La materia La matière Die Materie Matter
Franco Ferrari La chora nel Timeo di Platone. Riflessioni su «materia» e «spazio» nell’ontologia del mondo fenomenico*
1. L’identificazione della
chora del Timeo con la hyle secondo Aristotele L’esposizione della concezione platonica della «materia» si presenta straordinariamente complessa e problematica per una serie di ragioni, di molte delle quali si darà conto nel corso di questo contributo. La prima e forse la più rilevante di tali ragioni risiede comunque nel semplice fatto che dai dialoghi di Platone risulta assente la stessa nozione di materia. È infatti noto che solo con Aristotele si sviluppò una trattazione sistematica di questa categoria filosofica, la quale assunse, anzi, nel grande allievo di Platone una collocazione di primo piano. È altrettanto noto che in Platone si trova il sostantivo destinato a divenire con Aristotele il terminus technicus per materia, ossia u{lh; ma il significato che esso assume è ancora quello generico diffuso nella lingua quotidiana, vale a dire «legname» (ma anche bosco, selva), che solo a partire da Aristotele viene trasferito nella lingua filosofica 1. In Platone, dunque, manca la nozione di materia e il sostantivo hyle riveste un significato filosoficamente privo di rilevanza. Ciò non significa, tuttavia, che egli non abbia in qualche misura affrontato il tema della materialità e che dalle tesi esposte nei dialoghi, in particolare nel Timeo, non sia ricavabile qualcosa di simile a una concezione relativa allo status e alla funzione della materia nella costituzione ontologica del mondo. Dal momento però che nel Timeo non si parSono molto grato a Francesco Fronterotta per avere letto e commentato criticamente una prima stesura di questo saggio. La responsabilità delle tesi in esso contenute è naturalmente solo mia. 1 Cf. PLATO, Tim. 69A, dove, a partire dal suo significato di materiale di legno, viene utilizzato metaforicamente per indicare gli elementi base di cui si compone il discorso. Non c’è dubbio che il termine latino silva restituisca piuttosto bene il significato originario del sostantivo greco (che è quello di legname, ma anche di bosco). Sulla natura non tecnica dell’occorrenza di hyle nel Timeo cf. L. BRISSON, Le Même et l’Autre dans la structure ontologique du «Timée» de Platon , Academia Verlag, Sankt Augustin 1994 2, p. 222. *
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la di materia, e che la tradizione successiva ha considerato le affermazioni platoniche contenute in questo dialogo come riferentesi alla hyle, è opportuno iniziare questa esposizione proprio dall’esame del celebre passo nel quale Aristotele opera l’identificazione tra il principio evocato da Platone nel Timeo e la propria nozione di materia; si tratta infatti di un passaggio strategico, perché questa identificazione ha percorso l’intera filosofia antica e ancora oggi viene presupposta, in forma più o meno consapevole, da tutti coloro che intendono parlare della materia platonica. All’interno della discussione relativa al luogo ( tov po") contenuta all’inizio del libro D della Fisica, Aristotele discute la posizione di coloro che, partendo dalla constatazione che il luogo può apparire come l’intervallo della grandezza, arrivano a identificarlo con la materia u{ ( lh). Tra costoro viene annoverato proprio Platone, il quale avrebbe addirittura assimilato la spazialità alla materialità. Osserva in proposito Aristotele: «Per questa ragione anche Platone sostiene nel Timeo che la materia e lo spazio th; [ n u{lhn kai; th; n cwvran] sono la medesima cosa. Infatti il partecipante to; [ metalhptikov n)] e lo spazio sono un’unica e identica cosa. Pur definendo in modo diverso il partecipante lì [nel Timeo] e nelle cosiddette dottrine non scritte, sosteneva in ogni caso che il luogo e lo spazio fossero la stessa cosa to; [ n tov pon kai; th; n cwvran to; auj tov]» (Phys., D 2, 209b11-16).
Qualche riga sotto (209b33-210a2) Aristotele torna in forma cursoria sulla concezione platonica dello spazio e della materia, chiedendosi (e chiedendo polemicamente a Platone) per quale ragione le idee e i numeri non si trovino in un luogo, come invece dovrebbe conseguire dalla assimilazione del partecipante al luogo to; ( meqektiko; n oJ tov po"), tanto nel caso in cui tale partecipante sia il grande e il piccolo (delle dottrine non scritte), quanto in quello in cui esso sia la materia (come risulta invece dal Timeo). Come si vede, la testimonianza aristotelica relativa alla concezione platonica della materia si presenta davvero problematica e difficile da decifrare. Alcuni assunti sembrano comunque ricavabili in modo immediato. Prima di tutto, Aristotele attribuisce a Platone l’identificazione tra la materia e la misteriosa entità che compare nel Timeo con il nome di chora. Questa identificazione ha percorso l’intera storia del platonismo antico, tanto che dopo Aristotele per un platonico risulterà quasi inevitabile considerare chora e hyle come sinonimi. Del resto, anche Proclo, il grande commentatore neoplatonico di Platone, reputa del tutto naturale concepire il piano della causalità materiale come connotato tanto dall’elemento costitutivo (e dunque propriamente materiale) quanto da quello lo-
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ej w| /), codificando in questo modo una cale e spaziale th; ( n de; u{ lhn ejx ou| h] n tendenza largamente diffusa tra i platonici antichi 2. Naturalmente l’identificazione proposta da Aristotele (e accettata sostanzialmente da tutti i platonici successivi) rappresenta, come molti commentatori moderni non hanno mancato di rilevare, una forzatura delle tesi di Platone, il quale non parla di materia e soprattutto non opera expressis verbis l’identificazione che gli attribuisce il suo discepolo. Tuttavia, come si vedrà meglio in seguito, Aristotele è probabilmente meno inaffidabile di quanto molti interpreti siano disposti a riconoscere. In particolare, il suggerimento più significativo ricavabile dalle sue affermazioni, ossia l’invito a ricercare nel Timeo all’interno della trattazione della chora l’esposizione della concezione platonica della materia, mi sembra degno della massima considerazione e sostanzialmente corretto. Aristotele poi attribuisce a Platone una seconda identificazione, quella tra la ( chora, precedentemente assimilata alla hyle, e il misterioso partecipante to; metalhptikov n o to; meqektikov n), ossia un’entità di cui si dice che partecipa (cioè prende parte) a qualcosa d’altro (da sé), ossia, presumibilmente, all’intelligibile (che per Platone è la realtà che viene partecipata). Inoltre, Aristotele sostiene che Platone avrebbe definito in modo diverso questo partecipante nel Timeo (dove esso assume la denominazione di chora o di hyle) e nelle dottrine non scritte (dove, come si evince dal passo menzionato sopra, esso viene chiamato grande e piccolo), fermo restando che ai suoi occhi il luogo e lo spazio sono identici. È vero che nel Timeo (e in generale nei dialoghi) non si trova menzione esplicita di questo partecipante; ma è altrettanto vero che Aristotele potrebbe avere ricavato questa espressione proprio dalla lettura della sezione del Timeo dedicata al terzo genere, "), di cui si dice ossia alla chora, chiamata anche ricettacolo universale pandecev ( che partecipa in modo estremamente aporetico e difficile da concepire all’intelligibile (51A-B), o addirittura potrebbe essersi servito di un’espressione coniata da Platone all’interno delle celebri dottrine non scritte. Non c’è dubbio, in ogni caso, che l’interrogativo polemico che Aristotele rivolge a Platone circa la collocazione delle idee e dei numeri nello spazio (dove essi non potrebbero ovviamente trovarsi), ha senso solo ipotizzando che Aristotele stia alludendo in qualche forma alla concezione secondo la quale la materia del Timeo, che nelle dottrine non scritte assume la denominazione di grande e piccolo, partecipa all’intelligibile, rappresentato dalle idee e dai numeri (i quali, dunque, se partecipati da una entità in qualche misura spaziale, finiscono per risultare essi stessi spazializzati) 3.
