�odlibet Giorgio Agamben Gusto
Un luogo comune vuole che il gusto sia 'organo con cu conosciamo la bellezza e godiamo dele cose belle. Dietro questa pacica facciata, il saggo di Agamben mette invece a nudo la dimensione tutt'altro che rassicurante d una frattura che dvide immedicabilmente il soggetto Al'incrocio di verità e bellezza, di conoscenza e piacere, il gusto appare come il sapere che non si sa e il pacere che non s gode. in questa nuova prospettiva, estetica ed economia, homo stheticus e homo conomicus, rive lano una segreta e inquietante complcità.
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Giorgio Agamben
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Questo studio è stato originariamente pubblicato in Ecd Eaud vol Einaudi Torino 7· Quodlibet sr Macerata via Santa Maria della Porta 43 wquodlibetit © 05
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1 Scenza e piacere n opposizione ao statuto priviegiato as segnato aa vista e a'udito, nea tradizione dea cutura occidentae i gusto è cassicato come i senso più basso, i cui piaceri 'uomo condivide con gi atri animai (Aristotee, Eti ca Nimachea, 1118a) e ae cui impressioni non si mescoa «nua di morae» (Rousseau, 1781, p 303) Ancora nee Lezioni su'este tica di Hege (18171829), i gusto è opposto ai due sensi «teoretici», vista e udito, perché «non si può degustare un'opera d'arte come tae, perché i gusto non ascia 'oggetto ibe ro per sé, ma ha a che fare con esso in modo reamente pratico, o dissove e o consuma» (Hege, 18171829, p 696) D'atra parte, in greco, in atino e nee ingue moderne che da esso derivano, è un vocaboo etimoogi camente e semanticamente connesso con a
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sfera del gusto che designa l'atto della cono scenza: «Il sapiente è così chiamato da sapo re (Sapiens dictus a sapore) poiché, come il gusto è atto alla distinzione del sapore dei cibi, così il sapiente ha la capacità di cono scere le cose e le loro cause, in quanto, tutto ciò ch'egli conosce, lo distingue secondo un criterio di verità» suona ancora nel secolo un'etimologia (libro x 240) di Isidoro di Siviglia; e, nelle lezioni del 1872 sui loso preplatonici, il giovane lologo Nietzsche nota a proposito della parola greca soph6s, «saggio»: «Etimologicamente essa appartiene alla famiglia di sapio, gustare, sapiens il gustan te, saphés percepibile al gusto Noi parliamo di gusto nell'arte: per i Greci, l'immagine del gu sto è ancora più estesa Una forma raddoppiata Ssyphos, di forte gusto (attivo); anche sucus ap partiene a questa famiglia» (Nietzsche, 1872 187J, pp 25 3254) Quando, nel corso dei secoli V e xvm si comincia a distinguere una facoltà speci ca cui sono afdati il giudizio e il godimento della bellezza, è proprio il termine «gusto», opposto metaforicamente come un sovrasen so all'accezione propria, che si impone nella maggior parte delle lingue europee per indi care quella forma speciale di sapere che gode
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de'oggetto beo e quea forma speciae di piacere che giudica dea beezza Con a consueta ucidità, Kant individua infatti n dae prime pagine dea Critica del giudizio (1790) '«enigma» de gusto in un'interferen za di sapere e piacere Egi scrive a proposito dei giudizi di gusto: ebbene quest gudz non contrbuscano per nua aa conoscenza dee cose, ess appartengo no nondmeno uncamente aa facotà d cono scere e rveano un'mmedata reazone d questa facotà co sentmento de pacere... Questa re azone è propro cò che v è d engmatco nea facotà de gudzo. (Kant, 790, p. 6)
Fin da'inizio i probema de gusto si presenta così come queo di un «atro sa pere» (un sapere che non può dar ragione ne suo conoscere, ma ne gode; nee paro e di Montesquieu «'appicazione pronta e squisita di regoe che neppur si conoscono» Montesquieu, 175 5, p 735 ) e di un «atro piacere» (un piacere che conosce e giudica, se condo quanto è impicito nea denizione de gusto di Montesquieu come mesure du pi sir): a conoscenza de piacere, appunto, o i piacere dea conoscenza, se nee due espres
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sioni si dà al genitivo un valore soggettivo e non solo oggettivo. estetica modern a partire da Baumgarten, si è costruita come un tentativo di indaga re la specialità di questo «altro sapere» e di fondarne l'autonomia accanto alla conoscen za intellettuale (cognitio sensitiva accanto a quella logica, intuizione accanto a concetto). In questo modo, congurandone il rapporto come quello di due forme autonome all'in terno dello stesso processo gnoseologico, essa lasciava però nell'ombra proprio il pro blema fondamentale, che, come tale, avrebbe meritato di essere interrogato: perché la co noscenza è così originalmente divisa e per ché essa intrattiene, altrettanto originalmen te, un rapporto con la dottrina del piacere, cioè con l'etica? Ed è possibile una riconci liazione della frattura che vuole che la scien za conosca la verità, ma non ne goda e che il gusto goda della bellezza, senza pterne dar ragione? Che ne è, cioè, del «piacere della co noscenza»? Come può la conoscenza godere (gustare)? Nel presente studio, mentre si con sidererà l'estetica nel senso tradizionale come un campo storicamente chiuso, si proporrà invece una situazione del gusto come luogo privilegiato in cui emerge alla luce la frattura
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dell'oggetto della conoscenza in verità e bel lezza e del tlos etico dell'uomo (che nell'etica aristotelica appare ancora indiviso nell'idea di una ther che è anche tele eudaimona, «perfetta felicit») in conoscenza e piacere, che caratterizza in modo essenziale la meta sica occidentale. Nella formulazione pla tonica, questa frattura è, anzi, così originale, che si pò dire che sia essa stessa a costituire il pensiero occidentale non come sopha, ma come philo-sopha. Solo perché verità e bel lezza sono originalmente scisse, solo perché il pensiero non può possedere integralmente il proprio oggetto, esso deve diventare amore della sapienza, cioè losoa.
Verità e bellezza
Lo statuto diferenziale della bellezza è fondato da Platone nel Fedro nell'allegazione che, mentre la sapienza non ha una immagine che possa essere percepita dalla vista, alla bel lezza è invece toccato il privilegio di essere ciò che vi è di più visibile: La bellezza come s'è detto splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze e ance dopo la
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nostra discesa quaggiù l'abbiamo aerrata con il più luminoso dei nostri sensi luminosa e ri splendente. Percé la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa y erò non vede il pensiero hr6nesis ouch hortai). Quali stra ordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualce mai ciara im magine (dlon) di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze ce son degne d'amore. Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più apparente (kphanéstaton) e la più amabile (rasmitaton). (Fdro, 25 d)
Nella mancanza di edlon della sapienza e nella particolare visibilità della bellezza, ciò che è in gioco è, dunque, il problema meta sc originale della frattura fra visibile e invi sbile, apparenza ed essere. Il paradosso della denizione platonica della bellezza è la visi bilità dell'invisibile, l'apparizione sensibile dell'idea. Ma in questo paradosso trova il suo fondamento e la sua ragion d'essere la teoria platonica dell'amore, nel cui ambito il Fedro svolge la trattazione del problema del bello. La visibilità dell'idea nella bellezza è, in fatti, l'origine della mania amorosa, che il Fedro descrive costantemente in termini di sguardo, e del processo conoscitivo che essa
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pone in essere, il cui itinerario è ssato da Platone nel Simposio. Nello stesso Simposio lo statuto di Eros nell'ambito della conoscenza è caratterizzato come medio fra sapienza e ignoranza e, in tal senso, paragonato all'opi nione vera, cioè a un sapere che giudica con giustezza e coglie il vero senza pterne, però, dar ragione. Ed è proprio questo suo caratte re mediale che giustica la sua identicazio ne con la losoa: «Ma non t'accorgi ce c'è qualcosa di medio fra sapienza e ignoranza?» «Ce cosa?» «iudica re con giustezza anc senza essere in grado di darne ragione (l6gon donai). Non sai ce ciò appunto non è scienza - percé dove non si sa dar ragione come potrebbe esservi scienza? Né ignoranza - giaccé ciò ce coglie il vero come potrebbe essere ignoranza? rbene qualcosa di simile è la giusta opinione (orth d6xa) qualcosa di mezzo fra l'intendere e l'ignoranza (mtaxy
phronss kaì amaths)».
