro per costruire nuove forme di organizzazione di un mondo tanto instabile, una vita eccezionale perché soluzione individuale al problema della specie. Nell’accidia, sia nella versione canonica che nelle accezioni più arcaiche, l’immaginazione è individuata come un pericolo: «L’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre» commenta Evagrio Pontico ( Otto mali , p. 57) «e nella sua mente fantastica [ phantázetai ] sui visitatori». La fantasia è vista come il trasporto malvagio di chi cede alla tentazione e disprezza il creato che va curato per mezzo del lavoro non tanto perché manuale, quanto perché in grado di fissare una «misura» ( metron ) (ivi, pp. 57-58). Wittgenstein non sembra fare diversamente: per un verso la sua opera è un continuo lavorio immaginativo, per un altro verso nei confronti di questa facoltà sono frequenti le parole di dubbio e sospetto (Mazzeo, 2010). Se invece torniamo ad Aristotele, troviamo che per l’immaginazione può dischiudersi uno spazio meno costipato e unilaterale. In un passo dell’Etica Nicomachea (VI, 1141b 3-6), il termine perittós è impiegato in un’accezione che fornisce un indizio tenue ma interessante: Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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Perciò Anassagora e alete, e gli uomini come loro, vengono chiamati sapienti ma non saggi, quando si vede che ignorano ciò che è vantaggioso per loro, e si dice che essi conoscono realtà straordinarie [ perittá ] e meravigliose [ thaumasthá ], difficili [chalepá ] e demoniache [ daimonia ] […].
Il perittós sembra costituire il volto complementare della meraviglia, così come il difficile è il volto altro del demoniaco: è sullo stesso piano logico ma gode di caratteristiche diverse, per certi versi opposte. Potremmo provare a tradurre con qualcosa che fa riferimento a quel che è “smisurato”, un sentimento simile a quel che Kant nella Critica della facoltà di giudizio definisce sublime matematico. Ma si tratta di parentela, non di identità. Nel primo caso abbiamo a che fare con una tensione immaginativa destinata al fallimento poiché ha a che fare con «qualcosa non solo grande, ma grande senz’altro, assolutamente sotto ogni rispetto (oltre ogni comparazione)» (Kant, 1790-99, p. 86). Questa definizione esibisce un’impressionante somiglianza con quelle wittgensteiniane circa le proposizioni dell’etica (Virno, 1994). L’obiettivo cui punta Kant è sottolineare che il sublime non riguarda le cose della natura in quanto tali ma rivela, in modo tanto indiretto quanto potente, una «facoltà dell’animo che supera ogni misura dei sensi» ( ibidem). Per questa ragione il sublime produce contemporaneamente dispiacere e piacere: il primo scaturisce dalla frustrazione dell’immaginazione che non riesce nella valutazione di una simile grandezza; la seconda nasce dall’accordo di questo giudizio di inadeguatezza della sensibilità nei confronti delle idee e comporta il «sentimento di una destinazione soprasensibile» (ivi, p. 94). Nel caso del perittós non c’è alcun rimando al soprasensibile ma la messa in evidenza di uno scarto, uno iato, una mancanza di allineamento che richiama a un cambiamento radicale all’interno del sensibile. È proprio lo scarto a richiamare uno sforzo immaginativo non destinato necessariamente al fallimento, come invece nel caso del sublime. Il perittós richiama quel che è smisurato, non in riferimento a ciò che è assolutamente grande 132
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(il caso che hanno in mente Kant e Wittgenstein) ma a tutto ciò che sfugge alla misura : che non ha un preciso metro di paragone perché imprevisto e nuovo. I due casi possono coincidere (anche l’assolutamente grande sfugge alla misura), ma non necessariamente. L’inverso infatti non è valido: esiste un non misurato non coincidente con la grandezza assoluta, un senza misura che non contiene alcuna contiene alcuna finalità o destinazione . Il meraviglioso lascia attoniti e in atteggiamento contemplativo; lo smisurato trasmette un lascito di crisi e incompletezza che chiama all’azione e al completamento. Il primo finisce col mettere sotto scacco l’immaginazione, il secondo la chiama a nuove forme di produzione, più o meno riuscite. Il meraviglioso mette in evidenza la necessità di un distacco da quel che ho intorno; lo smisurato chiama al superamento della cesura mediante un’immaginazione pratica, indirizzata all’azione. Da questo punto di vista, meraviglia e sublime sono maggiormente intrecciati con la grammatica della sorpresa, come Wittgenstein non manca di notare: mi sorprendo per qualcosa che c he esula dalle mie aspettative. Lo smisurato ha più a che fare con la grammatica della delusione e della speranza: mi aspetto qualcosa e quel che noto è la non coincidenza tra quel che esiste e quel che mi aspettavo. La sorpresa insiste su quel che c’è: quel che c’è ma non mi attendevo. Il perittós insiste sulla mancanza di perit tós insiste corrispondenza, su quel che non c’è e non coincide. Per questo Aristotele Aristo tele si interroga interrog a in un paragrafo parag rafo dei Problemi XXX apparentemente lontano dai temi melanconici «perché l’uomo è l’essere che più di tutti pensa una cosa e ne fa un’altra?» ( Probl . XXX, 956b 33) e poco dopo prosegu p roseguee (ivi, 956b 37-38): 37-3 8): Perché certe persone, pur intelligenti, passano il tempo a conquistarsi delle cose senza poi servirsene? È per un’abitudine? Oppure per il piacere insito nella speranza [ elpidi ]? ]?
