Fiabe Persiane e Siriane
Fiabe persiane: A cura di Inge Hoepfner Titolo originale dell'opera: Marchen aus Persien Traduzione di Amina Pandolfi © 1982 Fischer Taschenbuch Verlag GmbH, Frankfurt am Main © 1991 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Fiabe Siriane: A cura di Maria Antonietta Carta © 1997 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Fiabe persiane
PRINCIPESSE MISTERIOSE
La storia del principe Calaf e della principessa Turandot
Calaf era il figlio di Timur, un Khan dei Tartari Nogai. La storia dice di lui che superava in bellezza, intelligenza e valore tutti i principi del suo tempo, che era erudito quanto i massimi sapienti e che conosceva a memoria tutte le sentenze di Maometto: in breve, la storia lo considera l'eroe dell'Oriente. In verità questo principe all'età di diciotto anni non aveva forse uguali in tutto il mondo. Era l'anima delle riunioni di consiglio di suo padre Timur: quando esponeva un'opinione, tutti i più esperti ministri si dicevano d'accordo con lui, e in guerra lo si vedeva sempre alla testa degli eserciti, sempre a scovare il nemico, attaccarlo e vincerlo. Ora avvenne che alla Corte del Khan si presentasse un ambasciatore del re dei Khoresmi, il quale dichiarò che il suo signore e padrone richiedeva per il futuro dai Tartari Nogai il versamento di un'imposta annuale e che lui stesso sarebbe venuto con un esercito di duecentomila uomini, se essi non si fossero sottomessi al suo volere. Il Khan riunì allora il suo Consiglio per studiare se era meglio pagare quel tributo o ignorare con disprezzo le minacce di un nemico tanto potente. Calaf e la maggior parte degli uomini del Consiglio furono di quest'ultima opinio9
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ne e così l'ambasciatore fu rimandato indietro con una risposta negativa. In seguito a questo evento si cercò di indurre i popoli vicini a unirsi al Khan contro il sultano dei Khoresmi, poiché questi, nella sua smodata ambizione, avrebbe richiesto tributi anche da loro. Le trattative ebbero successo e i popoli vicini, fra cui anche i Circassi, promisero di fornire al Khan un esercito di cinquantamila uomini. Mentre il Khan dei Nogai radunava le proprie truppe, il sultano dei Khoresmi raccoglieva duecentomila guerrieri, così che i due eserciti erano all'incirca uguali per numero di uomini e i popoli di cui essi erano formati non erano certo meno valorosi da una parte che dall'altra. La battaglia fu sanguinosa e durissima. Cominciò il mattino e durò fin nel cuore della notte. In qualche momento i Tartari Nogai parevano essere in vantaggio, in altri parevano invece costretti a cedere al nemico. Avvenne così che, al cader della notte, i due eserciti dovettero suonare la ritirata, decisi a proseguire il combattimento la mattina seguente. Ma durante la notte il comandante dei Circassi si recò segretamente dal sultano dei Khoresmi e gli promise di abbandonare i Nogai al loro destino, se il sultano si fosse solennemente impegnato a non richiedere mai dai popoli circassi un qualsiasi tributo, con qualsiasi pretesto. Il sultano consentì e così, la mattina seguente, quando fu il momento di riprendere la battaglia, si videro i Circassi abbandonare i loro alleati. Questo vergognoso tradimento indebolì grandemente l'esercito del principe Calaf, al punto che egli avrebbe volentieri evitato la lotta, ma i Khoresmi attaccarono con grande violenza e
alla fine riuscirono a spezzare le file dei Nogai: Calaf pensò soltanto a salvarsi; si mise alla testa di una schiera di cavalieri, si batté attraverso le loro file e riuscì alla fine a sfuggire al loro inseguimento. La notizia del ritiro del principe turbò profondamente suo padre Timur, ma quando questi venne a sapere che il sultano dei Khoresmi aveva passato a fil di spada quasi tutti i guerrieri Nogai ed era deciso a sterminare tutta la stirpe del Khan e assoggettare il suo popolo, la sua disperazione fu totale. Si pentì amaramente di aver rifiutato di pagare il tributo, ma poiché ora il tempo stringeva e bisognava salvarsi per non cadere nelle mani del sultano, il Khan prese la moglie Elmase e il principe Calaf, raccolse i suoi tesori più preziosi e abbandonò la sua terra, insieme a molti funzionari della sua corte e a quella schiera di cavalieri che erano riusciti a sfuggire al nemico insieme al principe Calaf. L'intenzione era di cercare rifugio presso qualche principe regnante. Erano già in viaggio da parecchi giorni e avevano appena raggiunto il Caucaso, quando quattromila briganti, che vivevano in quelle montagne, si avventarono all'improvviso contro di loro. Calaf, che non aveva più di quattrocento uomini, reagì valorosamente all'attacco e uccise molti dei briganti, ma perse tutti i suoi cavalieri e alla fine cadde egli stesso nelle mani degli assalitori, alcuni dei quali si impossessarono di tutte le sue ricchezze, mentre gli altri trucidavano tutto il seguito del Khan. Risparmiarono solo il Khan stesso, sua moglie e il figlio, lasciandoli quasi nudi soli fra le montagne. Il dolore di Timur fu indescrivibile, al punto che si voleva togliere la vita e la principessa sua moglie sospirava e gemeva di dolore; solo Calaf trovò la forll
za di sopportare quel crudele destino senza abbandonarsi alla disperazione; nutrito degli insegnamenti del Corano e delle parole di Maometto sulla predeterminazione, dimostrò una forza d'animo incrollabile. «O padre mio! O madre mia!» disse ai genitori, «pensate che è volontà di Dio se vi trovate in una così sciagurata situazione. Siamo forse i primi principi del sangue che vengono a trovarsi sotto la sferza della sua giustizia? Se Dio ha il potere di togliere la corona, egli può anche ridarla. Speriamo dunque che a questo momento di disperazione egli faccia seguire di nuovo la felicità.» «Hai ragione, figlio mio» esclamò il Khan. «Affidiamoci alla Provvidenza e cerchiamo di sopportare le sofferenze.» E con queste parole i tre si rimisero in viaggio, ma a piedi questa volta, poiché i briganti avevano rubato loro anche i cavalli. Camminarono a lungo, nutrendosi dei frutti che trovavano sulla loro strada; ma poi giunsero a un deserto, dove la terra non dava nulla di cui potersi nutrire. Il vecchio Khan si sentiva mancare le forze e sua moglie faticava a reggersi in piedi, così che Calaf, sebbene fosse anch'egli sfinito, dovette portarli a turno sulle spalle per ridurre, almeno in parte, le loro sofferenze. Infine giunsero in un luogo circondato da paurosi dirupi; non si vedeva un solo passaggio che permettesse di scendere, al di là di quelle scoscese pareti, fino alla pianura che si vedeva dall'altra parte. Dalla disperazione il vecchio Khan voleva gettarsi giù dalle rocce, ma il figlio lo trattenne, stringendolo fra le braccia. «Oh, padre mio, a che cosa ti lasci trascinare? Confesso che siamo in una ben triste situazione, ma 12
forse potremo ancora trovare una via che ci conduca alla pianura. Permetti che io vada a cercarla.» «Va, figlio mio» rispose il Khan, che alle parole del figlio si era un po' calmato «noi ti aspetteremo qui.» Il giovane principe cercò e cercò, senza trovare una strada. Si gettò per terra con grandi lamenti e supplicò il cielo di fargli trovare un passaggio. Poi si rialzò e ricominciò a cercare e, finalmente, trovò un sentiero e ringraziò Dio per la grazia che gli aveva fatto. Trovò anche degli alberi, che portavano frutti singolarmente grossi e poi ancora una fonte di acqua fresca e pura. Tornò in gran fretta dai suoi genitori e li portò in quel rigoglioso angolo di terra. Là si fermarono due o tre giorni per riposarsi e poi ripresero il cammino, fino a quando videro in lontananza una grande città; e quando giunsero alle sue porte, si arrestarono e attesero la notte, perché non volevano entrarvi alla luce del giorno, coperti di sudore e di polvere e quasi nudi come si trovavano. Mentre se ne stavano lì già da qualche ora, un vecchio venne a sedersi accanto a loro: gli domandarono come si chiamasse la città. «Si chiama Chaik» rispose il vecchio. «E vi abita il re Ileng Khan. Ma voi dovete venire da molto lontano, se non ne conoscete neppure il nome.» «Sì» rispose il Khan «noi abitiamo sulle rive del mar Caspio e esercitiamo il commercio. Abbiamo attraversato il Caucaso con altri mercanti, ma là siamo stati aggrediti da una banda di briganti, che hanno saccheggiato la nostra carovana. Ci hanno soltanto risparmiato la vita e così abbiamo proseguito il cammino, senza sapere in che direzione andavamo.» 13
Il vecchio provò compassione per loro e al calare della notte li portò nella sua casa; offrì loro abiti nuovi e fece portare una ricca cena. Essi parlarono a lungo con il loro ospite e, quando fu l'ora di andare a dormire, il vecchio li condusse nelle camere da letto. La mattina seguente li incontrò nuovamente e disse loro: «Non siete gli unici infelici in questa città; ho appena saputo che è arrivato qui un ambasciatore del sultano dei Khoresmi, con l'incarico di chiedere a Ileng Khan di non dare asilo al Khan dei Nogai, suoi nemici, non solo, ma di arrestarli non appena entrino nel paese di Chaik». A queste parole Timur e Calaf sbiancarono in volto e la principessa Elmase cadde a terra svenuta. Tutto questo lasciò supporre al vecchio che i suoi ospiti non fossero mercanti, come avevano detto. «Vedo» disse «che prendete molta parte alla sorte dell'infelice Khan dei Nogai. Sapete che cosa penso? Credo proprio che siate voi stessi le infelici vittime della persecuzione del sultano.» «Sì, signore» rispose Timur a quelle parole «siamo noi le vittime del sultano: io sono il Khan dei Nogai e questi sono mia moglie e mio figlio.» «La situazione è molto seria» replicò il vecchio «conosco Ileng Khan: ha grande paura del sultano dei Khoresmi e per fargli piacere vi farà cercare ovunque. Non sareste al sicuro né in casa mia né in qualsiasi altro luogo della città. Non vi rimane altra scelta che lasciare questo paese al più presto. Andate dunque e cercate di raggiungere la regione dove abita la tribù dei Berla.» Il vecchio diede loro tre cavalli e ricche provviste, una borsa piena di denaro e disse: «Mettetevi in 14
viaggio di gran premura, perché non avete un solo minuto da perdere». I tre perseguitati ringraziarono il vecchio e partirono. Dopo parecchi giorni di viaggio raggiunsero le prime tende della tribù dei Berla. Qui vendettero i cavalli e, fintanto che bastò il denaro, vissero abbastanza tranquilli e indisturbati. Ma quando il denaro finì, grande fu l'angoscia di Timur. «Padre» tentò di confortarlo Calaf «non disperarti. Andiamo là dove il Khan dei Berla ha la sua corte: ho il presentimento che laggiù la nostra sorte muterà per il meglio.» Fecero come aveva detto il principe e arrivarono alla corte del Khan. Là entrarono in una grande tenda che serviva per accogliere gli stranieri poveri. Calaf vi lasciò i genitori e andò intorno, chiedendo l'elemosina ai passanti. Raccolse così una piccola somma, con cui comperò del cibo e la sera lo portò al padre e alla madre. Entrambi piansero quando udirono che il figlio aveva dovuto mendicare. Ma Calaf disse: «Lo confesso, nulla è più umiliante che mendicare; ma se non mi è possibile esservi di aiuto in altro modo, lo farò, per quanto sforzo mi possa costare. Ma» aggiunse «basterebbe che voi mi vendeste come schiavo e col ricavato potreste vivere bene fino alla fine dei vostri giorni.» «Che cosa dici mai, figlio mio!» esclamò Timur inorridito. «Che le nostre disgrazie durino piuttosto per sempre. Se qualcuno di noi dovesse essere venduto, quello sono io: non rifiuterei di accettare il giogo della schiavitù, se ciò potesse salvarvi.» «Padre» replicò Calaf «mi è venuta un'idea: domani mattina voglio unirmi ai portatori: qualcuno si servirà certo di me e potremmo vivere del mio lavoro.» 15
Calaf fece come aveva deciso, ma disgraziatamente nessuno ricorse ai suoi servigi. Così sedette ai piedi di un albero, addolorato di stare invano fra gli umili portatori, e alla fine si addormentò. Quando si risvegliò, notò accanto a sé un falco di straordinaria bellezza. Sul capo aveva un ciuffo di penne di mille colori e al collo portava una catena d'oro, di cui ogni anello era adorno di diamanti, topazi e rubini; e Calaf pensò fra sé: "Dall'aspetto si direbbe che questo uccello appartenga al grande Khan". Non si era sbagliato. Era davvero il falco di Alinger, il Khan dei Berla e il principe lo aveva perduto il giorno prima, durante la caccia. I suoi cacciatori avevano cercato dappertutto il prezioso uccello, tanto più preoccupati e zelanti, in quanto il loro padrone li aveva minacciati di morte, se fossero tornati a corte senza il falco. Il principe Calaf andò con il falco alla tenda del re e il popolo cominciò a gridare: «Ecco il falco del Khan! Ecco il falco del Khan! Sia benedetto il giovane che rallegra il nostro signore riportandogli il suo falco!». E quando Calaf comparve davanti al Khan con il falco sul braccio, questi corse estasiato verso l'uccello e lo coprì di mille carezze. Poi si volse al giovane principe e gli domandò dove lo aveva trovato. Calaf raccontò come era avvenuto e il principe replicò: «Mi pare che tu sia straniero; di dove vieni e qual è il tuo mestiere?». «Signore» rispose Calaf, gettandosi ai piedi del Khan «ero in viaggio con mio padre e mia madre attraverso il paese quando incontrammo dei briganti che non ci lasciarono null'altro che la vita.» «Mio buon giovane» continuò il Khan «mi fa piacere che sia stato tu a trovare il mio falco, perché 16
avevo giurato di concedere tre grazie a colui che me lo avesse riportato. Dimmi dunque che cosa desideri da me.» «Poiché mi è concesso di chiederti tre favori» rispose Calaf «io allora ti domando in primo luogo di dare a mio padre e a mia madre, che sono ora ospitati nella tenda dei poveri, una tenda speciale nelle tue vicinanze e di nutrirli a tue spese e farli servire dagli uomini della tua Casa fino alla fine dei loro giorni. In secondo luogo ti chiedo di darmi uno dei tuoi puledri più belli, sellato e bardato, e infine un ricco abito con una scimitarra e una borsa piena di denaro.» «I tuoi desideri saranno esauditi» disse il Khan; «porta qui tuo padre e tua madre.» Calaf si prostrò nuovamente ai suoi piedi, ringraziandolo per la sua bontà e poi si recò alla tenda dove Elmase e Timur aspettavano impazienti. «La nostra sorte è già mutata» disse loro e raccontò ciò che era accaduto. Poi condusse i genitori nella tenda reale e il Khan li ricevette con grande cortesia. Assegnò loro una tenda speciale e ordinò che venissero trattati come lui stesso. Il giorno seguente Calaf, sontuosamente vestito, ricevette dalle mani stesse del Khan una scimitarra con l'impugnatura di diamanti e una borsa colma di monete d'oro; poi il giovane, alla presenza di tutta la corte, montò uno splendido destriero, si congedò dal principe e andò a trovare i genitori. «Ho un gran desiderio di vedere l'impero della Cina» disse loro. «Ho il presentimento che mi sarà possibile farmi onore laggiù con qualche gesto e meritarmi così l'amicizia dell'imperatore. Permettetemi quindi di partire, lasciandovi in questo luogo sicuro.» 17
«Vai, figlio mio» rispose Timur «vai incontro al tuo destino.» Il giovane principe abbracciò il padre e la madre e al galoppo si diresse verso la Cina. Gli storici scrivono che al suo arrivo nella grande città di Pechino, egli scese davanti alle porte della città in una casa in cui abitava un'anziana vedova. Calaf la salutò con le parole: «Mia buona madre, vorreste accogliere nella vostra casa uno straniero? Se potete darmi asilo, non ve ne dovrete pentire». La vecchia osservò il giovane principe e a giudicare dal suo vestito concluse che non doveva essere un ospite disprezzabile, perciò si inchinò profondamente e disse: «Giovane straniero di così bell'aspetto, la mia casa è aperta per te». «E avete anche una stalla per il mio cavallo?» chiese lui ancora. «Sì, ce l'ho» rispose la donna e subito prese il cavallo per le briglie e lo condusse in una piccola stalla dietro la casa. Poi tornò da Calaf e questi, che era affamato, le chiese se aveva qualcuno da mandare al mercato a comperargli qualcosa da mangiare. La donna rispose di avere un nipote che abitava con lei, lo avrebbe potuto mandare subito. A queste parole il principe tolse dalla sua borsa una moneta d'oro e la diede al ragazzo, che con essa andò al mercato. Nel frattempo la padrona di casa aveva il suo da fare a soddisfare tutte le curiosità di Calaf. Il giovane le fece mille domande sugli usi e costumi degli abitanti e domandò quanti erano e alla fine arrivarono a parlare del re della Cina. «Ditemi, vi prego» domandò Calaf «è grande e generoso e merita che ci si metta al suo servizio?» «Non c'è dubbio» rispose la vecchia. «E un monarca che ama i suoi sudditi quanto loro lo amano 18
e mi meraviglia moltissimo come voi non abbiate mai udito finora parlare del nostro buon Altun-Khan; la fama della sua bontà è diffusa in tutto il mondo.» «Allora deve essere il più felice e soddisfatto sovrano sulla terra» replicò Calaf. «E invece non lo è» esclamò la vedova. «Al contrario, si può dire persino ch'egli sia tremendamente infelice; per quanto bene faccia, non gli è dato d'avere un erede maschio. E tuttavia vi posso dire che il dolore di non avere un figlio non è neppure la sua pena più grande. Ciò che turba la pace del suo cuore è la sua unica figlia, la principessa Turandot.» «Ma perché la figlia gli dà tanto dolore?» volle sapere Calaf. «Ve lo posso dire» rispose la vecchia «perché mia figlia, che è una delle schiave nell'harem della principessa, me lo ha spesso raccontato: la principessa Turandot è nel suo diciannovesimo anno ed è così bella che tutti i pittori che le hanno fatto il ritratto sebbene siano i più grandi artisti di tutto l'Oriente hanno dovuto riconoscere di vergognarsi della loro opera e affermano che non c'è pennello al mondo che possa descrivere tutte le bellezze della principessa della Cina. E tuttavia questi ritratti hanno sortito terribili effetti; perché la principessa non è solo supremamente bella, ma anche straordinariamente colta; non solo sa tutto ciò che una donna del suo rango deve sapere, ma conosce alla perfezione tutte le scienze che si addicono solo agli uomini. Sa scrivere tutti gli ideogrammi di parecchie lingue, conosce l'aritmetica, la matematica, la geografia, la filosofia, il diritto e soprattutto la teologia: in breve, è più sapiente di tutti i sapienti messi insieme. Ma tutte 19
queste meravigliose qualità sono offuscate dalla durezza del suo animo e la sua terribile crudeltà macchia tutti i suoi meriti. «Sono passati due anni da quando il re del Tibet ha mandato a chiedere la sua mano per il figlio, che si era innamorato di lei vedendone un ritratto. Altun-Khan, che sarebbe stato felice di quel matrimonio, trasmise la richiesta a Turandot. Ma l'orgogliosa principessa, che pare disprezzare tutti gli uomini, la respinse sdegnosamente. Il padre si infuriò e dichiarò che pretendeva ubbidienza. Ma invece di ubbidire, essa cominciò a piangere, disperata che la si volesse costringere. Ih breve, dalla grande angoscia, si ammalò. I medici dichiararono al re che tutte le medicine sarebbero state inutili e la principessa sarebbe morta se lui avesse insistito a volerla sposare con il principe del Tibet. «Il re, che ama la figlia oltre ogni dire, si spaventò tanto che promise di rimandare subito indietro l'ambasciatore del Tibet con una risposta negativa. «"Ma non basta" gli disse Turandot "io mi ucciderò se non accoglierete la mia richiesta: se volete che resti in vita, dovete giurare di non fare mai più violenza ai miei sentimenti e di far sapere pubblicamente che nessuno dei principi che chiederanno la mia mano potrà diventare mio sposo, se prima non risponderà nella giusta maniera alle domande che gli farò alla presenza di tutti gli uomini di legge di questa città. Se risponderà in modo esatto, consentirò che divenga mio sposo; ma se non sapesse farlo, se la sua risposta sarà errata, allora dovrà essere decapitato nel cortile del vostro palazzo. E questa condizione" aggiunse "che sarà resa nota ai principi stranieri, 20
toglierà loro ogni voglia di chiedermi in sposa; e questo è ciò che io desidero. Poiché odio gli uomini e non mi voglio sposare." «"Ma, figlia mia" replicò il re "se qualcuno si presentasse, nonostante questa tua condizione, e rispondesse esattamente alle tue domande...?" «"Non ho timore che ciò avvenga" lo interruppe lei con forza "so fare domande tanto difficili, da mettere in imbarazzo anche i più grandi sapienti. " «Altun-Khan rimase a lungo a riflettere e alla fine si disse: "Devo convincermi che mia figlia non si vuole sposare e che la condizione che lei pone metterà in fuga tutti i pretendenti". E nella convinzione che il volere della figlia non potesse avere tristi conseguenze e che da questo dipendesse la guarigione della principessa, il re fece annunciare pubblicamente la decisione di Turandot. «La principessa si tranquillizzò e cominciò a riprendere forze. Nel frattempo la fama della sua bellezza aveva attratto a Pechino molti principi stranieri che non si lasciarono impressionare dalla condizione che lei poneva, perché ognuno dei pretendenti era convinto di essere abbastanza intelligente da rispondere alle domande della principessa, ma al momento giusto nessuno di loro riuscì a decifrarne l'oscuro significato: tutti, uno dopo l'altro, finirono col rimetterci miseramente la vita. «A quanto pare il re è molto addolorato della triste sorte di tutti quei principi ed è molto pentito di essersi lasciato convincere a fare quel giuramento. Quando avviene che un pretendente, senza farsi intimidire da quella condizione, va da lui a chiedere la mano della principessa, il re fa di tutto per distoglierlo da quel proposito; ma purtroppo accade che 21
spesso egli non riesca a dissuadere quei principi tanto audaci. «Quanto il re piange sinceramente sulla morte di quegli infelici, tanto la sua crudelissima figlia gioisce di quel sanguinoso spettacolo; è tanto superba che anche il principe più nobile e bello le pare indegno di lei, non solo, considera un gesto di incredibile presunzione che egli osi anche solo levare gli occhi su di lei e trova quindi che l'esecuzione sia la giusta punizione per tanto ardire. «La cosa più terribile è che il cielo mandi qui tanti nobili giovani, destinati a cadere vittime della principessa. Non è passato molto tempo da quando uno di loro ha perduto la vita e questa notte ne deve essere giustiziato un altro.» «Non capisco come dei principi possano essere tanto sconsiderati da chiedere ugualmente la mano della principessa della Cina. Chi potrebbe non lasciarsi spaventare da quella condizione che lei pone, l'unico modo per ottenere la sua mano? - E non credo neppure che Turandot sia così bella come si dice.» «Signore» replicò la vedova «è molto, molto più bella, e potete credermi, perché l'ho vista parecchie volte.» «Ma, buona madre» riprese lui «davvero le domande che lei fa ai pretendenti sono tanto difficili che nessuno vi sappia rispondere in maniera da soddisfare i sapienti che devono giudicare? Ciò mi fa pensare che tutti quei principi siano ignoranti o piuttosto stupidi.» «No, no» esclamò la vecchia «è quasi impossibile rispondere esattamente alle domande della principessa.» 22
Mentre così parlavano, arrivò il ragazzo ch'era stato al mercato e Calaf, affamato com'era, cominciò a mangiare. Intanto era scesa la notte e ben presto si udì venire dal cuore della città il fragore dei timpani della Corte di giustizia. Il principe domandò che cosa significava tutto quel baccano. «Quei timpani» rispose la donna «annunciano al popolo che questa notte vi sarà un'esecuzione; e l'infelice vittima è appunto il principe di cui vi ho parlato, che ora deve perdere la vita perché non ha saputo rispondere alle domande della principessa. Di solito in questo paese i malfattori vengono giustiziati di giorno, ma il re ha tale orrore del torto che è costretto a fare ai pretendenti, che non vuole che il sole sia testimone di un'azione tanto crudele.» Calaf aveva un gran desiderio di andare a vedere questa esecuzione e così uscì dalla casa della vedova. Si mescolò alla folla che incontrò per le strade e arrivò al cortile del palazzo, dove doveva svolgersi quella sanguinosa sentenza. Vide nel mezzo una torre di legno, molto alta, ricoperta da cima a fondo di rami di cipresso, fra i quali erano stati abilmente fissati una gran quantità di lampioni, che sprigionavano tanta luce, che tutto il cortile ne era illuminato. A quindici cubiti dalla torre si levava il patibolo, tutto rivestito di seta bianca e circondato da numerose tende di bianco taffetà. Dietro le tende duemila uomini della guardia del corpo di Altun-Khan con la spada sguainata e una scure nella mano, formavano una doppia barriera che doveva tenere a distanza il popolo. Calaf osservò tutto con molta attenzione e, all'improvviso, la triste cerimonia ebbe inizio, fra un gran fragore confuso di tamburi e di campane. In quello 23
stesso istante entravano nel cortile venti mandarini e altrettanti saggi della giustizia, tutti avvolti in lunghe vesti di lana bianca e si accostarono al patibolo; vi girarono intorno tre volte e poi andarono a prendere posto nelle tende. Subito dopo entrò il condannato, adornato di fiori e di rami di cipresso e con una minuscola bandierina bianca sulla testa. Era un giovane principe di appena diciotto anni, accompagnato da un mandarino che lo conduceva per mano e dietro di lui veniva il giustiziere. Tutti e tre salirono sul patibolo e di colpo tamburi e campane tacquero. Il mandarino allora parlò a voce alta, rivolto al principe: «Principe, non è vero che il contenuto dell'ordine reale vi era stato comunicato? Non è inoltre vero che il re ha fatto tutto quanto gli era possibile per impedirvi di compiere questo gesto insano e troppo audace?». «Sì» rispose il principe, e il mandarino proseguì: «Riconoscete quindi che è solo per colpa vostra che oggi dovete perdere la vita, e che né il re né la principessa sono colpevoli della vostra morte?». «Non accuso nessuno, all'infuori di me stesso» rispose il principe. Aveva appena pronunciato queste parole che il giustiziere vibrò un gran colpo con la grossa spada e gli staccò la testa. In quell'istante riprese il rullo dei tamburi e il suono delle campane. Intanto erano arrivati dodici mandarini che presero il cadavere, lo deposero in una bara di ebano e avorio, issarono questa su una barella che sei di loro portarono a spalla fino al giardino dell'harem. Qui il re aveva fatto costruire un monumento tombale per tutti quegli infelici principi e spesso vi andava a piangere, per onorare con le sue lacrime le ceneri dei giovani defunti. Non appena i mandarini si furo24
no allontanati con la salma, il popolo e le autorità se ne andarono. Calaf però, impressionato e confuso, rimase nel cortile del palazzo. D'un tratto si accorse di un uomo che gli stava accanto, il quale si scioglieva in lacrime, e gli rivolse la parola: «Il vostro dolore mi commuove; non dubito che dovete aver conosciuto bene il principe che è stato or ora giustiziato». «Ah, signor mio» rispose l'uomo turbato «certo che devo averlo conosciuto bene, dal momento che ero il suo precettore. O infelice re di Samarcanda» aggiunse «quanto grande sarà la tua disperazione, quando apprenderai della strana morte di tuo figlio! E chi avrà mai il coraggio di portarti una così ferale notizia?» Calaf domandò come mai il principe di Samarcanda si era innamorato della principessa della Cina. «Ve lo voglio dire» rispose il precettore fra i singhiozzi «e voi certamente stupirete del mio racconto: il principe di Samarcanda viveva felice alla corte di suo padre. Di solito passava la giornata a caccia e la sera riceveva segretamente degli ospiti, con i quali gustava ogni sorta di bevande alcoliche. E talvolta anche si divertiva a vedere le danze di schiave bellissime o ad ascoltare canto e musica. «Un giorno arrivò a Samarcanda un pittore famoso, che mostrò al mio principe parecchi ritratti di principesse. "I quadri sono molto belli" disse il mio principe "e sono convinto che le principesse che avete dipinto debbano esservi molto grate di averle fatte così belle." «"Mio signore" rispose il pittore "devo confessare che questi ritratti sono piuttosto lusinghieri; ma devo anche dirvi che ne ho un altro, che è più bello 25
di tutti questi e tuttavia non si avvicina neppure alla bellezza dell'originale." E mentre parlava, estrasse il ritratto della principessa della Cina. «Il mio signore l'aveva appena preso in mano, che subito pensò che non era possibile che la natura fosse in grado di produrre una bellezza di tale perfezione; poi disse che non poteva esistere sulla terra una donna di simile incanto e che il ritratto doveva essere ancor più lusinghiero di tutti gli altri. Ma il pittore insistette a ripetere che non era così, e assicurò che nessun pennello avrebbe mai potuto rendere la bellezza e la grazia del volto della principessa. «Il mio signore comperò il quadro che gli aveva fatto una così grande impressione e poi un giorno lasciò la Corte di suo padre e, accompagnato solo da me, senza rivelare ad alcuno le sue intenzioni, prese la via della Cina. Voleva mettersi per qualche tempo al servizio dell'Altun-Khan e poi chiedergli la mano della principessa. Ma al nostro arrivo venimmo a conoscenza della difficile condizione posta dalla crudele principessa e il mio principe, invece di esserne turbato, si disse contento. "Il cervello non mi manca. Conquisterò la principessa" mi disse. È inutile che vi parli oltre, mio signore. Sapete bene che il principe non ha saputo rispondere alle domande di quella inumana beltà. Non appena si rese conto di essere destinato alla morte, affidò a me il ritratto della principessa Turandot con le parole: "Ti affido questa immagine: conservala quale pegno prezioso. Devi solo mostrarla a mio padre quando gli racconterai della mia sorte e non dubito che alla vista di tanta bellezza egli perdonerà il mio gesto temerario". Ma» proseguì il precettore «che ci vada un altro dal re di Samarcanda a portargli la terribile 26
notizia. Io me ne vado, lontano da qui e da Samarcanda. Così stanno le cose, se lo volete sapere e questo è il pericoloso ritratto» continuò, gettando con rabbia il quadro per terra. «Questo è la causa di tutti i mali, la causa prima della infelice sorte del mio principe. O quadro maledetto! O inumana principessa!» Con quelle parole il precettore lasciò solo il figlio di Timur e gettò ancora uno sguardo pieno di collera verso il palazzo. Calaf afferrò il ritratto di Turandot e voleva tornare alla casa della vedova, ma nell'oscurità perse la strada. Impaziente attese che sorgesse il sole per contemplare la bellezza della principessa e non appena si fece giorno, aprì l'involucro che racchiudeva il ritratto. Ebbe un attimo di esitazione, prima di guardarlo. «Devo esporre il mio sguardo a una vista così pericolosa?» esclamò. «Calaf, ricordati delle tremende conseguenze! Hai già dimenticato ciò che il precettore ti ha appena raccontato? Non guardare questo ritratto. Fintanto che sei ancora in possesso della ragione, puoi evitare di andare incontro alla morte... Ma, che cosa dico? Se devo amare la principessa, il mio amore non è forse scritto a lettere indelebili nel cielo? Inoltre penso che si possa ammirare anche il ritratto più bello senza esserne necessariamente puniti. Un uomo deve essere molto debole, per lasciarsi travolgere dalla vista di una semplice mescolanza di colori. Perciò osserviamo a sangue freddo questi lineamenti tanto famosi e omicidi!» Così guarda, esamina, ammira i contorni del viso, la vivacità degli occhi, la bocca, il naso e tutto gli appare perfetto e, sebbene stia in guardia contro il pericolo di ciò che contempla, si lascia incantare. 27
«Come questa immagine mi confonde! Dio del cielo, è dunque destino di tutti coloro che vedono questa immagine, innamorarsi della principessa? Mi accorgo anche troppo che essa ha su di me lo stesso effetto che ebbe sul principe di Samarcanda. E ben lungi dall'essere intimorito dalla sua sorte infelice, non ci manca molto che provi invidia per lui, anche nella sua disgrazia! E ora non vedo più nulla che mi possa spaventare. No, incomparabile principessa» proseguì «nessun ostacolo mi tratterrà: ti amo. Da questo momento in poi, farò di tutto per conquistarti: dovessi soccombere in questa impresa, nella morte proverò soltanto il dolore di non averti posseduta.» Dopo aver preso questa decisione, Calaf tornò alla casa della vedova, che riuscì solo a fatica a ritrovare. «Ah, figliolo mio» esclamò la donna «quanto sono felice di rivedervi! Ero molto in pena per voi. Perché non siete tornato prima?» «Buona madre» egli rispose «mi sono perduto nell'oscurità.» E poi raccontò il suo incontro con il precettore del principe giustiziato e ciò che quell'uomo gli aveva raccontato. Infine mostrò il ritratto di Turandot e disse: «Guardate se questo dipinto è solo un'immagine imperfetta della principessa. Io non lo posso credere». La donna osservò a lungo il ritratto e infine esclamò: «La principessa è mille volte più bella!». «Voi mi date gran gioia» replicò il principe «perché mi assicurate che la bellezza di Turandot sta al di sopra di tutti gli sforzi dei migliori pittori. Ciò mi rafforza nell'intento di tentare subito una così 28
straordinaria avventura. Oh, perché non sono già in presenza della principessa!» «Che cosa dite mai!» esclamò la vecchia. «Mia buona madre» rispose Calaf «sono venuto in Cina per offrire il mio braccio al grande AltunKhan; ma è assai meglio diventare suo genero che non soltanto ufficiale del suo esercito.» A quelle parole la vecchia cominciò a piangere: «Ah, signore» diceva «finirete immancabilmente col morire, se siete tanto temerario da chiedere la mano della principessa. Pensate al grande dolore dei vostri genitori, quando dovessero avere notizia della vostra morte.» «Smettetela» la interruppe Calaf «i miei genitori morirebbero anche loro dal dolore. Eppure, non voglio forse rischiare la vita per fare felice anche Turandot? Sì, non c'è alcun dubbio, e se mio padre fosse qui, lui stesso mi incoraggerebbe a realizzare al più presto il mio proposito. È dunque deciso: risparmiatevi la fatica di volermi dissuadere.» Quando la vecchia sentì che il suo giovane ospite non intendeva ascoltare i suoi consigli, disse turbata: «Non si può dunque trattenervi dal correre incontro alla vostra rovina. Perché mai vi ho parlato di Turandot? Quel ritratto che vi avevo fatto di lei vi ha fatto innamorare. Sono io quindi che ho preparato la vostra rovina.» «No, buona madre» la interruppe nuovamente il principe Calaf «voi non avete colpa della mia infelicità. Era scritto che io dovessi amare Turandot e ora la mia sorte si compie. E poi, chi vi ha detto che io non saprò rispondere nella giusta maniera alle domande della principessa? Non sono né stupido né ignorante, e forse il cielo mi ha prescelto per liberare 29
il re dalle sofferenze che gli procura il suo terribile giuramento. Tuttavia, poiché è anche possibile che io debba morire, vi regalo ora questa borsa di denaro, per consolarvi della mia morte. Potrete anche vendere il mio cavallo, perché non mi serve più.» La vedova accettò il regalo e disse: «Vi ingannate di molto, se pensate che queste monete d'oro mi possano consolare; le userò per opere buone, e una parte le distribuirò nelle case di quei poveri che hanno sopportato con pazienza la loro miseria. Il resto lo darò ai servitori della nostra religione, affinché tutti insieme si possa pregare il cielo di illuminare la vostra mente. Vi prego, non andate oggi a palazzo; aspettate domani e lasciatemi il tempo di conquistare alla vostra causa le anime buone. Poi potrete fare ciò che volete». Calaf fu commosso da quelle parole e disse: «Voglio farvi questo favore, mia buona madre, andrò domani». E per tutto il giorno non uscì dalla casa della vecchia, che se n'era andata a distribuire le elemosine nelle case dei poveri e a sacrificare polli e pesci davanti alle immagini delle divinità. Anche gli spiriti protettori non furono dimenticati e sui loro altari furono portati riso e legumi. Ma tutte le preghiere dei sacerdoti e dei servitori dei templi, per quanto ben pagate, non servirono a portare l'effetto desiderato, quello almeno che la buona vedova aveva sperato. Perché il mattino seguente Calaf era ancora più deciso del giorno prima. «Addio, mia buona madre» le disse. «Vi sareste potuta risparmiare tante fatiche, dal momento che vi avevo assicurato che nulla poteva farmi cambiare idea.» E con quelle parole lasciò la vecchia, che 30
rimase china, con il velo calato sul volto e la testa sulle ginocchia, piegata dal dolore. Intanto il giovane principe si era recato al palazzo. Al grande portale vide cinque elefanti e ai lati duemila soldati, disposti su due file, con l'elmo in testa e lo scudo nella mano, tutti rivestiti da un'armatura di ferro. Uno dei loro comandanti lo fermò e gli domandò che ragione aveva per voler entrare nel palazzo. «Sono un principe straniero» rispose Calaf «e vengo per chiedere al re il permesso di rispondere alle domande della principessa.» Il soldato lo guardò meravigliato e disse: «Principe, non sapete che qui troverete sicura morte? Tornate da dove siete venuto, perché mai riuscirete a decifrare il senso oscuro delle sue domande». «Vi ringrazio per il consiglio» replicò Calaf «ma non sono venuto sin qui per rinunciare all'impresa.» «Ebbene, allora andate a morire» rispose l'ufficiale e lo lasciò entrare nel palazzo reale; poi si volse ai suoi soldati e disse: «Com'è bello e intelligente questo principe! Peccato davvero che debba morire-così presto!». Nel frattempo Calaf era arrivato fino alla sala dove il re di solito riceveva i suoi sudditi per ascoltare le loro richieste. Nella sala c'era un trono a forma di drago e quattro alte colonne sostenevano sopra il trono un baldacchino di seta gialla, adorno di pietre preziose. Il re gettò per caso un'occhiata verso il principe, che se ne stava mescolato alla folla, e chiamò uno dei suoi mandarini, gli additò Calaf e gli ordinò a bassa voce di informarsi sullo stato e sulle intenzioni di quello straniero alla sua Corte. 31
Il mandarino si accostò al principe e gli spiegò che il re desiderava sapere chi egli fosse e qual era la ragione che lo conduceva alla Corte di Altun-Khan. «Potete riferire al sovrano che io sono l'unico figlio di un principe reale e che vengo per chiedere la mano della principessa Turandot.» Appena ebbe udito quella risposta, Altun-Khan licenziò tutto il popolo e scese dal trono. «Sapete già la difficile condizione che mia figlia pone ai suoi pretendenti e la tragica sorte che aspetta tutti coloro che falliscono nella prova?» domandò al principe. «Sì, mio signore, conosco il pericolo al quale vado incontro e sono stato testimone della giusta condanna a morte che il principe di Samarcanda ha dovuto subire.» «Un giovane principe ha appena perduto la vita» replicò il re «e già se ne presenta un altro. Principe, non siate così prodigo del vostro sangue. Provo per voi più compassione che per tutti coloro che vi hanno preceduto e che qui hanno trovato la morte. Tornate dunque nelle terre di vostro padre!» «Mio signore» rispose Calaf «forse il cielo vuole servirsi di me per mettere fine a queste sciagure e ridarvi quella pace che viene turbata dallo spargimento di tanto sangue. Siete sicuro che non saprò rispondere alle domande della principessa?» «Ah, infelice principe» esclamò il re «tutti i pretendenti che vi hanno preceduto hanno parlato con lo stesso linguaggio, e anche voi sarete vittima della vostra fiducia in voi stesso. Figlio mio, lasciatevi convincere; voi mi siete caro e voglio salvarvi. Per quanta intelligenza e sapienza possiate avere, vi sbagliate se credete di poter rispondere immediatamente alle domande che la principessa vi sottoporrà, 32
perché non avete neppure un quarto d'ora per poter riflettere; così dice la regola. Se dunque non siete in grado di dare la giusta risposta nello spazio di pochi minuti, la notte seguente dovrete andare al patibolo. Perciò, principe, consigliatevi con uomini saggi e riflettete ben bene e domani verrete a dirmi quel che avete deciso.» Con queste parole il re congedò Calaf, che riprese la strada per tornare dalla sua padrona di casa, molto dispiaciuto di dover aspettare fino al giorno seguente. Non appena arrivò dalla vedova, questa ricominciò a pregarlo, per cercare di convincerlo. Ma tutto ciò non faceva che rafforzare sempre di più Calaf nella sua decisione. Così il mattino seguente andò nuovamente dal re: «Allora, mio principe» domandò Altun-Khan «la vostra presenza deve rallegrarmi o invece turbarmi?». «Mio signore» rispose Calaf «sono pronto a subire la stessa sorte di coloro che mi hanno preceduto.» A quelle parole il re si batté il petto, si lacerò la veste e si strappò peli dalla barba. «Ahi, me infelice!» gridò «che provo simpatia per quest'uomo! La morte degli altri prima di lui non mi ha fatto tanto soffrire. Figlio mio, rinuncia a mia figlia: troverai altre belle principesse, il mondo ne è pieno. Se lo desideri, resta alla mia Corte: avrai le schiave più belle e io ti considererò come un figlio, ma smettila di desiderare la sanguinaria Turandot». Ma Calaf rispose: «Signore, lasciatemi andare incontro a questo pericolo. Tanto più è grande, tanto più mi tenta. Mi dà immenso piacere pensare che forse sarò io a trionfare su quella orgogliosa bellezza. Non posso più vivere senza Turandot». 33
Altun-Khan ne fu molto turbato: «La tua rovina è sicura» disse. «Il cielo mi è testimone che ho fatto di tutto per condurti alla ragione, ma tu preferisci perdere la vita. Ti permetto dunque di rispondere alle domande della principessa; ma prima ti devo rendere gli onori, che si addicono a un principe che vuole legarsi alla mia Casa.» E il re ordinò al capo dei suoi eunuchi di condurre Calaf nel palazzo dei principi e di mettere duecento eunuchi al suo servizio. Calaf era appena entrato nel palazzo che i più importanti mandarini dell'impero si gettarono in ginocchio davanti a lui e gli resero devotamente omaggio. Lo colmarono di doni e poi si ritirarono. Nel frattempo il re aveva mandato a chiamare il sapiente più famoso del consiglio reale e gli disse: «E arrivato alla mia Corte un altro principe che chiede la mano di mia figlia. Ho tentato di distoglierlo dal suo proposito, ma non ci sono riuscito. Ora desidero che la tua eloquenza riesca a indurlo alla ragione». Il gran dottore fece come gli era stato ordinato e un'ora più tardi fu di nuovo dal re. «Mio signore» gli disse «è impossibile convincere questo principe. Vuole ad ogni costo ottenere la principessa - o morire. Ma gli ho fatto molte domande di ogni tipo e l'ho trovato così sapiente e preparato, che ne sono io stesso stupito. È mussulmano e mi pare che sappia tutto quanto riguarda la sua religione. Credo che se mai esiste un principe in grado di rispondere alle domande della principessa, è proprio costui.» «Oh, grande dottore, voglia il cielo che questo principe possa diventare mio genero!» esclamò con slancio il re. «Che possa aver maggior fortuna degli altri, che sono venuti qui a trovare la morte!» 34
Il buon sovrano cercò di predisporre a favore di Calaf gli spiriti che governano il cielo, il sole e la luna. A questo scopo ordinò pubbliche preghiere e nei templi furono fatti sacrifici: si sacrificò un bue al cielo, una capra al sole e un maiale alla luna. Dopo di che Altun-Khan mandò il Cancelliere di Corte ad avvertire il principe che doveva tenersi pronto la mattina seguente a rispondere alle domande di Turandot. Per quanto Calaf fosse ben deciso a superare la grande prova, trascorse una notte inquieta. Un momento si riprometteva una felice conclusione, un momento dopo la fiducia lo abbandonava e immaginava la vergogna e il disonore di trovarsi sconfitto di fronte a tutto il consiglio dei saggi. Ogni tanto il suo pensiero tornava anche, pieno di malinconia, ai suoi genitori lontani. Al sorgere del giorno, però, il suono di tutte le campane e il rullare dei tamburi interruppe i suoi confusi pensieri ed egli pregò Maometto: «O grande profeta, tu vedi in quale stato mi trovo. Illuminami: devo recarmi nella sala del consiglio e affrontare la prova o devo invece dire al re che il pericolo mi spaventa?». Appena ebbe pronunciato queste parole, ogni timore scomparve. Calaf si alzò e quando fu vestito entrarono sei mandarini che lo accompagnarono. Oltrepassarono un cortile, davanti a dei soldati e giunsero in un vestibolo dove si erano radunati cantanti e suonatori. Di lì entrarono finalmente nella grande sala del consiglio. I dignitari erano già tutti al loro posto sotto le tende montate tutt'intorno: da una parte i mandarini più illustri, dall'altra il Cancelliere con tutto il consiglio reale e i saggi famosi. Nel mezzo della sala sorgevano due troni d'oro. 35
La piccola folla dei dignitari salutò il principe con tutti i segni del rispetto, ma senza pronunciare parola, perché tutti, in attesa del re, rimanevano in profondo silenzio. Con i primi raggi del sole due eunuchi aprirono i tendaggi che davano sul palazzo interno e subito dopo fecero il loro ingresso il re con la principessa Turandot, che indossava una lunga veste di seta intessuta d'oro e aveva il volto coperto da un velo anch'esso intessuto d'oro. Entrambi salirono i cinque gradini d'argento e si assisero sui loro troni. Per tutto il tempo i presenti, che si erano alzati all'arrivo del re, rimasero in piedi a occhi semichiusi. Solo Calaf fissava continuamente la principessa. L'imperatore della Cina ordinò ai mandarini di sedere e poi uno di essi si inginocchiò in mezzo alla sala e lesse ad alta voce un editto, in cui si annunciava la richiesta del principe straniero di avere in sposa la principessa Turandot. Poi ordinò a Calaf di inchinarsi tre volte davanti al re. Infine si alzò il Cancelliere e con voce tonante lesse il decreto reale che condannava a morte tutti i pretendenti che non sapessero dare giuste risposte alle domande di Turandot. Quindi si rivolse a Calaf e disse: «Principe, avete udito a quale condizione si può chiedere la mano della principessa. Avete ancora la libertà di ritirarvi». Ma il principe rispose: «No, il premio è troppo prezioso, perché si abbia la viltà di rinunciarvi». Da ultimo prese la parola il re, che si rivolse a Turandot: «Figlia mia, poni a questo principe le domande che hai pensato per lui e possano gli spiriti concedere ch'egli comprenda fino in fondo il senso delle tue parole». 36
Ora era la volta di Turandot di parlare: «Prendo il cielo a testimone, che è con dispiacere che vedo tanti principi perdere la vita: ma perché insistono tanto a volermi possedere? Perché non mi lasciano vivere in pace nel mio palazzo, senza insidiare la mia libertà? Voi sapete» disse quindi indirizzandosi a Calaf «che non potrete farmi alcun rimprovero, se doveste morire di una morte crudele. Voi stesso sarete l'unica causa della vostra rovina, poiché io non vi costringo a chiedere la mia mano.» «Bella principessa» rispose il principe «poni le tue domande e io cercherò di decifrarne il significato.» «Allora dimmi» cominciò Turandot «qual è la creatura che abita in tutti i paesi, che è amica di tutti e non tollera alcuno uguale a sé?» «Principessa» rispose Calaf «è il sole.» «Ha ragione» esclamarono tutti i sapienti «è il sole.» «Chi è la madre» proseguì Turandot «che mette al mondo i suoi figli e poi li divora tutti quando sono cresciuti?» «E il mare» rispose Calaf «poiché le correnti che si riversano nel mare, lì hanno anche la loro origine.» Quando Turandot vide che il principe rispondeva nella giusta maniera alle sue domande, si irritò terribilmente, tanto che decise di rovinarlo. «Qual è l'albero» gli domandò «le cui foglie sono bianche da un lato e nere dall'altro?» E non si contentò di porre la domanda; la perfida principessa alzò al contempo il velo che le copriva il viso, per accecare Calaf e confonderlo con la sua bellezza e lasciò che tutta l'assemblea lì riunita 37
vedesse la bellezza del suo volto. Aveva il capo adorno di fiori disposti con arte fra i capelli e i suoi occhi scintillavano più luminosi delle stelle. Era bella come il sole che brilla fra le nuvole. Alla vista di tanta bellezza, l'innamorato Calaf, invece di rispondere rimase muto e immobile e tutta l'assemblea, che temeva per la sua sorte, ne fu spaventata a morte; lo stesso re impallidì e credette che il destino del principe si fosse compiuto. Ma Calaf, che si era nel frattempo ripreso, parlò: «Incantevole principessa, vi chiedo di perdonarmi se per un momento sono rimasto sbigottito. Ho creduto di vedere una di quelle celestiali creature che allietano il luogo promesso ai credenti dopo la morte. Abbiate la bontà di ripetere l'ultima domanda, poiché non la ricordo più; mi avete fatto dimenticare ogni cosa». «Vi ho domandato» replicò Turandot «qual è l'albero le cui foglie sono bianche da una parte e nere dall'altra.» «Quest'albero» rispose Calaf «è l'anno, che è fatto di giorni e notti.» Anche questa risposta trovò il consenso dell'assemblea; mandarini e dottori la dichiararono esatta e furono pieni di lodi per il principe. Infine parlò Altun-Khan: «Ora, figlia mia, riconosciti vinta e consenti ad andare sposa al vincitore. Gli altri pretendenti non hanno saputo rispondere a una sola domanda». «Non mi ha ancora vinto» replicò la principessa e si abbassò di nuovo il velo sul viso, per nascondere le lacrime. «Ho altre domande da fargli ancora, ma gliele porrò domani.» 38
«Non permetterò che tu continui a porgli domande» esclamò irritato il re «tu tenti soltanto di confondere la sua mente e il suo spirito, ma io penso soltanto a liberarmi da quell'orrendo impegno che mi sono assunto con tanta leggerezza. Sei crudele, la morte dei tuoi pretendenti è una gioia per te. Tua madre è morta di dolore per le tue crudeltà e io ne porto per sempre la malinconia. Ma grazie agli spiriti del cielo, del sole e della luna, mai più nel mio palazzo ci saranno esecuzioni capitali, poiché questo principe ha risposto nella giusta maniera a tutte le tue domande, e io domando ora a questa assemblea se non sia giusto che egli diventi tuo sposo.» Mandarini e dottori proruppero in un intenso mormorio e infine il Cancelliere prese la parola: «La principessa ha promesso la sua mano a colui che avrebbe risposto con precisione alle sue domande; un principe lo ha fatto. Lei deve quindi mantenere la promessa, altrimenti gli spiriti che vegliano sulla vendetta dello spergiuro, presto la puniranno». Turandot rimase in silenzio; aveva posato il capo sulle ginocchia e pareva profondamente turbata. Calaf se ne avvide, si gettò in ginocchio davanti a Altun-Khan e disse: «Grande sovrano, vi chiedo una grazia: vedo bene che la principessa è disperata perché io ho avuto la fortuna di rispondere nel giusto modo alle sue domande. E poiché lei ha tanto orrore degli uomini, che mi si nega nonostante la parola data, sono volentieri disposto a rinunciare al mio diritto su di lei, alla condizione che anche lei risponda in modo giusto a una domanda che le voglio fare». Tutta l'assemblea fu grandemente stupita da quel discorso: «Ma questo giovane principe è forse un 39
pazzo?» si sussurravano l'un l'altro, «Vuole ora mettere in gioco ciò che ha appena conquistato con pericolo di vita?» Il re era altrettanto sorpreso da quella audace richiesta. «Principe» gli disse «avete ben riflettuto sulle parole che vi sono or ora sfuggite?» «Sì, mio signore e vi supplico di concedermi questa grazia.» «Lo farò» replicò il re «ma qualunque cosa possa accadere, dichiaro solennemente che d'ora in avanti non lascerò più giustiziare altri principi.» «Divina Turandot» esclamò ora il principe «a giudizio di tutta questa dotta assemblea, mi dovete la vostra mano. Tuttavia, sono disposto a rinunciare a voi alla condizione che rispondiate nella giusta maniera a una mia domanda. Ma dovete giurare che se la risposta non sarà esatta, accetterete il mio amore senza altre proteste.» «Sì, principe» rispose la principessa «accetto la condizione; lo giuro su tutto quanto mi è sacro. Questa assemblea mi è testimone.» Tutta la sala aspettava ora con trepidazione la domanda di Calaf, e non c'era nessuno che non biasimasse il principe, che metteva in quel modo in pericolo la conquista della figlia del re. «Mia bella principessa» disse Calaf «come si chiama il principe che ha sopportato mille sofferenze e ha dovuto mendicare il suo pane e che in questo momento si trova all'apice della gloria e della gioia?» La principessa rifletté a lungo e poi disse: «Mi è impossibile rispondere sul momento a questa domanda: ma prometto di dirvi domani il nome di questo principe». 40
«Principessa!» gridò Calaf «io non ho chiesto alcuna proroga ed è ingiusto accordarla ora a voi: ma io voglio darvi anche questa soddisfazione e spero che mi darete la vostra mano.» «A questo punto si dovrà pur decidere» disse Altun-Khan «se non sa rispondere alla domanda. Non deve credere di potersi sottrarre al suo promesso sposo ammalandosi o fingendo. Anche se il mio giuramento non mi imponesse di dargliela in sposa e se essa già non gli appartenesse in virtù dell'editto, vorrei piuttosto vederla morire, che lasciar partire questo giovane principe senza la sposa. Come potrà mai mia figlia trovare un uomo più amabile e di nobile animo?» Con queste parole si alzò, congedò l'assemblea e si ritirò con la principessa nell'interno del palazzo. Non appena il re se ne fu andato, tutti i dottori e i mandarini lodarono il principe per il suo acume. «Vi ammiro» disse uno. «No» disse un altro «non c'è dottore che sappia essere più acuto di voi, e siamo estremamente felici che la vostra prova sia felicemente compiuta.» Finalmente comparvero i sei mandarini che avevano accompagnato Calaf all'assemblea per riportarlo ora nel suo palazzo. Turandot si ritirò con due giovani schiave nei suoi appartamenti, si strappò infuriata il velo, si scompose i bei capelli e pianse, al colmo della vergogna e della collera. Le sue due fide ancelle cercarono di confortarla, ma lei rispose: «Lasciatemi, non datevi pena per me. Voglio piangere. Ah, come sarà terribile domani la mia umiliazione, quando di fronte all'assemblea di tutti i più grandi sapienti della Cina dovrò ammettere che non so rispondere alla doman41
da che mi ha fatto! Purtroppo tutti sono dalla sua parte. Li ho visti impallidire e spaventarsi nel momento in cui appariva in imbarazzo. Quale immenso piacere proveranno tutti quando dovrò ammettere la mia sconfitta». «Mia principessa» disse a questo punto una delle due schiave «ma la domanda che vi ha fatto è davvero tanto difficile?» «Sì» rispose Turandot «è impossibile. So bene che è lui il principe di cui dovrei indovinare il nome, ma poiché non lo conosco, non mi è possibile sapere il suo nome.» «Ma» continuò la schiava «voi avete promesso di dire domani il suo nome e poiché lo avete promesso, certamente speravate di poter mantenere la vostra parola!» «Io non speravo niente» ribatté Turandot «ho soltanto chiesto una proroga, per morire di rabbia piuttosto che dover essere costretta a sposare il principe.» «Che decisione disperata» esclamò l'altra fidata ancella. «So bene che nessun uomo è degno di voi, ma bisogna ammettere che questo mostra dei grandi meriti.» «Se c'è un principe sulla terra» la interruppe Turandot «che merita ch'io lo guardi con occhio benevolo, questo è lui. All'inizio ho provato persino pena per lui e ci mancava poco che desiderassi di vederlo rispondere bene alle mie domande. Poi però le sue giuste risposte mi hanno infuriata, e tutti gli apprezzamenti dei sapienti mi hanno talmente ferita, che non ho più sentito nulla per lui.» Dopo queste parole si abbandonò a un pianto disperato, alzò persino più d'una volta la mano al viso, per sfigurarlo, ma le schiave glielo impedirono. 42
Nel frattempo il re aveva mandato a chiamare il principe vittorioso e gli disse: «Ah, figlio mio, temo che mia figlia domani saprà rispondere alla tua domanda». «Mio signore» rispose Calaf «è impossibile che la principessa possa pronunciare il mio nome, poiché quel principe sono io e nessuno alla vostra corte mi conosce.» Queste parole calmarono l'ansia del re e i due uomini risero insieme di quella domanda. Il re anzi si mise così di buon umore, che invitò l'ospite ad andare con lui a caccia di quaglie. Dopo il tramonto ritornarono insieme al palazzo, mangiarono e bevvero e si divertirono allo spettacolo di suonatori e cantanti. Quando a tarda notte i divertimenti finirono, il principe si ritirò nelle sue stanze, sempre accompagnato dagli eunuchi. Calaf fu però molto sorpreso quando vi trovò una signora che, non appena lo vide, si inchinò profondamente e gli disse: «Principe, non dubito che sarete molto stupito di trovare qui una donna, poiché sapete bene quanto sia proibito, pena gravi punizioni, che uomini e donne di questo harem si incontrino. Ma l'importanza di quanto ho da dirvi è tale che mi sono decisa ad affrontare tutti i pericoli; in breve, ho corrotto i vostri servi e sono arrivata fino alle vostre stanze. Principe, per prima cosa devo dirvi che io sono la figlia di un Khan, che ha avuto l'audacia di rifiutare il consueto tributo all'imperatore della Cina. Ma Altun-Khan inviò i suoi abili condottieri con un potente esercito contro mio padre, e in una sanguinosa battaglia sulle rive di un fiume il comandante cinese vinse. Mio padre cadde, ma già morente die43
de ordine di annegare sua moglie e i suoi figli per sottrarli alla schiavitù. Così mi gettarono, insieme a mia madre, mia sorella e due fratelli, nelle acque del fiume. Ma questo orrendo spettacolo suscitò la compassione del comandante cinese, che offrì una ricompensa a quello dei suoi soldati che fosse riuscito a salvarci. Parecchi si tuffarono immediatamente nella forte corrente, ma arrivarono troppo tardi; all'infuori di me, nessuno più era in vita. Il comandante mi portò con sé alla Corte di Altun-Khan e questi mi fece compagna di giochi della principessa Turandot. Così divenni sua amica e sua confidente. «Perdonatemi, signore» continuò «questo lungo racconto. Ma pensavo di dovervi dire che sono di nobile nascita, affinché voi abbiate più fiducia in me; poiché ciò che vi devo dire è molto importante, e mai lo credereste dalle labbra di una schiava.» «Principessa» la interruppe Calaf «non lasciatemi più a lungo nell'incertezza; rivelatemi, vi prego, ciò che volete dirmi della principessa Turandot.» «Signore, Turandot vuol farvi assassinare.» A quelle parole Calaf restò impietrito e solo quando si fu ripreso dallo sgomento, esclamò: «Ho udito bene? Come ha potuto la principessa della Cina arrivare a una simile decisione?». «Principe» rispose la schiava «quando questa mattina abbandonai con lei la sala dell'assemblea, Turandot era piena di odio e di furore; pensò a lungo alla domanda che le avevate fatto, ma senza trovare una adeguata risposta, e allora si abbandonò alla disperazione. Io e altre schiave sue amiche e confidenti abbiamo tentato di tutto per calmarla, le abbiamo consigliato di decidersi piuttosto a darvi la sua mano, invece di angosciarsi in quel modo. Ma 44
Turandot ci disse: "Gli uomini sono spregevoli creature, di cui avrò sempre orrore. E per il principe che da ultimo si è presentato provo un odio ancor più profondo che per tutti gli altri; e poiché solo la morte può liberarmi da lui, lo farò uccidere". «Ho cercato di far capire a Turandot le terribili conseguenze del suo gesto, ma tutti i miei discorsi sono stati inutili e alla fine lei ha dato incarico ad alcuni eunuchi di uccidervi domani mattina, quando vi recherete nella sala dell'assemblea.» «Oh perfida Turandot!» esclamò il principe «in questo modo vuoi coronare l'amore dell'infelice figlio di Timur? Calaf dunque ti fa orrore, poiché preferisci liberarti di lui con un delitto, piuttosto che legare il tuo destino al suo!» La schiava disse ancora: «Signore, sono venuta per salvarvi. Ho corrotto i soldati della guardia, che faciliteranno la vostra fuga dal palazzo. Ma poiché vi cercheranno ovunque e ben presto scopriranno che sono stata io a salvarvi dalla morte, ho deciso di fuggire con voi. Non sopporto più la schiavitù. In città ci sono pronti dei cavalli; facciamo in modo di raggiungere la terra della tribù dei Berla. Il principe sarà felice di vedere i suoi parenti liberati dalle catene di Altun-Khan e vi riceverà con gli onori, come mio liberatore. Là potrete trovare certo una principessa abbastanza bella da meritare il vostro amore.» «Bella principessa» rispose Calaf «vi ringrazio di volermi liberare da questo pericolo. Quanto sarei felice di liberarvi dalla schiavitù e condurvi dal Khan di Berla, ma che cosa penserebbe di me AltunKhan? Si convincerebbe che sono venuto alla sua Corte soltanto per rapirvi. Inoltre devo confessare 45
che mi sottopongo volentieri al volere della principessa Turandot; e poiché lei vuole sacrificarmi, sono pronto ad accettare il sacrificio.» A queste parole la schiava cominciò a piangere e disse: «E possibile che preferiate morire, piuttosto che rompere le catene della mia schiavitù? Anche se Turandot è più bella di me, io posseggo però un cuore più tenero e caldo. Ah, mio caro principe, non permettete che la cieca passione metta a repentaglio la vostra stessa vita. Fuggiamo insieme da questo palazzo!». «Quale che sia la sorte infelice che mi aspetta» replicò il principe «non so decidermi a una fuga. Voi siete in grado di compensare il vostro liberatore e offrirgli una sorte felice. Ma io non sono nato per essere felice; il mio destino è amare Turandot...» «Allora rimani, uomo ingrato!» gridò impetuosamente la principessa. «Non voglio insistere oltre; la fuga con una schiava non ti attira!» E con quelle parole riabbassò il velo sul viso e lasciò il principe, che rimase a vegliare tutta la notte, abbandonandosi alle più amare riflessioni. La mattina si udì il suono delle campane e il rullio dei tamburi e subito dopo comparvero i sei mandarini per scortare Calaf all'assemblea del consiglio. Egli attraversò con loro il grande cortile, dove erano schierati i soldati del re. Per un momento temette di dover morire lì, ma tutti continuarono a camminare ed egli andò avanti, deciso ad affrontare la morte e giunse fino alla sala dell'assemblea, senza che la sua sentenza venisse eseguita. "Quali saranno ora le intenzioni della principessa?" pensava ora Calaf. "Vuol forse farmi assassinare davanti agli 46
occhi di suo padre? Possibile che il re sia complice del suo misfatto? Oppure ha revocato la sua sentenza di morte?" Mentre Calaf meditava su questi interrogativi, il re entrò nella sala, accompagnato da Turandot. Non appena si furono assisi sui loro troni, il cancelliere si alzò e domandò al principe se ricordava la promessa fatta il giorno precedente, di rinunciare alla principessa se questa avesse risposto esattamente alla sua domanda. Calaf rispose: «Sì, lo ricordo». A queste parole il Cancelliere si rivolse a Turandot e disse: «Voi sapete, principessa, a chi dovrete sottostare se non saprete dire il nome del principe?». Il re, convinto che Turandot non sapesse rispondere alla domanda di Calaf, si volse verso di lei: «Figlia mia» le disse «hai avuto tempo per riflettere sulla sua domanda, ma anche se avessi ancora un anno per pensarci, sono convinto che alla fine dovresti ammettere che è una domanda alla quale non puoi rispondere. Vieni dunque incontro al mio desiderio e prendi questo principe come tuo sposo: egli è degno di regnare un giorno con te sui popoli della Cina.» «Mio signore» rispose Turandot «perché immaginate che io non sappia rispondere alla domanda di questo principe? Ch'egli ripeta la sua domanda e io vi risponderò.» «Io vi domando» disse Calaf «come si chiama il principe che ha sopportato mille sofferenze e ha dovuto mendicare il suo pane e che in questo momento si trova all'apice della gloria e della gioia?» «Questo principe» rispose Turandot «si chiama Calaf ed è il figlio di Timur.» 47
Nell'istante stesso in cui udì pronunciare il suo nome, Calaf cadde al suolo, privo di sensi. I mandarini e persino il re accorsero per aiutarlo e non appena ebbe ripreso conoscenza, egli disse a Turandot: «Mia bella principessa, siete in errore. Il figlio di Timur in questo momento non è affatto all'apice della gloria e della gioia». «Lo ammetto» replicò Turandot. «In questo momento non siete affatto all'apice della gloria e della gioia; ma lo eravate quando avete posto la vostra domanda: quindi, principe, confessate di aver perduto ogni pretesa che potevate avere su Turandot. Io ora posso rifiutarvi la mia mano. Invece dichiaro pubblicamente di prendervi come sposo.» A quelle parole nella sala risuonò un grande grido di gioia e il re abbracciò la principessa e le disse: «Figlia mia, non potevi prendere una decisione che fosse più cara al mio cuore. Il tuo orrore degli uomini mi aveva tolto la dolce speranza di avere mai da te un piccolo principe. Oggi, per nostra grande fortuna, il tuo odio è finito. Ma spiegaci come hai potuto indovinare il nome di questo principe, che pure ti era sconosciuto». «Con un trucco molto semplice ho appreso il suo nome» rispose Turandot. «Una delle mie schiave è andata questa notte dal principe e gli ha carpito il suo segreto.» D'improvviso si fece avanti una schiava che fino a quel momento si era tenuta dietro la principessa. Avanzò fino al centro della sala e sollevò il velo che le copriva il volto e subito Calaf la riconobbe. Era la schiava ch'era andata da lui nella notte. Il suo volto aveva un pallore di morte. Tutti i presenti la guardarono sorpresi, attendendo ciò che la donna avrebbe 48
detto. Lei si volse a Turandot: «Principessa, è giunta per me l'ora di deludervi, poiché io non sono andata dal principe per conoscere il suo nome. No, ho osato fare questo passo per il mio solo interesse. Volevo liberarmi dalle catene della schiavitù e rubarvi l'uomo che vi ama. Ma l'ingrato ha disdegnato il mio amore e io non ho tuttavia risparmiato alcun mezzo per portarvelo via; gli ho persino detto che oggi lo avreste fatto uccidere, ma lui è rimasto fermo nel suo proposito. E poiché ora vi siete decisa a sposarlo, a me non rimane altra via d'uscita che questa». E con quelle parole trasse di sotto la veste un pugnale e se lo conficcò nel petto. A quella vista, un brivido di orrore passò in tutta l'assemblea e Turandot scese gridando dal suo trono nel gesto di trattenerla. Ma quando le fu vicina, la povera innamorata infelice si era già strappata il pugnale dal petto, solo per trafiggersi nuovamente. «Ma perché non mi hai detto che avresti perduto la vita se io sposavo il principe?» domandò Turandot alla morente, che riaprì ancora gli occhi e cominciò a parlare: «Per me è finita, io smetto di vivere e di soffrire; non maledire il mio destino, perché ora mi libero da una doppia schiavitù: dalle catene di Altun-Khan e dalle catene dell'amore». La salma dell'infelice fu portata in un palazzo appartato, rivestita in un ricco abito bianco e deposta in una bara che rimase aperta per una settimana; e ogni giorno le mogli dei mandarini venivano a renderle omaggio e piangevano sulla sua morte. Quando arrivò il giorno che l'astrologo di Corte aveva fissato per il funerale, la bara fu deposta su un carro e portata sulla montagna, dove si trovavano le tombe degli imperatori della Cina, poiché Turandot ave49
va pregato suo padre di permettere che le ceneri della sua fidata amica si mescolassero a quelle della sua stessa stirpe. Tre giorni dopo il funerale, si deposero gli abiti di lutto e si celebrarono, con straordinaria pompa, le nozze di Turandot con il principe Calaf. Qualche tempo dopo tornarono a Pechino gli ambasciatori che Altun-Khan aveva inviato alla tribù dei Berla, per portare i genitori del genero del re alla Corte cinese. Insieme agli ambasciatori non vennero soltanto Timur e Elmase, ma anche il principe Alinger, il Khan dei Berla. Calaf accolse suo padre e sua madre alle porte del palazzo e le lacrime che i tre versarono commossero tutti i cinesi e i tartari presenti. Calaf salutò anche il principe Alinger e lo ringraziò per la grande bontà che aveva dimostrato accompagnando lui stesso i genitori fino da AltunKhan. Poi tutti entrarono nel palazzo per salutare l'imperatore. Altun-Khan promise a Timur di mobilitare tutte le sue forze per vendicare l'offesa recatagli dal sultano dei Khoresmi; e già quel giorno stesso fu dato ordine di radunare tutti i soldati. Da parte sua anche il Khan dei Berla aveva, ancor prima di mettersi in viaggio, ordinato alle sue truppe di tenersi pronte e ora le avviò verso il nemico. Nel frattempo l'imperatore della Cina non tralasciò nulla per fare agli ospiti una degna accoglienza. Diede a ciascuno un palazzo con un gran numero di eunuchi e un corpo di guardia di duemila uomini. Calaf non dimenticò neppure la vecchia vedova che lo aveva accolto e la fece venire a palazzo e pregò Turandot di accoglierla nel suo seguito. E il bel principino che Turandot diede alla luce, venne nominato principe ereditario della Cina. In tutte le 50
città dell'immenso impero grandi festeggiamenti durarono a lungo. Intanto si avvicinava il giorno in cui Timur, Calaf e Alinger dovevano abbandonare la corte imperiale per mettersi alla testa di sette volte centomila soldati del re della Cina e del Khan dei Berla per entrare finalmente nelle terre del sultano dei Khoresmi. Il sultano si armò per accogliere degnamente il grande esercito nemico. Ebbe persino l'audacia, invece di nascondersi, di andare loro incontro, alla testa di un esercito di quattro volte centomila uomini, che aveva radunato in gran fretta. Ben presto la battaglia fu decisa e l'esercito cinese ne uscì vittorioso. Nell'ultimo scontro, al sultano, che voleva vincere o morire, non rimaneva altra scelta che gettarsi nel fitto della mischia o aprirsi un passaggio nelle linee nemiche per cercare rifugio presso qualche principe straniero. Ma preferiva morire piuttosto che mostrare al suo popolo la sua testa senza corona. Perciò si buttò a capofitto nella carneficina, fino a quando, trapassato da mille ferite mortali, cadde senza vita e rimase sotto un mucchio di cadaveri. Presto Timur entrò nella capitale dei Khoresmi e fece annunciare al popolo di non volere né le ricchezze né la libertà dei Khoresmi. Ma poiché Dio lo aveva messo sul trono del suo nemico, tutte le terre sottomesse al sultano dovevano d'ora in poi riconoscere il principe Calaf come sovrano. I Khoresmi si assoggettarono e acclamarono Calaf come loro sultano. Nel frattempo Timur si diresse con una parte dell'esercito cinese verso il suo paese. I Tartari Nogai lo accolsero come fedeli sudditi. Ma Timur non si accontentò di riprendere possesso del suo trono, ma dichiarò guerra ai Circassi, per vendisi
carsi del tradimento che essi avevano un tempo perpetrato ai danni del principe Calaf. Il Khan dei Tartari Nogai sconfisse l'esercito dei Circassi, fece a pezzi la maggior parte di loro e si fece proclamare re dei Circassi. Quando più tardi si recò nel nuovo regno di suo figlio Calaf, vi trovò la moglie Elmase e la principessa Turandot, che Altun-Khan aveva fatto accompagnare nella terra dei Khoresmi. Così finirono le peregrinazioni del principe Calaf. Egli regnò a lungo e in pace; Turandot gli diede un secondo figlio, che divenne dopo di lui sultano dei Khoresmi, poiché il primogenito era stato portato alla Corte di Altun-Khan, che lo fece educare e nominò suo successore.
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Il sogno del servo
C'era una volta un uomo che aveva un servo e possedeva una bottega. Il servo usava dormire la notte nella bottega e la mattina vi faceva le pulizie. Una mattina il padrone arrivò che il servo non era ancora alzato. Il padrone lo chiamò, fino a che il servo si fu svegliato, e gli disse: «Perché dormi ancora a quest'ora?». Il servo rispose: «Che tu non possa avere del bene! Io volevo sognare un sogno, ma tu mi hai interrotto». Il padrone domandò: «Di che cosa trattava il tuo sogno?» e aggiunse. «Ti do cento toman1, se mi racconti il tuo sogno». Ma il servo rispose: «Non te lo racconto». Il padrone corse dal re e si lamentò: «Ho un servo che ha fatto un sogno e non me lo racconta». Il re parlò al servo: «Ti do mille toman; raccontami il tuo sogno». Ma il servo rispose: «Io non lo racconto». Allora il re disse: «Scacciatelo dalla città». E così avvenne. Il servo andò in un'altra città e arrivò su una grande piazza e vi trovò una grande folla. Allora chiese a 1 toman: moneta che corrisponde oggi a circa 350 lire; aveva però un tempo un valore infinitamente più elevato.
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un uomo: «Che cosa succede?». E quello rispose: «Il re ha una figlia che ha perduto la parola; e ora annuncia che chiunque sappia ridare la parola a sua figlia, questi l'avrà in sposa. Mille uomini si sono già presentati, ma nessuno di loro ha saputo far parlare la figlia del re. E questi mille uomini sono stati uccisi». Il servo domandò: «Perché sono stati uccisi?». L'uomo rispose: «Ogni volta è così: un pretendente arriva e racconta alla figlia del re per tre volte una storia. Ma non riesce a strapparle una parola. E l'uomo che non riesce a far parlare la figlia del re viene ucciso». Allora il servo disse: «Domani io la farò parlare, affinché il re non uccida più nessuno». La gente se ne andò via, ciascuno a casa propria. La mattina seguente tutti si radunarono nuovamente sulla piazza. Fu portato un trono per la figlia del re e quando essa ebbe preso posto, tutt'intorno al trono fu tirata una tenda. Poi venne messa una poltrona per il servo, che vi sedette per raccontare una storia alla figlia del re. Ma egli volse il viso alla folla, voltando le spalle alla figlia del re. Il servo parlò: «O gente qui riunita! Un falegname, un sarto e un uomo pio strinsero amicizia. Uscirono dalla città e andarono in un deserto. Lì fecero una sosta, si stesero a riposare e dissero: "Faremo a turno la guardia fino a domani". Scese la notte e accesero un fuoco. Allora fu la volta del falegname di fare la guardia. L'uomo si alzò, fece un uomo con un pezzo di legno e lo mise all'ingresso della tenda. Poi si stese di nuovo a dormire. Poi fu la volta del sarto. Si alzò e vide un uomo in piedi davanti alla tenda. Ma per quanto gli chiedesse: "Tu chi sei?" l'altro non gli diede risposta. Il sarto allora andò da 54
lui e lì si accorse che era una figura di legno. Gli cucì dei vestiti, glieli mise addosso e poi se ne andò a dormire. Finalmente fu la volta dell'uomo pio. Questi disse: "Il falegname ha costruito un uomo di legno; e il sarto gli ha messo i vestiti. O Signore! Che cosa devo fare?". Allora venne una voce dal cielo e annunciò che nel corpo di legno doveva entrare la vita. Allora i tre amici cominciarono a litigare a causa del nuovo uomo. Ora ditemi: chi di loro ha maggior diritto su di lui?». La gente rispose: «Il maggior diritto lo ha il falegname che lo ha costruito». Un altro disse: «Il diritto è del sarto, che gli ha dato i vestiti». Ma la figlia del re disse: «O canaglie che non siete altro! Il più grande diritto lo ha colui che gli ha infuso la vita». Così il servo aveva ridato la parola alla figlia del re. La folla si diradò e ciascuno tornò alla propria casa. Il giorno seguente toccò di nuovo al servo raccontare una storia. Come il giorno precedente fu eretto un trono e la figlia del re comparve e vi sedette. Anche il servo sedette nuovamente sulla sua sedia. Parlò: «O gente qui riunita! C'era una volta un re che aveva una figlia, e il suo visir aveva tre figli. Il re disse: "Visir! Da' questa mia figlia a uno dei tuoi figli". Ma il visir disse: "Lasciami tempo per fare la mia scelta". E diede a ciascuno dei suoi figli duecento toman, ordinò che se ne andassero dalla città per commerciare in luogo straniero, perché si vedesse quale di loro era il più abile. «I tre fratelli andarono in una città e arrivarono al bazar. Il maggiore vide un uomo che teneva in mano un libro e gli domandò: "Quanto costa il tuo libro?". "Duecento toman" rispose l'uomo. "In 55
qualsiasi paese muoia un uomo, ciò è rivelato in questo libro". Il figlio del visir comperò il libro e andò a casa. «Il giorno seguente un altro fratello andò nel bazar. Vide un uomo che portava un tappeto sulla spalla e gli domandò: "Quanto costa questo tappeto?". "Duecento toman" rispose l'uomo. "Questo tappeto proviene dal grande Solimano1; colui che vi si siede sopra, il tappeto lo porta ovunque egli voglia andare." Il giovanotto comperò il tappeto e lo portò a casa sua. «Il giorno seguente fu la volta del più giovane dei figli del visir. Andò nel bazar e vide un uomo che offriva un calice. Gli domandò: "Quanto costa questo calice?". "Duecento toman" rispose l'uomo. Ma il figlio del visir domandò: "Che cos'ha di straordinario questo calice, per costare duecento toman?". Il mercante rispose: "Se tu riempi questo calice di acqua, su qualunque morto tu la verserai, questo tornerà in vita". Il figlio del visir diede all'uomo duecento toman e comperò il calice. «I tre fratelli tornarono nella loro casa. Il maggiore dei figli guardò nel suo libro e disse: "Ahimè! E morta la figlia del re! ". Allora i tre fratelli stesero per terra il tappeto, vi si sedettero sopra e il tappeto si levò nell'aria. «Così arrivarono alla loro città natale, che era quella dove era morta la figlia del re. Già ci si stava accingendo ad avvolgerla nel sudario, per seppellirla. Allora il più giovane dei fratelli parlò: "Aspettate a seppellirla, fino a quando io ritorno!". Corse via, 1
Solimano: il re biblico Salomone.
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riempì di acqua il suo calice e la versò sulla testa della figlia del re. Ed essa tornò in vita. «Tra i fratelli nacque allora un litigio. Ora, gente qui riunita, dite, quale di loro ha diritto alla figlia del re?» La gente disse: «Il diritto è di quel fratello che ha guardato nel suo libro». Altri invece dissero: «Il diritto è del fratello che ha spiegato il tappeto». Ma la figlia del re disse: «O canaglie! Il diritto è del fratello che ha risvegliato la figlia del re alla vita». Così la folla si disperse e tutti andarono a casa. La mattina seguente si ritrovarono di nuovo sulla piazza. Il servo parlò: «Una volta c'erano due fratelli; uno era pio e saggio, l'altro era rozzo e stupido. Quello che possedeva il timor di Dio usava andare una volta al/anno nella casa del fratello. E una volta accadde che, dopo che i due fratelli erano andati a riposare, il padrone di casa disse al fratello: "Vuoi venire con me al bagno?". Ma il fratello che possedeva il timor di Dio rispose: "Non ho bisogno di un bagno". E allora l'altro andò da solo al bagno. E poi accadde che il fratello che era rimasto a casa ebbe una eiaculazione e cominciò a lamentarsi: "Che cosa devo fare? Ne nascerà un brutto sospetto su di me". «Allora la moglie di suo fratello lo chiamò: "Che cos'hai da lamentarti? Preparerò per te un secchio di acqua calda, perché tu ti possa lavare". Mentre lui si lavava, vide il fratello che tornava dal bagno. Questi gli domandò: "Perché non sei venuto con me? Avevi forse cattive intenzioni?". E poi aggiunse ancora: "Tu hai fatto qualcosa con mia moglie!". A queste parole i due fratelli cominciarono a litigare e si tagliarono la testa a vicenda. 57
«Quando la moglie del padrone di casa vide quel che era accaduto, gridò disperata: "O Dio! Che cosa devo fare?". Allora Dio mandò un angelo, che prese le due teste e le rimise sui corpi. Ma aveva scambiato le teste. I due fratelli tornarono in vita, e si litigarono per avere la moglie. «Dite, chi ha diritto alla donna?» La gente rispose: «Il diritto è dalla parte del marito». Ma la figlia del re disse: «Il diritto è dalla parte di colui che desidera la donna». Allora la folla si disperse e ciascuno tornò alla propria casa. Ma il servo fu portato nel palazzo del re e ricevette in sposa la principessa.
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SPIRITI MALIGNI
Il principe serpente
C'era una volta un tempo in cui non c'era nessuno all'infuori di Dio. C'era un re che aveva un visir e le mogli di entrambi erano incinte. Un giorno il re disse al visir: «Se il figlio che aspetto dovesse essere una femmina e quello che tu aspetti un maschio, li faremo sposare». Avvenne però che la moglie del re partorisse un nero serpente e la moglie del visir una bellissima bambina e con l'andar degli anni entrambi crebbero. Quando i due furono in età da sposarsi, il re disse al visir: «Ora devi dare tua figlia in moglie a mio figlio». Il nome del figlio del re era Miz Mast o Chomar, che significa Principe Mortodisonno e il nome della fanciulla era Mer-Niga, vale a dire Occhio-della-Grazia. Il visir non ebbe il coraggio di respingere la richiesta del re e così i due figli furono uniti in matrimonio. La sera delle nozze lo sposo e la sposa si presero per mano; e quando i due furono soli, il figlio del re gettò la pelle del nero serpente. Ed ecco! Era un giovane bellissimo. Quando si avvicinò il mattino egli però scivolò di nuovo nella pelle del rettile e tornò ad essere il nero serpente di prima. 58
Dopo qualche tempo giunsero all'orecchio del re delle voci, secondo le quali suo figlio ogni notte si trasformava in un bellissimo giovane. Allora egli mandò a chiamare la nuora e le disse: «Tu devi fare qualcosa per impedire che mio figlio torni a mettersi nella pelle del serpente». Allora la giovane donna disse al marito: «Che cosa dovrei fare se volessi bruciare la tua pelle di serpente?». E lui rispose: «La mia pelle potrebbe bruciare soltanto in un fuoco acceso con un guscio d'uovo, un manico di scopa e un pelo preso dalla coda di un cane. Ma se tu bruci la mia pelle, io scomparirò e tu non mi vedrai mai più». La donna non diede importanza a quell'ammonimento e quando Miz Mast o Chomar la volta successiva fece per entrare nella sua pelle di serpente lei la bruciò. Quando la pelle cominciò a gettare alte fiamme, il principe comparve all'improvviso e gridò: «Tu hai bruciato la mia pelle di serpente, non mi vedrai mai più, a meno che tu venga a cercarmi, camminando tanto a lungo da consumare sette paia di scarpe di ferro e sette mantelli di carta». E con queste parole, scomparve. Mer-Niga subito si preparò al lungo viaggio, si procurò sette paia di scarpe di ferro e sette mantelli di carta e partì. Camminò e camminò in tutte le direzioni di questo mondo, fino a che tutte le sue scarpe e tutti i suoi mantelli furono completamente consumati. E il giorno in cui il suo settimo paio di scarpe fu del tutto consumato, arrivò in riva a un fiume e sedette un momento a riposare, perché era molto stanca. Lì vide una schiava, che veniva al fiume a riempire una brocca d'acqua. Mer-Niga le domandò: «Chi è il tuo padrone?». E la donna rispose: «Io 59
sono la schiava di Miz Mast o Chomar». «E lui dove si trova?» «Sta qui, e presto si sposerà. Prende in moglie la figlia di sua zia.» Mer-Niga domandò ancora: «Per chi attingi l'acqua?». «Per Miz Mast o Chomar; si vuole lavare le mani.» «Bene, allora» replicò Mer-Niga «io getto questo anello nella brocca. Quando tu verserai l'acqua sulle mani del tuo padrone, versala tutta, così l'anello gli cadrà sulla mano.» E con quelle parole gettò nella brocca un anello che Miz Mast o Chomar le aveva regalato come ricordo. La schiava se ne andò e fece tutto ciò che le era stato comandato. Non appena Miz Mast o Chomar vide l'anello, domandò: «Come lo hai avuto?». La schiava rispose: «In riva al fiume sedeva una giovane straniera che me lo ha gettato nella brocca». Il principe allora uscì e riconobbe Mer-Niga e le domandò: «Dove sei stata? Perché sei venuta fin qui, dove ti aspetta morte sicura? Se mia zia viene a sapere che tu sei qui, ti ucciderà. Non mi rimane ora altra via d'uscita che portarti con me e dire che sei una nuova schiava che ho comperato per la mia sposa». Poi prese una ciocca dei suoi capelli, la diede a Occhio-della-Grazia e disse: «In qualunque momento una disgrazia ti minacciasse, getta uno di questi capelli nel fuoco e io comparirò e ti salverò dal pericolo, se mi è possibile». Poi annerì il volto di Ner-Niga e la portò, travestita da schiava, davanti a sua zia e disse: «Riverita zia, ho portato una schiava per vostra figlia». «Oh, tu figlio di una cattiva madre» gridò questa. «Mia figlia non ha bisogno di una nuova schiava.» Ma il principe insistette perché tenesse la fanciulla e alla fine la zia acconsentì. Di 60
nascosto lui disse a Mer-Niga: «Qualunque lavoro ti ordini di fare, obbedisci senza brontolare». Il giorno seguente la zia mise in mano alla nuova schiava una scopa con il manico tempestato di perle e le disse: «Scopa, e se dovesse cadérti anche una sola perla, brucerò tuo padre!». Mer-Niga prese la scopa. Ma l'aveva appena posata sul pavimento, che tutte le perle caddero per terra. Allora gettò un capello nel fuoco e subito comparve Miz Mast o Chomar, che rimise tutte le perle al loro posto e finì di scopare. Poi ridiede la scopa a Mer-Niga e disse: «Vai e dalla a mia zia». Quando Mer-Niga riportò la scopa alla zia, questa domandò: «Hai finito di scopare?». «Sì.» «No, questo lavoro non è opera tua; questa è opera di Miz Mast o Chomar, quel figlio di una cattiva madre.» E allo stesso modo il giorno seguente le diede un setaccio e disse: «Riempilo d'acqua e innaffia il pavimento»; ma per quanto Mer-Niga ci provasse, non riusciva. Allora gettò un secondo capello nel fuoco, il principe comparve e innaffiò per lei il pavimento e poi disse: «Vai e riporta il setaccio a mia zia». Quando lei andò e riportò il setaccio, la zia domandò: «Allora, hai finito di innaffiare?». «Sì.» «Questa non è opera tua, questa è opera di Miz Mast o Chomar, quel figlio di una cattiva madre.» E di nuovo il giorno seguente la zia riempì una cassettina di insetti pungenti, la mise nelle mani di Mer-Niga e disse: «Questa cassettina è piena di perle; portala in un determinato luogo. Lungo la strada vedrai la mangiatoia di un cavallo; gettagli un paio di ossa. E poi vedrai un cane legato, mettigli davanti un po' di paglia. E ogni porta che trovi chiusa, 61
lasciala così e passa invece per ogni porta che trovi aperta. E poi troverai una fossa piena di escrementi e di sangue; non ti devi avvicinare». Mer-Niga si avviò e, strada facendo, fu presa dalla curiosità e volle vedere che cosa c'era nella cassettina. Sollevò appena appena il coperchio per guardarvi dentro e immediatamente fu ricoperta di insetti dalla testa ai piedi. Svelta gettò un capello nel fuoco. Miz Mast o Chomar comparve subito, catturò gli insetti e richiuse saldamente il coperchio. Le ridiede la cassettina e le disse: «Qualunque cosa mia zia ti abbia incaricato di fare, devi ricordarti di fare esattamente il contrario: metti della paglia nella mangiatoia del cavallo e getta un paio di ossa al cane. E apri tutte le porte che trovi chiuse e chiudi tutte quelle che trovi aperte. Se non fai così verrai certamente uccisa. E quando arrivi alla fossa piena di escrementi e di sangue, devi dire: "Se solo avessi tempo, ben volentieri immergerei le dita in questo buon miele e ne mangerei! " e a ogni porta davanti alla quale arrivi, devi dire: "La pace sia con te!".» Così Mer-Niga proseguì per la sua strada e depose paglia nella mangiatoia, gettò ossa al cane, aprì le porte chiuse e chiuse quelle aperte e quando arrivò alla fossa piena di escrementi e di sangue, disse: «Se solo avessi tempo, ben volentieri immergerei le dita in questo buon miele e ne mangerei» e a ogni porta davanti a cui arrivava, disse: «La pace sia con te!» fino a quando ebbe deposto la cassettina nel determinato luogo e si volse per ritornare indietro. Allora la creatura a cui lei aveva portato la cassettina gridò a voce altissima: «Porta aperta, prendila!». Ma la porta rispose: «Perché dovrei prenderla? Tu mi hai aperta; ma lei mi ha richiusa». Allora la 65
voce gridò: «Porta chiusa, prendila!». Ma la porta rispose: «Perché dovrei prenderla? Tu mi hai chiuso, ma lei mi ha riaperto». «Cane, prendila!» «Perché dovrei prenderla? Tu mi hai dato paglia; ma lei invece mi ha dato delle ossa.» «Cavallo, prendila!» «Perché dovrei prenderla? Tu mi hai dato delle ossa; ma lei invece mi ha messo della paglia nella mangiatoia.» Allora la voce gridò: «Escrementi e sangue, prendetela!». Ma loro risposero: «Perché dovremmo prenderla? Tu ci chiami "escrementi e sangue"; ma lei invece ci ha chiamato "miele"». Per farla breve: alla fine Mer-Niga ritornò sana e salva, ma quando arrivò a casa, la zia domandò: «Hai consegnato la cassettina?». Mer-Niga rispose: «Sì». Allora la zia gridò: «Questa non è opera tua, è opera di Miz Mast o Chomar, quel figlio di una cattiva madre!». Finalmente arrivò il giorno delle nozze. La sera, finita la festa, la zia disse: «Infileremo candele sulle dita della schiava, perché vada avanti e faccia lume alla sposa». Fecero dunque dieci candele, le legarono alle dita di Mer-Niga e le accesero. Lungo il cammino, mentre precedeva la sposa Mer-Niga continuava a ripetere: «Miz Mast o Chomar, le mie dita bruciano». E lui rispose: «No, Mer-Niga, è il cuore dentro di me, che brucia». E finalmente arrivarono alla casa. Il principe di nascosto mise in guardia Mer-Niga con le parole: «Sii molto prudente questa notte e a ogni oggetto che sta in casa ricordati di dire: "Dio sia con te, addio!" e non dimenticarne neppure uno». Quando la notte finì, Miz Mast o Chomar tagliò la testa alla sposa e gliela posò sul petto e poi prese 66
Mer-Niga e la portò via con sé. E prese anche un paio di canne dal canneto e un ago, un po' di sale e un pugno di schiuma marina. Ora però era accaduto che Mer-Niga avesse dimenticato di dire addio a un peso da una libbra. Dopo che avevano percorso solo un pezzetto di strada, il peso da una libbra cominciò a tirare la testata del letto della zia e gridò: «Miz Mast o Chomar ha tagliato la testa a tua figlia ed è fuggito con MerNiga». Allora la zia e suo marito, che erano due dew1, si levarono in aria e si misero a inseguirli. Il principe si volse e si accorse che di lì a un minuto quegli orribili spiriti li avrebbero raggiunti e uccisi, perciò gettò una canna per terra ed esclamò: «Oh Dio, in nome del profeta Solimano, fai che qui si levi una foresta di canne, di modo che essi non possano mettere un piede avanti all'altro!». E subito si levò dal suolo una foresta di canne, così fitta che la perfida zia e suo marito solo con grandissima fatica riuscirono a superare. Ma quando Miz Mast o Chomar si volse una seconda volta a guardare, vide che li aveva nuovamente alle calcagna. Gettò l'ago per terra ed esclamò: «Oh Dio, in nome del profeta Solimano, fai che qui si levi una foresta di aghi, in modo che essi non possano mettere un piede avanti all'altro!». E subito si levò dal suolo una foresta di aghi e la perfida zia e suo marito solo con grandissima fatica riuscirono a passare oltre. Ma quando Miz Mast o Chomar si voltò di nuovo, si accorse che i due si stavano avvicinando un'altra volta. Gettò allora per 1
dew: spirito maligno dotato di forze soprannaturali. 67
terra il sale ed esclamò: «Oh Dio, in nome del profeta Solimano, fai che qui si estenda una grande palude salina, di modo che essi non possano mettere un piede avanti all'altro!». E subito, in quello stesso punto, si allargò una palude salina. I disgraziati inseguitori riuscirono a superarla soltanto dopo mille fatiche e ne ebbero i piedi feriti e sanguinanti. Ma quando il principe si voltò a guardare, vide che ancora si stavano avvicinando; perciò gettò sul terreno il pugno di schiuma marina ed esclamò: «Oh Dio, in nome del profeta Solimano, fai che qui si stenda un mare!». La perfida zia e suo marito arrivarono sulla riva del mare e compresero che non avrebbero mai potuto attraversarlo. Allora la zia cominciò a pregare e a supplicare: «Nipote, nipote mio, come hai potuto attraversare questo mare? Ti prego, spiegamelo, affinché anche noi si possa passare oltre». E lui rispose: «Noi due abbiamo posato contemporaneamente i piedi su una roccia che vedete in mezzo al mare, e così siamo riusciti a passare. Mettete anche voi contemporaneamente il piede sulla roccia e potrete passare da questa parte». Essi fecero quel che lui aveva detto; ma non appena ebbero posato il piede nel punto dove avrebbe dovuto esserci la roccia, sprofondarono in acqua e annegarono. Così Miz Mast o Chomar e Mer-Niga poterono ritornare sani e salvi nella loro terra natale e adornarono e illuminarono sette città e celebrarono le loro nozze. Così finisce la nostra storia, ma di essa resterà memoria. 68
I quaranta figli del re
C'era una volta un re che aveva quaranta figli ed erano tutti di una sola madre. Quando i figli furono grandi dissero al padre: «Desidereremmo delle mogli. Ma vogliamo che le nostre mogli siano come noi, figlie di una sola madre». Il re disse: «Qui non le troverete». Allora i figli dissero: «Se tu ce lo permetti, ci metteremo in viaggio e cercheremo noi stessi». Il re acconsentì; ma disse: «Se vi mettete in viaggio, ricordatevi però che lungo la strada, in tre luoghi di sosta troverete, molti dew!». Il più giovane dei figli del re, che il padre amava moltissimo, era più coraggioso dei fratelli, ed essi lo odiavano perché sapevano che era il più amato. Il padre però lo raccomandò caldamente agli altri perché era il più giovane, che avessero molta cura di lui. E così tutti partirono. Arrivarono a un primo luogo di sosta, dove c'erano dei dew. Il più giovane dei fratelli, che si chiamava Malek Mohammed, disse: «Qui ci sono dei dew!». Ma i fratelli risposero: «Smettila con le tue sciocchezze!» e si misero a dormire. D'un tratto Malek Mohammed vide apparire una nuvoletta molto scura che all'improvviso si trasformò in un grosso dew, bianco e macchiato. Malek Mohammed mise una freccia sulla corda del suo arco e la fece schioc69
care contro il dew, che gettò un orribile grido e cadde a terra. Malek gli si avvicinò e gli tagliò la testa. Poi aprì la cintura del dew e vi trovò molti gioielli. Ma di questa scoperta non disse nulla ai suoi fratelli. Poi se ne andarono e, proseguendo il viaggio, arrivarono a un secondo luogo di sosta. E di nuovo i fratelli si misero a dormire e Malek Mohammed rimase a vegliare. Questa volta comparve un dew molto più grosso del precedente. E Malek Mohammed uccise anche questo. Finalmente arrivarono al terzo luogo di sosta. Il dew che qui si trovava era il re dei dew ed era ancor più grosso degli altri due. Ancora una volta Malek Mohammed schioccò la sua freccia, ma questa volta il dew non cadde morto, fu soltanto ferito e riuscì a fuggire. Malek Mohammed lo inseguì, fino a quando arrivarono ai bordi di un pozzo di grandi dimensioni. Lì il giovane vide il dew scendere nel pozzo e poi, dal fondo, scagliare in alto una pietra enorme, di almeno mille man1 di peso, con la quale chiuse l'apertura del pozzo. Malek Mohammed incise un segno nel bordo del pozzo, poi corse dai fratelli, li svegliò e disse loro: «Alzatevi!». I fratelli si alzarono e subito lo rimproverarono aspramente con le parole: «Perché non puoi lasciarci dormire in pace?». Lui rispose soltanto: «Se oggi, per una volta, ascoltate le mie parole, sarete ricchi fintanto che vivrete!». Allora i fratelli si levarono e andarono con lui. Quando furono al bordo del pozzo, Malek Mohammed per prima cosa disse: «Levate quella pietra!». 1 man: unità di peso; 1 man corrispondeva, secondo la provincia, a 3-5 kg.
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Ma per quanto i fratelli si affaticassero, non riuscirono a smuovere il macigno. Allora Malek Mohammed si fece avanti e con un solo dito tolse la pietra e la mise in disparte. Poi si rivolse di nuovo ai fratelli e disse: «E adesso, che uno di voi scenda nel pozzo!»; ma loro risposero: «Abbiamo paura; vacci tu!». Gli legarono una corda intorno alla vita e lasciarono che il fratello più giovane si calasse nel pozzo. In fondo al pozzo Malek Mohammed vide seduta una fanciulla, bella come un plenilunio. Il dew aveva posato la testa sul suo grembo e dormiva. Quando la fanciulla vide il principe, gli disse: «Fuggi, fuggi via! Se il dew si sveglia e ti vede, ti mangia vivo!». Ma Malek Mohammed le rispose: «No, questo non lo farà. Ma tu devi stare zitta!». Poi prese due ferri acuminati e trafisse gli occhi del dew così profondamente che i ferri gli uscirono dal lato posteriore della testa. Il dew emise un terribile urlo, si dissolse in fumo e salì nell'aria. Allora la fanciulla mise le braccia al collo del suo liberatore e gli disse: «Tu hai comprato la vita mia e quella delle mie trentanove sorelle. Devi sapere che noi siamo quaranta figlie di una sola madre; nostro padre è l'imperatore di Machin. Questo dew ci ha rapito e ha nascosto ciascuna di noi in una stanza diversa». Malek Mohammed si guardò intorno e vide quaranta camere, entrò e vi trovò un tale numero di casse colme di gioielli, che solo Dio avrebbe potuto contarle. E in ogni stanza trovò anche una fanciulla, bella come un plenilunio. Chiamò i suoi fratelli: «Calate la corda!». I fratelli fecero ciò che lui aveva detto e Malek Mohammed fece salire, una dopo l'altra, le fanciulle: ogni volta 71
una fanciulla e una cassa di gioie. E andò avanti così fino a quando venne il suo turno. Ora però sapeva che i suoi fratelli volevano impossessarsi di tutti i tesori e avevano intenzione di lasciarlo sul fondo e di riempire il pozzo perché lui rimanesse sepolto. Così, quando fu la volta dell'ultima cassa, vi si sedette dentro insieme alla fanciulla che aveva incontrata per prima e gridò verso l'alto: «Tirate su ancora questa cassa; poi lasciate di nuovo giù la corda, perché io possa risalire!». I fratelli tirarono su l'ultima cassa, ma poi riempirono il pozzo di terra per lasciarvi morire Malek Mohammed. Caricarono tutte le casse e si misero in viaggio per tornare alla loro città natale. Lungo il cammino però Malek Mohammed uscì da una delle casse e ne fece uscire la fanciulla. A quella vista i fratelli fuggirono. Arrivarono a casa e dissero al padre: «Noi abbiamo trovato quaranta figlie di una sola madre e di un solo padre». Ma di tutte le gesta di Malek Mohammed tacquero e affermarono invece: «Lo abbiamo fatto noi». Alla fine il re domandò ai suoi figli: «Dov'è Malek Mohammed? Dove è andato?». E i figli gli risposero: «Il dew lo ha ucciso». Il padre cominciò a piangere, fino a quando vide arrivare un messaggero, coperto di polvere fin sopra i capelli. Portava una lettera di Malek Mohammed, il quale aveva scritto: «I miei fratelli credono di avermi ucciso». Il padre lesse tutta la storia e fu colto da un'ira tremenda e bandì i suoi figli dalla città. Poi fece adornare la città stessa a festa, fino a quando arrivò Malek Mohammed con la sua fanciulla. E la festa di nozze durò sette giorni e sette notti.