(Simposio 202a) «Ance fra sapienza e ignoranza [Amore] si tro va a mezza strada e per questa ragione nessuno degli dèi è losofo o desidera diventare sapiente ( cé lo è già) né ci è già sapiente s 'applica ala losoa. D'altra parte neppure gli ignoranti si danno a losofare né aspirano a diventare saggi
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cé proprio per questo l'ignoranza è terribile ce ci non è né nobile né saggio crede d'aver tutto a sufcienza; e naturalmente ci non av verte d'essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d'aver bisogno>> . «Ci sono allora o Diotima replicai quelli ce s'applicano alla losoa se escludi i sapienti e gli ignoranti?>> «Ma lo vedrebbe ance un bambino rispose ce sono quelli a mezza strada fra i due e ce Amo re è uno di questi. Poicé appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello ne consegue necessariamente ce Amore è losofo e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l'ignorante>> (vi 20 4 ab)
Sempre nel Simposio, l'itinerario amoroso è descritto come un processo che va dalla vi sione della bellezza corporea alla scienza del bello (to kalo mthma) e, nalmente, al bello in sé, che non è più né corpo né scienza: Questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani né con altro ce appartenga al cor po e neppure come concetto o scienza né come risiedente in cosa diversa da lei per esempio in un vivente o in terra o in cielo o in altro ma come essa è per sé e con sé eternamente univoca. (vi 21 ab)
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compito paradossae che Patone assegna aa teoria de'amore è dunque queo di ga rantire i nesso ('unità e insieme a dierenza) fra beezza e verità fra ciò che vi è di più visi bie e 'invisibie evidenza de'idea Appartiene infatti aa più profonda intenzione de pensiero patonico i principio per cui i visibie (e quindi i beo in quanto «ciò che è più apparente») è escuso da'ambito dea scienza Ne ibro v dea Rubblica, a proposito de'astronomia Patone aferma espicitamente che è impossi bie cogiere a verità restando su terreno dee apparenze e dea beezza visibie La bea va rietà dee costeazioni ceesti non può essere come tale, oggetto di scienza: Questi ornamenti disposti nel cielo poicé stan no trapunti su uno sfondo visibile bisogna sì giudicarli i più belli e considerarli i più regolari tra simili oggetti ma molto nferiori ai veri ri guardo a quei movimenti ce a vera velocità e la vera lentezza compiono secondo il vero numero e in tutte le vere gure l'una rispetto all'altra ... Perciò continuai gli ornamenti del cielo devono servire da esempi per poter studiare quegli altri oggetti. n caso simile sarebbe quello di ci tro vasse dei disegni tracciati o elaborati con partico lare maestria da Dedalo o da qualce altro artista o pittore. Vedendoli un esperto di geometria li
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giudicerebbe bellissimi d'esecuzione ma stime rebbe ridicolo esaminarli seriamente per cogliervi il vero concetto dell'eguaglianza o del doppio o di qualce altro rapporto.
(Rpubblica, 5 29ce)
Per questo a ragione Simlicio, formulan do così in qualche modo - nel suo commento a Del elo di Aristotele - il programma delle scienze esatte, poteva congurare l'intenzione più propria dell'epistém platonica come un tà phain6mena szein «salvare le apparenze»: «Ecco quale problema Platone proponeva ai ricercatori in questo campo (l'astronomia): trovare quali movimenti circolari e perfetta mente regolari bisogna supporre per salvare le apparenze presentate dagli astri erranti» (Duhem, 1908, p. 3) Ma solo se si potesse fondare un sapere delle apparenze in quanto tali (cioè, una scienza del bello visibile), sareb be allora possibile affermare di aver veramen te «salvato i fenomeni». epistém, di per sé, non può che «salvare le apparenze» nei rap porti matematici, senza pretendere di esaurire il fenomeno visibile nella sua bellezza. Per questo il nesso veritàbellezza è il centro della teoria platonica delle idee. La bellezza non può essere conosciuta, la veri
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tà non può essere vista: ma proprio questo intrecciarsi di una dupice impossiiità de nisce idea e autentica savazione dee ap parenze ce essa attua ne «atro sapere» di Eros Anzi i signicato de termine «idea» (co suo impicito rimando etimoogico a una evidenza a un iden) è interamente contenu to ne gioco (neunitàdifferenza) fra verità e eezza Per queto ogni vota ce nei dia ogi suamore semra di poter afferrare a eezza questa rimanda ainvisiie così come ogni vota ce si crede di poter strin gere neepistém a consistenza dea verità questa rimanda a vocaoario dea visione a un vedere e a un apparire Proprio percé atto supremo dea conoscenza è scisso in ta modo in verità e eezza e risuta tutta via concepiie soo in questa scissione («a sapienza è sapienza dee cose più ee» i eo è «ciò ce vi è di più apparente» ma a scienza è scienza deinvisiie) i sapere deve costituirsi come «amore de sapere» o «sapere damore» e a di à tanto dea cono scenza sensiie ce deepistém, presentar si come osoa cioè come medio fra scien za e ignoranza fra un avere e un nonavere In questa prospettiva è signicativo ce ne Simposio, a Eros sia attriuita a sfera
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della divinazione. Poiché la divinazione era appunto una forma di «mania», cioè un sape re che non poteva, come l' epistém, rendere ragione di sé e dei fenomeni, ma concerne va ciò che in essi era semplicemente segno e apparenza. La contrapposizione fra or thè mana del sapere d'amore e epistém rimanda ancora una volta al tentativo plato nico di istituire un «sapere altro» e una sal vazione dei fenomeni fra l'invisibilità dell'e videnza (la verità) e l'evidenza dell'invisibile (la bellezza). La teoria platonica dell'amore non è, però, soltanto la teoria di un sapere altro, ma, an che e nella stessa misura, la teoria di un «al tro piacere». Se l'amore è, infatti, desiderio di possedere il bello (Simposio, 204d), se pos sedere il bello è essere felici ( eudamn ) e se, d'altra parte, amore è, come si è visto, amore del sapere, il problema del piacere e quello del sapere sono strettamente connessi. Per questo non è certo casuale che, nel File bo, 1' analisi del piacere sia condotta di pari passo a quella della scienza, e che il bene su premo vi sia identicato come una mescolan za ( synkr sis ) di scienza e di piacere, di verità e di bellezza. Platone distingue qui i piaceri puri (hedonaì kathara{ quelli dei bei co -
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lori, delle gure, di certi odori e dei suoni che possono essere mischiati con la scienza, dai piaceri impuri, che non tollerano alcun rapporto con la conoscenza. La mistione dei piaceri puri e delle scienze pure è, però, espli citamente caratterizzata come opera della bellezza, in modo che l'oggetto supremo del piacere come della scienza si rifugia ancora una volta nel bello («Così ora la potenza del bene . . . si è rifugiata nella natura del bello» 64e). La frattura della conoscenza che Plato ne lasciava in eredità alla cultura occidentale è, dunque, anche una frattura del piacere: ma entrambe queste fratture - che caratterizzano in modo originale la metasica occidentale fanno segno verso una dimensione interme dia in cui si tiene la gura demonica di Eros, il quale soltanto sembra poterne assicurare la conciliazione senza abolirne, insieme, la differenza. Solo se la si colloca su questo sfondo, solo se, cioè, ci si rende conto di quale complessa eredità metasica sia gravida la scienza che, sul nire del secolo xvm viene ingenua mente a proporsi come «scienza del bello» e «dottrina del usto», è possibile porre nei suoi giusti termini il problema estetico del gusto, che è, insieme, un problema di cono