PROCL. In Plat. Tim., I, 357, 13-14 Diehl. Sull’assimilazione di chora e hyle nel platonismo antico cf. M. BALTES, Der Platonismus in der Antike, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996 (Bd. 4), p. 283, n. 5 e pp. 379-383. 3 Sull’esigenza di collegare queste affermazioni di Aristotele alla concezione platonica della genesi 2
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Le osservazioni appena fatte non tolgono nulla alla oggettiva problematicità della testimonianza aristotelica su una presunta concezione platonica della materia. Esse tuttavia dovrebbero in un certo senso legittimare l’operazione che si intende attuare in queste pagine, consistente appunto nel tentare di ricostruire la posizione di Platone sullo statuto e la funzione della materia a partire dalle affermazioni consacrate alla chora contenute nelle pagine 48E-52D del Timeo. 2. Verosimiglianza non verità: lo statuto epistemico del discorso
sul mondo La trattazione platonica della chora si trova dunque all’interno del lungo discorso di Timeo dedicato alla genesi e alla costituzione ( gev nesi" kai; suvstasi") ontologica del cosmo. Trattandosi, come è universalmente noto, di un discorso sottoposto a precisi vincoli epistemologici (i quali si estendono anche alle affermazioni relative alla chora), è opportuno spendere qualche parola a questo proposito. In una premessa tanto nota quanto spesso trascurata, Timeo riconduce il livello epistemico di qualsiasi trattazione alla natura ontologica della realtà oggetto della trattazione stessa. In questo modo, egli stabilisce una sorta di parallelismo onto-epistemico in cui il grado di affidabilità di un discorso viene fatto dipendere dalla natura dell’oggetto di cui questo discorso si occupa. Dal momento che le riflessioni in questione vertono intorno al cosmo sensibile, il quale costituisce un gignovmenon, ossia un’entità sottoposta al divenire e dotata dello statuto di copia eij ( kwv n) di un modello (come Timeo ha assunto dialetticamente poco sopra), esse non potranno ambire a risultare stabili e inconfutabili, ossia vere (come quelle relative al modello, cioè all’essere), ma, nel migliore dei casi, dovranno accontentarsi di raggiungere il livello della verosimiglianza. Afferma in proposito Timeo: «Ma la cosa più importante è cominciare ogni esame prendendo le mosse dal suo principio naturale. Così, dunque, bisogna distinguere fra l’immagine e il suo modello, poiché i discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e solidi e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere inconfutabili e invincibili, di nulla devono mancare; dall’altro, i discorsi su ciò che imita il modello, e che non è che una sua imitazione, bisogna che siano, rispetto ai primi, vero-
ontologica delle idee e dei numeri (ideali) formulata nelle dottrine non scritte cf. P. A UBENQUE , La matière de l’intelligible. Sur deux allusions méconnues aux doctrines non écrites de Platon , «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 172 (1982), pp. 307-320, in particolare pp. 310-316.
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iv ] nello stesso rapporto in cui simili; l’essere è rispetto al divenire pro; [ " gev nesin oujs a è la verità rispetto alla credenza pro; [ " pivstin ajlhvqeia]. Se dunque, Socrate, non saremo in grado di proporti, su molti aspetti e riguardo a molte questioni, sugli dèi e sulla generazione dell’universo, dei ragionamenti perfettamente e compiutamente coerenti con se stessi e del tutto esatti, non stupirti; ma se ti presenteremo dei ragionamenti non meno verosimili di altri, dovremo esserne soddisfatti, ricordandoci che io che parlo e voi che siete i miei giudici apparteniamo alla natura umana, sicché, se ci si offre un racconto verosimile su questi argomenti, conviene non cercare ancora oltre» (Tim., 29B-D, tr. di Fronterotta).
Timeo riconduce dunque le pretese epistemico-veritative di un discorso alla natura del campo oggettuale al quale esso si rivolge. Questo significa che, dal momento che lo statuto epistemico di una trattazione dipende in larga misura dalla natura ontologica dell’oggetto al quale essa si riferisce (i discorsi sono sug genei' " alle cose di cui parlano) e dal momento che il mondo fisico costituisce una copia di un modello, e che esso rappresenta un’entità generata, ossia soggetta a generazione gev ( nesi"), ogni discorso relativo al mondo sensibile non potrà ambire all’esattezza e alla inconfutabilità proprie della trattazione di un oggetto immobile, eterno e perfetto, ma dovrà inevitabilmente accontentarsi di conseguire il livello della verosimiglianza 4. Naturalmente queste considerazioni di ordine epistemologico non comportano una radicale svalutazione delle riflessioni relative alla generazione e alla costituzione del mondo sensibile sviluppate nel corso del dialogo. Esse intendono solamente richiamare l’attenzione sull’inopportunità di attendersi dal discorso di Timeo l’esattezza e la stringenza argomentativa di un ragionamento relativo ai principi dialettico-metafisici. Ma non sarebbe corretto considerare queste limitazioni tali da destituire la narrazione di Timeo di ogni rilevanza filosofico-scientifica, assimilandola a una sorta di histoire mythique , come pure ha tentato di fare un autorevole studioso francese 5. In realtà, il discorso verosimile di Timeo non può venire considerato affidabile alla stregua di un’argomentazione dialettica relativa a entità metafisiche (come le idee), ma neppure respinto come un racconto estraneo alla verità filosofica. Si tratta certamente di un discorso non vero, ma neppure falso, bensì appunto verosimile. Il suo contenuto è dunque non solo sensato, ma anche in larga parte affidabile, sebbene non tutto ciò che vi si dice va-
Sulla questione della natura epistemica del discorso verosimile (che è sia logos che mythos) cf. il classico studio di B. W ITTE, Der EIKWS LOGOS in Platos Timaios. Beitrag zur Wissenschaftsmethode und Erkenntnistheorie des späten Plato, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 46 (1964), pp. 1-16; sui differenti livelli di verosimiglianza assunti dal discorso di Timeo cf. P.L. D ONINI, Il «Timeo»: unità del dialogo, verosimiglianza del discorso, «Elenchos», 9 (1988), pp. 5-52. 5 Cf. P. HADOT, Physique et poésie dans le «Timée» de Platon, «Revue de Théologie et de Philosophie», 115 (1983), pp. 113-133. 4
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da preso alla lettera. Il suo alto grado di affidabilità dipende dall’assunzione di principi dialettico-metafisici (sottratti dunque al vincolo della verisimiglianza e dai quali questo discorso verosimile in qualche misura deriva), mentre l’assenza di una cogenza assoluta va ascritta alla natura dell’oggetto intorno al quale esso verte. Dunque da esso è legittimo attendersi una trattazione tutto sommato affidabile della struttura ontologica del divenire, vale a dire una descrizione in grado di cogliere in modo corretto l’impianto complessivo della realtà soggetta a generazione; sarebbe invece del tutto fuori luogo pretendere di assumere alla lettera ogni affermazione in esso contenuta, e in particolare sarebbe epistemologicamente scorretto assegnare piena consistenza ontologica a tutte le figure «mitiche» di cui tale discorso si serve. 3. Un genere difficile ed oscuro
Le cautele di ordine epistemologico sopra richiamate assumono contorni ancora più netti quando la trattazione di Platone affronta il tema della materia, o meglio del dominio che Aristotele troverà naturale identificare con la materia. L’introduzione di questa realtà, e per la precisione di questa specie ( ei\do") o genere gev ( no"), scandisce addirittura un punto di svolta nello sviluppo del monologo di eJ ran ajrchv n), Timeo, il quale arriva a reclamare l’esigenza di un nuovo inizio ( tev dal momento che la partizione ontologica iniziale (quella tra essere e divenire) si dimostra insufficiente rispetto all’obiettivo di comprendere la struttura causale del mondo fenomenico. Osserva dunque Timeo: «Quanto detto fin qui, dunque, salvo qualche cenno, ha mostrato ciò che è stato prodotto dall’intelletto; ma bisogna aggiungere al nostro discorso anche ciò che si è prodotto in virtù della necessità. Infatti la genesi di questo mondo è avvenuta nella forma di una mescolanza che deriva dalla combinazione di necessità e intelletto; e, poiché l’intelletto dominava la necessità, persuadendola a realizzare per il meglio la maggior parte delle cose soggette alla generazione, in questo modo e a queste condizioni, in virtù della necessità vinta dalla persuasione intelligente, fu originariamente costituito il nostro universo» (Tim., 47E-48A).