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La città delle pietre
C'era qualcuno, non c'era nessuno, all'infuori di Dio non c'era nessuno. C'era una città che si chiamava Città delle pietre. Ma perché si chiamava così? Voglio raccontarvene la storia: Un dew si era ben sistemato in una grotta. Ogni giorno si pompava d'aria fino a essere pieno e poi volava via e andava a rapire, nella città distante due 0 tre farsach,1 un bambino di sette o otto anni. Poi lo portava nella sua grotta e lo mangiava. Per molti anni il dew potè imperversare in quel modo e gli abitanti della città potevano fare quel che volevano, ma non riuscivano a impedirglielo. Erano costretti a vedere con i propri occhi il dew che si portava via i loro cari bambini fin nella sua grotta sulle montagne. Dopo di che non ne avevano più notizie. Ogni volta che un bambino andava perduto in questa orribile maniera, la madre, il padre e alcuni giovani coraggiosi del posto salivano sulla montagna, armati di bastoni, randelli e spade. Si arrampicavano fino in cima per cercare di uccidere il dew 1
farsach: misura di lunghezza; 1 farsach corrisponde a circa 6 chilometri. 73
quando questi usciva dalla sua grotta. Ma il dew era naturalmente dotato di forze magiche e vedeva già di lontano coloro che volevano aggredirlo e li trasformava quindi in statue di pietra. Erano così tante le persone che volevano uccidere il dew, che tutto il pendio della montagna era disseminato di statue di pietra. Ormai nessuno più aveva il coraggio di salire sulla montagna per uccidere il dew. Ma da allora quel luogo venne chiamato la Città delle pietre. Da quella città erano partiti migliaia di madri, di padri, fratelli e sorelle per liberare i bambini rapiti. E migliaia erano stati trasformati in figure di pietra, così che la montagna era diventata un luogo molto triste. Tutti gli abitanti erano andati dal governatore per informarlo di quegli orribili casi, ma quello non aveva dato importanza alle loro parole e si era rifiutato di mandare i suoi soldati a combattere il dew. E così quel mostro continuava, giorno dopo giorno, a rapire bambini. Piano piano gli abitanti capirono che era inutile e rinunciarono a rivolgersi al governatore. Lui non sentiva nulla del dolore del popolo. Fino a quando il dew andò a prendersi il suo bambino. Solo allora il governatore fu colto dall'orrore e dall'angoscia e mandò tutti i suoi soldati sulla montagna, per uccidere il dew e liberare suo figlio. Lui stesso seguì personalmente il suo esercito. Ma come era accaduto a tutti gli altri, anche lui e i soldati furono trasformati in statue di pietra. La gente si rallegrò quando vide che al governatore, che non si era mai commosso per le sciagure altrui, era toccata la stessa sorte. E tuttavia non cessavano di cercare una via d'uscita a quel tragico destino, perché la ferocia del dew riem74
piva i cuori di tutti di un dolore senza fine. Per giorni e giorni nessuno più uscì nelle strade, tutti stavano in casa a meditare; ma poi venne il momento in cui dovettero tornare a riaprire i negozi, riprendere i loro affari per guadagnarsi da vivere; non potevano restare tutti senza far nulla. Alla fine si presentò un ragazzo di quindici anni che disse di voler uccidere da solo il dew soltanto se gli abitanti della città si dicevano d'accordo. In caso di vittoria, voleva in sposa la fanciulla più bella ed essere eletto governatore. Tutti furono d'accordo e il giovane, che si chiamava Chadang, prese con sé un pugno di sale, un pugno di aghi e una piccola quantità di petrolio. Poi disse: «Andate tutti nelle vostre case». Quando tutti si furono nascosti in casa, se ne andò a passeggio per le strade della città. D'improvviso gli comparve davanti il dew, tutto affamato. Senza alcun timore, Chadang gli sorrise e disse: «Lo sapevamo che oggi toccava a me essere mangiato. Sono pronto. Vieni, andiamo!». Il dew se lo caricò sulle spalle e si affrettò verso la sua grotta sulla montagna. Tutti gli abitanti della città aspettavano col fiato sospeso di vedere che cosa Chadang avrebbe fatto, e contavano i minuti. Ma quando Chadang arrivò nella grotta, disse al dew: «Dal momento che mi mangerai, ti prego di esaudire un mio ultimo desiderio. Io conosco un mezzo che mi toglierà il dolore quando tu affonderai i denti nella mia carne». Il dew si disse d'accordo e Chadang gli propose: «Apri dunque la bocca. Ti limerò i denti, perché tu mi possa mangiare più facilmente». Il dew aprì la bocca e in quello stesso istante Chadang vi gettò dentro un pugno di aghi. Quando il 75
dew cercò di chiudere la bocca, gli aghi gli si conficcarono nel palato e il mostro avvertì il dolore. Senza aspettare altro Chadang gli gettò il sale negli occhi. Il dew si mise a urlare, si strofinò gli occhi e cercò di inseguire Chadang. Ma il ragazzo colse quel momento per rovesciare addosso a quel demonio il petrolio che aveva portato e subito gli diede fuoco. Dopo solo pochi minuti del dew non rimaneva che un mucchietto di cenere. Quando Chadang stava per uscire dalla grotta, il suo sguardo cadde d'un tratto su un grosso diamante. Lo prese e se ne andò. Quando, scendendo dalla montagna, si trovò a passare davanti alle figure di pietra, sollevò il diamante che aveva in mano per osservarlo meglio e ammirarne lo scintillio alla luce del sole. Ma ogni volta che la luce del diamante si posava scintillante su una figura di pietra, quel lampo risvegliava la vita e le statue tornavano a essere persone in carne e ossa. Così, con il diamante potè ridare a ciascuno la propria figura umana. Solo sul crudele governatore non fece balenare la sua luce come aveva fatto con gli altri; lo risvegliò a nuova vita solo dai fianchi in su, ma gli lasciò le gambe di pietra. Tutti coloro che, felici, erano tornati in vita, portarono a spalla il loro salvatore. Ridendo e cantando lo riportarono in città; ai suoi piedi sacrificarono migliaia di buoi e di pecore; gli diedero in sposa la fanciulla più bella e lo nominarono governatore. E mentre il crudele governatore doveva soffrire tutte le pene, Chadang governò per molti e molti anni con saggezza e giustizia. Così finisce la nostra storia, ma di essa resterà memoria. 76
La festa in giardino
In una città viveva un mercante che aveva un figlio. Questo giovane era straordinariamente bello e di assai amabili maniere. Quando ebbe sedici o diciassette anni, tutti i mercanti gli volevano bene; lo ricevevano nelle loro case, lo portavano in giro per la città e anche nei loro viaggi. Così un bel giorno una trentina di questi mercanti lo invitarono in un giardino fuori città dove volevano divertirsi. Insieme al giovane passarono la giornata mangiando e bevendo e poi fecero musica e danzarono in quel bel giardino fino a quando scese la notte. Allora uno di loro disse: «Qui l'aria è deliziosa, il giardino è molto bello e la luna splende luminosa. La cosa migliore è trascorrere qui anche la notte». Tutti furono d'accordo; mangiarono e bevvero fino a mezzanotte. Poi il giovane si alzò e andò a passeggiare nel giardino. La luna mandava una luce chiara e il giovane era ubriaco. Arrivò fino alla porta del giardino, l'aprì e uscì fuori, per camminare ancora un po'. Nel chiarore della luna vide un'ombra, che venne verso di lui e lo salutò. Il giovane figlio del mercante domandò: «Chi sei?». E l'ombra rispose: «Sono un uomo d'affari, amico dei tuoi amici e arrivo proprio 77
ora da un'altra città. La mia merce, gli asini e i cammelli sono ancora fuori porta. Ho sentito che voi vi siete riuniti in questo giardino e sono venuto a cercarvi per poter far entrare la mia merce oltre le mura della città; in tal modo potrei evitare di pagare domattina la gabella». Il giovane, ubriaco com'era, gli prestò subito fede e disse: «Andiamo!». E così si allontanò con l'uomo, senza neppure avvertire gli altri mercanti. Lo sconosciuto camminava a passo molto svelto e il giovane lo seguiva. Andarono e andarono. E dopo due o tre farsach, attraverso strade pietrose e cespugli di rovi, il giovane figlio del mercante, stanco morto e sfinito, si rese conto che non si vedeva né la città, né gli asini, né i cammelli. A un certo punto si accorse che stava nascendo il giorno e il cielo si colorava di porpora. E l'uomo d'improvviso scomparve, senza che il giovane potesse capire se era stato inghiottito dalla terra o se era salito al cielo... E non vide più nessuno. Sorse il sole e il ragazzo si ritrovò in un deserto pietroso e pieno di arbusti spinosi - non c'era un goccio d'acqua, non un albero e tanto meno una città o un villaggio. Colto dallo spavento il figlio del mercante cominciò a correre di qua e di là, fino a che arrivò mezzogiorno. Il sole era intanto diventato rovente e il ragazzo spossato dalla fame e dalla sete svenne. Poi il sole tramontò, l'aria si fece più fresca e il giovane si svegliò. Vide un uomo e una donna, che portavano entrambi un fascio di legna sulle spalle. I due si volsero verso il giovane e gli dissero: «Chi sei? Che cosa fai qui?». Lui subito raccontò tutto quel che gli era accaduto. L'uomo e la donna gli spiegarono: «La persona che ti ha portato fin qui era un demone, che ti voleva mangiare. È una gran bella 78
cosa che noi ti abbiamo trovato. Vieni con noi, ora torniamo a casa». Il figlio del mercante credette a quei due e si avviò con loro. L'uomo e la donna lo precedevano e lui li seguiva. Era sfinito e mezzo morto di fame, perché dalla sera del giorno precedente non aveva più mangiato e aveva camminato per almeno cinque o sei farsach fra pietre e cespugli di spine. E così camminarono e camminarono. A un certo punto il figlio del mercante si accorse che già si annunciava l'alba; e l'uomo e la donna scomparvero ai suoi occhi. Il sole si levò. Il ragazzo si ritrovò completamente solo in un immenso deserto - non un goccio d'acqua, un albero, un arbusto. Camminò e camminò fino all'ora del mezzogiorno, quando l'aria si fece infuocata e lui cadde svenuto al suolo. Al tramonto l'aria si rinfrescò e il giovane figlio del mercante ritornò in sé. Vide un uomo a cavallo, le briglie strette nella mano. L'uomo gli disse: «Chi sei? Che cosa fai qui?». Il ragazzo gli raccontò tutto ciò che aveva visto e l'uomo gli disse: «Quella gente che hai incontrato erano un ghul1 e un demone, che ti volevano mangiare. È una fortuna che io sia passato di qui e ti abbia trovato mentre dormivi. La mia casa non è lontana. Ti ho portato un cavallo. Alzati e monta a cavallo con me, così arriveremo presto a casa mia». Il figlio del mercante montò a cavallo e si avviarono. Un'ora, due ore, tre ore il giovane cavalcò con lo sconosciuto. Poi il cielo si oscurò ed essi arrivarono a un altro grande deserto. Il giovane vide che sul 1
ghul: spirito maligno femminile che divora gli uomini. 79
deserto brillavano centomila lampade e all'incirca diecimila fuochi erano stati accesi, ciascuno grande come una montagna. Lì erano riuniti più di centomila ghul, demoni, spiriti maligni, bianchi e macchiati e tutti raccolti in grandi orde danzavano intorno ai fuochi. Ciascuno di essi teneva in mano due bastoncini che batteva l'uno contro l'altro; cantavano e gridavano; dagli occhi e dalle orecchie dei mostri uscivano fiamme come da una fonderia; tutti avevano grandi corna, enormi becchi e una lunga coda. Il giovane figlio del mercante quasi moriva dalla paura. Poi posò gli occhi sul cavallo sul quale si trovava e vide che era un grosso drago con sette teste, e ogni testa aveva sette grosse corna, sette occhi, sette orecchie, sette bocche, sette nasi, sette piedi, sette ali e sette code. Il giovane ne fu terrorizzato, tanto che cadde al suolo svenuto. Questo accadeva a mezzanotte. Un'ora più tardi rinvenne. Vide che il cielo era molto scuro e intorno a lui non c'era più nessuno: non un demone, non una fata, non un fuoco, non una lampada. Il ragazzo però aveva ormai trascorso due o tre giorni e notti senza mangiare. Era mezzo morto di paura, di fame e di sete. Si mise a piangere e pianse a lungo e si diceva: "Tre notti fa mi trovavo in quel bel giardino con i miei amici - ed ecco in che stato mi ritrovo ora!". Si avviò e camminò nell'oscurità, andando sempre avanti. Arrivò a un pozzo e pensò: "Adesso che è piena notte e il cielo così buio, può venire una bestia feroce, un lupo, un leone o un leopardo e divorarmi! È meglio che mi cali nel pozzo. Quando si farà giorno ne uscirò fuori e vedrò che cosa potrò fare". Così si gettò nel pozzo. Ma il pozzo era molto profondo. 80
Nel cadere la sua mano toccò la parete interna del pozzo ed egli si accorse che un lato del pozzo non era chiuso da un muro. Molto lentamente andò avanti. Dopo che ebbe continuato a scendere per un'ora, vide una luce che attraverso un buco penetrava nell'interno del pozzo. Pensò che fosse la luna, accostò l'occhio al buco, guardò e vide un grande giardino, pieno di lampade accese. Prese una pietra e se ne servì per ingrandire il buco fino a entrare nel giardino. Lì vide all'incirca cinquemila lampade, grandi alberi, ruscelli in cui scorreva acqua limpidissima, piante cariche di frutti. Poiché da due o tre notti non aveva più bevuto acqua, per prima cosa si chinò e bevve quant'acqua potè. Poi si arrampicò su un albero per mangiare di quei frutti. Mentre mangiava quei frutti, vide un vecchio molto alto, con una lunga barba bianca; teneva in mano un lungo bastone e gridò: «Ladro! Ladro!». Si avvicinò all'albero su cui il ragazzo si era arrampicato e gli ordinò: «Scendi subito!». E il giovane scese. Allora il vecchio gli domandò: «Perché sei entrato nel giardino di questa gente?». Il ragazzo si mise a piangere e gli raccontò tutta la sua storia. Il vecchio fu preso dalla compassione e gli spiegò: «Tu eri caduto nelle mani di demoni, maghi, spiriti maligni, fate, e tutti ti volevano mangiare. Ma grazie a Dio ti sei potuto salvare e sei arrivato fin qui. «Ora io vado in città, ti porterò pane, carne, pilau1 e arrosto. Ma temo che se ti lascio qui, possa venire un mago o un demone. Perciò ti do un consiglio: se, mentre io sono assente, viene qualcuno, sia 1
pilau: piatto a base di riso e carne. 81
uomo o donna, stai sull'albero e non scendere.» Poi il vecchio portò una scala di cuoio che appese sotto i rami di un albero di sandalo bianco, in cima al quale qualcuno aveva sistemato un ampio letto, e disse al ragazzo: «Ora tu sali sull'albero e dormi in quel letto. Io porto via la scala, affinché nessuno possa salire. Ma tu non devi assolutamente scendere, perché altrimenti qualcuno potrebbe mangiarti». Il figlio del mercante salì con la scala di cuoio in cima all'albero. Sul letto vide delle coperte di seta e lenzuola di taffetà. C'era anche una caraffa di vino, ne bevve un bicchiere e poi si infilò fra le lenzuola. Il vecchio portò via la scala e uscì dal giardino, per andare in città a prendere da mangiare. In quel momento il giovane vide due o tre donne bellissime e molto affascinanti che stendevano tappeti accanto a un bacino d'acqua in mezzo al giardino e vi posavano vino, pane, dolciumi e frutta. E in quello stesso istante arrivarono altre quaranta o cinquanta donne, tutte molto belle a vedersi e piene di grazia e tutte sedettero con chitarra, tamburello, tamburo, timpani e corni sui tappeti. Cominciarono a suonare, mangiare, cantare e ballare. Fra queste donne c'era una fanciulla che per la sua grazia e la sua bellezza brillava come il sole in mezzo alle stelle. Le donne banchettarono e si ubriacarono e infine si avvicinarono all'albero sulla cui cima il giovane dormiva nel suo letto di seta. Lo chiamarono: «Ehi, giovanotto. Per favore, scendi dall'albero. Vogliamo per un'ora divertirci in compagnia». Il giovane dimenticò il consiglio del vecchio, scese dall'albero e prese per mano la fanciulla più bella. Sedettero sui tappeti e bevvero vino, mentre le altre 82
donne cantavano, suonavano e ballavano. La fanciulla e il giovane si ubriacarono. Lui pregò la fanciulla di stendersi, le tolse i calzoni, si tolse anche i suoi e si accinse a possederla: si gettò su di lei e sui suoi seni, premette le sue labbra su quelle di lei, la baciò e le passò un braccio intorno al collo per stringerla a sé. Ma in quello stesso istante la guardò in viso e vide che dagli occhi di lei sprizzava fuoco; lei aprì le labbra ed egli vide che aveva i denti di un cinghiale; e dalla sua testa erano spuntate delle grosse corna; il suo corpo si dilatò e si allungò fino a prendere la forma di un drago e dalla bocca e dal naso della fanciulla uscì un fetore nauseante e terribile e un vapore di zolfo, come se venisse da un pozzo in cui era imprigionato un incendio. Dalla paura e anche a causa di quel terribile fetore, il giovane svenne e rimase così, privo di conoscenza, per un'ora o due. Quando ritornò in sé, si avvide che non c'era traccia alcuna né del giardino né delle fanciulle o dei tappeti e che si trovava solo soletto in un immenso deserto buio. Al colmo del terrore e della paura, cominciò a correre nell'oscurità notturna, per allontanarsi il più possibile da quei luoghi. Arrivò a una fonte e vide subito che era una fonte di acqua pura. Da due o tre notti e giorni ormai girovagava nel deserto e nella polvere, sotto un sole cocente. Si disse: "Ora la cosa migliore da fare è mettersi nella fonte e lavarsi bene". Si spogliò ed entrò nell'acqua della fonte. Affondò il capo nell'acqua e si lavò. Quando rialzò la testa, vide alla luce della luna che era caduto disteso sul vialetto di un giardino e che il giardino era lo stesso in cui i suoi amici mercanti lo avevano invitato. Stava per sorgere il matti83
no: sentì che l'aria nel giardino si era fatta molto fredda. Si alzò e andò a cercare i suoi amici. E li trovò, uno ubriaco, l'altro semiubriaco, l'uno che dormiva, l'altro che vegliava, uno che beveva il tè, l'altro che fumava il narghilè. Il giovane figlio del mercante aveva semplicemente dormito una o due ore per smaltire la sbornia. E tutto quello che abbiamo raccontato se lo era soltanto sognato.
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RICCHI E POVERI
Il profeta Musa e il venditore d'acqua
Ai tempi in cui viveva Musa1 viveva anche un povero portatore d'acqua senza un soldo. Un giorno egli andò dal profeta e gli disse: «Non siamo forse io e il capo della consorteria dei mercanti in ugual misura schiavi di Dio? Ma se è così, perché quello possiede tanti beni terreni, mentre io non ho da vendere neppure un sospiro?». E Musa rispose: «Il Signore del mondo ha segnato il primo giorno sulla fronte di ogni creatura ciò che le è dato di beni terreni, non di più e non di meno». L'uomo andò via. Il giorno seguente, però, mentre Musa si accingeva ad andare sul Monte Sinai, egli si mise sulla sua strada e gli disse: «Quando arrivi sul Sinai, porta a Dio l'espressione del mio rispetto, e domandagli a nome mio se non gli è possibile modificare un poco quel segno ch'egli il primo giorno ha scritto sulla mia fronte. Vorrei finalmente sapere per quanto tempo ancora dovrò attingere acqua e vivere nella miseria». Musa rispose: «Fino al giorno della resurrezione Dio non cambierà il segno che ha scritto sulla fronte di ogni creatura». «Diglie1
Musa: il profeta biblico Mosè. 87
lo ugualmente; per Voi questa è una piccolezza» replicò il povero portatore d'acqua. Musa andò quindi sul Sinai. Quando ebbe terminato la sua conversazione con Dio, voleva mettersi sulla via del ritorno. Ma allora udì una voce: «Musa, perché non mi hai riferito il messaggio del mio servo?». »Oh, Signore, perché si deve dimostrare ciò che è visibile? Voi lo sapete meglio di me.» «Musa, digli che io ho cambiato ciò che avevo prescritto.» Il portatore d'acqua fu pieno di gioia e disse il suo grazie a Dio. E ora ascoltate bene! Il giorno seguente il povero portatore aveva preso la sua fune e il suo secchio per andare ad attingere acqua. Ciò facendo passò davanti alla casa del capo della consorteria dei mercanti della città. Costui si accingeva a dare sua figlia in sposa al figlio del visir. I servi di casa andarono dal portatore d'acqua e gli dissero: «Babbino, tu attingi acqua?». «Perché no, è il mio mestiere.» «Allora vieni e colma le coppe nella casa del nostro padrone.» Egli fu d'accordo. Nel momento della preghiera del mezzogiorno attinse acqua. Allora venne la moglie del capo dei mercanti. Quando vide che l'infelice aveva colmato tutte le coppe nella casa, ebbe compassione di lui. Si volse al marito e gli disse: «Per noi oggi è giorno per far festa ed essere lieti. Questo povero diavolo ha faticato per colmare tutte le coppe della nostra casa. Trovo che sarebbe bello che rimanesse per il banchetto, per poter mangiare una volta qualcosa di buono. Questo non ci porterà danno alcuno!». «Ma, mia cara, come può quell'uomo con quella veste venire alla festa di nozze?» «Bontà di Dio, il cielo non cadrà sulla terra, se tu gli 88
dai una delle tue vesti.» «Ben detto!» rispose il marito. Disposero davanti al portatore d'acqua nuove vesti, uno scialle che veniva dal Cachemir e un turbante, come solo un mercante usa portare: «Indossa queste vesti, oggi resterai qui con noi al banchetto!». Il pover'uomo si cambiò d'abito. Poi sedette nella sala che era stata preparata per le nozze; lì c'erano il governatore, il visir e i principi. «Chi è quest'uomo?» domandò il governatore al capo dei mercanti. Costui, tutto confuso, pensò: "Gran Dio, s'egli dice di essere il portatore d'acqua, il governatore lo punirà". Per paura rispose quindi. «Servo vostro, questi è mio nipote, venuto in visita.» A questo il governatore ribatté: «È sorprendente che tu abbia un nipote di tanto riguardo e dia tua figlia in sposa a un estraneo. No, tua figlia deve andare a tuo nipote! Oggi stesso, durante questa riunione, tu stenderai il contratto di nozze fra tua figlia e tuo nipote, mentre io darò mia figlia al figlio del visir.» L'ordine del governatore cade su di noi improvviso come la morte, dice il proverbio. E così si procedette, già nel corso di quella riunione, a stendere il contratto di nozze fra la figlia del ricco mercante e il povero portatore d'acqua. Quando la festa fu finita, il mercante andò dalla moglie: «Ecco, vedi ora quale disgrazia cade su di noi!». «Oh, non fa niente! Questo portatore d'acqua getterà il suo berretto al cielo dalla gioia, se riceve cento toman. Noi gli diamo il denaro e lui in compenso rifiuterà nostra figlia.» Dovete sapere che il mercante, con tutte le sue ricchezze terrene, aveva una sola figlia. Andò dunque a cercare il portatore d'acqua, ch'era diventato suo genero e gli disse: «Ascoltami bene, mio caro, ti 89
diamo subito cento toman. Le vesti che hai indosso, restano di tua proprietà. Come dice il proverbio: il cammello che tu hai visto, credi di non averlo visto. Tu dunque respingi mia figlia». Ma l'altro cominciò subito a gridare. «Che cosa dici? Cosa vuol dire questa storia del cammello? Io sono tuo genero e tu mi parli in questo tono! Andrò a cercare il governatore!» Allora i suoceri lo lasciarono in pace. E ora ascoltate quello che accadde nella notte di nozze. Bene o male si unirono le mani dei novelli sposi ed essi vennero portati nella camera nuziale. Ma la madre della sposa andò a spiare da un buco fatto nel muro della terrazza per vedere che cosa faceva il portatore d'acqua con sua figlia - la sua figliola, ch'era tenera e fresca come una rosa. Ma niente faceva l'uomo con lei! Dopo essersi spogliato, camminò a lungo avanti e indietro per la stanza, poi si rotolò parecchie volte sul pavimento ripetendo fra sé: "Tu lo hai cambiato, e come lo hai cambiato!". E, schioccando le dita, ripeteva all'infinito la sua frase. La suocera tornò dal marito e gli disse: «Alla nostra disgrazia se ne aggiunge un'altra: il buon uomo è pazzo! Vieni a vedere tu stesso!». Prese il marito per mano e lo condusse fino al buco nel muro del terrazzo. Ed egli vide il genero che continuava a rotolarsi sul pavimento, sempre ripetendo la stessa frase. A quella vista i due esclamarono a una voce: «Certamente è diventato pazzo!». Aprirono la porta della camera nuziale e si avvicinarono e videro la figlia che piangeva come una nuvola in primavera e si torturava dalla paura di quell'uomo che pareva essere uscito di senno. I genitori lo presero per mano e così gli parlarono: «Uomo, ti supplichiamo: 90
parla, affinché possiamo capire se sei pazzo e solo per questo ti comporti così o se hai perduto la testa dalla troppa gioia». Egli però rispose: «Signor capo dei mercanti, io non sono né un pazzo pericoloso, né sono ammattito dalla gioia. Se mi rotolo sul pavimento è per un segreto che non posso rivelare». Alle esortazioni e alle preghiere pressanti e all'ammonimento che in seno alla famiglia non si dovevano tenere segreti l'uno per l'altro, Puomo si decise a raccontare del suo incontro con Musa e della preghiera che gli aveva rivolto. Poi continuò: «E in verità ancora ieri sera non avevo nulla da mangiare e la terra come giaciglio e il cielo come coperta. Ma questa sera tutto mi è stato dato. Il mio suocero è il capo dei mercanti della città. Perciò io lodo Dio e dico: Signore, tu hai cambiato il Tuo segno su di me, e come lo hai cambiato!». E i suoceri riconobbero che si trattava di un'opera di Dio e anch'essi lo lodarono.
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Scià Abbas e la madre povera
Una sera lo scià Abbas lasciò il suo palazzo per aggirarsi nella città. Andò di qua e di là, fino a che giunse a un gruppo di case in rovina. Lì udì le voci di bambini che piangevano e dicevano: «O mamma, noi moriamo di fame. Abbi compassione della nostra fame». E la madre piangeva con loro e diceva: «Che Dio colpisca vostra madre, che non ha nulla da darvi da mangiare. Che cosa può fare?». Lo scià rimase ad ascoltare. Egli indossava però le vesti di un derviscio1 e alla tracolla portava appesa una ciotola da mendicante piena di asch2. Si avvicinò e la donna credette che un derviscio si accostasse a lei. Si alzò per riceverlo. Ed egli sedette, riempì la sua ciotolina di zuppa e gliela mise davanti. E la donna e i suoi figli si saziarono. E quando lui fu sul punto di andarsene, si tolse un anello dal dito, lo diede alla donna e così parlò: «Prendilo e dallo al tuo fornaio. Così riceverai pane ogni giorno, fino a quando i tuoi figli saranno cresciuti». Poi si alzò e se ne andò. 1 2
derviscio: monaco mendicante. asch: zuppa densa.
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La donna prese l'anello con gioia e con esso andò dal fornaio, U lo tolse di tasca e lo diede al fornaio con le parole: «Mastro fornaio, prendete questo anello e datemi in compenso ogni sera pane per i miei figli». Il fornaio prese l'anello e lo esaminò e vide che era uno splendido anello, che poteva valere mille toman. E disse: «Donna, chi ti ha dato questo anello?». «Nessuno, è mio.» «No, tu lo hai rubato» disse, la prese per un braccio e la portò al capo della polizia. E qui disse: «Oh, darughe1, la notte scorsa questa donna mi ha rubato un astuccio, in cui tenevo un anello. E oggi mi ha portato questo anello, dicendo che è suo. E io l'ho arrestata e l'ho portata davanti a voi. Se voi siete veramente il darughe di questo quartiere, allora procedete contro di lei come meglio credete». Il darughe disse allora ai suoi uomini: «Bene, prendetela!». Gli uomini immobilizzarono la donna e, a un ordine del darughe, le tagliarono le orecchie. «E ora sparisci!» le dissero poi. E così la donna ritornò ai suoi bambini e cominciò a lamentarsi e disse: «O Dio, non perdonare mai a quel derviscio. Le sere prima che lui venisse stavamo meglio; poiché questa sera non solo abbiamo fame, ma mi hanno anche tagliato le orecchie. Io non so dove egli abbia rubato l'anello che mi ha dato, dicendomi di portarlo al fornaio. Ma deve aver saputo che quell'anello apparteneva al fornaio. Infame! Se sapevi di avergli rubato l'anello, perché mi hai detto di riportarglielo? Onnipotente, possa quel derviscio non trovare mai felicità per il resto della sua vita, poiché ha portato tanta infelicità nella nostra!». 1
darughe: titolo del capo della polizia. 93
Ora però, come la sera precedente, scià Abbas tornò a passare di lì, perché voleva vedere come stavano. E ancora una volta li udì piangere e lamentarsi, ma questa volta i lamenti erano più forti di prima. Andò lì ed entrò in casa e tutti i bambini gridarono insieme: «O mamma, il derviscio di ieri sera è tornato!». E la donna disse: «O derviscio, voglia Iddio che tu non abbia a godere felicità finché vivi!». «Sorella» disse lui «perché?» Allora lei gli raccontò tutta la storia e lui disse: «Bene, ora alzati e vieni con me nella mia casa». Lei si alzò ed essi presero i bambini sulle spalle. E arrivarono alla porta del palazzo dello scià ed entrarono nel cortile reale. Ma la donna disse: «Dove ci porti?» e aveva paura. Lui allora la diede in consegna all'eunuco che presiedeva al suo harem e gli ordinò: «Abbi cura di queste persone e spalma un unguento guaritore sulle orecchie di questa donna». Poi andò via. Ma restò sveglio tutta la notte e non poteva dormire, ma continuava a ripetersi: «O Dio, che cosa posso fare per riparare al torto che ho fatto a questi bambini e a questa donna, tanto che le hanno tagliato le orecchie?». Nel frattempo l'eunuco dell'harem aveva spalmato sulle ferite della donna un unguento guaritore e lei era stata liberata dai dolori. La mattina lo scià Abbas indossò vesti di rosso carminio e disse: «Andate e portate qui quel fornaio e il darughe del bazar». Li portarono in sua presenza ed egli disse: «O fornaio, quell'anello era veramente di tua proprietà? Se l'anello è davvero tuo, allora mostrami il suo pendant. Ma se tu questo non lo puoi fare e il pendant lo possiedo io, allora l'anello è mio». 94
Il fornaio mostrò l'anello e lo scià se ne tolse di tasca un secondo, perfettamente uguale a quello del fornaio. E tutti i presenti esclamarono: «I due anelli sono perfettamente identici, non c'è differenza alcuna fra di essi. Essi appartengono entrambi allo scià». «Bene» disse allora lo scià. «Dunque, tu sei il capo della polizia in questo quartiere. Perché quando ti si presenta un caso, non appuri la verità dei fatti, prima di punire la gente?» E a un suo comando il fornaio e il darughe furono legati alla croce. E lo scià raccolse tutte le sue ricchezze e i suoi averi e li regalò ai bambini e alla loro madre. E così la storia è finita.
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L'anello fatato
C'era qualcuno, non c'era nessuno, all'infuori di Dio non c'era nessuno. C'era una volta un giovane di nome Ebrahim che viveva con la sua vecchia madre in una piccola città. Di beni terreni non possedeva altro che cento toman e un gatto. Quando un giorno andò a passeggiare nel bazar della città, notò un vecchio che portava sulle spalle una cassapanca e a gran voce la offriva ai passanti. Ebrahim gli si avvicinò e gli chiese qual era il prezzo della cassapanca. Il vecchio rispose che l'avrebbe venduta per cento toman. Ebrahim provò il desiderio di comperarla; diede al vecchio tutto il suo denaro e si portò a casa la cassapanca. Quando sua madre vide che aveva dato tutto ciò che possedeva per comperare quella cassapanca, si arrabbiò moltissimo ed esclamò: «O figlio mio caro, a che ti serve questa cassapanca? Quali beni vuoi riporvi?». Ebrahim voleva sollevare il coperchio, ma era chiuso a chiave. Allora andò a prendere un martello e si mise all'opera per aprirla. D'improvviso vide all'interno della cassapanca un grosso serpente. Gettò un grido di paura, afferrò il serpente e lo scagliò sul pavimento. Tremanti di terrore madre e figlio si 96
ritirarono in un angolo della stanza e rimasero a osservare il serpente. Questo si arrotolò su se stesso e d'un tratto dalla sua pelle sgusciò fuori ima bellissima fanciulla. Sbalordito, Ebrahim le si avvicinò e domandò: «Chi sei? Perché sgusci fuori dalla pelle di un serpente?». E lei rispose: «Io sono una figlia del re. Quando dei ladri mi hanno rapita, sono scivolata in un involucro fatto di pelle di serpente per sfuggire a quei ribaldi e salvarmi. Se mi riporterai a mio padre, egli ti darà una bella ricompensa». Ebrahim si disse d'accordo. Così il giorno seguente si attorcigliò intorno al collo la fanciulla, che nel frattempo si era di nuovo rinchiusa nella pelle di serpente, e si mise in viaggio. Sua madre pianse e lo supplicò, ma invano: Ebrahim partì. Lungo la strada la fanciulla gli disse: «O giovanotto, quando mi avrai riportato a mio padre, lui ti domanderà che cosa desideri come ricompensa e tu allora gli risponderai che la sola e unica cosa che desideri è il piedestallo del suo narghilè». Stupito, Ebrahim rispose: «D'accordo, ma a che cosa mi serve il piedestallo di un narghilè e che cosa ne posso fare?». La fanciulla allora gli disse: «Il piedestallo di quel narghilè ti darà tutto quello che desideri. Quando lo getterai al suolo, ovunque ti trovi, si leverà un magnifico palazzo e in esso troverai tutto ciò che è utile e necessario per poterci abitare e mangiare. E anche quello che il tuo cuore brama, si troverà là dentro». Ebrahim accettò. Quando arrivò dal re, questi si rallegrò molto di rivedere la figlia e fece imbandierare la città. 97
Dopo che il re ebbe ordinato feste e divertimenti, si rivolse a Ebrahim: «E ora, figlio mio, in ringraziamento per il servigio che mi hai reso, mi puoi chiedere ciò che desideri e io te lo darò». Ebrahim rispose: «La sola e unica cosa che io desidero è il piedestallo del vostro narghilè». Sbalordito, il re domandò: «Come fai a sapere che io posseggo un simile piedestallo di narghilè? Ritira la tua richiesta; ti darò tutto il denaro e tutti i gioielli che vorrai. Ti do persino il mio regno, se è questo che vuoi». Ma Ebrahim non accettò. Alla fine prese il piedestallo del narghilè, si accomiatò e partì. Camminò e camminò fino a quando giunse a ima grande estensione di campi, dove non c'erano né acqua né piante. Aveva fame e sete. Allora si pentì di aver dato ascolto alle ingannevoli parole della fanciulla e aver così rinunciato a tante cose preziose solo per ottenere quell'inutile piedestallo di un narghilè. Si disse che poteva almeno provare a vedere che cosa sarebbe accaduto se avesse fatto ciò che gli era stato detto, e gettò per terra il piedestallo del narghilè. D'improvviso vide comparire un bellissimo, imponente edificio, con tutte le comodità. Nella sala da pranzo c'era una tavola apparecchiata e colma di numerosi piatti. Ebrahim sedette e cominciò a mangiare avidamente. Quando fu sazio, si alzò e andò a ispezionare le stanze, e vide che ovunque c'era tutto il necessario. D'un tratto udì bussare alla porta e vide due dervisci che chiedevano l'elemosina. I due osservavano con grande stupore il bellissimo palazzo. Chiesero il permesso di entrare e di poter mangiare un boccone di pane e inumidirsi la gola. Ebra98
him li condusse alla tavola e quando furono sazi i due vollero accomiatarsi. Uno dei due disse: «Ebrahim, come è possibile che tu possegga un così bel palazzo, ricco di ogni cosa, proprio in mezzo al deserto?». Ebrahim allora raccontò loro la sua avventura, fin dal principio. Uno dei dervisci replicò: «Anch'io posseggo un anello fatato. Ogni volta che lo strofino nella mano, ne escono quattro robusti schiavi negri, che ubbidiscono a tutti i miei comandi. Sei disposto a scambiare il piedestallo del narghilè con il mio anello?». Da principio Ebrahim non ne voleva sapere; ma quando poi i dervisci insistettero, diede loro il piedestallo del narghilè e prese l'anello. Quando i due se ne furono andati, Ebrahim rimase solo in mezzo a quella terra desolata, e immediatamente si pentì di essersi lasciato strappare quell'oggetto tanto prezioso. Solo e senza un tetto si avviò per attraversare quell'infinito deserto. D'un tratto però gli venne in mente che poteva provare a strofinarsi l'anello sulla mano. E subito davanti a lui comparvero quattro robusti schiavi. Ebrahim ordinò loro di mettersi immediatamente alla ricerca dei due dervisci e toglier loro di mano il piedestallo del narghilè. Gli schiavi partirono e dopo pochi minuti soltanto ritornarono con il piedestallo. Ebrahim ne fu molto contento. Proseguì per la sua strada e presto arrivò in una regione molto bella. Poco lontano dal luogo dove il re aveva la sua residenza di campagna, gettò per terra il piedestallo del narghilè e subito comparve un palazzo, ancor più bello e sontuoso di quello del re. Ebrahim strofinò l'anello sulla mano e davanti a lui comparvero i 99
quattro schiavi, che rimasero con le mani incrociate sul petto ad aspettare i suoi ordini. Un giorno la figlia del re era uscita a fare una passeggiata. Vide quel palazzo e domandò alle persone del suo seguito a chi appartenesse. Le risposero che il padrone era un giovane di nome Ebrahim. La principessa espresse il desiderio di andare a trovarlo e così il giovane fu avvertito del suo arrivo. Egli preparò ogni cosa per riceverla degnamente. E infine la salutò con un'accoglienza che la fanciulla non aveva mai conosciuto prima d'allora. La principessa lo pregò di regalarle l'anello fatato ed egli subito acconsentì. Ma quando lei se ne fu andata, subito se ne pentì. Era molto dispiaciuto e non sapeva che cosa fare. Allora gli si avvicinò il suo fedele gatto e gli disse: «Padrone, per quale ragione sei così rattristato?». Ebrahim confidò al gatto la sua storia. E il gatto gli rispose: «Questa notte ti riporterò l'anello». Ma Ebrahim domandò: «Come vuoi riuscirci?». E il gatto rispose: «Dammi soltanto il permesso di uscire e ti riporterò l'anello». . Il gatto partì, andò al palazzo del re e si nascose nella camera della principessa in attesa che venisse la notte. La figlia del re arrivò alla fine e si dispose ad andare a dormire e il gatto vide che prima di addormentarsi si nascondeva l'anello sotto la lingua. Il gatto si chiese: «E ora, che cosa posso fare?». D'improvviso spiccò un salto e uscì dalla camera. Appena fuori si mise in agguato accanto a un buco e in quello stesso istante ecco arrivare un topo. Il gatto piombò sul topo e lo tenne stretto. Il topo cominciò a strillare, ma il gatto gli disse: «Non ti mangio e ti rido la libertà - ma solo a una condizione». 100
Il topo fu subito d'accordo e si avviò insieme al gatto. Andarono nella stanza della principessa e il gatto spiegò al topo: «Tu vai ora a sederti sul volto della principessa e le infili la coda in una narice, di modo che debba starnutire; in questo modo cadrà fuori l'anello che tiene sotto la lingua». Il topo fece ciò che gli veniva detto. L'anello cadde fuori dalla bocca della principessa. Il gatto lo prese e, di corsa, lo riportò a Ebrahim, che ne fu molto felice e accarezzò il gatto con gratitudine. Poco tempo dopo il giovane chiese la mano della principessa e divenne così il genero del re. Andò a prendere sua madre per tenerla con sé. E per tutto il resto della loro vita vissero felici e contenti.
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L'uomo calvo
C'era qualcuno, non c'era nessuno, all'infuori di Dio non c'era nessuno. C'era una volta un re, che aveva sette figlie. Erano alte e molto belle, ma la sera se ne andavano di casa senza il permesso del padre. E questi cercava in tutti i modi di scoprire dove si recassero. Mise delle guardie nel palazzo, alle sue porte e anche per le strade; ma per quanto provasse, tutti i suoi sforzi restavano vani e non riusciva a sapere nulla delle fughe notturne delle sue figlie. Così un giorno fece diramare un annuncio: chi fosse riuscito a scoprire dove andavano le sue figlie quando uscivano dal palazzo, ne avrebbe avuta una in sposa insieme a una ricca ricompensa; chi però avesse dormito per tre notti nella casa del re, senza riuscire a scoprire il segreto delle fughe notturne delle principesse, avrebbe avuto la testa mozzata. Furono numerosi coloro che si presentarono; ma in quelle tre notti dormirono e non capirono come e quando le fanciulle uscissero dal palazzo; e di conseguenza pagarono con la vita. Piano piano tutta la faccenda venne dimenticata, solo il re continuava a essere disperato - fino al giorno in cui comparve un uomo calvo di nome Ahmad 102
che, udita la storia, decise di risolvere quel problema una volta per tutte. Mentre si recava dal re, incontrò per la strada una vecchietta che conosceva. La donna gli chiese: «Ahmad, dove vai?». E lui rispose: «Senti un po', mammetta, ho sentito dell'annuncio del re, e ora ci vado; forse Dio mi aiuta e riesco a chiarire il mistero e a guadagnarmi la ricompensa». La vecchietta gli disse: «O Ahmad, toglitelo dalla testa; poiché già molti ci sono andati e hanno provato, ma non sono riusciti a risolvere il problema; anche tu finirai per sacrificare la vita e questo è un gran peccato...». Per farla breve: lei poteva dargli tutti i consigli che voleva, ma senza successo. Ahmad disse: «O mammetta, sai bene che sono un buono a nulla; o il caso mi aiuta e vengo in possesso di una fortuna, oppure mi ammazzano e così mi liberano da questa vita piena di fatiche e di dolore». Quando la vecchia vide che le sue parole non sortivano alcun effetto su di lui, gli disse: «E va bene, caro ragazzo, se sei proprio deciso a rimetterci la vita, vieni qui e accetta da me un regalo». Aprì un angolino del suo fazzoletto e ne trasse una piccola tabacchiera, gliela diede e disse: «Quando la sera ti corichi, mettiti questo tabacco davanti al naso, perché esso ha la proprietà di impedire il sonno. Quando vogliono uscire la notte, quelle ragazze spruzzano nella camera una medicina che fa addormentare; ma questo tabacco farà sì ch'essa non abbia effetto su di te. Prendilo e vai, con la speranza che Dio ti venga in aiuto». Ahmad prese la tabacchiera, si accommiatò dalla vecchia, andò al palazzo e annunciò: «Io sono un 103
candidato, che si presenta alle condizioni che il re ha annunciato». Avvertirono il re che si era presentato un giovane quale candidato per risolvere il problema che gli stava a cuore. Il sovrano lo ricevette e gli disse: «Sappi, o giovane, che se dopo tre notti non avrai risolto il problema, ti farò tagliare la testa». Ahmad accettò quella condizione e rimase nel palazzo. Per dormire gli diedero la camera attigua a quella delle principesse. Seguendo le istruzioni della vecchia Ahmad al momento di coricarsi si mise sotto al naso una presa di tabacco e poi finse di dormire. A mezzanotte le ragazze si svegliarono e una di loro andò a chiamare Ahmad, ma quello non rispose. Così la fanciulla tornò dalle sorelle e disse: «Muovetevi, quello si è addormentato!». In gran fretta le fanciulle indossarono abiti sontuosi e si truccarono, e intanto ridevano di Ahmad e dicevano: «Anche quello verrà sacrificato!». Poi uscirono dalla camera. Ma anche Ahmad si alzò e silenziosamente le seguì. Le fanciulle si recarono nel giardino del palazzo e andarono a bussare per tre volte al tronco di un albero possente. All'interno dell'albero si aprì una grossa porta e le sette fanciulle entrarono nell'albero. Ahmad restò molto stupito, ma dopo qualche minuto bussò anch'egli per tre volte e di nuovo l'albero si aprì. Ahmad entrò e si trovò in un giardino, dove vide alberi molto alti, che avevano foglie di diamanti e rami d'oro; usignoli cantavano e il terreno era coperto d'erba e di fiori. Le figlie del re si avviarono ridendo e chiacchierando lungo un ampio viale. Al colmo della gioia, Ahmad spezzò un ramo. La più giovane delle sorelle udì il rumore e si volse, ma Ahmad fu svelto a 104
nascondersi dietro un albero. Lei però disse alle sorelle: «Venite, torniamo indietro. Questa notte sono molto inquieta. Quel giovane è molto furbo, certamente riuscirà a scoprirci». Ma le sorelle risero di lei. In tal modo Ahmad le seguì fino alla riva di un grande fiume, sul quale galleggiavano barche sontuose. In ciascuna di esse stavano un giovane, alto, robusto e bellissimo. Le fanciulle scesero ciascuna in una barca e vi si sedettero. Poi si allontanarono a remi, felici e contente. Ahmad restò per un bel po' sulla riva e da lontano giungevano al suo orecchio risa e canti e musica. E così andò avanti fino all'alba. Poi i rumori cessarono e Ahmad comprese che le ragazze si apprestavano a ritornare. Lui allora si volse, colse un paio di rami e foglie di quei fiori e poi lasciò il giardino per la via da cui era venuto: bussò tre volte all'albero, che di nuovo si aprì. Quindi tornò nel palazzo e si mise a dormire nel suo letto. Un paio di minuti più tardi arrivarono le principesse e videro che Ahmad dormiva. Ne furono molto soddisfatte e andarono anch'esse a coricarsi. La mattina seguente il re fece chiamare Ahmad e gli domandò: «Ebbene, che cosa hai visto questa notte?». Ahmad rispose: «Ieri sera mi sono addormentato. Dammi il permesso di rimanere qui altre due notti». E per quanto il re tentasse di indurre Ahmad a tornarsene a casa, quello non ne volle sapere. Alla terza notte però disse al re quello che accadeva e gli raccontò tutta quella stranissima storia. Gli mostrò i rami e disse: «Questa notte, quando se ne vanno, verrò a svegliarti, affinché tu sia testimone di questa meravigliosa storia». 105
La terza mattina le ragazze si svegliarono e dissero: «E ora, padre, ora che siete sicuro che noi di notte non lasciamo il palazzo, fate uccidere questo giovane!». Ma il re fu preso dalla collera e disse: «Questo giovane ha scoperto la strada per la quale ve ne andate. Ieri sera sono stato anch'io testimone delle vostre avventure amorose. Perciò ora io ordino che voi veniate uccise». Domandò ad Ahmad quale delle sue figlie voleva scegliere per sé. Ahmad indicò la più giovane, che era anche la più bella e la più intelligente. Così egli diventò il genero del re e poiché questi non aveva altri figli lo elesse suo successore perché Ahmad era un uomo assai astuto e ingegnoso. Così finisce la nostra storia, ma di essa resterà memoria.
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L'indovino
La moglie di un uomo molto povero andò un giorno ai bagni. Si era appena seduta, che le bagnine le dissero: «Alzati in fretta, vai via di qui e cercati un altro posto». La donna povera domandò: «Perché? Che succede?». Ed esse dissero: «In questo posto verrà a sedersi la moglie del primo indovino del re». In quel momento comparvero le ancelle della moglie del primo indovino del re e prepararono il posto per la moglie del primo indovino del re. La donna povera se ne andò e tornò a casa dove litigò con il marito e gli disse: «O tu diventi un indovino, oppure devi separarti da me». Il marito disse: «O donna, io non conosco l'arte divinatoria. Come potrei diventare indovino?». La donna rispose: «O così - o così. Devi diventare indovino oppure dovrai rimandarmi a casa dai miei genitori. Poiché la moglie del primo indovino del re mi ha scacciato dal bagno». Sebbene fosse contro il suo volere, l'uomo si comperò una tavola da indovino. Poi andò ai bagni, sedette davanti alla porta e mise la sua tavola da indovino davanti a sé. Due o tre giorni più tardi venne al bagno una donna dell'harem del re. Si spogliò per entrare nella sala del bagno e diede a un'ancella 107
un anello ornato di diamanti perché questa lo custodisse fino al suo ritorno. Quando più tardi l'ancella provò a sua volta il desiderio di entrare nell'acqua, depose l'anello in una fessura, che si trovava nella parete della casa dei bagni, e chiuse il buco con alcuni capelli che si strappò dalla testa. Poi entrò nel bagno di vapore. Quando la padrona uscì dal bagno, volle che l'ancella le restituisse l'anello. Costei però aveva dimenticato ciò che aveva fatto dell'anello e disse: «L'anello è sparito». Potevano cercarlo fin che volevano - l'anello non si trovò. Finalmente l'ancella si ricordò dell'indovino che si era sistemato davanti all'ingresso dei bagni e disse: «Domanderò all'indovino dov'è l'anello». Poiché era completamente nuda, l'ancella si avvolse in un velo, andò ad accoccolarsi davanti all'indovino e così parlò: «Tira fuori in fretta la tua sabbia, rovesciala sul tuo tavolo da indovino e guarda dove è finito l'anello». Quando l'indovino la guardò, vide che la fanciulla si era seduta in una posa che lasciava intravedere una fessura molto pelosa. Estrasse la sua sabbia, rifletté un momento e osservò l'ancella. Infine disse: «O fanciulla, per quanto io studi il mio tavolo, non vedo altro che una fessura con molti capelli». L'ancella disse: «Dio sia lodato! Tu dici la verità; ora mi ricordo». Diede all'indovino un toman e se ne andò. Prese l'anello dalla fessura nel muro dove lo aveva nascosto e lo ridiede alla sua padrona. Alcuni giorni più tardi nell'harem del re sparì un gioiello. Per quanto si affannassero a cercarlo, non riuscirono a trovarlo. Finalmente l'ancella di cui abbiamo raccontato prima disse: «All'ingresso dei bagni c'è un indovino che è molto bravo quando si 108
tratta di scoprire la verità». Andarono a prendere l'indovino e lo portarono nell'harem del re. L'uomo studiò a lungo il suo tavolo e intanto pensava: "Di sicuro devono esserci due persone che hanno compiuto insieme il furto - se si pensa il grosso valore dell'oggetto". Dopo aver ultimato la sua osservazione, disse: «So che ci sono due ladri; ma per ora non vi dico i loro nomi. Domani ritornerò e allora dovrò vedere tutte le persone che si trovano in questa casa. Solo dopo vi potrò dire chi è il ladro». E tornò a casa sua. Le due ancelle che avevano rubato il gioiello, si dissero: «Sicuramente quell'uomo domani ci accuserà. E meglio che andiamo da lui questa sera e gli diamo cento toman perché non dica che siamo state noi a compiere il furto». Così portarono all'indovino cento toman. Questi disse: «Molto bene!». Prese il denaro e parlò: «Ieri nell'harem del re ho visto un'anatra con una zampa rotta. Date a quest'anatra il gioiello da mangiare e state tranquille». Il giorno seguente l'indovino andò nell'harem. Le ancelle gli passarono davanti una dopo l'altra, e lo stesso fecero anche i servi maschi, e da ultimo gli furono fatti passare davanti gli animali; galline e anatre, fino a quando egli vide un'anatra che aveva una zampa rotta. Allora l'indovino parlò: «Uccidete quell'anatra. Il gioiello si trova nel suo stomaco». Quando l'anatra venne uccisa, nel suo stomaco fu trovato il gioiello. Il fatto venne raccontato al re. E questi fece del nostro pover'uomo il primo indovino di Corte e gli diede mille toman.
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L'apprendista stregone
Una vecchia aveva un figlio calvo e orfano di padre. Sua madre pensava di fargli imparare un mestiere e domandava sempre a Bu Ali - così il giovane si chiamava: «Che mestiere ti piacerebbe fare?». Il calvo rispondeva: «Non lo so». Ma poi, alla fine decise: «Ora prendiamo del denaro, comperiamo piselli e poi andiamo al bazar. Lì mangerò un pisello davanti alla porta di ogni bottega. Là dove mangerò l'ultimo pisello, sarà la bottega in cui andrò a imparare il mestiere». E così infatti fecero: Bu Ali mangiò un pisello davanti a ogni bottega e da ultimo arrivarono davanti alla bottega di un cuoco e i piselli erano finiti. La vecchia allora si rivolse al cuoco e gli disse: «Mio figlio ha perduto il padre. Prendilo come apprendista». Il cuoco acconsentì. Bu Ali entrò nella bottega e sua madre tornò a casa. Il giovane calvo cominciò a lavorare: scopò il pavimento e lavò i recipienti. Dopo che ebbe lavorato con diligenza per due o tre giorni, il padrone gli disse: «Sei un ragazzo sveglio. Resta qui anche la notte!». Così da quel giorno Bu Ali si fermò a dormire in bottega. Una notte si alzò prima del tempo, per mettersi al lavoro. Vide così che il suo padrone apriva la 110
porta della cantina, ne prendeva da dieci a venti man di sabbia e metteva un man in una pentola, due in un'altra, cinque in un'altra ancora, fino a che tutta la sabbia fu suddivisa in tutte le pentole. Poi versò acqua nelle pentole, le coprì e disse a Bu Ali: «Accendi il fuoco sotto le pentole». Il ragazzo, che si chiedeva come mai il suo padrone volesse cuocere la sabbia, accese il fuoco. Quando venne mattina, aprirono il negozio, e quando tolsero le pentole dal fuoco Bu Ali vide che in una pentola si era formato del pilau, in un'altra del chelou1, in un'altra ancora del geyme2 e infine in un'altra del qorme3, in una una grande frittata e in un'altra del pollo arrosto: in breve, tutti i piatti che ti puoi immaginare il padrone li aveva cucinati con la sabbia. Bu Ali ne fu molto impressionato e non riusciva a capire come tutto questo avesse potuto avvenire. Ma non disse nulla. Dalla mattina alla sera venivano clienti a mangiare e ogni giorno si ripeteva la stessa storia. Di notte Bu Ali lavava le pentole, vi versava la sabbia e l'acqua e vi accendeva sotto il fuoco. E la mattina nelle pentole si trovavano tutte le pietanze più buone del mondo che ti puoi immaginare, ben cotte e pronte. Già da un mese ormai Bu Ali serviva con diligenza il suo padrone e, naturalmente, era morso dalla curiosità di capire come un minerale potesse trasformarsi in piatti tanto buoni. Ma continuò a non dire nulla. E il suo padrone pensò che Bu Ali non capiva niente. 1 2 5
chelou: piatto di riso. geyme: pezzi di carne, patate, pure di piselli e limone. qorme: pezzi di carne, uva e insalata. Ili
Un bel giorno egli diede al suo calvo apprendista della carne e gli disse: «Portala a casa nostra e consegnala. Ci penseranno loro a cuocerla». Ma Bu Ali rispose: «Non so dove sia la vostra casa». «Te lo mostrerò» disse il suo padrone, scrisse alcune parole su un foglietto di carta e aggiunse: «Vai per questo passaggio sotterraneo, fino a quando arriverai a una porta. La troverai aperta, ma ci saranno due cani che cercheranno di sbranarti. Tu mostra loro questo scritto e ti lasceranno passare, anzi ti accompagneranno senza farti nulla. Poi arriverai a una seconda porta; lì vedrai un leone, che ti vorrà divorare; tu mostragli il biglietto e il leone si metterà a dormire e non ti farà niente. Vai sempre avanti, fino a che arrivi a una terza porta. Là troverai un drago, che sputa fuoco dalla bocca; tu gli mostri il solito biglietto e il drago si addormenterà. E poi ti troverai in un giardino, consegni la carne e torni indietro più in fretta che puoi». «Ai tuoi ordini, padrone» rispose Bu Ali. Prese la carne e il biglietto e si avviò per il buio passaggio fino a che incontrò i cani e poi il leone e poi il drago, a tutti mostrò il biglietto e potè passare oltre. Arrivò nel giardino, che Dio solo sa quanto era grande e pareva il giardino del paradiso. Camminò lungo un ampio viale, fino a quando giunse a un palazzo. Una fanciulla, bella come la luna, uscì dal palazzo e prese in consegna la carne. Bu Ali prese la via del ritorno per la stessa strada e attraverso il buio passaggio sotterraneo ritornò alla bottega. Per due, tre giorni di seguito Bu Ali andò a portare carne e altre cibarie alla casa del padrone; le dava alla bella fanciulla e se ne tornava indietro. Un giorno però la fanciulla guardò Bu Ali e si accorse che era giovane e bello. Piano piano si innamorarono l'uno dell'al112
tro, si abbracciarono e baciarono. Un bel giorno, Bu Ali, ch'era rimasto con lei, osservò attentamente la camera da letto e vide un grosso libro, collocato in una nicchia. Lo prese e cominciò a leggere e capì che conteneva sortilegi e formule di magia, talmente straordinarie, che al confronto la trasformazione della sabbia in piatti squisiti era un gioco da bambini. Così, ogni volta che veniva dalla fanciulla, si trascriveva qualcuna delle formule del libro - fino a quando lo ebbe trascritto tutto e imparato a memoria. Allora disse al padrone: «Ti prego, dammi uno o due giorni di licenza, perché io possa andare a trovare mia madre». Il padrone acconsentì. Bu Ali andò a casa. Sua madre fu felice del suo ritorno e gli domandò: «Bene, ora hai imparato l'arte di cucinare?». E lui rispose: «Adesso ne so di più del mio padrone». La sera mangiò con sua madre e quando fu l'ora di andare a dormire, le disse: «Domani mattina, quando ti sveglierai vedrai un bel mulo grassoccio legato all'angolo di casa. Lo prenderai per la cavezza e lo porterai al bazar. Là lo venderai per cento toman, ma non devi darlo via per un soldo di meno. Ma ricordati di non dare al compratore anche la cavezza; quella la riporterai a casa». La mattina seguente la donna si svegliò. Vide che Bu Ali non c'era più. In compenso vide, legato all'angolo di casa, un bellissimo mulo. Lo prese per la cavezza e lo portò al bazar. Lì comparve il capo dei mercanti, vide quel bellissimo mulo, così bello che neppure il re ne possedeva uno simile, e disse. «Mammetta, quanto vuoi per il tuo mulo?». Lei rispose: «Cento toman, non un soldo di meno». Il 113
mercante si affrettò a darle i cento toman e a comperare il mulo. La vecchia staccò la cavezza e diede il mulo al mercante, che vi montò sopra e se ne andò, e tutti i suoi servi e i suoi schiavi gli corsero appresso fino alla sua casa. Qui il mercante affidò il mulo al suo schiavo negro con le parole: «Portalo nella stalla e legalo ben bene. Gli darai da mangiare orzo e gli metterai la paglia; e lo terrai ben pulito. Perché questa sera lo cavalcherò per portarlo dal re». Lo schiavo negro portò il mulo nella stalla, lo legò ben bene, gli tolse la sella, gli diede da mangiare - e si accorse che l'animale non mangiava. Gli sparse davanti dell'orzo e vide che non lo mangiava. Qualunque cosa gli desse, il mulo non ne voleva sapere. Si disse: "È meglio che lo pulisca ben bene e poi vada a dormire". Prese una striglia e si accinse a strigliargli il sedere; ma quello gli diede un gran calcio nel ginocchio. Lo schiavo si mise a gridare: «Ah, figlio di un cane, tu mi dai dei calci! Che tuo padre bruci all'inferno!». Prese il badile e lo agitò minacciosamente, con l'intenzione di picchiare il mulo sulla schiena. Ma d'un tratto si accorse che l'animale si faceva piccolo, piccolo, sempre più piccolo, fino a quando fu grande quanto un topo e scappò infilandosi in un buco nel muro della stalla. Lo schiavo restò con la bocca aperta, il badile ancora nella mano. Aveva visto nientemeno che un mulo diventare un topo e scappare da un buco nel muro. Corse dal suo padrone e gli disse: «Mio signore, il mulo si è trasformato in un topo ed è scappato da un buco nel muro». Ma il padrone gli rispose: «Che cosa mi dici, stupido negro! Come è mai possibile 114
che un mulo diventi un topo e scappi da un buco nel muro?». Lo schiavo replicò: «Mio signore, per l'amor di Dio! L'ho visto con i miei occhi! Il mulo si è fatto piccolo, è diventato un topo ed è scappato da un buco nel muro». Il padrone allora andò con lui nella stalla e vide con i suoi occhi che il negro aveva detto la verità. Niente più mulo. Il mercante si immerse nei propri pensieri, non capiva più niente. Bu Ali tornò a casa da sua madre. La sera cenarono insieme. Quando venne l'ora di andare a dormire, le disse: «Quando ti sveglio domani mattina, vedrai un grosso montone legato all'angolo della casa. Lo porterai al bazar e lì lo venderai per non meno di cento toman. Quando però l'hai venduto, ricordati di staccargli la cavezza e riportala a casa; perché se tu non la riporti, io non potrò tornare qui. La mia anima sta nascosta nella corda di quella cavezza». La madre fu d'accordo. Portò il montone al bazar, lo vendette per cento toman, si riprese la cavezza e tornò a casa. Il buon uomo che aveva comperato l'animale era molto soddisfatto di aver acquistato un montone bello quanto nessun altro. La sera lo portò sulla piazza grande della città e tutti quelli che possedevano un montone portarono il loro animale sulla piazza, così che alla fine due o tremila persone si erano raccolte per vedere la lotta dei montoni. L'uomo che aveva comperato quello stesso giorno il montone più bello, annunciò a gran voce: «Farò scendere il mio montone in lotta contro il montone di chiunque lo desideri. Punto cento toman: se il mio montone fugge, pagherò i cento toman. Se fugge invece quello del mio avversario, sarà lui a pagarl i
mi cento toman». Alla fine la lotta iniziò. I due montoni cominciarono a ritrarsi e a prender le distanze, ma poi si gettarono l'uno contro l'altro per darsi terribili cornate. Ma nel momento stesso in cui i due animali si toccarono, il grosso montone che l'uomo aveva comperato la mattina si trasformò in fumo che salì al cielo. Tutti i presenti restarono esterrefatti e nessuno riusciva a spiegarsi come poteva essere avvenuto. Quella sera Bu Ali tornò a casa e mangiò con sua madre; ora che possedevano duecento toman erano molto contenti. Quando fu l'ora di andare a dormire, il figlio disse alla madre: «Domattina quando ti sveglierai, vedrai un grosso cammello legato all'angolo della casa. Lo porterai al bazar e lo venderai per cento toman. Ma non darai insieme al cammello anche la cavezza, affinché io possa ritornare a casa». La madre il mattino si alzò, trovò il cammello e lo portò al bazar per venderlo. Il padrone della bottega dove Bu Ali lavorava si accorse che il suo apprendista da due giorni non veniva più al lavoro. Intanto i clienti che andavano a prendere i pasti da lui, chiacchierando fra di loro, raccontavano: «Sapete che cosa è accaduto ieri e l'altro ieri in città? Un mulo si è trasformato in topo ed è scappato da un buco nel muro; e un montone si è trasformato in fumo ed è salito al cielo». Il cuoco, udendo quelle parole, capì che quel mulo e quel montone altri non erano che Bu Ali, il suo apprendista. Pieno di collera si allontanò, dicendo fra sé: «Quello ha imparato tutto dal mio libro. Adesso vado al bazar. In un modo o in un altro riuscirò a prenderlo, quel figlio di un disgraziato e manderò suo padre ad abbrustolire nell'inferno». 116
Prese del denaro, andò al bazar e lì vide tenuto dalla madre di Bu Ali un grosso cammello, che la donna voleva vendere. «Quanto vuoi per quel cammello?» domandò. E la madre di Bu Ali rispose: «Cento toman». «Bene, prenditi i cento toman» replicò l'uomo. La donna prese il denaro e il padrone afferrò il cammello per la cavezza. La madre di Bu Ali si mise a gridare: «Io vendo il cammello, ma la cavezza non la vendo». L'uomo però dichiarò: «Questa cavezza non vale niente, può costare al massimo un kran1. Prendi questi cento toman e dammi la cavezza». «Questa cavezza la voglio tenere» ripetè la donna. Ma alla fine l'uomo le diede altri cento toman e si comperò anche la cavezza. Bu Ali, che altri non era se non il cammello, pianse e strillò, ma sua madre non lo capì e pensò che dopotutto era meglio avere i cento toman. Il padrone prese il cammello per le redini e lo condusse alla sua bottega. Dalla bottega lo portò, attraverso il buio passaggio, fino al giardino dove mandava ogni giorno Bu Ali. Quando fu in giardino, condusse il cammello vicino a un pozzo e fissò l'animale con la corda della cavezza, legandogli insieme le quattro zampe. Il cammello pianse e pianse ma non poteva in alcun modo fuggire. Il padrone disse a sua figlia: «Vai a prendere un grosso coltello, perché possiamo ammazzare questo cammello». La fanciulla comprese che il cammello altri non era se non Bu Ali, con cui ogni giorno faceva l'amore nel giardino. Andò a prendere il coltello. Ma nel momento in cui si avvicinò al padre, come se volesse porgergli il 1
kran: moneta, corrispondente all'attuale rial. 117
coltello, con uno scatto gettò l'arma nel pozzo. Il padre fu colto dall'ira e disse: «Io adesso scendo nel pozzo a riprendere il coltello e poi insieme al cammello uccido anche te». Scese in fondo al pozzo e in quel momento la fanciulla slegò le gambe dell'animale. Ma appena si sentì libero, il cammello si trasformò in una tortora e volò alto in cielo. Quando dal fondo del pozzo l'uomo guardò in alto, vide la tortora volare via: allora si trasformò a sua volta in un falco e in volo la inseguì. La tortora vola; il falco la insegue e vuole catturarla. Ora però si dà il caso che il figlio dello scià fosse proprio quel giorno venuto nel deserto per darsi alla caccia. Ora stava mangiando. La tortora si trasformò in un mazzo di fiori e cadde nelle braccia del figlio dello scià. Il giovane prese i fiori, li annusò e in quell'istante gli comparve davanti il falco, che aveva assunto le sembianze di un derviscio. Il figlio dello scià gli domandò: «Che cosa vuoi?». E il derviscio rispose. «Dammi quel mazzo di fiori». «Ecco, prendilo» esclamò il figlio dello scià. Il derviscio stava per allungare la mano e prendere i fiori, ma questi si trasformarono in un pugno di chicchi di frumento e si sparsero per terra. In gran fretta il derviscio si trasformò a sua volta in un gallo e cominciò a beccare tutti i chicchi di frumento. Li inghiottì uno dopo l'altro, ma nell'istante in cui stava per divorare l'ultimo granello, questo prese la figura di un cane. E il cane afferrò il gallo, lo sbranò e scappò via. Il figlio dello scià e il suo seguito rimasero al loro posto, immobilizzati dallo stupore e si dissero l'un l'altro: «Come può accadere una cosa simile?». Non erano andati oltre nei loro ragionamenti quando arrivai io. E anch'io, da allora, non ne ho più saputo niente... 118
STORIE DEL REGNO DEGLI SCIOCCHI
La terra dei matti
C'era una volta un tempo in cui non c'era nessuno all'infuori di Dio. C'era un uomo che si sposò e portò la moglie con sé a casa sua, dove aveva anche una capra. Un giorno che il marito se n'era andato via, la moglie rimase sc'a in casa con la suocera. La giovane moglie era intenta a pulire il pavimento, quando il suo piede si impigliò in qualche cosa e lei cadde fra le brocche dell'acqua e ne ruppe una. Si vergognò moltissimo, raccolse i cocci e li nascose. Poi andò dalla capra e le disse: «O capra, non raccontare a mio marito che ho rotto una brocca, te ne prego. Ti darò tutto quello che desideri». La capra si mise a belare. Allora la donna andò alla cassapanca che conteneva tutto il suo corredo, ne tolse uno dei suoi vestiti, lo gettò alla capra ed esclamò: «Questo è per te!». La capra belò una seconda volta. E la donna si immaginò che quel dono non fosse abbastanza. Tornò alla cassapanca e ne tolse un secondo vestito e lo gettò sopra il primo. E... per farla breve: andò avanti così fino a quando tutto il suo corredo e tutte le suppellettili domestiche finirono sulla groppa della capra, e quella continuava a belare. 121
Quando udì tutto quel baccano, la suocera gridò: «Che cosa succede? Perché fai questo?». «Mi è successo un guaio» rispose la donna «e ho paura che la capra lo racconti a mio marito.» Proprio in quel momento, mentre le donne ancora stavano parlando per convincere la capra, il marito tornò a casa. Udì delle voci e si arrestò per ascoltare e scoprire di che parlavano. Quando sentì di che cosa si trattava, si accorse di quanto quelle due donne fossero sciocche. Si allontanò nuovamente dicendo fra sé: "Hanno portato vergogna sulle tombe dei loro padri. Devo andarmene, qui davvero non posso restare più a lungo. Quelle due donne sono davvero completamente matte!". Così lasciò la città e andò e andò, sempre più lontano, fino a quando arrivò a una tribù di nomadi. Aveva sete e si recò perciò all'apertura di una di quelle tende nere e disse: «Non avete nulla da darmi da bere?». I nomadi colmarono una ciotola di legno di latticello e andarono a prendere due focaccine e glieli porsero e l'uomo mangiò e bevve. Allora si accorse che sul fondo della ciotola si era formata tanta sporcizia, che quasi non la si poteva riempire. Perciò vi mise dentro una pietra e affondò la ciotola in un ruscello. Quando si fu ben ammollata, la tirò fuori e si mise a raschiarla. E quando tutta la sporcizia ne fu tolta, la ciotola era molto più grande. Ora arrivarono i proprietari della ciotola per riprendersela e si accorsero che si era ingrandita. «Ehi, qual è il tuo mestiere?» domandarono all'uomo. «Io sono raschiatore di ciotole» rispose quello. Allora essi tornarono dai loro compagni della tribù e diffusero la notizia che era venuto un raschiatore di ciotole, e tutti i nomadi della tribù si riunirono e uno 122
dopo l'altro gli portarono le loro ciotole, perché le raschiasse. E l'uomo le mise tutte ad ammollare nel ruscello e le ingrandì e prese denaro per il suo lavoro. Quando ebbe messo insieme una bella sommetta, riprese la sua strada. Viaggiò e viaggiò fino a che arrivò a un villaggio dove coltivavano cotone. Allora si avvide che si era raccolta una gran folla di gente e che pareva ci fosse in corso una gran lite. Si unì agli altri e domandò: «Che cosa succede?». «Abbiamo piantato cotone» gli risposero. «E ora nei nostri campi è cresciuta un'erbaccia e non sappiamo che cosa fare.» «Fatemi vedere» disse. Gliela mostrarono da lontano e lui vide che si trattava soltanto di un cocomero. Un seme di melone doveva essere caduto in mezzo alle pianticelle del cotone e lì era cresciuto e ora portava un cocomero enorme. «Che cosa mi date, se ve lo distruggo?» domandò. «Tutto quello che vuoi.» Allora lui richiese una grossa somma di denaro e poi disse: «E ora datemi arco e freccia». Prese l'arco, tese una freccia sulla corda e mirò proprio al centro del cocomero. La freccia colpì e dal cocomero salì un getto di succo rosso. Tutti gli abitanti del villaggio presero la fuga, gridando: «Il verde di quella pianta è sporco di sangue e ora ci farà morire tutti!». Il viaggiatore si avvicinò al cocomero, affondò la mano nel buco fatto dalla freccia, squarciò il cocomero e bevve un po' del succo. Gli abitanti del villaggio ne furono inorriditi e gridarono: «Ma quell'uomo è uno spaventoso bevitore di sangue! Se rimane qui, ci ucciderà tutti!». E andarono da lui, gli diedero ancor più denaro purché se ne andasse. 123
Mentre ancora stavano raccogliendo il denaro da dargli, un venditore ambulante raccontò che se ne sarebbe andato in un altro villaggio. Era andato a prendere il suo asino, vi aveva caricato la sua merce ed era pronto a partire. «Dove sei diretto?» gli domandò l'assassino del cocomero. «Vorrei andare nel villaggio vicino» rispose l'altro. «Ma davanti a te c'è un passo di montagna.» «Sì, lo so» rispose il venditore ambulante. «Quando arriverai ai piedi di quel passo, il tuo asino ti mostrerà i denti; quando sarai arrivato a metà altezza, si metterà a gridare; e quando sarai giunto in cima, si rivolterà nella polvere. Non appena lo fa, tu morirai.» Il venditore ambulante si mise in viaggio come aveva progettato di fare. E quando ebbe raggiunto la sommità del passo, dovette accorgersi che era accaduto esattamente ciò che l'uomo aveva profetizzato; e davanti a lui l'asino si rotolava nella polvere. Allora si stese per terra come se volesse dormire e disse: «Ora sono morto». Ma prima aveva slegato l'asino. E mentre l'uomo se ne stava disteso, arrivò un lupo e davanti ai suoi occhi fece a pezzi l'asino. «O figlio di un padre peccatore!» gridò l'uomo. «Se non fossi morto, mai ti avrei lasciato divorare il mio asino!» Ma l'uomo arrivò dietro di lui; e quando fu sul passo, vide che l'ambulante dormiva e che i lupi gli avevano divorato l'asino. «Ehi» gli gridò «sei morto?» «Sì, certo» rispose l'altro. «Che cosa mi dai, se ti richiamo in vita?» «Ti regalo tutto quello che mi è rimasto.» E con queste parole gli regalò le borse appese alla sua sella e tutta la sua merce. «Grazie, adesso sei di nuovo vivo. Alzati!» Allora il venditore ambulante si alzò e se ne andò per la sua strada. Dopo di che il viaggiatore prese tutta la mer124
ce e andò oltre il passo e scese in un altro villaggio. Lì si stava giusto festeggiando un matrimonio. Quando venne la sera, andarono a prendere la sposa, per portarla nella camera nuziale. Solo che la porta per entrarvi era molto bassa e la sposa era alta di statura; così gli abitanti del villaggio si trovarono in grande imbarazzo e dicevano: «Che cosa possiamo fare?». Qualcuno disse che bisognava tagliarle i piedi per farla entrare nella stanza. Altri invece pensavano che sarebbe stato meglio tagliarle la testa. E altri ancora dichiararono che la cosa migliore sarebbe stata di demolire l'inquadratura della porta. Allora venne avanti il nostro viaggiatore e domandò: «Che cosa mi date se io non faccio alcuna di queste cose e tuttavia faccio entrare la sposa nella camera nuziale?». Gli diedero una grossa somma di denaro e lui si avvicinò alla sposa e le disse di chinarsi; e così la fece entrare. Intanto l'uomo si era fatto così una grande ricchezza. Raccolse tutto il suo denaro e ritornò al suo paese, per vedere come stavano le cose laggiù. Ma quando arrivò davanti a casa sua, dovette accorgersi che le due donne stavano ancora litigando a causa della capra. Nel frattempo erano venute forti piogge e la casa era completamente allagata e sopra l'acqua galleggiava una cesta. La giovane donna, che ancora piangeva il marito perduto, si era seduta nella cesta, che ora girava vorticosamente in tondo, mentre lei non smetteva di piangere e cantilenava: «Con la mia barchetta sull'acqua me ne sto; l'ancora tiene, altrimenti chissà dove vo'. Ma il marito, ahimè, non tornò.» 125
Quando l'uomo vide tutto questo e udì quelle parole, si volse ed esclamò: «In verità, in questo posto non ci posso restare!». E così abbandonò di nuovo la città, andò attraverso il deserto e proseguì la sua strada, avanti, sempre avanti. E qui la mia storia è finita, ma l'uomo non l'ha più sentita.
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I tre maestri di scuola
Tre maestri di scuola erano in cammino lungo una strada. Passò loro davanti un cavaliere e li salutò. Quando il cavaliere si fu allontanato, fra i tre uomini scoppiò una lite, perché ciascuno dei tre sosteneva: «Sono io quello che il cavaliere ha salutato». Gli corsero appresso e gli domandarono a chi di loro era stato rivolto il suo saluto. Il cavaliere li guardò attentamente e si accorse della loro stupidità. Così rispose: «Al più stupido fra voi». E allora la lite ricominciò, perché ciascuno dei tre affermava di essere il più stupido. Ma il cavaliere proseguì: «Così non va! Mettetevi qui tutti e tre e ripresentate tutte le stupidaggini che avete fatto. Allora io riconoscerò quello fra di voi che è il vero imbecille e a lui sarà rivolto il mio saluto». Il primo disse: «Quando talvolta mi accadeva durante le lezioni di starnutire, i bambini mi gridavano in coro: "Salute!". E così io dovevo rispondere a ciascuno, uno dopo l'altro: "Lunga vita!" o anche "Che Dio vi benedica!". E questo naturalmente richiedeva molto tempo. Perciò un bel giorno dissi loro che ogni volta che starnutivo, dovevano soltanto battere le mani. In tal modo non ero più in obbligo di rispondere e loro erano dispensati dal dovermi 127
augurare "Salute!". Ma una volta accadde che qualcosa cadesse nel pozzo. Dissi ai bambini di portare una corda fatta di fibre di palma; volevo legarmela alla cintura e loro dovevano tenerne l'altro capo mentre io scendevo nel pozzo a riprendere l'oggetto caduto. Quando però mi trovai a metà strada nella profondità del pozzo, dovetti starnutire. Ma i bambini non batterono le mani come avevo loro insegnato! Ordinai che mi tirassero su e loro lo fecero. E quando fui fuori, li biasimai severamente e gridai: "Pusillanimi che non siete altro! Non vi ho forse detto chiaramente che dovevate battere le mani ogni volta che starnutivo?". I poveri bambini ebbero un bel spiegarmi che avevano dovuto tenere la corda io non ne volli sapere. Così tornai a calarmi nel pozzo; e di nuovo, quando fui a metà strada, mi venne da starnutire. Questa volta però i bambini si dimostrarono ubbidienti, lasciarono la corda e si misero a battere le mani. Io però caddi in fondo al pozzo e mi ruppi una gamba. Come vedete, zoppico. E tutto questo a causa della mia stupidità». Il secondo disse: «Un giorno sedevo sul bordo di una vasca e facevo le mie abluzioni prima della preghiera. Quando vidi la mia immagine riflessa nell'acqua, credetti che si trattasse di un ladro che si era nascosto nella vasca, per starsene lì appostato ad aspettare la notte per poi derubarci. Così dissi ai bambini: "Chiudete i vostri libri. Io ora mi spoglio e scendo nella vasca. Nell'acqua si è nascosto un ladro, che assomiglia a me. Prendete dei rami dal melograno, fatene delle verghe e quando lui esce dall'acqua, colpitelo sulla testa". Poi mi spogliai e mi gettai nell'acqua; non ci trovai nessuno. Quando però ne uscii i bambini cominciarono a picchiarmi 128
fino a che fui mezzo morto. A causa del dolore mi tuffai nuovamente, ma quando, quasi soffocato, volli ritornar fuori, di nuovo i bastoni ripresero a colpirmi, fino a che mia moglie Sakine - che Dio la benedica! - non venne a liberarmi dalle mani dei bambini». Il terzo disse: «Un giorno sedevo nella mia scuola, tutto rosso in volto e in tutta la mia corpulenza, quando un bambino si rivolse a me: "Maestro, come mai oggi sei così giallo in viso e così debole e magro?". E un altro disse: "Com'è che sei diventato così pallido?". E ciascuno dei bambini mi diceva qualcosa del genere. E io aggiunsi: "Da ieri sera ho la febbre. Non ho mangiato nulla e non ho fame". Tutti si preoccuparono per me e mi augurarono una pronta guarigione. Quando li udii parlare così mi spaventai e caddi supino. Allora essi corsero verso di me e mi sollevarono prendendomi sotto le braccia. Arrivò mia moglie. Mi portarono nella mia stanza e i bambini andarono fuori a giocare. A mezzogiorno mia moglie mi portò da mangiare; ma nonostante le sue insistenti preghiere, non mangiai. Lo stesso accadde quando mi portò la cena la sera e altrettanto avvenne la mattina seguente. Ma quando poi la fame cominciò a rodermi e quasi mi faceva svenire, mi guardai intorno e in una nicchia nel muro vidi un piatto con due o tre polpette di carne. Ero solo. In fretta ne presi una e me la misi in bocca. Ma proprio in quell'istante entrò mia moglie! Colto dallo spavento tenni la polpettina nascosta dietro il labbro superiore. Mia moglie mi guardò: "Che cos'hai nel labbro?". "Mogliettina mia, mi è venuto un foruncolo sul labbro." "Corro a chiamare il medico." Quello viene, mi guarda e dice: "Bisogna tagliare, non c'è 129
altro da fare". E con il suo bisturi mi incise il labbro e ne trasse carne e chicchi di riso. Li mostrò a mia moglie e disse: "Vedi come era maturo il foruncolo. Era proprio ora di tagliarlo. Se non lo avessi tagliato oggi con il mio bisturi, avrebbe cominciato a suppurare". E guarda qui, mio signore, questo è il punto dove ha tagliato con il suo bisturi, c'è ancora la cicatrice». Allora il cavaliere osservò ben bene i tre maestri di scuola e infine disse loro: «Misericordia! Vi ho salutato tutti e tre!».
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TRUCCHI E IMBROGLI
La volpe in pellegrinaggio alla Mecca
C'era una volta un tempo, in cui non c'era nessuno all'infuori di Dio. C'era una volta una volpe, che un bel giorno andò per gioco nel folto di un canneto e, sempre per gioco, spezzò una canna. La prese e se la mise sulla spalla come il bastone di un pellegrino e se ne andò. Per caso in quel momento c'era un gallo posato in cima a un muro, occupato a lodare Iddio, continuando a gracchiare a gran voce il nome del Signore. Quando vide la volpe, le gridò: «Salve, signora volpe! Che razza di storie sono queste? Perché ti sei messa sulla spalla quel bastone da pellegrino?». La volpe rispose: «Oh, no, muezzin di Dio, che chiami i fedeli alla preghiera, queste non sono storie, non è un trucco. Tutte le malefatte che tu hai visto e che io ho un tempo commesso - ora le ho rinnegate. Adesso vado in pellegrinaggio alla Mecca: Alla casa di Dio va il pellegrino, pregando e adorando il volere divino. Se un giorno il male ho compiuto, ora mi son ravveduto. A rubare non andrò più - giammai, né aggredirò le galline nei pollai. 133
Il padre mi ha messo il Bene nella mano, coltivo la mia terra in pace, e non invano.» Quello stupido di un gallo cadde nell'inganno di quelle devote parole e disse: «Oh, mio Signore, voglio anch'io venire alla Mecca». «Bene» esclamò la volpe «mi sei molto gradito come compagno di viaggio. Vieni, ti prego, dobbiamo partire.» Allora il gallo volò giù dal muretto e si mise in cammino in compagnia della volpe. Quando ebbero camminato per un bel po', arrivarono alla riva di un fiume. Un'anatra nuotava nell'acqua e quando vide il gallo insieme alla volpe, esclamò di lontano: «Oh tu, muezzin del Signore, hai dimenticato di cantare le lodi di Dio e ti metti invece nelle mani di questa abbietta volpe?». Il gallo rispose: «No, non è come tu pensi: Alla casa di Dio va il pellegrino, pregando e adorando il volere divino. Se un giorno il male ho compiuto, ora mi son ravveduto. A rubare non andrò più - giammai, né aggredirò le galline nei pollai. Il padre mi ha messo il Bene nella mano, coltivo la mia terra in pace, e non invano.» L'anatra rispose: «Se le cose stanno così, vorrei venire anch'io con voi due in pellegrinaggio». Uscì dall'acqua e si unì ai due e tutti insieme proseguirono il viaggio. Dopo che ebbero percorso un breve tratto, arrivarono a un giardino dove un upupa sedeva sul ramo di un albero. Quando vide venire il gallo e l'anatra insieme alla volpe, dall'albero fece udire la sua voce: 134
«Ma che compagnia di singolari matti siete mai! Mi domando quale tremendo peccato abbiate commesso, per essere finiti nelle sgrinfie di quell'abbietta volpe!». Ma l'anatra rispose: «No, tu messaggero del Profeta Solimano, le cose non stanno come credi tu: Alla casa di Dio va il pellegrino, pregando e adorando il volere divino. Se un giorno il male ho compiuto, ora mi son ravveduto. A rubare non andrò più giammai, né aggredirò le galline nei pollai. Il padre mi ha messo il Bene nella mano, coltivo la mia terra in pace, e non invano.» «Se le cose stanno così» esclamò l'upupa «allora verrei anch'io volentieri con voi in pellegrinaggio.» «Sii benvenuto, in nome di Dio!» dissero gli altri. E l'upupa scese in volo dall'albero e partì con loro. Continuarono il viaggio, fino a che arrivarono alla porta della tana della volpe. Quando si guardarono in giro, videro sparse intorno zampe e penne di uccelli e altre raccolte in mucchietti ordinati e tutti cominciarono a tremare dalla paura. La volpe se ne accorse e disse: «No, non temete. Da quando ho rinnegato tutto il male che ho fatto, non ho più neppure toccato la penna di un uccello. Venite a dormire qui, siate per una volta miei ospiti, e domani riprenderemo all'alba il nostro cammino». Entrarono tutti nella tana della volpe e vi passarono la notte, il meglio che fu possibile. Non appena si fece giorno, la volpe si alzò e chiamò per primo il gallo. Questi arrivò e la volpe gli disse: «Ti ricordi quando stavi seduto sul muretto, 135
quali tremende maledizioni mi hai mandato e come ti sei preso gioco di me?». Il gallo cominciò a tremare e a supplicare: «Oh, mio buon signore, io sono il muezzin di Dio e chiamo i fedeli alla preghiera. Ti prego, non tener conto delle mie colpe». «E va bene» disse la volpe «ma quale diritto hai tu di metterti sui muri degli uomini e con la scusa di chiamare alla preghiera, gettare occhiate alle donne?» «Oh, mio buon signore, Dio mi ha creato al solo scopo di svegliare gli uomini con il mio canto, perché si alzino e si mettano a pregare.» E la volpe gridò: «Anche se tu sei uno dei fedeli, tua madre in ogni caso non era niente di buono!». E con quelle parole si gettò in avanti, afferrò il gallo per il collo, lo strangolò e lo divorò. Aveva appena finito di mangiare il gallo, che chiamò l'anatra. E anche lei venne. Le disse: «Ti ricordi di quello che hai detto di me quando ci hai visto dall'acqua?». La povera bestia cominciò fra le lacrime a scusarsi, a pregare e scongiurare. «Beh, cercherò di passar sopra a questo errore» disse magnanima la volpe «ma come posso ignorare la tua più grande colpa? Tu vai nell'acqua e ci nuoti e la smuovi e la sporchi. Poi viene un credente e vuol fare le sue abluzioni prima della preghiera e trova tutta l'acqua sporca.» E così dicendo si gettò sull'anatra, la prese per il collo, la strangolò e se la mangiò. Poi chiamò l'upupa: «Ti ricordi quando te ne stavi in cima all'albero e mi dicesti quelle parole insensate? Da dove hai preso quell'elegante titolo di Messaggero del Profeta Solimano? E come puoi vantarti dell'amore che dovrebbe esistere fra te e i figli degli uomini?». «Beh» disse il povero upupa «devi ammettere che io ero responsabile per i mulini ad ac136
qua nell'esercito del Santo Solimano e che con esso sono sempre volato in avanscoperto per cercare acqua e luoghi di sosta.» «Oh, tu figlio di un padre peccatore!» esclamò la volpe «se davvero sei tanto bravo nel trovare acqua, ora lo vedremo. Trova dell'acqua per me.» L'upupa volò raso terra e cominciò a becchettare il terreno per vedere se riusciva a far sgorgare dell'acqua. Ma a quel punto la volpe gli piombò addosso da dietro e se lo mangiò. Ma quando già era nella bocca della volpe, l'upupa sollevò ancora la testa e fece sentire la sua voce: «Signora volpe, ho da darti ancora un buon consiglio. Apri bene le orecchie». La volpe voleva dire: «Ora piantala!». Ma per farlo aprì la bocca e l'upupa gli sfuggì e volò via. Mentre si allontanava in gran fretta, per puro caso incontrò un esercito che avanzava e il falco reale volava in avanscoperta. L'upupa si accostò in volo al falco e gli domandò: «Dove porta la vostra strada?». Il falco rispose: «Oh, tu, messaggero del Profeta Solimano, questo esercito ha un incarico speciale». «Quale incarico?» domandò l'upupa. «La figlia del re sta ammalata nel castello, la schiera dei dottori intorno sta, c'è un sol rimedio contro quel flagello: bile di volpe, cuor di lepre ci va. E ora siamo già in viaggio da tre giorni alla ricerca di quanto ci occorre, ma finora abbiamo preso soltanto una lepre, ma una volpe non l'abbiamo ancora incontrata.» «Non importa» disse l'upupa «io conosco una tana di volpe proprio qui vicino. Vieni, te la mostrerò.» 137
Così l'upupa partì in volo e il falco lo seguì e i cavalieri presero la loro strada, fino a che tutti arrivarono nelle vicinanze della tana della volpe. L'upupa si affacciò sulla porta e chiamò: «Signora volpe, mi hai dimostrato tanta bontà, che ne sono stato sopraffatto. Sono quindi tornato per dimostrarti la mia riconoscenza. Un grande esercito è in marcia e passerà di qui e certamente distruggerà la tua tana. Se ti è cara la vita, devi fuggire subito». La volpe si affacciò sulla porta della sua casa e vide che l'upupa aveva detto la verità: davanti a lei stava arrivando un esercito. Tentò di fuggire, i cavalieri però la videro e le incitarono contro i cani. La volpe fuggì e fuggì fino a quando si sentì morire dalla stanchezza, e alla fine i cani la raggiunsero e la fecero a pezzi. Poi arrivarono i cavalieri ed estrassero la sua bile per portarla alla figlia del re. E così finisce la nostra storia, ma di essa resterà memoria.
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Le tre donne e l'anello
C'erano tre donne, una era la moglie del visir, la seconda la moglie del kadì, e la terza la moglie del capitano di città. Un giorno le tre donne andarono ai bagni. Nel bel mezzo del bagno di vapore, trovarono un anello ornato da un diamante di grande valore. Ciascuna delle tre avrebbe voluto possedere quell'anello. Così dissero a una vecchia, che era la padrona dei bagni: «Abbiamo tutte e tre insieme trovato questo anello. Chi di noi ha maggior diritto a possederlo?». La vecchia rispose: «Ognuna di voi deve inventarsi un'astuzia per ingannare il proprio marito. Poi tornate da me e raccontatemi quel che avete pensato di fare; e l'anello andrà a quella che ha inventato il trucco migliore». Le tre donne diedero l'anello alla vecchia in custodia e se ne andarono. La moglie del visir si mise a giocare con suo marito a schenagh: insieme spezzavano l'osso sternale di un pollo, e quello era il segno che era aperta la scommessa; ogni volta che uno riceveva qualcosa dalla mano dell'altro, doveva dire: «Non ho dimenticato» altrimenti doveva pagare la somma scommessa. Il giorno seguente la donna, non appena il visir fu 139
uscito di casa, andò al bazar e sedette nella bottega di un giovane mercante, che era proprio un bell'uomo. E dopo che ebbe comperato parecchie stoffe, la donna disse al giovanotto: «Mi sono innamorata di te. Se vuoi, vieni con me a casa mia. Abbiamo due o tre ore di tempo per spassarcela». Il giovane accettò l'invito e andò a casa della donna. Lei lo fece entrare da una porta secondaria, perché nessuno lo vedesse e lo portò nella stanza del visir e ordinò che portassero cibo e vino e dolciumi. Stavano piacevolmente conversando, quando il visir tornò a casa. Il giovanotto si spaventò moltissimo e disse alla donna: «Che cosa faccio, ora? Dove posso fuggire?». Ma la donna rispose: «Non aver paura. Entra in questa cassapanca». Il giovane si nascose nella cassapanca, e la donna la chiuse a chiave. Il visir entrò nella stanza, vide il vino e il cibo e il cappello di un estraneo e domandò alla moglie: «Che succede qui dentro? Chi c'è?». E fu preso da una terribile collera. La moglie gli rispose ridendo: «Siediti dunque, ti voglio spiegare». Il visir sedette e la moglie disse: «Questa mattina sono andata al bazar, dopo che tu eri uscito. Là ho conosciuto un bellissimo mercante e l'ho portato a casa con me per bere del vino e per mangiare, ma poi tu sei arrivato». Scosso da una collera ancor più grande, il visir domandò: «E dov'è ora questo giovanotto?». La moglie disse: «In quella cassapanca ed ecco qui la chiave». E diede la chiave al visir. Nello stesso istante in cui il visir prendeva in mano la chiave, la donna esclamò: «Io mi ricordo e tu ti sei dimenticato!». Il visir gettò per terra la chiave e rise moltissimo. Pensò che la moglie aveva inventato tutta quella storia 140
per vincere la scommessa fatta al gioco. Uscì dalla stanza. Allora la donna sollevò il coperchio della cassapanca e ne tirò fuori il giovanotto, mezzo morto di paura, e lo fece uscire da una porticina, perché nessuno lo vedesse. Ora arriviamo allo scherzo escogitato dalla moglie del capitano di città: quando il marito verso mezzanotte tornò a casa, sedettero insieme e si misero a bere vino. La donna disse: «Sarebbe bello se ora potessimo cuocere un dolce in questa stanza». Andarono a prendere un recipiente, un fornello, zucchero, farina, riso, midollo, pistacchi, mandorle, acqua di rose e chiodi di garofano, e moglie e marito si misero insieme a preparare il dolce. Quando questo fu cotto a metà, la donna versò un po' di olio di bang1, estratto dalla canapa indiana, nel vino e l'offrì al marito, che subito perse conoscenza. In gran fretta la donna lo avvolse in una stoffa. Nelle vicinanze c'era un monastero di dervisci. Caricò il capitano di città sulle spalle di due servi e disse: «Portatelo in quel monastero e deponetelo in una stanza». Gli uomini ubbidirono e lo scaricarono laggiù. La mattina il capitano di città si svegliò e chiamò a gran voce le sue serve, ma nessuno rispose. Si strofinò gli occhi e vide che si trovava nel monastero dei dervisci e che aveva indosso una tunica da derviscio. Pieno di stupore si alzò e se ne tornò a casa; ma quando fu sulla soglia di casa sua e volle entrare, i servi lo fermarono: «Alt, derviscio! Dove vuoi andare? Questo è l'harem del capitano di città». Il derviscio rispose: «Ma sono io il capitano di città!». Dal1
bang: droga. 141
l'interno dell'harem la moglie gridò ai servi: «Picchiate quel derviscio e cacciatelo via!». E quelli lo fecero e il capitano di città fu costretto a tornare nel monastero dei dervisci, dove si chiuse in una delle stanze e dormì. Quando venne la sera, la moglie del capitano di città preparò una cena e la diede ai servi con le parole: «Portatela al monastero e datene una parte ai dervisci!». Essi portarono via la cena, e la divisero fra i dervisci e quindi anche con il capitano di città, che portava la loro veste. Ma nella parte che gli spettava c'era, come la sera prima, un po' di olio di bang; e quando ebbe mangiato, l'uomo di nuovo perse conoscenza. La donna aveva detto ai servi: «Restate nelle vicinanze e quando il capitano di città perde conoscenza, caricatelo sulle spalle e portatelo a casa». I servi eseguirono gli ordini e riportarono a casa il capitano di città. La donna gli tolse in gran fretta l'abito da derviscio e gli rimise i suoi vestiti. Preparò un bel banchetto, come la sera precedente, quando erano stati insieme intenti a cuocere il dolce e tutti i cibi furono messi in tavola come la sera prima. Poi fece sgocciolare un po' di aceto nel naso del marito e lui riprese conoscenza. Quando aprì gli occhi vide che si trovava a casa sua e disse a sua moglie: «Ma questa è proprio una cosa sorprendente! Ho dormito così tanto?». E la moglie rispose: «No, non hai dormito tanto a lungo, non più di una mezz'oretta, credo». E lui replicò. «Oh, moglie mia, ho sognato di essere diventato un derviscio. Ero nel monastero dei dervisci e poi volevo tornare a casa ma i servi mi hanno picchiato...». E così le raccontò tutto ciò che gli era accaduto. Allora la donna rispose: «Questo non vuol dire nien142
te. Il vino era un po' forte, e ne hai bevuto troppo; probabilmente è questo il motivo dei brutti sogni che hai fatto». Ora però arriviamo alla storia della moglie del kadì. Nelle vicinanze del kadì abitava un falegname. Un giorno la moglie del kadì mandò una serva a chiamare il falegname perché voleva dargli l'incarico di fabbricarle una cassapanca su misura. Quando il falegname arrivò nella casa del giudice, la donna cominciò a dirgli: «Ti ho fatto venire perché tu mi costruisca una cassapanca». Ma al tempo stesso scostò il velo, gli lasciò vedere il suo viso e disse: «Sono innamorata di te». E il falegname da parte sua replicò: «Anch'io sono innamorato di te. Ma come possiamo fare per stare insieme e divertirci, senza che nessuno se ne accorga?». Allora la donna disse: «Io so come possiamo fare. Si fa così: tu scavi un passaggio sotterraneo dalla cantina della tua casa fino alla cantina di casa mia. E attraverso questo passaggio possiamo incontrarci, di giorno e di notte. Tu vieni da me, io vengo da te». Il falegname acconsentì. Andò via e si mise al lavoro per costruire il passaggio e lavorò un'intera settimana, prima che fosse finalmente pronto. Il giudice era appena uscito di casa per andare alla moschea, che la donna percorse il passaggio sotterraneo e andò dal falegname e gli disse: «Tu mi devi ubbidire e fare tutto quello che ti ordino». L'uomo accettò, La donna proseguì: «Domani comperi dei dolci e adorni a festa la tua stanza. Di prima mattina vai dal kadì e gli esponi questa preghiera: "Ho intenzione di sposarmi; ti prego, vieni nella mia casa e celebra le mie nozze con la prescelta".». E di nuovo il falegname accettò. 143
Il giorno seguente si presentò al kadì e, dopo averlo salutato e avergli baciato le mani, gli presentò la sua richiesta: «Oggi cade l'ora giusta per sposarsi. Ti prego, vieni nella casa del tuo schiavo e celebra le nozze». Poi l'uomo tornò a casa e aspettò che arrivasse il kadì. Questi venne e sedette. In un angolo della stanza vide seduta una donna. Il falegname disse al kadì: «Ti prego solennemente di congiungermi in legittimo matrimonio con questa donna». In quel momento la donna scoprì il volto e disse: «Sì, signor giudice, io voglio diventare la moglie di questo falegname e tu ci devi sposare davanti alla legge». Il kadì osservò attentamente la donna e vide che era sua moglie. Rimase altamente stupito e perplesso. Volgeva gli occhi a terra, li volgeva al cielo e poi guardava la donna. Si disse: "Ho appena visto mia moglie nella sua stanza e l'ho lasciata solo per venire qui. Come può essere arrivata fin qui?". Poi ancora si disse: "Ah, questa donna ha una straordinaria somiglianza con mia moglie, questo è tutto. Mi sono ingannato". In quel momento il falegname tornò a parlare: «O signor giudice, perché non vuoi celebrare queste nozze?». E la donna insistette: «Signor giudice, perché mi guardi in quel modo? Concludi dunque alla svelta questa cerimonia; abbiamo altre cose da fare». A quel punto il giudice capì di non essersi ingannato: si trattava veramente di sua moglie. In fretta si alzò e disse: «Ho dimenticato a casa il libro con le formule della cerimonia. Vado a prenderlo e torno immediatamente». Di furia uscì dalla stanza e andò a casa sua. Ma la moglie ritornò ancor più in fretta attraverso il passaggio sotterraneo e quando il kadì entrò nella stanza, subito il suo sguardo cercò la moglie. E la donna 144
si rivolse a lui: «Che ti succede? Sei diventato matto? Perché vai via e poi subito ritorni? Sei ubriaco o hai forse paura di non essere più capace di esercitare i tuoi compiti e non capisci ciò che fai, e perché vai avanti e indietro in questo modo?». Il kadì disse: «Perdonami. Avevo pensato una cosa, ma ora riconosco di essere stato in errore. Ti prego di scusarmi». In gran fretta andò a casa del falegname. Anche la donna vi era nel frattempo ritornata attraverso il passaggio sotterraneo. «Oh, signor giudice, se vuoi del denaro, ecco qui un toman, che ti offriamo in dono. Sii tanto buono da concludere quanto più in fretta possibile questa cerimonia.» Il giudice tornò a guardare la donna e vide che era proprio sua moglie; ma poiché non vedeva altra via per rifiutare il suo ufficio, pronunciò la formula di rito. Quando ebbe finito, la donna gli si avvicinò per baciargli le mani. Il kadì allora le diede un colpo sul naso, così forte, che il naso della donna cominciò a sanguinare e in gran fretta se ne tornò a casa. Quando entrò, vide sua moglie che si arruffava i capelli e si graffiava il viso con le unghie, fino a farlo sanguinare e intanto gridava: «Quel maledetto kadì frequenta delle prostitute e commette ogni sorta di altre gesta vergognose». Il kadì allora andò da lei e cominciò a pregarla di perdonarla; e solo più tardi andò alla moschea. Il giorno seguente le tre donne ritornarono ai bagni, perché ciascuna di loro potesse raccontare la propria storia alla vecchia proprietaria e lei giudicasse quale dei loro trucchi era stato il migliore e a quale di loro avrebbe perciò assegnato l'anello. Ma ben presto dovettero accorgersi che la vecchia si era presa l'anello ed era fuggita in un'altra città. 145
Il grande furfante di Shiraz
Accadde una volta che due amici, cittadini di Shiraz, se ne andassero a Isfahan, con l'intenzione di portare a termine laggiù qualche furfanteria. Ciascuno di loro portava nelle tasche della sella denaro contante per trecento toman. Uno dei due arrivò con il suo denaro sulla porta di un mercante di stoffe e fece con lui conoscenza. I due chiacchierarono. Poi il mercante di stoffe disse al suo aiutante: «Porta a passeggio il cavallo di questo signore!». L'uomo prese il cavallo - e il denaro - e sparì. Poco dopo il padrone della bottega si scusò, chiuse il negozio e se ne andò. Il nuovo arrivato rimase solo e smarrito. D'un tratto vide una donna con un fagotto sulla testa, che usciva dalla casa dei bagni. La donna gli rivolse la parola e disse: «Porta per me questo fagotto fino a casa mia». Ora si dà il caso che questa donna altri non fosse che la moglie del proprietario della bottega. I due giunsero in fretta a casa della donna. E lì si prepararono un ricco banchetto. Mentre ancora erano intenti a gustarlo, arrivò il mercante e bussò alla porta. I due si separarono e la donna arrotolò in gran fretta l'uomo in una stuoia e lo depose in una camera vicina. Il padrone di casa entrò e andò nella camera degli ospiti. Quando si 146
accorse che la moglie appariva confusa, le disse: «Che ti succede?». «Niente» rispose lei. «Sono preoccupata per le faccende di casa.» Il marito fumò e poi se ne andò via di nuovo. Allora l'altro sgusciò fuori dalla stuoia e si risarcì doppiamente per il piacere interrotto. I due si accordarono che la donna gli avrebbe dato cento toman e una veste molto ricca. Infine l'uomo di Shiraz se ne andò e dopo aver cercato per un po', trovò la strada che portava alla bottega del mercante di stoffe. Lo salutò e disse: «Tu mi hai portato via il mio denaro. Ora fortunatamente, Dio me ne ha dato dell'altro». Descrisse la donna e il quartiere dove abitava. «Mi sono accordato con lei per andare a trovarla ogni giorno e per questo lei mi darà cento toman e una bella veste». Il mercante esclamò: «Sei proprio un bel tipo! Quando domani vai da lei, non vorresti portarmi con te?». E l'altro rispose: «Ma certo; non sono avaro». Venne il giorno seguente. L'uomo di Shiraz passò davanti alla porta della bottega del mercante di stoffe e gridò: «Vieni! Alzati e andiamo da lei». Ma mentre parlava continuava a camminare, così che quando il mercante ebbe chiuso la bottega e si mise per strada, l'altro, l'amante, era già a casa della donna. Si stavano ancora salutando, quando il mercante arrivò e bussò alla porta. Di nuovo la donna arrotolò l'amante in un lenzuolo. Il marito entrò nella stanza e cercò in tutti gli angoli, ma non riuscì a trovare l'amante della moglie. In preda a grande inquietudine se ne andò di nuovo da casa. E l'amante uscì di sotto le lenzuola ed ebbe il suo piacere. E anche questa volta la donna gli diede cento toman, prima di mandarlo via. 147
L'amante si recò al negozio del mercante e gli disse: «Perché non sei venuto anche tu? Sono stato a casa della signora. Ed è arrivato anche quel cornuto di suo marito, ma non mi ha visto». Il mercante lo mandò all'inferno e poi disse: «Devi promettermi solennemente che mi porti con te quando domani ci vai». E così venne il giorno seguente. L'uomo di Shiraz si avvicinò alla bottega e fece cenno al mercante di alzarsi e di andare con lui. E poi proseguì per la sua strada. Entrò in casa della donna e vide che la sua bella stava giusto uscendo dalla vasca. I due si abbandonarono all'amore, fino a quando il marito arrivò a casa e bussò alla porta. La donna scattò in piedi, il suo sguardo cadde sul trogolo del latte, che stava sospeso appena sotto il soffitto, perché il gatto non ci potesse arrivare. Arrotolò l'amante, lo spinse e lo costrinse nel trogolo e poi lo fece risalire proprio sotto il soffitto. E già in quel momento il marito entrava in casa. La donna fece in modo che lui sedesse proprio sotto il trogolo del latte e sedette accanto a lui. Di lì si accorse che dall'orlo del trogolo pendeva fuori un piede dell'amante. Doveva assolutamente avvertirlo, perché si nascondesse meglio. Così prese un tamburello e cominciò a cantare al marito una canzoncina: «Ah, vedessi anche tu, quel che il mio cuore vede...». L'amante, che aveva capito il segnale, cercò di rigirarsi meglio nel trogolo, ma la corda che lo reggeva si spezzò e lui precipitò, cadendo proprio sulla testa del marito. Spaventatissima, la donna saltò in piedi e ricoprì di baci gli occhi del marito; e nel frattempo l'amante strisciava verso la porta e andava a nascondersi nella stanza 148
accanto. E lì rimase, fino a quando il marito uscì di casa. E ancora una volta l'uomo di Shiraz andò alla bottega del mercante e gli raccontò la sua avventura, in tutti i particolari. Il mercante gridò: «Birbante di un donnaiolo! Vorrei sapere come fai! Ti supplico, per la tua barba virile: portami domani con te, quando ci vai, così potrò partecipare anch'io al divertimento». «Ma certo» rispose l'altro «io sono d'accordo.» Il giorno seguente andò di nuovo alla bottega e disse al mercante: «Alzati, ora andiamo». E mentre ancora parlava, già aveva ripreso a camminare e il mercante non riuscì a seguirlo così in fretta. L'amante bussò ed entrò in casa. La donna però questa volta si era inventata qualcosa di nuovo, poiché ormai aveva consumato tutto il denaro che le apparteneva. Così disse all'amante: «Oggi devi entrare nella vasca in giardino; io ti coprirò la testa con una zucca vuota. Ho cucinato con pane, burro e datteri un shangal e io e mio marito lo mangeremo insieme. Poi faremo una scommessa e getteremo i noccioli sulla zucca vuota». L'uomo si spogliò e si nascose nell'acqua. Poi arrivò anche il marito e bussò alla porta. La donna gli aprì e insieme andarono a sedersi nella veranda che dava sul cortile interno, dove si trovava la vasca. La donna servì al marito il piatto prelibato e poi, con mille dolci trucchi femminili e mille moine e adulazioni, lo incitò a mangiare. Poi prese un nocciolo di dattero, puntò gli occhi sulla zucca vuota e disse: «Ora io miro alla zucca. Se colgo il bersaglio, tu mi dai dieci toman». Il marito rispose: «No, ci provo io». «Come vuoi» disse la donna. «Ma se non colpisci il bersaglio, hai perduto; stai molto attento.» Il mer149
cante si posò il nocciolo del dattero sulla punta del dito medio e con il pollice fece schioccare le dita. Ma mancò il bersaglio; perché l'amante della moglie, di sotto la zucca vuota, poteva vedere ciò che accadeva e aveva mosso leggermente la testa di lato, così che il nocciolo finì nell'acqua. Il marito sparò altri tre o quattro noccioli, ma tutti mancarono il bersaglio. Quando ebbe in questo modo perduto quaranta toman, il marito si seccò e uscì di casa per andare alla sua bottega. Ma poco più tardi tornò da lui l'uomo di Shiraz e gli disse: «Complimenti e tanti auguri. Io qui ho finito, perché ho messo insieme tanto denaro quanto ne valevano il mio cavallo e la somma che possedevo. Quanto è sciocco quel marito; molto più sciocco di sua moglie». Il mercante allora lo pregò: «Racconta tutta la storia davanti a un testimone, ti ricompenserò per questo». (Dovete sapere che la moglie del mercante era la sorella del moshahed1 di quella regione.) L'uomo di Shiraz rispose: «Perché no?». Il mercante invitò allora tutti i sapienti, i sacerdoti e i notabili di Isfahan a incontrarsi in una casa delle vicinanze, e nell'invito incluse anche il moshahed. Ma all'amante della moglie disse soltanto: «E ora racconta ogni cosa». L'uomo cominciò a raccontare la sua storia. Ma qualcuno fra i presenti andò dalla moglie e l'avvertì che l'uomo di Shiraz nella casa di un vicino stava raccontando una storia su di lei. Allora la donna si avvolse nel suo chador2 e si arrampicò sul tetto e di lì 1 2
moshahed: alto dignitario ecclesiastico. chador: grande velo nero.