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scenza e di piacere, piacere, anzi, nelle parole di Kant, il problema dell' «enigmatica» «enigmati ca» relazione del conoscere e del piacere. 3· Un sapere sapere che che gode gode e unpcere che che nosce nosce La formulazione del concetto di gusto, a partire dal secolo V no alla sua piena enun ciazione nella copiosa trattatistica settecente sca sul gusto e sul bello, tradisce tradisce quest'origine quest'ori gine metasica nella segreta solidarietà di scienza e piacere che essa presuppone. Il gusto ap pare infatti n dall'inizio come un «sapere che non sa, ma gode» e come un «piacere che conosce». conosce». Non è un caso se, come ha mostra to Robert Klein (1970), la prima apparizio ne di questo concetto vada cercata piuttosto nei trattati sull'amore e nella letteratura ma gicoermetica che nella letteratura artistica propriamente detta. È in un singolare passo del libro xvi della Theologia (16131624), di Campanella, a proposito degli inussi degli angeli e dei demoni sull'uomo, che si trova una delle più precoci apparizioni della me tafora gustativa a signicare una forma par ticolare di conoscenza immediata:
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Non enim discurrendo cognoscit vir spiritua lis utru utrum m daemon daemon an angelu angeluss . . . sibi suadet suadet . . . aliquid; aliquid; se s e d quodam quasi tactu tactu et e t gus gusttu e t in tuitiva notitia... notitia ... quemadmodum lingua statim discernimus dis cernimus saporem sapore m vini et panis. (Non è infatt infattii discorrendo disc orrendo ce l'uomo l'uo mo spiritua le si rende rende conto conto se un demone o un angelo angelo . . . l o convi convince nce. . . d i una cosa; cosa; m a con una sorta sorta di tatto e di gusto ust o e di avvertimento vvertimento i ntuitivo ntuitivo . . . come con l a lingua lingua subito avver avvertiamo tiamo il sapore del de l vino e del pane.) (Cit. in Klein 1 9 70 p. 377 )
Ed è ancora Campanella, nella prefazione alla Metasica (638), (638) , ad opporre il ragiona mento, «che è quasi una saetta con cui rag giungiamo il bersaglio da lontano e senza gustarlo (absque gustu)», una forma di co noscenza per tactum intrinsecum in magna suavit sua vitate. ate. L'idea di una forma di conoscen za altra, che si oppone tanto alla sensazione che alla scienza, ed è insieme piacere e sape re, è il tratto dominante delle prime deni zioni del gusto come giudizio sul bello. Un passo del Discorso delle ragioni del numero del verso italiano di Lodovico Zuccolo ri assume esemplarmente tutti gli elementi del
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problema. A proposito della bellezza del verso egli scrive: scri ve: La causa poi percé pe rcé una una proporzione o conso co nso nanza sia buona e l'altra cattiva per vigore di mente mente umana uman a non può scorgersi scor gersi occa occ a a darne darne il giudicio ad una certa porzione dell'intelletto la quale per conoscere unita co' i sentimenti suole anc pigliare il nome di senso; onde ab biamo in costume c ostume di dire ce l'occio discerne la bellezza della Pittura e l'oreccia apprende l'armonia della Musica. Ma veramente né l'oc cio né l'oreccia sono giudici da sé soli; ce così ance i cavalli cavalli e i cani averebbe averebbero ro quel gu sto della Pittura e della Musica ce sentiamo noi; ma sibene una certa potenza superiore sup eriore uni ta insieme con l'occio e con l'oreccia forma un cotal giudicio: la qual potenza tanto meglio conosce conos ce quanto qua nto à più d'acutezza d'acu tezza nativa nativa o pi p iù di perizia nell'arti senza però valersi di discor so. Bene à conosciuto la mente umana umana ce un corpo corpo per pe r esser bello bel lo riciede riciede più p iù una una propor zione ce l'altr l 'altraa: ma percé poi po i quella sia si a buo na e questa cattiva ne rimane intiero il giudicio a quella potenza unita co' i sentimenti la qual discerne senza discorso. Laonde diremo bene ce la bocca per esempio debba avere tanto di ampiezza di giro di angoli di apertura e di grossezza di labra soavemente esposte in fuo re per rispondere di misura e di proporzione
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al naso alle guance agli occi alla fronte; e ce perciò Lucrezia abbia bella bocca e brutta Ca milla: ma percé poi fatta più all'un modo ce all'altro sia di gusto ne rimane giudice il sen timento inteso nella maniera diciarata da noi; e però sarebbe follia il ricercarne altra ragione. (Zuccolo 623 pp. 89)
Qesta caratterizzazione per così dire in negativo de gsto come «sapere che non si sa» è perfettamente evidente nea denizio ne eibniziana de gsto («i gsto distinto da'inteigenza consiste nee percezioni confse di ci non si potrebbe a sfcienza rendere ragione Si tratta di n qacosa di simie a'istinto») e nea sa osservazione che i pittori e gi artisti che gidicano assai bene e opere d'arte non possono però ren der conto dei oro gidizi se non rimandan do a n non so che («Vediamo che i pittori e gi atri arteci egi scrive ne De cognitio ne veritate et ideis [184] sanno bene che cosa è stato fatto rettamente o maamente ma spesso non possono rendere ragione de oro gidizio e dicono a chi i interroga che nea cosa che non piace manca n non so che
[nescio qui»).
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È tuttavia proprio questo senso vuoto che, nel corso del secolo V acquista una posi zione sempre più assiale nel dibattito intellet tuale. Se si sceglie come campione esemplare della vasta trattatistica settecentesca sul gu sto l'articolo incompiuto che Montesquieu aveva scritto per l' Enopdie, si vede che Montesquieu coglie qui col consueto acume i due caratteri essenziali di quest'altro sape re: «
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cere non sareero stati divisi: «Se a nostra anima non fosse nita a corpo, conoscere e; ma proaimente ciò ce conosceree e piaceree: invece ci piace qasi sotanto ciò ce non conosciamo» (ibid). In qesta prospettiva, i gsto appare come n senso soprannmerario, ce non pò tro var posto nea partizione metasica fra sen siie e inteegiie, ma i ci eccesso deni sce o statto particoare dea conoscenza mana Per qesto i oso ce tentano di descrivere i gsto vengono a trovarsi ne a sitazione de'immaginario viaggiatore de'Histoire comique des Etats et Empires de la Lune (1649) di Crano de Bergerac, a ci n aitante dea na cerca di spiegare ciò ce egi percepisce attraverso i soi sensi: Ne'niverso vi sono forse un miione di cose ce per essere conosciute riciederebbero in voi un miione di organi diversi fra oro. .. se io voessi spiegarvi ciò ce percepisco con i sensi ce vi mancano voi ve o rappresentereste come quacosa ce può essere udito visto toccato odorato o assaporato e tuttavia esso non è nua di tutto ciò.
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Un tale senso, mancante (o soprannume rario) è il gusto, che non si può descrivere se non per metafora; vero e proprio senso anti metasico, ch permette ciò che, per deni zione, è impossibile: la conoscenza dell'appa renza sensibile (del bello in quanto «ciò che è più apparente») come vera e la percezione della verità come apparenza e piacere. Se ora si esamina l'altra faccia di questo senso soprannumerario, cioè il bello che ne costituisce l'oggetto, si vede che, nella trat tatstca sesettecentesca, esso S costtsce, in perfetta simmetria col concetto di gusto, come un signicante eccessivo, che non può essere adeguatamente percepito da nessun senso né riempito da alcuna conoscenza. La teoria del che, che, già a partire dalla seconda metà del secolo xv domina il di battito sul bello, costituisce, da questo punto di vista, il punto di convergenza della dottri na del bello e di quella del gusto. .