Lo iato tra dire e fare, tra fare e fare, tra pensare e accadere esemplifica le varie fratture su cui l’immaginazione melanconica lavora e produce. Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta perduta
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§ 4 Incommensurabilità Incommensurabilità e rivoluzione: contraddizione e melanconia «La contraddizione si potrebbe concepire come l’ammonimento degli Dei che devo agire e non riflettere». Wittgenstein, OFM, III, § 56, p. 171
Per spiegare il rapporto tra linguaggio e mondo, il ractatus si si avvale di un’immagine geometrica: la proposizione «è come un metro apposto alla realtà» (, 2.1512). La tautologia, sottolinea Franco Lo Piparo (2002, p. 102), è strettamente imparentata con la nozione di misura-campione: il modo più secco per rispondere alla domanda “com’è il rosso drago?” è mostrarne un esempio visibile. È quel che, di fatto, accade in ogni negozio di colori o stoffe. La Conferenza sull’etica privilegia privilegia questo tipo di esempi: nell’esclamazione “quanto è azzurro questo azzurro!” ritroviamo il cortocircuito tra campione ed espressione corrispondente: con meraviglia constatiamo un fatto altrimenti normale, quanto il campione campione calzi con il suo modello. L’uguag L’uguaglianza lianza tra l’espressione l’esp ressione “rosso drago” e il colore equivalente assomiglia a un’espressione tautologica, A=A. In entrambi i casi emerge la struttura del mondo, la sua «armatura» (, 4.023). La contraddizione porta in scena uno stato d’animo, la malinconia, che non si concentra sulla stretta connessione tra i due termini, la macchia e il suo nome, quanto sul margine di gioco che sussiste tra loro. Riprendiamo il paragone wittgensteiniano tra linguaggio e geometria. La tautologia, con la sua rassicurante meraviglia, si concentra sulla coincidenza tra il metro e la realtà, la parola e il mondo. Vuoi sapere quanto è grande questa stanza? Nessun problema, prendo il metro e comincio a misurarne i lati per poi calcolare l’area. La contraddizione è matrice della malinconia perché si annida negli interstizi delle pratiche misurative, nelle sue incertezze, nelle sue necessarie approssimazioni. Prendo le misure della mia stanza e, all’improvviso, sono preda di una esitazione. 134
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Quanto devo approssimare per avere una misura che sia precisa? Al centimetro? centi metro? Al millimetro? milli metro? Meno? La L a fettuc f ettuccia cia può mettermette rmi in profondo imbarazzo: prendo la misura e vedo che la fine della stanza non coincide con una delle tacche tac che del mio metro. È lì, a metà, tra un millimetro e un altro. È ovvio: di solito, questo residuo è qualcosa di innocuo, ad esso semplicemente non facciamo caso. Ma peculiare dello stato melanconico è mettere in evidenza la potenziale profondità dello scarto: quella tacca la misura giusta, per uscire dalla trappola indica e non indica la costituita dal limite indecidibile tra due misure devo inventare qualcosa. Casi del genere sono particolarmente significativi. Come frasi all’apparenza semplici del tipo “quanto è azzurro questo azzurro!” tradiscono la struttura interna delle proposizioni etiche e religiose, così le approssimazioni misurative quotidiane ricordano l’eterno agguato di situazioni nelle quali «la regola non mi dice più nulla» (Waismann, 1967, p. 114). La contraddizione non si configura solo come semplice blocco bl occo per l’azione o per il ragionamento ma come spinta a «prendere una decisione, cioè introdurre un’ulteriore regola » (ibidem. Il corsivo è nel testo). “A “A e non A” deve il suo carattere ca rattere inquietante anche al fatto che è una proposizione che spinge all’innovazione e al cambiamento: se la tautologia mostra la struttura del gioco attraverso un processo di congelamento, la contraddizione lo mette non solo in discussione ma di nuovo in moto. La storia della riflessione geometrica è piena di discussioni teoriche all’apparenza banali ma che, al contrario, costituiscono