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osservò, attraverso una finestrella, tutto ciò che accadeva. Riconobbe il suo amante e sentì che lui raccontava tutto quanto era accaduto ed era arrivato proprio al punto in cui suo marito mirava con i noccioli dei datteri alla zucca vuota. La donna si era messa sul petto un minuscolo specchietto. Lo sollevò e lo tenne contro il sole, così che il riflesso cadde sulla faccia dell'amante. Allora l'uomo guardò in alto, vide la donna che si grattava il viso per fargli segno di tacere. L'uomo capì e allora aggiunse al suo racconto queste parole: «In quel momento mi svegliai all'improvviso dal mio sogno». I presenti gli domandarono: «Ma allora tutto questo lo hai solo sognato?» e l'uomo di Shiraz rispose: «Ma naturalmente. Possono forse avvenire nella vita reale simili cose?». Allora tutta l'assemblea si levò contro il mercante: «Uomo effeminato!» gli gridarono. «Perché ci hai raccontato tutte queste menzogne? Perché hai rivolto a tua moglie queste accuse sciocche e false?» Fu presa la decisione di far impalare il mercante. E dopo il termine voluto dalla legge, di quattro mesi e dieci giorni, le autorità sposarono la donna con l'uomo di Shiraz, e nel giro di pochi anni lei gli partorì cinque figli: due bambine e tre maschi. E qui finisce la mia storia.
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STORIE D'AMORE
La figlia del sarto e il figlio del ricco mercante
Un sarto aveva tre figlie. Un bel giorno il figlio del capo dei mercanti arrivò sulla porta della sua bottega e gli disse: «Desidero che tu mi cucia una veste tutta fatta di rose». La sera il sarto si consultò per questo con la figlia maggiore. Ma quella tacque e la notte passò. Il sarto tornò nella sua bottega e pensò fino a tarda sera che cosa doveva fare, ma senza risultato. Tornato a casa raccontò la cosa alla seconda figlia, ma neppure lei seppe dargli una risposta. E il giorno seguente trascorse esattamente come il precedente. La sera il sarto raccontò la cosa alla figlia minore. E quella rispose. «Quando domani viene da te il giovanotto, gli dirai che per cucire una veste di rose, occorrono naturalmente forbici, ditale e filo di rose. Quando te li porterà, tu gli cucirai la veste». Il giorno dopo, quando udì quelle parole, il giovane comprese che il sarto doveva avere tre figlie, di cui le due maggiori non capivano niente, e che la risposta che gli veniva data dopo tre giorni doveva venire dalla più giovane. Senza averla mai veduta, il giovane si innamorò di lei e mandò qualcuno a chiedere la sua mano. E ora ascoltate bene! Il giovane aveva una cugina, con la quale era fidanzato. Quando costei venne a 155
sapere ch'egli aveva chiesto la mano della figlia del sarto, si disse: "Devo impedire con qualsiasi mezzo che questo progetto si realizzi". Così si appostò per vedere quando il giovane mandava un regalo alla ragazza. Finalmente notò che lui le inviava un vassoio per la cena. E il vassoio era colmo di tutte le possibili pietanze. Spinta dalla gelosia, diede una somma di denaro al servo che portava il vassoio e gli disse di assaggiare il riso, mangiare le ali del pollo e bere un po' dalla bottiglietta di Oxymel1. E il servo fece ciò che gli veniva detto. Quando alla fine la cena fu portata alla fanciulla, questa si accorse che quei cibi erano già stati toccati. Poiché credette che il giovane figlio del mercante le avesse mandato gli avanzi della sua cena, non mangiò nulla e gli fece avere il seguente messaggio: Alla gola l'Oxymel seppe montare, mancava un pugno di piccole stelle; senz'ali i volatili non potevano volare; mancava un pugno di piccole stelle. Il giovane poteva pensare fin che voleva, ma non riusciva a comprendere che cosa significasse quel messaggio. Il giorno dopo si accinse a comperare un paio di bellissime scarpe, e le inviò alla fanciulla. Ma di nuovo la cugina lo venne a sapere e disse all'ancella incaricata di consegnarle di infilarsi quelle scarpe e camminarci così a lungo fino a che si fossero consumate e solo allora consegnarle alla destinataria. E così infatti avvenne. Tanto che quando furono consegnate, la fanciulla non le provò neppure e le rimandò indietro. 1
Oxymel: sciroppo di miele e aceto.
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Quando il contratto di matrimonio con la figlia del sarto fu concluso, la cugina fece diffondere dappertutto voci malefiche, in cui si descriveva al giovane la sposa come un demone. E tutto questo continuò fino al giorno delle nozze. Così che quando la sposa fu condotta nella camera nuziale, il giovane marito non la guardò neppure e se ne andò a letto da solo. La mattina seguente la sposa raccontò tutto alla suocera. La donna sapeva che quel giorno il figlio sarebbe andato nel giardino dei fiori gialli. Lui infatti possedeva tre giardini, una con fiori gialli, l'altro con fiori rossi e un altro ancora con fiori bianchi e ogni giorno andava a passeggiare in uno dei tre giardini. Quel giorno era la volta dei fiori gialli. Così essa disse alla giovane nuora: «Monta su un cavallo marrone chiaro e su di esso vai fino al giardino dei fiori gialli; lì bussi al portone fino a quando mio figlio verrà ad aprire; allora lo pregherai di darti un mazzo di fiori gialli e lui te lo darà; dopo di che ti allontanerai rapidamente, senza dire una parola». La giovane donna si coprì con un velo e fece esattamente, punto per punto, ciò che le veniva detto. Il giorno seguente la suocera le diede le stesse istruzioni per il giardino dei fiori bianchi. La giovane donna salì su un cavallo bianco e fece ciò che le era stato detto. Il terzo giorno la suocera disse: «Monta su un cavallo fulvo e con quello vai al giardino dei fiori rossi; lì bussi al portone fino a quando mio figlio viene ad aprire; allora, come i giorni precedenti, lo pregherai di darti un mazzo di fiori e lui te lo darà. Quando lo avrai in mano, gli dirai che la tua cintura è troppo stretta, tanto che non l'hai potuta annodare 157
e lo pregherai di tagliarla in due. Quando lui ti offrirà il suo coltello, passaci sopra una mano, in modo da ferirti il pollice. Allora ti metterai a gridare: "Il mio pollice, il mio pollice!"; poi prendi il mazzo di fiori, monti a cavallo e lasci il giardino. E così infatti avvenne. Quando la sera entrò nella camera da letto, la giovane donna cominciò a gridare: «Il mio pollice! Il mio pollice!». Il marito fu molto sorpreso. Riconobbe la voce della giovane donna che aveva visto in giardino. Fin dal primo incontro si era innamorato pazzamente di lei, tanto che aveva perduto il sonno e l'appetito. Quando la osservò più attentamente, vide un volto bello come la luna e il suo splendore illuminava la stanza. E così riconobbe in lei la donna che aveva visto nei suoi giardini. Dal gran desiderio, gli vennero le lacrime agli occhi e le domandò che cosa era accaduto. E la sposa gli raccontò tutta la storia. Poi lui la prese fra le braccia, mandò a chiamare i musicanti e le grandi feste per le nozze durarono un'intera settimana. Possa Dio esaudire i desideri di tutti gli amanti, come ha esaudito quelli di questi due.
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Il principe Esma'il e Arab-Zengi
C'era una volta un giovane, che si chiamava principe Esma'il e che amava molto la caccia e voleva sempre cacciare. Era molto coraggioso. Una notte vide in sogno una fanciulla, bella come il plenilunio, e nel sonno si innamorò di lei e della sua bellezza, non una, ma mille volte. Quando la mattina si svegliò, pianse d'amore per quella fanciulla. Sua madre poteva chiedergli quanto voleva: «Che cosa ti è accaduto, figlio mio, perché tu debba piangere tanto?» ma lui non rispondeva; non mangiava più e continuava soltanto a inseguire i suoi pensieri. Esma'il possedeva un cavallo di gran pregio, che si chiamava Qamar1. Un bel giorno, mentre era così immerso nei suoi pensieri, si disse: "Devo assolutamente fare un viaggio intorno alla terra e trovare la fanciulla che ho visto in sogno; fino a quel giorno, non avrò pace". Montò a cavallo e disse: «Io vado a caccia, ma non per un giorno o due; durerà degli anni». Sua madre pianse e si disperò, ma tutto fu inutile! Egli volse le spalle alla sua città natale, si diresse verso la 1
Qamar: luna. 159
campagna e andò a caccia, da un capo all'altro della terra. Finalmente giunse in una valle fra le montagne; in cima alle montagne vide un castello, che non aveva mai visto prima, non in sogno e neppure nella realtà. Sul pendio di quella montagna scese da cavallo presso una fonte, diede paglia e avena al suo cavallo e poi sedette al margine della sorgente. Nel castello sulla montagna regnava però ArabZengi e quaranta uomini valorosi ubbidivano ai suoi comandi. Che si trattasse di un forestiero solitario o di un'intera carovana, essi saccheggiavano tutti coloro che per ventura passavano di lì. Quando Esma'il si era seduto accanto alla fonte, per puro caso era Arab-Zengi in persona che stava di guardia, per vedere che cosa si muovesse sulla strada. (Mi sono dimenticato di raccontare una cosa: i quaranta valorosi dovevano fare due ore di guardia ciascuno.) Quando il suo sguardo cadde sul pendio vide un robusto giovanotto di imponente aspetto, che stava su un bel cavallo e poi scendeva proprio vicino alla fonte. Arab-Zengi si volse a tre dei suoi uomini e ordinò: «Andate alla fonte e guardate chi è quel giovane. Prendetelo prigioniero e portatelo qui con il suo cavallo e con tutta la sua armatura». I tre uomini arrivarono alla fonte: «Giovanotto, chi sei e dove vai? Da dove hai preso il coraggio e la sfacciataggine di seguire questa strada? Non sai che qui vive Arab-Zengi e che persino il leone non osa arrivare fin qui? Chiunque ci si azzarda, ci rimette la vita». Il principe si finse sordo; a grandi segni fece loro intendere: «Non vi sento; venite più vicino perché io possa udire quello che dite». Gli uomini vennero avanti, fin che furono vicinissimi. Allora il principe ne prese uno per il collo con una mano e un 160
secondo con l'altra, come fossero due gatti; e batté le loro teste l'una contro l'altra con tanta forza, che i loro cervelli uscirono dalla testa e si rovesciarono per terra. Poi prese il terzo, gli tagliò un orecchio, glielo mise nella mano e gli disse: «E adesso vai dal tuo padrone e raccontagli quel che è accaduto». A quella vista l'animo di Arab-Zengi si adombrò ed egli montò sul suo destriero. Rivestito dalla testa ai piedi in un'armatura di ferro, galoppò con trenta dei suoi valorosi fino alla fonte. Anche il principe Esma'il montò sul suo cavallo, trasse la sua spada dal fodero e chiuse la strada ai suoi assalitori con la furia di un leone, gridando: «Io sono solo e voi siete trenta. Combattere con trenta uomini contro uno solo non è cavalleresco. Sarebbe più giusto se voi veniste contro di me uno dopo l'altro». Arab-Zengi ammise che l'altro aveva ragione. Dieci guerrieri andarono quindi uno dopo l'altro ad affrontare l'avversario e vennero uccisi. Alla fine venne la volta di Arab-Zengi. Da principio i due si lanciarono all'attacco con le lance. Poi lottarono corpo a corpo e questo durò per sette giorni. Finalmente il principe Esma'il gettò al suolo il nemico, gli si sedette sul petto e voleva mozzargli la testa. Ma quando vide che l'altro piangeva, gli disse: «Perché piagnucoli? Vuoi forse annunciarmi le tue ultime volontà?». «Giovane guerriero! Sappi dunque che io sono una donna. Da vent'anni conduco qui una vita da brigante. Ho combattuto e lottato con molti eroi valorosi, e la mia forza li ha vinti tutti; ma ho giurato a Dio di diventare la moglie di colui che fosse un giorno capace di atterrarmi. E ora tu vorresti uccidermi?» 161
Si strappò la camicia e il principe vide che diceva la verità: contemplò due seni che parevano melograni. Baciò la fanciulla sulla fronte e insieme salirono al castello e si accinsero a bere e a fare l'amore. Erano pieni di tenerezza uno per l'altro. Di giorno andavano a caccia; la sera godevano il loro amore. Passarono alcuni anni. Una notte il principe vide in sogno una creatura che pareva una fata. E già al mattino prendeva commiato da Arab-Zengi e montava sul suo cavallo. Inutilmente la donna lo supplicava: «Come puoi agire così? Dove vai?». Ed egli rispose: «Se Dio lo vuole, ci rivedremo. Ma io ora devo cercare qualcuno. Fino a quando non avrò trovato questa creatura, non avrò pace». Così lasciò il castello e si avviò per la pianura e per giorni e giorni attraversò deserti, senz'acqua e senza vegetazione. Da ultimo arrivò in una città. Davanti alle sue porte montò una tenda e vi passò la notte. La mattina seguente, la figlia del governatore volle andare a caccia. Quando vide una piccola tenda appena fuori dalla porta della città, ordinò alle sue ancelle: «Andate a vedere che cos'è». Le ancelle andarono dal principe, mentre lei stava a guardare da lontano. Le ancelle domandarono al principe: «Chi sei? Dove vai?». «Sono uno straniero in viaggio.» Le ancelle riferirono quelle parole alla padrona, e questa ordinò di portarle lo straniero. Così le ancelle andarono da lui e gli dissero che la figlia del governatore voleva vederlo. Lui montò sul suo cavallo e si recò da lei. E ora, ascoltate bene! Il principe si avvide che proprio quella era la fanciulla che aveva visto in sogno e della cui bellezza si era innamorato. La fanciulla, da parte sua, si era sognata 162
di lui. Si guardarono molto attentamente. Sì, era proprio lui. Eppure si vedevano per la prima volta. Poiché non voleva far partecipi le ancelle del suo segreto, la fanciulla gli disse con il linguaggio dei segni: «Fatti prendere in casa dalla mia nutrice, non importa come». Il principe tornò alla sua tenda e la fanciulla se ne andò a caccia, ma non prese nulla e ben presto tornò in città. Al sorgere del sole anche il principe andò in città e domandò dove abitasse la nutrice; gli insegnarono la strada e quando fu alla sua porta, bussò. «Chi è là?» «Uno straniero senza alloggio; datemi rifugio per questa notte.» «Non abbiamo posto.» Allora il principe si tolse di tasca una manciata d'oro e la diede alla nutrice. Non appena essa vide il denaro, esclamò: «Vi prego, favorite nella mia casa». Egli entrò e lei gli diede la camera più bella. Ma quando scese la notte e tutti dormivano, il principe diresse i suoi passi verso il palazzo della figlia del governatore. Davanti al portone vide dieci sentinelle, che stavano di guardia con la scimitarra nella mano. Egli trasse la sua spada, le uccise tutte ed entrò nel palazzo. Quando la fanciulla vide arrivare il principe, si alzò e i due caddero l'uno nelle braccia dell'altro. Dopo le prime domande sedettero e cominciarono a fare l'amore. Poi la fanciulla si volse al principe e gli disse: «Quando domani mattina il governatore saprà che sei venuto qui, ci farà uccidere entrambi; inoltre tu hai ammazzato dieci sentinelle; la nostra situazione è molto grave. Che cosa dobbiamo fare?». Lui pensò a lungo, chiedendosi che cosa sarebbe stato meglio. Alla fine la fanciulla decise che avrebbero dovuto chiedere aiuto alla nutrice; lei avrebbe sapu163
to come sistemare ogni cosa. A mezzanotte la fanciulla fece venire la nutrice; le diedero una quantità di denaro e le spiegarono la storia fin dal principio. E la donna rispose: «Ci penso io. In quanto a voi, continuate a festeggiare». E dopo questo, i due dormirono tranquilli. La mattina, dopo che si fu lavata e vestita, la nutrice andò dal governatore e gli disse: «Schiava vostra! Possiate restare in buona salute! Quelle sentinelle infedeli, che alle porte del palazzo vegliavano su vostra figlia, sono morte. Non date a nessuno la colpa. Sono io che ho tagliato loro la testa». «Che cosa dici? Mi devi spiegare meglio.» «Ieri sera avevano congiurato di entrare nelle stanze di vostra figlia e di rapirla. Ma io lo venni a sapere e riflettei a lungo. Capii che vostra figlia era perduta. Allora andai a cercare quegli uomini e dissi loro che anche a me la ragazza aveva combinato dei guai e che desideravo che mi liberassero di lei; ero pronta a fare tutto ciò che loro mi dicevano. Così assopii ogni loro sospetto. Furono felicissimi di vedermi e di ascoltarmi. Così li feci entrare nel palazzo. Misi un sonnifero nel loro vino e quando tutti furono addormentati, li portai nella loro stanza di guardia e lì tagliai loro la testa.» Il governatore fu molto soddisfatto e si congratulò con lei e le diede una gran quantità di denaro, non solo, le affidò la custodia della figlia e la nominò sovrintendente del suo harem. La nutrice non stava più nella pelle dalla gioia; e da quel giorno visse senza più pensieri. E ogni notte, molto tardi, andava a prendere il principe e lo conduceva dalla fanciulla e all'alba andava a riprenderlo. 164
Così andò avanti per qualche tempo. Ma una notte il principe fu colto dal pensiero della sua città natale e disse alla sua amata: «Amore mio! Per quanto tempo ancora dovrò venire qui tremante di paura, portato dalla tua nutrice, per stare con te fino all'alba e poi dovermene andare in gran segreto? Nella mia città posseggo ricchezze e potere, ma ora non so più nulla della mia famiglia. Chissà se mio padre è ancora vivo? Vieni domani con me! Monteremo a cavallo e galopperemo fino alla mia patria. Là tutto è pronto per accoglierci; nessuno ci farà paura o ci spaventerà». La giovane donna acconsentì e all'alba fece chiamare lo stalliere e gli disse: «Sella due cavalli delle stalle di mio padre, voglio andare a caccia». Andò poi nella stanza del tesoro del palazzo e si prese tutto ciò che era lieve di peso e greve di valore. Infine partì a cavallo con il principe, uscirono dalla città e, attraverso la campagna, viaggiarono notte e giorno, giorno e notte fino a quando furono sfiniti dalla stanchezza. Sulla cima di una collina scesero da cavallo e si rifocillarono; e lì decisero di fare a turno la guardia, l'uno avrebbe dormito e l'altro avrebbe vegliato per guardarsi dai nemici. E il principe infatti, appena posato il capo in grembo alla sua compagna, già era addormentato. Il governatore però il giorno stesso della fuga era venuto a sapere che il giovane straniero e sua figlia si amavano, passavano insieme la notte e ora se n'erano andati, dopo averlo derubato di tutti i suoi gioielli e di due cavalli. Immediatamente ordinò a un gran numero di cavalieri di inseguirli, ammonendoli a riportarli indietro vivi, sia che si trovassero sul fondo del mare o in cima alle nuvole. 165
Mentre il principe dormiva fra le sue braccia, la giovane donna si avvide che l'immenso deserto che si stendeva davanti a loro all'improvviso si oscurava di mille e mille uomini, come se fossero formiche o cavallette. Fu colta dalla disperazione. Cominciò a piangere e due lacrime, cadendole dagli occhi, toccarono il volto del principe, che si svegliò. Quando vide che la sua amata piangeva, le chiese la ragione. «Come potrei non piangere? Guarda dunque nel deserto. Vedi tutti quegli uomini? Verranno e ci uccideranno.» «Mia amata, non temere. Dio è misericordioso.» Sguainò la spada, saltò a cavallo e andò all'attacco, come un leone che si getta su un branco di volpi. Colse i nemici alla sprovvista e tanto li scompigliò, che riuscì a respingerli fino alle porte della loro città. Poi tornò dalla giovane donna e insieme i due si avviarono verso il castello di Arab-Zengi. Questa aveva già saputo di loro e gli venne incontro; si rifugiarono nella sua dimora e lì vissero per un anno in grande gioia. Ma ancora una volta il principe fu colto dalla nostalgia della sua patria e così prese con sé le sue donne e partì; ma prima scrisse al padre, annunciando il suo arrivo. Il padre fu molto felice e subito preparò una festa solenne per salutare il ritorno del figlio, che giunse infatti pieno di gioia alla sua dimora. Qualche giorno più tardi, il padre del principe si innamorò di Arab-Zengi e confidò in gran segreto i suoi sentimenti al suo favorito. Costui, che non amava il principe, gli disse: «Fintanto che vive Esma'il, egli non ti permetterà di legarti a quella donna». E poiché il padre era dello stesso avviso, si accinse a preparare l'assassinio di suo figlio. Ma Arab-Zen166
gi, che era molto astuta, intuì le sue intenzioni e disse perciò al principe: «D'ora in poi non prendere più parte ai ricevimenti e alle feste di tuo padre e, se proprio ci vuoi andare, non farlo senza di me». Il principe fu d'accordo. Una sera il padre diede al cuoco le seguenti istruzioni: «Prepara un piatto prelibato e servilo in due piatti, uno sarà per me, l'altro per mio figlio. E nel piatto che porgerai a mio figlio verserai un po' di veleno». Dopo di che invitò il figlio a cenare con lui. «Guardati dal toccare i cibi che questa sera ti verranno serviti, se prima non vengono assaggiati da qualcun altro» gli raccomandò Arab-Zengi. Poi andarono al pranzo e sedettero sul pavimento davanti alla tavola imbandita. Il principe allora diede un boccone preso dal suo piatto al gatto; e il gatto lo aveva appena inghiottito che cadde morto stecchito; la pancia gli si gonfiò e scoppiò. Il principe si alzò fuori di sé e gridò: «Per questo dunque mi avevi invitato?». Seguito dalle due donne, il principe abbandonò la città e i tre si sistemarono in un palazzo nei dintorni. Il favorito ricominciò a parlar male del principe e disse al padre: «Così come stanno ora le cose, dovreste mandargli un paio dei tuoi uomini più feroci, che gli strappino gli occhi e glieli mettano nelle mani. Poi lascialo pure andare dove vuole». E il padre così fece. Mentre Arab-Zengi dormiva, gli uomini si gettarono sul principe, gli cavarono gli occhi e lo portarono via. Il povero infelice si trovò lontano, con gli occhi nelle mani, senza sapere dove andava. Camminò per un giorno intero. Per volere divino arrivò a una sorgente e, sopraffatto dalla stanchezza, al bordo della 167
sorgente si addormentò sotto un albero. Quando si svegliò, ancora annebbiato dal sonno, udì le voci di due tortore che parlavano fra di loro in questo modo: «Sorella mia, conosci questo giovane?». «No.» «È il principe Esma'il. Suo padre, che voleva Arab-Zengi, si è lasciato istigare dal suo favorito e ha fatto cavare gli occhi al figlio. Se il principe ora dorme, che si svegli! Là cadono due foglie dall'albero: ch'egli le raccolga e se le strofini fra le mani; il succo che ne uscirà se lo dovrà sgocciolare sulle orbite vuote e poi rimetterci gli occhi che tiene nella mano. Così riacquisterà la vista.» Stupefatto e confuso dalle parole che aveva udito, il principe avvertì il fruscio delle foglie che cadevano dall'albero. Le afferrò allungando la mano, le stropicciò ben bene fra le dita e con il succo si strofinò le orbite. Ma era così eccitato, che sbagliò nel rimettervi dentro gli occhi. Così che riacquistò la vista, ma si trovò strabico. Infinitamente felice si rimise in viaggio e sulla sua strada trovò un mulino. Il vecchio mugnaio sedeva in un angolo, occupato a filare. Il principe gli disse: «Da molto tempo non ho mangiato. Se hai del pane e dell'acqua, dammene un po'!». Il vecchio, che era un uomo ragionevole, si disse che una persona che aveva a lungo digiunato, si poteva ammalare se mangiava troppo. Perciò gli diede da principio soltanto tre o quattro bocconcini di pane e poi, piano piano, aumentò la quantità di cibo e dopo due o tre giorni il principe si era completamente ripreso. «Mugnaio, hai un figlio?.» «No.» «Allora io sarò tuo figlio, alla condizione, che tu mi dia da mangiare a sufficienza.» 168
Il mugnaio domandò: «Quanto cibo ti occorre?». «Ogni giorno quattro man di riso con il burro e l'agnello.» Dal momento che non aveva figli, il mugnaio accettò questa condizione. Un giorno il principe vide che il mugnaio piangeva. Alle sue domande il vecchio rispose: «Esma'il, il figlio del governatore, aveva due mogli. Il governatore si innamorò di una di esse, Arab-Zengi. Per poter avere la donna, egli fece accecare il figlio e lo cacciò dalla città. Ma da sei mesi ormai Arab-Zengi gli fa guerra e ha già ucciso tutti gli uomini del governatore. Questi perciò ha decretato: chiunque abbia un figlio, deve mandarlo alla guerra, altrimenti ci deve andare di persona. Questo è ciò che mi è appena stato detto». Il principe fu felice di sentire che Arab-Zengi gli era rimasta fedele. Disse al mugnaio: «Non c'è motivo di piangere. Procurami un cavallo e una scimitarra e non preoccuparti più di nulla!». Il mugnaio andò e ritornò con un ronzino e con una corta sciabola. Il principe montò in sella e si diresse verso il campo di battaglia. Lì vide Arab-Zengi che combatteva come una leonessa. Ma quando lei si volse a guardare nella sua direzione, vide un giovane che montava un vecchio ronzino e teneva in pugno una corta sciabola e il giovane assomigliava a Esma'il. La donna non credeva ai propri occhi e tornò a guardare e guardare attentamente fino a quando lo riconobbe; ma il giovane aveva gli occhi storti. ArabZengi cominciò a cantare dei versi e il principe le rispose allo stesso modo. La battaglia ricominciò. Mentre Arab-Zengi uccideva il padre del principe, questi finiva il perfido 169
favorito. E quando tutto fu finito, Esma'il fece adornare a festa la città. Poi sposò le due donne che amava e le feste per la cerimonia di nozze durarono quaranta giorni per ogni sposa. Poi fece venire il mugnaio e lo colmò di onori e di ricchezze. In breve: fintanto che visse, tutti i suoi sudditi furono trattati con giustizia e generosità.
Postfazione
questo titolo può forse da principio far pensare a quella "fiaba" che qualche decennio fa ebbe molta risonanza sulla stampa popolare: "Una fanciulla del popolo sposa il suo principe azzurro - lo scià di Persia". Così, o pressappoco, si leggeva allora a proposito della "Fiaba del trono del pavone", che molti certo ricordano. Le fiabe popolari, così come vengono raccontate in Persia, sono assai poco conosciute - all'infuori del famosissimo Mille e una Notte, che nella sostanza tramanda autentici motivi persiani. Le raccolte di una qualche importanza sono poche una delle rare eccezioni è il volume Persische Màrchen, pubblicato a cura di Arthur Christensen. Le edizioni pubblicate nell'Ottocento sono per lo più frutto di elaborazione assai dubbia. Fiabe persiane:
La scelta qui presentata vuol dare una visione d'insieme delle diverse forme e dei motivi dominanti del racconto popolare persiano ("Fiabe" è qui inteso in senso lato e accoglie anche novelle popolari e storielle facete). La maggior parte dei testi si attengono strettamente all'originale, talvolta sono stati completati titoli o passaggi troppo sommari, in più di un caso sono state aggiunte brevi spiegazioni a pie' di pagina. Il racconto di Turandot è stato fortemente abbreviato. Per lo più si tratta di 171
testi tradotti dall'inglese e dal francese, pubblicati per la prima volta in tedesco da Klaus F. Geiger. All'infuori di un unico testo del Sette-Ottocento, tutti i racconti sono stati raccolti nel Novecento, alcuni di questi in tempi molto recenti e testimoniano in quale forma sopravviva oggi il mondo favolistico persiano. Il tema è "Fiabe popolari". Tuttavia al primo posto viene la "Storia del principe Calaf e della principessa Turandot", un testo elaborato dalla tradizione letteraria. Quella che può apparire come una contraddizione in termini, in realtà non lo è affatto: spesso la stesura letteraria non è che la traduzione scritta di un materiale antico, oralmente trasmesso, e viceversa: i frutti letterari di un narratore "colto" trovano posto nella trasmissione orale. In questo senso proprio la storia di Turandot dimostra con quale facilità il reciproco influsso di tradizione orale e scritta valichi i confini della lingua e del paese e le barriere fra le diverse arti; la maggior parte dei lettori infatti, molto probabilmente, conosce la fiaba di Turandot attraverso l'opera di Puccini. Il racconto che segue, "Il sogno del servo", denota una forte parentela tematica con il precedente e viene presentato subito dopo proprio per mettere in rilievo il chiaro contrasto stilistico con la storia di Turandot, elaborata letterariamente. Il narratore di questo secondo racconto trova evidentemente difficoltà a rappresentare in modo completo e convincente la concentrazione degli eventi, a descrivere gli episodi. E anche questo testo può apparire strano, perché le fiabe alle quali siamo abituati, soprattutto grazie alle fiabe infantili e familiari, sono di tutt'altro tipo. Bisogna tuttavia ricordare che i fratelli Grimm non hanno mai raccontato le loro fiabe come le apprendevano da un narratore, ma piuttosto riportavano i loro testi in una elaborazione ideale, secondo la loro fantasia. Per contro, per questa raccolta si sono considerati anche testi che danno ancora l'impressione stilistica della narra172
zione orale: ci si trovano infatti salti di contenuto, interpolazioni ironiche e anche sciocchezze e infine spiegazioni aggiuntive, quando il narratore pensava di aver dimenticato un particolare importante. E da considerare un vantaggio che la maggior parte delle raccolte di fiabe venissero pubblicate (per lo più in francese o in inglese) da curatori che avevano un particolare interesse anche al fatto linguistico e che perciò tentarono di conservare non solo i contenuti, ma anche, con una certa precisione, la singolarità del linguaggio. Quasi tutti i testi si basano su racconti dettati, alcuni, più recenti, su sceneggiature di trasmissioni radiofoniche. È quindi possibile dare alle fiabe qui raccolte un'etichetta di "autenticità"? Ne dubito. Da un lato c'è il fatto, quanto mai banale, che tutti i testi nascono da situazioni narrative "artificiose". Uno studioso europeo (in un caso si tratta di un ufficiale coloniale) prega il narratore di presentare il suo repertorio, oppure uno studio radiofonico chiede di raccontare delle fiabe. Anche più evidente risulta inoltre che chi ha pensato di raccogliere le fiabe ha influenzato il narratore: qualcuno insiste presso il narratore che ama le storielle buffe o quelle di imbrogli perché reciti una "vera" fiaba di magia. E così nelle raccolte che vengono poi utilizzate si notano ben presto numerosi e molteplici segni di autocensura. In un caso, ad esempio, una storiella scherzosa diventa incomprensibile perché (sia nell'originale persiano sia nella versione inglese) quattro righe mancanti sono state sostituite da puntini di sospensione. In un altro testo si trovano all'improvviso frasi latine; una prefazione afferma che determinati soggetti non sono stati neppure considerati perché feriscono il buon gusto. Talvolta si dà il caso che i narratori persiani nel loro repertorio - adeguato a una società fortemente maschilista - amino far uso di battute erotiche o talora anche oscene. La maggior parte dei testi ci vengono da narratori uomini, che hanno costruito e provato il loro repertorio 173
per tutta una vita. Alcune delle fiabe qui presentate, raccolte negli anni Sessanta, sono invece opera di donne. E questa differenza di sesso del narratore sta a indicare anche una differenza nella funzione del narratore stesso e nella situazione in cui di solito viene fatto il racconto: il pubblico della donna che racconta è composto in massima parte da bambini. E di conseguenza il "dew", il demone cattivo, nelle storie raccontate dalle donne, rapisce i bambini (un po' di paura serve a mantenere la disciplina), mentre il narratore uomo, esperto di queste cose, dà ai "dew" la fama di rapitori di belle fanciulle. Come già un tempo nella tradizione mitteleuropea, si ha oggi una delimitazione della tradizione narrativa: le fiabe nei racconti femminili continuano a vivere nell'ambito privato, mentre il racconto maschile di soggetto tradizionale anche in Persia si è in larga misura esaurito. Molti dei motivi favolistici persiani sono tramandati nel racconto popolare tedesco. Questi tratti in comune provengono in parte dalla comune origine indoeuropea, ma in gran parte sono anche certamente conseguenza di un secolare processo (in pace e in guerra) di scambio culturale. L'influsso arabo-islamico si nota in particolare nei racconti presentati con un amore per il dettaglio quasi concreto. Anche i personaggi della fiaba persiana danno al lettore una singolare impressione di cose note e al tempo stesso di estraneità: accanto alle figure più familiari del radioso principe-eroe e della principessa bellissima antiche conoscenze di tutto il mondo favolistico - i visir e i kadì nei bazar, e i demoni divoratori di uomini possono dapprima apparire in effetti piuttosto esotici; in realtà però i personaggi e le figure delle fiabe popolari persiane hanno le stesse qualità, i medesimi caratteri della fiaba della tradizione tedesca, europea in generale. Lo stesso vale per i racconti burleschi: in essi si confermano i pregiudizi nei confronti dei più deboli o degli abitanti di 174
altre terre e, non da ultimo nei confronti delle donne - si confermano o vengono, al contrario, confutati. E infine ritroviamo qui la figura del sovrano buono, impersonato dallo scià Abbas I, fondatore della prima potenza (dinastia?) iraniana, che ancor oggi - trecento anni dopo il suo regno - è il personaggio centrale e più popolare di molti racconti persiani. L'idealizzazione di questo monarca è storicamente confutabile; infatti se l'Iran sotto il suo dominio conobbe un periodo di relativo sviluppo economico, Abbas il Grande fu tutt'altro che un difensore dei poveri e degli oppressi e fece persino accecare suo fratello, quando questi si rivelò troppo amato dal popolo. Si tratta dunque in questa serie di piccoli racconti semplicemente di "fiabe di palazzo", di tipo conformista? Sì e no. Perché, letta con occhio diverso, anche l'idealizzazione dello scià Abbas rivela le sofferenze del popolo, la sua povertà, l'oppressione a cui è sottoposto - e quindi la speranza in una più giusta organizzazione della società. Inge Hoepfner
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Note
La storia del principe Calaf e della principessa Turandot Fonte: Les Mille et un Jour (1786) pagg. 265-281, 345-453. La stesura qui presentata è fortemente abbreviata; la elaborazione si basa sulla traduzione tedesca di F. H. von der Hagen (1827), pagg. 1-9 (46mo-48mo giorno) e pagg. 85-196 (61moS2mo giorno). Sulla genesi della raccolta Les Mille et un Jour. l'orientalista francese Francois Pétis de la Croix (Parigi 1653-1713) nel corso dei suoi viaggi in Oriente (a partire dal 1640) nell'anno 1674 da Baghdad si recò a Isfahan, residenza della dinastia Safawida, dove si trattenne allo scopo di studiare la lingua persiana. Come egli stesso racconta nella prefazione alla sua raccolta, ottenne da un amico, capo dell'Ordine dei Sufi del luogo, il derviscio Mokle, il manoscritto originale persiano. Si tratta molto probabilmente di testi di commedie di origine indiana del XVI secolo, che il derviscio Mokle possedeva in una stesura turca e ch'egli stesso aveva elaborato in racconti in prosa, a cui aveva dato il titolo di Hezàr-oyàk rùz (Mille e un giorno). La traduzione francese di Pétis de la Croix fu pubblicata nell'adattamento del poeta francese Alain-René Lesage (16681747) per la prima volta a Parigi nel 1710-12, e da allora venne ripetutamente ristampata (per esempio nella raccolta molto estesa di "racconti di fate" francesi e orientali del tardo XVII e XVIII secolo: Le Cabinet des fées), poi tradotta in diverse lingue. Poiché il manoscritto originale persiano è andato perduto, 177
Pétis de la Croix fu accusato (certo a torto) di invenzione o falsificazione, tanto più che la prima pubblicazione aveva luogo in un periodo in cui in Francia si pubblicavano innumerevoli racconti pseudo-orientali, che venivano contrabbandati come originali dell'Oriente. Senza tener conto del problema dell'autenticità della raccolta, i racconti di Pétis de la Croix vennero adeguati al gusto francese dell'epoca. La raccolta Mille e un Giorno costituisce, per così dire, il pendant a Mille e una Notte. Mentre il complesso dell'azione di Mille e una Notte tratta di un principe prevenuto contro le donne, il complesso dell'azione di Mille e un Giorno tratta di una principessa prevenuta contro gli uomini. Il racconto di Turandot acquistò importanza letteraria grazie alle elaborazioni drammatiche di Gozzi, Schiller, Brecht ecc. In Persia il rac conto di Turandot è provato da numerose versioni letterarie e scritti anonimi. La versione più antica della fiaba di Turandot si trova nell'epos romantico Ha/t Peikar (completato nel 1198); in tedesco, Die Sieben Bildnisse (I sette ritratti), del poeta persiano Nezami (1141-1209). I sette ritratti rappresentano sette principesse di cui si innamora il re sassanide Bahràm Gur (420438). La quarta principessa è la figlia di un re russo, una principessa di nome Turànducht (solo in versioni di epoche posteriori l'azione viene spostata in Cina). A differenza della versione di Pétis de la Croix, nell'opera di Nezami il gioco di domande e risposte consiste in mute prove di acume, e vi mancano completamente i veri indovinelli. Entrambe le versioni però contengono, per esempio, il motivo del ritratto, molto diffuso in Persia, di cui il giovane si innamora. La figura della principessa misteriosa va oltre il racconto di Turandot e prende forma in molte altre leggende popolari. Diffusissime a livello internazionale sono le fiabe in cui un pretendente può conquistare la figlia del re soltanto se sa sciogliere i suoi indovinelli oppure le propone lui stesso un indovinello, che lei a sua volta non sa risolvere. Questi tipi di prove imposte ai pretendenti sono nella maggior parte legate alla minaccia di morte in caso di fallimento. Nella fiaba dei Grimm "Das Ratsel" - Kinder-und Hausmarchen ("L'indovinello" 178
Fiabe infantili e familiari, n. 22), per esempio, c'è "una bellissima e superba principessa" che annuncia di essere disposta a prendere in sposo colui che le sottoporrà un indovinello al quale lei non saprà rispondere. Se però dovesse risolverlo, al pretendente verrà tagliata la testa. Il sogno del servo Fonte: Mann (1909), pagg. 105-109. La fiaba, relativamente lacunosa, raccontata da un vecchio contadino in un dialetto tajìk, venne raccolta nel 1907 a Shiraz, capitale della provincia Fars. La versione qui presentata è stata elaborata e in minima parte anche completata. Il motivo di fondo del complesso del racconto (una principessa muta o che ha perduto la parola ritrova la capacità di esprimersi) è un tema molto amato nei racconti popolari orientali, ma è diffuso, anche in Europa. Una versione letteraria della prima storia del servo si trova anche nel testo, un tempo assai diffuso Tuti-Nameb (in tedesco Papageienbuch), il libro dei pappagalli, dello scrittore persiano Nachshabì, degli inizi del XIV secolo, che si basa su fonti indiane. Nel racconto del Papageienbuch i protagonisti del racconto litigano non su un uomo di legno, ma su una fanciulla di legno (e così avviene anche nelle corrispondenti varianti della fiaba, sia orientali che europee). La seconda storia del servo rappresenta anch'essa un personaggio favolistico di diffusione internazionale. Una versione tedesca la offrono i fratelli Grimm nella fiaba "Die vier kunstreichen Bruder" - Kinder-und Hausmarcben ("I quattro fratelli artisti - Fiabe infantili e familiari, n. 129), in cui un gran ladrone, un astronomo, un cacciatore e un sarto si contendono la figlia del re, risvegliata dalla morte. Il principe serpente Fonte: Lorimer (1919), pagg. 25-32. MacMillan, Londra/ Basingstoke. Questa fiaba dello sposo-animale, presente in molte versioni persiane, appartiene al ciclo diffuso in tutto il mondo dei racconti di uomini-animali. Il motivo, noto in una 179
elaborazione letteraria già nei tempi antichi, lo si trova nel racconto di "Amore e Psiche" nelle Metamorfosi dello scrittore latino Apuleio (tl24 d.C.). La minaccia "brucio tuo padre" o il discorso del "padre bruciato" in altri testi si spiega con la concezione della resurrezione del corpo: un morto bruciato non può risorgere e quindi accedere al paradiso. Qui la maledizione del padre colpisce il buon nome di tutta la famiglia. 1 quaranta figli del re Fonte: Mann (1926), pagg. 174-177. Walter de Gruyter, Berlino/Lipsia. La fiaba, raccontata nel dialetto nàyini da un Seyyed (discendente del profeta Maometto), di nome Tàj ulattàbà, di Nàyin, fu riportata a Isfahan nel 1907. Contiene l'episodio, presente in molti racconti popolari, dell'eroe che scende in un pozzo per liberare delle vergini dalla violenza di un demone. Accanto a questo, si trovano nella fiaba agganci al motivo, popolarissimo in Oriente, della biblica storia di Giuseppe. D racconto del figlio prediletto Giacobbe e dei suoi fratelli fu ripreso nel Corano (12 Sura), là dove si dice che Giuseppe fu gettato in una cisterna dai suoi fratelli, mentre stava raccontando al padre di essere stato attaccato da un lupo. La città delle pietre Fonte: Boulvin (1975), pagg. 153-155. Institut d'Etudes Iraniennes, Parigi. La fiaba è stata raccontata negli anni Sessanta, nell'ambito delle radiotrasmissioni folcloristiche a Meshhed, la capitale della provincia nordorientale iraniana di Chorassan. Il dew è con i demoni di origine araba, fra gli spiriti soprannaturali più noti nella credenza popolare e ha nelle fiabe di magia della Persia il ruolo di spirito maligno. In origine i dew erano gli dei di tribù iraniane, che verso il 1000 a.C. si erano portate sull'altipiano. Soltanto grazie all'annuncio di Zarathustra di una religione monoteistica (dal 600 a.C. all'800 circa d.C.) i dew furono degradati a livello di demoni. Nella moderna letteratura persiana e nella tradizione popolare il dew (il feroce, spietato, 180
insaziabile) viene rappresentato come capace di magie, di trasformazioni, spirito maligno spesso divoratore di uomini, figura animalesca con lunga barba, con delle corna, che rapisce gli esseri umani (per lo più fanciulle) e li porta nelle sue dimore sotterranee. La festa in giardino Fonte: Massé (1925), pagg. 143-146. Société asiatique, ParigiIl narratore, Seyyed Faizullah Nadim-ul-mulk, è una delle personalità più note fra i grandi narratori persiani, ed è a lui che l'orientalista francese H. Massé deve la raccolta di cui sopra. Seyyed Faizullah abbandonò la casa patena a Meshhed all'età di 18 o 19 anni e si guadagnò da vivere in un primo tempo come indovino. Qualche tempo dopo intraprese lunghi viaggi attraverso tutta la Persia, durante i quali raccolse un gran numero di racconti, che venivano narrati dai viaggiatori e dai cammellieri nel caravanserragli. Il suo ricco repertorio tuttavia non si basa certo unicamente su una trasmissione orale del materiale, in particolare perché, essendo insegnante di lingua persiana e cliente assiduo del bazar, è da considerare un narratore specialmente "colto" sul piano letterario. Nei suoi racconti è trasmessa in modo speciale la sua profonda avversione contro tutte le superstizioni e in particolare contro la favolistica basata sulla magia. L'evidente rilievo ironico del motivo della fiaba magica che appare nel testo presentato, il modo del narratore di smascherare il mondo della fantasia come un mondo dell'ebbrezza, può essere visto come una sottile vendetta di questo autore, che dà la sua preferenza alle storie burlesche e di menzogna, nei confronti dello studioso, che premeva per avere in lui un narratore di una fiaba "autentica." Altrettanto incerto è anche se gli attributi di cui sono in gran parte fornite le figure degli spiriti corrispondono sempre alle immagini tramandate, o se non sono piuttosto da vedere come ingredienti ironici voluti dal narratore.
181
Il profeta Musa e il venditore d'acqua Fonte: Massé (1938), pagg. 466-469. G. P. Maisonneuve, Parigi. Nella traduzione francese si tratta di racconti popolari che M. Kouhi Kermani ha raccolto presso contadini e pastori soprattutto nella provincia dell'Iran meridionale di Kerman, e che sono stati pubblicati nel 1936 a Teheran sotto il titolo di Shehardeh efsaneh (Quattordicifiabe). Il racconto qui presentato è leggermente abbreviato rispetto all'originale persiano di Massé. Il profeta biblico Mosè (Musa in persiano) è considerato dal Corano come predecessore e modello di Maometto. Scià Abbas e la madre povera Fonte: Lorimer (1919), pagg. 321-323. MacMillan, Londra / Basingstoke. I racconti riguardanti lo scià Abbas (1587-1629), il sovrano più famoso della dinastia Sefawida, godono in Iran di una grandissima popolarità. Nella tradizione popolare, lo scià Abbas rappresenta il monarca giusto e generoso che, travestito da monaco, si mescola al suo popolo, aiuta i poveri e punisce i malvagi. L'anello
fatato
Fonte: Boulvin (1975), pagg. 115-118. Institut d'Etudes Iraniennes, Parigi. La fiaba fu raccolta negli anni Sessanta da studenti dell'Università di Meshhed e presentata in numerose versioni persiane. L'uomo calvo Fonte: Boulvin (1975), pagg. 94-96. Institut d'Etudes Iraniennes, Parigi. Anche questa fiaba, raccolta negli anni Sessanta da studenti dell'Università di Meshhed, offre la versione persiana del notissimo racconto delle "scarpe consumate ballando" che fan182
no parte come n. 122 delle Kinder- und Hausmarchen (Fiabe infantili e familiari) dei fratelli Grimm. L'indovino Fonte: Christensen (1918), pagg. 123-125. Kongelige Danske Videnskabernes Selskab, Copenhagen. In questa raccolta sono riunite fiabe (per lo più storielle burlesche), che A. Christensen fece dettare nel 1914 a Teheran da Seyyed Faizullah Nadim-ul-mulk, lo stesso narratore di cui alcuni anni più tardi H. Massé pubblicò una raccolta di fiabe e di storie burlesche (vedi nota a La festa in giardino). Il racconto, presente in diverse varianti persiane, è molto diffuso; la versione più nota di lingua tedesca è stata pubblicata dai fratelli Grimm sotto il titolo di Dottor Satutto, in Fiabe infantili e familiari, n. 98. L'apprendista
stregone
Fonte: Massé (1925), pagg. 147-151. Société asiatique, ParigiVedi nota a La festa in giardino. La terra dei matti Fonte: Lorimer (1919), pagg. 154-149. MacMillan, Londra / Basingstoke. I tre maestri di scuola Fonte: Massé (1938), pagg. 464-466. G. P. Maissonneuve, Parigi. Questa storia dal regno degli sciocchi, composta di tre brevi racconti, è particolarmente diffusa in Oriente, combinata con le più diverse e mutevoli azioni. Le tre storie sono note, sia in Oriente che in Europa, anche come storielle burlesche a sé stanti; così ad esempio le prime due della versione qui presentata si trovano anche nelle Mille e una Notte. Per meglio comprendere il racconto del primo maestro di scuola, vai la pena di 183
ricordare che nelle scuole persiane era abitudine battere le mani quando qualcuno starnutiva. La volpe in pellegrinaggio alla Mecca Fonte: Lorimer (1919), pagg. 118-123. MacMillan, Londra / Basingstoke. Il motivo della volpe che dà a intendere di intraprendere un pellegrinaggio alla Mecca, è noto in terra tedesca dall'epos degli animali Reineke Fucbs (ad esempio nella versione di Goethe, Canto 5 e 6: pellegrinaggio a Roma). Il motivo compare anche nella prima versione francese, concepita come satira contro il clero, Le Roman de Renart (del 1200 circa; pellegrinaggio in Terra Santa). Solimano (il re biblico Salomone) ha un ruolo particolare nelle leggende islamiche. Secondo gli storici arabi, è considerato, insieme ad Alessandro Magno, fra i grandi re credenti del mondo e vero ambasciatore di Allah, messaggero divino e immagine di Maometto. Le leggende gli attribuiscono forze sovrannaturali e profetiche. Salomone disponeva di un esercito di uomini, demoni e uccelli. Fu il primo a cui l'upupa portò la notizia sul regno di Saba e la sua regina (Corano 28 Sura, w. 17 ss.). Le tre donne e l'anello Fonte: Christensen (1918), pagg. 107-113. Kongelige Danske Videnskabernes Selskab, Copenaghen. Il racconto, noto in Oriente come pure in Europa (a partire dal XIII secolo), ricorre in parecchie versioni letterarie persiane, fra l'altro anche in versi. Il grande furfante di Shiraz Fonte: Phillott (1906), pagg. 385-388. La raccolta di Phillott riunisce cinque storielle facete del repertorio di un narratore persiano di professione: probabilmente si tratta dell'unica pubblicazione di questo genere. I narratori di fiabe di professione, per lo più dervisci, fino ai primi anni del 184
nostro secolo andavano raccontando nei luoghi pubblici e in case da tè (frequentate da soli uomini! ) le loro storie. Spesso, come i cantastorie, indicavano con una bacchetta diverse immagini, che rappresentavano i luoghi o i personaggi dei loro racconti. La straordinaria arte della narrazione e il talento teatrale di questi narratori di mestiere è già testimoniato nel 1815 dall'inglese John Malcolm nella sua History of Persia (Storia della Persia). L'arguzia della storiella qui presentata poggia su due pregiudizi: in uno gli abitanti di Shiraz sono convinti della stupidità di quelli di Isfahan (da notare: il narratore è lui stesso di Shiraz); nel secondo le donne sono in generale considerate più stupide degli uomini. La punizione del marito, alla fine della storia, si presenta notevolmente più crudele di quanto previsto dal Corano (24. Sura, v. 4): «Coloro che calunniano donne oneste e non portano quattro testimoni di quanto affermano, costoro sferzateli cc i ottanta colpi di frusta e non prendeteli mai più a testimoni, perché sono empi e peccatori». Ovviamente ciò che il narratore era in grado di aggiungere alla storia grazie alla mimica e al gesto, sfugge alla versione scritta; tuttavia nel testo filtra un esempio del linguaggio gestuale persiano: il gesto di grattarsi perché qualcuno resti in silenzio, corrisponde al gesto, comune fra noi, di mettere il dito davanti alla bocca. La figlia del sarto e il figlio del ricco mercante Fonte: Massé (1938), pagg. 486-489. G. P. Maisonneuve, Parigi. Il racconto rivela nella prima parte una lacuna. Dal senso della storia si può concludere che il figlio del mercante deve essersi presentato tre volte, una dopo l'altra, al sarto; nel testo scritto però si parla solo della terza visita del giovane. Probabilmente il narratore ha dimenticato questo passaggio. L'episodio, in cui la giovane donna va a prendere un mazzo di fiori gialli, è stato riassunto dal traduttore francese.
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Il principe Esma'il e Arab-Zengi Fonte: Massé (1938), pagg. 469-476. G. P. Maisonneuve, Parigi.
La curatrice di questa raccolta ringrazia tutti gli Editori e le Istituzioni per il cortese permesso di stampare i loro testi.
Fiabe siriane
A mia figlia Salima e ai miei nipoti
Grazie. A chi un giorno ha sognato con me questo libro. Ai miei gentili e generosi narratori. Al prof. I.M. Ceccherelli, Juan Jiménez, Mohammad Roumi, Mali Sayouni, Hassan Sino. Al prof. Gabriel Saade e a tutti gli altri amici che mi hanno incoraggiata e sostenuta. Una speciale gratitudine va a Milagros de la Fuente, amica preziosa nella vita e paziente collaboratrice. Ai miei cari. Ai miei lettori offro queste fiabe, che ho raccontato come le ho ascoltate, come le ho sognate, perché le sognino e le arricchiscano di nuovo mistero.
Abu al Hsein 1
C era una volta una volpe sempre affamata. Un giorno, trovò la pagina di un libro e la lesse. Vi era scritto: "Dio nutre chi giace, chi siede, chi sta ritto". Tutta contenta, si sdraiò ad attendere il cibo, ma non accadde nulla. Si sedette, e il risultato fu identico. Si mise in piedi, ma restò digiuna. «Vado alla Mecca»2 decise infine. Passando davanti a un accampamento di nomadi, vide una donna che stendeva il bucato. Le rubò un telo bianco e lo indossò come se fosse un mantello. Con un ramo secco, si fece un bastone. Una gallina che stava nei paraggi pensò: "Questa volpe sembra uno sheikh!"3 e le chiese: «O sheikh, dove sei diretto?» «Alla Mecca.» «Mi prenderesti con te?» «Va bene.» Verso il tramonto, incontrarono un gallo. "Che stranezza! Una gallina in compagnia di una volpe!" si meravigliò. «Dove andate?» chiese. «Alla Mecca» rispose la gallina. «Viaggi con la volpe! Sei forse matta?» le sussurrò il gallo. «Non preoccuparti, è un pentito» lo tranquillizzò. «Se è così, verrò con voi. Mi portate?» 191
«Certo!» disse la gallina. «Andiamo!» acconsentì la volpe. E ripresero il viaggio. Una pernice, che volava da quelle parti, scorse la brigata, scese a terra, e domandò: «Dove andate?» «Alla Mecca.» «Mi portate con voi?» «Vieni» le risposero in coro. I quattro pellegrini camminarono finché raggiunsero un luogo dove sorgeva una grotta. Ormai era quasi buio, e la volpe propose: «Che ne direste di dormire qua dentro? Io veglierà per proteggervi». Però la volpe aveva tanta fame! Guardando la gallina, vide un pasto succulento, e la tentazione le suggerì di mangiarla. «Cari» disse ai suoi seguaci «poiché avete deciso di fare il pellegrinaggio, bisogna che confessiate i vostri peccati.» «Io non ho mai commesso peccati» affermò la gallina. «Che cosa? Bugiarda!» «Io non dico bugie.» «E io dico che hai peccato.» «Quando? Come?» «Tutte le volte che hai fatto un uovo. Con i tuoi assordanti coccodè disturbavi il villaggio, e facevi versare lacrime al figlioletto del vicino povero.» «Perché?» «Il bambino piangeva e strillava: "Voglio mangiare l'uovo!". La madre si innervosiva e lo picchiava. Meriti di morire» sentenziò. La prese e la divorò. Trascorsa mezz'ora, vedendo il gallo bello grasso, le tornò un'irresistibile voglia di mangiare. «Ehi tu, furbo» lo apostrofò. «Riconosci le tue malefatte.» 192
«Non ne ho da confessare. Mi alzo presto e compio il mio dovere: canto per svegliare la gente» protestò il gallo. «E fai peccato.» «Come?!» «Cominci a cantare due o tre ore prima che spunti il sole, e i tuoi chicchirichì svegliano le mogli dei lavoratori. «"Alzati e vai a lavorare" dicono ai mariti, dandogli spintoni e pizzicotti. «"È ancora presto!" protestano loro. «"No. Perché il gallo ha cantato." E i poveretti sono costretti a uscire al buio. «Qualcuno pensa: "Quando torno a casa, bastonerò a sangue quella disgraziata" ed è colpa tua. » Lo acchiappò e lo divorò. Anche la pernice era invitante, e la volpe, che già pregustava il bocconcino, l'afferrò e le chiese: «Che peccati hai commesso, tu?». «Tutti» rispose l'interpellata. «Che cosa?» «Tutti i peccati che esistono. Però ascolta, ti prego. Mio padre, un giorno, mi disse: "Se dovessi incontrare qualcuno che vuole mangiarti, pregalo di leggerti prima la Fatiha 4 per la salvezza della tua anima". La volpe acconsentì, e la pernice volò via. Allora, Abu al-Hsein si mise a imprecare contro la propria stupidità: «Maledetto il padre di quell'uccellaccio, e anch'io, che ho letto la Fatiha per la sua anima, prima di averlo mangiato». Morale della favola: Non sempre la scaltrezza è indice di intelligenza. Spesso il furbo vince per la debolezza o stupidità altrui.
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NOTE 1 Il furbo. Soprannome siriano della volpe. Luogo santo dell'Islam, dove ogni credente dovrebbe recarsi in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. 3 Parola araba, che letteralmente significa vecchio, passata a definire un capo religioso o secolare, ma anche un predicatore. 4 È la prima sura coranica, "La aprente il libro". Un inno in onore a Dio, il "Padre nostro" musulmano. Per recitarla si tengono le mani davanti al volto con i palmi rivolti verso l'alto: Nel nome di Dio, misericordioso e compassionevole. La lode spetta a Dio, il Signore dei mondi, Il misericordioso, il compassionevole, Il padrone del giorno del Giudizio. Te noi serviamo e te invochiamo in aiuto. Guidaci per il retto sentiero, Il sentiero di coloro che tu hai favorito, Contro i quali tu non sei adirato e che non vanno errati. 2
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La forza e la scaltrezza
C'era una volta, moltissimo tempo fa, un leone che, mentre passeggiava nel deserto, vide un gatto correre a gambe levate. «Perché vai tanto in fretta?» gli gridò. «Ho visto un uomo!» Dopo un po', gli passò vicino un caprone spaventato, che correva più veloce del lampo. «Perché fuggi?» gli chiese. «Scappo dall'uomo!» rispose il caprone, dileguandosi. Poi, incontrò un cavallo che galoppava impetuosamente, una iena che sembrava la portasse via un tornado, e anche un elefante, un cammello e uno sciacallo. Tutti erano terrorizzati. «Per Dio!» gli dicevano «sfuggiamo all'uomo.» Il leone, che l'uomo non l'aveva mai incontrato, pensò: "Come sarà quest'animale? Sono proprio curioso di conoscerlo". Intanto, dopo aver attraversato tutto il deserto, era penetrato nel bosco e aveva incontrato uno smilzo taglialegna che, insieme a suo figlio, raccoglieva la resina dagli alberi. Quegli strani esseri gli erano sconosciuti! «Siete per caso uomini?» volle sapere. «Sì» risposero i due, tremando per lo spavento. Li 195
squadrò con aria perplessa: avevano un aspetto talmente miserando! «Ditemi: il gatto, la iena e tutti gli altri scappavano da voi?» chiese. «Certo.» Li osservò meglio, e fu ancora più incredulo. Non riuscendo a comprendere come delle creature simili potessero spaventare più di lui, decise di metterle alla prova. «Dobbiamo combattere per stabilire chi tra noi è il più forte» propose al boscaiolo. «Ora non posso. Ho lasciato la mia forza a casa» disse lui. «Vai a prenderla e torna. Ti aspetterò.» «Ehi! Non è che tu, nel frattempo, vai via, e io mi faccio una scarpinata per nulla?» «Ti prometto che mi troverai qui.» «Non mi fido. Andrò, ma a una condizione. Devi farti legare.» «Ci sto» acconsentì il leone. Allora, l'uomo ordinò a suo figlio: «Accendi il fuoco e riscalda la resina» e si mise a legare il leone all'albero, dalla testa ai piedi, con una grossa fune che gli serviva per i tronchi; poi gli rovesciò addosso la resina bollente. L'animale ruggì, chiamando in suo aiuto gli altri leoni, che si precipitarono, lo liberarono, e tutti insieme si misero a rincorrere il taglialegna e suo figlio. «Padre, i leoni si avvicinano!» gridò il bambino. «Corri, corri!» lo incitò il genitore. Correvano a perdifiato ma non riuscivano a distanziare gli inseguitori. Cosicché decisero di rifugiarsi su un albero. Il leone disse ai suoi: «Fratelli, salite sul mio dorso». Si misero tutti incolonnati, uno sopra l'altro, e stavano per raggiungere i due poveretti. «Arrivano!» urlò il figlio. 196
«Stai tranquillo, e passami la resina» gli disse suo padre. E non aveva finito di parlare che il grosso felino, alla parola "resina", se la diede a gambe, facendo crollare la torre. «Perché sei fuggito?» chiesero gli altri leoni. «Che cosa posso raccontarvi?» rispose lui. «Chi non ha provato la resina, non può capire la storia.» Morale della favola: Nella lotta tra l'intelligenza e la forza bruta, è la prima che finisce per vincere.
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Il lupo, l'avvoltoio e il ghepardo
C'era una volta un lupo che viveva nel bosco, vicino alla riva di un fiume. Si nutriva di rane, di rettili e delle carogne di qualche vacca o agnello morti di malattia, che gli abitanti del vicino villaggio gettavano lontano dalle case, per non sentirne il cattivo odore. Un giorno, il cavallo del capo del villaggio morì. Mentre gli uomini trascinavano la bestia verso il bosco, li vide un avvoltoio. Attese che si allontanassero, poi si mise a strappare pezzi di carne e a divorarli. Proprio in quel momento, passava il lupo. Salutò l'avvoltoio, e gli chiese: «Che cos'è questo banchetto?» «Prego, mangia con me» invitò lui. Mangiarono fino a riempirsi la pancia, poi si presentarono, e decisero di diventare amici, scambiarsi visita e pranzare insieme altre volte. Un giorno, il lupo invitò l'avvoltoio e gli preparò la minestra. Lui mangiava voracemente, terminando in un batter d'occhio, mentre l'uccello, benché beccasse e beccasse, non riusciva a metterla in bocca; così si rese conto di essere stato turlupinato. Dopo qualche tempo, pensò di ricambiare l'invito a pranzo, e offrì al lupo cereali. Questa volta, fu il lupo che non riuscì a mangiare, mentre l'avvoltoio beccava beato. Quando terminò di mangiare, disse al lupo: «Voglio 198
offrirti una passeggiata, monta sul mio dorso». Il lupo salì, e cominciarono a volare. «Che cosa vedi?» chiese l'avvoltoio. «Niente» rispose il lupo, che era troppo spaventato per guardarsi intorno. All'improvviso, l'avvoltoio si capovolse, e il lupo cadde in mezzo a un gregge di pecore. Il pastore lo vide e fuggì, dimenticando la sua giacca di pelle. Il lupo la indossò. Mentre camminava verso casa, incontrò un ghepardo, che ammirò l'indumento e gli chiese: «Che giacca è questa?». «È lavoro delle mie mani.» «Di quante pecore hai avuto bisogno?» «Dieci.» «Me ne faresti una?» «Certo.» Il giorno seguente, il ghepardo gli portò dieci pecore. «Quando posso tornare a ritirarla?» gli chiese. «Fra un mese» disse il lupo. Ma invece di confezionare la giacca, mangiò le pecore una dopo l'altra, e anche le loro pelli. Dopo un mese il ghepardo tornò a prendersi la giacca. «La mia giacca è pronta?» chiese al lupo. «No. Sono rimasto senza filo, e ho bisogno di altre due pecore» rispose lui. Ma si mangiò pure quelle. Dopo una settimana, il ghepardo tornò. «La mia giacca è pronta?» chiese. «Non è bastato il filo, ho bisogno di un'altra pecora» rispose il lupo; e si mangiò anche quella. Dopo due giorni, il ghepardo venne di nuovo, e vide l'ingresso della tana sbarrato da una grande pietra. «Hai finito la mia giacca?» gridò al lupo, che era chiuso dentro. 199
«No. Sono molto malato. Concedimi ancora alcuni giorni.» Però ormai il ghepardo aveva capito di essere stato ingannato. «Va bene; starò qui fino a quando non guarirai» gli disse. Attese per un mese. Ma il lupo, per paura di essere divorato, non usciva. Poiché aveva molta fame, si mangiò pure la giacca del pastore. Anche quando non ebbe più nulla da mangiare, continuò a stare nella sua tana. E l'altro lo aspettava al varco. Alla fine, il lupo morì. Allora, il ghepardo andò via. Morale della favola: Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
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L'asino stupido e bugiardo
Molto tempo fa, un asino, un'oca, un anatroccolo, una colomba e una gallina vivevano insieme in armonia come una sola famiglia. Un giorno, decisero di seminare un campo di biada, per poter mangiare durante i freddi giorni d'inverno. Scelsero la terra adatta, seminarono, e, a turno, uno di essi andava a sorvegliare la crescita. Trascorse un mese, e il campo era diventato una verde prateria. «Ormai tocca a me, vigilare» disse l'asino. «Vai, ma che non ti venga in mente di mangiare la biada» lo avvertirono gli amici. «Non l'assaggerò neppure» promise. Ma, appena giunse al campo, vedendo quella biada invitante, pensò: "Succeda quel che deve succedere, io mangio". E mangiò fino a saziarsi. Quella sera, fingendo rincrescimento, disse agli amici: «Sapete che cos'è accaduto? Degli sconosciuti sono entrati nel campo, e hanno mangiato la biada.» Ma loro, non credendo alle sue parole, gli proposero: «Dobbiamo giurare per il gran pozzo: chi ha rubato, vi cada dentro». L'asino acconsentì. Per prima, avanzò l'oca, e giurò: «Se ho mangiato o rubato la biada, che cada dentro questo pozzo» e volò al lato opposto. Giurò poi l'anatroccolo: «Se ho mangiato o rubato, che cada dentro questo pozzo» e volò al lato opposto. 201
Toccò poi alla colomba: «Se ho mangiato o rubato, che cada dentro questo pozzo» e volò al lato opposto. E così fece la gallina. Anche l'asino giurò: «Se ho mangiato o rubato, che cada dentro questo pozzo» e non aveva finito di parlare, che ci cadde dentro. «Muori! Essere sleale e infedele, traditore dell'amicizia!» gridarono in coro gli altri animali. Allora, l'asino si mise a piangere e a pregare tra i singhiozzi: «Fatemi uscire, per favore!» «No, stai lì!» gli risposero; e se ne andarono lasciandolo nel pozzo. Più tardi, venne al pozzo una iena per dissetarsi; l'asino la vide, e le propose: «Se mi fai uscire, potrai mangiarmi.» La iena lo fece uscire e programmò il suo banchetto. «Prima, mangerò i tuoi occhi» gli disse. «E mi lascerai senza occhi?» esclamò l'asino. «Allora comincerò dalle orecchie» disse la iena. «E mi lascerai senza orecchie?» si lamentò l'asino. «Ti mangerò la bocca, sei contento?» «E mi lascerai senza bocca? Non ti vergogni?» «Insomma, cosa vuoi che ti mangi?» «La coda.» E la iena, che era accomodante, si mise dietro l'asino per mangiargli la coda. L'asino però le diede un calcio così forte, da farla cadere nel pozzo. «Fammi uscire, che non ti mangio» gridò la iena. «Stai nel pozzo» rispose l'asino, e tornò a cercare gli amici. Ma essi gli dissero: «Non vogliamo avere più nessun rapporto con te» e si allontanarono, lasciandolo solo e sconsolato. Morale della favola: Le bugie e la furbizia talvolta sembrano premiare; ma della malafede si finisce sempre per pagare il fio. 202
La capra e lo sciacallo
C'era una volta una capra che aveva tre figli. Ogni mattina andava al pascolo, e tornava la sera. I piccoli, in sua assenza, si chiudevano in casa; aprivano la porta solamente quando la sentivano dire: «Uno, due, tre, quattro, aprite. Con il latte in seno E l'erba tra le corna Vostra madre a casa ritorna.»
C'era anche uno sciacallo, che voleva mangiare i capretti. Un giorno, si mise in testa un paio di corna false e bussò alla loro porta. «Aprite. Sono vostra madre» disse. «Qual è la parola d'ordine?» chiesero i capretti. «Che parola e parola, aprite! Sono stanca.» I capretti non aprirono. Allora, lo sciacallo decise di scoprire la parola d'ordine. Attese il rientro della capra e, nascosto poco lontano, l'ascoltò. Quando, il mattino seguente, essa, come al solito, partì per il pascolo, lui bussò alla porta e recitò la filastrocca. Ma non convinse i capretti. «Tu non sei nostra madre. La voce non è sua» gli dissero. «Sì, sono vostra madre» insistette quel cattivo. «Allora facci toccare il pelo» chiesero i capretti. 203
Lo toccarono, e si accorsero che era troppo grosso e duro. «Vai via! Non sei nostra madre» gli gridarono; e lo sciacallo, sconfitto, dovette andarsene. Ma, il giorno seguente, prese dell'olio, si unse il pelo fino a renderlo morbido e setoso, e tentò di nuovo. «Uno, due, tre, quattro, aprite. Con il latte in seno E l'erba tra le corna Vostra madre a casa ritorna»
disse. «Vogliamo toccare il pelo» pretesero i capretti. E poiché, questa volta, esso era morbido come quello della madre, aprirono; lo sciacallo se li mangiò tutti quanti. Al suo rientro, la capra non trovò i figli. Immaginando l'accaduto, corse a casa dello sciacallo. «Esci subito» gli disse. «Chi sei?» chiese lo sciacallo. «Sono la capra dalle corna d'oro. Se hai mangiato i miei capretti, seguimi in campagna» lo sfidò la capra. «Sì, li ho mangiati, e ti seguo» rispose lo sciacallo. La capra e lo sciacallo andarono in una radura, e lì si affrontarono con le corna. Quelle dello sciacallo, che erano false, si ruppero subito. Allora la capra gli aprì la pancia con una cornata, e ne uscirono i figli, sani. Lei li abbracciò, se li riportò a casa, e disse loro: «In futuro non aprite la porta a nessuno». Favola che si racconta ai bambini perché non aprano la porta agli estranei.
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La famiglia del taglialegna e la ghula
Molto tempo fa, c'era un povero taglialegna. Al mattino, andava nel bosco, e tornava di notte, con la legna da vendere per procurare il cibo alla famiglia. Un giorno, incontrò una bellissima fanciulla. «Chi sei?» le chiese. «Sono tua sorella. Vieni con la famiglia ad abitare da me. Potresti smettere questo duro mestiere, e vivere tra gli agi.» L'uomo le credette, e corse ad annunciare la bella notizia a sua moglie. «Andiamo a vivere da mia sorella, che ci invita a casa sua. Saremo ricchi» le disse. Riunirono subito le loro misere cose e raggiunsero la fanciulla. Lei, che in realtà era una ghula,1 prese in spalla il figlio più piccolo e si mise a pizzicarlo per sapere se era grasso. Il bambino pianse per il dolore. «Perché piangi, caro?» gli chiese, con falsa premura. «Mi fai male» le rispose. Di sera, arrivarono a una bella casa, e la ghula li condusse al piano superiore. «Voi vivrete qui. Io, invece, starò giù. Ma vi avverto: non dovete entrare mai nelle mie stanze!» li ammonì. Però, il giorno dopo, la moglie del taglialegna, che 205
voleva esprimere la sua gratitudine alla cognata per quella generosità, le preparò un buon pranzo e glielo fece portare dalla figlia. La bambina entrò senza bussare e, vedendo sua zia che mangiava una ragazza vestita con l'abito da sposa, cadde a terra svenuta per lo spavento! L'aveva rapita nel vicino villaggio, mentre si celebravano le nozze. La ghula le asperse il viso con l'acqua, aspettò che rinvenisse, e le chiese, minacciosa: «Che cosa hai visto?» «Non ho visto niente» rispose la piccola, mentendo per paura. Allora, il mostro la riportò dalla madre e finse di allontanarsi. Ma in realtà, si era nascosta dietro la porta. Voleva sentire se parlavano di lei. Non dissero niente, e si allontanò, tranquillizzata. Due giorni dopo, però, la bambina disse ai genitori che la zia aveva mangiato una sposa. Così, essi conobbero la verità sulla ragazza che affermava di essere loro parente: era una ghula, e mangiava carne umana! Il mattino seguente, le chiesero: «Dove possiamo lavarci?» «Nel ruscello. Andate, lavatevi, e fate presto» rispose; e tra sé aveva già deciso che, quella stessa notte, li avrebbe mangiati. «Non preoccuparti, se tardiamo. Vogliamo fare un bel bagno. E ti avviseremo, prima di rientrare. Metteremo un barile sopra un albero, vicino a un ramo che, mosso dal vento, lo colpirà. Finché sentirai il rumore del ramo che batte sul ferro, vorrà dire che ci laviamo. Quando cesserà, saprai che stiamo tornando a casa» disse il boscaiolo. Andarono al ruscello, misero il barile vicino al ra206
mo che, mosso dal vento, lo colpiva, ma non si lavarono. Fuggirono. Intanto, la ghula attendeva. Giunse la notte, e sentiva sempre il rumore. Alla fine si insospettì, decise di uscire a cercarli, e non li trovò. In quel momento, passava una carovana di cammelli che trasportavano olio in otri di pelle di capra. «Mi porteresti, dentro un otre, al villaggio vicino? Alcune persone che ospitavo sono fuggite dopo avermi derubato, e io voglio recuperare i miei averi» chiese al capo cammelliere, allettandolo con un ricco compenso. Lui acconsentì, e quando giunse alla casa del taglialegna, gli affidò l'otre, dicendogli che conteneva olio. Ogni tanto, durante la notte, la ghula borbottava tra sé: «Dormiranno, o saranno svegli? Appena dormono stritolo le loro ossa e me li mangio». La bambina sentì queste parole e disse al padre: «Dentro l'otre c'è la ghula». Il taglialegna prese della nafta, ne cosparse ben bene l'otre e lo fece bruciare. La ghula morì, ed essi tornarono alla sua casa. Da quel giorno, vissero ricchi e contenti.
NOTE 1 Ghul: essere favoloso, che nell'Arabia preislamica si credeva abitasse nel deserto. Aveva la capacità di metamorfosarsi, e attaccava i viandanti per divorarli. Manteneva però, sempre immutati, i piedi a zoccolo d'asino. Questa credenza è ripresa dal folclore dei paesi islamici. La femmina, oltre che ghula, può chiamarsi si'lat, e sarebbe una strega con la quale gli uomini possono avere rapporti sessuali fecondi.
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Le tre filatrici e lo schiavo nero
C'erano una volta, tanto tempo fa, tre sorelle che facevano le filatrici, e abitavano in una casa vicino al bosco. Ogni giorno, una di loro portava la lana filata al mercato del villaggio e con il guadagno comprava da mangiare. Una volta, la sorella minore non riuscì a vendere la lana. Inutilmente, gridò tutta la mattina: «Lana, lana, chi vuole comprare la mia lana?». Nessuno rispose. Stava già per rinunciare, quando vide un uomo che vendeva un giovane schiavo nero. Si avvicinò e gli propose: «Prendi la lana, e dammi lo schiavo». L'uomo accettò, fecero il baratto, e la ragazza tornò a casa, contenta. Invece le sorelle, che aspettavano il suo ritorno per preparare la cena, si arrabbiarono con lei. «Perché non hai portato da mangiare? Di costui che ne facciamo?» «Non sono riuscita a vendere la lana, e ho pensato che questo bambino potrebbe esserci utile. Chissà che non ci porti fortuna» disse. Quella sera, intanto, andarono a letto digiune. Quando era già notte fonda, e le sorelle dormivano, lo schiavo si alzò, si affacciò alla finestra, e notò una luce che brillava in lontananza. Incuriosito, decise di andare a vedere che cosa fosse. Era una casa. Entrò e trovò tre bambini seduti intorno al focolare, dove, in una grande pentola, cuoceva un agnello. Lo 208
prese, mise i bambini al suo posto, e tornò a casa con l'agnello. Le sorelle, molto contente, mangiarono a sazietà. «Avete visto com'è utile?» disse la più giovane. Nel frattempo, in quella casa aveva fatto ritorno la padrona, che era una ghula. Cercò i suoi figli e li trovò nella pentola, che cuocevano al posto dell'agnello. Infuriata, decise di mettersi a cercare il colpevole per divorarlo. Si trasformò in una donna vecchia, comprò dei dolci e andò da un villaggio all'altro, offrendoli ai bambini e chiedendo: «Che cosa avete mangiato ieri a cena?». Soltanto verso sera incontrò il piccolo schiavo nero, e anche a lui chiese: «Che cosa hai mangiato ieri?» «Povera vecchia, non sai cosa ho mangiato con le mie padrone? Agnello ripieno» le rispose. «Dimmi, dov'è la vostra casa?» Lui gliela indicò, ma aveva capito chi era e, quando la ghula, quella stessa notte, andò a casa delle tre sorelle per mangiarlo, non lo trovò perché si era nascosto. Lo rivide il giorno dopo, mentre giocava con i bambini del villaggio. «Dove hai dormito?» gli chiese. «Avvolto in una stuoia.» Anche quella notte tornò, lo cercò, ma non riuscì a trovarlo. Il mattino seguente lo cercò e gli chiese: «Dove hai dormito?» «Dietro la porta.» Tornò a cercarlo per la terza volta, ma non lo trovò. Quando fu stanca di cercarlo, si mise a sedere sopra una grande pentola e, proprio in quel momento, sentì un rumore: era il bambino nascosto dentro che, per lo spavento, aveva scoreggiato. La ghula scoperchiò la pentola e lo vide. 209
«Sei tu!» esclamò contenta, afferrandolo per mangiarlo. «Che vuoi mangiare? Non vedi che sono sporco e senza carne?» disse lui. «Secondo te, cosa dovrei fare?» «Portarmi un pollo ripieno al giorno, fino a che non ingrasso.» Lei acconsentì. Ogni giorno portava il pollo e gli chiedeva: «Sei grasso?» «No» rispondeva; e intanto mangiava i polli con le sue padrone; e insieme scavavano un fosso. Quando questo fu abbastanza profondo, lo ricoprirono di paglia fine. Venne la ghula, e chiese al bambino: «Sei ingrassato o no?» «Adesso sono molto grasso; puoi entrare a mangiarmi» rispose. «Apri la porta» gli ordinò. L'aprirono. Appena vide la porta aperta, la ghula corse per acchiappare il bambino, e cadde nella trappola. Allora, le tre sorelle cominciarono a ricoprirla di terra. Invano gridava: «Fatemi uscire, non vi succederà niente». Non l'ascoltarono neppure; la sotterrarono e attesero che morisse. Poi andarono alla sua casa. Vi trovarono tutte le ricchezze che uno può desiderare. Le portarono via e vissero felici e contenti.
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La vendetta
C'era una volta un contadino che aveva due figlie. La maggiore sposò un giovane di un altro villaggio e andò a vivere con il marito. Quando le nacque un bimbo, la figlia minore, che si chiamava Shenyyie, chiese ai genitori il permesso di visitarla. Lo ottenne; preparò dei dolci e andò a conoscere il nipotino. Le due ragazze trascorsero insieme la giornata ma, quando tramontò il sole, la sorella maggiore disse a Shenyyie: «Vattene a casa.» La poveretta però aveva paura di rientrare sola al buio. «Fammi dormire da te» chiese alla sorella. «Non ho posto per farti dormire» rispose lei. «Dormirò nel tuo letto.» «Ci dorme mio marito.» «Dormirò sotto il letto.» «No. Sentiresti la nostra conversazione.» Così Shenyyie, triste, delusa e spaventata, andò via. Si trovava ancora a metà strada, quando sopraggiunse la notte, e non c'erano né le stelle né la luna a rischiarare il cielo. Tutto intorno a lei era nero e minaccioso. Allora la fanciulla, che aveva troppa paura di essere mangiata dai mostri, decise di salire su un albero ad aspettare la luce dell'alba. Mentre attendeva, passò un ghul e la scoprì. 211
«Scendi che ti mangio» le disse. «Scenderò, se mi permetterai di chiamare tre volte mio padre» rispose Shenyyie. «D'accordo» acconsentì il ghul. «Padre, padre, aiutami! Sono tua figlia Shenyyie, che la sorella cacciò via nel mezzo della notte!» gridò. La madre udì il suo lamento e disse al marito: «Shenyyie chiede aiuto.» «Non è possibile. Di sicuro dorme dalla sorella. Ti sei sbagliata» rispose lui. Shenyyie gridò per la seconda volta, e la madre sentì. «Sono certa che Shenyyie è in pericolo» insistette. «Non può essere» asserì l'uomo. Avvenne così anche la terza volta. Shenyyie chiese aiuto, inutilmente. «Ora scendi» le ingiunse il ghul, ormai spazientito. Ma poiché la fanciulla non ubbidiva, lui scosse con forza l'albero, facendola cadere a terra, e la divorò. La mattina seguente, la madre si recò a casa dell'altra figlia. «Dov'è Shenyyie?» le chiese. «È partita ieri sera» rispose la figlia. «Vai al fiume e fai il bucato, io riassetterò la casa, preparerò il pranzo e baderò al tuo bambino» disse allora la donna, nascondendo la sua pena. E quando sua figlia uscì, fece le pulizie, sgozzò il neonato e lo cucinò. Poi chiuse la porta e se ne andò. Quella sera, la giovane fu lieta di trovare il pranzo pronto. Si mise a mangiare, e non sapeva che quel cibo era carne di suo figlio. Ma, a un tratto, scorse i testicoli e capì che la madre glielo aveva ucciso. Corse subito da lei, gridandole: «Perché hai fatto questo?» 212
«Quello che facesti al mio cuore con mia figlia, l'ho reso al tuo cuore con tuo figlio» le rispose sua madre. I racconti che presentano inquietanti episodi di antropofagia sono numerosi nella regione costiera. La narrazione è drammaticamente scarna. L'elemento scatenante la cruda vicenda è il più delle volte un atroce dolore che si tramuta in gelido e brutale odio, dal quale scaturisce l'idea di una implacabile vendetta.
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Il liocorno 1
Nei tempi antichi, Latakia2 era circondata da grosse mura. Al calar della sera, le porte di accesso alla città venivano sbarrate, e nessuno più poteva entrarvi fino all'alba. Anche le sue vie diventavano deserte, poiché il re aveva proibito agli abitanti di andare in giro dopo il tramonto del sole. Questa era la legge e, per farla osservare, veniva liberato un liocorno, che si aggirava nelle strade, nelle piazze, nei vicoli. Tutti temevano quell'animale, e restavano chiusi nelle loro case. In città, c'era una donna che viveva con la figlia di sei anni. Un giorno la bambina si ammalò e dovette affidarla a dei conoscenti. «Tornerò prima di sera» le disse. Ma non venne, e la piccola si mise a piangere, sconfortata. Invano cercavano di calmarla in mille maniere. «Voglio la mia mamma. Voglio tornare a casa» ripeteva senza sosta; e con la sua lagna incessante irritò tanto i suoi ospiti, che essi finalmente, senza più badarle, le dissero: «Vattene pure, se è questo che desideri!». La bimba uscì nella città deserta. Ma appena fu nella strada, ebbe paura. Tremante, scrutava nell'oscurità, cercando di cogliere i segni del pericolo. E allora, accadde un fatto straordinario: senza che l'avesse visto giungere, il liocorno le si parò davanti all'improvviso. La guardò come per rassicurarla e, piegando le zampe anteriori, le fece intendere, con 214
un segno del capo, di montargli in groppa. Lei non aveva più paura e, mentre attraversava la città al galoppo, sul dorso di quell'animale fantastico, le sembrava di volare dentro un sogno. Intanto, anche la madre aveva sentito un'irresistibile nostalgia. "Devo andare subito da mia figlia" pensava, in preda all'ansia. E decise di uscire a riprendersela, nonostante fosse sopraggiunta la notte. Ma appena aprì l'uscio, vide la bambina, che arrivava in groppa al liocorno! Esso si inginocchiò per farla scendere, la salutò con un cenno del capo, e scomparve.
NOTE 1 II liocorno, animale favoloso che in numerose mitologie combatte le forze oscure e rappresenta le virtù regali, era anche considerato simbolo della verginità fisica; sembra si lasciasse ammansire solo da una vergine. 2 II più importante porto siriano. Fondata da Seleuco Nicatore, è l'antica Laodicea al Mare, fiorente città durante l'epoca romana.
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L'uccello verde 1
Molto tempo fa, un uomo viveva felice con la sua famiglia; a un certo punto sua moglie morì e lui si risposò. Un giorno, disse alla nuova moglie: «Oggi desidero mangiare carne; vedi di trovarne». Lei voleva accontentarlo, e andò subito dal macellaio, che non ne aveva, ma le suggerì: «Ammazza suo figlio, e cucinaglielo». La disgraziata accettò il consiglio, tornò a casa, sgozzò il bambino, lo cucinò, e lo servì, come cena, al marito. Lui, mentre mangiava, scorse nel piatto qualcosa che lo turbò: un pezzo della carne assomigliava a una piccola mano! Assalito dal dubbio, chiese alla moglie, rivolgendole uno sguardo perplesso: «Dov'è il bambino?». «Da un compagno» gli rispose, irritata; e l'uomo finì il suo pasto. Più tardi, la sorellina del morto, che sapeva tutto, ma per paura non osava parlare, raccolse le ossa e le seppellì in un prato. Da esse, alcuni giorni dopo, nacque un uccello con le piume verdi che, volando, andò a posarsi sulla bancarella di un venditore ambulante. Lì cantò questa canzone: Sono l'uccello verde Quando cammino mi pavoneggio. La mia matrigna mi sgozzò Mio padre mi mangiò Mia sorella pietosa Le mie ossa riunì E in un verde prato le seppellì.2 216
Il venditore gli disse: «Se canti ancora, ti regalerò degli aghi». L'uccello cantò, ebbe la ricompensa, e volò alla bottega di un gioielliere. Anche lì gorgheggiò la canzone, e l'orefice disse: «Se la ripeti, ti donerò gioie preziose». L'uccello verde narrò la sua storia ancora una volta, prese i gioielli e volò via. Si posò, infine, sulla finestra della casa in cui aveva vissuto quando era bambino: cantò, e il canto ammaliò la matrigna, che gli chiese di cantare ancora. Esso le rispose: «Il mio canto sentirai, se prima la bocca aprirai». Lei aprì la bocca, e dal becco dell'uccello uscì un ago che la uccise. Venne il padre. Anche lui udì il canto, anche lui morì. Venne la sorellina. Sentì il canto, e lo amò. «Canta ancora» pregò. Esso le offrì i gioielli e il canto: Sono l'uccello verde Quando cammino mi pavoneggio. La mia matrigna mi sgozzò Mio padre mi mangiò Mia sorella pietosa Le mie ossa riunì E in un verde prato le seppellì.
Poi volò, fino a perdersi nell'infinito.3
NOTE 1
Secondo una credenza islamica, che risale all'epoca del profeta Maometto, talvolta le anime dei bambini risiedevano, in attesa del giudizio universale, in un giardino alle porte del Paradiso, incarnate in uccelli bianchi o verdi. Questa credenza diede origine a numerose leggende. 2 «Mia madre, la donnaccia / Mi uccise / Mio padre, il furfante / Mi mangiò / Mia sorellina mi gettò nell'acqua / Ed io là diventai un bello uccello / Volo! Volo! Volo!» Goethe: Faust (Notte di sabba) Traduzio217
ne G. de Nerval (L. Garnier ed., Parigi 1937) pag. 367; è una variante del testo, pag. 180. 3 In Omero si trovano reminiscenze di un'antica credenza popolare secondo la quale l'anima dei defunti assumeva le sembianze di un uccello (cfr. Iliade, XXIII, 100; Odissea, XXIV, 16). Secondo la leggenda, erano uccelli le anime che volavano sopra il sepolcro di Meninone. Anche nell'antica Mesopotamia si raffiguravano i morti sotto forma di uccelli. Il racconto richiama inoltre un episodio delle Metamorfosi di Ovidio (quello di Progne e Filomena trasformate in uccelli): vi si narra di un banchetto durante il quale a un padre viene offerto il corpo cucinato del figlio. Una vicenda in cui il terrore tragico e le crudeli sofferenze sembrano essere i passaggi inevitabili per ritrovare l'innocenza originale. Questo tema appartiene anche alla tradizione orale nordica.
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L'uccello magico
C'era una volta, nei tempi antichi, un povero boscaiolo che, a stento, riusciva a nutrire la famiglia. Egli aveva tre figli: due maschi e una femmina. Una volta, mentre raccoglieva legna nella foresta, scorse un nido tra i rami di un albero. Dentro c'era un bellissimo uovo lucente! Lo prese e lo portò dal bottegaio del villaggio. «Potresti darmi qualcosa da mangiare per i miei figli, al posto di questo?» gli chiese. Il venditore, accorgendosi che l'uovo era di diamante, offrì in cambio moltissime cose. Da allora, il boscaiolo trovò, ogni giorno, un uovo nel nido. Ma una mattina sua moglie gli disse: «Acchiappa l'uccello e portalo a casa, eviterai la fatica di alzarti all'alba per recarti nella foresta». Egli l'ascoltò; costruì una bella gabbia, prese l'uccello, ve lo mise dentro, e continuò a barattare le sue uova con il bottegaio. Quando il boscaiolo morì, venne la gente per le condoglianze, e un uomo esperto in magia, vedendo l'uccello, si accorse che era magico: chi mangiava il suo cuore avrebbe trovato, ogni mattina al risveglio, cinquecento monete, e sarebbe diventato visir; chi, invece, mangiava la testa, sarebbe diventato re. Poiché voleva diventare re e visir sposò la vedova. Una volta, si finse ammalato e le disse: 219
«Sto male. Per guarire devo mangiare la testa e il cuore dell'uccello.» «Non puoi, è la nostra fortuna. Cercane un altro.» «Soltanto questo può salvarmi. Vorresti lasciarmi morire?» Insomma riuscì a convincerla, e a farglielo ammazzare e cucinare per cena. Mentre la donna era assente, però, tornarono a casa i figli affamati e lo mangiarono. Appena lo seppe, suo marito impazzì dalla rabbia. «Devi ucciderli, e togliergli ciò che hanno mangiato» le ordinò. Ma la bambina lo sentì e andò subito a raccontare tutto ai fratelli. Essi si spaventarono e decisero di fuggire subito. Corsero a perdifiato per molte ore. Soltanto quando calò la notte si fermarono a riposare. Il giorno seguente, svegliandosi, uno dei fratelli si accorse che la sorellina stava molto male; vide anche un mucchio di monete accanto al suo giaciglio! Ne prese un po', svegliò il fratello, e gli disse: «Tieni questi soldi, e vai a cercare aiuto per nostra sorella.» «Vado subito» rispose lui. Ma si era appena allontanato, che la bambina morì. Dopo molto tempo, giunse in una città dove era appena morto il re, e si doveva eleggere il successore. In quel regno, per eleggere il re, liberavano in volo un uccello, che indicava il prescelto posandosi sopra la sua testa.1 La cerimonia iniziava proprio in quel momento. Fu liberato un uccello che, dopo aver sorvolato la piazza, finì per posarsi sopra la testa del figlio del boscaiolo, che osservava incuriosito, e si era già dimenticato della sorella. «Come potrebbe governarci costui?» esclamarono i presenti, che decisero di far volare nuovamente l'uccello. 220
Ma esso, ancora per tre volte, si posò sulla testa del ragazzino. Allora lo proclamarono re. Anche il fratello peregrinò da un posto all'altro, finché giunse in quel regno. Grazie ai soldi che trovava accanto a sé ogni mattino al risveglio, era diventato ricchissimo; la sua fama giunse fino al re, che lo convocò a corte, lo riconobbe, e lo nominò visir.
NOTE 1 Usanza che si perde nella leggenda ed è ripresa dai racconti magico-avventurosi.
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La figlia del pescatore
C'era una volta un pescatore che ogni mattina si recava al mare. Un giorno di quei giorni, prese un bellissimo pesce, lo portò a casa, e la figlia gli consigliò: «Regalalo al re, sicuramente ti darà un premio.» Infatti, il re fu tanto contento e lo ricompensò con molto denaro. Quando il visir vide quel pesce, disse al re: «O re del tempo, fattene dare un altro uguale: abbelliranno la vasca.» «Voglio un pesce bello come il primo. Portamelo» intimò il re al pescatore. «Maestà, non posso. Il mare è troppo grande, e i pesci di questo genere sono rarissimi.» «Trovalo! O ti taglierò la testa.» Il pescatore era molto preoccupato, e rimproverò sua figlia: «È colpa tua, se sono nei guai» le disse. Il giorno dopo, naturalmente tornò in mare, chiedendo a Dio la grazia di pescare un altro pesce bellissimo. La fortuna lo aiutò. Lo trovò, lo portò al palazzo reale, e ricevette altri doni. I due pesci furono messi in una vasca. Guizzavano nell'acqua, scendevano nel fondo e risalivano alla superficie con una grazia che incantava. Anche i re dei dintorni venivano ad ammirarli. Questi pesci avevano però una stranezza. Se vedevano persone nobili e buone, lanciavano mo222
nete d'oro; alle cattive, tiravano immondizie e bitume. Un giorno, si fermò a guardarli la regina, e i pesci la colpirono con immondizie e bitume. Lei corse infuriata dal marito: «Voglio la testa dell'uomo che li ha portati» strillò. Quando vennero a prenderlo le guardie, il pescatore accusò la figlia: «Tu sei colpevole della mia sventura.» «Padre, io posso salvarti» lo tranquillizzò la ragazza. E dopo aver indossato l'abito più bello ed essersi adornata con cura, andò al palazzo del re. Il sovrano, che amava le belle fanciulle, la fece sedere accanto a sé. Portarono un'anguria. «Maestà, puoi prestarmi il tuo coltello, per tagliarla?» gli chiese lei. «No, lo può usare solamente la famiglia reale.» Ma la giovane graziosa posò, con tanta dolcezza, la mano sul suo capo, che lui acconsentì. Lei tagliò l'anguria, e poi, non vista, mentre tutti mangiavano, gettò il coltello lontano. «Dov'è il coltello?» le chiese il re, alla fine del pranzo. «L'ho appoggiato sul tavolo. Forse, qualcuno lo ha rubato» gli rispose. Si cercò dappertutto, ma il coltello non fu trovato. Allora, la ragazza suggerì: «O signore, se vuoi ritrovarlo, ordina alla servitù, e agli altri abitanti del palazzo, di vestirsi con tuniche leggere, e falli bagnare. In questo modo saprai chi l'ha rubato». «Così sia fatto!» comandò il re. Tutti indossarono gli abiti leggeri ed entrarono nell'acqua. Ma la schiava che serviva la regina, e dormiva nella sua stanza, quando il re era assente, non voleva bagnarsi. «Sono malata» si giustificò. Ma la misero dentro con la forza. E... sorpresa! Sotto la tunica bagnata, che diventò 223
trasparente e aderì al corpo, apparvero le forme di un uomo. «Ecco perché i pesci lanciavano immondizie e bitume a tua moglie» disse la fanciulla. Il re fece tagliare la testa al giovane e alla regina. Poi ordinò di liberare il pescatore, gli chiese la mano della figlia, furono celebrate le nozze, e tutti vissero felici e contenti.