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In molte produzioni non solo della natura - scri ve il padre Feijoo nel suo El se qué (1733) - ma ance dell'arte e forse dell'arte più ce della natura gli uomini trovano oltre a quelle perfe zioni ce sono oggetto della loro comprensione razionale un altro genere di misteriosa eccellenza
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ce usingando i gusto tormenta 'inteetto I sensi o papano ma a ragione non può dissipar a e cos cercando di spiegara non si trovano né paroe né concetti ce corrispondano aa sua idea e ci togiamo daa difcotà dicendo ce c'è un non so ce ce piace ce innamora ce incan ta senza ce sia possibie trovare una spiegazione più ciara di questo mistero naturae. (Croce 1 902 p. 21 9)
E Montesquieu coegando i «non so ce» come charme invisible aa sorpresa ( «Tavo ta nee persone o nee cose v'è una attrattiva invisiie una grazia naturae ce nessuno a saputo denire e ce si è ciamata "un non so ce Mi semra ce sia un effetto princi pamente fondato sua sorpresa» Monte squieu 175 5 p 745) nisce impicitamente co'identicare a eezza e i piacere ce ne deriva con a pura e sempice percezione di un'inadeguatezza fra a conoscenza e i suo oggetto Poicé secondo a formuazione de trattato Les passions de lme (1649) di De scartes a meravigia denita come a prima dee passioni non è ce una passione vuota ce non a atro contenuto ce a percezione di uno scarto e di una differenza fra 'oggetto e a nostra conoscenza:
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Quando vedendo un oggetto per la prima volta ne siamo sorpresi o lo giudiciamo nuovo o molto diverso da quanto conoscevamo in precedenza o da quel ce supponevamo dovesse essere allora ce ne meravigliamo e ne siamo stupiti; e poicé ciò può accadere prima ce ci rendiamo menomamn te conto se l'oggetto ci conviene o no la meravi glia mi sembra la prima di tutte le passioni ed essa non a il suo contrario percé se l'oggetto ce ci si presenta non a in sé nulla ce ci sorprenda non ne siamo per niente turbati e lo consideriamo sen za passwne. (Descartes 6 49 p. 436)
In questa prospettiva, il bello, come ogget to del gusto, nisce con l'assomigliare sempre più all'oggetto della sorpresa, che Descartes, con espressione signicativa, deniva appun to come cause fibre: un oggetto vuoto, un puro signicante che nessun signicato ha an cora empto. Nell'articolo sul bello, che Diderot scris se per l'Enopdie, la puricazione e lo svuotamento dell'idea di bellezza da ogni possibile contenuto è spinta no all'estremo. Diderot denisce infatti il bello come «tut to ciò che contiene di che suscitare nella mia mente l'idea di rapporti» (Diderot, 1 7 1 , p. 3 6). Questa idea di rapporto non rimanda,
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però ad acn contento o signicato pre ciso («Qando dico: ttto ciò ce sscita in noi 'idea di rapporti non vogio dire ce per denire eo n essere sia necessario vatare esattamente i tipo di rapporti ce vi sssistono» ivi pp 236237) né ricorda in acn modo 'idea di proporzione de'este tica cassica: essa non è ce a pra idea di reazione in sé e per sé i pro rimandare di na cosa a'atra; in atre paroe i so carat tere signicante indipendentemente da qua lunque signicato coneto, ce Diderot pò non a caso esempicare con e reazioni di parentea cioè con qacosa ce introdce 'individo in na serie di reazioni signi canti pramente formai I rapporto in generae è un'operazione mentae ce considera sia un essere sia una quaità in quanto questo essere o questa quaità suppon gono 'esistenza di un atro essere o di un'atra quaità. Esempio quando dico ce Pietro è un buon padre considero in ui una quaità ce pre suppone 'esistenza di un atro quea de gio; e così per gi atri rapporti quai ce siano. (Diderot 1751, p 241)
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Con un audace excursus antropologico, Di derot riporta l'origine dell'idea di rapporto (e quindi del bello) al problema dell'origine e del lo sviluppo della conoscenza umana in quanto capacità di percepire una signicazione: Ma non appena l'esercizio delle nostre facoltà intellettuali e la necessità di provvedere ai no stri bisogni con invenzioni maccine ecc. ebbe ro prodotto nel nostro intelletto le nozioni di ordine rapporto proporzione legame connes sione simmetria noi ci trovammo circondati da esseri nei quali le medesime nozioni erano per così dire ripetute all'innito; non potremmo fare un passo nell'universo senza ce qualce fenomeno le riciamasse; entrarono nei nostri animi ad ogni istante e da ogni parte. (vi pp. 23 4235 )
Mentre Diderot deniva in questo modo il bello come un signicante eccedente (e, implicitamente, il gusto come il senso della signicazione), Rousseau, nell' Essai sur l'o rigine des langues 78 ) , separava in modo analogo nelle nostre sensazioni e percezioni ciò che attiene all'azione sica degli ogget ti sui sensi dal loro potere in quanto segni, e riconduceva il piacere che ci causa il bello esclusivamente a questo secondo aspetto:
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uomo è modicato dai sensi nessuno ne dubi ta; ma non potendo distinguere e modicazio ni noi ne confondiamo e cause; noi attribuiamo troppa o troppo poca inuenza ae sensazioni; e non vediamo ce spesso esse non ci impressio nano sotanto come sensazioni ma come segni o mmag. .. (Rousseau 1781, p. 290) Fincé non si vorranno considerare i suoni ce per e vibrazioni ce eccitano nei nostri nervi non si avranno afatto i veri principi dea musi ca e de suo potere sui cuori. I suoni nea meo dia non agiscono sotanto su di noi come suoni ma come segni ... Ci dunque vuoe osofare su potere dee sensazioni cominci co'escu dere dae impressioni puramente sensibii e impressioni inteettuai e morai ce noi ricevia mo per a via dei sensi ma di cui essi non sono ce e cause occasionai... I coori e i suoni pos sono moto come rappresentazioni e segni poco come sempici oggetti dei sensi. (vi pp. 300303).
Nea sa formazione più radicae a ri essione settecentesca s eo e s gsto cmina così ne rimando a n sapere, di ci non si pò rendere ragione percé si sostiene s n pro signicante Unbezeichnung, «as senza di signicato» denirà Winckemann a
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bellezza), e a un piacere che permette di giu dicare, perché si sostiene non su una realtà sostanziale, ma su ciò che nell'oggetto è pura signicazione. 4·
La conoscenza eccedente
È nella Critica del giudizio di Kant ( r 790) che la concezione del bello come signican te eccedente e del gusto come sapere/piacere di questo signicante trova la sua espressio ne più rigorosa. Fin dalle prime pagine Kant denisce, infatti, il piacere estetico come un eccesso della rappresentazione sulla cono scenza: Ma quell'elemento soggettivo di una rappre sentazione ce non può essere elemento di co noscenza è il piacere o il dispiacere congiunto con la rappresentazione stessa poicé con l'uno o con l'altro io non conosco niente dell'oggetto rappresentato... Quando il piacere è legato alla semplice apprensione (apprhnsio) della forma di un oggetto dell'intuizione senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata la rappresentazione non è riferita all'oggetto ma unicamente al soggetto; e il pia cere non può ce esprimere altro ce l'accordo
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dell'oggetto con le facoltà conoscitive ce sono in gioco nel iudizio riettente e in quanto esse sono in gioco e quindi soltanto una nalità soggettiva formale dell'oggetto... i giudica cioè la forma dell'oggetto (non l'elemento materia le della sua rappresentazione come sensazione) nella semplice riessione su di essa - senza al cuna mira a un concetto ce se ne potrebbe ri cavare - come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tale oggetto; e questo piacere viene pure connesso con tale rappresen tazione in modo necessario e quindi non solo per il soggetto ce apprende questa forma ma per ogni soggetto giudicante in generale. og getto allora si ciama bello e la facoltà di giudi care mediante tale piacere (e per conseguenza universalmente) si ciama gusto. (Kant 1790 pp. 30-31)
La prospettiva dell'estetica tradizionale, che vede nel gusto una forma di conoscenza accanto a quella logica, ha spesso impedito di vedere quel che pure Kant afferma qui con as soluta chiarezza, e, cioè, che il bello è un'ecce denza della rappresentazione sulla conoscenza e che è proprio questa eccedenza a presentarsi come piacere. Per questo, nella sua triparti zione delle facoltà dell'anima («Tutte le facol tà o capacità dell'anima possono essere infatti
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ricondotte a queste tre, che non si lasciano più a loro volta derivare da un fondamento comu ne: la facoltà di conoscere, il sentimento del piacere e del dispiacere e la facoltà di desidera re» - i vi, p. 6), Kant non riesce ad attribuire ai giudizi di gusto un posto preciso, ma affer ma che essi «rivelano un'immediata relazione della facoltà di conoscere col sentimento di piacere o dispiacere» e che, anzi, «questo rap porto è proprio ciò che vi è di enigmatico nel principio della facoltà di giudizio» (ivi, p. 6). Il giudizio di gusto è, in altre parole, un'ecceden za del sapere, che non conosce (un «giudizio con cui non si conosce nulla»), ma si presenta come piacere, e un'eccedenza del piacere che non gode («La comunicabilità universale di un piacere - scrive Kant - implica già nel suo concetto che il piacere stesso non debba es sere proprio godimento» - ivi, p. 64), ma si presenta come sapere. Ma, proprio per que sta sua situazione fondamentalmente ibrida, esso è il termine medio che «attua il passag gio dalla pura facoltà di conoscere, vale a dire dal dominio dei concetti della natura, al dominio dei concetti della libertà; allo stesso modo che, nell'uso logico, rende possibile l passaggio dall'intelletto alla ragione» (ivi, p. 8). A questo statuto ibrido del gusto corri
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spondono pntamente tanto 'impossiii tà per Kant di denire i eo se non attra verso na serie di determinazioni pramente negative iacere senza interesse; universalità senza ncetto; nalità senza scopo) qanto qea di risovere in modo convincente 'an tinomia de gsto ce nea seconda sezione dea Critica del giudizio, egi aveva forma to in qesto modo: esi: i giudizio di gusto non si fonda sopra concetti percé atrimenti di esso si potrebbe disputare. 2. Antitesi: i giudizio di gusto si fonda sopra concetti percé atrimenti non si potrebbe neppure contendere quaunque fosse a diver sità dei giudizi (non si potrebbe pretendere aa necessaria approvazione atri). (vi p. 201 .