La constatazione che il mondo sensibile è il prodotto dell’azione combinata di due cause, quella intelligente ( nou' ") e razionale (che agisce finalisticamente in vista del bene o del meglio) e quella necessaria aj ( nav gkh), ossia priva di orientamento, induce Timeo ad allargare la partizione iniziale, introducendo, accanto ai due generi ipotizzati in apertura del suo discorso, un ulteriore genere ( a[llo gev no"), che evidentemente si colloca in qualche misura all’interno della dimen-
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sione della causa necessaria, dal momento che l’ipotesi della sua esistenza si è resa inevitabile una volta riconosciuta la presenza, accanto all’intelletto, anche della necessità. Nella prima parte della sua trattazione Timeo era ricorso quasi unicamente alla causa intelligente, e per mezzo di essa era riuscito a spiegare la genesi ontologica del mondo come totalità, dell’anima cosmica (e delle anime individuali), degli astri e del tempo (29D-47E). In tale contesto aveva talora accennato all’esistenza di un genere diverso di causa, la cosiddetta concausa ( sunaiv tion), ma ne aveva limitato l’uso in modo radicale6. L’ambito della causalità intelligente si presenta, all’interno della descrizione mitica, estremamente variegato, comprendendo una pluralità di soggetti, quali il mondo delle idee, il vivente intelligibile, il demiurgo, l’intelletto; si tratta, però, di un’articolazione funzionale alle esigenze didattiche del discorso, alla quale non corrisponde in realtà una analoga pluralità di individui metafisici, dal momento che tutte le entità introdotte da Platone nel racconto mitico non sono che aspetti diversi di una medesima realtà, di cui richiamano di volta in volta le differenti funzioni. In altre parole, alla proliferazione mitica di una serie di individui (le idee, il vivente, il demiuro[ ), go, l’intelletto) corrisponde sul piano metafisico un’unica entità, l’essere ( to; n che assume sia la funzione paradigmatica (metaforizzata dal vivente intelligibile, modello del vivente sensibile, cioè del cosmo) che quella dinamico-efficiente (metaforizzata dal demiurgo) 7. Il riconoscimento della presenza, accanto all’intelligenza (che esercita comunque una certa prevalenza, espressa metaforicamente attraverso l’accenno alla persuasione, peiqwv), anche della necessità (che assume i contorni di una causa errante, aij tiv a planwmev nh, e non orientata) 8, rende dunque inevitabile l’ampliamento della partizione ontologica iniziale. Prima di provvedere a tale ampliamento, Platone individua l’ambito principale di applicazione della causa errante, e dunque del terzo genere che si appresta a trattare, nel campo degli eleSul rapporto tra causa e concausa nel Timeo si veda G. CASERTANO, Cause e concause, in C. NATALI / S. MASO (a cura di), Plato Physicus. Cosmologia e antropologia nel «Timeo», Hakkert Editore, Amsterdam 2003, pp. 33-63. 7 Ho cercato di dimostrare la tesi dell’identità metafisica tra mondo delle idee (vivente intelligibile) e demiurgo (intelletto produttivo) in due recenti lavori, ai quali rinvio anche per gli opportuni riferimenti bibliografici: F. F ERRARI , Causa paradigmatica e causa efficiente: il ruolo delle idee nel «Timeo», in NATALI / M ASO (a cura di), Plato Physicus cit., pp. 83-96; I D., Separazione asimmetrica e causalità eidetica nel «Timeo», in L.M. NAPOLITANO VALDITARA (a cura di), La sapienza di Timeo. Riflessioni in margine al «Timeo» di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 147-172. 8 Sul rapporto tra ragione (intelletto) e necessità cf. F.M.D. C ORNFORD , Plato’s Cosmology. The «Timaeus» of Plato translated with a running commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937, pp. 160177; sul tema della «persuasione» della necessità ad opera dell’intelligenza si veda il classico studio di G.R. MORROW, Necessity and Persuasion in Plato’s «Timaeus», ora disponibile in R.E. A LLEN (ed.), Studies in Plato’s Metaphysics , Routledge & Kegan Paul, London 1965, pp. 421-438. 6
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menti corporei; anzi, arriva in qualche modo a dichiarare che l’introduzione di questa nuova dimensione dovrebbe consentire di fare luce intorno alla natura dei corpi primari prw' ( ta swvmata), ossia dei quattro elementi empedoclei, abbandonando l’ingenua ma diffusa convinzione che essi siano assimilabili alle lettere di cui sono costituite le cose, quando in realtà non sono neppure equiparabili alle sillabe (48B-C) 9. Dunque, proprio allo scopo di chiarire la natura e la genesi ontologica dei corpi, emerge l’esigenza di allargare la partizione stabilita all’inizio del monologo di Timeo. Sostiene in proposito questo misterioso personaggio10: «Dunque, il nuovo principio del discorso intorno all’universo deve procedere a distinzioni maggiori rispetto al precedente; allora, infatti, distinguemmo due generi, mentre ora bisogna illustrare un terzo e differente genere triv [ ton a[llo gev no"]. Perché i due di prima erano sufficienti per il nostro discorso precedente, l’uno posto come genere del modello, intelligibile e sempre identico a se stesso, il secondo come imitazione del paradigma, soggetto alla generazione e visibile. Non distinguemmo allora un terzo genere, giudicando che due fossero sufficienti, ma adesso il discorso pare ci costringa a tentare di descrivere un genere difficile e oscuro» (Tim., 48E-49A).
La terza specie ontologica 11, collocata accanto all’essere-modello e al divenire-copia, si presenta dunque difficile e oscura ( calepo; n kai; ajmudrov n). E del resto, il motivo dell’oscurità ritorna numerose volte nel corso della trattazione del terzo principio, in particolare a proposito della relazione che esso intrattiene con l’intelligibile (Timeo definisce «difficile a dirsi e meraviglioso» il modo in cui il ricettacolo viene impresso dalle idee, in 50C, e considera estremamente problematica e difficile da concepire la partecipazione del ricettacolo all’intelligibile, in 51B). Come vedremo, questa oscurità, la quale si aggiunge in un certo senso all’oscurità propria di ogni trattazione del mondo sensibile, rende inevitabile il ricorso sistematico a metafore, che prendono il posto di un’impossibile esposizione dialettica e concettualmente trasparente. Non c’è affermazione relativa al terzo genere che non presenti una componente metaforica, spesso davvero molto forte.