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I tre soldati
Durante l'occupazione della Siria, i Turchi vi reclutavano i soldati per farli servire nei loro eserciti. Una volta, entrarono nel mio villaggio, seminando il terrore come era loro abitudine, e presero noi giovani per inviarci a combattere nello Yemen.1 Dopo lunghi giorni di marcia, giungemmo a destinazione; ma la vita era dura, anzi così insopportabilmente penosa, che io e due dei miei compagni decidemmo di fuggire da quell'inferno, e tornare al nostro paese. Marciavamo durante la notte, e di giorno ci nascondevamo. Dopo alcuni giorni, quando la stanchezza, la sete e la fame ci stavano portando alla disperazione, arrivammo in riva al mare, vicino a una grande grotta. Entrammo in quell'antro e, esausti, ci mettemmo a dormire. La notte sopraggiunse senza che ce ne accorgessimo ma, dopo alcune ore, un rumore strano e pauroso mi svegliò; e che videro i miei occhi? Un ghul gigantesco che afferrava uno dei miei compagni e lo divorava. Mangiò anche la metà del secondo, poi, preso da una specie di torpore, cadde a terra, si addormentò, e cominciò a russare. Io, che avevo assistito in silenzio e pieno di spavento a quella scena, mi alzai e mi allontanai, correndo, da quel luogo. Ogni tanto guardavo indietro, per assicurarmi di non essere inseguito, e dopo un po' vidi un gran pol225
verone e il ghul che cercava di raggiungermi. Allora penetrai in un bosco per tentare di nascondermi, e lì trovai un orso enorme che mi ordinò, con un cenno, di sedermi; io mi sedetti, mentre esso si scagliava contro il mostro che era sopraggiunto: lo afferrò con due zampe e lo lanciò in alto. Quest'ultimo cadde a terra con gran fracasso di ossa rotte e morì. L'orso, sempre a gesti, mi ordinò di seguirlo, e così feci. Al termine di una lunga marcia faticosa, giungemmo finalmente a una sorgente. Io avrei voluto bere quell'acqua meravigliosa, fino a scoppiarne, ma l'animale me lo impedì, facendomi capire che era pericoloso, poiché ero tanto stanco. E così sempre, ogni volta che vedevamo una fonte, mi proibiva di saziarmi d'acqua. Infine, arrivammo a un piccolo villaggio. Qui l'orso, che in realtà era un ginn, 2 si fermò e mi disse: «Vai, io non posso entrare». Lo lasciai e ripresi il cammino. Dopo alcuni mesi, raggiunsi sano e salvo la Siria e la mia famiglia. Ci sono persone che non credono nell'esistenza dei ginn, ma sbagliano. Io so che essi fanno parte del creato; e li ho incontrati spesso. La prima volta fu quando ero un ragazzo. Un giorno, incontrai una bellissima donna che, vedendomi, mi sorrise. Ma aveva un aspetto strano. Io ebbi paura e mi misi a correre; ma lei, chiamandomi per nome, mi inseguiva. Per fortuna riuscii ad arrivare alla mia casa, e chiudermi dentro, prima che mi raggiungesse. Si mise a bussare alla porta. Mi chiedeva di aprirle, e mi faceva proposte che non capivo. Ero molto giovane, allora, e non sapevo niente dell'amore. Spiandola dalla finestra, la vidi trasformarsi in un serpente e nascondersi tra i sassi. Era una ginn! Prima, la gente, che era semplice e innocente, vedeva sempre i ginn. 226
Ora gli occhi degli uomini, spesso, non vedono ciò che continua a esistere.
NOTE 1 II vecchio narratore si riferisce alla prima guerra mondiale, quando la Siria si trovava sotto il dominio ottomano. 2 Elementi desunti dal paganesimo preislamico. Per l'Islam fanno parte degli esseri ragionevoli del creato insieme agli angeli di cui sono inferiori e agli uomini di cui sono superiori. Possono entrare in relazione con le creature umane e si dividono in musulmani ed eretici. Sono corporei e furono creati da una fiamma senza fumo (Corano, LV, 14). I dotti musulmani riconobbero la loro esistenza. Solamente Avicenna, Ibn Khaldun e pochi altri intellettuali islamici osarono affermare che essi non hanno alcuna realtà.
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Il servo pastore e il giudice dei ginn
Un povero ragazzo per vivere pascolava gli animali dei vicini. Ogni mattina passava da una casa all'altra a prelevare pecore e capre e le conduceva in campagna. Un giorno, mentre sorvegliava il gregge, vedendo che una delle capre mangiava le fronde di un albero, le tirò delle pietre per allontanarla; ma quella, dopo un po', riprese a mangiare i rami, e lui le lanciò ancora sassi. La terza volta la colpì con tanta forza che la capra cadde a terra morta. «Che cosa dirà il vicino!» si lamentava il poveretto, piangendo, disperato, perché non aveva denaro per comprarne un'altra. Però, di sera, mentre rientrava al villaggio, la rivide. Viva! «Come! Era morta, e ora vive un'altra volta?» esclamò, interdetto ma felice. A notte fonda, fu svegliato da qualcuno che bussava alla porta. Erano due guardie, che gli ordinarono di seguirle. Camminarono a lungo nell'oscurità, finché giunsero a una radura dove si trovava una grande pietra. Le guardie la spostarono, e apparve un passaggio. Entrarono, percorsero una galleria sotterranea e sbucarono in una vasta sala che sembrava un tribunale. Da un lato sedevano i giurati, da un altro stava il pubblico, e nel mezzo giaceva un cadavere. «Tu l'hai ucciso. Perché?» gli disse un giudice, indicando il morto. 228
«Io non ho mai visto quest'uomo, e di sicuro non l'ho ucciso.» «Raccontaci cos'hai fatto oggi.» Il ragazzo parlò di come aveva trascorso la giornata e dello strano episodio della capra che aveva ammazzato e che poi era resuscitata. Allora il giudice, rivolto ai presenti, sentenziò: «Ho capito. Voi ginn entrate nel corpo degli animali e vi divertite a burlarvi degli uomini ignari. Questo pastore non ha colpa di quel che è successo. Riportatelo a casa sua; e nessuno gli faccia male». Questo fatto è veramente accaduto pochi anni fa a un mio amico. La capra e il serpente sono le forme animali che i ginn privilegiano, quando vogliono essere visibili all'uomo.
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Il pastore e il serpente
Nel villaggio di Kifranji abita un pastore tanto povero che, per campare, fa pascolare gli animali dei suoi vicini. Ogni mattina passa a prendere pecore e capre, poi le conduce a una montagna dei dintorni. Egli mi raccontò un fatto che gli era accaduto. Mentre sorvegliava il gregge, gli apparve una bellissima fanciulla vestita da sposa che si fermò a discorrere con lui. Da allora si videro spesso e il giovane, durante uno dei loro incontri, le chiese: «Dove abiti?». «Da queste parti» rispose la ragazza. Con il tempo diventarono amici; e stavano bene insieme. Un giorno, lei gli disse: «Voglio averti come marito.» «Non è possibile. Ho già moglie e figli. Sono molto povero, e non potrei mantenere due famiglie» si scusò lui. Ma la fanciulla insisteva. «Io, invece, ho molto denaro; e potrei mettere fine alla tua vita stentata, se mi prendessi.» «Ma che direbbe la gente?» «Non preoccuparti. Mi trasformerò in serpente e mi porterai dentro un sacco. Ma fai attenzione! Non devi svelare il nostro segreto, né permettere ai tuoi di farmi del male, perché li ucciderei.» «Stai tranquilla, nessuno potrà danneggiarti» la rassicurò. E quella sera stessa la mise in un sacco 230
per portarla al villaggio. Lungo il cammino, i passanti che incontrava chiedevano: «Che cos'hai nel sacco?» «Nel sacco c'è un serpente» rispondeva. Ma, giunto a casa, non resistendo alla tentazione di mostrare a tutti che aveva trovato qualcosa di speciale, chiamò i vicini, mise il serpente su una sedia, ed esibì l'animale come un domatore del circo: lo faceva saltare, ballare, andare da un posto all'altro, davanti a quel pubblico curioso e divertito. La mattina dopo tornò, come al solito, alla montagna con il gregge, portando con sé il serpente. Esso, appena arrivarono, ridiventò fanciulla, e gli disse: «Non ti voglio più come marito, perché mi hai umiliata davanti a tutti. Forse, qualche volta, possiamo ancora incontrarci; ma soltanto per conversare.» Il mio amico accettò; però, da allora, non è più tornato a pascolare in quel luogo. Ha troppa paura di incontrarla.
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L'avido
C'era una volta, tanto tempo fa, un boscaiolo che, la mattina, si recava al lavoro, la notte rientrava con la legna da vendere, e con i soldi guadagnati comprava da mangiare per i figli. Ogni volta che andava nel bosco portava con sé un flauto e quando era stanco di lavorare, suonava. Un giorno, mentre riposava, suonando il suo flauto, vide uscire, da sotto una pietra, un grosso serpente. Lo guardò spaventato, ma l'animale lo rassicurò. «Non aver paura, non ti farò male» gli disse, mettendosi a ballare. Appena l'uomo finì di suonare, il rettile tornò sotto terra, riuscendone subito dopo con una moneta d'oro. Gliela offrì, e gli propose: «Torna qui ogni giorno a suonare per me; io ti pagherò e potrai smettere il tuo lavoro faticoso. Però, stai attento! Non devi svelare a nessuno il segreto». Naturalmente, il boscaiolo accettò. Tutte le mattine, andava in quel luogo, suonava, e guadagnava una moneta d'oro. Trascorsero così vent'anni; ormai si era fatto vecchio. Un giorno disse al serpente: «Sono stanco e malato, non potrebbe sostituirmi mio figlio?» «Accetto» rispose l'animale. «A patto che non chieda più denaro e conservi il segreto. » L'uomo promise; raccontò tutto al suo ragazzo, che acconsentì. Da allora, come aveva fatto il padre 232
per lunghi anni, il giovane si recò nel bosco a suonare il flauto per il serpente ballerino. Ma dopo un po' di tempo, cominciò a pensare: "Perché dovrei stancarmi, tutti i giorni, a guadagnare una moneta? Potrei ammazzarlo e prendermi in una sola volta tutto l'oro che si trova nella tana". Detto fatto; preparò un coltello affilato e quella stessa mattina, mentre il serpente danzava, tentò di ucciderlo. Però la bestia, più veloce, gli si volse contro, lo morse e lo uccise con il suo veleno. Quella notte, non vedendo rientrare il figlio, il vecchio genitore decise di andare nel bosco, per vedere che cosa fosse successo. Giunto al solito posto, scorse, steso a terra, il suo corpo inanimato. Il serpente, che era lì vicino, vide il taglialegna e gli disse: «Questo è il corpo di un avido, portalo via; e non tornare mai più qui».
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Il tesoro
Sheikh al-Magrebi era molto sapiente: parlava con i ginn e conosceva le cose misteriose che gli uomini comuni non riescono a vedere. Abitava nel quartiere che sta sulla collina dove un tempo si era innalzata la fortezza di Latakia. Un giorno andò a trovare un vicino e gli disse: «Accanto ai ruderi della rocca, in una caverna custodita da un serpente, è nascosto un tesoro. Io conosco la maniera per impadronirsene, ma ho bisogno di tua figlia, poiché la caverna si aprirà soltanto davanti al suo volto. Potresti affidarmela?» «A una condizione: che dividiamo a metà il tesoro!» rispose il vicino. Al-Magrebi acconsentì; istruita la fanciulla, la condusse nel luogo in cui si trovava la caverna. Qui, accese del carbone, vi gettò incenso, lesse parole arcane, tolse il velo alla ragazza e depose un secchio di latte puro vicino all'ingresso sigillato. Esso, come per incanto, si spalancò! Ne uscì un lunghissimo serpente che si mise subito a bere il latte. Bisogna dire che, dopo centinaia di anni, doveva essere veramente assetato. Allora, la ragazza cominciò a portare fuori il tesoro. Lo sheikh, che con un occhio leggeva, e con l'altro sorvegliava il serpente, non appena si accorse che il latte stava per finire ordinò alla ragazza, con un cenno, di stare fuori. Infat234
ti il serpente tornò immediatamente nella caverna; ed essa si richiuse. Spartito il tesoro, sheikh al-Magrebi voleva allontanarsi, ma il vicino, minacciandolo, lo fermò. «Non te ne andrai prima di avermi svelato il segreto che apre la caverna» gli disse. «Bada! È pericoloso. Potresti perdere tua figlia.» «Non è affar tuo. Parla!» insisteva minaccioso. E lo sheikh gli insegnò come fare. Dopo due anni, l'uomo, che aveva sperperato tutto, decise di prendersi il resto del tesoro. Tornò alla caverna, accese l'incenso, scoprì il volto della figlia, lesse le parole magiche, depose il latte vicino alla caverna. Essa si schiuse e ne uscì il serpente. Ma questa volta non era assetato, quindi tornò subito indietro. La caverna si chiuse, imprigionando la ragazza. Per dieci, dodici giorni, la sentirono correre, piangere, gridare: «Padre, salvami!». Dopo, più niente.
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La moglie scomparsa
Mentre due sposi novelli trascorrevano allegramente la serata nella loro stanza da letto, al marito venne sete, e chiese a sua moglie: «Cara, portami da bere». «Vai tu. È buio, ho paura di uscire» disse lei, scherzando. «Che donna mi sono scelto!» esclamò lui, sospingendola fuori dalla porta e gridando: «Caraffa, caraffa, acciuffa questa pusillanime! Falla scomparire!». Poi, scoppiando a ridere divertito, attese che tornasse con l'acqua. Ma lei non tornò; e cominciò a preoccuparsi. Si mise a cercarla, ma in casa non c'era. Era scomparsa, insieme alla caraffa! Corse in strada, chiamandola ad alta voce, bussando alle porte dei vicini. Nessuno sapeva niente. All'alba decise di chiedere aiuto allo sheikh al-Magrebi, e andò da lui a raccontargli l'accaduto. Il sant'uomo, dopo averlo ascoltato attentamente, gli affidò una lettera, dicendogli: «Recati al pozzo, getta dentro questo foglio, attendi che l'acqua salga alla superficie, mettici dentro i piedi, e non temere: essa ti condurrà in fondo al pozzo. Allora, recupererai il mio messaggio e lo porterai al sovrano di quel regno». Così fece il povero marito: andò al pozzo, vi gettò la lettera dello sheikh al-Magrebi, entrò nell'acqua gorgogliante, che lo depose sul fondo e gli rese la lettera. Lui camminò finché giunse in un posto strano: 236
da una grande piazza, numerose strade si irradiavano in ogni direzione; creature bizzarre lunghe un palmo popolavano quel mondo sotterraneo. Un essere minuscolo e gentile gli chiese: «Creatura umana, cosa desideri?» «Devo parlare al vostro re.» «Vieni, ti accompagnerò da lui.» Lo seguì; giunsero in un immenso palazzo, anch'esso brulicante di quei piccoli esseri sconosciuti. La sua guida, attraverso numerose stanze, lo condusse fino alla sala del trono. «Che cosa vuoi da me, creatura umana?» chiese il re. «Sheikh al-Magrebi mi disse di consegnarti questo messaggio, e raccontarti la mia storia. » «Bene! Raccontamela» ordinò sua maestà, prendendo la lettera e portandola, dopo averla letta, alla fronte in segno di riverente rispetto. «Signore, mia moglie è scomparsa insieme alla caraffa dell'acqua. Aiutami a trovarla.» «Dove abiti?» «Nella piazza di Shekhdaer.» Il re fece chiamare il visir e gli ordinò: «Che il ginn delle caraffe di Shekhdaer venga subito qui». Quando il ginn convocato fu al suo cospetto, gli chiese: «Hai rapito tu la moglie di quest'uomo?» «Sì, maestà. Ma è stato lui a ordinarmelo. Mi disse: "Caraffa acciuffa mia moglie, e falla scomparire. Io ho ubbidito".» «Rendigliela immediatamente!» comandò il re al suo ginn; e rassicurò il giovane sposo: «Torna a casa. La ritroverai». I due esseri sotterranei lo ricondussero alla piazza del regno, l'acqua lo fece risalire e lui tornò a casa, dove la moglie lo attendeva. 237
I ginn di Tadmor
Molti anni fa, a Tadmor 1 accadde un fatto singolare, che interessò soprattutto due famiglie: gli As-Salek e gli Hatiby; ma anche altri abitanti del paese furono coinvolti. Un giorno, gli As-Salek si misero a lanciare pietre color carbone contro i passanti, senza alcun motivo apparente, e qualunque persona si trovava nei paraggi, fino a una distanza di cinquanta metri, veniva colpita. Il capo del villaggio, quello delle guardie, e altri membri autorevoli, si riunirono per discutere del caso, ma non trovarono una soluzione. Allora decisero di convocare tutti gli sheikh dei dintorni. Questi rimasero sette giorni in casa As-Salek; indagarono, pregarono, e infine riuscirono a dare una spiegazione a quel caso straordinario. Il secondo incidente, nello stesso periodo, si verificò presso l'altra famiglia. Ma questa volta, inspiegabilmente ostili e aggressivi furono gli abitanti del villaggio. Essi entrarono, con la forza, in casa degli Hatiby e bruciarono tutto ciò che essa conteneva. I proprietari e le guardie non riuscirono ad arrestare gli incendiari. Gli sheikh si fermarono anche lì per una settimana: leggevano i discorsi del Profeta e le sure del Corano. E dopo aver meditato, pregato e indagato, stabilirono che occorreva un atto riparatore. 238
Secondo il loro giudizio, quelle strane vicende erano opera dei ginn. Tempo prima, gli As-Salek avevano gettato acqua bollente nel tannur, 2 e gli Hatiby l'avevano gettata nel cortile senza pronunziare la formula di rito: «Nel nome di Dio misericordioso e compassionevole», 3 cosicché l'acqua aveva ucciso due figli di un ginn, e ora bisognava placare la sua ira. Le due famiglie fecero sgozzare un gran numero di agnelli, distribuirono, in nome di Dio onnipotente, la carne ai poveri, recitarono il Corano e resero grazie al Profeta, che Dio lo benedica e saluti, fino a quando i ginn si furono allontanati. 4 Da allora essi non hanno più fatto ritorno a Tadmor e nell'intera regione. 5
NOTE 1 Nome arabo di Palmira e anche del moderno villaggio che sorge ai suoi margini. Secondo gli odierni abitanti, essa fu costruita dai ginn per Salomone. La leggenda si trova anche in una poesia del poeta ghassanide Nabigha adh-Dhubyani. 2 Forno per pane, caratteristico delle campagne siriane. 3 Secondo la tradizione popolare, per placare, o allontanare i ginn è indispensabile pronunciare il bismi-llah (in nome di Dio) prima di ogni azione, anche la più banale, e non bisogna mai profanare i luoghi in cui abitualmente essi risiedono. 4 Nel primo racconto delle Mille e Una Notte, un uomo uccide il figlio di un ginn lanciandogli il nocciolo di un dattero. 5 In tutta la regione, che le tribù arabe abitano da almeno tremila anni, le credenze legate ai ginn hanno antiche origini, e l'archeologia lo testimonia. Un rilievo di epoca r o m a n a rappresenta una schiera di sei divinità identiche, armate di lance e scudi. Alla destra una dea. Esse sono designate come "Ginn del villaggio di Beth Phasiel, dèi buoni e benefattori". Anche Abgal, ginn e divinità di origine araba, era venerato nella Palmirene, e pare che ogni tribù avesse il suo genio tutelare. La parola stessa, "ginn", deriva da una radice semitica che significa "coprire", "proteggere". Gli Arabi amavano la poesia, e i ginn furono considerati proiettori dei poeti.
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Il contadino e la ginn
In un giorno invernale di molti anni fa, due contadini del mio villaggio andarono in campagna per arare e seminare i loro poderi. Al tramonto del sole, uno di essi disse: «Sarebbe meglio mettersi in cammino; la strada è lunga.» «Sei matto? Perché dobbiamo stancarci a camminare per delle ore, inutilmente? Restiamo qui. Facciamo due chiacchiere e una lunga notte di riposo. All'alba potremo riprendere a lavorare senza fatica» rispose il compagno. «No. Preferisco tornare a casa. Ma se tu resti qui, occupati delle bestie.» «Va bene. Vai pure tranquillo. A domani.» «A domani, se Dio vorrà.» Giunta la notte, il contadino si mise a letto. Aveva appena chiuso gli occhi, quando un rumore improvviso glieli fece riaprire. Qualcuno aveva lanciato una pietra! Rimase ad ascoltare, e ne sentì un'altra che colpiva la roccia. Poi un'altra, e un'altra ancora. Si alzò, un po' preoccupato un po' incuriosito, uscì dalla capanna e si guardò intorno. Che cosa videro i suoi occhi? Una donna gli veniva incontro. A dire il vero, assomigliava a una donna, ma c'era in lei qualcosa di bizzarro che lo lasciava perplesso. «Salve, fratello» lo salutò la sconosciuta. 240
«Salve, sorella» le rispose. «Dimmi, chi sei, fratello?» «Sono un essere umano. E tu?» le chiese turbato. A vederla da vicino, quella creatura gli appariva sempre più misteriosa. Gli esseri umani hanno le pupille rotonde, mentre i suoi occhi erano due linee verticali incredibilmente lucenti. Che si trattasse di una ginn? «E tu chi sei?» le chiese. «Io appartengo agli altri esseri» gli rispose. «Che cosa fai qui?» «La mia casa è vicina. Vuoi vederla?» A quelle parole, il contadino si ritrasse sgomento. Ma lei aveva una voce dolce e suadente. «Non temere. Vieni con me» diceva, tenendolo per mano. «Impossibile! Lasciami!» cercava di resistere lui, che intanto la seguiva, inconsapevole. A un tratto, la terra si spalancò e i due scesero in un altro mondo. Lì, c'era un palazzo strabiliante: grandissimo e magnifico, ma senza tetto. E lui ritrovò tutte le cose che aveva lasciato nella sua capanna! Stavano dentro una stanza da letto. La ginn accese il fuoco nel camino, mise a friggere il burro nella padella, poi vi gettò le uova. Era inverno, eppure gli offrì angurie, fichi, pomodori, cetrioli. «Da dove vengono queste cose? Non è la stagione» chiese lui, stupito. «Il nostro mondo è l'inverso del vostro. Noi, in inverno, ci nutriamo con i frutti dell'estate. E in estate ci nutriamo con i frutti dell'inverno» gli rispose la ginn. Intanto, il contadino diventava sempre più fiducioso e appagato. Si sentiva felice per aver conosciuto quella creatura accogliente. Ormai non la temeva. Lei gli propose: 241
«Ti piacerebbe essere mio fratello?» «Va bene» acconsentì il contadino. Più tardi, lo prese per mano e lo ricondusse sulla terra. «Caro, vorrei che non ti dimenticassi di me, ora che siamo fratelli. Torna quando vuoi. Ti aspetterò» gli disse. «Se Dio lo vorrà» le rispose. E si congedarono. Trascorse il tempo. Un giorno, il contadino sentì, irresistibile, il desiderio di rivedere la ginn; e scese nel suo palazzo. Lei lo accolse con grandi feste e gli preparò da mangiare. Accese il fuoco e mise a friggere il burro che cominciò a sfrigolare; stava per mettervi le uova, quando dall'alto caddero nella padella alcune gocce. Allora, il volto della ginn divenne orribile. Afferrò la padella e scagliò in aria, con rabbia, il grasso bollente. Subito dopo, si udì un grido di dolorosa sorpresa. «Che cos'hai fatto?» le chiese il contadino. «Fratello, se voi non ci disturbate, noi non vi nuociamo» gli rispose. Lassù c'è un uomo. Perché non ha recitato il bismi-llah per prevenirmi?» Lui tornò sulla terra e vide un uomo folle di terrore e con il pene bruciato. Vi ho detto quel che so, e più di questo non so.
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La ginn dell'Eufrate
Hasn, un nomade molto bello, andava ogni giorno all'Eufrate per lavarsi e dissetarsi. Una mattina, mentre si trovava in riva al fiume, gli apparve un essere dall'aspetto singolare, che gli annunciò sorridendo: «Tu sarai il mio sposo e io ti renderò ricco come Dio fece con Mosè». Il giovane, perplesso e impaurito, voleva fuggire; ma quella strana creatura, che in realtà era una ginn, lo afferrò e lo trascinò dentro l'acqua. Stretto tra le sue braccia egli scivolò nell'abisso, dove vide un mondo fantastico in cui si elevavano magnifici castelli dorati. La ginn gli disse: «Qui diventerai mio marito.» «Lasciami andar via! Ho moglie e figli» si schernì Hasn, supplicandola. «Non mi importa. Ti sposerò ugualmente» ribadì, perentoria, la ginn, e lo costrinse ad amarla. La loro storia si protrasse per sette anni; lei partorì tre figli. Un giorno, Hasn le chiese: «Permettimi di visitare la mia famiglia.» «Te lo concederò soltanto se giuri che tornerai da me.» «Chiamo testimone Iddio che, dopo aver visto i figli e la tribù, tornerò» le promise. La sua sposa fluviale lo ricondusse alle porte del mondo. 243
«Vai da quella parte, troverai il tuo clan» disse, indicandogli la direzione per tornare a casa. Dovete sapere che il beduino si era trasformato in un essere dall'aspetto orribile! Le unghie delle mani e dei piedi erano diventate artigli lunghi un palmo, e i baffi, simili a quelli di un nero caprone, gli arrivavano alle cosce. Avrebbe fatto fuggire i membri di un'intera tribù! Infatti, quando giunse all'accampamento, la gente, vedendo quell'apparizione, scappava in preda al terrore, urlando: «Sventura, sventura su di noi!» «Sono Hasn! Figli miei, moglie, fratelli, amici, sono Hasn! Ho vissuto per sette anni nel fiume con una ginn. Lei, oggi, mi ha riportato nel mondo perché desideravo vedervi» gridò, invano. Nessuno osava awicinarglisi. Soltanto dopo che ebbe tagliato gli artigli e i baffi, si fu lavato e cambiato d'abito, lo riconobbero e gli si avvicinarono subissandolo di domande: «Dove sei stato?» «Perché ti sei assentato così a lungo?» «Che cosa ti è accaduto?» Egli raccontò la sua avventura, concludendo: «La ginn era molto affettuosa; e lì, dentro il fiume, la vita è bella. Certo, mi siete mancati, ma ho promesso di tornare. Ora che vi ho rivisto, devo andar via». La famiglia lo implorava: «Non partire. Non abbandonarci un'altra volta. Resta con noi». Non ebbe il coraggio di lasciarli. Trascorsero due mesi. Un giorno Hasn disse ai suoi: «Ormai è tempo che torni. Lasciate che sia io ad andarmene, prima che venga lei a prendermi». Li pregò inutilmente. Non gli permisero di allontanarsi. E una notte, venne la ginn. Infuriata, lanciava pietre all'accampamento, urlando: «Hasn, Hasn, dove sei?». 244
Nessuno rispose. «Hasn, sono tua moglie, torna da me!» Ma Hasn rimase nascosto perché aveva paura. Lei, allora, si mise accanto al pozzo, e lo minacciò. «Ho con me i nostri figli. Se non esci li uccido.» E attese, inutilmente, lì al buio. Hasn non comparve. La ginn gridò e gridò, sempre più minacciosa: «Esci o li faccio a pezzi!». I figli sono preziosi, ma l'uomo, al pensiero di dover affrontare quella terribile creatura ritta accanto al pozzo, moriva dallo spavento. Infine, trovando un po' di coraggio, le disse: «Non verrò più con te. Non voglio. Tu sei una ginn, e io un essere umano. Non possiamo fare una vera famiglia; e quelli non sono realmente figli miei». Lei non disse più una parola. Uccise i tre figli e scomparve. È credenza popolare in Siria, come nel resto dei paesi islamici, che i ginn creino discordia nei matrimoni, si innamorino di uomini e donne e li tengano in ostaggio dopo averli sequestrati. Nell'Arabia preislamica, come ninfe e satiri del deserto, rappresentavano il lato della natura ancora ostile all'uomo e venivano loro offerti dei sacrifici. All'epoca di Maometto furono considerati divinità indeterminate. Essi fecero parte anche delle credenze di Harran e dell'induismo.
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Il figlio dell'aghà
Ai tempi dell'Impero Ottomano, un aghà viveva con la famiglia nella città di Deir ez-Zor. Quest'uomo era molto ricco, e possedeva un grande frutteto vicino alla riva dell'Eufrate. Uno dei suoi figli, Abdullah, amava giocare in quel posto e talvolta marinava le lezioni per andarci. Fu così che gli accadde una straordinaria avventura. Una mattina scappò da scuola e, mentre si dirigeva in campagna, sentì la voce di sua madre. Poi, qualcuno gli prese la mano e si mise a trascinarlo verso il fiume. Era una donna altissima, con i capelli neri neri e un volto molto strano illuminato da lucenti occhi verticali. «Sei stato cattivo e verrai punito» lo redarguì la donna bizzarra, che parlava con la voce della madre. Il bambino la guardava spaventato, e cercò di sfuggirle, ma lei lo teneva ben stretto. Allora, sopraffatto dal terrore, svenne. Sul ponte che unisce le due sponde, c'era una guardia che aveva osservato la scena. Vedendo il ragazzino cadere a terra, intimò a quella strana creatura, minacciandola con il fucile, di fermarsi. Invano. Lei non ubbidì. Lasciò il bambino e si diresse, veloce come il vento, verso il fiume. Giunta sull'argine, spiccò un salto, si inabissò nell'acqua e scomparve. Il figlio dell'aghà, che nel frattempo era rinvenu246
to, divenne muto per lo spavento. Accorsero alcuni contadini, lo portarono alla moschea e pregarono a lungo. Infine, Allah1 lo fece guarire. In questo racconto, il mostro femminile dall'espressione terribile ricorda la Lamia della mitologia greca. Essa, per il dolore di aver visto morire i propri figli e invidiosa delle altre madri, inseguiva i bambini per divorarli. Questo tema è comune a tutta l'area mediterranea.
NOTE 1 Dio, nella lingua araba, per i credenti musulmani, cristiani o di altre confessioni religiose.
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L'ostetrica
Tanto tempo fa, nella città di Deir ez-Zor viveva un'ostetrica molto brava. Durante una notte invernale, gelida e tempestosa, bussarono alla sua porta. Aprì, vide un uomo e due donne: erano venuti a chiamarla perché un bimbo stava per nascere. Si vestì, prese i suoi strumenti, e seguì quelle persone. Camminarono al buio per ore; l'ostetrica era molto stanca quando, infine, giunse in un luogo stranissimo che pareva di un altro mondo. Certo, lì vicino, alla luce dei lampi, scorgeva le acque dell'Eufrate, ma tutto il resto le era sconosciuto. Un mago dalla chioma irsuta e gli occhi spiritati celebrava su una specie di altare riti arcani e, attorno a lui, una folla di esseri fantastici piangeva, cantava, si agitava, correva. Era uno spettacolo allucinante. A un certo punto le venne incontro una creatura indefinibile. Aveva il volto giallo e i capelli azzurri come le acque del gran fiume. La salutò con garbo e la condusse dentro una grotta. Lei era molto spaventata ma, alla vista di una madre con le doglie, si fece forza. Le promisero: «Se nascerà un maschio, sarai ricca. Ma se sarà femmina, te ne tornerai senza ricompensa e da sola in città». Si mise all'opera, e dopo alcune ore nacque un bambino. Allora, alcuni ginn riempirono dei sacchi, se li caricarono in spalla e la scortarono, nella notte tenebrosa, fino a casa sua. Qui, le disse248
ro: «Questi sono per te» e la salutarono, scomparendo nell'oscurità. La donna aprì i sacchi, e che cosa videro i suoi occhi? Erano tutti pieni di bucce di cipolla. 1 Irata, li gettò a terra ed entrò in casa. Accese la lanterna e il fuoco nella stufa. Si stava levando gli indumenti inzuppati di pioggia e fango, quando una buccia di cipolla, che le era rimasta impigliata indosso, cadde a terra con suono metallico. Si chinò, sorpresa, a guardare, e vide una moneta d'oro che luccicava vicino ai suoi piedi! In quel momento, capì di essere stata veramente protagonista di un'avventura straordinaria. Felice, corse a recuperare il tesoro; ma questo era scomparso.
NOTE 1 Questa credenza originaria della Turchia si è diffusa lungo il corso dell'Eufrate. Tra le ricompense accordate dai ginn agli uomini ci sarebbero anche le bucce d'aglio che si trasformano in monete d'argento.
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La donna che terrorizzò il mostro
Molto tempo fa, c'era un uomo che aveva una moglie bisbetica. Questa donna si chiamava Rifat, ed era veramente stizzosa, brontolona, intrattabile. Il marito aveva provato, invano, prima a renderla più docile, poi a liberarsene. Infine, non potendo più sopportarla, decise di ucciderla. «Cara, che ne pensi di una gita in campagna? Cerchiamo un posto tranquillo, e trascorreremo una bella giornata» le propose, un giorno. Lei, stranamente, acconsentì: «Va bene, andiamo e divertiamoci» disse. La portò in un luogo solitario, dove si trovava un pozzo profondo quasi cinquanta metri, e ve la buttò dentro. La disgraziata cadde giù fra urla e schiamazzi, ma non morì. Finì sopra la schiena di un hanfish 1 che abitava là. «Chi sei?» le chiese il mostro. «Sono Rifat» rispose la donna, continuando a blaterare e inveire in maniera irritante, finché lo innervosì terribilmente. «Che la tua casa e la tua famiglia vadano in malora! Come hanno potuto sopportarti così a lungo? Io vivevo tranquillo e tu sei venuta a molestarmi!» le gridò. Intanto, pensava alla maniera di sfuggirle. Un giovane pastore, che viveva nel bosco circo250
stante, quella sera venne, come al solito, a prendere acqua per dissetarsi e abbeverare le bestie. Appena l'hanfish lo udì, cercò di attrarre la sua attenzione, e gli chiese aiuto. «Fammi uscire di qua, e avrai una ricompensa. Io possiedo un anello magico: se mi liberi da questa terribile bisbetica che mi angoscia, esso sarà tuo» gli disse. «Allah mi ha inviato la fortuna!» pensò il pastore, aiutando l'hanfish a uscire dal pozzo. Però, alla vista di quell'orrido personaggio, voleva fuggire via. Ma il mostro, troppo riconoscente per il servizio che gli era stato reso, desiderava assolutamente ringraziarlo e ricompensarlo. «Non avere paura, non ti farò male. Fermati, e prendi questo anello. Te lo sei meritato! Mettilo al dito; con esso potrai guarire i pazzi, i feriti, gli ammalati» gli disse; poi lo salutò e partì. Anche il pastore, abbandonato il gregge, lasciò quei luoghi. Si mise a viaggiare da una contrada all'altra e, quando giungeva in un luogo abitato, gridava: «Fa'l, fa'l, moltiplicato per fa'l»2 che era come annunciare: «Sono un mago con grandi poteri». Un giorno, mentre si trovava in una città, vennero i familiari del re per condurlo al palazzo. «Signore, tu leggi il passato e il futuro?» gli chiese il re. «Sì.» «La mia figliola è pazza. Puoi dirmi se, e come, potrà guarire?» «Stai tranquillo, io la curerò» gli promise il mago. «Se la pazzia abbandonerà la principessa, potrai chiedermi qualunque cosa, anche di sposarla; ma, se non la guarirai, io stesso taglierò la tua testa.» «Va bene, accetto; ma a una condizione.» «Quale?» 251
«Devo visitarla appena si sveglia.» La mattina seguente, all'alba, entrò nella stanza della pazza, che giaceva nel letto, nuda e scomposta. Chiuse la porta e fece girare l'anello magico attorno al dito. Allora, la figlia del re lo vide; pudibonda, si coprì, e gli chiese: «Proteggimi! Che Allah protegga il mio onore; proteggimi». Lui fece chiamare subito il re e gli annunciò la guarigione della figlia. Si sgozzarono gli agnelli e furono celebrate le nozze. Quando l'hanfish sentì parlare dei successi dell'uomo che l'aveva salvato e del suo matrimonio principesco, diventò invidioso. Un giorno andò a trovarlo, e si riprese l'anello magico. «Ormai sei ricco e genero di re, adesso è il mio turno. Anch'io voglio una principessa. Mi travestirò da animale ubriaco, andrò a cercarla, ed entrerò nel suo corpo e nella sua anima. Tu stai lontano da me; non voglio più vederti» gli disse. E così fece. Si impadronì della figlia del re di un altro regno. Il povero padre, credendola pazza, decise di convocare tutti gli sheikh, ma nessuno riusciva a curarla. Era ormai disperato, quando sentì parlare del mago che aveva guarito l'altra principessa. Lo mandò a chiamare, ma lui, privato dell'anello magico, non aveva più poteri; e inoltre temeva l'hanfish. «Posso venire soltanto fra un mese» mentì, cercando di temporeggiare. Però, il re non voleva attendere, e diede ordine alle guardie di condurlo con la forza. «O la fai guarire, o ti tagliamo la testa» lo minacciarono, facendolo entrare nella stanza dell'invasata. 3 La ragazza, che aveva la voce spaventosa del mostro, si mise a strillare in maniera sguaiata: «Non ti avevo ammonito di starmi lontano? Adesso mi impossesserò di te!». Che cosa poteva fare il poverino? la disperazione gli suggerì un'idea. «Io non sono venuto per lei. Ma soltanto per farti 252
sapere che Rifat è qui, e desidera salutarti» disse all'hanfish. Al sentir nominare la terribile donna del pozzo, il mostro, inorridendo per lo spavento, uscì dal corpo della ragazza e scappò via veloce come il lampo. Così, si racconta, fa sempre, quando sente pronunciare quel nome.
NOTE 1 L'hanfish, m o s t r o poliedrico che talvolta ricorda il lupo m a n n a r o , è un essere presente esclusivamente nelle fiabe della valle dell'Eufrate; a n c h e il n o m e è p r a t i c a m e n t e sconosciuto nel resto della Siria. Potrebbe trattarsi di u n a sopravvivenza di credenze arcaiche mesopotamiche, s e c o n d o le quali, c o m e t e s t i m o n i a n o n u m e r o s i testi magici (del III e II millennio), per la guarigione degli invasati si immaginava il deserto popolato di d e m o n i causa di malattie che e r a n o considerate la personificazione di quegli esseri malefici. 2 Fa'l: omen, oitovóz, p r e s a g i o veridico, oracolo. Cfr. Enciclopedia islamica, alla voce "Fai". 3 I pazzi, gli indemoniati, gli epilettici nell'antichità venivano curati spesso in particolari grotte sacre oracolari, n u m e r o s e in Siria e che restarono in funzione fino ai primi secoli del cristianesimo.
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Il cacciatore doveva morire
Una volta, in tempi antichissimi, un giovane disse alla sorella: «Non amo vivere tra la gente; andiamo in cerca di una regione deserta». Lei acconsentì. Si misero in viaggio e camminarono fino a trovare il luogo adatto. Dio gli inviò una sorgente d'acqua e una tavola imbandita. Cenarono, resero grazie e dormirono. L'indomani, al risveglio, videro un magnifico palazzo con le porte spalancate. «Perché non abitiamo lì?» suggerì la sorella. «Va bene, se lo desideri» acconsentì il fratello. Dentro quel castello c'era tutto, persino i servitori; ma lui era un bravissimo cacciatore e voleva continuare a fare il suo mestiere. Partiva la mattina e rientrava la sera, portando lepri, gazzelle e altra selvaggina di cui si cibavano. Gli ossi, li gettavano nel pozzo. Trascorse il tempo. Una mattina, la fanciulla sentì una voce proveniente da quel pozzo: «Fammi uscire!» chiedeva. Gettò la corda e venne su un hanfish! Che il Signore vi salvi da una simile visione! Aveva barba, capelli, artigli lunghissimi; e un aspetto feroce. Ma lei non ebbe paura. Lo rasò, gli tagliò le sopracciglia e le unghie adunche. Appena finì, il mostro le disse: «Ho fame.» 254
«Mangerai quando avrai levato la tua pelle di hanfish» gli rispose. «Non la toglierò mai!» «Dovrai farlo, se vuoi il cibo.» «No!» «E io dico sì!» Insomma, vinse lei. E che videro i suoi occhi? Una splendida creatura nel fiore dell'età! Dio benedetto! Aveva quattordici anni ed era bellissimo. Gli sorrise, e trascorsero lietamente la giornata. Poi, lui scese dentro il pozzo. Il fratello tornò all'imbrunire. Lei cucinò, conservò per l'amico la carne più tenera, e servì gli avanzi. «Sorella! È tutto ossi e pelle!» protestò il cacciatore. «È quel che hai portato» rispose, sgarbata. E da allora, quando restava sola, faceva risalire il ragazzo, lo nutriva con pietanze prelibate, e si divertivano. Una volta che annegarono nella passione, lui la prese tra le braccia e la fece sua. Trascorsero i giorni. Lei li contava, e così si accorse di essere incinta. Quando partorì, mise il figlio nel sentiero che percorreva suo fratello. Lui lo vide. "Che Dio lo protegga!" pensò; e decise di portarlo dalla sorella. «Guarda che bel bimbo!» le disse. «Da dove viene?» chiese lei. «L'ho trovato in mezzo alla strada. Prova a dargli il seno. Magari il Signore lo aiuta e ti manda il latte per nutrirlo.» Certo che aveva il latte! Era sua madre! Il piccolo cominciò a crescere. Un giorno, lei disse al suo amante: «Desidero che mio fratello muoia.» «Perché? È lo zio di tuo figlio, e ci procura il cibo. È peccato!» «Devi ucciderlo!» 255
«D'accordo. Mi trasformerò in un buio tornado di sabbia, confonderò le piste del deserto, e si smarrirà.» E si levò una tempesta che travolse ogni cosa. Al cacciatore morì il cavallo; lui si riparò con il suo corpo. Poi attese la quiete, e ritrovò la strada. La sorella disse ancora al suo amante: «Dobbiamo tentare di nuovo. Io voglio star sola con te. Non sopporto la sua presenza.» Insieme, cercarono erbe velenose e le impastarono con la farina. Ma il bambino li aveva uditi tramare, e avvertì lo zio: «Non mangiare il pane, è guasto!» gli disse; e lo salvò. «Deve morire!» ripeteva lei, risoluta. «O donna! Mi sono stufato. Lascialo vivere. Che male fa?» le disse l'hanfish. Ma lei fu irremovibile; e lui promise di tentare ancora. «Diventerò uno scorpione, e mi nasconderò nella sua scarpa.» Però il bimbo, che aveva ascoltato, salvò un'altra volta lo zio. «Attento! C'è un insetto velenoso nella tua calzatura» gli disse. E lo scorpione saltò nel pozzo. «Devi ammazzarlo!» reiterò lei, inesorabile, all'amante. L'indomani, suo fratello si levò all'alba, e partì per andare a caccia. Mentre inseguiva una preda, venne un uccello: beccò i suoi occhi e lo accecò. Il cacciatore morì. È solo una fiaba del medio Eufrate (raccontata ad Abu Kemàl), ma è difficile, dopo averla letta, resistere alla tentazione di rivisitare il passato, con i conflitti senza tregua in questa regione, nell'antichità, tra no256
madi e sedentari; di non trovare nel racconto un'eco lontana dell'antagonismo tra questi due elementi nella società amorrea del III, II millennio, del rigetto della città da parte dei nomadi e del ruolo dei pozzi d'acqua. In un testo cuneiforme del II millennio un capo della tribù dei Beneyamin dice: «Quanto a me, se io resto in una città anche un solo giorno e finché non esco da quelle mura per rinnovare il mio vigore, la mia vitalità svanisce». Cfr. J.M. Durand e J.M. Sasson, L'Eufrate e il Tempo, pagg. 70-75, Electa, Milano 1993. Viene alla mente anche un'altra suggestione: la donna madre-natura vegetatrice e il dramma cultuale della morte fatta subire al vivente come mezzo per accelerare la riproduzione della vita.
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I profeti furono figure rilevanti nella storia religiosa del Medio Oriente. Basterebbe ricordare il loro ruolo nelle tre grandi fedi che vi sorsero: l'ebraismo, il cristianesimo, l'Islam; o ancora i misteriosi Hanif del deserto arabico. Essi rivestirono un ruolo sociale importante, poiché sapevano parlare al cuore e all'immaginazione della gente. I racconti popolari sui profeti sono numerosissimi in Siria. Per forma e contenuto, fanno parte del genere aneddotico di tendenza prevalentemente didattica.
Il profeta Salomone, figlio di Davide, e il vento
C'era una volta, molto tempo fa, un uomo poverissimo. Una sera rientrava a casa, contento, con un sacchetto di farina; ma il vento soffiò, glielo strappò di mano, e la farina si disperse tutta nell'aria. Il disgraziato si accasciò, afflitto, su una pietra, scoppiando in lacrime. Più tardi, andò a lamentarsi con Salomone: «Santo Iddio! La mia famiglia muore di fame. Oggi avevo ricevuto in elemosina due chili di farina, e il vento me l'ha presa. Come nutrirò i miei figli, questa notte?» Il re profeta riunì tutti gli eserciti al suo comando 1 e ordinò loro: «Cercate il vento, 2 e ditegli che riammucchi immediatamente la farina del povero». Quando quelli già correvano in tutte le direzioni, gridò loro: «Ditegli anche che non tardi, perché quest'uomo deve portare la cena ai suoi bambini». Il vento eseguì gli ordini. Raccolse la farina e la consegnò. La pesarono, e non ne mancava un granello: erano due chilogrammi esatti! Il povero se ne andò soddisfatto. Il giorno dopo, Salomone convocò il vento e lo redarguì aspramente: «Hai proprio esercitato bene l'ingegno, scegliendo quel miserabile per esibire il tuo vigore!» Il vento, contrito, si scusò con Dio e con il profeta.
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Salomone può essere considerato il simbolo della saggezza gnomica dei Semiti. I musulmani credono che Dio gli concesse il potere di fare miracoli, e anche che poteva farsi trasportare dai venti attraverso l'universo; comunicava con tutti gli animali ed essi gli obbedivano; si servì degli uccelli per corteggiare la mitica regina di Saba; i vegetali gli insegnarono le loro virtù medicinali e i minerali il loro migliore impiego. Un gran numero di leggende siriane ha per protagonista questo re biblico.
NOTE 1 «Gli eserciti di Salomone: geni, uomini e uccelli si riunirono e si misero in marcia.» Corano, XXVII, 17. 2 «Gli sottomettemmo [a Salomone] quindi il vento, sì che esso correva al suo comando, leggermente, ovunque egli lo dirigesse.» Corano, XXXVIII, 35.
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Il re Salomone e il picchio
Una volta, il re Salomone organizzò una gara di velocità tra tutti gli uccelli. Alcuni decisero di parteciparvi, altri no. I contendenti dovevano volare a coppie. L'aquila maschio si presentò alla competizione e il picchio femmina la sfidò. «Sei certo di voler gareggiare proprio con me?!» chiese il grosso rapace all'uccellino. «Sicurissimo.» Ebbe inizio la prova, l'aquila spiccò il volo, e il picchio si aggrappò alle sue zampe. «Che fai? Lasciami stare, e vola da solo» gridava, infuriato, l'uccello predatore, ma l'altro fece finta di non sentire. Erano quasi arrivati al traguardo, quando l'aquila, sfinita per quel peso supplementare, fu costretta ad anticipare la discesa verso terra. Mentre stava per posarsi al suolo, l'agile picchio si staccò da lei con prontezza, e arrivò prima al traguardo. «Chi è la regina di questa gara?» chiese al re. «Finora sei tu» le rispose Salomone. «Ma per essere incoronata, dovrai superare un'altra prova. » «Quale?» «Portami un ramo. Ma attenta! Non lo voglio lungo, ma neppure corto.» Il picchio volò su un albero, e... crac. Staccò un rametto. Lo guardò, e si chiese: «Non sarà troppo corto?». Staccò un altro ramo, e gli sembrò troppo lun261
go. Crac. Crac. Crac... quanti più rami spezzava, sempre più insicura diventava sulla misura giusta. E continua fino a oggi, senza decidersi a fare la scelta definitiva. Morale della favola: Non si ottiene una reale vittoria con l'inganno e la furbizia. Chi così agisce, vivrà sempre nell'intima incertezza del proprio valore.
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Il re Salomone e il linguaggio degli animali
C'erano una volta, molto tempo fa, due vecchi, marito e moglie, che vivevano in campagna. Il re Salomone passava ogni anno quindici giorni di vacanze da loro, senza mai fargli un dono. «Vieni qui» disse un giorno la moglie a suo marito «e ascolta ciò che ho da dirti. Questo Salomone trascorre da noi la villeggiatura, e non ci ricompensa. La prossima volta fatti almeno insegnare qualcosa.» È risaputo che quel sovrano era molto sapiente. «Hai ragione» rispose il marito. Quando, l'anno seguente, il re tornò, si rese conto che qualcosa non andava bene. I suoi ospiti erano imbronciati e un po' freddi. «Che succede?» chiese loro. «O re del tempo, io ti ho sempre offerto una buona accoglienza, e tu non mi hai insegnato niente» si lamentò il vecchio. «Che cosa vorresti imparare?» «Il linguaggio degli animali.» «Bada! È difficile; e anche pericoloso.» «Non mi importa; insegnami.» Cominciarono le lezioni, e il contadino imparò. Passò un po' di tempo. Una volta, mentre stava nella stalla, sorprese una conversazione tra due tori e l'asino. «Accidenti al nostro padrone! Ci fa tirare l'aratro 263
dalle due del mattino; e anche quando il sole di mezzogiorno brucia la schiena, ci pungola e ci frusta» si lamentarono i tori. L'asino rise. «Perché ridi?» «Sto pensando che siete proprio due somari.» «Noi!» «Voi!» «Certo, è facile parlare, per te che devi solo trasportare l'aratro la mattina e la sera e trascorri pigramente il resto del tempo mangiando erba fresca sotto un albero frondoso. «Siete stupidi.» «Che cosa possiamo fare?» «Fingete di ammalarvi.» L'indomani, quando il vecchio andò alla stalla, trovò uno dei tori indisposto; non aveva neppure assaggiato la biada. Allora, al suo posto fece lavorare l'asino. Lo aggiogò con il toro, e il poveretto dovette faticare il doppio, perché era più piccolo e debole del compagno. «Sono proprio un somaro!» si rimproverò. «Potevo stare zitto.» Rientrato alla stalla, chiese al toro che si era finto malato: «Com'è andata?». «Bene. Ti ringrazio. Mi hai offerto un bel suggerimento. E tu?» «È stata una giornata interessante. Però, voglio avvisarti. Il padrone diceva: "Se domani il toro non guarisce, lo porterò al mattatoio".» «Caspita! Per l'amor del cielo! Mi sento perfettamente» disse il finto malato. E si alzò subito a mangiare. Il contadino possedeva anche un gallo e undici galline. Un giorno, vide una pollastrella vezzosa che faceva la civetta nel cortile del vicino. Il gallo la richiamò e le diede una bella lezione, rimproverando264
la aspramente: «Non uscire più senza il mio permesso. Voi galline dovete mettervi in testa che qui si fa come dico io. Non solo voi undici, anche cinquanta posso governarne. Non sono certo un debole come il nostro padrone, che ha una sola moglie e invece di farsi ubbidire si sottomette». L'uomo sentì, e tornò a casa imbronciato. «Dammi i soldi che hai guadagnato al mercato» gli disse sua moglie. «Vai al diavolo!» le rispose. «Ma... che cos'hai? Non capisco.» «Zitta! Chiudi la bocca!» «Che cosa ti è accaduto?» «Smettila di fare domande, o ti ammazzo. Da oggi devi solo ubbidire!» «Sei impazzito?» insisteva lei; e lo fece innervosire talmente, che finì per prendersi un sacco di legnate. «Appena torna Salomone te la farò pagare» lo minacciò. Quando tornò il re, gli raccontò tutto. Egli indagò, e quando capì che cos'era successo, fece dimenticare all'uomo la lingua degli animali. 1 La ricompensa di Salomone fu rendere al vecchio la saggezza; un bene che l'uomo deve scoprire dentro di sé, e accrescere con i propri mezzi.
NOTE 1 Cfr. Mille e Una Notte, "Storia dell'asino e del bue con il padrone del campo", che il visir narra alla figlia Sherazad per vincere la sua ostinata volontà di sposare il sultano. Molti racconti delle Mille e Una Notte hanno subito una "folclorizzazione": sono cioè passati alla tradizione orale, che ha elaborato nuove versioni seguendo il gusto e la cultura locali. 265
Il profeta Noè e i gatti
Stava per iniziare il Diluvio Universale, e il profeta Noè, avvertito da Allah, preparò una grande arca, dove fece salire la sua famiglia e una sola coppia di animali, maschio e femmina, per ogni specie. Appena tutti si furono stabiliti a bordo, li radunò e spiegò loro come dovevano comportarsi durante il periodo che sarebbero rimasti lì dentro. «Non si sa quanto tempo deve trascorrere, prima che finisca il castigo del Signore» disse loro. «Lo spazio è poco, e bisogna economizzare il cibo. Ordino dunque che nessuno di voi faccia l'amore, affinché non nascano nuovi esseri, mentre ci troviamo nell'arca.» Iniziò a piovere. E la terra si ricoprì d'acqua. Tutti i naviganti osservavano gli ordini di Noè. Dopo alcune settimane, però, il gatto e la gatta, desiderandosi troppo, si appartarono per accoppiarsi. Ma il cane, che li vide, corse a informare il nostro profeta. Egli, a quella notizia, si infuriò moltissimo e li maledisse, dicendogli: «Poiché avete disubbidito, sarete castigati. Ogni volta che vorrete unirvi, dovrete gridare il vostro desiderio al mondo intero». Così, infatti, fanno i gatti, da allora, nel tempo dell'amore.
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Mosè e il povero
Molto tempo fa, o amabili e cortesi lettori, viveva un uomo poverissimo. Benché lavorasse incessantemente, il disgraziato non riusciva ad avere un buon raccolto. La sorte avversa lo perseguitava. Un giorno, mentre penava nel suo sterile campo, vide passare Mosè, figlio di 'Imran, che lo salutò. Quell'attenzione benevola riaccese la speranza nell'animo del meschino. Rispose al saluto, e implorò: «Ascolta la mia supplica: non chiedo molto. Vorrei solamente riuscire a sfamare, anche se con fatica, me e mia moglie». «Intercederò per te presso il Signore» lo rassicurò il profeta, che Dio lo benedica, e tornò a camminare fino a giungere in cima alla montagna. Qui chiamò il suo dio: «Tra le genti, c'è uno molto povero che spera nella tua misericordia. Dimmi che destino gli hai riservato». Si udì la voce del Signore che rispondeva: «Per lui ho stabilito questa esistenza; e non farò niente perché essa cambi». «Ma è talmente sfortunato che finirà per morire di fame!» «Non avrà un'altra sorte.» Mosè tornò dal povero e gli riferì le parole di Dio. Al sentirle, l'altro commentò irato: «La mia dignità non mi permette di accettare l'ingiustizia di questo dio despota. Ne cercherò un altro più generoso». 267
«Ovunque andrai, non troverai altro dio all'infuori di Dio, Esso è l'Unico.» «No! Sono certo che ne incontrerò uno più clemente, che comprenderà i miei bisogni e mi offrirà i piaceri che rendono lieta la vita.» Mosè si allontanò, sorridendo. L'uomo tornò a casa e disse alla moglie, che era incinta del primo figlio: «Preparati a un lungo viaggio. Lasceremo per sempre questo paese». La donna prese uno straccio lacero, l'unico bene che possedeva, e se ne coprì le spalle. Lui le afferrò la mano e la trascinò via. Mentre camminavano, rifletteva ad alta voce sulle incognite di quell'avventura: «Pare che il mondo sia formato per tre quarti di acqua, e per un quarto di terra; che la terra sia per tre parti distrutta, e per una parte edificata. Così almeno dicono i sapienti». Andarono raminghi per un lunghissimo tempo, finché, essendo giunto per la donna il momento di partorire, si fermarono alla periferia di una città. I suoi abiti erano ormai logori brandelli, povera disgraziata! Ebbe le doglie, e Dio benedisse la sua sofferenza, facendole nascere un figlio maschio. Lei abbracciò il suo bambino e disse al marito: «Non abbiamo neppure un cencio, Dio misericordioso! Dobbiamo forse strapparci di dosso la pelle, per ricoprirlo? Vai al ruscello vicino, e chiedi a quelle lavandaie la carità di un panno per proteggere nostro figlio». Ed egli andò. Attraversando un piccolo bosco, al centro di una radura, vide tra gli alberi uno scampolo di tela nuova, lungo quattro o cinque palmi. Mentre si chinava felice a raccoglierlo, si accorse che ricopriva una giara chiusa. La aprì incuriosito: era colma di monete d'oro! Guardandola, incredulo, esclamò: «Benedetto sia questo dio buono e generoso, tanto diverso da quello di Mosè, che priva gli uomini della fortuna». Poi prese un po' di denaro, sot268
terrò il resto, e tornò da sua moglie. Le porse la tela e le mostrò l'oro. «Il dio di questo paese è migliore del dio di Mosè» le disse. Quindi si recarono nella vicina città, presero una piccola casa, e iniziarono una nuova vita. Se ne aveva bisogno, andava al nascondiglio e prelevava altre monete; finché esse terminarono. Con il tempo era diventato un ricco proprietario di case, giardini di vigne e orti con alberi che davano abbondanti frutti d'ogni specie, e di fertili praterie dove pascolavano greggi di pecore e cammelli. La moglie ogni anno partoriva un figlio, fino a quando ne ebbero dieci. Trascorsero gli anni. I figli crebbero, si sposarono ed ebbero figli. Egli era ormai il capostipite di un possente clan; abitava un alto palazzo così splendido che, a chiunque lo ammirava, gli si allungava la vita per la gioia di quella visione. Un giorno, mentre era affacciato, scorse un viandante che entrava in città. «Sul mio onore e per la mia religione! È Mosè che vedono i miei occhi! Devo mostrargli la generosità del dio di questo paese» esclamò, andandogli incontro. Baciò la mano del profeta e la terra davanti ai suoi piedi, poi lo invitò a pranzo, senza manifestare la sua identità. Fece sgozzare gli agnelli e preparare un sontuoso banchetto, a cui partecipò un gran numero di persone. Mosè osservava quella casa ricca e fastosa. Quando la festa terminò e restarono soli, il vecchio patriarca gli disse: «O figlio di 'Imran, ricordi il poveruomo che incontrasti tanti anni fa, che con il suo lavoro non riusciva a guadagnarsi neppure pane e cipolle per sfamarsi, perché il tuo dio l'aveva privato della fortuna? Sono io. Ho trovato un dio che mi ha colmato di doni». «O uomo! Ovunque ti trovi sulla terra, non esiste che un solo dio. Egli soltanto può toglierti e darti secondo la sua volontà!» rispose il profeta; e, dopo 269
averlo salutato, si diresse verso nord. Salì sulla montagna e chiamò Dio: «Signore, non capisco la tua incoerenza. Una volta, affermasti che l'uomo per il quale intercedevo non avrebbe mai avuto fortuna sulla terra, e invece l'hai colmato di ogni bene!». «Mosè, Mosè, dov'è la tua fede? Io non ho concesso alcuna buona sorte a quell'uomo, e mai l'avrà. Tutto è destinato al suo erede; quel figlio nato durante le loro peregrinazioni.» Mosè allora tornò dal vecchio patriarca e gli riferì le parole di Dio: «Per tuo figlio e non per te, il Signore ha voluto una vita piena d'abbondanza. Tu sei solo il mezzo di cui si è servito». L'altro capì, e rispose: «Questo è Dio, Mosè. Ovunque andiamo, Egli ci segue».
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L'onestà di Ali ben Shaddad
Molto tempo fa, il re Salomone governava le formiche nere, il vento, i ginn, gli uccelli, la terra e tutti gli esseri che vi camminano sopra. Un giorno, mentre passeggiava, vide una formica nera e le sputò addosso con insolente noncuranza. Essa, rivolgendogli uno sguardo sprezzante, osservò ironica: «Che nobili maniere!» «Chi è nobile?» chiese il profeta, fingendo di non capire. «Ali ben Shaddad, uomo onesto, generoso, nobile d'animo. Certo è migliore di te.» Salomone, a quell'affermazione, brontolò infastidito: «Io sono il signore della terra, e tu osi affermare che esiste uno migliore di me?» «Sì, e lo ribadisco» disse la formica, allontanandosi. «Voglio conoscerlo» decise il profeta; e fece radunare tutti gli uccelli. «Sapete dove vive Ali ben Shaddad?» domandò loro; ma nessuno dei convocati lo conosceva. Allora, risolse di cercarlo. Camminò per giorni, settimane, mesi, senza trovarlo; finché giunse in cima a una montagna dove viveva un'aquila. «La pace sia con te» la salutò Salomone. «Con te sia la pace» rispose l'aquila. 271
«Conosci Ali ben Shaddad? Sai dove posso trovarlo?» «Io no. Bisognerebbe chiedere a mio padre.» «Conducimi da lui.» «Lo farei volentieri; se fosse possibile.» «Perché, non puoi?» «Come puoi osservare, ho perso le piume. E dovrei mangiare quaranta code grasse di montone, per farle ricrescere. In quaranta giorni rispunterebbero e tu, allora, potresti salire sul mio dorso, e io ti condurrei da mio padre, da mio nonno, o dal bisnonno, fino a trovare colui che cerchi.» Dovete sapere che l'aquila non muore! Perde le piume e le riacquista. A questo proposito, esiste anche un detto: "Che la tua vita sia lunga come quella dell'aquila; che si spiuma, si rimpiuma e non invecchia mai." 1 Salomone portò le code e attese. Al quarantesimo giorno, l'animale era bello nuovo! E lui gli salì sul dorso. Volarono, volarono, e il profeta, guardando verso il basso, vide tutta la terra! Poi salirono più in alto, non si sa quanto lontano, ma certo molto, molto in alto, perché non si scorgeva più né la terra né il cielo! Comunque, alla fine di quel lungo viaggio, l'aquila si posò nella grotta dove abitava suo padre. 2 «La pace sia con te» lo salutarono. «Con voi sia la pace» rispose lui. «Padre, il nostro re cerca Ali ben Shaddad.» «Figlio mio, non lo conosco; ma forse tuo nonno sa qualcosa. Magari, potessi accompagnarvi da lui! Come vedete, non ho piume.» Il profeta gli portò quaranta code di montone, belle grasse, e attese quaranta giorni; infine partirono tutti e tre. Volarono fino ad arrivare in un'altra grotta, in cima a un'altra montagna. 272
«La pace sia con te» salutarono i nuovi arrivati. «Con voi sia la pace» rispose il nonno. «Sai chi è Ali ben Shaddad? Dove vive?» chiese Salomone. «Io non l'ho mai conosciuto. Forse è morto da quattrocento anni, o da mille. Non so. Però ricordo che mio padre, una volta, raccontò che lo aveva visto da ragazzo, mentre volava su una città. Dall'alto, scorse quell'uomo che faceva le abluzioni per la preghiera. Se potessi vi condurrei da lui. Di certo, vi aiuterebbe a ritrovarlo.» Gli portarono quaranta code, attesero quaranta giorni, e finalmente si rimisero in viaggio. Volarono, volarono, fino alla montagna del bisnonno. Anch'esso, che non aveva piume, mangiò le code di montone, si rimpiumò, e fu felice di accompagnarli al luogo in cui, molto tempo prima, nella sua giovinezza, aveva visto l'uomo che il profeta cercava. Giunsero sopra una città. «Fu qui che vidi Ali ben Shaddad» disse il bisnonno. «Che Dio ti accompagni» augurarono le quattro aquile al loro re, depositandolo a terra. Salomone si guardò intorno, interdetto. Quel posto era completamente distrutto e spopolato! Dalle case cadenti non usciva alcun segno di vita! «Signore, fai spirare il vento dell'est» pregò. E Dio lo esaudì. Arrivò il vento; si scatenò un violento uragano che nascose ogni cosa. Quando tornò il sereno, apparvero case e palazzi di pietra; erano come nuovi, e abitati da gente viva. «Che città è questa?» si informò Salomone. «Il regno di Ali ben Shaddad» gli risposero. E lui si mise a cercarlo. Lo trovò accanto a una macina e a mucchi di polvere d'oro; ma era morto. Allora il profeta chiese a Dio la grazia di farlo rivivere; e il Signore, che lo amava, esaudì la sua preghiera, resuscitando il defunto. «Sei tu Ali ben Shaddad?» domandò il profeta. 273
«Sì» rispose Ben Shaddad. «Dimmi. A cosa serve questa farina d'oro?» «Molto tempo fa, nel nostro regno ci fu una terribile carestia. Tutte le provviste si esaurirono e noi eravamo affamati. Un forestiero aveva lasciato da me alcuni sacchi di grano in deposito, ma non potevo toccarli. Non mi appartenevano. Infine, pensai di macinare dell'oro; però non si riuscì a farne farina buona per il pane, e siamo morti.» Salomone comprese. Fece soffiare il vento dell'ovest, e la vita si spense di nuovo in quella città. Chiamò l'aquila e andò via. Questo genere di racconto in arabo si chiama "mathal" (exemplum, parabola). Esso fa parte della tradizione favolistica sia orientale che occidentale. Cfr. in Migne, Patrologia Latina (voi. 73, pagg. 785-1038) gli exempla sugli eremiti che vogliono conoscere il loro posto in paradiso.
NOTE 1 La figura dell'eroe divino, trasportato dall'aquila, precedentemente nutrita perché si l'impiumasse, fa parte del mito mediorientale. Etana, XIII re della prima dinastia di Kish, era un pastore che ascese al cielo: nutrì l'aquila che si rimpiumò e le salì sul dorso; durante il volo, ogni due ore l'aquila chiedeva: «Come vedi il mare? E la terra? I fiumi?...». Cfr. Dhorme, Le mithe d'Etana in Choix des Textes AssyroBabyloniens, pag. 162 e segg. 2 Gli antichi Siriani consideravano l'aquila l'incaricata dagli dèi per portare in cielo le anime dei defunti, e simbolo di immortalità; più tardi, presso i primi cristiani, fu simbolo di resurrezione.
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Il profeta Habib il falegname 1
Una volta, molto tempo fa, un giovane uomo si fermò davanti alla bottega del nostro signore Habib. Lo salutò e gli disse: «Voglio farti una domanda. Credi che io sarò tra le creature che andranno in paradiso o tra quelle che scenderanno nel fuoco?». «Qual è il tuo lavoro?» lo interrogò il profeta. «Per Dio! Aggredisco le persone lungo la strada, e le uccido. Finora, ne ho assassinate novantanove.» «È facile prevedere che andrai in paradiso!» osservò, ironico, il veggente. E indicando un tronco marcito e sterile, vecchio di cento anni, e un martello che aveva in mano, aggiunse: «In nome di Dio, ascolta. Se quel tronco, ormai infecondo, dovesse produrre un getto lungo quanto il mio martello, forse potresti far parte delle genti del cielo. E ora vai. Vattene». Qualche giorno più tardi, mentre Habib lavorava al suo tavolo da falegname, si fermò a salutarlo un altro passante. «La pace sia con te.» «Con te sia la pace, o sultano delle genti.» L'uomo, che non era ammogliato, al sentirsi rivolgere quel saluto ossequioso, pensò: "Se mi onora con il titolo di sultano delle genti ora che non ho una sposa, come mi chiamerebbe, se l'avessi?". Quindi decise di trovare una moglie. Dopo le nozze tornò alla falegnameria. 275
«La pace sia con te» disse ad Habib. «Con te sia la pace, o uomo tra gli uomini» rispose il profeta. Sorpreso e deluso da quella degradazione, il giovane considerò tra sé: "Ho fatto male a prendere moglie. Sono diventato uno qualunque. Per Dio! Devo rinunciare a lei". La ripudiò, e andò un'altra volta dal profeta. «La pace sia con te.» «La pace sia con te, che sei il più scellerato tra gli scellerati» inveì Habib. Allora, egli decise: «Mi riprenderò la moglie per essere come gli altri uomini». Dovette penare un po', ma infine, con la mediazione di amici e conoscenti, riuscì a portarsi in casa, nuovamente, la donna che aveva rinnegato. Poi tornò dal sant'uomo. «La pace sia con te» gli disse. «Con te sia la pace, o mostro peggiore di tutti i mostri che popolano il creato» gli rispose Habib. Il vanesio si allontanò, sconsolato, e mentre camminava, rifletteva: "Non dovevo cambiare la mia condizione. Magari fossi rimasto com'ero! Non avrei dovuto sposarmi, e tanto meno divorziare". Torniamo ora al bandito che aveva ucciso novantanove persone. Un giorno, mentre passava vicino a un cimitero, all'ora in cui il sole tramontava, udì una voce proveniente dai sepolcri. Si fermò a osservare, incuriosito, e vide un uomo davanti a una fossa che recava i segni di una recente sepoltura. L'individuo dissotterrava un cadavere, e gridava: «Da vivo, non sono mai riuscito ad averti. Ora finalmente mi apparterrai. Sei morta. Come potresti sfuggirmi?» Urlava, e spalava la terra, fino a che comparve il corpo di una donna avvolto in un lenzuolo. La denudò, e stava per usarle violenza, quando il potere di Dio rianimò un braccio della morta. L'arto difendeva quell'essere inanimato, respingendo l'ag276
gressore. Lui lo amputò. Il bandito, nascosto lì vicino, vedeva tutto ciò. Si animò l'altro braccio, il bruto mozzò anche quello, e inveì ancora contro la povera defunta, pregustando l'oltraggio. «Hai finito di resistermi, e io finalmente sazierò la voglia che ho sempre avuto di possederti» disse. A quella scena il giovane brigante non riuscì più a contenersi. Uccise il profanatore e gettò lontano il suo cadavere. Poi tornò alla tomba. Ricompose la salma, l'avvolse nel lenzuolo e la seppellì. Trascorse del tempo. Un giorno, passò nuovamente davanti alla bottega di Habib il falegname. Si fermò per salutarlo, e vide che pregava. «La pace sia con te» ripetè per tre volte, senza ottenere risposta. Mentre il profeta recitava le orazioni, il bandito si guardava intorno e, sorpreso, vide il tronco vecchio di cento anni, ornato di due recenti germogli lunghi come il martello del falegname. «La pace sia con te, con te, con te» lo accolse Habib, quando terminò la preghiera, e gli chiese: «Che cosa hai fatto, perché questo tronco germinasse?». «In verità, ho ucciso un altro uomo. E così sono giunto a cento.» «Descrivimi come sono andate le cose: parola per parola.» Glielo disse. Quando finì il suo racconto, il profeta esclamò: «In verità, Dio è onnipotente! Guarda, figlio mio, la tua azione ha ridato vita a questo tronco. Eh sì! È stata proprio una buona azione! Sai? Sono novantanove anni che io sego legna senza sosta, e non è mai germogliato niente. Dio ha perdonato tutti i tuoi peccati perché hai compiuto un'opera buona in favore di una sua creatura indifesa.» Che il Signore conceda una vita retta a tutti voi. 277
È molto probabile che gli anonimi inventori delle leggende islamiche sui profeti abbiano utilizzato fonti siriane, ebraiche o cristiane dei vangeli apocrifi. L'implicito elogio del celibato e la condanna dell'orgoglio fanno pensare a un 'origine cristiana di questa fiaba. I mistici che nei primi sei secoli dell'era volgare conducevano un 'esistenza da solitari nelle contrade desertiche della Siria, in particolare Simeone Stilita e i suoi seguaci, con le loro spettacolari forme di ascesi colpirono profondamente l'immaginazione popolare. Questo genere di racconti edificanti (in arabo naba', storie di profeti) si raccontavano in Siria almeno dal V sec. d.C., come testimoniano le fonti scritte. Talvolta, però, avevano un intento polemico tra le diverse sette cristiane (cfr. H. De Lehaye, Les saints Stylites, Picard, Parigi 1923). Essi si trovano anche in numerose raccolte di «Esemplari» occidentali e spesso il protagonista è un santo eremita del deserto (cfr. Johannes Gobi, Scala Coeli, Ed. de J. Zaimer, exemplum n. 700; J. de Vitry, Exempla, Ed. Crane, London 1890, n. 72; E. de Bourbon, Anedoctes Historiques, legendes et apologues). Per gli stiliti siriani vedere inoltre Pena, Castellana, Femàndez, Les Stylites Syriens, Milano 1987. Sono, dall'Islam, considerati profeti: i patriarchi biblici, quali Noè, Abramo, Giacobbe ecc.; re, come Davide e Salomone; personaggi del Nuovo Testamento, tra cui Zaccaria, Giovanni e Gesù Cristo; personaggi fantastici del leggendario arabo.
NOTE ' È il biblico Agabo, che preannuncia la prigionia di Paolo, At, 21,10 e predice una grande fame sotto Claudio, At, 11,27-30. Corano, XXXVI (il "Dies Irae" islamico), 12. Fu martirizzato in Siria, e sepolto sul monte Silpio, presso Antiochia. Ancora oggi la sua tomba è venerata dai musulmani. 278
Il figlio del re, l'ebreo e i quaranta ladroni
C'era una volta, molto tempo fa, un re che aveva tre figli. Il re diventò vecchio e morì. I suoi eredi cominciarono a contendersi la successione al trono; infine, giunsero a un accordo: divisero i soldi in parti uguali e il resto lo affidarono al destino. L'ultimogenito voleva scoprire il mondo e decise di viaggiare. Andò da un paese all'altro, conobbe genti e luoghi in grande quantità, ma fu imprevidente, e un brutto giorno si accorse di non possedere più una lira. Risolse perciò di far ritorno. Quando i fratelli lo videro arrivare, così male in arnese che pareva un mendicante, gli chiesero: «Che ne hai fatto del denaro?». «Mi sono divertito e istruito. Ho visitato tante terre, e conosciuto molte cose.» Fece un resoconto talmente affascinante delle sue avventure che il secondogenito decise di imitarlo. Partì. Viaggiò da una città all'altra, attraversò molti paesi. Un giorno, mentre cavalcava, scorse un magnifico castello. «Chi abita laggiù?» domandò a un passante. «Una bellissima fanciulla, la più avvenente del regno. È la figlia del nostro re. Dicono che per vederla bisogna pagare cinquecento monete d'oro, e che per altre mille si può passare una notte con lei.» Al principe restavano proprio mille e cinquecento monete, e decise di avvicinarsi al castello, per sco279
prire se valeva la pena di spenderle per quella meraviglia di ragazza. Giunto nei pressi del maniero, si appostò finché la intravide a una finestra. Gli sembrò veramente splendida! Desiderando ammirarla più da vicino, pagò cinquecento monete d'oro. La bella si affacciò al balcone e si lasciò guardare. La desiderò ancora di più. Diede il resto dei soldi e trascorse la notte con lei. Il mattino seguente, prese la strada del ritorno. Ormai, anch'egli era poverissimo. Quando giunse alla reggia e vide che il fratello maggiore viveva nell'abbondanza ne fu invidioso. «Noi siamo miserabili, e lui così ricco!» commentò con il fratello minore. Insieme andarono a visitarlo, e si misero a descrivere tutte le delizie che avevano gustato. L'altro finì per lasciarsi tentare dall'idea di assaporarle, e partì. Passò da un posto all'altro e, una mattina, giunse in vista del castello in cui abitava la principessa dalla straordinaria avvenenza. Accadde a lui ciò che era successo al fratello: fu informato sull'abitante di quel palazzo. Volle vederla, e poi amarla. Restò senza denaro e tornò a casa povero. Ormai i tre figli del re erano tutti nelle stesse condizioni, e ogni tanto, per consolarsi dell'indigenza in cui vivevano, rievocavano insieme le avventure del passato. Un giorno, il maggiore e il secondogenito ricordarono la fanciulla che entrambi avevano incontrato e, sentendo quei discorsi, al fratello piccolo venne un grande desiderio di conoscerla. «Voglio andarci anch'io» disse. «Ma non hai denaro.» «Con denaro o senza, la devo vedere.» Immediatamente sellò il suo cavallo e partì. Galoppò per monti e valli, finché giunse in vista del palazzo che cercava; allora si fermò a riposare all'ombra di un albero frondoso. Un ebreo era seduto lì. Si salutarono. 280
«Salve.» «Buon giorno a te.» «Che cosa ti conduce da queste parti, straniero?» «Devo vedere la figlia del re, che abita in quel castello.» «Sai che, per guardarla, devi possedere molto denaro? Cinquecento monete d'oro. Le hai?» «Ho solo una lira e mezza.» «Una lira e mezza! Che cosa vuoi fare, con una lira e mezza?» «Non so. Ma devo assolutamente vedere quella ragazza. » L'ebreo squadrò il giovane principe con aria burlesca, ma gli era simpatico, e decise di aiutarlo. «Ti darò una mano» gli disse, invitandolo a seguirlo, e insieme andarono al mercato. Comprarono un montone e un tamburo di latta, poi si recarono alla piazza del castello. Si fermarono sotto il balcone: uno prese l'animale per il collo e cominciò a sbattergli la testa sopra il tamburo che l'altro teneva fermo. Il rumore delle corna sul metallo e i belati disperati del montone, uniti alle loro grida, provocarono uno strepito infernale, che incuriosì la cameriera. La donna chiamò la sua padrona: «Signora, signora, venite a vedere come due matti ammazzano un agnello!» La figlia del re si affacciò, provò pena per l'animale, e li apostrofò: «Ehi, voi, siete pazzi? Non si uccide in quella maniera una povera bestia.» «Non ne conosciamo un'altra, ma a te che importa? Torna dentro.» E intanto, con quell'espediente, i due buontemponi avevano visto la rara beltà! Ripresero a sbattere le corna del montone ancora più forte. La signora ordinò alla serva: «Scendi, e conducili in casa». La_serva recò la convocazione. I 281
due accettarono. Portarono il montone dentro il palazzo e lì, con un coltello, lo sgozzarono e lo scuoiarono. Con il grasso dell'animale, burghul 1 e farina, prepararono kbeibat. 2 L'ebreo ne riempì un piatto e si collocò a un'estremità della sala da pranzo; il figlio del re andò al lato opposto, e cominciarono a lanciarsi l'uno all'altro le polpette. Le acchiappavano, le mettevano in bocca e le mangiavano. La principessa, che osservava disgustata, commentò: «Non si mangia in questo modo! Guardate come ci comportiamo noi». «Puoi mangiare come vuoi. Noi, invece, facciamo sempre così» replicarono i due amici, continuando a nutrirsi di polpette volanti. La fanciulla si indispettì e sospirò: «Guarda a che cosa mi tocca assistere!». E non riuscendo più a tollerare quello spettacolo incivile, ordinò alla cameriera: «Porta qui il ragazzo; e tu occupati dell'ebreo.» Le due donne sedettero a tavola, presero in grembo quegli impertinenti e gli insegnarono a mangiare secondo l'etichetta. Fu una cena molto allegra. Quando questa terminò, era notte avanzata. Il figlio del re e l'amico confessarono di avere sonno. Chiesero due cuscini e una coperta; poi si appoggiarono al muro, ritti, uno accanto all'altro, e posarono la testa sui guanciali sostenuti dalle spalle. Si coprirono il petto, chiusero gli occhi, e finsero di dormire. «Che posizione strana per riposare!» esclamò, stupefatta, la principessa. Si avvicinò, scosse il principe gentilmente, e bisbigliò: «Non puoi stare così fino a domani, è troppo scomodo. Non vuoi vedere come dormiamo noi? Posiamo a terra un materasso, lo ricopriamo di lenzuola, e ci stendiamo sopra». «Noi, invece, dormiamo sempre in piedi; e sei pregata di lasciarci in pace.» 282
Ma lei era ormai troppo ansiosa di offrire a quel ragazzo un riposo confortevole. Chiamò la sua serva: «Alzati. Aiutami a trascinarlo sul mio materasso, e tu curati dell'altro». I due simularono contrarietà, però furono arrendevoli per il resto della notte. Lasciarono all'alba quel luogo di baldoria. «Mi devi una lira e mezza» disse il figlio del re. «Come! Ti ho fatto risparmiare mille e cinquecento monete d'oro, e tu pretendi indietro la lira e mezzo?» ribatté il compagno, offeso. «Tu hai avuto ciò che ho avuto io. Rivoglio i miei soldi.» Batti e ribatti il chiodo, giunsero alla città. «Va bene!» concesse infine l'ebreo. «Però non li ho con me, aspettami qui. Vado a prenderli e torno.» Ma poi avverti la moglie: «Verrà uno a trovarmi. Digli che sono morto». II figlio del re, infatti, attese e attese, ma quando fu stanco di aspettare si mise a cercarlo. Finalmente trovò la casa. Bussò. «Chi è?» «Sono un compagno dell'ebreo. Abita qui?» «Abitava qui, poveretto! Pace all'anima sua.» «È morto? Impossibile! Solo poche ore fa galoppavamo insieme.» «Vi assicuro che è morto.» «Era amico mio. Devo vederlo, e dargli l'ultimo saluto.» La donna non fece in tempo a ribattere, che egli era già dentro. L'ebreo, rigido come un palo, giaceva sul pavimento. Il figlio del re si chinò, lo pizzicò, ma quello rimase morto. «Indossa ancora i suoi abiti!» esclamò, rivolto alla signora; e aggiunse: «Svelta! Fai bollire l'acqua per la purificazione. Ti aiuterò a lavarlo». Lo pulì così 283
coscienziosamente, con l'acqua ben calda, che gli scottò la pelle; ma il giudeo restò defunto. Infine lo depositarono nella bara e lo portarono al cimitero. La moglie restò a vegliare per qualche ora, poi si alzò, e disse: «Torno a casa; non vieni?» «No. Tu puoi andare, ma io resto qui. Era amico mio, non posso abbandonarlo. Anzi, sai? Forse non lo lascerò più. Non posso vivere senza di lui. Morirò.» Continuò la veglia funebre, senza concedersi un attimo di sonno. Verso mezzanotte, sentì il calpestio di gente che arrivava e andò a nascondersi dentro un grande sepolcro abbandonato. Lì, da una finestra scrutò nell'oscurità. Vide arrivare degli uomini, che si sedettero in cerchio accanto alla bara dell'amico. Erano quaranta ladroni, che avevano rubato il tesoro del re, e si erano rifugiati nel cimitero per dividersi il bottino. «Uno a te, uno a te, uno a te...» la spartizione procedette senza problemi, finché toccò a una grossa spada. Era la spada del sovrano che avevano derubato, e tutti volevano quel trofeo. Il figlio del re osservava attento. La contesa si fece aspra. Nel momento in cui stavano per azzuffarsi, lui sentenziò con voce solenne e stentorea: «La spada apparterrà a quello che, con essa, riuscirà a spezzare in un solo colpo la bara che è lì accanto.» I ladroni rimasero sconcertati. Ma uno di essi, il più alto e vigoroso, dopo un attimo di smarrimento, si alzò ardito, afferrò l'arma con le due mani, e la sollevò sopra il suo capo. Stava per vibrare, con arrogante energia, un colpo, quando una voce, lugubre e minacciosa, che usciva dalla bara, lo fermò: 284
«O voi che dormite sotto terra, alzatevi! Scacciamo questi profanatori.» I quaranta furfanti scapparono come lepri inseguite, abbandonando spada e tesoro. L'ebreo resuscitò e si sedette accanto all'amico, dicendogli: «Se dividiamo questo bottino nella maniera usuale, uno a te, uno a me, e quelli tornano e sentono, capiscono e ci ammazzano. Perciò diremo sempre: questo a te». I ladri, dopo essersi calmati, cominciarono a riflettere: «È possibile che i morti parlino?». Diventavano, in effetti, un po' scettici, anche se, a dire il vero, avevano ancora qualche perplessità. Uno, però, che superava gli altri in furbizia e audacia, si alzò, baldanzoso. «Vado io a controllare» disse. Sistemò il tarbush 3 sulla testa e tornò al cimitero. Si mise a indagare, e dei rumori lo guidarono verso il grande sepolcro. Si avvicinò, prudente, e stette ad ascoltare. Una voce ripeteva senza sosta: «Questo a te, questo a te, questo a te...». Attese, attese molto tempo, sempre più inquieto, poi finalmente la spartizione finì. Si fece coraggio, e con prudenza, affacciò la testa alla finestrina. «Dammi la mia lira e mezza» diceva, proprio in quel momento, il figlio del re, che non aveva rinunciato a recuperare i suoi soldi. L'ebreo, che guardava intorno pensieroso, cercando una scappatoia, vide il tarbush del ladrone, lo prese con un sospiro di sollievo, lo consegnò all'amico, e gli propose: «Vuoi questo, al posto del denaro?» Sentendo quelle parole, il ladro fuggì. Il terrore lo accecava, sbatteva da ogni parte, e arrivò trafelato e sanguinante dai compagni, che si alzarono tutti insieme e lo guardarono con gli occhi spalancati. 285
«Che cosa ti è accaduto?» gli chiesero in coro. «Per carità!» rispose. «C'era radunato, a spartirsi il nostro bottino, un così grande numero di morti che a ciascuno di essi toccò solo una lira e mezza. Figuratevi che l'ultimo è rimasto addirittura senza niente, e si è preso il mio tarbush.» Il figlio del re accettò il copricapo come risarcimento, lo indossò, prese la sua parte del tesoro, e si congedò dal compagno. Tornò ricco al suo paese, e diventò il nuovo re.
NOTE 1 Grano spezzettato e precotto. 2 Polpette particolarmente consistenti, tipiche della gastronomia si nana. 3 Fez.
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Il pastore di cammelli e la figlia del re
Un giorno di primavera, un re e il suo visir passeggiavano a cavallo, con le famiglie, nella steppa fiorita. La figlia del re e la figlia del visir precedevano gli altri, e conversavano allegramente. A un tratto, la principessa si fermò per osservare un fiore chiamato pene della terra, 1 e confidò all'amica: «Magari potessi avere cento come questi!». Il sovrano sentì quelle parole, e ne fu sconcertato. «È mai possibile che mia figlia desideri un uomo tanto intensamente?» si chiese. Quando rientrò a palazzo, prese una decisione. Avrebbe concesso la figlia in sposa all'uomo capace di fare l'amore cento volte in una notte. Il giorno dopo, fece dare il bando in tutto il regno. Lo udì una donna che aveva due figli: uno era pastore di pecore, l'altro di cammelli. Andò dal primo, e gli chiese: «Figlio mio, quando hai fatto con soddisfazione l'amore una volta, replichi o smetti?» «Smetto.» «Non sei un uomo gagliardo! Con te, non avremmo successo!» disse. Si recò, allora, dal pastore di cammelli, e gli pose la stessa questione: «Figlio mio, se fai l'amore con una donna, una volta appagato, replichi o smetti?» «No, perbacco! Persisto!» esclamò il figlio. 287
«Sei un uomo vigoroso, con te si può avere fortuna! Vai dal re. Ha promesso la mano della figlia all'uomo capace di fare l'amore con lei cento volte in una sola notte. Diventerai ricco.» Il pastore di cammelli andò immediatamente dal re e gli disse: «O re del tempo, sono disposto a sposare tua figlia.» «Va bene. Ma bada! Se non fai l'amore cento volte la prima notte, ti taglierà la testa.» «D'accordo.» Fecero subito il contratto di nozze, al quale seguì una festa, con musiche, canti e danze, che durò fino a tarda notte. Appena gli sposi si furono allontanati, il re chiamò una schiava, e le disse: «Stai nella loro camera e conta quante volte si uniscono.» La mattina seguente, al risveglio, il re la convocò per sapere come era andata. «Raccontami che cosa è successo» le chiese. «Signore mio! Vostro genero ha fatto l'amore cento volte con la principessa, cento volte con me e, se vi foste trovato lì, l'avrebbe fatto cento volte con voi» gli rispose la schiava. Questo aneddoto, di ambiente nomade, che può parere osceno ma che è narrato con intento caricaturale, ricorda le descrizioni che cronisti esagerati ci hanno lasciato sull'esuberanza sessuale nella società preislamica dell'Arabia. Scriveva Ammiano Marcellino, storico siriano del IV secolo d.C.: «È difficile descrivere con quale furore, in questa nazione, i due sessi si abbandonano all'amore». Comunque, gli Arabi hanno spesso descrìtto con sereno 288
realismo i piaceri sessuali. Così invita a gioirne il Corano: «Le vostre donne sono un campo per voi, andate quindi al vostro campo come vorrete...», II, 183-222; e ancora LV, 56-70. Il Kitab el-Aghani è ricco di annotazioni precise sui rapporti tra i sessi e sui gusti delle aristocratiche, che conducevano un'esistenza molto libera. Nel Al-Djahiz Djawari, una medinese, Hubba, dà a suo figlio consigli di una straordinaria audacia e insegna raffinatezze erotiche alle concittadine. Anche in certi ambienti della società abbaside si praticò una morale spregiudicata, ed esiste una letteratura dell'epoca che usa una grande libertà di linguaggio. Nelle stesse opere di adab letterario si trovano spesso aneddoti estremamente osceni. Cfr. Enciclopedia Islamica, alle voci "Hikaya" e "Nadira"; Maxime Rodinson, Mahomet, Ed. du Seuil, Imp. Bussiere, Saint-Amand 1968.
NOTE ' Pianta che fiorisce in primavera e richiama nella forma l'organo genitale maschile. È la cistacea phelypaea.
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Il re insonne
C'era una volta un re che soffriva d'insonnia. Tutti gli abitanti del regno durante la notte dormivano, ma lui era costretto a vegliare. Il disgraziato non ne poteva più di quelle lunghe ore trascorse in solitudine, così decise di dare un bando: "Il re farà ricco chiunque starà sveglio con lui. Però, se il suo compagno si addormenterà, gli farà tagliare la testa". Provarono in molti, e nessuno riuscì nell'impresa. Una sera, quando la reggia era ormai piena di teste mozzate, venne un uomo che rimase desto per molte ore. "Finalmente!" pensò il sovrano, contento; e proprio in quel momento, l'altro si addormentò! Il re se ne accorse, lo scosse, e gli chiese: «Che fai? Dormi o vegli?» «In verità dormivo» rispose lo sciocco; e perse la testa. Il giorno dopo, si presentò al palazzo un giovane bellissimo, alto e di nobile aspetto. «Sono qui per vegliare con sua maestà» disse alle guardie. «Bada che, se ti addormenti, morirai!» lo avvertirono. A dire il vero, alle guardie dispiaceva che quel ragazzo incantevole dovesse morire! Egli fu irremovibile, e si fece condurre nella sala del trono. Restò sveglio per molto tempo ma, infine, il sonno lo vinse. Il re si accorse che aveva gli occhi chiusi, lo scosse, e gli domandò: 290
«Dormi, o vegli?» «Veglio, veglio» disse il giovane. «Però eri trasognato. A che cosa pensavi?» «Pensavo, pensavo... Se si prosciugasse l'acqua del mare, che potremmo fare di tutta quella terra?» «Non saprei, in verità» ammise il re. Il suo compagno intanto si era ripreso. Suonò il liuto, recitò versi, raccontò aneddoti, ma infine si assopì un'altra volta. Il re se ne accorse, e gli chiese: «Dormi o vegli?» «Sono sveglio, sono sveglio» rispose, sbadigliando, l'assonnato. «A che cosa pensavi?» «Pensavo: o sire, se l'acqua del mare diventasse latte, quanto caglio sarebbe necessario per farne formaggio?» Il re apprezzò la facezia, e il ragazzo sospirò di sollievo per lo scampato pericolo; ma non riusciva più a dominare la stanchezza! Dopo un'ora, si addormentò ancora. «Che fai, dormi o vegli?» gli chiese il re insonne, scrollandolo. «Veglio, veglio.» «Ti ho visto soprappensiero. Che cosa rimuginavi?» «Mi chiedevo, o signore: anche Allah avrà in paradiso una brigata che non dorme, e non lascia dormire nessuno?» Il re si divertì molto a quella risposta arguta; lo fece ricco, gli diede in sposa sua figlia, e lo incoronò al suo posto.
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Il qadi e lo spazzaturaio
C'era una volta, molto tempo fa, un giovane spazzaturaio che raccoglieva l'immondizia nel quartiere dove abitava il qadi. Un giorno, mentre lavorava, vide la bellissima moglie del magistrato e se ne innamorò. Quando, la sera, rientrò a casa, era così turbato da quella fulminea passione, che la madre, accorgendosi del suo sconcerto, gli chiese: «Che cosa ti succede, figlio mio?» «Ho visto la moglie del giudice» le confessò. «E il mio cuore si è infiammato. Voglio che tu me la faccia avere.» «Che disgrazia!» esclamò la vecchia, «non potrebbe piacertene un'altra? Questa non posso procurartela.» Ma lui insisteva, piangeva, supplicava; e lei, stanca, alla fine cedette: «Va bene, tenterò». La mattina seguente, dopo essersi fatta prestare un abito elegante dalla vicina, si recò a casa del giudice. Bussò, e le aprì la bella signora: «Buon giorno, zia, che cosa desideri?» le chiese. «Volevo trascorrere un momento con te.» «Benvenuta» le disse, e fece entrare l'ospite. La madre dello spazzaturaio fu gentile e servizievole. L'aiutò a riordinare, lavare, preparare il pranzo. Trascorsero insieme delle ore piacevoli, e si lasciarono con l'intesa di rivedersi ancora. Il terzo giorno, dopo aver fatto il bucato, sedettero a prendere il caffè. «Mi 292
trovo bene con te. Vieni sempre» propose, sorridendo, la signora. L'altra, allora, prese un po' di coraggio, e le confidò: «Cara, devi sapere una cosa. Il mio unico figlio è caduto nella trappola dell'amore. Da quando ti ha visto, non riposa più. Ti prego, concedigli un incontro. Può darsi che si dia pace.» «Va bene, se proprio lo desideri, lo incontrerò.» «Quando?» «Tutte le sere mio marito esce per recarsi alla moschea, e lascia sempre la porta della stalla aperta. Di' a tuo figlio di nascondersi lì, oggi, dopo il tramonto.» Avuta la bella notizia, l'innamorato si vestì con cura, si profumò, e andò all'appuntamento. Attese che il marito uscisse per la preghiera, ed entrò nella stalla. Ma, aspetta, aspetta, l'amata non lo raggiungeva. Che fare? Impaziente, si mise a dare colpi alla parete. Dovete sapere che però, nel frattempo, il giudice era rientrato. «Sento rumori nella stalla» gli suggerì sua moglie «vai a controllare.» Egli scese, e vide il giovane. «Che cosa fai qui a quest'ora?» gli chiese. «Mia madre è malata, e il medico le ha prescritto un infuso di orzo. Sono venuto a prenderne un po'.» L'uomo gli credette, e gli regalò l'orzo. «Che cos'è questa storia?» volle sapere la vecchia, il giorno dopo. «Zia, sono spiacente. Mio marito si è insospettito, e ho avuto paura» mentì la dama, aggiungendo: «Prendi questa chiave, consegnala a tuo figlio, e digli che mi attenda questa sera nella stanza degli ospiti». Lo spazzaturaio, felice all'idea di poter finalmente incontrare la bella, si nascose nella stanza; ma anche quella volta attese invano. «Ho sentito dei passi, vai a controllare» disse la moglie al marito, al suo rientro. Il giudice andò nella 293
camera e vide il giovane, che prendeva le misure di un tappeto. «Che fai qui?» chiese, sorpreso. «Mia madre, signore, è guarita grazie al tuo orzo, e vuole ricompensarti. Mi ha ordinato: vai, e vedi quanto è grande il loro tappeto, voglio fargliene uno uguale.» «Che donna amabile! Ringraziala.» Si salutarono, e il qadi tranquillizzò sua moglie. Lei mandò un messaggio all'amica. «Cara, sono desolata. Di' a tuo figlio che domani si nasconda in camera da letto, e mi attenda al buio.» La sera dopo, propose al marito: «Perché non te ne vai a riposare? Appena i bambini si saranno addormentati, ti raggiungerò». Una volta coricatosi, il qadi si appisolò. Lo spazzaturaio si avvicinò al letto, e cominciò ad accarezzarlo. Quelle carezze risvegliarono il qadi, che accese la luce e vide l'intruso. «Che fai?» gli chiese un po' sconcertato. «Tutti i miei amici sostengono che hai un solo testicolo, ma io ho scommesso che ne hai due. Sono venuto a controllare» spiegò il giovane con prontezza, appena si accorse dell'equivoco. Il qadi sorrise e lo rassicurò: «Vai, e fatti pagare la scommessa, perché hai vinto. Ne ho due». Lo spasimante partì, ed entrò la moglie, che gli disse, irata: «Ripudiami.» «Perché?» «Preferisco un uomo intelligente a un uomo istruito; e voglio essere sua, non da adultera, ma nella legalità. Tu sei un giudice, egli solo uno spazzaturaio, ma per tre volte si è burlato di te» e continuò a raccontargli come si erano svolti i fatti. Il giudice la ripudiò; lei sposò lo spazzaturaio. 294
Matté
C'era una volta una donna anziana, così povera che non poteva comprare neppure il tabacco per il narghilè e, tanto meno, aveva i mezzi per far sposare suo figlio, che si chiamava Matté, ed era ormai in età di prender moglie. Pensa, pensa, un giorno decise di recarsi a casa di una famiglia benestante e generosa, che viveva nel villaggio, per farsi regalare una gallina. Bussò alla loro porta, raccontò i suoi problemi, e quella brava gente, impietosita, le offrì ciò che aveva domandato. Lei tornò lieta alla sua capanna, e si dedicò alla cura dell'animale. Appena ebbe venti uova, gliele fece covare. Al momento giusto, le uova si schiusero, e saltarono fuori venti pulcini. I pulcini, con il tempo e le continue attenzioni, diventarono galline grosse e belle. Un venerdì, andò al mercato e barattò le sue galline con un vitello e un mastello. Quando il vitello diventò una mucca, si mise a fare il latte. La donna la munse, riempì il mastello, e lo consegnò al figlio: «Matté, vai al mercato e vendi il latte. Guadagneremo un po' di denaro e così potrai sposarti» gli disse, mettendogli il mastello sulla testa. Matté, mentre andava al mercato del villaggio, si mise a sognare. «Appena guadagnerò i soldi, mi sposerò. Avrò una figlia. Lei crescerà, e diventerà una 295
bellissima fanciulla. Verranno a chiedermi la sua mano. Io rifiuterò. Mi pregheranno: "Dacci tua figlia, Matté, è tanto bella!". E mi offriranno una borsa di monete d'oro. "Non voglio" risponderò. Me ne offriranno due. Ma io sarò inflessibile.» E, a quell'idea, si sentiva già tutto agitato. «Insisteranno: "Ti imploriamo, fai sposare la tua ragazza con nostro figlio, e avrai tre borse d'oro, sono tante".» E Matté si mise a urlare: «Basta! Non voglio! Non voglio!». Si innervosì talmente per l'insistenza di quella gente, che gesticolando con le mani per enfatizzare il suo rifiuto, lasciò cadere il mastello. Matté aveva fatto tutti i conti, ma i conti non tornarono. Erano quelli di uno sciocco, perché il mastello era caduto, e il latte si era versato per terra. «Non fare sogni campati in aria» è la morale espressa in questo racconto, che è presente nella favolistica di tutto il mondo. Essa ha viaggiato per paesi ed epoche, svolgendosi in numerosissime varianti. Appare per la prima volta nella letteratura sanscrita: in Panchatantra e Hitopadesa il protagonista è un povero bramino. NeWVIII secolo d.C., la ritroviamo nei racconti di Calila e Dimna (versione araba); in Giovanni di Capua (1270); negli Esemplari di Etienne de Bourbon, e altri. Uno dei più interessanti e significativi è Dona Truhana, dello scrittore medievale spagnolo Don Juan Manuel.
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L'astuto giullare
Mentre Harun ar-Rashid stava con le sue donne, entrò un giullare. «Dategli del vino fino a ubriacarlo» ordinò il califfo ai servi, ed essi lo fecero bere tanto, che cadde a terra ebbro. Tra le fanciulle dell'harem, ce n'era una che il principe dei credenti amava pazzamente. Le si avvicinò, e sussurrò alcune parole al suo orecchio. Lei annuì sorridendo e, senza farsi scorgere da nessuno, nascose il bicchiere del giullare sotto l'abito, tra le gambe. Allora Harun ar-Rashid si alzò, impugnò minaccioso la spada, e rivolgendosi all'ubriaco, esclamò: «Giuro su Dio, e sulla mia testa: se mi dici chi ha preso il tuo bicchiere, e dove lo ha nascosto, avrai una grande ricompensa. Però fai attenzione alle tue parole! Se non indovini o, peggio ancora, offendi una delle mie donne, morirai». Il giullare pensò per un momento, poi rispose: Fra tutte le storie Questa è la più interessante. Non è certo una ladra La gazzella Anche se Ha nascosto il mio bicchiere In una regione 297
che mi infiammò d'amore. Anche se Mi ha rapito il cuore. Per riguardo al mio signore Non posso nominarla Poiché solamente lui può possederla. La sua risposta divertì il califfo, e gli fece guadagnare una ricca borsa d'oro. Gli spassosi aneddoti popolari sull'esistenza che conduceva l'alta società califfale, e la gaudente vita di corte all'epoca di Harun ar-Rashid, sono interessanti per la freschezza e immediatezza delle immagini, in contrasto con il manierismo con cui è rappresentato il principe dei credenti nelle Mille e Una Notte.