Ce i tentativo di risovere qesta anti nomia mettendo a fondamento de gidizio estetico n «concetto co qae non si cono sce na» non sia soddisfacente è dimostra to da fatto ce Kant stesso si trovò costretto a rimandare a n fondamento sovrasensiie e ad ammettere aa ne ce e sorgenti de gidizio di gsto ci rimangono sconoscite:
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ra cade ogni contraddizione quando io dico il giudizio di gusto si fonda su un concetto (di un fondamento in genere della nalità soggetti va della natura rispetto al giudizio) su un con cetto attraverso il uale è vero nulla può es sere conosciuto e provato riguardo all'oggetto percé esso è in sé indeterminabile e inutile alla conoscenza; ce tuttavia dà al giudizio validità per ognuno (restando in ciascuno il giudizio sin golare immediatamente concomitante all'intui zione); percé fore il principio determinante del giudizio sta nel concetto di ciò ce può es sere considerato come il sostrato soprasensibil dell'umanità ... olo il principio soggettivo cioè l'idea indeterminata del sovrasensibile in noi può essere mostrato come l'unica ciave per spiegare questa nostra facoltà di cui ci restano sconosciute le sorgenti; ma non è possibile ren derla comprensibile in altro modo. (vi pp. 202-203)
Poco oltre Kant precisa il carattere di questa idea estetica denendola ancora una volta come un'immagine eccedente una rap presentazione cioè che non può essere sal vata nei concetti così come le costellazioni ricamate nel cielo non potevano essere salva te nell'epistém platonica:
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Come in un'idea della ragione l'immagina zione con le sue intuizioni non raggiunge il concetto dato così in un'idea estetica l'intel letto coi suoi concetti non raggiunge mai l'in tera intima intuizione dell'immaginazione ce questa congiunge a una rappresentazione data. ra poicé il riportare una rappresentazione dell'immaginazione ai concetti si dice esporla l'idea estetica si può ciamare una rappresenta zione inesponibile dell'immaginazione (nel suo libero gioco). (vi p. 20)
In queste parole di Kant è ancora presente in tutta la sua enigmaticità l'originale fonda zione platonica dell'idea attraverso la diffe renzaunità di bellezza e verità. Come l'idea platonica, csì anche l'idea estetica kantiana è tutta contenuta nel gioco fra una possibili tà e impossibilità di vedere (di immaginare), fra una possibilità e un'impossibilità di co noscere. idea è un concetto che non si può esibire o un'immagine che non si può espor re. eccedenza dell'immaginazione sull'in telletto fonda la bellezza (l'idea estetica), così come l'eccedenza del concetto sull'im magine fonda il dominio del sovrasensibile (l'idea della ragione).
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Per questo, alla ne della sezione seconda della prima parte della Critica del giudizio, il bello si presenta come «simbolo della morali tà» e il gudzo d gusto rimanda «a qualcosa che è nel soggetto stesso e fuori di esso, che non è né natura né libertà, ma è congiunto col principio di quest'ultima, vale a dire col soprasensibile, nel quale la facoltà teoretica e la pratica si congiungono in una maniera co mune, ma sconosciuta» (ivi, p. 217). In questo rimando del gusto al sovrasensibile, si compie ancora una volta il progetto platonico di «sal vare i fenomeni». Ma, a differenza dell'estetica, che si andava in questi stessi anni costituendo come scien tia cognitionis sensitivae, lo statuto dell'idea kantiana esclude (come già in Platone) che vi possa essere una scienza del bello: Non vi è una scienza del bello ma soltanto la critica di esso e non vi sono belle scienze ma soltanto belle arti. Difatti se vi fosse una scienza del bello in essa si dovrebbe decidere scienti camente cioè con argomenti se una cosa deve essere tenuta per bella o no; così il giudizio sulla bellezza appartenendo alla scienza non sarebbe punto un giudizio di gusto. Per ciò ce riguar da le belle scienze è un non senso una scienza ce in quanto tale dev'essere bella. Percé se
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ad essa in quanto scienza domandassimo una risposta in principi e dimostrazioni essa ce la darebbe in sentenze di buon gusto ( bon mots) . (vi p. 163) 5. Al di là del soggetto del sapere
Nelle pagine che precedono, il concetto di gusto è stato interrogato come la cifra in cui la cultura occidentale ha ssato l'ideale di un sapere che si presenta come la cono scenza più piena nell'istante stesso in cui se ne sottolinea l'impossibilità. Un tale sapere, in cui verrebbe a suturarsi la scissione me tasica fra sensibile e intelligibile, è, infatti, un sapere che il soggetto propriamente non sa, perché non ne può dare ragione, un senso mancante o eccessivo, che si situa all'interfe renza di conoscenza e piacere (di qui la sua designazione metaforica col nome del senso più opaco), la cui mancanza o il cui eccesso deniscono però in modo essenziale lo sta tuto della scienza (intesa come sapere che si sa, di cui si può dar ragione e che può perciò essere appreso e trasmesso) e lo statuto del piacere (inteso come un avere su cui non si può fondare un sapere).
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oggetto e il fondamento di questo sapere che il soggetto non sa è designato come bel lezza, cioè come qualcosa che, secondo la con cezione platonica, si dà a vedere (tò kos, «il bello», è la cosa più apparente, ekphanstaton), ma di cui non è possibile la scienza, ma solo l'amore; ed era anzi proprio l'esperienza di questa impossibilità di aferrare l'oggetto del la visione come tale (di «salvare il fenomeno») che aveva spinto Platone a congurare l'idea le della conoscenza non come un «sapere» in senso etimologico (una sopha), ma come un desiderio di sapere (una philosopha). Che vi sia la bellezza, che vi sia un'eccedenza del fe nomeno sulla scienza, ciò equivale a dire: c'è un sapere che il soggetto non sa, ma può solo desiderare, ovvero: c'è un soggetto del desi derio (un phil6sophos), ma non un soggetto della conoscenza (un soph6s). Tutta la teoria dell'Eros in Platone è volta appunto a far co municare questi due soggetti divisi. Per questo a ragione Platone poteva ac costare il sapere d'amore alla divinazione, la quale presupponeva un sapere nascosto nei segni, che non può essere saputo, ma solo ri conosciuto: «questo signica quello» (secon do quanto i più antichi testi divinatori enun ciano nel puo vincolo grammaticale fra una
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protasi e un'apodosi: «se . . . allora. . . »), senza che vi sia alcun soggetto a questo sapere, né altro signicato che il riconoscimento che «vi è un signicante», «vi è la signicazione». Ciò che il divinante sa è, appunto, che vi è un sapere che egli non sa (di qui l'accostamento alla mana e all'invasamento); ed è questo sa pere che Socrate parafraserà identicando in un «nonsapere» il contenuto del proprio sa pere e ponendo in un damn, cioè in un «al tro» per eccellenza, il soggetto del sapere che egli proferisce (nel Crati/o, la parola damn è accostata a daémn, «colui che sa»). La do manda ultima cui il bello (e il gusto come «sapere del bello») rimanda è, dunque, una domanda sul soggetto del sapere: chi è il sog getto del sapere? Chi sa? Ci è accaduto più volte, nel corso di que sto studio, esplicitando idee già formulate dai teorici seisettecenteschi del bello e del gusto (in particolare, da Diderot), di serviri dell'e spressione «signicante eccedente». Que sta espressione proviene da una teoria della conoscenza che è stata elaborata nell'ambito dell'antropologia, ma la cui rilevanza per una riessione sull'estetica non è sfuggita allo stes so autore: intendiamo riferire alla teoria della signicazione che LéviStrauss svolge a pro
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posito del concetto di mana nella sua Intro
duction à l'uvre de Marcel Mauss (1950).