M. M IGLIORI, Ontologia e materia. Un confronto tra il «Timeo» di Platone e il «De Generatione et corruptione» di Aristotele, in ID. (a cura di), Gigantomachia. Convergenze e di vergenze tra Platone e Aristotele, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 35-104, in particolare pp. 57 sqq. 10 Sull’elevato profilo intellettuale del personaggio di Timeo si vedano le considerazioni di T.A. SZLEZÁK, Das Bild des Dialektikers in Platons späten Dialogen, de Gruyter, Berlin-New York 2004, pp. 218 sqq. 11 Vale qui la pena segnalare il recente volume di D. M ILLER, The Third Kind in Plato’s «Timaeus» , Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2003, in cui viene sostenuta la tesi secondo cui il genere in questione è un kind di cui sono membri (individualmente distinti) il ricettacolo e la chora. 9 Sull’analogia alfabetica cf. ora
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In generale, sembra di poter dire che l’uso di metafore è indirizzato alla comprensione degli aspetti funzionali del terzo genere, più che alla descrizione di una sua presunta essenza. Timeo comincia con il dichiarare, in 49A, che il geuJ nere in questione si presenta come «ricettacolo di ogni generazione» ( podoch; pavsh" genevsew") e come «nutrice» tiqhv ( nh: cf. anche 52D); prosegue ribaden ": 51A), per sottolinearne, do la sua natura di «ricettacolo universale» pandecev ( poi, la funzione di «madre» ( mhv thr: 51A) all’interno di un processo generativo fittizio; la componente materiale del terzo genere viene richiamata per mezzo dell’assimilazione a un materiale molle soggetto a essere plasmato ( ejkmagei'on: 50C) e per mezzo dell’equiparazione sia a una massa d’oro che assume forme sempre diverse (50A-B), sia al liquido-base (inodore) destinato ad accogliere il profumo (50E); la più celebre delle metafore è comunque quella spaziale, in virtù della quale il terzo genere viene denominato cwvra (52A, B e D), ossia, certamente luogo in cui si trovano le cose, dal momento che esso fornisce la sede e{ ( ndra) alle realtà soggette al divenire (52B), ma anche regione e territorio dalla cui esistenza riceve nutrimento la città 12. La rete di metafore costruita allo scopo di dare conto delle funzionalità e delle caratteristiche del terzo genere appare davvero complessa e il compito di scioglierla si presenta improbo. Un primo quadro provvisorio è comunque ricavabile dalle considerazioni fatte fino a questo punto. Prima di tutto, va constatato che il terzo genere appartiene alla dimensione dell’ aj nav gkh, ossia della causa errante e non finalisticamente orientata (sebbene disposta in qualche misura a «venire persuasa» dall’intelletto); esso poi si presenta irriducibile sia all’essere, cioè al mondo delle idee (auto-identiche, immutabili e intelligibili), sia al divenire (mai identico a sé, sottoposto a mutamento e opinabile) 13; per questo, ossia in ragione della sua peculiarità ontologica, il terzo genere non è né conoscibile dall’intelletto, né opinabile per mezzo della sensazione, ma risulta in qualche modo afferrabile (si potrebbe forse dire congetturabile) per mezzo di un ragionamento «bastardo», ossia impuro, il quale non si serve della sensazione
Che la chora non sia tanto il luogo neutro in cui si trova qualcosa, ma ciò che fornisce nutrimento alle cose che entrano in rapporto con essa (proprio come la regione fornisce il sostentamento alla polis), viene segnalato da J.-F. PRADEAU , Être quelque part, occuper une place. TOPOS et CWRA dans le «Timée», «Les Études Philosophiques», 1995, pp. 375-399, in particolare p. 399. Un elenco completo (e ragionato) di tutte le determinazioni attribuite al principio necessitante (26) è fornito da G. R EALE, Per una nuo va interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle dottrine non scritte, Vita e Pensiero, Milano 1997 20, pp. 598-622; molto articolata anche l’analisi di G. C ASERTANO, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone , Loffredo, Napoli 1996, pp. 382387. 13 Sul significato ontologico ed epistemologico della partizione fondamentale tra essere e divenire cf. il brillante articolo di M. F REDE, Being and Becoming in Plato, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», Suppl. 1988, pp. 37-52. 12
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aJ n logismw' / tini novqw/: 52B)14; la sua introduzione è fun(met ’ aj naisqhsiv a" pto; zionale al chiarimento della natura e della costituzione ontologica dei corpi fisici, ossia dell’ambito fenomenico della realtà; in tale contesto la funzionalità di questo genere risulta sia di ordine locale e spaziale (rappresenta ciò in cui gli esseri si trovano), sia di tipo materiale e costitutivo (esprime ciò di cui le cose sono fatte). Prima di tentare di approfondire il senso di questo primo approccio, occorre analizzare più da vicino la natura del fenomeno che l’introduzione del terzo genere è chiamata a spiegare, ossia la genesi ontologica dei corpi fisici.
4. La natura qualitativa dei corpi fenomenici: una nuova ontologia
del sensibile Le pagine del Timeo dedicate alla descrizione della genesi ontologica dei corpi e del rapporto tra ricettacolo ed elementi primari, ossia corpi semplici, sono, per unanime giudizio degli studiosi, tra le più difficili dell’intero corpus platonico. Basti pensare che il passo 49C-50B presenta tanti e tali problemi interpretativi (grammaticali, sintattici e ovviamente contenutistici) da avere dato luogo a una serie impressionante di traduzioni ed esegesi 15. Se poi si aggiunge che lo stesso Aristotele si sentì in diritto di rimproverare a Platone il mancato chiarimento della natura del rapporto tra ricettacolo ed elementi primari, non avendo egli spiegato se il primo sia separato dagli elementi o si identifichi con essi ( Gen. et corr., B 1, 329a14-17)16, si comprende facilmente come le asserzioni platoniche relative al ricettacolo universale costituiscano una fonte di difficoltà formidabili e per certi aspetti addirittura insolubili.
Sulla natura di questo tipo di conoscenza cf. N. R ESHOTKO, A Bastard Kind of Reasoning. The Ar gument from the Sciences and the Introduction of the Receptacle in Plato’s «Timaeus», «History of Philosophy Quarterly», 14 (1997), pp. 121-137. Sul cosiddetto bastard reasoning che consente di determinare la natura del ricettacolo cf. anche C ORNFORD , Plato’s Cosmology cit., pp. 193-197. 15 Una prima, ovviamente parziale, panoramica dei problemi in gioco e dei tentativi di soluzione adottati fino a un decennio fa si trova nel volume di B RISSON, Le Même et l’Autre cit., pp. 180-197; più recentemente si veda la discussione di M ILLER, The Third Kind cit., pp. 73-93; vale la pena consultare anche le note ad locum contenute in F. F RONTEROTTA (introduzione, traduzione e note), Platone, «Timeo», Rizzoli, Milano 2003; tra i contributi più significativi meritano una menzione: H. C HERNISS, A Much Misread Passage of the «Timaeus» (Timaeus 49c7-50b5), ora disponibile in H. C HERNISS, Selected Papers, ed. by L. Tarán, Brill, Leiden 1977, pp. 346-363; E.N. L EE, On Plato’s «Timaeus» 49d4-e7 , «American Journal of Philology», 88 (1967), pp. 1-28; D.J. Z EYL, Plato and Talk of a World in Flux: «Timaeus» 49a6-50b5, «Harvard Studies in Classical Philology», 79 (1975), pp. 125-148 e M.L. G ILL, Matter and Flux in Plato’s «Timaeus», «Phronesis», 32 (1987), pp. 34-53. 16 Su questo passo si cf. K. A LGRA, Concepts of Space in Greek Thought , Brill, Leiden 1995, pp. 110 sqq. e MIGLIORI, Ontologia e materia cit., pp. 96 sqq. 14
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Rispetto a questo quadro esegetico, che non sarebbe fuori luogo definire sconfortante, va tuttavia riconosciuto che, almeno per le questioni che riguardano l’argomento qui esaminato, l’argomentazione platonica sembra abbastanza lineare. Il senso del ragionamento di Timeo consiste, in estrema sintesi, in una sorta di de-sostanzializzazione dello statuto ontologico dei corpi fenomenici, ossia della realtà spazio-temporale. Timeo infatti osserva che nessuno dei corpi elementari, cioè dei quattro elementi, possiede una stabilità tale da meritarsi la qualifica di tovde kai; tou' to, ossia di questo e codesto ; l’incessante flusso nel quale il mondo sensibile è coinvolto fa sì che di ciascuna realtà che lo abita si possa legittimamente dire solo che è tale toiou' ( ton), vale a dire che rappresenta una qualità (piuttosto che qualcosa di simile a una sostanza). Come detto il ragionamento di Timeo presenta un andamento abbastanza contorto, ma non tale da precluderne la comprensione dei principali assunti filosofici. «Innanzitutto, ciò che abbiamo chiamato acqua, quando ci sembra condensarsi, lo vediamo trasformarsi in pietre e terra, mentre, quando evapora e si scioglie, questo stesso elemento si trasforma in soffio e aria, e l’aria, quando si infiamma, si trasforma in fuoco, mentre quando a sua volta si raccoglie e si spegne, il fuoco torna di nuovo in forma di aria, e ancora l’aria, quando si concentra e si condensa, si trasforma in nube e nebbia; e da queste, quando sono ancora più concentrate, viene fuori acqua che scorre e, dall’acqua, di nuovo terra e pietra, producendosi reciprocamente, sembra, come in un cerchio. Così, dal momento che ciascuna di queste cose non appare mai la stessa, di quale di esse si potrebbe sostenere con fermezza, senza vergognarsi, che, di qualsiasi cosa si tratti, è proprio questa e non un’altra? Non è possibile, ma è assai più sicuro esprimersi su queste cose, ponendo quanto segue: di ciò che vediamo sempre divenire altro e di altra natura, come il fuoco, non bisogna dire il fuoco è un questo tou' [ to], ma invece: il fuoco è un tale toiou' [ ton], né che l’acqua è questo ma l’acqua è sem17 pre tale . [...] Non bisogna dunque esprimersi in tal modo [ossia utilizzando termini come questo, codesto ecc.] su ciascuna di queste cose, ma occorre chiamare così ciò che è tale, che rimane simile a sé, pur passando sempre in ciascuna cosa e in tutte; e bisogna appunto chiamare fuoco ciò che resta tale in ogni cosa, e così per tutto ciò che sia soggetto al divenire. Ma ciò in cui ciascuna di queste cose, generandosi, appare sempre e da cui poi di nuovo scompare, solo quello bisogna invece chiamare con l’espressione questo [...], mentre ciò che è in possesso di una qualche qualità, caldo o bianco o qualunque altro degli opposti, e tutto ciò che ne deriva, a nulla di tutto ciò, al contrario, bisogna attribuire quelle denominazioni» (Tim., 49B-50A).