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Le tre sorelle
C'erano una volta, a Homs, tre sorelle mezzo matte, che vivevano insieme. Ma trovarono marito, e dovettero separarsi. La maggiore sposò un venditore di galline. Un giorno, accudendole, si accorse che avevano le pulci. "Devo salvarle, e farò felice mio marito" pensò. Per eliminare quei terribili parassiti, fece bollire un grosso recipiente d'acqua, vi immerse, una per una, le povere bestiole, e le riportò nel pollaio. Quando suo marito vide le galline immobili, sdraiate a terra, osservò preoccupato: «Sembrano morte!» «Che dici, caro? Sono soltanto stanche, dopo il bagno bollente che ho dovuto fargli, per uccidere le pulci che le stavano divorando. Per fortuna, le ho salvate in tempo. Erano così contente, che non hanno neanche protestato per l'acqua troppo calda.» «Disgraziata! Folle! Hai ammazzato le galline, e rovinato me» urlò, infuriato il marito. E la ripudiò. La seconda sorella aveva sposato un venditore di sapone, che aveva una casa con il pavimento in terra battuta che, bagnandosi, diventava fangoso. "Non posso vivere in queste condizioni. Farò una bella sorpresa al mio caro marito" pensò la sposina. E si mise a piastrellare il suolo con i bei panetti di sapone verde che erano accatastati in cantina. In verità, lavorò ala299
cremente tutto il giorno. Di sera, tornò il marito, aprì la porta, entrò in casa e... fece uno scivolone. Alzandosi tutto dolorante, chiese a sua moglie: «Perché, sciagurata, hai coperto il pavimento con il sapone? Vuoi rovinarmi?» «Caro, per rendere la nostra casa più bella e pulita!» rispose lei. Fu ripudiata. La terza sorella era diventata la moglie di un venditore di henna. «Potrei usarla per tingermi i capelli e le mani?» gli chiese un giorno. «Certo, cara, che puoi usarla, è tua. Ce n'è tanta.» «Come la preparo?» chiese lei. «Falla sciogliere nell'acqua del pozzo» le rispose divertito, credendo che volesse scherzare. Tutte le donne, da noi, sanno infatti come si prepara l'henna. Ma lei lo ignorava, e mise in pratica quel consiglio: gettò tutti i sacchi di henna nel pozzo, e vi si immerse! Quella sera il marito bussò alla porta: «Apri per favore, cara. Non ho le chiavi.» «Non posso, caro. Ho le mani piene di henna.» «Apri con il gomito.» «È pieno di henna.» «Apri come vuoi: con la testa, con i denti, con i piedi. Ma cerca di sbrigarti» si spazientì lui. «Non posso. Sono imprigionata nell'henna.» Lui, allora, con una spallata aprì l'uscio, e trovò sua moglie dentro il pozzo, mezzo affogata nell'henna. Disgustato, la ripudiò. Le tre sorelle si ritrovarono e, per la vergogna di aver perso i mariti, decisero di cambiare città. Andarono ad Aleppo, ma vi giunsero che era buio, e trovarono le porte delle mura già chiuse per la notte. «Apri! Dobbiamo entrare nella medina» gridarono alla guardia. 300
«Non si può, fino al mattino» rispose lui. Allora, sedettero ad attendere il giorno; e per passare il tempo si misero a raccontare le loro infelici avventure matrimoniali. «Mio marito mi ha ripudiata perché ho curato le galline facendogli un bagno bollente per uccidere le pulci che se le mangiavano.» «Che ingrato!» esclamarono in coro. «Il mio invece mi ha scacciata perché ho ricoperto il pavimento fangoso con le mattonelle di sapone. Non ho agito bene?» «Certo, cara. Che cattivo!» «Mio marito mi ha ripudiato perché ho gettato l'henna nel pozzo per tingermi i capelli e le mani. Volevo soltanto farmi bella per lui!» disse, lamentevole, la terza. «Non ti meritava, cara sorella!» La guardia, che aveva sentito tutto, pensò: "Queste pazze dovrebbero vivere in Aleppo?". E neppure all'alba le fece entrare in città. Le tre stravaganti signore continuarono a combinarne di tutti i colori, nelle peregrinazioni da una città all'altra della Siria, visto che le versioni delle loro singolari imprese si ritrovano numerose. Un'altra, ad esempio, inizia nel suk al-Ahmidyyie di Damasco, dove si ritrovano per caso dopo un altro fallimento matrimoniale.
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Le nozze del cavaliere
C era una volta Un cavaliere In groppa a un vitello Nella mano un ravanello. Gli chiese la vicina: «Oh cavaliere! Perché monti un vitello E tieni in mano un ravanello? Cosa ti passa per la testa? Hai forse un matrimonio in vista?» «Conosci una sposa adatta a me?» «C'è una fanciulla provocante Dalla pelle splendente. Se offrirai una buona dote Potrai sposarla anche stanotte.» «Ecco la borsa, prendi il tesoro. Sono cinquecento monete d oro.» La signora, tutta contenta Scelse il corredo con molto zelo: La bacinella e la caraffa Le trovò nell'immondizia Con una lanterna Un vecchio lampione E un tappeto tutto bucato Che non nascondeva il pavimento. Come cuscini, due gatti morti.
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Giunse al buio il cavaliere «Zia! Chi di voi due È la mia sposa?» «Sciagurato! Non devi toccare. Le mie ginocchia lasciale stare!» Accese lo sposo una lucerna E vide gli occhi della sua bella: «Due incerti stoppini In un mare brumoso! Che sventura, signora Nafìsa!» «Devi essere convinto. Scegliere in libertà.» «Il naso, che sciagura È una grossa melanzana!» «Devi essere convinto. Scegliere in libertà.» «La bocca è una cupa caverna Con due chiodi arrugginiti. Nonna mia, che spavento!» «Devi essere convinto. Scegliere in libertà.» «I tuoi seni, che mala ventura! Sono due sacchi di verdura.» «Devi essere convinto. Scegliere in libertà.» L'indomani, appena svegliata Disse la bella a suo marito: «Caro, non posso digiunare.» «Che cosa vorresti da mangiare?» «Tanto per cominciare Mentre prepari la colazione: Dammi due pani con olive nere E anche due con olive verdi. Due pani senza sale
Due pani con formaggio. Due pani sotto le coperte Due da acciuffare al volo. Due pani inzuppati Due come vuoi tu.» «E cosa vorresti per colazione?» «Due pozzi colmi di teste di vacca Due pozzi di grano e lenticchie.» «Sciagurata! Dimmi il tuo nome. Per sei volte Sarai ripudiata.»
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Le galline della beduina
Arab el-Mulk è un villaggio a sud di Latakia, costruito vicino all'estuario del Sinn, sulle rovine dell'antica Paltus 1 e lungo la via Antiochia-Tripoli. Al tempo in cui la Siria era governata dagli ottomani, ci viveva una famiglia molto povera. Il marito, alto, di aspetto gradevole, era anche intelligente e astuto. La moglie, figlia dello sheikh di un'importante tribù della steppa, era altera e prepotente, si sentiva sminuita per aver sposato un uomo di umile condizione, e lo tiranneggiava. Questa donna aveva anche una strana mania: amava in modo sviscerato le galline; la loro cura occupava tutto il suo tempo; non permetteva a nessuno di avvicinarle, e non le ammazzava per cibarsene, cosicché con gli anni esse si erano moltiplicate. Dall'enorme pollaio, un lezzo insopportabile e innumerevoli, assordanti coccodè si spandevano ovunque. Il marito non tollerava più quella situazione che, d'altronde, era diventata insostenibile anche per gli altri abitanti del quartiere. Lui si arrabbiava, implorava; lei semplicemente lo ignorava. Ormai per l'uomo l'idea di disfarsi delle galline era diventata ossessiva; e, liberarsene definitivamente, fu quel che fece, non appena gliene capitò l'occasione. Un giorno, la moglie dovette recarsi al vicino villaggio per una questione urgente, e lui, senza perdere tempo, le sgozzò con grande soddisfazione. Ogni volta che ne 305
uccideva una, pensava: "Magari avessi tra le mani mia moglie!". Quando le sterminò tutte, chiamò i figli, perché lo aiutassero a spennarle. "Cosa farò di questi animali?" si chiedeva intanto. "Domani andrò a Banias, e ne regalerò al governatore e ai suoi amici; il resto per la famiglia e i nostri vicini" decise infine. In quel momento, la beduina tornò a casa, e quale non fu il suo dolore al vedere la strage delle amate bestiole! Strillò, pianse, si disperò e minacciò. Mentre litigavano, giunse un gruppo di giannizzeri a cavallo che scortavano una carrozza. Scesero dalle selle e chiesero acqua per abbeverare le cavalcature. «Chi si trova dentro la vettura?» chiese lo sterminatore di polli. «Il governatore di Damasco che rientra da Istanbul» lo informarono. Allora egli invitò a pranzo quel gran signore e gli uomini del seguito. «Come vuoi offrire cibo a me e alla mia scorta tu, che hai l'aria di uno che può mangiare carne al massimo una volta l'anno?» si sorprese quello. «Io amo sacrificarmi per la patria, effendi» rispose lo scaltro paesano, e tornò dalla moglie infuriata. «È inutile che strepiti» le disse «le tue galline sono morte, e non si può tornare indietro. Approfittiamo di quest'abbondanza. Chiedi alle vicine che ti aiutino a cucinarle.» Più tardi, il governatore, impressionato dal copioso banchetto, esclamò: «Per Dio, neppure in Latakia mi hanno onorato così!» e volle ricompensare il suo anfitrione, dandogli un documento con il quale ordinava, agli aghà di Latakia e Banias, di concedere al portatore qualunque favore domandasse. Anche i compaesani approfittarono del suo potere e, naturalmente, lui si fece retribuire con ricchi doni. Così, grazie alle galline di sua moglie, diventò facoltoso e influente in tutta la regione. 306
L'amena storiella mi è stata raccontata nella cittadina di Banias; nel vicino villaggio, Arab el-Mulk, vive fino a oggi l'importante famiglia di proprietari terrieri che avrebbe ereditato i beni dall'intraprendente antenato e dalla sua eccentrica consorte. Gli Arabi chiamano questo tipo di aneddoto riwaya - racconto, trasmissione, versione di fatti avvenuti.
NOTE 1 Secondo la leggenda, vi si trovava la tomba di Memnone, figlio di Titone e Aurora (Strabone, Geographica, 7,159).
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La fortuna e l'ingegno
Moltissimo tempo fa viveva, nella valle dell'Eufrate, un fellah sfortunato e sempliciotto. Come molti contadini della regione, seminava ogni anno il grano nel suo piccolo campo ma, santo Iddio! I vicini raccoglievano, in estate, un'abbondante messe di spighe mature che si curvavano per il peso dei chicchi, e lui soltanto aridi steli. Con gli anni, diventava sempre più misero, ma non gli passava per la mente l'idea di lamentarsi; accettava, rassegnato, il suo destino. La fortuna ne ebbe compassione e volle aiutarlo. Così, un giorno, mentre arava quella terra avara, urtò qualcosa con l'aratro. Fermò il mulo e si chinò a guardare. Che cosa videro i suoi occhi? Da una giara rotta uscivano luccicanti monete d'oro! Ne riempì un sacco, lo mise da parte, e riprese a lavorare. Al tramonto, caricò quel tesoro sulla cavalcatura e tornò a casa. Lungo il cammino, si imbatté in una carovana proveniente da Mardin. 1 «Dove andate?» domandò ai cammellieri. «In Egitto» gli risposero e, canzonandolo un po', aggiunsero: «Vuoi qualcosa da laggiù?». «No, però, potreste dare questo sacco al re di quel paese?» Il capo carovana acconsentì, e prese in consegna il mulo con il suo carico prezioso. Il fellah era tanto povero; eppure non tenne per sé un solo pezzo d'oro, e in più perse anche il mulo. 308
Giunti al Cairo, i commercianti si presentarono al palazzo reale: «Veniamo da er-Zour,2 dove scorre il grande Eufrate; un fellah di laggiù te lo invia in omaggio» dissero al re, consegnandogli il sacco d'oro. Egli lo contemplò sbalordito. Era un dono d'immenso valore! Con esso, avrebbe potuto sfamare il popolo per un lungo periodo, o costruire sontuosi palazzi. Che contadino era mai quello? Il re chiese consiglio al ministro: «Come possiamo contraccambiare?» «Sire, a uno che possiede tali ricchezze ciò che puoi offrire di più prezioso è la mano di tua figlia» gli suggerì il visir. E ai mercanti siriani fu chiesto di portare un invito al fellah, perché venisse in Egitto ospite della famiglia reale. Il meschino, quando ricevette quell'offerta, ne fu turbato e chiese ai messaggeri: «Ma che cosa devo fare? Come posso comportarmi alla corte di un re?» «Sono affari tuoi. Spetta a te trovare la maniera» risposero quelli, riprendendo il viaggio verso nord. Sapete dove siamo giunti, cari ascoltatori? Al momento in cui i due veri protagonisti di questa vicenda si incontrano. Una, la fortuna, l'abbiamo già rista all'opera, l'altro è l'ingegno. Sentite che cosa si dicono. Fortuna: «Io sono più utile di te». Ingegno: «No, sono io il più efficace, nelle avventure umane». Fortuna: «Io ho fatto trovare l'oro al nostro eroe». Ingegno: «Che importa l'oro, se poi non sa servirsene?». 3 Lasciamo per ora questi due, e vediamo che cosa successe al nostro amico. Il contadino partì per l'Egitto. Era povero e non aveva cervello. Quando giunse alla reggia, chiese alle 309
guardie che vigilavano all'entrata: «Voglio incontrare il vostro re». Quelle lo squadrarono perplesse ma, dopo aver letto l'invito scritto dal loro padrone, lo lasciarono passare. Il re, vedendo quell'uomo sporco e trasandato, ordinò ai servi: «Conducetelo al bagno. Che sia lavato, sbarbato e abbigliato con vesti raffinate». Poi sopraggiunse il visir, che disse al contadino: «Oggi diventerai il genero del re». La notizia si sparse per tutto il paese: «La figlia del re si sposa! la figlia del re si sposa!». Quella notte, il castello risplendeva come un paradiso. Terminata la festa, andati via gli ospiti, i due sposi si ritirarono nella stanza nuziale. La principessa, allora, in segno di rispettosa soggezione al potere coniugale, aiutò il marito a levarsi gli abiti e le scarpe e gli offrì da bere. In verità era molto gentile e tenera con lui; ma che si può pretendere da uno stupido corpo senza cervello? Giunta l'ora di mettersi a letto, lei si sdraiò e attese; lui si mise al suo fianco, ma voltandole la schiena. La sposa si fece ardita, e lo stuzzicò con lievi carezze e parole soavi. Ma lui non reagì. Lo provocò con gesti un po' più audaci. Però lui rimase inerte. Trascorsero i giorni e le notti, ma la situazione non cambiava. Un giorno la regina chiese a sua figlia: «Com'è tuo marito? Sei felice con lui?» «Madre mia!» si lamentò avvilita la giovane sposa negletta. «Viviamo insieme come due donne!» La signora corse a lamentarsi con il re, e gli raccontò tutto, concludendo indignata: «Che razza di uomo hai dato a nostra figlia? La umilia con la sua indifferenza». Il re naturalmente si infuriò, e ordinò alle guardie: «Che domani sia impiccato!». Vennero le guardie, arrestarono il disgraziato e fissarono l'ora dell'impiccagione. 310
La fortuna e l'ingegno, che erano stati a osservare, cominciarono a rimbeccarsi. Ingegno: «Tu, che ti consideri tanto importante! Vediamo se adesso riuscirai a salvarlo». Fortuna: «Non nascondere la tua debolezza con le provocazioni. Io ho già fatto la mia parte». Ingegno: «E va bene! Devi ammettere però che la fortuna senza l'aiuto dell'ingegno non serve. Ora mi vedrai in azione». Le guardie che entrarono nella cella del condannato per condurlo al luogo del supplizio, spinte dalla curiosità, gli chiesero: «Perché disprezzi la nostra principessa?». E lui: «Posso sapere perché devo morire?» Rispose il re che, sopraggiunto in quel momento, aveva sentito tutto. «Noi ti abbiamo dato la figlia in sposa come segno di riguardo, e tu che cosa hai fatto? L'hai offesa con il tuo disinteresse.» Il fellah lo guardò a bocca aperta, poi, come colpito da un'ispirazione, esclamò: «Ma non hai un po' di fiducia in me che, per rispondere al tuo invito, sono arrivato fin qui dalla lontana Giazira 4 siriana? Mi vuoi spezzare il cuore? Sappi che, se il primo giorno non sono stato con tua figlia, era per rispetto verso te, il secondo per rispetto verso sua madre, il terzo verso il ministro e, tutti gli altri, per rispetto verso la corte e l'esercito. Ma ora, terminati i giorni dell'ossequio, sono pronto a consumare le nozze». Il re fece liberare il genero che, da allora, visse felice rendendo felice sua moglie. Il tema del contadino che rinviene un tesoro nel campo e lo offre al sovrano, considerato unico, legittimo proprietario, è presente in numerose fiabe siriane, ma qui ha uno sviluppo singolare. Nel racconto, permeato di 311
ironica arguzia, è come se la coscienza popolare, ridendo di se stessa, volesse manifestare un indomito spirito di libertà, prendersi gioco del potere e affrancarsi da un servilismo spirituale e fisico impostogli in tempi remoti, quando in Oriente i re-sacerdoti pretesero di reggere gli uomini, al posto degli dèi, esigendone soggezione assoluta.
NOTE 1 Una delle tappe lungo le piste carovaniere dell'antichità. 2 Regione del medio Eufrate, sede di numerose tribù agricole, anticamente ricca di salici, ginepri, tamarindi, querce, e popolata di selvaggina. 3 Sul mito della fortuna e il bisogno per l'uomo di rivendicare la responsabilità della propria sorte, la vittoria dell'individuo sul caso cfr. Machiavelli, Lettere familiari, CXVI; Il Prìncipe, XXV: «Quanto possa la fortuna nelle cose umane...». 4 Mesopotamia.
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La narrazione orale ha fatto propri i grandi temi delle tre religioni monoteiste nate in Medio Oriente.
1. Adamo
Quando Allah decise di creare Adamo, riunì tutti gli angeli e disse loro: «Devo fare l'uomo. Esso popolerà la Terra, sarà pio, e mi adorerà». Gli angeli non ne furono contenti: «Crei un essere che rovinerà la tua santa Terra, causerà problemi, addolorandoti, perché i suoi discendenti si uccideranno a vicenda!» esclamarono. Il Signore non volle ascoltarli e ordinò a uno di essi: «Portami un pugno di terra di ogni colore». Ma la Terra gridò all'angelo: «Che l'Onnipotente ti salvi dal profanarmi!». «Allah è l'Onnipotente» rispose l'angelo, tornando in Cielo senza terra. Allah ne inviò un altro che, per paura della Terra, tornò anch'egli a mani vuote. Il terzo, prima di toccare il suolo, disse: «O Terra! Che l'Onnipotente ti guardi dall'impedirmi di fare la sua volontà!». E prese pugni di terra rossa, gialla, bianca, nera; perché Adamo è fatto con terra di tutti i colori. Così Iddio lo volle. E noi uomini di ogni colore siamo suoi figli. Iblis, invidioso perché nessuno fino a quel momento lo aveva mai superato in bellezza, era il pavone degli angeli; vedendo Allah creare con il soffio divino l'anima di Adamo, esclamò: «Che cos'è questo?». Solo due esseri sulla Terra hanno avuto il privilegio dell'anima infusa direttamente da Dio: Adamo e il Messia. Tutti gli altri, anche Maometto, che 313
Dio l'abbia in gloria, sono frutto dell'unione tra l'uomo e la donna. Così dice il Signore. Dio insegnò ad Adamo la conoscenza di tutto il Creato e, mostrandolo agli angeli, disse loro: «Inginocchiatevi al suo cospetto». Ma Iblis, orgoglioso, rifiutò: «Come! Io dovrei venerare Adamo? Io, Iblis, nato dal fuoco, dovrei riverire un essere uscito dalla terra?!». Sentendolo, Allah interrogò gli angeli sulle leggi che governano l'Universo. «Signore, noi conosciamo soltanto ciò che tu hai voluto rivelarci» dissero, ammettendo la loro ignoranza. Invece, Adamo sapeva, e poteva rispondere alle domande del suo Creatore: sulla luce, l'algebra, l'astronomia; poiché tutto questo Allah gli aveva insegnato, egli sapeva. E Allah gli diede una moglie, facendola nascere dal suo fianco. Come sarà sempre. Perché sempre, Egli sceglie le mogli degli uomini. Così, nacque Eva. E vivevano in libertà nel Paradiso del Signore, che gli aveva detto: «Tutto è per voi. Però non avvicinatevi al melo». Ma un giorno Iblis tentò di convincere Adamo a disobbedire. Invano. Provò allora con Eva, dicendole: «Mangiate il frutto di quest'albero, e diventerete angeli immortali!». Come noi tutti sappiamo, riuscì nel suo intento. Eva prese una mela, ne mangiò la metà, l'altra metà la fece mangiare al marito, e le foglie del Paradiso che li coprivano caddero a terra, lasciandoli nudi! Seppero così di avere commesso peccato. Dio li punì gettandoli sulla Terra insieme al diavolo tentatore, inimicandoli. Da questo fatto, purtroppo, nacquero nel nostro mondo l'inimicizia, la cattiveria, le guerre e tutti gli altri mali.
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2. Mariam 1 e il Messia
Anna, che lavorava come serva, promise al Signore: «Se dovesse nascermi un maschio, egli sarà tuo servitore nel tempio». Invece partorì una femmina, e la chiamò Mariam. Ma la donna, si sa, non è come l'uomo. Quindi, non potendo consacrarla ad Allah, pregò che la proteggesse dal diavolo lapidato. Mariam, quando morì sua madre, andò a lavorare da Zacaria, che era un parente. Un giorno, mentre pregava, le apparve un angelo che le disse: «Allah mi ha inviato per offrirti un figlio. Egli sarà così sapiente che nessuno al mondo potrà uguagliarlo. Né mai, in futuro, verrà un altro come lui». «È possibile? Non sono una prostituta, né alcun uomo mi ha mai toccata!» «Così vuole Allah; ed egli può tutto» disse l'angelo, e andò via. Mariam sentì le doglie. Il santo Corano non spiega niente sul tempo di gestazione. Ci sono voluti nove mesi, o bastarono due secondi? Non si sa. Tutto può essere, perché Allah è l'Onnipotente. Nel momento delle doglie, Mariam stava sotto una palma. Aveva paura e, presa dallo sconforto, gridava: «Dio mio! Magari fossi già morta e dimenticata da tutti, prima di dover sopportare tutto questo.» «Scrolla la palma, e scenderanno su di te datteri freschi» le disse una voce. 315
Così, è venuto al mondo il Messia. Lei lo prese tra le braccia e tornò a casa con il bimbo appena nato, che si rivolgeva ai passanti, dicendo loro: «Sono il servo di Allah. Egli mi ha dato il Santo Libro, mi ha fatto profeta, e benedirà tutte le mie azioni». Quando il Messia diventò grande, si mise a guarire i ciechi, gli storpi, i lebbrosi e a resuscitare i morti. Ciononostante, molti Ebrei non credevano in lui; e decisero di ucciderlo. Questo scatenò l'odio tra fratelli: tra chi credeva in lui e chi non credeva. Comunque, nella Torah c'è scritto che sarebbe venuto, e che avrebbe fatto miracoli. Insomma, gli Ebrei miscredenti si riunirono, lo presero e lo imprigionarono in una grotta; ma, durante la notte, il custode, che si chiamava Sergio, vide uscire un bellissimo raggio luminoso, che salì in cielo. Incuriosito, entrò nella grotta, e si accorse che Gesù era scomparso. Al mattino vennero le guardie, lo trovarono lì impaurito, e lo condussero con la forza sulla montagna. Invano gridava: «Non sono il Messia! Sono il custode». Non gli credettero; e lo uccisero al suo posto. Il rifiuto di credere alla crocifissione e morte di Gesù Cristo pare sia di origine basiliana o manichea. Fu Abu Hayyan a sostenere che il sosia del Messia si chiamava Sergio. Secondo una setta eterodossa (ahmadiyya), sarebbe invece stato crocifìsso, ma non ucciso. Deposto dalla croce e rinvenuto, emigrò nel Kashmir, dove morì a centovent'anni. Cfr. M. Asin, La polemica anticristiana de Mohamed el Caisì, «Revue Hispanique», 21,1909.
NOTE 1 Nome arabo della Madonna. 316
Storie dell'Epifania
1. L'albero
Moltissimi anni fa, forse cento, in un villaggio della montagna di Latakia, accadde questo fatto straordinario. Una famiglia possedeva un agnello, che teneva, durante la notte, chiuso in gabbia. Una volta, era la vigilia dell'Epifania, la figlia maggiore fu svegliata dagli insistenti belati lamentosi dell'animale e, affacciandosi alla finestra, lo scorse, vagante, nell'orto. Per timore che potesse fuggire, andò a rinchiuderlo di nuovo, ma vide che un albero di fichi era caduto sopra la gabbia, schiacciandola. Allora, decise di legare l'agnello con una corda a uno dei rami dell'albero che giaceva a terra. Il mattino seguente, sua madre trovò l'animale impiccato. «Che cosa hai fatto all'agnello?» le chiese, sdegnata. «L'ho legato a un ramo del fico caduto» rispose. «Quale fico caduto? Sei forse folle?» esclamò la donna, osservando sua figlia come se stesse pensando che era improvvisamente impazzita. Lei, perplessa, uscì nell'orto, e quando vide l'agnello morto sull'albero svettante, comprese il prodigio. L'albero, in quella notte santa, si era prosternato per adorare il suo Creatore. 1
NOTE ' Presso i cristiani ortodossi, esiste la credenza che, nella notte di vigilia dell'Epifania, tutti gli alberi si inclinino fino a terra per rendere grazie a Dio. 317
2. Il miracolo del pozzo
Nella vigilia dell'Epifania, una donna e la figlia prepararono il pane azzimo, per leggervi i pronostici del nuovo anno. 1 Dopo aver impastato la farina con acqua e sale, fecero piccole pagnotte, vi incisero una croce, le disposero in un vassoio, accanto a ciascuna misero un biglietto con il nome di un familiare, le coprirono con un panno e infine le sistemarono vicino alla finestra aperta. Il cielo doveva vederle. Poi riempirono grossi bacili d'acqua profumata con petali di fiori per il bagno rituale del giorno dopo. 2 Potevano andare a letto contente. L'indomani, aprendo la porta che dava nel patio, alla ragazza si presentò uno spettacolo straordinario: l'acqua, dal fondo al pozzo, era salita fino al bordo, e zampillava riversandosi tutt'intorno! Lei corse a bagnarsi. «Cosa ti è accaduto?!» le chiesero, vedendola tutta fradicia. «Mi sono immersa nel pozzo» rispose. Anche sua madre e sua nonna andarono a bagnarsi in quell'acqua benedetta. La notizia del prodigio si diffuse; arrivarono tanti curiosi ma, nel frattempo, l'acqua era tornata in fondo al pozzo. Nel quartiere abitava una donna sterile, che aveva sofferto molto per non poter avere figli. Appena sentì parlare del pozzo miracoloso, le rinacque la speranza, e andò dalle vicine. 318
«Fatemi entrare, forse Dio vorrà concedermi la grazia di un figlio» chiese. E la sua fede fu così grande, che l'acqua tornò a zampillare. Dopo nove mesi partorì un figlio maschio. Le storie prodigiose sui pozzi si trovano in tutte le tradizioni. Esse hanno sovente un carattere sacro esplicito (Il pozzo miracoloso) e sono comuni all'Islam, al cristianesimo, all'ebraismo. Sin dai tempi remoti i pozzi hanno rappresentato inoltre la sintesi dei tre ordini cosmici: terra, cielo, acqua. Erano anche simbolo di sorgente di vita e abbondanza.
NOTE 1 È una credenza dei cristiani ortodossi. Colui che il giorno dell'Epifania trova gonfio il pane azzimo, confezionato alla vigilia, ne trae l'augurio di un anno fausto. 2 Nel giorno dell'Epifania tutta l'acqua della terra è sacra. Chi può si reca al mare, ai fiumi, alle sorgenti, per commemorare il battesimo di Gesù Cristo nel fiume Giordano.
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Barbarah 1
La montagna gessosa, su cui si aggrappano le case del villaggio di Maaloula,2 è spaccata da uno strettissimo canyon molto suggestivo. Chi lo percorre ha la sensazione che esso potrebbe richiudersi senza lasciare traccia del sentiero. A questo luogo è legata una leggenda. Dopo la morte di Cristo, alcuni dei suoi apostoli giunsero ad Antiochia e la nuova fede cominciò a diffondersi in Siria. Intere colonie di monaci anacoreti stabilirono la loro sede nelle grotte che traforano Qalamun. In quel tempo, il governatore di Yabrud aveva una figlia che, colpita da questa nuova dottrina, si convertì, e cominciò a propagarla. La famiglia, che adorava le divinità pagane, 3 cercò invano di distoglierla da quelle pratiche; non riuscendoci, finì per imprigionarla. La fanciulla trascorreva il tempo a pregare nella sua prigione, che aveva riempito di graffiti sacri, e non poteva più parlare con nessuno. C'era, però, un giovane che l'amava. Egli, un giorno, l'aiutò a evadere. Quando il governatore si accorse della fuga della figlia, ordinò all'esercito di inseguirla: «Bruciate la foresta e i campi di grano; se vi è nascosta morirà» disse. Era infatti estate, e le alte spighe avevano offerto protezione ai due fuggiaschi. Inseguiti dal fuoco, essi si diressero verso Maaloula. Ma, all'improvviso, furono fermati da un 320
ostacolo insormontabile. La montagna si ergeva, inaccessibile, davanti a loro! Allora, accadde il prodigio: il monte, miracolosamente, si aprì! I due giovani fuggiaschi poterono salvarsi attraverso quel varco, che gli abitanti del luogo chiamano "Grano". Ogni anno, a Maaloula si celebra una festa. E per ricordare Barbàrah, la fanciulla cristiana, si cuociono grandi quantità di grano da offrire in suo onore. Alla venerazione della santa sono legate alcune pratiche profane (tra cui corteggi di giovani questuanti che accompagnano uno di loro mascherato, a personificare spesso un leone). Esse suggeriscono un intento magico-rituale propiziatorio, e fanno pensare a un'origine precristiana del culto a Barbàrah. Tanto più che la vigilia della sua festa portava, fino a qualche decennio fa, uno strano nome: "notte della gatta", (Leila al blsseh in dialetto siriano) e in Siria sono state ritrovate iscrizioni che attestano l'antico culto a Bast, dea-gatta egizia identificata con Astarte, divinità fenicia della fertilità.
NOTE 1 Santa Barbara. 2 In siriaco significa "ingresso". Era in origine un villaggio rupestre. Sorge nel QalamOn, propaggine orientale dell'Antilibano. Vi si trova una chiesetta del IV secolo, dedicata a san Sergio, ex legionario romano martirizzato, dove sono custodite preziose icone del XVII-XVIII secolo con figure sacre dai volti arabi. I suoi abitanti parlano ancora oggi la lingua di Cristo, l'aramaico. 3 Un cantico in onore di Barbàrah dice: «Suo padre il pagano che adorava le pietre».
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Leila al qadr 1
C'era una volta una famiglia che, nella notte del destino, espresse dei desideri: la madre di tornare giovane, il padre che il loro baule si riempisse d'oro, il primogenito di sposare una principessa, il secondo di essere un sovrano potente, la figlia di possedere un tappeto volante e un cappello che rende invisibili. Furono esauditi. La donna anziana si ritrovò adolescente. Trascorreva il tempo a pavoneggiarsi davanti allo specchio, a fantasticare sul principe azzurro e ogni tanto lanciava uno sguardo sprezzante al marito, grasso e calvo. Egli, nell'assillo di trovare un nascondiglio sicuro per il tesoro, impiegava le giornate a scavare buche e a ricolmarle. I due fratelli erano scomparsi, e la ragazzina, con il cappello in testa, volò in cerca di avventure. Capitò sopra un paese sconosciuto; le piacque e atterrò. Andò ad abitare in un khan 2 e, chiacchierando con la proprietaria, seppe le ultime notizie del reame: «Tempo fa la figlia del re diventò muta per un'oscura malattia, e i medici di corte non riuscirono a guarirla. Allora suo padre fece dare un bando: "Chi le renderà la parola, potrà sposarla". Provarono in tanti, ci riuscì un giovane, e si celebrarono le nozze. Ma purtroppo era straniero, non si capivano, e la felicità durò poco. Per liberarsene, lo fecero imprigionare. Il giudice lo condannò all'ergastolo». 322
La fanciulla ebbe un dubbio; indossò il suo cappello, salì sul tappeto e si recò in prigione. Potè entrare senza esser vista, e trovò il fratello! Si salutarono, si abbracciarono, poi lei volò via. Arrivò in un altro regno e vide una piazza gremita di gente che urlava e protestava contro il nuovo sovrano. Poiché era invisibile riuscì a entrare nel palazzo e incontrò l'altro fratello, che le raccontò: «Giunsi qui che il vecchio re era appena morto. I visir mi fecero indossare le sue vesti e la corona, ordinandomi di fare questo e quello. Il popolo scoprì l'inganno, si arrabbiò, e forse sarò ucciso, perché io non so governare». Lei ne ebbe pietà e gli offrì il tappeto che lo riportò a casa. Trascorso un anno, venne un'altra volta la notte del destino e tutta la famiglia espresse lo stesso desiderio: ritrovarsi. Furono accontentati. Riuniti attorno alla ma'da al iftar, 3 si augurarono la pace. Il baule era di nuovo vuoto. I drusi credono che nella notte del destino, per essi la più sacra dell'anno, tutte le cose si inclinino per adorare Dio; solo chi ha il privilegio di assistere a questo prodigio può esprimere qualsiasi desiderio e verrà esaudito. È un racconto interessante per la finezza psicologica con cui vengono tratteggiati i personaggi: l'ansia di giovinezza e i sogni romantici della donna che si sente sfiorire; il desiderio di volare e insieme di occultarsi della fanciulla, tipici dell'adolescenza; la pedanteria maniacale e noiosa del sedentario deluso, che giunge alla soglia della vecchiaia; i sogni di potenza dei due ragazzi.
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NOTE 1 Notte del destino. Così detta perché per i musulmani è la notte in cui vengono stabiliti i decreti divini dell'anno successivo. È definita anche santa in quanto commemora le prime rivelazioni ricevute dal profeta (611 d.C.). È una delle ultime dieci notti del ramadan e, secondo la tradizione, i desideri che si esprimono in quest'occorrenza vengono esauditi. 2 Caravanserraglio. 3 Letteralmente: tavola della colazione. Qui il tavolo su cui si consum a n o i pasti del ramadan (nono mese del calendario lunare musulmano, in cui i credenti praticano uno stretto digiuno dall'alba al tramonto).
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La leggenda del sultano Ibrahim
Quando il sultano Ibrahim 1 diventò re della Persia, pensò: "Io sono il sovrano, e conduco la mia esistenza nel lusso e nell'abbondanza, mentre il popolo vive nella miseria. Non voglio questo regno". Un giorno disse a sua moglie: «Non amo governare. Ho deciso di andarmene per il mondo.» «Come! Vuoi lasciarmi? Sono incinta!» gridò lei, presa dallo sconforto. «Io non posso più vivere qui» disse Ibrahim. Invano, la regina cercò di convincerlo a restare. Discussero a lungo; il re si infuriò, diede un forte pugno alla parete, sfondandola, 2 e uscì dalla breccia. Da quel momento, errò per amore di Dio, finché giunse in un altro paese. Qui si offrì al primo passante che vide: «Ti appartengo. Vendimi» e quello lo vendette a un mercante ebreo. «Che cosa sai fare?» gli chiese il padrone. «Il boscaiolo» rispose. L'uomo gli affidò un asino e un'ascia e lo mandò a tagliare gli alberi della foresta. Mentre Ibrahim lavorava, passò un leone, che divorò il somaro. «Perché l'hai mangiato?!» lo rimproverò Ibrahim. «Ora trasporterai tu la legna.» L'animale obbedì, e quando giunsero in città, la gente li guardava, stupita. Anche l'ebreo si meravi325
gliò. Comprese che quello schiavo era un essere straordinario, volle affrancarlo, e il sultano riprese a peregrinare. Un giorno, tornò dalla moglie, le diede un fazzolettino, e le disse: «Se partorirai un maschio, gli legherai questo al polso». E la lasciò ancora una volta. Riprese a fare l'errante, finché trovò una casa del Signore che era un monastero dei dervisci, 3 e vi si stabilì. Trascorsero tredici anni. In Persia la moglie aveva partorito un maschio, che ormai era adolescente e voleva conoscere suo padre. «È andato via prima che tu nascessi» gli disse la nonna; e la madre gli raccontò come era uscito di casa facendo un buco nel muro. Anche il ragazzino forò la parete con il pugno, e partì in cerca del genitore. Dio guidò i suoi passi fino al luogo in cui lui viveva. Si trovarono, padre e figlio, uno di fronte all'altro, senza conoscersi, e subito nacque un grande affetto reciproco. Il derviscio non mangiava né dormiva, senza il giovane accanto. Un giorno, scoprì il fazzoletto che avvolgeva il suo polso, e seppe chi era. I compagni, però, guardavano con sospetto quell'intimità tra l'uomo e il giovinetto, e si chiedevano, maliziosi: «Perché lo ama tanto?». Ibrahim se ne accorse, e non riuscendo a staccarsi dal figlio, pregò Dio: «Signore, fai morire uno di noi, secondo la tua volontà». Dio lo esaudì, e si prese l'anima del ragazzo; il padre ricominciò allora a peregrinare. Molto tempo dopo, arrivò a Sahyun. 4 I bambini del villaggio, vedendo quel vagabondo dall'aspetto miserabile, gli tirarono dei sassi, costringendolo a fuggire. Giunse a Latakia, ma anche qui lo maltrattarono. Si rimise in cammino finché giunse alla spiaggia di Jàble. 5 Era molto stanco, e voleva dormire. Preparò un letto e un cuscino di sabbia, e per coprirsi usò l'abaya. 6 326
Intanto in Persia, la vecchia madre, temendo di morire senza rivederlo, decise di partire alla sua ricerca. Si mise in viaggio, portando con sé un esercito, un grosso cofano pieno d'oro e di gioie, i visir e la corte. Dove passavano, chiedevano di lui, sostando tre giorni in ogni città, e offrendo ricompense a chi gli dava informazioni. Ibrahim non si era più mosso da Jàble. Un giorno si mise a rammendare il suo logoro abito, seduto in riva al mare, e quando finì, gettò in acqua l'ago e un pezzo di filo. Venne un pesce, mangiò l'ago ma il filo gli usciva dalla bocca. Lo videro altri pesci, che furono invidiosi, e per rubarglielo, gli ferirono un occhio. Il pesce però riuscì a fuggire. Si moltiplicò, e tutti i figli nascevano con i barbigli, e, talvolta, con gli occhi uno diverso dall'altro. La nuova specie prese il nome del sultano. 7 La madre, intanto, seguendo le sue tracce, arrivò a Jable. Ed egli ne sentì parlare. «Questa donna cerca me» disse. «Sei matto?» osservarono i presenti. «Tu, che sei un povero vagabondo, ti pretendi re!» Ma un ragazzo gli credette, e informò la vecchia regina, che lo ricompensò con trecento monete d'oro. Ibrahim si trovava in riva al mare, vestito come un mendicante, quando vennero a cercarlo; dopo tanti anni, madre e figlio si rividero; porgendogli vesti ornate d'oro e diamanti, lei gli ordinò: «Devi indossare abiti degni del tuo rango, per incontrare la corte». L'asceta non sapeva più che cosa fare. A chi doveva obbedire? A colei che l'aveva generato, o al richiamo di Dio? Era difficile scegliere, poiché il Signore aveva comandato: «Rispettate chi vi ha dato la vita, e rispetterete me». «Attendimi» disse a sua madre. «Devo prima fare due rak'a.» 8 327
Prosternandosi, supplicò: «O Dio! Fa' che resti tuo servo». E morì. Il ministro voleva prendere il corpo per riportarlo in Persia, e morì anche lui. E la madre comprese che cosa doveva fare. Comprò un grande terreno, fece costruire un mausoleo per il figlio, un bagno pubblico e un asilo per i poveri. Poi gli abitanti di Jàble edificarono una grande moschea, che è meta di pellegrinaggio fino a oggi. La Siria è sempre stata un paese dalla spiritualità ardente. Esseri avidi di misticismo l'hanno attraversata in tutte le epoche. Grandi fedi come cristianesimo, giudaismo, zoroastrismo, induismo, Islam vi conobbero uno svolgimento talvolta originale e drammatico. Forme esasperate di religiosità, quali i riti misterici legati ad Atargatis (Dea Siria) e al suo sposo, Hadad (il cui culto fu introdotto anche a Roma da Siriani arruolati nelle legioni), e a Dioniso. L'ascetismo degli anacoreti e monaci cristiani, e più tardi il sufismo musulmano, colpirono la fantasia popolare, che ha fatto rivivere nel racconto orale quell'aspirazione all'abbandono del mondo per dedicarsi interamente alla contemplazione.
NOTE 1 Ibrahim Ibn Adham, uno dei più importanti sufi dellVIII secolo, nacque nel 730 a Balkh (antica Bactriana, attualmente povero villaggio afgano), dove esisteva un famoso tempio buddhista che nel VII secolo ospitava ancora tremila monaci; i Barmecidi, diventati in seguito influenti personaggi della corte abbaside, pare ne fossero i grandi sacerdoti. Harun ar-Rashid trasformò questo tempio in moschea. La madre di Ibrahim era una principessa persiana molto pia che volle sposare un uomo profondamente religioso ma non aristocratico. Egli ereditò dunque il trono dal nonno materno. Un giorno avrebbe sentito una voce sul suo terrazzo:
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«Cerco cammelli smarriti.» «Su una terrazza! Sei folle?» si sorprese il sovrano. «Non più di te che cerchi Dio su un trono» gli rispose il misterioso interlocutore che si presentò come Khodr. Ed egli «abbandonò il mondo». Questa è una delle numerose versioni del mito che si sviluppò attorno al personaggio. Da Balkh (754) iniziò a peregrinare: Nichapur (Persia), Iraq, Arabia, Palestina, Siria. Il luogo in cui morì è incerto, ma la maggior parte degli storici è concorde nell'affermare che fu sepolto a Jable. La vicenda di quest'uomo, che rinunciò al lusso e al potere per la vita ascetica, ispirò poeti e romanzieri. Storie su di lui furono scritte in arabo, turco, indostano, malese, giavanese, sudanese. I suoi più importanti biografi sono Al-Isfahani e Ibn Asakir. E c'è anche chi, come Goldziher, fece un suggestivo accostamento tra la presa di coscienza di Ibrahim e di Buddha. Alcune frasi che gli vengono attribuite: «Non trovo da nessuna parte gioia dell'esistenza fuori della Siria, dove porto la mia religione di montagna in montagna, di collina in collina, mentre chi mi incontra mi scambia per un cammelliere o un folle.» «Si ha più bisogno di imparare il silenzio» diceva a uno che studiava la grammatica. E a un altro: «Io agisco e non parlo, tu parli senza agire.» Fu Plotino a considerare elemento essenziale della contemplazione il silenzio; gli asceti ne fecero una regola di vita; Pitagora esigeva dai discepoli cinque anni di silenzio. Cfr. Isfahani, Hilyat al-Awliya, VII, 367, 378, 395, Cairo 1937; G. Saade, Ibrahim Fils d'Adham, un grand Saint Musulman, in «Levante», Enciclopedia Islamica. 2 Azione che ha un significato simbolico. Cfr. Ezechiele, XI, 5-6; 12-13. 3 Monaci musulmani di una confraternita sufica, che praticavano l'ascesi e la danza per raggiungere l'unione mistica con Dio; erano girovaghi, e vivevano di elemosine. 4 La più grande fortezza siriana, il Castello di Saladino, Sigone per i Greci. Sorvegliava le vie da Laodicea (Latakia) verso Apamea e l'Eufrate. Ceduta dai Fenici ad Alessandro Magno dopo Isso, fu occupata ed edificata successivamente da Bizantini, Crociati e Arabi. Diventò nel XIV secolo un villaggio con un santuario «situato al centro di un giardino dove» riportano le cronache dell'epoca «si offre cibo a ogni venuto». 5 Nel nord della Siria. Piccolo centro costiero di antica origine. Vi si trova un anfiteatro di epoca romana. Allora, la cittadina si chiamava Gabala. 6 Mantello. 7 È la triglia, che in lingua araba è detta appunto "Sultan Ibrahim". 8 È una fase della preghiera islamica. Si recita con il busto piegato in avanti e le mani poggiate s u l b ginocchia. 329
La leggenda di Nemrud, re di Yabrud
In un moderno quartiere della cittadina di Yabrud,1 si trovano le rovine di un antico castello: un pilastro e una parete scolpita. Esso appartenne al re Nemrud. 2 Gli abitanti dicono che il pilastro facesse parte di un sistema di difesa voluto, più tardi, dalla regina di Paimira, Zenobia, che trascorreva nel palazzo la villeggiatura estiva. E dicono anche che, quando esso cadrà, l'intera regione verrà inondata dalle acque. Dal castello, un passaggio segreto sembra conducesse al vicino tempio di Giove,3 sui cui resti ora sorge la cattedrale. Il sovrano Nemrud fu un tiranno despota e crudele, che praticava estorsioni d'ogni tipo, ed era tremendamente avido. Il popolo lo odiava. Un giorno, un insetto gli entrò nel naso e raggiunse il suo cervello. La bestia cominciò a ronzargli in testa, e non lo lasciava riposare né di giorno né di notte. Nemrud fece chiamare medici da ogni parte, ma nessuno lo guarì. La malattia esacerbò quel re prepotente e violento, facendolo impazzire. Allora, uno dei suoi consiglieri, reso forse audace dalla disperazione, trovò una maniera per eliminarlo. «Maestà, tu hai una testa infinitamente preziosa» lo lusingò «come l'oro più puro. Falla sostituire con una di questo metallo, e di sicuro guarirai.» Il re accettò il suggerimento, e appena gli scultori terminarono la loro opera, si fece 330
decapitare. Il popolo, liberato dal despota, respirò di sollievo. Il racconto descrive in maniera semplice ma esemplare una delle caratteristiche fondamentali del potere dispotico: quella paranoia di onnipotenza che, spesso, trascende ogni limite e sconfina nell'assurdo. C'è anche implicitamente espressa la considerazione di come il sentimento di onnipotenza degli uomini sia illusorio e fragile. Esso spesso si regge sulla paura di chi subisce, e può essere distrutto dall'evento più banale.
NOTE ' Centro del Qalamun, regione semidesertica dell'Antilibano, in cui si sviluppò una cultura originale nel periodo di transizione verso il Paleolitico Medio (150.000-90.000 a.C.). Nel XII millennio era ricca di laghi. NellVIII millennio vi ebbe inizio l'attività agricola e l'addomesticamento degli animali. In epoca romana fece parte degli stati di Agrippa II. 2 Personaggio favoloso (Nimrod, Nemrud in arabo) presente nella mitologia dell'antica Mesopotamia, secondo la quale fu il primo re universale, costruttore di grandi città imperiali: Babele, Akkad, Ninive e altre; nella Bibbia, nelle leggende e religione islamiche, dove viene presentato come un sovrano iniquo e prepotente. Secondo J. da Varagine fu uno degli antichi re che vennero in Italia, e la sua stirpe avrebbe fondato la città di Ravenna. Cfr. Enciclopedia Islamica-, Genesi, X, 8-12; Corano, II, 260; I.M. Ceccherelli in Fermati o Sole, Sardini ed., pagg. 163-164; J. da Varagine, Cronaca della Città di Genova, ECIG. ed., pag. 84. In questo racconto, a mio avviso, potrebbe anche essere rappresentato il grande sacerdote Samsigeramos, despota e avido, che gestì il potere religioso a Yabrud nel I sec. dell'era volgare, e fu destituito dai Romani. 3 Si tratta di Jupiter Maleciabrudis, come rivela un testo del Lucus Furrinae a Roma (Dussaud, Topographie Historique de la Syrie, pag. 284).
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Il Khodr e il principe
Nei tempi antichi, viveva a Baghdad un bel principe. Una notte fece questo sogno: Mentre passeggiava lungo il Tigri, vide un vecchio abbigliato di verde, dall'espressione ieratica che, seduto sulla riva del fiume, appaiava dei cerchietti e li gettava in acqua. Si incuriosì, gli andò vicino, e gli chiese: «Che cosa fai, zio?» «Fisso la sorte degli uomini» rispose lo sconosciuto. «Hai stabilito anche la mia?» «Sì. Vedi questo piccolo cerchio? Rappresenta una bambina appena nata. Da grande diventerà tua moglie. Suo padre è un povero fochista che lavora in un hamman 1 di Damasco, e questo sei tu» disse il vecchio, mostrandogli un cerchio più grande; lo unì all'altro e li gettò nel fiume. Il figlio del re si svegliò, turbato dallo strano sogno, e corse a interrogare i sapienti. «La tua è una visione 2 premonitrice» commentarono. «Il vecchio è il Khodr, 3 e gli anelli simboleggiano gli esseri del creato; il fiume che scorre è la vita nel suo divenire; il moto delle acque rappresenta le vicende e i conflitti umani. Quelle parole lo colpirono profondamente, e decise di contrastare il fato. Si recò a Damasco, visitò tutti gli hamman, e scoprì ciò che cercava. Trovò la moglie del fochista, con la sua bimba in grembo, e le disse: «Sono un pellegrino di passaggio, 332
e non conosco la città. Ho bisogno di provviste per continuare il viaggio; non potresti procurarmele? Avrai una ricompensa». «Non posso lasciare mia figlia. Piangerebbe» disse la donna. «Vai tranquilla. La cullerò tra le braccia, finché dormirà» la rassicurò lui. Insomma, dopo molte insistenze e la promessa di un ricco premio lei accettò di andare al suk. Il principe, senza perdere un attimo, sgozzò la bambina con il suo pugnale, le mise indosso una borsa d'oro e fuggì. Quando la madre rientrò, trovò la figlia in un lago di sangue. La prese e corse dal dottore, che la salvò. Trascorsero molti anni. Il povero fochista si rivelò intelligente e accorto. Con l'oro iniziò a commerciare, e divenne un influente personaggio. La figlia, ormai cresciuta, era ricca di qualità e straordinariamente leggiadra. Tutti ne parlavano, e aveva molti pretendenti. Ma la prosperità e la fortuna di quella famiglia suscitarono anche l'invidia e l'animosità di tanta gente, cosicché il mercante decise di espatriare. In quei tempi, Baghdad era nota per le possibilità che offriva nei traffici commerciali e per la concordia che vi regnava. Ci andarono, cambiarono il nome, nascosero la loro provenienza, e iniziarono una nuova vita. Anche là, il mercante diventò famoso. Il re, che voleva conoscerlo, lo convocò a corte con la famiglia, e il principe fu stregato dall'avvenenza della fanciulla. Non vide che lei. «Desidero sposarla» confidò a suo padre, dopo una notte insonne. Il sovrano acconsentì. La sera delle nozze, mentre adornava la sposa con una preziosa collana di perle, il principe, ricordando le vicende di tanti anni prima - il Khodr che gli era apparso in sogno, la neonata che aveva ucciso a Damasco - mormorò tra sé: «Ho vinto il mio destino!». 333
Ma proprio in quell'attimo, scorse una cicatrice sul collo dell'amata; allora, esclamò: «Grazie, Signore, per averla protetta!». Fu invaso dalla felicità, ma capì anche quanto il destino sia inesorabile. L'indomani, raccontò tutto al re, che convocò i saggi del regno. Essi discussero a lungo, e infine deliberarono: «L'universo si muove secondo le leggi eterne e immutabili del suo creatore, e nessuno può sfuggire al destino che egli stabilì». 4
NOTE 1
Bagno pubblico orientale che è anche luogo di riunione e di svago. «Piangendo egli dorme / Versando lacrime ed è l'assompimento / Il sonno lo abbatte / Si corica, la quiete / Si rannicchia, e nel suo sogno / E1 discende...» Sono alcuni versi di u n a leggenda ugaritica del II millennio a.C. Qui il re Keret si addormenta mentre sta piangendo per la fine della sua dinastia. Allora El, il dio supremo, gli appare in sogno per suggerirgli la maniera di avere discendenza. I sogni come rivelazione furono considerati sin dall'antichità remota il mezzo più diretto per conoscere il futuro. Questa qualità profetica era legata alla credenza che, per loro tramite, gli dèi comunicavano con gli uomini. Nelle civiltà storiche avanzate, la classe sacerdotale assunse il ruolo di interprete, e l'oniromanzia acquistò grande importanza. L'incubatio, rito liturgico ufficiale praticato per ottenere sogni rivelatori, anche attraverso l'assunzione di droghe, fu praticata nelle religioni orientali e dell'area mediterranea. A essa si associavano anche pratiche terapeutiche quali l'idroterapia. E sorsero città oracolari, che comprendevano santuari, sanatori, strutture ricettive per pellegrini e ammalati. 3 Letteralmente: "Il Verde". Il verde è considerato colore sacro. II Khodr, o Khidr, fu un personaggio mitico del Vicino Oriente. Secondo una delle numerose leggende di cui è protagonista, liberò la regione dal terribile mostro che esigeva ogni anno il sacrificio di una fanciulla vergine. La sua natura è complessa. In esso si riuniscono il biblico Elia e san Giorgio, Hasis-Atra, epiteto di Utnapishtim, il Noè del diluvio babilonese (Hixouthros per i Greci) e una imprecisata divinità fenicia, insieme marina e agricola. Secondo alcune tradizioni religiose popolari, in vigore presso cristiani e musulmani della Siria, Libano e Palestina, appare in rappor2
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to con la sorgente della vita ed è un buon compagno di viaggio. Cfr. Mille e Una Notte, 532 a notte. Nel Corano egli è la guida di Mosè (XVIII, 64). Allegoricamente i due rappresenterebbero i mari della sapienza. 4 «Il destino che tutto volge e travolge» diceva Platone. Ed Erodoto ribadiva: «L'uomo è un balocco in m a n o al destino». Questa ineluttabilità del fato prestabilito è una credenza antichissima nel m o n d o greco e mediorientale. In una tavoletta cuneiforme del II millennio a.C., trovata a Ugarit, si legge questo aforisma: «... quanto è lontano il cielo, la m a n o non lo sa. Com'è profonda la terra, nessuno lo sa... Una vita senza luce, cosa ha in più della morte? Per un solo giorno di felicità, giorni di lacrime. [...] Gli uomini, ciò che fanno, non lo sanno essi stessi. Il senso dei loro giorni e delle loro notti sta presso gli dèi.»
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Il re, il genero incantato e la gazzella
C'era una volta, tanto tempo fa, un re che aveva quattro figlie già adulte. Loro desideravano tanto un uomo, ma nessuno le chiedeva in moglie. Un giorno, la figlia maggiore andò al mercato e comprò quattro meloni: il primo era stramaturo, il secondo molto maturo, il terzo al punto giusto e il quarto piccolo, duro, un po' acerbo. Li portò a casa, poi fece dare un bando: «Chi vuole comprare un melone dalla figlia maggiore del re vada al palazzo e vi giri intorno». Venne tanta gente; tra la folla la ragazza vide un uomo; lanciò il melone e lo colpì alla testa. «Questo è il tuo destino» le disse il re; e si celebrarono le nozze. Il giorno seguente, anche la seconda figlia fece dare il bando. Venne la gente e si mise a camminare intorno al palazzo; lei scelse un uomo; lo colpì, si sposarono. Fece così la terza figlia, e si sposò pure lei. Infine giunse il turno della più giovane. Fu dato il bando, accorsero tante persone, e tra quelle un uomo che era gobbo, brutto e sozzo. La fanciulla lanciò il melone, e il frutto colpì proprio lui. «Questo è il tuo destino» l'apostrofò il re, irato. «Sposati pure, però vattene. Non voglio vederti mai più; hai desiderato l'uomo peggiore.» Lei, afflitta per l'ira paterna, si allontanò con il marito, lo portò al bagno, lo lavò e lo vestì di abiti 336
nuovi. Ora, bisogna dire che il poverino aveva subito un incantesimo, e le cure amorevoli della sua sposa lo sconfissero. Allora, apparve un giovane di rara perfezione e bellezza, con in testa due codini: uno d'argento e uno d'oro. 1 Il re, frattanto, triste per la sorte della figlia minore, si era ammalato e non riusciva a guarire. Non aveva mai fame, e niente gli dava gioia. Ma, un giorno, gli venne il desiderio di mangiare carne di gazzella, e chiese al marito della figlia maggiore di procurargliene una. Suo genero, in verità, andò a caccia per tre giorni, tornando sempre a mani vuote. Andarono a caccia anche gli altri due generi. Ma non ebbero migliore fortuna. Non restava che tentare con il quarto. Disse il visir: «Signore, prova con il marito della tua figlia minore». «Non mangerei mai la cacciagione di quell'essere immondo; non potrei nemmeno assaggiarla.» «Ma che ti importa, che sia sporco e brutto» insisteva il visir. «È solo il marito di tua figlia; l'importante per te, è che procuri una gazzella, in modo che tu possa mangiarne la carne e guarire.» Infine il re acconsentì. Dopo un solo giorno, quel genero tanto disprezzato inviò al palazzo una grande gazzella. Ma il re aveva cambiato idea un'altra volta. «Non voglio vederla né mangiarla, di sicuro è immonda come lui» disse. E non volle ascoltare nessuno. Tutti i re e i visir dei dintorni gli resero visita, e gli consigliarono: «Mangia, mangia che guarirai, è questo che importa». Finalmente si decise: mangiò, e guarì. Ne fu talmente contento che dimenticò il suo astio e chiese ai suoi: «Dov'è il marito di mia figlia? Cercatelo; voglio vederlo». Venne il genero; ed era così bello, delicato e di no337
bile aspetto, che egli, stravolto, mormorò tra sé: «Madre mia! Che cosa ho fatto con quest'uomo? Vieni, vieni!» gli disse, alzandosi, e indicandogli il trono: «Esso ti appartiene». Morale della favola: Questa piccola fiaba allegorica ci insegna che la bellezza, da intendersi come realtà, fulgore dell'anima, si cela spesso agli occhi. Occorre uno sguardo più penetrante, quello interiore, per saperla scorgere. In numerose mitologie e mistiche, la gazzella ha questa funzione simbolica di «Occhio dello Spirito».
NOTE 1 L'oro e l'argento hanno valenze simboliche molto forti. Essi sono, tra l'altro, entrambi associati alla dignità regale e al divino. L'argento è anche simbolo di purezza e fedeltà.
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Il saggio Assassino
C'era una volta, tanto tempo fa, un re sempre triste perché non aveva figli. Un giorno, mentre camminava, levando gli occhi al cielo esclamò: «O Dio, ti prego, concedimi un erede che possa tramandare il mio nome, e ridarmi la felicità. Se mi esaudissi, sacrificherei un agnello di dodici palmi». Dio lo ascoltò, e gli diede un figlio. Il re, quindi, si mise alla ricerca dell'agnello, ma non ne trovò di quella misura; e il bambino morì. Da allora, ogni anno, gli nasceva un figlio, e presto moriva, perché non c'erano agnelli così grandi da sacrificare. Era disperato. Invano, consultò gli esperti in religione del regno. Un giorno, parlò del problema con il suo visir, che gli disse: «Maestà, io so chi potrebbe aiutarvi: Gli Assassini1 che vivono nella fortezza in cima alla montagna». 2 Il re chiese al ministro di accompagnarvelo, e partirono. Giunti al castello, furono ricevuti da uno di essi; lo sfortunato sovrano raccontò la sua storia. «Ora hai un figlio?» chiese l'Assassino. «No. Però, mia moglie è incinta.» «Appena partorisce, avvertimi.» Alcuni mesi dopo nacque il bambino, e il re salì alla fortezza sulla montagna. «Ora porta tuo figlio e un agnello» gli disse l'Assassino. Quando tornarono, prese la mano del bimbo e misurò con essa l'animale: quello era lungo dodici palmi. 339
«O re del tempo, la lunghezza doveva misurarsi con i palmi del piccolo, non con i tuoi» disse il saggio. Sacrificarono l'agnello, il figlio del re visse, e suo padre fu finalmente felice. Morale della favola: Dio pretende dagli uomini solo ciò che essi possono offrirgli.
NOTE ' Gli Assassini (letteralmente: "consumatori di hashish") erano guerrieri santi islamici appartenenti a un'importante setta sciita di origine persiana (Ismailiti Nizariti), che conobbe un periodo di grande espansione in Siria (1103-1273). Essi svolsero un ruolo fondamentale nei complessi giochi di potere, ai tempi delle Crociate, specialmente sotto la guida di Sinàn Rashid ed-Din (il celebre Vecchio della Montagna, che godeva fama di persona estremamente scaltra e sapiente), usando l'omicidio come arma politica e religiosa. Ebbero contatti con i Templari che occupavano la costa siriana. Secondo il mito, gli austeri soldati cristiani avrebbero adottato il sistema organizzativo, l'abbigliamento e soprattutto le tendenze mistico-esoteriche di quelli islamici. Una delle leggende su Sinan è narrata nel Novellino (fine XIII secolo). Marco Polo, che nel suo famoso viaggio visitò la Siria, riportò da fonti siriane notizie sull'uso dell'hashish da parte degli iniziati, sulla loro fanatica dedizione alla causa, l'accettazione della morte eroica, e sulla loro concezione del paradiso. Con Dante Alighieri la parola "assassino" passò al linguaggio letterario occidentale nell'accezione negativa che conserva oggi (Inferno, XIX, 49-50). In Siria vive ancora una comunità ismailita, e il loro attuale Iman (guida spirituale) è Karim el-Husseini Aga Khan IV. 2 La fortezza di Missiaf, nel Jebel Ansaryyieh: fu una delle più importanti cittadelle ismailite.
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Il mausoleo dei Curdi
In una tribù curda della steppa siriana, moltissimo tempo fa, vivevano sette fratelli e una sorella. Un giorno, presero al loro servizio un giovane servo arabo; tra il beduino e la fanciulla sbocciò l'amore. Essi cominciarono a frequentarsi di nascosto e a capirsi. Una notte, giunsero dei ladri che, per potersi introdurre indisturbati nell'accampamento, volevano uccidere il servo che faceva la guardia. «Prima di morire, puoi esprimere l'ultimo desiderio» gli concessero. Lui approfittò per chiedere soccorso alla sua amata. «Cara, sto per morire. Dodici malfattori mi hanno assalito» gridò. Lei, che dormiva in una tenda vicina, fu svegliata dal suo richiamo, e corse a chiedere aiuto ai fratelli. Essi arrivarono in tempo per salvarlo. Ma, passato il momento del pericolo, si misero a riflettere: «Come ha fatto nostra sorella a sapere ciò che accadeva al servo, se dormiva nella sua tenda? Lei non parla arabo, e lui non conosce la nostra lingua. Di sicuro sono amanti!». Non potendo permettere un simile disonore, in preda all'ira, li uccisero entrambi. Ma poi, ripensandoci con più calma, il dubbio li assalì. «Saranno stati veramente colpevoli?» si chiesero. Secondo una loro credenza, esisteva ormai un'unica maniera di provare l'innocenza dei giovani morti. 341
Fecero scavare due fosse, distanti luna dall'altra, vi sotterrarono i corpi, che ricoprirono di terra, poi seminarono dell'erba. Trascorso poco tempo, le tombe si ricoprirono di un bellissimo tappeto verde. Esso si conservò sempre intatto, con il trascorrere delle stagioni. Né il caldo torrido in estate, né il freddo gelido in inverno lo bruciava. Quel luogo diventò sacro e meta di pellegrinaggio per tutti i Curdi della regione; e ancora adesso è conosciuto come «Qubba 1 dei Curdi».
NOTE 1
Piccolo santuario, sovente edificato presso antichi luoghi sacri: sorgenti o boschetti che, nel passato, si credevano abitati dalla divinità, dove venivano celebrati riti animistici con lo scopo di conciliarsi le forze nascoste della natura.
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Bab Antakya:1 le palle di Maaruf
La cinta muraria che circonda la vecchia Aleppo comprende torri sobrie all'esterno e spaziose, luminose ed eleganti come piccoli castelli dentro; santuari, vasti bastioni, moschee, caravanserragli e porte monumentali che introducono alla medina con le sue vie strette e severe e un dedalo di stradine tra alti muri ciechi. Ingressi quasi invisibili nascondono fastose dimore, che si svolgono intorno a corti alberate e gorgoglianti fontane. Nel punto più alto, si erge maestosa ed evocativa la rocca. La popolazione, quasi sempre indigena da lontane generazioni, è genio tutelare di tradizioni e leggende legate alla città antica. Le due sfere di ferro che sono appese all'interno di Bab Antakya, appartenevano, molto tempo fa, a un eroe forte, coraggioso e gigantesco. Si chiamava Maaruf, e difendeva la città. Dall'alto della collina sorvegliava giorno e notte il territorio, fino a dove poteva spaziare lo sguardo. Appena vedeva avvicinarsi i nemici, si slanciava intrepido contro di loro, urlando e roteando tra le mani le due palle. Ammazzava gli assalitori, in grande numero, e gli altri scappavano terrorizzati. Era capace di sterminare, da solo, un esercito. Quando tutti erano fuggiti, chiudeva la porta per la notte e tornava alla fortezza. Per anni e anni salvò 343
gli Aleppini. Ma un giorno fu sorpreso fuori dalla porta di Antiochia, e imprigionato. Allora, piuttosto che svelare i segreti sulle difese della città, preferì avvelenarsi e morire.
NOTE * La porta di Antiochia, chiamata così perché da lì si usciva per andare alla città di Antiochia. Da questa porta gli Arabi entrarono in Aleppo nel 637.
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Bab Qinnesrin: Sheikh Khalil at-Tayar
C'era una volta un uomo santo di nome Khalil; ma tutti lo chiamavano at-Tayar,1 perché volava come un uccello; ed era tanto veloce, dicono, che, se portava del cibo da Aleppo alla Mecca, in Arabia, al suo ritorno la pentola in cui l'avevano cucinato era ancora calda. Un giorno, un infedele, volendo ridicolizzarlo, lo provocò, affermando che solo lui sapeva volare veramente bene. Per dimostrarlo, prima si tolse le scarpe e le lanciò verso l'alto, poi spiccò il volo e le seguì. Salì, salì, e arrivò in cielo ma, subito dopo, lo videro ridiscendere a precipizio. Era successo che Dio, per punirlo di aver sfidato Sheikh Khalil, l'aveva picchiato in testa con le sue stesse scarpe, fino a farlo ricadere in terra. Quando la gente andò a vedere, lo trovò morto, schiacciato da un foglio del Corano. At-Tayar, invece, continuò a volare per molti anni. Si racconta che, quando morì, volò via dalle mani degli uomini che lo trasportavano al cimitero, e andò a posarsi su Bab Qinnesrin. 2 Nessuno riuscì più a spostarlo, ed è lì che fu sepolto. 3
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NOTE ' Il volatore. Porta di Chalcis: da qui si usciva per andare alla città di Chalcis ad Belum. Questa porta monumentale è in realtà una vera fortezza. 3 All'interno della porta-fortezza, in fondo a un corridoio si trova effettivamente il santuario del weli m u s u l m a n o Sheikh Khalil at-Tayar, protettore del luogo. 2
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Granello Di Melagrana
C'era una volta una donna che non aveva figli. Un giorno, mentre camminava per strada, trovò un granello di melagrana. 1 Lo raccolse, lo ammirò e, levando gli occhi al cielo, disse: «Dio! Concedimi una figlia di questo colore!». In quel momento, le porte del paradiso erano aperte e il Signore udì la sua preghiera. Le nacque una figlia proprio come l'aveva desiderata e la chiamò Granello Di Melagrana. Quando giunse il momento, la bambina cominciò a frequentare la scuola coranica. Lo sheikh che vi insegnava ripeteva sempre ai suoi allievi: «La persona buona si riconosce presto». Una mattina, Granello Di Melagrana giunse a scuola per prima e, vedendo che il maestro mangiava una sposa, scappò a casa e si mise a letto, malata per lo spavento. «Che cos'hai figlia mia?» chiese la madre. «Mi sento male» rispose. E non aggiunse una parola. Dopo tre giorni, lo sheikh la visitò. «Hai visto il tuo signore fare qualcosa di male?» le chiese. «Un vestito rosso, uno verde, uno a strisce» rispose la bambina. Lo sheikh tornò ancora per tre giorni, e ripetè la domanda, ottenendo sempre la stessa risposta. Poi scomparve. 347
Trascorsero gli anni, e Granello Di Melagrana diventò una bellissima fanciulla. Un giorno, la vide un principe, che desiderò sposarla. Dapprima il re e la regina si opposero alle nozze, perché era povera. Ma l'innamorato insistette tanto che finirono per dare il consenso; tutti gli abitanti del regno furono invitati al palazzo reale per il banchetto nuziale, che durò sette giorni. Dopo un anno, la sposa partorì un maschio; il suo vecchio maestro, che tornò a visitarla, le mise sangue in bocca e le portò via il bambino. Quando il marito vide il suo volto insanguinato, le chiese: «Dov'è mio figlio?». Granello di Melagrana non rispose. Le disse: «L'hai mangiato!». Neppure allora si difese. Non le fece male, perché l'amava. Granello Di Melagrana dopo due anni partorì una bambina che chiamarono Budur. Venne lo sheikh, le mise sangue in bocca, e gliela portò via. Però, questa volta, il principe non riuscì a perdonarla, e la fece rinchiudere in una caverna. Il re e la regina decisero di fargli sposare un'altra; bisognava quindi recarsi a Damasco per comprare la dote. Il principe chiese a Granello Di Melagrana: «Desideri qualcosa da Damasco?» «Duecento grammi di henna e duecento di mirra. Ma stai attento: se non me li porterai, i tuoi cammelli, sulla via del ritorno, affonderanno nella sabbia» lo avvertì. Però, i parenti della nuova sposa gli dissero: «Che cosa vuoi comprare a una donna che si mangia i figli?». Si lasciò convincere, e i cammelli sprofondarono. Allora tornò di corsa in città a comprare l'henna 2 e la mirra. Diciamo adesso che lo sheikh in realtà non aveva mangiato i bambini; li aveva allevati ed educati. Li aveva presi soltanto per provare la pazienza della lo348
ro madre; e il giorno delle nozze glieli restituì. Granello Di Melagrana, nella grotta, pensando al marito che doveva sposare un'altra donna, pregava. Mirra dammi la pazienza. 3 Henna dipingimi.
Mentre suo figlio chiedeva alla sorella: «Budur, credi che la luna splenda verso nostra madre, o verso il nostro signore?» «Verso nostra madre, con il consenso del nostro signore» rispose Budur; ed entrarono nella caverna. La madre pianse e li abbracciò. Poi, affidandogli uno stiletto e un anello che erano appartenuti al principe, gli disse: «Andate al palazzo del re, e se le guardie non vi fanno passare, mostrate questi e dite: "Sono di nostro padre". Tu, figlio mio, ti metterai alla sua destra e tu, Budur, alla sua sinistra.» Budur e il fratello andarono alle nozze del padre, e fecero come la madre gli aveva consigliato. Quando terminò la festa, la nuova sposa si ritirò nella camera nuziale; invece il marito uscì, andò alla caverna, e udì l'invocazione: Mirra dammi la pazienza. Henna dipingimi.
«Apri» le disse. «Vai da tua moglie e che Dio vi conceda la felicità.» «Apri o rompo la porta!» Finalmente aprì, e si raccontarono tutto. Il principe ripudiò la nuova sposa, e tornò a vivere con Granello Di Melagrana e i figli. Che Dio conceda fortuna a chi ha ascoltato. 349
Questo racconto proviene dal Jebel esh-Sheikh, lo Shenir degli Amorrei, il Sirion dei Fenici (Deutoronomio, III, 9), che è stata nell'antichità una montagna sacra. San Girolamo visitò un tempio con cinta ovale: vi si venerava Ba 'al Hermon o Bel-Hammon (Giudici, III, 3), di origine fenicia. Divinità a cui, secondo la leggenda, pare si offrissero sacrifici umani, in particolare di neonati. Egli fu associato al dio greco Cronos (Saturno) che faceva scomparire nelle sue fauci i figli generati da Rea. Ciò che spesso, in Occidente, definiamo "fatalismo degli Arabi" è, a mio parere, una manifestazione della sapienza orientale che si traduce in uno straordinarìo esercizio della pazienza come mezzo per vincere la sofferenza. Il racconto vuole insegnare come la pratica del silenzio e del dominio di sé servano a sconfiggere gli equivoci e le avversità dell'esistenza, mantenendo la compostezza e la dignità che si addicono all'uomo.
NOTE 1
La melagrana, uno degli attributi della Dea Madre, era simbolo di fecondità in Mesopotamia e nell'area mediterranea, legato quindi ai cicli della vita. 2 In Siria la henna ha molteplici impieghi. I nomadi della steppa la applicano ai palmi delle mani e dei piedi per chiudere i pori della pelle e impedire la traspirazione. Le donne la usano come cosmetico: se ne decorano le mani e le unghie e si tingono i capelli. Al suo colore viene inoltre attribuito un potere profilattico-rituale: proteggerebbe dagli influssi malefici del malocchio. Questa superstizione ha origini lontane. Per i Babilonesi il rosso era colore antidemoniaco. Le sue virtù furono celebrate anche da Egizi, Ebrei e in numerosi hadith (discorsi) di Maometto. Una vera e propria cerimonia della henna precede la prima notte di nozze dei beduini. E le beduine credono che il suo potere impedisca a un marito di prendere altre mogli. 3 Gioco di parole: sàbàrà significa "dare pazienza" e sàbàr "mirra".
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La figlia del sole
C'erano una volta, anticamente, due vecchi sposi che non avevano figli, benché li desiderassero tanto. Una volta, la moglie sentì un giovane che cantava, e pensò: "Signore! Magari potessi avere qualcuno o qualcosa con una voce così bella, fosse solo un pezzo di carne". Dio la esaudì; rimase incinta e, giunto il momento, partorì proprio un pezzo di carne rossa e informe ma capace di danzare, muoversi con grazia, e dotata di una voce splendida. Un giorno, passò un principe che, udendo il suo canto melodioso, se ne innamorò. Corse dal re suo padre, e gli disse: «Voglio sposare quella ragazza e nessun'altra.» «Figlio mio, i suoi genitori sono di umile condizione; non è una sposa degna di te» rispose il re. Ma il giovane insistette e implorò tanto che alla fine ottenne il permesso. L'indomani, si recarono a chiedere la mano. Alla vista del sovrano, il padre della carne canterina si spaventò. «Che cosa avrò fatto di male? Non sarà qui per arrestarmi?» si chiedeva ansioso, profondendosi in mille riverenze: «Prego, maestà, quale onore! Accomodatevi nella mia povera dimora». Dopo aver sentito la domanda di matrimonio, divenne ancora più angosciato. «Quale figlia? Magari ne avessi una! Sarei felice di darvela.» 351
«Come! Non dire bugie. Il mio figliolo l'ha sentita cantare, mentre passava di qua!» si infuriò il re. A niente valsero i dinieghi. «Di' a tua moglie che domani mattina porti la ragazza al bagno. Deve essere pulita, profumata e coperta di unguenti, quando i miei servi arriveranno per condurla a palazzo. Obbedisci, o ti farò tagliare la testa.» Il giorno dopo, la povera donna, spaventatissima, prese il pezzo di carne, lo avvolse in un drappo, lo portò al bagno pubblico e lì, stordita dal vapore del calidario, finì per addormentarsi. Vennero, allora, tre colombe, 1 che si misero a volare sopra quella strana figlia, dicendole: «Come sei buffa! Narraci la tua storia.» «Devo sposare il principe, ma ho paura. Lui crede che io sia una ragazza.» Gli uccelli, impietositi, decisero di farle un dono con l'aiuto di Allah. Le soffiarono addosso e la trasformarono in una bellissima fanciulla dai capelli d'oro e dalla pelle candida e luminosa come la luce dell'alba. Però l'ammonirono: «Se vuoi conservare questo aspetto, stai attenta. Non rivolgere la parola a tuo marito fino a quando lui non ti dirà: "Per la vita di tua madre il sole, di tuo padre la luna, dei tuoi fratelli e sorelle le stelle2 che risplendono nel cielo, parla"». Poi le regalarono sette piume, aggiungendo: «Queste ti aiuteranno. Se dovessi incontrare degli ostacoli, esprimi un desiderio e li risolverai». Lei, tutta contenta, le ringraziò; poi corse a svegliare la madre. «Mamma, mamma, guarda che cosa mi è accaduto! Sono diventata una ragazza!» «Lasciami tranquilla» brontolò la donna, ancora mezzo addormentata. «Con tutti i problemi che ho, anche tu vuoi burlarti di me?» «Ma no! Guardami. Ti assicuro che non scherzo.» 352
La madre, allora, aprì gli occhi; non riusciva a credere a quel fatto straordinario. Ma appena si convinse, commossa e felice, cominciò ad agitarsi, a correre qua e là: chiamò i servi e fece condurre al palazzo reale quella figlia meravigliosa, che tutta la corte ricevette con ammirato stupore. Iniziarono i festeggiamenti, che sarebbero durati sette giorni e sette notti, e furono celebrate le nozze. Quella sera, gli sposi, dopo essersi congedati dagli invitati, si ritirarono in camera da letto. Il principe, innamorato più che mai, si avvicinò a sua moglie per abbracciarla, e le chiese di cantare; lei, senza dire una parola, lo allontanò. Invano tentò di capire. Lei si schermiva e non apriva la bocca. Le diceva: «Perché non parli? Non voglio farti male.» E lei zitta. «Ma non sai usare la lingua? Ho forse sposato una muta?» e lei più silenziosa che mai. Quando, il mattino seguente, il re si recò dagli sposi per far loro gli auguri, chiese al figlio: «Come è andata? Sei contento?» «Macché contento! Mi ero innamorato di una fanciulla dalla bellissima voce, e mi hai fatto sposare una povera muta. La ripudio.» Ma il padre, incantato dall'avvenenza della nuora, gli disse: «Figlio mio, non ti conviene cambiarla: dove la trovi un'altra così?». Il principe accettò di attendere con pazienza. Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi; e ogni tentativo di farla parlare era vano. Infine, stanco e deluso, decise di sposare un'altra; e, per punire quella moglie ostinata, le ordinò di preparare il banchetto nuziale per tutti gli invitati, e anche per la servitù. Lei, con l'aiuto delle piume magiche, si mise al lavoro: entrò nel forno caldissimo, che si riempì, per incan353
to, di pane fragrante; mise le dita nell'olio bollente, e ne saltarono fuori pesci dorati e frittelle profumate, che andarono da sole a disporsi nei vassoi; immerse i capelli in pentole piene d'acqua, che si trasformò in zuppa fumante. Sempre fresca e sorridente, si spostava, leggera, da un posto all'altro, per assicurarsi che tutto procedesse bene. I piatti colmi di cibo volavano verso i tavoli e si posavano davanti ai commensali. I vuoti tornavano in cucina e si lavavano da soli. Ma, in un momento di traffico intenso, un piatto vuoto si scontrò con uno pieno di minestra. «Stai attento!» strillò quest'ultimo, seccato e tutto sbrodolato. «Non puoi badare a dove vai? Sei forse cieco? Oppure sei stupido come il marito della nostra bellissima padrona che, con una moglie simile, sposa un'altra perché lei non parla? E pensare che, se le dicesse: "Per la vita di tua madre il sole, di tuo padre la luna, dei tuoi fratelli e sorelle le stelle che risplendono nel cielo, parla!" lei parlerebbe.» Il figlio del re, che proprio in quel momento si trovava lì, sentendo il discorso del piatto corse dalla moglie, e l'implorò: «Ti supplico, parlami! In nome di tua madre il sole, di tuo padre la luna...» Finalmente, per la prima volta da quando erano sposati, la sua sposa parlò con quella voce che l'aveva stregato molto tempo prima. «O mio signore cosa desideri?» «Voglio solo che continui a parlare, e che canti per me.» «Chiedimi, e io sarò lieta di obbedirti.» Il principe congedò la nuova sposa con tutti gli invitati; e dal quel giorno visse felice e contento con la figlia del sole. 354
In numerose fiabe siriane si trova il rapimento del protagonista per la voce umana o il canto che, con la poesia e la musica, sono le arti più amate dagli Arabi di ogni tempo e hanno affascinato tutti i popoli d'Oriente e mediterranei. Basta ricordare le sirene omeriche, oppure Orfeo che seduceva le fiere e trascinava persino le piante e le rocce. (L'immagine più poetica del mitico cantore, tramandata dall'antichità, si trova in Siria, a Filippopoli, patria dell'imperatore Filippo l'Arabo. È un'opera musiva di sconvolgente intensità mistica, tra le più perfette e originali in assoluto dell'epoca tardo-romana.) O la delicata leggenda erodotea di Airone che, grazie alla bellezza del suo canto, fu salvato da un delfino. O, ancora, l'ultimo grande mito arabo: la cantante egiziana Um Kalthum. D'altronde, il canto è simbolo primordiale: anelito dell'uomo a rispondere al soffio divino del suo creatore.
NOTE 1
«... Alba Palestino sancta columba Syro?...» Tibullo, Elegie, I, VII, 17-18. Uno dei simboli più antichi in Siria, legato al culto della Dea Madre e considerato il più sacro fra gli uccelli. A essa sono legate numerose leggende. Tra le altre quella di Semiramide: Atargatis (Derceto per i Greci) si innamorò di un giovane siriano, ma spinta dalla vergogna lo lasciò e a b b a n d o n ò la loro figlia, Semiramide, che fu miracolosamente salvata dalle colombe; e in colomba si trasformò alla fine della sua vita, p e r scomparire, volando, in cielo. Secondo un'altra leggenda, la stessa Atargatis - grande divinità della natura, Dea Madre che riuniva in sé Afrodite, Cibele, Atena, Artemide e Nemesis - sarebbe nata da un uovo trovato dai pesci nell'Eufrate e covato dalle colombe. 2 Nella lingua araba, luna (Qamar) è maschile, sole (Shams) è femminile, mentre stella, al plurale, può essere di genere maschile e femminile. Per diversi popoli del Medio Oriente, il sole fu una divinità femminile di prima grandezza. Essa presiedeva il pantheon degli Ittiti nel II millennio a.C. e si chiamava Wurusému; dagli Hurriti era chia355
mata Hebat e stranamente aveva come attributo la colomba, in genere non considerato animale solare. Lo veneravano al femminile anche gli abitanti di Ugarit (Cananei) e i semiti dell'Arabia meridionale. La luna, invece, fu sempre divinità maschile. Grande centro del suo culto è stata Harran. Nell'antica religione araba della natura, legata al culto delle divinità astrali, la misteriosa e santa unione coniugale celeste avveniva al tempo della luna nuova. Esiste una credenza popolare degli Arabi contemporanei secondo la quale la luna, maschio, vive maritalmente con il sole, femmina.
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Il taglialegna e la principessa che amava giocare a nascondino
C'era una volta, tanto tempo fa, un taglialegna. Il poveretto conduceva un'esistenza miserevole, di cui un giorno si stufò. Decise allora di abbandonare il paese, e partì in cerca di avventure. Mentre cavalcava, vide davanti a sé un cavaliere, che andava nella stessa direzione e, lieto per quel compagno di viaggio, pensò di raggiungerlo. Ma appena gli fu accanto, la sua gioia diventò sgomento. L'uomo era morto! Volle allontanarsi dall'increscioso viandante, ma il cavallo lo seguì. In nessuna maniera riuscì a distanziarsene. L'animale, con il padrone defunto in sella, restava al suo fianco. Alla periferia di una città, lo videro le guardie e, credendolo un assassino, lo arrestarono e lo condussero in prigione. Portarono il morto al cimitero e le cavalcature nella stalla. Il morto però, non era un vero morto, ma un mago addormentato che, svegliandosi, provò rammarico per aver causato guai a un innocente; corse a liberarlo, si scusò con lui, e gli offrì la sua protezione: «Sono spiacente per ciò che ti è accaduto. Prendi questi tre capelli e, se in futuro dovessi trovarti in difficoltà, bruciane uno. Verrò ad aiutarti». Poi, dopo essersi salutati, ognuno andò per la sua strada. Verso il tramonto, il boscaiolo giunse davanti a un castello molto strano. Era interamente costruito con teste umane! Lui si mise a domandare in giro: 357
«In nome di Dio, che cosa sapete di questo palazzo e dei suoi abitanti?» «Nulla!» rispondevano seccamente gli interpellati. Entrò in un panificio e chiese informazioni al fornaio, che gli rispose, brusco: «Chiedimi della farina lievitata o del pane. Non so altro». Quando fu stanco, si sedette al tavolo di un caffè, ordinò da bere, e attese. Dopo un po', vide entrare un uomo dall'aspetto cordiale. Lo salutò, conversò con lui del più e del meno, e infine gli domandò: «Potresti raccontarmi la storia di quel castello?». Questa volta ottenne la risposta. «Appartiene alla figlia del re, che ha una sfera di cristallo e si diverte a giocare a nascondino con gli uomini. Propone una sfida: se scopre dove il giocatore è nascosto, lo ucciderà, se non riesce a trovarlo lo sposerà. Tanti hanno provato finora, desiderosi di impalmare questa bellissima ragazza; ma sono tutti morti.» «Voglio andarci subito» decise il taglialegna. Si recò al palazzo, e disse al capo della servitù: «Sono qui per sfidare la vostra padrona.» Lo sconsigliarono: «Per il tuo bene, è meglio che te ne vada. Moltissimi hanno tentato prima di te, e sono morti.» Ma la figlia del re, sopraggiunta in quel momento, lo invitò a seguirla. Lo fece entrare in una stanza, gli disse: «Comincia quando vuoi.» E andò al balcone. Qui si sedette davanti a un tavolo su cui era posata una lucente palla di cristallo. Lui bruciò il primo capello. Venne il mago, se lo mise in spalla, lo portò nelle profondità del mare e lo nascose dietro una roccia. La principessa guardò nella sfera: cercò, cercò, cercò; lo vide, e gli gridò: «Ti ho scoperto! Mi hai fatto stancare; però mi sei simpatico, e ti lascio la testa.» 358
Trascorsero quattro o cinque giorni, il taglialegna tornò al palazzo e chiese alle guardie di farlo entrare. «Ti sei salvato una volta, e vuoi rischiare ancora!» esclamarono quelle, sorprese. «Sì. Conducetemi da lei.» Appena vide la principessa, le propose: «Voglio sfidarti ancora. Ci stai?» «Certo. Però stai attento! Se ti trovo, perderai la testa.» «Lo so, e non m'importa» ribadì; poi andò nella solita stanza e bruciò il secondo capello. Il mago apparve immediatamente, se lo caricò sulle spalle e spiccò il volo. Salì, salì, salì in alto, sempre più in alto, fino al settimo cielo! Lei cercò nella sua palla magica. Frugò con lo sguardo tutta la terra, ma invano. Cercò ancora, e infine lo scoprì. «Ti ho visto, scendi» gli ordinò. «Mi hai visto!» constatò lui, sorpreso e stizzito. «Sì. Però hai compiuto un'impresa straordinaria! Ti perdono.» Dopo una settimana, il giovane tornò. «Desidero provare per l'ultima volta» disse alla figlia del re. «Oggi non sarò indulgente. Se perdi, perderai anche la testa» lo ammonì lei. «Va bene, tagliamela pure.» Appena rimase solo, bruciò il terzo capello. Puntuale, il mago si presentò. Ma questa volta non lo condusse da nessuna parte; lo trasformò in un filo di cotone, che depose sulla spalla della fanciulla. Lei cercò, cercò, cercò invano. «Mi arrendo! Hai vinto. Torna» ammise, sconfitta, e lui le fu davanti in un baleno. «Dove sei stato?» gli chiese. «Sopra la tua spalla.» La principessa rimase sor359
presa, ma non si arrabbiò. Fece chiamare subito uno sheikh e sposò il taglialegna. Il teschio, usato come elemento terrifico, è, per quanto ho potuto constatare, estraneo alla favolistica siriana in genere. L'ho incontrato soltanto in un 'altra fiaba, "Fai il bene e gettalo in mare ", che per la sua struttura, storia-cornice che ne racchiude altre tre, tradisce l'orìgine indiana. E all'India mi fa pensare la principessa ninfomane e sanguinaria che vive nell'orrido castello edificato con le ossa delle sue vittime. Essa mi ricorda Kali, dea simbolo della natura che crea e distrugge: cupa, inesorabile e inghirlandata di teschi; bramosa di perfezione, dirìge l'anelito alla conoscenza, aborrisce i codardi, apprezza i temerari che lottano per conseguire la sapienza ed è posseduta dal misterioso desiderio di attrarre a sé gli esseri. È crudele, ma brama l'unione con il suo sposo mistico, Shiva.
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La fillirea e il gelsomino
C'erano una volta, molto tempo fa, due fratelli, uno re e l'altro visir; entrambi sposati, ma senza figli. Un giorno, si vestirono da dervisci e cominciarono a vagabondare per il paese. Durante le loro peregrinazioni, si imbatterono in un vecchio: poteva essere uno sheikh, o un mago, 1 o forse un uomo santo come il Khodr. 2 «Dove siete diretti?» chiese, dopo averli salutati. «Veramente, zio, giriamo per il mondo, cercando la via che ci conduca a Dio. Egli è la nostra meta» risposero. «Non è questo il vostro intento» 3 ribadì il sapiente. «Io so dove andate. Siete in cerca di bambini. Voglio aiutarvi. Prendete queste due mele. Ciascuno di voi ne divida una a metà con la propria sposa. Ma badate! Dovete mangiarla la sera del vostro rientro e, con la volontà di Dio, avrete due figli. La regina partorirà un maschio, che si chiamerà Qambar; e tua moglie, o visir, una femmina, Arzè. Quando saranno cresciuti, dovrete farli sposare perché sono destinati l'uno all'altra.» Il re e il visir tornarono a corte, e ciascuno di essi mangiò la mela con la compagna; però, con due giorni di ritardo, perché avevano dimenticato l'ammonimento del saggio. 4 Le due donne, comunque, rimasero incinte. Tempo dopo, il re morì, e il visir 361
prese il suo posto. Giunto il momento, nacquero un bambino bruno e una bambina dalla pelle candida. Poco tempo dopo il nuovo sovrano morì, e così la madre di Qambar. I due bambini crescevano insieme, e si affezionavano l'uno all'altra, sempre più. Col tempo, s'innamorarono; ma la nuova regina non voleva il principe come genero; e lo mandò a fare il pastore. Arzè, che soffriva per la sua lontananza, un giorno preparò un bel pranzo e si recò, in compagnia delle dame del seguito, a fare una scampagnata, vicino alla sorgente, dove il suo innamorato abbeverava il gregge. Le fanciulle pranzarono e si divertirono fino al pomeriggio. Quando giunse il momento di rientrare, Arzè nascose un bicchiere. A metà strada, finse di ricordarsi: «Care, ho dimenticato qualcosa, vado a cercarla». Giunta alla fontana, vide Qambar e gli si avvicinò, dicendogli: «Sono io la rosa Che si riflette nell'acqua. Fratello, rendimi ti prego La coppa caduta dalle mie mani.»
Egli rispose: «Il tuo fulgore mi infiammò. La coppa o cara ti renderò.»
E si abbracciarono, sussurrandosi dolci parole. Poi si congedarono. Una delle damigelle che, spinta dalla curiosità, aveva seguito di nascosto Arzè e assistito all'incontro tra gli innamorati, riferì alla regina: 362
«Qambar e tua figlia hanno cantato versi d'amore; si sono abbracciati e baciati.» «Davvero?» «Sì.» Come reagì la signora a quella notizia? Decise di far morire il giovane. Solo così avrebbe potuto sbarazzarsene definitivamente. La sera stessa, lo fece chiamare. «Figlio mio» lo lusingò, «tuo padre era re. Non è dignitoso che continui a fare il pastore. Devi vivere nel palazzo.» Qambar ne fu lieto: "Mia zia è contenta di me" pensava. Trascorsi alcuni giorni, mentre lui era al mulino a macinare il grano, la regina gli preparò un pranzo così buono che neppure per il marito ne aveva mai cucinato uno simile; al suo rientro, si complimentò con lui, dicendogli: «Che Dio ti ricompensi; sei stato bravo! Vieni a mangiare». Arzè, però, lo avvertì: «Occhi miei! Per la tua bellezza Che mi fece innamorare Al cibo non ti avvicinare Non so che cosa la folle Abbia messo dentro Ma al gatto e al cane Un boccone fai provare E che Dio ti salvi Dalla maledetta.»
Qambar fece come la ragazza gli aveva consigliato. Diede il cibo agli animali, ed essi, prima ancora di finire, caddero a terra morti! Allora, il giovane principe, preso dall'ira, si alzò, afferrò la zia e la bastonò finché lei riuscì a scappare, urlando. «Che cosa è successo? Ho sentito le vostre grida. 363
Ha tentato di ucciderti?! Devi partire per Istanbul, e informare il sultano» gli disse Arzè. «Arzè, cosa fai?» domandò sua madre. «Qambar parte. Lo saluto. Bruno e bianco stanno bene insieme. E io amo i suoi occhi Che non hanno bisogno del kohl Per essere belli»
rispose Arzè. E uscì insieme a lui. Voleva accompagnarlo per un tratto di strada. Cavalcavano fianco a fianco da un'ora, e non avevano la forza di separarsi. Infine, a malincuore, Qambar tirò le redini per fermare il suo cavallo; ma la bestia si imbizzarrì ed egli cadde a terra, ferendosi un braccio. Arzè scese, rapida, dalla sua cavalcatura; stracciò l'abito per farne delle bende, con cui avvolgere la ferita che sanguinava. Quando terminò, era quasi buio; doveva rientrare. Dopo averlo abbracciato, risalì in sella e fece ritorno al palazzo. «Figlia! Che cosa ti è accaduto?» strillò la regina, vedendola arrivare con le vesti lacere e sporche di sangue. «Ti ha usato violenza? Disgraziati te e tuo padre, se ti ha disonorata!» Arzè esclamò, indignata: «Madre! Che dici? Era ferito il braccio del mio Qambar e io l'ho bendato. In nome di Dio l'ho curato.»
La regina, alla notizia che il giovane detestato era ormai lontano, gioì. Qambar cavalcò per tre o quattro giorni e giunse a Istanbul, dove regnava il più potente dei sovrani: il 364
sultano Zukhadar. Il principe si presentò alla porta del suo palazzo, e cantò. «Chiedo giustizia O sultano Zukhadar. Fa' che mi sia ridato ciò che mi fu usurpato. Aiutami a riavere l'amata. Colei che vogliono Impedirmi di sposare.»
«Hai sentito, visir?» chiese il sultano. «Sì. Ho sentito il poeta» rispose il visir. Immediatamente, saltarono in sella, uscirono dal palazzo e, con Qambar, partirono alla volta del suo regno. Lasciamoli viaggiare, e intanto vediamo che cosa tramava la madre di Arzè. Chiamò una maga di sua conoscenza, e le chiese: «Dimmi, che ne è di Qambar? Dove si trova? Che cosa fa...» «Zitta, zitta!» la interruppe la veggente. «Qambar torna, accompagnato dal sultano Zukhadar, che lo aiuterà a riprendere il trono di suo padre, e a sposare tua figlia.» «Davvero?» «Sì.» «Se arriva qui il sultano, sarò costretta a cedere! Che cosa possiamo fare?» «Dammi venticinque monete d'oro; e farò allontanare Zukhadar.» «Tu puoi?» «Certo. Aspetta e vedrai.» Avuto il denaro, la donna andò al cimitero, che si trovava vicino alla via per Istanbul, ricoprì di fiori e mirto 5 un sepolcro vuoto, e attese. 365
Quando sopraggiunsero i tre cavalieri, cominciò a lamentarsi, piangere e spargere fumi d'incenso. Qambar, che la riconobbe, si avvicinò e le chiese: «Nonna, perché piangi disperata?» «Occhi miei, stai zitto!» «Che cosa è accaduto?» «Arzè...» «Cosa è successo alla mia Arzè?» «È morta. Io prego per la sua anima.» Allora, il giovane tornò da Zukhadar e gli disse: «Che il Signore ti conceda lunga vita. Colei che volevi aiutarmi a riavere è morta». Il sultano con il suo visir ripartirono verso Istanbul; egli ritornò alla tomba e ordinò all'indovina: «Alzati, nonna. Veglierò io mia cugina. La amo, e devo essere io il custode del suo sepolcro». La vecchia si allontanò; Qambar rimase a piangere. Trascorsero uno, due, tre giorni, e si disperava sempre. Finché, all'alba del quarto giorno, sentì voci, canti e tamburi. Rumori gioiosi gli giungevano da lontano. «Come!» si stupì. «Ballano e cantano! Festeggiano nel regno? Non piangono la morte della figlia del re?» A malincuore, abbandonò il cimitero e si diresse verso la città. Lungo la strada, vide una vecchia che andava nella stessa direzione. «Zia, che cos'è questo gaio clamore?» le chiese. «Non sai? Arzè, la nostra bella principessa, va in sposa al figlio del re di Cipro.» «Ma Arzè è morta!» «Che dici!? Oggi è il giorno dell'henna, 6 e domani lei si imbarcherà con il marito.» Qambar le raccontò la sua storia; poi le chiese di condurlo alla festa. La vecchia acconsentì. Lo fece vestire con abiti muliebri, gli nascose il volto con un velo, e insieme andarono alla reggia. La donna si 366
apriva un varco con il bastone, tra la moltitudine che gremiva la sala. «Mia figlia, che è amica della sposa, viene da lontano per salutarla» diceva, avanzando. Infine, riuscì a farlo sedere accanto ad Arzè. "È lui! Qambar è tornato" pensò lei, felice, riconoscendo l'anello che gli ornava il dito. Era un pegno d'amore che gli aveva offerto molto tempo prima. Era usanza a quell'epoca, per le fanciulle che prendevano marito, trascorrere la vigilia delle nozze, o notte dell'henna, in compagnia di un'amica. Con l'aiuto della vecchia, Qambar fu il prescelto. Quando rimasero soli - era sua cugina, non poteva disonorarla! 7 - si raccontarono tutto. Che fare? «Domani verranno a prendermi per condurmi a Cipro. Io fingerò di cadere da cavallo, finché non porteranno il tuo» gli disse Arzè. E così fece, la mattina seguente, quando giunse la scorta del re suo suocero. Cadde dalla cavalcatura. Ne portarono un'altra, cadde di nuovo. Non ne trovavano una che le andasse bene. «L'unico che può portarmi, è il cavallo di mio cugino» dichiarò risoluta. «Qambar pensa che tu sia morta; come possiamo dargli ora la notizia del tuo matrimonio?» Intervenne il re: «Lo informerò io». E andò a trovarlo al cimitero. «Ragazzo, ascolta; devo confessarti qualcosa, perché le bugie possono giovare una volta, mentre la verità può farlo mille volte» gli disse. «Parla, zio.» «Questo sepolcro è vuoto. Arzè vive, e ha sposato mio figlio. Oggi dobbiamo partire; però, lei afferma di potere cavalcare solo il tuo destriero. Vorresti darcelo?» 367
«Ai tuoi ordini. Ringrazio Dio che è salva! Ne sono felice! Ma il cavallo non lo affido a nessuno. Se permetti, la condurrò io fino al tuo paese.» Il re acconsentì. La sposa, leggera come una gazzella, salì accanto a Qambar e insieme cavalcarono fino al mare. Ma quando giunsero alla spiaggia, furono separati con la forza; Arzè fu condotta sulla nave. I naviganti veleggiarono verso Cipro. Arzè, con lo sguardo diretto alla riva, pensava all'amore perduto. «Arzè, Arzè!» la chiamò suo marito. «Sono qui, vieni» rispose lei, invitante, spargendo della biada sul pavimento bagnato. Lui scivolò, sbatté la testa e morì. Lei, dopo aver raccolto la biada, si mise a gridare: «Sventura, sventura! Il mio sposo è morto!». Accorsero tutti, e mormoravano: «Il destino ha voluto così». Appena arrivarono al castello, il suocero, osservandola, pensò: "Andrà via. Sposerà il cugino". «Sei libera» le disse. E Arzè tornò alla spiaggia. Qambar era sull'altra sponda. Fu come se i due innamorati avessero visto l'uno nel pensiero dell'Elitra. Sollevarono le braccia e, nello stesso attimo, si gettarono in acqua. Nuotarono, nuotarono. A metà cammino si incontrarono. Si abbracciarono nel mare e, stretti nel loro amplesso, scomparvero tra i flutti. Un'onda gigantesca li afferrò e li travolse nella sua corsa. La furia del mare li scaraventò a riva e la sabbia li coprì. Dai loro corpi germogliarono una fillirea e un gelsomino. Crescevano stretti, avvinti uno all'altra. La madre di Arzè chiamò l'indovina: «Che cosa fa Arzè? Dimmi: è felice?». La donna, tracciando segni misteriosi nella sabbia, 8 si mise a gridare: 368
«O madre di Arzè! Sventura! Vedo tua figlia e Qambar, abbracciati in mezzo al mare! Muoiono! Le onde li trascinano a riva! Essi rinascono! Ora sono due piante che crescono avvinghiate.» «Li voglio separare. Si può?» «Sì.» «Come?» «Pianterò tra loro un rovo. Quando il vento soffierà, le spine li feriranno e, per sfuggire a esse, dovranno allontanarsi.» La regina diede l'oro all'indovina, che andò in riva al mare e piantò il rovo che li disunì. Per le sue caratteristiche formali e stilistiche, questo racconto, che fa pensare a una leggenda eziologica persiana, rientra nel genere della "hikaya" corta: elementi meravigliosi e leggendari intercalati a versi cantati. Di origine turca, è entrata nel patrimonio orale armeno, anatolico, turcomanno, curdo. Esso ricorda anche il mito di Ero e Leandro, presente nella letteratura classica ma anche nella tradizione universale. Il narratore è del villaggio armeno di Yakobye (Siria del Nord).