Com'è noto, LéviStrauss potula un rap porto di inadeguazione fondamentale fra la signicazione e la conoscenza, ce si traduce in una irriducibile eccedenza dl sigican te rispetto al signicato, la cui causa è iscrit ta nell'origine stessa dell'uomo in quanto
Homo sapiens:
Le cose [non anno potuto mettersi] a signi care progressivamente. In seguito a una trasfor mazione il cui studio non è di copetenza delle scienze sociali ma della biologia e della psicolo gia si è vericato un passaggio da uno stadio in cui niente aveva un senso a un alto in cui ogni cosa ne possedeva uno. Questa osservazione in apparenza banale è importante ercé questo cambiamento radicale non a cotropartita nel campo della conoscenza la quale al contrario è sottoposta a una elaborazione lenta e progres siva. In altre parole nel momento in cui l'ni verso intero di colpo è diventato signifcativo, non è stato per questo meglio conosciuto, an ce se è vero ce l'apparizione el linguaggio doveva precipitare il ritmo dello viluppo della conoscenza. Esiste dunque una opposizione fondamentale nella storia dello spirito umano tra il simbolismo ce ofre un carattere di di scontinuità e la conoscenza contrassegnata dal
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la continuità. Ce cosa ne deriva? Il fatto è ce le due categorie del signicante e del signicato si sono costituite simultaneamente e solidal mente come due blocci complementari ma la conoscenza e cioè il processo intellettuale ce permette di identicare gli uni rispetto agli altri taluni aspetti del signicante e taluni aspetti del signicato - si potrebbe ance dire di scegliere nell'insieme del signicante e nell'insieme del signicato le parti ce presentano tra loro i rap porti più soddisfacenti di convenienza recipro ca - si è messa in cammino molto lentamente. È accaduto come se l'umanità avesse acquistato di colpo un immenso dominio e il suo scema det tagliato insieme con la nozione de loro rappor to reciproco ma avesse impiegato dei millenni per apprendere quali simboli determinati dello scema rappresentavano i diversi aspetti di quel dominio. universo a avuto un signicato molto prima ce si sapesse ce cosa signicava; ciò è pacico. Ma dall'analisi precedente risulta ance ce a signicato n dall'inizio la tota lità di ciò ce l'umanità può attendersi di cono scere. Ciò ce viene ciamato il progresso dello spirito umano e in ogni caso il progresso della conoscenza scientica non poteva consistere e non potrà mai consistere ce nel correggere frazionamenti nel procedere a raggruppamenti nel denire appartenenze e nello scoprire risor se nuove in seno a una totalità ciusa e comple mentare a se stessa [ ...].
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GUSTO Possiamo perciò attenderci ce il rapporto tra simbolismo e conoscenza conservi caratteri comuni nele società non industriali e nelle no stre ance se con accentuazioni diverse. N o n si scava un fosso tra le une e le altre riconoscen do ce il lavoro di perequazione del s ignicante in rapporto al signicato è stato perseguito in modo più metodico e rigoroso a partire dalla nascita e nei limiti di espansione della scienza moderna. Ma dappertutto altrove e costante mente ancora presso di noi (e per lungissimo tempo certamente) permane una situazione fon damentale ce dipende dalla condizione umana l'uomo dispone cioè n dalla sua origine di una integralità di signicante ce lo pone in grande imbarazzo quando deve assegnarlo a un signi cato dato come tale senza essere per questo conosciuto. ra i due c'è sempre una inade guazione ce solo l'intelletto divino potrebbe eliminare e ce si traduce nell'esistenza di una sovrabbondanza del signicante in rapporto ai signicati sui quali essa può collocarsi. Nel suo sforzo di comprendere il mondo l'uomo dispo ne dunque costantemente di un'eccedenza di signicazione (ce ripartisce tra le cose secondo certe leggi del pensiero simbolico il cui studio è riservato agli etnologi e ai linguisti). Questa di stribuzione di una razione supplementare - se è lecito esprimersi così - è assolutamente necessa ria afncé in complesso il signicante dispo nibile e il signicato individuato restino nel rap
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porto di complementarità ce è la condizione stessa dell'esercizio del pensiero simbolico. Noi crediamo ce le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere considerate nella loro funzione più generale (ce come ab biamo visto non scompare nella nostra menta lità e nella nostra forma di società) rappresenti no esattamente quel signifcant uttuant, ce costituisce la servitù di ogni pensiero nito (ma ance la garanzia di ogni arte di ogni poesia di ogni invenzione mitica o estetica) sebbene la conoscenza scientica sia capace se non proprio di arrestarlo di disciplinarlo parzialmente. (Lévitrauss
950,
pp. L-Ln )
Possiamo, a questo punto, estendere le considerazioni di LéviStrauss a tutto lo sta tuto del sapere nella cultura occidentale, dal mondo antico a oggi. Se si riprende così, in questa prospettiva, ciò che Platone, alla ne del libro v della Repubblica, affema a pro posito dell'astronomia in quanto epistém (e cioè, come si è visto, che essa non può esau rire nella sua spiegazione i fenomeni visibili in quanto tali - le belle costellazioni ricamate nel cielo - ma deve, invece, cercare i rapporti numerici invisibili che essi presuppongono), si può, allora, dire che la scienza antica lascia va necessariamente libero nei fenomeni ciò
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che in essi era pura apparenza (cioè, puro si gnicante), aprendo accanto a sé uno spazio che poteva essere occupato senza contraddi zione dalle scienze divinatorie. esempio dell'astronomia e dell'astrologia (che convivono così pacicamente nell'anti chità) è chiaricatorio: la prima si limita, infat ti, a spiegare i movimenti delle stelle e le loro reciproche posizioni, in modo da «salvare le apparenze» nel senso che Simplicio dà a que sta espressione, ma senza dar ragione, come tali, delle belle gure che le stelle disegnano nel cielo. Il enomeno «salvato» dalla scienza lascia quindi inevitabilmente un residuo libe ro, un puro signicante che l'astrologia può prendere come proprio supporo e trattare come un supplemento di signicazione da di stribuire a suo arbitrio. Vi sono, così, nel mondo antico, due specie di sapere: un sapere che si sa, cioè le scienze nel senso moderno, che si fondano sull'ade guazione del signicante e del signicato, e il saper che non si sa, cioè le scienze divinatorie (e le varie forme di man elencate da Plato ne), che si fondano, invece, sul signicante eccedente. Riprendendo la distinzione fra se miotico e semantico che Benveniste ha formu lato come la «doppia signicazione» ineren
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te al linguaggio umano, si potrebbe denire il primo come sapere del semantico - che ha un soggetto e di cui si può dar ragione - e il secondo come un sapere del semiotico - che non ha soggetto e che si può solo ricono scere. Fra questi due saperi, Platone pone la losoa che, da una parte, come mana, si apparenta alla divinazione, ma, dall'altra, percependo il fenomeno come belezza, non si limita a operare una distribuzione del si gnicante eccedente, ma lo salva, grazie alla mediazione di Eros, nell'idea. A partire dal secolo xv la scienza mo derna estende il proprio territorio a spese delle scienze divinatorie, che vengono esclu se dalla conoscenza. Il soggetto dela scienza si pone come unico soggetto della conoscen za, negando la possibilità di un sapere senza soggetto. Tuttavia, il tramonto delle scienze divinatorie tradizionali non segna in alcun modo la scomparsa del sapere che non si sa: il crescente diffondersi del dibattito sul non so che e sul gusto a partire dal Seicento e il progressivo consolidarsi dell'estetica per tut to il secolo mostrano anzi che la scienza non può né colmare né ridurre il signicante eccedente. Se l'estetica - come sapere del si gnicante ecedente (del bello) - non è, da