Al di là delle difficoltà di cui si diceva, il senso del ragionamento di Platone Ho qui modificato la struttura sintattica accettata da Fronterotta; non credo, in ogni caso, che la questione sia veramente decisiva; si tratta piuttosto di collocare l’enfasi della frase su un punto anziché su un altro; per questo mi paiono condivisibili le osservazioni di D.P. H UNT, The Problem of Fire: Referring to «Phenomena» in Plato’s «Timaeus» , «Ancient Philosophy», 18 (1998), pp. 69-80, in particolare pp. 70-71. 17
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sembra abbastanza perspicuo. L’instabilità che caratterizza il flusso fenomenico della realtà sensibile non consente alcuna forma di fissazione linguistica (l’uso di termini quali questo, codesto, ecc.) che presupponga in qualche misura una sostanzializzazione del referente oggettuale. Gli stessi elementi primari, cioè aria, acqua, terra e fuoco, non rappresentano entità stabili (equiparabili, mutatis mutandis , alle sostanze aristoteliche), ossia degli individui metafisici ( tovde kai; tou' to), bensì determinazioni qualitative ( toiou' ton) appartenenti al terzo genere, vale a dire al ricettacolo universale. Questo aspetto emerge in modo abbastanza esplicito in due passi successivi, nei quali Timeo spiega che il fuoco e l’acqua (che si sarebbe tentati di considerare come entità autonome) non sono in realtà che sezioni spazio-temporalmente circoscritte del ricettacolo, le quali risultano rispettivamente infuocate e inumidite, ossia soggette a modificazioni di natura qualitativa. Dichiara in proposito Timeo: «E per quanto sia possibile avvicinarsi alla sua [del ricettacolo] natura, si potrebbe dire così, nel modo più corretto: ogni volta appare fuoco la porzione infuocata di esso, acqua la porzione liquida, terra e aria nella misura in cui accoglie delle imitazioni di esse [mimhvmata touv twn]» (Tim., 51B; cf. anche 52D).
Lasciando per il momento da parte la questione di che cosa siano le imitazioni alle quali qui si allude, vale la pena richiamare l’attenzione sull’elemento teorico più rilevante del ragionamento di Timeo, che consiste appunto nella considerazione dei corpi fisici come qualità del ricettacolo . Timeo arriva addirittura a dire che l’unico soggetto ontologico dotato di stabilità, e dunque suscettibile di vedersi assegnare determinazioni linguistiche fissanti (questo, codesto), è proprio il ricettacolo, di cui, dunque, i corpi fenomenici non sono che modificazioni qualitative. Tutto ciò significa evidentemente che l’ontologia del sensibile si profila come un’ ontologia qualitativa e non sostanziale. Mi sembrano dunque molto pertinenti le considerazioni svolte qualche tempo fa da Rafael Ferber, il quale osservava, a proposito della natura degli enti fenomenici nel Timeo, che «le cose sensibili, infatti, non sono più cose o soggetti ontologici, ma solo entità “relazionali”, vale a dire, il loro status categoriale è fondamentalmente diverso da quello delle idee. La loro struttura non può più essere resa da quella soggetto-predicato, o Fx»18. Si potrebbe, anzi, dire che gli enti sensibili sono predicati del ricettacolo, ossia qualità appartenenti allo spazio-materia, cui, solo, spetta lo statuto di soggetto ontologico 19.
Cf. R. FERBER, Perché Platone nel «Timeo» torna a sostenere la dottrina delle idee, «Elenchos», 18 (1997), pp. 5-27, in particolare p. 21. Si veda anche C HERNISS, A Much Misread Passage cit., p. 361. 19 Si potrebbe dunque affermare che i corpi fisici appartengono alla dimensione aggettivale e non no18
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Il quadro metafisico che sembra profilarsi in questa famosa ed enigmatica pagina del Timeo dovrebbe potersi provvisoriamente descrivere nei seguenti termini. La genesi della realtà sensibile, di cui Timeo accentua gli aspetti fenomenici a discapito di quelli sostanziali (o presunti tali), assume i caratteri di un’azione, dai contorni ancora misteriosi (e in realtà destinati a rimanere in gran parte tali), che il mondo intelligibile esercita nei confronti del ricettacolo universale, ossia del terzo genere. Tale azione determina nel ricettacolo l’assunzione di qualificazioni temporanee (ossia delimitate sia spazialmente, in quanto interessano solo sezioni di esso, che temporalmente), che corrispondono esattamente ai corpi sensibili. Questi ultimi, dunque, si generano nel momento in cui il ricettacolo partecipa, in un modo che Timeo non ha remore a definire estremamente aj tatav ph/ tou' nohtou' aporetico e difficile da concepire ( metalambav non de; porwv kai; dusalwtov taton), all’intelligibile, ossia alle idee (51A-B). Questo significa che la genesi del sensibile è concepita come un evento dinamico , in cui un soggetto ontologico, l’intelligibile, agisce su un altro soggetto ontologico, il ricettacolo, determinando in esso delle modificazioni qualitative. I tre generi evocati da Timeo all’inizio di questa sezione, cioè il modello, la copia e il ricettacolo (48E-49A), e menzionati alla fine della stessa, nella forma rispettivamente dell’essere, del divenire e della chora, ossia della spazialità (52D), costituiscono dunque i protagonisti dell’evento metafisico della generazione del sensibile: l’essere e il ricettacolo rappresentano le cause di questo processo, il divenire, cioè la copia, ne esprime il prodotto. L’intera trattazione del ricettacolo è percorsa, come detto e come si dirà meglio sotto, da una serie di metafore, la cui funzione è esattamente quella di descrivere l’evento metafisico più misterioso, ossia la generazione ontologica dei corpi, la quale dipende dalla partecipazione del ricettacolo all’intelligibile. Il senso dell’impostazione platonica risulta comuque già chiaro dai passi riportati e discussi fin qui. Esso risiede nel richiamo alla natura fenomenica e qualitativa dei corpi, i quali non costituiscono individui metafisici collocati accanto alle idee, ma modificazioni prodotte in qualche forma (misteriosa e difficile da comprendere) dalle idee su un’entità, il ricettacolo universale appunto, introdotta da Platone allo scopo di tentare di risolvere le aporie della partecipazione20.
minale del linguaggio; cf. in proposito le intelligenti osservazioni di H UNT, The Problem of Fire cit., pp. 75 sqq. 20 Su questo motivo mi permetto di rinviare al mio saggio Separazione asimmetrica e causalità eidetica cit., passim.