la traduzione teorica di quest’urto non tanto contro il limite quanto contro la sua imprecisione . Aristotele, il padre del principio di non contraddizione, sembra quasi ossessionato da un caso che tormenta la geometria euclidea: perché il lato e la diagonale di un quadrato, figura all’apparenza così ordinata e regolare (quasi tautologica, verrebbe da dire: per i pitagorici il quadrato è simbolo del buono: Met . I, 986 a 26), produce l’impossibilità di calcolare questo rapporto attraverso un numero intero? Come afferma esplicitamente Aristotele, l’incommensurabile produce “meraviglia” ( Met Met , I, 983 a 14), ma si tratta di uno stato d’animo Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta perduta
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diverso da quello cui si riferisce Wittgenstein, perché vicino allo sconcerto di chi si disillude e alla perplessità scettica. È lo stupore inquieto prodotto non dall’accettazione che «ogni cosa è ciò che è e non un’altra cosa», per usare l’espressione di Butler tanto cara a Wittgenstein (Q, 15.10.1916, p. 231; LE, p. 93), quanto da qualcosa che non torna, dallo scollamento tra i nostri strumenti di misurazione e l’articolazione del mondo. L’impossibilità di trovare un’unità di misura: questo è il cardine dello stato emotivo della melanconia e il punto di emergenza della contraddizione (si pensi alla risposta: “ma insomma ti piace? Sì e no”). Negli anni della Conferenza sull’etica (la data precisa non è nota, si aggira tra il 1929 e il 1930), Wittgenstein si concentra su un problema per certi versi simile a quello dell’incommensurabilità della diagonale, discusso non a caso anche da Protagora e Aristotele ( Met . III, 998 a 1-3). Nelle sue discussioni con alcuni membri del Circolo di Vienna, Wittgenstein prende in esame un caso classico della geometria, rispolverato in quegli anni da J. Hjelmslev, studioso di geometria e padre del più noto linguista Louis. La questione riguarda la tangente al cerchio. Come è noto, tangente e cerchio posso incontrarsi sovrapponendosi in un sol punto. Nessuna rappresentazione grafica, però, è in grado di rendere giustizia a questa verità teorica:
Il punto di tangenza tra le due figure si estende inevitabilmente conquistando una zona più ampia, quasi si trattasse di un segmento. Al di là delle profonde differenze di impostazione (Mazzeo, 1999; 2001a), sia Wittgenstein che Hjelmslev prendono questo caso come una sorta di esorcismo, in grado di combattere un timore molto diffuso sia tra i matematici che i filosofi, la contraddizione. Casi del genere testimoniano il fatto che esistono situazioni problematiche (Hjelmslev) o di conflit136
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to grammaticale (Wittgenstein) nelle quali può darsi una terza via (entrambi gli autori utilizzano un’espressione simile a questa: Hjelmslev, 1923, p. 189; Waismann, 1967, p. 94); non riducibile al sì o no, alla struttura binaria del terzo escluso o del principio di non contraddizione (Hjelmslev, 1923, p. 190). È proprio nel proporre questa terza via tra il formalismo di chi considera del tutto insignificante l’organizzazione concreta del linguaggio, dei numeri o di una figura geometrica e chi, invece, cerca di spiegare qualunque forma segnica sempre con un valore referenziale (come “segni di qualcosa ”: Waismann, 1967, p. 94. Il corsivo è nel testo) che Wittgenstein introduce (è una delle prime volte, forse addirittura la prima) la nozione di “gioco”. È nello scarto, nel gioco per l’appunto (si pensi all’accezione meccanica della parola: la chiave che nella toppa “fa gioco”), tra due forme che si incastrano tra loro ma non perfettamente che nascono non solo le angosce dell’approssimazione, ma anche la possibilità di sviluppare nuove pratiche linguistiche. È un tema, quello del cambiamento linguistico e sociale, che Wittgenstein sfiora, lambendolo in modo solo tangenziale. Probabilmente, si tratta di uno dei maggiori punti ciechi della sua impostazione filosofica: non volendo concedere spazio «a tutte le chiacchiere sull’etica» (Waismann, 1967, p. 55), preferisce fermarsi al caso tautologico che constata che , e non come , il mondo è. Come abbiamo visto, nella Conferenza sull’etica Wittgenstein si concentra solo sulla tautologia, su ciò che blocca l’immaginazione impedendole di andare avanti. Produrre l’analogo della meraviglia e concentrarsi su contraddizione e melanconia non significa solo completare l’analisi wittgensteiniana (cosa, di per sé, poco rilevante), ma provare ad aprirla a una riflessione che si concentri sulle possibilità e le modalità d’innovazione delle forme nelle quali si organizza la via umana. La melanconia è rischiosa perché può cadere vittima della forza immaginativa che la anima. Allo stesso tempo, poiché si concentra sullo scarto tra giochi linguistici diversi e differenti forme dell’esperienza (ad esempio, lo spazio grafico-visivo non conforme a quello geometrico) lavora su un «fattore di indeterminatezza» ( ivi , p. 43) che non è semplice Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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attrito, ma l’occasione per un cambiamento del proprio punto di vista. La tautologia si ferma alla constatazione del «mondo come tutto limitato» ( ivi , p. 55); la melanconia, correlato emotivo di contraddizione e immaginazione, ne costituisce il risvolto problematico perché si chiede dove cada questo limite, se si dia sempre una sovrapposizione tra limite del linguaggio e limite del mondo (Mazzeo, 2005). La tautologia è animata da una meraviglia che è un vero e proprio «sentimento mistico» (Waismann, 1967, p. 55): per questo lascia tutto com’è. La contraddizione melanconica è animata e chiamata a confrontarsi con una spinta per Wittgenstein più sospetta, un “bisogno di metafisica” (caro al suo amico/nemico Schopenhauer: Mazzeo, 2001b) potenzialmente produttivo e paradossalmente più materialista perché alla ricerca non solo di una descrizione del mondo ma anche del suo cambiamento. Non fermarsi alla meraviglia ma avventurarsi nei rischi dell’immaginazione malinconica significa questo: sapere che ogni cosa è ciò che è, ma non arrendersi all’idea che non possa esser trasformata in un’altra cosa .
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Il corpo di Aiace: iconografia di una introversione
«Buono è obbedire alla notte». Omero, Iliade , VIII, v. 282
Al valore di Aiace, figlio di elamone re di Salamina, l’ Iliade dedica un intero libro, l’ottavo, nel quale si descrive lo scontro vigoroso, seppur senza vinti né vincitori, con Ettore. Estratto a sorte, Aiace dimostra di essere in grado di ferire e mettere in seria difficoltà il più forte dei combattenti troiani. Il calar della notte e il sopraggiungere di araldi che chiedono di cessare le ostilità interrompono una sfida che lo vede in netto vantaggio. Ettore lo riconosce: «con l’asta sei il primo degli Achei» (Il ., VII, v. 289). I troiani, vedendo il loro condottiero ritornare sano e salvo, esultano perché Ettore è «scampato alla furia [ menos ] d’Aiace, alle sue mani imbattibili [aaptous ]» (ivi, VII, v. 309). I termini con i quali è descritto Aiace sono interessanti poiché provengono da un occhio esterno e per questo più credibile. Nell’ Iliade Aiace è incarnazione del menos , termine che abbiamo già incontrato (cap. II, § 6), prossimo al greco mania e al latino mens : è forza dello spirito che anima il corpo, ciò che rende vivaci pensieri e parole (Chantraine, 1968-80, pp. 659-660). Seppur marginale nel lessico greco, l’aggettivo aaptos è altrettanto interessante: l’etimologia è incerta (ivi, p. 3) ma sembra plausibile l’accostamento con un termine dalla struttura simile ( aeptós ) che significa “indicibile” (ivi, p. 1263). Le mani di Aiace sono così veloci e abili che la loro azione è intangibile (áptomai corrisponde all’italiano toccare, la prima delle alpha iniziali indica una privazione): toccano senza venir toccate. Nel contempo appaiono anche inenarrabili: tanto rapide da non poter essere descritte dalle parole.