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questo punto di vista, che un succedaneo del la divinazione, essa non è però il solo sapere che, nell'epoca moderna, subentra all'eclisse delle scienze divinatorie. Nel corso del seco lo anche le discpline lologiche prendo no, infatti, coscienza della propria specicità rispetto alle scienze della natura, fondando esplicitamente il loro sapere e il loro metodo in un circolo ermeneutico di tipo divinatorio (il che signica, se ben si riette, che la do manda su «Chi sa?» nella lettura e nell'inter pretazione di un testo - se l'interprete, l'au tore o il testo stesso - non è una domanda a cui sia possibile rispondere agevolmente). Ma un'altra scienza - il cui processo di formazione coincide cronologicamente con quello della scienza del bello e che, a partire dal secolo xvm va acquistando un'importan za crescente nel sistema del sapere - rivela, in questa prospettiva, un'inaspettata afnità con l'estetica, se è vero che il gusto non era soltan to, come si è visto, un sapere che non si sa, ma anche un piacere che non gode, ma giudica e misura. Intendiamo parlare dell'economia po litica. Poiché, come l'estetica ha per oggetto il sapere che non si sa, così l'economia politica ha per oggetto il piacere che non si gode. Se essa comincia, infatti, con l'identicare come
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proprio ambito quel «piacere interessato» che Kant escludeva rigorosamente dai conni del bello, l'insegnamento di Marx non è stato in vece quello di mostrare (ponendo al centro delle sue analisi, nel capitolo 1 del Capitale [867], la formavalore e il carattere di feticcio della merce) che essa si fonda, in realtà, non tanto sul valore d'uso (sull'utile, sul piacere goduto), quanto sul valore di scambio, cioè su ciò che nell'oggetto non può essere né goduto né aferrato: sul piacere, appunto, che non si ha? Come Simmel aveva intuito, denendo il denaro (con un'espressione che ricorda singo larmente la denizione del bello di Diderot) come «pura relazione senza contenuto», la formavalore, come il mana di LéviStrauss, è un valore simbolico zero, un puro signican te che indica semplicemente la necessità di un contenuto simbolico supplementare e di un piacere supplementare, il cui calcolo costitu isce l'oggetto delle scienze economiche. osservazione di Mallarmé (897), secon do cui l'estetica e l'economia poltica sono le due sole vie aperte alla ricerca mentale, contie ne allora qualcosa di più che l'indicazione di un'analogia superciale: estetica ed economia politica, homo stheticus e homo conomicus, sono, in un certo senso, le due metà, le due
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frazioni (il sapere che non si sa e il piacere che non si gode) che il gusto aveva cercato per l'ultima volta di tenere unite nell'esperienza di un sapere che gode e di un piacere che sa, prima che la loro esplosione e la loro libera zione contribuissero a mettere in moto quei giganteschi fenomeni di trasformazione che caratterizzano così essenzialmente la società moderna. Alla ne del secolo xx un'altra scienza viene a occupare il campo lasciato libero dalle scienze divinatorie, una scienza che - in quan to denisce il proprio ambito col termine «inconscio» - si fonda n dall'inizio sull'as sunzione che vi è un sapere che non si sa, ma che si rivela in simboli e in signicanti. Come ha scritto colui che ha portato alle più estreme e rigorose conseguenze quanto era iplicito nell'originale appartenenza della psicanali si al sapere del semiotico, «l'analisi è venuta ad annunciare che c'è un sapere che non si sa, un sapere che si sostiene sul signicante come tale . . . inconscio è la testimonianza di un sa pere in quanto sfugge all'essere parlante» (La can, 1975, p. 88). Se la psicanalisi rivela, in questa prospet tiva, una essenziale prossimità con l'estetica (che il concetto di inconscio appaia per la pri
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ma volta in Leibniz ai limiti di quella cognitio sensitiva conusa che l'estetica denirà come proprio territorio, è certamente una prova di questa prossimità), non meno essenziale è, però, la sua relazione con l'economia politi ca. Poiché l' (un pronome di terza perso na, cioè un nonsoggetto, dicono i linguisti), che essa pone come soggetto del sapere che non si sa, è anche il soggetto di un piacere che non si gode. Riconoscendo l'inconscio come luogo dell'economia del piacere, la psicana lisi si situa al limite fra estetica ed economia politica, fra il sapere che non si sa e il piace re che non si gode, e tende a congiungerli in un progetto unitario. (idea di «un'estetica guidata dal punto di vista economico», che Freud formula nel capitolo n di Al di là del principio del piacere 1920], è, da questo pun to di vista, certamente signicativa). Così, per vie diverse, la cultura moderna, nella stessa misura in cui assisteva a un con solidamento senza precedenti delle scienze della natura, assisteva anche al costituirsi e al raforzarsi di nuove scienze del semiotico che prendevano come oggetto il sapere che non si sa e il piacere che non si gode. area del signi cante eccedente non solo non si riduce, ma, in un certo senso, si allarga, quasi che, quanto
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più la scienza progredisce nel suo tentativo di «salvare le apparenze», tanto maggiore fosse il residuo di signicante eccedente (la quanti tà di sapere che non si sa) che deve essere pre so in carico dalle scienze divinatorie. Scienze del semiotico e scienze del semantico, divi nazione e scienza appaiono così strettamente legate in un rapporto di complementarità, in cui le une garantiscono la possibilità e il fun zionamento delle altre. La frattura fra signicazione e conoscen za, fra semiotico e semantico non è, infatti, qualcosa che si è prodotto una volta per tutte fuori dell'uomo, ma è una frattura dello stes so soggetto del sapere, dell'uomo in quanto Homo sapiens. Poiché, come essere parlante e conoscente, l'uomo si tiene insieme nella signicazione e nella conoscenza, il suo sa pere è necessariamente scisso e il problema di chi conosca nella conoscenza (il problema del soggetto del sapere) resta la questione fondamentale di ogni teoria del conoscere. Mentre appartiene alla più profonda inten zione della losoa antica (come anche a quella dell' Ethica spinoziana) l'assunto che pone nell'Idea (o in Dio) il principio della conoscenza, la losoa e la scienza moderne, a partire da Descartes, hanno invece cercato
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di garantire l'unità del conoscere attraverso la nzione di un ego gito, di un Io, che, come pura autocoscienza, si afferma come soggetto unico del sapere. Ma è proprio questo sogget to del sapere che il più recente sviluppo delle scienze umane è venuto a mettere in questio ne. Tanto la psicanalisi - ponendo un come soggetto del sapere che non si sa -, quanto lo strutturalismo - istituendo nella struttura un sapere inconscio categoriale senza riferimento a un soggetto pensante- e la linguistica - iden ticando nei fonemi un sapere indipendente dal soggetto parlante -, fanno segno risolu tamente verso un Altro come soggetto della conoscenza. Il problema diventa, a questo punto, quello del passaggio fra questo sapere che si sa e il sapere che non si sa, fra il sapere dell'Altro e il sapere del soggetto. Ma, come Benveniste ha mostrato che, nel linguaggio, semiotico e semantico rappresentano due mondi chiusi, fra i quali non c'è passaggio, così fra il sapere dell'Altro e il sapere del sog getto c'è uno iato che non si vede come possa essere colmato. Il programma freudiano, se condo cui «dov'era l', io devo essere», non è qualcosa che possa essere attuato, se è vero che l'Io e l'Altro sono, in realtà, necessaria mente complementari.