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5. Tra spazio e materia: la natura ambigua del terzo genere
Le affermazioni platoniche intorno al ricettacolo universale del divenire presentano un alto grado di problematicità, e spesso sconfinano nella vera e propria contraddittorietà, tanto da indurre più di uno studioso a considerare filosoficamente inconsistente (e di fatto incoerente) questa sezione del Timeo21. Naturalmente, la più vistosa di queste presunte contraddizioni consiste nella compresenza nella descrizione del ricettacolo di due aspetti apparentemente inconciliabili, quello costitutivo-materiale e quello locale-spaziale; ma non si tratta dell’unico elemento di ambiguità: è stato osservato, ad esempio, che Timeo sembra alternare due modelli inconciliabili per spiegare la costituzione ontologica dei corpi fisici, l’uno qualitativo (fondato sostanzialmente sulla teoria delle idee), sviluppato da 49A fino a 52D, l’altro geometrico (mirante a ricondurre le caratteristiche dei corpi alla loro composizione geometrica), introdotto a partire da 53C22; inoltre, le affermazioni di Timeo sembrano tutt’altro che univoche circa la natura ontologica delle entità che si trovano nel ricettacolo (somiglianze, forme, qualità, o semplicemente corpi fenomenici) e il rapporto che intrattengono con esso (come già Aristotele aveva notato); per non parlare, infine, della questione, a dir poco misteriosa, relativa al rapporto tra la condizione del ricettacolo nella fase pre-cosmica, precedente (logicamente o temporalmente) 23 l’intervento della divinità, e in quella cosmica, ossia successiva a questo intervento. Le difficoltà e le incoerenze appena richiamate sono reali, ma probabilmente non sono tali da negare del tutto consistenza filosofica al ragionamento platonico. Occorre però riconoscere che ogni tentativo di ricostruire la dottrina del terzo genere dovrà inevitabilmente accettare l’esistenza di un margine di opacità (o di contraddizione e incoerenza), di cui Platone, del resto, dovette perfettaDa ultimo ha ravvisato una sostanziale incoerenza nella trattazione platonica del terzo genere K. SAYRE, The Multilayred Incoherence of Timaeus’ Receptacle, in G.J. REYDAMS-SCHILS (ed.), Plato’s «Timaeus» as Cultural Icon , University of Notre Dame Press, Notre Dame 2003, pp. 60-79. Meno radicale, ma pur sempre propenso a considerare parzialmente incoerente la trattazione platonica, anche A LGRA, Concepts of Space cit., pp. 72-120. 22 Sulla compresenza di questa doppia spiegazione cf. K.J. L EE, Platons Raumbegriff. Studien zur Meta physik und Naturphilosophie im «Timaios» , Königshausen & Neumann, Würzburg 2001, pp. 126-151. 23 Come è noto, la questione relativa alla natura della generazione del cosmo nel Timeo, se cioè essa sia temporale (come reputavano Aristotele e i commentatori cristiani) o logico-metafisica (come credevano Senocrate e poi i grandi commentatori neoplatonici pagani), rappresenta uno dei problemi esegetici più dibattuti dalla letteratura filosofica antica; una raccolta commentata dei documenti più significativi di questo dibattito si trova in M. B ALTES, Der Platonismus in der Antike, Frommann-Holzboog, StuttgartBad Cannstatt 1998 (Bd. 5), testi a pp. 84-180 e commento a pp. 373-535. Quale sia l’interpretazione corretta rimane ancora in dubbio, anche se gli argomenti portati da Baltes in favore dell’interpretazione metaforica (cioè logico-metafisica) mi sembrano, se non definitivi, certamente molto consistenti: M. B ALTES, Gev gonen (Platon, Tim. 28B 7). Ist die Welt real entstanden oder nicht? , ora in M. B ALTES, Dianoemata. Kleine Schriften zu Platon und zum Platonismus, Teubner, Stuttgart-Leipzig 1999, pp. 303-325. 21
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mente essere consapevole, se si considerano i suoi continui accenni alla natura misteriosa e per certi aspetti quasi incomprensibile di questa realtà. Si è osservato che l’attribuzione al terzo genere di una natura insieme materiale e spaziale rappresenta l’elemento di maggiore ambiguità contenuto nella descrizione platonica. Si era anche detto, all’inizio di questo contributo, che proprio Aristotele aveva assegnato a Platone l’identificazione tra chora e hyle. Sembra dunque inevitabile affrontare il problema del rapporto tra questi due aspetti del terzo genere. In verità, l’atteggiamento corretto che occorre assumere consiste esattamente nell’abbandonare la pretesa, avanzata da molti interpreti, di privilegiare un aspetto a discapito dell’altro, e dunque di considerare il ricettacolo da un lato solamente come luogo e spazio, dall’altro unicamente come materia costitutiva dei corpi fenomenici 24. Il terzo genere platonico è entrambe le cose; o meglio: esplica sia una funzione spaziale che una funzione materiale e costitutiva. Questa duplicità di aspetti non sarebbe di per sè troppo problematica; le difficoltà vengono in realtà ingigantite dal fatto che la descrizione platonica alterna una prospettiva metafisica (che attiene alla genesi ontologica dei corpi fenomenici) a una prospettiva fisica (che si riferisce ai corpi fisici già generati e bisognosi di un luogo da occupare e nel quale muoversi). Insomma, i corpi fenomenici vengono esaminati tanto dal punto di vista metafisico, dove assumono i caratteri di proiezioni delle idee nel ricettacolo, quanto da quello fisico, in cui essi appaiono a noi come oggetti connotati per mezzo del movimento locale 25. Il ricettacolo è dunque senza dubbio spazio (cwvra) e luogo tov ( po"), sede e{ ( ndra) dei corpi fisici. Ma a un livello precedente e più fondamentale, esso è lo spazio metafisico in cui si manifestano le idee, o meglio le proiezioni delle idee nell’universo spazio-temporale. Se il mondo è una copia e un’immagine dell’essere, ossia delle idee, queste ultime devono avere uno specchio nel quale riflettersi, dando così origine alle immagini di sé, vale a dire agli enti fenomenici. Si comprende in questo modo come molti interpreti abbiano equiparato il ricettacolo a uno specchio in cui le idee si riflettono; nell’ambito di una simile analo-
Tra coloro che hanno interpretato il terzo genere in termini topologici e spaziali si possono menzionare R.D. MOHR, The Platonic Cosmology, Brill, Leiden 1985, pp. 90 sqq., il quale ad esempio reputa insignificante l’analogia della massa d’oro formulata in 50A-B, e J.J. C LEARY, Plato’s Teleological Atomism, in T. CALVO / L. B RISSON (eds.), Interpreting the «Timaeus-Critias», Proceedings of the IV Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 1997, pp. 239-247. Tra i fautori di un’interpretazione unicamente materialistica del ricettacolo si segnala il vecchio studio di E. S ACHS, Die fünf platonischen Körper, Spengler, Berlin 1917 («Philologische Untersuchungen Heft», 24), pp. 223-232. Un’ampia discussione delle quattro opzioni possibili (il ricettacolo è 1. materia, 2. spazio, 3. entrambi, 4. né l’uno né l’altro) si trova in M ILLER, The Third Kind cit., pp. 19-32. 25 Queste considerazioni, come molte di quelle che seguono immediatamente, devono molto alle analisi di ALGRA, Concepts of Space cit., pp. 93-110. 24
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gia, il terzo genere fornirebbe il medium che consente l’attuarsi della generazione ontologica dei corpi fisici 26. L’analogia tra ricettacolo e specchio non è priva di elementi euristici (dal punto di vista strutturale la nascita di un’immagine allo specchio e quella di un corpo nel ricettacolo possono venire equiparate sulla base delle seguenti corrispondenze: corpo originale = forma intelligibile; immagine = corpo fenomenico; specchio riflettente = ricettacolo), ma non va naturalmente presa alla lettera. Il ricettacolo non può, ad esempio, venire assimilato a una superficie liscia; inoltre – e si tratta probabilmente della caratteristica più estranea all’analogia – il ricettacolo è dotato di un movimento incessante e disordinato, al quale solo l’intervento dell’intelligibile (metaforizzato dal dio demiurgico) pone fine (attraverso l’imposizione di numeri e figure, ossia strutture geometrico-matematiche)27. ej w/ |) si manifesta l’aDunque il terzo principio è certamente ciò in cui to; ( n zione del piano intelligibile sul sensibile; in questo senso, esso costituisce il luogo metafisico in cui le idee proiettano immagini di sé nell’universo spazio-temporale. In un passo enigmatico Platone dichiara che le cose che entrano ed escoo[ ei; aj mimhvmata), ossia no sono immagini delle cose che sono sempre tw' ( n ntwn delle idee (50C) 28; poi aggiunge che il ricettacolo accoglie le somiglianze di tuto[ ajfomoiwvmata), vale ti gli enti che sono sempre ( ta; tw' n pav ntwn aj eiv te ntwn a dire delle idee (51A); e infine dichiara che la chora riceve le forme ( morfaiv) degli elementi fisici (52D). Ciò dovrebbe indurre a ritenere che le entità accolte dal ricettacolo non siano i corpi fisici (come si sarebbe tentati di desumere da 50B), bensì qualcosa di simile a caratteri immanenti derivati dalle idee. Del resto, i corpi fisici non possono entrare nel ricettacolo, per la semplice ragione che essi non esistono indipendentemente dal ricettacolo, che rappresenta, come si dirà tra breve, il loro principio costitutivo-materiale. Dunque, l’ipotesi che a entrare nel ricettacolo siano copie intelligibili delle idee (o forse meglio qualità de-