Nella tragedia di Sofocle, l’Aiace dell’ Iliade subisce una profonda torsione rispetto alla descrizione omerica. utto quel che soffia a favore e gonfia le vele, comincia a remare contro. Se nella battaglia l’eroe si era fermato per il calare della notte e offrire sacrifici agli dèi, ora il delirio ispiratogli da Atena lo porta a compiere un macello notturno e sfrenato. Nell’Iliade , il tramonto del sole consente la sepoltura dei caduti in battaglia; ora il finale della tragedia si consuma proprio sull’attrito vissuto dalla moglie quando vuole seppellire il corpo di Aiace suicida per la vergogna. Il contrappunto orchestrato da Sofocle organizza una punizione spietata e completa: Aiace è punito per aver mancato di rispetto agli dèi, per questo viene posseduto da Atena e costretto al misfatto. Uccide gli animali del proprio accampamento, convinto si tratti dei propri compagni divenuti, ai suoi occhi, improvvisamente nemici. Riavutosi dall’accesso di furia, Aiace finisce col suicidarsi per il disonore. Leggendo il testo, non sorprende che nel capitolo XXX dei Problemi Aristotele abbia inserito il nome del guerriero greco tra le personalità melanconiche per definizione, tra chi per antonomasia è sopraffatto dalla bile nera. Per mostrarlo ci si può appellare innanzitutto a dettagli significativi: la tragedia si conclude descrivendo il sangue del suicida un melan menos , un “menos nero” (ivi, vv. 141213), una forza maniacale tinta di scuro come la bile che provoca la melanconia. Aiace sconvolge gli astanti perché con il proprio accesso d’ira allucinata improvvisamente si trasforma, modifica il proprio carattere mostrando quella flessibilità umorale tipica, per Aristotele, del melanconico. Aiace «è all’improvviso un altro» afferma il coro (ivi, vv. 715-716) che poi rincara la dose: «è cambiato, altri pensieri al carro d’un carattere nuovo» (ivi, vv. 735-6). Anche secondo Atena, dea nemica, Aiace è il migliore per capacità di scelta del momento opportuno, del kairós (ivi, v. 120). Grazie a lei, come avrebbe diagnosticato Ippocrate con soddisfazione (cap. III, § 2), il figlio di elamone ha perso questa appropriatezza dell’azione. Ma siamo ancora ai dettagli e alle sfumature. re sono i punti d’incastro lessicali che fanno di Aiace una figura melanconica per Aristotele e per una parte 140
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consistente dell’iconografia successiva. La prima è lampante: si tratta di una figura esplicitamente maniacale. È la mania a cogliere il figlio di elamone mentre trucida animali innocenti (ivi, v. 59), Atena lo chiama espressamente in questo modo: è un memenót’andra un essere umano maschile colto dal furoreggiare (ivi, v. 81), cosa riconosciuta anche da ecmessa (la moglie: ivi, v. 216), dal messaggero (ivi, v. 726) e dal coro (ivi, v. 611, 958). La tragedia, inoltre, è pervasa da aggettivi composti che hanno come prefisso il dus che caratterizza il dusthumós di cui parla Aristotele a proposito dei melanconici (cap. III, § 2). La frattura e le difficoltà indicate dal prefisso si ripercuotono su ogni sfumatura della personalità del protagonista: il nome ( dusónumos : dal nome difficile, v. 914), la socievolezza (dustrápelos , difficile da trattare, v. 914), il rapporto con gli dèi ( dussebés , empio, v. 1293), il volto visibile di quel che compie ( dusthéatos , difficile, orribile a vedersi, v. 1004), l’esito dei suoi atti ( dustucheo, avere cattiva fortuna, non riuscire, v. 692), la sorte che gli spetta (dústenos , sventurato, vv. 109, 122, 849, 1290; dúsmoros , dalla sorte infelice, vv. 630, 784, 894, 905, 1203), le possibilità di riscatto futuro ( dustherápeutos , difficile a curarsi, v. 609), le emozioni (dúsphoros , grave, vv. 51, 643; dusmenés , adirato, vv. 122, 987). Una linea di frattura percorre tutta la tragedia di Sofocle e tramite questa crepa si effettua quel ribaltamento trasformativo che mette Aiace alle corde. A tal proposito, altri due termini sono particolarmente significativi, sempre all’insegna del prefisso dus - e delle sue linee di frattura: il primo è dusmenos (vv. 18, 564, 662) il cui significato è politicamente rilevante, poiché di solito traducibile con l’italiano “nemico”. La crepa lungo la quale si frattura l’esistenza di Aiace il melanconico fa sì che continui a trovarsi tra nemici secondo un rovesciamento tanto profondo da far perdere l’orientamento. Le sciagure che incombono su di lui possono essere lette secondo modalità differenti. Per un verso, Atena si scatena contro l’eroe greco perché ha mancato di rispetto agli dèi lamentandosi di non aver ricevuto le armi del defunto Achille. Per un altro, la tragedia lascia margine a una interpretazione differente: è possibile che la sor Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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te di Aiace sia stata determinata viceversa proprio da quel che avuto. Nell’episodio descritto nel settimo capitolo dell’ Iliade , Aiace ed Ettore si salutano scambiandosi doni. Il primo regala una fascia color porpora, il secondo una spada con borchie d’argento (Il ., VII, vv. 303-305). Sono le armi di Ettore, non quelle di Achille, a scatenare l’inferno dell’invidia suscitata da Aiace. Secondo questa linea di lettura, che serpeggia tra i versi di Sofocle senza mai affermarsi, il rovesciamento maniacale riguarda proprio la coppia amico/nemico. Certo, quando perde la testa Aiace tenta di uccidere i propri compagni come fossero nemici. Ma per un altro verso, quelli sono per lui davvero nemici poiché gli invidiano un dono datogli da colui che, lui sì davvero, dovrebbe essere e rimanere suo avversario, il troiano Ettore. La constatazione di Sofocle sulla natura degli umani è amara, ma non per questo priva di lucidità ( Aiace , vv. 758-759. La traduzione è mia): Squilibrati [ perissá ], corpi che non comprendono, precipitano sotto i duri insuccessi [ duspraxíais ] venuti dagli dèi.
A fianco della frattura che segna la prassi, non sorprende che compaia un altro dei quattro aggettivi protagonisti del Problema XXX di Aristotele. Oltre a confermare che il termine perittós non ha come accezione principale quella di “eccellenza” (come vorrebbe il ritornello del melanconico matto ma geniale: cap. IV), la citazione sottolinea la presenza esplicita nella figura di Aiace del tema melanconico dello squilibrio. Azione, frattura e mancanza di equilibrio rappresentano le chiavi per comprendere la metamorfosi di Aiace nel passaggio dall’epica alla tragedia. La torsione subìta da Aiace sarà al centro dello sviluppo iconografico di una figura che avrà una certa fortuna rappresentativa nell’arte occidentale, sia antica che successiva. Il tema del suicidio costituirà la testa di ponte per far entrare in un’iconografia prima concentrata sull’azione maniacale i temi dell’abbattimento e della depressione. Procediamo con ordine. Seppur in chiave suicidaria, nell’Aiace di Sofocle perma142
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ne quel che successivamente sarà rimosso e occultato. Il volto maniacale e attivo del suo comportamento è ancora evidente: il trionfo, il salto e la danza, temi che abbiamo visto essere spesso considerati tipicamente maniacali (cap. III), compaiono tutti nella tragedia: è con balzi quasi animali che Aiace compie la strage ( Aiace , v. 300 e sgg.); l’invito alla danza è offerto dal coro quando sembra che il guerriero greco abbia rinunciato ai propositi di morte (ivi, v. 693 e sgg.). Il tema del trionfo, sottolineato da tutta la tradizione psicoanalitica, appare in relazione al problema dell’incontinenza e del controllo delle emozioni che Aristotele riprenderà nell’ Etica Nicomachea : «I melanconici sono incontinenti [ akrateis ] per precipitazione” ( Eth. Nic ., VII, 1150b 26). Sofocle mette in relazione due termini, in italiano distanti da un punto di vista lessicale (trionfo e incontinenza), ma in greco parenti molto prossimi ( Aiace , vv. 762-765, raduzione modificata): Affiorò subito la sua demenza, proprio quando si precipitava alla guerra e il padre gli dava buone parole. Gli ripeteva: «Ragazzo, ama il trionfo [kratein] ma amalo sempre all’ombra di un dio!».