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Non è perciò sorendente che l'uomo mo derno riesca sempre meno a padroneggiare un sapere e un piacere che, in misura crescente, non gli appartengono. Fra il sapere del sogget to e il sapere senza soggetto, fra l'Io e l'Altro, si apre un abisso, che la tecnica e l'economia cercano invano di colmare. Di qui anche l'impossibilità, per la semio logia, di costituirsi come scienza generale del segno, cioè come un sapere fondato sull'uni tà di signicante e di signicato. Per costitu irsi come tale, essa dovrebbe, infatti, ridurre l'eccedenza del signicante e suturare quella scissione fra sapere del semiotico e sapere del semantico, fra sapere che non si sa e sapere che si sa, che è iscritta nella stessa nozione di segno su cui essa si fonda. Per questo il caso così imbarazzante per i linguisti - degli studi di Saussure sui versi saturniani può essere vi sto come un paradigma del destino della se miologia (Milner, 1978): poiché il semiologo, una volta riconosciuto che vi è nei signican ti un sapere che non si sa e che si rivela negli anagrammi, non può che cercare di attribuire ad esso u soggetto che non potrà mai essere trovato per la semplice ragione che non c'è mai stato. Un sapere che non fosse né sape re del semiotico né sapere del semantico - o
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che fosse entrambi nello stesso tempo - non potrebbe che situarsi in quella frattura fra il signicante e il signicato che la semiologia ha, nora, rimosso e occultato. A questo punto diventa forse visibile il senso del progetto greco di una losoa, di un amore del sapere e di un sapere d'amore, che non fosse né sapere del signicante né sa pere del signicato, né divinazione né scien za, né conoscenza né piacere, e di cui il con cetto di gusto costituisce un'estrema, tardiva incarnazione. Poiché solo un sapere che non appartenesse più né al soggetto né all'Altro, ma si situasse nella frattura che li divide, po trebbe dire di aver veramente «salvato i fe nomeni» nel loro puro apparire, senza né riportarli all'essere e alla verità invisibile, né abbandonarli, come signicante eccedente, alla divinazione. È questo sapere, in cui verità e bellezza co municano, che, al culmine della losoa gre ca, Platone aveva ssato nella gura demoni ca di Eros; ed è ancora questo sapere che, alle soglie dell'età moderna, era apparso ai poeti del Duecento come «intelletto d'amore» nella gura beaticante di una Donna (Beatrice) in cui, nalmente, la scienza gode e il piacere sa. Il mitologema di Eros è necessariamente iscritto
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nel destino della losoa occidentale, in quan to al di là della scomposizione metasica del signicante e del signicato, dell'apparenza e dell'essere, della divinazione e della scienza, esso fa cenno verso una salvazione integrale dei fenomeni. Sapere d'amore, losoa, signica: la bellezza deve salvare la verità e la verità deve salvare la bellezza. In questa duplice salvazione si compie la conoscenza. Solo un tale piacere, in cui piacere e cono scenza si unscono, sarebbe veramente all'al tezza di quell'ideale sapienzale, cioè gustativo, che un trattato indiano di poetica, lo Specchio dea composizione (Shitya-daana), ha s sato nel concetto di «sapore» (rasa): orto col principio luminoso, senza parti, bril lante della sua propria evidenza, fatto di gioia e conoscenza unite, libero da ogni contatto di percezione altra, fratello gemello dell'assapo ramento del brahman, vivente del sofo della soprannaturale meraviglia, tale è il apore che coloro che hanno la misura del giudizio gustano come la propria forma di sé, inseparabilmente. (Daumal, 1 968, p. 65 )
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Zuccl, Ldvic
I623
Discorso delle ragioni del numero del verso ita liano Ginami, Venezia
Indce
9
cenza e pacere
13
2
Vertà e beezza
22
3·
n sapere che gode e un pacere che conosce
34
4·
La conoscenza eccedente
41
5 · A d à de soggetto de pacere
59
Rferment bbograc
QUODLBET I
Gies Deeuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazone
2 3 4 5 6 7 I II I2 I3 I4 I5 I6 I I 20 2I 22 23 24 25 26
Silvio D'Arzo, L'uomo che camminava per le strade Robert Waser, Una cena elegante Robert Waser, Pezzi in prosa René, testamento della ragazza morta Giorgio Agamben, L'uomo senza contenuto Coerus, Lucas, Le vite di Spinoza Erri De Luca, Pianoterra Baise Pasca!, Compendio dela vita di Gesù Cristo Gino Giometti, Martin Heidegg Filosoa della traduzione Mijenko Jergovic, Le Marboro di Sarajevo Antonio Deni, Poesie della ne del mondo Jean-Luc Nancy, L'essere abbandonato Furio Jesi, Lettura del «Bateau ivre» di Rimbaud Doores Prato, Scottature Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Car Schmitt Francesco Nappo, Genere Louis-René des Forts, La stanza dei bambini Emmanue Levinas, Alcune ssni sul losoa de'ht Gies Deeuze- Feix Guattari, Kaa P una letteratura minor Gianni Carchia, La favola dell'essere Commento al «Sosta» Cio Pizzingrii, tessitore Sivio D' Arzo, L'oster Ginevra Bompiani, Le specie del sonno Giorgio Manganei, Contributo critico alo studio delle dotri-
ne politiche del '6 italiano 27 Maries Gardea, Fastigio 2 Mauricio Kage, Parole sulla musica 2 Cio Pizzingrii, oa lo spaccapietre
30 3I 32 33 34 35 36
Gilles Deleuze, Pouarler Schlem/Shalm, Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la qabbalah Ingebg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma Eugeni De Signibus, Memoria del chiuso mondo Camel BeneGilles Deleuze, Sovrapposizioni Fanc Ftini, cani del Sinai Fui JesiKly Keényi, Demone e mito. Carteggio 19-198
Yna Fiedman, Utopie realizzabili 3 Luigi Tcill, Le amorose 3 Alexande Kjève, Kandinsky 40 Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio 4 I Gnthe Andes, . Pro e cotro. menti lpresso Rem Klhaas, «]unkspace». Per un ripensamento radi37
43 44 45 46 47 4 4
50
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5I 52 53
Kal Max, ntroduzione ala ita dell'economia politica Magheita Mgantin, Titolo variabile Luca Zevi, Conservazione dell'avvenire. progetto oltre gli abusi di identità e memoria
54 55 56 57 5 5 6o 6I 62 63 64 65 66 67
Franco Fortini, Lezioni sulla traduzione Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio Pavel A Florenskij, Stupore e dialettica Car Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneri religiosa Elettra Stimilli, debito del vivente. Ascesi e capitalismo Gianfranco Contini, Dove va la cultura europea? Luca Della Robbia, La condanna a morte di Pietro Paolo Bosco/i Gilles Clément, Breve storia del giardino Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale Enzo Melandri, I generi letterari e la loro origine Georges Perec, Pierre Lusson, Jacques Roubaud, Breve trattato sulla sottile arte del go Y an Thomas, Il valore delle cose Emiliano De Vito, L immagine occidentale Giorgio Agamben, Gusto
QUADERN QUODLBET I 2 3 4 5 6 7
Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione Sergio Bettini, Tempo e forma. Sitti 19-19 Antoine Berman, La prova dell'estraneo. Cultura e tra duzione nela Germania romantica Alois Riegl, Antichi ppeti orientali JeanChristophe Bailly, L'apostrofe muta. Saggio sui ri tratti del Fayum Ludwig Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 19-19 l 19-19 Gilles Deleuze, Spinoza e ilproblema dell'espressione Gianni Carchia, L'amore del pensiero
I II I2 I3 I4 I5 I6 I7 I I 20 2I 22 23 24 25 26 27 2 2
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Jacob Taubes, prezzo del messianesimo Matteo Ricci, Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nela Cina Matteo Ricci, Lettere Giogio Agamben, Idea della prosa Fuio Jesi, Esoterismo e lingaggio mitologico. Stdi s Reiner Maria Rilke Jan ukasiewicz, Del pnpio di cotraddizione in Atotele Alexius Meinong, Teoria dell'oggetto Antoine Beman, La tradzione e la lettera o l'albergo nella lontananza Jean-Claude Milne, I nomi indistinti Enzo Melandi, La linea e il circolo. Stdio logicloso co sll'analogia Matteo Ricci, Dell'amicizia Feando Pessoa, t deglidè Opere diAnt6nio Mora Fanco Fotini, Un gioo o l'altro Jean Louis Schefe, L'omo comne del cinema Fenando Pessoa, Pagine di estetica. gioco delle facoltà critiche in arte e in letteratra Édouad Glissant, Poetica della Relazione Enzo Melandi, Contro il simbolico. Dieci lezioni dilosoa Alfonso Beadinelli, Ci critii. Dal postmodeo la mtazione Daniel Helle-Roazen, Ecole. Sagg sll'obl dele linge Alois Riegl, Grammatica stora delle arti grative Alexande Kojève, L'ateismo Atlante della letteratra tedesca Louise Bougeois, Distrzione del padre. Ricostrzione del padre. Scritti e interviste I92J-2ooo Paolo Rosselli, Sandwich digitale. La vita segreta dell'im magine fotograa Rem Koolhaas, Singappore Songlines. Ritratto di na metropoli Potemkin. . . o trent'anni di tab rasa
Sgmd red, L'interetaione dele asie. Uno studio itico 3 5 D a el HellerRoaze, Il nemico di tutti. Il pirata contro le naioni 36 Arold I Davdso, L'emergena della sessualità. Episte mologia storica e formaione dei concetti 37 Erw Paofsky, Ercole al bivio e altri materiali icono graci del'antichità toati in vita nel'età modea 3 Maeo Rcc, Dieci capitoli di un uomo strano 3 Glles Cléme, Il giardino in movimento 40 ls vo Schlosser, Storia del ritratto in cera 4 Gofred Wlhelm ebz, Obieioni contro la teoria medica di Georg Est Stahl. Sui concetti di anima, vita, orgasmo 42 Dael HellerRoaze, Il tatto inteo. Archeolog di una sensaione 43 va Illch, I umi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley 44 Egeo Gazzola, La Madonna Sistina di Rfaelo. Stor e destino di un quadr 4 5 raz Rosezweg, La Bibbia ebraica. Parola, testo, in teretaione 46 Sefao Cacc, Imparare dala Luna 47 Sgrd Wegel, Walter Benjamin. La creatura, il sao, le mmag 4 Y, Il canone del tè 4 Clada Casellcc, Setta. Scuola di tecnica drammatica
Finito di stampare nell'aprile 05 presso o.GRA.RO. -Roma per conto delle edizioni Quodlibet