L’interpretazione del ricettacolo come specchio ha avuto sostenitori illustri: ad esempio C ORNFORD , Plato’s Cosmology cit., p. 177 (ma cfr. anche pp. 181, 184, 194) e M OHR, The Platonic Cosmology cit., pp. 92-93. Ad essa si è opposto con argomenti piuttosto consistenti J. K UNG, Why the Receptacle is not a Mirror, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 70 (1988), pp. 167-178. L’analogia è stata riproposta recentemente in modo efficace, soprattutto con un’attenuazione di certi eccessi, da A. M ERKER, Miroir et cwv ra dans le «Timée» de Platon , «Études Platoniciennes», 2 (2006), pp. 79-92. 27 Scrive in proposito J. D ILLON, The Riddle of the «Timaeus»: Is Plato Sowing Clues? , in M. LOYAL (ed.), Studies in Plato and the platonic Tradition , Essays Presented to John Whittaker, Asghate, Aldershot-Brookfield-Singapore-Sydney, pp. 24-42: «besides the paradigmatic function of the system of forms, there is also an efficient, or creative, function inherent in them, which brings about the (continual) imposition on the material substratum of projections of the forms, in the mode of geometrical (or quasi geometrical) figures» (p. 30). 28 Il passo non è privo di problemi testuali, anche piuttosto significativi; per un primo approccio ai quali rinvio a M ILLER, The Third Kind cit., p. 102 e a F ERRARI , Causa paradigmatica e causa efficiente cit., pp. 93-94. 26
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rivate dalle idee) non sembra affatto azzardata, sebbene essa (destinata per altro ad avere un grande successo nel platonismo antico) non possa considerarsi priva di difficoltà (sia testuali che di ordine filosofico) 29. Come detto, il ricettacolo non è solo il luogo metafisico in cui si manifestano le idee (o le forme immanenti) dando in questo modo origine ai corpi fenomenici. Esso è anche lo spazio fisico di questi corpi, ossia la sede nella quale essi si muovono e in generale divengono. Non si tratta tuttavia di uno spazio assoluto, vale a dire omogeneo, astratto e geometrico, come quello della fisica moderna. In altri termini, la chora non è assimilabile a un contenitore neutro nel quale si trovano i corpi fenomenici; non lo è, per la semplice ragione che essa è anche principio costitutivo di questi corpi, ossia qualcosa di analogo alla causa materiale o al sostrato. Quando Aristotele assimila la chora del Timeo alla hyle compie certamente una forzatura ermeneutica; tuttavia, la sua operazione non è del tutto illegittima, come dimostra un’analisi, anche superficiale, delle analogie adottate da Platone a proposito delle funzioni del terzo genere. La difficoltà di assimilare questo genere alla materia dipende soprattutto dal fatto che, mentre la presenza in esso di un aspetto spaziale è abbondantemente provata dall’uso da parte di Platone di termini che richiamano esplicitamente questo motivo ( chora, topos, hendra), nel caso della componente materiale mancano formulazioni esplicite (almeno dal punto di vista terminologico), e tale aspetto emerge quasi unicamente attraverso il ricorso alle metafore. La più esplicita di queste è probabilmente quella della massa d’oro, cui Timeo equipara il ricettacolo del divenire. Egli spiega che: «se qualcuno, dopo avere modellato con dell’oro ogni tipo di figura, non smettesse di trasformarle tutte in tutte le altre, e se gli si chiedesse, indicandogli una di queste, di cosa si tratta, la risposta di gran lunga più sicura rispetto alla verità sarebbe quella di dire che si tratta di oro; mentre il triangolo e tutte le altre figure che si sono generate nell’oro, mai si potrebbe dire che sono queste, giacché mutano nel momento stesso in cui sono poste, ma bisognerebbe accontentarsi se esse ammettono con una certa sicurezza una simile denominazione: tale (di tal specie)» (50A-B)30.
A favore dell’ipotesi delle forme immanenti si è espresso A LGRA, Concepts of Space cit., p. 102, secondo il quale i costituenti della generazione sono dunque quattro: 1. le idee trascendenti, 2. i caratteri autoidentici, immagini e qualità che entrano nel ricettacolo, 3. i corpi fenomenici, 4. il ricettacolo. Vale la pena segnalare il saggio di E.D. P ERL, The Presence of the Paradigm: Immanence and Trascendence in Plato’s Theory of Forms, «The Review of Metaphysics», 53 (1999), pp. 339-362, il quale sostiene la natura sia trascendente che immanente delle forme. Sulla presenza nel platonismo antico di una concezione delle forme immanenti cf. F. F ERRARI , Dottrina delle idee nel medioplatonismo, in F. FRONTEROTTA / W. LESZL (a cura di), Eidos – Idea. Platone, Aristotele e la tradizione platonica, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 253-246, in particolare pp. 243-245. 30 Sulla analogia dell’oro cf. E.N. L EE, On the «Gold-Example» in Plato’s «Timaeus» (50A5-B5) , in 29
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Timeo contrappone nuovamente la stabilità ontologica ( tou' to) del ricettacolo, che permane al mutare della configurazione fenomenica delle entità che lo occupano, alla natura qualitativa toiou' ( ton) e mutevole dei corpi sensibili. Sul ej w| /) si manipiano metafisico, dunque, il ricettacolo non è solo ciò in cui to; ( n festano le proiezioni delle idee (dando così origine ai corpi fenomenici), ma anche ciò di cui to; ( ejx ou|) questi corpi sono costituiti. La presenza di una componente materiale nella descrizione delle funzioni del terzo genere emerge in modo altrettanto evidente nel caso della metafora dell’impressione, cui Platone assimila l’evento metafisico della partecipazione. Egli osserva infatti che il ricettacolo rappresenta una sorta di ejkmagei'on, cioè di materiale molle disponibile a ricevere le impronte provenienti dall’esterno; e aggiunge che esso viene mosso e formato ( kinouvmenov n te kai; diaschmatizovmenon), e dunque impresso, dalle realtà che vi entrano (50C); per concludere, qualche riga dopo, sostenendo che il ricettacolo rappresenta ciò in cui si realizza l’im pronta ej ( n w| / ejktupouvmenon), vale a dire ciò che viene impresso (50D). Del resto, anche l’altra immagine alla quale Platone assimila la generazione ontologica dei corpi fenomenici comporta l’attribuzione al ricettacolo di un aspetto materiale e costitutivo. Timeo infatti invita a paragonare la generazione fisica alla nascita di un figlio, equiparando la funzione del modello a quella del padre, la funzione del termine intermedio, ossia del ricettacolo, a quella della madre, e il prodotto, ossia il cosmo generato, al figlio (50C-D). È noto che nella cultura filosofico-scientifica della Grecia del V-IV secolo la madre rappresenta l’aspetto passivo e materiale della riproduzione; in realtà, il complesso delle metafore platoniche attenua questo elemento passivo, dal momento che il ricettacolo viene paragonato anche alla nutrice tiqhv ( nh: 49A e 52D), che assolve alla funzione di nutrire e allevare il fanciullo, ossia, fuori di metafora, il divenire fenomenico31. L’analisi approfondita del complesso gioco metaforico approntato da Platone rende indubbiamente meno bizzarra l’identificazione tra chora e hyle formulata da Aristotele. Il ricettacolo universale del divenire assume chiaramente i contorni di un principio costitutivo e materiale nei confronti del divenire stesso. Tanto che la natura ontologica dei corpi fenomenici viene espressamente assimilata a una qualificazione spazialmente e temporalmente circoscritta del ricettacolo. Il quale si profila, dunque, sia come il luogo metafisico (dove appaiono le proiezioni delle idee) e fisico (dove si muovono i corpi) del divenire, sia come
J.P. ANTON / G.L. KUSTAS (eds.), Essays in Ancient Greek Philosophy, State University of New York Press, Albany 1971, pp. 219-235 e M ILLER, The Third Kind cit., pp. 93-96. 31 Per questo aspetto cf. L EE, Platons Raumbegriff cit., pp. 126-127 e M ILLER, The Third Kind cit., pp. 106-109.