Il verbo greco kratein assume una connotazione doppia e riflessiva: dominare vuol dire anche dominarsi, trionfare sugli altri ma anche su sé stessi. Per questo quando Aristotele sottolinea che il melanconico è colui che manca di kratos insiste in modo netto sul suo volto maniacale: sentimento del trionfo e mancanza di controllo sulle proprie emozioni costituiscono, spesso e facilmente, facce della stessa medaglia. La storia dell’iconografia di Aiace elamonio è complessa, sarebbe velleitario pensare di poterla controllare tanto più in un’appendice (per un ampio elenco descrittivo dei reperti oggi a disposizione: Camiz, Ferrazza, 2006). Allo stesso tempo resto convinto che si tratti di un buon esempio delle sorti della melanconia in due millenni e mezzo di storia, soprattutto se si circoscrive l’indagine, comunque priva di pretese di completezza, al tema del suicidio. Anche solo all’interno di questa nicchia icono Melanconia e rivoluzione: antropologia di una passione perduta
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grafica è possibile riscontrare una sorta di involuzione sistematica che si basa su un movimento di fondo. Da personaggio attivo Aiace tende a una trasformazione, non lineare ma certamente progressiva, verso una figura bloccata e puramente contemplativa. Se si scorrono le varianti iconografiche di questa scena legata alla tragedia di Sofocle, è possibile individuare un movimento piuttosto preciso, non solo iconografico ma propriamente teorico (le denominazioni e i dati sono tratti da LIMC, I, 1, pp. 327332; le illustrazioni da LIMC, I, 2, pp. 244-250) circa lo stato d’animo che egli incarna, la melanconia: Aiace a terra Aiace si sporge sulla spada Aiace davanti la spada Aiace acrobatico Aiace si lancia sulla spada Aiace inginocchiato si getta Aiace prostrato
VII/VI a.c. VII/IV a.c. VI/V a.c. V a.c. V/IV a.c. IV a.c. III/ I a.c.
(fig. 1) (fig. 2) (fig. 3) (fig. 4) (fig. 5) (fig. 6) (fig. 7)
Basta avere la pazienza di sfogliare qualcuna delle immagini secondo l’ordine cronologico per avere l’impressione netta di un film a rallentatore come quando, per gioco, si tracciano le scene di un disegno sui bordi delle pagine del quaderno per poi farle scorrere velocemente. La denominazione tradizionale di una delle versioni più antiche della rappresentazione del suicidio, Aiace a terra, non deve infatti trarre in inganno: non si tratta (fig. 1) della raffigurazione di un cadavere ormai morto. È un Aiace infilzato, colto nel momento nel quale la vita lo sta per abbandonare: è al culmine dell’azione. Nel passaggio dall’iconografia del VII secolo a.C. a quella del V la scena sembra retrocedere di un paio di fotogrammi (figg. 2, 3). Il corpo d’Aiace intraprende un processo di retrocessione, di introiezione dell’atto che col passar del tempo diverrà tanto estremo da trasformarlo da figura maniacale, presa dall’azione, 144
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Fig. 1
Aiace a terra : riproduzione di un disegno presente sulla benda di uno scudo del primo quarto del VI sec.; ara in terracotta del 5 30 a.c. circa, Copenaghen, Ny Carlsberg Glypsothek.
