Leibniz
Vita Nato a Lipsia nel 1646, personalità poliedrica, oltre che filosofo fu impegnato in campo diplomatico-politico (compì studi giuridici, e fu, nel 1711, consigliere segreto dello zar Pietro il Grande e dell'imperatore Leopoldo) e si interessò anche di storia, di teologia, di matematica e di scienza. A questo proposito ricordiamo la celebre disputa sulla paternità del calcolo infinitesimale, che egli contese a Newton (pare l'abbia effettivamente scoperto indipendentemente dallo scienziato inglese, benché dopo di lui). Morì nel 1716.
indirizzo fondamentale Uno dei tratti più caratterizzanti della sua personalità e del suo pensiero fu la costante ricerca di una mediazione sintetica. Così, in ambito religioso, egli cercò di riconciliare le diverse confessioni cristiane (protestanti, cattolici, greco-ortodossi), e in campo politico di favorire una stabile pacificazione tra le nazioni europee. Analogamente nella sfera culturale egli ritenne non si dovessero contrapporre, come invece molti facevano, tradizione antica e progresso, e filosofia (metafisica) e scienza. Ad esempio, inserendosi nel dibattito sulla preferibilità della cultura antica o di quella moderna, sostenne la possibilità e la opportunità tra di trattenere il meglio della cultura antica e quello della cultura moderna, per operare una sintesi. Entrando nel merito del suo pensiero, possiamo dire, Leibniz è da un lato appare preoccupato di salvaguardare l'apertura alla Trascendenza, contrastando espressamente quella che andava delineandosi come una deriva immanentistica e materialistica della cultura europea; d'altro lato egli partecipa di una concezione razionalistica, che lo porta ad esagerare la portata conoscitiva della ragione, riducendo specularmente le distanze tra l'Infinito e il finito. La filosofia è sì contrassegnata contrassegnata da religiosità, ma si tratta di una religiosità venata di tratti razionalistici.
il mondo Il concetto fondamentale della metafisica lebniziana è quello di monade: così egli chiama quella che Aristotele chiamava sostanza . La monade di Leibniz è in qualche modo a metà tra la sostanza aristotelica, che era relativamente indipendente e la Sostanza spinoziana, assolutamente indipendente: per Leibniz ogni monade ha una autosufficenza molto più accentuata della sostanza aristotelica, ma si tratta di autosufficienza relativamente alle altre monadi finite, ferma restando una dipendenza dal Creatore, Dio. Dalle altre monadi ogni singola monade è autosufficiente, poiché, come dice una celebre espressione di Leibniz, essa è «senza porte e senza finestre», e lo è in quanto composta da due fattori, come la sostanza aristotelica, materia e forma, dove però la materia qui è concepita come inestesa . Il carettere inesteso della materia di cui sono composte le monadi corporee rende impossibile un inlusso reciproco tra le stesse. [2] È necessario che ci siano sostanze semplici, poiché ci sono dei composti. Il composto, infatti, non è altro che un ammasso, o aggregato di semplici. [3] Dove non ci sono parti non ci sono né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono perciò i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose.(...) [7] Non c’è modo di spiegare come una monade possa venir alterata o mutata al suo interno da
qualche altra creatura, poiché non vi si può trasporre nulla, né concepire in essa alcun movimento interno che possa essere suscitato, diretto, aumentato o diminuito, come invece è possibile nei
composti, nei quali hanno luogo mutamenti tra le parti. Le monadi non hanno finestre attraverso cui qualcosa possa entrare in o uscire da esse. (...) (dalla Monadologia ) La negazione dell'estensione si spiega, da un punto di vista storico-culturale, con la volontà leibniziana di contrastare il passo, nel modo più energicamente risolutivo, al meccanicismo, passibile di sviluppi materialistici e potenzialmente atei. In effetti la cosmologia di Leibniz rifiuta decisamente l'indirizzo meccanicistico, che da Galileo a Cartesio e a Spinoza aveva dominato nella filosofia egemone in Europa, e lo fa recuperando la concezione ilemorfica aristotelica, con la riaffermazione della forma come costitutivo pricipale della realtà corporea, e andando più in là di Aristotele in una direzione tendenzialmente spiritualistica, ossia sostenendo il dinamismo.
l'armonia prestabilita Ma, se non vi è influsso causale tra le monadi (che sono, ripetiamo «senza porte e senza finestre») che cosa causa il divenire? Dio stesso, sostiene Leibniz, ha creato tutte le monadi in modo tale che vi fosse una corrispondenza tra ciò che accade in una e ciò che accade nelle altre. È il Creatore del mondo ad aver fatto sì che le sue creature, pur non influenzandosi realmente le une le altre, sincronizzassero perfettamente. Quando l'acqua posta nella pentola bolle, non è per influsso del fuoco che arde sotto di lei, ma per un interno sviluppo di quell'acqua, che il Creatore ha fatto predisponendola in modo tale che nello stesso momento in cui, quella volta, si fosse accesa in quella sfufa quella monade fuoco, lei, con perfetto sincronismo, raggiungesse l'ebollizione.