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il sostrato metafisico (improntato dalle idee) e la materia fisica delle realtà fenomeniche32. Anche l’assimilazione del terzo genere alla materia va assunta con la massima prudenza, per scongiurare il rischio di veri e propri fraintendimenti. La materia alla quale allude eventualmente Platone non è una materia inerte, passiva e dunque neutrale. Si tratta piuttosto di una materia caratterizzata da un movimento incessante, irregolare e disordinato; del resto, già all’inizio del suo lungo monologo Timeo aveva affermato che l’azione cosmopoietica di dio (concepito come un artigiano divino) 33 non si esercita su un sostrato in quiete, bensì kinouvmenon plhmmelw' " kai; tav aj ktw", ossia dotato di un movimento irregolare e disordinato (30A); la natura cinetica del ricettacolo viene nuovamente sottolineata all’interno della celebre (e francamente misteriosa) sezione in cui Timeo sostiene che la nutrice, ossia la chora, viene scossa dagli elementi (o piuttosto dalle tracce degli elementi) che si trovano in essa (nella forma di qualità disposte in modo non omogeneo), e, a sua volta, scuote questi elementi, producendo così un moto incessante e disordinato, che caratterizza lo stato dell’universo in assenza della divinità, cioè in assenza di un principio razionale e intelligibile (52E-53A)34. In questo contesto, la cosmogenesi viene scandita in due fasi (distinte probabilmente solo sul piano logico e non su quello temporale): nella fase precosmica il sostrato viene impresso in modo misterioso da forme ( morfaiv) derivate dalle idee degli elementi, le quali danno origine a tracce precosmiche dei corpi primari; su tali tracce si esercita l’azione cosmopoietica del demiurgo, che consiste nella schematizzazione geometrico-matematica ( ei[desiv te kai; ajriqmoi' ": 53B) delle entità presenti nel sostrato 35. L’ambiguità di fondo che percorre la trattazione del terzo genere, ossia del-
Sulla doppia natura della chora, contemporaneamente ciò in cui appaiono le cose sensibili e ciò di cui esse sono fatte, è tornato recentemente anche L. B RISSON, À quelles conditions peut-on parler de «matière» dans le «Timée» de Platon? , «Revue de Métaphysique et de Morale», 108 (2003), pp. 5-21, il quale sembra però confinare questa dualità sul piano fisico. 33 Sul significato filosofico della metafora artigianale (attiva tanto sul versante cosmologico che su quello politico) cf. M. V EGETTI, Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel «Timeo» di Platone, in M. VEGETTI, Dialoghi con gli antichi , a cura di S. Gastaldi / F. Calabi / S. Campese / F. Ferrari, Academia Verlag, Sankt Augustin 2007, pp. 111-122. 34 Sulla descrizione del caos precosmico rinvio a C ORNFORD , Plato’s Cosmology cit., pp. 197-210; G. VLASTOS, The Disorderly Motion in the «Timaeus», ora in A LLEN (ed.), Studies in Plato’s Metaphysics cit., pp. 379-399; BRISSON, Le Même et l’Autre cit., pp. 466-513; molto utili anche le note ad locum di FRONTEROTTA, Platone, «Timeo» cit., pp. 278-281. 35 Bisogna però riconoscere che questa ricostruzione non è affatto priva di aspetti problematici, per lo più connessi alla mancanza di affermazioni inequivoche circa il rapporto tra fase precosmica e fase cosmica. Una buona discussione si trova in F. K ARFIK, Die Beseelung des Kosmos. Untersuchungen zur Kosmologie, Seelenlehre und Theologie in Platons «Phaidon» und «Timaios», Saur, München-Leipzig 2004, pp. 152-160. 32
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Franco Ferrari
l’ambito della causa errante, trova forse l’espressione metaforica più pregnante nell’utilizzo del termine chora, con il quale Platone sembra volere riassumere la natura del ricettacolo. In effetti, la chora non è solamente la regione e il luogo in cui si trova la città; essa, in quanto territorio, è anche la fonte del suo sostentamento, e, per traslato, la materia primordiale di cui si costituisce. 6. Conclusioni: materia e indeterminazione secondo Platone
Giunti al termine di questa panoramica sulla concezione platonica della materia (certamente parziale e bisognosa di ulteriori approfondimenti), vale la pena riprendere in mano la testimonianza di Aristotele, il quale, come si ricorderà, aveva individuato una sostanziale convergenza (se non altro dal punto di vista del contenuto filosofico) tra la concezione della chora contenuta nel Timeo e la teoria relativa al partecipante esposta nelle dottrine non scritte. Questa convergenza risulta rafforzata ove si consideri che Aristotele applica al grande e al piccolo, cioè al principio di indeterminazione delle dottrine non scritte, la medesima immagine utilizzata da Platone a proposito del ricettacolo. Esponendo i contorni generali dell’ontologia del suo maestro, e in particolare la teoria dei principi formulata nell’ambito dell’insegnamento orale, Aristotele ipotizza che Platone avrebbe duplicato il principio di indeterminazione (che nei Pitagorici era rappresentato da un’unica realtà, l’ a[ peiron) introducendo appunto la diade indeterminata aj ( orv isto" duav ") del grande e del piccolo, in ragione del fatto che da essa, come da un materiale molle w{ ( sper e[k tino" ejkmageivou), si generano i numeri, cioè le idee (assimilate a numeri), nel momento in cui questa dualità entra in contatto con (cioè partecipa al) l’uno ( Metaph., A 6, 987a33-b1). Dunque la diade indeterminata viene equiparata, esattamente come il ricettacolo del Timeo, a un materiale molle (si pensi alla cera), pronto a subire l’impressione da parte di qualcosa di assimilabile a sua volta a uno stampo ( tuv po"). Si ricorderà che nel Timeo l’immagine dell’impressione serviva a evocare l’evento metafisico della partecipazione (del ricettacolo all’intelligibile); anche nella testimonianza aristotelica il grande e il piccolo partecipano dell’uno, dal quale risultano in qualche modo impressi, e attraverso questa partecipazione ( kata; mevqexin) danno origine alle idee (987b20-22). Se poi si considera che Aristotele si sente legittimato, certo non senza qualche forzatura, ad attribuire all’uno la funzione iv ) e al grande e piccolo quella di materia ( u{lh) della generaziodi essenza (oujs a ne ontologica delle idee, la solidarietà funzionale tra il ricettacolo e la diade indeterminata risulterà ancora più evidente. Platone sembra avere immaginato per la generazione ontologica (non temporale) delle idee uno schema abbastanza simile a quello descritto a proposito del-
La chora nel Timeo di Platone
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la generazione ontologica dei corpi fenomenici: un sostrato illimitato e fluttuante entra in qualche modo in contatto (per mezzo della partecipazione) con un principio limitante, venendone impresso; il risultato di questa «impressione» è costituito dai corpi fisici nel caso del ricettacolo e dalle idee (numeri) nel caso del grande e del piccolo. Quest’ultima nozione dovette costituire l’espressione più generale, ossia più comprensiva, con la quale Platone concepì il principio di indeterminazione, da intendersi dunque come fluttuazione tra due estremi indeterminati (il grande e il piccolo, il più e il meno, l’eccesso e il difetto ecc.) 36. Si tratta, come si vede, di una nozione fortemente astratta, la quale comprende al proprio interno anche l’aspetto materiale. In effetti, l’analisi contestuale della sezione del Timeo dedicata alla chora (causa errante, ricettacolo universale, ecc.) e della testimonianza aristotelica intorno al principio del grande e piccolo induce senz’altro a concludere che per Platone la dimensione materiale costituiva un aspetto (o anche una funzione) che concorre, accanto ad altri (spaziale, locale, cinetico), a determinare la natura del principio di indeterminazione, il quale esprime la condizione ontologica della realtà prima (in senso logico) della partecipazione alla dimensione intelligibile e razionale dell’essere.
Sulla diade indeterminata del grande e del piccolo come nozione comprensiva di ogni forma di indeterminazione (e dunque anche del ricettacolo del Timeo) si veda il monumentale studio di H. H APP, Hyle. Studien zum aristotelischen Materie-Begriff , de Gruyter, Berlin-New York 1971, pp. 82-136, in particolare p. 130. 36