NOTE 1 Sacerdote che praticava l'astrologia e la divinazione. ^ Cfr. "Il Khodr e il principe". 3 Per la magia orientale, si poteva studiare lo stato morale e il comportamento psicologico degli uomini osservando i gesti istintivi involontari. Sin dalla più alta antichità fu presente nei Semiti la tendenza a trarre presagi dai segni esteriori: tratti somatici, casi fortuiti, lapsus linguae, gestualità. Studiando gli occhi, il naso, i denti, le guance (fisiognomica) si potevano stabilire il destino, gli incontri, le malattie di una persona. La magia era strettamente legata alla divinazione per la credenza che gli dèi prestabilissero il destino umano. Essa diventò scienza presso gli Arabi: la Firàssa, che ha la sua origine nella Kiàfa
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(mantica). Scrisse 'Asim al-Antaki: «Se conversate con persone veridiche fatelo dicendo la verità poiché tali persone sono le spie dei cuori. Esse vi penetrano e ne escono senza che ve ne rendiate conto». Cfr. Enciclopedia Islamica, alle voci "Firàssa", "Fa'al". 4 Divinazione e astrologia furono elementi fondamentali delle antiche religioni mesopotamiche, collegate al culto delle divinità astrali. Maghi, indovini e astrologi di professione facevano parte del clero. Attraverso l'osservazione dei pianeti, si determinavano i tempi sacri, i giorni favorevoli e sfavorevoli, il momento propizio per la nascita. Queste pratiche si diffusero in tutto il Medio Oriente, in Asia Minore per mezzo dei proto-Ittiti, in Grecia e a Roma, dove i maghi caldei che univano il dualismo mazdeo alle concezioni astrali babilonesi erano rinomati lettori di oroscopi e indovini. In Persia, Zoroastro ne fece una scienza rivelata, che si mantenne fiorente fino al IX secolo d.C. Di questo periodo è anche la credenza che le piante fossero sede delle anime dei defunti (Avesta post-gatico). 5 In Fenicia, era consacrato ad Astarte. In Siria, fino a oggi, come in Grecia, nell'antichità classica, è considerato la pianta dei morti. 6 Rito che viene praticato in Siria da almeno 4000 anni. Se ne ha testimonianza nei documenti di Mari e Ugarit; «Anat ornata di henna e di rosso, e profumata» leggiamo in un poema ugaritico del ciclo di Ba'al. Anat era la dea della vita e della fecondità. Cfr. il racconto "Granello Di Melagrana". 7 Una donna, nella società islamica tradizionale, non può stare da sola in compagnia di un uomo estraneo alla famiglia. 8 Geomanzia: antica arte della divinazione attraverso i segni tracciati in terra. In Siria si pratica ancora oggi.
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Gomena, principe dei ginn
C'erano una volta, molto tempo fa, tre giovinette, figlie di un povero pescatore. Una mattina, la primogenita disse al padre: «Voglio andare con te al mare.» «Perché?» chiese suo padre. «Per scoprire se ho fortuna» rispose. Egli acconsentì. Si recarono al mare, gettarono le reti, attesero, ma alla fine della giornata dovettero tornare a casa con pochi piccolissimi pesci; la ragazza fu insultata e maledetta da tutta la famiglia. Anche la secondogenita voleva andare al mare. Il giorno seguente, pregò suo padre: «Portami con te.» «Santo Iddio! E tu, perché vuoi andarci?» brontolò il pescatore. «Per scoprire se ho fortuna.» «Pensi di essere più fortunata di tua sorella?» «Chissà! Magari, con me la sorte sarà più benevola» disse la figlia al pescatore. E riuscì a convincerlo. Però, anche quella non si rivelò una giornata particolarmente fausta: presero pochi pesciolini, insufficienti per una magra cena. In compenso, la fanciulla ricevette abbondanti bastonate e ingiurie. Il terzo giorno, fu l'ultimogenita a manifestare l'intenzione di accompagnare il padre. 371
«Non bastano le tue sorelle? Anche tu devi importunarmi!» sbottò l'uomo, infastidito. «La mia esistenza è talmente monotona! Desidero fare nuove esperienze, e magari ti porto fortuna» insistè la fanciulla, riuscendo a persuaderlo. A dire il vero, sarebbe stato difficile anche per quel rude pescatore rifiutare qualcosa a una figliola tanto bella, bionda e dalla delicata pelle candida. Giunti al mare, gettarono le reti e attesero. Trascorse il mattino, arrivò il primo pomeriggio, e di pesci neppure l'ombra. Poi, il sole terminò il suo viaggio e si inabissò nell'acqua. Ma quando il crepuscolo già anneriva il cielo, le reti diventarono pesanti. Non riuscivano a sollevarle! «Deve essere un pesce enorme!» esclamarono, contenti, il pescatore e sua figlia, mettendosi a gridare: «O ragazzi! Compagni! Gente! Accorrete! In nome di Dio, aiutateci!». Vennero in molti e: issa, issa! Tira, tira! Portarono a riva un grossissimo... sasso!1 La delusione e le canzonature dei presenti fecero infuriare il pescatore, che rovesciò la sua rabbia sulla figlia. La picchiò con un bastone e le gridò: «Cane figlia di cane! Che cosa mi fai pescare? Per colpa tua restiamo senza cibo» e giù legnate. La poveretta non sapeva cosa dire o fare, per calmarlo. Infine, ebbe un'idea. «Possiamo usarlo come porta» gli disse. «Mah! Non è una cattiva trovata» riconobbe suo padre, pensando al gelido freddo che, d'inverno, invadeva la loro misera catapecchia senza uscio; e le ordinò di farlo rotolare fino a casa. Ma quando vi giunsero, le sorelle, incollerite per il digiuno forzato, la picchiarono ancora di più. Lei, afflitta e delusa da quella famiglia ostile e violenta, andò a sedersi nel cortile, accanto alla pietra che aveva pescato, e cominciò a lamentarsi. A mezzanotte, le apparve uno sconosciuto. Era bello, alto, prestante e, osservandola con in372
diligenza, le chiese premuroso: «Perché piangi?». Lei gli raccontò tutto. Lui l'ascoltò con attenzione, ammirando la sua grazia. Ne fu conquistato, e la prese in moglie. Dal nulla, fece sorgere due magnifici palazzi: uno per loro, e uno per la famiglia. Le donò oro, gioie preziose, tessuti sontuosi, e una bacchetta magica che poteva realizzare ogni desiderio. La fanciulla possedeva, ormai, tutto ciò che rende piacevole la vita. Però poteva stare con il marito soltanto di notte. All'alba, lo sposo misterioso scompariva! Un giorno, lei andò all'hammam insieme alle sorelle. Aveva con sé cibi raffinati, frutta profumata, fresche bevande; al suo passaggio, gettava monete d'oro. Le inservienti accorsero premurose. E lavarono, massaggiarono, cosparsero di unguenti il suo corpo. Una le chiese: «Chi è tuo marito?». «Non so» rispose lei. «Come si chiama?» volle sapere un'altra. «Non so.» Tra le clienti, vi era una donna particolarmente indiscreta, e più molesta di un insetto, che insinuò, ironica e petulante: «Che dici! È mai possibile che non sai niente dell'uomo che sposasti?» Quella pettegola la innervosì talmente, che si sentì male. Quando rientrò, mesta e perplessa, a casa, si mise a letto e finì per addormentarsi. Si risvegliò a mezzanotte, sentendo rientrare il marito che, vedendo la sua aria affranta, le chiese premuroso: «Che cosa ti è accaduto?» «Niente» rispose lei, scontrosa, e gli tirò addosso il suo pettine. Lui insisteva: «Anima mia, luce dei miei occhi, perché sei così triste?» 373
«Non parlarmi» urlò lei. Ma lui voleva sapere, e le chiese ancora: «Che hai? Non ti sei divertita al bagno?» Lei, sbuffando, gli tirò il suo bracciale e gli disse: «Va bene! Vuoi sapere la verità? Non mi sono divertita. Le donne mi hanno importunato con il loro blaterare curioso. Volevano sapere chi sei, e io, che non potevo rispondere, mi sentivo piena di vergogna. Dimmi: come ti chiami? Chi sono i tuoi genitori? Qual è il tuo paese?» «Non posso dirtelo. Ma cosa importa il mio nome? Noi ci amiamo. Siamo felici insieme. Accontentati.» «No. Non potrò più essere contenta, finché non saprò tutto di te.» «Non insistere, moglie. Potresti perdermi, se sapessi.» Ma lei incalzò, tenace: «Voglio, devo sapere». «Anche se rischi di vedermi scomparire per sempre?» «Voglio sapere.» «Sei ostinata. Perseveri?» «Non rinuncio. È assurdo ignorare il nome del proprio sposo.» «D'accordo. Vai in giardino, prendi la pietra che pescasti il giorno del nostro incontro, rigettala in mare e attendi sulla riva sino al mattino. Allora capirai.» Lei corse a cercare la grossa pietra, la fece rotolare fino alla spiaggia, la buttò nell'acqua e si sedette ad aspettare l'alba. Al sorgere del sole, sentì una voce che la chiamava. Guardò, e vide un uomo che stava ritto sopra le onde. Era il marito! Lui le gridò: «Donna, vuoi me o il mio nome?» 374
«Voglio il tuo nome.» E l'acqua ricoprì le caviglie del marito. «Vuoi me o il mio nome?» «Il tuo nome.» E l'acqua giunse alle ginocchia del marito. «Vuoi me o il mio nome?» «Il tuo nome.» E l'acqua raggiunse il petto del marito, che urlò, disperato, per la quarta volta: «Vuoi me o il mio nome?» «Il tuo nome.» E l'acqua arrivò al mento del marito. Lui la implorò, ancora: «O donna, sii compassionevole! Rifletti! Giuro che scomparirò per sempre.» Ma lei strillò impaziente: «Voglio il tuo nome.» Lui fece in tempo a dire: «Mi chiamo Gomena...» e sprofondò. Lei tornò, soddisfatta, al palazzo. Poteva dire a tutti come si chiamava il marito. Però, quando arrivò, rimase di sale: i due palazzi con i tesori che contenevano erano scomparsi! Era finito tutto in fondo al mare. Restava soltanto la vecchia casupola. I familiari, che l'attendevano seduti sopra una logora stuoia, come la videro, le corsero incontro furiosi. Lei fuggì via. «Che fare?» si chiedeva. Per fortuna, i gioielli che aveva indosso non erano scomparsi. Decise di venderli a un orafo. Con il guadagno, comprò l'hammam, e appese un cartello all'ingresso. C'era scritto: «Chi mi racconterà una storia, farà il bagno gratis». Quella notizia si sparse, e i raccontatori arrivavano a frotte. Mentre succedevano queste cose, una donna che abitava in campagna decise di recarsi, con il figlio, in città. La strada era lunga e il buio la sorprese in un bosco. Era una notte senza luna, e la donna, per 375
paura dei ghul che attendono i viandanti nell'oscurità, decise di salire su un albero ad aspettarvi il giorno. Il bambino si addormentò presto; ma la poverina vegliava con gli occhi spalancati. A un tratto, verso la mezzanotte, vide sorgere, dalla terra, tre ginn, che si misero a parlare. Disse il primo: O pioggia, scroscia.
Disse il secondo: O vento, soffia.
Disse il terzo: 0 tiglio, fai stormire le tue fronde Dai fiori profumati. Così Gomena verrà a visitarti.
Non appena la strana filastrocca terminò, per incanto comparvero tavole imbandite e gioiose creature, che misero un trono sotto il tiglio olezzante. 2 Infine, apparì un bel principe dall'espressione triste. I presenti si misero a cantare, suonare zufoli e tamburi, e danzare. I tavoli si riempirono di pingui agnelli arrostiti. Tutti bevevano e si divertivano; ma il giovane principe mantenne il suo aspetto abbattuto. Poverino! Era proprio disperato. Prese un pettine dalla tasca, e cantò: Chi mi colpì col suo pettine? Chi mi ferì il cuore? Oh pietre! Oh alberi! Piangete il mio perduto amore. Partecipate al mio dolore. 376
«Ahimè, ahimè!» gridava. E pianse, pianse inconsolabile. Poi, prese un bracciale e ricominciò a cantare: Chi mi colpì col bracciale? Chi infiammò il mio cuore? Oh pietre! Oh alberi! Piangete il mio perduto amore. Partecipate al mio dolore.
E pianse ancora, finché una di quelle creature sbucate dalla terra, con un gesto della mano, fece scomparire tutto. Appena spuntò l'aurora, la donna e il figlio scesero dall'albero e ripresero il cammino. Giunsero in città dopo qualche ora. Il bambino, che sapeva leggere, vide ciò che era scritto alla porta dell'hammam e ne informò sua madre, che decise di entrare. «Sai una storia?» le chiese la padrona. «Sì. Una molto bella e strana.» «Dimmela, e potrai fare il bagno senza pagare.» La contadina iniziò il suo racconto. «Figlia mia, ieri, mentre venivo in città, fui sorpresa dal buio e...» Era proprio una bella storia! La fanciulla l'ascoltava rapita. Figuratevi come rimase, appena sentì il nome del suo sposo! Le si spalancarono le orecchie e, per la contentezza, fece lavare la narratrice finché a questa brillò la pelle come oro zecchino. Dopo, le propose: «Il bagno sarà tuo, se mi indicherai il luogo dove accaddero i fatti che mi hai narrato». La donna ve la condusse. Allora la congedò dicendole: «Vai a occuparti del bagno. Ti appartiene». Ormai desiderava soltanto ritrovare il marito. Salì sull'albero e attese. A mezzanotte, tutto si svolse co377
me il giorno precedente. Però Gomena, non tollerando quella baldoria, con un gesto della mano fece scomparire ogni cosa. Restò solo, con il cuore sanguinante. Cantava, e le lacrime scorrevano sul suo volto. Disperati singulti gli scossero il petto, e declamò versi struggenti che parlavano di passioni impossibili. Sua moglie ne fu sconvolta, e capì quanto fosse stata stupida e crudele. Finalmente, gridò la sua pena. Lui, sentendola, sollevò lo sguardo, e la vide. «Tu!» esclamò. «Sì, io. Uccidimi. Ti appartengo. Sarò la tua schiava. Fai di me ciò che vuoi.» «Cara, ti avevo avvisato. Dovevi scegliere tra il mio nome e la mia persona. E hai scelto il primo. Ora non posso più fare nulla, senza mettere in pericolo la tua vita. I miei genitori sono i sovrani dei ginn; ti ucciderebbero, se sapessero.» «Non temo niente e nessuno; e starei tra un branco di scimmie nere pur di averti vicino. Ti seguirei in capo al mondo. Voglio vivere con te. Ti prego, non abbandonarmi in balia della mia famiglia che non conosce la pietà.» «Perché non mi ascoltasti?» «Mi lasciai condizionare dal giudizio della gente. Ora, però, disprezzo la mia debolezza» ammise lei, manifestandogli, con espressioni toccanti, il suo affetto. Lui, che già l'amava tanto, sentendo quelle parole, le volle ancora più bene. Ma replicò: «Tu sei una creatura umana e io un ginn.» «Che importanza ha? È il destino che ci ha uniti. Prendimi con te.» Gomena, non resistendo più alle suppliche accorate di sua moglie, la fece sedere accanto a sé su un tappeto volante. Mentre viaggiavano nel cielo, le disse: «Ti poserò vicino al castello dei miei genitori» e le consegnò 378
una mandorla, una noce, un pistacchio, spiegandole come usarli. Quando giunsero davanti alla sua casa, la lasciò. La fanciulla, allora, seminò la mandorla: essa, in un batter d'occhio, si trasformò in un grandissimo albero carico di frutti. Lo vide un abitante del castello, che si avvicinò, e chiese: «Che cosa fai qui, creatura umana?» «Ho piantato quest'albero, e ora vivo del suo raccolto.» «Lo venderesti?» «No.» Non poteva venderlo, cari lettori, poiché desiderava restare accanto al suo amato! Ma, durante la notte, rubarono le mandorle e l'albero avvizzì. Seminò il noce, che in un attimo spuntò, crebbe, fiorì, fruttò. Però rubarono anche i suoi frutti, ed esso appassì. Seminò il pistacchio, che diventò una pianta straordinaria; ma rubarono i frutti, e il pistacchio si inaridì. Ormai, non avendo più nulla da mangiare, decise di cercare lavoro presso i ginn del palazzo. Ci andò, e chiese: «Mi volete come serva?». Essi acconsentirono. I genitori di Gomena, che avevano intanto deciso di farlo sposare, gli trovarono come fidanzata una bella ginn e iniziarono i preparativi per le nozze. La figlia del pescatore soffriva, ma non poteva fare niente. Un giorno, la regina le ordinò: «Vai da mia sorella, dille che è invitata alle nozze del nipote, e chiedi la cassa della banda musicale». Lei obbedì. Lungo il cammino, incontrò Gomena, che le chiese: «Dove sei diretta, vita mia?» «Caro, tua madre mi invia a prendere la banda che deve suonare alla festa del tuo matrimonio.» 379
«Amore mio! Di certo, tramano per ucciderti. Mia zia è una ghula e mangia carne umana.» «Dimmi! Cosa devo fare?» Lui le diede due cosce di vacca, consigliandole: «Vai pure. All'ingresso, troverai cani feroci. Gettagli queste due cosce di vacca, poi entra in casa. Ci sarà mia zia. Dille: "La madre di Gomena ti invita alle nozze di suo figlio, e ha bisogno della banda". Lei farà finta di cercarla in un'altra stanza, dove, invece, si affilerà gli incisivi e i molari per mangiarti. Tu devi approfittare della sua assenza: prendi la scatola che si trova su una mensola in cucina, scappa via senza voltarti, e stai attenta a non aprirla». In verità, la ghula, appena vide la bella fanciulla, si leccò le labbra pregustando il banchetto, e andò ad affilarsi i denti. Ma, al suo ritorno, lei era già fuggita. Inutilmente, il mostro gridava ai cani: «Acciuffatela e divoratela.» «Bau, bau, ci ha dato carne» le risposero gli animali; e non la mangiarono. Sulla via del ritorno, osservando la scatolina nella sua mano, si domandava: «E possibile che, racchiusa qui dentro, ci stia un'intera banda musicale?». Infine, si lasciò vincere dalla curiosità, dimenticando l'insegnamento di Gomena, aprì e... tam, tam, bum, bum... tutta una banda di omini piccoli come spilli saltò fuori, si incolonnò, e marciò verso il palazzo. Invano, corse per acchiapparli; già si disperava, quando apparve Gomena che, in un attimo, raccolse la banda e gliela consegnò, dicendole: «Che cosa hai fatto? Perché hai aperto la scatola?» «Mi è caduta» mentì lei. La regina si meravigliò moltissimo, vedendola tornare sana e salva. «Questa è opera di mio figlio» pensò, indispettita; e il giorno seguente la inviò da sua sorella per il tap380
peto delle cerimonie. La fanciulla sapeva che era un inganno per farla mangiare dalla ghula ed ebbe paura. Per fortuna, Gomena le venne ancora una volta in aiuto; le consigliò come superare gli ostacoli, e lei riuscì a impadronirsi del tappeto, nascosto nel pollaio della ghula. Esso era lungo come il dito di una mano! «Acchiappatela» gridò la ghula ai suoi cani vedendola fuggire, ma loro, riconoscenti per le cosce di vacca, non la toccarono. Lei, guardando incuriosita il minuscolo tappeto che teneva in una mano, si chiedeva: «Che ne faranno di un tappeto così piccolo?» e, per osservarlo meglio, lo srotolò. Il tappeto, allora, saltò a terra e cominciò a crescere. Si allungava, si allungava, e stava già per giungere al palazzo, quando Gomena apparve; in un attimo, lo avvolse e glielo consegnò, dicendole: «Se non ti amassi tanto, punirei la tua curiosità». Poi, continuò: «Domani, durante la festa, ti chiederanno di ballare. Tu accetta, ma di' che lo potrai fare soltanto se tieni in mano due torce accese. Te le daranno, comincerai a danzare e...». Dopo averle spiegato tutto, l'abbracciò e sparì. Lei ritornò al palazzo e diede il tappeto alla regina che, non aspettandosi certo di vederla ancora, disse tra sé: «Questa, o creatura umana, non è opera tua». Il giorno seguente, gli invitati alle nozze le chiesero di danzare; lei acconsentì. Ballava con le fiaccole infuocate in mano, distraendo i presenti, che osservarono con sguardi carichi di ammirazione i gesti del suo corpo sinuoso e provocante. Ne approfittò per gettare una torcia infiammata in grembo alla sposa; e quando le si appressarono per aiutarla, lei lanciò l'altra sulle persone raggruppate. Tutti tentavano freneticamente di spegnere il fuoco, creando una grande confusione. 381
Nel momento in cui l'agitazione raggiunse il culmine, lei si allontanò indisturbata, correndo incontro al suo amore. Lui, che l'attendeva in sella a un bianco cavallo alato, la sollevò, la fece sedere accanto a sé e insieme volarono. Attraversarono i cieli, e infine giunsero in un altro mondo. Erano salvi, uniti, felici. Andarono ad abitare in un meraviglioso castello, e generarono figli maschi e femmine. Noi li abbiamo lasciati, e siamo tornati quaggiù. Che cosa successe in seguito, non lo sapremo più. I ginn, secondo la tradizione, preferiscono riunirsi in edifici abbandonati, cimiteri, sulle rive dei fiumi, ai piedi dei grandi alberi. Il racconto meraviglioso che tratta di relazioni amorose tra ginn e umani in arabo si chiama khuràfa. Questo genere di storie è diffuso in tutto il mondo musulmano, e l'Islam ufficiale se ne occupò, fissando uno statuto legale per i rapporti tra gli uomini e i ginn. Anche in India alcuni giuristi si sono interessati al problema ipotetico di questi matrimoni. Cfr. Enciclopedia Islamica, alle voci "Khuràfa", "Fann" . Questa è una delle tante fiabe siriane in cui si può ravvisare il mito di Amore e Psiche.
NOTE 1 Sono numerosissimi i miti e le leggende di uomini nati da pietre, tutti riconducibili alla fecondità della Terra Madre. 2 II tiglio, nella mitologia greca, era considerato l'albero dalle nove virtù e simbolo di amorevole fedeltà.
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Il Prode Hassan
C'era una volta un re che aveva tre figli: Ala'eddin, Baheddin e il Prode Hassan. Questo re diventò cieco, e il dottore gli prescrisse, per guarire, latte di leonessa del Lago Occulto. Il poveretto mise al corrente i suoi ragazzi, concludendo: «Sembra che sia l'unico rimedio per la mia cecità. In nome di Dio, cercate quel latte». I giovani principi montarono a cavallo e partirono. Per raggiungere la meta, scelsero cammini differenti; tutti, in verità, molto ardui e irti di pericoli. Ala'eddin prese la strada dell'Annegamento, Baheddin dell'Incendio, e il Prode Hassan quella dell'Ostacolo-che-impedisce-il-ritorno. Ma quando Ala'eddin giunse in riva alla Palude Infida, ebbe troppa paura. "Perché dovrei rischiare la vita? Che resti pure ammalato mio padre!" pensò il pusillanime. E tornò indietro. Un gran fuoco, che illuminava la terra come il sole a mezzogiorno, fermò invece Baheddin. Il suo cavallo si imbizzarrì, e voleva disarcionarlo: "Che resti cieco mio padre! Non voglio morire per colpa sua" disse tra sé. E rinunciò. Restava il Prode Hassan, il più giovane dei fratelli. Trovò, a sbarrargli la via, una caverna cupa da cui uscivano folate di aria gelida e rantoli raccapriccianti. Le sue fauci sembravano spalancate per divorarlo. Ebbe, è vero, un attimo di smarrimento. Ma il ragazzo era coraggioso, fedele, generoso, umano. Pos383
sedeva tutte le virtù di un nobile cavaliere. "Devo salvare chi mi ha dato la vita" pensò. E spronando con fermezza il cavallo, penetrò nell'antro misterioso. C'era lì un ghul di orrido aspetto: la sua testa era coperta da un crespo cespuglio untuoso, una barba spinosa gli nascondeva il volto deforme, il corpo era coperto da una veste impataccata. Senza lasciarsi impressionare, il nostro eroe salutò il singolare personaggio con sorridente rispetto: «La pace sia con te, zio ghul.» Il ghul gli rispose: «Se quando sei entrato Non mi avessi salutato La tua carne dalle ossa Avrei strappato.»
Il Prode Hassan fu ancora più cortese: «La pelle del tuo volto bagnerò. La tua barba raderò. Gli artigli e i capelli taglierò. Le tue vesti laverò.»
E così fece. Quando finì, il mostro gli disse: «Aria fresca e pura possa sempre respirare Per il sollievo che mi hai voluto dare. Ora chiedi ciò che vuoi.»
«Cerco il latte di leonessa che si trova nel Lago Occulto, per guarire mio padre.» «Segui quella galleria, ti condurrà da mio fratello maggiore. Sii cortese anche con lui, e te ne sarà grato. » Il Prode Hassan si mostrò molto garbato e servizievole con il fratello del ghul; e fu ricompensato con un consiglio: «Vai per quel sentiero, troverai mia sorella, che ha i 384
seni rovesciati sulle spalle e spazza con la schiena curva. Prendi la scopa, fai quel lavoro per lei, tagliale le unghie e i capelli, e suggile le mammelle. Poi le dirai: "Ora che il seno ti ho succhiato Più caro del tuo figlio Amin ti sono diventato."»
Il Prode Hassan si recò dalla vecchia, e la conquistò con le sue maniere. Lei gli sorrise con indulgenza e gli chiese: «Che cosa desideri, figlio mio? Chiedimi ciò che vuoi.» «Voglio il latte di leonessa del Lago Occulto.» La ghula gli regalò un secchio, un capello, due agnelli e gli disse: «Occhi miei, brucia questo capello ed esprimi il desiderio di recarti al Lago Occulto. Ti troverai lì in un baleno. Ma stai attento! C'è un gigante che vorrà mangiarti. Gettagli i due agnelli. Poi, riempi il secchio senza bagnarti e torna indietro senza voltarti; altrimenti morirai. Bada! Anche se dovessi toccare il latte con la mano e vedere cose straordinarie, non ti voltare mai. Scappa senza guardarti indietro». Il Prode Hassan bruciò il capello e si trovò in una caverna. Un colosso ne sorvegliava l'ingresso. Lui gli gettò gli agnelli, entrò, e vide un grande lago di latte candido. Riempì il secchio, ma, ahimè! La mano si bagnò...! Tutto l'universo si illuminò, allora, di bagliori infuocati; i ruggiti di mille leoni risuonarono nell'antro! Il guardiano accorse, gridando minaccioso: «Fermati dove sei! Fermati dove sei!». Ma egli né si fermò, né si voltò. Tornò, invece, dalla sua amica. «Salve, sei tornato?» gli chiese la ghula. «Sì. Sono tornato» rispose Hassan. «Bene! Brucia uno di questi» gli disse, dandogli 385
altri due capelli e un bracciale d'oro, che recava incisi segni misteriosi. Egli bruciò il capello, e apparve un bianco cavallo alato. «Sali in groppa» ordinò la vecchia ghula. «Mentre volate, esso ti chiederà: "Cosa vedi del mondo?". Glielo dirai e lui ti condurrà da due ginn, uno nero e uno bianco, che litigano tra loro. Se tu dici: "Ha vinto il bianco" quello, con un calcio, ti spedirà dove desideri; se dici: "Ha vinto il nero" solo Dio sa dove andrai a finire. E non devi separarti mai da questo bracciale! Ti aiuterà a trovare la felicità.» Il Prode Hassan salutò la vecchia, montò sul magico destriero e volò via. «Cosa vedi?» chiese il cavallo dopo un po'. «Vedo la superficie di una stuoia.» Il cavallo volò, volò, volò, con le sue bianche ali. «Cosa vedi, o Prode Hassan?» chiese ancora il cavallo, più tardi. «La superficie di un piatto.» E il cavallo volò, volò, volò. «Cosa vedi, cavaliere?» chiese il cavallo per la terza volta. «Niente!» «Bene! Siamo arrivati.» Scesero a terra, e trovarono i due ginn che bisticciavano. L'avventuroso eroe disse: «Ha vinto il bianco!» e con un calcio fu spedito dentro un pozzo profondo. Sollevò lo sguardo e scorse due mercanti che sedevano sul bordo di quel pozzo. Li chiamò, ed essi lo tirarono su. Vide, allora, due cavalli legati a un albero: erano le cavalcature dei suoi fratelli! Quando chiese una spiegazione ai due mercanti, essi gli risposero: «Noi attendiamo qui i viandanti; e a tutti facciamo una proposta: chi racconta una storia intera senza mai dire: "allora", si prende tutti i nostri 386
averi; se invece sbaglia, ci dà tutto ciò che ha con sé. Vuoi provare anche tu?». «Ci sto» disse il Prode Hassan; e iniziò il suo racconto. «Camminavo e incontrai un gallo1 ferito al dorso. Sentii pena per lui, così presi una noce, la tostai, la macinai e ne cosparsi la ferita.» «Va bene. E poi che cosa successe?» «Ho detto "allora"?» «No, continua.» «Dal dorso del gallo spuntò un noce. Era grande, grande, grandissimo! Aveva cento rami meno uno.» «Va bene.» «Ho detto "allora"?» «No! Continua!» si spazientirono quelli. «Quando finì di crescere, fruttificò. Diede tante noci. Impiegai, per la raccolta, cento uomini meno uno. Nessuno di essi vedeva il suo compagno mentre lavorava, tanto l'albero era grande!» «Va bene. E poi?» «E nessuno sentiva il bastone degli altri mentre lo scuotevano. Buttarono giù tutte le noci meno una. Io presi un pugno di terra, lo gettai su quella noce appesa all'albero, e sull'albero spuntò un grandissimo prato verde, che arrivò fino all'orizzonte. Mi dissero: "Devi ararlo e seminare sesamo". Lo seminai, ed ebbi un grandissimo raccolto: cento sacchi meno uno. Contai il sesamo. Voi mi chiederete: il sesamo si conta? No. Però io l'ho contato. Mancava un seme. L'ho cercato, e l'ho trovato in bocca a una formica. Gliel'ho tolto di bocca. Ho detto "allora"?» «No.» «Va bene. Datemi i vostri averi.» E il Prode Hassan lasciò quel posto, con il latte di leonessa, il capello della ghula, il bracciale d'oro, e anche i cavalli dei fratelli e gli averi dei mercanti. Attraversò l'arida steppa, 387
foreste intricate, fiumi, valli e monti. Passò per paesi sconosciuti e un giorno, al tramonto, arrivò alle porte di un regno: una città bellissima, con palazzi, torri e grandi piazze; ma il luogo era silenzioso e triste. «Cosa succede?» chiese a un passante. «La nostra principessa è ammalata gravemente. Tempo fa, le apparve in sogno un cavaliere nobile e fiero, nel cui sguardo si leggeva la bontà. Così disse. Egli le offrì un bracciale ornato di simboli arcani, e le ispirò l'amore. Lei, ora, sospira per il suo eroe, e ne muore. Il re l'ha fatto cercare per tutti i paesi, invano.» Sentendo quelle parole, Hassan ricordò il dono della ghula. Lasciò i cavalli con le bisacce in un caravanserraglio e si diresse al palazzo reale. «Cosa vuoi?» gli chiesero le guardie. «Date questo alla figlia del re» disse, consegnando il gioiello. Quando una damigella la scosse gentilmente per mostrarle il braccialetto, la fanciulla, che languiva per amore, aprì gli occhi a stento ma, a quella vista, si drizzò leggera e con il volto scintillante. «È il bracciale che ho sognato! Da dove arriva?» «Lo ha portato un giovane straniero.» «Fatelo entrare! Voglio vederlo!» Lo vide, ritrovò il suo sogno, e gli sorrise. Anche il Prode Hassan amò quella meravigliosa principessa, che aveva gli occhi di una huri. 2 Furono celebrate le nozze. Dopo qualche giorno, Hassan disse a sua moglie: «Devo andare a casa. Mio padre attende il latte di leonessa per guarire. Tornerò presto» e si congedò. Cavalca, cavalca, giunse al suo regno. Era ancora fuori dalle mura, quando sentì allegri canti e musiche. «Come! Mio padre è infermo, e nel regno fanno festa?» si meravigliò il giovane. Vedendo un pastore che sgozzava un montone, senza farsi riconoscere, gli chiese: 388
«Cosa succede in città?» «I figli del nostro re, approfittando della sua malattia, hanno usurpato il trono e dilapidano il tesoro in bagordi. Magari fosse tornato il Prode Hassan! Ma è morto, poveretto! Così dissero i fratelli.» Il Prode Hassan si vestì da mendicante ed entrò in città. Si svolgeva in quel momento una giostra di cavalli; e i due principi sedevano, con gli invitati, a una tavola riccamente imbandita. All'improvviso, una banda di feroci e agguerriti predoni fece irruzione. Saccheggiavano e incendiavano tutto quello che incontravano al loro passaggio. Ala'eddin, nella lotta che si ingaggiò, perse un occhio; Baheddin un braccio, e tanti cavalieri del regno furono uccisi. Il Prode Hassan bruciò il capello della ghula, il bianco destriero alato si posò accanto a lui che gli salì in groppa e, con la spada in pugno, piombò sui nemici. Per Dio! Si gettava intrepido nella mischia: colpiva a destra e a manca, e il destriero volava da un posto all'altro, aiutandolo a schivare le insidie. Li sbaragliò; i sopravvissuti fuggirono terrorizzati. Allora andò dal padre, gli offrì il latte di leonessa, ed egli guarì. «Ho una moglie che vive lontano da qui» gli disse. «Vai a prenderla. Sarà la regina» rispose il vecchio re. Il Prode Hassan andò a prendersi la sposa. Quando tornò a casa, il padre gli mise la corona in testa e lo fece sedere sul trono. Matura, matura, la storia è finita. 3 Nella mitologia del Medio Oriente, la caverna rappresentava il grembo materno, il ritorno alle origini e alla rinascita, ma anche il mondo. Il suolo, piatto, è la terra; la sua volta è il cielo. In chiave esoterica salire al cielo significava uscire nel cosmo, penetrare l'arcano. L'antro pauroso della fiaba e il volo sul cavallo bianco 389
ci fanno quindi pensare al mistero del grembo femminile e al viaggio nell'oltretomba. Le filastrocche rimandano alle formule magiche dei misteri orfici, eleusini o del Libro dei Morti egizio, che permettevano alle anime degli iniziati un viaggio felice nel mondo sotterraneo. La vecchia dai lunghi seni fecondi, che l'eroe deve suggere, e che rievoca Eracle che succhia da Era il latte dell'immortalità, è una figura ricorrente nelle fiabe fantastico-avventurose siriane. Il latte fu un simbolo importante: per gli Orfici rappresentava l'immortalità e per Maometto, secondo la tradizione, sognare il latte significava accedere alla conoscenza.
NOTE 1
II gallo fu fatto oggetto, nell'Islam delle origini, di una certa venerazione, perché il suo canto mattutino coincideva con l'ora della prima preghiera rituale. E nella sua mitica ascensione al cielo, il Profeta sarebbe stato accolto da un gallo angelico. Esso intonava canti di lode a Dio, ripresi dai galli in terra. I membri di una setta sciita eterodossa, gli Ahi al-Haq (le genti della verità), sparsi tra Anatolia, Siria del Nord, Persia occidentale, Azerbaigian e Kurdistan, praticano l'uccisione sacrificale del gallo, si cibano con la carne della vittima e ne seppelliscono gli ossi. Durante un altro rito, la cerimonia iniziatica, si spezza una noce che il neofita appende al collo insieme a una moneta d'argento su cui è incisa la professione di fede. Essi credono anche nella metempsicosi che, per ogni essere umano, comprenderebbe un ciclo di mille e una reincarnazioni. Il gallo presso moltissimi popoli aveva il ruolo di psicopompo, di colui cioè che guida le anime dei defunti verso il regno dei morti. 2 Le vergini che allieteranno gli uomini nel paradiso maomettano. Propriamente "Bellezze dai grandi occhi con il bianco e il nero molto pronunciati". I! famoso teologo e letterato Ibn Hazm (994-1064) le definì: «Donne onorabili create da Dio nel paradiso per gli amici di Dio, dotate di intelligenza e riflessione. Esse obbediscono a Dio... senza offenderlo, poiché il paradiso per tutti coloro che vi fanno ingresso non è luogo di peccato, e i suoi abitanti non peccano mai, vivono nella felicità eterna, si consacrano a lodare Dio e a dilettarsi inoltre, con il cibo, le bevande, i piaceri sessuali...». 3 «Tuta, tuta khalset l-hatuta» è una tipica frase di chiusura delle fiabe siriane. 390
Hassan di Basra
Tanto tempo fa, un vecchio re viveva con il figlio. Una volta, venne a visitarlo il sovrano di un altro regno che aveva, tra le persone del seguito, una schiava bellissima. Il re la vide, si innamorò e volle sposarla. Lei diventò sua moglie; ma chi le piaceva era il giovane principe. Trascorsero tre mesi. Un giorno, non riuscendo più a resistere, propose al figliastro di dormire con lei. «Per carità! Che Dio mi salvi dalla tentazione di tradire mio padre!» esclamò il ragazzo. La signora, però, non si rassegnava. Dopo un po' di tempo, ripetè l'offerta; fu respinta di nuovo con sdegno, e infuriata minacciò di farlo morire. «Ammazzami pure» la sfidò il principe. Allora, la regina prese un bicchiere d'acqua, glielo buttò addosso pronunciando parole magiche che lo uccisero, poi si mise a piangere e a urlare, fingendosi disperata. Accorsero il re, il visir e tutta la corte; prepararono i funerali e seppellirono il defunto in un convento abbandonato. Un suo carissimo amico, Hassan di Basra, quella sera non riusciva a dormire. Improvvisamente, si era ricordato del compagno; e una grande nostalgia l'aveva assalito, lasciandolo inquieto e ansioso. Il giorno seguente, si alzò all'alba, indossò la mishlah, 1 391
cinse la spada, balzò a cavallo e partì. Di sera, giunse nelle vicinanze del regno. Si fermò a cenare in una locanda, e lì sentì parlare della morte del figlio del re. Quella notizia lo sconvolse, e volle recarsi immediatamente a visitare la tomba. Sette uomini lo accolsero alla porta del convento e lo condussero al centro del cortile, dove era steso un tappeto che celava un pozzo. Essi sedettero ai bordi, fecero accomodare lui al centro e poi, tutti insieme, si alzarono di scatto, e Hassan cadde dentro il pozzo. Dopo un po', calarono una scala; lui la vide, e capì che scendevano per rendersi conto se era vivo o morto. Fulmineo, l'afferrò con una mano, con l'altra impugnò saldamente la spada e li decapitò tutti. Quando risalì nel cortile, scrisse su due fogli ciò che era accaduto a sidi Hassan nel convento. Ne mise uno sulla porta e l'altro sopra il bordo del pozzo. «Certo, ho avuto una bella accoglienza! Ma non andrò via prima di aver visitato il mio amico» decise. Mentre si guardava intorno, vide un melograno dai cui rami pendeva un unico frutto, giallo e rosso, di straordinaria grandezza. Appena sollevò la mano per coglierlo, un mostruoso serpente gli si avventò contro con aria minacciosa. 2 Il giovane lo uccise con la spada, scrisse l'accaduto e appese il foglio a un ramo. Infine, trovò il sepolcro. Stava per entrare, quando scorse una donna che aveva una lanterna nella mano destra e un giara in quella sinistra. Si nascose e attese in silenzio. Lei scoperchiò la tomba, riempì un bicchiere d'acqua dalla giara e, pronunciando parole magiche, ne asperse il principe, che si alzò trasognato. «Mi vuoi?» gli chiese la donna. «No. Che Dio mi allontani sempre dalla tentazione» rispose lui, sdegnato. Lei lo fece morire di nuovo e andò via. Hassan uscì dal nascondiglio, prese a sua 392
volta un bicchiere d'acqua e, ripetendo le parole e i gesti della signora, svegliò l'amico che lo abbracciò, scongiurandolo: «Per ciò che hai di più caro al mondo, aiutami! Ho tanta paura di quella strega. Non voglio che faccia del male a mio padre. Ti prego, fammi morire di nuovo, se questo è il mio destino.» Hassan lo accontentò, sebbene a malincuore, e scrisse su due fogli quello che era successo. Mise uno di essi sulla tomba, l'altro all'ingresso del sepolcro e andò via. La mattina successiva il re, accompagnato dal visir, andò a visitare il figlio. Quando vide i fogli, si rivolse minaccioso al ministro, e gli disse: «Visir, ho capito ciò che è scritto nei fogli trovati sulla porta del convento, sull'albero e sul bordo del pozzo; ma quelli del sepolcro e della tomba no. Chi è Hassan di Basra? Giuro sulla mia testa che, se non lo trovi e lo porti al mio cospetto entro tre giorni, taglierà la tua.» Il visir tornò a casa, dove l'attendeva la figlia che era una giovane bella e intelligente, e aveva anche una voce incantevole. Vedendo il padre tanto preoccupato, gliene chiese la ragione; lui le raccontò tutto. «Stai tranquillo; lascia nelle mani di Dio e nelle mie la soluzione dei tuoi problemi. Vedrai che tutto si risolverà» lo rassicurò. Poi fece preparare due vassoi di dolci, si vestì con abiti maschili, andò a sedersi vicino all'ingresso della moschea e si mise a gridare: «Dolci, dolci; chi vuole comprare i miei dolci?» e intanto chiedeva a tutti di Hassan. Ma nessuno lo conosceva. Il giorno seguente, tornò con tre vassoi, e non ebbe maggior fortuna. Il terzo giorno, tornò con quattro vassoi. Il tempo passava, e già disperava di trovarlo, quando vide arrivare tre giovani. Uno di loro diceva: «O Hassan di Basra, posso offrirti dei dolci?». Lui accettò, e si avvicinarono per comprarli. La 393
ragazza li servì, poi li pregò di badare ai suoi vassoi per un momento. Loro accettarono, e lei corse ad avvertire il padre, che mandò subito le guardie alla moschea. Hassan fu arrestato e portato al palazzo reale. «Tu sei Hassan di Basra?» gli chiese il re. «Sì, maestà.» «Parla! Dimmi, che cosa è successo quando visitasti il principe?» Il giovane parlò. Che fare? La figlia del visir trovò la maniera per risolvere la questione. Seguendo i suoi suggerimenti, l'indomani il re condusse la moglie al convento; quando si trovarono davanti alla tomba, le disse: «Cara, io sono ormai vecchio e stanco; sapessi quanta pena provo al pensiero che fra poco morirò lasciandoti sola. Magari fosse vivo mio figlio! Te l'avrei fatto sposare.» «Davvero, caro marito?» esclamò lei, sentendo quelle parole. «Certo, anima mia. Sarei stato felice di averti per nuora; ma ora il mio povero ragazzo è morto. Non ci resta che fare le abluzioni e pregare.» Il re invocò Allah, ma la regina recitò versi misteriosi che svegliarono il giovane principe. Questi, vedendola, esclamò sgomento: «O moglie di mio padre, cosa vuoi ancora?» «Occhi della tua matrigna, il mio signore desidera che io diventi la tua sposa.» Il re, commosso, abbracciò il figlio. Dopo quattro giorni, dovevano celebrarsi le nozze. Fu preparata una magnifica festa. La sposa, che indossava un bellissimo abito, attendeva altezzosa l'arrivo del futuro marito. Entrò prima il re; quando la vide, seduta al posto d'onore di fronte agli invitati, le si avvicinò e le disse: 394
«Non stare così, durante la cerimonia.» «Che cosa devo fare?» «Nel mio regno, una donna sposata che vuole prendere un nuovo marito siede con il viso rivolto alla parete e la testa abbassata verso il pavimento.» Lei, per rispettare il cerimoniale, si mise, obbediente, in quella strana posizione e attese. Il figlio del re arrivò in silenzio e le tagliò la testa. Subito dopo, vennero i servi e portarono via il cadavere. Poi ebbe inizio la festa. Il principe sposò la figlia del ministro, il padre gli mise la corona in testa, lo fece re al suo posto e nominò Hassan visir. Tutti vissero felici e contenti. Così possiate vivere voi, nell'osservanza delle leggi divine. Hassan di Basra è il nome dell'eroe di numerosi racconti arabi. Cfr. Mille e Una Notte, "Storia di Hassan, l'orafo di Basra", e Chauvin, Bibliographie des ouvrages arabes, Liege, Vaillant, Carmone 1912, voi. VII, pagg. 1-93.
NOTE 1
Mantello beduino in lana di cammello o montone. La pianta unita al serpente occupa un posto importante nella iconografia mesopotamica e dell'antico Medio Oriente in genere. Spesso rappresentavano l'albero della vita. 2
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L'uomo glabro e i tre teli
C'era una volta, molto tempo fa, un uomo che aveva due mogli, ma amava solo la seconda. Era gentile con lei e generoso con i suoi figli, benché fossero viziati, fannulloni ed egoisti. Invece, trascurava la prima, e detestava l'unico figlio che gli aveva generato: 'Anad. Se questi gli chiedeva qualcosa, lo cacciava gridando: «Vattene, non vali!». Un giorno, 'Anad si confidò con la madre: «Vorrei un po' di denaro per commerciare e, lo giuro, se dovessi fallire non domanderei più nulla». Però, la donna non aveva il coraggio di affrontare il marito, e andò a confidarsi con la moglie prediletta, che acconsentì a intercedere. Lo fece quella stessa notte. «È tuo figlio, offrigli una possibilità» gli disse; e lui, poiché l'adorava, sorrise arrendevole e donò cinquanta lire a 'Anad che, contento, lo ringraziò e corse al suk. Lì, vide una vecchia scalza, ne ebbe pietà e le comprò le scarpe. Subito dopo, si imbatté in un povero avvolto in logori stracci che tremava dal freddo, e gli regalò un vestito confortevole. Ormai, restavano solamente trenta lire! Che cosa poteva farci? Decise di andare per il mondo in cerca di fortuna e lasciò la città. Camminò assorto nei suoi pensieri finché giunse vicino a un cimitero. Lì si svolgeva, proprio in quel momento, un fatto indegno che lo turbò: due uomini insultavano e bastonavano un cadavere dissotterrato. 396
«Perché, o disgraziati, vi accanite contro un defunto?» li apostrofò. «Da vivo gli prestammo trenta lire ed è morto senza rendercele» risposero. «Se saldassi il suo debito, lo lascereste riposare in pace?» 1 Essi acconsentirono, presero il denaro e si allontanarono. Egli riseppellì la salma e tornò a casa, poiché era rimasto senza un soldo. Vedendolo arrivare a mani vuote, il padre lo assalì: «Che cosa hai combinato, infame?». Raccontò ciò che gli era accaduto, aspettandosi altri rimproveri e forse legnate, invece fu lodato e premiato per le sue buone azioni. «Hai fatto bene. Dio sia benedetto. Ora ti darò quattro borse d'oro e venti cavalli. Vai ad Aleppo, acquista tessuti e commercia. Ma stai attento! Lungo il percorso vedrai tre teli.2 Non sostarvi, è pericoloso; e diffida degli uomini glabri.» Egli promise, allestì una carovana e partì. Cavalcavano da alcune ore, allorché incontrarono un viandante senza barba. «La pace sia con voi» salutò lo sconosciuto. «Con te sia la pace, fratello» gli risposero. «Dove siete diretti?» «Ad Aleppo.» «Mi prendete con voi?» «Non abbiamo bisogno di te» disse 'Anad. «Quanto paghi i tuoi servi?» «Una lira al giorno.» «Io lavorerò per mezza» insistette lo sconosciuto, che aveva l'aspetto di una persona bisognosa. Il mercante avrebbe voluto aiutarlo, ma ricordandosi dell'ammonimento paterno, rifiutò. Al tramonto, lo incontrarono nuovamente. «Prendimi con te. Sono disposto a lavorare senza paga. Mi 397
accontenterò di un poco di cibo» supplicava, e 'Anad finì per impietosirsi. Il sole era quasi scomparso, quando ripresero il viaggio verso ovest. Tutto sembrava procedere bene. Cavalcarono per qualche ora, e giunsero in prossimità di un teli. Allora, il nuovo servo sguainò la spada, la puntò al collo del suo padrone e, minacciando di sgozzarlo, intimò agli altri uomini: «Gettate le armi. D'ora in avanti riceverete gli ordini soltanto da me. Chi si ribella perderà la vita. Ormai è tardi, sosteremo qui; preparate le tende e la cena». 'Anad voleva opporsi, perché rammentava l'avvertimento del padre, e aveva paura di trascorrere la notte vicino a quella collina; ma fu costretto a obbedire. Erano molto stanchi e, dopo aver mangiato, tutti andarono a dormire, tranne il viandante glabro che si diresse, passeggiando tranquillamente, verso il teli. All'improvviso, un nero cavaliere in sella a un nero destriero gli si parò davanti. «Che cosa fai qui, straniero? Vattene o ti ammazzo» disse. E voleva colpirlo. «Vergognati! Se vuoi combattere, fallo ad armi pari. Scendi da cavallo.» Il cavaliere accolse la sfida e scese a terra. Ingaggiarono una lotta furibonda che si protrasse per ore. Alla fine l'uomo senza barba, che possedeva una forza straordinaria, vinse. Inchiodò l'avversario al suolo, e stava per sgozzarlo, quando una dolce voce implorante lo fermò. L'accento delicato usciva dalla bocca del suo antagonista! Si stupì. Che uomo era mai quello? Gli strappò la kefiyye che gli nascondeva il volto e apparve... una fanciulla dalla pelle di luna! «Perché ti copri il viso? Chi sei?» le chiese. «Per avere un aspetto feroce. Sono una donna sola, senza nessuno al mondo che si occupi di me, e per vivere faccio il bandito.» 398
La rilasciò; lei lo condusse a una grotta vicina. C'erano dentro venti casse piene d'oro! «Prendile, sono tue, perché mi hai risparmiato la vita» gli disse. «Senti, domani devo recarmi ad Aleppo. Attendimi; al mio ritorno passerò da qui e, se vorrai, ti offrirò la mia protezione.» «Ti aspetterò.» Tornò all'accampamento che era già spuntata l'alba. Mangiarono e la carovana riprese il cammino. Viaggiarono tutto il giorno, seguendo il sole nel suo tragitto verso occidente, e di sera giunsero a un altro teli. Poiché erano molto stanchi, dopo cena si addormentarono subito. Tranne l'uomo che non aveva barba. Camminava sulla collina desolata, quando scorse un chiarore che pareva sbucare dalle viscere della terra! La luce proveniva da una grotta sotterranea. Si avvicinò senza fare rumore all'entrata di quell'antro, e vide quaranta hanfish! L'hanfish è un uomo selvatico e feroce, che si nutre di creature umane e di bestie. Può trasformarsi in altri esseri-e anche entrare nel corpo delle persone. Quegli hanfish sedevano intorno a una enorme marmitta in cui cuocevano un uomo intero, un cammello intero e un asino. Era la loro cena! Egli pensò: "Se mi spavento mi mangiano". Cosicché, assunto un aspetto risoluto, gonfiò il torace, entrò con aria spavalda nella grotta, guardò i mostri con aria di sfida, e si avvicinò alla grossa pentola. La sollevò, la posò a terra e la rimise sul fuoco. La risollevò, la riposò a terra e la rimise sul fuoco. La risollevò per la terza volta, la riposò a terra e la rimise sul fuoco. Fece tutto questo con gran velocità. Poi sorrise baldanzoso agli hanfish che lo guardavano allibiti, e uscì. Quell'uomo audace e gagliardo li aveva terro399
rizzati! Appena rimasero soli, si misero a discutere sottovoce. «È più feroce di noi!» «Di certo può sgozzarci e divorarci!» «Dobbiamo arrenderci!» Infine, decisero di fargli una proposta. «Se ci risparmi ti daremo venti casse d'oro e nostra sorella» gli dissero. «Va bene. Uscite uno per volta e allontanatevi» concesse. Ma era un inganno: come apparivano all'ingresso li decapitava con la sua grossa spada. Li uccise tutti e quaranta e tornò nella caverna. Trovò il tesoro e la ragazza che, in realtà, era stata rapita a una carovana. Avevano deciso di adottarla come sorella per evitare che, desiderandola, divenisse motivo di contesa tra loro. Lei voleva seguirlo, ma riuscì a convincerla ad aspettare lì fino al suo ritorno. Intanto, la luce aveva schiarito il cielo. Rientrò all'accampamento e la carovana si rimise in viaggio. Camminarono con il sole, e al crepuscolo si fermarono vicino a un altro teli. Nell'oscurità che avanzava prepararono le tende; mangiarono e si ritirarono a riposare. Ma il nuovo capo non dormì. Andò in giro per la collina. Passeggiava tranquillo, quando all'improvviso un'orrida visione lo fece trasalire. Era un enorme serpente a sette teste che sputava fiamme e fuoco. 3 "Questo mostro ci ammazzerà tutti!" pensò, affrontandolo senza esitare. Una a una gli mozzò le teste. Fu un combattimento lungo e formidabile; però, alla fine, la bestia spaventevole morì. Lui la ricoprì d'erba, poi svegliò gli uomini, fecero colazione e ripartirono. Alcune ore più tardi, entravano ad Aleppo. Qui, davanti a ogni trattoria, li costringeva a fermarsi, e offriva da mangiare alla gente che in quel momento si trovava nei paraggi. 'Anad ammattiva: "Mio padre voleva che diventassi un grande mercan400
te, non un benefattore degli aleppini. Che cosa gli racconterò al ritorno?" pensava. Più tardi, giunsero a un panificio, e il glabro ordinò al fornaio: «Fai pane per tutti gli abitanti del quartiere, pagherò io». Dopodiché, inviò messaggeri al re, al visir e a tutta la corte: li invitava a un ricevimento nel più grande ristorante della città. Intanto, la notizia della straordinaria prodigalità del forestiero si era sparsa, e il sovrano era curioso di conoscerlo. Quella sera, mentre cenavano, il visir gli propose: «Perché non lo fai sposare con tua figlia? Deve essere un gran signore!» Il re trovò che era una buona idea e disse a un servo: «Informa il tuo capo che nel castello sulla collina c'è la sua sposa. Deve andarci domani sera. » La mattina seguente, l'uomo glabro ordinò a 'Anad: «Questa notte ti recherai al palazzo della principessa, ma fai attenzione! Devi comportarti con lei come se fosse tua madre o tua sorella.» Il giovane ci andò. Trascorse sette giorni e sette notti con la figlia del re. Dormivano insieme ma senza unirsi, perché avevano messo tra loro una spada. L'ottavo giorno lui le disse: «Chiedi a tuo padre: la briglia segue la giumenta o la giumenta segue la briglia?» «È risaputo che la giumenta segue la briglia e non il contrario» disse il re. L'indomani, il marito davanti, con la moglie che docile lo seguiva, lasciarono la città insieme alla carovana ma senza la mercanzia. Viaggiarono per due giorni, e arrivarono al teli degli hanfish. «Quanti sacchi vuoti hai?» chiese il servo-padrone. «Quaranta» rispose il padrone-servo. «Prendine venti e vieni con me.» Andarono alla grotta per riempire i sacchi con l'oro delle casse e si presero anche la ragazza. La se401
ra successiva, recuperarono l'altro oro e l'altra fanciulla. 'Anad pensò: "Magari potessi avere quattro sacchi! Con in più la figlia del re, affronterei mio padre a testa alta". Il viaggio volgeva al termine. Quando arrivarono vicino al cimitero del suo paese, il glabro gli ordinò: «Scendi da cavallo, perché dobbiamo spartire il bottino. Tu avrai la metà dell'oro e la sorella degli hanfish. Io l'altra metà dell'oro e la fanciulla bandito. Resta la principessa.» «Ma è la mia sposa!» «Eh no! Dobbiamo dividere tutto in parti uguali.» «È un essere umano! Come vuoi dividerla?» «Tagliandola in due pezzi con la spada.» «No! Non voglio che muoia. Prendila tu.» «Impossibile! Ho deciso: faremo a metà.» E nulla gli fece cambiare idea. Fu inflessibile. Afferrò la donna con una mano e la spada con l'altra. Stava per spaccarla in due e... un grosso serpente rosso le uscì dalla bocca! «Hai visto? Ricordi quando ti avvertii di non fare l'amore con lei? Saresti morto se vi foste uniti. Ora, puoi possederla. Prenditi anche l'oro e le ragazze. Ti appartengono. Io sono l'uomo che un giorno salvasti dai profanatori, e dovevo ricompensarti. Per questo chiesi al Signore la grazia di farmi rivivere. Ora ho compiuto il mio dovere. Addio.» E il morto tornò nel suo sepolcro. 4
NOTE 1 Gli antichi Siriani attribuivano una grande importanza alla sepoltura dei defunti perché credevano che gli insepolti fossero condannati a vagare eternamente infelici. 2 Colline formate da vari strati di insediamenti umani nel corso dei millenni (in Siria ne sono stati classificati più di cinquemila). Le 402
sommità artificiali e naturali sono considerate spesso alti luoghi sacri, posti privilegiati e tabù. 3 La fantasia popolare si appropria spesso dei più antichi simboli per trasformarli in racconto meraviglioso. Il tema dell'uccisione del serpente a più teste, animale fantastico, immagine delle forze malefiche contro cui lottano divini eroi, fa parte del patrimonio sacro e letterario della regione. Per gli Ittiti era Illuianka. Per i Cananei il serpente cosmico marino, Lotan ugaritico, che diventerà Leviatan nella Bibbia a rappresentare il caos universale (Isaia, III, 8; Genesi, 19; Salmi, LXXIV, 14; XL, 25; ecc.). Esso aveva nel mito una funzione simile, in una certa misura, a quella di Tiamat (Mesopotamia) e Set (Egitto), entrambi in relazione con i cicli vegetativi. Anche il gesto di ricoprire il serpente ucciso con l'erba sembra suggerire antichi riti per la rinascita della natura feconda in quanto, nei miti della fertilità, l'aspetto terrificante (di morte) e quello fecondo (di resurrezione della natura), sono sempre strettamente legati. Il simbolismo dell'erba infatti è quello della rigenerazione. Il tema dei combattimenti di uomini tornati dall'oltretomba è universale. 4 Per l'Islam, l'anima di chi muore senza aver pagato i debiti non può entrare in paradiso. Il Profeta stesso in numerosi hadith suggerisce di riscattare il defunto, rimborsando i suoi creditori. Da qui, probabilmente, l'origine di numerose leggende e fiabe sul morto debitore riconoscente.
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La vedova e il cane
A una donna morì il marito. Dopo alcuni anni, questi le apparve in sogno e le disse: «Vieni a trovarmi.» «Che cosa dici? Ogni settimana vado a visitare la tua tomba!» gli rispose. «Non è al cimitero che devi andare; io mi trovo nel tal villaggio, in casa del tal dei tali.» La moglie si risvegliò un po' perplessa, ma finì per dimenticare l'episodio. Continuò però a sognare suo marito, che le ripeteva l'invito. Un giorno, infine, decise di dargli ascolto, e si recò nel vicino villaggio, alla casa che le era stata indicata. Bussò alla porta, e la fecero entrare. Vi abitavano due persone anziane. «Avete un figlio?» chiese la donna. «No» le risposero. Ma la invitarono a fermarsi per il pranzo. Mentre mangiavano, un cane si accucciò accanto a lei; guaiva, e sembrava piangesse; lo cacciavano, e lui tornava; finché, con un lamento straziante, si accasciò ai piedi della vedova e morì. «Da quanto tempo avete questo animale?» domandò la donna. Apprese così che il cane era nato nello stesso periodo in cui suo marito era morto. Capì così che nel cane si era incarnata la sua anima, e che lui aveva desiderato rivederla un'altra volta prima di morire. 404
Racconti che parlano di trasmigrazione delle anime vengono talvolta narrati come veritieri, e hanno un principio religioso. Definirne l'origine esatta è però arduo, per le molteplici credenze che hanno attraversato la regione. Quella secondo cui l'anima si purifica attraverso una serie di nascite e reincarnazioni (metempsicosi) è antichissima. Per Erodoto (II, 123), proveniva dalla valle del Nilo, e in Siria si praticò il culto a Dioniso e la dottrina orfica dell'anima, secondo la quale essa, che è di origine divina, era precipitata dal cielo alle miserie della vita terrestre per una colpa originale, e poteva tornare alla sua vera patria solamente con l'espiazione e la purificazione, durante la permanenza nella prigione del corpo mortale. Più tardi, le carovane di mercanti mediorientali che, attraverso l'India, raggiungevano l'Estremo Oriente, e gli eserciti sassanidi e arabi, entrarono in contatto con le idee dell'induismo e del buddhismo. Quest'ultimo penetrò nell'Islam in epoca abbaside, contribuendo allo sviluppo dell'ascesi, del misticismo sufico, e influenzando alcune sette islamiche eterodosse.
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L'anima c h e t r a s m i g r ò i n u n a s i n o
A un uomo di un villaggio vicino a Latakia apparve in sogno il padre, che era morto da alcuni anni, e gli disse: «Figlio mio, Dio mi ha fatto rinascere a Tartus. 1 Ora sono un asino, e il padrone mi fa lavorare duramente dalla mattina alla sera. Tiro l'aratro, trasporto questo e quest'altro, i figli mi cavalcano e bastonano senza pietà. Io soffro. Ti prego, vai da lui, comprami, portami via, e abbi cura di me.» «Ma perché il Signore ha mandato la tua anima in un asino?!» gli domandò il figlio, sorpreso. «Nella vita precedente ero disonesto, rubavo e imbrogliavo il mio prossimo. Sono stato punito.» Questo sogno si ripetè tre volte, e infine l'uomo decise di partire. Arrivò a Tartus e cercò, per tutta la città, la casa indicatagli dal padre. La trovò. Gli aprì un uomo e lui gli chiese: «Hai un asino? Vorrei comprarlo.» «Sì, ce l'ho, ma non lo vendo, perché ho bisogno di lui.» «Ma che dici! Pagherò quel che vuoi.» «Impossibile. Proprio ora è tempo di lavori nei campi.» Il poveretto, non riuscendo a convincere il padrone dell'asino, per quanti sforzi facesse, si decise a confessare la verità. 406
«Voglio dirti un segreto. In verità, giuro su Dio, l'asino è mio padre.» «Se è così, prendilo, ma voglio cinquantamila denari.» Era una cifra enorme! Non poteva pagarla, neppure vendendo tutti i suoi averi. Ma andò da un amico, si fece raccomandare, e con il suo aiuto riuscì a ottenerlo per la metà. Poi, insieme, padre e figlio tornarono al villaggio, dove vissero nella stessa casa finché l'asino morì.
NOTE 1 Città sulla costa mediterranea: l'antica Antarados fenicia e la Tortosa dei Crociati. Vi si conserva il più interessante edificio sacro della provincia romana di Siria: la cattedrale gotica di Nostra Signora. La città rimase nelle mani dei Templari, che vi eressero una possente rocca, fino al 1291.
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La donna che diventò cinghiale
A un ricco pastore, che aveva un gregge di capre e una mandria di buoi, morì la moglie. Era già vedovo da alcuni anni, quando una notte fu svegliato da uno strepito improvviso. Affacciandosi alla finestra, si accorse che il gregge, giù nel cortile, era agitato, come se qualcosa l'avesse spaventato. Uscì subito a controllare e, vedendo una femmina di cinghiale ferma davanti alla porta, imbracciò il fucile che aveva con sé; prese la mira, e stava per fare fuoco, quando una voce lo fermò. Il cinghiale parlava: «Non uccidermi, ti prego, sono tua moglie» disse. L'uomo le chiese sorpreso: «Mi vuoi spiegare perché Dio ha messo la tua anima in questo animale?» «Ricordi la nostra vicina, che partì allo scoppio della guerra? Prima di andarsene mi aveva affidato i risparmi perché glieli custodissi. Al suo ritorno, io non glieli volli rendere. Dio mi ha punito in questa maniera, e io ora non ho pace. Rendile il denaro, ti prego. Ma non farle sapere della mia condizione.» Lo supplicò, indicando il luogo in cui l'aveva nascosto. Il marito le promise che avrebbe fatto ciò che chiedeva. Allora gli disse addio e si allontanò. Lui, ancora sconvolto da quell'apparizione, la seguì con lo sguardo finché scomparve nel bosco. Poi rientrò, cercò i soldi, e li rese alla loro proprietaria. 408
«... coloro che Dio ha maledetto e con cui si è adirato, poiché egli ha fatto di essi scimmie e porci. » Corano, V,65.
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La reincarnazione dell'Iman
Molti anni fa, un abitante di Jàble andò a vivere con la famiglia a Damasco. Là, sua moglie restò incinta del quinto figlio. Un giorno, mentre si trovava sola in casa, bussarono alla porta. Era uno del villaggio vicino al loro. Salutò e disse: «Avrai un figlio maschio, mio fratello.» «Come! Tuo fratello?» esclamò, interdetta, la donna. «Avevo un fratello. Era Iman. È morto. Ora mi è apparso nel sogno per avvertirmi che la sua anima sarebbe tornata sulla terra, in questo bambino che sta per nascere» le rispose lo sconosciuto. Poi andò via. Trascorsero alcuni mesi, e nacque il bambino. Quando aveva l'età di un anno, l'uomo tornò a visitarlo. Lo prese in braccio, gli baciò le mani con venerazione e, con la massima naturalezza, cominciò a parlare della famiglia dell'Iman scomparso, dei suoi figli e di altre cose. Passarono gli anni. Quando questo bambino diventò un uomo, si recò in visita al paese natale dei genitori. Vennero a trovarlo gli abitanti del villaggio vicino. Tutti si facevano benedire da lui, e lo chiamavano con l'antico nome. Parlavano del passato, ed egli partecipava alla conversazione. Poi, gli avvenimenti lo portarono lontano. Ma, ancora oggi, ogni 410
volta che torna al villaggio è ricevuto con la considerazione e il rispetto dovuti a un uomo santo. Flaubert: «Il miscuglio che si trova in Siria di tutte le religioni è qualcosa di inaudito. Là ero al mio posto. Ci sarebbe da lavorare per secoli».
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La vendetta del beduino
Molto tempo fa, viveva nella steppa un grande capo tribù che aveva due mogli: Baira e Ghalia. Baira gli diede solamente un figlio, Ghalia due. Come voi saprete, gli Arabi1 amano la donna che genera più figli; quindi Baira, che aveva deluso il marito, non riceveva più le sue attenzioni, neppure un sorriso o una carezza. Il disprezzo colpiva anche il figlio di lei, Akram, al quale il padre non dava alcun valore. Adorava invece Ghalia, e insegnava a cavalcare, portava ovunque con sé e vezzeggiava i suoi bambini, che erano anche amati da tutta la tribù. Trascorse il tempo, e un anno tra gli anni, un giorno tra i giorni, ci fu una terribile carestia. I nomadi si lamentavano con il loro sheikh: «In questa regione non c'è più acqua, né erba per nutrire gli armenti. Permettici di partire in cerca di nuove terre più ricche.» Ma lui non poteva acconsentire. Dovete sapere che il potere di un capo beduino dipende in gran parte dal numero dei membri del suo clan. Se questo si disperde, l'autorità e il prestigio di cui egli gode vengono meno. 2 Perciò, chiamò il figlio maggiore di Ghalia e gli disse: «Vai in paesi lontani, cerca l'acqua e la vita». Preparate la cavalcatura e le provviste, il giovane partì. Ma dopo un mese tornò senza aver trovato nuovi pascoli. In realtà, non si era neppure allonta412
nato dall'accampamento. Era rimasto nascosto tutto il tempo su una collina vicina. Dietro maniere altere e arroganti si celava infatti un pusillanime. Il capo disse allora al secondo figlio: «Parti in cerca di pascolo per le nostre greggi». Anche lui, come il fratello, era cresciuto orgoglioso, viziato e debole. Si nascose per qualche tempo, poi tornò. «Non ho trovato né acqua né praterie» disse. Restava il figlio di Baira, Akram. Tutti gli dicevano: «Non sei un uomo di valore». Ma avevano torto. Questo ragazzo era invece intelligente, perspicace, dinamico. Dormiva al tramonto e si alzava all'alba. Una mattina, osservando i cammelli, vide che uno di essi aveva stille di rugiada sulle froge. Pensò: "Per Allah! Il cammello guarda verso sud, di sicuro da quella parte c'è un luogo con acqua ed erba. Chiederò a mio padre un cavallo e il permesso di andare a cercar questo posto. Dio voglia che non mi sbagli!». Si recò dal padre. Davanti alla tenda, avviticchiò la gamba a un palo per tre volte,3 secondo la consuetudine di quella tribù, dicendo: «Posso parlarti?». E avendo ottenuto per tre volte l'assenso, entrò. Chiese di partire, e gli fu concesso, grazie all'appoggio dei consiglieri paterni. Il giorno dopo, al sorgere del sole, era già diretto verso sud. Cavalcò nel deserto per dieci o dodici giorni. Infine, in una notte senza luna, sentì il profumo dell'erba e dormì contento. Il giorno seguente, si svegliò con il sole, e potè ammirare uno spettacolo meraviglioso: un mare di palme frondose che si estendeva fino all'orizzonte, acqua e erba in grande quantità. Aveva trovato una fertile oasi e nell'oasi un accampamento. Vi si diresse, e lungo il percorso non incontrò neppure un essere vivente. Ma davanti alla tenda più grande, seduta all'ingresso, c'era una ragazza dallo sguardo triste. I giovani si salutarono. 413
«La pace sia con te.»' «Benvenuto fratello. Che osa ti ha condotto qui?» «Allah mi ha guidato. Vengo con Dio» rispose, e volle sapere il motivo di tanto abbandono. «L'hanfish ha ucciso tutti e rubato il bestiame.» «Dov'è ora l'hanfish?» «È andato con le greggi, e io sono rimasta sola. Ogni giorno al tramonto ritorna e mi fa scendere nel pozzo a riempire gli otri per abbeverare le bestie.» Akram restò per un po' pensieroso, poi le suggerì cosa fare. Lei indossò l'abito e gli ornamenti più belli, e quando, al calar del sole, arrivò l'hanfish, lo accolse con un sorriso, dicendogli: «Mi sono tolta il lutto e fatta bella per te. Questa notte, se mi vorrai, ti apparterrò. Però, ti prego, scendi tu, oggi, dentro il pozzo; come vedi ho indossato ciò che avevo di più prezioso, non vorrai che lo rovini! Io prenderò gli otri dalle tue mani». Il mostro, affascinato dalla bellezza e dalle parole allettanti della ragazza, acconsentì. Abbeverato il gregge, esso risalì; ma Akram, che era in agguato, come vide sbucare la sua testa gliela mozzò. Restarono Hasnà, così si chiamava la bella beduina, e il valoroso giovane. Soli, l'uno con l'altra. Hasnà disse: «Ora siamo una famiglia.» «Io ho una tribù, voglio portarla qui con il tuo permesso. Poi diventeremo ciò che tu vorrai: fratelli o sposi» le rispose Akram. «Vai. Attenderò. Quanto durerà la tua assenza?» chiese Hasnà. «Fra un mese saremo nuovamente insieme» le promise. E dopo aver riempito le bisacce d'erba, partì per annunciare ai suoi la bella notizia: «Ho trovato la primavera: fresca acqua ed erba verde. È un posto magnifico.» Tutti ripetevano: 414
«Akram ha trovato la primavera per noi!» Anche suo padre era contento. E la gente prese a chiamarlo "Il figlio prediletto del capo". Ma i fratelli morivano di gelosia. Quando tutto fu pronto, i nomadi partirono: dieci giorni per arrivare alla terra fertile. «Ciascuno di voi prenda il suo fucile, scelga una tenda, e viva lì con la famiglia» disse Akram alla sua gente. Lui decise di installarsi nella tenda che Hasnà aveva preparato e adornato con gli oggetti più belli. Lei gli offrì buon cibo e acqua fresca. 4 La notte trascorse in festa tra canti e danze. All'alba, dormì con Hasnà e furono felici. Grazie alla sua impresa, divenne uno dei membri più importanti della tribù. I fratelli erano sempre più invidiosi. Diciamo che essi lo odiavano, perché: Il denaro e il potere Al fratello fanno odiare il fratello. E all'occhio dell'uno non piace Che l'occhio dell'altro sia più bello. 5
Un giorno decisero di sbarazzarsene e, per poter agire indisturbati, lo invitarono a caccia. «Guardati da loro. Temo che vogliano farti del male; stai attendo, e ricordati di non scendere da cavallo per nessuna ragione» lo avvertì la moglie, offrendogli la giumenta che era appartenuta a suo padre e una magnifica spada. Questa cavalla, oltre a essere una bella bestia, aveva una qualità speciale: si accorgeva se qualcosa minacciava il cavaliere, evitava il pericolo e correva verso la salvezza. Mentre cavalcavano e cacciavano, i due invidiosi tentarono più volte di uccidere il fratello; ma la giumenta lo proteggeva. Essi se ne accorsero ed escogitarono un altro sistema per eliminarlo. Lo convinse415
ro a prolungare la caccia di un giorno e a trascorrere la notte vicino a un pozzo profondo. Pensavano di buttarcelo dentro; e così fecero, infatti, appena Akram, dimenticando il consiglio della moglie, scese da cavallo. L'animale corse all'accampamento. Hasnà lo vide e cominciò a lamentarsi: «La sventura è caduta su di me! Mio marito è morto». Quando i perfidi fratelli rientrarono, dissero che Akram non era rimasto con loro. Li aveva lasciati e non sapevano niente di lui. Se ne attese invano, per giorni, il ritorno. Infine la moglie si vestì a lutto. Intanto, alcuni nomadi di passaggio, che si erano fermati al pozzo in cui stava Akram, sentirono dei gemiti. «Sei un essere umano o un ginn?» gli chiesero. «Per Dio, sono un uomo onesto. Salvatemi, vi prego!» implorò lui. Lo tirarono su e si resero conto che era pieno di ferite, affamato, quasi morente. Lo portarono al loro accampamento, lo nutrirono e lo curarono. Occorsero molti mesi prima che guarisse. Un giorno, mentre stava seduto fuori dalla tenda, vide passare un cammelliere, e dal marchio delle bestie capì che era della sua tribù. «Da dove vieni?» gli chiese. «Da un'oasi che il figlio del capo aveva trovato per noi. Un giorno partì a caccia e non ha più fatto ritorno» rispose l'altro. Akram comprese che parlava di lui, e decise che era arrivato il momento di tornare. Giunse all'accampamento mentre si svolgeva una grande festa. Il padre doveva sposare Hasnà, la nuora! Vedete che bassezza? Lui entrò non visto nella tenda dove si trovava sua moglie. Lei lo guardò spaventata; poi, riconoscendolo, gli andò incontro per salutarlo e si raccontarono tutto. 416
Il giorno seguente, i festeggiamenti erano al culmine: un ricco banchetto, giostre con i cavalli, spade che volteggiavano nell'aria e gare di corse. Appena tutti i beduini si trovarono riuniti nella piazza, il figlio di Baira montò sulla giumenta e, di corsa, con la spada in pugno, raggiunse gli altri cavalieri. Tagliò la testa ai fratelli e al padre. Poi lo fecero capo della tribù e lui la rese di nuovo prospera. La pace e la benedizione del cielo vi accompagni.
NOTE 1 Per "Arabi" si intende "nomadi". È infatti a loro che il termine "Arabi" si applica in senso originario. Erano un popolo che abitava la Penisola Arabica. Da lì p e n e t r a r o n o in Mesopotamia molto p r i m a dell'Islam (Aramei, Nabatei). Si spinsero fino a Damasco, nell'Antilibano, a Homs, a Edessa. A Palmira furono presenti dal X secolo a.C. e araba era la dinastia che vi governò in epoca romana, inclusa la regina Zenobia. Popolazioni arabe-nomadi (Bedu, Beduini) vivono tuttora, oltre che in Arabia, in Siria, Giordania, Iraq e Nord Africa. Esse conservano intatti o quasi costumi e tradizioni. La loro esistenza è sempre regolata da leggi tribali. 2 Le penose condizioni di esistenza nel deserto e l'ostilità costante tra le varie tribù - nel codice del nomade erano permesse le scorrerie e le rapine - costringevano i membri di un clan a unirsi strettamente; l'unità del gruppo veniva in genere sanzionata dal riconoscimento di un antenato eponimo e leggendario, semi-nomade, che cercava insediamenti fissi e rinunciava ed vagabondaggio perpetuo. 3 Variante di un'antica usanza simbolica. Presso molti popoli alzarsi e sedersi tre volte era una testimonianza di umiltà e rispetto. 4 II cibo e l'acqua presso i nomadi rivestono carattere sacrale di comunione. 5 I dialetti parlati dalle tribù nord-arabiche dettero origine alla lingua letteraria. La sua prima manifestazione fu l'arte poetica e i cantori pre-islamici erano anche i moralisti e i teologi dell'antica società araba. La poesia gnomica, cara a tutte le civiltà semitiche (insieme a quella amorosa), ne riassume il credo religioso e morale, rivestendo grande importanza nella narrazione orale.
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La cavalla di razza
C'era una volta il capo di una ricca tribù araba che aveva una grande passione per i cavalli. Un giorno, alla sua tenda capitò un poeta 1 e si misero a conversare. «L'emiro Zada possiede una giumenta bella come nessun'altra al mondo» disse il poeta, e lo sheikh la desiderò. «Chi di voi me la farà avere?» chiese agli amici. Nessuno dei presenti rispose. Tutti temevano l'uomo potente di cui si parlava e non avevano il coraggio di affrontarlo. Però uno di essi gli suggerì: «Fai sgozzare e cucinare un montone per i tuoi uomini. Chi mangia la testa dovrà andare a prenderti la cavalla». Così fu fatto. Ma neanche uno dei partecipanti al banchetto toccò la testa dell'animale. Proprio in quel momento, tornava alla sua tenda un giovane di nome Sakhr, che era stato assente una settimana. «Che cosa c'è a pranzo? Sono affamato» disse a sua madre. «Niente. Vai dal capo. Oggi invita tutti gli uomini» gli rispose lei. Lui ci andò subito, vide la testa del montone, la prese e la mangiò. Allora i compagni gli dissero: «Sidi Sakhr, questa è la storia della testa: chi l'ha 418
mangiata, deve partire in cerca di una giumenta per il nostro sheikh.» «Dove si trova?» «Il proprietario è l'emiro Zada.» Il giovane salutò sua madre, risalì a cavallo e partì. Attraversò il deserto, percorse tutte le piste, visitò le tribù della regione, e un giorno vide finalmente il grande accampamento che cercava. Stava per dirigervisi quando udì le invocazioni di una donna. «Nel nome di Allah e del suo Profeta Mohammad» gridava. «Soccorretemi!» Era una bella beduina, e stava per essere violentata da un uomo che le aveva strappato gli abiti di dosso! Sakhr spronò il suo cavallo, raggiunse quel vigliacco, lo uccise con la spada, prese la poveretta tra le braccia e la ricoprì con la sua 'abaya. «Come ti chiami?» chiese lei al suo salvatore, dopo averlo ringraziato. «Sidi Sakhr.» «Domandami ciò che vuoi. Io sono la figlia dell'emiro, anche se desiderassi la giumenta che mio padre ama sopra ogni cosa te la darei.» «Sono qui proprio per quella!» le disse. «Mio padre, per paura di perderla, la tiene legata con due catene di ferro, ma io saprò blandirlo, me la farò affidare, e te la porterò.» La fanciulla mantenne la promessa; al calar della notte condusse il prezioso animale al luogo in cui avevano convenuto di incontrarsi. Gliela diede indicandogli la strada sicura da percorrere nell'oscurità. Ma lui sbagliò direzione e fu sbalzato dal suo destriero imbizzarrito. Finì in un fosso profondo. Per fortuna, lei si era accorta del suo errore e l'aveva seguito. «Perché sei passato da qui?» gli chiese. «Era la volontà di Dio!» le rispose. 419
Intanto l'emiro, insospettito dall'assenza prolungata della ragazza e della cavalla, le fece cercare ovunque, invano. Allora, chiamò due cavalieri e disse: «Ritrovate mia figlia, uccidetela e portatemi un bicchiere colmo del suo sangue». Essi la trovarono, ma non videro il compagno che stava dentro il fosso. La fanciulla era bella e desiderabile. «Perché sgozzarla subito? Prima potremmo divertirci, poi penseremo a ucciderla» decisero i due furfanti. Però entrambi volevano la precedenza per abusare della poveretta e cominciarono a litigare e battersi. La beduina approfittò della loro distrazione per lanciare il capo di una corda a Sakhr e legare l'altro alla cavalla. Egli uscì dalla buca in un attimo e uccise i malandrini. Poi corsero insieme verso la salvezza, in sella ai loro destrieri. Quando giunsero all'accampamento, il giovane affidò la compagna a sua madre. «Abbine cura perché diventerà la mia sposa. Non adesso, né qui, ma quando sarà tornata dai suoi. Loro me l'affideranno» le disse. Quindi offrì la cavalla allo sheikh che, per ricompensarlo, gli diede cento cammelli, cento capre e cento agnelli. Torniamo adesso all'emiro. Non vedendo rientrare i cavalieri che aveva inviato a uccidere la figlia, partì alla sua ricerca accompagnato dal fratello. Dopo aver molto viaggiato e indagato, giunsero alla tribù presso cui si trovava. Lei li vide, corse da Sakhr e disse: «Mio padre è qui. Invitalo, onoralo, e chiedigli di raccontarti una storia. Ti risponderà: "No, fallo tu". Allora gli descriverai la nostra avventura». «Farò come desideri» acconsentì il giovane, e andò incontro ai nuovi arrivati. Li accolse, li introdusse nella sua tenda e fece servire il pranzo. 420
Gli occhi dell'emiro si riempirono di lacrime alla vista del cibo. «Che cosa succede? Perché piangi?» domandò Sakhr. «Avevo una figlia che cucinava così e l'ho persa.» «Che ne diresti di narrarmi la storia?» «Raccontala tu» rispose il forestiero, e ascoltò con emozione le vicende che l'ospite narrava. Quando il racconto finì, gli disse: «Io sono il padre della ragazza che salvasti e questo è lo zio. Dov'è mia figlia? Partirà con noi perché il principe di tutti i nomadi dovrà sapere che cos'è successo. Tu ci raggiungerai più tardi». Trascorso un po' di tempo, Sakhr e la madre andarono a visitare il potente emiro. I servi li introdussero nella sua grande tenda e c'era anche il principe degli Arabi che ordinò al giovane: «Racconta tutto dall'inizio alla fine». Egli assentì, e descrisse i fatti dal momento in cui aveva mangiato la testa del montone fino a quando era fuggito dopo avere ucciso gli aggressori della fanciulla. Terminato il suo racconto, chiese: «A chi spetta questa donna?» «A te» rispose il principe. Si celebrarono le nozze, il suocero lo nominò emiro al posto suo e tutti vissero felici.
NOTE 1 Oltre che cantore, era spesso una specie di giornalista del deserto che diffondeva le notizie da un accampamento all'altro.
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Khodr e la ginn
Questa è una storia antica, e l'eroe si chiama Khodr. La sua patria era la steppa. Un giorno, mentre pascolava il gregge, vide una strana donna che aveva unghie come artigli. Lunghi capelli neri le incorniciavano il volto enigmatico e duro. Lo salutò: «Salve, Khodr. Come stai?». Lui fu sorpreso e imbarazzato da quello sguardo sfrontato e, tremante, le chiese: «Chi sei? Non ti conosco». Gli diede il nome di una fanciulla del suo clan. Ma non era lei. Da quel giorno, si mise a seguirlo ovunque andasse a pascolare, e una mattina gli disse di volerlo amare. Khodr rifiutò, spaventato. Inutilmente lei gli promise tesori e castelli. La respinse. Inutilmente. Lei, imperterrita, continuò a seguirlo, a sorridergli, a offrirgli fresche bevande e cibi succulenti. Se dormiva, lei dormiva; se mangiava, lei mangiava; si sedeva, sedeva anche lei. Si toccava, lo imitava. E diventò la sua ombra. Khodr, ormai, aveva un solo pensiero: sfuggire a quella ossessione. Ci pensava notte e giorno. Infine, trovò la soluzione. Prese un pingue agnello, lo sgozzò, e con il grasso si unse il corpo e i capelli. Lei, che osservava attenta, lo imitò: si unse il corpo e la lunga chioma corvina, senza accorgersi del fuoco che ardeva lì accanto. Le fiamme raggiunsero la sua capigliatura, che si incendiò. Bruciò, bruciò, bruciò. 422
Rimase soltanto un pugno di cenere. E la cenere, tenace, seguì ancora Khodr il pastore. Per due lunghi anni, implacabile, la grigia polvere lo tormentò. Poi, all'improvviso, svanì. Il deserto, le acque, i boschi sono stati, da sempre, luoghi che suscitano immagini fantastiche, chimere: creature misteriose che nascondono tipi arcaici universali, dal carattere erotico. Questo racconto fa pensare all'eterno tema della paura maschile per la donna, per l'arcana fascinazione del corpo femminile e dei suoi doni. Ciò richiama al sacro timore per la natura (perla luna e per il sole, che ogni giorno allontana la notte e i sogni) e all'eroe nell'oscurità della Terra. È un tema mitologico antichissimo, che affonda le sue radici nel culto ancestrale della Dea Madre, con il suo potere sulla vita e sulla morte. Ecco le benefiche e temibili dee dallo sguardo misterioso che troviamo nell'Edipo a Colono di Sofocle e che Edipo implora: «O venerate dal tremendo sguardo». Ecco le madri nel Faust di Goethe, nel dialogo tra Mefistofele e Faust: M. Svelo di malavoglia mistero così alto. Dèe dominano altere in solitudine. Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo. Parlarne è arduo. Sono le Madri! F. (rabbrividendo) Madri! M. Ti dà i brividi? F. Le Madri! Madri!... Come suona strano! M. E strano è. A voi mortali dèe ignote, da noi non volentieri nominate. Sulla via alle loro dimore dovrai esplorare gli abissi. Ne hai colpa tu, se ne abbiamo bisogno.
Cfr. J. Campbell, Le maschere di Dio. Mitologia primitiva, Mondadori, Milano 1990; E. Fromm, Il linguaggio dimenticato. Bompiani, Milano 1990. 423
Bisher e Hissen
Dovete sapere che, molto tempo fa, tra i grandi sheikh delle tribù arabe, ce n'era uno di nome al-'Amsha. Egli possedeva mille cammelli ed era padre di due bambini: 'Alian il maggiore, Jaber il piccolo. Quando crebbero disse loro: «Dovete sposare le figlie di due capi tribù». Essi acconsentirono e vennero celebrate le nozze. Trascorso poco tempo, il padre dalla barba canuta, che Allah conceda lunga vita a tutti voi, morì. Sheikh 'Alian disse un giorno a sheikh Jaber: «È nostro dovere ingrandire la stirpe. Se Allah mi concede un figlio maschio e tu avrai una femmina li faremo sposare.» «Accetto. E altrettanto faremo se sarò io ad avere un maschio e tu una femmina» rispose il fratello minore. Poi, il primo emigrò nelle terre di Sham, 1 e l'altro nelle terre del Nord, diciamo Kamishli. 2 Allah, che è grande nella sua giustizia, diede a sheikh 'Alian un maschio e a sheikh Jaber una femmina, ed essi se ne informarono a vicenda. Ai loro figli sin da piccoli dicevano: «Tuo zio ha una figlia di nome Hissen e sarà tua moglie.» «Tu sei promessa al figlio di tuo zio, che si chiama Bisher.» 424
Un giorno, il Signore prese l'anima di sheikh 'Alian, e morirono anche i genitori di Hissen. La ragazza mandò, allora, un messaggio al cugino: «O figlio di mio zio sono rimasta sola». E i due giovani decisero di conoscersi. Si misero in cammino: viaggiarono per molti giorni e infine si incontrarono. Bisher vide Hissen la bella, come diceva il suo nome. 3 Hissen che splendeva come il cristallo attraversato da un puro raggio di luce e come la luna che riflette la luminosità del sole. Insieme andarono all'accampamento di lui, e si sposarono in nome di Allah e del suo Profeta. Diciamo ora che la madre di Bisher non era contenta di questo matrimonio, perché avrebbe voluto come nuora una nipote, Dellah, figlia di sua sorella. Ma il giovane aveva sempre rifiutato: doveva rispettare la volontà del padre e prendere in moglie la figlia dello zio, carne della sua carne, sangue del suo sangue, non un'estranea. 4 Quando giunse il tempo del pellegrinaggio, Bisher disse alla madre: «Mi reco nel paese dell'Hajj 5 per visitare il Profeta. Durante la mia assenza prenditi cura di Hissen.» «Vai tranquillo; giuro per Allah che tua moglie starà bene come se tu fossi qui.» Prepararono le provviste e quando tutto fu pronto Bisher ordinò: «Per Allah, partiamo!». E la carovana si mise in marcia. Il viaggio doveva durare un mese. Dimenticavo di dirvi che Dellah criticava sempre Hissen con il cugino, per indurlo a ripudiarla, ma non era mai riuscita nel suo intento. Partiti i pellegrini, le due donne decisero che questo era il momento giusto per liberarsi di lei. Dellah si travestì da uomo e, mentre Hissen dormiva, si mise accanto a lei nel suo letto. La zia mandò a chiamare due della tribù, Abbas e 'Aissa, perché testimoniassero che, in 425
assenza del marito, sua moglie portava a letto dei clienti e si faceva pagare. «Vedete con chi giace Hissen?» chiese loro. «Giuriamo per Allah che è un uomo.» «Ora che avete fatto il vostro dovere potete andare via. » Noi sappiamo che la persona accanto a Hissen era una donna travestita, e quello che videro i loro occhi era un inganno, ma essi no. Quando Bisher tornò dal pellegrinaggio, vide che la madre trattava con malanimo sua moglie come per costringerla ad andarsene, e le chiese una spiegazione. «Madre, quando sono partito eri gentile con Hissen; perché ora sei così dura con lei?» «Figlio mio, è successa una cosa molto grave, che nuoce alla dignità del nostro rango. Durante la tua assenza, lei si portava nel letto uomini per denaro!» «Non dirmi questo, non può essere vero!» «Ti giuro, per Dio, che questa è la verità» ribadì la donna; e fece chiamare i testimoni Abbas e 'Aissa. «Chi avete visto nel letto con Hissen quando lo sheikh Bisher era in viaggio?» chiese loro, in presenza del figlio. «O zia, c'era un uomo con lei» affermarono i due. Hissen tornò dal pozzo, e il marito le disse: «Dobbiamo partire, prepara le provviste.» Presto tutto fu pronto: non occorreva molto tempo perché, allora, il cibo, presso gli Arabi beduini, consisteva in datteri, pane, uva passa e burro. Si misero in viaggio; e il cammino era tanto lungo che sembrava non avere mai fine. Una sera, giunsero a un grande albero di datteri che, solitario, cresceva vicino a una sorgente. «Allah sia lodato! Questo sembra un buon posto per fermarsi» disse Bisher. 426
«Come desideri, mio signore» rispose Hissen. «È notte, prepara le stuoie, o figlia di mio zio. Ascolta: per non farci divorare dalle bestie feroci, dormiremo uno per volta. Io riposerò per primo. Quando sarai stanca, svegliami e prenderò il tuo posto.» Fecero così; ma appena la moglie si fu addormentata, egli andò via abbandonandola con un po' di cibo. Il sole cocente del deserto svegliò Hissen. Nel cielo, neanche il volo di un uccello rompeva il silenzio, e il marito non era più lì. Lei mormorò sconfortata: «Che cosa mi è successo?». Poi vide sopraggiungere su un destriero uno sconosciuto. «Salve, fanciulla» le disse il cavaliere. «Salve, cavaliere» rispose. «Vuoi che sia tuo fratello o tuo marito? Scegli.» «Per Allah, preferisco averti come marito.» Lui la sollevò, posandola accanto a sé e, baldanzoso per la ricca preda, rientrò all'accampamento. Ora torniamo a Bisher. Giunse alla sua tenda e non sappiamo se era ancora notte o già l'alba. Dellah, la scaltra, e la madre, prese dal rimorso, parlavano tra loro: «Quanto soffrirà la poveretta abbandonata nel deserto! L'avranno divorata le bestie feroci? Per Allah, abbiamo fatto male a Hissen, l'innocente! Come potremmo presentarci al cospetto di Dio, il giorno della nostra morte?» Bisher, che tornava in quel momento, le udì e, irato, sguainò la spada minacciando di tagliar loro la testa, se non avessero confessato la verità. La madre supplicò: «Non ci ammazzare! Confesseremo. Abbiamo calunniato tua moglie. Io ho chiamato i testimoni, dopo aver fatto mettere accanto a Hissen Dellah vestita da uomo, perché volevo che sposassi lei.» 427
«Allah vi giudicherà» disse il giovane e, risalito a cavallo, partì al galoppo per riprendersi Hissen. Cavalcò giorno e notte senza mai riposare, finché giunse all'albero solitario. Ma lei non c'era. Allora scese da cavallo e cominciò a lamentarsi. «Lodato sia il Profeta, il Puro O albero dei datteri Che la vita sia lunga, per i misericordiosi! Lodato sia il Profeta, l'Adnanita. 6 O palma generosa O albero dalle lunghe chiome Che ci doni i tuoi frutti. In nome di Dio ti chiedo Dov'è andato l'amor mio? In nome di Mosè e di Gesù In nome del Profeta, ti supplico O albero dei datteri Dai una risposta alla mia preghiera. Abbi pietà della nostra separazione. In nome di coloro che Hanno scritto e letto il Corano Dimmi Dov'è Hissen, la stella? Da quando essa è tramontata Davanti ai miei occhi Ho sofferto tanto E il mio cuore è diventato pesante. È Hissen che ho amato, non Dellah. O albero dei datteri Indicami dove si trova Hissen Come posso rivederla?»
L'albero, con il permesso di Allah, replicò con chiare parole: 7 «Ho la risposta per te. Prese Hissen un cavaliere chiamato figlio di Hamran. Lui la trovò vicino alla 428
sorgente e la prese con sé. Se sei bravo affrettati, e vai a riprendertela.» «Darei tutto quello che possiedo per lei!» esclamò Bisher mentre già spronava il suo cavallo. Giunse alla tribù dello sheikh Hamran mentre si svolgeva la festa di nozze. Si mise a cercare Hissen con la spada in pugno. Come la vide corse da lei, la prese tra le sue braccia e fuggì via. Quando tornò all'accampamento, fece raccogliere legna e preparare una grande catasta. Ci misero sopra sua madre e Dellah. Lui accese il fuoco con le proprie mani ed esse bruciarono fino a diventare cenere. Bisher e Hissen vissero per lunghi anni, felici e contenti. La pace sia con voi.
NOTE ' Regione di Damasco. 2 Al confine dell'attuale Turchia, non lontano dal fiume Tigri. 3 Hissen significa bellezza. 4 Nella società nomade, che è strettamente patriarcale, per salvaguardare l'integrità e la coesione del clan si privilegiano i matrimoni tra i consanguinei discendenti dalla linea paterna. 5 Arabia. 6 Discendente del patriarca Adnan, antenato eponimo degli Arabi del Nord. È citato in due iscrizioni nabatee. Il suo nome si diffuse verso sud seguendo la via dell'incenso. 7 Gli Arabi preislamici e in Mesopotamia consideravano la palma dattilifera sede della divinità e quindi albero cosmico. Vi si praticava la divinazione e si cercavano gli oracoli. Questa invocazione conserva un residuo delle antiche credenze. Secondo l'Islam, inoltre, Gesù Cristo è nato sotto una palma.
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L'ospitalità
Una volta, ci fu un'incursione contro la tribù dello sheikh ash-Shalàn. I predatori vennero di notte: saccheggiarono, uccisero, presero ostaggi e scapparono. Ma uno di loro, che aveva ucciso quattro familiari dello sheikh, non riuscendo a fuggire, cercò riparo proprio nella tenda delle sue vittime. Se ne accorse un giovane del clan, che raccontò agli altri come uno degli assassini si trovasse nella dimora del capo. «L'ospitalità è sacra e deve durare almeno tre giorni» gli dissero. Lui però voleva vendicarsi subito e, nonostante la moglie dello sheikh avesse cercato di impedirglielo, tagliò la testa al predone. Poi, per paura di essere punito, scappò. «Che Allah mi conceda la forza di cercare e punire colui che ha violato le nostre leggi!» esclamò sheikh ash-Shalan, quando venne a conoscenza dell'accaduto: e partì al suo inseguimento. Cavalcò per due giorni, senza ritrovarlo. Il terzo giorno, incontrò finalmente degli ambulanti che l'avevano visto. Questi venditori vanno da un accampamento nomade all'altro, offrendo le loro mercanzie, e sono sempre al corrente di tutto ciò che accade nella steppa. Sapevano anche in quale clan aveva trovato asilo e ne informarono ash-Shalàn. Egli inviò un messaggio ai suoi protettori: «Se il mio uomo è da voi scacciatelo». Che fare? Non volevano suscitare l'ira del gran430
de sheikh, ma neppure infrangere le leggi dell'ospitalità. «Il tuo capo ha scoperto che ti trovi qui ed è deciso a ucciderti» dissero al fuggitivo. Lui, allora, andò via; prese a errare da una tribù all'altra, sempre braccato, finché capitò presso un potente sheikh, al Htàb, che non volle cedere alle minacce. Questo rifiuto scatenò una rappresaglia. Il giovane conteso, scorgendo suo padre, suo fratello e gli zii materni, si unì a loro, e lottò audacemente. Ogni volta che entrava nella mischia uccideva un gran numero di avversari. Per Dio! Fu una magnifica battaglia. I due clan si affrontavano con impeto furibondo, e il campo era avvolto in una oscura nube di polvere, in cui i cavalli non si distinguevano dai cavalieri! Lottarono senza mai fermarsi per tutto il giorno. Soltanto quando scese il crepuscolo si stabilì una tregua. Distrutti dal combattimento, i nemici desideravano approfittare della notte per ritemprarsi. Ma il responsabile di quella contesa non poteva riposare «Dov'è il mio posto, ormai?» si chiedeva. Infine, decise di andarsene. Appena la pace e la tranquillità tornarono, sheikh al-Htàb cercò il suo protetto. «Ha abbandonato l'accampamento. Cos'altro gli restava da fare dopo avere lottato contro di noi?» dissero i suoi uomini. «Sapete dove si è diretto?» «Verso la montagna.» «Trovatelo! E fatelo tornare» ordinò lo sheikh, che appena lo vide gli andò incontro contento. «Bentornato tra noi, figliolo! Come posso aiutarti?» gli chiese. «Non sono degno del tuo aiuto.» «Perché?» «Mi vergogno di vivere con voi dopo avervi traditi. 431
Non posso più stare qui, e neppure tornare dai miei che mi ucciderebbero. Cosa mi resta al mondo?» «Chi non dimentica le sue radici, è degno del più grande rispetto. Io sarei felice, se tu volessi far parte della mia famiglia» disse lo sheikh, offrendogli una tenda, un cavallo, un armento e la figlia in sposa. Lui accettò, e con il tempo divenne un valoroso capo tribù.