spazio e tempo Newton sosteneva il carattere assoluto di spazio e tempo, come due dimensioni che esisterebbero anche se non esistessero corpi (estesi e divenienti). Con ciò il grande scienziato inglese andava oltre Aristotele, che vedeva nello spazio e nel tempo due accidenti della sostanza corporea, inconcepibili percò senza questa, e proponeva una visione dell'universo che a Leibniz appariva inaccettabilmente incline al materialismo. Leibniz sostiene non solo, come Aristotele, la relatività di spazio e tempo alla sostanza materiale, ma, più drasticamente, la loro relatività alla prospettiva soggettiva dell'uomo. Dal momento infatti che le monadi sono inestese, lo stesso spazio non è, per Leibniz, oggettivamente tridimensionale: lo spazio ci appare come esteso, ma si tratta di una nostra prospettiva. Non nel senso però di una illusione chimerica, bensì di un phaenomenon bene fundatum
Analogamente il tempo non ha una realtà oggettiva indipendente dal soggetto, ma è una nostra prospettiva, un nostro modo di vedere «l'ordine dei successivi». Dio e il mondo: la “teodicea” Nel tratteggiare la sua concezione di Dio Leibniz tradisce l'ambiguità della sua impostazione: egli vuole sì “difendere Dio”, ma per ridurlo a una misura un po' troppo umana . L'intento di Leibniz nella Teodicea è difendere Dio dalla accusa derivante dalla presenza del male nel mondo. Il fulcro della sua tesi è che questo è «il migliore dei mondi possibili»: Dio infatti, Monade suprema e creatrice, prima di creare questo mondo ha esaminato tutte le possibiltà che si davano, tutti i mondi possibili cioè, e ha scelto, tra tutti, quello migliore. Certo, in questo mondo c'è del male, ma evidentemente è quella porzione di male che non era evitabile, in vista di quel bene più grande e complessivo che è l'universo tutto. È la nostra limitatezza conoscitiva a farci apparire come insuperabile obiezione il male che noi constatiamo, ma se noi vedessimo le cose nella loro profondità e complessità, conosceremmo che anche il male concorre in ultima analisi al bene, e che meglio di come è fatto questo mondo, non era possibile fare.
Nota bene. L'idea del «migliore dei mondi possibili» era stata affrontata e scartata dai filosofi medioevali: per loro la infinita Potenza del Mistero non è esauribile da nessuna opera finita. Dunque il concetto di «migliore dei mondi possibili» era visto come intrinsecamente contraddittorio. Per Lebniz invece, nella curvatura razionalistica del suo pensiero, è come se Dio avesse un limite oltre cui non può andare.
la conoscenza l'innatismo virtuale Dato che ogni monade è autosufficiente, essa lo è anche conoscitivamente: essa cioè contiene già tutto ciò che sarà conosciuto nel corso della sua vita. In questo senso Leibniz è innatista, ancor più di Cartesio, per il quale solo alcune idee sono innate, quelle chiare e distinte; per lui invece non solo sono innate tutte le idee, ma anche la stessa esperienza sensibile. D'altro lato egli è, per così dire meno innatista di Cartesio e di altri (come Spinoza), in quanto ciò che è innato non è fin dall'inizio pienamente attuato, ma è presente nella monade in germe, e solo progressivamente viene svolgendosi. Per questo quello di Leibniz viene detto anche innatismo virtuale .
esperienza e pensiero Le verità che la mente umana può conoscere si distinguono per lui in v. di ragione (il cui opposto è contraddittorio) e v. di fatto (il cui opposto è falso, ma non contraddittorio). Tale distinzione è dovuta all'imperfezione della nostra umana conoscenza: per Dio i due tipi di verità coincidono, Egli infatti vede come tutto ciò che di fatto accade ha una sua ragione. In altri termini la contingenza che noi percepiamo nelle cose dipende dal nostro limite conoscitivo. Polemizzando con Locke, nel Nuovo saggio sull'intelletto umano , Leibniz sostiene che le veriotà più fondamentali non sono quelle di fatto, cioè le v. particolari, empiriche, ma quelle universali. Riprendendo la formula lockiana nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu , egli la completa così: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse ; l'intelletto quindi precede l'esperienza, contenendo germinalmente ciò che nell'esperienza è destinato a squadernarsi.
le entelechie Si potrebbero chiamare entelechie tutte le sostanze semplici o monadi create. Esse, infatti, portano in sé una certa perfezione, vi è in esse un’autosufficienza che le rende fonti quasi automatiche delle loro azioni interne e, per così dire, automi incorporei. ( Monadologia , 18)
l'uomo, superiore agli animali Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci porta in possesso della ragione e delle scienze, mentre ci eleva alla conoscenza di noi stessi e di Dio. E questo è ciò che in noi si chiama anima razionale o spirito.( Monadologia , 29)
l'armonia del mondo Infine, sotto questo governo perfetto, non ci saranno mai una buona azione senza ricompensa, una malvagia senza pena, e tutto deve concludersi nel bene dei buoni, ossia di coloro che non sono per nulla scontenti in questo grande stato, che si affidano alla provvidenza dopo aver fatto il loro dovere e che amano e imitano come si deve l’autore di ogni bene, che provano piacere dalla considerazione
delle sue perfezioni secondo la natura del vero amore puro, che ci dà piacere attraverso la felicità di chi amiamo. Questo è ciò che spinge le persone sagge e virtuose ad impegnarsi in tutto ciò che sembra conforme alla volontà divina presuntiva o antecedente, e di contentarsi tuttavia di ciò che Dio fa giungere direttamente attraverso la sua volontà segreta, conseguente e decisiva, riconoscendo che, se
potessimo capire abbastanza l’ordine dell’universo, troveremmo che esso sorpassa tutte le
supposizioni dei più saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello che è, non solo per il tutto in
generale, ma anche per noi stessi in particolare, se siamo attaccati come si deve all’autore del tutto, non solo come all’architetto e alla causa efficiente del nostro essere, ma anche come al nostro maestro e alla causa finale che deve costituire l’intero scopo della nostra volontà e l’unico che può renderci
felici.