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in personaggio contemplativo, immobile nel suo mondo interiore. Prima Aiace diviene colui che si sporge sulla spada, poi è colto nel momento in cui la posiziona a terra. Se si eccettua l’iconografia di tipo acrobatico, in voga soprattutto nel V secolo, Aiace non è più colui che agisce, ma colui che prepara un’azione ancora tutta da compiere. Per comprendere perché sia possibile affermare che l’iconografia acrobatica costituisca un’eccezione, basta dare uno sguardo alle sorti successive che avrà il figlio di elamone (figg. 5-7): il lancio sulla spada non è un vero e proprio lancio, la figura è rannicchiata e contratta, colta prima dell’azione e del suo svolgimento. Le due varianti successive, legate all’inginocchiamento e alla prostrazione, ne costituiscono la conseguenza logica, l’estremo risultato di un nastro che si riavvolge. Da Aiace infilzato si arriva a un Aiace seduto che medita sul da farsi. Questa forma iconografica è particolarmente rilevante perché, a differenza delle altre, avrà grande successo. La figura riprodotta nella fig. 8 segna una vera e propria svolta: realizzata probabilmente nel I secolo a.C. da un autore della Roma augustea, costituisce una ripresa del tema dell’Aiace prostrato. Secondo lo storico dell’arte G. Ortiz (1988, p. 45), in un’epoca di grande incertezza politica, la rappresentazione di un Aiace di questo tipo (prostrato e fermo) poteva costituire un monito a non mettere alla prova l’ordine sociale e a riflettere prima di agire. Il reperto, per come oggi ci giunge, acuisce il senso di riflessione quasi contemplativa della rappresentazione. Aiace è seduto con la testa poggiata sulla mano destra. In origine la mano impugnava una spada, probabilmente di ferro, poi andata perduta. Il dato è particolarmente rilevante perché questo tipo di immagine ha avuto la sorte di diventare, suo malgrado e a posteriori, il prototipo figurativo del personaggio triste e meditabondo. La somiglianza tra la statua e il ben più noto orso del Belvedere pare non sia casuale: Ortiz (1986) ha sostenuto con una certa autorevolezza che il prototipo del pensatore occidentale raffiguri proprio Aiace elamonio. L’iconografia di questa figura tragica e leggendaria testimonia un ripiegamento contemplativo stratificato ma 146
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spietato. Il legame con la melanconia è indiretto (per ora non si parla esplicitamente di un Aiace melanconico, come avverrà parecchi secoli dopo: cfr. ad es. fig. 9) ma non per questo meno influente. L’eroe delle azioni belliche omeriche, il protagonista della tragedia sofoclea suicida ma ancora connotato dalla vivacità della mania e dello squilibro, diventa paradigma di un tipo caratteriale differente, addirittura opposto: seduto e pensoso, prigioniero dei suoi dubbi, è ora l’effige dell’azione paralizzata e del regresso infinito di pensieri ed emozioni umane. Aiace, sottolinea invece Sofocle, è un sovvertitore dell’ordine costituito. Nella sua requisitoria contro la sepoltura del suicida, Menelao è esplicito: dell’ordine politico «soggezione [ déos ] è la base, regolata caso per caso [ kairion]» (Aiace, v. 1084) e Aiace ha osato mettere in discussione l’autorità di chi comanda e l’adeguatezza, il kairòs , delle sue scelte. Da figura scomposta ma eversiva, Aiace si prepara a fare da modello spento a un’azione paralizzata, lontana dalla città. La solitudine dell’Aiace di Sofocle, il suo «pascere solitario la mente» (ivi, vv. 614-615. La traduzione è di Rocci, 1943, p. 1316) è frutto dell’isolamento di chi lo giudica e lo condanna: diverrà invece l’esilio autoimposto di chi è triste e depresso (fig. 8). Da ribelle ad afflitto: ecco la storia di un’iconografia di un eroe, l’apparente destino di una passione tutta da riscoprire nelle sue articolazioni più profonde e innovative.
Fig. 2
Aiace si sporge sulla spada : due scarabei risalenti al V. sec. a.C., Londra, British Museum e Boston, Museum of Fine Arts.
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Fig. 3
Aiace davanti la spada : anfora attica risalente al 540 a.C., Bologna, Museo municipale.
Fig. 4
Aiace acrobatico: impugnatura in bronzo modellata sulla forma del personaggio, 470-450 a.C., Basilea, Antikenmuseum.
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Fig. 5
Aiace si lancia sulla spada : scarabeo, inizio del IV sec. a.C., Parigi, Cabinet des Médailles
Fig. 6
Aiace inginocchiato si getta sulla spada : cratere del gruppo “urmuca”, prima metà del IV sec. a.C., Londra, British Museum.
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Fig. 7 Aiace prostrato : gemme in pasta di vetro, III/I sec. a.C., Monaco. Fig. 8 Aiace, I sec. a.C. statua in bronzo, Basilea, Antikenmuseum Fig. 9 Asmus Jakob Carstens, Der schwermütige Ajax mit ermessa und Eurysakes
(il melanconico Aiace con ecmessa ed Eurisache), 1791
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