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Il figlio di Zenab
C'era una volta un principe arabo che aveva un figlio e voleva farlo sposare a una fanciulla nobile e bella. Un giorno, mandò i suoi uomini a cercarla. Essi visitarono tutte le tribù del deserto e finirono per trovare la sposa adatta: Zenab, la figlia di un importante sheikh. Immediatamente, il principe e suo figlio si recarono a chiederne la mano, portando in dote gioielli, sete pregiate e una corona d'oro. Lo sheikh accettò, e il matrimonio fu celebrato con una grande festa e un banchetto di cento montoni, dolci, caffè amaro. I festeggiamenti durarono sette giorni, poi gli sposi partirono; e dopo un lungo viaggio attraverso la steppa, giunsero al loro accampamento, dove furono accolti con esultanza. La mattina seguente al risveglio, il marito salutò Zenab e le propose un indovinello. 1 «Buon giorno, Zenab.» «Buon giorno a te, mio signore.» «Dimmi: cosa è leggero, cosa è pesante?» «La piuma è leggera, il ferro è pesante.» «Stupida figlia di stupido!» la insultò lui, deluso da quella risposta. E, irato, uscì dalla tenda. Questo fatto si ripeteva ogni giorno. Trascorse il tempo. Zenab partorì un figlio maschio che fu chiamato Mohammad, ma era sempre triste. Desiderò tornare dai suoi parenti, chiese di partire e ottenne il 433
permesso poiché ormai era madre. Dovete infatti sapere che, presso alcune tribù nomadi, una moglie proveniente da un altro clan non può tornare dai suoi prima di aver partorito il primo figlio. Si caricarono i doni sui cammelli e la principessa partì. La carovana andò da un accampamento all'altro, e dopo un lungo viaggio giunse a destinazione. Lo sheikh fece una grande festa per celebrare l'arrivo della figlia e del nipotino ma lei, invece di esserne lieta, piangeva sconfortata. «Perché piangi?» le chiese il padre. «Sono infelice perché mio marito mi disprezza. Vuole sapere da me cos'è leggero e cos'è pesante. Io non do la risposta giusta e lui mi insulta.» «Ma tu, che cosa rispondi?» «La piuma è leggera, il ferro è pesante.» «No, figlia mia! La prossima volta dirai: la seta e il piombo.» Trascorsero alcuni mesi; Zenab sentì nostalgia, e volle tornare a casa. Il suo arrivo fu salutato con gioia da tutta la tribù. E il marito pensò: "Di certo il padre le avrà insegnato la risposta giusta". La mattina dopo, al risveglio, le fece la solita domanda: «Buon giorno, Zenab.» «Buon giorno a te, mio signore.» «Dimmi: cosa è leggero, cosa è pesante?» «La seta è leggera, il piombo è pesante» rispose sicura. Era convinta di non aver sbagliato, invece lui la insultò anche questa volta e si allontanò irritato. Anche lei uscì dalla tenda; si mise a sedere al sole, sciolse i capelli, tolse i suoi ornamenti e cominciò a lamentarsi. La vide il figlio, e le chiese: «Mamma, perché piangi?» «Sono tanto triste! Tuo padre, da quando siamo 434
sposati, mi propone un indovinello, e io non conosco la risposta.» «Che cosa ti chiede?» «Cosa è pesante, cosa è leggero.» «E tu che cosa rispondi?» «La seta è leggera, il piombo è pesante.» «Stupida figlia di stupido!» esclamò il bambino. «Anche tu come tuo padre!» si dolse la poveretta, scoppiando di nuovo in lacrime. Il figlio, a vederla piangere in quella maniera, si impietosì. «Mi strazi il cuore. Se ti aiuto lo farai sapere a mio padre?» le chiese. «No.» «Va bene. Domani, quando ti interrogherà, gli risponderai: tutto ciò che il generoso ti offre quando vai a casa sua è leggero; mentre anche un solo dattero offerto dall'avaro è pesante.» Zenab si mise a cantare e danzare per la gioia; poi indossò gli abiti più belli, i gioielli più preziosi e accolse festosa il marito, che la mattina, dopo averla salutata, la interrogò ancora. «Buon giorno, Zenab.» «Buon giorno a te, mio signore» rispose lei, provocante. Lui la guardò severo e perplesso. Bisogna dire che, per gli Arabi beduini, la moglie deve essere sempre modesta e timida; anche nell'intimità. Infine, le chiese bruscamente: «Cosa è leggero e cosa è pesante?» «Leggero è tutto ciò che si offre nella casa del generoso, pesante anche un solo dattero offerto in casa dell'avaro.» A queste parole, l'uomo si alzò di scatto e uscì. Rientrò verso sera, e fece riempire una grande pentola d'acqua. Accese il fuoco e la mise a riscaldare. Il bambino, che osservava impaurito quei preparativi, salì sulla schiena di un caprone e fuggì verso la montagna. 435
Lui afferrò la moglie e, minacciando di gettarla nell'acqua bollente, le disse: «Confessa! Chi ti ha dato la risposta?» «Tuo figlio!» rispose Zenab, spaventata. «Donna! È mai possibile che un bambino conosca la risposta che tuo padre, stupido, non sa?» esclamò il marito. Quando si accorse che il figlio era scomparso, uscì a cercarlo. «Avete visto mio figlio?» chiedeva a tutti. Dei ragazzi gli dissero che stava sulla montagna. L'uomo corse da un posto all'altro, finché non lo trovò. «Perché hai suggerito la risposta giusta a tua madre?» gli chiese. «Mi faceva male il cuore a vederla piangere. Ti prego, padre: la prossima volta, fai a me le domande» rispose il bambino. «Bene! Voglio fartene una: se l'avaro litiga con il generoso, come si può fargli fare la pace?» «Si toglie dalla tasca del generoso e si mette dentro quella dell'avaro» gli disse suo figlio. Lui l'abbracciò, orgoglioso, e insieme tornarono all'accampamento. Da quel giorno vissero felici e contenti.
NOTE 1 In Persia, Babilonia, India, Egitto, Siria, Grecia, Roma, nel passato, l'indovinello aveva intenti didattici e finalità esoteriche. Numerose fiabe siriane rispecchiano questo antico interesse per gli enigmi.
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La beduina e lo studente
Viveva, una volta, a Hama, 1 un ricco mercante di lana, yogurt e formaggio che aveva sei figli: cinque femmine e un maschio di nome Mohammad. Quest'uomo era illetterato ma, comprendendo il valore della conoscenza, voleva che i figli fossero istruiti. Una giovane beduina della steppa si recava spesso al suo magazzino per vendergli lo yogurt. Un giorno, Mohammad, che studiava medicina, andò a trovare il padre, vide la ragazza, si lasciò incantare dalla sua grazia straordinaria, se ne innamorò e fu corrisposto. Trascorse il tempo; l'amore infiammava sempre più lo studente, che però non osava confidarsi al padre, ed era tormentato dal dubbio: «Come potrebbe un futuro medico sposare una beduina ignorante?». Quando la bella nomade tornò in città per vendere il suo yogurt, vide il negozio chiuso. «Che cosa succede?» chiese ai vicini. «Il giovane Mohammad è ammalato gravemente, e sta per morire.» Le risposero. Lei, allora, andò alla casa del mercante. «Perché vieni qui? Non voglio comprare niente» le disse il vecchio, sprezzante. «Ti prego, fammi entrare. Non sono venuta a venderti lo yogurt, ma a guarire tuo figlio. Leggerò per lui parole magiche che scacceranno il malocchio» gli disse la beduina. 437
«Perché, tu sai leggere?!» si sorprese il mercante. «Certo.» «Entra pure, se è così.» «Ho bisogno d'incenso e di brace.» Avute queste cose, entrò nella stanza del malato e chiuse la porta dietro di sé. Poi tolse il velo che le ricopriva il capo, turò con esso il buco della serratura, affinché nessuno potesse curiosare, si avvicinò al letto e svegliò Mohammad; attese, in silenzio, che le rivolgesse lo sguardo, e si mise a cantare. «I tesori della terra e del cielo Non basterebbero, amor mio Per lodare, benedire, santificare Chi ti ha dato la vita. Ti ha plasmato, ornato, esaltato. Potrebbe eclissarsi la luna per un anno. Io non lo saprei Poiché tu ci sei. Le stelle piangerebbero E il cielo diventerebbe triste Per la scomparsa della luna. Ma più grande ancora Sarebbe il mio dolore Se scomparissi tu.»
L'innamorato la guardò rapito, e lei gli chiese: «Dimmi, che cosa è per te la luna?». «Sei tu» rispose Mohammad. Ma alle nomadi della steppa dei dintorni di Hama piace che i loro innamorati siano un poco poeti. Così, gli disse: «Parlami in versi» e lui, ispirato da quella splendente beltà, cantò: «O bella bruna, piccola bruna La famiglia mi rimprovererebbe L'amore che ho per te. 438
Piccola bruna Sempre biasimerebbero Questa passione. Divento folle, a m o r mio Tu sei il basilico 2 dei miei sogni Io la rugiada che lo asperge. Tu la luna che splende nel cielo Io la stella che le ruota intorno.»
Al sentire queste parole, lei esclamò: «Per Allah! Voglio che tu sia il mio sposo». La madre di Mohammad, che aveva sentito tutto, si commosse e fece preparare le nozze. Questa storia ha una trama piuttosto inconsistente, ma ho voluto inserirla per i versi, che sono rappresentativi delle canzoni popolari siriane di genere romantico.
NOTE 1 Città dalle antiche origini che sorge nella valle dell'Orante. 2 II suo profumo, molto apprezzato dai Siriani, che considerano il basilico pianta ornamentale, sarebbe uno dei piaceri olfattivi del paradiso islamico e di quello zoroastriano. Una credenza popolare vuole inoltre che questa pianta abbia poteri magici.
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La fionda
C'era una volta una povera donna che viveva con un nipote. Lei filava la lana, lui, ogni venerdì, la vendeva; e con i soldi guadagnati comprava pane, formaggio e porri. Un venerdì, il giovane, mentre era al mercato, vide un gruppo di persone che volevano uccidere un gatto. «Che cosa ha fatto?» chiese. Gli risposero che aveva mangiato due colombe. Il gatto stava lì tutto impaurito, e pareva chiedere clemenza. Il ragazzo pregò perché lo risparmiassero, ma nessuno si impietosì. «Vi darò questi soldi se lo lasciate libero» disse, e offrì il denaro che aveva guadagnato con la vendita della lana. Naturalmente, non potè più fare la spesa, e tornò dalla nonna a mani vuote. «Dove sono il pane, il formaggio e i porri?» chiese la vecchia. «O nonnina, ho incontrato i banditi. Mi hanno derubato e battuto e non potevo fare niente, perché loro erano tanti e io solo» rispose, mentendo. Il venerdì successivo, si recò, come al solito, in paese per vendere la lana. Nella piazza vide un capannello. Incuriosito dalle voci e dall'agitazione, si avvicinò per vedere cosa succedeva. «Quel cane ha morso una persona e lo vogliono 440
ammazzare» gli disse uno dei presenti, indicando l'animale. Lui si impietosì, offrì i soldi guadagnati al mercato, e riuscì a liberarlo. Rientrò però senza il pane, il formaggio e i porri. «O nonnina, ho incontrato i banditi che mi hanno derubato e battuto, ma non potevo fare ,niente perché erano in tanti e io solo.» La donna credette e non credette, e si infuriò moltissimo con il nipote. Trascorse una settimana, il ragazzo tornò ancora a vendere la lana al mercato. Andava alla bottega per comprare le provviste, quando scorse un gruppo di persone irate e vocianti. Incuriosito, si fermò per vedere cosa accadeva. «Quel serpente ha morso una donna, e vogliamo ammazzarlo» gli dissero. «Per pietà, non fate questo, vi pagherò, se lo lasciate» e lo fece liberare. Poi pensò: "Ora dove vado? Se torno a casa, mia nonna non mi perdona e mi ammazza. No, ho deciso, me ne andrò per il mondo". Cammina, cammina, era già stanco e affamato, quando sul far della sera incontrò nel bosco un derviscio, che io salutò e gli chiese: «Dove vai?» «Me ne vado per il mondo.» «Hai fame?» «Sì, ho fame.» «Va bene, chiudi gli occhi» gli disse il derviscio, che spiegò un piccolo tappeto, lo mise a terra e gli ordinò un agnello arrosto, ripieno di riso e pinoli, e un vassoio di dolci. Il giovane aprì gli occhi e mangiò contento. Quando finì di mangiare, gli chiese: «Che razza di tappeto è questo?» Il monaco rispose: «Questo è un tappeto speciale, qualsiasi cosa desi441
deri da mangiare te la dà. Tieni, te lo regalo.» E se ne andò. Il nostro amico pensava: "Che fare? Torno dalla nonna e le dò da mangiare? Ma no, andiamo per il mondo". E si mise a viaggiare da una contrada all'altra. Una sera, incontrò un altro derviscio. Lo salutò: «La pace sia con te.» «Con te sia la pace.» «Hai fame, zio?» «Sì, ho fame.» Il giovane posò a terra il tappeto e quello, a un ordine del suo padrone, si riempì di tante buone cose; i due viandanti mangiarono a sazietà. «Che tappeto è mai questo?» chiese il derviscio. «Come vedi, se gli chiedi da mangiare te lo dà» rispose. «Io ho una fionda, vuoi scambiarla con il tappeto?» propose il derviscio. «Che cosa me ne faccio di una fionda?» «Se qualcuno ti porta via qualcosa, tu comandi: gira, gira, o fionda, e non permettere che mi portino via quel che è mio. E ciò che avevi perso ti viene reso.» Scambiarono i due oggetti e si salutarono. Ma fatti pochi passi, il giovane gridò: «Gira, gira o fionda, il tappeto il derviscio mi ha preso. Ti prego, fa' che mi venga reso.»
La fionda girò, portò via il tappeto al derviscio, e lo consegnò al proprietario, che si rimise in cammino, pensando: "Che fare? Torno dalla nonna e le dò da mangiare?... Ma no, andiamo ancora un po' per il mondo". Camminò, camminò, e un giorno, verso il tramonto, incontrò un terzo derviscio. Si salutarono, e lui chiese: 442
«Vuoi mangiare?» «Sì, grazie.» Ordinò il pranzo, e il tappeto si riempì di cibo.. «Cosa possiedi figlio mio?» chiese il vecchio. «Solo questo tappeto che dà da mangiare ciò che chiedi; e tu, zio che hai?» «Questo anello d'argento che è magico: basta che chiedi e ti dà qualsiasi cosa desideri.» «Facciamo cambio?» Il compagno accettò, e scambiarono gli oggetti. Si salutarono; e ognuno continuò per la sua strada. Ma il derviscio gli aveva appena voltato la schiena, che lui ordinò alla fionda: «Gira, gira o fionda il tappeto il derviscio mi ha preso. Ti prego, fa' che mi venga reso.»
La fionda riprese il tappeto e lui pensò: "Ora, torno o non torno a casa? Ma sì, torno". Dopo alcuni giorni di viaggio, giunse dalla nonna. «Buon giorno, nonnina; hai fame?» le chiese, appena arrivato. Ma lei, infuriata, voleva cacciarlo. «Tranquilla, tranquilla!» le disse. E ordinò al tappeto una grande quantità di buone cose da mangiare. L'indomani, la mandò a chiedergli la principessa in sposa. La vecchia indossava vestiti sporchi e poveri, e il re la prese per una mendicante. «Che cosa vuoi?» esclamò con voce altera. «Vengo a chiedere la mano di tua figlia.» «Cacciatela!» urlò il sovrano. Lei raccontò l'accaduto a suo nipote. Allora lui, con l'aiuto dell'anello magico, la vestì come una gran signora. «Prova un'altra volta!» le disse. 443
Ma le guardie del palazzo la riconobbero e la mandarono via. Che fare? Decise di provare ancora. Si fece dare dall'anello abiti eleganti e due guardie, e si recò, di persona, dal re, che non lo volle ricevere e disse al suo visir: «Trovami una via d'uscita.» «Hai la dote?» chiese il visir al giovane. «Che cosa volete in dote?» «Animali di tutte le specie che camminano a quattro zampe, esistenti sulla terra, carichi d'oro.» Ottenne tutto, con l'aiuto dell'anello, e in più un esercito di guardie e servitori e una banda musicale. «Che cosa succede, che cosa succede?» chiedevano i passanti. «Questa è la dote per la principessa» rispondeva. Ma il re non voleva assolutamente dargli in sposa sua figlia. «Visir, trovami una via d'uscita!» ordinò. Il visir gli disse: «Il re chiede che entro domani tu costruisca un palazzo di fronte al suo. Solo così potrai sposare la principessa». Durante la notte, con l'aiuto dell'anello, lui fece sorgere un castello straordinario, che brillava come un cristallo. E l'indomani disse al re: «Questo è il palazzo di vostra figlia.» Il re, vedendo quella meraviglia, non poteva fare altro che ordinare al visir di preparare le nozze. I due sposi vivevano felici; ma un giorno la moglie vide a terra l'anello, che era caduto dal dito del marito. Lo raccolse, lo osservò bene, e mormorò: «Perché, con tutti gli anelli d'oro e di diamanti che possiede, mio marito mette al dito questo d'argento?» e lo diede alla cameriera. In quel momento, un ebreo che passava davanti al palazzo, osservandolo con ammirazione, pensò: 444
"Di sicuro, questo è un palazzo incantato!" E poiché sapeva come si fanno gli incantesimi, 1 comprò tanti anelli d'oro e si mise a gridare: «Cambio anelli d'oro con anelli d'argento, cambio anelli d'oro con anelli d'argento». Lo udì la cameriera; e decise di scambiare il suo. L'ebreo, come vide quell'anello, capì che era magico, lo prese tutto contento e le diede i suoi. Nel cuore della notte, mentre tutti dormivano, ordinò all'anello: «Prendi questo palazzo con la principessa e tutte le cose, trasportaci in mezzo al mare e butta il marito, nudo, nell'immondezzaio». L'indomani, al risveglio, il re si affacciò alla finestra per salutare la figlia. Ma quale non fu la sua sorpresa, nell'accorgersi che tutto era scomparso! Fece cercare subito il genero. Appena glielo portarono, nudo e sporco, gli chiese: «Dov'è tua moglie? Bada a te! Se entro quaranta giorni il palazzo, con mia figlia dentro, non torna qui, morirai» e lo fece rinchiudere in prigione. Il poverello languiva nel carcere già da qualche tempo, quando gli fu annunciata una visita. Il gatto, a cui una volta aveva salvato la vita, aveva saputo della sua disgrazia e veniva a visitarlo. Lui lo accolse commosso. «Gattino mio, come ti rivedo volentieri! Ma ahimè, non mi restano che dieci giorni di vita» gli disse. Il gatto si fece raccontare i fatti, poi partì a cercare il cane e il serpente. Li trovò, li informò sui problemi del loro salvatore, e insieme decisero di aiutarlo. Chiedendo qua e là riuscirono a scoprire dove si nascondeva l'ebreo. Il gatto disse al cane: «Andiamo al mare. Lì salgo sul tuo dorso e tu mi porterai fino al palazzo. Io entrerò e prenderò l'anello». Ci andarono in compagnia del serpente, che rimase sulla 445
riva. Nuotando, giunsero all'isola dove stava il castello. Il gatto entrò e si mise a cercare l'anello, ma non lo trovava. Cercò, cercò e, finalmente, scoprì che l'ebreo l'aveva nascosto dentro il naso. Che fare? Prese dell'aceto, vi bagnò la coda, la ricoprì di cenere e infilò la punta nelle narici dell'ebreo. Lui, allora, starnutì con forza, e l'anello saltò fuori. Il gatto se lo mise in bocca e corse dal cane che lo attendeva; salì sul suo dorso, e tornarono indietro. Il cane, che era molto curioso e voleva sapere tutto, gli chiese: «L'hai preso? Fammelo vedere». Il gatto però, avendo l'anello in bocca, non poteva rispondergli. Ma l'altro insisteva, minacciandolo di non riportarlo a terra, se non glielo avesse mostrato. Il gattino, che non sapeva nuotare, per paura di essere gettato in acqua, aprì la bocca per rispondere. L'anello cadde e scomparve tra le onde! Per fortuna erano ormai vicini alla riva. Il serpente, che aveva visto tutto dalla spiaggia, si tuffò con prontezza, riuscì a trovarlo e lo rese al cane che, correndo, giunse per primo alla prigione. Entrò trafelato dal suo antico salvatore, che lo accolse con le lacrime agli occhi. «Oh, caro cagnolino! Anche tu vieni a salutarmi, prima che io muoia. Ormai, mi restano appena due giorni di vita» gli disse. Il cane aprì la bocca, e l'anello magico cadde a terra. Il prigioniero, incredulo e felice, lo abbracciò. Arrivarono anche il gatto e il serpente. Lui, dopo aver ringraziato e salutato i suoi amici, ordinò all'anello: «Voglio che l'ebreo sia fatto a pezzi e gettato in mare; che il palazzo torni al suo posto; e che, quando chiederanno a mia moglie dove è stata, risponda che è rimasta sempre in casa ad attendere il mio ritorno». 446
Il giorno seguente, il re, aprendo la finestra, vide il palazzo al suo posto. Immediatamente, andò dalla figlia, che per magia aveva dimenticato tutto, e che disse a suo padre: «Io non mi sono mai mossa di qui». Allora liberò il genero, gli chiese scusa, e lo nominò principe e visir. Questo genere di racconto, diffuso in tutto l'Oriente e in Europa, ricorda la storia di Aladino e la lanterna magica
NOTE 1 Gli Arabi attribuivano agli Ebrei una grande familiarità con le pratiche magiche e la stregoneria. La credulità pubblica li pretendeva in possesso di segreti occulti e della misteriosa cabala, trasmessagli da Salomone e dagli angeli caduti Harut e Marut (Corano, II, 96). Essi, per essersi innamorati di donne, sarebbero stati appesi per i piedi sopra un fossato presso Babilonia, dove appunto avrebbero insegnato la magia agli uomini. Cfr. P. Lammens, Arabie avant l'Egire, Imp. Catholique, Beirut 1928.
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La bugia delle bugie
C'era una volta un sultano che aveva tre figli in età di prender moglie. Un giorno, i giovani, dopo essersi consultati, andarono al mercato, comprarono una bella anguria matura e la portarono in dono al padre. Egli, comprendendo il senso nascosto di quell'offerta, 1 chiese loro: «Figli miei, volete sposarvi?» «Sì.» «Con chi?» «Io vorrei per moglie la figlia del visir che siede alla tua destra» gli confidò il figlio maggiore. «A me piace la figlia del visir che siede alla tua sinistra» affermò il secondogenito. «E tu, con chi vuoi sposarti? Non ho altri ministri» disse il sultano al figlio più giovane. Poi continuò: «Ciascuno di voi tenterà la sua sorte. Salite a cavallo, scagliate una freccia, e dove questa cadrà incontrerete la vostra sposa». I tre fratelli montarono sui cavalli. Il maggiore scagliò la freccia per primo, ed essa cadde davanti alla casa del visir che sedeva alla destra del sultano. Anche il secondo scagliò la sua freccia, che andò a finire vicino alla casa del visir che sedeva alla sinistra del sultano. Quella del fratello minore, invece, andò a conficcarsi nel bel mezzo di un immondezzaio! Il giovane si avvicinò, vide una farfalla, la prese in ma448
no, e mormorò: «Tu sei il mio destino!». Poi fece costruire una gabbia d'oro e ve la mise dentro. Una volta, il sultano mandò a dire ai figli: «Verrò a mangiare a casa vostra». E il giorno seguente si recò dal maggiore, il successivo dal medio, e il terzo doveva andare dal piccolo, che disse alla farfalla: «Mio padre viene a pranzo da noi, che facciamo? Chiamo qualcuno per allestire il banchetto?» «No» rispose la farfalla. «Come! Vuoi occupartene tu?» «Certo!» «Va bene. Farò portare l'occorrente. » Ma essa disse: «No. Non ho bisogno di nulla.» E appena rimase sola, uscì dalla gabbia e si trasformò in una meravigliosa giovinetta, che rideva come il sole e poteva dire alla luna: «Vai via! Vai, che prendo il tuo posto». Quella prodigiosa fanciulla batté un piede e comparve un ginn! Gli ordinò: «Voglio tre tavole imbandite: la prima con una grande varietà di pietanze, la seconda con ogni specie di frutta, la terza di dolci». Detto fatto! Tra squisite fragranze di cibi succulenti e profumi d'incenso e ambra, apparvero le tre tavole. Ormai tutto era pronto per ricevere degnamente l'ospite. Allora lei ridiventò farfalla, e tornò nella gabbia. Il sultano fu molto soddisfatto di quell'accoglienza, e decise di ricambiare, invitando, per il giorno seguente, i tre figli con le spose. Il marito chiese alla farfalla: «Cara, vuoi che ti porti con la gabbia?» «No» rispose lei. «Ti terrò nel palmo della mia mano.» «No. Precedimi. Io ti raggiungerò più tardi.» Gli invitati, riuniti nel palazzo, l'attendevano seduti a tavola. Quando erano ormai stanchi di aspettare, entrò una regina vestita da sposa, con abito, 449
scarpe e velo bianchi, un diadema in testa e le tasche piene di monete d'oro, che lanciava in aria. «Benvenuta!» la salutò, con un inchino, il sultano, ammirato. E le chiese dell'acqua. La signora prese un bicchiere, ci sputò dentro e glielo offrì. Quello sputo si trasformò in un fiore, ed egli si mise a bere con voluttà! Sembrava che stesse gustando un liquore pregiato! Intanto, il marito pensava: "È possibile che sia lei?". Lasciati i commensali, corse a casa. Non trovò la farfalla, ma vide il suo involucro vicino alla gabbia. Lo prese e lo bruciò. Proprio in quel momento, la bella regina giunse trafelata. «Che fai? Bruci ciò che deve portare fortuna a te e ai tuoi discendenti?» esclamò, rivolta al suo sposo. «Non desidero né ricchezze né fortuna. Voglio solo te» affermò lui deciso. Ma la signora aveva scorto, tra le ceneri, un pezzetto dell'involucro. Lo prese, lo posò sulla fronte, ed esso si trasformò in una pagliuzza d'oro. Nel frattempo, il sultano aveva chiesto dell'acqua anche alla moglie del figlio maggiore che, volendo imitare la bella sconosciuta, sputò dentro un bicchiere. Ma il suo sputo si trasformò in un verme. «Buttalo, buttalo!» strillò il suocero, disgustato. Accadde così anche con la moglie del secondogenito. Quella sera stessa, il sultano andò dal suo visir e gli disse: «Voglio sposare mia nuora, la moglie del mio figlio minore. Che cosa devo fare?» Il ministro gli consigliò: «Devi allontanare tuo figlio. Affidagli un'impresa impossibile, e minaccia di ucciderlo se non torna vincitore.» Il sultano mandò a chiamare il figlio e gli ordinò: «Vai a cercare un grappolo d'uva che, dopo averne 450
mangiato io, la mia corte e l'esercito, resti intatto. Portamelo o non tornare più. Altrimenti morirai.» Il meschino, disperato, disse a sua moglie: «Non riuscirò mai a trovare uva così!» Ma lei lo tranquillizzò. «Non preoccuparti. Vai all'immondezzaio in cui mi incontrasti e di': "O figlia di mio suocero, dammi un grappolo dell'uva che sta nella pergola di tua sorella". » Il principe, l'indomani, si recò all'immondezzaio, fece come gli aveva consigliato la moglie, ed ebbe in dono un grappolo d'uva con sette acini. Lo osservò sfiduciato, dicendo tra sé: «Questo dovrebbe bastare per tutta quella gente? Impossibile!». Ma fece una prova. Si mise a mangiare l'uva. Mangiò, mangiò, mangiò. Riempì lo stomaco e il grappolo aveva sempre sette acini. Allora tornò contento dal padre. E mangiò lui, mangiarono i ministri, l'intera corte, l'esercito, e il grappolo non finì. «Visir! Voglio mia nuora! Che cosa devo fare?» tuonò il sultano. E il visir: «Chiedi a tuo figlio un tappeto così grande che possa starci tu, la corte e tutto l'esercito.» Il sultano chiese al figlio di cercarlo. «Farò come desideri» disse il figlio, che tornò a casa avvilito. «Non è andata bene la prima volta?» lo rassicurò sua moglie. «Non preoccuparti. Vai allo stesso posto e chiedi: "Figlia di mio suocero, dammi il tappeto di tua sorella".» Lui andò all'immondezzaio, ebbe il tappeto, e lo diede al padre. «Dove devo metterlo?» gli chiese. «In spiaggia» rispose il sultano. Ci andò, vi stese il tappeto, e questo diventava grande, grande, sempre più grande. Si sedette sopra un gran numero di persone, e ancora avanzava posto! 451
«Visir, visir! Che fare? Voglio assolutamente mia nuora. Trova una soluzione!» strillò infuriato il sultano. «Non ti resta altro rimedio che fare così: chiedi un bimbo appena nato, che ti racconti la storia della bugia delle bugie.» Il sultano convocò suo figlio e gli ordinò, minacciandolo, di trovare quel neonato straordinario. «Lo voglio qui fra tre giorni, o ti farò tagliare la testa.» «Padre, esiste un bambino così?» «Non so, però trovalo.» Il giovane tornò a casa disperato. «Questa volta non mi potrò salvare!» si lamentò con la moglie; ma lei, dopo averlo tranquillizzato, gli disse: «Vai all'immondezzaio, chiama mia sorella che sta per partorire, e dille: "Ho bisogno di tuo figlio perché racconti a mio padre la bugia delle bugie"». Egli giunse all'immondezzaio quando il bambino stava nascendo, e fece la strana richiesta. «Aspetta solo che lo abbia lavato» gli disse la cognata. Fatto il bagno, il bimbo si presentò da suo zio. «Benvenuto, o marito di mia zia. Tuo padre vuole un racconto bugiardo?» «Sì.» Allora, quel bambino appena nato disse alla mamma: «Madre, dammi la mazza di ferro che pesa una tonnellata.» La prese, se la mise in spalla e seguì lo zio al palazzo. Qui, la gettò al suolo, e salutò i presenti: «La pace sia con voi.» «Con te sia la pace» gli risposero, guardandolo sbalorditi. Lui raccolse la mazza e, maneggiandola senza sforzo, si rivolse al sultano con aria di sfida. «O signore del tempo, che desideri sentire una storia menzognera: ascolta. Quando mio nonno doveva sposare mia nonna, le chiesi due monete di rame. 452
«"Aspetta fino a che sposo tuo nonno" mi pregò la nonna. «"No!" mi ostinai; "le voglio ora." Me le diede. «Con una comprai una noce e pensai: "Dove vado a romperla?". La ruppi per terra, e la terra cominciò a crescere, crescere... fino all'orizzonte, e molto più lontano! Io, allora, pensai: "Che cosa seminerò in questa terra?". E mentre riflettevo, passarono due persone. «"Salute a voi" dissi. «"Salute a te. Che cosa vuoi seminare in questa terra?" mi chiesero. «"Non so." «"Potresti seminare del sesamo." Ascoltando il loro suggerimento, preparai la terra e la seminai. Poi passarono altre persone: «"Che Allah ti conceda la salute. Che cosa hai seminato?" vollero sapere. «"Sesamo" risposi. «"Peccato, peccato! Avresti dovuto seminare angurie." «Io tolsi il sesamo, seme per seme, e lo contai. Ne mancava uno. Mi misi a cercarlo. Cerca, cerca, cerca, finalmente lo trovai in bocca a una formica. Tentai di prenderlo e, tira, tira, tira, si spezzò. Dal seme spezzato, o sultano, credimi, incominciò a uscire salsa di sesamo, ma tanta e poi tanta, che ne riempii quaranta grossi barili, e ancora ne usciva. In seguito, seminai le angurie, e crebbero talmente che con due caricavo un cammello. Le vendevo e le regalavo, finché un giorno pensai: regali le tue angurie e tu non ne mangi? Allora presi il coltello per tagliarne una, e il coltello si infilò dentro il frutto; io lo seguii, mi ritrovai in un grande mercato affollato, e lo persi di vista. Lo vidi più tardi in mano a un macellaio: «"È mio!" affermai. 453
«"No, non è tuo!" replicò il macellaio. «Incominciammo a gridare, disputandoci il coltello; io presi la mazza e colpii il macellaio così...» Il bimbo si mise a dare colpi alla testa del sultano e intanto gridava: «Ma come! Cane figlio di cane, tu vuoi mia zia?» Infine, dopo averlo ben bastonato, gli tolse la corona, la mise a suo zio, e rivolgendosi ai presenti, chiese loro: «Che cosa pensate del vostro nuovo signore? Giuro sulla testa di mia zia che, se lui non vuole la corona, gli farò ciò che ho fatto a suo padre». Poi prese la mazza e se ne andò soddisfatto. Questo singolare racconto fu certo inventato per stupire gli ascoltatori. La fantasia vi regna sovrana. Le azioni e le avventure, inverosimili e meravigliose, si susseguono incalzanti e si ritrovano tutti gli elementi tipici dei racconti arabi di genere giocoso: intervento di esseri soprannaturali, metamorfosi, parodia.
NOTE 1 L'anguria, come in generale gli altri frutti con molti semi (arancia, melagrana, zucca) è un simbolo di fertilità e discendenza numerosa. 2 La freccia è il simbolo del destino; la guida che conduce l'eroe alla sua conquista eccezionale. Il rito delle tre frecce divinatorie era molto diffuso presso i beduini arabi preislamici e nell'antica Persia. La forma fallica suggerisce anche una valenza simbolica amorosa, intesa sia in senso sessuale che mistico.
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La figlia del cammello selvaggio
C'era una volta, molto tempo fa, un bravo pescatore che la sorte, un giorno, decise di perseguitare. Da allora non riuscì più a prendere un solo pesce. Una mattina, la figlia maggiore, sperando di poterlo aiutare, si offrì di accompagnarlo. Padre e figlia andarono insieme a pescare ma, ahimè, le reti rimasero vuote. «Raccogli un po' di legna» le ordinò il poveruomo; poi se ne tornarono a casa sconsolati. Il pescatore sfortunato accese il fuoco, mise a bollire dei sassi in una pentola e promise ai figli che quella sera avrebbero mangiato a sazietà. Però, l'acqua bolliva, bolliva, le pietre non si cuocevano e i bambini, stanchi di aspettare, si addormentarono a pancia vuota. Il giorno seguente, la secondogenita disse al padre che anche lei voleva andare a pesca. «No che non verrai.» «Sì che ci verrò» e fu lei che la spuntò. Si recarono al mare e gettarono le reti. Inutilmente. Di pesci neppure l'ombra. Raccolsero dei rami secchi, tornarono a casa, accesero il fuoco e misero a cuocere i sassi, ma questi rimasero duri. Si fece notte e i bambini andarono a letto senza cena. Il terzo giorno, l'ultimogenita volle accompagnare suo padre. «Portami con te» lo pregò. 455
«Non andrai né tornerai» rispose lui abbastanza nervoso. «Sì, devo tentare anch'io» ribadì la caparbia. E insisti, insisti, ottenne il permesso. La sfortuna doveva aver voltato le spalle, perché appena giunti al mare gettarono le reti e presero un pesce grosso dai riflessi d'oro e di tutti i colori. «Figlia mia, questa meraviglia è degna del re!» esclamò il pescatore; e decisero di fargliene dono. Quel re, che aveva sette mogli, al vedere lo straordinario pesce fu tanto contento che ordinò ai servi di aprire la stanza del tesoro. «Prendete tutto ciò che desiderate» disse al pescatore. La ragazza si tolse il velo che le copriva i capelli, e vi mise un po' di pietre preziose. L'uomo si tolse la tunica, la riempì di monete d'oro, e tornarono a casa felici. Rimasto solo, il re desiderò ammirare ancora una volta il pesce che i servi avevano portato, dentro un vaso di cristallo, nella sua stanza. Ma cercò di aprire la porta e non ci riuscì, perché era chiusa dall'interno. Incuriosito, guardò attraverso il buco della serratura, e si accorse che il pesce era scomparso. Nella camera c'era, invece, una fanciulla tanto avvenente che poteva dire agli astri del cielo: «Andate via. Io illuminerò la terra al vostro posto.» Lui, sorpreso e affascinato da quella bellezza, le disse: «Cara, occhi miei, apri, per favore.» «Entrerai soltanto se getterai in un pozzo profondo le tue mogli, dopo averle accecate» rispose la ragazza. Invano il re cercò di farle cambiare idea, e poiché la desiderava troppo, acconsentì a quella richiesta. Si sbarazzò delle altre mogli e sposò lei. 456
Le sette donne aspettavano tutte un figlio. Si trovavano, da qualche giorno, dentro il pozzo, quando la prima partorì. Avevano tanta fame, e non sapevano come nutrirsi, cosicché decisero di tagliare il neonato in sette pezzi e mangiarlo. La più giovane, però, conservò la sua parte. Una dopo l'altra, partorirono tutte. E ogni volta, il bambino che nasceva veniva diviso in sette porzioni e divorato. L'unica che non uccise il figlio fu proprio la più giovane. Le altre protestarono: «Abbiamo spartito con te i nostri, ora è il tuo turno». Lei prese i sei pezzi che aveva serbato, li rese alle compagne e propose: «Siamo sette, possiamo allattare questo bimbo e lui, con il permesso di Dio, un giorno potrà esserci utile». Esse accettarono, e il bambino, nutrito da sette madri, crebbe rapidamente, sano e forte. Appena fu in grado di camminare, si issò sul pozzo. Lì vicino c'era la bottega di un pasticcere; lui la vide, ci andò, entrò senza farsi notare, rubò alcuni dolci e li portò alle sue madri. Quando il pasticcere si accorse che, inesplicabilmente, la mercanzia spariva, decise di stare all'erta. Il piccolo ladro tornò ancora, e approfittando dell'apparente distrazione del bottegaio, carpì i dolci e scappò via. L'uomo lo seguì. L'acchiappò quando stava per saltare nel pozzo, e voleva bastonarlo. «Mamma, mamma» urlò il bambino. «Non fategli del male» implorò la madre. «Chi sei?» chiese il pasticcere. «Sono una delle sette mogli del re» rispose, e gli narrò la sua storia. Lui si impietosì, fece uscire le donne, le condusse a casa sua e da quel giorno le tenne con sé. Il bambino cresceva e l'aiutava nel lavoro. Una volta, la nuova regina sentì i servi che mormoravano: «Dicono che uno dei figli di sua maestà 457
vive! Quando sarà grande, di certo si impadronirà del trono!». Allora lei prese del pane secco, si mise a letto, e attese il rientro del marito. Appena lo udì che apriva la porta, incominciò a lagnarsi. «Che male le mie povere ossa! » e schiacciava il pane. «Che cosa ti succede, cara?» chiese il re, preoccupato da quello scricchiolio. «Fai venire il dottore» si lamentò la donna. Il re, sollecito, mandò a chiamare il medico, ma sua moglie saltò giù dal letto, uscì di corsa, prese una scorciatoia, e giunse per prima dal dottore. «Fra pochi minuti» gli disse senza indugio «verranno a prenderti per condurti al mio capezzale. Fingi di trovarmi gravemente ammalata e prescrivimi, per guarire, il cuore del cammello selvaggio.» «Chi dovrà cercarlo?» chiese il dottore, afferrando il sacchetto di monete d'oro che gli veniva offerto. «Il ragazzo del pasticcere» rispose lei, e scappò via. Quando il medico fu introdotto nella sua camera, la regina sembrava in fin di vita. Naturalmente, le fu prescritta la cura che aveva suggerito. Il re chiamò il giovane che era suo figlio, anche se non lo sapeva, e gli ordinò: «Portami il cuore del cammello selvaggio.» «Dove posso cercarlo, o re del tempo?» «Non lo so, per Dio! Ma vedi di trovarlo.» «Che ti succede, figlio mio?» gli chiese il pasticcere, vedendolo preoccupato, quando tornò alla bottega. Dopo aver sentito qual era la strana richiesta, gli consigliò: «Vai dal re e chiedigli un cavallo che può inseguire un moscerino, una spada che può spezzare un moscerino, un otre di vino e uno di arak.» Il figlio del re andò da suo padre, gli chiese il cavallo, la spada, il vino e l'arak 1 e tornò dal pasticcere che gli disse: «Ascoltami bene: vai per quella strada e percorrila fi458
no a che troverai un sentiero; seguilo e vedrai un albero altissimo. Non tanto alto quanto Allah, però! Sotto l'albero ci sono due abbeveratoi. In uno verserai il vino, nell'altro l'arak. Allora griderai: "Cammello selvaggio, vieni e accetta questo dono". Stai attento, figlio mio! Non devi mostrare sorpresa né paura, vedendolo arrivare. Lascia che chini il capo e beva tranquillo l'arak. Ma appena avrà messo il suo muso nel vino tu, più leggero della brezza, ti avvicinerai e lo decapiterai. Poi squarcerai il suo torace, gli strapperai il cuore, monterai sul cavallo e volerai verso casa. Sentirai inseguitori che ti chiamano con voci suadenti, bada di non voltarti, altrimenti morirai». «Farò così» annuì il ragazzo, e si mise in viaggio, dopo aver baciato la sua mano e quella delle sette madri. Cavalcò per tre giorni, e infine giunse al grande albero; mise il vino e l'arak nei truogoli e chiamò il cammello, che venne soltanto al terzo invito. Tutto accadde come gli era stato detto. Galoppava ormai sulla via del ritorno, quando sentì dolci voci che lo invitavano a fermarsi, ma non le ascoltò. Erano quaranta ginn che, riconosciute vane le lusinghe, cominciarono a gridare inviperiti: «Prendiamolo, uccidiamolo». Neppure allora si voltò. Arrivò alla reggia e consegnò il cuore del cammello selvaggio. Il re lo diede alla moglie. Lei, che aveva simulato la malattia, a quella vista, quasi si ammalò sul serio, perché il cammello, in realtà uno dei ginn più potenti, era suo padre. Trascorse qualche giorno, e la cattiva finse di essere nuovamente inferma. Si mise a letto con il pane secco, si lamentò con pianti e grida, fece chiamare il dottore, e lo avvertì di prescriverle, come cura, le pere che piangono e le pere che ridono, cercate dallo stesso giovane. 459
«Non preoccuparti!» disse il pasticcere al suo ragazzo, vedendolo turbato per il singolare incarico. «Torna dal re. Chiedigli un asino e quaranta denari. Comprerai collanine, anelli, braccialetti, creme, veli e abiti sgargianti; tutta la chincaglieria, insomma, che le giovinette adorano. Poi ti dirigerai per quel sentiero retto, lo seguirai fino a giungere davanti a una grandissima porta. Non grande però come Allah! Verrà una fanciulla nera, di tredici anni circa. Da quel momento, la tua scaltrezza ti suggerirà cosa fare.» Giunto sul posto, il finto venditore espose la sua mercanzia; quegli oggetti invitanti attrassero subito l'attenzione della ragazzina. Lei, che voleva provare tutto, lo condusse in una grande sala, tetra e misteriosa, dove quaranta lanterne mandavano barlumi tremolanti. Lui le chiese ad alta voce: «Ragazza...» «Che una scimmia ti uccida! Se i figli del mio padrone si svegliano, ti faranno a pezzi» lo interruppe, bruscamente, la ragazzina. «Che cosa sono quelle luci laggiù?» le bisbigliò, allora. «Le anime dei figli addormentati del mio signore.» «Fatti bella. Indossa questi abiti, prova i gioielli» le suggerì con voce suadente. Intanto, seguitava a curiosare. Vide una grande bottiglia chiusa. «Che cosa c'è dentro?» le chiese. «L'anima della mia padrona. La sposa del re che, per lei, accecò sette mogli e le fece gettare dentro un pozzo profondo. «E in quella?» chiese ancora, indicando una lanterna spenta. «L'anima del mio signore, il cammello selvaggio, che Dio uccida colui che l'ha ucciso. In essa è racchiuso un gran potere: versando la sua cenere in oc460
chi che non vedono essi scorgeranno nuovamente la luce.» «Fai presto, adornati» le disse allora, e intanto cercava di distrarla con le vesti appariscenti. Vide anche una piccola lanterna. «Ma in questa che cosa c'è?» «La mia anima» rispose lei, distratta, mentre si imbellettava. Lui ruppe il lume, e appena la fanciulla cadde a terra morta, fece a pezzi tutte le quaranta lanterne. Cercò poi le pere che piangono e che ridono e ne riempì una bisaccia. Infine, prese la grossa bottiglia e la lanterna magica; montò a cavallo e ripartì verso il suo paese. Mentre cavalcava, la bottiglia sballottava; e con essa anche l'anima della regina che vi era racchiusa. La disgraziata, nel palazzo, si mise a gridare: «Il mio cuore, il mio cuore!» e quando lui giunse, era già mezzo morta. Bussò al suo appartamento e le diede le pere. Appena le mangiò si mise a crescere. Si allungava e si ingrossava; finché divenne una gigantessa. Allora il ragazzo cominciò ad agitare la bottiglia e lei stramazzò al suolo. «Dammela!» lo implorava. «L'avrai solamente se farai ciò che ti ordino: arruffati i capelli, vai al centro del cortile, chiama mio padre e divoralo» le disse. La donnona obbedì. Stava per mangiare il marito, quando il figlio del re, che l'aveva seguita di nascosto, gettò a terra la bottiglia. Essa si ruppe e la regina morì. «Che cosa succede?» chiese il re. «Ho ucciso la strega per la quale accecasti le mie sette madri» rispose lui. «Dove sono le tue madri?» Gli rivelò dove si trovavano. Le donne furono portate al palazzo e guarite con la cenere della lanterna 461
che aveva custodito l'anima del cammello selvaggio. Il re cedette il trono al figlio, che nominò visir il pasticcere. Da quel giorno, vissero tranquilli, nella gioia e nell'amore, per tutto il tempo che Dio gli concesse di vivere.
NOTE 1 Acquavite di uva, aromatizzata con semi d'anice. Tipica bevanda della regione.
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Fatma la leccapiatti
C'era una volta una donna che lavorava come portinaia in una scuola, e aveva una figlia di nome Fatma. Le due erano tanto povere che per mangiare, talvolta, mendicavano gli avanzi, e tutti chiamavano la ragazza "Fatma la leccapiatti". Un giorno, il maestro disse agli scolari: «Domani andremo in campagna e pranzeremo nel prato». Fatma chiese a sua madre: «Posso andarci anch'io?» «Figlia, non puoi, perché non ho nulla da darti da mangiare.» E quelle poverette cominciarono a piangere e a lamentarsi della loro miseria. Mentre si disperavano, apparve un uomo che le apostrofò irato: «Che cosa succede? Perché non mi lasciate in pace?». «Mia figlia vuole andare in campagna, ma non ho niente da darle. Siamo due povere miserabili!» rispose la donna, singhiozzando. Allora lui propose: «Se diventi mia moglie, ci penserò io. Le darò quel che desidera». Lei acconsentì, si sposarono, e il patrigno disse alla giovane: «Ascolta, domani mattina troverai sopra la tua testa un vestito di seta, bracciali, collane e anelli d'oro. Indossali e scendi in strada. Davanti alla porta ci sarà ad aspettarti una bellissima carrozza che ti condurrà dove desideri. Quando sarai giunta a destinazione, avverti i 463
tuoi compagni: nessuno mangi ciò che ha con sé. Ci penserò io». Trascorse la notte. L'indomani Fatma si abbigliò e si adornò, entrò nella carrozza e andò al prato. Sembrava proprio una gran dama! Al suo arrivo, tutti i presenti si voltarono a guardarla. «È venuta la regina, è venuta la regina!» mormoravano ammirati. Ma una bambina la riconobbe. «Questa è Fatma la leccapiatti» disse. «Fatma è una ragazza molto povera, che mangia gli avanzi. Come può avere queste belle cose?» osservò il maestro. Però, andandole vicino, si accorse che era proprio lei! Giocarono, si divertirono, e all'ora del pranzo apparve un gran tavolo imbandito riccamente con ogni genere di carni, frutta e dolci. La figlia della portinaia invitò a quel banchetto tutti i presenti. Più tardi, mentre si lavava alla fontana, perse l'anello. I compagni l'aiutarono a cercarlo. Invano! Era scomparso. Dovete sapere che il figlio del re abbeverava il suo cavallo alla stessa fonte. Ci andò anche quella sera ma l'animale si imbizzarrì e non voleva bere. "Perché avrà paura?" si chiese il principe preoccupato. Poi, guardando nell'acqua, scorse qualcosa che brillava, e la raccolse. Era l'anello smarrito! "Oh cielo, se questo gioiello brilla così, chissà come è bella la donna che lo indossava!" pensò, ed era già innamorato. Lo portò dalla madre, e le disse: «Cerca la sua padrona». La regina lo fece provare a tutte le ragazze del regno ma per una era grande, per una era piccolo: a nessuna andava bene. La sera seguente disse al figlio: «L'hanno misurato tutte. Resta solo Fatma la leccapiatti». 464
«Che cosa aspetti? Vai a farglielo provare» si spazientì lui. Nello stesso momento, il patrigno annunciava alla fanciulla: «Domani verrà la regina con l'anello che smarristi alla fontana. Le dirai che è tuo e le offrirai i tessuti più preziosi che abbiamo in casa». La moglie del re gradì quell'omaggio, e tornò contenta al palazzo. Disse al principe: «L'anello andava bene al suo dito. Lei è bella e gentile. Diventerà la tua sposa». E il patrigno avvertì Fatma: «Domani tornerà la regina a chiederti la mano per suo figlio. Accetta e rispondile: "Sarò felice di essere anche una serva nella tua cucina". Però attenta! Se lo sposi, non dovrai rivolgergli la parola finché lui non dirà: "Per la vita di tuo padre, re dei narcisi, ti prego, parla con me". Solo allora parlerai, altrimenti si scioglierà l'incantesimo, io svanirò, e voi tornerete povere. Se ti chiederanno che cosa desideri in dote, risponderai: "Quaranta bisacce d'oro"». Il mattino seguente venne la regina, che rimase perplessa alla richiesta di una dote così esorbitante. Ma il principe, che era disposto a tutto per avere quella moglie, aprì le casse del tesoro. Vi trovò solamente venti bisacce d'oro. Allora chiese aiuto ai suoi ministri, che gliene prestarono altri venti. Il patrigno disse a Fatma: «Domani porteranno l'oro, e vorranno sapere dove metterlo. Rispondi: "Nella stalla"». Lei fece così. Intanto il principe era sempre più impaziente di impalmare l'amata, e si celebrarono le nozze. Quando la sposa giunse al palazzo, aveva con sé ottanta bisacce d'oro, diamanti, rubini, gioielli preziosi, abiti sfarzosi, tessuti di seta e una banda musicale! Furono tutti molto contenti. I due giovani erano ormai marito e moglie, ma trascorrevano i giorni, le setti465
mane, i mesi, e lei non rivolgeva mai la parola al suo sposo. Invece con la suocera e la corte conversava tranquillamente. Un giorno, il figlio del re si lamentò con la regina. «Perché non mi parla?» «Forse si vergogna» suppose la madre. «Stiamo insieme da un anno, e ancora si vergogna? Non posso più vivere con lei. Me ne vado a Istanbul e sposo un'altra» decise. Partì, e dopo alcuni mesi Fatma disse a sua suocera: «Andiamo a Istanbul. Voglio mostrarti la mia rivale.» «Figlia mia, che Allah ti protegga, lasciali in pace» rispose la regina. «No, partiamo» insistette; e la convinse. Le due donne andarono a Istanbul e si recarono a casa del principe. Furono accolte da una signora che le invitò a pranzo. Allorché fu servito un grande vassoio con frutta d'ogni genere, Fatma osservò: «Manca qualcosa.» «Che cosa?» «L'uva.» «Mi spiace, ma in questa stagione l'uva non si trova.» «Un pozzo, lo avete?» «Sì, lo abbiamo.» Fatma scese subito nel pozzo, ne risalì con quattro bellissimi grappoli di uva matura, e li diede alla sua rivale. «Tre sono per noi, e uno per il figlio di mio suocero» le disse. «Il figlio di tuo suocero! E chi è?» «Tuo marito che è anche il mio.» «Come! Aveva una moglie straordinaria, e ha sposato me!» esclamò la rivale. «Pazienza, addio» rispose Fatma. E andò via. Quando il principe vide l'uva, si sorprese. «Da do466
ve viene?» chiese alla moglie. Lei gli raccontò gli avvenimenti di quel giorno, e intanto pensava: "Di sicuro si arrabbierà, se non so fare la stessa cosa" e decise di scendere nel pozzo per cercarvi l'uva. Non risalì mai più. Allora il figlio del re tornò dalla prima sposa. Ma trascorrevano i mesi, e lei non parlava. «Ti prego, dimmi almeno una parola!» la supplicava, inutilmente. Si stancò un'altra volta di quel silenzio e partì per Beirut, in Libano. Fatma, una mattina, disse alla suocera: «Preparati, verrai con me in Libano. Voglio conoscere la mia rivale.» «Figlia mia, lasciali in pace!» «No, andiamo» si ostinò; vinse, partirono; e dopo un lungo viaggio giunsero a Beirut. Si recarono immediatamente a casa della rivale, che le fece entrare e le invitò a pranzo. Fatma, quando vide la tavola imbandita, disse: «Manca qualcosa.» «Che cosa?» «Il pesce.» «Mi spiace, non ne abbiamo» si scusò la loro ospite. Allora lei andò in cucina e ordinò al fuoco: «Fuoco, accenditi» e il fuoco si accese. Disse alla padella: «Padella, vai sul fuoco» e la padella obbedì. Disse all'olio: «Olio, vai nella padella» e l'olio ci andò. Appena l'olio diventò bollente, vi immerse le mani. Le sue dita diventarono dieci bellissimi pesci, e tornarono subito sane. «Ecco i pesci. Cinque sono per noi, cinque per il figlio di mio suocero» disse, porgendoli alla signora. «Chi è?» chiese lei. «Tuo marito, che è anche il mio.» 467
«Oh, anima mia! Come ha potuto lasciarti per sposare me?» «Pazienza. Cosa vogliamo farci? Addio.» A tarda sera rientrò il principe, vide i pesci e chiese alla moglie: «Chi li ha portati?». Lei gli raccontò tutto e, volendo dimostrargli che poteva fare altrettanto, andò in cucina e diede gli stessi ordini. Ma né il fuoco, né la padella li eseguirono, e dovette chiamare una serva. Quando l'olio bollì, ci bagnò le dita e morì. Lui tornò alla reggia. Ma si stufò ancora una volta del mutismo coniugale e ripartì. «Dobbiamo recarci a Damasco per conoscere la mia nuova rivale che aspetta un figlio» disse Fatma a sua suocera, una mattina. «Che Allah ti protegga! Perché non lasci tranquilli quei due?» la scongiurò la regina. «No, vieni con me.» Partirono; giunsero a Damasco e si recarono dalla rivale, che abitava in una casa molto alta. Fatma salì sulla terrazza, si sedette sopra un raggio di sole, con la sua luce fece due appartamenti, e disse alla rivale: «Uno per te e tuo marito, l'altro per vostro figlio.» Quando il principe vide quelle nuove abitazioni che splendevano come oro, volle sapere tutto. La poverina, per mostrargli come era successo, si sedette anche lei su un raggio di sole, ma cadde e morì. Questa volta il principe rimproverò aspramente la sua sposa muta. «Mi hai seguito la prima e la seconda volta, e hai fatto morire le mogli; la terza, anche mio figlio. Che cosa vuoi da me? Parla!» E lei zitta. «Ho deciso. Metterò una pelle davanti e una dietro, e me ne andrò per il mondo» disse allora, e partì. Fatma corse a lamentarsi dal patrigno. «Il mio sposo va per il mondo. Non lo vedrò più!» gli disse. 468
«Torna a casa e lascia fare a me» la rassicurò lui; e uscì per cercare il principe. Come lo vide gli andò incontro e gli chiese: «Che cosa succede? Perché vuoi andartene? Non sei soddisfatto di tua moglie?» «Per carità! Non voglio più sentir parlare di mogli. Mi faccio derviscio» rispose lui. «No, aspetta! Dimmi: cosa succede? Forse posso aiutarti.» Il meschino raccontò tutto, e concluse sconsolato: «Siamo sposati ormai da tre anni, e non ha detto una parola». «Ti aiuterò. V?i a casa, ammazza due agnelli, e ordina a tua moglie di arrostirli perché hai invitato a pranzo il visir. Ma bada! Né tua madre né le serve devono aiutarla. E nascondi il sale, il pepe e lo zafferano.» Lui fece così. Fatma si mise a cucinare; e quando si accorse che mancavano il sale e le spezie, comandò alle caraffe vuote: «Caraffe, venite qui.» «Sì, signora» risposero le caraffe. «Tu vai a comprare il pepe, tu il Scile, tu lo zafferano. » Le caraffe, rotolando, andarono al mercato. Passarono davanti alla moschea mentre il principe ne usciva. Proprio in quel momento a una di loro si ruppe il manico ed esclamò spaventata: «Ahi! mi si è rotto il manico; ora la padrona mi ammazza.» «No che non ti ammazza. Figurati che il figlio del re è sposato con lei da tre anni, e ancora non gli ha fatto niente. Se poi volesse davvero ammazzarti, dille: "Per la vita di tuo padre, re dei narcisi, non uccidermi, perdonami!". Sai che se il marito le rivolgesse queste parole, parlerebbe?» Lui sentì tutto; corse dalla moglie e la implorò: «Ti prego spiegami una 469
buona volta perché non parli. Di' qualcosa, per la vita di tuo padre, re dei narcisi!». Finalmente, dopo essere scoppiata in una gran risata, Fatma parlò! «Ringraziamo le caraffe. Perché se non fosse stato per loro non avresti mai imparato.» Da quel momento vissero insieme sempre felici. Nonostante gli ambienti esotici, le situazioni e i dialoghi tipici della società orientale, la vicenda è quella di Cenerentola, la protagonista di una delle più belle fiabe conosciute in Occidente. Le sue origini comunque sono asiatiche. Questa è una delle tante versioni che si narrano in Siria. Può considerarsi una "Cenerentola"anche "La figlia del sole" dove l'elemento che desta la passione del principe non è un oggetto abbandonato ma una voce splendida e misteriosa.
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La figlia del venditore di fave
C'era una volta un venditore di fave che aveva una figlia bella e intelligente, e c'era anche un re che aveva un figlio bello e intelligente. La ragazza lavorava da una sarta. Un giorno, andando al lavoro, si incontrò con il figlio del re che usciva di casa. Lui la salutò beffardo. «Buongiorno, o figlia del venditore di fave.» «Buongiorno, o figlio del re.» «Che cosa hai mangiato a colazione?» «Pane e fave, che Allah protegga il suo Profeta, o cane figlio di un cane.» «Io sarei figlio di un cane?» «Se non fossi un cane figlio di cane, non importuneresti le ragazze di buona famiglia.» «Vedrai, vedrai!» la minacciò lui. «Fai quel che vuoi» lo sfidò lei. Il principe, allora, fece riempire una grande cassa di frutta secca, bruscolini e dolci, e la portò in dono alla sarta. Le diede anche dieci monete d'oro. In cambio le chiese: «Di' alla figlia del venditore di fave che oggi lavorerete fino a tardi, e falla dormire da te.» Poi, finse di allontanarsi, ma invece si nascose dentro il baule. Quella notte, quando la vide sbadigliare per la stanchezza, la sarta disse alla ragazza: «Prendi un po' di frutta secca da quella cassa». 471
Lei vi infilò la mano, e il figlio del re si mise a pizzicargliela. «Padrona, padrona, non sei né palma da dattero né insetto, e hai in casa cose che pizzicano e mordono!» esclamò lei. «Occhi miei, saranno formiche rosse» rispose la padrona. La mattina dopo, i due giovani si incontrarono nuovamente. «Buon giorno, figlia del venditore di fave» disse il figlio del re. «Buon giorno a te, figlio del re» rispose la figlia del venditore di fave. «Che cosa hai mangiato, oggi?» «Pane e fave. Che Allah protegga il suo Profeta. O cane figlio di cane; come osi rivolgere la parola per strada a una figlia di buona famiglia?» «Padrona, padrona! Non sei palma da datteri né insetto, e hai in casa cose che mordono e pizzicano?» si burlò lui. «Ah, figlio del re! Mi hai avuto.» «Sì, ti ho avuta e ora fai ciò che vuoi.» Quella stessa notte, la figlia del venditore di fave indossò dei pantaloni corti, si dipinse le gambe e le braccia di rosso, nero, verde e giallo, coprì il capo con un berretto, mise un sonaglio alla cintura, andò al palazzo del re, e si introdusse nella stanza del principe, che dormiva. Gli salì sul petto e cominciò a saltare, dimenarsi e strepitare come uno spirito maligno, facendo tintinnare il sonaglio. «Chi sei, in nome di Dio!» balbettò, terrorizzato, il figlio del re, svegliandosi. «Taci!» «Ti supplico, dimmi chi sei.» «Sono Azraele1 e vengo a prendermi la tua anima.» «In nome di Dio misericordioso! Lasciami il tempo per dire addio a mia madre e alla mia famiglia.» 472
«No. Non puoi salutare nessuno. Devi morire ora» disse la ragazza, continuando a dimenarsi. Il poveretto svenne per lo spavento. L'indomani si incontrarono ancora. «Buon giorno, figlia del venditore di fave.» «Buon giorno a te, figlio del re.» «Che cosa hai mangiato questa mattina?» «Pane e fave. Ti supplico, Azraele, lasciami il tempo per dire addio a mia madre e alla mia famiglia!» lo derise lei. «Ah, figlia del venditore di fave, mi hai avuto!» disse lui, infuriato. Però chiese alla regina sua madre di farlo sposare con quella ragazza. Le nozze furono celebrate in grande pompa. Il giorno dopo, la sposa preparò la tavola per il pranzo. «O figlia del venditore di fave, dimmi: cos'è che rende più bella la tavola?» le chiese il principe. «I piatti e le posate, o mio signore.» «Che cosa fa più bello il cielo?» «La luna e le stelle.» «Che cosa adorna di più la donna?» «I figli.» «Ebbene, che possa morire di rabbia, tu non avrai alcun figlio da me. Domani sposerò un'altra.» «Oh, marito mio, che Allah ti conceda la sua misericordia!» In quel momento, chiamarono alla porta. Era il re, che ordinò al figlio: «Recati immediatamente a Tiro, in Libano.» «Ah, certo tu sei più fortunata di me. Devo andare a Tiro» si lamentò lui, e partì. Lei avvertì la suocera: «Signora, per quaranta giorni non cercarmi; ho mal di testa, e mi chiudo in casa». Invece radunò quaranta ragazze vestite da guar473
die, quaranta tende, quaranta cavalli, tutto il necessario per un esercito, e seguì il marito. Lo raggiunse dopo alcuni giorni, e fece allestire l'accampamento vicino al suo. Il figlio del re lo vide, e ordinò a una guardia di scoprire chi fosse il nuovo arrivato, e se veniva in pace o aveva intenzioni ostili. Il soldato gli disse che si trattava di gente pacifica. Allora lui mandò un messaggero per invitare il capo a rendergli visita. Lei venne abbigliata da gran signore. «Io sono Saladino» si presentò il figlio del re. «E io Adnan» rispose sua moglie. «Che ne pensi di una partita a scacchi?» propose Saladino. «Ci sto, se il vincitore avrà in compenso la donna più bella del rivale.» Giocarono, e lei lo lasciò vincere. Al termine della serata si congedò promettendogli: «Manda una guardia e avrai la mia donna più avvenente». Poi fece ritorno all'accampamento, indossò un bellissimo abito, nascose, con un velo, il volto e i capelli e tornò dal marito. Rimase con lui tre notti e tre giorni. L'ultima notte, gli rubò un bracciale e partì. Al tempo giusto, partorì un figlio che chiamò Tiro. Quando suo marito tornò dal Libano, lei apparecchiò la tavola, e lui le chiese: «O donna, che cosa fa bella la tavola?» «I piatti e le posate.» «Che cosa rende più bello il cielo?» «La luna e le stelle.» «Che cosa, o moglie mia, adorna di più una donna?» «I figli intorno a lei.» «Che possa morire di rabbia! Tu non avrai mai un figlio da me. Domani sposerò un'altra.» In quel momento giunse il re. 474
«Figlio, preparati a partire oggi stesso per Istanbul» gli disse. Il figlio del re partì, e la moglie si preparò a raggiungerlo, facendo alcuni cambiamenti perché lui non capisse che si trattava delle persone della volta precedente. Tutto si svolse alla stessa maniera. Si incontrarono, cenarono, si sfidarono agli scacchi, lei lo fece vincere e trascorsero tre notti e tre giorni insieme. L'ultima sera, mentre dormiva, gli prese un fazzoletto, e prima dell'alba partì. Dopo nove mesi partorì un altro maschio, che chiamò Istanbul. I bambini crescevano belli e forti. Un giorno, Saladino rientrò, e lei preparò la tavola. Come al solito, lui le chiese: «Che cosa rende bella la tavola?» «I piatti e le posate.» «Che cosa fa bello il cielo?» «La luna e le stelle.» «Che cosa fa bella una donna?» «I figli.» «Che possa morire di rabbia! Non avrai mai da me un figlio. Domani sposerò un'altra. «Che Allah ti protegga!» rispose, sorridente. Proprio allora, entrò il re. «Preparati, figlio mio: devi recarti a Badra» 2 gli disse. «O figlia del venditore di fave. In verità, tu hai più fortuna di me!» esclamò il principe con disappunto, e andò via. Partì anche lei, vestita da uomo e con il suo seguito, e lo raggiunse sulla strada per Badra. Fece allestire l'accampamento accanto a quello del marito. Venne la solita guardia in ricognizione, cenarono, lei perse agli scacchi e riuscì a trascorrere lietamente 475
con il suo sposo tre giorni e tre notti. Questa volta gli rubò un anello. Dopo nove mesi, partorì una bella bambina che chiamò Budur. 3 Quando tornò suo marito, apparecchiò la tavola, e lui le chiese: «Che cosa è più decorativo per la tavola?» «I piatti e le posate.» «Che cosa rende il cielo più bello?» «La luna e le stelle.» «Che cosa è più bello nella donna?» «La donna medesima, adornata dai figli.» «Che possa morire di rabbia! Non ti darò mai un figlio, e domani sposerò un'altra.» «Che Allah abbia compassione di te» rispose tranquilla. Quel giorno, il re non venne con nuovi ordini, così Saladino pensò, contento, che era giunto il momento della vendetta. Chiese a sua madre di fargli sposare la figlia del visir, e le nozze furono stabilite per il giorno seguente. Quando portarono la promessa sposa al bagno reale, la figlia del venditore di fave disse a Tiro, Istanbul e Budur: «È giunta la vostra ora» e consegnando loro il bracciale, il fazzoletto e l'anello del padre, gli consigliò che cosa dovevano fare. Tiro, Istanbul e Budur andarono dalla figlia del visir, che si faceva bella con l'aiuto delle sue damigelle, e cominciarono a molestarla. Lei si arrabbiò e strillò. A quello strepito, accorse la regina per cacciare i bambini, ma questi le dissero: «Questa è la casa di nostro padre. Perché vuoi mandarci via?» «Vostro padre!» esclamò lei, sbalordita. «Certo; e nostra madre, che è sua moglie, vive qui al piano di sopra.» 476
In quel momento sopraggiunse Saladino, sentì tutto, e anche lui volle sapere. «Perché siete qui? Chi è? Dov e vostra madre? Che cosa...» chiese. Ma all'improvviso si interruppe, interdetto. Non fece più domande e non attendeva più risposte. Aveva visto indosso ai figli gli oggetti che gli appartenevano! «Quelli sono figli miei?» chiese alla moglie. «Certo, questi sono i figli che tu mi hai dato, quando ti seguii a Tiro, Istanbul e Badra» rispose lei. «O figlia del venditore di fave, tu sei più scaltra e intelligente di me!» le disse il principe con ammirazione, e corse a rendere la dote alla figlia del visir. Da quel giorno visse felice con sua moglie. 4
NOTE 1 Per l'Islam è l'angelo della morte. 2 In Iraq. In epoca medievale era un centro intellettuale di rilievo, come documentano fonti siriache e geografi arabi. Il re persiano Cosroe I vi stabilì una colonia per i prigionieri di guerra provenienti dalla Siria del Nord. Attualmente è un villaggio agricolo. 3 Plurale di Badra; significa "luna piena". 4 Cfr. Boccaccio, Decamerone, III, 9, "Giletta di Nerbona".
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Il mercante di Damasco
Molto tempo fa, viveva a Damasco un grande commerciante. Un giorno, accorgendosi che stava per morire, chiamò suo figlio. «Voglio darti un'avvertenza. Sposa soltanto la donna che vale il suo peso in oro» gli disse, e subito morì. Poco tempo dopo la morte del padre, il giovane decise di prendere moglie. Si guardò intorno, trovò una che gli piacque, e andò dai genitori di lei a chiedere la mano. «Quanto volete in dote?» chiese ai parenti della prescelta. Essi proposero una quantità modesta di denaro, e lui rinunciò alla fidanzata. Cerca, cerca, finì per trovare un'altra di suo gusto. «Che cosa volete in dote?» chiese ai genitori della fanciulla. «Il suo peso in oro» risposero, decisi. «Bene! Ho trovato la sposa giusta per me» assentì, soddisfatto. Tornò a casa, raccolse tutti i soldi che possedeva, e li pesò. Mancavano alcuni chilogrammi. Che fare? Aveva ricevuto in eredità dal padre una grossa fortuna, che però era impegnata in affari di commercio con importanti mercanti del Libano, e aveva molte cambiali da riscuotere, ma non il tempo sufficiente per recarsi a Beirut prima delle nozze. Infine, decise di risolvere la situazione chiedendo 478
un prestito al vicino ebreo che faceva l'usuraio, e andò da lui. «Buon giorno, puoi farmi un favore?» gli disse. «Certo! Che cosa desideri?» «Ho bisogno di due chilogrammi d'oro. Me li presteresti per un po' di tempo?» «D'accordo! Ma a una condizione. Se non li renderai nel giorno convenuto, al loro posto dovrai darmi due chilogrammi di carne della tua coscia.» 1 Il mercante acconsentì, ebbe il denaro, portò la dote a casa dei suoceri, e si celebrarono le nozze. Trascorse un mese. Un giorno, disse alla moglie: «Vado a Beirut per affari. Attendimi, tornerò presto» e partì. Appena giunto in questa città, si recò dai soci del padre. Raccontò della morte del genitore, delle nozze, del prestito da rendere, e chiese il suo denaro. Gli scaltri commercianti libanesi capirono di trovarsi davanti a un giovane inesperto e un po' ingenuo, e decisero di sfruttare la situazione a loro vantaggio. «Chi hai sposato?» gli chiesero. E quando disse il nome della moglie, lo canzonarono: «Non hai trovato una peggiore?». Poi uno dei compari aggiunse: «È di facili costumi ed è anche la mia amante. Anzi, pochi giorni fa sono stato con lei». Il meschino gli propose: «Che ne dici di una scommessa? Io ti darò la prova della mia sincerità. Se ho ragione, non ti pagheremo il debito. Se, invece, la tua sposa è onesta, avrai il doppio della somma». Lui acconsentì, e decisero di vedersi il giorno dopo. L'intrigante fece sellare un cavallo veloce, e partì per Damasco. Vi giunse che era sera, e si recò subito a casa di una conoscente. Lì, si nascose in un grande baule che aveva portato con sé, offrì alla donna dieci monete d'oro, e le chiese di portarlo dalla moglie del 479
mercante, che abitava nelle vicinanze, spiegandole che cosa doveva fare. Lei ci andò subito. «La pace sia con te, cara vicina. Posso chiederti un favore? Parto in pellegrinaggio per la Mecca, e non vorrei lasciare questa cassa incustodita. Non vorresti tenermela?» le disse. La giovane signora acconsentì di buon grado, e fece trasportare in camera da letto il grosso baule. Trascorsero alcune ore, e l'amica del libanese tornò a bussare. «Signora mia, un imprevisto mi impedisce di partire, così fra poco verrà un garzone a riprendere il baule. Grazie!» Quando il mercante sentì la complice che intratteneva la padrona di casa, uscì svelto dal nascondiglio. Cercò l'abito più elegante del marito di lei, lo prese, si mise nuovamente nella cassa, e attese che venissero a prenderla. Il giorno seguente, era di ritorno a Beirut. E il povero mercante damasceno, vedendo il socio del padre con l'abito che aveva indossato per le nozze, si rammaricò: «Che stupido! Ho offerto il suo peso in oro a una che mi tradisce con il primo che incontra». Distrusse le cambiali e se ne andò. Ormai era povero; non poteva tornare a casa. Decise di restare a Beirut, dove trovò lavoro, come garzone, in un caffè. Passarono i giorni, le settimane, e la povera moglie cominciò a preoccuparsi del marito che non tornava. Infine, non potendo più attendere, decise di partire per il Libano. Si vestì da uomo e andò a casa dei mercanti. 2 «Ho molto denaro da investire. Voi mi siete stati suggeriti come soci affidabili da un collega con cui ho convenuto di incontrarci qui» disse, menzionando il suocero. «È morto!» 480
«Che sventura! Come l'avete saputo?» «Suo figlio è stato da noi.» «E ora dove si trova?» «Non sappiamo. Ci ha pagato dei debiti, e non lo abbiamo rivisto.» A quelle parole capì che mentivano, ma decise di stare al gioco. Discussero affari tutto il giorno, e la sera, per festeggiare, li invitò in una grande trattoria. Fece servire cibi prelibati e bevande in grande quantità. La prospettiva di ingenti guadagni rendeva euforici i mercanti. Bevvero tanto che si ubriacarono. Lei allora, con domande appropriate, strappò la verità a quei furfanti. Mentre erano storditi dall'arak, li indusse a firmare delle cambiali per il doppio della somma che dovevano. L'indomani li costrinse a pagare i debiti, e a restituire il vestito che avevano rubato. Stava lasciando la città, quando vide suo marito alla porta di un caffè. Entrò, gli chiese da bere, e pagò quattro volte il prezzo giusto. Lui non la riconobbe, perché indossava ancora abiti maschili. Anche il giorno seguente tornò a bere il caffè, e pagò cinque volte il prezzo giusto. Il marito consegnò i soldi al suo padrone, che gli disse: «Sai trattare i clienti. Ti aumento il salario.» «Ti offrirò il doppio, se lavorerai per me» replicò sua moglie. Lui accettò. Le prese il sacco, e la seguì a Damasco. Quando giunsero nelle vicinanze del quartiere dove abitavano, lei gli disse: «Aspettami qui. Torno subito.» Ma non tornò. Trascorsero le ore, giunse la notte, e il poveruomo era stanco di aspettare. Non sapeva che cosa fare. Infine, decise di rientrare a casa. 481
La moglie, vedendolo, finse sorpresa e sollievo, e lo subissò di domande. «Sei tu?! Finalmente! Dove sei stato? Perché questo ritardo?» «Dov'è il mio abito da sposo?» le chiese, sgarbato. «In camera da letto!» Andò a controllare, e naturalmente non lo trovò. Fu aprendo il sacco che lo vide, e restò interdetto. La moglie prese allora un grosso bastone e lo minacciò: «O parli o ti rompo le ossa.» Preferì raccontare la sua triste avventura. Allora lei, ridendo, gli raccontò tutto. «Appartengo a una famiglia onorata. Tu mi hai comprato a peso d'oro, e non potrei mai tradirti» concluse. Fecero la pace. Restava però un grosso problema da risolvere: il debito con l'usuraio. Ormai era trascorso il termine prefissato! Ci andarono insieme. «Benvenuti! Che cosa mi avete portato?» chiese, tutto contento, l'ebreo. «Due chilogrammi d'oro» gli rispose il mercante. «Eh no, caro vicino! Il patto era che, se avessi tardato nel pagamento, io avrei preso in cambio la carne del tuo corpo!» «Fai pure» intervenne la moglie. Ma quando l'ebreo stava per calare il coltello sulla coscia del marito tremante, lei gli afferrò il polso e gli sollevò il braccio. «Bada bene! Stabilisti un solo pezzo da due chilogrammi. Ora io ti avverto: se dovessi tagliare più o meno del peso fissato, la differenza la prenderò dal tuo corpo!» 3 lo ammonì. «Per carità! Non voglio più tagliare niente. Datemi l'oro che mi spetta e andate in pace» esclamò l'ebreo, impaurito. I due sposi saldarono il debito, e da quel giorno 482
vissero felici e contenti. Lei gli insegnò a essere più prudente e avveduto, e lui ebbe successo negli affari. Poco a poco siamo giunti alla conclusione del nostro racconto. La favola è terminata. Era bella o insignificante?
NOTE 1 SHILOCK: «If you repay me not on such a day [...] let the forfeit / be nominated for an equal pound / of your fair flesh...» (Se in tal giorno non mi restituite [...] che la penale sia fissata esattamente in una libbra della vostra bella carne), William Shakespeare, II mercante di Venezia, atto I, scena III. 2 Cfr. Boccaccio, Decamerone, II, 9. "Bernabò da Genova". Sono simili il tema del mercante a cui si calunnia la moglie e alcuni degli espedienti dell'intreccio: 1. La scommessa; 2. L'uomo che con la complicità della vicina, nascosto in una cassa, finisce nella camera da letto della donna; 3. Il travestimento. 3 PORZIA: «The words expressly are "a pound of flesh". [...] nor cut thou less nor more / but just a pound of flesh. If thou tak'st more / or less than a just pound...» (Dice espressamente "una libbra di carne". [...] non tagliarne né più né meno d'una libbra esatta. Se prendi più o meno d'una libbra...), William Shakespeare, II mercante di Venezia, atto IV, scena I.
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L'indomita
Molto tempo fa, accaddero sulla terra tante cose; si succedettero le epoche e gli avvenimenti. Un giorno, iniziò anche questa storia. C'era la figlia di un re: la chiamavano "La-signora-che-il-tempo-non-riesce-aumiliare" perché sapeva volgere tutte le situazioni a suo vantaggio. Il figlio del re di un altro regno, anche lui molto fiero e intelligente, ne sentì parlare, e decise di umiliarla come lei era solita fare con tutti. Un giorno, si mise in viaggio alla ricerca del paese in cui viveva e del palazzo dove abitava. Cerca, cerca, infine li trovò. Dopo essersi travestito da mercante, si fermò davanti al castello ed espose la sua mercanzia. Tra gli oggetti, spiccava una vite preziosa con i grappoli d'oro, che attrasse immediatamente l'attenzione della principessa. «La voglio» disse alla dama di compagnia. «Vai, e comprala a qualsiasi prezzo.» La donna andò dal commerciante. «Quanto costa?» gli chiese. «La vendo solo per un'occhiata alla tua padrona» rispose lui. E la figlia del re ordinò alla prima damigella del seguito: «Copriti il volto e presentati al posto mio». Così ottenne la vite pregiata. Una mattina, il giovane espose una chioccia e dei pulcini in oro zecchino. «La voglio, costi quel che 484
costi!» disse la figlia del re alla dama di compagnia, che si recò dal commerciante a chiederne il prezzo. «La signora potrà averli se mi concede uno sguardo ai suoi capelli.» Lei inviò la seconda damigella, che aveva una folta chioma setosa. Lui l'ammirò, e le diede la gallinella e i pulcini. Dopo qualche giorno, la principessa, affacciandosi alla finestra, vide che il ricco venditore aveva messo in mostra un vestito straordinario: lo ornavano centinaia di diamanti, smeraldi, rubini, turchesi e topazi. Inviò ancora una volta la solita dama a chiederne il costo. «Le gemme di quest'abito valgono almeno una notte con la tua padrona.» «Accetto» consentì lei, quando conobbe il prezzo che doveva pagare. «Ma a una condizione» gli fece sapere. «Dovrai arrivare al buio, e andare via prima dell'alba» e ordinò alla terza damigella di sostituirla nel suo letto. Il giorno seguente, il re tornò da un lungo viaggio. Il principe si tolse il travestimento, si presentò a corte, e gli chiese: «Potrei avere la mano di tua figlia? Mio padre è un tuo collega.» Il sovrano accettò felice, perché già disperava di poter accasare quella ragazza così altera. Pretese, e ottenne in dote, sette cammelli, sette forzieri colmi d'oro e sette schiavi. Si celebrarono le nozze, e gli sposi partirono. «Finalmente potrò umiliare e sottomettere questa donna arrogante, che ha pensato di avermi ingannato, facendosi sostituire dalle serve» pensò lui, soddisfatto. Mentre erano in cammino, le comandò: «Esci dalla carrozza e siediti al posto del cocchiere». Lei obbedì senza dir niente. Quando infine giunsero alla reggia, la ripudiò, la fece sposare con uno schiavo nero e, lo stesso giorno, prese in moglie sua cugina. 485
La-signora-che-il-tempo-non-riesce-a-umiliare non si perse d'animo. Prese da parte la nuova sposa del principe, e le mostrò la vite preziosa, la gallina con i pulcini d'oro zecchino, l'abito tempestato di gemme, il tesoro dei forzieri, i cammelli e gli schiavi, dicendole: «Tutto questo ti apparterrà, se mi farai dormire, di nascosto, con tuo marito, e tu prenderai il mio posto con il servo». Lei, avida, acconsentì. Le due donne rimasero incinte, e quando fu il momento, la principessa partorì un bambino bianco, e l'altra uno nero. Il figlio del re allora comprese tutto, e ammirò quella donna intelligente e fiera. «In verità, il nome che porti ti conviene!» le disse, e la supplicò di sposarlo nuovamente. Le nozze furono celebrate con gran pompa.
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La figlia del sarto
C'erano una volta due fratelli: uno era sarto e l'altro sultano. Il sarto aveva una figlia bellissima e intelligente, che ogni mattina si vestiva da uomo e andava al tribunale per conoscere le notizie del paese. Il sultano aveva un figlio che voleva prendere moglie. Un giorno il ragazzo chiese consiglio al visir: «Che ne pensi di mia cugina?» In verità, a lui la ragazza piaceva molto, ma il visir desiderava che sposasse sua figlia, cosicché tentò di dissuaderlo. «Non ti vorrà, perché è più ricca di te» gli disse. «Ma io sono il figlio del sultano!» «In ogni caso, il padre non accetterà.» «Ti prego, trova una soluzione.» «Signore, ce ne sarebbero due: o esigere da tuo zio qualcosa di irrealizzabile e minacciarlo che se non riesce morirà, oppure inviarlo lontano ad affrontare un'impresa da cui non possa tornare.» Mandarono subito a chiamare il sarto, gli mostrarono una colonna di pietra che si trovava in giardino, e gli ordinarono di farne una camicia. Il poverino tornò a casa sconsolato e raccontò tutto a sua figlia, che gli consigliò: «Raccogli tre pietre, portale al figlio del sultano e chiedigli di fabbricare con la prima pietra una forbice, con la seconda un ditale e con la terza un ago. Digli che ne hai bisogno per la camicia». 487
«Ciò che chiedi è assurdo!» esclamò il nipote al sentire quella stranezza. «E io senza questi oggetti non posso confezionarti la camicia da una colonna.» Intervenne il visir, e gli ordinò di cercare le rose che piangono e ridono. «Chi ha la lingua in bocca non si dispera» disse la figlia del sarto, sentendo quella nuova richiesta. Prepararono il necessario per un lungo viaggio, ed egli partì. Appena il visir lo seppe, suggerì al figlio del sultano: «Avverti tua cugina che desideri cenare a casa sua.» Lei gli mandò a dire che lo attendeva, e preparò in suo onore un ricco banchetto. Il cibo era molto buono e il giovane mangiò fino a cadere addormentato. La ragazza lo mise a letto e andò a dormire in un'altra stanza, chiudendosi dentro a chiave. L'indomani mattina, appena svegliato, lo fece uscire. Poi si vestì da uomo e lo seguì di nascosto. Nella piazza c'era il visir che, come lo vide, gli corse incontro per rallegrarsi con lui. «Perché ti congratuli?» gli chiese il giovane; e raccontò come si erano svolti i fatti. «Ti dico che non è degna di te» insisteva il visir. «Questa sera, mandale a casa quaranta bricconi. Sicuramente saranno per lei una buona compagnia.» La cugina, che aveva ascoltato tutto, andò al suk a comprare quaranta ragazze, se le portò a casa e ne mise una in ogni stanza. Poi si vestì da guardia, prese un fucile, e sedette davanti all'ingresso. Quando arrivarono i quaranta furfanti, li fece entrare nelle stanze dove si trovavano le ragazze, dicendo a ognuno: «La figlia del sarto ti riceverà». Infine chiuse le camere a chiave e scrisse i loro nomi sulle porte. Lei dormì in cucina. L'indomani mattina aprì le porte, fece uscire tutti, e si recò come al solito al tribunale. Nel frattempo, il figlio del sultano, convocati i qua488
ranta uomini, chiese loro con chi avessero trascorso la notte. Ognuno giurava di aver dormito con la figlia del sarto. Le quaranta ragazze rimasero tutte incinte, e desiderarono delle mele. Lei, allora, si recò nel giardino del sultano, e chiese al giardiniere di farla entrare a cogliere la frutta. Raccolse le mele, tagliò l'albero e se ne andò. Quella sera, mentre passeggiava nell'orto, suo cugino vide l'albero abbattuto. «Chi ha tagliato l'albero?» chiese al giardiniere. «Lo ha tagliato una ragazza tanto bella da superare ogni immaginazione» rispose lui. «Se dovesse tornare, puoi legarla?» «Sì.» Il giorno seguente, lei tornò, e, vedendo la corda, esclamò: «Hai una corda? Dai! legami». Il giardiniere, tutto contento, si mise a legarla, ma un grido di dolore della ragazza lo fermò. «Mi fai male! Non sai legarmi. Aspetta che ti insegno io.» Lui si sedette docile, lei lo legò per bene, lo spinse sotto un albero, raccolse le mele e partì. Quando il figlio del sultano vide il giardiniere legato, gli disse: «Ti avevo ordinato di legarla, non di farti legare!». Nel giardino c'era anche una casa. Il figlio del sultano fece appendere un bellissimo quadro alla parete di fronte alla porta d'ingresso e ordinò al giardiniere: «Quando torna la ragazza, fai in modo che passi qui davanti. Se entra per ammirare da vicino il quadro, chiudila dentro». Il terzo giorno, le quaranta ragazze chiesero ancora mele, e la figlia del sarto acconsentì, per l'ultima volta, a coglierle per loro. Quella sera nel giardino c'era aria di festa, anzi di magia, con l'edificio tutto illuminato in mezzo agli alberi. «C'è una iena in quella stanza!» disse al giardiniere. 489
«No, è solo un dipinto» rispose lui. «Non ti credo, entra e toccala. Se non ti morde, verrò ad ammirarla da vicino.» L'uomo entrò: lei, svelta, chiuse la porta e gettò la chiave tra l'erba. Quando giunse il momento, le quaranta ragazze partorirono quaranta figli maschi. La figlia del sarto mise sulla veste di ogni bimbo un foglio di carta dove erano scritti il nome del padre e queste parole: "Sappi, o figlio del sultano, che i padri di questi bambini sono le quaranta canaglie che tu mandasti a casa di tua cugina. Essi dormirono con quaranta ragazze che erano state comprate al suk. I bimbi sono costati molto denaro. Chi deve pagare tutto è il tuo visir e nessun altro". Portò i quaranta bambini nel giardino, li dispose intorno alla fontana e andò via. Rimasti soli, i piccoli si misero a piangere tutti insieme. Il figlio del sultano li sentì, scese a vedere, trovò i messaggi, li lesse, e costrinse il visir a pagare tutte le spese. Il visir pagò, ma decise di vendicarsi. Un giorno propose al suo padrone: «O signore, sposa mia figlia così tua cugina si ingelosirà. Però, giurami che sarà lei a occuparsi del vostro matrimonio». Furono decise le nozze, e la figlia del sarto acconsentì a preparare i festeggiamenti. Mentre nel paese del sultano si svolgevano i fatti narrati fin qui, suo fratello il sarto viaggiava da una città all'altra. Un giorno capitò in una casa dove c'era una ragazza che lo accolse con queste parole: «Benvenuto, padre, come stai? Come sta mia sorella?». Lui pensò: "Che strano, ho una figlia e non lo sapevo! Da dove mi viene?" e le chiese: «Per caso non hai rose che piangono e che ridono?». «Io no, però è possibile che le abbia mia sorella.» «Dove abita tua sorella?» 490
«Prendi questo gomitolo, ti indicherà la strada: basta che lo segui. Ma per favore, al ritorno passa da me, perché voglio mandare un regalo a mia sorella.» Si salutarono, e l'uomo seguì il gomitolo, che lo condusse a un'altra casa. Bussò, e aprì una bella fanciulla. «Benvenuto, padre, come stai, come sta mia sorella?» gli chiese. Tutto si svolse esattamente come la prima volta. Anche lei non aveva rose, ma gli diede un gomitolo e lo pregò di tornare. Giunto alla terza casa, gli aprì ancora una volta una ragazza: «Benvenuto padre, come stai, come sta mia sorella?» «Bene. Per caso non hai rose che piangono e che ridono?» Lei disse: «Sì, ne ho. Erano quattro, ma due le ho date a un ginn. Tieni, queste sono per te e questi sono dei regali per mia sorella» e gli consegnò una tunica tempestata di diamanti e una gallina con i pulcini anch'essi di diamanti. Al ritorno, passò dalla seconda ragazza, che gli offrì in regalo, per la figlia, una tunica intessuta di fili d'oro e una gallina con i pulcini d'oro. La terza fece gli stessi doni in argento. Il sarto riprese il cammino e quando giunse a casa mancavano pochi giorni alle nozze del nipote con la figlia del visir. Portò al palazzo le rose che piangono e ridono e lo informarono che sua figlia curava i preparativi per la festa. Questa festa doveva durare tre giorni. Il primo giorno, la figlia del sarto indossò la tunica d'argento e la gallina e i pulcini d'argento si misero ad andarle intorno. La vide la figlia del visir, si ingelosì e le disse: «Queste cose non ti stanno bene, sicuramente a me andrebbero meglio.» 491
«Ascolta, te le regalo, e tu questa notte dormi nella mia stanza.» La presuntuosa accettò. Il mattino seguente, la figlia del sarto tornò al tribunale e sentì il visir che consigliava a suo cugino: «Manda una canaglia a dormire con lei.» Rientrò al palazzo, indossò la tunica d'oro, e la gallina e i pulcini d'oro la seguirono. «Queste cose non ti stanno bene, sicuramente a me starebbero meglio» osservò invidiosa la figlia del visir; e per averle accettò di dormire al suo posto. Durante la notte, una canaglia le entrò nel letto. Il giorno dopo, quando era nel tribunale, la figlia del sarto sentì il figlio del sultano e la canaglia che parlavano tra di loro. «Dove hai dormito la notte scorsa?» chiese il primo. «Nel palazzo, con tua cugina» rispose l'altro. «Non ti credo. Prendi questa forbice, e se dormirai ancora con lei, tagliale una ciocca di capelli e imprimile questo sigillo in fronte.» La ragazza tornò al palazzo, indossò la tunica con i diamanti, e la gallina e i pulcini di diamanti le andarono intorno. Appena la figlia del visir vide quelle cose meravigliose, desiderò averle. E la cugina del suo fidanzato le disse: «Saranno tue, se anche questa notte dormirai al mio posto». La futura sposa acconsentì. Di notte, venne la canaglia. Si mise nel letto con lei, le tagliò i capelli e le marchiò la fronte; all'alba diede la ciocca al figlio del sultano. Quando la meschina si accorse di ciò che le era accaduto, voleva morire dalla vergogna! Nascose i capelli con un velo e la fronte con un nastro. Ormai era il terzo giorno della festa, e doveva celebrarsi il matrimonio. Quella sera, la figlia del sarto si mise a ballare, ed era tanto bella che il figlio del sultano non poteva staccarle gli occhi di dosso. Lei, 492
a passo di danza, si avvicinò alla sposa, le tolse il nastro e le chiese: «Perché hai la fronte coperta?» e indicò il segno del sigillo al cugino. Lo sposo, stupefatto, fece chiamare il visir. Lui accorse, e disse alla figlia del sarto: «Non ti vergogni di ballare? Vai a sotterrarti che è meglio per te». Ma lei, sorridendo, gli rispose: «0 sporco individuo, nascondi piuttosto la vergogna impressa sulla fronte di tua figlia». A quelle parole, il visir guardò la figlia, e vedendo il segno del sigillo, diventò nero per il furore. Il figlio del sultano fece tagliare la sua testa e quella della figlia, poi disse alla cugina: «Perché non vuoi sposarmi?» «Ti ho mai detto di no? Certo che voglio sposarti!» rispose lei. Furono celebrate subito le nozze; e da quel giorno essi vissero nel piacere e nell'abbondanza. Che Allah conceda allegria a quelli che hanno ascoltato questa favola.
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Harun ar-Rashid e la sfida di Abu Nuwas
Un giorno, mentre passeggiava a cavallo con Abu Nuwas, 1 a Harun ar-Rashid 2 cadde la frusta. Il principe dei credenti ordinò all'amico: «Scendi a raccoglierla.» «Scendi tu» gli rispose Abu Nuwas. Il califfo ripetè l'ordine; inutilmente. Il suo compagno si rifiutò di obbedire e propose, invece, una sfida. «Racconteremo una storia: prodigiosa o singolare. Chi narrerà la più interessante vincerà, e l'altro raccoglierà la frusta. Comincio io.» Harun ar-Rashid acconsentì divertito, e il poeta iniziò il suo racconto. «Una volta, ero un ragazzo, mentre giocavo alle biglie con gli amici, passò un uomo; si mise a osservarci, poi propose: «"Ragazzi, darò una moneta d'oro a chi riempirà per me due bisacce di biada..." «Io mi alzai e lo seguii in un posto isolato, fuori dalle mura della città. «"Qui, non c'è biada" mi disse allora "ma un tesoro in fondo al pozzo. Riempiremo due bisacce, una per me l'altra per te." «Accettai, e lui, che aveva una pentola, cucinò riso e lenticchie. Dopo pranzo, mi legò a una corda e mi fece scendere nel pozzo. Ma quando ebbe le bisacce con l'oro, mi gridò: 494
«"Che tu possa morire tra i tormenti, e che nessuno senta più parlare di te." «E quel disgraziato se ne andò, lasciandomi lì dentro. Chiesi aiuto, gridando per ore, invano. Poi sentii un rumore spaventoso. Era una iena che sbranava dei cadaveri! Le afferrai la coda, ed essa mi trascinò per una galleria che conduceva alla spiaggia. Avevo il corpo pieno di graffi e ferite. Quando rientrai a casa, la nonna, vedendomi conciato in quella maniera, mi chiese: «"Che cosa ti è successo?" «"Ho litigato con i compagni" le risposi, per non spaventarla. Appena guarii, era trascorso un mese, tornai a uscire con gli amici. Un giorno vidi nuovamente quell'uomo: «"Chi viene con me a riempire due bisacce di biada?" chiese a me e ai miei compagni. Mi accorsi che non mi aveva riconosciuto, e andai con lui senza dire niente. Cucinò le lenticchie, mangiammo, poi mi ordinò: «"Scendi in fondo al pozzo." «"Ho molta paura, scendi tu e io tirerò su le bisacce" gli proposi. «Il furfante acconsentì. Lo legai, lo aiutai a calarsi nel pozzo, e sollevai le bisacce piene d'oro. Lui, invece, lo tirai fino a metà altezza; poi, tagliando la fune, gli gridai: «"Che tu possa morire tra i tormenti, e che nessuno senta più parlare di te!" e dopo aver caricato le mule, fuggii da quel luogo. «Io, naturalmente, volevo tornare da mia nonna, ma le mule si rifiutarono di portarmici. Si diressero, imperterrite, a casa del loro padrone. Giungemmo a tarda sera, e la moglie, vedendo gli animali, esclamò: «"Continui a uccidere ragazzi, disgraziato! Che Dio mandi qualcuno ad ammazzarti!" 495
«Quando si accorse di me, rimase sbalordita. Si informò del marito, e io le raccontai l'intera storia. Lei, allora, mi lanciò uno sguardo intenso e scrutatore. Colpita dalla mia fresca giovinezza, mi disse: «"Se mi vuoi sarò tua, e avrai anche l'oro. Se mi respingerai, racconterò tutto al califfo".» Abu Nuwas, terminata la storia, invitò Harun arRashid a scendere dal cavallo e raccogliere la frusta. «Prima ascolta» gli rispose, sorridendo, il principe dei credenti; e cominciò a narrare. «Decisi di prendere in moglie la figlia di mio zio, e così feci. Lei mi preparò il pranzo e una tazza di caffè, e io, dopo aver mangiato e bevuto, caddi addormentato. Al risveglio, non rammentavo più niente. Trascorsero tre giorni. La mattina del quarto, venne il visir a congratularsi per le nozze. «"Non ricordo nessun matrimonio" dissi, e gli confidai quello che mi era accaduto. Egli ascoltò attentamente, poi mi consigliò: «"Domani, quando verrà a portarti il caffè, chiedile un bicchiere d'acqua e, appena esce per prenderlo, butta il caffè sotto il tappeto e fingi di dormire." «Io seguii il suggerimento del mio visir. «"Anima mia, marito caro, dormi assetato?" domandò mia moglie, tornando con l'acqua. Credendomi addormentato, mi adagiò sul letto. Osservandola di nascosto, vidi che si imbellettava e indossava abiti eleganti. Poi prese un grande vassoio colmo di cibi prelibati, lo mise sulla testa e uscì. Io la seguii, e vidi che entrava in una grotta. Lì, si incontrò con un brutto nero. Mangiarono, fecero l'amore e infine si addormentarono abbracciati. Allora tagliai la testa del nero, la misi in un sacco, la portai al mio palazzo e la chiusi dentro un armadio. «Il mattino seguente, al risveglio, trovai tutta la casa dipinta di nero. 496
«"Che cosa è accaduto?" chiesi a mia moglie. «"È giunta notizia che nostro cugino è morto" mi rispose. « "Avrebbero dovuto informarmi per primo" osservai. «"L'hanno riferito a me" ribadì. «Dopo tre giorni, le porsi le chiavi dell'armadio e le ordinai: «"C'è dentro un grosso melone, portamelo." «Quando vide la testa del nero, lei si infuriò moltissimo, prese un bicchiere colmo d'acqua, vi lesse parole misteriose e, gettandomela addosso, disse: «"Trasformati in un cane rognoso." «Diventai un cane e lei mi scacciò con un bastone. Per strada, gli altri cani mi morsero. Avevo fame; andai da un macellaio e mi gettò degli ossi. Ma io non mangiavo ossi. Mi recai al mattatoio, e mi vide la figlia del macellaio, che mi accarezzò. Quando finì di lavorare, mi portò a casa sua e mi offrì lenticchie con riso e yogurt. Metteva una cucchiaiata di cibo nella sua bocca e una nella mia. «"Che fai? Mangi dal cucchiaio di un cane rognoso? Pensi che sia il principe dei credenti Harun alRashid?" l'interrogò suo padre, canzonandola. «"Certo! È il nostro califfo" rispose la ragazza. «Allora, il macellaio mi fece una proposta. «"Se ti libero dall'incantesimo, sposerai mia figlia?" Dopo che ebbi acconsentito con un cenno della testa, lui prese un bicchiere d'acqua, vi lesse parole chiare e altre oscure e me la versò addosso dicendomi: "Torna come prima, con il permesso di Dio". Appena ridiventai uomo, desiderai correre a uccidere mia moglie; ma lui mi fermò. «"Dove vai? Lei è più sapiente di me. Prendi quest'acqua e quando apre la porta e ti dice: 'Ah, sì! La figlia del macellaio ti ha salvato!' tu gettagliela addosso e pensa in cosa ti piacerebbe trasformarla." 497
«Feci come mi aveva suggerito. Come mia moglie aprì la porta, le tirai l'acqua e le dissi: "Trasformati in una cavalla pezzata". «Lei, in verità, divenne una cavalla. Se non mi credi, amico, guarda sotto di me.» Abu Nuwas osservò la cavalla di Harun ar-Rashid. Il suo muso era rigato di lacrime. «In verità, il tuo racconto è più bello del mio» ammise il poeta, e scese a raccogliere la frusta.
NOTE ' Poeta di lingua araba del IX secolo che fu grande soprattutto nella poesia erotica e bacchica. Era un familiare del califfo Harun ar-Rashid. 2 Harun ar-Rashid fu il quinto califfo della dinastia abbaside. Regnò per ventitré anni su una grande parte dell'Asia, sulla Spagna, l'Africa Settentrionale, le Indie. Grande mecenate, favorì le arti e le scienze, che conobbero un enorme sviluppo. Da Baghdad trasferì (796) la capitale del suo regno a Raqqa (l'antica Kallinikos fondata dai Seleucidi) sulla riva sinistra dell'Eufrate, nella Giazira siriana. Fu contemporaneo di Carlo Magno, con cui ebbe una certa familiarità. Morì nell'809.
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La gelosia
C'erano una volta un fratello e una sorella che si amavano tanto. Dopo la morte dei genitori essi rimasero soli e il ragazzo considerava sua sorella l'essere più prezioso al mondo. Lei, però, ogni giorno gli diceva: «Caro, devi sposarti. Permettimi che ti trovi una moglie». «No. Non desidero sposarmi. Sono felice con te, e un'altra donna farebbe soffrire entrambi» rispondeva risoluto. «Non è vero. Devi sposarti e avere dei figli.» «Perché insisti? Di sicuro sorgerebbe un conflitto, fra te e un'altra.» «No. E poi, prima di morire, desidero conoscere i miei nipoti.» Tante furono le insistenze, che finì per cedere. Lei si mise immediatamente alla ricerca della sposa adatta. Quando le sembrò di aver trovato quella giusta, informò il fratello, che le disse: «Se è di tuo gusto, la sposerò». Furono celebrate le nozze. Il giorno seguente, la sorella espresse il desiderio di abitare da sola. «Non amo la rivalità e le liti tra donne. Non voglio vivere insieme a voi. Mi costruirai una piccola camera con una finestrina da dove potrai passarmi il cibo» disse al fratello. 499
Fu accontentata: suo fratello le portava il cibo e ogni volta si fermava a discorrere lietamente con lei. Dopo un po' di tempo, la moglie rimase incinta. Ma non era contenta. Il tenero, profondo affetto del marito per la cognata la rendeva furiosa. Confidò a sua madre: «Mio marito ama e rispetta la sorella più di me. Aiutami a fargliela pagare. Deve odiarla, perché mi è intollerabile vedere con quanta dolcezza la tratta». Invano, la madre tentava di calmarla. Infine, le disse: «Figlia mia, tu aspetti un bambino; appena partorisci, che sia maschio o femmina, sgozza il neonato, posalo sulla finestrina di tua cognata e mettiti a gridare». La donna, giunto il momento, partorì un maschio. Ma non voleva fargli del male. «Come potrei uccidere mio figlio?» disse alla madre. «Non preoccuparti. Resterai incinta di nuovo. Potrai avere altri bambini e sarai felice con loro» le rispose sua madre. E lei si convinse. Lo uccise e andò a posarlo sulla finestrina della cognata. Quando il marito tornò a casa, la vide seduta a terra che piangeva disperata. «Dov'è mio figlio?» gridava. «Che dici! Hai partorito ieri, e non sai dove l'hai messo?» disse il marito. Lo cercarono, finché lui, vedendo il sangue scendere lungo il davanzale della finestrina, urlò a sua sorella: «Disgraziata! Non temi il tuo Dio? Hai ucciso il mio bimbo. Perché? E dire che ti rispettavo e amavo più di tutto al mondo. Te la farò pagare!». E poiché la sorella non rispose all'accusa né si difese, le tagliò le mani e la chiuse in una cassa che gettò nell'Eufrate. All'alba, un contadino che lavorava vicino alla riva del fiume vide la cassa e, trascinandola a terra, disse: «Allah mi ha inviato un dono!». La aprì e... dentro c'era una fanciulla bellissima! Dio santo! Allah le aveva rifatto le mani, che erano perfette. 500
«Oh fratello! Preserva il mio onore, in nome di Allah» disse lei. «Non temere. Con me sei al sicuro» le rispose il contadino. «Vorrei domandarti un favore. Costruisci per me una capanna dove io possa vivere tranquilla.» «No. Desidero sposarti, in nome di Allah e del suo profeta.» «Fratello, non voglio più soffrire.» «Giuro che saprò sempre proteggerti, e verrai rispettata» le promise il suo salvatore. Lei acconsentì a sposarlo, e visse felice, finché al marito giunse l'ordine di partire per la guerra. Anche da lontano, continuò a ricevere da lui dolci messaggi d'amore. Queste attenzioni, con il passare del tempo, resero gelosa la suocera, che decise di farla odiare da suo figlio. Appena tornò a casa, gli disse: «Tua moglie è una fannullona, ti è stata infedele e mi ha maltrattata» e poiché lei non pronunciava una parola per discolparsi, il marito la gettò nell'Eufrate, dentro una cassa chiusa, che galleggiò per alcuni giorni nel fiume. Fu salvata da un uomo che, aprendo la cassa, esclamò: «Meravigliosa fanciulla, quanto è grande Iddio tuo creatore!». «Ti prego, fratello, rispetta il mio onore» gli disse lei. «Voglio sposarti secondo la legge divina.» «No.» «Se non mi vuoi per marito, sono pronto a difendere il tuo onore da fratello, secondo la tua volontà. » «Proteggimi, o fratello, e Allah ti proteggerà.» «Tu sarai tra le donne venerate.» «Ti prego, conducimi lontano dal villaggio, costruisci per me una capanna e permettimi di viverci. Portami il Corano e chiudimi dentro la stanza, la501
sciando soltanto una finestrina da dove la gente possa vedermi. Poi farai sapere ai ciechi, agli storpi e agli ulcerati che io li guarirò.» Lui eseguì tutte le sue volontà: costruì una qubba, la dipinse di verde, le portò il Corano e altri libri di preghiera; informò i malati e i pazzi. Ogni giorno giungevano tanti pellegrini e tra essi venne una volta il fratello con la moglie; non sapevano chi era quella donna santa. Egli la vide, la riconobbe e mormorò: «Sei tu?!». «Sì, io, la sorella incolpevole a cui tagliasti le mani. Guarda come sono belle, le mani che Allah mi ha donato per guarire gli uomini.» Lui capì che era innocente e bruciò sua moglie. «Perché l'hai fatto?» gli chiesero i presenti. Ma fu la sorella a raccontare la storia di una donna che, per gelosia, aveva ucciso il proprio figlio e suscitato in un fratello l'odio verso la sorella. Quel posto diventò santo, e vi sorse un mausoleo, come quello di nostra signora Zenab, nipote del Profeta, a Damasco.
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La falsa puritana
Molto tempo fa, un giovane e sua madre vivevano in una casa dove c'era un grande patio in cui cresceva un fico straordinariamente fruttifero. La donna ogni mattina si lamentava con il figlio e gli diceva: «Taglia l'albero, perché gli uccelli si posano sopra a osservarmi mentre faccio le abluzioni per la preghiera e vedono la mia nudità». Ma lui le rispondeva: «Come puoi chiedermi una cosa simile? Vuoi distruggere un albero che ci dà tanti fichi che possiamo mangiarne a volontà, fare provviste, regalarne ai vicini e offrirne ad altri ancora!» Lei, caparbia, insisteva: «Che Dio e gli angeli ti proteggano. Taglialo!» Il giovane non capiva quel pudore esagerato, e se ne lamentò con un amico. «Fratello, devo raccontarti cosa succede in casa mia.» «Ti ascolto» disse l'amico. «Mia madre pretende che tagli un fico che produce frutti in abbondanza. A me dispiace ma lei insiste. Cosa ne pensi?» «Perché vuole che lo tagli?» «Afferma che gli uccelli vanno sull'albero per guardarla quando si lava per la preghiera.» «Se esprimo il mio parere ti arrabbierai?» 503
«No.» «Tua madre ha un amante.» «Come osi!» «Per Dio! Non credo di sbagliare. Comunque, mettila alla prova. Raccontale che parti e starai assente quattro o cinque giorni. Invece nasconditi sul tetto e osserva cosa farà. Se non incontrerà l'amante, torna da me e io sarò pronto a risponderne. » Il giovane rincasò e disse alla madre: «Ho da fare nel villaggio vicino per quattro o cinque giorni. Ti prometto che al ritorno taglierò l'albero.» «Che Dio ti accompagni, e torna in pace» lo benedì sua madre, e lui, la mattina seguente, si nascose sul tetto. Durante il giorno, non successe niente. Giunta la notte, attese ancora, ma era tutto tranquillo e silenzioso. Si era ormai convinto che l'amico aveva torto e stava decidendo di andar via, quando vide un uomo che bussava alla porta di casa sua, e udì la madre chiedere: «Chi è?» «Io. C'è qualcuno?» sussurrò il nuovo arrivato. «No. Mio figlio è partito per quattro o cinque giorni e speriamo che, con l'aiuto di Dio: Come la valle dello zibibbo Che ama prendere ma non dare Un ostacolo lo arresti E non possa più tornare.» Sentendo quella notizia, lo sconosciuto rise contento, prese la donna tra le braccia e i due amanti cominciarono a dilettarsi. Allora lui, ormai in preda all'ira, scese dal tetto, entrò e li sgozzò. Il giorno dopo tornò a lamentarsi con l'amico. «Fratello mio, avevi ragione! Sono disgustato, vo504
glio fuggire dalla casa in cui nacqui e da questo paese. Andrò lontano da qui, Dio solo sa dove il tempo mi condurrà. Se la sorte lo permetterà, forse un giorno tornerò, altrimenti mai più potrò vedere i luoghi in cui ho vissuto fino a oggi.» Dopo queste parole si congedò e partì. Vagò da un posto all'altro, fino a che, molto tempo dopo, giunse a un altro reame. Si fermò a riflettere: «Un povero ramingo come me dove potrebbe andare?». Infine, decise di fermarsi in quella città, e si recò in un luogo che era riservato ai forestieri indigenti per trascorrervi la notte. Mentre dormiva, i ladri rubarono il tesoro del re. Le guardie decisero di arrestare tutti gli stranieri che si trovavano in quel momento nel regno e presero anche lui. Li interrogavano e, benché nessuno confessasse il furto, tagliavano la testa a tutti. Quando giunse il suo turno, il re gli chiese: «Hai rubato il tesoro?» «O re del tempo, sono giunto nel tuo paese solo da poche ore, dopo una lunga peregrinazione per cercare la mia fortuna. Desidero solamente vivere e lavorare. Non sono un ladro.» Ma il re insisteva: «Non hai scampo. Confessa o perderai la testa.» «Se questo deve essere, ebbene, sia! Prima, però, fai venire tutti gli abitanti del regno. Io ti aiuterò a cercare il colpevole e se non Io trovo uccidimi pure.» Il re accolse la sua proposta, e ordinò alle guardie di radunare il popolo. Arrivarono tutti: alti e bassi, vecchi e bambini, uomini e donne. Si misero in fila, e il giovane andava da uno all'altro e osservava attentamente quelle persone impaurite e tremanti, ma appena vide tre donne che sedevano tranquille e imperturbabili, sgranando il masbah, 1 si fermò. «O re del tempo, ho trovato il tesoro!» gli annunciò, trascinando le tre pie al suo cospetto. 505
«Avete rubato il tesoro?» chiese il re. «No» risposero le accusate. Ma il re le fece bastonare dalle guardie. «Basta! Confessiamo» urlarono, non riuscendo a sopportare il dolore; e ammisero la loro colpevolezza. «Siamo noi le ladre, signore. Come ha fatto costui a scoprirci?» vollero sapere. Anche il re era sorpreso, e ammirò la perspicacia di quello straniero. «Dimmi. Come sei riuscito a smascherarle?» gli chiese. «È semplice, maestà. Io avevo una madre della stessa specie.» Neppure un possibile intento fustigatore dell'ipocrisia bigotta riesce ad attenuare la feroce misoginia che emana da questo racconto.
NOTE 1 Rosario islamico.
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L'enigma
C'era una volta, molto tempo fa, un re che aveva fatto uccidere tutti gli uomini anziani del regno. I giovani invece li aveva resi schiavi. Essi lavoravano per lui, estate e inverno, con il caldo torrido e il freddo gelido, sotto la sorveglianza delle guardie. Un uomo però era riuscito a nascondere il padre in una caverna, e ogni tanto andava a visitarlo e a portargli del cibo. Un giorno, il vecchio gli chiese: «Come si comporta con voi il re?» «Padre mio, mietiamo, portiamo i covoni all'aia, trebbiamo senza sosta. I nostri corpi si sciolgono dal sudore e la schiena diventa curva per la fatica.» «Ascolta: quando sei stanco, prendi un po' di grano, siediti e fai finta di pulirlo. In questa maniera potrai riposarti.» Il mattino seguente, il giovane andò a lavorare come al solito. Ma dopo un po', sentendosi troppo stanco, prese del grano, si sedette e faceva finta di pulirlo, mentre in realtà riposava. Così imparò a evitare la fatica. Ma una guardia, sorpresa dal quel comportamento insolito, un giorno si mise a osservarlo attentamente. Capì la furbizia del ragazzo e andò a riferire al suo padrone: «Ho visto uno che fingeva solamente di pulire il grano, perché a dire il vero riposava la schiena.» Il 507
sovrano gli ordinò: «Portalo qui immediatamente». E quando il meschino fu condotto al suo cospetto, lo accusò, minaccioso: «Tu, nascosto da qualche parte, hai un padre che ti ha insegnato a evitare la fatica. Confessa o ti taglio la testa.» «È vero o re del tempo» ammise il giovane, spaventato. «Bene, voglio darti la possibilità di salvarti. Scalzo e calzato Camminando e cavalcando Domani qui tornerai Il nemico e l'amico dell'uomo con te porterai Se risolverete questo enigma avrete entrambi salva la vita, altrimenti farò ammazzare te e l'uomo che tieni nascosto. Ora vattene.» Il ragazzo andò dal vecchio genitore che, vedendolo con il volto stravolto per la paura, gliene chiese la ragione. Lui gli disse: «Il risultato del tuo bel consiglio! Le guardie mi hanno visto mentre riposavo» e gli raccontò tutto. «Ma è molto semplice!» esclamò suo padre. «Come! Semplice?» «Certo. L'amico dell'uomo è il cane, il nemico è la donna. Puoi essere scalzo e calzato insieme, se metti scarpe senza suola. Cavalcherai camminando, se ti siedi su un asino basso.» Il giovane andò via contento. Il mattino seguente tornò al palazzo reale, portando con sé la moglie, che era all'oscuro di tutto. «Hai la soluzione?» gli chiese il sovrano. «Certo.» «Ti ascolto.» 508
«Come puoi vedere sono calzato e scalzo» e mostrò i piedi con le scarpe senza suola. «Cavalco e cammino» e salì sull'asino. «Chi è il nemico dell'uomo?» domandò il re. «Lei» rispose indicando la moglie. Sentendo quell'accusa la donna si mise a urlare, e volle vendicarsi: «Se io sono tua nemica, chi sei tu, traditore del nostro signore, che hai nascosto in una caverna tuo padre?» «O re, con una parola sola ti ho dimostrato chi è il mio nemico» disse il marito. «Hai ragione. Ma qual è l'amico dell'uomo?» «Il cane.» «Dimostramelo. » L'uomo picchiò il cane e lo cacciò via. Poi lo richiamò, e l'animale tornò da lui, scodinzolante. Il re, soddisfatto, mantenne la promessa, e rese liberi il padre e il figlio.
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All'ora del giudizio
C'era una volta un signore molto ricco, e tutti lo riverivano, come di solito accade a chi ha raggiunto nella vita una posizione elevata. Nessuno, in verità, onora molto i poveri. La prosperità in cui viveva gli aveva quindi attirato la stima e la considerazione dei concittadini. La gente lo rispettava, ed egli viveva appagato. Ma un giorno questo signore si trovò coinvolto nella morte di un uomo. Il fatto lo sconvolse. «Che cosa devo fare? Chi, in questo infausto frangente, potrebbe essermi di aiuto?» si chiedeva atterrito. Infine decise: «È giusto che mi rivolga agli amici. A chi ho ascoltato, sostenuto e sempre amato». Così fece. Senza indugio andò dall'amico più caro, da colui che aveva amato forse più di ogni altro al mondo. «Fratello, ho bisogno del tuo aiuto prezioso perché mi trovo in una situazione disperata. Tu devi sostenermi. Posso confidare in te o nella volpe?» gli chiese. «Raccontami tutto e vedrò come soccorrerti». «Credo di essere responsabile della morte di un uomo. Vorrei che testimoniassi in mio favore.» L'amico lo ascoltò con attenzione, ma rifiutò di sostenerlo. «Tu sei l'unico colpevole di questa azione e devi assumerti la responsabilità. Mi è impossibile restarti 510
accanto. Tienimi lontano dai tuoi problemi. Non desidero in alcun modo essere coinvolto, e magari giudicato male dai parenti della vittima, che potrebbero accusarmi di averti assecondato.» Insomma, se ne lavò le mani. Che bell'amico! Il disgraziato era molto infelice ma riuscì a farsi coraggio; andò dal secondo amico e gli espose il suo problema. «Amico mio, ho ucciso un uomo. Aiutami! Ti supplico, stammi vicino!» «Senti, caro, sono disposto a difenderti e a proteggerti contro tutto e tutti, qui in città, ma non sono in grado di fare il tuo avvocato davanti al giudice. In tribunale, dovrai entrare da solo» rispose l'amico. «Ti ringrazio. Non importa» mormorò il meschino, sempre più sconfortato. Ma trovò, infine, la forza di trascinarsi dal terzo amico, e gli disse: «Mi è accaduta una grande disgrazia. Soltanto tu e Dio ormai potete aiutarmi!» «Sono al tuo fianco, non temere. Ti accompagnerò in tribunale e sosterrò la tua causa, ma a una condizione.» «Quale?» «Dovrò raccontare al giudice la verità.» «Come vuoi.» Il giorno successivo andarono in tribunale, ebbe inizio il processo e l'amico dell'imputato testimoniò. Nessuno, però, sa quale fu la sentenza, poiché a questo genere di processi non si ammettono spettatori che possano tornare indietro a raccontare. La storia non ha un senso? Beh! Non mi resta che svelarvi chi sono in realtà i suoi protagonisti. Il ricco signore: l'uomo alla fine della sua esistenza terrena. Il primo amico: i beni materiali che è riuscito ad accumulare. La ricchezza. Ci si affanna notte e gior511
no per ottenerla, si insegue il balenio del denaro e delle glorie effimere che esso può darci. Si sperpera la vita per nutrire la vanità e la cupidigia. Ma al momento dell'estremo giudizio tutto questo non sarà di alcun aiuto. Il secondo amico: gli affetti che abbiamo in vita. Ci accompagnano fino all'ingresso del tribunale per abbandonarci poi al nostro destino. Piangeranno la nostra morte. Ci condurranno al sepolcro e torneranno indietro. Moglie, figli, fratelli, amici: cos'altro potrebbero fare? Il terzo amico: la nostra condotta, i valori morali. Il bene e il male che abbiamo operato da vivi. Essi soltanto potranno testimoniare a nostro favore o contro di noi nel tribunale divino.
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L'angelo della morte
Un uomo, mentre rientrava dai campi, si imbatté in due persone che litigavano. Incuriosito, indugiò per un momento a osservare; poi, mosso a compassione dall'aspetto gracile e dall'aria innocente di uno dei contendenti che stava per essere sopraffatto, decise di intervenire e aiutarlo. Ci riuscì. L'uomo lo ringraziò con molto fervore. «Oh mio salvatore!!! Ti sono infinitamente grato! Non so che cosa sarebbe accaduto, in questo frangente, senza il tuo soccorso! Come posso ricompensarti? Non dimenticherò mai il tuo gesto! Avrai la mia eterna riconoscenza, caro amico.» «Senti, buon uomo» replicò il giovane, un po' imbarazzato da quelle manifestazioni di gratitudine esagerata. «Non è il caso che ti senta debitore. D'altra parte, neppure ti conosco e non saprei proprio che cosa chiederti.» «Bene! Mi presento, allora. Sono Azraele. Colui che si prende le anime degli uomini. L'angelo della morte.» «Accipicchia!» esclamò l'altro allibito. E continuò: «Che amicizia vuoi offrirmi? Che favore potresti farmi? Non prendere mai la mia anima?» «Eh, no! Questo non c'entra con l'amicizia. Quando sarà giunto il momento, l'anima dovrò prendertela, perché davanti a Dio siete tutti uguali.» 513
«Posso almeno chiederti, amico mio, di avvertirmi prima del tuo arrivo? Così non mi troverò impreparato.» «Certo, te lo prometto. Ti avviserò con molto anticipo, stai sicuro.» Si salutarono con questa intesa. Il ragazzo dimenticò presto lo strano episodio e l'angelo della morte. Egli viveva, allora, nel pieno vigore della giovinezza. Era forte, agile, temerario. Cavalcava con la leggerezza di un acrobata provetto. Quando osservava l'orizzonte, poteva distinguere un uomo da una donna a molti chilometri di distanza. 1 Metteva dure mandorle sotto i denti e le schiacciava come fossero ceci lessi; con le braccia riusciva a sradicare un albero possente. Trascorsero gli anni. Ne ebbe trenta, quaranta, cinquanta e infine giunse ai novanta. Denti non ne aveva più. E per nutrirsi, il poverello bagnava il pane nell'acqua. Era sordo, quasi non vedeva, e per alzarsi dalla sedia impiegava molto tempo e un bastone. In una sera invernale, gelida e ventosa, sedeva tremante accanto al camino, avvolto in una coperta. Nessun calore riusciva più a scaldarlo, ormai. 2 All'improvviso, sentì bussare. Tutto era buio e silenzioso. Chi poteva essere? «Oh Dio! Chi viene a quest'ora?» Si chiese meravigliato e un po' stizzito. «Prego, prego, entra» urlò senza muoversi dalla sedia. «La porta non ha il chiavistello, occhi miei. Io non posso alzarmi. Vieni avanti.» L'uscio si spalancò, ed entrò un uomo. «Salute, amico, salute, vecchio mio. La pace sia con te» disse il nuovo arrivato. Il meschino non riusciva né a vederlo né a sentirlo; in verità era molto debole. «Non ti sento; alza la voce. Non ti riconosco.» «Accidenti! Come hai potuto dimenticarmi? Sono 514
tuo amico dal giorno in cui mi strappasti a un aggressore. Non ricordi?» Il vecchio sussultò. «Sei Azraele?» «Sì.» «Che cosa vieni a fare?» «A prendermi il dovuto.» «No, amico; no. Non erano queste le condizioni. Avevamo pattuito che mi avresti avvisato in anticipo» si lamentò il poveruomo atterrito. «Giusto. Questo era il patto. E io ti ho mandato moltissime avvertenze!» «Nessuno m'ha avvertito.» «Impossibile, caro. Sono più di cento i messaggi che ti ho inviato. Con chi veniva al mondo e con chi se ne andava. A ognuno dicevo di avvisarti.» «Nessuno l'ha fatto.» «Ti sbagli. Sei tu che non hai ascoltato. Voglio citarti qualche episodio. Ricordi quando eri giovane e volteggiavi a cavallo? Con l'animale al galoppo, tu saltavi a terra e risalivi in sella, leggero e audace. Ricordi quando schiacciavi, senza sforzo, le mandorle con i denti?» «Certo, ricordo. Che bei tempi erano quelli!» «Ricordi quanto era acuta la tua vista?» «Sì, lo rammento bene.» «Ora, com'è?» «Veramente molto debole. Non riesco a vederti a due passi di distanza.» «Ricordi com'era fino il tuo udito?» «Sì.» «Adesso, sono qui vicino a te, la mia voce è diventata rauca a forza di gridare e tu non mi senti. Ascolta, io il mio dovere l'ho fatto. Se non hai capito, è solo colpa tua. Alzati, alzati amico. È giunta l'ora di partire.» L'angelo lo prese e lo portò via con sé. 515
Il tema della morte è stato affrontato dai favolisti di tutti i tempi. Cfr. Esopo, "De sene mortem diferre valente"; La Fontaine, I, 15; I, 16; Vili, 1.
NOTE 1 Bisogna tenere presente che l'abbigliamento tradizionale siriano è simile per uomini e donne: lunghe tuniche e grandi fazzoletti che ricoprono il capo. Da qui la difficoltà a distinguerli da una grande distanza. 2 «Ja, bei Gott! Von Todeskalte / Nicht, o Greis! Verteid'gen soli dich / Breite Kohlengent vom Herde / Keine Fiamme...» («Sì, per Dio! Dal freddo della morte / o vegliardo non potrebbero difenderti / Le braci ardenti del largo focolare...»), Goethe, "Timur Nameh", Divari occidentale orientale.
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La smania di avere è radice di grandi mali
C'erano una volta due uomini: uno molto generoso, l'altro molto avaro. Quello generoso aveva una moglie taccagna, quello avaro una moglie prodiga. Entrambi conducevano un'esistenza infelice. Un giorno si incontrarono e, discorrendo, discorrendo, finirono con il confidarsi il loro triste stato coniugale. «Fratello, sono proprio stanco di mia moglie. È una tiranna. Mi ha distrutto» disse l'avaro. «Anche io ho un mucchio di problemi con la mia. Qualsiasi cosa faccia, me la rimprovera. Ormai, non riesco più a sopportarla. Vorrei veramente cambiare vita. Senti: poiché soffriamo dello stesso male, cerchiamo insieme un rimedio. Ognuno prepari il suo fagotto e via! Fuggiremo dalle nostre mogli. D'accordo?» propose il generoso. «D'accordo» acconsentì l'avaro e, detto fatto, l'indomani all'alba lasciarono il villaggio. Soltanto dopo molte ore di marcia decisero di fermarsi a riposare. «Tira fuori le provviste, e facciamo colazione» disse l'avaro. «Certo, certo, amico mio» rispose il generoso, offrendo il suo cibo. I due amici pranzarono con grande soddisfazione, soprattutto l'avaro, che non risparmiò neppure una briciola; poi decisero di riprendere il viaggio verso 517
l'ignoto, e camminarono fino al tramonto del sole. Allora, stanchi e affamati, di comune accordo decisero di fare un'altra sosta per rifocillarsi. «Dai! Offrimi qualcosa da mangiare» chiese il generoso. «Sei ammattito, per caso?! Vuoi forse rovinarmi? Riesco a fuggire da quella scialacquatrice di mia moglie e inizi tu a tormentarmi?» esclamò, indignato, l'avaro, che si mise a mangiare senza offrire niente al compagno. «Ora ho capito chi sei veramente, mio caro. Dobbiamo lasciarci» disse il generoso. «Ma... come?» «Guarda: davanti a noi ci sono due vie; una è larga e diritta, una stretta e tortuosa. Scegli pure.» Naturalmente, l'avaro preferì il cammino più agevole. Il sentiero era, in verità, molto scosceso e angusto. Il generoso lo percorreva a fatica, tuttavia non si fermò a riposare fino al sopraggiungere del crepuscolo. Soltanto allora decise di cercare un riparo per trascorrervi la notte. All'incerto chiarore del giorno morente, scorse una caverna e ne fu lieto. Ma accanto all'ingresso c'erano orme di bestie feroci. "Che fare?" pensava preoccupato, alzando gli occhi al cielo. E fu così che vide in alto, vicino alla volta, una cavità abbastanza profonda. Era salvo! Si arrampicò immediatamente, per raggiungerla. Preparava un giaciglio con il suo mantello, quando udì un calpestio e delle voci. Un lupo, una iena e una volpe tornavano alla loro tana, chiacchierando allegramente. Proprio in quel momento, la volpe, che sembrava il capo, diceva: «Lupo, raccontami come hai trascorso la giornata.» «Oh! È stata veramente splendida. Mentre passeggiavo lungo il fiume, sentii avvicinarsi un gregge e... 518
oplà! Saltai in mezzo a un canneto, per osservare di nascosto. Che cosa videro i miei occhi? Belle pecore grasse e teneri agnelli. E sapete chi li conduceva? Bambini accaldati e giocherellanti, che corsero a tuffarsi divertiti, lasciando incustodito l'armento a brucare la fresca erbetta. Che gaudio, amici miei, balzare in mezzo al branco, correre da una preda all'altra, acchiappare quei prelibati bocconcini! Ne ho uccisi e divorati a volontà. Ed eccomi qua soddisfatto» disse il lupo. «Sei stato fortunato. E tu, iena?» chiese la volpe. «Ho scovato un luogo pieno zeppo di carogne, e ne ho mangiato a crepapelle. Mi sento un re» disse la iena. «Girovagando nei dintorni sono capitato in un villaggio mentre gli abitanti si trovavano nei campi a mietere il grano. Ma quante galline nei loro pollai! Ammetto di essermi veramente divertito ad acchiappare quei volatili schiamazzanti. E ne ho mangiati una decina.» «Anche tu, dunque, hai avuto fortuna» dissero il lupo e la iena. «Certo!» annuì la volpe. «Però, vi confesso di essere un po' stanca. Dormiamo. Buona notte.» «Buona notte.» «Buona notte.» Dopo aver ascoltato questi discorsi, il generoso non poteva certo trascorrere una notte molto tranquilla. E in effetti non chiuse occhio. Invece il lupo, la iena e la volpe dormirono saporitamente, cosicché si svegliarono all'alba allegri e riposati. E ripresero a conversare. «Si racconta che esiste un regno dove c'è soltanto una fonte. Pare che un terribile mostro impedisca a chiunque di avvicinarsi all'acqua se non gli viene sacrificata una fanciulla: è la condizione perché uomi519
ni e animali non siano condannati a morire di sete. Domani, figuratevi!, tocca alla figlia del re» disse la volpe. «Non si potrebbe ammazzare questo mostro?» chiese la iena. «In realtà, esiste una maniera. Nel regno c'è una donna che possiede una gallina prodigiosa. Nell'uovo che essa deporrà domani mattina è racchiuso il potere che farebbe morire il mostro, se un uomo coraggioso lo rompesse davanti a lui.» «Ma esiste un simile eroe?» si chiesero le tre bestie, uscendo dalla grotta. Anche il generoso, non appena esse si furono allontanate, lasciò il suo nascondiglio e corse a cercare l'uovo magico. Arrivò in città all'alba del giorno dopo. La gallina apparteneva a una donna chiamata Umm Hallùm, che lo accolse con cortesia. «La pace sia con te, straniero.» «Con te sia la pace, sorella. Hai una gallina così e così...?» «Sì, è mia. Sta nel pollaio.» «Ha fatto l'uovo oggi?» «Non ancora. Ma certo non tarderà. Siediti e beviamo una tazza di tè, nell'attesa. » Avevano appena finito di bere, che la gallina deponeva l'uovo. Egli lo prese e partì. Per strada, vide un corteo. Erano gli abitanti del regno che si recavano alla fonte per attingere acqua e dissetarsi portando in cambio la vittima da dare in pasto al mostro. Chi gridava, chi piangeva, e la povera principessa, sconvolta dalla paura, era più morta che viva. Allora il generoso, senza indugiare ancora, corse ad affrontare quell'essere malefico. Lo scorse da lontano; era terrificante. Ma non rinunciò. Continuava ad avanzare deciso e intrepido, 520
finché non gli fu dinanzi. Quando le fauci spalancate stavano per afferrarlo, lui ruppe l'uovo, e l'animale si accasciò a terra morto. A quella vista, la folla dolente esplose in un tripudio di danze e canti. Udendo il gioioso clamore, il re uscì infuriato dal suo palazzo. «Che cosa avete da celebrare?» chiese, pieno di sdegno. «Siamo liberi, il mostro è morto! Un eroe l'ha ucciso e tua figlia vive» rispose la folla. «Dio sia lodato! Portatemi colui che ha compiuto l'impresa» ordinò il re; e quando il generoso fu al suo cospetto gli disse: «Poiché mi hai liberato dal dolore, chiedimi ciò che vuoi e lo avrai». «O re del tempo, desidero per me ciò che ho salvato per te.» Insomma, desiderava sposare la principessa. Le nozze furono celebrate con grandi feste, per sette giorni e sette notti. Passarono gli anni, il re diventò molto vecchio, e nominò al suo posto il genero. La notizia del nuovo re si sparse ovunque. La sentì anche l'antico compagno che era fuggito con lui: l'avaro. "Che cosa!? Quell'uomo generoso e poco oculato ora è re? Allora posso riuscirci anch'io, che sono molto scaltro" pensò; e decise di visitarlo, per scoprire come aveva fatto. Dopo molti giorni di cammino, un giorno giunse al palazzo reale. «Fatemi entrare. Devo vedere il vostro re» disse alle guardie. «Chi sei?» chiesero quelle. «Un suo vecchio compagno.» 521
«Che entri pure» concesse il generoso, quando gli fu annunciata la visita dell'avaro. «Benvenuto. Che cosa ti porta qui?» «Voglio sapere in quale maniera sei riuscito a diventare re, mentre io continuo a errare per il mondo.» «Mah! Se è per questo, posso accontentarti. Ricordi il giorno in cui ci separammo, dopo che tu avevi rifiutato di condividere il tuo cibo? Percorsi il sentiero scosceso e...» Il re raccontò tutti gli avvenimenti per filo e per segno all'avaro che ascoltava esultante. «Andrò anch'io alla caverna. Magari potrò sentire qualche notizia utile per diventare re.» "Sempre più avido" mormorò tra sé il generoso, mentre l'avaro usciva in gran fretta. Giunse alla caverna qualche giorno più tardi. Si nascose e attese impaziente il ritorno delle fiere. Esse arrivarono al buio e, come erano solite fare ogni sera, si misero a parlare delle loro avventure. Disse il lupo: «Che terribile giornata! Ho consumato i piedi camminando per monti e valli, e il mio stomaco si contorce per la fame. Ma che abbia trovato un solo agnello incustodito? No. Tutte le greggi erano ferocemente sorvegliate da maledette guardie, armate fino ai denti». Disse la iena: «Anch'io ho avuto una giornata spaventosa. Mentre mi aggiravo in un villaggio in cerca di cibo, vidi una pecora legata a un palo nella piazza deserta. Tutta contenta mi avvicinai per divorarla ed ecco spuntare da ogni parte uomini, donne, bambini. Che spavento! Non mi sembra vero di averla scampata. Non vedete che sono ancora sconvolta?» «Anch'io sono stata sfortunata. Ho camminato e camminato senza trovare nulla da mettere sotto i denti. E quando ero già sfinita dalla stanchezza e dalla fame, un branco di cani scatenati mi assalì. Ho 522
corso a gambe levate per ore. Sono distrutta, affamata e ancora terrorizzata» disse la volpe, levando supplichevole lo sguardo al cielo. «Ma non disperate, fratelli, Dio onnipotente è generoso con le sue creature. Domani ci sarà qualcosa e...» e davanti ai suoi occhi c'era l'avaro! «Allegri, allegri, fratelli» esclamò contenta, indicando il banchetto. «Il Signore ci ha inviato la cena.»
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Il leone e la iena
Molto tempo fa, viveva a Damasco un ricco mercante. Le sue carovane percorrevano la Siria, lo Yemen, l'Iraq fino al Golfo Persico, e lui era diventato molto potente. Per tanti anni aveva viaggiato lungo le faticose e difficili piste della regione, ma un giorno decise che era ormai tempo di farsi sostituire dal suo unico figliolo. "Ora sono anziano" pensò, "il ragazzo è cresciuto e deve imparare il mestiere prima che io muoia." L'indomani stesso gli disse: «Caro, un giorno tutti i miei beni ti apparterranno. La nostra è una famiglia di mercanti da generazioni, e anche tu lo sarai. Bisogna che inizi a fare nuove esperienze. Prenderai il mio posto alla guida delle carovane». Il giovane accettò e, alla prima occasione, partì con la protezione di Allah. I carovanieri, che erano in cammino già da una settimana, stavano percorrendo la pista che attraversava Palmira, e si apprestavano a raggiungere il posto in cui avrebbero sostato per trascorrervi la notte, quando scorsero una iena che, guardinga, li seguiva a distanza. Come saprete, questo animale non attacca durante il giorno, ma soltanto al buio. Dopo un po' si fermarono e prepararono il bivacco. Anche la iena si fermò su un'altura vicina, aspettando il momento propizio per aggredire un incauto che si fosse 524
allontanato dall'accampamento, oppure la partenza della carovana, per cibarsi con gli avanzi. Alla stessa collina si diresse un leone, trascinando con i denti una gazzella. Giunto in cima, cominciò a divorarla: strappava un pezzo di carne, la mangiava, si sdraiava per grattarsi, e riprendeva a sbranare la sua preda; finché fu sazio. Allora se ne andò soddisfatto. La iena, che fino a quel momento era rimasta in disparte, si avvicinò alla carcassa abbandonata e la mangiò con ingordigia. Il figlio del mercante, che aveva seguito con interesse la scena, levando gli occhi al cielo, esclamò: «Dio! È proprio vero che nutrì tutte le tue creature: chi giace, chi siede, chi sta dritto. La iena, senza faticare, ha trovato il suo cibo. E io, che stupido!, per guadagnarmi il sostentamento devo arrivare fino a Baghdad, attraversando la steppa infida e affrontando il sole bruciante di giorno e il freddo gelido di notte. Perché non sono rimasto a Damasco? Dio avrebbe provveduto ugualmente ai miei bisogni, come ha fatto con quest'animale». Dopo quella considerazione si alzò immediatamente e ordinò ai suoi uomini: «Smontate le tende. Torniamo a casa.» «Come!» gli dissero meravigliati i cammellieri, «la nostra meta è Baghdad.» «Invece noi rientriamo a Damasco.» Viaggiarono per una settimana, e infine giunsero in città. Un servo, che li aveva incontrati vicino alle mura, corse a informare il vecchio mercante: «Signore, sta arrivando tuo figlio.» «Sei matto? Di certo ti sbagli.» «No, sono sicuro. È la vostra carovana che fa ingresso in città.» «Dio Onnipotente! Quale disgrazia può aver colpito il mio ragazzo?» mormorò preoccupato e, proprio allora, vide entrare suo figlio, tutto sorridente. 525
«Che cosa è accaduto? Perché non sei andato in Iraq?» gli chiese. «Padre, mettiti a sedere e stai tranquillo. Ti spiegherò perché sono tornato indietro.» Sedettero, padre e figlio, accanto al fuoco, e sorseggiarono il tè fumante. Poi il giovane raccontò: «Una sera, mentre eravamo accampati nella steppa, vidi una iena famelica, che aspettava la nostra partenza per nutrirsi con gli avanzi...». Continuò a narrare tutta la storia così come si era svolta, concludendo: «Ho pensato: perché affrontare le intemperie, la fatica, le insidie e le imboscate dei predoni? Come ha nutrito la iena, Dio può nutrire anche me.» «Che Dio ti dia la salute! Alzati, figlio. E riprendi immediatamente il viaggio!» gli comandò, perentorio, suo padre. «Tu devi essere un leone che nutre gli altri, non una iena che gli porta via il cibo.»
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La caverna
Un giorno giunsero nel deserto tre uomini che avevano deciso di cambiare vita. Queste persone non si conoscevano tra loro. Ognuno proveniva da un paese diverso, ma la sorte stava per farli incontrare. All'improvviso, la foschia oscurò il cielo e si scatenò un terribile uragano. In quella contrada c'era una caverna. I tre pellegrini, cercando un rifugio, la videro e corsero a ripararsi. Erano appena entrati, quando il rimbombo di un possente tuono fece rotolare dalla montagna un pesantissimo masso che chiuse l'imboccatura dell'antro. I malcapitati urlarono per lo spavento ma, senza indugiare, unendo le loro forze, cercarono di spostare la roccia; essa, però, era così pesante che neppure la forza di cento uomini l'avrebbe smossa! Infatti, dopo numerosi e vani tentativi, caddero a terra esausti. Che fare? La muta oscurità di quella prigione incuteva spavento, cosicché, per vincere lo sconforto, decisero di raccontarsi qualcosa. Perché non fare conoscenza, visto che il destino li aveva riuniti? Così parlò il primo: «Facevo il pastore. Possedevo un grosso armento di vacche, e vivevo contento con i vecchi genitori che amavo sopra ogni cosa. La sera portavo loro un bicchiere di latte caldo. Se li trovavo addormentati, mi chiedevo: "Li sveglio o aspetto?" e, talvolta, trascorrevo la notte in attesa. Quando mori527
rono, decisi di lasciare il mondo». A queste parole una fessura si aprì nella roccia. Così parlò il secondo: «Avevo un campo, e un ragazzo mi aiutava a coltivarlo. Non voleva denaro. "Maestro, metti da parte il mio salario. Ora non ne ho bisogno" mi diceva. Ma un giorno scomparve. Se ne andò senza avvisarmi e lasciandomi i suoi averi. Trascorsero molti anni, e finalmente un mattino tornò. «"Ti ricordi di me, padrone? Nel passato lavorai la tua terra e ti lasciai in custodia i miei risparmi. Ora mi servono" disse. «Durante la sua lontananza avevo investito il denaro che gli dovevo, comprando alcune pecore. Esse, col tempo, erano diventate un grande gregge. «"Ti appartiene" gli dissi. «"Io non avevo questa ricchezza!" «"L'ho ottenuta con i tuoi soldi. Ora è tua. Vai, e che Dio ti accompagni." Lui mi lasciò un'altra volta; allora decisi di fare l'eremita.» A queste parole lo spiraglio si allargò un poco. Disse il terzo uomo: «Ero un ricco mercante, e possedevo molti beni: case, soldi, gioielli. Avevo una cugina che era invece molto povera, e inoltre era sola al mondo. Un giorno, spinta dal bisogno, venne a chiedere aiuto. Era bella e desiderabile; e io, che la volevo, le offrii denaro in cambio di un'azione disonesta. Lei, sdegnata, rifiutò dicendomi: "Vecchio sudicio, preferisco la mia povertà". Ma alcuni giorni più tardi, vinta dalla miseria, tornò a bussare alla mia porta. "Accetto la proposta" mi disse. «"Ti sei decisa!" esultai, spingendola in casa. «Però, con mia grande sorpresa, fui assalito dagli scrupoli e, vedendo la malvagità dei miei desideri, donai alla poveretta tutto ciò che possedevo. Sono venuto qui per fare penitenza.» A quelle parole la caverna si spalancò. 528
Il contratto di nozze
C'era una volta un poveruomo che curava il giardino del re. Alla moglie di questo giardiniere nacque un maschio e la regina partorì una femmina. Un giorno, mentre i due bambini, che si chiamavano Hassan e Sabiha, giocavano nel giardino, passò uno sheikh. Si sedette accanto a loro, prese una pietra e la fece saltare da una mano all'altra più volte, mormorando parole tra sé. Il re, che assisteva incuriosito, gli chiese: «Che fai?» «Il contratto di nozze tra il figlio del giardiniere e la figlia del re.» Il sovrano, convinto che scherzasse, acconsentì sorridendo. Trascorsero gli anni. I bambini, diventati un bel giovane e una graziosa fanciulla, si innamorarono. Hassan andò dal re a chiedere la mano della principessa, ma lui gli rispose, sprezzante: «Ti darò mia figlia quando avrai conquistato sette regni.» E lo licenziò. Hassan partì, conquistò i sette regni e tornò dal re, che però non lo voleva proprio come genero e, sperando di liberarsene per sempre, gli affidò un'altra impresa disperata. «Mia figlia sarà tua quando mi avrai portato l'aurora» gli disse. «È impossibile, signore; come potrei riuscire a fare ciò?» 529
«Non so, ma solo a questa condizione potrai sposare Sabiha.» «Va bene, tenterò. Dammi un po' di tempo.» «Torna tra un mese.» Così Hassan si mise di nuovo in viaggio. Andò da una città all'altra. Attraversò fiumi, monti, pianure, e a tutti chiedeva: «Come si può prendere l'aurora?». Nessuno sapeva rispondergli. Trascorsero ventinove giorni e lui, sentendosi sconfitto, decise di tornare a casa. Era seduto, triste e rassegnato, a riposare, quando un uomo gli apparve all'improvviso e gli disse: «Come! Rinunci all'aurora?». Hassan lo guardava sbalordito, e stava per rispondergli, ma l'uomo continuò: «Recati alla moschea nel tempo tra la preghiera del tramonto e l'ultima della sera, avvolgiti in una stuoia, sistemati in un angolo e attendi». Poi lo salutò e scomparve. Il giovane andò alla moschea, si avvolse nella stuoia e si mise in un angolo. I fedeli arrivavano e lo guardavano incuriositi. Venne lo sheikh, lo vide, gli si avvicinò, e gli chiese: «Che fai, figlio mio?» «Cerco la maniera di prendere l'aurora. Il padre della donna che amo me l'ha chiesta in dote.» «Vedrò di aiutarti» gli promise lo sheikh; e inviò alcune persone al palazzo reale. Queste attesero che il re andasse a letto e si addormentasse, poi lo portarono alla moschea. Alle voci dei fedeli che adoravano Dio, il re si svegliò e lo sheikh gli chiese: «Perché non dai Sabiha in moglie al figlio del giardiniere?». «Gli ho chiesto in dote l'aurora e non me l'ha portata.» «Io sono l'aurora.» 1 «E che cosa vuoi da me?» «Che concedi a Hassan di sposare Sabiha. Ricordi 530
l'uomo che, un giorno di tanti anni fa, fece il contratto di nozze tra il figlio del giardiniere e la figlia del re? Tu lo sai: quando si promette una bambina in sposa a qualcuno, essa gli appartiene per la vita. » Allora il re chiese scusa a Hassan per averlo tormentato e diede il consenso alle nozze. Morale della favola: Gli uomini sono tutti uguali davanti a Dio.
NOTE 1 Aurora è in arabo di genere maschile e anche un nome proprio.
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Il lavoro di Dio
Un giorno, il re convocò i suoi sudditi. A tutti chiedeva: «Qua! è il lavoro di Dio?». «Ha fatto il cielo e la terra» dissero alcuni. «Ha fatto le religioni: il cristianesimo e l'Islam» affermarono altri. Ma egli non fu soddisfatto delle risposte. Mentre una gran folla era riunita davanti alla reggia, passò un povero asinaio che si incuriosì e chiese al visir: «Che cosa vuole il re?». «Desidera sapere qual è il lavoro di Dio.» «È facile! Io lo so.» «Come! Tutti i sapienti del regno non sanno rispondere e tu pretendi di saperlo?» «Certo, e te lo dimostrerò: alzati dalla sedia.» Il visir si alzò. «Levati gli abiti, indossa i miei e prendi l'asino.» Dopo aver scambiato i vestiti, l'asinaio si sedette al posto del visir. «Questo è il lavoro di Dio: innalzare e abbassare gli uomini. Ora conducimi dal nostro signore.» «Se entri, ti taglierà la testa.» «Faccia pure ciò che vuole» disse l'asinaio. E andò dal re. «Sire, io conosco la risposta. So qual è il lavoro di Dio.» «Dimmi!» esclamò incuriosito il sovrano. 532
«Scendi dal trono, leva il tuo abito e indossa il mio.» Il re acconsentì, e si scambiarono i vestiti. «O re del tempo, il lavoro di Dio è innalzare e abbassare gli uomini.» 1 «Come?» «Non vedi? Io sono diventato re, il re è diventato visir e il visir asinaio» disse. E si sedette sul trono.
NOTE 1 «Oh mio Dio! Possessore della sovranità! Dai la sovranità a chi vuoi e ne privi chi vuoi. Innalzi chi vuoi e umili chi vuoi. La felicità è nelle tue mani. Tu sei onnipotente.» Corano, III, 25.
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Fai il bene e gettalo in mare
C'era una volta un pescatore che aveva un figlio. Un giorno presero un pesce grandissimo, ma non riuscivano a farlo uscire dall'acqua. Il pesce era troppo pesante. «Tu resta qui e non lasciartelo sfuggire, mentre io vado a cercare qualcuno che ci aiuti» disse il padre. Rimasto solo, il ragazzo volle provare ancora e sollevò la rete senza sforzo perché il grosso pesce era scomparso. Al suo posto ce n'era uno piccolo che aveva scritto sul dorso: "Ti prego, sii buono e gettami in mare". "Va bene" pensò; e così fece. Poi però, temendo l'ira paterna, abbandonò le reti sulla spiaggia e fuggì via. Camminò per molte ore, ma verso sera, vedendo una grotta, decise di essersi allontanato abbastanza e che poteva finalmente riposare. Entrò nella spelonca, e vi trovò un giovane. Lo salutò, sedette accanto a lui e gli raccontò la sua storia. «Anch'io sono scappato» confessò l'altro. «Mio padre fa l'imbianchino. Oggi, mentre lavoravo con lui mi è caduto un secchio di pittura che si è sparsa per terra. Sono fuggito per paura che mi picchiasse.» I due poveretti, diventati amici, decisero di proseguire insieme il viaggio. Dopo qualche giorno giunsero a una grande città, videro una trattoria e pensarono di chiedere lavoro al proprietario. 534
«Figli miei, qui viene poca gente, non ho bisogno di aiutanti» si scusò l'uomo. «Tienici con te, non vogliamo denaro, ci basta un po' di cibo; vedrai che ti saremo utili» insistette il figlio dell'imbianchino. Alla fine l'oste acconsentì. I ragazzi erano gentili, educati, laboriosi; conquistavano gli avventori con le loro maniere; cosicché il ristorante diventò il più conosciuto e frequentato della regione. Il padrone, contento, volle pagare loro un salario ed essi si impegnarono, da quel momento, a dividere tutti i guadagni a metà. Un bel giorno però il figlio dell'imbianchino disse all'amico: «Voglio andare a cercare un lavoro più redditizio. Tu resta qui.» «Vai pure e stai tranquillo, quando tornerai avrai la tua parte di denaro» gli promise il figlio del pescatore, e si salutarono. Dopo aver camminato per alcune ore, il ragazzo giunse al palazzo reale e qui vide uno spettacolo orribile. Decine di teste umane erano appese ai muri della reggia! «Che cosa è accaduto?» chiedeva ai passanti, ma nessuno sembrava sentirlo. «In nome di Allah e del suo profeta rispondetemi!» Finalmente un vecchio parlò. «La nostra principessa è diventata muta all'improvviso. Il fortunato avrà in premio quaranta cammelli, quaranta forzieri d'oro e pietre preziose, e in più potrà sposarla. Tanti si sono cimentati nell'impresa ma tutti hanno fallito e sono stati uccisi perché non potessero dire niente di lei dopo averla vista.» «Io la farò parlare» decise il giovane; e si fece condurre al cospetto del re. «Sire, renderò la parola a tua figlia ma a una condizione.» «Quale?» «Voglio che un lenzuolo sia messo tra noi. Se riu535
scirò a curarla, me la darete in sposa; se fallirò, dovrete lasciarmi andare via sano e salvo perché non l'avrò vista e non potrò dire niente.» Il re acconsentì e ordinò al visir: «Tu assisterai e mi farai il resoconto di ciò che accadrà». I servi portarono un lenzuolo e lo sistemarono in mezzo alla stanza come un sipario. Da una parte stava la principessa, nascosta agli occhi del giovane. Questi raccontò una storia. «Un carpentiere, un sarto e uno sheikh decisero di fare un viaggio insieme. Partirono all'alba, e dopo aver cavalcato per tutta la giornata, si fermarono in una radura per trascorrervi la notte; ma poiché avevano paura di essere sorpresi da un ghul mentre dormivano, si accordarono per vigilare a turno. Cominciò il carpentiere. "Farò qualcosa che mi aiuti a stare sveglio" si disse. Tagliò un albero e scolpì una bella fanciulla nel tronco. «Poi fu la volta del sarto a far la sentinella. Vide la statua, le cucì un abito e la vestì. Quando lo sheikh si svegliò e scorse la graziosa figura di legno, pregò Allah: "Fai che abbia un'anima". E, con il permesso del Signore, le infuse il soffio della vita. A chi secondo voi dovrebbe appartenere la fanciulla?» «Non saprei» rispose il visir. «Lo so io. Al falegname che l'aveva scolpita.» Era la voce della principessa! Chiamarono il re: «Sire, tua figlia ha parlato!». Ma lei era di nuovo muta. «Hai mentito» urlò il re al suo visir «di sicuro questo giovane ti ha corrotto.» E lo cacciò via; nominò un altro al suo posto e uscì. Il figlio dell'imbianchino raccontò un'altra storia. «Due fratelli vivevano insieme. Uno di essi, Jamal, era sposato. Un giorno, mentre lavoravano nei campi, il fratello scapolo, che si chiamava Bashlr, si sentì male e tornò a casa. A notte fonda rientrò anche Jamal e vide nel letto, accanto alla moglie, un'altra 536
persona. Era la sorella, venuta in visita dal villaggio vicino, ma egli nella penombra la scambiò per un uomo. Travolto dall'ira e dalla gelosia, prese un coltello per ucciderlo. Le due donne, che al frastuono si erano svegliate, si misero a gridare chiamando aiuto. Accorse Bashxr, pensò a un bandito e si scagliò contro il fratello. Si ingaggiò una lotta silenziosa e furibonda che terminò quando i due, nello stesso momento, vibrarono le armi al collo, reciprocamente, e le loro teste caddero al suolo. La moglie di Jamal, che nel frattempo aveva acceso una lanterna, a quella vista impazzì dal dolore. Successe, allora, un fatto straordinario. Allah, mosso a compassione per la vedova, fece tornare in vita i due uomini, ma unì la testa dell'uno al corpo dell'altro. «Dimmi, o visir, a chi dovrebbe appartenere la donna? Alla testa o al corpo del marito?» «Non so» rispose il nuovo visir. «Alla testa; perché lì risiedono l'intelletto e la vista» disse la principessa. Chiamarono suo padre, ma lei non pronunciò più una parola. Il re licenziò il ministro e decise di assistere in persona. Il ragazzo si mise a raccontare una terza storia. «Una fanciulla ricca, bella e in età da marito aveva tre cugini che volevano sposarla. Lei però li amava tutti alla stessa maniera e non sapeva decidersi a scegliere. Un giorno, consegnò a ciascuno di essi mille dinari dicendo: "Chi di voi troverà per me l'oggetto più bello diventerà il mio sposo". I tre si misero in viaggio. Il fratello maggiore andò al suk della città vicina, vide un tappeto volante, gli piacque tanto e lo comprò. "Che mi importa del matrimonio? Preferisco il tappeto. Viaggerò, conoscerò nuovi paesi, mi divertirò" si disse. E dimenticò la cugina. «Il secondo fratello trovò, nella bottega di un rigattiere, uno specchio magico che mostrava qualun537
que cosa o persona si desiderasse vedere. Decise di tenersi lo specchio e rinunciare al matrimonio. Il terzo fratello, con i mille dinari, comprò una mela il cui profumo curava tutte le malattie. Si mise a guarire i malati e non tornò più a casa. Trascorsero gli anni. Un giorno, il padrone dello specchio, guardando in esso, seppe dove abitava il fratello maggiore. Andò da lui e insieme risolsero di fare visita al più piccolo, che era diventato un medico celebre. Salirono sul tappeto e in un baleno giunsero alla città dove abitava. Rievocando il passato, si ricordarono anche della cugina; guardarono nello specchio e videro che era gravemente ammalata. Decisero di visitarla, e il tappeto magico li condusse da lei che, al profumo della mela, guarì. «O re, chi avrebbe dovuto sposarla?» «Non saprei» rispose il re. «Tutti hanno collaborato.» Invece la principessa sentenziò: «Il padrone della mela. Perché il vivo è meglio del morto». Poi divenne di nuovo muta. Ma ormai il re non poteva più rifiutare le nozze, che furono celebrate con grande sfarzo. Finiti i festeggiamenti, si caricarono i forzieri su quaranta cammelli e gli sposi partirono. Appena giunsero alla locanda, il figlio dell'imbianchino disse all'amico: «Ormai siamo ricchi, torniamo ai nostri villaggi». E quando arrivarono presso la grotta in cui si erano incontrati la prima volta, gli diede venti cammelli e venti forzieri. Il figlio del pescatore lo ringraziò per la sua generosità, lo abbracciò e voleva rimettersi in cammino, ma l'amico gli disse: «No, aspetta! Resta qualcosa da dividere: mia moglie.» «Impossibile! Non permetterò questo, tu sei stato giusto, e io sono soddisfatto» protestò l'altro. «Non si può tradire una promessa. Preferisci la parte superiore o quella inferiore?» 538
«Né l u n a né l'altra.» «Vuoi che la divida dall'alto in basso?» e facendo seguire i fatti alle parole, sguainò la spada e la mise sulla testa della moglie. Stava per vibrare un colpo, quando si udì un urlo: «In nome di Dio non uccidermi!» implorò la principessa muta, guarita completamente per lo spavento. Allora, il giovane imbianchino si rivolse sorridente al compagno: «Ricordi il pesce che salvasti? Ero io.1 Prendi tutti i cammelli, i forzieri e questa donna che è tua». Salutò e si tuffò in mare. 2
NOTE 1 L'universo leggendario e favolistico siriano è ricco di esseri marini che si trasformano in uomini e donne o viceversa. Il pesce, nell'antica iconografia, rappresentava la vita, e questa immagine fu ripresa dal simbolismo cristiano. Vasche di pesci sacri si trovavano in numerosi templi pagani dove erano praticati culti misterici. Ancora oggi molti Siriani non si cibano del pesce fluviale. 2 II mare, nel Medio Oriente antico, veniva considerato luogo mitico dei viaggi d'oltretomba. Sono celebri le avventure marittime di Alessandro Magno nella Leggenda Islamica di Dhu-l-Qarnain; cfr. E.G. Gomez, Un Texto Arabe Occidental de la Leyenda de Alejandro (Madrid 1929, pag. 59 sgg.)
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Vai a dormire arrabbiato ma non pentito
Un uomo, avendo perso ogni speranza e fiducia nell'esistenza che conduceva, decise di lasciare tutto e tutti per rifugiarsi nel deserto e vivere da eremita; cosicché, lasciata la tribù paterna, si mise alla ricerca di un luogo in cui stare in solitudine. Un giorno incontrò un vecchio, si fermò a conversare con lui, e finì per confidargli il suo desiderio di abbandonare il mondo. L'uomo si offrì di aiutarlo, offr endogli un lavoro e dei consigli. «Occupati del mio armento, e ogni anno riceverai come compenso due cammelli. Ma se vuoi vivere serenamente la tua condizione, ti esorto a mettere in pratica due regole: primo, non salire in cima alla montagna, secondo, non dormire mai sulla schiena» gli disse. L'aspirante eremita acconsentì. Prese in consegna la mandria e cominciò una nuova vita. Durante il giorno si occupava delle bestie, e anche la notte era solo. Per vent'anni visse sereno, osservando sempre i due precetti. Ma un giorno li dimenticò: salì sulla montagna e dormì sulla schiena. Allora, improvvisamente, lo assalì il ricordo del suo paese e della sua tribù. La sera stessa si recò dal padrone. 540
Questi lo vide da lontano e disse alla moglie: «Prepara il pranzo e le provviste per il pastore, che sicuramente andrà via. Ha nostalgia della sua gente.» Quando giunse, gli chiese: «Che cosa ti succede?» «Mi manca la famiglia, voglio tornare a casa.» «Sei salito sulla montagna?» «Sì. Ho anche dormito sulla schiena.» «Va bene. Senti, tu hai lavorato per me per vent'anni, ti spettano quaranta cammelli.» Il pastore li prese ma, dopo aver riflettuto, propose al suo padrone: «Te ne rendo trentanove, in cambio di tre consigli». Il vecchio accettò. «Primo: non stare mai in compagnia di uno che ha i denti incisivi separati, gli occhi verdi ed è glabro. 1 Secondo: non dormire mai in una vallata profonda. Terzo: vai a letto arrabbiato ma non pentito» 2 disse, e gli diede i viveri per il viaggio. Il pastore partì. Un giorno incontrò un viandante. «Mi fai salire con te sul cammello?» gli chiese lo sconosciuto. «Certo, fratello» rispose. Cavalcarono insieme, fino al tramonto. Quando si fermarono per la sosta notturna, il compagno tolse la keffyyie che gli copriva il volto, e lui vide che aveva gli incisivi separati, gli occhi verdi, ed era glabro. "Come ho potuto accompagnarmi a quest'uomo? E dire che comprai a caro prezzo il consiglio di stare lontano da persone simili!" pensò, turbato. Dopo cena, gli augurò la buona notte e fece finta di andare a letto. Invece, dopo aver messo qualcosa sotto la coperta per simulare il suo corpo, si nascose in attesa. Il brigante, lasciato trascorrere un po' di tempo, raggiunse in silenzio ciò che sembrava un uomo dormiente e gli vibrò una coltellata. Voleva uc541
cidere il pastore e rubargli il cammello! Il pastore, invece, lo sgozzò. All'alba riprese il viaggio. Mentre cavalcava nel deserto, vide altri cammellieri che andavano nella stessa direzione e decise di unirsi a loro. Dopo alcuni giorni, giunsero a una profonda vallata, e poiché era ormai sera, stabilirono di sostarvi. Stava già per addormentarsi, quando gli tornò in mente il secondo consiglio: "Non dormire in fondo a una valle". Allora raccolse la sua tenda e salì sulla collina. Durante la notte si scatenò una tempesta spaventosa; la pioggia riempì la gola, e la corrente impetuosa dell'improvviso torrente travolse gli uomini, gli animali e gli oggetti. Fu l'unico a salvarsi! La mattina ripartì. Cavalcò a lungo, e finalmente, dopo alcune settimane, giunse a destinazione; ma non trovò i suoi nel posto in cui li aveva lasciati. Si mise a cercarli. Una sera incontrò il cammelliere che curava le mandrie del padre, ma non si riconobbero. Il servo lo invitò a cena e lo portò alla tenda del capo. Mentre attendeva il cibo, si guardava intorno, e con grande sorpresa vide sua moglie, abbandonata ventanni prima, che, sdraiata su una stuoia, riposava con un giovane a fianco. Irato, impugnò il coltello, pensando di ucciderla. Per fortuna ricordò in tempo il terzo consiglio: "Vai a dormire arrabbiato ma non pentito". Chiamò il cammelliere e gli chiese: «Chi è quella donna?». «La nuora del nostro sheikh. Il marito, tanto tempo fa, l'abbandonò quando lei era incinta di quel ragazzo che le sta accanto.» «L'uomo per cui pascoli gli armenti è mio padre! Vai a dargli la notizia del mio ritorno, ti ricompenserà.» Aveva ritrovato la famiglia! 542
«I cammelli sono qui, prendi quelli che vuoi» disse il vecchio capo al messaggero, e corse ad abbracciare il figlio ritrovato. Poi ordinò che si celebrasse una grande festa. Il deserto, presso i Semiti, dall'Arabia al Mediterraneo, nell'ebraismo, cristianesimo primitivo e Islam, era il luogo simbolico in cui l'uomo doveva rifugiarsi per esorcizzare il male, sconfiggere la sterilità dell'anima e cercare la Realtà.
NOTE ' Il timore per l'uomo glabro è un motivo frequente nei racconti siriani. La barba ha sempre avuto presso i Semiti un grande valore. Essa era simbolo di coraggio, saggezza e rettitudine. Gli Arabi, con un suo pelo dato in garanzia, offrivano praticamente in pegno la loro dignità e nobiltà d'animo. Finì anzi per assumere carattere sacro. (Celebre il giuramento "Per la barba del Profeta".) Anche i monaci orientali portavano lunghe barbe fluenti. Un volto glabro potrebbe quindi significare viltà, inganno, doppiezza. Pure i denti potrebbero avere un senso analogo: una bella dentatura simboleggia la perfezione; i denti spaziati, irregolari, la deformità morale. Gli occhi verdi hanno un significato occulto. Nel Medio Evo divennero emblema dell'irrazionalità malefica e della follia. Gli alieni, nel m o n d o dell'immaginario, hanno spesso gli occhi verdi: dal diavolo ai marziani! 2 Questo genere di racconto, imperniato sulla vendita di consigli, fu popolare anche in Occidente. Il più elaborato si trova in Gesta Romanorum - exemplum n. 103, del mercante che vende tre consigli all'imperatore Domiziano: 1. «Quidquid agas prudenter agas et respice finem»; 2. «Numquam viam publicam dimittas propter semitam»; 3. «Numquam hospicium ad m a n e n d u m de nocte in domo alicuius accipias, ubi dominus d o m u s est senex et uxor juvencula». (1. Agisci sempre con prudenza e tieni presente il fine; 2. Non lasciare mai la via pubblica per un sentiero; 3. Non accettare mai ospitalità notturna in casa di un vecchio che ha una moglie giovinetta.)
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La madre del vento
Una vecchia donna viveva in grande povertà. Molto spesso non riusciva neppure a mangiare. Un giorno, per strada, inciampò in qualcosa che fece un leggero tintinnio. Si chinò incuriosita, e vide una moneta da dieci lire. Lieta, la raccolse, andò al suk, e comprò un sacco di lenticchie. Però, mentre rientrava, cadde la pioggia e i legumi si inumidirono. Lei, paziente, attese che tornasse il sereno e li mise sul davanzale della finestra ad asciugarsi al sole. Ma ecco, improvviso, si scatenò il vento, e fece volare le lenticchie, che ricaddero sparpagliandosi tra l'erba. La poveretta si mise a piangere e a lamentarsi: «Che disgraziata! Prima la pioggia, poi il vento. Perché la sfortuna mi perseguita?». Infine si calmò, e decise di lagnarsi con la madre del vento. Andò da lei e le raccontò tutto concludendo: «Non è giusto, signora, ciò che ha fatto vostro figlio.» «Hai ragione; sarai risarcita. Torna qui domani con il sacco vuoto.» La vecchia tornò il giorno seguente con il sacco; la madre del vento vi mise dentro qualcosa, e le disse: «Lo aprirai dentro casa tua, quando sarai sola e con la porta chiusa». La vecchia obbedì e dal sacco vennero fuori tantissime monete d'oro. 544
Era felice. Si mise a cantare, a benedire la madre del vento e la buona sorte. La sentì una vicina, che pensò, perplessa e incuriosita: «Che cosa mai renderà tanto allegra quella disgraziata morta di fame?» e non fu soddisfatta finché non riuscì a sapere tutto. Allora decise di imitarla. Comprò le lenticchie, le mise sul suo davanzale e attese il vento. Ma il vento non venne; lei corse infuriata dalla madre del vento, e le disse: «Maledetto tuo figlio, che mi ha fatto cadere le lenticchie. Chi pagherà questo disastro?» «Calmati, e vieni domani con il sacco vuoto. Vedremo di riparare il torto.» La vicina tornò il giorno dopo con un sacco grandissimo, e la madre del vento vi mise dentro qualcosa, raccomandandole di aprirlo quando era sola e con la porta sprangata. Così fece. Si chiuse dentro casa e aprì il sacco; ma non c'erano monete d'oro. Ne uscirono scorpioni e serpenti velenosi che la uccisero.
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Siano benedetti l'estate e l'inverno
Tanto tempo fa, c'era una vecchia che abitava con il figlio sposato. La nuora però non l'amava, e spingeva il marito a scacciarla. Lui cercava di barcamenarsi, finché, un giorno, fu costretto a scegliere. «O se ne va lei, o me ne vado io» gli disse la moglie. Allora lui propose a sua madre: «Che ne diresti di una bella scampagnata?» «Grazie, caro. Ne sarei lieta.» Andarono in campagna, e trascorsero insieme la giornata. Al crepuscolo, lui si allontanò con un pretesto, assicurandole che sarebbe tornato subito. Ma non tornò. La madre lo attese con pazienza per ore, invano. Infine fu vinta dal sonno. Al risveglio, l'indomani, lodando Iddio implorò il suo soccorso. La sentirono due giovani che passavano di là. «Che cosa fai tutta sola, zia?» le chiesero. «Ieri mio figlio mi ha condotta qui. Ora aspetto che torni a riprendermi.» «Che cosa pensi dell'estate e dell'inverno?» «Sono entrambi doni che Dio ha dato all'uomo per servirlo» rispose la vecchia. Essi si allontanarono, e sopraggiunse una donna che le fece le stesse domande e ottenne le stesse risposte. Intanto il figlio, tormentato dal rimorso per averla abbandonata, decise di tornare in campagna a ri546
prenderla. Lei l'accolse festante, rivolgendogli parole di ringraziamento e... lucenti monete d'oro cominciarono a uscirle dalla bocca! Quando vide quel fatto straordinario sua nuora la colmò di attenzioni. Ma, con il passare del tempo, la cupidigia e la gelosia le suggerirono di fare alla madre ciò che aveva fatto alla suocera. Così avvenne: la vecchia fu abbandonata e si addormentò. Al risveglio vennero i due giovani e le chiesero: «Cosa pensi, zia, dell'estate e dell'inverno?» «Fanno schifo. L'estate è troppo calda, l'inverno troppo freddo. Sono entrambi una maledizione» disse; e così rispose anche alla donna. Quando, il giorno seguente, il genero tornò per riportarsela a casa, lei lo accolse con i peggiori insulti e, mentre parlava, dalla bocca le uscivano immondizie e insetti velenosi.
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Le cipolle del re
C'era una volta un re che amava moltissimo le cipolle, e le coltivava nel suo giardino. Non permetteva a nessuno di toccarle, e aveva fatto una legge per preservarle: «Chi toccherà anche una soltanto delle mie cipolle, sarà condannato all'impalatura». Avvenne che, un giorno, passò di lì un povero orfano che viveva con la nonna. Vide le cipolle del re e pensò: "Ne porterò due a mia nonna". Ma le guardie lo sorpresero e volevano condurlo in tribunale. Allora, lui le pregò: «Lasciatemi rivedere mia nonna, prima di morire.» Le guardie esaudirono la supplica. «Cara nonna, vengo a salutarti prima di essere impalato» le disse, commosso, il giovane condannato. «Va bene. Però fai presto. Il pranzo è quasi pronto. Vai a impalarti, e torna a mangiare» rispose la vecchia svanita. Le guardie lo portarono via. Passarono davanti al palazzo del re, mentre stava affacciata alla finestra la principessa, che era una bellissima fanciulla. Quella creatura meravigliosa infiammò di desiderio il condannato. Mai niente l'aveva sconvolto a tal punto! Come lo vide, il re sentenziò, furibondo: «Poiché hai osato toccare le mie cipolle, sarai condannato all'impalatura.» 548
Udendo il verdetto di morte, il giovane scoppiò a ridere. «Perché ridi?!» gli chiese il re, indispettito. «Forse che l'idea di morire tra i supplizi ti diverte?» «No, maestà. Pensavo a mia nonna, che mi consiglia un'impalatura veloce per non fare tardi a pranzo. A me, che la vita accende nel momento in cui sto per essere spento. E a te, che uccidi gli uomini per far vivere le cipolle. In verità, il tuo cervello è uguale al mio e a quello di mia nonna.» «Vai in pace» gli disse allora il re.
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Postfazione di Maria Antonietta Carta
«La tradizione che è opera dell'oblio e della memoria.» /orge Luis Borges
L'arte del raccontare nasce con l'uomo. Nel mondo primigenio, gli avvenimenti e le credenze religiose si trasmettevano a voce. Di padre in figlio. Ma, con il passare del tempo, con il succedersi delle generazioni, i ricordi sbiadivano e l'immaginazione sostituiva la memoria, alterando verità diventate confuse e trasformandole in materia epica, miti. Raccontatori di professione (aedi) si occupavano di diffonderli e tramandarli. Poi fu inventata la scrittura, e suo divenne il ruolo di registrare il sapere e la Storia. A Ur, Babilonia, Mari, Ebla, Ugarit, in Egitto, si compilarono intere biblioteche: documenti giuridici, amministrativi, linguistici, opere epico-mitologiche, didascalico-sapienziali, e anche favole. Ma la scrittura era una prerogativa delle classi egemoni: sovrani, sacerdoti, mercanti, eruditi. La gente comune era esclusa dal suo impiego, e continuava a usare l'elementare strumento del raccontare primitivo che, però, con il passare del tempo, grazie ai contatti sempre più frequenti tra i popoli e al contributo della fantasia collettiva, andò evolvendosi, diventando il mezzo di trasmissione di una visione del mondo. Notizie vaghe sulla geografia, sui pericoli dei viaggi per mare e per terra, su una natura ostile e temuta, vennero proiettate nell'immaginario fantastico, abitato da giganti, orchi e orchesse, satiri, cavalieri 553
intrepidi, fanciulle desiderabili. I miti semplificati, degradati, diventarono metafore utili a esorcizzare il timore e lo spavento, sentimenti essenziali della natura umana, a testimoniare l'eternità della lotta tra il bene e il male, la luce e le tenebre. E la inesplicabile potenza dell'amore. «C'era una volta, in tempi lontani...» e si apre una porta nascosta che introduce alle fiabe. Ha inizio così l'atto corale in cui il narratore e chi ascolta diventano compartecipi di una cerimonia "magica". Con l'intonazione della voce, la gestualità dal sapiente effetto teatrale, il linguaggio figurato e l'attenzione incantata dalle parole evocatrici, si varca il confine tra la realtà e il sogno, per penetrare in un altro universo, lontano dalla nostra realtà dominata dalla ragione a scapito del "senso", dove non esistono barriere tra il probabile e l'inverosimile, e ci si addentra nel mondo inconsapevole dei fantasmi, dell'infanzia smarrita. Dove esseri umani e soprannaturali si incontrano. Dove piante, fiori, erbe, pietre, sentieri, grotte, animali, acqua, stelle, terra e cielo sono lo specchio che riflette il viaggio nell'"antico" che è dentro ogni uomo. Lo scopo di questa raccolta è far conoscere la narrazione orale siriana. Tralasciando il problema sulla teoria poligenetica o monogenetica delle fiabe, sempre ampiamente discusso e mai risolto, o la considerazione se la Siria fu uno dei luoghi delle sue origini, vorrei soprattutto evidenziare la grande ricchezza e varietà di una cultura popolare che, per temi e "colori", mi sembra testimoni come essa sia stata un luogo privilegiato di incontro e diffusione di quell'eterno raccontarsi dell'uomo per mezzo delle fiabe, che hanno attraversato spazi e tempi, continuamente ricreandosi, adattandosi agli ambienti più diversi, e con il cui potere incantatore, onirico, l'umanità ha 554
trovato la maniera di preservarsi dal distacco del mondo naturale. Il paese La Siria moderna, nata dallo smembramento dell'Impero Ottomano, con un territorio di 185.180 km 2 , ha frontiere per lo più artificiali. A nord, la strada ferrata lungo il Tauro, dove passava il leggendario Orient-Express, serve da frontiera con la Turchia, fino alla città di Kamishli, nelle cui vicinanze scorre il fiume Tigri. È la Siria asiatica, che guarda all'Iran, Mar Caspio, Caucaso, Turkmenistan. A est confina con l'Iraq, ed è protesa quindi verso la Penisola Arabica e il Golfo Persico. A sud, a partire da Abu Kamàl, una linea retta la separa dalla Giordania, fino al monte el-Arab, nell'Hauran. L'Hermon e l'Antilibano rappresentano i suoi limiti occidentali. I 183 chilometri di costa mediterranea aprono all'Occidente. Anticamente molto più vasta, 300.000 km 2 , comprendeva l'attuale Siria, il Libano, la Palestina e la Transgiordania. Fu ponte tra la Mesopotamia, l'Anatolia e l'Egitto, al centro delle vie di comunicazione tra Asia, Europa, Africa. L'avventura umana iniziò in Siria nel Paleolitico inferiore, quando fu abitata dall'uomo di Neanderthal. Dal X millennio si ebbe un graduale passaggio dall'economia di caccia e raccolta all'agricoltura, e cominciarono a esservi addomesticati gli animali e a costruirsi le prime rudimentali dimore. Le ricerche archeologiche più recenti rivelano come i primi passi fondamentali verso il progresso dell'uomo avvennero in quest'area. Dall'8500 al 5000 a.C. si sviluppò la civiltà neoliti555
ca. Nel periodo halafiano (VI-IV millennio) si passò a una società stratificata, organizzata politicamente ed economicamente diversificata. Nel IV millennio i Sumeri vi fondarono importanti colonie, e vi apparve la scrittura. Nel III-II millennio a.C. prosperarono complesse e monumentali città quali Ebla, Mari, Aleppo, Hama, Ugarit, capitali di regni fiorenti e ambiti dai potenti vicini. A Ugarit, centro cananeo poliglotta, dinamica sede di importanti traffici, frequentata da Ittiti, Cretesi, Micenei, Ciprioti, Egizi, fu inventato il primo alfabeto che, da lì, passò alla Grecia. Potenti sovrani quali Hammurabi, Sargon II, Ramsete II, l'ittita Khattushili I, tentarono di conquistare questa terra. Nel I millennio a.C. subì altre invasioni: Aramei del Nord Arabia, Egizi, Caldei, Assiri, Persiani. Nel 334, con Alessandro Magno, entrò nell'orbita della cultura occidentale, e i Seleucidi vi fondarono numerose città ellenistiche. Nel 55 a.C. diventò provincia consolare romana, e una stirpe di imperatori siriani, oltre a giuristi, sacerdoti, architetti, si insediò a Roma (211-235 d.C.). Fece anche parte dell'Impero Romano d'Oriente, e vi si stanziarono i primi cristiani fuggiti dalla Palestina. Gli Arabi, nel 636, vi sconfissero i Bizantini, e Damasco divenne superba capitale, centro politico e culturale del prospero e potente regno degli Omayyadi. Dal 1000 al 1500 d.C. si trovò coinvolta nelle lotte tra crociati e musulmani, e una parte del suo territorio fu annessa al regno latino. Soffrì anche le incursioni devastatrici di Mongoli e Tartari. Pisani, Genovesi, Veneziani, tra gli altri, vi fondarono grandi empori e sedi consolari. E vi si parlava arabo, latino, greco, francese, italiano, aramaico. Dal 1500 al 1900 fece parte dell'Impero Ottomano. 556
La Siria fu attraversata, nel corso della sua lunga e stratificata storia, da genti provenienti dalle quattro direzioni. In epoche diverse vi si stanziarono: tutti i popoli della Bibbia; Arabi, presenti dal III millennio a.C.; Indoeuropei; Caucasici. Ne risulta uno straordinario mosaico di genti, portatrici delle tradizioni più diverse. Di origine principalmente aramaica, la popolazione attuale comprende Arabi, Curdi, Armeni, Assiri, Circassi, Turcomanni, Turchi, Ebrei e altri ancora. Alla ricchezza di etnie corrisponde una grande varietà di credenze religiose. La maggior parte dei suoi abitanti è di fede islamica. L'80% sunniti, il 20% si divide tra alawiti, drusi, ismailiti, sciiti ortodossi e alcune confraternite mistiche. Tra i cristiani: greco ortodossi, Siriani giacobiti (monofisiti), melchiti, nestoriani, Armeni gregoriani e cattolici, maroniti, caldei, protestanti. In Siria, cioè, continuano oggi a vivere numerose espressioni del cristianesimo primitivo. Vi si praticano anche culti pagani, gnostici, tra cui quello degli yazidi, di origine manichea, singolare mescolanza di tutte le religioni e permeato di zoroastrismo. Letteratura popolare araba e siriana Per "mondo arabo" si intende una vasta area geografica che abbraccia la regione mediorientale e quella nordafricana. Essa ebbe, originariamente, un ambiente fisico omogeneo con mutamenti geologici e climatici simili. Le zone interne umide e boscose diventarono steppe e deserti. In questo habitat primitivo e ostile si spostarono e incontrarono nomadi, carovane, eserciti. Anche le regioni costiere e fluviali 557
favorirono contatti e traffici tra popolazioni diverse. Esperienze comuni che si tradussero in comuni credenze: dai culti totemici, alle religioni misteriosofiche, alla leggenda di Didone che, dalle coste fenicie, approdò alle spiagge africane. Inoltre, da un determinato momento storico, successivo alla conquista islamica, si iniziò a condividere una lingua, una religione, ideali ed esperienze politiche. Il termine '"uruba", tradotto con "arabicità", vuole definirne l'identità culturale nel senso più ampio, con una matrice islamica comune, sostanziale e imprescindibile, ma che travalica le credenze religiose e non ha pregiudiziali etniche. L"uruba sarebbe, o vorrebbe essere, una patria ideale. Per letteratura popolare araba si intende, quindi, ogni forma di espressione letteraria tradizionale di questa realtà. Anche la narrazione orale. Esistono infatti molti elementi che fungono da comune denominatore. Tra essi: 1) l'uso costante della terza persona; 2) l'inserimento di parti in versi; 3) la prosa rimata; 4) l'atemporalità, manifesta soprattutto negli anacronismi, dovuti anche ai tempi dei verbi impiegati: l'aoristo e il perfetto greco, corrispondenti ai nostri passato remoto e passato prossimo, che vanno trasformandosi, simbolicamente, in un eterno infinito, dove passato, presente, futuro si confondono; 5) drammatizzazione del racconto in forme e ambientazioni che possono dirsi teatrali; 6) temi e figure ricorrenti in tutta l'area, quali animali parlanti - differenti e con diverse valenze simboliche a seconda del paese - i quaranta ladroni, il tappeto volante, l'ebreo avaro; 7) echi di ambienti sociali e usanze reali o da Mille e Una Notte-, 8) generi del racconto: meraviglioso, leggendario, satirico, aneddotico, picaresco, didascalico-sapienziale, erotico-faceto; 9) esseri soprannaturali dell'Arabia preislamica. Ma ogni popolo sviluppò anche esperienze parti558
colari, dovute ai contatti con altre culture: i paesi del Maghreb interagirono con l'intero continente africano e con il Mediterraneo Occidentale (e con tutte le vicende che l'hanno attraversato). Mi sembra quindi improprio e riduttivo considerare la tradizione orale siriana semplicemente "araba". Essa presenta tratti originali, che le derivano dalla privilegiata posizione geografica, dalla straordinaria capacità che hanno sempre avuto i semiti di adattarsi a culture e lingue nuove, dal retaggio della sua civiltà: dal paleolitico e neolitico, tappe fondamentali dello sviluppo umano, regno della Dea Madre, agli apporti della Mesopotamia, da dove si diffuse la struttura sociale delle grandi civiltà e che fu all'origine delle religioni storiche, da Tammuz e Ishtar alle tre grandi fedi monoteistiche. Pensiamo anche alle credenze anatoliche, persiane e dell'Estremo Oriente, che vi erano conosciute: Mithra, Varuna, Indra, Arinna, i Deva, gli Ahura, i Magi, Ormuzd, Buddha. Alle vie carovaniere dell'incenso, della seta, dell'ambra ecc., che dal Golfo Persico si incrociavano nella leggendaria Palmira, punto obbligato di tutti i traffici tra Oriente e Occidente; o che da Damasco, via Bosra, Petra e il Mar Rosso, conducevano a Sana nello Yemen, a Mecca in Arabia, e in Egitto; o che da Aleppo, porta del Mediterraneo orientale e dell'Asia Minore, portavano verso l'Europa, le montagne d'argento e di rame del Tauro, il Caucaso, l'Iran, l'India, la Cina. Gli antichi Siriani si spinsero fino alle coste baltiche e atlantiche. Sembra che siano stati i primi a oltrepassare le colonne d'Ercole. Ebbero continui contatti con l'Egitto, dove nel Medio Regno si sviluppò la narrativa, con racconti a fondo storico e meraviglioso; e con la civiltà e mitologia greche e delle isole egee, - mitologia peraltro con forti apporti medio559
dentali -; scrittori come Luciano e Apuleio, di cui si dovevano conoscere le opere, probabilmente vi avevano anche trovato ispirazione. I Siriani vennero in contatto con la letteratura orientale: conobbero le raccolte indiane di favole Panchatantra e Hitopadesa, la cui prima traduzione in arabo (Kalìlah e Dimnah) fu opera del monaco monofisita Bud, (570 d.C.); Barlaam e Josafat, attribuita a san Giovanni Damasceno, trasposizione cristiana della leggenda di Buddha, avrebbe influenzato anche la letteratura dotta europea. In epoca cristiana, i monasteri della Siria furono scuole di cultura, centri di produzione e diffusione di manoscritti, in greco e siriaco, di medicina, filosofia, cristologia, esegesi. Attività che continuò in epoca omayyade. Una terra, dunque, in cui l'incessante e formidabile intrecciarsi di vicende contribuì indubbiamente anche alla ricchezza della sua tradizione orale. Tra mito e leggenda Cominciai a raccogliere la narrazione orale siriana nel 1985, in un villaggio della regione nord-occidentale, arroccato sul Gebel 'Akrad, scrigno di fossili preziosi, antiche necropoli, luoghi sacri (Ziaràt). Avevo familiarizzato con i suoi abitanti nel corso di una precedente esplorazione archeologica. «Mi raccontate fiabe?» chiesi. «Non ne conosciamo» rispondevano invariabilmente, un po' sorpresi della mia strana richiesta. Mi rifiutai di crederci, e provai ancora, impiegando tutti i termini arabi di mia conoscenza per indicare il racconto meraviglioso, la leggenda, la favola. Invano. 560
«Non ne conosciamo. Sappiamo soltanto storie vere» insistevano. «Vuoi sentirne qualcuna?» «No. Non mi interessano» rispondevo. Mi consideravano un'amica, perché parlavo il loro dialetto, colorato ed espressivo come tutti i dialetti del mondo, non l'arabo classico, di solito impiegato dagli stranieri; e comprendevo il valore di una tazza di tè condiviso. Così, quando capii che erano dispiaciuti di non potermi accontentare, accettai, quasi con stupida e annoiata condiscendenza, di farmi raccontare una storia vera, per ricompensare la loro buona volontà. «Questi fatti accaddero poco tempo fa a un mio amico di Bdama...» iniziò il narratore, raccontandomi "Il pastore e il serpente". In seguito, avrei sentito tantissime altre "storie vere". Molte fanno parte di questa raccolta: "I tre soldati", "Il cacciatore doveva morire", "La ginn dell'Eufrate", "La reincarnazione dell'Iman", "L'ostetrica", "Il figlio dell'aghà", "Il tesoro", "I ginn di Tadmor", "Khodr e la ginn" ecc. Vincere la diffidenza, conquistare la fiducia, oserei dire l'affetto, dei custodi di questo particolare patrimonio della memoria collettiva, è l'impresa più delicata e importante per chi si accinge a raccogliere fiabe dalla loro viva voce. Essi non lo rivelano a chi ha negli occhi l'incredulità del miscredente. Impossibile conservare un "sano" distacco razionale, mantenere sempre vigile la lucidità del ricercatore. Bisogna, quindi, fare ampio uso della propria capacità immaginosa, in quanto, per chi ce li confida, spesso non si tratta di racconti fantastici, ma di realtà vissute. Esistono, in Siria, luoghi che conservano silenzi, respiri, presenze ineffabili. Gli sperduti villaggi del Gebel costiero, dove ven561
gono preservati usi neolitici. La badlya, deserto solcato da preistorici letti fluviali ormai disseccati, e popolato da tribù nomadi e seminomadi immutate da millenni. Il lunare Hauràn, nero mare di basalto procelloso. L'alta Mesopotamia, terra senza tempo e senza orizzonti, lievitata in innumerevoli teli (colline) che nascondono grandi civiltà del passato. Sono regioni che conservano l'incanto di una natura piena di fascino. Ambienti familiari a chi li abita, eppure pericolosi, oscuri, perché continuano a dimorarvi presenze soprannaturali, seducenti e minacciose. Suggestioni irrazionali che rimandano a epoche remote. In questi luoghi, l'immaginario collettivo è permeato di credenze che non si manifestano come rovine di fedi ormai spente trasfigurate nel racconto meraviglioso, ma in simboli viventi. È una tradizione orale che affonda le radici nell'animismo. Un mondo onirico dove esseri umani e semidivini partecipano al mistero della vita e della morte. Creature benefiche e temibili, legate alla rinascita ciclica della terra e dell'uomo, ai riti della fecondità. Figure fantastiche, temporaneamente materializzate in forme corporee di fate, amanti o madrine, che furono protagoniste anche nella novellistica medievale, che Dumezil chiamò melusiniana. Streghe tentatrici e crudeli o donne soprannaturali, antesignane Morgane che si incarnano per trascinare gli uomini nel loro mondo. Geni folletti invisibili e dispettosi, che manifestano la loro presenza con azioni sgradevoli e sconvolgenti. Demoni devastanti. Serpenti che incarnano il principio vitale racchiuso nell'oscurità segreta del mondo sotterraneo, hanno potere di metamorfosarsi, guizzano come intuizioni fulminee, puniscono chi trasgredisce le norme. Nelle lingue semitiche, "serpente" e "vita" hanno la stessa 562
radice. Crude vicende antropofaghe che nascondono i sacrifici rituali del passato. Sono racconti in cui non si esprime il bisogno di spiegare i fenomeni naturali, ma quello di dialogare con le forze segrete che li animano. Essi riflettono credenze ancestrali comuni a tutti i popoli. Sono i Pan, i Silvani, le Ninfe, le Lamie della mitologia greco-romana, abitatori di boschi, fiumi, sorgenti, mari. In questi ambienti sorgono, anche, leggende di eroi, come il Khodr, salvatore per eccellenza, emulo di Perseo, antagonista di terribili mostri che impongono agli uomini l'immolazione di fanciulle vergini in cambio dell'acqua vivificante. Storie di metempsicosi, leggende cristiane e islamiche, di mistici. E assistiamo al viaggio del mito nel tempo, per quel bisogno di soprannaturale presente in ogni epoca, anche se, con l'evolversi della spiritualità, esso è andato adattandosi a credenze più complesse, mimetizzandosi o rivestendosi di nuovi linguaggi. Storie di animali Dai racconti siriani emerge un "bestiario" ricchissimo. Vi si trovano animali che parlano e agiscono da uomini, per fustigarne i vizi: avidità, codardia, falsità, bieca scaltrezza, cinismo. Questo genere di narrazione allegorica - apologo, favola, aneddoto, il più poetico dei sistemi didattici, - sembra sia nato proprio in Medio Oriente. Ne scrissero, tra i popoli della regione, Sumeri e Babilonesi. Diventò importante genere letterario in India, Grecia, Roma, Persia e presso gli Arabi; ed è presente nella narrazione orale di tutto il mondo. Il loro insegnamento morale è dato con lieve fantasia. Sono gustosi quadretti che fanno sorridere. In altri rac563
conti, gli animali posseggono le virtù che spesso sono neglette dagli uomini, quali lealtà e riconoscenza; o ancora, vi si celano divinità animistiche che giudicano e castigano. Graziose storielle eziologiche furono invece inventate per spiegare le abitudini degli animali. Rispecchiando la realtà, sono gli amati e utili compagni degli uomini, in fiabe di ambiente contadino e pastorale; oppure evocano lontani mondi mitici e leggendari in racconti meravigliosi dove compaiono l'aquila, il gallo e il cavallo, animali psicopompi legati ai riti iniziatici e ai viaggi sciamanici. E ancora, lo sciacallo, corrispondente alla volpe delle fiabe europee, che simboleggia la natura indomita; il cammello, il leone, la colomba, la iena, la capra. Gli autori antichi scrissero straordinarie storie di metamorfosi che hanno per protagonisti gli animali; e anche nel Corano si narra di uomini trasformati in bestie, come castigo di gravi colpe. Puntualmente, nei racconti siriani ritroviamo questi temi suggestivi. In una favola sulla reincarnazione dell'uomo in asino, come castigo dei suoi vizi, c'è una reminiscenza delle storie di Luciano di Samosata, scrittore ellenistico nato in Siria nel II secolo d.C., e di Apuleio, scrittore latino suo contemporaneo, autore del Metamorphoseon, che visitò la Siria per studiarvi i misteri orfici.
Racconti della steppa Nella steppa siro-mesopotamica soggiornano tribù nomadi e semi-nomadi la cui esistenza per molti aspetti non differisce da quella dei loro antenati: dura, incerta, legata ai cicli di una natura avara, alla transumanza, alla fragilità di un'esistenza priva di radici materiali. Il loro calendario non ha i nostri 564
mesi o anni; il trascorrere del tempo è marcato dal ricordo di avvenimenti eccezionali che hanno lasciato un segno nella storia del clan: la grande carestia, la straordinaria nevicata, la morte del patriarca dalla barba canuta. Nelle leggende beduine, i protagonisti sono eroi solitari, intrepidi e cavallereschi, pastori o razziatori, obbedienti all'autorità di un capo (sheikh); cavalli e cammelli sono i loro compagni indispensabili. Spesso è evidente l'insegnamento morale inteso come virtus (morowwa): esaltazione di valori quali la casbiya (solidarietà di gruppo), la bontà, il diritto di rifugio sacro e inviolabile, la generosità verso l'ospite con obbligo di reciprocità, il coraggio; e nell'esecrazione di difetti quali l'invidia, la codardia e il tradimento, ma anche la legittimità di ricorrere alla violenza per difendere un gregge o per conquistarselo. Le gioie sono semplici e riflettono la semplicità dei desideri: la caccia, la fortuna di trovare un pozzo d'acqua o una fertile oasi, le feste nuziali. La loro religiosità resta permeata di remote credenze panteistiche e astrali; oppure preserva il ricordo degli eremiti, che praticavano l'ascesi nelle lande deserte. La narrazione si ingentilisce e si colora di poesia quando descrive la natura o racconta l'amore. Racconti
di profeti
L'attività profetica è stata un fenomeno rilevante presso i popoli mediorientali: Assiro-Babilonesi, Aramei, Arabi. Tramite l'estasi, l'incubazione o la possessione, il veggente entrava in contatto con la divinità e trasmetteva il suo volere. Essa fu anche alla base delle tre religioni monoteiste che vi sorsero. Inviati da Dio per ri565
velarne la parola, illuminare e indicare la retta via agli uomini, i profeti ebbero un ruolo importante perché sapevano parlare al cuore e all'immaginazione. I racconti popolari sui profeti, in chiave islamica e cristiana, sono numerosissimi e popolari in Siria. Per forma e contenuto fanno parte del genere aneddotico di tendenza prevalentemente didascalica. La donna In principio fu la Dea Madre, poi vennero gli dèi; ma le divinità femminili continuarono ad avere, in Siria, un ruolo importante. L'Astarte fenicia; l'Anat del pantheon ugaritico, dal carattere forte e ribelle, despotica eppure tenera con il fratello-marito Baal; l'Hallàt araba. E Atargatis, sintesi di deità, che, come ci fa sapere Luciano «... in una mano tiene lo scettro e nell'altra il fuso...» (Syria Dea, XXXII), venerata dai prostituti sacri evirati, a significare dedicazione e resa. Altrettanto fu per le regine. In Medio Oriente seppero ritagliarsi ampi spazi, a costo di pagare con la vita. Alcune mitiche, come Semiramide di Babilonia, la regina di Saba, Helissa di Tiro (Didone), e poi Zenobia, imperatrice di Palmira, superba guerriera, mecenate illuminata, eminente condottiera. Sono il simbolo di un potere al femminile esercitato in proprio. Poi c'erano le donne dei potenti che, come tutte le orientali in genere, seppero esercitare il dominio in maniera indiretta: donne influentissime quali Giulia Domna di Emésa (Homs) moglie intelligente ed energica di Settimio Severo e madre di Caracalla; Giulia Mammea e Giulia Maesa, ambiziose, intriganti e autorevoli, introdussero a Roma il potere femminile; Jezebel, moglie di Achab. I monarchi as566
soluti si inchinavano spesso davanti al volere delle loro donne. Ne sono un formidabile esempio anche le leggi sul diritto matrimoniale e sul divorzio di alcune città-stato siriane del III e II millennio a.C. E che cosa dire di personalità come la ricchissima Khadija, abile mercantessa dell'Arabia, che prima assunse Maometto come capocarovaniere e in seguito gli si propose come moglie? (Anche le figlie del profeta e le altre spose godettero di grande prestigio: nell'antica Arabia i bellicosi beduini si facevano accompagnare dalle donne in funzione di sacerdotesse fino al campo di battaglia.) O della potente Khairusan, madre di Harun ar-Rashid? 0 delle colte e raffinate cortigiane che conoscevano la musica, il canto, la poesia, e indossavano abiti maschili per compiacere i loro signori e contrastare così il potere degli eunuchi e dei giovani efebi? Nei primi secoli del califfato le donne ebbero spesso un ruolo attivo nella vita pubblica e nelle corti. Furono gli Assiri, i Persiani, e successivamente gli Ottomani, popoli più rudi e integralisti, a introdurre l'uso obbligatorio del velo in Medio Oriente, e a voler relegare le donne nelle case (cfr. J. Boulos, Les peuples et les civilisations du Proche Orìent, ed. Mouton & Co., La Haye 1964). Ma nel tempo, soprattutto come mogli e madri, esse hanno sempre continuato a esercitare la loro influenza sull'universo maschile. L'infanzia dell'uomo siriano si svolge prevalentemente nel gineceo, luogo periferico e basilare insieme di una società tradizionale dove la presenza paterna è assente, o quasi, e le donne preservano spazi di autonomia. Costrette sovente a un ruolo subalterno fuori dalle mura domestiche, esse governano nell'ambito familiare, dove la soggezione riesce a trasformarsi in strumento di sottili influenze. Dove anche l'amore, la seduzione, la maternità possono diventare eserci567
zio di potere. Dove il maschio è signore dichiarato, ma anche suddito inconsapevole. Una realtà fatta di fragilità e forze antitetiche. E, in una certa misura, durante la sua vita di adulto l'uomo rimarrà il fanciullo che fu. In fondo alla sua anima e nei suoi occhi si conservano debolezze inconfessate, tracce di dolcezze e sensibilità femminee che dovranno occultare sotto atteggiamenti e responsabilità "virili". L'uomo siriano è sempre sgomentato da un essere che non riuscirà mai a comprendere, controllare, dominare realmente, oggetto di amore-odio. Sono stati molto spesso uomini a narrarmi storie di amori difficili o patetici, dolorose e struggenti; di Cenerentole dalle voci ammalianti o che smarriscono oggetti suscitatori di passioni; di donne fiere, intelligenti e affascinanti, che si travestono con abiti maschili; di maghe intriganti; di incontri fatati o fatali; divertenti aneddoti che descrivono una sessualità gioiosa. (Questi ultimi vengono raccontati con piacere anche dalle donne, come pure le fiabe in cui l'eroina è sempre vincente!) I protagonisti uomini possono essere poeti-cortesi; antagonisti felici, alla fine, di farsi sedurre e vincere; pastori o contadini che popolano le loro solitudini di visioni desiderate o temute; eroi coraggiosi e teneri amanti. Raccontano anche, divertiti e con aria falsamente innocente, storie permeate di feroce misoginia dove le loro compagne appaiono scaltre, inaffidabili, vendicative, avide, traditrici. Ne risulta una visione solare, lieta e romantica; oppure il timore e la fascinazione del lato oscuro, inconoscibile della donna e dell'amore; o anche l'eterna lotta tra i sessi che può esprimersi come gioco ma anche come aspra, feroce contesa. La poligamia sembrerebbe inconsciamente problematica, se si considera la descrizione dei figli nati da una seconda moglie. Essi in genere sono inetti, 568
viziati e codardi, mentre i primogeniti sono coraggiosi, perspicaci, deferenti e ligi all'autorità. Un immaginario vario e ambiguo, espresso con molteplicità di simboli, in cui la realtà, la fantasia e i sogni sembrano confondersi. Una "commedia umana" nei suoi svariati aspetti. La lingua e lo stile Questo mondo favolistico è narrato, sovente, con maestria da creatori, adattando i caratteri dei personaggi al genere del racconto e inventando situazioni che potremmo definire teatrali e che fanno pensare, talvolta, a un ricercato intento psicologico e artistico. Il tutto espresso con grammatica e sintassi scarne, dalle frasi nominali e verbali semplificate al massimo, ma con aggettivi, sostantivi e verbi che, a seconda dell'impiego, acquistano significati dalle sfumature più diverse. È un fraseggio nato dall'intersecarsi di diversi linguaggi (satirico, religioso, scaramantico, umoristico, romantico, tragico) che, insieme all'uso di creature misteriose ed esseri umani come metafore dei sentimenti, diventano un altro linguaggio: quello delle allegorie, delle immagini. L'unico universale. Ma, per poter divenire partecipi dell'incanto che le parole, quasi assurte a rito magico, evocano, anche la gestualità, le pause, lo sforzo di ricordare, l'intonazione della voce, lo sguardo del narratore sono importanti. È questa l'appassionante sfida per chi trascrive fiabe cercando di preservare i caratteri originali di ciò che gli viene narrato. Maria Antonietta Carta
Fiabe persiane
7
Principesse misteriose
9 53
La storia del principe Calaf e della principessa Turandot II sogno del servo
59
Spiriti maligni
61 69 73 77
II principe serpente I quaranta figli del re La città delle pietre La festa in giardino
85
Ricchi e poveri
87 II profeta Musa e il venditore d'acqua 92 Scià Abbas e la madre povera 96 L'anello fatato 102 L'uomo calvo 107 L'indovino 110 L'apprendista stregone
119 Storie del regno degli sciocchi 121 127
La terra dei matti I tre maestri di scuola
131
Trucchi e imbrogli
133 139 146
La volpe in pellegrinaggio alla Mecca Le tre donne e l'anello II grande furfante di Shiraz
153
Storie d'amore
155
La figlia del sarto e il figlio del ricco mercante II principe Esma'il e Arab-Zengi
159
171 Postfazione 111
Note
Fiabe siriane
191 195 198 201 203 205 208 211 214 216 219 222 225 228 230 232 234 236 238 240 243 246 248 250 254 259 261 263
Abu al Hsein La forza e la scaltrezza il lupo, l'avvoltoio e il ghepardo L'asino stupido e bugiardo La capra e lo sciacallo La famiglia del taglialegna e la ghula Le tre filatrici e lo schiavo nero La vendetta II liocorno L'uccello verde L'uccello magico La figlia del pescatore I tre soldati il servo pastore e il giudice dei ginn II pastore e il serpente L'avido il tesoro La moglie scomparsa I ginn di Tadmor il contadino e la ginn La ginn dell'Eufrate II figlio dell'aghà L'ostetrica La donna che terrorizzò il mostro il cacciatore doveva morire II profeta Salomone, figlio di Davide, e il vento II re Salomone e il picchio il re Salomone e il linguaggio degli animali
266 267 271 275 279 287 290 292 295 297 299 302 305 308 313 315 317 318 320 322 325 330 332 336 339 341 343 345 347 351 357 361 371 383 391 396
II profeta Noè e i gatti Mosè e il povero L'onestà di Ali ben Shaddad II profeta Habib il falegname II figlio del re, l'ebreo e i quaranta ladroni II pastore di cammelli e la figlia del re II re insonne II qadi e lo spazzaturaio Matté L'astuto giullare Le tre sorelle Le nozze del cavaliere Le galline della beduina La fortuna e l'ingegno Adamo Mariam e il Messia L'albero II miracolo del pozzo Barbàrah Leila al qadr La leggenda del sultano Ibrahim La leggenda di Nemrud, re di Yabrud II Khodr e il principe II re, il genero incantato e la gazzella II saggio Assassino II mausoleo dei Curdi Bab Antakya: le palle di Maaruf Bab Qinnesrin: Sheikh Khalil at-Tayar Granello Di Melagrana La figlia del sole II taglialegna e la principessa che amava giocare a nascondino La fillirea e il gelsomino Gomena, principe dei ginn II prode Hassan Hassan di Basra L'uomo glabro e i tre teli
404 406 408 410 412 418 422 424 430 433 437 440 448 455 463 471 478 484 487 494 499 503 507 510 513 517 524 527 529 532 534 540 544 546 548
La vedova e il cane L'anima che trasmigrò in un asino La donna che diventò cinghiale La reincarnazione dell'Iman La vendetta del beduino La cavalla di razza Khodr e la ginn Bisher e Hissen L'ospitalità II figlio di Zenab La beduina e lo studente La fionda La bugia delle bugie La figlia del cammello selvaggio Fatma la leccapiatti La figlia del venditore di fave II mercante di Damasco L'indomita La figlia del sarto Harun ar-Rashid e la sfida di Abu Nuwas La gelosia La falsa puritana L'enigma All'ora del giudizio L'angelo della morte La smania di avere è radice di grandi mali II leone e la iena La caverna II contratto di nozze II lavoro di Dio Fai il bene e gettalo in mare Vai a dormire arrabbiato ma non pentito La madre del vento Siano benedetti l'estate e l'inverno Le cipolle del re
551 Postfazione di Maria Antonietta Carta